Le funzioni del silenzio nella Grecia antica. Antropologia, poesia, storiografia, teatro. Convegno del Centro internazionale di studi... (Urbino, 9-10 ottobre 2015) 9788862278492, 9788862278294, 9788862278300

Che il silenzio sia una forma di comunicazione in alcuni casi più efficace della parola non è un'idea nuova. I sign

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Le funzioni del silenzio nella Grecia antica. Antropologia, poesia, storiografia, teatro. Convegno del Centro internazionale di studi... (Urbino, 9-10 ottobre 2015)
 9788862278492, 9788862278294, 9788862278300

Table of contents :
SOMMARIO
Paola Angeli Bernardini, Introduzione
Antropologia e storiografia
Luigi Spina, Tacere, parlare e applaudire dinanzi alla morte
Maria Grazia Fileni, Aglossos gaia: il silenzio dei barbari
Nicola Serafini, Il silenzio come atto rituale: fra culti ‘ctonî’ e cerimonie magiche
Alessandra Amatori, I silenzi nelle genealogie in età arcaica e classica: strategie e convenzioni
Marco Santucci, Funzioni del silenzio nella dialettica politica di v secolo ad Atene: la katalysis tou demou del 400 a.C.
Dall’epica al romanzo
Carmine Catenacci, Odisseo e il falso nome Aithon (Hom. Od. 19, 183)
Silvia Montiglio, Emozioni e strategie: aspetti del silenzio in Cherea e Calliroe
Lirica corale
Liana Lomiento, Il silenzio nell’encomio. Riflessioni sulle figure del non detto nell’epinicio pindarico
Oretta Olivieri, Dire o non dire? Strategie mitiche nella lirica pindarica
Teatro
Anna Beltrametti, Quali silenzi per quali segreti in tragedia: scandali, tabù, sapienza (Eschilo, Agamennone; Euripide, Ippolito; Il maestro del Prometeo incatenato)
Giampaolo Galvani, Esortazioni al silenzio nella tragedia di v secolo
Luigi Bravi, Scene di eujfhmiva nella commedia di Aristofane
Appendice
Roberto M. Danese, I loquaci silenzi filmici di Medea e Lavinia. Medea di Pier Paolo Pasolini e Titus di Julie Taymor
Indice dei nomi
Indice dei passi discussi

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BIBLIOTECA DI «QUADERNI URBINATI DI CULTURA CLASSICA» Collana fondata da Bruno Gentili, diretta da Paola Bernardini e Carmine Catenacci @2.

LE FUNZIONI DEL SILENZIO NELLA GRECIA ANTICA ANTROPOLOGIA, POESIA, STORIOGRAFIA, TEATRO c o nve g no de l ce ntr o i nt ern az i o n ale di stu d i s ulla cultur a della grec i a ant i c a ur b ino, 9 - @0 ott o b re 20 @4 a cu ra d i PAOLA ANGELI BE R NAR D I NI

PI SA · ROMA FABRIZIO SERRA E D I T O RE MMXV

Questo volume è stato stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze della comunicazione e Discipline umanistiche dell’Università di Urbino Carlo Bo. A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included oπprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 20@5 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net U√ci di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56@27 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] U√ci di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00@85 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy issn @828-8677 isbn 978-88-6227-849-2 rilegato isbn 978-88-6227-829-4 brossura e-isbn 978-88-6227-830-0

SOM M ARIO Paola Angeli Bernardini, Introduzione

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antropologia e storiografia Luigi Spina, Tacere, parlare e applaudire dinanzi alla morte Maria Grazia Fileni, Aglossos gaia: il silenzio dei barbari Nicola Serafini, Il silenzio come atto rituale: fra culti ‘ctonî’ e cerimonie ma giche Alessandra Amatori, I silenzi nelle genealogie in età arcaica e classica: stra tegie e convenzioni Marco Santucci, Funzioni del silenzio nella dialettica politica di v secolo ad Atene: la katalysis tou demou del 4@@ a.C.

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dall’epica al romanzo Carmine Catenacci, Odisseo e il falso nome Aithon (Hom. Od. @9, @83) Silvia Montiglio, Emozioni e strategie: aspetti del silenzio in Cherea e Cal liroe

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lirica corale Liana Lomiento, Il silenzio nell’encomio. Riflessioni sulle figure del non detto nell’epinicio pindarico Oretta Olivieri, Dire o non dire? Strategie mitiche nella lirica pindarica

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teatro Anna Beltrametti, Quali silenzi per quali segreti in tragedia: scandali, tabù, sapienza (Eschilo, Agamennone; Euripide, Ippolito; Il maestro del Prome teo incatenato) Giampaolo Galvani, Esortazioni al silenzio nella tragedia di v secolo Luigi Bravi, Scene di eujfhmiva nella commedia di Aristofane

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appendice Roberto M. Danese, I loquaci silenzi filmici di Medea e Lavinia. Medea di Pier Paolo Pasolini e Titus di Julie Taymor

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Indice dei nomi 2@7 Indice dei passi discussi 223

Particolare da un disegno di Bartolomeo Cesi, pittore bolognese del @500 (@556-@629), dal titolo: Studio per l’allegoria di fede e silenzio (The Leonora Hall Gurley Memorial Collection, Chicago). Il giovane uomo nudo che rappresenta il silenzio porta l’indice destro davanti alla bocca in una mossa classica che trova riscontri nella pittura del 500. Con il piede destro calpesta una tartaruga. Quale il senso dell’atto? Simbolismo cosmico o vittoria del bene sul male? La tartaruga, animale ambiguo, legato all’unione sessuale e alla violenza erotica, nella tradizione classica si ricollega ad Afrodite Urania e – una volta calpestata – può simboleggiare la convenienza per le donne sposate a restare in casa e a mantenere il silenzio, secondo quanto si ricava da alcune fonti antiche.

I N T R OD UZIONE Pa o l a A ngel i Bernardini

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he il silenzio sia una forma di comunicazione in alcuni casi più e√cace della parola non è un’idea nuova. I significati del silenzio, le sue applicazioni, la sua stessa forza persuasiva erano ben noti agli antichi che non di rado si sono interrogati sulla sua essenza e sulle sue funzioni. Il silenzio come difesa, il silenzio come oπesa, il silenzio come paura, il silenzio come tracotanza, il silenzio come prescrizione. Si potrebbe continuare a lungo perché il silenzio, al pari della parola, è espressione diretta di uno stato d’animo in stretto rapporto con le reazioni del corpo e obbedisce all’esigenza, più spesso intima ma talvolta anche corale, di manifestare emozioni, trasmettendole mediante una afonìa carica di significati. Questa natura ossimorica del silenzio ha dato origine, nella copiosa letteratura sull’argomento, a una serie innumerevole di espressioni denotanti la dualità contraddittoria del concetto stesso: “fhsi;n siwpw`n parla tacendo”, muta eloquentia, “il silenzio parlante”, “eloquenza del silenzio”, “la voix du silence”, “spoken and acted silence”, “un langage sans voix”, “die Sprache des Schweigens” e via dicendo. Tutti questi ossimori traducono lo sforzo di definire il silenzio, che è sì assenza di parola, ma che al tempo stesso può avere tutte le valenze e le funzioni della parola, così come in musica le pause possono avere valore al pari dei suoni. Scrive Mario Brunello in un volumetto sul ruolo del silenzio nella sua esperienza musicale: “Scoprii il potere del silenzio e il silenzio mi fece scoprire di essere musicista ... Scoprii che il silenzio è il vero palcoscenico della musica e che lì avevo trovato la mia voce e un modo di comunicare”. @ Il silenzio o è una scelta o è un’imposizione. Nel primo caso le motivazioni possono essere le più varie, ma di natura prevalentemente soggettiva; nel secondo caso l’aπermarsi di una volontà superiore (degli dèi, del legislatore, dei sacerdoti, di un vincitore o d’altri) costringe ad un mutismo subìto, ma che non di rado raccoglie anche il consenso del silente. Consideriamo per esempio il silenzio rituale sul quale molto si è discusso e sul quale Nicola Serafini si è ampiamente soπermato nella sua relazione. Non si può non concordare con Silvia Montiglio quando, analizzando i vari gradi del silenzio nella preghiera nell’antica Grecia, aπerma che nelle preghiere silenziose attestate dalle più antiche fonti 2 non vi è mai l’intendimento di soddisfare un bisogno intimo religioso. 3 Il silenzio legato alla ritualità può essere imposto nell’ambito del sacrificio, prima delle libagioni; può obbedire alle esigenze della segretezza; può essere proclamato da un araldo, diventando esso stesso atto rituale. Nei riti di purificazione il silenzio – come tratto di marginalità – gioca un ruolo importante perché designa l’allontanamento e l’estraniamento del colpevole dai rumori e dalle voci della città. Anche qui si  

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  M. Brunello, Silenzio, Bologna 20@4, p. 53.   Cfr. Il. 23, 769; Od. 5, 444; Il. 7, @95. 3   S. Montiglio, Silence in the Land of Logos, Princeton 2000, p. @3. 2

paola angeli bernardini

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tratta di un silenzio imposto, quasi una punizione per la colpa commessa. Dopo il rito espiatorio il peccatore può far risuonare la voce e rompere la consegna del silenzio. Sta di fatto che durante le cerimonie di iniziazione nella tradizione orfico-pitagorica o nei culti misterici la lingua va tenuta a freno per evitare parole di cattivo augurio e pronunciare, invece, parole di buon auspicio e discorsi appropriati (eujfhmiva – favete linguis – silenzio!). @ Nella relazione di Luigi Bravi si vede come la commedia di Aristofane si appropria delle formule rituali eujfhmiva (e[)stw o eujfhmei`te o eujfhmei`n crhv ecc., volte a ottenere il silenzio dei presenti, adattandole ai vari contesti drammatici. Dall’analisi delle singole commedie risulta, infatti, che Aristofane ha fatto uso del termine eujfhmiva e dei suoi derivati non per uno scopo meramente comico, ma per focalizzare l’attenzione del pubblico, in punti strategici dello sviluppo drammatico, su momenti di passaggio, cambiamenti e iniziative connesse con la sfera del sacro. Il silenzio nel suo aspetto rituale e devozionale appare legato anche alla sfera della morte. Durante la cerimonia della sepoltura esso doveva essere mantenuto per ragioni che gli studiosi hanno interpretato in maniera diversa. Sostanzialmente il silenzio si addice al distacco del morto dalla comunità e si configura, come scrive Luigi Spina nel suo contributo, “come sospensione e fine di ogni comunicazione fra mondi, come prolungamento, fra i vivi, del naturale silenzio dei morti”. Al pari della vita religiosa della città greca, anche in quella sociale, politica e militare il meccanismo del silenzio imposto assumeva un’importanza strategica che favoriva interessi pubblici e privati. A Sparta, come è noto, era lo stato stesso ad imporre ai giovani durante l’agoge il rigido rispetto del silenzio 2 e nei regimi monarchici e autoritari non ci si peritava dall’usare il silenzio come arma politica strategica e dall’impedire la libertà di parola. Erodoto racconta all’inizio del libro 7 (8-@3) che Serse, dopo aver convocato il consiglio dei notabili persiani e annunciato la propria intenzione di fare una spedizione contro la Grecia, chiede il parere dei presenti. Mardonio si dichiara favorevole. Gli altri Persiani “se ne stavano in silenzio e non osavano manifestare un’opinione contraria a quella proposta”. Più tardi, quando Serse comunica di aver rinunciato all’impresa, gioiscono ma non proferiscono parola. Il silenzio collettivo dei notabili è più eloquente di qualsiasi intervento. 3 Anche nella democratica Atene le mire politiche e le trame sovversive non disdegnavano le vie della segretezza e della mancata trasparenza, come emerge dalla relazione di Marco Santucci. Muovendo dagli eventi che ebbero luogo ad Atene nel 4@@ a.C. e in particolare alla vigilia dell’instaurazione del regime dei Quattrocento, l’A. evidenzia la manipolazione dell’opinione pubblica da parte dei congiurati e la riduzione al silenzio – in nome della soteria – dell’opposizione democratica. Il popolo non osa antilegein, un po’ per timore, un po’ per desiderio di hesychia.  

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2   Ar. Av. 959; Th. 295.   Plut. Lyc. @2, 8; Inst. Lac. 236f.   Una felice e convincente analisi dell’episodio si troverà in M. Dorati, ‘La città pensante. La rappresentazione della mente collettiva in Erodoto’, in P. Angeli Bernardini (ed.), La città greca. Gli spazi condivisi, Pisa-Roma 20@4, pp. @3@-@33. 3

introduzione

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Dell’importanza della segretezza nelle strategie militari (Xen. An. 6, @, @8: è opportuno mantenere il segreto per sfuggire all’attenzione del nemico; Plut. Per. 23, @: Pericle segretamente aveva corrotto Cleandrida, consigliere del re spartano, per far allontanare l’esercito degli Spartani che aveva invaso l’Attica; Plut. Inst. Lac. @: dalla porta non deve uscire una sola parola su quanto si decide nei banchetti comuni ecc.) mi sto occupando in un libro in fieri sulle tattiche belliche nella Grecia antica, e non mi sembra il caso di insistere sui vantaggi collettivi di questo comportamento di prudenza strategica, più volte documentato nelle fonti antiche sulla condotta da tenere in guerra. Che nelle tattiche militari ci si a√dasse a servizi segreti, messaggi criptati con o senza scrittura, spionaggio, notizie su piani di guerra che arrivavano per le vie più diverse e imprevedibili, utilizzo di katavskopoi (informatori), prodovtai (traditori), wjtakoustaiv (ascoltatori), non è una novità. Tutti questi metodi si basavano sulla necessità di un silenzio programmato e custodito, che era il presupposto della segretezza. Un silenzio più o meno mantenuto, più o meno tradito. Dolone, mandato da Ettore a spiare nel campo acheo, una volta sorpreso, prima balbetta (bambaivnwn) e digrigna i denti per lo spavento, poi piangendo riacquista la parola – e come! – e fornisce un profluvio di informazioni (Hom. Il. @0, 3@4-459). Il tradimento del silenzio non gli risparmia certo la vita. Aristotele, analizzando il regime delle tirannidi nella Politica (@3@3b @0-@5), precisa che i tiranni devono cercare di non lasciarsi sfuggire nulla di ciò che i sudditi fanno o dicono e all’uopo si servono di spie e, per paura di queste, i sudditi sono meno disposti a dire ciò che pensano. Ma torniamo a considerare quei casi – più numerosi e problematici – nei quali è l’individuo a optare per uno stato silenzioso, frutto di consapevolezza o semplicemente di istinto. Sia nella prima che nella seconda circostanza il soggetto è portato a tacere spinto da determinate pressioni. Sono queste ultime che lo inducono a preferire le “vie del silenzio”. Attraverso le testimonianze di diverso genere letterario, anche iscrizionali ed iconografiche, in cui il tema è aπrontato o accennato, siamo in grado di ricostruire una casistica relativa ai vari tipi di pressione che inducono al silenzio. È in questa chiave attenta alle emozioni e agli stati d’animo, ma anche alle esigenze sociali, politiche ed economiche che condizionano colui che tace, che la nostra ricerca aπronterà i temi del silenzio, da quello ingannatore e astuto (di cui Odisseo è il massimo fautore unitamente all’abilità nella parola) a quello avveduto e calcolato del poeta, che sceglie di tacere ciò che non si addice all’encomio, al silenzio retorico, che funge da mezzo di persuasione, o infine al silenzio scenico. Sono tutte facce di un medesimo bisogno di trasmettere un messaggio non con le parole, ma con l’assenza di parole o, al limite, con parole contraπatte. Dicevamo di Odisseo. Carmine Catenacci, partendo dal falso nome (Ai[qwn) che l’eroe si attribuisce di fronte a Penelope in Hom. Od. @9, @83 e dalla sua possibile spiegazione come “aquila” in quanto, per varie corrispondenze Ai[qwn evoca aijetov~, sottolinea l’ambiguità della parola che allude ma non dice, che nasconde e al tempo stesso è veritiera. Proprio Odisseo è del resto maestro nell’usare il linguaggio ed è maestro nel tacere e nel falsificare il proprio nome. Dell’e√cacia, e in qualche caso dell’ineluttabilità della scelta del silenzio, gli antichi, come abbiamo detto, si resero conto e giunsero a teorizzarne le qualità

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e l’opportunità. Le aπermazioni attribuite al poeta Simonide – e[sti kai; siga`~ ajkivndunon gevra~ “il dono del silenzio è libero dal pericolo” (PMG fr. 77) o S. e[lege mhdevpote aujtw`i metamelh`sai sighvsanti, fqegxamevnwi de; pollavki~ “S. dice-

va che non si era mai pentito di aver taciuto, mentre spesso di aver parlato” – @ sintetizzano il principio che in alcune circostanze il silenzio è più opportuno del logos. Che si tratti di situazioni non private, ma pubbliche, lo si può dedurre anche dal confronto con altri detti, messi in bocca a poeti dell’epoca arcaica, che si confanno ad un contesto sociopolitico. Ad alcuni autori antichi viene attribuita l’utilizzazione della formula mistica che dice: “Sigilla le tue parole con il silenzio e il silenzio con la giusta misura (kairov~)” 2 e Plutarco conferma che Solone aveva imposto che nella vita pubblica ateniese non ci si abbandonasse alla maldicenza, ma si rispettassero i limiti imposti dalla vita di relazione. 3 Un principio, quello dell’ aposiopesi, che la retorica farà proprio, configurandolo – al pari della praeteritio, della circumlocutio e della reticentia – come una figura del silenzio. 4 Ma poiché abbiamo tralasciato volutamente di occuparci in questo incontro urbinate degli aspetti più propriamente tecnici del silenzio retorico, torniamo alle motivazioni di ordine politico e culturale che nelle varie epoche storiche potevano spingere l’aedo o il poeta lirico o il logografo alla reticenza, all’omissione voluta, a una censura strategica e consapevole. Una forma di silenzio autoriale basato sul criterio dell’opportunità, quel kairos che per i Greci era dominante nei vari settori della vita. Se rileggiamo il fr. @80 Maehl. di Pindaro: “Non far risonare davanti a tutti l’antica tradizione./ Vi sono casi in cui più degne di fiducia sono le vie del silenzio./ La parola che ha la meglio (il verbo è kratisteuvw ) è un pungolo alla contesa”, ci accorgiamo di aver sì a che fare con un topos pindarico, come giustamente fa osservare Donato Loscalzo, 5 ma con l’aggiunta della motivazione che rende opportuno e preferibile il silenzio di colui che racconta. Il contrasto è tra il silenzio, fidato e consigliato quando si riferisce un’antica tradizione, e la parola, vale a dire il discorso, che, se è sovrastante e preponderante, provoca la conflittualità. Credo che il valore di lovgo~ ajrcai`o~ al v. @ sia quello di “antica tradizione”, mentre non sono d’accordo con Loscalzo che kratisteuvwn lovgo~ al v. 3 sia da intendere come “discorso eccellente”, con riferimento alle “realtà nobiliari e aristocratiche”, oggetto di narrazione. Va inteso, piuttosto, in senso più polemico come “ la parola che ha la meglio ”, secondo quanto suggerisce il nesso che subito precede, kevntron mavca~. Il poeta, insomma, deve rispettare la misura, mevtron. Ancor più esplicito Pindaro è in Nem. 5, @7-@8: “l’esatta verità non guadagna sempre a mostrare il suo viso e spesso il silenzio è la miglior scelta che l’uomo possa immaginare”. Vedremo con Liana Lomiento e con Oretta Olivieri come questo principio valga per Pindaro sia nella formulazione dell’encomio, sia nell’impianto del racconto mitico. La volontà di tacere ciò che può risultare inop 

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  Apoll. Tyan. Epist. 8@, @ (i p. 367, 7 ss. Kaiser).   Cfr. G. Thomson, The Oresteia of Aischylus, Amsterdam-Prague @966 (= @938), p. @54, che cita 3 varie allusioni alla formula mistica.  Plut. Sol. 2@, @. 4   Si rinvia a L. Ricottilli, La scelta del silenzio: Menandro e l’aposiopesi, Bologna @984. 5   Cfr. D. Loscalzo, ‘Il fr. @80 S.-M. di Pindaro’, Quad. Urb. n.s. 29 (58), @988, pp. 7@-75. 2

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portuno, in rapporto all’occasione del canto e all’uditorio, si esprime in termini che pertengono al campo semantico del silenzio: diaswpavsomai in Ol. @3, 9@; mh; nu`n lalavgei ta; toiau`ta in Ol. 9, 40; aijdevomai mevga eijpei`n in Nem. 5, @4; ajnavpausi~, che nel contesto equivale a “una pausa di silenzio”, in Nem. 7, 52. L’idea del silenzio è pertanto bivalente: può essere positiva, come nei casi sopra riportati che riguardano la composizione dell’ ode, e può essere negativa quando, come vedremo, designa l’assenza di fama derivante dalla mancanza di lode poetica. Il silenzio, come fa opportunamente osservare Silvia Montiglio, @ non è mai neutrale in un paese della parola come la Grecia. Aggiungerei che poiché il silenzio si lega all’oblio e alla mancanza di gloria, per i Greci il silenzio post mortem era tutto da temere e da ostacolare in ogni modo possibile. Luigi Spina, aπrontando il tema del rapporto degli antichi con la morte, sottolinea con felice intuizione il ruolo delle parole nello sforzo di mettere in qualche forma di continuità la vita che si lascia con la morte che sopravviene. È appena il caso di ricordare che fin dai tempi di Omero la voce del poeta è uno dei mezzi più e√caci per guadagnare la mneme. Lo sanno gli eroi che combattono la guerra di Troia e aspirano al kleos e lo sa Odisseo che dichiara di onorare il cantore Demodoco sopra tutti i mortali (Hom. Od. 8, 487). La convinzione che la poesia rende immortali le gesta degli eroi, dei combattenti, degli atleti vincitori diventa un motivo ricorrente nella prassi elogiativa, un principio che con enfasi diversa è ribadito nei versi di vari autori. Tralasciando la complessa serie di motivi che si legano a questa tematica, per altro già ampiamente dibattuta, qui interessa la contrapposizione tra silenzio/tenebra e canto/luce nell’ambito della celebrazione poetica. Non è una novità che nella concezione pindarica la luce, che risplende sugli uomini per intervento divino 2 e che il poeta fa riverberare sulla bella impresa, 3 contrasta con lo skovto~ poluv~, la profonda tenebra che avvolge una nobile azione, non oggetto di canto. 4 “Colui che non ha nulla (con riferimento all’ajretav) nasconde la testa sotto il nero silenzio” dice il poeta in Parth. @, 9-@0. La dimenticanza che subentra dopo la morte, lavqa ejn lugrw`/ neivkei, coincide, in fondo, con il silenzio. 5 Il silenzio associato all’oscurità, come scrive in un recente lavoro sui silenzi d’autore Bice Mortara Garavelli, “è una costante tematica che attraversa secoli di letteratura italiana”. 6 In quella che abbiamo definito un’idea negativa del silenzio rientra anche un altro genere di valutazioni che si legano strettamente ad una sensazione di impotenza e di di√coltà provata da colui al quale è negata la parola. È sempre la poesia più antica a darne testimonianza e, del resto, non sorprende che coloro che più facevano uso delle parole, come i poeti, fossero attenti all’assenza delle medesime e agli svantaggi o ai vantaggi che derivavano nella vita sociale e politica da questa assenza. Questa volta è Teognide che, definendo gli eπetti della povertà sull’ajgaqov~, insiste sulle due attività essenziali della vita sociale che in tal modo gli vengono precluse: la parola e l’azione: “L’uomo domato dalla povertà non può dire né fare nulla, ma la lingua gli è legata” leggiamo ai vv. @77-@78  

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2 3  Montiglio, op. cit. p. 289.  Cfr. Pyth. 8, 96-97.  Cfr. Ol. 9, 2@-22. 5  Cfr. Nem. 7, @@-@4 e fr. 240 Maehl.  Cfr. Nem. 8, 24-25. 6   Cfr. B. Mortara Garavelli, Silenzi d’autore, Roma-Bari 20@5, p. @9. 4

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delle Elegie. Il concetto è stato a lungo operante nel pensiero greco e i versi di Teognide sono stati riutilizzati ogniqualvolta si voleva sostenere che la povertà sopprime anche la libertà di parola. @ Il nesso tra povertà e silenzio si ritrova anche nei vv. 669 ss. nei quali è esplicitata l’idea che il bisogno costringe all’ ajfasiva. Il silenzio, dunque, come forma di esclusione sociale. La distinzione terminologica tra ajfasiva e ajfwniva non è facile da stabilire, ma ambedue i termini, come ha mostrato Guy Laschenaud, 2 fanno riferimento anche alla fisiologia della voce secondo quanto indicano gli antichi testi di medicina. Dell’ajglwssiva dei barbari parla, invece, Maria Grazia Fileni, che muove da un’attenta analisi di un passo delle Trachinie (vv. @058-@063) e da un brano di Strabone (@4, 2, 28, 66@-663C) per evidenziare la rappresentazione negativa che del linguaggio dei barbari davano i Greci: aglossia assoluta e radicale nel primo caso; dovuta a una anomalia fisica degli organi fonatori dei barbari nel secondo caso. Le conclusioni sono importanti per la storia dei rapporti tra Greci e barbari perché, come sottolinea l’A., l’incomprensibilità delle voci e delle parole tra gli uni e gli altri negli esiti a livello di comunicazione equivale, di fatto, al silenzio. Il discorso in questo caso si complica perché investe l’alterità del non-greco che non comprende e non sa parlare la lingua greca, ma che può supplire con vari tipi di gestualità alla di√coltà di comunicazione. Clitemestra si rivolge alla silente Cassandra, prigioniera di guerra di Agamennnone, invitandola a usare, al posto delle parole, cenni di mano (Aesch. Ag. @06@). Vi sono poi barbari che hanno scelto e subìto un processo di ellenizzazione così avanzato – compreso l’uso della lingua – da perdere l’identità di barbari, come gli Sciti Tossari e Anacarsi. Il linguaggio è, infatti, una delle principali componenenti dell’identità culturale dell’Hellenikon ed a chi non parla greco viene escluso il contatto con gli interlocutori greci. Vediamo, a questo punto, un brevissimo frammento di Pindaro (fr. 229 Maehl.) che apre uno squarcio su un’altra categoria di persone costrette al silenzio: i vinti. “I vinti sono incatenati al silenzio e non osano andare incontro agli amici”. Il poeta tebano parla degli atleti sconfitti negli agoni, che sono condannati al silenzio (ajgruxiva) e non osano incontrare gli amici. 3 Ma ben più grave è la vergogna della sconfitta per i prigionieri e i perdenti in caso di guerra. Come in tutte le epoche il silenzio è la cifra che li contraddistingue. Creso, fatto prigioniero da Ciro e costretto a salire sul rogo carico di catene, tace in un lungo silenzio e alle domande degli interpreti persiani, che vogliono sapere perché ha pronunciato per tre volte il nome di Solone, oppone un ostinato mutismo (Hdt. @, 86). Basti poi pensare alla già ricordata scena del silenzio di Cassandra, che sul carro resta immobile e muta di fronte agli inviti di Clitemestra (Aesch. Ag. @034-@07@) 4 o al silenzio di Iole che rimane silenziosa dinnanzi a Deianira e che, a detta di Lica, non ha proferito parola da quando è stata fatta prigioniera (Soph. Trach. 322-328). Mi si obbietterà che con gli ultimi due esempi siamo entrati nel mondo del teatro e che qui operano le leggi della drammaturgia e le esigenze dello spet 

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@

  Cfr. per tutti Artem. On. @, 32; 4, @8.   Cfr. G. Lachenaud, Les routes de la voix. L’antiquité grecque et le mystère de la voix, Paris 20@3, p. 3 67 ss.   Schol. Pind. Ol. 8, 92, p. 260 Dr. 4   Cfr. l’analisi di Montiglio, op. cit. pp. 2@3-2@6. 2

introduzione

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tacolo. I valori e le funzioni del silenzio infatti si intrìcano. Ai vari significati che esso assume in rapporto ai personaggi, al coro, alle situazioni, alla trama del racconto, si aggiungono le necessità sceniche, il bisogno di pause, i segnali di un cambiamento tematico, l’accelerazione verso l’ evento più tragico, l’opportunità di richiamare l’attenzione dello spettatore. Varie sono, dunque, le esigenze alle quali obbediscono – in tragedia – le esortazioni al silenzio rivolte da un personaggio al coro. Giampaolo Galvani ha cercato di stabilire alcune tipologie alle quali ricondurre questi inviti al silenzio, come l’intento di stimolare l’interesse su quanto sta per accadere, la preghiera di non far rumore per non svegliare un personaggio addormentato, la richiesta di tacere un segreto. Segreti e silenzi sono uno dei mezzi espressivi del personaggio tragico, che gioca su ciò che si sa e non si sa, su ciò che si deve conoscere e su ciò che va ignorato. Un silenzio che, come dimostra Anna Beltrametti nel suo contributo, va al di là della psicologia del personaggio che lo osserva perché si carica di significati che non sono interpretabili nemmeno con le esigenze drammaturgiche o come accorgimenti retorici, ma richiedono il coinvolgimento profondo del pubblico – che conosce le vicende mitiche – nell’azione portata in scena. Le ragioni del silenzio di personaggi quali Prometeo, Cassandra, Fedra, Ippolito aπondano le radici nel mito, ma anche nelle leggi della società, della città, del palazzo: leggi della convivenza e della pratica religiosa. In particolare la pratica misterica per quanto riguarda Prometeo. Nella tragedia che vede protagonista questo personaggio – una tragedia strutturata sull’opposizione parola/silenzio – l’A. ravvisa l’eco di pratiche cultuali che esigevano la disciplina del segreto e della “capacità di aggirare con le parole, senza mai svelarlo, il punto che deve restare e apparire cieco per coloro che non sanno, per i profani”. A questa complessa fisionomia del silenzio teatrale si accompagna nella commedia anche l’esigenza di far ridere il pubblico. In tal senso i personaggi muti di Eschilo, parodiati da Aristofane nelle Rane (v. 9@@ ss.) sono un mirabile stratagemma comico. Gli inviti al silenzio – anzi l’imposizione del silenzio – messi in bocca ai vari protagonisti fungono, come abbiamo visto, da imperioso richiamo anche per il pubblico che assiste allo spettacolo e che è portato a non disperdere l’attenzione, anzi ad intensificarla. Vorrei concludere richiamandomi a un aspetto del silenzio più propriamente antropologico e sociale che, data l’ampiezza e la rilevanza dell’argomento, richiederebbe a sua volta un incontro specifico: quello del silenzio delle donne, sulle donne e contro o a favore delle donne. Il tema a√ora qua e là nelle varie relazioni (e non poteva essere diversamente), senza per altro essere oggetto di un preciso intervento. L’incidenza del silenzio femminile sulla vita della polis e della società urbana nell’antica Grecia è, infatti, indubbia. Non è solo la relegazione della donna nella parte più segreta e oscura della casa (i mevgara skioventa), @ dove l’ombra richiama e favorisce il silenzio, ma è una reticenza che risponde a un modello antropologico imperante. Come indica Alessandra Amatori, a favorire silenzi e omissioni che riguardano la donna nelle varie genealogie che popolano  

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@

  Cfr. Hymn. Hom. Dem. @@5.

paola angeli bernardini

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la più antica storia greca è la sua funzione “genealogica secondaria” rispetto a quella primaria maschile. Il silenzio femminile può essere imposto con la forza e il sopruso da parte del maschio, ma può diventare anche espressione di solidarietà tra vittime, la via per mantenere segreti e favorire piani occulti. Il teatro, come abbiamo visto e come emerge dalla relazione di Anna Beltrametti, oπre una vasta casistica di queste circostanze che vedono figure muliebri impegnate in una scelta che implica la rinuncia al linguaggio, ma una rinuncia che talvolta è frutto di un ragionamento, di una presa di posizione e di un discorso interiore. Basti pensare alla segregazione, al digiuno e al silenzio di Fedra all’inizio dell’Ippolito. Il silenzio, in questo come in altri casi, può essere eloquente quanto e più della parola perché lo spettatore intravede che un dibattito interiore precede le parole non proferite. @ Il nostro percorso cronologico si conclude con la relazione di Silvia Montiglio che dei silenzi di Calliroe e di Cherea, i protagonisti dell’omonimo romanzo di Caritone di Afrodisia, romanziere del i/ii sec. d.C., è fine interprete. Come ben si addice a chi da tempo si confronta con le problematiche relative al silenzio, l’analisi procede in molteplici direzioni e non omette alcuna componente del silenzio delle due figure – maschile vs femminile – e di altre ancora che popolano il romanzo. Esse possono essere socialmente elevate come Mitridate e Dionisio, oppure socialmente inferiori come l’attore prezzolato dai pretendenti di Calliroe o Plangone, la schiava di Dionisio. Dunque un’esegesi del silenzio fisico, emotivo, sociale, persino retorico che caratterizza i vari personaggi. Il richiamo al silenzio femminile mi oπre, infine, l’opportunità di fare un’ultima considerazione sull’illustrazione che apre questi Atti e che mi è stata segnalata da Luigi Bravi. Si tratta di un disegno di Bartolomeo Cesi, pittore bolognese del @500 (@556-@629), dal titolo: Studio per l’allegoria di fede e silenzio. 2 Il giovane uomo nudo che rappresenta il silenzio porta l’indice destro davanti alla bocca in una mossa classica che trova riscontri nella pittura del 500 (si veda Dosso Dossi, “Giove pittore di farfalle, Mercurio e la virtù”). Con il piede destro calpesta una tartaruga. Quale il senso dell’atto? La tartaruga può riferirsi a un simbolismo cosmico (il carapace ra√gura la volta celeste, la terra, il mare) e la posa rappresentare genericamente la vittoria sul male, ma è più probabile un’altra interpretazione che si ricollega ai rapporti, noti nell’antichità, della tartaruga – animale ambiguo, legato all’unione sessuale e alla violenza erotica – con Afrodite Urania. La dea, secondo Pausania vi 25 @, era stata ra√gurata da Fidia in una statua crisoelefantina per gli Elei nell’atto di calpestare l’animale. Plutarco (Is. et Os. 75 = Mor. 38@e-f) spiega l’azione della dea come un atto che simboleggia la buona condotta delle donne sposate e la loro convenienza a restare a casa e tacere. 3  

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  Su questo cfr. Lachenaud, op. cit. p. 77.   The Leonora Hall Gurley Memorial Collection, Chicago. 3   Cfr. J. Auberger, ‘Parole et silence dans les Précepts du Mariage de Plutarque’, Ét. class. 6@, @993, pp. 297-308. Sul rapporto tra castità e silenzio vd. G. Sissa, Le corps virginal, Paris @987, pp. 76-93, mentre su quello tra Afrodite e la tartaruga vd. G. Pironti, Entre ciel et guerre. Figures d’Aphrodite en Grèce ancienne, Liège 2007, pp. @43-@47. 2

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A N T R OP OL OGI A E S TORIOGRA FIA

TAC E R E , P AR L AR E E A PPLA UDIRE D I N AN Z I AL L A MORTE Lu i gi Spina

A

lla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di coloro che sono più vicini, il silenzio. Nessun discorso. Non c’è nulla di più retorico e fastidioso che i discorsi funebri”. Così scriveva Norberto Bobbio nel bigliettotestamento lasciato ai suoi familiari. @ Con queste parole sullo sfondo, ultime volontà contraddette, in realtà, dalle decisioni di familiari e amici, il mio intervento prende spunto, per confrontarsi con l’antichità greca e romana, da una poesia dei primi del Novecento e da un rito molto più recente: la poesia è Silence (poem pubblicato già nel @9@9, in una raccolta di poeti americani), autore Edgar Lee Masters 2 (sì, proprio il poeta della Spoon River Anthology, @9@5), i cui versi finali suonano così: “



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And there is the silence of the dead. If we who are in life cannot speak Of profound experiences, Why do you marvel that the dead Do not tell you of death? Their silence shall be interpreted As we approach them.

I morti sono silenziosi, perché hanno aπrontato l’esperienza cruciale della vita, la morte, e quindi l’assenza di comunicazione – o la presenza di una diversa comunicazione –, cosa ben diversa dalla incomunicabilità, situazione nella quale sono i codici di comunicazione a essere diversi e non in consonanza, marca il rapporto con loro. Del resto, se non riusciamo a rappresentare nel fondo le esperienze della nostra vita, come si potrebbero esprimere quelle della morte? Il silenzio dei morti potrà essere compreso, interpretato, solo quando l’esperienza sarà comune, ma mai trasmissibile a chi ancora deve farla, quell’esperienza. È, in fin dei conti, la stessa risposta che dà al mistero della morte Thomas Linde, il protagonista di Rot, il romanzo dello scrittore tedesco Uwe Timm: 3 Thomas Linde è uno del ’68, del ’68 tedesco. Scrive e pronunzia discorsi per i funerali. Si informa meticolosamente, intervista i parenti, gli amici del defunto o defunta, poi raggiunge il podio di legno, vi appoggia i fogli e parla; un giorno conclude così (p. 20):  

Perché esiste la morte, perché esiste il dolore, perché ne siamo consapevoli, sono tutte questioni alle quali non troviamo risposta. Ed è questo ciò che rende la domanda tanto @  Per il testo completo vd. http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/spettacoli_e_cultura/ bobbio/volont/volont.html. Ho citato e analizzato questo testo anche in Spina 20@5, p. 99. 2 3   Masters @9@9.   Timm 2005.

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commovente. È la madre di tutte le domande, è lei sola che dà peso a noi e alle cose. E a forza di chiacchiere, discorrendo e parlando di ciò che in fondo è incomprensibile, si finisce solo per sminuire tale ineπabilità. E così lasciamo che sia il silenzio a parlare – ricordiamo insieme la defunta.

Mi fermo ancora per qualche rigo sull’Antologia di Spoon River, perché recentemente un giornalista siciliano, Giacomo Di Girolamo, @ ha pubblicato una sorta di Spoon River italiana, quasi una storia degli anni che vanno dal @969 a oggi attraverso le voci di morti noti e meno noti, vittime e carnefici, terroristi e magistrati, mafiosi, poliziotti carabinieri e tanti altri e altre, di tutte le età, finanche oggetti: oltre @200 autoepitafi in prosa, molto originali. Il titolo del volume (Dormono sulla collina) cita il verso con cui Fabrizio De Andrè introdusse in musica la Spoon River Anthology, nel disco Non all’amore non al denaro né al cielo (@97@), naturalmente attraverso la mediazione di Fernanda Pivano, traduttrice italiana di Edgar Lee Masters e grande amica di Faber. I morti dormono, dunque, e fin dalla teogonia antica morte e sonno sono fratelli, basterà ricordare alcuni passi omerici dell’Iliade (@4, 23@; @6, 454, 672, 682) e i ben noti versi della Teogonia esiodea 2@@-2@2 (Morte e Sonno sono entrambi figli di Notte); 758-766 (descrizione e funzioni dei due fratelli, figli di Notte). 2 E il sonno è silenzio, direi quasi per definizione, anche se nei sogni si parla, e quanto si parla! Ma sfiderei un neuroscienziato a riprodurre i suoni e le parole dei sogni, anche se dotato di un sofisticatissimo registratore. Solo il cinema (e una seduta di psicanalisi, aggiungerei) riesce a darci quest’illusione. Sonno e morte, dunque, risultano apparentati al silenzio, è la loro natura. Il secondo spunto è una curiosità sull’origine dell’uso ormai diπusissimo, almeno in Italia, degli applausi ai funerali, che convivono senza problemi con il tradizionale minuto di silenzio: lo strumento di ricerca è forse meno scientifico, Google, eppure qualche risposta si riesce a trovarla (ma ci tornerò più avanti). Due spunti entrambi contemporanei, ma che forse si trovano accomunati in uno dei Dialoghi dei morti di Luciano (@0, @2). Menippo sta parlando con Hermes:  

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‘Ma non senti, in mezzo a questi discorsi, come un vociare di gente che urla da terra?’. ‘Certo, Menippo’, risponde il dio, ‘e non da un punto solo: ecco alcuni riuniti volentieri in assemblea che ridono tutti per la morte di Lampico [...], altri applaudono il retore Diofanto che a Sicione declama il discorso funebre per il nostro Cratone. E anche la madre di Damasia, per Zeus, dà il la singhiozzando al canto che le donne intonano sul cadavere del figlio. Te, invece, Menippo, non ti piange nessuno, e sei il solo che giaci nel più assoluto silenzio (kaq∆ hJsucivan)’. 3  

Il rapporto fra morte e silenzio, come sospensione e fine di ogni comunicazione fra mondi, come prolungamento, fra i vivi, del naturale silenzio dei morti – e parlo qui, soprattutto, della dimensione comunitaria della città antica – non è però così lineare come la formulazione, o un immaginario ingenuo, potrebbe far credere. Fra gli estremi che mi hanno oπerto lo spunto per l’intervento c’è una @

  Di Girolamo 20@4.   Mi rifaccio qui a un articolo a più voci sotto la sigla I Fil-Lieti 2005. 3   Devo il suggerimento a Cristina Pepe. 2

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intera gamma di suoni e di voci, più o meno vicine all’uno o all’altro estremo. Di questo tenterò di portare qualche esempio, recuperando, per così dire, il punto di vista dei morti e dei vivi. Il titolo di un recente convegno tenutosi a Trento, Le parole dopo la morte. Forme e funzioni della retorica funeraria nella tradizione greca e romana, che può essere seguito attraverso il video degli interventi, @ segnala che lo spazio comunitario si riempie almeno di parole nei momenti successivi alla morte, parole pronunziate, come nel famoso epitafio di Pericle riportato da Tucidide (2, 35-46), o parole scritte come nelle iscrizioni funerarie, parole consolatorie, parole proiettate verso il futuro. Accanto alle parole, naturalmente, i lamenti rituali. Posso qui rinviare a un fortunato volumetto di Maria Serena Mirto, 2 sintesi utile di una bibliografia molto ampia, tradotto anche nella “Oklahoma Series in Classical Culture” (20@2). Ma parole si pronunziano anche a ridosso della morte, potremmo dire. Raccolte nelle relative sezioni delle biografie antiche, le ‘ultime parole’ dovrebbero rappresentare una sorta di introduzione al silenzio della morte, importanti proprio perché pronunciate in limine. 3 Di√cile, dunque, stabilire uno spazio reale, riconoscibile, non contaminato, per il silenzio, nel rapporto degli antichi, dei nostri antichi, con la morte? Del resto, non sembra essercene neanche nell’incontro con i morti, nelle canoniche catabasi letterarie, piene anch’esse di dialoghi. Anzi, l’incontro di Odisseo coi morti (Od. @@) si apre sull’immagine delle schiere che corrono dall’Erebo verso il sangue con strepito non umano (43: qespesivh/ ijach`). Il silenzio è solo quello che, formularmente, unifica i Feaci che ascoltano il catalogo odissiaco, 4 ma non solo. Insomma, se posso parafrasare una definizione di Silvia Montiglio, nel volume Silence in the Land of Logos, 5 che, con quello di Maria Grazia Ciani di qualche anno prima, Le Regioni del Silenzio, 6 è stato riferimento comune e pionieristico nei nostri studi sul silenzio, vorrei ricercare non tanto lo Herald of Death, 7 quanto il Witness of Death. Il materiale che ho esaminato, per rintracciare la dinamica di morte e silenzio, si limita agli epigrammi funerari del vii e viii libro dell’Antologia Palatina. L’analisi andrebbe estesa, ne sono consapevole, alle principali raccolte di epigrafi, 8 anche se la riproposizione di ben attestati topoi non diπerenzia di molto epitafi letterari ed epigrafici. Comincerò proprio da un’iscrizione della raccolta di Peek, nr. @906, tradotta e commentata da Salvatore Nicosia. 9 Come si sa, il tacito patto comunicativo e performativo delle iscrizioni funerarie,  

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@  http://webmagazine.unitn.it/evento/lettere/902/le-parole-dopo-la-morte-forme-e-funzioni2 della-retorica-funeraria-nella: Pepe-Moretti 20@5.   Mirto 2007. 3   Segnalo solo una moderna raccolta divulgativa, Breverton 20@0, a testimonianza della lunga storia del genere; ma molti sono gli studi specifici su famose ultime parole, sia di tradizione 4 letteraria che storica.   Cfr. Foley @995. 5 6   Montiglio 2000.   Ciani @983. 7   Montiglio 2000, cap. vii, pp. 2@3-25@. 8   Mi riferisco soprattutto a Peek @955; Hansen @983 e @989. 9   Nicosia @992, p. 220 s.

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soprattutto di quelle che si possono definire autoepitafi, in cui, cioè, l’enunciato adopera la prima persona del morto – ma spesso l’Ich-Rede può essere attribuito alla stele stessa – permette al passante di ridare voce al morto, attestandone così il ricordo. In tal modo, il committente dell’iscrizione, quando non si tratti di reali autoepitafi, scritti e preparati cioè in vita, a√da alla pietra il proprio punto di vista travestendolo da punto di vista autobiografico. Entrano così in contatto il silenzio del morto e il discorso del vivo, con una dinamica antropologicamente interessante. In un’iscrizione sulla via Aurelia del iii-iv secolo d.C., il testo greco dell’epigrafe, metricamente composito, è preceduto da un lungo testo latino in prosa (CIL @4672). Il sepolcro di Cerellia Fortunata fu costruito dal marito M. Antonio Encolpo, anche per sé e i suoi liberti, tranne che per uno. La scelta dell’IchRede, che apostrofa il passante, personalizza in maniera originale questo rapporto costitutivo del genere epigrammatico funerario; riporto qui la traduzione di S. Nicosia dei vv. @-8: Non tirar dritto, o viandante, davanti al mio epitafio, Ma fermati, ascolta impara e va’. Nell’Ade non c’è barca, né il nocchiero Caronte, Né Eaco custode delle porte, né Cerbero: Noi tutti, i morti qui sotterra Ossa e cenere siamo, e nient’altro. Questa è la verità. Ed ora vai, viandante, Ch’io non sembri, pur morto, un chiacchierone.

Lineare nella comunicazione da morto a vivo, tutta incentrata sulla negazione dei miti dell’Ade – autocertificata al v. 7: ei[rhkav soi ojrqw`~ –, il richiamo allo oJdoipov- ro~ perché non passi oltre, ma si fermi ad ascoltare (in realtà a leggere e ascoltare la propria voce), e si allontani dopo aver acquisito insegnamenti fondamentali, viene suggellato da un’interessante preoccupazione (7-8): u{page, oJdoipovre, mh; kai; teqnacw;~ ajdolescov~ soi fanw`. Un morto logorroico sarebbe una contraddizione in termini. Al morto si addice il silenzio, @ come, del resto, una volta morto Ettore, tace anche (ejsighvqh) l’Iliade, nell’epigramma di Acerato grammatico (AP 7, @38). Ma un morto può rispettare un parziale silenzio, e imporlo al passante, anche in conseguenza di una sua pregressa misantropia, come in un epigramma di attribuzione incerta (Leonida o Antipatro: AP 7, 3@6). Lo riporto nella traduzione di Filippo Maria Pontani:  

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Passa rasente la stele, ma non salutarmi; chi sono, chi fu mio padre, non lo domandare. Alla meta non giunga, se no, la tua via. Ma se passi @  Il topos del silenzio dei morti rimane a disposizione per le epigrafi latine di età moderna: a solo titolo di esempio riporto quella che si legge sul monumento funebre del pittore francese Nicolas Poussin (@594-@665), in San Lorenzo in Lucina a Roma, dettata dallo scrittore Giovanni Battista Bellori (@6@3-@696): “Parce piis lacrimis vivit Pussinus in urna / vivere qui dederat nescius ipse mori /hic tamen ipse silet si vis audire loquentem / mirum est in tabulis vivit et eloquitur”. Attingo la notizia da Isotta 20@4, p. 296. Quanto al rapporto fra loquacità in vita e silenzio da morti, anche in questo caso il topos si presta a essere usato in epitafi burleschi: ne cita due Aragona 20@4, p. 9@.

tacere, parlare e applaudire dinanzi alla morte

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muto (sigh/)` , alla meta non giunga lo stesso!

Le voci e i suoni della vita sono, spesso, il contraltare, il passato irrecuperabile del silenzio inevitabile e immodificabile della morte: i discorsi di un gran retore o i canti e i versi di un poeta tacciono con la morte del loro autore, come negli epigrammi di AP 7, 562, 588, 597; e in alcuni epigrammi di Gregorio di Nazianzo nel libro ottavo dell’AP: 4, 96, @37. Ma anche un silenzio (siwphv) che in vita era strumento artistico e fonte di fascino per il pubblico (ejqelgovmeqa), come quello del mimo Crisomallo, nell’ epigramma di AP 7, 563, di Paolo Silenziario, si trasforma, alla sua morte, in un’odiosa soπerenza (stugerhv) per chi ne apprezzava la bravura. E mentre anche la voce (fqevgma) di un cagnolino maltese si perde nei percorsi silenziosi (siwperai; oJdoiv) della notte (AP 7, 2@@), un canto, già pronto per celebrare un evento felice per Clearista si spezza, seguendo un topos consolidato e diπuso, quello delle nozze sostitutive, con Ade o nell’Ade, e si trasforma in nenia flebile, ridotto al silenzio (sigaqeiv~). L’epigramma è di Meleagro (AP 7, @282). Se, dunque, lhvqh e sighv sono prerogativa e privilegio dei morti (gevra~), la profanazione di una tomba rappresenta un delitto particolarmente odioso (AP 8, 236). Forse profanazione è parola eccessiva, ma certo l’applauso ai funerali, come tributo chiassoso a una bara (sia in un rito laico che religioso di addio), si presenta, almeno nella realtà italiana, come il segno di una commistione semiologica e topologica, direi, della quale qualcuno ha anche cercato le origini. Mi riferisco alle considerazioni di Paolo Zolli (@94@-@989), filologo romanzo e dialettologo italiano del quale penso tutti abbiamo consultato almeno una volta il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, elaborato con Manlio Cortelazzo (Bologna @979). Esponente di spicco del tradizionalismo cattolico (così lo definisce Fabio Marino), Zolli indaga, nella documentazione trovata in rete @ (un paradosso per uno studioso che confessava, proprio all’inizio dell’articolo in questione, di non saper usare il calcolatore elettronico), sulle probabili origini di questo uso ormai diπusissimo, anche nel senso televisivo della parola: non c’è funerale teletrasmesso, a volte esito tragico di vicende criminali, che non sia accompagnato, proprio nel momento topico dell’estremo saluto, dal prolungato applauso di una folla che sembra attendere quell’istante per sentirsi realmente partecipe e protagonista. Zolli risale al @973, ai funerali di Anna Magnani, escludendo quindi una radice regionale, meridionale, di questa nuova pratica, e connettendola invece alle trasformazioni postconciliari della messa funebre e della liturgia in genere, che dichiara esplicitamente di non condividere. Indicativa questa aπermazione: “Il battimani infatti non si concilia né con la morte vista quale dramma, né con la morte vista come uno di quei momenti solenni ai quali l’unico commento è il silenzio, la ‘quiete solenne della morte’ di cui parla con frase insuperabile il Manzoni: quiete, non applausi a scroscio”.  

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  Zolli @998, riprodotto integralmente in Civitas Cristiana 22-26, @999-2000, pp. 2@-23: http:// www.unavoce-ve.it/[email protected]; Marino @999-2000: http://www.unavoce-ve.it/marino-04.htm.

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Anche da un punto di vista non religioso, ma direi laicamente umano e comunitario, l’applauso @ rientra in un rituale nel quale si sono accentuati, nel tempo, più gli elementi spettacolari che una semiologia o un’intenzione adeguata a una nuova o diversa visione della morte e dei rapporti fra la vita e la morte stessa. Naturalmente non si tratta né di vietare né di condannare, ma di spiegare una nuova pratica come spia di nuove forme culturali. I partecipanti a un funerale diventano in qualche modo pubblico di se stessi, così come ad attore o ad attrice vengono in qualche modo promossi (e qui userei le virgolette) il defunto o la defunta. Viene talvolta da pensare, nel vedere immagini di questo tipo, che la folla stia applaudendo anche se stessa, per sottolineare la propria presenza (il famoso ‘io c’ero’), laddove il silenzio del raccoglimento lascerebbe più spazio a individualità necessariamente distinte. Dall’applauso al discorso funebre, giustificabile in quanto consenso a un atto oratorio e a un oratore specifico, si è passati all’applauso al defunto, al personaggio al quale il consenso dato in morte non trova strumenti diversi da quelli che accompagnano, in vita, esibizioni, eccellenze artistiche, particolari doti oπerte a un pubblico qualsiasi. Certo, il teatro della vita è ancora una metafora suggestiva; ma allora varrebbe forse la pena di tornare a una riflessione di Peter Brook, a proposito della natura dello spettacolo e delle logiche della rappresentazione:  

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Quando alla fine di uno spettacolo oπrivamo al pubblico il naturale privilegio del silenzio, di restare ancora per un po’ seduto, se voleva, era interessante vedere come certi si oπendessero e altri si mostrassero grati per questa possibilità. (...) Abbiamo soprattutto dimenticato il silenzio come forma di riconoscimento ed apprezzamento verso una comune esperienza: battiamo meccanicamente le mani perché non sappiamo cos’altro fare e non ci rendiamo conto che anche il silenzio ci è consentito, che anche il silenzio va bene. 2  

Un silenzio che non si riesce più a rispettare neanche di fronte alla morte, al progressivo spegnersi di una sinfonia come la Patetica di Cµajkovskij, quando troppo spesso il suono di un cellulare o un applauso impaziente e frettoloso (esperienza diretta, al Festival di Ravenna 20@4) rompe lo sfumare dei suoni che il direttore d’orchestra aveva sapientemente preparato. Forse anche in questo caso bisognerebbe ricordare (e applicare) le sagge parole di un famoso antropologo: “Il mito e l’opera musicale appaiono dunque come dei direttori d’orchestra i cui uditori sono i silenziosi esecutori”. 3  

Bibliografia Aragona 20@4, F. Aragona, A morire son buoni tutti. Epita√ arguti, curiosi e divertenti per avere l’ultima parola sulla morte, Pisa 20@4. Breverton 20@0, T. Breverton, Immortal Last Words, London 20@0. @

  Molto interessanti le considerazioni generali su questa forma già antica di consenso nel saggio di Tarizzo 2007, che ho potuto conoscere grazie a una citazione nella densa sezione retorica del variegato volumetto di Scarpa 20@4 (‘Cosa ho imparato in piazza’, pp. 59-@44: @33). 2 3   Brook @968, pp. @57, @59.   Lévi-Strauss 2008 (@964), p. 35.

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Brook @968, P. Brook, Il teatro e il suo spazio, Milano @968 (The Empty Space, New York @968). Ciani @983, M. G. Ciani (ed.), Le regioni del silenzio, Padova @983. Di Girolamo 20@4, G. Di Girolamo, Dormono sulla collina @969-20@4, Milano 20@4. Foley @995, J. M. Foley, ‘Sexteen Moments of Silence in Homer’, Quad. Urb. n.s. 50 (79), @995, pp. 7-26. Hansen @983, P. A. Hansen, Carmina Epigrafica Graeca saeculorum viii-v a.Chr.n., BerlinNew York @983. Hansen @989, P. A. Hansen, Carmina Epigrafica Graeca saeculi iv a.Chr.n. (CEG2), BerlinNew York @989. I Fil-Lieti 20@@, I Fil-Lieti, ‘L’inno al sonno da Stazio ai bugiardini’, Paideia 66, 20@@, pp. 9-5@. Isotta 20@4, P. Isotta, La virtù dell’elefante, Venezia 20@4. Lévi-Strauss 2008 (@964), C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano 2008 (Le cru et le cuit, Paris @964). Marino @999-2000, F. Marino, ‘Paolo Zolli e il nuovo rito dei funerali. Quando l’amore di fede diventa forza di fede e coraggio di proposta controcorrente’, Civ. crist. 22-26, @999-2000, pp. @8-2@. Masters @9@9, E. L. Masters, ‘Silence’, in L. Untermeyer (ed.), Modern American Poetry: An Introduction, New York @9@9. Mirto 2007, M. S. Mirto, La morte nel mondo greco: da Omero all’età classica, Roma 2007. Montiglio 2000, S. Montiglio, Silence in the Land of Logos, Princeton 2000. Nicosia @992, S. Nicosia, Il segno e la memoria, Palermo @992. Peek @955, W. Peek, Griechische Vers-Inschriften i. Grab-Epigramme, Berlin @955. Pepe-Moretti 20@5, C. Pepe - G. Moretti (edd.), Le parole dopo la morte. Forme e funzioni della retorica funeraria nella tradizione greca, Trento 20@5. Scarpa 20@4, T. Scarpa, Come ho preso lo scolo, Milano 20@4. Spina 20@5, L. Spina, ‘L’autoepitafio, o delle penultime volontà’, in Pepe-Moretti 20@5, pp. 97-@@@. Tarizzo 2007, D. Tarizzo, ‘Applauso. L’impero dell’assenso’, in M. Recalcati (ed.), Forme contemporanee del totalitarismo, Torino 2007, pp. 83-@05. Timm 2005, U. Timm, Rosso, Firenze 2005 (Rot, Cologne 200@). Zolli @998, P. Zolli, ‘Applausi ai funerali: la banalità di un tempo che ignora il Dies irae. Sulle probabili origini di un discutibile uso’, Messaggero Veneto, Udine, 29 settembre @998.

Abstract Even if the silence is strictly connected to death, since Greek and Roman antiquity, many words were frequently used and repeated in order to praise and remember the people who died and also to create the illusion that a dead could speak again. Nowadays people, at least in Italy, are used to clapping at the dead and not only at a funeral speech.

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A G L OSSOS GAI A : I L SI L E NZIO DEI BA RBA RI

Ma r i a G r a z i a Fileni

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ur con qualche incertezza, la tradizione antica attribuiva a Talete l’e√cace formulazione, elaborata secondo un criterio tassonomico, degli esiti di una riflessione di valore antropologico: prw`ton me;n ... a[nqrwpo~ ejgenovmhn kai; ouj qhrivon, ei\ta ... ajnh;r kai; ouj gunhv, trivton ... ”Ellhn kai; ouj bavrbaro~: essere uomo, maschio e greco anziché bestia, femmina e barbaro, costituiva una condizione tre volte felice, per la quale occorreva essere grati alla Tyche. @ La linea di demarcazione tra grecità e barbarie, che in molti, noti esiti della cultura ellenica, soprattutto nel v e iv sec., 2 si disegnava in maniera altrettanto netta, comportando, ad esempio, l’assimilazione dei barbari non solo agli animali e alle donne ma anche alle piante, nonché l’aπermazione del diritto greco al dominio su di loro, schiavi di natura, 3 passava anche attraverso la rappresentazione delle voci e dei suoni del mondo ‘altro’, che si rivela come una discriminante particolarmente significativa e funzionale sia alla propria autoidentificazione sia all’individuazione della figura del barbaro. 4 Né poteva essere diversamente, se la lingua figurava, insieme al sangue, alla religione, ai costumi, tra gli elementi etnico-culturali che in un famoso passo di Erodoto (8, @44) definiscono, in una sintesi magistrale, l’Hellenikon, l’i 

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* Ringrazio Alina Veneri per gli utili suggerimenti forniti nel corso di un’attenta lettura di questo contributo. @   Secondo Diog. Laert. @, 33, sarebbe stato Ermippo, nei suoi Bivoi (FHG iii fr. @2 Müller), ad attribuire a Talete la frase (che però altri avrebbero riferito a Socrate o, come si legge in Plut. Mar. 46, @, a Platone). Sui caratteri distintivi della donna e del barbaro, rappresentati nel mondo greco attraverso precise tipologie fisiche e culturali, cfr. Sassi @988, p. 8@ ss.; sull’articolazione gerarchica in cui si organizza il pensiero antropologico, il cui compito è di rendere ragione della schiavitù e di altri rapporti di subordinazione della società greca, vd. Vegetti @979, p. @2@ ss. 2   Se fosse viva in epoca arcaica la consapevolezza di una diversità fra il mondo greco e quello non greco, se essa si possa già leggere in termini di polarità o se soltanto in coincidenza delle guerre persiane si possa parlare di netta opposizione, si è ampiamente discusso attribuendo diverso valore alle testimonianze più antiche: si confrontino ad esempio le opinioni di Schwabl @962; Diller @962; Weiler @968. 3   Cfr. Eur. IA @400 barbavrwn d j ”Ellhna~ a[rcein eijkov~, ajll j ouj barbavrou~ e Plut. De Alex. fort. @, 6, 329b-c (= Arist. fr. 658 Rose), a proposito dell’incitamento aristotelico, rivolto ad Alessandro di Macedonia, di trattare i Greci hJghmonikw`~ e i barbari despotikw`~, e di comportarsi con gli uni come fossero amici e familiari, con gli altri come fossero animali o piante (vd. Corcella @99@, p. @00 e n. 44). 4   Che la caratterizzazione negativa delle lingue barbare nella cultura greca costituisca la punta estrema dell’etnocentrismo è ribadito da Moggi @99@, pp. 36-39; @992, pp. 54-55; @998, pp. 97, @02-@03, @05. Al forte senso di identità e di superiorità, elaborato anche a partire dalla riflessione sulle diπerenze linguistiche, corrisponde una generalizzata mancanza di curiosità da parte dei Greci nei confronti degli idiomi stranieri: vd. Lejeune @949; Mounin @968, p. 83; Momigliano @980, p. @62. Anche per altri popoli, come ad esempio gli Egiziani, che chiamavano ‘barbari’ tutti quelli che non erano homoglossoi rispetto a loro stessi (Hdt. 2, @58, 5), valeva lo stesso criterio di identificazione di sé e, in rapporto oppositivo, degli altri. Sul profondo legame tra l’autoaπermazione e la percezione dell’alterità nei rapporti interculturali cfr. Garcea @996, p. 69 ss.

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dentità greca. Una testimonianza in tal senso della percezione delle lingue non greche, radicale e ardita nel contenuto ed esasperata nell’ideologia che essa esprime, trova un’adeguata collocazione nello spazio scenico delle Trachinie di Sofocle, dove si inserisce in modo funzionale nel tessuto narrativo e coerente con le modalità di rappresentazione del mito trattato.  

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@. Una terra senza lingua: Soph. Trach. @058-@063 Come si apprende dal racconto di Deianira (vv. 555-577), la vicenda era iniziata nelle acque del fiume Eveno, in Etolia, dove un giorno il Centauro Nesso aveva traghettato, portandola sulle sue spalle, la novella sposa di Eracle; quando, in mezzo alla corrente, cominciò a molestarla, l’eroe scoccò contro di lui una freccia fatale, intinta nella bile dell’Idra di Lerna, che aveva già distrutto tante fiere. 2 Morendo, il Centauro consigliò alla donna di raccogliere il sangue rappreso intorno alla ferita: un filtro magico che doveva assicurarle l’amore dell’eroe, 3 in realtà un infido inganno mortale. 4 A lungo conservato da Deianira nel chiuso di un lebete di bronzo, esso fu utilizzato, quando la bellezza di una giovane donna insidiava l’amore coniugale, 5 per intridere un chitone donato ad Eracle, da indossare durante il sacrificio di ringraziamento rivolto a Zeus che aveva concesso la vittoria nella spedizione punitiva contro Eurito, re dell’Eubea. 6 Atroci patimenti, e infine la morte, attendono l’eroe dal momento in cui il veleno del chitone gli si serra attorno alle membra e comincia a divorarle, provocando spasimi lancinanti che fanno contorcere il corpo in disfacimento. 7 Si compie così il destino di Eracle 8 per mano della sua sposa, che egli non sa ancora essere l’involontaria causa della propria rovina 9 e che dunque accusa, maledicendo le nozze fatali. @0 La parte iniziale della rhesis che l’eroe, agonizzante, pronuncia a partire dal v. @046, marcatamente iperbolica nel contenuto e nei toni  

















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  Per la lingua come fatto eminentemente culturale nell’ideologia greca del v sec. cfr. Dierau2 3 er @977, p. 32 ss.   Cfr. vv. 7@4-7@6.   Vv. 66@-662. 4     Troppo tardi risulterà evidente a Deianira l’inganno del Centauro, che usa il filtro e l’ingenuità della donna come strumenti della sua vendetta nei confronti di Eracle (vv. 672-7@8). 5     Vv. 536-55@. 6    Vv. 269-290. Il vero motivo della spedizione, rivelato dal messaggero a Deianira, fu il rifiuto di Eurito di concedere la figlia Iole in unione clandestina (kruvfion levco~) all’eroe preso da bruciante desiderio per lei (vv. 359-365; 43@-433; 476-477; 488-489). 7     Vv. 83@-840; @028-@030; @053-@057; @076-@089. 8     Vaticini antichi e recenti, fra cui l’oracolo di Dodona, concordavano, pur nel loro consueto linguaggio ambiguo, sul fatto che proprio in quel tempo egli si sarebbe liberato dalle sue fatiche (vv. @@49-@@50; @@64-@@7@; cfr. vv. 76-8@; @69-@74; 82@-830; 849-850, e vv. @55-@68 a proposito di un’antica tavoletta lasciata da Eracle a Deianira al momento della sua ultima partenza da casa, contenente le volontà testamentarie). Torna ora alla mente dell’eroe anche la predizione del padre, che gli aveva annunciato la morte per mano di chi già abitava l’Ade (vv. @@59-@@6@): muore infatti per l’astuzia del Centauro Nesso, da lui ucciso, e viene dunque sopraπatto, per un ironico e tragico destino, proprio dalle forze che egli, a sua volta, aveva debellato. 9     Fino alla scoperta della sua innocenza (vv. 934-935), la crede colpevole anche il figlio Illo (vv. 734-740; 807-8@2); l’involontarietà della colpa, d’altra parte, non allevia la soπerenza di Deianira stessa, che respinge il giudizio benevolo del corifeo verso di lei (vv. 727-730). @0  Vv. 79@-793; @036-@040. Pari alla forza delle accuse è l’ansia di vendetta nei confronti di Deianira (vv. @039-@040; @064-@069).  

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e strutturata come una Priamel, è volta a sostenere che mai, nella lunga consuetudine con la fatica e il pericolo, con la lotta e la violenza, egli ha sperimentato una soπerenza quale ora gli è imposta da una femmina, sola e senza spada 2. Cercando invano un termine di paragone con le sue attuali soπerenze, Eracle pone l’accento sulla tipologia delle imprese fino a quel momento sostenute, finalizzate alla lotta contro bestie e mostri che infestavano terre e mari, e sulla vastità dello spazio geografico in cui egli aveva operato come portatore di civiltà, fondatore di culti e istituzioni civili, nel modo in cui la tradizione lo dipingeva e lo celebrava (vv. @058-@063): 3  

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Kouj tau`ta lovgch pediav~, ou[q joJ ghgenh;~ strato;~ Gigavntwn, ou[te qhvreio~ biva, ou[q j ÔEllav~, ou[t j a[glwsso~, ou[q j o{shn ejgw; gai`an kaqaivrwn iJkovmhn, e[drasev pw. gunh; dev, qh`lu~ ou\sa koujk ajndro;~ fuvsi~, movnh me dh; kaqei`le fasgavnou divca.

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Alla generica allusione alle battaglie campali (lovgch pediav~) e alla specifica menzione della lotta contro i Giganti figli della terra (oJ ghgenh;~ strato;~ Gigavntwn), 4 si aggiunge il ricordo della natura animale degli avversari aπrontati (qhvreio~ biva) 5, identificabili non solo con i Centauri, la specie di mostri violenti da cui, per mano di Nesso, hanno origine i patimenti che mettono fine alla vita terrena di Eracle, 6 ma anche con le molteplici forme della ferinità che in gran numero popolano il dramma, alcune delle quali l’eroe ricorda a breve distanza da questi versi (@089@@00), tornando a fare un bilancio delle sue imprese: il leone di Nemea, l’Idra di Lerna, il cinghiale di Erimanto, Cerbero, il serpente guardiano delle mele d’oro nel giardini delle Esperidi, e inoltre il fiume Acheloo, ricordato anche da Deianira (vv. 9-23) e dal coro (vv. 507-52@), una forza primigenia della natura dalle cangianti forme animalesche che, nel contendere ad Eracle la mano di Deianira,  





@   Cfr. Race @982, pp. 92-93 per l’individuazione di tre Priamel nella rhesis di Eracle, ai vv. @046@052, @089-@@06, oltre che ai vv. @058-@063. 2   Lo stesso tema è sviluppato ai vv. @046-@052 e nelle parole del coro (mai un male simile si è riversato sull’eroe per mano dei nemici: cfr. vv. 852-855), piene di comprensione per l’infelice Deianira. 3   Sul significato delle imprese dell’eroe, approfondito alla luce delle moderne nozioni di ‘acculturazione’ e di ‘eroe culturale’, vd. Lacroix @974; Kirk @977, pp. 285-297; Gentili @977, pp. 299-305; cfr. Dupront @966, p. 35. 4   Per il senso di lovgch come ‘esercito’ cfr., sempre in ambito tragico, Soph. OC @3@2 e Eur. Phoen. 44@-442; fr. 472e, 45 Kn. La tradizione ricordava la battaglia combattuta da Eracle contro Laomedonte a Troia o contro i Mini (cfr. Eur. Her. 220-22@; vd. Easterling @982, p. 207). A Flegra, nella penisola calcidica, sarebbe avvenuta la Gigantonomachia (Pind. Nem. @, 67-69; Apollod. 2, 7, @; cfr. @, 6, @): nella lotta fra i Giganti e gli dèi, il cui racconto completo è in Apollod. @, 6, @-2, Eracle aveva combattuto dalla parte degli dèi. L’immagine dei Giganti armati al momento della loro nascita è in Hes. Theog. @85-@86 (cfr. West @966, pp. 220-22@). 5  Cfr. qhvreio~ riferito al leone di Nemea in Panyass. Heracl. fr. 4 Bernabé. 6   Vd. Kamerbeek @959, p. 22@; alla violenza del Centauro Nesso, sempre definito come qhvr, si allude ovviamente in numerosi passi della tragedia (vv. 556; 568; 662; 680; 707; cfr. @095@096). Anche Cicerone, nella sua versione della rhesis dell’eroe nelle Tusc. disp. 2, 8, 20, interpreta l’espressione qhvreio~ biva come riferita in modo specifico ai Centauri: non biformato impetu / Centaurus ictus corpori inflixit meo.

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aveva ingaggiato con lui una lotta furibonda. E ancora, l’eroe menziona, come entità personificate, la Grecia e la terra senza lingua, a[glwsso~: @ il termine è da intendere nel senso di “barbaro”, come indicano gli scolii e un passo di Polluce riguardanti il verso sofocleo, 2 e l’antica lessicografia a proposito del valore della parola, della quale si sottolinea la stretta attinenza con il silenzio, conseguente alla condizione fisiologica dell’essere privo di lingua. 3 Dominante, in questi versi retoricamente costruiti, in modo parallelo e simmetrico, sulla doppia successione di tre membri, ciascuno contrassegnato da negazioni, 4 è l’idea dell’attività di addomesticatore e civilizzatore di Eracle rievocata dal verbo kaqaivrwn, che costituiva un elemento di spicco nel ricchissimo dossier biografico dell’eroe, 5 e che si era svolta nello spazio del mondo conosciuto, abitato da Greci e barbari: nulla indica una diπerenziazione riguardo al modo in cui Eracle sarebbe intervenuto in queste diverse aree, o riguardo alla ferocia degli avversari o alla resistenza da loro opposta nei luoghi visitati dall’eroe. Si avrebbe quasi l’impressione di un’equivalenza perfetta tra i due ‘emisferi’, con identico fervore liberati dal loro comune stadio di primitiva ferinità, se non fosse per il ri 

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@   Il sostantivo di riferimento per a[glwsso~ ed ÔEllav~ è ovviamente gai`a, deducibile dal successivo o{shn .../gai`an kaqaivrwn iJkovmhn ... (cfr. Kamerbeek @959, p. 22@; Easterling @982, p. 207), a meno che si voglia leggere ÔEllav~ come sostantivo (cfr. Davies @99@, p. 240). La formula ÔEllav~ ... bavrbaro~, con o senza gh`, è attestata in Dem. 9, 27 ou[q j hJ ÔElla;~ ou[q j hJ bavrbaro~ th;n pleone- xivan cwrei` tajnqrwvpou e in Max. Tyr. 35, 2, 69-70 ei[ pou kai; gevnoito th`~ ÔEllavdo~ h] th`~ barbavrou gh`~ (cfr. 4@, @, 22-23) e indica, come nel passo delle Trachinie, la completa estensione delle terre abitate. 2   Schol. Soph. Trach. @060 “Aglwsso~º kakovglwsso~, bavrbaro~ h] ajllovglwsso~ (p. 339, @7-@8 Papageorgius); Poll. 2, @09, i pp. @@7, 25-@@8 Bethe: Sofoklh`~ de; a[glwtton to;n bavrbaron. 3   Hesych. s.vv. a[glwssoi: bavrbaroi. kai; siwphroiv e ajglwttiva: siwphv, hJsuciva (i 25, 26 e 28 Latte); Anecd. Gr. s.v. ajglwttiva: hJsuciva, siwphv (p. 329, 22 Bekker); Polluce 2, @09 (i p. @@8, @ Bethe) testimonia l’occorrenza di ajglwttiva in Antifonte (fr. 97 D.-K.) senza precisare il titolo dell’opera; Luria @924, p. 329 congetturò la sua presenza in un frammento del Peri; ajlhqeiva~ (fr. 44a, col. vii @8 D.-K.), ma cfr. Pendrick 2002, pp. 350-35@. 4   ”Oshn ... / gai`an kaqaivrwn iJkovmhn... è stata intesa o come un’ulteriore alternativa in aggiunta ai termini precedenti (né la Grecia, né la terra barbara, né altri spazi geografici oltre l’abitato umano: cfr. Jebb @962, p. @55), oppure come un’espressione riassuntiva di essi (cfr. Kamerbeek @959, p. 22@ e Easterling @982, p. 207). Non appare necessaria la congettura o{swn di Blaydes, che evita l’attrazione di gai`a nel caso del relativo (ma la stessa costruzione è al v. 283) e che, con un riferimento esplicito agli abitanti della Grecia e della terra barbara, produce una diminuzione del forte tenore metonimico che sembra essere la cifra stilistica di questi versi. Le espressioni, generiche ma di forte potere evocativo, qhvreio~ biva e o{shn .../gai`an kaqaivrwn iJkovmhn, richiamano le situazioni già indicate con lovgch pediav~ ..., oJ ghgenh;~ strato;~ Gigavntwn e con ÔEllav~ ... a[glwsso~, senza però precludere la possibilità di evocarne tante altre, come quelle menzionate ai versi successivi (@089 ss.) e quelle, ancora diverse (“Altre mille prove ho gustato”, dice Eracle al v. @@0@), che gli spettatori attribuivano a un eroe conosciuto e amato a livello nazionale e locale, e molto celebrato dai poeti. 5  Si confronti, ad esempio, la rhesis di Anfitrione nell’Eracle di Euripide, che rielabora alcuni temi presenti nelle Trachinie, come le lotte contro Centauri e Giganti (vv. @77-@84) e la purificazione del mare e della terra dai mostri compiuta dal figlio (pontivwn kaqarmavtwn / cevrsou t j(e), vv. 225-226; cfr. vv. @7-2@ e 400-402): questi motivi trovano nel primo stasimo (v. 348 ss.) una trattazione completa nella forma di un threnos che assume tuttavia i toni di un inno (cfr. Wilamowitz @895, iii p. 84), o più precisamente di un encomio (cfr. vv. 355-356; vd. Bond @98@, p. @46 ss.); in particolare sulla sezione relativa alla lotta di Eracle contro i Centauri, vd. Bernardini @978.

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lievo assunto dal tratto dell’aglossia, fortemente individualizzante e caratterizzante della parte ‘altra’ del mondo rispetto a quella greca. L’espressione, che prospetta un’immagine inconsueta e abnorme, è retoricamente coerente con la facies iperbolica di tutto il monologo e a livello tematico si attaglia in modo perfetto alla dimensione marcatamente arcaica, pre-umana ed extra-umana, dominata da entità mostruose, dalla violenza ferina e dalla fisicità di scontri animaleschi, brutali e feroci, che tutta la tragedia evoca. @ Con questa realtà aberrante, la barbarica terra senza lingua condivide uno statuto segnatamente inferiore rispetto sia ai parametri della normale fisiologia umana sia ai canoni del mondo civilizzato, caratterizzandosi come parte della terra abitata alla quale in modo radicale è negata tout court la possibilità di emettere suoni: una vera condanna al silenzio totale, una condizione esistenziale di assenza di voci, una esclusione senza deroghe dal processo di comunicazione, quindi dalle umane relazioni, un segno di discrimine totale e assoluto fra la terra barbara e quella greca. Ben diverso, nel contesto del dramma, è di conseguenza il loro rispettivo rapporto con l’eroe che le ha purificate: è la Grecia, non certo la terra “senza lingua”, a soπrire e piangere per la fine imminente del protagonista assoluto della vittoria della civiltà sulla barbarie, 2 ed è solo ai Greci che Eracle si rivolge, aspettandosi da loro il gesto pietoso di una morte che lo liberi dalle intollerabili soπerenze. 3 A livello poetico, nell’immagine sofoclea della a[glwsso~ gai`a, eccezionale nella sua straordinaria e√cacia rappresentativa, è riconoscibile la peculiarità di quel linguaggio estremamente vivido e concreto che spesso caratterizza il lessico, ricco di metafore ardite, riferibile al tema del silenzio e, in corrispondenza ad esso e in modo ancora più vistoso, alla rappresentazione delle voci e dell’ascolto di esse. Nella produzione poetica arcaica e in quella teatrale di età classica sono molti i luoghi che testimoniano rese figurative di situazioni concernenti una impossibilità o una incapacità o un divieto a parlare e una conseguente, forzata riduzione al silenzio: nell’epica, il silenzio che con rabbia i Proci si impongono di fronte alle inattese parole audaci di Telemaco (oiJ d ja[ra pavnte~ ojda;x ejn ceivle 

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@  Una condotta crudele, manifestazione di una potenza incontrollabile, segna il comportamento dello stesso Eracle, che a tradimento, in preda all’ira, getta Ifito, figlio di Eurito, dagli spalti di una torre (vv. 269-273), scaglia l’araldo Lica, prendendolo per la giuntura di un piede, contro uno scoglio battuto dalle acque (vv. 777-782) e, secondo l’incisiva rievocazione del coro nel primo stasimo (vv. 503-52@), combatte contro il fiume Acheloo, che aveva assunto forma di toro, e a lui contende il possesso di Deianira, in uno scontro frontale segnato dal frastuono di mani, armi, corna, e dalle grida di entrambi. L’eroe sottolinea il suo impegno fisico, che coinvolge petto, spalle e braccia, nelle lotte sostenute (vv. @046-@047; @089-@09@; @@02), ma diviene anche consapevole, in una fase avanzata della vicenda, del fatto che solo con la sua morte, da lui stesso organizzata e configurantesi come un sacrificio da compiersi sul monte Eta (v. @@9@ ss.), e dunque con il compimento dei vaticini, si realizzerà il passaggio a un livello più alto di civiltà (cfr. Paduano @982, p. 4@2 n. 67). Nella tradizione antica la morte di Eracle era strettamente connessa al tema della sua apoteosi, che non trova spazio in questa tragedia, ma è ricordata nel 2 Filottete (vv. 727-729; @4@3-@4@5; @4@8-@420).   Vv. @@@2-@@@3; cfr. 8@0-8@2. 3  Vv. @0@0-@0@7: un’attesa vana, che si risolve nell’accusa di ajdikiva verso i Greci da parte dell’eroe. Il motivo è riecheggiato nel rimprovero che Anfitrione, nell’Eracle di Euripide (vv. 2@7-2@8), rivolge a Tebe e alla Grecia, che si mostrano ingrate nei confronti del proprio benefattore.

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si fuvnte~) o un discorso inopportuno indegno di un eroe, che non dovrebbe neanche attraversare la bocca di un uomo (Il. @4, 9@, ... mu`qon, o}n ou[ ken ajnhvr ge dia; stovma pavmpan a[goito) 2; nel contesto dell’elegia arcaica, in Theogn. 8@5, l’espressione bou`~ moi ejpi; glwvssh/ kraterw/` podi; la;x ejpibaivnwn, appena variata sulla scena tragica in bou`~ ejpi; glwvssh/ mevga / bevbhken (Aesch. Ag. 36-37), 3 un’immagine-simbolo che la tradizione biografica antica definì siwph`~ ... dovgma, riconoscendole un valore filosofico-religioso e attribuendola a Pitagora; 4 “una chiave sulla lingua” è un altro simbolo del silenzio in un frammento di Eschilo (ajll je[sti kajmoi; klh/;~ ejpi; glwvssh/ fuvlax, 3@6 R.) 5 e in Soph. OC @05@-@053 (... cruvsea klh/;~ ejpi; glwvssa/ bevbake prospovlwn Eujmolpida`n), qui connesso ai sacri riti eleusini; 6 anche un sigillo si può imprimere sulla lingua, perché impedisca di pronunciare parole ineπabili: ajrrhvtwn ejpevwn glwvssh/ sfragi;~ ejpikeivsqw (AP @0, 42). 7 Il silenzio, quasi entità corporea, può infine essere percepito come un peso  

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@   Od. @, 38@; @8, 4@0; 20, 268. Tra i passi in cui gli eroi restano senza parole, in genere per la paura o lo stupore, particolarmente significativo è Od. 2, 239-24@, dove gli Itacesi vengono incitati da Mentore a contrastare i pretendenti, peraltro esigui di numero, abbandonando il loro remissivo atteggiamento silenzioso e sferrando un vero e proprio assalto verbale: ... oi|on a{pante~ / h|sq j a[new/, ajta;r ou[ ti kaqaptovmenoi ejpevessi / pauvrou~ mnhsth`ra~ kateruvkete polloi;

ejovnte~.

2   A queste espressioni epiche si dovrebbe aggiungere anche a[ptero~ mu`qo~ riferito a Penelope (Od. @7, 57) e ad Euriclea (Od. @9, 29; 2@, 386; 22, 398; cfr. Aesch. Ag. 276 a[ptero~ favti~) se si intendesse l’attributo come “parola senz’ali”, indicante la reazione silenziosa delle donne dinanzi alle inaspettate parole autoritarie di Telemaco, con un senso fortemente antitetico rispetto al più frequente e[pea pteroventa (così Latacz @968); ma, come è noto, si è imposta una diversa interpretazione di a[ptero~, basata sul valore intensivo di a-, che connota come “veloce” la parola di Telemaco (si rinvia a Russo in Russo-Privitera @99@, pp. @6@-@63, con bibliografia; cfr. Montiglio 2000, pp. 272-273). All’immagine del mu`qo~ a[ptero~ e pterovei~ è sottesa la metafora, assai frequente nella letteratura greca, della parola come freccia scagliata dall’arco, munita di piumette che ne facilitano il volo e che le permettono di colpire in modo più preciso il bersaglio, in questo caso le orecchie dell’ascoltatore (cfr. West in Heubeck-WestPrivitera @993, p. 208). 3   Le parole, pronunciate dalla sentinella, rendono e√cacemente esplicita l’asserzione precedente Ta; d ja[lla sigw` (v. 36). Cfr. anche Strattis, fr. 67 K.-A. bou`~ ejmbaivh mevga~ e Hesych. s.v. bou`~

ejpi; glwvssh/: paroimiva ejpi; toi`~ mh; dunamevnoi~ parrhsiavzesqai. 4  Philostr. Ap. 6, @@, 3: glw`ttavn te wJ~ prw`to~ ajnqrwvpwn suvnesce (scil. Puqagovra~), ‘bou`n ejp jauj- th/’` siwph`~ euJrw;n dovgma. Come è noto, il filosofo e i suoi discepoli esercitavano la meditazione

silenziosa, ritenendo il controllo della propria lingua la prova migliore della padronanza di se stessi (Iambl. Vit. Pyth. @7, 72; Philostr. Ap. @, @, 3; Stob. Flor. 4, 34, 7, p. 683, @3-@4 H.; AP @0, 46; @4, @; @6, 325-326). 5   Naber @88@, p. 84 attribuì il frammento ad Ag. 36-37, che egli leggeva klh/;~ ejpi; glwvssh/ fuvlax / bevbhken (cfr. supra). 6  Ad assicurare il silenzio nel contesto rituale erano gli Eumolpidi, sacerdoti di Demetra e Persefone ad Eleusi. Per l’antica origine mistica di queste formule, entrate poi nel linguaggio quotidiano, vd. Thomson @966, pp. @2-@3, che menziona attestazioni di analoghe espressioni, anch’esse di natura rituale, riguardanti il divieto non di parlare, ma di ascoltare, formulate in Orph. 245, @; 247, @ Kern (fqevgxomai oi|~ qevmi~ ejstiv, quvra~ d j ejpivqesqe bevbhloi; cfr. 334 Kern e il riuso del motivo in Plat. Symp. 2@8b, oiJ de; oijkevtai, kai; ei[ ti~ a[llo~ ejsti; bevbhlov~ te kai; a[groiko~, puvla~ pavnu megavla~ toi`~ wjsi;n ejpivqesqe). 7   Cfr. Plut. De Alex. fort. @, @@, 333a. Viceversa, polloi`~ ajnqrwvpwn glwvssh/ quvrai oujk ejpivkeintai / aJrmovdiai, come aπerma Teognide (v. 42@); si può essere, infatti, ajqurovglwsso~, come l’anonimo oratore che nell’Oreste di Euripide si alza a parlare in assemblea con tracotante e insensata libertà di linguaggio: ajnhvr ti~ ajqurovglwsso~, ijscivwn qravsei, /.../ qoruvbw/ te pivsuno~ kajmaqei` parrhsiva/

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opprimente, quando è eccessivo: kai; th`~ a[gan gavr ejstiv pou sigh`~ bavro~ dice il messaggero nell’Antigone sofoclea (v. @256) di fronte al silenzio di Euridice, che avendo appena appreso la notizia del suicidio del figlio Emone esce di scena per darsi a sua volta la morte. @  

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2. A proposito dei Cari e oltre: Strabone @4, 2, 28, 66@-663C Oltre all’elevata significazione poetica e figurativa, l’aglossos gaia sofoclea esibisce un valore antropologico di grande interesse, venendo a porsi come il grado estremo nella scala di rappresentazione della percezione, da parte greca, delle lingue ‘altre’, di una alterità condannata al silenzio: non è facile cogliere testimonianze di tono altrettanto categorico e di valore così incondizionato, ma se ne può registrare una significativa traccia, in una fase storica e letteraria molto più tarda, in un lungo e articolato passo di Strabone (@4, 2, 28, 66@-663C), di estremo interesse storico e linguistico, attinente al dibattito sviluppatosi intorno all’interpretazione del composto barbarophonos che nel ii libro dell’Iliade (v. 867) definisce i Cari, menzionati nel catalogo degli alleati dei Troiani. 2 Il geografo si chiede perché mai Omero, che pure conosceva tanti ethne barbari, avesse definito barbarophonoi i soli Cari e allo stesso tempo perché non avesse mai usato il semplice termine barbaroi. Sulla questione avevano già riflettuto, nel corso dei secoli, diversi autori che sulla base di motivazioni storiche, linguistiche e metriche, avevano avanzato proposte interpretative ora sottoposte da Strabone al vaglio della critica.  

Non era corretto, a suo parere, Tucidide (@, 3, 3), il quale, non citando l’unico passo omerico contenente la parola barbaros, aπermava che il poeta non aveva menzionato mai i barbari perché i Greci non erano ancora contraddistinti da un unico nome, Hellenes, che a quelli li contrapponesse; 3 non era corretto neanche il grammatico Apollodoro che alla  

(vv. 903-905; per l’ipotesi di un’allusione al demagogo Cleofonte cfr. schol. Or. 903-904, i pp. @86-@87 Schwartz e, fra i commentatori moderni, Di Benedetto @965, p. @79; contra Willink @986, p. 23@). Lo stesso senso negativo il termine assume in AP @6, @32 ta`~ ajquroglwvssou Tantalivdo~ Niovba~; espressioni equivalenti sono a[quron stovma in Simon. fr. 54@, 2 P. e ajquvrwton (R, ajpuvlw- ton VAMU) stovma in Ar. Ra. 838, che richiama, oltre al verso simonideo, il passo dell’Oreste. ÔAqurovstomo~ è appropriato attributo di Eco in Soph. Phil. @88-@90. Ancora più numerose le locuzioni che in modo altrettanto icastico descrivono invece la natura quasi corporea della parola: valga per tutte la nota immagine della cote sonora che Pindaro avverte sulla propria lingua, e che viene a√lata come il ferro sulla pietra dura, rendendo il poeta quasi smanioso di aπrontare nuovi temi encomiastici (Ol. 6, 82-84; per un puntuale commento dell’intero passo vd. Gentili et alii 20@3, pp. 466-467). @  La battuta del messaggero fa eco alle precedenti parole del corifeo (vv. @25@-@252, ... ejmoi; d j ou\n h{ t j a[gan sigh; baru; / dokei` prosei`nai chj mavthn pollh; bohv): anche lui aveva avvertito la

pesantezza di un silenzio eccessivo, che risulta vano come le grida di dolore. 2   Sul capitolo straboniano cfr. De Luna 2003, pp. 37-44. 3   Molto lentamente si sarebbe imposto come denominazione comune a tutti gli abitanti della Grecia il termine Hellenes, che era connesso con il mitico personaggio di Elleno, figlio di Deucalione e Pirra, e con una circoscritta area della Tessaglia meridionale: lo testimoniava, secondo Tucidide, proprio Omero, che indicava con Hellenes solo i seguaci di Achille, provenienti dalla Ftiotide. Strabone, perplesso nei riguardi dell’interpretazione tucididea, controbatte citando alcuni passi dell’Odissea in cui le espressioni kaq j ÔEllavda kai; mevson “Argo~ (@, 344 e @5, 80; cfr. 4, 726 e 8@6) e ajn j ÔEllavda kai; mevson “Argo~ (Od. @5, 80) gli sembrano invece alludere all’intero territorio greco. Di fatto, alcuni passi iliadici, come 2, 683-684 (cfr. Eust. ad 683, 320, 33 ss.; 684,

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ricerca di plausibili motivi dell’uso omerico di barbarophonoi in relazione ai Cari, aveva addotto ragioni di ordine storico (le relazioni ostili, soprattutto con gli Ioni, alimentate da continue campagne militari), @ metrico (barbarofwvnwn e non barbavrwn si adattava al verso esametrico) 2 e linguistico (la tracuvth~ caratterizzava l’idioma cario). 3  

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Dopo aver respinto e confutato le tesi di Tucidide e del grammatico Apollodoro, il geografo, superando la questione contingente dei Cari per il momento solo rinviata, dà l’avvio, con un categorico oi\mai dev, ad una serie di riflessioni generali sul significato di barbaros e soprattutto ad un denso resoconto della sua evoluzione semantica, che l’autore coglie diacronicamente, a partire dall’origine onomatopeica del termine, formatosi secondo la tendenza peculiare della lingua greca a dare il nome ai suoni tramite parole a loro a√ni acusticamente. 4 Questo il testo nelle sue parti salienti (Strab. @4, 2, 28, 662C):  

oi\mai dev, to; bavrbaron kat j ajrca;~ ejkpefwnh`sqai ou{tw kat j ojnomatopoiivan ejpi; tw`n dusekfov- rw~ kai; sklhrw`~ kai; tracevw~ lalouvntwn...eujfuevstatoi gavr ejsmen ta;~ fwna;~ tai`~ oJmoivai~ 32@, 7 ss.); 9, 395 e 447-448; @6, 595-596, confermano il senso restrittivo di ÔEllav~, che tuttavia si amplia nell’Odissea fino a indicare la zona settentrionale della Grecia, insieme al contestuale termine “Argo~, in origine designante la pianura argiva, poi esteso a tutta la regione del Peloponneso: cfr. Od. @, 344 (vd. West in Heubeck-West-Privitera @993, p. 233); 4, 726, 8@6; @5, 80. Una ricognizione dei possibili significati di “Argo~, ÔEllav~ e ”Ellhne~ nell’epica omerica è in Strab. 8, 6, 5-7; sul valore di questi termini in Omero vd. Gambarara @984, pp. 53-55. L’opinione di Tucidide circa il valore circoscritto di ÔEllav~ in Omero trova un parallelo in Apollodoro (FGrHist 244 F 200 ap. Strab. 8, 6, 5-6) e negli scolî ad Il. 2, 529-530, i p. 300, 40-4@ Erbse; 2, 684, i p. 324, @2-@3 Erbse. Relativamente al testo tucidideo, appariva problematico il fatto che lo storiografo sembrasse ignorare l’occorrenza di barbarophonos in Omero, che comunque presupponeva l’esistenza del semplice barbaros. L’antica scoliografia (schol. Thuc. @, 3, p. 6, @3-@4 Hude: oujde; barbavrou~ ei[rhke: to; ga;r barbarofwvnwn Karw`n nenovqeutai) non può far altro che porre una forte ipoteca sull’autenticità del verso omerico, presupponendo una sua aggiunta in fase post-tucididea; in linea con lo scolio è Hall @989, p. 9 (ma vd. contra Hornblower @99@, p. @7); secondo Lévy @984, p. 6 sarebbe solo apparente l’incongruenza fra il testo epico e quello tucidideo, poiché il primo elemento del composto, avendo funzione aggettivale come in altri composti omerici in -fwno~ (ajgriovfwno~, Od. 8, 294; liguvfwno~, Il. @9, 350; calkeovfwno~, Il. 5, 785; fa eccezione hjerovfwno~, Il. @8, 505), non presuppone necessariamente l’esistenza di un sostantivo barbaroi nel senso di ‘barbari’ contrapposti a ‘Elleni’, documentato nel v sec. @

  Gli Ioni avrebbero usato in modo peculiare e ingiurioso (ijdivw~ kai; loidovrw~) nei confronti dei Cari la parola barbarophonoi come un esatto sinonimo di barbaroi (Strab. @4, 2, 28, 66@C). 2   Il geografo dimostra la debolezza della tesi metrica di Apollodoro, citando versi omerici da cui risulta evidente che il poeta avrebbe potuto usare, se non il genitivo barbavrwn che non si adattava al ritmo esametrico, almeno il nominativo bavrbaroi metricamente equivalente a Davrdanoi (cfr. Il. @@, 286) oppure a Trwvi>oi (cfr. Il. 5, 222). 3   Per quanto riguarda la presunta tracuvth~ di cui parlava Apollodoro, Strabone ricorda che all’idioma cario erano mescolate molte parole greche, come risultava dall’opera Karikav di Filippo (Strab. @4, 2, 28, 662C). Parlare la lingua caria equivaleva in pratica ad essere ritenuti barbari, tanto che karivzw significava “parlare barbaro” (Strab. @4, 2 28, 663C); cfr. Hesych. s.v. karbaniv- zei: karikw`~ lalei` kai;; barbavrw~ (ii p. 4@2, 80 Latte; cfr. le voci karbanivzonte~; kavrbanoi kai; persai`oi, ii p. 4@2, 79 e 83 Latte; karikavzein, ii p. 4@4, @9 Latte); Et. M. 490, 47 s.v. Karba`ne~: oiJ bavrbaroi, oiJ e[conte~ Karo;~ bohvn. Lukovfrwn, ‘Kavrbanon: o[clon’ (v. 605). Per il valore di kavrbano~ corrispondente genericamente a bavrbaro~ cfr. Aesch. Suppl. @@8, @29; Ag. @06@; Lycophr. @387. 4   Eujfuevstatoi gavr ejsmen ta;~ fwna;~ tai`~ oJmoivai~ fwnai`~ katonomavzein dia; to; oJmogenev~ (Strab. @4, 2, 28, 662C). Phone non ha qui solo il valore di “voce”, ma un significato più ampio, che comprende i suoni emessi da esseri animati e inanimati, come si evince dai termini menzionati a scopo esemplificativo: kelaruvzein, klagghv, yovfo~, bohv, krovto~.

aglossos gaia: il silenzio dei barbari

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fwnai`~ katonomavzein dia; to; oJmogenev~ ... pavntwn dh; tw`n pacustomouvntwn ou{tw~ barbavrwn legomevnwn, ejfavnh ta; tw`n ajlloeqnw`n stovmata toiau`ta, levgw de; ta; tw`n mh; ÔEllhvnwn. ejkeiv- nou~ ou\n ijdivw~ ejkavlesan barbavrou~, ejn ajrcai`~ me;n kata; to; loivdoron, wJ~ a]n pacustovmou~ h] tracustovmou~, ei\ta katecrhsavmeqa wJ~ ejqnikw`/ koinw`/ ojnovmati, ajntidiairou`nte~ pro;~ tou;~ ”Ellhna~. kai; ga;r dh; th/` pollh`/ sunhqeiva/ kai; ejpiplokh/` tw`n barbavrwn oujkevti ejfaivneto kata; pacustomivan kai; ajfuiv>an tina; tw`n fwnhthrivwn ojrgavnwn tou`to sumbai`non, ajlla; kata; ta;~ tw`n dialevktwn ijdiovthta~.

All’inizio bavrbaro~ denotava tutti i popoli non greci come “coloro che avevano di√coltà di pronuncia ed emettevano suoni duri ed aspri” (ejpi; tw`n dusekfovrw~ kai; sklhrw`~ kai; tracevw~ lalouvntwn); @ essi venivano così ad essere scherniti (kata; to; loivdoron) per la pacustomiva e la tracustomiva che l’orecchio greco coglieva nei suoni da loro prodotti. Attraverso una fase successiva (ei\ta), in cui si registrava un uso altrettanto generalizzato, ma improprio, del termine, impiegato come una denominazione etnica indicante tutte le stirpi non greche contrapposte agli Hellenes, si arrivava alla scoperta, conseguente alla ininterrotta frequentazione greca con i barbari ed espressione di un’ottica relativistica, che le presunte di√coltà articolatorie dei non Greci erano dovute alle specificità dei loro idiomi (kata; ta;~ tw`n dialevktwn ijdiovthta~), non ad una presunta pacustomiva, né ad una ajfui?a tw`n fwnhthrivwn ojrgavnwn dei parlanti: 2 termini che non possono non evocare l’aglossos gaia sofoclea, per la concretezza della rappresentazione, la categoricità dell’assunto e l’atteggiamento mentale nei confronti di questo specifico aspetto del mondo barbaro. Tra le varie espressioni riferite, nel passo straboniano, al modo di parlare dei non Greci, la più esplicita è ajfui?a tw`n fwnhthrivwn ojrgavnwn, che stabilisce una connessione tra le di√coltà fonatorie ed una presunta inadeguatezza fisica: un rapporto di interdipendenza reciproca che a un livello più generale non era sfuggito, ovviamente, all’indagine medica ippocratica 3 e neppure alla riflessione propriamente filosofica, di Pitagora e Platone ad esempio, i quali ponevano in stretta relazione l’incapacità di parlare degli esseri viventi ritenuti privi di ragione e una condizione squilibrata del corpo. 4 Fra i singoli termini riferiti al linguaggio dei barbari nel passo di Strabone, sono particolarmente degni di attenzione pacuvstomo~, tracuvstomo~, sklhrov~, lalei`n. Il primo di essi trova qui la sua unica attestazione in riferimento alla voce e viene inteso nel senso di modo di parlare rauco che ostacola la chiarezza  

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  Strabone cita altri termini analoghi a bavrbaro~ per formazione onomatopeica e per significato: battarivzein (“tartagliare”), traulivzein (“esser bleso”), yellivzein (“balbettare”). 2   È proprio nell’ottica di questo nuovo atteggiamento verso i caratteri distintivi delle lingue che, secondo Strabone, i termini barbarivzein e barbarofwnei`n furono usati per indicare anche la pronuncia della lingua greca da parte dei Greci stessi, quando essi incorrevano in errori (distinti nelle due categorie della kakostomiva e della barbarostomiva) o quando si cimentavano nella pratica di lingue diverse dalla propria, analogamente a quanto avveniva agli stranieri quando parlavano in greco (Strab. @4, 2, 28, 662-663C). 3   Per le profonde connessioni tra una condizione di afonia e uno stato prossimo alla morte, indagate soprattutto in pazienti femminili, così come risultano nel corpus ippocratico, vd. Mon4 tiglio 2000, p. 228 ss.  Ps.-Plut. De plac. philos. 5, 20, 909a.

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dell’eloquio. Il suo valore letterale, altrove documentato, ci riconduce piuttosto a immagini dell’esperienza sensibile, come quella di una bocca o di un’imboccatura grande che caratterizzava alcuni oggetti, quali il kwvqwn spartano dal tipico orlo pronunciato (Henioch. fr. @ K.-A.) o l’ostrica a due valve (Arist. fr. 304 Rose). Relativamente a pacuv~, dal trattato De audibilibus (804a 9-22), di provenienza peripatetica e incentrato sui meccanismi di produzione e ricezione dei suoni, 2 si apprende che le voci pacei`ai (quelle degli adolescenti nella fase della muta della voce, di coloro che hanno la gola irritata e di quelli che hanno vomitato) erano avvertite come “spesse”, “pesanti”, “dense” e ritenute il risultato di una aπezione, anche transitoria, a livello del sistema fonatorio, consistente nella ruvidezza della trachea, che impediva una fuoriscita agevole del pneu`ma causando un aumento di volume della voce. 3 Oltre che dal De audibilibus, anche dal De voce, che costituisce la sezione xi dei Problemata pseudo-aristotelici, quindi da una trattatistica di tipo specialistico che aπrontava problematiche di acustica, di fonetica, di musica, 4 si desumono indicazioni sulla percezione del suono “aspro”, tracuv~, riconosciuto come caratteristico della voce dell’adolescente nella fase della pubertà, non più acuta e non ancora grave, di altezza oscillante, con eπetto disarmonico, come ogni suono generato da organi fonatori resi ruvidi da una anomala condizione fisica. 5 La produzione  

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@   Pacuvstomoi sono coloro che pronunciano le parole “thickly” e pacustomiva è “a thick pronunciation” in Jones @970, p. 305. 2  Il trattato comprende anche la descrizione degli organi fonatori e del loro meccanismo di funzionamento e una classificazione dei diversi tipi di suoni prodotti dalle voci umane e, per analogia, dagli strumenti musicali. Sui caratteri generali dell’opera, sul suo inquadramento nell’ambito delle ricerche condotte nel Peripato postaristotelico, sui criteri che ne regolano l’impostazione e l’argomentazione e sui principi applicati all’osservazione dei fenomeni e all’indagine empirica si rinvia a Ferrini 2008, p. @6@ ss. 3  Il pneu`ma urta contro le asperità della trachea e torna indietro; per pacuv~ riferito a coloro ai quali un’irritazione alla gola causava un’alterazione fonatoria, cfr. Ps.-Arist. De voce 22, 90@a 35-b @5. 4  Il De voce propone in forma erotematica l’analisi di vari aspetti della voce umana, in particolare le sue caratteristiche di acutezza e gravità in rapporto ai soggetti, alle loro condizioni, al tempo, nell’ambito di una più generale discussione dei problemi acustici. La trattazione, nonostante il suo carattere asistematico, oπre motivi di valido interesse per gli specialisti della materia. 5   Tracei`a è anche la voce di chi ha trascorso una notte insonne e di chi ha il mal di gola (De voce @@, 900a @0-@5; 22, 90@b 5-@3); tra le cause che determinano questo tipo di fwnhv è indicata anche una condizione di età avanzata, oltre ad un’alterazione del condotto respiratorio (De audibil. 802a 2-5). A determinare tale sonorità è l’impatto del fiato non una sola volta, ma ripetutamente, sulla massa d’aria che raggiunge l’orecchio in modo irregolare (De audibil. 803b 2-9). La voce che vira verso il tracuvteron e l’ajnwmalevsteron manca di uniformità ed è simile al suono prodotto da corde di strumenti musicali allentate e dissonanti, come precisa Arist. Hist. an. 7, @, 58@a @7-2@, che in De gen. an. 5, 7, 788a 22-28 individua la causa della voce roca (tracei`a), di quella dolce (lei`a) e di qualsivoglia anomalia, nella qualità dell’organo adibito all’emissione della voce stessa, che può essere ruvido o liscio. Ruvidezza e umidità producono una voce discontinua e segnalano una situazione patologica: in Ippocrate una lingua rugosa (tracei`a) e bianca è il sintomo di uno stato febbrile (De morb. 2, 63, vii p. 96 Littré) o di una infiammazione polmonare (Progn. ii 20, 394, v p. 670 Littré). La produzione e l’emissione della voce è considerata come un processo meccanico regolato da leggi fisiche, che genera suoni descritti come oggetti, con termini che pertengono alla sfera delle percezioni tattili e visive, oltre che di quelle uditive (cfr. De audibil. 803b 29-30).

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delle voci tracei`ai si distingueva per la mancanza di fluidità nell’articolazione dovuta a una incapacità di collegare i suoni, e per la conseguente percezione dell’interruzione del continuum fonico. @ Imperfezioni anatomiche o aπezioni transitorie privavano le fwnaiv di bambini, ubriachi, vecchi, balbuzienti – in generale di tutti coloro che avevano di√coltà a muovere lingua e bocca in modo corretto – della qualità che rendeva le voci intelligibili, cioè la safhvneia, determinata dalla precisione (ajkrivbeia) con cui venivano emessi i suoni che dovevano essere distintamente articolati (televw~ dihrqrwmevnoi) per essere correttamente percepiti. 2 In particolare, i balbuzienti, non avendo la padronanza della propria lingua, erano a∫itti da una sorta di discrasia tra il movimento articolatorio e l’attività intellettiva. 3 E balbuzienti per eccellenza, come indicava il termine onomatopeico che li connotava collettivamente, erano considerati i bavrbaroi: 4 pur non citati espressamente nel passo del De audibilibus, essi condividono con le altre categorie menzionate l’inintelligibilità delle proprie voci, qui riferita al livello dell’articolazione e della fonazione dei suoni, ma con intuibili inferenze anche sul piano della loro semanticità. Sklhrov~, antitetico a malakov~ e indicante vigore, intensità e durezza, 5 è termine privilegiato, in sede poetica, nella descrizione del rombo del tuono, della sua  

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@  La discontinuità delle voci tracei`ai dipende dal fatto che esse sono smembrate in piccole parti, diversamente da altri tipi di voci, come le saqraiv, che sono continue all’inizio e poi si suddividono in maniera ancora più accentuata: De audibil. 804a 32-33; 804b 4-8; cfr. 804b @@-2@; vd. Ferrini 2008, p. 284. Nel De voce si indicano specifiche situazioni in cui una phone risulta spezzata all’ascolto: dopo i pasti (@2, 900a @6-@9), quando i coreuti si esibiscono in un’orchestra con il pavimento coperto di paglia (25, 90@b 30-35), quando si è ubriachi (46, 904b @-6). 2   De audibil. 80@b @-22. Per i bambini cfr. De audibil. 803b @9 s.; Arist. Hist. an. 4, 9, 536b 5-8; De voce 27, 902a 5-35; 30, 902b @9-22; per gli ubriachi cfr. De audibil. 80@a @6; De voce 30, 902b 2829; 38, 903b 24-26; 46, 904b @-6; per i vecchi cfr. De voce 62, 906a 3-20; per i balbuzienti cfr. De audibil. 804b 26-37; De voce 30, 902b @6-29; 35-36, 903a 38-b@2; 38, 903b @9-26; 54-55, 905a @6-23; 60, 905b 29-37. La mancanza della safhvneia viene illustrata attraverso l’analogia con una pratica artigianale: come i suoni, se non adeguatamente articolati, non risultano chiari, allo stesso modo non si possono ben distinguere i segni apposti sui sigilli degli anelli, se essi non siano stati modellati con precisione (o{tan mh; diatupwqw`sin ajkribw`~: De audibil. 80@b 5). I termini diarqrovw e diavrqrwsi~, qui denotanti un’articolazione ben accordata dei suoni, rappresentano un utilizzo metaforico del vocabolo a[rqron, originariamente pertinente alla sfera della fisiologia umana e indicante i punti di articolazione di varie parti del corpo (cfr. ex. gr. Hdt. 3, @29; Soph. OT @270; Eur. El. 84@-842; vd. Laspia @997, p. 2@ ss.). Alla qualità della safhvneia si aggiunge quella della lamprovth~, che riguarda una chiara percezione dei suoni ben articolati (De audibil. 80@b 22-3@; cfr. Ferrini 2008, p. 254). 3   La loro lingua, come quella di coloro che biascicano (yelloiv) e di quanti hanno una pronuncia blesa (trauloiv), non è capace di obbedire al pensiero: a{panta de; di jajdunamivan: th/` ga;r dianoiva/ oujk uJphretei` hJ glw`tta (De voce 30, 902b 27-28). 4   Riguardo alle diverse opinioni moderne sull’etimologia della parola, vd. Chantraine @968-80, pp. @64-@65; Tichy @983, pp. 272-274; Lévy @984, pp. 7-9; Baslez @984, pp. @84-@85; Cataldi in Nenci-Cataldi @983, p. 588 n. @; Van Windekens @986, pp. 37-38. 5   De audibil. 803b 29; Dion. Hal. De comp. verb. 6, @2, 3. Malakov~ contraddistingue ciò che sul piano tattile è delicato e morbido e dal punto di vista acustico indica un suono privo di tensione; sklhrov~, etimologicamente connesso a skevllomai, racchiude in sé la duplice nozione di secchezza e durezza (cfr. Chantraine @968-80, pp. @0@2-@0@3). Nel De audibilibus la classificazione e la trattazione dei termini relativi ai suoni procede per coppie di opposti: ajraiov~ - puknov~, malakov~ - sklhrov~, leptov~ - pacuv~ (803b 28-29; cfr. 803a 5-8).

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sonorità cupa e roca, profonda e remota, fonte di forti vibrazioni. @ Nel De audibilibus (802b 29-803a 5), il suono “duro” è messo in relazione con movimenti improvvisi e irruenti: provenendo da oggetti metallici, di ferro e di bronzo, sfregati o battuti l’uno contro l’altro, esso si propaga nell’aria in maniera violenta (meta; pleivsth~ ... biva~, biaivw~) e in maniera violenta giunge all’orecchio procurando all’ascoltatore un senso di fastidio, quasi di soπerenza (povno~). 2 Infine, lalei`n è usato nel suo senso originario di “balbettare”, 3 emettere suoni in maniera confusa e indistinta: un valore che lo rende particolarmente adatto ad essere impiegato in riferimento al linguaggio inarticolato degli animali, in primo luogo ai suoni prodotti da insetti ed uccelli 4 e fra questi, in particolare, le rondini, le cui voci erano percepite come suoni disarticolati e confusi, sgradevoli a udirsi, secondo quanto rileva la tradizione antica in vari contesti letterari. 5 Evidente 

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@   Cfr. Hes. Theog. 839-843, dove sklhrovn e o[brimon esprimono la violenza improvvisa del tuono che trasmette le vibrazioni ai corpi circostanti e fa sì che la terra, investita dalle onde sonore, gema, e che l’Olimpo oscilli. L’espressione sklhrai; brontaiv ricorre due volte, con inversione chiastica degli elementi, in Hdt. 8, @2, dove una pioggia incessante, annunciata da tuoni fragorosi e improvvisi, coglie di sorpresa, di notte, le navi greche nei pressi dell’Artemisio; in un frammento lirico adespoto (929c P.) l’espressione ejpevbreme bavrbara bronta`,/ dal forte valore allitterante e onomatopeico, descrive il rumore del tuono prodotto da Zeus. 2   È l’energia impressa all’aria che esce dai polmoni ad influire sulla produzione umana di questo tipo di sonorità (803a 9-@3). Suoni duri sono provocati, oltre che da tuoni e acque di particolare forza e impetuosità, anche da oggetti come casse aperte con violenza, cardini che ruotano, incudini quando su di esse si batta il ferro indurito e raπreddato, lime quando si adoperino su strumenti di ferro e su seghe. 3   Il verbo, costruito sulla iterazione del fonema / l /, trova riscontri con forme analoghe attestate in altre lingue, di significato ugualmente espressivo, come il latino lallo, il lituano lalúoti, il russo lála (cfr. Boisacq @938, p. 553; Chantraine @968-80, pp. 6@5-6@6; Frisk @970, pp. 76-77). 4   Il verbo definisce il verso della rondine e dell’usignolo (Philem. fr. @54 K.-A.; Mosch. 3, 4546), il frinire delle cicale (Theocr. 7, @39), lo stridere delle cavallette (Theocr. 5, 34; cfr. Hdt. 2, 54-57; 4, @83, 4; Plut. Cim. @8, 2-3 per l’attribuzione di una natura animalesca a quanti parlavano una lingua diversa dalla greca). Nella sua storia semantica, prima di perdere l’originaria espressività divenendo a tutti gli eπetti un sinonimo di levgein (vd. Fournier @946, pp. 4-@3), lalevw, applicato alla sfera umana nel senso di “cianciare”, “parlare in modo vano”, connota una riprovevole consuetudine alla verbosità vuota, contrapposta ad un uso e√cace della parola, espresso dai verbi levgein e ajpokrivnein, come, ex. gr., in Eupol. fr. @@6 K.-A., lalei`n a[risto~, ajdunatwvtato~ levgein, e in Plat. Euthyd. 287 d, lalei`~ ... ajmelhvsa~ ajpokrivnasqai, dove il verbo denota non più la qualità acustico-percettiva del messaggio verbale, inteso negativamente come risultato di un balbettamento, ma l’intrinseca inadeguatezza retorica del messaggio (un’analoga contrapposizione dei verbi lalei`n e levgein è in Anecd. Gr. pp. 3-4 Bekker: lalei`n tou` levgein diafevrei. to; me;n ejpi; tou` fluarei`n, to; de; levgein ejpi; tou` iJkanou` levgein). 5  Cfr. ex. gr. Eustazio, ad Hom. Od. 2@, 4@@, @9@4, 29 ss., il quale osserva che l’analogia, stabilita nel passo epico commentato, tra il sibilo della corda dell’arco fatta vibrare da Odisseo e la voce della rondine, è basata sulla qualità simile dei due suoni, ambedue lievemente aspri: hJ oJmoivwsi~ ... movnon pro;~ poiovthta fwnh`~ hjcouvsh~ uJpovtracu; il commentatore aggiunge inoltre che la fwnhv della rondine equivale a un balbettamento (battarismov~) e, per il suo strepito confuso, al linguaggio della famosa donna tracia del mito, Filomela, resa muta in seguito al taglio della lingua ad opera del cognato Tereo e poi trasformata in rondine dagli dèi; cfr. Arr. An. @, 25, 6-8. Una rassegna delle testimonianze letterarie antiche sulla voce delle rondini è in Thompson @936, pp. 320-32@. Per la sensibilità comune ha valore onomatopeico anche trivzein, attribuito a uccelli e altri animali che squittiscono, alle anime dei defunti incapaci di articolare le voci, ai Trogloditi etiopi che stridono in modo confuso (vd. Bettini @986, p. 229 ss.). Esempi di paragoni tra il linguaggio barbaro e quello animale nelle culture antiche dell’Asia anteriore sono in Liverani @980, p. @6 ss.

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mente per queste sue caratteristiche acustiche, la voce delle rondini era facilmente assimilata al linguaggio barbaro: l’una e l’altro dovevano suscitare all’orecchio greco la medesima impressione acustica di una incapacità articolatoria causata dall’emissione di suoni sconnessi. È quanto viene esplicitamente dichiarato, ad esempio, da Esichio, s.v. celidovno~ divkhn tou;~ barbavrou~ celidovsin ajpeikavzousi dia; th;n ajsuvnqeton laliavn (iv p. 280, 25-26 Schmidt), @ e quanto è e√cacemente testimoniato dall’uso del motivo, divenuto topico, adottato sulla scena teatrale, dove viene elaborato coerentemente con la caratterizzazione di alcuni personaggi. Nell’Agamennone di Eschilo (vv. @050-@05@) Clitemnestra ritiene che Cassandra, che non ha ancora proferito parola, parlerebbe un ignoto linguaggio barbaro celidovno~ divkhn; 2 il Triballo, rappresentante degli dèi barbari negli Uccelli di Aristofane (v. @68@), parla in modo così confuso e incomprensibile per una divinità greca da provocare la reazione di Posidone: babavzei g j w{sper aiJ celidovne~; 3 nelle Rane (vv. 679-682), una rondine freme sulle labbra del demagogo Cleofonte, denunciandone l’origine bastarda da madre tracia, secondo uno dei motivi privilegiati dall’invettiva politica. 4 Non alle rondini ma alle colombe si riferisce un noto passo di Erodoto inserito nel logos egiziano relativo all’origine dell’oracolo di Zeus Ammone in Libia e di Zeus dodoneo in Epiro (2, 54-57): secondo la spiegazione razionalistica fornita dallo storico, la donna consacrata a Zeus tebano, rapita da pirati fenici e portata in Epiro, dove ella fondò un santuario, sarebbe stata chiamata peleiav~ dagli abitanti del luogo perché era barbara e sembrava che emettesse voci simili a quelli delle colombe finché, avendo appreso la lingua greca, parve loro parlare con voce umana. 5 Si coglie, in questi pochi richiami alla rappresentazione topica del linguaggio barbaro, una disposizione ad attribuire al non greco una prossimità al mondo animale ed una pertinenza ad un fisiologico status anomalo e patologico, che nella  

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  Da notare l’impiego del termine laliav, corradicale di lalei`n; Eschilo, inoltre, come ricorda lo scolio al v. 6@ degli Uccelli, aveva impiegato il verbo celidonivzein nel senso di barbarivzein (fr. 450 Radt) e Ione nell’Onfale aveva chiamato i barbari celidovna~ (fr. 33 Snell). 2   Vd. Fraenkel @950, ii p. 477 n. 2, che a proposito dei versi eschilei reperisce un interessante confronto con l’atteggiamento derisorio dei Turchi verso la lingua dei Curdi, paragonata al cinguettare di uccelli. 3   Babavzei è un emendamento proposto da Bentley, generalmente accolto dagli editori al posto di badivzei trasmesso dai codici, il cui senso anche lo scoliasta (ad loc.) giudica incongruente; la congettura è avvalorata dalla glossa di Esichio Babavzw: to; mh; dihrqrwmevna levgw. 4   Sulla rovinosa loquacità del politico semibarbaro cfr. Schol. ad 679; Aeschin. De falsa leg. 76; Diod. @3, 53. 5   Si rinvia a Fileni 2006 per alcune osservazioni sul valore dei termini fqevggomai e aujdavw usati da Erodoto in riferimento al linguaggio della donna straniera prima e dopo l’apprendimento della lingua greca. Sono ancora donne, siracusane di origine, Gorgò e Prassinoa, nell’Id. @5 di Teocrito (vv. 87-89), ad essere paragonate ad uccelli, precisamente a tortore (trugovne~), per il loro ciarlare continuo e la loro pronuncia sguaiata, intollerabili per l’uomo che le zittisce, mentre partecipa come loro alla festa in onore di Adone ad Alessandria. Il topos non si applica in questo caso in riferimento ad un idioma barbaro, ma consegue un esito analogo, esprimendo in modo e√cace il senso dell’estraneità e del fastidio con cui è percepito il dialetto dorico in un contesto di dominio della koine. Poco importa – poiché questo pertiene al livello della convenzione poetica – che il personaggio che rimbrotta le due donne si esprima anche lui in dialetto dorico, nel quale è composto l’intero Idillio.

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riflessione aristotelica rimarca appunto la condizione fortemente deviata del barbaro rispetto all’ideale greco (biologico, etico, politico) della mesotes: nell’Etica a Nicomaco (7, @, @@45a 30 ss.) si aπerma che la bestialità, rara tra gli uomini come la natura eroica e divina, è riscontrabile soprattutto tra i barbari e può insorgere sia a causa di malattie sia a causa di malformazioni. @  

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3. Silenzio vs rumori, suoni, parole inadeguate I versi delle Trachinie e il brano della Geografia, fatte salve le peculiarità dovute alla distanza temporale che li divide e alla rispettiva appartenenza a generi letterari diversi, forniscono una rappresentazione negativa del linguaggio dei barbari: assoluta e radicale nel contesto mitico del passo sofocleo, inquadrata in una dimensione storicistica, dove è possibile cogliere anche successivi sviluppi positivi, nel luogo straboniano. Altrettanto evidente è che se nel primo caso l’aglossos gaia non può non implicare l’idea del silenzio che pervade la parte ‘altra’ del mondo, nel secondo un’anomalia fisica degli organi fonatori dei barbari, alla quale si fa riferimento in modo esplicito, non esclude completamente l’emissione di suoni e sembra dunque non comportare di necessità il silenzio; ma sulla qualità di questi suoni occorre riflettere attentamente. I termini usati da Strabone per definirli sono, come si è visto, gli stessi che la tradizione attribuiva agli yovfoi del mondo inanimato e degli agenti atmosferici, alle fwnaiv del mondo animale, alle voci umane rese non intelligibili dalla perdita dell’integrità fisica degli organi coinvolti nella fonazione. Sul valore di rumori, suoni, voci e sul loro reciproco rapporto discute con rigore scientifico Aristotele, che nei suoi trattati sulla biologia del linguaggio animale e di quello umano ne illustra le diverse specificità e funzioni che vanno a incardinarsi in una sorta di scala di misurazione della forza comunicativa degli atti linguistici. Per quanto a tutti gli uccelli, comprese le rondini, fosse riconosciuta un’abilità linguistica innata di produrre, come tutti gli esseri viventi, la fwnhv – un suono realizzato per mezzo dell’apparato respiratorio, prodotto sulla base di una precisa rappresentazione mentale e dotato di capacità rappresentativa e di naturale valore semantico – 2 ad essi era preclusa sia la diavlekto~, esclusiva dell’uomo, solo lui dotato delle caratteristiche fisiologiche necessarie per una corretta ed e√cace articolazione (diavrqrwsi~) della voce, 3 sia  



@  ... oJ qhriwvdh~ ejn toi`~ ajnqrwvpoi~ spavnio~: mavlista d j ejn toi`~ barbavroi~ ejstivn, givnetai d j e[nia kai; dia; novsou~ kai; phrwvsei~. Cfr. 7, 5, @@49a 5 ss. Sul possesso del linguaggio articolato come elemen-

to distintivo dell’essere umano in confronto agli animali vd. Bettini @986, pp. 229-23@. 2  Arist. De interpr. @6a 20-34. La voce è un tipo particolare di suono, proprio di tutti quegli animali in grado di assumere l’aria per mezzo della respirazione e provvisti degli organi della fonazione, che permettono non solo la conservazione della vita ma anche, attraverso l’articolazione dei suoni e la capacità di espressione (eJrmhneiva), il benessere della specie (De an. 2, 8, 420b @3-22). Alla significatività della voce umana concorrono adeguate condizioni fisiche e l’attività produttiva delle immagini (fantasiva, De an. 2, 8, 420b 29-33). 3   Essenziale, il possesso di una lingua sciolta, morbida e piatta (De part. an. 2, 660, @7-@8; cfr. Hist. an. 4, 8, 535b @-3), necessaria per la produzione della diavlekto~, definita come hJ th`~ fwnh`~ ... th`/ glwvtth/ diavrqrwsi~ (Hist. an. 4, 8, 535a 30-3@) e distinta da fwnhv e yovfo~ (Hist. an. 4, 8, 535a 28-29). Sulle opere antiche che trattano da vari punti di vista (medico, filosofico, retorico, grammaticale) i problemi connessi con la produzione della voce, comprese le patologie, vd. De Martino @995, p. @9 s. e n. 4.

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il lovgo~, il discorso nella sua più elevata e completa realizzazione, resa possibile da requisiti fondamentali, quali la capacità di astrazione, l’attività concettuale e la possibilità di utilizzare gli ojnovmata nel loro valore simbolico, stabilito sulla base di una convenzione. @ Da questo livello della comunicazione, che contraddistingue l’uomo, è totalmente escluso il linguaggio degli animali e quello, ad esso fortemente correlato nel pensiero greco, dei barbari: piuttosto un non-linguaggio, che produce eπetti nulli sul piano comunicazionale e che può essere considerato dunque alla stregua del silenzio, soprattutto se teniamo presente una peculiarità della percezione greca di esso. Mi richiamo, a questo proposito, a quanto aπerma Silvia Montiglio in diversi punti del suo libro Silence in the Land of Logos: 2 una riflessione, basata sullo studio dei testi, che condivido in pieno come assunto generale e che ritengo particolarmente valida per la lettura del passo straboniano. Si riscontra, da parte greca, un’attitudine mentale a conformare al silenzio non solo l’assenza assoluta della parola, ma anche un discorso ine√cace e inadeguato: ne è una testimonianza, ad esempio, l’utilizzo, nella prassi poetica, del termine aglossos riferito alla impotente eloquenza di Aiace, che causa l’inevitabile oblio delle imprese e quindi la rovina dell’eroe, in Pind. Nem. 8, 24-25; 3 con significativa enfasi Omero, nell’introduzione al catalogo delle navi (Il. 2, 484-493; 76@-762), sottolinea che neanche dieci bocche e dieci lingue gli consentirebbero di tramandare il kleos degli eroi che parteciparono alla guerra di Troia, le loro genealogie e le loro imprese, se le Muse non gli ispirassero i contenuti del canto. Sul piano teorico, l’accezione di aglossos nei versi pindarici è confermata da un passo della Metafisica di Aristotele (5, @022b 34-36) in cui si precisa che l’alfa privativo, ad esempio in termini come a[nison, ajovraton o a[pou~, non indica solo la mancanza assoluta, ma anche quella parziale, di una certa qualità, il suo non pieno possesso. 4 L’ampiezza del campo semantico del silenzio corrisponde ad una rappresentazione articolata  

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@   Kata; sunqhvkhn: Arist. De interpr. @6a @9-34; cfr. De sensu @, 437a @3-@5. Aristotele distingue tra i suoni inarticolati, non composti da lettere, delle bestie, che pure “dimostrano” qualcosa, cioè sono dotati di valore semantico, e l’onoma dell’uomo, una fwnh; shmantikhv che acquista il valore di simbolo, attribuito alla parola sulla base di una convenzione. Le fwnaiv sono strettamente connesse con il mondo sensibile e derivano dalla aijsqhtikh; fantasiva, dalla capacità di rappresentazione determinata dalla sensazione: la semanticità è garantita da questo legame con il mondo sensibile. Il linguaggio umano, anch’esso caratterizzato dalla capacità di significazione, non è però solo fwnh; shmantikhv: esso assume valore in quanto attinge al livello simbolico attraverso le fantasivai logistikaiv, che sono generate dall’intelletto e si collocano accanto alle aijsqhtikai; fantasivai. Propria dell’uomo, della sua capacità di conversare (dialevgesqai), è la possibilità di astrazione, l’attività concettuale. A questo punto della teoria aristotelica non si parla più di diavlekto~, ma in modo più specifico di lovgo~, di discorso formato non da parole / suono, ma da parole / simbolo. La precisa distinzione, basata su criteri fisiologici e semantici, tra yovfo~, fwnhv, diavlekto~ è in Hist. an. 4, 9, 535a 27-28. Sull’analisi aristotelica del linguaggio umano e di quello animale cfr. Zirin @980; Labarrière @993; Sadun-Bordoni @994, pp. @7-37. 2 3   2000, pp. @2 s.; 83 ss.; 228.   Montiglio 2000, pp. 84-85. 4   Importanti riscontri in questo senso sono anche un frammento euripideo (56 Kn.), che testimonia per ajglwssiva il senso di “inabilità della lingua”, e Polluce (6, @45), che include a[glwtto~ nella serie di termini (come a[logo~, a[fwno~, ... ajmhvcano~) che indicano chi parla poco per una qualche ragione legata a condizioni di ajsqevneia. Rilevanti anche le indicazioni di Montiglio (2000, pp. @2-@4; 228 ss.) a proposito dell’uso degli avverbi sivgh/ e sivga nel senso di “a bassa voce” in particolare nella tragedia, e del termine ajfwniva indicante i diversi tipi di disturbi del linguaggio negli scritti ippocratici.

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di esso, che ne può comprendere gradi diversi, siano essi determinati da un’anomalia dell’apparato fonatorio o da una imperizia retorica. Più di quanto possa sembrare a prima vista, dunque, anche il passo di Strabone, come in termini più chiari fanno i versi delle Trachinie, evoca, per lo meno nella parte riguardante la fase più antica della lunga storia dei rapporti tra Greci e barbari, il momento in cui le voci degli uni sono incomprensibili per gli altri, di fatto, negli esiti a livello di comunicazione, equivalenti al silenzio. I passi finora citati testimoniano, in modo frammentato ma coerente, un modello di percezione delle lingue non greche, sotteso anche al comunissimo bavrbaro~, certamente non esclusivo del mondo greco: una ben conosciuta attitudine nei confronti dello straniero condivisa da popoli antichi e moderni, come risulta palese, ad esempio, nell’uso della parola “lö ;ëz”, che ha il valore di “che parla una incomprensibile lingua straniera”, ma può significare anche “balbuziente” e nella prospettiva ebraica definisce il popolo degli Egiziani nel Salmo @@4, @ del Vecchio Testamento (nella traduzione dei lxx: ∆En ejxovdw/ Israhl ejx Aijguvptou, / oi[kou Iakwb ejk laou` barbavrou); @ oppure, nel russo moderno, l’utilizzo del termine “nemec” indicante genericamente la persona straniera che parla in modo incomprensibile, ma riferito in particolare ai Tedeschi e significativamente corradicale della parola “nemoj”, equivalente a “muto”. 2 Dati senza dubbio interessanti da un punto di vista etnologico, che testimoniano, nel contesto dell’interazione tra popoli diversi, una tendenza generalizzata, una specie di stereotipo culturale, sicuramente documentabile anche attraverso altri esempi, a figurarsi l’‘altro’ come incapace di parlare, un’entità a cui, da una posizione di forza, si impone il silenzio: un fenomeno particolarmente vistoso nell’ambito dell’esperienza coloniale antica e moderna, di cui si ha una puntuale registrazione nelle parole scritte da Colombo dopo il primo incontro con gli indiani, il @2 ottobre @492: “A Nostro Signore piacendo, al momento della partenza io porterò sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così che possano imparare a parlare”. 3 È ovvio che tali dati relativi a un fenomeno diπuso, rilevabile in diverse civiltà di diπerenti periodi storici, esigono una valutazione che tenga conto dei rispettivi contesti storico-culturali perché se ne possa intendere appieno il senso peculiare  

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 Il termine ebraico, un participio maschile riferito a “popolo”, è un hapax. Anche in Deut. 28, 47-5@ una lingua incomprensibile, che rinvia al noto episodio biblico della Torre di Babele (Gen. @@, @-9), denota negativamente il popolo feroce che, slanciandosi in volo come un’aquila, senza riguardi e compassione per vecchi e fanciulli, distruggerà la terra di Israele, realizzando così una delle maledizioni lanciate da Dio su di essa. In una situazione rovesciata, prospettando la conversione dell’Egitto, Isaia così si esprime (@9, @8): “Quel giorno ci saranno in Egitto cinque città che parleranno la lingua di Canaan”. Devo queste indicazioni alla competenza e alla cortesia di Padre Samuele Salvatori. 2  Cfr. I. I. Sreznevskij, Slovar’ drevnerusskogo jazyka. Reprintnoe izdanie ii @, Moskva @989, pp. 486-487 per i due significati di “nemec” (@. persona che parla in modo poco chiaro, incomprensibile, in riferimento a qualsiasi popolo straniero; 2. nome dei popoli di stirpe germanica) e M. Fasmer, Ètimologic¬eskij slovar’ russkogo jazyka iii, Moskva @986, pp. 62-63, che fa derivare entrambe le parole dallo slavo antico “ne¬m”. Nel Vangelo di Ostromir (Ostromirovo evangele, la più antica traduzione del Vangelo che si conosca, della metà dell’xi sec.) la parola corrisponde al greco alalos. Ringrazio Giovanna Moracci per avermi fornito questi dati e le relative indicazioni 3 bibliografiche.   Cfr. Todorov @984, p. 36.

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ed eventualmente li si possa utilizzare come evidenziatori, essi stessi, di valori propri della cultura di riferimento. Che cosa significhi, nel mondo greco, essere denominati bavrbaroi, a[glwssoi, pensati come fisicamente non adeguati alla parola, comparati agli animali quanto a capacità comunicativa, insomma consegnati al silenzio, lo si valuta agevolmente calcolando la portata di un fenomeno, peculiare della cultura greca per le dimensioni assunte, che consiste nella assoluta rilevanza del lovgo~ in tutte le manifestazioni del pensiero e della vita, così come risulta ampiamente testimoniato nella letteratura. Si pensi solo alla figura dell’eroe epico che ambisce ad essere (e di fatto lo è) in pari misura “buon parlatore, e√cace nelle azioni” (muvqwn rJhthvr, prhkth;r e[rgwn, in Il. 9, 443), ai poeti continuamente impegnati ad illustrare in modo programmatico le peculiarità della propria parola, all’incessante uso pubblico e agonale di essa nei luoghi istituzionali dell’Atene classica (l’agorà, le assemblee, i tribunali), alla consapevolezza, maturata in quel contesto ed espressa in modo esemplare in alcuni passi della trattatistica retorica e filosofica, che il lovgo~, inteso nella sua doppia accezione di ‘parola’ e di ‘ragione’, ha permesso agli uomini di superare lo stadio della ferinità, di fondare città, stabilire leggi, inventare arti, di confutare i malvagi e lodare i buoni, di esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo, il giusto e l’ingiusto, di avere la percezione del bene e del male, valori fondanti della famiglia e dello stato. @ La rappresentazione del ‘diverso’ come di colui al quale non appartiene il linguaggio, viene relegata da Strabone a una fase antica, che il geografo descrive come superata nel corso della storia, attraverso l’acquisizione graduale e definitiva di una più matura e progredita conoscenza e consapevolezza delle dinamiche che regolavano i rapporti fra popoli diversi. Il passo, come alcuni secoli prima i versi delle Trachinie, costituisce la punta estrema della caratterizzazione linguistica negativa del barbaro condannato al silenzio, che a sua volta costituisce una parte rilevante nell’ambito più generale della rappresentazione greca dell’’altro’. Ma ad una considerazione più ampia del problema, la lettura straboniana appare un po’ riduttiva ed eccessivamente schematica di fronte ad una realtà culturale che si presenta, nelle sue attestazioni storiche, ben più complessa: nello stesso momento potevano infatti coesistere, oltre che succedersi cronologicamente, diversi modelli di percezione dello straniero, elaborati sul filo di un continuo compromesso fra teorie aprioristiche e dati dell’esperienza, fra il piano delle rappresentazioni e quello dei reali rapporti interetnici, fra un’ideologia etnocentrica e una prassi che comportava una gamma molto diversificata di relazioni e atteggiamenti, che non escludevano dimostrazioni di rispetto e di ammirazione verso culture e civiltà di alto livello dai Greci stessi riconosciute come fonti di apprendimento e di acquisizione in campi quali le scienze, la religione, le istituzioni politiche. 2 Fra tutti gli  

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@   Isocr. Paneg. 47-50; Nic. 6-7; Arist. Pol. @, @, @0-@@, @253a @0-@8. Nelle teorie sulla formazione dei processi culturali formulate nel v sec. si riconosce come fondamentale l’incidenza del linguaggio sullo sviluppo dell’umanità, con esclusione del mondo animale e di quello barbaro: cfr. Dierauer @977, p. 30 ss.; si veda inoltre Messina @990 riguardo alle vaste implicazioni semantiche del termine logos, indagate nelle fonti poetiche e filosofiche della cultura arcaica, che lo attestano come un archetipo dell’idea di ragione, ossia come uno dei più antichi traslati categoriali del pensiero occidentale (p. 388). 2   I Greci, come è noto, si riconoscevano debitori verso la civiltà egiziana per quanto riguarda-

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eventi storici che portarono la grecità a contatto con altri popoli, è l’esperienza coloniale dell’viii e vii secolo a dimostrare l’evidenza delle molteplici possibilità di declinazione, sul piano operativo, dei rapporti tra Greci e barbari che, se furono manifestamente segnati dalla conflittualità aperta e da conflitti cruenti, si volsero tuttavia anche a modalità articolate di acculturazione, che si realizzavano attraverso fenomeni di interazione, di ibridazione, di osmosi etnica, di convivenza. @ Per quanto attiene ai livelli della comunicazione linguistica, se il modello culturale e ideologico elaborato dai Greci prevedeva per i barbari un grado zero, di fatto coincidente con il silenzio, gli eventi concreti della storia imponevano invece, di necessità, che in certe situazioni si attuasse la comprensione linguistica, attraverso incontri e scambi, saltuari nel caso in cui Greci e barbari fossero coinvolti in attività commerciali, istituzionalizzati se a confrontarsi fossero organismi politici o eserciti impegnati in spedizioni militari. 2 È quanto ci è testimoniato, a partire da Erodoto, in numerose fonti, soprattutto storiografiche, alcune delle quali privilegiate, come l’Anabasi di Senofonte, che documentano il ruolo e le prestazioni degli eJrmhnei`~, la cui presenza viene esplicitamente rilevata in alcuni casi e, in molti altri, taciuta ma facilmente presupposta dal contesto: bilingui o poliglotti, essi svolgevano la loro preziosa opera di traduttori, interpreti e intermediari, e mantenevano i contatti fra alloglotti. 3 Le esigenze della vita reale costringevano insomma ad una qualche forma di comunicazione, talvolta con tanta urgenza da rendere necessario l’utilizzo di un codice che, esulando dai linguaggi verbali, attingesse a modalità espressive più semplici, di fatto universali, come la gestualità e la mimica del corpo, cioè a forme di un silenzio che, con espressione ossimorica, la stessa tradizione antica ha definito ‘eloquente’. 4 Esem 

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va la denominazione dei @2 dèi e per l’assegnazione a loro di altari, statue, templi, per l’origine del culto di Eracle, di alcuni riti in onore di Dioniso e dell’oracolo di Dodona, e verso il mondo fenicio per l’introduzione dell’alfabeto (cfr. Hdt. 2, 4, 2-3; 2, 43; 2, 49-58; 2, @09; 5, 58). @

  Cfr. Moggi @983, p. 989 ss.; @99@, p. 34 ss.; @992; Nenci-Cataldi @983; Gallo @983 e Giangiulio @983, che in relazione alle dinamiche di contatto tra Greci e popoli indigeni di Sicilia individua situazioni di ‘coesistenza agonistica’, di ‘integrazione egemonica’ e di ‘acculturazione antagonistica’. 2  Fra i lavori che dedicano attenzione alla comunicazione linguistica tra Greci e barbari si segnalano Mosley @97@; Rotolo @972; Moggi @99@; @992; @998; Coulet @996, pp. 2@0-2@4; Tripodi @998. 3  Cfr. Hdt. @, 86; 3, 38, 4; 3, @40, 3 sull’esistenza di una categoria di interpreti professionisti in Persia; un’analoga notazione riguarda l’Egitto (2, @64, @) e la Scizia (4, 24). La rubrica etnografica del linguaggio nell’opera erodotea rileva l’interesse, da parte dell’autore, per le diversità linguistiche dei popoli nelle sezioni descrittive, e invece una tendenza a ignorarle, a meno che il contesto le richieda, nelle sezioni narrative: vd. Dorati 2000, pp. 7@-75 e @45-@49. Per quanto riguarda Senofonte, nel suo resoconto della spedizione contro il re di Persia, egli dà rilievo alla figura e al ruolo degli interpreti che resero possibili le numerose situazioni di contatto linguistico fra i mercenari greci e le popolazioni straniere che abitavano i territori dell’impero persiano attraversati nel di√cile viaggio di ritorno (cfr. Tripodi @998). Per alcune considerazioni sulla valutazione del plurilinguismo da parte dei Greci e sulla figura dell’interprete vd. Moggi @998, pp. @05-@@2, il quale sottolinea la connotazione negativa che assume, agli occhi dei Greci, il divglwsso~, e, d’altra parte, la tendenza al bilinguismo caratteristica dei popoli barbari; cfr. Tripodi @998, p. @07 ss. sugli aspetti ideologici negativi della comunicazione interlinguistica secondo l’ottica greca. 4  Cfr. aujdhvessa siwphv, che in Nonn. Dion. @56-@57 guida le dita e lo sguardo del danzatore,

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pi di comunicazione gestuale fra individui appartenenti a popoli diversi sono di nuovo illustrati da Erodoto e Senofonte, @ oltre che da Luciano, il quale ne dà testimonianza nell’operetta De saltatione (63-64), in cui si dà rilievo all’espressività della ceironomiva, che caratterizza il genere teatrale del pantomimo. 2 Ancora, dunque, una situazione di ajglwssiva: non quella unilateralmente riconosciuta dai Greci ai barbari, costretti, nella dimensione mitica dal forte tenore ideologico, ad un silenzio punitivo e discriminante, ma quella condivisa nello spazio dell’esperienza quotidiana sia da Greci sia da barbari i quali, insieme, realizzano un tipo di comunicazione e di dialogo che trae la sua espressività e la sua significazione proprio dall’assenza di suoni e di voci, in alternativa ad essi: è esattamente la situazione prospettata da Socrate nell’opera platonica sui problemi del linguaggio, il Cratilo (422e), quando si verificasse che, non avendo né voce né lingua, volessimo ugualmente manifestarci l’un l’altro le cose.  

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  Hdt. 4, @@3; Xen. An. 4, 5, 33; cfr. Ach. Tat. 3, @0, 3; Heliod. @, 4, 2.   Si segnalano anche due passi, Ver. hist. 2, 44 e Jupp. Trag. @3, in cui l’autore ricrea situazioni fittizie, ma non lontane dal verisimile, di una comunicazione gestuale fra alloglotti. Sulla riconosciuta e√cacia del linguaggio gestuale come valido complemento della parola nell’arte oratoria cfr. Quint. @@, 3, 65 ss. 2

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Abstract Our aim is to show how in the image of the barbarian, of the ‘otherness’, the Greek culture has largely made use of the linguistic aspect, the voices, the sounds of the nonGreek world. The Greek attitude to link the barbarian language to the animal sphere and to recognize a sort of pathological state in it, is clearly present in meaningful passages from epic literature, drama works, historiography, Aristotelian and Aristotelian school treatises. It is a ‘non-language’ totally equivalent to utter silence due to its negative effects on communication and social relationships. In its most radical aspects the barbarian world is given the connotation of aglossia, i.e. absolute silence and extreme end between the Greek and barbarian distinction.

I L S I L E N Z I O C OM E ATTO RITUA LE: F R A C UL T I ‘CTONÎ’ E C E R I M ON I E MA GICHE * Ni c o l a Serafini La mezzanotte è da poco suonata in tutti gli orologi della città. Quale innaturale quiete. Questo silenzio non mi convince. U. Eco, Il pendolo di Foucault

L

a vita religiosa greca è sonora, musicale, ad alta voce. Tutto è scandito dai suoni, nella vita ordinaria ma anche a livello rituale: persino il più banale dei sacrifici è solitamente accompagnato da musica e canti, e, come è noto, anche la preghiera in Grecia di norma era innalzata ad alta voce. Basti pensare, per fare un esempio fra tanti, alle espressive parole di Elettra, la quale si domanda fra sé se sia lecito eseguire una libagione “in silenzio, disonorevolmente” (si`g∆ ajtivmw~, Aesch. Choe. 96): @ anche il più ordinario atto rituale, se eseguito in silenzio, può appare agli occhi antichi come insolito, se non addirittura illecito. In un simile contesto la dimensione riservata al silenzio sembrerebbe ridotta al minimo. Eppure, come si vedrà, non sono pochi i casi in cui nel corso di un rituale il silenzio interviene nel complesso meccanismo religioso, sino a divenire talvolta un atto rituale esso stesso. Che sia un semplice corollario o addirittura un elemento fondante della cerimonia, al silenzio ‘religioso’ nell’antica Grecia va riconosciuto un ruolo di primo piano, ben oltre quanto sia stato sinora ammesso: non mi riferisco qui solamente alle sue valenze metaforiche e antropologiche, del resto già chiarite da S. Montiglio, 2 bensì più propriamente al dato storicoreligioso della presenza in alcuni riti di vere e proprie forme di silenzio rituale, con uno sguardo attento, più in generale, alle molteplici forme che il silenzio può assumere nella sfera del sacro.  

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* Desidero ringraziare il Prof. Paolo Scarpi e l’amico Dott. Nicola Reggiani per la preziosa collaborazione, assieme ai partecipanti al convegno urbinate che hanno animato una discussione davvero utile e stimolante. Alla Prof. Paola Angeli Bernardini va la mia sincera gratitudine, e per l’invito e per le sue attente letture di queste (e tante altre) pagine. @  Cfr. Ar. Pax 433. Sia notato, per inciso, che se il silenzio non si addice a una libagione, ancora più inopportuno si rivela nella cornice del simposio: cfr. Plut. Quaest. conv. 6@3b-c; De cohib. ira 456e e infra, pp. 70-7@. 2   Montiglio 2000 (in part. cap. i, ‘Religious Silence without an Ineπable God’, pp. 9-45), da leggere assieme alla recensione di P. Scarpi, ‘Review of “Silence in the Land of Logos” by Silvia Montiglio’, Journ. Rel. 82, 2002, pp. @08-@09, il quale ha ben rilevato alcune caratteristiche problematiche del volume, perlomeno dal punto vista storico-religioso, come la sovrapposizione del concetto di segreto a quello di silenzio – anche a mio avviso da tenere ben distinti (cfr. infra, pp. 58-59, 66-67) – o l’impropria qualifica di ‘religioso’ riservata al silenzio, che sembrerebbe presupporre altre forme di silenzio (profano?), laddove nella Grecia arcaica e classica non vi era alcuna frattura fra sfera religiosa e vita quotidiana (cfr. Serafini, ‘La povertà’).

nicola serafini

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In tal senso, non mi sembra azzardato aπermare che il ruolo del silenzio nella vita religiosa greca è stato ampiamente sottostimato, per non dire trascurato, dagli interpreti moderni, @ probabilmente perché si è sempre dato per scontato che ogni cerimonia religiosa fosse accompagnata da manifestazioni sonore di varia natura. Tuttavia, per quanto ciò sia valido in linea generale, è pur vero che una indagine più accurata consente di individuare numerose situazioni rituali nelle quali il silenzio era addirittura prescritto, inserendosi a pieno titolo nella sequenza di atti rituali che contraddistingueva alcune occasioni cultuali. In questa occasione tenterò di avanzare un primo corpus di testimonianze sul ruolo del silenzio in àmbito rituale, anche se molto ancora resta da fare: tralasciando un caso assai particolare di oniromanzia rintracciabile nei papiri magici, 2 ad esempio, non sembra che il silenzio giocasse un ruolo di rilievo nei molteplici processi divinatorî: tale aspetto desta sorpresa e meriterebbe pertanto di essere approfondito in futuro. Prima di entrare nel vivo del discorso, tuttavia, mi sembra opportuno ricordare che nei confronti del divino il silenzio può anche riflettere la distanza che separa i mortali dagli dèi, rappresentando in sostanza una sorta di incomunicabilità fra due sfere lontane e separate ontologicamente fra loro. Tale incomunicabilità si traduce nell’afasia che colpisce i mortali che si trovino ad assistere a una teofania improvvisa, o particolarmente spaventosa, e alla quale non sanno come reagire, ma si rispecchia anche nel silenzio della natura che di solito circonda tali scene: penso, ad esempio, a un passo delle Baccanti di Euripide (v. @084) o a uno dell’Inno v di Callimaco (v. 72), in cui sembra che il silenzio della natura sia la risposta più adeguata, paradossalmente, per esprimere proprio l’inadeguatezza dello sguardo umano verso il divino. 3 Non solo, perché altrettanto spesso, nel rapporto fra mortali e divinità, il silenzio è la manifestazione di un profondo terrore: così nell’Inno Omerico ad Apollo, quando i marinai rimangono immobili e muti per non incorrere nell’ira del dio (v. 404). Si può menzionare in tale frangente, infine, anche un significativo passo di Luciano, dove Crizia appare scioccato e il suo terrore si traduce in un pertinace mutismo, assieme al pallore del suo viso e all’indecisione dei suoi passi, e tale comportamento suggerisce ai suoi interlocuto 

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@   A quanto ne so non esiste, a oggi, uno studio approfondito dedicato al silenzio nella religione greca, e specificamente alle sue manifestazioni rituali. L’analisi di Montiglio 2000, pp. 9-45, nonostante il titolo, presenta soprattutto un carattere letterario, mentre il merito di aver tentato una prima raccolta dei materiali in tal senso spetta a Suárez de la Torre 2007, raccolta che tuttavia rimane assai incompleta. 2   L’unico caso (ma non posso escludere che ve ne siano degli altri) in cui mi è stato possibile rintracciare una forma di silenzio rituale in ambito divinatorio è costituito da una cerimonia di incubazione descritta in PGM 22b, 32-35: dopo aver mostrato alla luce un boccone di cibo e recitato un logos, l’o√ciante beve un sorso di vino e mangia il cibo rimasto, poi si stende a terra e si mette a dormire “senza rivolgere la parola a nessuno” (mhdeni; lalhvsa~), traducibile anche con “senza rispondere a nessuno”, nel caso fosse interpellato (cfr. e.g. PGM 7, 440 e @0@@). Assai numerose, nei PGM, le cerimonie oniromantiche: sul tema, vd. su tutti S. Eitrem, ‘Dreams and Divination in Magical Ritual’, in C. A. Faraone - D. Obbink (eds.), Magika Hiera. Ancient Greek Magic and Religion, New York-Oxford @99@, pp. @75-@87. 3   Sul silenzio della natura di fronte a una teofania, E. R. Dodds ad Eur. Bacch. @084 rinvia ad Ar. Av. 777-778 e Thesm. 42 ss.; Limen. 8 ss. (Coll. Alex. @49 Powell); Mesom. Hymn. 2, @ ss.

il silenzio come atto rituale

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ri che abbia ricevuto la visita di una qualche divinità particolarmente spaventosa (Philopatr. @, @-@3). L’afasia provocata dal terrore, a ben vedere, non è assenza di comunicazione. In ogni contesto comunicativo, infatti, il silenzio può assumere una eπettiva eloquenza, che non si manifesta attraverso le parole ma che comunque trasmette ed esprime un messaggio, proprio perché la comunicazione non è un fenomeno basato esclusivamente sullo scambio verbale. @ Non a caso, nel parlare comune ancora oggi è ricorrente l’espressione “un eloquente silenzio”: ciò sta a indicare la forte valenza comunicativa ricoperta dal silenzio, e dimostra come sia del tutto improprio ridurre il silenzio a una mera assenza di allocuzione. Il silenzio, infatti, non costituisce una carenza di comunicazione, bensì rappresenta una alternativa alla trasmissione di un messaggio attraverso le parole, che sfrutta canali paralleli rispetto allo scambio verbale e che conferisce dignità soprattutto ai gesti fisici e al comportamento del (non-) parlante, sottolineando proprio l’insu√cienza delle parole in determinate situazioni.  

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@. Eumenidi, eroi e defunti: il silenzio nei culti ‘ctonî’ 2  

@. @. Le ‘dee innominabili’: il silenzio nel culto delle Eumenidi Parlando del silenzio nella religione greca un posto d’onore spetta senza dubbio alle Eumenidi, e nominandole in tale contesto viene pressoché spontaneo pensare ai versi della parodo dell’Edipo a Colono (v. @@7 ss.), quando il coro dei vecchi di Colono si interroga su chi sia lo straniero che ha profanato il suolo sacro alle Eumenidi (vv. @23-@33): @

 Non ritengo opportuno inoltrarmi, in questa sede, in una discussione sulla semiotica del silenzio e sui suoi valori comunicativi secondo una prospettiva di analisi del discorso, perché ciò mi porterebbe troppo lontano rispetto al tema primario. Cfr. però Suárez de la Torre 2007, p. 44, assieme soprattutto a Scarpi @987, che dedica la prima parte del suo contributo proprio a una messa a punto teorica dei valori comunicativi del silenzio (pp. 2@-27), e al suo ruolo nel processo di trasmissione di un messaggio, nell’antica Grecia e non solo (pp. 27-28 e passim). Anche il recente volume di R. Mancini, La lingua degli dei. Il silenzio dall’antichità al Rinascimento, Vicenza 2008, è incentrato sulla tesi per cui il silenzio non sia un mero vuoto comunicativo o un semplice trattenimento della voce, ed è proprio nel silenzio che gli dèi comunicano agli uomini, dall’antichità all’età moderna, rendendolo la cornice ideale per la meditazione e per la comunicazione con il divino. 2   Non intendo qui in alcun modo riferirmi alla dicotomia ‘ctonio vs. Olimpio’, né tantomeno presupporre che essa fosse già operante nella mentalità greca. Utilizzo, qui e altrove nel presente lavoro, il termine ‘ctonio’ come un comodo espediente per designare un insieme di qualità e caratteristiche, nel senso che già Parker 2005, p. 424 aveva ragionevolmente proposto (“a useful translation into scholarly language”), senza con ciò suggerire che gli antichi designassero come chthonios tutto ciò al quale io qui riservo tale attributo. A rigor di termini, infatti, qualora si volesse rispettare la norma antica, l’aggettivo in questione dovrebbe essere a√ancato solo e unicamente a vocaboli come ‘dèi’, ‘eroi’ o ai relativi nomi proprî, poiché nell’antichità esso era riservato soltanto ad alcune divinità e agli eroi/defunti, mentre non esistevano espressioni – peraltro normalmente impiegate dalla critica moderna (almeno fino agli anni più recenti) – del tipo ‘sacrifici ctonî’ (*thysiai chthoniai?), né tantomeno ‘culti ctonî’, per non parlare degli ‘aspetti ctonî’ di cui sarebbero dotati alcuni soggetti divini. Non sembra opportuno, né possibile, riaprire qui uno dei dibattiti più ricchi della bibliografia storico-religiosa degli ultimi anni, sul quale mi sono già espresso altrove (ad es. Serafini 20@2, pp. 225-226 n. 4).

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nicola serafini Vagabondo, è un vagabondo il vecchio, e non è certo uno di qui: non avrebbe mai messo piede nel bosco proibito di queste fanciulle terribili, che tremiamo a nominare, davanti alle quali passiamo senza guardare, senza fiatare, senza parlare, muovendo le labbra del pensiero silenzioso.

(tr. di G. Cerri)

Queste dee erano così temute (e[mfoboi, OC 39) che era preferibile evitare persino di nominarle, come dimostrano anche numerosi altri passi del teatro classico: costoro erano ‘le dee senza nome’, ajnwvnumoi qeaiv (Eur. IT 944; fr. 494, @8 Kn.), nel senso di ‘innominabili’, poiché il loro nome era “terribile a dirsi” (Aesch. Eum. 34), ed era più saggio utilizzare perifrasi per riferirsi a esse (e.g. Eur. Or. 408-4@@. Cfr. anche Or. 37-38 e Eub. fr. 64, 2 Hunter). La loro natura spaventosa e terribile invitava alla massima prudenza: pronunciarne anche il semplice nome avrebbe potuto risvegliarne il potere. @ Non si tratta di dettagli isolati o di secondaria importanza, e le parole dei vecchi di Colono sono tutt’altro che svincolate dal dato rituale (cfr. anche OC 488489). Il culto attico delle Eumenidi, infatti, era strettamente connesso al silenzio: chiamate ad Atene Semnai Theai, le ‘Dee Venerande’, la processione in loro onore era guidata non a caso dalla stirpe degli Esichidi, ossia ‘i Silenziosi’, e le fonti specificano proprio che i rituali si svolgevano “in silenzio”, meta; hJsuciva~ (Polem. fr. 49 Preller = schol. Soph. OC 489). 2 Il culto ateniese delle Semnai Theai, stando alla testimonianza di Diogene Laerzio (@, @@2), rimonterebbe al vii secolo a.C., quando sarebbe stato fondato dalla figura semi-leggendaria di Epimenide di Creta, 3 e avrebbe il suo fulcro presso  

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@   In tal senso, alla luce del fatto che le Erinni erano dette anche Arai (cfr. Aesch. Eum. 4@7 e Sept. 70), Montiglio 2000, pp. 40-4@ correttamente rileva il carattere performativo di una maledizione (ajrav): “to pronounce an ara is to do it; to shape its sounds is to make it happen. (...) The silence that surrounds the Erinyes denounces a fear of awakening the evil power of speech that they control and with which they are identified”. 2   Accanto alla descrizione oπerta da Eschilo nel finale delle Eumenidi (@005-@006, e @025 ss.; cfr. 834-836 e 856-867), esistono anche testimonianze epigrafiche di tale processione, soprattutto in alcuni decreti efebici di età ellenistica: ad es. SEG 26, 98, ll. 9-@0; Hesperia @5, @946, @99-20@, nr. 40, @6-@7 e 24, @955, 228-232, 26. Per quanto riguarda le Semnai Theai mi limito a rinviare al ricco studio di Valdés-Fornis-Plácido 2007, assieme all’ampia trattazione di Robertson 20@0, pp. @05-@27 (sulla processione cui ho accennato sopra, in particolare, vd. pp. @@3-@@6: lo studioso notava ragionevolmente come fosse improbabile che il silenzio fosse mantenuto lungo tutto il tragitto della processione, immaginando invece che la regola si applicasse solo a partire da un punto ben preciso, magari dal santuario di “Mr. Silence”, vale a dire Hesychos). Cfr. anche Parker 2005, pp. @62, 382 e passim, assieme a Parker 20@@, p. @47. Sull’attributo semnai, cfr. Paus. 2, @@, 4 e 7, 25, @-2. Sugli Esichidi, infine, vd. Parker @996, pp. 298-299. 3   M. Valdés, ‘El culto a Zeus y a las Semnai en Atenas arcaica: Exégesis eupátrida y purificación de Epiménides’, Ostraka @@, 2002, pp. 223-242.

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l’Areopago (Paus. @, 28, 6). Tale collocazione cultuale sull’Areopago invita a valutare meglio le possibili relazioni fra il luogo e le dee: numerose fonti, infatti, sembrano porre l’accento sul silenzio che accompagnava le assemblee degli areopagiti, @ senza contare che al cospetto del tribunale dell’Areopago occorreva mantenere un rispettoso e riverente silenzio (e.g. Aeschin. @, 8@-84). Potrebbe dunque esistere una qualche relazione ancora più serrata fra il silenzio, le Semnai Theai, e l’Areopago nel quale erano venerate. 2 A questo punto sembra però opportuno soπermarsi sul culto delle Semnai Theai e sulle informazioni tramandate da un prezioso scolio sofocleo (schol. Soph. OC 489), che contiene notizie tratte dalle opere di Polemone, Apollodoro e Callimaco. Innanzitutto vale la pena notare che Eschilo non nomina gli Esichidi come conduttori della processione in onore delle Eumenidi, bensì parla più genericamente di propompoi, ministri incaricati non solo di guidare il corteo ma anche di condurre le vittime sacrificali (Eum. @005-@006): per contro, invece, Polemone aπerma non solo che il genos degli Esichidi guida la processione in onore delle Semnai, ma anche che i membri di tale stirpe eseguono un sacrificio preliminare in onore dell’eponimo Hesychos, il ‘Silenzioso’, “l’eroe che chiamano così per via del silenzio rituale” (h{rw tou`ton ou{tw kalou`nte~ dia; ga;r eujfhmivan, Polem. fr. 49 Preller). Il genos degli Esichidi e il loro sacerdozio in onore delle Semnai sarebbe stato menzionato anche da Apollodoro (FGrHist 244 F @0@), inoltre nello scolio si aggiunge che Callimaco avrebbe parlato delle mansioni delle Hesichydai, preposte a bruciare torte di mele in onore delle Semnai e a riservar loro libagioni senza vino (fr. 68@ Pf.): tali modalità rituali relative alle Eumenidi, del resto, erano già ricordate da Eschilo (Eum. @06 ss.) e contenute anche nel Papiro di Derveni (col. vi). 3 Il testo sofocleo, al quale lo scoliasta si allaccia, accennava alla regola di pregare le Eumenidi sottovoce, “sussurrando appena, senza alzare la voce” (a[pusta fwnw`n mhde; mhkuvnwn bohvn, Soph. OC 489): è significativo, dunque, che lo scolio si apra proprio aπermando che la regola del silenzio appartiene al rito vero e proprio, anzi specificamente al “sacrificio eseguito per le Eumenidi” (ajpo; th`~ drwmevnh~ qusiva~, schol. ad loc.), poiché “in silenzio celebrano i riti” (meta; ga;r hJsuciva~ ta; iJera; drw`si). Tutte le testimonianze riportate sinora sembrano concordare sul ruolo fondamentale del silenzio nel culto ateniese in onore delle Semnai Theai: non sembra imprudente concludere, alla luce di quanto detto, che eπettivamente una qualche forma di silenzio fosse realmente rispettata nel corso delle celebrazioni in loro onore, e che tale silenzio assumesse una vera e propria valenza rituale.  

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@   Cfr. Athen. 255f; Diogen. Gramm. 2, 9@ Leut.-Schn. = Suid. a 3824 Adler; Juven. 9, @0@; Macrob. Sat. 7, @, @7; Themist. Or. 2@, 263a. 2   In questa direzione si muovono Valdés-Fornis-Plácido 2007, pp. @@3-@@4 e passim. Costoro si spingono anche a proporre una relazione fra la hesychia ‘politica’ e la hesychia ‘religiosa’, attraverso indagini storiche sul ruolo politico dell’Areopago, e sui fatti storici ateniesi del iv secolo a.C. 3   A riguardo, sulle libagioni senza vino in onore delle Eumenidi nel Papiro di Derveni, vd. A. Henrichs, ‘The Eumenides and Wineless Libations in the Derveni Papyrus’, in Atti del xvii congresso internazionale di papirologia ii, Napoli @984, pp. 255-268. Sugli olocausti in onore delle Eumenidi, vd. e.g. Paus. 8, 34, 3 (ma cfr. anche 2, @@, 4) e schol. Soph. OC 42, assieme a Parker 20@@, p. @47.

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@. 2. Il ‘Silente’, gli Esichidi e il dio Ermes Resta ancora da chiarire, tuttavia, la funzione della stirpe degli Esichidi e del loro eponimo. Il nome di questo (non altrimenti noto) Hesychos, infatti, è solitamente spiegato in rapporto al silenzio rituale che, come abbiamo visto, era parte integrante del rito ateniese in onore delle Semnai Theai, il cui culto era gestito proprio dal genos degli Esichidi. @ Tale spiegazione, però, nulla chiarisce in merito alla figura stessa dell’ ‘eroe’, per così dire. Il merito di aver finalmente analizzato in profondità e illustrato la misteriosa figura di questo ‘Silente’ spetta a N. Reggiani, che in un recentissimo lavoro ha avanzato l’ipotesi, a mio avviso convincente, che possa esistere un forte nesso fra Hesychos e il dio Ermes. Quest’ultimo, infatti, nella sua veste di messaggero non solo dominava la parola ma era anche in grado di revocarla: come è noto, e come è testimoniato anche da numerosi passi del teatro classico, gli araldi erano spesso incaricati di proclamare il silenzio, e il fatto che Ermes ne fosse il protettore e paradigma divino non può essere casuale. La connessione di Ermes al silenzio, del resto, non si ferma qui: basti pensare alle parole di Plutarco, secondo il quale “quando un improvviso silenzio cala nell’assemblea si dice che sia entrato Ermes” (Plut. De garrul. 502f). 2 In ambito strettamente rituale, sul rapporto fra Ermes e il silenzio merita particolare attenzione il rito mantico di Fare in Acaia descritto da Pausania (7, 22, 2-4): chiunque desiderasse un responso doveva recarsi presso la statua di Ermes Agoraios, sussurrargli all’orecchio il quesito e allontanarsi in silenzio, coprendosi le orecchie. Una volta uscito dall’agora, l’individuo avrebbe potuto riaprire le orecchie e le prime parole che avrebbe udito sarebbero state l’oracolo del dio. Si noti bene che in questo caso Ermes non agisce come depositario di un sapere oracolare: anche in questo caso, piuttosto, egli opera in qualità di messaggero, trasmettendo al richiedente il verdetto dell’assemblea divina: a Fare, come altrove, si riteneva infatti che nell’agora si riunisse anche l’assemblea delle divinità, e ciò è testimoniato dal fatto che attorno alla statua di Ermes Agoraios erano disposte una trentina di pietre aniconiche rappresentanti altrettante divinità. 3 Ora, tornando agli Esichidi e a Hesychos, la possibilità che anche ad Atene sorgesse una simile theôn agorá sull’Areopago, luogo in cui del resto erano venerate anche le Semnai Theai (Aesch. Eum. @0@3; Eur. El. @27@; Paus. 7, 25, 2), e la pre 

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@   Rinvio, per qualsiasi approfondimento, alla bibliografia in merito segnalata da Reggiani 20@5, n. @0. 2   Cfr. Versnel 20@@, p. 383 n. @77. Più in generale, sul rapporto fra Ermes e il silenzio, oltre a Reggiani 20@5, vd. almeno M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Torino 2000 e C. Pisano, ‘Hermes, il lupo, il silenzio’, Quad. Urb. n.s. 98 (@27), 20@@, pp. 87-98. Su Hesychos, invece, cfr. E. Kearns, The Heroes of Attica, London @989, p. 70, assieme a Parker @996, p. 298; Parker 2005, p. 448 e Robertson 20@0, p. @@5. 3  Vd. D. Giacometti, ‘Theon agorai’, Quad. di storia 58, 2003, pp. @4@-@62, in part. pp. @46-@47 e Reggiani 20@5, pp. @72-@73. Sulle theon agorai, vale a dire quelle ‘assemblee degli dèi’ nelle quali le divinità si riunivano al pari degli uomini, vd. e.g. Xen. Hell. 4, 4, 3; Hesych. q 437 Latte; Diogen. 5, 2@ Leut.-Schn.; Zenob. 4, 30 Leut.-Schn.; Ael. Arist. Iov. 6, @9 Dindorf. Sulla presenza di una theon agora ad Atene, cfr. Hesych. a 702 Latte e Phot. a 222 Theodoridis.

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senza nell’Inno Omerico a Ermes di “tre vergini venerande” (semnai; ... parqevnoi ... trei`~, vv. 552-566), conducono N. Reggiani a rintracciare i legami ateniesi fra le Eumenidi e Ermes, e a proporre, attraverso una fitta serie di argomentazioni, l’esistenza di un culto oracolare connesso sia alle Eumenidi sia a Ermes: pertanto, per tutta una serie di ragioni, è assai probabile che è proprio col dio Ermes, o con una sua forma, che andrà identificato lo sfuggente e misterioso Hesychos, venerato sull’Areopago assieme alle Semnai Theai. @  

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@. 3. Divinità ‘sussurratrici’, fra voce e silenzio Il rapido accenno al rituale di Fare in onore di Ermes Agoraios, nel quale il richiedente doveva sussurrare all’orecchio della statua la sua domanda, invita ad approfondire la questione delle divinità ‘che sussurrano’, che in uno studio sul silenzio della religione greca vale la pena almeno menzionare. Cominciamo proprio da Ermes Psithyristes (‘Sussurratore’), al quale si fa riferimento in una orazione tràdita sotto il nome di Demostene (59, 39), 2 ma la cui paternità è dubbia, passando per le notizie lessicografiche e paremiografiche che nominano anche Afrodite ed Eros: “Ermes Sussurratore: vi sono ad Atene statue di Ermes Sussurratore, ma anche di Afrodite ed Eros; il primo ad erigerle fu, come narra Zopiro, Teseo, perché Fedra gli sussurrò a proposito di Ippolito. Dicono che Ermes Sussurratore sia ‘il più prossimo agli uomini’ (anthropinoteron), perché presso di lui gli uomini si ritrovano per discutere di cose segrete e bisbigliarsi l’un l’altro ciò che vogliono” (Lex. Seguer. y 3@7, @@-@4 Bekker = Paus. Att. y 2 Erbse). 3 Se l’Ermes Psithyros è anche il protettore dei ladri, al quale per ovvie ragioni si pregava sottovoce un po’ come alla romana Laverna (schol. Hor. Ep. @, @6, 59 Laverna ... est dea furum et simulacrum eius fures colunt, et qui consilia sua volunt tacita; nam preces eius cum silentio exercentur), nel caso di Afrodite l’epiteto Psithyros è spiegato da Eustazio proprio in base al fatto che si era soliti invocarla sussurrando nei pressi delle sue statue (ad Od. 20, 8): se in precedenza abbiamo notato che la preghiera silenziosa si addiceva spesso a richieste amorose (cfr. supra), va da sé che questa dea era la divinità alla quale più spesso si sussurravano le richieste. Afrodite Psithyros, dunque, è non solo la ‘Sussurratrice’, ma anche ‘colei alla quale si parla sussurrando’. 4 Da ultimo si noti che le tarde testimonianze paremiografiche sono confermate epigraficamente, poiché in una iscrizione proveniente da Lindo  





@

  Reggiani 20@5, al quale rinvio per ogni approfondimento.   Cfr. Harp. s.v. Yiquristhhv~ ÔErmh`~ (p. 3@0 Dindorf) e Paus. Att. s.v. Yiquristhhv~ ÔErmh`~ (y 2 Erbse). 3   Cfr. Harp. s.v. Yiquristhhv~ ÔErmh`~ (p. 3@0 Dindorf) e Suid. y @00 Adler. 4  Vd. e.g. Petron. Sat. 85, 5 timidissimo murmure votum feci et ‘domina’ inquam ‘Venus, si ego hunc puerum basiavero ita ut ille non sentiat, cras illi par columbarum donabo’. Cfr. Sen. Epist. @0, 5 e 4@, @; Macrob. Sat. @, 7, 6. Su Afrodite Psithyros, vd. V. Pirenne-Delforge, L’Aphrodite grecque. Contribution à l’étude de ses cultes et de sa personnalité dans le panthéon archaïque et classique, Athènes-Liège @994, p. 46 ss. A proposito dei devoti che sussurrano le loro richieste alle orecchie delle statue delle divinità, H. S. Versnel, ‘Religious Mentality in Ancient Prayer’, in H. S. Versnel (ed.), Faith, Hope and Worship. Aspetcs of Religious Mentality in the Ancient World, Leiden @98@, pp. @-64 parla, a mio avviso impropriamente, di “a strong impression of intimacy” suscitata dal devoto che sussurra i suoi segreti ad aurem simulacri (p. 27). 2

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è attestato proprio un Eros Psithyros (Inscr. Lindos 2, 484), laddove per Ermes e Afrodite disponiamo di altre testimonianze letterarie. @  

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@. 4. Defunti, tombe e riti funerarî Il silenzio, fra le altre cose, appare strettamente legato anche alla sfera dei defunti. In primo luogo, meritano attenzione le testimonianze relative allo svolgimento di riti funerarî in completo silenzio: penso, ad esempio, alla legislazione soloniana, che a quanto pare prescriveva proprio di mantenere il silenzio durante la cerimonia di sepoltura, sebbene sia possibile intuirlo solo da informazioni indirette. 2 O ancora, basti menzionare gli svariati regolamenti funerarî che tendono a contenere le manifestazioni troppo eccessive di dolore durante le esequie (ad es. LSCG nr. 77 C; LSS nr. 3@, 7; LSAM nr. @6): mi riferisco, fra gli altri, a un regolamento funerario della città di Iulide nell’isola di Ceo, risalente al v secolo a.C. (LSCG nr. 97), nel quale sono inclusi numerosi dettagli sulle cerimonie di sepoltura, ivi compresa la prescrizione di innalzare e trasportare il morto in silenzio, fino alla sua tomba (ll. @0-@2 to;n qanovªnºta ªfevrenº ⁄ ªkºatakekalummevnon siwph`i mevªcºri ªejpi; to;º ⁄ ªsºh`ma). Da ultimo, ricordo anche la celebre iscrizione delfica nota come ‘Cippo dei Labiadi’, nella quale ai membri di tale fratria è imposto il silenzio durante le esequie: to;n d⁄e; nekro;n kekalummevnon f⁄erevtw siga`i (Corp. Inscr. Delph. @, nr. 9 C 3@-33 Rougemont), e non sono concesse lamentazioni prima di giungere alla tomba (ll. 35-37). 3 A tal proposito, in un recente intervento, E. Suárez de la Torre interpretava la consuetudine del silenzio nel corso di alcune cerimonie funebri come la manifestazione di una esigenza di sobrietà rispetto ad altre pratiche rituali: tale ipotesi suscita qualche perplessità, poiché sembra proiettare nella mentalità antica degli scrupoli che definirei quasi ‘morali’ e che in realtà non le pertengono. Lo stesso studioso, tuttavia, in séguito propone anche la possibilità che nell’imposizione del silenzio in questi casi sia possibile intravedere una sorta di ‘(e)marginazione’ (marginación) nei confronti del resto della società, e soprattutto una interruzione  



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 Sull’epiteto Psithyros e i suoi valori, mi limito a rinviare a L. Soverini, ‘Yivquro~: Eros, Aphrodite e il sussurro nella Grecia antica’, in S. Alessandri (ed.), ÔIstorivh. Studi oπerti dagli allievi a G. Nenci, Lecce @994, pp. 433-460, assieme, ora, a Versnel 20@@, p. 342. 2  Plut. Sol. @2, 8 e 2@, 5-7. La legge sarebbe stata rinnovata da Demetrio del Falero: [Ps.]Demosth. Macart. 62. Rinvio, per qualsiasi approfondimento in merito alla legislazione soloniana in materia funeraria, a J. H. Blok, ‘Solon’s Funerary Laws: Questions of Authenticity and Function’, in J. H. Blok - A. P. M. H. Lardinois (eds.), Solon of Athens, Leiden-Boston 2006, pp. @97-247. Sulle consuetudini funerarie attiche anteriori alla riforma di Solone, cfr. [Ps.]-Plat. Min. 3@5c-d. 3   Sull’usanza di velare il cadavere, cfr. Plat. Leg. 960a. Assai diπusa, nei regolamenti di questo tipo, la richiesta di moderare le lamentazioni e il lusso delle celebrazioni: se Solone, a detta di Plut. Sol. 2@, 6, vietò to threnein, anche Plat. Leg. 958e-959a, 959c-960a immagina usanze simili nella sua città ideale, laddove in epoca ben più tarda a Marsiglia corpora ad sepulturae locum (...) deuehuntur sine lamentatione, sine planctu (Val. Max. 2, 6, 7). Stando alla testimonianza di Cicerone, già nella Legge delle Dodici Tavole erano previste simili interdizioni (Leg. 2, 23, 59; 24, 60; 25, 62 e 64), e nella Mitilene del vi secolo anche Pittaco emanò decreti analoghi (Cic. Leg. 2, 26, 66): stessa cosa nella Sparta di Licurgo (Plut. Lyc. 27), a Siracusa ai tempi di Gelone (Diod. Sic. 2@, 38, 2) e, forse, nella Catania di Caronda (Stob. Flor. 44, 40).

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dell’ordine sociale quotidiano: questa seconda lettura convince molto di più. È probabile, infatti, o perlomeno plausibile, che il silenzio voglia demarcare qui la distanza del defunto rispetto al resto della comunità, che non partecipa al rituale: i partecipanti sono dunque immersi nel silenzio del defunto e lo condividono con lui, mentre al di fuori della cerimonia funebre la società continua la sua vita ordinaria, rumorosa e sonora. Riguardo ai defunti merita una menzione anche una curiosa notizia relativa alle tombe, specificamente a quelle degli eroi. Come è noto, i defunti, e in particolare quelli ai quali è tributato un culto eroico, sono circondati da un’aura di mistero: si tratta di un misto di riverenza ma anche di timore, suscitato dai loro poteri occulti e dalla loro potenziale pericolosità (cfr. e.g. Chamael. fr. 9 Wehrli2 e schol. Ar. Av. @490). A ciò si aggiunge la naturale inquietudine suscitata dalle tombe, per loro stessa natura intese come luoghi particolarissimi e soprattutto da rispettare: proprio come manifestazione congiunta di rispetto e timore andrà letta, a mio avviso, la notizia per cui davanti a un herôon si deve passare in assoluto silenzio (Epicharm. fr. @63 K.-A.; Hesych. k 404@ Latte; Phot. k @07@ Theodoritis).  

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2. Il silenzio di Demetra: Tesmoforie, Eleusi e la thronosis Nell’Inno Omerico a Demetra, come è noto, è narrato il rapimento di Persefone, e il dolore della madre Demetra, alla disperata ricerca della figlia scomparsa. Subito dopo il misfatto, Demetra è còlta da un profondo dolore: tolti gli ornamenti divini, si lancia alla disperata ricerca della figlia, per terra e per mare, senza che nessuno possa dichiararle la verità (vv. 40-46). 2 Al decimo giorno di ricerche incrocia la dea Ecate che, tenendo in mano una torcia, le va spontaneamente incontro per informarla (vv. 5@-53) 3: la dea aπerma di aver udito le grida di Persefone ma di non sapere nulla di più, mentre Demetra, dal canto suo, non solo non mostra alcuna gratitudine bensì si chiude in un pervicace silenzio e non risponde nemmeno con una parola (v. 59 oujk hjmeivbeto muvqw/). 4  





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  Suárez de la Torre 2007, p. 5@.   Sulle peregrinazioni compiute da Demetra alla ricerca della figlia, vd. ora Serafini 20@4. Si noti che secondo alcune fonti romane il vagabondare di Demetra si sarebbe compiuto in silenzio: Stat. Silv. 4, 8, 50-5@, ad esempio, parla significativamente di tacitus cursus. 3   Sul passo in esame e sulla presenza di Ecate nell’inno, così come – più in generale – sull’attributo della torcia, rinvio a N. Serafini, ‘La dea Ecate, le torce e le ninfe Lampadi: un frammento di Alcmane da rivalutare (fr. 63 Davies)’, Quad. Urb. n.s. @04 (@33), 20@3, pp. @@-22 (p. @2 e passim). 4   Il silenzio di Demetra nei confronti di Ecate in tale occasione può essere confrontato con il relativo passo del P. Berol. @3044v (= Orph. Fr. 386-397 Bernabé), datato al ii secolo a.C., noto anche come ‘parafrasi orfica’ dell’Inno Omerico a Demetra, in cui invece non appena Ecate interroga Demetra, quest’ultima rompe il silenzio: ... e[tiº kªaºi; hJ Dhmhvthr uJpo; ⁄ tªh`º ÔEªkavth~ wJ~ prw`ton hjºrwthvqh, e[fh (P. Berol. 44, 75-6, nella lettura riprodotta in G. Colli, La sapienza greca i, Milano @98@3, 4 B 2@). Si noti che secondo B. Currie, ‘Perspectives on Neoanalysis from the Archaic Hymns to Demeter’, in Ø. Andersen, D. T. T. Haug (eds.), Relative Chronology in Early Greek Epic Poetry, Cambridge 20@2, pp. @84-209 (seguito ad es. da D. Obbink, ‘Poetry and the Mysteries’, in C. A. Faraone - D. Obbink (eds.), The Getty Hexameters. Poetry, Magic, and Mistery in Ancient Selinous, Oxford 20@3, pp. @7@-@84, p. @78), la versione ‘orfica’ contenuta nel papiro berlinese sarebbe precedente rispetto all’inno omerico, o magari coeva, ma la questione rimane controversa. 2

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La dea Ecate, inoltre, preoccupata per le sorti di Persefone, rivolge anche delle accorate domande a Demetra, la quale continua a tacere senza ribattere alcunché (vv. 52-60). Persino in séguito, dopo essersi rivelata alla moglie di Celeo, la dea continua a rimanere in silenzio (ajkevousa e[mimne, v. @94), manifestando il suo lutto tramite il digiuno, l’immobilità e l’afasia (vv. @98-20@): Ella sedeva, immobile sul seggio, tacita e triste, e non rivolgeva ad alcuno una parola o un gesto, ma senza sorridere, @ senza mangiare, senza bere sedeva, consumandosi per il rimpianto della figlia dalla breve cintura.  

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Poiché è assai probabile che le attitudini assunte da Demetra nell’inno rispecchino delle modalità rituali relative alle Tesmoforie, ma anche in una certa misura ai Misteri, è opportuno chiedersi se il silenzio della dea non possa avere un qualche legame con il culto. Non entrerò qui nel complesso tema del rapporto fra l’Inno Omerico a Demetra e il culto eleusino, né sul dibattito fra chi lo ritiene un presunto hieros logos locale e chi invece sarebbe più propenso ad attribuirvi una valenza panellenica: 2 che sia il culto ad esser plasmato sulle parole dell’inno, o viceversa, ciò che appare da un esame delle fonti è quanto la celebrazione delle Tesmoforie sia intimamente legata alle gesta mitiche di Demetra e ai suoi comportamenti, dal digiuno all’astensione dai lavacri. 3 Un punto però resta da chiarire, ed è quello che qui maggiormente interessa: il ruolo del silenzio nel culto demetriaco. Nel caso delle Tesmoforie, tuttavia, a diπerenza di altri atteggiamenti rituali assunti dalle devote sulla scia di quelli di Demetra, nessun dato testimonia che fosse rispettata una qualche forma di silenzio rituale. Sulla base delle analisi in merito al digiuno e al clima di astensione che governava il secondo giorno delle Tesmoforie, sarei incline a pensare che, nell’atmosfera di lutto generale in cui il riso era interdetto, anche la parola fosse in qualche modo fuori luogo. Le fonti, a quanto ne so, non specificano nulla in tal senso, ma tutto lascia presupporre che, prima dell’esplosione di ilarità dell’aischrologia, nelle celebrazioni regnasse comunque il silenzio, in ossequio al carattere ferale della giornata e al silenzio mitico di Demetra.  



2. @. Indizî di silenzio rituale a Eleusi? Ancora più complesso e spinoso il caso dei Misteri di Eleusi. In questo frangente, tuttavia, le testimonianze su una qualche forma di silenzio rituale a Eleusi sono scarsissime, e si riducono pressoché a un solo passo di Ippolito: non intendo considerare in questa sede, infatti, quelle fonti che parlano di silenzio nel senso di reticentia mystica, 4 tratto distintivo ovviamente non solo dei Misteri Eleusini ma di  

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  Sui valori della mancanza di sorriso da parte di Demetra, da intendere come una più generale indisponibilità a qualsiasi forma di comunicazione, cfr. P. Scarpi, Letture sulla religione classica. L’inno omerico a Demeter: Elementi per una tipologia del mito, Firenze @976, pp. @44-@47. 2   Cfr. Serafini 20@2, p. 230. 3   Rinvio, per qualsiasi approfondimento sulle Tesmoforie e sui paralleli fra i comportamenti rituali delle devote e i gesti mitici di Demetra, a Serafini 20@4. 4   Per le quali rinvio alla ricca silloge sul segreto (e le interdizioni) a Eleusi compilata da Scarpi 2002, pp. @82-207, con relativo commento alle pp. 538-553. Sul tema occorre ricordare almeno A. Motte, ‘Silence et secret dans les mystères d’Éleusis’, in J. Ries (éd), Les rites d’initiation. Actes

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tutte le dottrine esoteriche, che per loro stessa natura necessitano della riservatezza degli iniziati. Non si tratta, in questi casi, di silenzio imposto durante un rito, bensì di segreto iniziatico: il silenzio non è qui un atto rituale, bensì una condizione che riguarda solo determinate informazioni, pertanto sarei più propenso a definirlo silenzio ‘selettivo’, o ‘esoterico’, ma sicuramente non ‘rituale’. @ Attenendomi dunque al silenzio rituale propriamente detto, l’unico momento in cui sembra che il rito eleusino prevedesse il silenzio era al culmine della epopteia, durante l’ostensione della sacra spiga di grano, oppure, in alternativa, durante la raccolta della stessa. Il testo di Ippolito che tramanda la notizia, infatti, non è perspicuo, e la scelta fra le due opzioni dipende dall’interpretazione delle sue parole: ejpideiknuvnte~ (sc. ∆Aqhnai`oi) toi`~ ejpopteuvousi to; mevga kai; qaumasto;n kai; telewvtaton ejpoptiko;n ejkei` musthvrion ejn siwph`/ teqerismevnon stavcun (Hippol. Ref. haer. 5, 8, 39). A rigor di termini, seguendo l’ordine delle parole, quel “in silenzio” andrebbe collegato alla raccolta della spiga: tuttavia, a livello di significato, sarebbe ben più logico immaginare che sia legato all’atto dell’ostensione, e non a caso la critica moderna si è divisa fra le due ipotesi. 2 Nonostante l’incertezza del dettato e della sua interpretazione, appare assai plausibile immaginare che la contemplazione della spiga avvenisse in silenzio: con tale idea del resto collima anche un passo di Plutarco nel quale lo storico allude alle celebrazioni misteriche, pur senza specificare che si tratti di quelle eleusine, aπermando che a un momento iniziale di tumulto e confusione seguiva la profonda solennità della celebrazione, alla quale si assisteva meta; fovbou kai; siwph`~ (Plut. Virt. prof. 8@e; cfr. Plut. Cic. 22, 2). Occorre tuttavia rilevare che anche in un altro contesto misterico, seppure influenzato da quello eleusino, era previsto il silenzio durante le celebrazioni, e non escluderei che sia proprio a tali riti che allude Plutarco: nel celebre regolamento dei Misteri di Andania (LSCG nr. 65), datato al 92 a.C., si prescrive espressamente di mantenere il silenzio nel corso delle cerimonie (ll. 39-40 o{tan de; aiJ  

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qusivai kai; ta; musthvria suntelei`tai, eujfamei`n pavnta~ kai; ajkouvein tw`n paraggellomevnwn), aggiungendo anche le conseguenze di eventuali inadempimenti (ll. 40-42).

2. 2. Demetra seduta in silenzio: echi di pratiche rituali? Nell’Inno Omerico a Demetra, come abbiamo già visto in precedenza, la dea si chiude in un ostinato silenzio, seduta su una roccia, dolendosi per la perdita della du colloque de Liège et de Louvain-la-Nueve (20-2@ novembre @984), Louvain-la-Neuve @986, pp. 3@7-334. @   Inutile dire che tale discorso vale non solo per i Misteri di Eleusi, bensì per tutte le dottrine esoteriche e iniziatiche, come ad esempio quella degli Orfici o quella dei Pitagorici (cfr. infra, p. 67 n. @). Mi limito qui solo a ricordare che Parker 2005, p. 367 interpretava come una sorta di estensione del segreto mistico anche il ‘silenzio’, per così dire, di alcune tombe: nello specifico, egli pensava che gli epitaπî nei quali non vi fosse alcuna allusione all’Aldilà appartenessero proprio a degli iniziati. Cfr. C. Sourvinou-Inwood, ‘Reading’ Greek Death to the End of Classical Period, Oxford @995, pp. @72-@74. 2   Impossibile rendere conto in questa sede di tutta la bibliografia in merito: un utile riepilogo è reperibile in Montiglio 2000, p. @34 n. @50, alla quale rinvio. Sulla presenza della spiga, e sulla sua simbologia, invece, vd. almeno Scarpi 2002, p. 524.

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figlia (vv. @98-20@). Ora, sebbene si tratti di una congettura e non ci siano testimonianze dirette a riguardo, si è pensato che tale comportamento potesse avere un qualche parallelo cultuale, magari con un rituale purificatorio preliminare che prevedesse un periodo di silenzio e digiuno, da svolgersi in posizione seduta: in una parola, una thronosis. @ Esichio, infatti, glossa il termine definendola katarch; peri; tou;~ muoumevnou~ (q 779). Inoltre, due rilievi di età romana, vale a dire la cosiddetta ‘Urna Lovatelli’ (LIMC ‘Ceres’ @45) e il Sarcofago di Torre Nova (LIMC ‘Ceres’ @46), potrebbero confermare tale ipotesi: in essi è ra√gurata l’iniziazione di un uomo, identificabile con Eracle, seduto su una pietra con il capo velato. A tal proposito, R. G. Edmonds ha supposto che un rituale simile poteva fare parte dei Misteri Minori, o Piccoli Misteri, celebrati ad Agre e propedeutici ai Grandi Misteri di Eleusi (schol. Plat. Gorg. 497c): 2 non a caso, infatti, si riteneva che i Piccoli Misteri fossero stati istituiti proprio per purificare l’eroe e permettergli così di partecipare ai Grandi Misteri di Eleusi (Diod. Sic. 4, @4, 3; scholl. Ar. Ra. 50@ e Plut. 845, @0@3). È possibile, pertanto, che l’iniziazione eleusina prevedesse un rituale preliminare di purificazione, da eseguire in silenzio e in posizione seduta: ciò che invece richiede prudenza è la designazione di thronosis, utilizzata da W. Burkert e rimessa invece in discussione di recente proprio da R. G. Edmonds, il quale ha dimostrato che il termine non era legato ai Misteri di Eleusi bensì al culto coribantico della Grande Madre. È in tale accezione, infatti, che lo utilizza Platone (Euthyd. 277d; cfr. Leg. 790d-e), e con lui altre fonti (Sibyll. Orac. 8, 43-49; Procl. Theol. Plat. 6, 65, 23; Suid. o 654), nelle quali designa sì una cerimonia iniziatica, ma che prevede una danza sfrenata attorno all’iniziando seduto su un trono (Dio Chrys. 2, 33-24): siamo ben lontani, in questo caso, dal sedere in solenne silenzio della dea Demetra e, forse, degli iniziandi al suo culto eleusino.  

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3. Magia, Pitagorici e Neo-Platonici: da Sofrone agli Oracoli Caldei 3. @. Un frammento di Sofrone da riscoprire Agli inizî degli anni Trenta, per la precisione nella primavera del @932, gli scavi condotti da E. Breccia nel kom di Ali Gammân presso Ossirinco hanno riportato alla luce un frammento papiraceo contenente @9 righe di testo, prontamente pubblicato l’anno successivo da G. Vitelli e M. Norsa, i quali ne hanno identificato la paternità sofronea. L’importante scoperta ha immediatamente destato una grande curiosità nell’ambiente scientifico, promuovendo un intenso dibattito negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione, richiamando interventi di studiosi @   Già N. J. Richardson, The Homeric Hymn to Demeter, Oxford @974, pp. 22, 2@@-2@3 immaginava che questi versi fornissero un aition a una purificazione preliminare, mentre Burkert @972, pp. 294-295 si mostrava convinto che il rituale eleusino prevedesse anche una thronosis iniziale. Cfr. più di recente Edmonds 2006, p. 358: “Although no textual evidence actually confirms that it was part of the ritual, such a period of silent mourning might be appropriate as an initial purificatory step in the mysteries”. 2   Edmonds 2006, pp. 359-360. Sui Piccoli Misteri, e sul rapporto fra questi e i Misteri Maggiori, vd. almeno le fonti raccolte da Scarpi 2002, pp. 75-8@ e commentate alle pp. 477-480.

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di primo piano, come ad esempio K. Latte, P. Chantraine, S. Eitrem, C. Gallavotti, A. S. F. Gow e K. Kerényi, solo per ricordarne alcuni. @ Per quanto riguarda il contenuto, tralasciando qui la questione della paternità sofronea e del mimo di origine, nel frammento è descritta una cerimonia magica apparentemente tratta dalla vita quotidiana dell’epoca del poeta. Una donna, che saremmo tentati di definire ‘maga’ o persino ‘strega’, con l’ausilio della sua assistente, compie un’occulta cerimonia al fine di liberare un gruppo di persone dalla malattia o dal delirio inflitto loro da una divinità: plausibilmente, dalla dea Ecate. 2 La scena si svolge all’interno di una stanza le cui porte sono chiuse, ma che saranno aperte non appena il rituale avrà raggiunto il suo culmine, mentre la o√ciante inizia a impartire istruzioni, sotto forma di veri e proprî ordini, alle donne che (plausibilmente) devono essere curate. Innanzitutto, dopo aver apprestato una tavola per le oπerte, 3 esse devono tenere del sale nelle mani, e alloro sulle orecchie: quest’ultima è una chiara misura apotropaica, volta alla difesa delle cavità somatiche, attraverso le quali i dèmoni potrebbero entrare nel corpo. 4 Così parate, esse devono sedersi sulla histia 5 mentre la celebrante appresta il sacrificio di  

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@

  Il papiro è stato ripubblicato nel @935 dagli editores principes nella collezione dei Papiri greci e latini xi, @935 (= PSI nr. @2@4), ed è ora conservato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Per qualsiasi approfondimento sul frammento in questione rinvio a N. Serafini, La dea Ecate nell’antica Grecia: una protettrice dalla quale proteggersi, Roma 20@5, cap. 5 § @.2 (con ampia dossografia). 2  Sull’identità della potnia invocata, gli studiosi non hanno mai messo in dubbio che sia da identificare con la dea Ecate: a tal proposito, basti ricordare ad esempio Latte @933, p. 262 (“Es ist klar, daß die angerufene Göttin nur Hekate sein kann”) o E. P. Legrand, ‘À propos d’un nouveau fragment de Sophron’, Rev. ét. anc. 36, @934, pp. 25-3@, p. 27 (“La povtnia ... c’était Hécate incontestablement”), o ancora, più di recente, J. H. Hordern, ‘Love Magic and Purification in Sophron, PSI @2@4a, and Theocritus’ “Pharmakeutria”’, Class. Quart. 52, 2002, pp. @64-73, p. @69 (“she [sc. Hecate] is no doubt the povtnia invoked”). Potrebbe anche trattarsi, in alternativa, di vittime di malefìci che ora necessitano di essere esorcizzate (cfr. Hesych. w 265 Schmidt). Cfr. Theophr. Car. @6, 7. 3   N. Festa, ‘Sofrone e Teocrito (a proposito di una recente scoperta)’, Mondo class. 3, @933, pp. 476-484 (p. 479) pensava, secondo me a ragione, che la trapeza in questione non fosse una tavola sacrificale, bensì una mensa sulla quale imbandire gli xenia, le oπerte di cibo menzionate alla l. @8. Sull’utilizzo di una trapeza in contesti magici, cfr. PGM 4, @860 e 2@89; @2, 24; @3, @3. 4   Per l’impiego del sale come elemento purificatorio, cfr. Theocr. Id. @4, 97 e Tibull. 3, 4, @0 (con particolare riguardo al rapporto fra il passo che qui interessa e quello di Tibullio, vd. Eitrem @933, pp. @5-@6), assieme, ora, a Hordern 2004, pp. @29-30 e Robertson 20@0, p. 223. Invece sul significato apotropaico dell’alloro si può vedere Theophr. Car. @6, @, mentre altre fonti (Diog. Laert. Vit. Phil. 4, 57; Hesych. k 484@ Latte; Et. M. @@2, @4) testimoniano l’usanza di apporre ramoscelli d’alloro presso le porte delle abitazioni. Cfr. anche PGM 4, 258@, 2647, 2649: come è noto, soprattutto nel corso di pratiche magiche, ogni cavità corporea era esposta al pericolo, perché poteva fungere da ingresso per eventuali dèmoni (cfr. e.g. PGM 4, @523). L’alloro era indossato, infatti, in PGM 7, 842, mentre di corone di alloro si parla in PGM 2, @-64; @, 262-347. Cfr. Call. fr. @94, 28-3@ Pf.; Plut. Quaest. conv. 693f; e infine Verg. Ecl. 8, 8@ sparge molam et fragilis incende bitumine laurus. 5  Si noti che secondo Eur. Med. 397 Ecate “abita nei recessi del focolare”, mucoi`~ naivousan eJstiva~. Nella fattispecie, è probabile che la histia rappresenti qui l’altare sacrificale (cfr. PGM 5, 20@; @2, 28), o meglio la eschara, che più si addice a una divinità quale la dea Ecate (cfr. PGM 4, 2338): sul ruolo dell’eschara nei culti eroici e ctonî, vd. E. Kearns, ‘Between God and Man: Status and Functions of Heroes and their Sanctuaries’, in Le sanctuaire grec. Entr. Hardt xxvii,

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un cane: un’assistente le porge del bitume, 2 su sua richiesta, assieme a un pugnale, e in séguito le è condotta la vittima sacrificale, mentre è preparato l’incenso per le purificazioni rituali e le torce sono spente. 3 All’improvviso la ‘strega’ ordina di spalancare le porte, 4 intimando alle ‘pazienti’ di rimanere in silenzio e di mantenere lo sguardo fisso (probabilmente) in direzione della porta (fr. 4a, col. i, @4-@6): 5  

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eujkamivan nun parevcesqe a|~ k∆ ejgw;n po;t ta`nde puktaleuvsw. Che ci sia silenzio

mentre io, in nome di costoro, mi batterò!

A quel punto inizia la preghiera a una potnia non nominata esplicitamente, ma che non può che essere Ecate: 6 l’invocazione, però, è interrotta quasi sùbito dalla mutilità del papiro.  

Vandoeuvres-Genève @992, pp. 65-99 (pp. 67-68). Allo stesso modo, la scelta di tale vittima collimerebbe con un contesto purificatorio: cfr. Theocr. Id. @6, @3; Plut. Quaest. Rom. 280b-c, 290d, 29@a. @   La scelta del cane, vittima usuale in onore della dea Ecate (vd. Serafini 20@5), ben si addice anche a un contesto di magia erotica: cfr. ad esempio PGM 4, @434, @877, 2006 ss., 2578, 2875, 2943 ss. etc. 2  Sull’utilizzo del bitume (asphaltos), qui probabilmente da intendere come un qualche tipo di resina o di pece, cfr. Phot. m 439 e r 33 Theodoridis. Si noti che esso era utilizzato nella purificazione (comica) delle Pretidi descritta da Diphil. fr. @25 K.-A., mentre W. Burkert, The Orientalizing Revolution, Cambridge MA @992, pp. 6@-62 ricorda che il bitume, chiamato kupru, è una sostanza purificante anche nei testi accadici. Latte @933, p. 26@, sulla base della testimonianza di Plin. NH 35, @79 (in cui si dice che il bitume era utilizzato come combustibile per le fiaccole), pensa che nel frammento sofroneo sia utilizzato proprio per le torce. Cfr. Verg. Ecl. 8, 8@ incende bitumine laurus. Si noti, infatti, che un’intera porzione della Ecl. 8, vale a dire i vv. 64-@09, sembra direttamente ispirata a Teocrito (Id. 2), e forse al suo stesso modello, cioè Sofrone; non è da escludere che Virgilio, quando si discosta dal modello teocriteo, possa attingere direttamente a Sofrone, magari proprio al mimo da cui proviene il nostro frammento: a tal proposito, vd. B. Lavagnini, ‘Virgilio, Teocrito e Sofrone’, Ant. Class. 4, @935, pp. @53-@55. 3   Come è noto, l’incenso era largamente impiegato come agente purificatorio, e con valori più ampî in contesti magici, per il suo (presunto) legame con il mondo dell’Oltretomba: nella notte di novilunio, non a caso, Ecate ed Ermes erano celebrati bruciando incenso (Porph. Abst. 2, @6). Sull’impiego di tale resina in rapporto al culto di Ecate, cfr. N. Serafini, ‘La dea Ecate a Cirene fra storia, culto e iconografia (con un catalogo degli hekataia editi e tre inediti)’, in M. Luni (ed.), Cirene greca e romana, Roma 20@4, pp. @07-@26, in part. p. @@4, mentre con preciso riferimento al passo sofroneo che qui interessa, vd. Eitrem @933, p. 22. Per quanto riguarda il particolare delle torce spente, cfr. Eur. Her. 928, mentre sul pugnale cfr. PGM @3, 92. 4  Su tale particolare, si può vedere Suid. q 598 Adler, da leggere assieme a q 599. Secondo Latte @933, p. 262 le porte sono aperte per invitare la dea al sacrificio in suo onore. Sul legame fra Ecate e le porte, in generale, vd. Serafini 20@5; in contesti magici, più nello specifico, si pensi a Theocr. Id. 2, 60, dove un filtro amoroso è cosparso sui battenti della porta dell’amato contestualmente a una preghiera a Ecate, o ancora a PGM 4, 2708-2784, dove nel corso di un incantesimo erotico si chiede alla dea di mandare l’amato presso la soglia di casa dell’invocante. 5   L’edizione di riferimento è Hordern 2004, fr. 4a, pp. 42-44 (= Sophr. fr. 4a K.-A.). 6   Nella fattispecie si potrebbe pensare, sulla scia di Eitrem @933, p. 23, a una sorta di ‘preghiera magica’, di logos epanagkastikos, che trova paralleli nei papiri magici, e.g. in PGM 4, 244@ ss. Il tema letterario delle invocazioni ‘magiche’ a Ecate ritorna, oltre che in Theocr. Id. 2, anche in Luc. Philops. 24 e in Menipp. 9.

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Assai controversi sono sia il contesto generale del frammento sia la sua interpretazione. In questa sede, tuttavia, per ovvie ragioni non mi soπermerò sui problemi di ordine generale che il frammento solleva, bensì mi concentrerò soprattutto sul particolare del silenzio richiesto alle partecipanti alla cerimonia magica. Nello specifico, merita attenzione l’utilizzo del termine eukamia (v. @4), che i lessicografi glossano con termini quali hesychia ed euphemia (Et. M. 392, 5; Hesych. e 69@@ Latte; cfr. e 629@, e 6923): anche in questo caso, come in molti altri, si impiega il termine euphemia (di cui eukamia è la forma dorica) per richiamare al silenzio in un contesto magico-rituale. Ciò dimostra che, ben al di là della mera assenza di parola, nella sfera rituale ciò che conta è l’euphemia, vale a dire l’assenza di discorsi inappropriati: per non sbagliare, in sostanza, la miglior parola possibile è quella non detta. 3. 2. Canidia e la cerimonia magica dell’Epodo 5 di Orazio Nella presente rassegna di culti greci relativi al silenzio sembra opportuna una piccola digressione sull’Epodo 5 di Orazio, sia perché eredita numerosi motivi dei suoi modelli ellenici (in primis Apollonio Rodio), sia perché comunque assume un ruolo di primo di piano nel chiarimento della magia antica. Nel poema, come è noto, si racconta la vicenda di alcune streghe che seppelliscono vivo un ragazzo, con l’intento di utilizzarne il fegato come filtro erotico dopo la sua morte. Tralasciando gli altri elementi, ciò che qui mi limiterò a rilevare è l’invocazione compiuta da Canidia, la quale si appella alla Notte e a Diana chiedendo la loro protezione e assistenza nel rito che si accinge a compiere, a√nché dirigano la loro divina potenza contro i suoi nemici (vv. 49-54). In particolare, Diana è invocata proprio nella sua funzione di “colei che governa il silenzio” nel quale si compiono i riti arcani: quae silentium regis, / arcana cum fiunt sacra (vv. 5@-52). Come ha rilevato M. Dickie, l’espressione sacra arcana è utilizzata anche da Ovidio (Her. 79) per tradurre il greco orgia impiegato da Medea nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e riferito ai misteri di Ecate descritti dalla maga (4, @020). @ Il rito magico eseguito da Canidia e il suo ossequio a Diana, infatti, presentano significative somiglianze con la venerazione incondizionata di Medea nei confronti di Ecate nel poema alessandrino, pertanto la scelta dell’invocazione a Diana non può stupire: controparte romana di Ecate, assieme a Trivia, 2 Diana è la patrona della magia, e del silenzio in cui quest’ultima è praticata.  

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3. 3. La dea ‘silenziosa’ per antonomasia: Muta / Tacita In un lavoro sul silenzio nel mondo antico, per quanto incentrato sulla religione greca, non può mancare almeno un accenno a una divinità peculiare qual è la @

  Dickie 200@, p. @39.   Sul rapporto fra Diana-Trivia ed Ecate, vd. N. Serafini, ‘La dea Diana nell’Ars Amatoria: Ovidio e la tradizione greca’, Euphrosyne 4@, 20@3, pp. @3@-@46, in part. p. @33, assieme a N. Serafini, ‘La “rinascita” di una dea greca: la fortuna di Ecate dal Medioevo al Neo-Paganesimo contemporaneo’, Riv. cult. class. med. 57, 20@5, pp. @63-@92 (con particolare riferimento non solo all’aspetto magico antico, ma anche ai motivi classici ripresi in età moderna, quando Diana sarà considerata la protettrice incontrastata delle streghe). 2

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Muta / Tacita romana, che già nel nome palesa un chiaro riferimento al silenzio: secondo il mito, in origine costei era una ninfa che parlava a sproposito, alla quale Giove strappò la lingua proprio per averla usata senza moderazione (cfr. Ov. Fast. 2, 583-6@6). @ Stando alla testimonianza di Plutarco (Num. 8, @), sarebbe stato Numa Pompilio a introdurre a Roma il culto di questa dea, identificandola con una delle Muse e chiamandola Tacita perché egli “onorava il silenzio pitagorico” (th;n Puqagovreion ejcemuqivan timw`nto~): quest’ultima informazione, tuttavia, solleva più di una perplessità e pertanto merita prudenza. 2 Nel secondo libro dei Fasti (v. 569 ss.), Ovidio abbozza il ritratto di una vecchia lena che, in compagnia delle sue protette, esegue una cerimonia magica con il fine di lanciare una maledizione nei confronti di una rivale, e lo fa invocando la dea Tacita nell’ultimo giorno dei Feralia, giornata in cui solitamente si placavano gli spiriti dei defunti tramite oπerte di vario genere. Il rituale è complesso, e in questa sede non può essere ripercorso nel dettaglio. 3 Ciò che qui interessa, tuttavia, è il suo scopo: la maledizione è vòlta a mettere a tacere le “lingue ostili” (hostiles linguas inimicaque vinximus ora, 58@), magari quelle di una rivale o di qualche cliente insoddisfatto. 4 Si profila dunque densa di significato la scelta della divinità invocata: quale migliore divinità per mettere qualcuno a tacere se non la dea ‘silenziosa’ per antonomasia? Non mancano del resto paralleli epigrafici. Si possono qui menzionare, ad esempio, alcune defixiones giudiziarie romane contenenti un’invocazione alla dea Muta Tacita e l’auspicio di mettere qualcuno a tacere (e.g. AE @958, @50; AIJ 255 

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@   Secondo E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano 20085, p. @4, la logorrea della ninfa sarebbe direttamente rapportabile al suo sesso femminile, poiché nell’antichità si credeva che la prolissità fosse un tratto tipico della donna. Numerose fonti, del resto, aπermano che il miglior ‘ornamento’ (kosmos) per la donna è il silenzio: vd. e.g. Soph. Ai. 293; Democr. fr. 274 D.-K. Cfr. Eur. Troad. 645-655. Sul silenzio ‘femminile’ in Grecia, vd. F. M. Dovetto, ‘Silenzio e voci di donne nell’antichità classica’, Quad. CIRSIL (online) 9, 20@0, pp. @-@3, mentre sul silenzio come condizione distintiva della femina honesta a Roma, anche in diretta connessione al personaggio di Muta Tacita, rinvio alla bibliografia segnalata da Simón 20@0, p. @04 n. @6. 2  Non vedo alcuna relazione diretta fra il culto romano di Tacita, chiamata Mater Larum da Ov. Fast. 2, 6@5-6@6) e il silenzio pitagorico (sul quale vd. infra): probabilmente Plutarco avanza qui una sua personale congettura, dettata dalla tradizione sui rapporti fra Numa e Pitagora e sul presunto discepolato pitagorico del sovrano romano, tradizione sulla quale lo stesso Plutarco indugia a più riprese (e.g. §§ 6-@5 e @6-20) e che anzi costituisce il Leitmotiv dell’intera biografia (cfr. L. Piccirilli in M. Manfredini - L. Piccirilli (eds.), Plutarco. Le vite di Licurgo e di Numa, Milano @9902, pp. xxx-xxxix e passim). Si noti che la scelta del termine echemythia per ‘silenzio’ non è casuale, poiché si tratta di un vocabolo pitagorico: cfr. e.g. Plut. De curios. 5@9c Puqagovra~ e[taxe toi`~ nevoi~ pentaeth` siwphvn, ejcemuqivan prosagoreuvsa~ e infra, p. 66 n. 2. 3  Per una dettagliata discussione del rituale in questione vd. A.-M. Tupet, La magie dans la poésie latine i, Paris @976, pp. 408-4@4, assieme, più di recente, a M. Bettini, ‘Homéophonies magiques. Le rituel en l’honneur de Tacita dans Ovide, Fastes, 2, 269 sq.’, Rev. hist. rel. 223, 2006, pp. @49-@72. 4  Cfr. anche Catull. 7, @2 e Verg. Ecl. 7, 25-28. La mala lingua di cui parlano Catullo e Virgilio, tuttavia, sembra diπerenziarsi dalle hostiles linguas del passo ovidiano in questione: in quei testi, infatti, ci si riferisce alla pratica della lode di qualcuno con l’intento di gettar su di lui una fascinatio.

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277), tramite l’utilizzo di formule fisse, come ut mutus sit o mutum os faciat, e di verbi performativi, caratteristici del linguaggio delle maledizioni. Nelle defixiones agonisticae, sia greche sia romane, l’obbiettivo di mettere a tacere un rivale è infatti uno dei temi più ricorrenti nell’ambito degli agoni giudiziarî, 2 dove la parola è sinonimo di vittoria e il silenzio comporta la perdita della competizione, pertanto l’auspicio che l’avversario diventi muto equivale esattamente all’augurio di infermità nel caso di competizioni atletiche.  

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3. 4. Apollonio di Tiana, la magia e i Pitagorici Apollonio di Tiana, ritenuto da molti un magos o persino un goes, in contatto con i brahamini indiani e con i maghi babilonesi, è senza dubbio un personaggio storico, al quale la tradizione ha attribuito poteri straordinarî e che col tempo ha assunto i contorni di una figura semi-leggendaria, circondata da un’aura di mistero e disapprovazione (Phil. Vit. Ap. @, 2). Fra le altre cose, Apollonio fu persino accusato di manipolare la natura e il volere degli dèi tramite le sue arti magiche, mentre non sono a lui estranee né le arti divinatorie né quelle esorcistiche. 3 Il suo percorso biografico, così come è ricostruito da Filostrato nella Vita di Apollonio, è sicuramente aπascinante anche agli occhi di noi moderni, e mescola sapienze disparate: nato a Tiana, in Cappadocia, da una ricca famiglia, dopo aver studiato grammatica e retorica a Tiana e a Tarso, si sposta a Ege, in Cilicia, dove entra in contatto con gli insegnamenti platonici, stoici, epicurei e, soprattutto, pitagorici. All’età di diciassette anni, infatti, decide di adottare la condotta pitagorica: astenendosi dal vino e dalla carne, con misere vesti di lino si stabilì all’interno del recinto di Asclepio (Vit. Ap. @, 4-@3). Dopo esser rientrato a Tiana per seppellire suo padre e dividere la cospicua eredità (di cui tuttavia conservò solo una minima parte, distribuendo il resto ad altri parenti), la sua biografia segnala il particolare che qui maggiormente interessa. Si dice, infatti, che a questo punto osservò un periodo di silenzio della durata di cinque anni, durante i quali sempre senza parlare vagabondò in Pamfilia e in Cilicia, sino a che giunse ad Antiochia, dove decise di mettersi in viaggio verso l’India per entrare in contatto con la filosofia e la sapienza millenaria dei Brahamini (Vit. Ap. @, @4-@7; cfr. Euseb. Contra Hierocl. @2).  

@   Su queste due defixiones, ma anche per un profilo di Tacita, rinvio al recente lavoro di Simón 20@0. 2   Ad esempio vd. Def. Tab. nrr. @7, @0; 25, @6; 66; 98, 8-9; @@2, 6; @39; @92, 6; 2@7; 2@8; 220; 222, 300, 303 Audollent. Sul tema è tuttora imprescindibile C. A. Faraone, ‘The Agonistic Context of Early Greek Binding Spells’, in C. A. Faraone - D. Obbink (eds.), Magika Hiera. Ancient Greek Magic and Religion, New York-Oxford @99@, pp. 3-32. 3   Celebre l’episodio narrato da Phil. Vit. Ap. 4, @0, per cui quando a Efeso si scatenò un’epidemia, Apollonio additò un mendicante dicendo che fosse il dèmone della peste, il quale fu quindi lapidato dal popolo inizialmente riluttante: una volta smantellata la piramide di pietre sotto la quale era stato ricoperto il mendicante, apparve un cane molosso della statura di un leone. Su rituali simili di soppressione del pharmakos, vd. W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, tr. it. Milano 2003, pp. @90-@94, mentre su Apollonio di Tiana vd. almeno Dickie 200@, pp. 2@0-2@2 e 227-228, assieme alla recente monografia di C. Cremonesi, La vita pura. Apollonio di Tyana e la Sapienza, Padova 2005.

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Filosofo, mago, taumaturgo, pitagorico: Apollonio di Tiana è innanzitutto un figlio di buona famiglia che rinuncia a tutto pur di seguire una condotta che lui ritiene maggiormente pura, tuttavia occorre anche notare che questa è senza dubbio una eccezione, poiché nella gran parte dei casi i saggi itineranti di questo tipo provenivano dagli strati più bassi della società, dove la povertà non era una scelta ma una realtà ineludibile. @ Anche il periodo di silenzio forzato andrà letto in tale luce: non solo prescrizione pitagorica, come vedremo meglio, ma anche e soprattutto rinunzia volontaria da parte del giovane. Egli sceglie una vita di privazioni, e, assieme agli agi della vita comoda che si lascia alle spalle, a quel punto abbandona anche la parola: non è ben chiaro se lo faccia nella speranza di una qualche purificazione o piuttosto con l’intento di raggiungere qualche potere soprannaturale, ma resta il fatto che nel mondo pitagorico il silenzio ha comunque un ruolo non trascurabile, ed è a questo che sarà ora opportuno rivolgersi. In questa sede, per ovvie ragioni, non sarà possibile soπermarsi diπusamente sul ‘bios pitagorico’, 2 pertanto mi limiterò ad alcuni tratti essenziali propedeutici alla nostra discussione. Innanzitutto, ciò che occorre ricordare, è che i Pitagorici promuovevano l’idea di una vita fatta di astensioni, tormento e punizione (cfr. Iambl. Vit. Pyth. 85): proprio la condivisione del medesimo stile di vita conduceva i Pitagorici ad assembramenti di gruppi più o meno estesi che vivevano alla stessa maniera. 3 In molte località sorsero, infatti, delle vere e proprie comunità pitagoriche (Vit. Pyth. 96-@00): il dato interessante è che, per potervi essere ammessi, i candidati dovevano rinunciare alla proprietà privata e soprattutto superare un obbligatorio periodo, della durata di cinque anni, di completo silenzio (echemythia), durante i quali potevano già vivere a contatto con gli altri discepoli. 4  

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@   Su tali personaggi itineranti mi limito a rinviare a Serafini, ‘La povertà’ e, soprattutto, a N. Serafini, ‘Sacerdoti mendicanti e itineranti: gli agyrtai nell’antica Grecia’, Mus. Helv. 72, 20@5, pp. @-@8. 2   Sul quale, fra i tanti, rinvio almeno a W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge @972 e, più di recente, a C. Riedweg, Pythagoras. Leben, Lehre, Nachwirkung, München 2002. Non sarà inopportuno, accanto al bios Pythagoreios, richiamare qui anche l’Orphikos bios, caratterizzato allo stesso modo dalla purezza e dall’obbedienza a determinate regole alimentari e comportamentali: numerosi di questi precetti sono ora disponibili in Orph. Fr. 625-652 Bernabé. Cfr. anche Plat. Leg. 782c. Per quanto riguarda il silenzio, presso gli Orfici non sembra assumere manifestazioni esteriori di tipo rituale: di qui la mia scelta di non dedicarvi un apposito paragrafo, poiché avrei dovuto concentrarmi unicamente sui concetti di segreto e di reticentia mystica, che a mio avviso invece occorre tenere ben distinti rispetto al silenzio reale e rituale che sto cercando qui di chiarire nelle sue varie manifestazioni attive, e non metaforiche. Sul ‘silenzio’ (nel senso di segreto) presso gli Orfici, si è espresso di recente Bernabé 2007, mentre sulle valenze filosofiche ed esoteriche del silenzio presso i Pitagorici rinvio alle recenti pagine di S. Lilla, Il silenzio nella filosofia greca (Presocratici, Platone, Giudeo-Ellenismo, Ermetismo, Medioplatonismo, Oracoli caldaici, Neoplatonismo, Gnosticismo, Padri greci). Galleria di ritratti e raccolta di testimonianze, Roma 20@3, pp. 7-9. Per una rapida, quanto utile e puntuale, messa a punto su Orfismo e Pitagorismo a confronto, rimane tuttora di riferimento Burkert @983. 3   Vd. in proposito Burkert @983, pp. @5-@7 (con bibliografia). 4  Iambl. Vit. Pyth. 68 e 72; Diog. Laert. 8, @0; Clem. Al. Strom. 5, @0, 67, 3; Plut. De curios. 5@9c (cit. supra); Quaest. conv. 728e-f. Cfr. anche Alex. fr. 20@ K.-A. e Isocr. Busir. 29. È assai probabile che anche i seigetaí nominati nella nota iscrizione di Torre Nova (Inscr. Urb. Rom. 4, @60 = Orph. Fr. 585 Bernabé) siano allo stesso modo dei novizî tenuti a rispettare un periodo di

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I cinque anni di silenzio imposti ai neofiti valgono come una prova di autocontrollo, oltre che di determinazione per verificare la reale volontà di intraprendere lo stile di vita pitagorico. Allo stesso tempo si tratta anche di una fase in cui il rapporto fra i neofiti e i membri della setta si segnala per la sua paradossale ambiguità: non ancora pienamente inseriti, eppure già in parte accettati, i neofiti debbono rimanere sospesi in una situazione di contiguità fisica ma di separazione verbale. Il silenzio crea una distanza, relega gli iniziandi ai margini metaforici della setta, pur accogliendoli fisicamente all’interno della stessa. In tal senso accolgo favorevolmente l’ipotesi di P. Piro, il quale di recente ha accostato il periodo di silenzio pitagorico a una sorta di ‘morte rituale’, “un periodo di semiesistenza in cui l’individuo è come sospeso, fluttuante”. @ Inteso in questa maniera, il periodo di silenzio inserito nel rito di iniziazione pitagorica si denota come un momento preciso del percorso iniziatico, un vero e proprio atto rituale che si carica di complessi valori simbolici. Non si può non pensare, in questo caso, a un vero e proprio rito di passaggio denotato da un periodo di emarginazione, cui segue la reintegrazione in senso al gruppo: come in numerosi altri casi, dunque, questo periodo di isolamento tramite il silenzio potrebbe essere inteso come una ‘morte rituale’ del neofita, alla quale seguirebbe la sua ‘rinascita’ metaforica, coincidente con il superamento della fase iniziatica. 2 Il superamento dalla prova del silenzio avrebbe garantito al neofita l’agognata integrazione nella comunità pitagorica, connotata simbolicamente con il permesso di accedere alla tenda del Maestro: “dopo il quinquennio di silenzio diventavano ‘esoterici’ e guadagnavano la possibilità di ascoltare Pitagora all’interno della sua tenda. Prima di allora dovevano invece limitarsi ad ascoltarlo dal di fuori, senza poterlo vedere” (Vit. Pyth. 72). 3 La possibilità di varcare la soglia, pertanto,  

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temporaneo silenzio, come riteneva già L. Moretti ad loc. in Inscr. Urb. Rom. 4, p. @38 (seguito più di recente da Bernabé 2007, pp. 54-55, che riporta anche altre possibili interpretazioni). @

  Piro 2005, p. @42 e passim. Non sembra necessario ripercorrere qui nel dettaglio la dossografia moderna sul tema del silenzio pitagorico: si è molto dibattuto sul suo valore nel rituale pitagorico, soprattutto sulla sua autenticità e sulla presunta antichità di tale usanza. Ad esempio, G. Casertano, ‘I Pitagorici e il potere’, in G. Casertano (ed.), I filosofi e il potere nella società e nella cultura antiche, Napoli @988, pp. @5-27, p. 20 è convinto che quella del silenzio sia una “tradizione tarda e falsa”, mentre già A. Maddalena (ed.), I Pitagorici, Roma-Bari @954, p. 8@ riteneva fosse vano congetturare sui possibili contenuti del silenzio imposto ai discepoli: quest’ultimo, come molti altri, cadeva nell’errore di sovrapporre silenzio e segreto, che sono invece a mio avviso due concetti ben distinti (cfr. supra, pp. 58-59 e passim). Nel giusto, invece, Piro 2005, p. @37 che finalmente intende tale silenzio non come un segreto imposto ai discepoli, bensì come “pratica rituale e momento essenziale” della sequenza iniziatica. 2   Si noti che, stando a Plut. Lyc. @2, 8 e Inst. Lac. 236f, sembra che l’agoge spartana prevedesse una imposizione del silenzio ai giovani, mentre dalle parole di Ar. Nub. 96@ ss. si può dedurre che anche la paideaia ateniese in origine includeva una qualche ‘prova di silenzio’, sebbene tali testimonianze andranno intepretate con la dovuta cautela per la distanza temporale da un lato e per il contesto comico dall’altro. In numerose altre culture, del resto, si osserva l’imposizione del silenzio nel corso dei riti di passaggio: vd. a riguardo A. Brelich, Paides e parthenoi, Roma @969, pp. 34 e 80 n. 84, assieme a pp. @24-@25 (sul silenzio nella agoge spartana) e 224-226 (sulla archaia paideia descritta da Aristofane). Cfr. anche Scarpi @987, pp. 3@-32. 3   Sul ruolo della voce nell’insegnamento della filosofia pitagorica, rinvio alle espressive parole di Plut. fr. 202 Sandbach, in cui lo storico aπerma che tale dottrina unisce l’apprendimento ottenuto “per mezzo della voce e per mezzo del silenzio” (fwnh`/ kai; siwph`)/ .

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equivale metaforicamente alla ‘rinascita’ del neofita e alla sua integrazione nel gruppo. Chi non avesse rispettato la prescrizione del silenzio, invece, sarebbe stato considerato alla stregua di un morto e trattato di conseguenza dagli altri discepoli, come se non esistesse neppure, prevedendo persino l’erezione di un fittizio monumento funebre in suo onore (Vit. Pyth. 73-74). @ Il fatto che costoro fossero trattati come defunti, del resto, corrobora l’ipotesi che il periodo di silenzio equivalesse a una sorta di temporanea morte rituale, dalla quale si può solo o rinascere o restare defunti per sempre, metaforicamente parlando.  

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4. La purificazione e il silenzio dell’omicida 4. @. L’omicida fra mito e rito, da Oreste alla Lex Cathartica di Cirene Assieme agli altri valori del silenzio visti sinora, ne rimane ancora uno che vale la pena valutare: vale a dire la sua funzione profilattica. 2 Il silenzio, infatti, funge anche da protezione per evitare che una contaminazione si diπonda tramite la comunicazione verbale, poiché, come è noto, i Greci erano profondamente convinti che il miasma potesse trasmettersi anche attraverso le parole: “essi credono che parlando con una persona contaminata possano contrarre essi stessi la contaminazione” (schol. Eur. Or. 73). Con ciò si spiega facilmente il diπuso divieto di rivolgere la parola agli omicidi per timore di riceverne la contaminazione (e.g. Soph. OT 238; Eur. Or. 47-48 etc.), e l’obbligo del silenzio che gli assassini sono tenuti a rispettare finché non abbiano compiuto con successo tutti i riti di purificazione previsti in tali situazioni (e.g. Aesch. Eum. 227 ss.; Eur. fr. @008 Kn. e schol. Aesch. Eum. 276-278). 3 Il paradigma mitico a riguardo è senza dubbio Oreste, il matricida perseguitato dalle Erinni che necessita della purificazione per poter essere riammesso nella vita comunitaria. Egli stesso, nelle Eumenidi di Eschilo, pronuncia parole assai rilevanti a tal proposito: “È legge che l’omicida resti muto finché qualcuno non lo purifichi con il sangue puro di una bestiola appena nata” (vv. 448-450). Sulla base del testo eschileo sembrerebbe di intuire che il silenzio dovesse coprire tutto l’arco di tempo che precedeva la purificazione, sino a che questa non fosse completamente adempiuta: tuttavia il precetto non andrà inteso alla lettera, bensì come una regola generale, e persino Aristotele esprime le sue riserve sulla possi 



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  Cfr. in merito Piro 2005, p. @45, assieme a Burkert @983, p. @8.  Mi limito solamente a segnalare qui un altro tipo di potere protettivo del silenzio, ma che si discosta molto dall’ambito da me trattato in queste pagine: nella cosiddetta ‘Liturgia di Mitra’ (PGM 4, 475-820, rièdita da H. D. Betz, The “Mithras Liturgy”, Tübingen 2003 e ancora più di recente da M. Zago (ed.), La ricetta d’immortalità, Milano 20@0, alla quale rinvio anche per un puntuale commento) è descritto l’impressionante viaggio cosmico dell’individuo, che sarebbe condotto al cospetto delle divinità astrali che governano i pianeti, e che appaiono ostili e minacciose. Come protezione, il soggetto dovrebbe recitare una misteriosa invocazione al silenzio: sighv, sighv, sighv, suvmbolon qeou` zw`nto~ ajfqavrtou, fuvlaxovn me, sighv (ll. 558-560; cfr. 579 e 583). 3   Sulla purificazione dell’omicida rimane tuttora imprescindibile Parker @983, pp. 370-374 e passim. 2

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bilità che il colpevole osservi il più totale silenzio per un tempo indefinito (Poet. @460a 32). @ Si può pensare, in tale contesto, anche all’Eracle dell’omonima tragedia euripidea, che dopo l’assassinio dei figli tenta di evitare qualsiasi contatto umano per non diπondere la contaminazione: innanzitutto velandosi il capo per non trasmettere il mysos attraverso gli occhi (Eur. Her. @@55-@@62), 2 ma anche perdurando in un ostinato silenzio (vv. @2@8-@2@9), dal quale uscirà solo nel momento in cui si sarà nuovamente disvelato (v. @229). Un ultimo esempio mitico degno di nota, infine, è quello di Giasone e Medea, anche grazie alla espressiva descrizione oπerta da Apollonio Rodio (Arg. 4, 69@ ss.): quando i due colpevoli giungono da Circe per essere purificati, si siedono immediatamente nel focolare senza dire una parola, e “con le palpebre serrate nessuno dei due osava alzare lo sguardo verso di lei” (vv. 698-699). Un simile comportamento appare assai perspicuo agli occhi antichi, poiché l’atto di sedersi esprime già una sorta di sottomissione mentre il luogo prescelto, vale a dire il focolare, indica altrettanto chiaramente uno stato di supplica: 3 infatti Circe, anche dal loro silenzio, intuisce immediatamente che Giasone e Medea sono macchiati da una qualche colpa, perciò, seguendo la “legge di Zeus Hikesios” (v. 700), appronta il complesso sacrificio purificatorio di un maialino (vv. 704-7@7). Il silenzio, inoltre, non riguarda solamente l’omicida, ma anche chi gli sta attorno. A tal proposito, si può ricordare la celebre (cosiddetta) Lex Cathartica di Cirene, datata al iv secolo a.C. (LSS nr. @@5), nella quale si prescrive che quando il colpevole è condotto nella pubblica via tutti i presenti dovranno restare in silenzio, mentre sembra che una sorta di araldo dovesse precederlo annunziando l’arrivo di una persona contaminata. 4 Tralasciando i numerosi dettagli che rimangono tuttora oscuri riguardo a tale iscrizione, la quale meriterebbe ben maggiore  

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@   Nello specifico, Aristotele fa riferimento al viaggio in Misia che Telefo avrebbe condotto interamente osservando la regola del silenzio, seguendo le istruzioni dell’oracolo di Delfi, dopo aver ucciso i suoi zii: vd. Alex. fr. @83, 3 K.-A.; Amph. fr. 30, 7 K.-A.; Hyg. Fab. 244, 2; Paroem. Gr. i p. 4@2 Leut.-Schn. Da notare, tuttavia, che nelle fonti non v’è traccia di una purificazione subìta da Telefo. 2   Sul capo velato, cfr. ad esempio Eur. IT @207 e @2@8, e supra. 3   La posizione seduta, come ha dimostrato Montiglio 2000, pp. 20-2@, simboleggia una sorta di declassamento rispetto a quella eretta, e ben si addice a un supplice o a un omicida: non di rado, infatti, è accompagnata dal silenzio dello stesso. Basti pensare alla dea Demetra, che dopo il rapimento della figlia si ostina in un pervicace silenzio, seduta sulla pietra di Eleusi (Hymn. Cer. 2, @98-20@; cfr. supra). 4  Sulla Lex Cathartica la bibliografia è davvero vasta. Mi limito pertanto a segnalare almeno le pagine di Parker @983, pp. 332-35@, da vedere assieme all’ampia trattazione di Robertson 20@0, pp. 259-374, e, ancora più di recente, a Fabiano 20@5, cap. 2. Nello specifico, sulla prescrizione del silenzio in tale iscrizione, cfr. Montiglio 2000, pp. @9-20. La proclamazione del silenzio da parte di un araldo nel corso di una purificazione è attestata anche in un decreto di Lindo (SEG 39, 729), che del resto presenta numerosi punti di contatto con la Lex Cathartica cirenea, come ha dimostrato V. Kontorini, ‘Influence de Lindos sur le droit sacré de Cyrène: les Suppliants de Cyrène à la lumière d’une inscription inédite de Lindos’, in A. Mastino (ed.), L’Africa romana ii. Atti del iv Convegno di Studio (Sassari, @2-@4 dicembre @986), Sassari @987, pp. 579-580: nel decreto di Lindo, per la precisione, colui che proclama il silenzio è chiamato proaggelthvr, ‘annunziatore’, ma è abitualmente inteso come un araldo (cfr. Robertson 20@0, p. 365 e n. 50, con bibliografia).

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ampiezza, ciò che qui interessa è il silenzio dell’omicida e degli astanti: allo stesso modo, ad esempio, anche Circe evita di parlare quando intuisce che Giasone e Medea hanno le mani macchiate di sangue (Ap. Rh. Arg. 4, 698 ss.), e così il re Demofonte e i suoi commensali, quando accolgono Oreste e lo obbligano a mangiare in disparte, senza rivolgergli la parola, come vedremo a breve (vd. infra). L’uomo contaminato, e più nello specifico l’omicida, è escluso dalla società e se ne autoesclude a sua volta evitando ogni tipo di comunicazione verbale. Il capo velato, che normalmente si accompagna al silenzio, ne è un chiaro segno: la sua situazione è anomala, e i suoi gesti ne sono la prova. A mio avviso questo silenzio si configura come un preciso atto rituale qui inserito nel complesso delle sequenze purificatorie, e assume inoltre anche un valore che io definirei ‘profilattico’, inteso a proteggere dalla contaminazione chiunque incontri l’omicida. 4.2. Silenzio alle Antesterie: il simposio ‘anomalo’ Rimanendo sempre sul versante cultuale ma volgendo la nostra attenzione alla città di Atene, occorre fare un passo indietro e riprendere la figura mitica di Oreste. Nel secondo giorno delle Antesterie, chiamato Choes, si svolgeva un rituale assai insolito: gli Ateniesi, infatti, si riunivano nelle loro case e bevevano in silenzio, ognuno seduto a una tavola diversa, e con il proprio cratere di vino. L’aition del rito chiama in causa proprio Oreste, il quale, nel corso delle sue peregrinazioni durante l’espiazione della colpa, giunse fino ad Atene, dove il re Demofonte lo accolse, ma lo obbligò a bere da solo e in silenzio, in disparte da tutti gli altri per evitare di contaminarli (Eur. IT 947-960; Plut. Quaest. conv. 6@3b e 643a-b). @ Il divieto, non solo di rivolgere la parola ma anche di attingere allo stesso cratere o di mangiare alla stessa tavola, è una misura abitualmente adottata nei confronti dell’omicida e che la tradizione ascrive a Draconte (Demosth. Lept. @58; Arist. Const. Ath. 67, 2-4): è proprio dalla paura della contaminazione che l’attidografo Fanodemo fa derivare anche la celebre competizione di bevute che si teneva nel giorno dei Choes, poiché per evitare che Oreste e gli altri cittadini attingessero allo stesso cratere Demofonte fece portare una brocca di vino a ciascun commensale, per prevenire qualsiasi condivisione o contatto (FGrHist 325 F @@; cfr. Apollod. FGrHist 244 F @33). Il simposio, non occorre dirlo, è il luogo per eccellenza della condivisione del vino e delle parole: rimanere in silenzio al simposio è del tutto inappropriato agli occhi antichi (cfr. Plut. Quaest. conv. 6@3b-c; De cohib. ira 456e), perché sovverte la natura stessa del momento di incontro e condivisione, mentre la mancata spartizione del vino sembra addirittura minare le fondamenta del simposio stesso e  

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@   Sulle Antesterie ritengo tuttora ineguagliate le pagine di Burkert @972, pp. 236-269 (in particolare sulla giornata dei Choes, pp. 24@-250). Vale la pena menzionare, sebbene non direttamente collegata alla purificazione in séguito a una contaminazione ma che presenta una certa a√nità alla cerimonia ateniese, anche la festa dei Thiasoi celebrata a Egina in onore di Posidone, durante la quale gli Egineti consumavano per sedici giorni i pasti in solitudine e in silenzio, senza neppure la presenza degli schiavi, tanto da guadagnare il soprannome di Monophagoi, “Mangiatori solitarî” (Plut. Quaest. Graec. 30@e-f; Athen. 588e, 590f).

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dei suoi valori. Eppure, durante la festa delle Antesterie, questo era proprio ciò che accadeva: nonostante al giorno d’oggi denominazioni simili siano pressoché cadute in disuso, il rituale in questione sarebbe un esempio perfetto di quello che un tempo si sarebbe chiamato un ‘rito di inversione’. Una situazione ordinaria come il simposio è sovvertita nella cornice rituale, e il silenzio dei simposiasti ne è la caratteristica principale. Anche in questo caso, dunque, il silenzio non è un mero corollario, una condizione accessoria e marginale: al contrario, si tratta di un elemento fondante del rito, addirittura identificante. Il silenzio che accompagna la consumazione del vino e che isola i partecipanti al rito si configura come un atto rituale esso stesso, che stabilisce una norma rituale proprio sovvertendone un’altra ormai tradizionale e radicata nella vita sociale greca.  

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Bibliografia 2  

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Abstract Greek religious life was loud: everything was balanced between sounds, music, and chants. Silence did not have a ‘religious’ value, as it happens in the Christian liturgy, where it denotes the intimacy within the relationship between God and his worshippers: on the contrary, in ancient Greece prayers were normally risen out loud, as everyone knows. Thus said, it is also true that silence had a much more important role in ancient society and cult than one would think: numerous rituals did in fact include some forms of silence, as the paper will show.

I S I L E N Z I N E L L E G ENEA LOGIE I N E T À AR C AI C A E CLA SSICA : S T R AT E GI E E C ONVENZIONI A l essa ndr a Am atori

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e i cataloghi hanno senza dubbio rivestito un ruolo di primo piano nell’estetica e nella poesia antica, @ così ricca di liste e di enumerazioni, tra i vari tipi di elencazione un posto di primo piano spetta sicuramente alla genealogia, 2 vero e proprio operatore logico 3 in grado di spiegare la realtà contemporanea e fattore di costruzione dell’identità collettiva. Ai Greci di età arcaica e classica che assistevano alle performances dei cantori, la ricostruzione di uno stemma genealogico oπriva un saldo riferimento cronologico e ancor più un quadro ordinato del mondo, in cui il presente veniva ancorato a precisi punti di riferimento e, attraverso questi, giustificato e compreso. Come è noto, infatti, la genealogia si configura come una costruzione retrospettiva, che attraverso le discendenze e i rapporti di parentela riconduce il presente storico-politico al passato mitico, individuando capostipiti illustri e giustificando le relazioni fra diversi gruppi sociali: le unioni tra dei e mortali, la fondazione dei gene eroici, la moltiplicazione delle linee genealogiche raccontano il periodo delle origini sempre alla luce della situazione contemporanea, dando conto della sua diπerenziazione e della sua gerarchia. Tale dipendenza dal presente storico rende la genealogia quanto mai fluida, aperta all’alterazione e alla manipolazione: al variare dei rapporti di potere alcune figure (o, in alcuni casi, interi rami) possono venire eliminate o sostituite, mentre la diπusione di varianti genealogiche alternative può servire a supportare aspirazioni al potere e rivendicazioni dinastiche. Anche i criteri di organizzazione della genealogia rivelano scopi ben precisi: come vedremo meglio in seguito, discendenze di tipo lineare, che mettono in evidenza la filiazione diretta da un antenato divino, intendono generalmente dimostrare il valore di un personaggio o legittimarne il potere politico, mentre la presenza di rami collaterali spiega avvenute fusioni fra gruppi sociali diversi o l’associazione al potere di una o più figure originariamente assenti. Analoghi caratteri di fluidità e di selettività si riscontrano in numerose culture orali e sono stati ampiamente studiati dall’antropologia. Per quanto riguarda il mondo greco, ne abbiamo un riflesso nelle genealogie attestate all’interno di opere letterarie: se l’epica arcaica, da Omero al Catalogo delle donne, all’epica genealogica (purtroppo largamente frammentaria), 4 appare come un terreno di indagine  

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  Su questo tema si veda, per tutti, Eco 2009.   Cfr. Plat. Hipp. Ma. 285d, dove Ippia ricorda come le folle radunate ad Olimpia amassero in modo particolare ascoltare racconti genealogici. 3   Mi rifaccio alla definizione di Jacob @994, p. @76. 4   Si pensi all’epica di Eumelo, Asio di Samo, Cinetone di Sparta, ai Naupaktia, definiti anch’essi da Pausania (4, 2, @ e @0, 38, @) come un epos di tema genealogico. 2

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estremamente ricco sotto questo aspetto, stemmi genealogici non mancano in opere più propriamente storiche, quali i frammenti dei logografi e le Storie erodotee, senza contare le ricostruzioni oπerte dai più tardi Apollodoro e Pausania. Sebbene siano state fissate in forma scritta e pertanto sottratte al meccanismo di continua ri-definizione tipico dell’oralità, le discendenze greche mostrano in molti casi le convenzioni e le strategie proprie del pensiero genealogico e possono essere indagate da questo punto di vista, come è stato mostrato, fra gli altri, dagli studi di M. L. West e R. L. Fowler. @ Nella costruzione della genealogia, rilevante è ciò che viene incluso e, al tempo stesso, ciò che viene escluso e, quindi, taciuto: concentrarsi su una discendenza a scapito di un’altra, lasciare in ombra una figura scomoda, eliminare un ramo collaterale appaiono come operazioni non neutre, 2 da indagare alla luce dell’occasione e degli intenti sottesi al disegno genealogico. Su queste basi, prenderemo in considerazione alcuni aspetti legati ai silenzi nelle genealogie, mostrandone il ricorrere in testi e contesti diversi, sempre limitatamente al periodo arcaico e classico. Un primo significativo caso di silenzio si presenta nelle discendenze greche rispetto alle figure femminili. Nonostante testi come il Catalogo delle donne e le Megalai Ehoiai, organizzati su base genealogica attorno alle figure di eroine, possano indurre a pensare il contrario, le genealogie greche rivelano una struttura fortemente patrilineare e attribuiscono la fondazione della stirpe alle figure maschili, generalmente divine, che si uniscono a donne mortali e generano gli eroi. L’importanza del genos mitico, il valore e la regalità che esso garantisce ai suoi esponenti, il nome stesso della stirpe derivano dagli antenati maschili, mentre le eroine svolgono una funzione di collegamento, inserendosi in quelli che J. Hall definisce punti di frattura della genealogia. Rifacendoci ancora a un’e√cace immagine coniata dallo studioso, se le donne rappresentano il collante (glue), ad essere i building blocks delle stirpi eroiche sono immancabilmente gli uomini. 3 Tale carattere secondario delle figure femminili fa sì che esse possano essere talvolta tralasciate nell’esposizione di un albero genealogico: è il caso di numerose genealogie omeriche, pronunciate dai guerrieri sul campo di battaglia, di solito nell’imminenza di un duello, per rivendicare la propria ascendenza divina e l’arete che da essa necessariamente consegue. Un esempio è oπerto dalla genealogia di Enea presentata nel ventesimo libro dell’Iliade (v. 2@5 ss.). Qui, esortato da Apollo sotto le spoglie del troiano Licaone, Enea si appresta a sfidare Achille, tornato a combattere in seguito alla morte di Patroclo e desideroso di compiere la sua vendetta su Ettore: sprezzante, Achille sottolinea l’appartenenza di Enea ad un ramo solo secondario della dinastia dardanide e gli ricorda di averlo già in passato sconfitto e messo in fuga. A queste parole, Enea risponde proclamando la propria stirpe: la genealogia, una delle poche genealogie ‘lunghe’ in Omero, 4 comprende entrambi i rami della dinastia, la cui separazione è evidenziata  

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  Cfr. West @985; Fowler @998. Vd. anche Thomas @989; Hall @997.   In generale, sui significati e i valori del silenzio nella cultura greca, aspetto mai neutro e sempre portatore di significato, vd. Montiglio 2000. 3   Vd. Hall @997; cfr. anche Fowler @998, p. 6. 4   Un altro esempio di genealogia ‘lunga’ è quella di Glauco in Il. 6. 2

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nell’Iliade già nel libro secondo, dove i Troiani sono al comando di Ettore, mentre Enea insieme ai figli di Antenore guida i Dardanidi (2, 8@6-823). Capostipite è Zeus, padre dell’eponimo Dardano, al quale viene attribuita la fondazione di una primitiva città di Dardania: da questi discende Erittonio, il cui nome denota un legame con la terra e che si contraddistingue per la grande ricchezza, simboleggiata dal possesso di cavalle e puledre. @ Figlio di Erittonio è un altro eroe eponimo, Troo, definito re dei Troiani e padre a sua volta di Ilo, Assaraco e Ganimede. Se quest’ultimo è destinato a dimorare con gli dei e dunque a rinnovare quello speciale rapporto che lega la famiglia reale troiana a Zeus e agli Olimpi, dai suoi fratelli discendono le due linee genealogiche che conducono, rispettivamente, ad Ettore (attraverso Laomedonte e Priamo) e ad Enea (attraverso Capi ed Anchise). Nell’intera genealogia, molto dettagliata e costruita in modo da includere le diverse figure eponimiche in un disegno unitario e coerente, il silenzio sulle eroine è totale. 2 Le ragioni di questo silenzio vanno ricercate nella funzione che la genealogia assume nell’episodio: desideroso di contrastare Achille con il vanto prima ancora che con la lancia e di rispondere all’insulto del nemico, che lo aveva dipinto come l’esponente di un ramo cadetto, inferiore agli occhi del re Priamo, 3 Enea si presenta come discendente di Zeus e di Dardano, rivendicando orgogliosamente l’ajgaqiva che i suoi antenati gli garantiscono. Le donne, che non ricoprono alcun ruolo in questa trasmissione di valori, possono venire eliminate: portatrici di una funzione genealogica secondaria, come l’ha ben definita P. Bernardini, 4 non trovano spazio nelle discendenze eroiche di questo tipo e su di esse l’aedo tace, lasciando spazio agli eroi e agli dei. Il silenzio sulle figure femminili è così pervasivo da includere la stessa Afrodite, che pure Enea aveva citato ai vv. 207-209 contrapponendola alla madre del rivale Teti: sebbene si tratti di una dea (e non di una semplice eroina) e sebbene generalmente sia proprio lei a nobilitare l’ascendenza di Enea, 5 in questo caso l’interesse dell’aedo si concentra sulle figure maschili e il nome di Afrodite viene tralasciato, in quanto non direttamente funzionale al contesto. Nella genealogia di Enea la descrizione dei due rami facenti capo ad Ilo e ad Assaraco permetteva all’eroe di rivendicare per sé un’importanza analoga a quella di Ettore, mostrando l’appartenenza di entrambi alla medesima stirpe fondata da Zeus e la loro parallela discendenza da eroi di primo piano per la città di Troia. In altri casi, tutt’altro che infrequenti nell’epica, si registra invece un silenzio sui rami collaterali e lo stemma si concentra su un unico ramo dinastico: genealogie lineari di questo tipo svolgono la funzione di legittimare il potere o lo status di un personaggio, riallacciandolo ai suoi antenati e mostrando la sua discendenza diretta da essi. A questo fine, i rami collaterali, inseriti laddove sono utili a rivelare parallelismi e a giustificare collegamenti tra gruppi diversi, vengono eliminati  

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@   Wathelet @998, p. @80 sottolinea il ricorrere del tema dell’allevamento dei cavalli in relazione ai Troiani, definiti da Omero iJppovdamoi: un dato confermato dagli scavi archeologici relativi a 2 Troia vi e viia.   Rileva questo aspetto anche Wathelet @998, p. @84. 3   Cfr. Hom. Il. @3, 460-46@, in cui Enea si trova nelle ultime file dell’esercito, irato con Priamo 4 perché non gli accorda gli onori dovuti.   Bernardini 20@2. 5   Cfr. ad es. Hom. Il. 2, 820.

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a favore di una ricostruzione che procede in linea retta, dal fondatore della stirpe fino al suo ultimo discendente. Nell’Iliade ne troviamo diversi esempi nelle genealogie pronunciate dagli eroi. Nel libro xiii (v. 449 ss.), è Idomeneo a nominare i suoi antenati di fronte al troiano Deifobo. L’eroe aπerma di appartenere alla stirpe di Zeus (Zhno;~ govno~, v. 449): da Zeus discende Minosse, padre di Deucalione, a sua volta padre di Idomeneo. @ Il racconto genealogico, racchiuso in pochi versi, oltre a tacere sulle figure femminili, secondo il procedimento che abbiamo già individuato, evita di citare i rami collaterali, noti da altre fonti, 2 e non si soπerma sui miti relativi ai diversi personaggi coinvolti. Il suo scopo è dimostrare il valore dell’ultima generazione ed evocare uno sfondo utile a caratterizzare l’eroe Idomeneo: legami genealogici a più largo raggio vengono quindi taciuti a favore di una discendenza diretta, che procede secondo la linea maschile. 3 Dello stesso tipo sono le genealogie di Asteropeo 4 e di Achille nel libro xxi (v. @39 ss.). Quando Asteropeo compare sul campo di battaglia di fronte al Pelide, l’aedo ne ricorda la nascita da Pelegone, figlio del fiume Assio 5 e da Peribea, a sua volta figlia di Acessamene. Pochi versi dopo, secondo le modalità tipiche del duello epico, è l’eroe stesso a proclamare, di fronte ad Achille, la propria nascita: egli aπerma di discendere dall’Assio e di essere figlio di Pelegone ma tace sul ramo materno, evidentemente non funzionale ad accompagnare la sfida. Alla genealogia di Asteropeo risponde quella di Achille, pronunciata in un secondo momento, quando il duello ha avuto ormai luogo e il nemico giace morto sulle rive dello Scamandro: alla discendenza di Asteropeo da una divinità fluviale, l’eroe contrappone il proprio superiore legame con Zeus, ricordando i propri antenati Eaco e Peleo e mostrando così la linea diretta che lo lega al dio. La superbia di Achille, che aπerma che tutti i fiumi della terra, compreso Oceano, sono nulla di fronte al fulmine di Zeus, gli costerà subito dopo la reazione dello Scamandro, che ingaggerà con l’eroe una dura lotta, per fermarsi solo in seguito all’intervento degli dei. Nei due casi considerati, totale è il silenzio sui rami collaterali della genealogia, a favore di una discendenza diretta la cui funzione è mostrare l’arete dell’eroe come qualità connaturata alla stirpe a partire dal suo capostipite divino. Genealogie lineari come quelle pronunciate dagli eroi epici figurano anche nelle opere storiche e mitistoriche in prosa, ricche di ricostruzioni genealogiche che congiungono il presente storico al passato mitico: qui, il legame con le figure di 

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  La stessa genealogia si ritrova in Hom. Od. @9, @78-@8@; Hes. fr. 204, 56-57 M.-W.  L’Iliade stessa nomina Radamanto come fratello di Minosse (@4, 32@-322); nei frammenti esiodei figura tra i figli di Zeus ed Europa anche Sarpedonte (fr. @40 M.-W.), che nell’Iliade è figlio di Zeus e Laodamia e cugino di Glauco (6, @96-@99). La genealogia esiodea diviene poi canonica (cfr. ad es. Bacch. Dith. fr. *@0 Maehl.; Eur. Rh. 28-29; Hellan. fr. 94 Fowler). In Apollod. Bibl. 3, @ ss. figurano anche i figli di Minosse Glauco e Catreo, la linea genealogica collegata a quest’ultimo, e i fratelli di Idomeneo Crete e Molo. 3   Vd. Carrière @998, pp. 67-68. 4   Asteropeo, proveniente dalla Peonia, è nominato anche in Hom. Il. @2, @02; @7, 2@7 e 35@352; non compare però tra i comandanti dei Peoni nel catalogo delle navi (2, 848), cfr. schol. Hom. Il. 2@, @40 (v p. @54, 37 Erbse). 5   Si tratta dell’odierno fiume Vardar, che scorre in Macedonia per poi sfociare nel golfo di Salonicco: l’Iliade lo cita anche nel catalogo delle navi (2, 849) definendolo ∆Axiou` eujru; rJevonto~. 2

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vine ed eroiche oπerto dalla genealogia ha lo scopo di giustificare la regalità o il potere sul territorio, divenendo un’arma nel confronto politico e uno strumento di legittimazione e di propaganda. Anche in questo caso, i rami collaterali vengono frequentemente taciuti e si preferisce collegare direttamente il personaggio al capostipite mitico. Nel fr. 2 Fowler di Ferecide di Atene, autore di un’opera mitografica in prosa risalente al v secolo, troviamo una genealogia della famiglia filaide, che viene fatta discendere da Aiace, padre dell’eroe eponimo Fileo. Pher. fr. 2 Fowler (Marc. Vita Thuc. 2) [...] Divdumo~ marturei` ... Ferekuvdhn ejn th` prwvth/ tw`n iJstoriw`n favskwn ou{tw~ levgein: Filaiva~ de; oJ Ai[anto~ oijkei` ejn ∆Aqhvnai~. ∆Ek touvtou de; givnetai Ai\klo~, tou` de; ∆Epivluko~, tou` de; ∆Akevstwr, tou` de; ∆Aghvnwr, tou` de; Ou[lio~, tou` de; Luvkh~, tou` de; †Tovfwn, tou` de; Filai`o~, tou` de; ∆Agamhvstwr, tou` de; Teivsandro~, ejf∆ ou| a[rconto~ ejn ∆Aqhvnai~ < >, tou` de; Miltiavdh~, tou` de; ÔIppokleivdh~, ejf∆ ou| a[rconto~ Panaqhvnaia ejtevqh, tou` de; Miltiavdh~, o}~ w[ikise Cersovnhson. [...] Didimo testimonia che Ferecide nel primo libro delle Storie dice così: “Fileo figlio di Aiace vive ad Atene. Da lui nasce Eclo, da lui Epiluco, da lui Acestore, da lui Agenore, da lui Ulio, da lui Lice, da lui †Tofone, da lui Fileo, da lui Agamestore, da lui Tisandro, che mentre era arconte ad Atene , da lui Milziade, da lui Ippoclide, sotto il cui arcontato vennero istituite le Panatenee, da lui Milziade, che colonizzò il Chersoneso”.

Lo stemma genealogico comprende quindici generazioni e procede in modo lineare da Aiace fino a Milziade, tacendo sui rami collaterali della famiglia. In un altro frammento (fr. 60 Fowler), sicuramente da collegare al primo, l’autore aπerma che Telamone non era figlio di Eaco e fratello di Peleo, bensì figlio di Atteo, noto alla tradizione come re dell’Attica e, per alcuni, addirittura eponimo della regione, @ e di Glauce, figlia di Cicreo e nipote di Salamina. La genealogia ferecidea intende sganciare i Filaidi da ogni legame con Egina, patria di Eaco e Peleo, e collegarli invece all’Attica e a Salamina attraverso Aiace Telamonio e i suoi antenati Atteo e Cicreo. Si tratta di una costruzione significativa dal punto di vista politico, tesa a legittimare, attraverso l’autoctonia e la discendenza da un eroe di primo piano, quella che era la famiglia al potere ad Atene. La volontà di presentare una discendenza diretta dei Filaidi da Aiace, che possa giustificarne il prestigio e il potere politico, determina l’introduzione di una variante genealogica non altrimenti nota, che si può forse ascrivere allo stesso Ferecide, e la costruzione di uno stemma lineare, privo di rami secondari. Tale intento permette di spiegare anche l’assenza dalla genealogia di Cimone, che, sebbene fosse il rappresentante più in vista dalla famiglia filaide, apparteneva ad un suo ramo collaterale. 2 Il silenzio su Cimone, che induceva F. Jacoby 3 a datare Ferecide in una fase precedente all’attività politica dello statista, trova quindi la sua naturale spiegazione nella costruzione della genealogia, che serba il silenzio sui rami secondari in quanto non interessata ad essi. La collocazione di Ferecide nell’età cimoniana, sostenuta da numerosi studiosi a partire da R. Laqueur nell’articolo  

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  Vd. Apollod. Bibl. 3,@4, 2; Paus. @, 2, 6; Steph. Byz. s.v. ∆Akthv; Strab. 9, @, @88. 3   Vd. Huxley @973, p. @38; Dolcetti 2004, p. @@.   Jacoby @947.

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dedicato al mitografo nella Realencyclopädie @ e riaπermata con nuovi argomenti da G. Huxley e da P. Dolcetti, 2 trova del resto sostegno in diversi altri elementi 3 ed appare come l’ipotesi più probabile di datazione del logografo. Il silenzio sui rami collaterali si può riscontrare anche nelle genealogie erodotee: riservate solitamente ai re, le genealogie delle Storie rispecchiano tradizioni legate alle diverse case regnanti e procedono ancora una volta in maniera lineare, dalla contemporaneità fino a risalire al fondatore della stirpe. È il caso della genealogia di Alessandro, re di Macedonia, fino al primo sovrano Perdicca (8, @39), della genealogia achemenide da Serse, a Ciro, fino all’eponimo Achemene (7, @@, 2), e delle genealogie dei re spartani, trattate separatamente per il ramo agiade (7, 204) e per quello euripontide 4 (8, @3@), nelle quali la discendenza da Eracle legittima la sovranità e il dominio sul Peloponneso. 5 Un ultimo interessante caso di silenzio nelle esposizioni genealogiche riguarda le figure intermedie dello stemma, che si collocano a metà tra i fondatori mitici e gli esponenti più recenti. Il fenomeno, approfondito dagli antropologi e descritto come floating gap, ricorre nelle culture orali, dove la memoria collettiva si concentra sulla storia recente e sul periodo delle origini, l’una in quanto vicina nel tempo e dunque oggetto di interesse diretto, l’altro poiché fornisce il punto di partenza e vede solitamente come protagonisti divinità ed eroi. Il momento intermedio fra i due tende invece ad essere dimenticato, producendo appunto un gap che si sposta in avanti con il procedere del tempo e l’aumentare delle generazioni. Questo fenomeno, definito anche hourglass eπect, a marcare la strozzatura che si produce tra i due periodi dei quali si conserva il ricordo, ricorre in modo evidente nelle genealogie, mezzo privilegiato di computo del tempo nelle culture orali. 6 Il floating gap lascia tracce consistenti anche nelle opere storiche, che, pur soggette all’elaborazione letteraria e a una più matura riflessione sulla cronologia, riportano quelle tradizioni che sono patrimonio comune della collettività e sono quindi soggette ai meccanismi di selezione e dimenticanza tipici dell’oralità. Così avviene nelle Storie erodotee, che mostrano diversi esempi di silenzio sulle fasi intermedie che separano la storia delle origini dal presente della narrazione. Limitandoci alle genealogie, ne esamineremo due casi relativi al logos lidio, nel primo libro, e al logos scizio, nel quarto, sempre tenendo presente che, a diπerenza delle culture orali nelle quali il fenomeno del floating gap è stato indagato, attestanti un’unica tradizione ‘u√ciale’, nell’opera di Erodoto confluiscono una pluralità di fonti e di memorie, che ne rendono maggiormente complessa e problematica l’interpretazione. 7  

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  Laqueur @938. 2  Vd. Huxley @973; Dolcetti 2004, p. 9 ss.   In part. il fr. @49 Fowler, che testimonia il culto di Apollo Ulio, ugualmente legato a Cimone e ai Filaidi, vd. Huxley @973, pp. @39-@40; Dolcetti 2004, pp. @2-@3 e la bibliografia ivi citata. 4   Hanno opportunamente chiarito la natura genealogica, e non di elenchi di re, di queste liste, Vannicelli @993, pp. 35-45; De Vido 200@. Vd. anche l’approfondita analisi di Calame @987. 5   In altri casi Erodoto tace completamente la genealogia di un personaggio: un esempio meritevole di approfondimento è la presentazione di Isagora in 5, 66, dove lo storico aπerma di non saper dire chi fossero i suoi antenati ma aggiunge che i membri della sua famiglia sacrificavano 6 a Zeus Cario.   Vd. Vansina @985, pp. 23-24, @68-@69. 7   Per un approfondimento del fenomeno del floating gap in Erodoto vd. Thomas 200@. 3

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Abbozzando la storia lidia nel primo libro (@, 7), Erodoto ricorda tre dinastie di sovrani: ai primi re, discendenti dell’eponimo Lido, figlio di Atys, succedono i sovrani eraclidi e poi i Mermnadi, subentrati al potere in seguito alle vicende che vedono protagonisti Gige e Candaule. Degli Eraclidi Erodoto riporta la genealogia, che comprende Alceo, figlio di Eracle e Onfale, e i suoi discendenti Belo, Nino e Agron, il primo a divenire re di Lidia. Hdt. @, 7 [...] “Agrwn me;n ga;r oJ Nivnou tou` Bhvlou tou` ∆Alkaivou prw`to~ ÔHrakleidevwn basileu;~ ejgev- neto Sardivwn, Kandauvlh~ de; oJ Muvrsou u{stato~. OiJ de; provteron “Agrwno~ basileuvsante~ tauvth~ th`~ cwvrh~ h\san ajpovgonoi Ludou` tou` “Atuo~, ajp∆ o{teo oJ dh`mo~ Luvdio~ ejklhvqh oJ pa`~ ou|to~, provteron Mhivwn kaleovmeno~. Para; touvtwn ÔHraklei`dai ejpitrafqevnte~ e[scon th;n ajrch;n ejk qeopropivou, ejk douvlh~ te th`~ ∆Iardavnou gegonovte~ kai; ÔHraklevo~, a[rxante~ [me;n] ejpi; duvo te kai; ei[kosi genea;~ ajndrw`n, e[tea pevnte te kai; pentakovsia, pai`~ para; patro;~ ejkdekovmeno~ th;n ajrchvn, mevcri Kandauvlew tou` Muvrsou. [...] Infatti Agrone, figlio di Nino, nipote di Belo e pronipote di Alceo, era stato il primo degli Eraclidi a regnare su Sardi, come Candaule, figlio di Mirso, fu l’ultimo. Quelli che avevano regnato su questo paese prima di Agrone erano discendenti di Lido, figlio di Ati, dal quale prese nome tutto il popolo lidio, che prima era chiamato Meone. Gli Eraclidi, discendenti da una schiava di Iardano e da Eracle, presero possesso della signoria, trasmessa da costoro in virtù d’un vaticinio; e vi regnarono, durante ventidue generazioni in linea maschile, per cinquecentocinque anni, ricevendo il potere ciascuno dal proprio padre, fino a Candaule, figlio di Mirso. (tr. di L. Annibaletto)

Secondo il computo erodoteo, a partire da Agron gli Eraclidi regnarono in Lidia per ventidue generazioni, corrispondenti a cinquecentocinque anni: di queste ventidue generazioni è però ricordato solo il primo esponente, Agron (con la sua genealogia da Eracle), per poi passare alle ultime due generazioni con Mirsi e suo figlio Candaule. Delle figure intermedie rispetto ai due estremi cronologici non viene serbata memoria e nella linea genealogica si produce uno stacco. La successione delle dinastie eraclide e mermnade si ritrova con qualche variazione nei frammenti di Nicolao di Damasco, @ che attingono, anche se è di√cile stabilire in quale misura, ai Lydiaka di Xanto: tra i re eraclidi troviamo qui il nome di Ardys, presente in Erodoto unicamente nella dinastia mermnade, a rivelare una stratificazione di tradizioni intorno alla lista dei re lidi, che rende alquanto arduo stabilirne l’origine 2. Ad ogni modo, la genealogia dei re eraclidi, di origine probabilmente greca o che comunque riflette una situazione di ellenizzazione della Lidia, mira a collegare figure più recenti e forse storiche, come Mirsi e Candaule, ad Eracle e ai suoi immediati discendenti, che costituiscono i fondatori della stirpe e ne legittimano la sovranità sul territorio, oltre che il legame con il mondo  

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  Nic. Dam. FGrHist 90 FF 44-47.   Sui problemi legati alla genealogia dei re lidi (nonché sui rapporti Nicolao-Xanto) vd. Talamo @979; Lombardo @980; Mazzarino @989, pp. @65-@82; Parmentier-Morin @995; Dorati 2003. 2

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greco. Ad Eracle e a suo figlio Alceo succedono Belo 2 e Nino, 3 i cui nomi rinviano a Babilonia e a Ninive, e dunque si situano in un contesto mesopotamico: la presenza di queste due figure permette a Erodoto di ancorare non solo la storia della Lidia ma di tutta l’Asia (da Nino infatti discendono gli Assiri, precursori di Medi e Persiani) all’eroe Eracle, figura cardine del sistema cronologico delle Storie, e quindi di produrre un quadro universale nel quale trovano spazio la Grecia e l’Asia. In Lidia, a partire da Agron, figlio di Nino, si succedono ventidue generazioni, in modo da coprire, con la somma delle due dinastie eraclide e mermnade, il periodo che va da Eracle, collocato intorno al @350 a.C., e la conquista di Sardi nel 546 a.C.: 4 il calcolo erodoteo non corrisponde però alla memoria serbata dalla tradizione, che non conserva una genealogia lineare ma ricorda unicamente i primi e gli ultimi anelli della catena. Sui personaggi intermedi si registra quindi il silenzio di Erodoto, e, probabilmente, delle sue fonti. Un analogo caso di floating gap si trova nel quarto libro delle Storie, dove sono ripercorse le origini del popolo scitico:  

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Hdt. 4, 5-7 ÔW~ de; Skuvqai levgousi, newvtaton aJpavntwn ejqnevwn ei\nai to; sfevteron, tou`to de; genevsqai w|de. “Andra genevsqai prw`ton ejn th`/ gh/` tauvth/ ejouvsh/ ejrhvmw/ tw`/ ou[noma ei\nai Targivtaon: tou` de; Targitavou touvtou tou;~ tokeva~ levgousi ei\nai, ejmoi; me;n ouj pista; levgonte~, levgousi d∆ w\n, Diva te kai; Borusqevneo~ tou` potamou` qugatevra. Gevneo~ me;n toiouvtou dhv tino~ genevsqai to;n Targivtaon, touvtou de; genevsqai pai`da~ trei`~, Lipovxai>n kai; ∆Arpovxai>n kai; newvtaton Kolavxai>n. [...] 6. ∆Apo; me;n dh; Lipoxavi>o~ gegonevnai touvtou~ tw`n Skuqevwn oi} Aujcavtai gevno~ kalevontai, ajpo; de; tou` mevsou ∆Arpoxavi>o~ oi} Kativaroiv te kai; Travspie~ kalevontai, ajpo; de; tou` newtavtou aujtw`n tou` basilevo~ oi} kalevontai Paralavtai. Suvmpasi de; ei\nai ou[noma Skolovtou~: Skuvqa~ de; ”Ellhne~ wjnovmasan, tou` basilevo~ ejpwnumivhn. 7. Gegonevnai mevn nun sfeva~ w|de levgousi oiJ Skuvqai, e[tea de; sfivsi ejpeivte gegovnasi ta; suvmpanta levgousi ei\nai ajpo; tou` prwvtou basilevo~ Targitavou ej~ th;n Dareivou diavbasin th;n ejpi; sfeva~ cilivwn ouj plevw ajlla; tosau`ta.

A quanto sostengono gli Sciti, il loro popolo sarebbe di tutti il più recente e avrebbe avuto questa origine: in questo paese, che era deserto, nacque per primo un uomo di nome Targitao, i cui genitori, dicono (per me la cosa non è credibile ma essi pure la raccontano), sarebbero Zeus e una figlia del fiume Boristene. Di tal razza dunque sarebbe Targitao e avrebbe avuto tre figli: Lipossai, Arpossai e Colassai, che era il più giovane. [...] 6. Da Lipossai sarebbero discesi quegli Sciti che si chiamano Aucati; da Arpossai, quello di mezzo, verrebbero coloro che si chiamano Catiari e Traspi; dal più giovane dei fratelli, dal re, quelli che sono detti Paralati. Il nome per tutti è Scoloti; i Greci li chiamarono Sciti, dal nome del re. 7. Così raccontano gli Sciti la loro origine. E da quando esistono, cioè dal primo re Targitao, fino all’invasione @

2   Vd. Asheri 2005, p. 267.   Su questa figura vd. Vannicelli 200@.   Nelle fonti classiche Nino è eponimo di Ninive e fondatore dell’impero assiro (vd. Weidner @936). 4  Ai cinquecentocinque anni della dinastia eraclide vanno infatti aggiunti gli anni di regno dei sovrani mermnadi (Gige, Ardys, Sadiatte, Aliatte, Creso), indicati tra il cap. @4 e il cap. 86, per un totale di centosettant’anni. Si arriva così ad una collocazione di Eracle nel @350 a.C., corrispondente alla cronologia fornita da Erodoto in 2, @45, 4. Cfr. Asheri 2005, pp. xxxix-xli, 267-268. 3

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di Dario contro il loro paese, dicono che in tutto siano passati mille anni, né più né meno. (tr. di L. Annibaletto)

La prima versione è quella diπusa presso gli Sciti stessi (wJ~ de; Skuvqai levgousi), secondo la quale l’eroe Targitao, primo abitante della regione fino ad allora deserta, era figlio di Zeus e della figlia di Boristene. @ Da Targitao nascono tre figli: Lipossai, Arpossai e Colassai, fondatori di tre stirpi scitiche: Colassai, il più giovane, succede al padre assumendo la regalità. A questo punto la genealogia si interrompe per riprendere al momento dell’invasione della Scizia da parte di Dario. Secondo un calcolo che Erodoto attribuisce ancora agli Sciti (levgousi), dal regno di Colassai alla spedizione persiana sarebbero trascorsi non più di mille anni: un periodo intermedio del quale gli Sciti non conservavano memoria, limitando la genealogia dei loro re ai suoi primi esponenti, discendenti diretti di Zeus. Alla tradizione scitica Erodoto contrappone la versione greca, attribuita ai Greci abitanti del Ponto, che considerava gli Sciti discendenti di Eracle: secondo questa variante l’eroe, giunto nella regione di ritorno dall’impresa contro Gerione, si era unito con una donna dalle sembianze di serpente e aveva generato tre figli: Agatirso, Gelono e Scite. In seguito al superamento di una prova iniziatica, Scite era divenuto re della terra materna, mentre i suoi fratelli erano stati allontanati dalla regione. Analogamente alla versione locale, anche la tradizione greca non produce una genealogia continua dei re della Scizia ma si concentra sul momento delle origini, interessante ai fini del collegamento del popolo barbaro con Eracle e con la mitologia greca, e lascia opaco il periodo successivo, producendo un vuoto nella genealogia che arriva fino alla conquista persiana. Il fenomeno del floating gap torna ad essere evidente nel logos egizio (2, 99 ss.), dove nella lunga storia della regione si produce uno stacco tra il primo re Min e il più tardo faraone Sesostri: tra questi due estremi ci furono, secondo i sacerdoti egiziani fonti di Erodoto, trecentotrenta re, i quali, ad eccezione di Nitocri e di Meri, non vengono ricordati in quanto non avevano compiuto alcuna opera illustre. La lista riprende da Sesostri fino ad Amasi, raggiungendo un totale di trecentoquarantacinque generazioni. Anche se, in questo caso, non si tratta di una genealogia bensì di una successione di re, è evidente il silenzio sul periodo posto a metà tra le origini e il passato recente, non interessante ai fini della ricostruzione mitistorica e pertanto esposto alla dimenticanza. Allargando il nostro sguardo da Erodoto al resto della produzione di età arcaica e classica, il silenzio sulla sezione intermedia della genealogia appare come una caratteristica comune a tutte quelle opere non interessate a fornire una ricostruzione genealogica completa ma tese ad evidenziare il legame della generazione presente con i suoi antenati eroici, con uno scopo il più delle volte celebrativo. Ne troviamo significativi esempi nella lirica corale, che sul legame dell’atleta vincitore con la sua stirpe fonda la scelta del mito, funzionale alla lode del committente attraverso la rievocazione delle gesta dei suoi antenati. Nel procedere  

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  Notiamo che non viene fatto il nome di questa eroina, serbando quel silenzio sulle figure femminili che si è già rilevato nelle genealogie omeriche.

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rapido e incalzante dell’epinicio pindarico non figurano genealogie complete ma unicamente il richiamo agli eroi fondatori della stirpe, le cui qualità tornano a brillare nel successo sportivo dei loro discendenti. Così, per citare solo alcuni esempi senza pretese di completezza, nella Ol. 6 per Agesia di Siracusa, Pindaro risale alle origini eroiche della famiglia del vincitore (i{kwmaiv te pro;~ ajndrw`n / kai; gevno~, vv. 24-25), narrando la nascita del sacerdote Iamo, figlio di Apollo, e da qui si ricongiunge al presente della vittoria atletica (ejx ou| poluvkleiton kaq j ”Ellana~ gevno~ ∆Iamida`n, v. 7@); nella Nem. @@ viene tracciata la genealogia del committente Aristagora dall’eroe spartano Pisandro, compagno di Oreste nella fondazione di Tenedo (vv. 33-39). @ La stessa tendenza non è estranea alle opere dei logografi, che, come si è visto per il fr. 2 Fowler di Ferecide, non esitano a collegare figure loro contemporanee a celebri stirpi mitiche, legittimandone in tal modo la condizione o il potere politico. Mentre il frammento ferecideo forniva una genealogia lineare dei Filaidi, un frammento appartenente all’Atthis di Ellanico sembra invece soπermarsi unicamente sui capostipiti divini. È il fr. @70 Jacoby, 2 dove Ellanico traccia la genealogia dell’oratore Andocide, facendone risalire la stirpe a Telemaco e Nausicaa e, quindi, a Odisseo e ad Ermes. Nell’Atthis la genealogia può aver trovato spazio in relazione alla vicenda delle Erme del 4@5 a.C., che vide implicato Andocide 3. In alternativa, Ellanico potrebbe aver fornito la genealogia al primo apparire di Andocide sulla scena politica ateniese. Il logografo riporta una tradizione nata con finalità celebrative, probabilmente in seno alla famiglia stessa di Andocide, e collega un personaggio contemporaneo ad antenati mitici. Il frammento, di tradizione indiretta, non ci permette di dire con certezza se egli tacesse sui rami intermedi della genealogia o se il silenzio su di essi vada piuttosto attribuito alle fonti: 4 risulta ad ogni modo evidente l’interesse a dare lustro alla stirpe attraverso il legame genealogico con un dio, che emerge nell’opera dei logografi, così come nei poeti. Pur tramandate all’interno di opere letterarie diverse e con diπerenti funzioni, le genealogie greche mostrano il ricorrere di tratti comuni, che rinviano alle modalità di costruzione e trasmissione delle discendenze mitiche nelle società orali. In questo contesto, i silenzi su alcune figure o parti della genealogia non sono mai casuali, ma al contrario svelano schemi convenzionali e strategie precise: mentre i silenzi sulle figure femminili e sui personaggi intermedi contribuiscono a mostrare il funzionamento della memoria collettiva, che costruisce discendenze  

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  Notevoli, anche se non direttamente collegati al tema in esame, sono anche i casi in cui il poeta, per ragioni di opportunità, dichiaratamente tace determinate tradizioni mitiche: cfr. Pind. Nem. 5, @7-@8 e fr. @80 Maehl. 2  Hellan. FGrHist 4 F @70 = FGrHist 323a F 24. 3  Così Ambaglio @980, p. @65. Come ci informa l’orazione Contro Andocide attribuita a Lisia, l’oratore fu infatti accusato di aver partecipato alla mutilazione delle statue del dio perché le Erme poste di fronte alla sua casa non avevano subito danni, e scampò alla condanna denunciando alcuni complici. Vd. [Lys.] 6; cfr. anche Thuc. 6, 60. 4   Secondo Jacoby di√cilmente Ellanico presentava qui l’intera genealogia ma si concentrava piuttosto sugli antenati mitici, vd. FGrHist iii b Suppl. i p. 5@. Poiché non disponiamo di una citazione letterale, non è comunque possibile pronunciarsi in modo definitivo.

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patrilineari ed esposte al fenomeno del floating gap, le omissioni riguardanti i rami collaterali sono utili a delineare discendenze dirette, che attraverso il legame con il capostipite divino garantiscano il valore e, in alcuni casi, il potere politico di un personaggio. Rispetto all’epica arcaica, le opere dei logografi e degli storici rivelano certo un uso più maturo e scaltrito della genealogia, che diviene un mezzo per calcolare il trascorrere del tempo e per operare raccordi tra cicli mitici diversi: @ anche nelle opere storiche, tuttavia, permangono tracce del pensiero genealogico orale, dove la scelta di determinate figure e il silenzio su altre acquista significato nella creazione di un quadro identitario, sempre orientato verso il presente.  

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Bibliografia Ambaglio @980, D. Ambaglio, L’opera storiografica di Ellanico di Lesbo, Pisa @980. Asheri 2005 (ed.), Erodoto. Le Storie i. La Lidia e la Persia, Milano 20057. Auger-Saïd @998, D. Auger - S. Saïd (édd.), Généalogies mythiques. Actes du viiie Colloque du centre de Recherches Mythologiques de l’Université de Paris-x (Chantilly, @4-@6 septembre @995), Paris @998. Bernardini 20@2, P. Angeli Bernardini, ‘I cataloghi delle eroine e la funzione genealogica secondaria della donna nella Grecia arcaica’, Index 40, 20@2, pp. 32-4@. Calame @987, C. Calame, ‘Le récit généalogique spartiate: la représentation mythologique d’une organisation spatiale’, Quad. di storia 26, @987, pp. 43-9@. Carrière @998, D. Carrière, ‘Du mythe à l’histoire. Généalogies héroïque, cronologies légendaires et hostoricisation des mythes’, in Auger-Saïd @998, pp. 47-85. De Vido 200@, S. De Vido, ‘Genealogie di Spartani re nelle Storie erodotee’, Quad. di storia 53, 200@, pp. 209-227. Dolcetti 2004 (ed.), Ferecide di Atene. Testimonianze e frammenti, Alessandria 2004. Dorati 2003, M. Dorati, ‘Adramys (intorno a Xanto di Lidia, F4 Jacoby)’, in F. Benedetti - S. Grandolini (edd.), Studi di filologia e tradizione greca in memoria di Aristide Colonna, Napoli 2003, pp. 3@3-329. Eco 2009, U. Eco, Vertigine della lista, Milano 2009. Fowler @998, R. L. Fowler, ‘Genealogical Thinking, Hesiod’s Catalogue and the Creation of the Hellenes’, Proc. Cambr. Philol. Soc. 44, @998, pp. @-@9. Hall @997, J. M. Hall, Ethnic Identity in Greek Antiquity, Cambridge @997. Huxley @973, G. L. Huxley, ‘The Date of Pherekydes of Athens’, Gr. Rom. Byz. Stud. @4, @973, pp. @37-@43. Jacob @994, C. Jacob, ‘L’ordre généalogique. Entre le mythe et l’histoire’, in M. Detienne (éd.), Transcrire les mythologies, Paris @994, pp. @69-202. Jacoby @947, F. Jacoby, ‘The First Athenian Prose Writers’, Mnemosyne @3, @947, pp. @3-64. Laqueur @938, P. Laqueur, s.v. ‘Pherekydes von Athen (Genealoge)’, RE xix 2, @938, coll. @99@-2025. Lombardo @980, M. Lombardo, ‘Osservazioni cronologiche e storiche sul regno di Sadiatte’, Ann. Scuola Norm. Pisa @0, @980, pp. 307-362. @   Una tendenza che diventerà dominante in età ellenistica, esponendo le genealogie mitiche a rimaneggiamenti che correggano le incoerenze e producano sincronismi. Per un approfondimento vd. Niedergang @998.

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Abstract Covering the period from Homer to the first logographers and Herodotus, the present paper aims at analysing those aspects on which ancient Greek genealogies are silent, such as female figures, secondary branches of family trees, and the so called ‘floating gap’. The author argues that such omissions, rather being neutral, reveal the purposes of genealogical thinking.

F UN Z I ON I D E L SILENZIO N EL L A D I AL E T T I CA POLITICA D I V SE C OL O AD A TENE: L A KA TALY SI S TOU D EM OU DEL 4@@ A . C. Ma r c o Sa n tucci

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el cap. 82 del iii libro di Erodoto, all’interno del celeberrimo logos tripolitikos, prende la parola Dario, dopo che Otane e Megabizo hanno esposto i loro pareri, l’uno a favore del regime democratico l’altro a favore di quello oligarchico. Egli è – come è noto – un fautore della monarchia che gli appare il regime costituzionale migliore: soprattutto (ou{tw mavlista) perché consente al monarca di “tacere i provvedimenti contro i nemici” (sigw`/tov te a]n bouleuvmata ejpiv dusmeneva~ a[ndra~). @ L’argomentazione di fondo è in sostanza che in un governo monarchico l’assenza della discussione in assemblea, e perciò della rendicontazione e della trasparenza tipiche della prassi democratica, comporti un vantaggio per la sicurezza generale, consentendo, in situazioni di pericolo, e√cacia e rapidità di azione maggiori. Si tratta di un’idea che, come accade a molti altri concetti presenti in queste pagine erodotee, avrà larga fortuna nella riflessione politica di iv secolo, 2 in particolare nel momento in cui il modello istituzionale della polis democratica di Atene si confronterà con la Macedonia di Filippo II. Sarà ben chiaro ad esempio a Demostene come l’esercizio della parola, tipico della democrazia che egli pur difende, comporti come contropartita negativa un rallentamento delle decisioni e rappresenti dunque un danno per l’agire della città: Filippo “impugna le armi e si mette in marcia pronto a rischiare tutto quello che ha, mentre noi stiamo in assemblea – gli oratori a parlare dei nostri diritti, gli altri ad ascoltare”. 3 La conseguenza è che “le azioni risultano vincenti sui discorsi” perché “i discorsi non hanno il potere di salvare nessuno che subisca un torto”; dunque “non occorre parlarne oltre”: 4 in ultima analisi, bisogna far silenzio e agire! Il tema del rapporto tra parola e azione costituisce del resto un elemento fondamentale, e perciò ricorrente, della riflessione sulla democrazia antica. Basterebbe a dimostrarlo la sua presenza in un testo come l’Epitafio pericleo riferito da Tucidide in 2, 35 ss., di cui va ribadito ancora una volta il carattere di vero e proprio “manifesto” che fissa una “teoria democratica della democrazia greca”. 5 Qui Pericle aπerma che gli Ateniesi non ritengono “che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione”: 6  

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  Hdt. 3, 82, 2.  Si confronti, ad esempio, il riproporsi in Aristotele (Pol. @305a 37-@306b 2@) dell’idea, già presente nel logos erodoteo (3, 82, 3), che l’oligarchia sia una forma costituzionale poco stabile perché costantemente minacciata dalle rivalità tra gli stessi aristocratici. 3 4 5   Demosth. Phil. 4, 3.   Ibid.   Musti @997, pp. 3-@3. 6   Thuc. 2, 40, 2. 2

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è facile leggere in questa aπermazione una sorta di replica agli oppositori della democrazia che fuori e dentro Atene, con argomentazioni analoghe a quelle che Erodoto poneva sulla bocca di Dario, dovevano rivendicare la maggiore utilità, per il bene pubblico, del silenzio rispetto alla parola, e perciò la superiorità dei regimi costituzionali non democratici. Certo, questa è l’opposizione polare, schematica e perciò anche semplicistica, che è tipica della teoria; al livello della prassi esistono tuttavia indizi che ci permettono di ricostruire quella che potremmo definire una ‘zona grigia’, all’interno della quale risulta verificata, in determinate occasioni – anche per la democrazia – la necessità del silenzio che spinge a tacere al demos progetti politici e a sottrarre elementi importanti al dibattito assembleare, al fine di aggirare le lentezze delle procedure democratiche e anche i pericoli connessi alla diπusione delle informazioni. L’accettazione, in situazioni di emergenza o di particolare gravità, di forzature o limitazioni della volontà popolare, di momentanee riduzioni al silenzio dell’assemblea, della segretezza in luogo della trasparenza è un fenomeno che coinvolge anche importanti esponenti della democrazia ateniese, tra i quali Temistole e lo stesso Pericle. @ L’aristotelica Costituzione degli Ateniesi ricorda che quando nel 482 a.C. furono scoperte le miniere di Maronea con i cui proventi si allestì la flotta che sconfisse i Persiani a Salamina, Temistocle si oppose a quanti avevano intenzione di distribuire l’argento tra il popolo e “senza dire” (ouj levgwn) come sarebbero state usate le ricchezze, le fece distribuire ai cento cittadini più ricchi. 2 Sempre a proposito di Temistocle, Diodoro (che deriva da Eforo), ricorda che quando progettava la costruzione del Pireo aveva tentato di tenere i suoi piani il più possibile segreti: all’assemblea riunita si era limitato a dire che aveva progetti grandi e utili per i cittadini ma che conveniva spiegarli nel dettaglio soltanto a un numero ristretto di uomini. 3 In seguito però il demos, sospettando che aspirasse alla tirannide, lo aveva incalzato, invitandolo a parlare apertamente dei suoi progetti all’ekklesia. Egli aveva ribadito allora che sarebbe stato imprudente farli conoscere a tutto il popolo e aveva ottenuto di poterli riferire in segreto (ejn ajporrhvtoi~) soltanto alla boule; l’assemblea, raccolto il parere positivo della boule, approvò infine il progetto ma senza conoscerne i dettagli e con la curiosità di vederlo presto realizzato. Ricorda invece Plutarco che nel 446 a.C. Pericle aveva corrotto segretamente (kruvfa), Cleandrida, consigliere del giovane re spartano Plistoanatte, per far sì che l’esercito dei Lacedemonii che aveva invaso l’Attica si allontanasse. 4 In fase di rendiconto si limitò a dire al popolo che vi era stata un’uscita di dieci talenti eij~ to; devon, “per il necessario” e il popolo approvò “senza investigare su ciò che veniva tenuto segreto” (to; ajpovrrhton). Ricordare questi casi ha importanza dal punto di vista metodologico, poiché consente di valutare, nel confronto con quella che potremmo definire la Realpolitik, le eccezioni alla teoria che farebbe del silenzio un valore esclusivo dell’antidemocrazia, in netta opposizione con il valore democratico della paro 

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  Sul tema vd. Bearzot 2005.   Diod. @@, 4@ s.

  Arist. Resp. Ath. 22, 7.   Plut. Per. 23, 2.

funzioni del silenzio nella dialettica politica

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la. Certo, resta significativo che anche laddove la prassi della democrazia si discosta dalla teoria, riemerga la caratterizzazione autocratica o comunque non democratica della segretezza e del silenzio: non è un caso che le reticenze di Temistocle ricordate da Diodoro siano chiaramente interpretate dal popolo come indizio di una tendenza tirannica del personaggio, e facciano quindi temere per un rovesciamento della democrazia. Proprio quest’ultimo aspetto ci permette di comprendere perché quello del silenzio rappresentò, come si vedrà, un argomento fondamentale delle opposte propagande, democratica e oligarchica, in un anno cruciale della storia istituzionale di Atene, il 4@@ a.C., nel quale si consuma il colpo di stato dei Quattrocento che abbatte, pur per pochi mesi, la democrazia. Nel cap. 66 dell’viii libro di Tucidide si descrive il “regime del terrore” – tale lo definisce Hornblower – 2 che si instaura ad Atene già prima del rientro di Pisandro da Samo e del vero e proprio colpo di stato oligarchico. Abbiamo qui a che fare con uno dei più eloquenti esempi in cui la propensione di Tucidide all’indagine psicologica diventa di centrale importanza per la ricostruzione del sistema delle cause degli eventi. Uno stato di paura indotto dalle uccisioni di coloro che osavano opporsi e un clima di sospetto e di√denza generale porta il demos a scegliere la “quiete” (hJsuciva), 3 concetto che Tucidide riprenderà al cap. 70, e che qui si lega esplicitamente all’idea del silenzio, come dimostra la presenza del verbo sigavw all’interno dello stesso periodo. Il terrore era dunque tale che il popolo riteneva un guadagno non subire violenza, anche se il prezzo da pagare era quello di tacere (w{ste kevrdo~ oJ mh; pavscwn ti bivaion, eij kai; sigw/vh, ejnovmizen), e ciò avveniva proprio nell’assemblea, cioè nel luogo deputato all’esercizio della parola. L’addensarsi, nelle pagine tucididee che descrivono il golpe del 4@@, di una terminologia che riconduce alla sfera semantica della quiete e della negazione della parola, ci dice quanto lo storico fosse colpito da questo dato del silenzio che d’improvviso era calato sul luogo che per eccellenza incarnava il logos e il rumore dell’agone politico. Egli non si limita poi a descrivere l’irruzione del silenzio nella sfera del pubblico, bensì indaga anche le sue manifestazioni nella sfera del privato. La di√denza (è presente nel testo il termine uJpoyiva e per tre volte si ripete il concetto di ajpistiva) faceva sì infatti che ai democratici fosse impossibile perfino “confidarsi con qualcuno” e riconoscersi reciprocamente, poiché “si sarebbe trovato uno sconosciuto in chi parlava apertamente o un infido in chi si conosceva”. 4 Abbiamo a che fare con la descrizione psicologica ra√natissima di un’Atene che non si riconosce, poiché vede rovesciarsi quel clima di fiducia che il Pericle dell’Epitafio considera un elemento identitario della città democratica (“liberamente noi viviamo nei rapporti con la comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto [uJpoyiva] che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini giornaliere”). 5 È anche questo disorientamento che porta il popolo a votare per la paralisi dell’espressione della propria volontà, 6 e un buon interprete della situazione si  

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@   Sul significato antidemocratico della segretezza e del silenzio cfr. Bearzot @994 e 2005; Tuci 2 3 2004.   Hornblower 2008, ad loc.   Thuc. 8, 66, 2. 4 5   Thuc. 8, 66, 4 s.   Thuc. 2, 37, 2 s. 6   Cfr. Bearzot 20@3, p. 53, che attribuisce agli antidemocratici del 4@@ il “risultato di far cadere la democrazia con il consenso del popolo, almeno sul piano formale”.

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dimostra Diodoro, quando aπerma che “il popolo, disperato, abolì di sua volontà la democrazia”. @ Insomma, per usare le parole di Luciano Canfora, si è di fronte a una “maggioranza indotta [...] a decretare la propria decapitazione politica” 2. Difatti, anche se “il popolo e la boule eletta con le fave si radunavano ancora” – ricorda Tucidide – “non deliberavano nulla che non avessero deciso i congiurati; e gli oratori erano scelti tra questi ultimi e le orazioni erano esaminate prima da loro”. 3 Appare chiara la consapevolezza di Tucidide dell’avvio di un vero e proprio processo di manipolazione della volontà popolare e, di conseguenza, del voto: siamo alla vigilia dell’instaurazione del regime dei Quattrocento e vi sono, intatti da un punto di vista almeno formale, ancora la democrazia con tutti i suoi organi istituzionali e le sue procedure; nei fatti, però, il voto già non è più libero, poiché orientato attraverso il controllo preventivo della parola politica. Tale controllo costituisce solo una premessa alla decisione che verrà di lì a poco, rientrato Pisandro, di spostare a Colono, in un luogo chiuso e meglio controllabile, la riunione dell’ekklesia che istituirà i Quattrocento. 4 Qui gli oligarchi possono attendersi un’assemblea intimorita perché numericamente più ridotta e perciò più facilmente manovrabile. Oujdeno;~ ajnteipovnto~, “senza che nessuno osi obiettare”, 5 un’assemblea silenziosa dà ratifica all’operato degli oligarchi i quali ottengono così la formale legittimazione popolare che cercano. Analogamente, quando i Quattrocento fanno irruzione nel bouleuterion, la boule si ritira oujde;n ajnteipou`sa, “senza fare obiezioni”, “senza dire nulla per opporsi”, mentre gli altri cittadini se ne stanno in una condizione di hJsuciva che è silenzio dell’azione e, insieme, della parola politica. 6 La manipolazione dell’opinione pubblica e del voto ha dunque come punto di arrivo l’impedimento dell’antilegein che significa riduzione al silenzio dell’opposizione democratica. Si tratta però di un’opposizione particolare: essa sarebbe infatti ancora maggioranza, e tuttavia non si percepisce più come tale a causa della condizione di generale insicurezza psicologica che si è creata e per l’abile propaganda di Pisandro e degli altri oligarchici. Ne ha lucida consapevolezza Tucidide, quando aπerma che nel clima di sospetto che dominava in città il demos si riteneva in una condizione di minoranza (ejtuvgcanen o]n hJssw`nto), pensando che i congiurati fossero molti di più di quanti in realtà non erano. 7 L’impossibilità, per il demos, di antilegein è concetto che torna ossessivamente in queste pagine tucididee. Già prima dell’assemblea di Colono ajntevlege oujdeiv~, “nessuno parlava per opporsi”; 8 “e se qualcuno lo faceva”, eij dev ti~ kai; ajnteivpoi, subito moriva in un modo appropriato. In 65, 2 s. lo storico ricorda che la manipolazione della volontà popolare era stata ampiamente preparata nei mesi precedenti dai congiurati e, al contrario di quanto era avvenuto per le intimidazioni e gli assassinii politici, non era stata operazione che era avvenuta silenziosamente: difatti, mentre si era operato kruvfa, “in segreto”, per uccidere Androcle, e tw/` aujtw/` trovpw/ kruvfa per eliminare alcuni altri nemici, 9 si era provveduto a spargere  

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2 3   Diod. @3, 34, 2.   Canfora @99@, p. 74.   Thuc. 8, 66, @. 5   Sull’assemblea di Colono cfr. Bearzot 20@4, pp. 93-97.   Thuc. 8, 69, @. 6 7 8   Thuc. 8, 70, @.   Thuc. 8, 66, 3.   Thuc. 8, 66, 2. 9   Androcle è descritto da Tucidide come personaggio “assai influente sul popolo” (tou` dhvmou mavlista proestw`ta). La sequenza di assassinii politici che qui è ricordata dovette creare “una 4

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apertamente (ejk tou` fanerou`) la voce che occorresse eliminare i misthoi, simbolo della democrazia radicale, e ridurre il corpo civico a cinquemila cittadini. Vero è che la propaganda antidemocratica e filoligarchica non era mai mancata ad Atene e, pur originata nella segretezza delle eterie, era divenuta un tratto costante e riconosciuto della vita politica della città, come dimostrano le tante critiche all’assistenzialismo democratico, alla sicofantia o all’esercizio opportunistico dell’attività giudiziaria presenti nella commedia. Nonostante queste critiche, la democrazia era tuttavia rimasta salda: vi erano infatti quanti si mostravano “più moderati”, metriwvteroi, e pur condannando la ajkolasiva del demos e coloro che spingevano la folla ejpi; ta; ponerovtera, @ ritenevano che si dovesse “conservare quella forma di governo per cui la città era grande e libera”. 2 Che cosa dunque è cambiato nel 4@@ fino a rendere possibile il silenzio del demos e la katalysis della democrazia? Ciò che nel 4@@ fa la diπerenza è il trauma ancora vivo del disastro siciliano che ha costituito una seria minaccia per la sopravvivenza stessa di Atene e ha messo in luce le debolezze e anzi l’inadeguatezza del regime democratico. In questo disastro restano coinvolti, rendendosene perciò partecipi di fatto, anche i “più moderati” come Nicia, e ciò porta lo stesso ‘fronte dei moderati’ a spaccarsi (e quindi a scomparire) tra quanti si sono compromessi con i democratici radicali nella sfortunata impresa siciliana e quanti, di fronte al disastro, hanno abbandonato ogni moderatismo e sono passati dalla parte degli oligarchi. Così, l’abbattimento della democrazia appare ora (o è presentato tale dalla propaganda) addirittura come una ineludibile necessità, di quelle che rientrano nel dominio dell’ajnavgkh: nell’Athenaion politeia aristotelica, si legge infatti che gli Ateniesi hjnagkavsqhsan kinhvsante~ th;n dhmokravtian. 3 Soprattutto, gli oligarchici possono appropriarsi di un motivo molto forte da accostare agli argomenti tradizionali dell’antidemocrazia: quello della soteria, della salvezza della città. Bisogna dare il potere agli oligarchici e abbandonare le stesse discussioni intorno alla forma costituzionale (peri; politeiva~), in un presente (ejn tw/` parovnti) in cui occorre deliberare invece peri; swthriva~. 4 Insomma, è proprio l’idea che non ci sia per Atene altro modo di salvarsi (mh; ei\nai a[llhn swthrivan) 5 sapientemente diπusa da Pisandro alla vigilia della svolta del 4@@, a portare il popolo verso l’accettazione  

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sorta di vuoto di prostasia” (Cuniberti @997, p. 72 ss.), contribuendo non poco ad alimentare l’insicurezza dei cittadini che aprì la strada all’abbattimento della democrazia. @

  Thuc. 6, 89, 5.  Thuc. 6, 89, 6. A parlare è qui Alcibiade che si trova davanti agli Spartani. L’esigenza di dover infondere fiducia nei suoi uditori lo porta ad annoverarsi tra coloro che definisce metriwv- teroi, la cui descrizione si attaglierebbe a personaggi come Nicia piuttosto che a se stesso. Da accogliere è però, nella sostanza, l’analisi della situazione politica di Atene alla vigilia della spedizione in Sicilia, in particolare rispetto all’idea che vi fosse un gruppo di ‘moderati’ i quali, pur condannando gli eccessi e le degenerazioni cui era giunta la democrazia, non pensavano al suo rovesciamento. L’atteggiamento che prevale tra i critici della democrazia fino al disastro siciliano è dunque improntato a un riformismo basato sul desiderio di un ritorno alla democrazia più moderata delle generazioni precedenti. Lo testimonia, ad esempio, nei Cavalieri di Aristofane (v. @32@ ss.), il miracoloso ringiovanimento di Demos, ripulito dalla “puzza di processi” e ora kalov~ 3 e lamprov~ come ai tempi di Aristide e Milziade.  Arist. Resp. Ath. 29, @. 4   Thuc. 8, 53, 3. Sul tema della soteria nella propaganda oligarchica vd. Bieler @95@; Cecchin 5 @968 e ora Bearzot 20@4.   Thuc. 8, 54, @. 2

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dell’oligarchia. Questo argomento, divenuto un vero e proprio slogan antidemocratico, fa cambiare idea a un demos che “prima non era disposto neppure a sentir parlare di oligarchia” (oJ de; dh`mo~ to; me;n prw`ton ajkouvwn calepw`~ e[fere to; peri; th`~ ojligarciva~). @ E sul tema della soteria è significativo rimarcare una sostanziale coincidenza dell’Athenaion politeia aristotelica con Tucidide. Aristotele riporta, infatti, il decreto di Pitodoro che istituisce una commissione di trenta syngrapheis i quali sono incaricati di riscrivere le leggi della città, stilando anche le disposizioni “riguardo alla sua salvezza” (peri; th`~ swthriva~). 2 Vi è da dire che al di là della forza che il tema della soteria aveva e che gli oligarchi erano stati capaci di avocare a sé e alla loro propaganda, il demos dovette essere portato a cambiare idea riguardo all’oligarchia anche perché, come si è anticipato ricordando i silenzi imposti da Temistocle e Pericle, non era cosa del tutto nuova, anche in democrazia, l’accettazione, in situazioni di emergenza o di particolare gravità, di forzature della volontà popolare o di momentanee sospensioni della parrhesia. Non è un caso che nel 4@@ il demos possa guardare all’oligarchia con la speranza che si tratti soltanto di una breve parentesi, il che è, come al solito, puntualmente registrato da Tucidide: il popolo cedette sull’oligarchia certo “per timore” (deivsa~), kai; a{ma ejpelpivzwn wJ~ kai; metabalei`tai, “e insieme con la speranza di poter poi cambiare” (8, 54, @), dunque di poter tornare alla democrazia. Gli oligarchi cercarono in eπetti legittimazione al loro progetto proprio evocando propagandisticamente quella ‘zona grigia’ cui si accennava nelle pagine precedenti, fatta di silenzi, omissioni e segreti, che costituiva, al livello della prassi, una sorta di faccia impresentabile (e pur presente e accettata) della democrazia. Lo dimostrano, ad esempio, le modalità con le quali veniva esposta, all’assemblea di Colono, l’abolizione della graphe paranomon, ossia dell’azione giudiziaria che tutelava la costituzione democratica da ogni eventuale proposta di legge mirante a scardinarla, consentendo a qualunque cittadino di formulare un’accusa di illegalità contro il proponente. Lo scopo ovvio dell’abolizione della graphe paranomon da parte di Pisandro e dei suoi era quello di aprire una breccia di tipo normativo verso la katalysis del demo e l’ormai imminente evoluzione della costituzione in senso oligarchico. 3 Ebbene, è interessante notare come tale provvedimento sia descritto dagli oligarchi con una terminologia che attinge a piene mani al vocabolario della tradizione democratica. Esso sarebbe infatti finalizzato, stando alle dichiarazioni che Tucidide attribuisce ai syngrapheis, a concedere “a qualunque ateniese”, ∆Aqhnaivwn ... a[n ti~ bouvlhtai, di “esprimere la propria opinione”, eijpei`n gnwvmhn. 4 Il provvedimento viene dunque a caratterizzarsi nella propaganda oligarchica addirittura come un elemento di garanzia della libertà di parola del “cittadino qualunque”, oJ boulovmeno~, che è nel lessico politico della tradizione ateniese il vero pro 

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  Ibid. Gli stessi temi dell’emergenza e della soteria della città saranno significativamente riproposti da Teramene nel 404 a.C., poco prima che venga abbattuta di nuovo la democrazia e si 2 instauri il regime dei Trenta (cfr. Lys. @2, 68-70).  Arist. Resp. Ath. 29, 2. 3   L’istituzione della graphe paranomon è stata connessa alle riforme di Efialte che avevano tolto all’Areopago la funzione di controllo sulle proposte di legge (Jones @957, p. @23). Vi sono tuttavia poche attestazioni della graphe paranomon nelle fonti del v secolo. In Andocide (@, @7, 22) è presente il riferimento alla sua prima sicura applicazione (nel 4@5 a.C., significativamente poco 4 dopo l’ultimo ostracismo). Sul tema cfr. Hansen @99@, p. 205 ss.   Thuc. 8, 67, 2.

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tagonista della democrazia. L’abolizione della graphe paranomon si porrebbe quindi come correttivo di una precedente limitazione della parrhesia che era stata proprio la democrazia a imporre! Una terminologia molto simile si ritrova nell’Athenaion politeia di Aristotele, che ricorda come l’abolizione della graphe paranomon fosse presentata in senso garantista, quale misura vòlta a consentire a “chi lo volesse tra gli Ateniesi di esprimere il proprio parere” (a]n oiJ ejqevlonte~ ∆Aqhnaivwn sumbouleuvwsi). 2 D’altronde, si legge nel testo del decreto di Pitodoro, così come lo riporta Aristotele, che, ancora tw/` boulomevnw/, “a chi lo voglia” dei cittadini, 3 è concesso di intervenire con le proprie proposte in merito alle nuove leggi per la città e alle disposizioni per la sua salvezza. Ha un suo peso, certo, la precisazione che tali proposte vadano formulate per iscritto – gravfw è il verbo usato da Aristotele –, il che comporta, chiaramente, una significativa limitazione della possibilità di intervento per tutte le componenti del demos. Ciò che a noi interessa, in questo caso, non è però la sostanza bensì la forma, cioè sottolineare come il vocabolario politico di riferimento restasse, anche per gli oligarchici, quello della democrazia, e come anche gli oligarchici sentissero la necessità di una forma di legittimazione popolare. Nel 4@@ la propaganda oligarchica si muoveva, in definitiva, in una duplice direzione: da un lato mirava a giustificare l’eπettiva limitazione della libertà di parola operata da Pisandro e dai Quattrocento sfruttando il tema della soteria, dall’altro mirava a rappresentare anche la democrazia come una sorta di ‘regime del silenzio’, che aveva privato l’opposizione, cioè gli antidemocratici, della piena libertà di espressione. Credo che un’interessante conferma a tale ricostruzione possa trovarsi nella Lisistrata di Aristofane, rappresentata, come è noto, alle Lenee del 4@@ a.C., mentre covavano sotto la cenere delle eterie aristocratiche i preparativi per il colpo di stato dei Quattrocento. 4 Il progetto di Lisistrata e delle sue compagne interpreta comicamente quel desiderio di scardinare la democrazia che, come si è detto, si faceva sempre più percepire come una necessità. La commedia si apre, non a caso, con la ricostruzione di un clima di cospirazione. Così, per descrivere la riunione delle donne, Aristofane attinge al lessico e ai comportamenti tipici dei membri delle eterie aristocratiche: vi è intanto un’atmosfera iniziale di segretezza, in linea con l’obiettivo stesso dell’associazione eterica che è quello di sottrarsi al controllo pubblico e di rifiutare i principi democratici della pubblicità e della trasparenza. 5 Lisistrata è inizialmente reticente, tende a ritardare l’esposizione del suo piano, finché le compagne, ai v. 94 ss., sono costrette a incitarla a parlare. Lei si decide allora ad abbandonare la segretezza (ouj dei`` ga;r kekruvfqai to;n lovgon), 6 non prima però di essersi assicurata che le altre donne condividano il desiderio di riavere a casa i loro uomini lontani per la guerra: non prima, dunque, di aver verificato che  

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2   Cfr. sul tema Musti @997, pp. 24, 362 n. 20.  Arist. Resp. Ath. 29, 4.   Ibid. 29, 3. 4   Sulla testimonianza di Aristofane sugli eventi del 4@@ vd. Sommerstein @977 e cfr. ora Tuci 20@2. 5   Sul carattere sovversivo del “restare nascosti” per i membri delle eterie, “in modo da poter sopraπare senza rendere giustizia”, illuminante Plat. Resp. 365c-d. In generale, sulle eterie, ancora oggi fondamentale Sartori @967, ma cfr., più recentemente, McGlew @999. 6  Ar. Lys. @@9. 3

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esistano le basi per la nascita di una societas politica basata sulla condivisione di valori comuni, quale era appunto l’eteria. Al v. @82, “Giuriamo!”, xunwmovsamen, propone Lisistrata alle donne, e, terminato il giuramento, esse si chiameranno tra loro fivlai: @ così il loro patto sarà inviolabile. Va detto che l’uso stesso del verbo xunovmnumi doveva caratterizzarsi per uno spettatore ateniese come una trasparente allusione alle eterie, designate sì con il nome di eJtairei`ai ma anche con quello di xunwmosivai. 2 Quest’ultimo è, ad esempio, il nome che sceglie Tucidide quando ricorda che Pisandro consultò le xunwmosivai nell’inverno tra il 4@2 e il 4@@, esortandole a concordare, koinh/,` “insieme”, un’azione per abbattere la democrazia. 3 I termini stessi del giuramento delle donne, poi – giurare sul vino, e giurare di non annacquarlo mai – rinviano, con un comico capovolgimento, alla pratica del simposio, momento della vita culturale, sociale e politica nella quale si riconoscevano i membri dell’eteria. Chiara è, del resto, la finalità antidemocratica dello sciopero sessuale delle donne, già a partire dal primo provvedimento che Lisistrata e le sue compagne prendono: ai vv. @73 ss. viene dichiarato l’intento di occupare l’acropoli per requisire il tesoro della Lega e colpire, così, quella potenza navale che era stata la democrazia a costruire. Ritengo significativo in tal senso che ai vv. 27@ ss. il coro degli anziani, mentre tenta invano di contrastare l’impresa delle donne, ricordi l’occupazione dell’acropoli da parte di Cleomene I di Sparta, il quale, dopo la cacciata dei tiranni, era venuto in soccorso di Isagora, avversario di Clistene, intendendo istituire ad Atene un ordinamento oligarchico ed evitare l’introduzione della democrazia. 4 Se valgono queste osservazioni sui caratteri cospirativi e antidemocratici che Aristofane cuce addosso al progetto di Lisistrata, dobbiamo aspettarci che, pur tra le naturali deformazioni del comico, fossero riconoscibili al pubblico ateniese (né altrimenti si sarebbe suscitato il riso) gli argomenti che erano cavalcati dalla contemporanea propaganda antidemocratica. Ebbene, non è un caso, a mio giudizio, che all’interno della commedia aristofanea sia presente quasi fino all’ossessività quel tema della soteria che, come si è messo in luce nelle pagine precedenti, analizzando il testo tucidideo e quello aristotelico, era divenuto decisamente uno slogan politico della parte oligarchica. Già al v. 30 Lisistrata aπerma di aver riunito le donne perché è su di esse che riposa la soteria della Grecia intera (ejn tai`~ gunaixivn ejstin hJ swthriva); ed è da considerarsi una strategia linguistica del comico l’iperbole in senso panellenico di quest’idea che nel contemporaneo dibattito politico aveva come suo orizzonte più circoscritto la polis. Lo stesso concetto è ripetuto poco dopo, al v. 4@, e ancora al v. 46, 5 ma è soprattutto a partire dal v. 497 che la discussione intorno alla soteria acquista un ruolo centrale, dopo che le donne, salite sull’acropoli per requisire il denaro della Lega, dichiarano che non ci sarà più nessun bisogno di fare la guerra:  

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  Ibid. 239; cfr. 373, 540, 7@2.   Sunwmovtai (“cospiratori”) è, del resto, il termine solitamente usato da Aristofane per designare quanti fanno parte delle ‘società segrete’ oligarchiche: cfr. Eq. 257, 452, 475 s., 628, 862; 3 Vesp. 345, 483, 488, 507, 953.   Thuc. 8, 54, 4. 4   Hdt. 5, 72; Arist. Resp. Ath. 20, 3. 5   Vv. 4@: hJmei`~ te, koinh/` swvsomen th;n ÔEllavda; 46: tau`t jaujta; gavr toi ka[sq ja} swvsein prosdokw`. 2

funzioni del silenzio nella dialettica politica Probulo Lisistrata Probulo Lisistrata Probulo Lisistrata Probulo Lisistrata Probulo Lisistrata Probulo Lisistrata

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E come ci salveremo allora? (pw`~ ga;r swqhsovmeq ja[llw~ ...) Vi salveremo noi. (hJmei`~ uJma`~ swvsomen) Voi? Noi, sì. Ridicolo! E ti salveremo anche se non lo vuoi. (wJ~ swqhvsei, ka]n mh; bouvlh/) Sciocchezze! Pigliatela quanto vuoi, ma si farà così. Ma è un sopruso, per Demetra! Ti dico che bisogna salvarti. (swstevon, w\ ta`n) Ma se io non ve lo chiedo! A maggior ragione.

Insomma, è qui chiaramente espressa l’idea, già identificata in Tucidide, che la salvezza della città giustifichi e anzi richieda la forzatura della volontà popolare. Ma il confronto tra Aristofane e Tucidide può spingersi oltre, poiché, come si accennava, è presente nella Lisistrata la stessa ra√gurazione, di parte antidemocratica, che fa della democrazia il regime di un silenzio a lungo imposto ai suoi oppositori. Ai vv. 507 ss. Lisistrata ricorda al probulo la condizione di subordinazione in cui, fin dall’inizio della guerra, gli uomini hanno tenuto lei e le altre donne, le quali, in virtù della loro swfrosuvnh, cioè della loro “moderazione”, hanno sopportato tutto ciò che facevano i loro uomini. Il concetto di swfrosuvnh che qui si attribuisce alle donne rinvia, come è noto, al mondo aristocratico e al suo tradizionale bagaglio di valori. Suo antonimo è l’ajkolasiva, cioè la “sregolatezza” che dal logos tripolitikos erodoteo, fino allo Pseudo-Senofonte e a Platone è attribuita, in maniera che potremmo quasi definire formulare, al demos e alle istituzioni democratiche. @ Ciò ci consente di ribadire che Lisistrata e le donne si trovano nel campo dell’alternativa alla democrazia; 2 e in maniera più esplicita lo attesta il fatto che l’idea di swfrosuvnh rappresenta un altro slogan che serve alla svolta oligarchica del 4@@, come è chiaro dal passo di Tucidide (8, 53, 3) che per bocca di Pisandro descrive l’oligarchia come un politeuvein swfronevsteron. Ma torniamo al rimprovero che Lisistrata rivolge agli uomini (e – lo ripetiamo – a uomini di una democrazia bellicista e imperialista che, come il probulo, vorrebbero continuare a usare il tesoro per fare la guerra): 3 essi non hanno consentito alle donne di “aprir bocca” (gruvzein), 4 anche di fronte alle loro decisioni palesemente sbagliate riguardo ai temi della guerra e della pace. Se una donna provava a informarsi su quanto si decideva in assemblea, il marito subito le rispondeva ouj sighvsei ... “perché non te ne stai zitta?”, “e io – dice Lisistrata –  

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  Hdt. 3, 8@, 7; [Xen.] Resp. Ath. @, 5; Plat. Polit. 303b; cfr. anche Thuc. 6, 89, 5.   Non così Paduano @992, p. @@3 n. 48, che vede invece nel probulo un personaggio “vicino agli oligarchi” e, nella sua caricatura, una presa di posizione di Aristofane contro l’oligarchia, alla vigilia del colpo di stato. 3  Di “atteggiamento democratico esasperato” nel coro maschile della Lisistrata parla giusta4 mente Romano @992, p. @44.  Ar. Lys. 509. 2

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zitta” (kajgw; jsivgwn), e ancora, “zitta e a casa” (e[ndon ejsivgwn). @ Venute a sapere di qualche altra decisione ancora peggiore (ponhrovteron bouvleuma), le donne chiedevano per quale ragione gli uomini si fossero comportati in maniera tanto insensata (ajnohvtw~) ma continuavano a venire zittite (vv. 5@7-520). 2 Troviamo ancora una volta, nelle parole di Lisistrata, due concetti, quello di poneria e di anoia, che facevano parte del repertorio propagandistico antidemocratico. Ricordiamo intanto che nel discorso che Alcibiade pronuncia davanti agli Spartani nel momento in cui rinnega la sua città che vuole processarlo per l’aπaire della mutilazione delle erme, la democrazia è descritta come una oJmologoumevnh a[noia, una “riconosciuta follia”. 3 Agli occhi, poi, degli oligarchici, o più in generale di quanti mettono in discussione la democrazia, essa è per eccellenza il regime dei poneroi – ejn de; tw/` dhvmw/ pleivsth ponhriva, si legge nell’Athenaion politeia pseudosenofontea – 4 e non a caso i vecchi ateniesi sono etichettati dal coro delle donne al v. 350, con uno di quei composti intensivi tipici del linguaggio comico aristofaneo, come povnw/ ponhroiv: ben diversamente si sarebbero comportati dei crhstoiv (v. 35@). Che l’antitesi poneroi/chrestoi sia leggibile come antitesi tra modello democratico e modello oligarchico, basterebbe a ricordarlo, ancora una volta, l’incipit del libello pseudosenofonteo:  

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Peri; de; th`~ ∆Aqhnaivwn politeiva~, o{ti me;n ei{lonto tou`ton to;n trovpon th`~ politeiva~ oujk ejpainw` dia; tovde, o{ti tau`qj j eJlovmenoi ei{lonto tou;~ ponhrou;~ a[meinon pravttein h] tou;~ crhstouv~: 5

All’interno delle commedie aristofanee la poneria, in opposizione ai tropoi chrestoi, si guadagna del resto il ruolo di etichetta di una democrazia radicale degenerata, come appare chiaramente nei Cavalieri, dove proprio in virtù della sua appartenenza alla schiera dei poneroi il Salsicciaio diventa il demagogo perfetto, meritevole di prendere il posto di Paflagone in casa del vecchio Demos. 6 Tutto ciò consente dunque di interpretare il silenzio imposto alla donna, quale lo descrive Lisistrata, come allusione al silenzio cui la democrazia radicale aveva a lungo ridotto l’opposizione dei chrestoi, cioè dei simpatizzanti dell’oligarchia. Questi ultimi, esattamente come Lisistrata agli uomini e al probulo, potevano rimproverare ai democratici, nei primi mesi del 4@@, poco prima del golpe oligarchico, il fatto che la loro opinione era rimasta per lo più inascoltata dall’inizio della guerra e fino al disastro siciliano. Il testo tucidideo ci consegna, in eπetti, l’ultima istantanea, potremmo dire, di questo silenzio degli aristocratici, colta proprio nel momento in cui si prendeva  

@   Ibid. 5@5 s. Sono qui evocati il tacere e lo stare in casa, cioè i due valori che nel ritratto tracciato da Andromaca nelle Troiane di Euripide (v. 647 ss.) costituivano la prerogativa della donna ideale. 2   Il riferimento a comportamenti insensati da parte degli uomini potrebbe qui costituire un’allusione all’impresa siciliana, verso la quale Alcibiade incoraggiò gli Ateniesi facendo della “follia” (a[noia) che gli veniva rimproverata dai suoi avversari un valore positivo (Thuc. 6, @7), da contrapporre alla politica prudente e rinunciataria di Nicia e dei moderati. 3 4 5   Thuc. 6, 89, 6.   [Xen.] Resp. Ath. @, 5.   Ibid. @, @. 6  Ar. Eq. @80 ss. Sull’opposizione poneroi/chrestoi, si veda, da ultimo, Rosenbloom 2004 e 2004a (con bibl.).

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la decisione di avviare la spedizione in Sicilia, e si consumava il grande aJmavrthma @ che doveva costituire lo spartiacque per il cambiamento costituzionale. Co 

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me le donne di fronte alla follia degli uomini, gli oligarchici di fronte alla follia dell’impresa siciliana sarebbero stati zitti per l’ultima volta; di qui in poi le parti si sarebbero rovesciate: gli oligarchici avrebbero recuperato il “privilegio della parola” e il popolo, al contrario, avrebbe osservato un “silenzio spontaneo”. 2 In 6, 24, 4 leggiamo che, quando si decideva per la spedizione siciliana, a fronte dei pleiones, cioè della maggioranza democratica che era entusiasta, vi era anche chi non era d’accordo, eppure se ne stava in una condizione di hJsuciva, cioè non esprimeva la propria contrarietà all’impresa “temendo (dediwv~!) di essere giudicato dannoso alla città (kakovnou~ dovxeien ei\nai th/` povlei) nel caso in cui avesse dato voto contrario”. Non possiamo fare a meno di notare che il lessico della paura che spinge alla hJsuciva – di fatto al silenzio politico – una parte della cittadinanza è qui lo stesso che troviamo nel cap. 66 dell’viii libro, il che accomuna democrazia e oligarchia nell’obiettivo di far tacere le opposizioni. L’obiettivo è comune dunque, e però non il metodo. Tucidide è ben attento infatti a far risultare chiare le diπerenze tra i meccanismi di manipolazione della volontà popolare in democrazia e sotto un regime non democratico: la democrazia induce alla paura non mediante le minacce, l’intimidazione e la coercizione, bensì mediante il giudizio dell’opinione pubblica; la doxa è in grado di condizionare la volontà dell’assemblea, in virtù di una tendenza all’imitazione, una sorta di eπetto alone che spinge le opposizioni a tacere e a uniformarsi alla posizione maggioritaria, in maniera ancora più determinante nei casi in cui l’espressione del voto è palese e per alzata di mano (non è un caso che nel passo tucidideo in questione si faccia riferimento proprio alla pratica della cheirotonia). Ma torniamo all’analisi delle parole di Lisistrata. Dopo aver ricordato lo stato di soggezione in cui le donne erano state tenute durante la fase iniziale della guerra, ai vv. 525 ss. l’eroina aπerma:  

noi donne, una buona volta, abbiamo deciso tutte assieme (koinh/)` 3 di salvare (sw`sai) la Grecia. Che si doveva aspettare? Se ora volete stare a sentire le cose ragionevoli (crhstav) che diciamo, e se a vostra volta ve ne state zitti, come facevamo noi (kajntisiwpa`q∆ w{sper chjmei`~), saremo in grado di aggiustare la vostra situazione. 4  



Lisistrata si accinge dunque a dire crhstav, a parlare cioè come parlerebbe uno dei chrestoi, il che, ancora una volta, la pone al di fuori della poneria democratica. E se a Lisistrata si riconoscono tratti sicuramente antidemocratici, più di√cile è valutare la posizione di Aristofane, poiché va tenuto in considera@

2   Thuc. 2, 65, @@.   Canfora @999, p. 23.  L’operare “in comune” (koinh/)` delle congiurate, cui Aristofane fa riferimento già al v. 4@, potrebbe rappresentare un altro elemento di contatto con il testo tucidideo: in 8, 54, 4, Tucidide ricorda infatti che Pisandro aveva invitato le xunwmosivai a riunirsi e a operare koinh/` per la katalysis della democrazia (cfr. supra). Ai vv. 577 ss., la condanna di Lisistrata a “coloro che tramano in società (sunistamevnou~ ejpi; tai`~ ajrcai`si) per le cariche” potrebbe dunque precisarsi come condanna non a tutte le eterie, bensì a quelle eterie che, nel clima di emergenza che avrebbe imposto di superare le tipiche rivalità tra aristocratici, continuavano a collocarsi al di fuori della 4 koinh; eu[noia (v. 579).  Ar. Lys. 525-528. 3

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zione che l’autore si nasconde in un gioco di simulazione e dissimulazione che è parte integrante della comicità e che opera come un onnipresente specchio deformante. Si pensi soltanto all’eπetto di dissacrante ridicolizzazione che doveva produrre presso un Ateniese il fatto che pensieri da chrestoi erano veicolati dalle parole di una donna! Merita una riflessione particolare il verbo ajntisiwpavw di v. 528. Esso rappresenta un hapax aristofaneo probabilmente costruito, tramite rovesciamento parodico, sul modello del verbo ajntilevgein, tipico del vocabolario democratico dell’opposizione, che, come si è ricordato nelle pagine precedenti, torna insistentemente nei capitoli tucididei che descrivono le fasi preparatorie del colpo di stato dei Quattrocento. In Tucidide l’abbattimento della democrazia passa, appunto, per una riduzione al silenzio dell’assemblea e per un impedimento dell’ajntilevgein; in Aristofane, che dà parola a una ‘congiurata’, l’uscita dal precedente regime dei poneroi è descritto sì come riduzione al silenzio, ma tra le deformazioni del comico si intuisce il tentativo che fu degli oligarchici, già prima del golpe, di giustificare la loro opera come giusta reazione a un precedente silenzio imposto dai democratici. Mi pare dunque innegabile che il verbo ajntisiwpavw sia qui da leggere in un senso che ha precise connotazioni politiche. Esso conferma le linee della propaganda oligarchica che, come si è visto, mirano a presentare l’abolizione della graphe paranomon come correttivo di una limitazione della libertà di parola operata dai democratici ai danni degli oligarchici. Si trattava, insomma, di una vera e propria partita di giro! Gli oligarchici erano stati in grado di sfruttare a proprio vantaggio un tema scomodo come quello del silenzio che costituiva uno dei cardini della propaganda democratica, e così la democrazia veniva abbattuta con gli argomenti stessi della democrazia! Ciò trova una riprova nella descrizione tucididea di Antifonte, colui che può essere considerato il vero teorico del colpo di stato: egli era uomo abilissimo nell’esercizio della parola e tuttavia rifiutava di parlare in assemblea e in qualsiasi pubblico agone; disprezzava la democrazia ma ne conosceva bene caratteri e meccanismi, tanto che era “il solo uomo che coi suoi consigli sapesse aiutare nel modo migliore quelli che discutevano nel tribunale e nell’assemblea popolare”. @ Abbattere la democrazia nel 4@@ fu in definitiva possibile perché chi lo fece la conosceva profondamente e aveva potuto parlare un “linguaggio della continuità”, 2 e non perché, come si è recentemente sostenuto, mancasse ad Atene un reale attaccamento al regime democratico. 3 Capiamo allora per quale motivo Tucidide, che pure non condivide né il progetto politico degli oligarchi né i loro metodi, li definisca con ammirazione “intelligenti” (xunetoiv). 4 Essi erano riusciti infatti in un’impresa ben di√cile, quella di “togliere la libertà al popolo di Atene a cento anni quasi dalla caduta dei tiranni, popolo che non  

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@

  Thuc. 8, 68, @. Su Antifonte vd. Lapini @99@ e Gagarin 2002.   Bearzot 2009, p. 75. In linea con questo “linguaggio della continuità” è la scelta di minimizzare il cambiamento di fronte all’opinione pubblica, evitando di parlare in assemblea di katalysis tou demou (espressione che, pure, Pisandro usa di fronte alle xynomosiai oligarchiche: Thuc. 54, 4), e ricorrendo invece al concetto di “democrazia diversa”, più precisamente al “governarsi in democrazia ma non nello stesso modo” (mh; to;n aujto;n trovpon dhmokratoumevnoi~: Thuc. 8, 53, @). 3   Taylor 2002; cfr. Heftner 200@, p. @@2 ss. che insiste sul tema della scarsa reazione popolare. 4 Pienamente condivisibile l’analisi di Bearzot 20@3, p. 75 s.   Thuc. 8, 68, 4. 2

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solo non era soggetto, ma che che per la metà di questi anni si era abituato a comandare sugli altri”. @ La risposta dei democratici alla propaganda oligarchica fu debole e fin troppo prevedibile. Ancora una volta il testo aristofaneo ci permette di intuire la direzione verso la quale si muoveva il tentativo di reazione democratica. Ai vv. 529 e 534, per ben due volte, Lisistrata ha zittito il probulo e con lui tutti gli uomini: ha ripetuto al suo interlocutore siwvpa!, “sta’ zitto”, usando un imperativo a far silenzio che quanti erano a teatro – i cittadini di Atene! – non potevano non sentire rivolto anche a se stessi. Ai vv. 6@9 ss. la reazione del coro dei vecchi ponoponeroi: il progetto delle donne “ormai puzza di cose ben più gravi e importanti, soprattutto di tirannide d’Ippia!”. I vecchi paventano che, manipolate dagli Spartani, le donne vogliano portar via le ricchezze della città e il misthos. L’evocazione dell’abolizione del misthos, che ancora ribadisce il carattere antidemocratico del progetto di Lisistrata, risente indubbiamente di quell’azione propagandistica degli oligarchi (Thuc. 8, 65, 3) che già prima del rientro di Pisandro in città, e dunque mentre Aristofane lavorava alla Lisistrata, insisteva “apertamente” sulla necessità di abolire la misthophoria. Ancora, al v. 630 il coro di vecchi attribuisce alle donne trame ejpi; turannivdi. I democratici scelgono dunque di evocare la tirannide, regime che rappresenta la negazione stessa della polis e che è perciò universalmente condannabile, per assimilare di fatto ad essa il progetto oligarchico mirante a scardinare la democrazia radicale basata sulla retribuzione delle cariche. In 6, 60, @, Tucidide ricorda che in occasione della mutilazione delle erme e della profanazione dei misteri eleusinii, il popolo di Atene si era fatto sospettoso (uJpovpth~) “e gli sembrava che ogni atto fosse stato compiuto in vista di una congiura oligarchica e tirannica”. 2 Ma già negli anni Venti la democrazia radicale postpericlea aveva usato massicciamente lo spettro della tirannide nella sua propaganda per etichettare ogni comportamento giudicato ‘deviante’ rispetto al tropos democratico, contro l’opposizione dei conservatori o dei simpatizzanti dell’oligarchia. La pretestuosità dell’argomento era però fin troppo scoperta, come testimonia e√cacemente lo stesso Aristofane ai vv. 488 ss. delle Vespe, dove Bdelicleone, nemico dei misthoi e della democrazia tribunalizia, risponde alle accuse mossegli dal corifeo di volersi fare tiranno:  

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Già: tutto è tirannide per voi, cospirazione, grossa o piccola che sia l’accusa. La tirannide non la sentivo nominare da cinquant’anni. Oggi costa meno del baccalà: questa parola corre per tutto il mercato. Uno compra scorfani e non vuole sarde? Chi vende le sarde là vicino, subito dice: “secondo me, questo tipo fa provviste per la tirannide!”. Se uno chiede cipolle per condire le alici, l’erbivendola strizza l’occhio e fa: “Di’, vuoi cipolle: per la tirannide, magari? Pensi che proprio Atene te la condisce?”.

La tirannide era diventata, dunque, come gli scorfani e le cipolle: un motivo a buon mercato, abusato, e perciò di scarsa e√cacia. Questo soltanto restava alla propaganda democratica nel 4@@ a.C., a pochi mesi dalla katalysis tou demou e dalla riduzione del popolo di Atene al silenzio. @

  Ibid.   Sull’assimilazione alla tirannide di ogni forma di attività antidemocratica, vd. Andoc. @, 97 (cfr. Henderson 2003, p. @69 s.). 2

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Abstract The aim of the present essay is to analyze the political significance of the concept of silence in Athens after the disaster of the Sicilian expedition and during the preparation of the oligarchic coup of 4@@ BC, through a comparison between the eighth book of Thucydides and Aristophanes’ Lysistrata.

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D AL L ’E P I C A AL ROMA NZO

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O D I SSE O E I L F AL SO NOME A ITHON ( HOM . OD . @9, @83 ) Ca r mi ne Ca tenacci

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disseo sa sulla propria pelle quanto sia importante fare un buon uso del nome proprio: tacerlo, contraπarlo, rivelarlo. Nella grotta di Polifemo, grazie all’invenzione del nome Ou[ti~ (Od. 9, 366) egli salva se stesso e i compagni da una fine orribile. Ma, allontanandosi dall’isola dei Ciclopi, rivendica a gran voce il suo vero nome (9, 504 ss.): un atto non senza conseguenze, perché consente a Polifemo di indirizzare nominalmente la sua preghiera di persecuzione al padre Posidone e perché permette di localizzare la nave contro la quale scagliare per la seconda volta un’enorme rupe. @ All’inizio dello stesso ix libro (v. @9), che in un certo senso è il libro del nome Odisseo, l’eroe dichiara la propria identità ai Feaci, ma dopo averla prudentemente celata a lungo e svelandola solo dietro la domanda di Alcinoo, quando ormai è certo della benevolenza dell’interlocutore. Quindi, giunto a Itaca, Odisseo, in incognito, racconta molte storie (false) sulla sua persona in diverse occasioni (dall’incontro con Atena al soggiorno nella capanna di Eumeo sino al racconto tra i pretendenti nel palazzo), ma comprensibilmente, in ragione del piano di occultamento e vendetta, tende a non uscire allo scoperto 2 ed evita di attribuirsi nomi, anche fittizi. In due sole circostanze si presenta con una falsa identità: di fronte a Penelope (@9, @83) e poi, nel finale, anche se ormai la strage dei pretendenti è stata consumata, di fronte a Laerte (24, 306). Si tratta delle due persone a lui più care, insieme con Telemaco dal quale, però, si fa subito riconoscere (@6, @87 ss.). 3 Nella prima delle due occasioni, in uno dei passaggi di maggiore suspense del poema, dopo venti anni di lontananza e vicissitudini il falso mendico Odisseo siede finalmente a colloquio dinanzi a Penelope: avverrà – s’interroga l’ascoltatore/lettore – il riconoscimento, e che cosa ne conseguirà? Penelope interroga lo straniero e insiste a√nché egli dica il suo nome. Dopo un primo tentativo di sottrarsi alla richiesta, Odisseo aπerma di chiamarsi Aithon (Ai[qwn), figlio illegittimo di Deucalione, da Creta. Nella seconda occasione, in una delle ultime scene del poema, Odisseo va a incontrare Laerte, ma è indeciso se farsi riconoscere subito o mettere alla prova il padre. Quest’ultima gli sembra l’opzione migliore. Così Odisseo dice a Laerte di chiamarsi Eperitos (∆Ephvrito~), figlio  

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  Anche Aristotele (Rhet. @380b) sottolinea, dal punto di vista del suo discorso, l’importanza della rivendicazione del nome da parte di Odisseo contro Polifemo. Sugli usi odissiaci del nome proprio vd. Mirto 2008. 2   La vecchia balia Euriclea, che riconosce Odisseo e ne pronuncia il nome, è messa duramente a tacere (@9, 474 ss.). 3   In altre situazioni il finto mendico Odisseo arriva al massimo a indicare il nome del padre, come nella capanna di Eumeo, quando dice di essere figlio di Castore Ilacide (Od. @4, 204): un nome e un patronimico alquanto curiosi, che verisimilmente celano un qualche gioco di parole; cf. Hoekstra @984, p. 2@5.

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di Apheidas Polypemonides (∆Afeivda~ Poluphmonivdh~), originario di Alibanto (∆Aluvba~). I due casi si realizzano in momenti diπerenti dell’intreccio narrativo. Quando parla con Penelope, Odisseo è ancora sotto le mentite spoglie del mendico e non ha ancora portato a termine il suo piano. L’incontro con Laerte, invece, si svolge dopo il compimento della vendetta e non sembrerebbero esserci ragioni per mettere alla prova il vecchio padre. Una condotta apparsa persino discutibile, tanto che nella critica non sono mancate accuse di gratuita durezza d’animo al Laerziade o di scarsa perizia poetica all’autore del xxiv libro, ma non sono mancate neppure giustificazioni per il diπerito abbraccio col padre sia sul piano dei sentimenti dei personaggi sia su quello della composizione letteraria. @ In ogni caso, vi è consenso sul fatto che il nome, la genealogia e la patria con cui Odisseo si presenta a Laerte siano parlanti, anche se il significato esatto è discusso. Le ipotesi, che a me sembrano più plausibili, sono le seguenti. Nel luogo di provenienza ∆Aluvba~, non attestato altrove, risuona ajlavomai/ajluvw (“andare errando”) che si confà all’eroe errabondo per eccellenza. 2 ∆Ephvrito~ sembra giocare sui verbi peirhtivzw (24, 22@) e peiravw (vv. 2@6; 238; 240), visto che Odisseo si caratterizza come colui che sta mettendo alla prova Laerte. 3 Il nome del padre ∆Afeivda~ rimanda a “colui che non ha risparmiato” (aj-feid-) i pretendenti. 4 Nel nonno Poluphmonivdh~ c’è l’inequivocabile traccia delle molte sventure (ph`ma) patite. 5 L’identità del personaggio è coerente. Nei falsi nomi è racchiusa la storia  

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  Fin dai commentatori antichi (cf. schol. Od. 24, 240); per una rilettura complessiva dell’episodio vd. la puntuale analisi di West @989, p. @@3 ss. 2   Stanford @948, p. 423; Erbse @972, p. @0@; diversamente Wackernagel @9@6, p. 25@ suggerisce la correzione ejk Saluvbanto~ (anche in Il. 2, 857 ejx ∆Aluvbh~) e intende Silberstadt, mentre altri ancora scorgono nel toponimo un’associazione a livello di etimologia popolare con ajluvw nel senso di “land of distress (or struggle)” (Peradotto @990, p. @44; cf. Thornton @970, p. @@7); vd. anche, infra, n. 4. 3   Dimock @989, p. 328. Altri invece traducono “Man-of-Strife, or of Rivalry” da e[ri~ (Stanford @948, p. 423) o connettono il nome a ejphvreia (Strauss Clay @997, p. 6@) o intendono – ed è l’opinione prevalente – “scelto”, col confronto di ejpa–vrito~ riferito alla milizia arcade in Xen. Hell. 7, 4, 22 (Wackernagel @9@6, p. 249 ss. e, per ulteriori indicazioni bibliografiche, Heubeck @986, p. 374 s.). Ovviamente, la corretta etimologia di un termine non coincide necessariamente con le ragioni che determinano il gioco di parole; anzi, nel caso di Eperitos, è assai dubbio – come osserva giustamente West @989, p. @40 n. 72 – che il valore originario, correttamente riconducibile all’arcadico ejpa–vrito~, fosse chiaro a Laerte, Omero e il suo pubblico. 4  Si veda l’uso di feivdw in bocca a Eurimaco all’inizio della strage in Od. 22, 55 (cf. Strauss Clay @997, p. 6@). Questa interpretazione appare preferibile rispetto a “colui che non risparmia i propri beni”, cioè “generoso”, pure plausibile dal punto di vista linguistico. Un’ulteriore ipotesi è quella di Breed @999, p. @37 ss., che intende “negligente” con specifico riferimento alla mancata osservanza dei rituali funebri e al rimpianto espresso da Laerte in Od. 24, 290 ss. (col senso complessivo “I am from Revenant-corpse-town, where I have a well-known home, the son of lord Neglectful, the son of Manygriefs”). 5   Oltre a echeggiare il primato assoluto di Odisseo fra tutti gli eroi ad aggregare attorno alla sua persona epiteti in polu- (poluvtla~, poluvmhti~, polutlhvmwn, poluvfrwn, poluvstono~ in Od. @9, @@8 e poluvtropo~ fin dal primo verso poema etc.). Un’altra ipotesi è quella di Cobet, secondo cui la lezione Poluphmonivdh~ si sarebbe generata da un originario Polupa–monivdh~ (cf. Il. 4, 433 polupavmwn; 24, 250 Pavmmwn), ovvero Polukthvmwn “che possiede molti averi” (si rimanda nuovamente per gli approfondimenti a Heubeck @984, p. 374). In questo senso, secondo Wackernagel (vd. le note precedenti), tutte le componenti della falsa identità di Odisseo rimanderebbero all’idea

odisseo e il falso nome aithon (hom. od. 19, 183)

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ultima di Odisseo e l’intero poema: le peregrinazioni (Alibanto), i molti dolori (Polypemonides), la strage spietata dei pretendenti (Apheidas) e, ora, la prova cui sta sottoponendo il padre (Eperitos). Quanto detto fin qui sull’uso consapevole e accorto del nome (reale o fittizio) da parte di Odisseo, insieme al buon senso interpretativo di ciascun lettore, induce a ritenere che il kluto;n o[noma Aithon nell’incontro con Penelope sia parlante e significativo. Tanto più ciò vale in una scena integralmente e abilmente costruita sull’intreccio tra aπermazioni vere e falsità, le quali concorrono in maniera fondamentale – non meno delle aπermazioni vere – alla trama allusiva del tema portante dell’episodio: il riconoscimento da parte di Penelope, apparentemente lì a portata di mano, ma poi non realizzato. @ Esemplare della commistione funzionale di vero e falso è il racconto in cui Aithon, il finto cretese, descrive l’abbigliamento di Odisseo: la storia narrata è inventata, ma contiene elementi importanti di verità, quali la descrizione precisa delle vesti e della fibbia dell’eroe (@9, 225 ss.). Allo stesso modo, i nomi del padre Deucalione e del fratello Idomeneo servono ad ancorare alla realtà la falsa identità. In particolare, nella Grecia antica il nome, col suo suono e col suo significato, non è solo un segnale distintivo della persona, ma ne incarna l’identità e la storia, compreso il destino, che a volte può inverarsi in concomitanza con la pronuncia di quel nome. Insomma Omero deve aver scelto Aithon “con una precisa idea nella mente”, come ha scritto Joseph Russo, “ma non è chiaro quale possa essere stata”. 2 Va detto che Aithon è nome raro, ma storicamente attestato, dall’età micenea – a quanto pare – alle epoche successive. 3 Nei poemi omerici, poi, un cavallo del carro di Ettore è così chiamato, e con lui corrono Xavnqo~, Povdargo~ e Lavmpo~: 4 tutti nomi con riferimento all’aspetto o alla rapidità che del resto, come mostra più in generale il confronto con l’aggettivo ajrgov~ (lucente/rapido/bianco), appartengono a sfere percettive, concettuali e linguistiche che si intersecano. È evidente che, per cercare di comprendere la valenza del falso nome di Odisseo, risulta fondamentale il significato dell’aggettivo ai[qwn. La semantica di ai[qwn è stata già oggetto di minuziose analisi, alle quali possiamo rimandare per gli approfondimenti. 5 Il termine può essere tradotto in vari modi: igneo, fiammante, fulvo, ardente, focoso. Tutti questi significati rimandano alla nozione originaria di fuoco. 6 È ai[qwn ciò che arde, che ha l’aspetto e/o il carattere della fiamma. Di qui i diversi esiti: ai[qwn è attributo di fenomeni naturali quali il fulmine o  

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di ricchezza, ma francamente – ammesso che le derivazioni siano corrette – si tratterebbe di un elemento quasi o del tutto insignificante nella drammatica dialettica del riconoscimento tra Odisseo e Laerte. @   Non si può non ricordare quanto osservato da Aristotele nella Poetica, ovvero che “il riconoscimento è un mutamento da ignoranza a conoscenza” (@452a) e che nell’Odissea “ovunque vi 2 sono riconoscimenti” (@459b).   Russo @985, p. 235 s. 3  Cf. McKay @959, p. @99; per le attestazioni successive si rinvia alla voce Ai[qwn in FraserMatthews @987; @997; 2000; Osborne-Byrne @994; Corsten 20@0. 4  Hom. Il. 8, @85; cf. anche Ai[qh (23, 295). 5   Tra le principali trattazioni McKay @959, p. @99 s.; @962, p. 9 ss.; Levaniouk 2000, pp. 25-5@ cui si rinvia per ulteriore bibliografia; vd. anche Mette @955, s.v. ai[qwp-, ai[qwn. 6   Sull’etimologia vd. Chantraine @968-80, s.v. ai[qw.

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il sole, ma esprime anche i vari colori (dal giallo vivo al rosso scuro-marrone) che il fuoco può assumere sino alla lucentezza della fiamma e del riverbero luminescente, e infine può indicare forza, impeto, edacità. La valenza cromatica è prevalente quando l’aggettivo è riferito agli animali. Lo splendore lucente si lega per lo più ai metalli. L’impeto, l’ardore e la potenza distruttiva si prestano bene a usi estesi e figurati in rapporto con animali, uomini e, in particolare, guerrieri. 2 Naturalmente, diversi significati possono trovarsi a collaborare o sovrapporsi, come nel caso del leone fulvo e veemente 3 o del fumo dell’Etna in eruzione, dove l’elemento igneo è tutt’uno con lo spettacolo cromatico. 4 Se poi torniamo ai poemi omerici, la parola occorre @9 volte: 2 volte è nome proprio (Il. 8, @85; Od. @9, @83); negli altri @7 casi, ai[qwn è attributo del cavallo, del bue, del leone e dell’aquila, e si accompagna al ferro e a oggetti metallici quali tripodi e lebeti. 5 Su questi presupposti linguistici si sono sviluppate diverse interpretazioni dello pseudonimo di Odisseo. George Dimock ha puntato l’attenzione sul calore e sul bagliore della fiamma. Aithon è messo in relazione con la similitudine di poco seguente, in cui la commozione di Penelope ai racconti del falso mendico è paragonata alla neve che si scioglie sul monte: il nome-indovinello sarebbe ‘fiamma’ che scioglie la donna (@9, 204-209), ma che lei non può guardare in faccia (@9, 478). 6 “Le lacrime sono lo sciogliersi del ghiaccio dell’anima”, per riprendere le parole di un aforisma di Hermann Hesse. 7 Alla dimensione visiva e, in particolare, a quella della luce pensa Joseph Russo. Sulla base degli usi omerici, Aithon “dovrebbe o alludere al colorito di un individuo o simboleggiarne l’elogio, definendolo “luminoso” o “brillante” ”; in quest’ultimo caso “prolungherebbe l’e√cacia metaforica del soprannaturale chiarore che circonda Odisseo già ai vv. 34-43, anzi fin da xviii 353-4”. 8 Il motivo della luce, che Odisseo diπonde intorno a sé nel xviii libro, è la cifra del nome Aithon per Roger Dawe: “if a special meaning is to be sought, we might fancifully speculate it is because aithon fits precisely with what Odysseus has insisted on doing. It is a sort of tongue-in-cheek joke. My name is Mr. Burns”. 9 Un’altra linea interpretativa si dipana attorno alle nozioni di forza, impeto e voracità. In questo senso, R. B. Rutherford scrive che forse non è necessario ricercare specifiche implicazioni oltre quella di guerriero ardente e violento, come in eπetti Odisseo si mostrerà nella strage dei pretendenti. @0 Sulla scorta di alcune occorrenze esiodee, @@ Gregory Nagy intende ai[qwn come “burning [with hun 

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@    È questo, per esempio, l’uso che predilige Pindaro (Ol. @0, 83; Pyth. @, 23; 3, 58; Nem. 7, 73); un altro uso in Ol. @@, @9 (vd. infra, p. @07). 2    Aesch. Sept. 448; Soph. Ai. @088 (cf. infra, p. @@0 n. 2); Eur. Rh. @23. 3     Vd. p. es. Tyrt. fr. @@ Gent.-Pr. = @3 West. 4    Pind. Pyth. @, 23 col commento di Cingano @995, p. 337. 5     Cf. Ebeling @880-85, s.v. ai[qwn. 6     Dimock @956, p. 68; vd. anche Dimock @989, p. 252 s. In questa direzione interpretativa anche Rutheford 2005, p. @04 n. 24: “the name Aithon there is appropriate because, as Aithon, Odysseus ‘warms Penelope up’ ”. 7     H. Hesse, Aforismi, a cura di Paola Sorge, Roma @994, p. 59. 8 9     Russo @985, p. 236.   Dawe @99@, p. 44 s. @0   Rutherford @992, p. @6@. @@  Hes. Op. 363 ai[qwna (v.l. ai[qwpa) limovn; fr. 43a, 6 s. (cf. v. 37) Merk.-West dove l’epiteto è

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ger]” e ritiene il nome particolarmente adatto a Odisseo in quanto mendicante. @ Nel solco di questa lettura si colloca Olga Levaniouk. L’aggettivo ai[qwn (“fiery”) connoterebbe chi è guidato da desideri persistenti e quindi, in senso metaforico, chi è sempre aπamato e, sul piano sociale, dipendente dagli altri. Così Aithon sarebbe adatto a designare la condizione del mendico Odisseo. 2 Infine, il colore è il perno di un’ulteriore ipotesi che in passato ha riscosso consensi autorevoli, ma oggi nel dimenticatoio. 3 Aithon alluderebbe al colore rossiccio della pelliccia della volpe e quindi alla notoria astuzia di Odisseo. L’idea prende spunto da un passo di Pindaro (Ol. @@, @9 ai[qwn ajlwvphx). La proposta è accattivante per il suo carattere diretto e connotativo, ma urta contro pesanti obiezioni. L’unico confronto per quest’uso dell’aggettivo proviene da un testo distante da Omero; anzi, va aggiunto che la volpe non appartiene al bestiario dell’Iliade e dell’Odissea. La riconoscibilità della volpe in ragione del solo epiteto ai[qwn (mai connesso con la volpe nei poemi omerici) e quindi, ancor di più, la conseguente identificazione di Odisseo grazie ad esso risultano di√cilissimi. In generale, nessuna ipotesi fin qui menzionata è implausibile. Ciascuna di esse si fonda su una caratteristica propria dell’aggettivo ai[qwn. Tuttavia, se calate nell’episodio specifico dell’incontro tra Odisseo e Penelope, alcune soluzioni dell’enigma Aithon non risultano particolarmente rilevanti ed e√caci, altre – nella loro estrema sottigliezza o complessità – sembrano pretendere troppo dalla capacità interpretativa di Penelope e del pubblico di Omero. C’è, io credo, un’altra possibilità mai esplorata. Forse, come nel racconto The Purloined Letter di Edgar Allan Poe, l’oggetto della ricerca, leggermente camuπato e mescolato ad altri simili, è sotto gli occhi, e per questo – paradossalmente – può risultare sfuggente. Il motivo, che domina questa parte dell’Odissea, è certamente il riconoscimento. Nella scena clou del colloquio con Penelope, il falso mendico parla poco di sé e molto di Odisseo. Le sue parole intrecciano verità e menzogna, ma l’una e l’altra sono volte a significare una sola cosa: il ritorno di Odisseo. Un fitto ordito di indizi che potrebbero (e sembrerebbero) indirizzare al riconoscimento da parte di Penelope, ma che poi cadono senza realizzarsi. In tutto ciò si inserisce Aithon. Si badi bene che questa è l’unica occasione in cui Odisseo si attribuisce un falso nome nel palazzo di Itaca, e i nomi – come emerge proprio nel xix libro a proposito di quello di Odisseo (v. 406 ss.) – hanno un senso profondo. Se questa è la sola volta in cui il finto cretese rivendica un’identità, mentre resta sempre anonimo di fronte ai pretendenti e agli altri personaggi, è evidente che allo pseudonimo sono a√dati un significato e un compito precisi  

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riferito a Erisittone, un personaggio noto per la sua fame divoratrice; poi in Call. Hymn. Dem. 6, 66 s.; cf. McKay @959. @

 L’analisi è contestuale a quella svolta per l’interpretazione di Teognide, v. @209 dove l’io poetico si attribuisce il nome di Aithon (Nagy @985, p. 77 ss.). 2   “A person deprived of his household is forever “hungry” in the sense that he is always in need of sustenance. But such a person is also “burning” to return and regain his household, and if that household has been taken away, he is “burning” for revenge” (Levaniouk 2000, p. 49 s.). 3   L’ipotesi piacque da F. G. Welcker a E. Maas; sulla storia di questa interpretazione si veda la dotta nota di McKay @962, p. 9 n. 2. Mentre questo testo va in stampa, leggo che Kanavou 20@5, p. @02 aggiunge alle proposte sopra viste l’ipotesi che il nome possa significare “darkcomplexioned”.

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in relazione al motivo centrale della scena, ovvero il processo di mascheramento e possibile agnizione. Ma è altrettanto evidente che questa funzione va a incastrarsi nella trama complessiva dell’opera. Il ritorno di Odisseo non è preannunciato solo dal mendicante straniero, ma anche da un’altra serie di fatti che innervano specialmente il libro xix e le sezioni limitrofe. Concentriamoci su uno di questi motivi, forse il più ricorrente. Già, all’inizio del poema, nel ii libro (v. @46 ss.) due aquile volteggiano in modo violento e inquietante sopra l’assemblea degli Itacesi e l’indovino Aliterse spiega che i due uccelli significano l’imminente e cruento ritorno di Odisseo. @ L’equazione allegorica aquila/Odisseo torna ripetutamente nella seconda parte del poema. Nel xv libro (v. @54 ss.), al momento della partenza da Sparta alla volta di Itaca, Telemaco esprime il desiderio di trovare il padre a casa. Subito un’aquila vola da destra e ha tra gli artigli una grossa oca. Tutti i presenti gioiscono. Elena illustra il senso dell’omen: come l’aquila ha ghermito l’oca allevata in casa, così Odisseo tornerà o è già tornato in patria e farà vendetta. Più avanti, nel xx libro (v. 242 ss.), di nuovo un’aquila appare portando una colomba, ma proviene da sinistra e destinatari della visione sono i pretendenti: l’episodio è narrato in modo cursorio e un po’ oscuro, ma risulta chiaro all’ascoltatore/lettore che il segno preannuncia la triste fine incombente sui proci e che, quindi, l’aquila rappresenta ancora Odisseo. 2 Una corrispondenza metaforica che trova l’ennesima conferma proprio negli ultimi versi del poema non nella forma della profezia, ma in quella ancora più esplicita della comparazione: Odisseo si avventa contro i parenti delle vittime “come un’aquila dall’alto volo” (24, 538). Tutte le occorrenze dell’aquila nell’Odissea rimandano a Odisseo. E, soprattutto, la corrispondenza aquila/Odisseo è aπermata in un passaggio importantissimo dello stesso xix libro: il celebre sogno di Penelope. Penelope racconta di aver sognato che un’aquila, discesa dal monte, uccide venti oche nel cortile della casa. Mentre la donna nel sonno piange per le oche, l’aquila si poggia sul tetto e, parlando in prima persona con linguaggio umano, le dice di farsi coraggio perché si tratta non di un sogno, ma di una visione veridica: “le oche sono i pretendenti, e io prima per te ero un’aquila, e ora ritorno come tuo sposo legittimo” (@9, 535 ss.). Alla richiesta di Penelope di spiegarle il sogno, il mendicante Aithon (Ai[qwn/Odisseo) non può che ribadire l’interpretazione pronunciata in sogno dall’aquila (aijetov~/Odisseo). E allora, in questo rapporto continuato ed esclusivo di correlazione tra l’eroe e l’aquila, non sembra casuale la somiglianza di suono tra Ai[qwn e aijetov~, né sembra casuale che l’aggettivo ai[qwn sia epiteto proprio di aijetov~ nell’Iliade (@5, 690). La mia ipotesi è che Aithon alluda all’aquila che, già nei canti precedenti, è stata identificata con Odisseo e che, ancora più chiaramente, lo sarà nei passaggi successivi, in special modo nel racconto del sogno di Penelope. Oltre all’indiscutibile ed esclusiva equazione aquila/Odisseo, due sono i punti nodali dell’interpretazione appena proposta: il gioco di suono tra aijetov~ e Ai[qwn;  

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@

  Sui punti oscuri dell’episodio vd. West @98@, p. 268 ss.   “Naturalmente essi [i pretendenti] non possono rendersene conto, mentre lo possono i più sensibili ascoltatori e lettori di Omero: sta in ciò l’ironia!” (Russo @985, p. 275). 2

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il nesso associativo, oltre all’espressione attestata nell’Iliade, tra le parole aijetov~ e

ai[qwn. È possibile trovare confronti e conferme?

Per quanto riguarda il primo punto, un valido riscontro sono gli oracoli con cui Apollo pitico, come riferisce Erodoto (5, 92b 2 s.), predisse la tirannide di Cipselo a Corinto. A suo padre Eetione la Pizia pronunciò un oracolo che cominciava così: ∆Hetivwn, ou[ti~ se tivei poluvtiton ejovnta.

Alla luce di questo responso divenne perspicua un’antica profezia il cui primo esametro diceva: Aijeto;~ ejn pevtrh/si kuvei, tevxei de; levonta.

I Bacchiadi non ebbero di√coltà a comprendere che l’aquila dell’antico vaticinio altri non era che Eetione, a partire proprio dalla somiglianza di suono nell’incipit dei due responsi tra ∆Hetivwn (dor. ∆Aetivwn) e aijetov~. @ Una somiglianza recepita da antichi e moderni, e certamente non più immediata di quella tra Ai[qwn e aijetov~. I testi delfici sono un confronto particolarmente pertinente anche perché si esprimono, come è tipico degli oracoli, attraverso il linguaggio enigmatico, che è il medesimo codice usato da Odisseo/Aithon. 2 Il secondo e più importante aspetto dell’analogia Ai[qwn/aijetov~/Odisseo riguarda il rapporto tra l’aggettivo ai[qwn e l’aquila, e quindi la capacità del primo di evocare la seconda. Dal punto di vista del significato ai[qwn si addice icasticamente a qualificare l’aquila per il colore del piumaggio bruno castano che tende al rosso e, nel capo, al castano dorato, 3 ma anche per la natura focosa, impetuosa e rapace dell’animale: 4 sul primo aspetto sarà sintomatica, nella lingua latina, la connessione comune e persino antonomastica di fulvus, che dal punto di vista cromatico è corrispettivo eccellente di ai[qwn, con aquila. 5  

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@

 Per questo e per gli altri elementi corrispondenti tra i due vaticini vd. Catenacci 20@2, p. 39 ss. 2  È verisimile che, in un altro caso degli stessi poemi omerici, la parola aijetov~ entri a far parte di un gioco verbale con un nome proprio. In una scena di battaglia dell’Iliade (@3, 82@ ss.) “un’aquila dall’alto volo” apparve ad Aiace, e subito “l’esercito degli Achei gridò, fiducioso nel presagio”. L’aquila è notoriamente messaggera di Zeus e, anche in altri casi, interviene come segno divino in battaglia (cf. Il. 8, 247 ss.; @2, 200 ss.). Tuttavia la subitanea acclamazione dell’esercito e il carattere auto-veridico del segnale potrebbero sottintendere il legame speciale che intercorre tra Aiace, la sua storia onomastica e l’aquila, come espressamente ricordato in altre testimonianze. Infatti Aiace prende il nome dall’aquila inviata da Zeus, quando Eracle chiede al dio di concedere a Telamone un figlio valente come il leone la cui pelle Eracle indossa (Pind. Isthm. 6, 37 ss. con lo scolio 53a; Apollod. Bibl. 3, @2, 7; vd. anche infra, p. @06 n. 2). Inoltre l’episodio iliadico che riguarda Aiace si segnala rispetto alle altre apparizioni dell’aquila in battaglia anche perché è l’unico in cui il presagio segue una disfida verbale; cf. Janko @992, p. @46. 3   Si tratta dell’aquila chrysaetus nella catalogazione di Linneo (crusaveto~ già in Ael. De nat. an. 2, 39; vd. anche Arist. Hist. an. 9, 6@9a @3 crw`ma xanqov~), golden eagle in inglese (cf. Thompson @936, p. 3; Arnott 2007, p. 4). 4   Non senza possibili suggestioni poetiche e analogiche anche in relazione con l’etere infiammato che l’uccello percorre e la rapidità folgorante del suo movimento (si confronti l’immagine in Dante, Epist. 5, @@ “cum sublimis aquila fulguris instar descendens adfuerit”). 5   E.g. Cic. De leg. @, 2 Nuntia fulva Iovis; Verg. Aen. @@, 75@ s. fulva ... aquila; @2, 247 fulvus Iovis ales; Ov. Met. 8, @46 fulvis haliaeetus alis; Stat. Theb. @, 548 Phrygius fulvis venator tollitur alis; Clau-

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In Omero (Il. @5, 690) aijetov~ e ai[qwn formano, come abbiamo già detto, un unico nesso espressivo, notevole anche per l’eπetto di allitterazione. Non sappiamo quanto il sintagma fosse tradizionale. Abbiamo una sola occorrenza, e non è questa la sede per riprendere la questione se un’espressione nome più epiteto, conforme nella struttura e nella funzione alle formule ripetute, possa essere definita formula, sebbene attestata una sola volta (a mio parere, sì). @ Per quanto ci riguarda, possiamo limitarci a notare che il nesso aijeto;~ ai[qwn (Il. @5, 690) è l’unico in cui l’aggettivo, pur tra i vari suoi usi, è al nominativo singolare e che ai[qwn/Ai[qwn cadono nella stessa posizione del verso, in chiusura dell’esametro, là dove, com’è noto, più frequentemente tendono a collocarsi le espressioni tradizionali. Va segnalato poi che il nesso aijeto;~ ai[qwn ricorrerà, secoli dopo, negli Oracoli Sibillini (3, 6@@), ancora una volta in un testo enigmatico. E, fatto più interessante se si pensa al nesso antonomastico tra ai[qwn e aquila, è il nome che, nella tradizione registrata da Igino (Fab. 3@), è assegnata all’aquila che divora il cuore di Prometeo: Aethon. 2 Se Aithon rimanda all’aquila e, con questa valenza simbolica, a Odisseo, c’è da dire che Omero prepara bene il pubblico all’identificazione. Le precedenti apparizioni dell’uccello, soprattutto quella del xv libro, predispongono a tale associazione; le successive la ribadiscono. Ma Omero sembra aver preparato bene anche Penelope, la quale, al momento in cui il nome Aithon è pronunciato, ha già avuto il sogno dell’aquila/Odisseo, sebbene noi non ne siamo ancora informati. La scena è improntata a un principio di ironia epica. Il pubblico sa che l’aquila è simbolo di Odisseo e quindi può intuire che il nome Aithon allude allo stesso eroe, mentre Penelope pare non poter intendere la cosa. Ma, subito dopo, veniamo a scoprire che la donna, grazie al sogno, può – in un certo senso, dovrebbe prima degli altri – comprendere il messaggio insito nel nome. A questo punto tutti, sia Penelope sia i lettori/ascoltatori, hanno la chiave per decifrare Aithon. 3 Tuttavia, come accade in casi di ironia tragica, 4 ciò che è intellegibile al pubblico  

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dian. @5, 467 fulvusque Tonantis armiger; altre testimonianze in Martin @9@4, p. 3@. La connotazione cromatica godrà di fortuna anche nella poesia italiana: basterà citare la triade Giosué Carducci, “Venne quel grande, come il grande augello 
/ ond’ebbe nome; e a l’umile paese /
 sopra volando, fulvo, irrequieto” (Piemonte 4@ ss., in Rime e ritmi, con l’ironico commento di C. E. Gadda, ora in “Per favore mi lasci nell’ombra”. Interviste @950-@972, Milano @993, p. @@5 ss.), Giovanni Pascoli, “Tutta s’apre la fulva aquila, s’alza...” (Le due aquile iii @0, in Nuovi poemetti) e Gabriele d’Annunzio, “in un orrendo strepito di penne / come in un nembo fulvo preso fui / dalla possa grifagna” (Ditirambo iv 220 ss., in Alcione), ma cf. anche Dante Alighieri. “Un’aguglia nel ciel con penne d’oro” (Purgatorio 9, 20) e Torquato Tasso, “Perché cangiate ha ne l’augel di Giove / le sue colombe, e le sue fulve penne / cangiate ha questa in altre penne nove?” (Rime 537, 9 ss.). @

  Un lavoro classico sull’argomento è Hoekstra @969, p. @3 ss.   Così alcuni editori; diversamente, altri intendono come aggettivo (aethonem aquilam): in ogni caso, una forte attestazione della vitalità del nesso ai[qwn/aijetov~. Faccio inoltre notare che l’aggettivo ai[qwn è quasi antonomastico di Aiace in Soph. Ai. 22@ ajnevro~ ai[qono~ (v.l. ai[qopo~) e @088 ai[qwn uJbristhv~: un uso che potrebbe essere espressivo e significativo, se si considera l’origine del nome e del carattere di Aiace proprio da un’aquila (vd. supra, p. @09 n. 2). 3   Nella discussione che nel convegno ha seguito questa relazione, Alina Veneri ha suggerito l’ipotesi che il racconto del sogno dell’aquila che uccide le oche sia la risposta di Penelope, in forma sottile e parimenti enigmatica, all’enigma odissiaco del nome Aithon allusivo dell’aquila. In questo caso, però, dovremmo supporre che Penelope inventi il sogno. 4   Cf. Fenik @974, p. 46; Emlyn-Jones @984, p. 5 s. 2

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e sembrerebbe esserlo anche ai personaggi del racconto sfugge a questi ultimi, aprendo un’altra via verso la soluzione dell’intreccio. È come se Omero spingesse il pubblico, anche mediante il nome Aithon, ad attendersi il riconoscimento da parte di Penelope che però, a sorpresa, non si realizza, indirizzando la narrazione verso sviluppi diversi e generando un ulteriore eπetto di suspense. @ Se così è, la nostra Odissea mostra una struttura organica e consapevole. Tuttavia, al tempo stesso, non si può non sottolineare come il nome Aithon e il sogno dell’aquila parlante sembrano fatti apposta per interagire strettamente con la finalità del riconoscimento. Il nome funziona come una conferma in codice del sogno, propedeutica all’agnizione e quindi alla collaborazione segreta di Penelope al piano di vendetta. In altri termini, torna l’annosa questione se il poeta dell’Odissea abbia rielaborato una precedente versione in cui Odisseo è riconosciuto dalla moglie che collabora nell’organizzazione della strage. È stato osservato più volte che diversi elementi del finale dell’Odissea si spiegano meglio (o solo) se si presuppone l’esistenza di questa più antica tradizione. 2 La mia impressione è che ciò sia vero e che anche il gioco tra il nome Aithon e il sogno di Penelope fosse originariamente più stringente in funzione dell’ajnagnwvrisi~, del riconoscimento diretto e segreto. Tuttavia, nonostante la percezione di meccanismi narrativi più diretti e funzionali sullo sfondo della tradizione, non si può non convenire anche con coloro che, pur ammettendo il riuso di materiali preesistenti, vedono nella nostra Odissea un disegno coerente, anche in relazione all’incontro tra Penelope e Odisseo e alla stessa valenza dello pseudonimo di quest’ultimo. 3 In conclusione e in sintesi, il nome Aithon fa la sua apparizione in uno dei passaggi più attesi del poema: l’incontro tra Odisseo e Penelope. Tutta la tensione emotiva è incentrata sul possibile riconoscimento tra i due. L’argomento del colloquio è il ritorno di Odisseo. Su questi elementi, cioè il riconoscimento e il ritorno, è intessuta l’intera scena in un gioco di luci e ombre, in un linguaggio a due dimensioni, che dice e non dice, nasconde e rivela, mente ed è veritiero, che crea i presupposti di un’agnizione possibile, che alla fine fallisce. A questo chiaroscuro dissimulatorio contribuisce lo pseudonimo Aithon. Non a caso è l’unica circostanza in cui il finto mendico si attribuisce un nome. Il falso nome rimanda alla vera identità. Aithon non è solo un gioco linguistico sul carattere di Odisseo, ma anche un più preciso segnale, potenzialmente utile al riconoscimento e alla rivelazione del ritorno dell’eroe, all’interno di una più fitta rete di indizi. Ma quali sono questi altri segnali con cui Aithon interagisce (sebbene nella nostra Odissea solo a livello potenziale)? Odisseo è simboleggiato, più volte e lui solo, dall’aquila. Dell’aquila ai[qwn è epiteto nella lingua omerica. L’aquila (aijetov~) si presta anche al gioco paronomastico e criptato con Ai[qwn. E a comprovare definitivamente il  

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@   Così, per esempio, secondo Emlyn-Jones @984, la dilatazione dei tempi del riconoscimento tra Penelope e Odisseo non solo estende le possibilità drammatiche inerenti allo specifico passaggio del racconto, ma definisce questa ajnagnwvrisi~ come una vera e propria climax narrativa accanto all’uccisione dei pretendenti. 2   L’idea è stata sviluppata soprattutto dalla critica analitica (vd. p. es. Page @955, p. @24 s.); comunque essa è compatibile anche con una gestazione orale del poema (vd. Kirk @985, p. @67 3 ss.).   Rutherford @992, p. 34 ss.

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senso cifrato dell’enigma interviene il sogno di Penelope in cui Odisseo appare proprio sotto forma di aquila parlante. Ai[qwn è l’aijetov~ Odisseo. Bibliografia Arnott 2007, G. A. Arnott, Birds in the Ancient World from A to Z, London-New York 2007. Breed @999, B. Breed, ‘Odysseus Back Home and Back from the Dead’, in M. Carlisle O. Levaniouk (edd.), Nine Essays on Homer, Lanham-Boulder-New York-London @999, pp. @37-@6@. Catenacci 20@2, C. Catenacci, Il tiranno e l’eroe. Storia e mito nella Grecia antica, Roma 20@22. Chantraine @968-80, P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grècque i-ii, Paris @968-80. Cingano @995, E. Cingano, in B. Gentili - P. Angeli Bernardini - E. Cingano - P. Giannini (edd.), Pindaro. Le Pitiche, Milano @995 (20064). Corsten 20@0, T. Corsten (ed.), A Lexicon of Greek Personal Names va (Coastal Asia Minor, Pontos to Ionia), Oxford 20@0. Dawe @99@, R. D. Dawe, ‘The Case of the Bald-Headed Lamplighter’, Ill. Class. Stud. @6, @99@, pp. 37-48. Dimock @956. G. E. Dimock, ‘The Name of Odysseus’, Hudson Rev. 9, @956, pp. 52-70. Dimock @989, G. E. Dimock, The Unity of the Odyssey, Amherst @989. Ebeling @880-85, H. Ebeling, Lexicon Homericum, Leipzig @880-85. Emlyn-Jones @984, C. Emlyn-Jones, ‘The Reunion of Penelope and Odysseus’, Greece & Rome 3@, @984, pp. @-@8. Erbse @972. H. Erbse, Beiträge zum Verständnis der Odyssee, Berlin @972. Fenik @974, B. Fenik, Studies in the Odyssey, Wiesbaden @974. Fraser-Matthews @987, P. M. Fraser - E. Matthews (edd.), A Lexicon of Greek Personal Names i (The Aegean Islands, Cyprus, Cyrenaica), Oxford @987. Fraser-Matthews @997, P. M. Fraser - E. Matthews (edd.), A Lexicon of Greek Personal Names iiia (The Peloponnese, Western Greece, Sicily and Magna Graecia), Oxford @997. Fraser-Matthews 2000, P. M. Fraser - E. Matthews (edd.), A Lexicon of Greek Personal Names iiib (Central Greece from the Megarid to Thessaly), Oxford 2000. Heubeck @986, A. Heubeck in M. Fernández-Galiano - A. Heubeck (edd.), Omero. Odissea vi (Libri xiii-xvi), tr. G. A. Privitera, Milano @986. Hoekstra @969, A. Hoekstra, Homeric Modifications of Formulaic Prototypes: Studies in the Development of Greek Epic Diction, Amsterdam-London @969. Hoekstra @984, A. Hoekstra (ed.), Omero. Odissea iv (Libri xiii-xvi), tr. G. A. Privitera, Milano @984. Janko @992, R. Janko (ed.), The Iliad: A Commentary (Books @3-@6), Cambridge @992. Kanavou 20@5, N. Kanavou, The Names of Homeric Heroes. Problems and Interpretations, Berlin-New York 20@5. Kirk @985, G. S. Kirk, Homer and the Epic, Cambridge @985. Levaniouk 2000, O. Levaniouk, ‘Aithôn, Aithon, and Odysseus’, Harv. Stud. Class. Philol. @00, 2000, pp. 25-5@. Martin @9@4, E. W. Martin, The Birds of the Latin Poets, Palo Alto @9@4. McKay @959, K. J. McKay, ‘Studies in “Aithon”: Hesiod Op. 363’, Mnemosyne @2, @959, pp. @98-203. McKay @962, K. J. McKay, Erysichthon. A Callimachean Comedy, Leiden @962.

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Abstract Why does Odysseus tell Penelope that his own name is Aithon (Od. @9, @83)? The whole scene is focused on the (unrealized) possibility of the recognition and on the imminent return of Odysseus. The fake name must secretly work in this direction. The Homeric epithet ai[qwn is related with the eagle. In the Odyssey the eagle is always connected with Odysseus and also in the conversation between Odysseus and Penelope the return of the hero is symbolized by an eagle. Furthermore, the word ai[qwn may suggest a pun with aijetov~. Aithon alludes to “the eagle” Odysseus.

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E M OZ I ON I E STRA TEGIE: ASP E T T I D E L S ILENZIO I N CH EREA E CA L L IR OE Si l v i a Mo ntiglio

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aritone, l’autore di Cherea e Calliroe (d’ora in poi C&C), era segretario di un avvocato (@, @, @), e come tale aveva familiarità con le pratiche forensi. I numerosi discorsi e dibattiti contenuti nel suo romanzo si ispirano sia alla tradizione drammatica e retorica che all’esperienza diretta del tribunale. Com’è noto, il silenzio era considerato un’arma e√cace per attirare l’attenzione dei giudici e conferire intensità espressiva all’oratore nonché pregnanza alle sue parole. Quintiliano raccomanda di tacere prima di cominciare un discorso perché all’uditorio piace vedere lo sforzo di concentrazione sul volto di chi si accinge a parlare. L’esempio canonico di tale uso del silenzio per i retori antichi è Odisseo nella descrizione che ne fa Antenore (Il. 3, 2@6-322): taceva immobile, lo sguardo a terra, come fosse incapace di parlare. Poi, quando cominciava, le parole fioccavano fitte fitte come una tempesta di neve. Troviamo silenzi calcolati come questo in C&C? Il romanzo di Caritone è ricco di silenzi, ma per lo più sono il risultato di un’emozione violenta. L’apparire di Calliroe suscita le stesse reazioni di un’epifania divina, tra cui un silenzio abbagliato: “Mitridate ... cadde senza poter aprir bocca, come colpito improvvisamente da un fulmine” (Miqridavth~ dev ... ajcanh;~ katevpesen, w{sper ti~ ejx ajprosdokhvtou sfendovnh/ blhqeiv~ [4, @, 9]). @ La sovrumana bellezza dell’eroina sembra possa essere comunicata solo attraverso il silenzio che le risponde, come traspare dal racconto della sua apparizione in tribunale a Babilonia. Entrò, simile ad Elena, l’Elena bellissima che ammirano gli anziani di Troia nel canto terzo dell’Iliade; simile ancora a Penelope, la Penelope che fa ardere di desiderio tutti i Proci. Ma Caritone non si accontenta di questi paragoni. Ai versi omerici aggiunge, di suo: “a vederla ci fu stupore e silenzio”, qavmbo~ kai; siwphv (5, 5, 9). 2 E ancora una volta Mitridate perde la voce. A causare il silenzio è anche lo choc di una rivelazione o scoperta, quasi sempre concernente questioni d’amore. Si tratta in questi casi di silenzi non intenzionali, che collocano i personaggi romanzeschi agli antipodi di Odisseo, l’eroe poluvtropo~ che conosce il maggior numero di modulazioni del silenzio ma non la perdita involontaria della parola. Odisseo non è mai vittima dell’afasia, un disturbo che nell’Odissea colpisce Penelope (4, 703-705), Euriclea (@9, 47@) e Laerte (24, 345-349), e nell’Iliade Antiloco (@7, 696), Eumelo (23, 397) e forse Taltibio ed Euribate (@, 332).  

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  Le traduzioni sono dell’autore salvo indicazione.   Il nesso qavmbo~ kai; siwphv appare in descrizioni di epifanie divine: vd. Montiglio 2000, pp. 34-36. Sull’epifania nel romanzo greco, vd. Hägg 2004. 2

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Per illustrare l’eccezionalità di Odisseo prenderò ad esempio l’uso diπerenziato della formula tou`/th`~ d’ aujtou` luvto gouvnata kai; fivlon h\tor, che descrive un mancamento, condizione naturalmente prona all’afasia. E in eπetti il mancamento comporta ogni volta perdita della parola, implicitamente (Il. 2@, @@4; 2@, 425; Od. 22, 68; 23, 205) o con sottolineatura (Od. 4, 703-705; 24, 345-349): tranne quando la vittima è Odisseo. Benché sia colpito da tale malessere più spesso di ogni altro personaggio, ben tre volte, reagisce sempre con un intervento verbale, diretto a se stesso: “[gli] mancarono le ginocchia e il cuore, e pieno di turbamento, così parlò al suo spirito magnanimo” (... luvto gouvnata kai; fivlon h\tor,/ojcqhvsa~ d’ a[ra ei\pe pro;~ o}n megalhvtora qumovn [Od. 5, 296-297, 405-406]), o ad altrui: “[gli] mancarono le ginocchia e il cuore ... e all’istante rivolse a Telemaco queste parole alate” (... luvto gouvnata kai; fivlon h\tor ... ai\ya de; Thlevmacon e[pea pteroventa proshuvda [Od. 22, @47 e @50]). Nell’ultimo episodio parla “all’istante”, riprendendo immediatamente possesso di sé. Il silenzio di Odisseo è sempre scelto, attivo, anche quando abbraccia con fermezza un silenzio impostogli dalle circostanze. @ Il divario che separa gli eroi di C&C da Odisseo si può misurare a partire dall’uso che fa Caritone della formula discussa sopra. Quando la nutrice annuncia a Calliroe che è giunto il giorno delle sue nozze, alla fanciulla “‘mancarono le ginocchia e il cuore’ perché non sapeva chi fosse lo sposo. All’improvviso perse la voce, la tenebra le cosparse gli occhi e poco mancò che svenisse” (... luvto gouvnata kai; fivlon h\tor·ouj ga;r h[/dei tivni gamei`tai. a[fwno~ eujqu;~ h\n kai; skovto~ aujth`~ tw`n ojfqalmw`n katecuvqh kai; ojlivgou dei`n ejxevpneusen [@, @, @4]). La formula ricompare in un altro episodio, con Cherea come protagonista. Allo scoprire la statua di Calliroe nel tempio di Afrodite a Mileto, “‘gli mancarono le ginocchia e il cuore’. Colto da vertigini, cadde” (luvto gouvnata kai; fivlon h\tor. katevpesen ou\n skotodiniavsa~ [3, 6, 3-4]). E ancora, la frase descrive la reazione di Dionisio nel leggere la lettera di Cherea, che crede morto. Le tenebre gli cospargono il volto e perde coscienza (4, 5, 9). Lungi dal dominare la défaillance con la parola, gli eroi di Caritone svengono. 2 Imitano Laerte, l’unico personaggio omerico che perde coscienza quando “gli mancarono le ginocchia e il cuore” (Od. 24, 345-349). Oltre a svenire all’apprendere notizie fatali per il suo amore, Cherea soπre due attacchi d’ira che gli spezzano la voce, in crescendo. Quando cade vittima del primo intrigo orchestrato dai pretendenti di Calliroe, entra in casa furibondo, come posseduto (ejnqousiw`n), si precipita sulla fanciulla che crede colpevole di aver fatto bagordi in sua assenza, poi piange: “lei gli domandò cosa fosse successo, ma lui era senza voce” (punqanomevnh~ de; tiv gevgonen, a[fwno~ h\n [@, 3, 4]). Il dialogo dopo un po’ riprende, e i due si riconciliano. Ma la seconda volta, il furore riduce Cherea ad un silenzio assassino: “Non ebbe voce per insultarla ma, dominato dall’ira, le diede un calcio mentre gli andava incontro” (oJ de; fwnh;n me;n oujk e[scen w{ste loidorhvsasqai, kratouvmeno~ de; uJpo; th`~ ojrgh`~ ejlavktise prosiou`san [@, 4, @2]).  

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  Applico ad Odisseo la distinzione tra silenzio “scelto” e “imposto” elaborata da Scarpi (@983) in contesti religiosi/rituali. 2   Létoublon (2008) nota che Caritone fa seguire alla citazione omerica un’allusione ad un’altra formula, to;n me;n skovto~ o[sse kavluyen, che accentua lo svenimento evocando la morte.

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Come è stato osservato, l’assenza di comunicazione tra gli sposi è un indicatore della loro sconfitta a vantaggio dei pretendenti, che a loro volta controllano la parola e con essa l’azione. Nelle pagine iniziali, al silenzio rabbioso di Cherea si contrappone il silenzio femminilmente pudico di Calliroe. È certo vero che nel romanzo greco, come nella tragedia, le donne sfuggono alla legge del silenzio che le imbavaglia in società. È certo vero, per citare Jean Alaux e Françoise Létoublon, che “hanno a disposizione quasi gli stessi spazi di parola degli uomini”. 2 Ma occorre metter l’accento su quel “quasi”. Le donne non parlano mai davanti a un pubblico numeroso. L’unica eccezione è la coraggiosa e intelligente Cariclea, che intesse una romanzesca menzogna sull’identità sua e di Teagene di fronte all’intera banda del brigante Tiami, quando questi le chiede di sposarlo. L’astuta giovane si avvale dello stereotipo “alle donne converrebbe il silenzio” (Hel. @, 2@, 3) per legittimare la sua presa di parola, come Macaria negli Eraclidi di Euripide (476-477). Ma non va scordato che Cariclea parla perché è lei, non Teagene, ad essere interrogata (Hel. @, 2@, 2). In un’altra occasione, quando la domanda “chi siete?” è rivolta ad entrambi, è Teagene a rispondere, mentre la sua fidanzata con scaltra prontezza gli fa da suggeritore (7, @2, 5-7 e @3, @). 3 Calliroe è costretta a parlare davanti a più interlocutori quando Dionisio la convoca nel tempio di Afrodite (2, 5, @), ma, come vedremo, in tale circostanza è piena di ritegno. L’emozione principale sottesa ai suoi silenzi è l’aijdwv~, come si addice alle fanciulle bennate. 4 Eroe ed eroina s’innamorano di un amore simultaneo, reciproco e identico, ma non aπrontano la passione allo stesso modo. Cherea finisce per confidarsi con suo padre, mentre Calliroe è in preda all’aijdwv~ e soπre di più “a causa del silenzio” (@, @, 8). 5 A salvarla è l’inaspettato matrimonio, di cui è tenuta all’oscuro fino al momento fatidico, quando l’ancella la trova “gettata sul letto, avvolta nelle coperte, piangente e silenziosa” (e[rripto ejpi; th`~ koivth~ ejgkekalummevnh, klaivousa kai; siwpw`sa [@, @, @4]). Nel suo caso la sexual symmetry romanzesca di cui ha scritto David Konstan 6 non invalida la legge del silenzio che pesa socialmente sulla donna. Che una fanciulla taccia in preda all’aijdwv~ è iscritto così profondamente nell’orizzonte d’attesa dei personaggi e dei  

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  Kasprzyk 2007; vd. anche Daude 2006, p. @94.   “[les femmes] ont à leur disposition presque les mêmes espaces de parole que les hommes” (200@, p. 74), ripreso da Crismani 2006, p. 90. 3   Come ha osservato Brethes (2007, pp. 54-55), Cariclea, una volta riconosciuta figlia di Idaspe, si sottomette alle regole che governano la sua posizione e tace (@0, @8, 2). Suo padre è il suo kuv- rio~ e lei non è più libera di scegliere chi sposare o di esprimersi in materia. 4  Vd. Char. @, @, 8; 8, @, @5, dove l’attribuzione del silenzio all’aijdwv~ è esplicita. Ma in altri casi il silenzio di Calliroe è chiaramente dovuto all’aijdwv~, per esempio quando tace il suo matrimonio a Dionisio. Il rossore che accompagna il suo silenzio in un altro episodio (2, 7, 5) è spia di vergogna. 5   Un analogo trattamento diπerenziato dell’eroe e dell’eroina si osserva nel romanzo di Nino (vd. Anderson 2008) e nelle Etiopiche, in cui Teagene fa presto conoscere il suo amore a Calasiri mentre Cariclea tace per giorni interi, ammalandosi di conseguenza. Nel romanzo di Senofonte eroe ed eroina tacciono entrambi, in consonanza con la predilezione dell’autore per parallelismi e doppioni. La situazione nel romanzo di Longo non è paragonabile perché i protagonisti non 6 sanno cos’è l’amore.   Vd. Konstan @994. 2

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lettori di Caritone che quando l’eroina, all’annuncio del suo imminente matrimonio, sviene e perde la voce, gli astanti fraintendono il suo silenzio attribuendolo all’aijdwv~ (@, @, @4). Calliroe se ne sta anche in silenzio per lunghi tratti del racconto mentre altri si rivolgono a lei o le parlano intorno. Appena giunta alla villa di Dionisio, la schiava Plangone la circonda di attenzioni e l’incoraggia: “Dionisio è buono, ristorati con un bagno” (2, 2, @). Calliroe non dice nulla. Condotta suo malgrado al bagno, le ancelle ammirano ad alta voce lo splendore della sua pelle (2, 2, 3). Lei non dice nulla. Parla solo per impedire di essere vestita sontuosamente (2, 2, 4), poi si richiude nel silenzio e continua a tacere quando Plangone l’esorta a rendere omaggio ad Afrodite e le donne di campagna le dicono che la statua della dea le assomiglia. A questo punto Calliroe piange e “parla con se stessa” (2, 2, 6). Non risponde all’esortazione di Leona ad essere sincera e dire tutto al suo padrone Dionisio (2, 5, 3): sentiamo solo la voce del servo. Calliroe tace ancora quando si chiude il processo a Babilonia con la scioccante scoperta che Cherea è vivo e a due passi da lei. All’apparire dell’amato lancia un grido di sorpresa e fa per avanzare verso di lui, ma Dionisio la blocca e così se ne sta a testa bassa mentre i due se la contendono, “piena d’amore per Cherea e di rispetto per Dionisio” (5, 8, 6). Non dice motto alla regina Statira, neppure in risposta alle parole amichevoli e incoraggianti di lei (6, 9, 3). Calliroe fa sentire la sua voce solo per parlare con se stessa una volta nella sua stanza (6, 9, 4). Silenzio e aijdwv~ non a caso sono tra i tratti della fanciulla che si fissano nella memoria innamorata di Artaserse (6, 7, @). L’aijdwv~ blocca anche Dionisio. Quando s’innamora di Calliroe, la soave musica della sua voce lo confonde: “Fortemente imbarazzato e vergognandosi di continuare la conversazione, se ne andò” (ajporhqei;~ ou\n kai; ejpi; plevon oJmilei`n kataidesqei;~ ajph`lqen [2, 3, 8]). Dionisio è forse la vittima privilegiata di silenzi emotivi. È particolarmente soggetto a svenimenti, @ e soπre di afonia per lungo tempo all’apparire della fanciulla amata: “Quando [Calliroe] giunse, suscitò ancor più l’ammirazione di tutti. Dionisio, paralizzato, perse l’uso della voce. Il silenzio durò molto a lungo e, infine, con di√coltà, parlò” (ejpei; de; h|ken, e[ti ma`llon aujth;n ejqauvmasan a{pante~. kataplagei;~ ou\n oJ Dionuvsio~ a[fwno~ h\n. ou[sh~ de; ejpi; plei`ston siwph`~ ojyev pote kai; movli~ ejfqevgxato [2, 5, 4]). Al silenzio incontrollato di Dionisio fa pendant il silenzio riservato ma voluto di Calliroe. La prima volta che parla lo fa “arrossendo, abbassando la testa, e piano”, come indendesse occultare o mettere a tacere le proprie parole. 2 Alla seconda domanda, “dimmi tutto di te, a partire dal tuo nome”, risponde solo “Calliroe”, “e tacque il resto”. Sottoposta a più pressanti domande, chiede di poter tacere la sua storia (2, 5, 6). Ma la reticenza attizza la curiosità di Dionisio, che insiste ulteriormente finché Calliroe, con riluttanza (movli~), si decide a raccontare le sue  

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  Vd. 2, 7, 4; 3, @, 3; 3, 9, @0; 4, 5, 9.   Sul significato del rossore in C&C, vd. De Temmerman 2007, che mostra come il rossore di Calliroe cambi significato nel corso del romanzo: da indice di vergogna a indice di colpa. Aggiungerei che quando il rossore tradisce un senso di colpa (3, 2, 3; 8, 4, 9), Calliroe non tace ma parla, la prima volta con la scaltrezza di un avvocato. 2

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vicende tranne il matrimonio con Cherea (2, 5, @0-@@), poi supplica Dionisio di ricondurla in patria. Rompe il silenzio perché si rende conto che tacere non serve e potrebbe anche essere pericoloso. 1 Si lancia allora nella sua preghiera (2, 5, @@), e da questo momento le parole scorrono senza intoppi, senza blocchi o reticenze, per ben dieci righe nell’edizione Belles Lettres (2, 5, @@-@2), e hanno forza persuasiva (2, 6, @). Il silenzio in cui si chiudeva era dettato da pudore, non dall’incapacità di articolare motto, come nel caso di Dionisio. 2 Nonostante l’amore gli spezzi la voce, Dionisio è tuttavia capace di tacere prudentemente e a suo vantaggio. Tiene nascoste a Calliroe verità per lui pericolose, una volta, con la complicità di un servo che custodisce i suoi segreti (3, 9, @2), la scoperta che Cherea potrebbe essere vivo e nei paraggi (3, @0, @), e un’altra volta la convocazione giudiziaria a Babilonia (4, 7, 8). La segretezza nel romanzo di Caritone è stata studiata da Patrizia Liviabella Furiani, che opportunamente ne sottolinea il rapporto privilegiato col femminile e col potere assoluto. 3 Dionisio in questo campo assomiglia sia ad Artaserse, il cui eunuco, come il servitore di Dionisio, sa tacere (6, 3, @), sia all’eroina, che chiede a Plangone di cercar di scoprire se Cherea la sta cercando ma di farlo “in silenzio” (3, 9, 3), e sul finire delle avventure scrive a Dionisio una lettera d’addio di nascosto da Cherea e continua a celare a Dionisio che il figlio che lui crede suo è in realtà di Cherea. 4 Viceversa il leader della democratica Siracusa non agisce mai segretamente, ma prende ogni decisione in sede assembleare. Ritornando a Dionisio, è anche capace di costringersi al silenzio con più fermezza del suo rivale. Quando Cherea scopre la statua di Calliroe, non solo sviene, ma all’apprendere che la destinataria del monumento è ora moglie di Dionisio, si sfogherebbe davanti alla custode del tempio se l’amico Policarmo non lo portasse via di forza per impedirgli di parlare (3, 6, 5). Sebbene Caritone dica che Cherea “tacque con fermezza” (ejsivghsen ejgkratw`~ [3, 6, 6]), la verità è che Policarmo interviene prontamente, e in ogni caso il silenzio “encratico” dell’eroe è corretto o corrotto dalle lacrime che gli bagnano le guance “istintivamente” (aujtomavtw~) in presenza della custode, senza che egli possa frenarle (ibid.). 5 Dionisio sa celare il suo dolore molto meglio in una situazione simile, quando Artaserse gli comunica che Calliroe e Cherea si sono ricongiunti. “In tale frangente, Dionisio mostrò saggezza ed educazione fuori dal comune. Come un uomo rimasto imperturbabile se un fulmine gli fosse caduto davanti ai piedi ... restò fermo (eujstaqhv~), perché non gli parve sicuro manifestare il suo dolore visto che la regina era sana e salva” (8, 5, @0-@@). Dionisio non tradisce la sua emozione ma dimostra perfetto autocontrollo, come il silenzioso Odisseo: eujstaqhv~ fa venire in mente ajsfalevw~ o e[mpedon, termini che descrivono  









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  Vd. Daude 2006, pp. @97-@98, 206.   La sequenza, silenzio-lacrime-parole pronunciate movli~, ricompare per descrivere il comportamento di Calliroe in un altro tempio di Afrodite (7, 5, 2), questa volta nei confronti della dea. Ma in tale circostanza Calliroe tace perché non riesce a parlare, non perché non vuole. 3   Vd. Liviabella Furiani @990, pp. 203-204. 4   Praticano la segretezza anche Foca, Farnace (quando scrive al re di Persia), e Statira (quando consegna la lettera di Calliroe a Dionisio “in silenzio” [8, 5, @2]). 5   Vd. Jouanno 200@, p. 78; Montiglio 20@3, p. @5@. 2

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la fermezza immobile di Odisseo quando tace in risposta alle violenze inflittegli dai Proci (Od. @7, 235; @7, 463-464). @ Ma Dionisio non è Odisseo. Si aπretta a terminare il colloquio per poter piangere in libertà (8, 5, @2: e[speuden ajpallagh`nai kai; dakruvwn ejxousivan e[cein), e una volta chiuso nella sua stanza lo fa per lungo tempo (8, 5, @3), mentre Odisseo, quando si isola, non lo fa per sfogarsi ma per pregare o per sopportare in silenzio. 2 E neanche Dionisio, nonostante la sua superiore paideia, riesce ad imitare senza fallo i silenzi perfettamente controllati dell’eroe omerico. Quando Odisseo s’impone di tacere, il suo silenzio non è mai accompagnato da gesti o espressioni involontari, né tantomeno da lacrime, ma da espressioni volute o da un silenzio totale del corpo, anch’esso voluto. In due occasioni utilizza l’aggrottamento delle sopracciglie per comunicare (Od. 9, 468; 2@, 43@). 3 Altrove produce silenzi imperscrutabili, che in niente tradiscono i suoi pensieri. Due episodi in particolare dimostrano la sua capacità di chiudersi in un silenzio completamente ermetico: quando viene colpito da Ctesippo e insultato da Antinoo ma tace, nella prima istanza ridendo interiormente (Od. @7, 30@-302), nella seconda senza vacillare (@7, 463-465). Notasi qui il contrasto tra la parola espressiva (pteroventa), accompagnata dall’occhio irato (uJpovdra ijdwvn), di Antinoo (@7, 459), e il silenzio senza volto di Odisseo. A questo riguardo come in molti altri aspetti l’eroe è agli antipodi dei Proci, il cui silenzio è catturato in una formula, “piantando i denti nelle labbra”, ojda;x ejn ceivlesi fuvnte~ (Od. @, 38@; @8, 4@0; 20, 268), che gli conferisce un contenuto emotivo e rende l’emozione visibile, denunciando la loro incapacità di celare stati d’animo e pensieri. Dionisio riesce a tacere senza far mostra del suo stato d’animo nel colloquio con Artaserse, ma l’esatto opposto accade la sera del fatale incontro con Calliroe, quando si sforza di non far notare il proprio amore al suo entourage: “tenne duro tutta la sera pensando di passare inosservato, ma il suo silenzio lo rese ancora più manifesto” (diekartevrei par’ o{lhn th;n eJspevran, oijovmeno~ me;n lanqavnein, katavdhlo~ de; ginovmeno~ ma`llon ejk th`~ siwph`~ [2, 4, @]). Anziché nascondere il suo stato, il silenzio lo denuncia. Come abbiamo visto, Cherea è ancor meno capace di Dionisio di sopprimere le sue emozioni, e soπre di attacchi di afonia. Ma tali episodi sono concentrati nei primi libri del romanzo, mentre negli ultimi due l’uso che fa del silenzio e della parola dimostra che ha imparato a dominarsi. Koen De Temmerman ha mostrato con dovizia di particolari che la maturazione di Cherea da fanciullo impulsivo e passivo a giovane uomo in controllo delle sue azioni, comporta anche l’acquisizione di una parola sicura ed e√cace. Aggiungerò che il significato dei suoi silenzi riflette tale trasformazione. Quando è chiamato a spiegare all’assemblea dei Siracusani come sia incappato nelle spoglie funebri di Calliroe, Cherea non è padrone né della parola né del silenzio né del proprio sguardo. Compare vestito a lutto, pallido e trascurato,  

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  Vd. Montiglio 20@3, pp. @52-@53. Dionisio si comporta eujstaqw`~ un’altra volta (3, 2, @). euj- stavqeia è anche un tratto caratteriale di Calliroe secondo il pretendente agrigentino (@, 2, 6). Vd.

2 De Temmerman 20@4, p. 84.  Vd. Od. @2, 333-334; @0, 53-54. 3   Atena comunica allo stesso modo con lui (Od. @6, @64).

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“e non volle salire sul podio ma stette in basso e per lungo tempo pianse, e pur volendo parlare non ne fu in grado. La folla gridò: ‘Coraggio, parla!’” e Cherea “con di√coltà alza gli occhi” e comincia (3, 4, 4-5), ma in termini che dimostrano che non ha superato il blocco. L’incipit del suo discorso, infatti, non è una presa di parola ma una vera e propria neutralizzazione della stessa: “Questo non è il momento di tenere discorsi, ma di portare il lutto” (3, 4, 5). @ L’evento che eπettua la maturazione di Cherea è la guerra narrata nel settimo libro, in cui si arruola volontario al fianco del faraone contro il re di Persia. 2 La conquistata maturità si rispecchia nel gran numero di discorsi che tiene in pubblico durante e dopo la guerra: sette, contro i due che pronuncia nei primi sei libri. 3 Inoltre, nei sette discorsi Cherea si mostra parlatore coraggioso e maestro di strategie retoriche. 4 Anziché cadere vittima del silenzio, è lui a romperlo o a causarlo intenzionalmente. Di fronte alle parole troppo prudenti del faraone, che vede solo ostacoli e propone la fuga, gli alleati “rimasero tutti in silenzio, in preda alla depressione”, tranne Cherea, “il solo che osò parlare” (siwph; pavntwn ejgevneto kai; kathvfeia· movno~ de; Caireva~ ejtovlmhsen eijpei`n [7, 3, 3]). E si oppone alla fuga con coraggio, imitando Diomede quando si ribella al disfattismo di Agamennone con un discorso sanguigno, che rompe anch’esso il silenzio demoralizzato dell’assemblea (Il. 9, 29-3@). 5 Sul finire della guerra, Cherea fa prova di astuzia retorica imitando questa volta l’Agamennone della peira, ma con successo. Per saggiare gli spiriti e le intenzioni dei suoi alleati, finge di non sapere dove condurre la flotta. Risultato: un silenzio generale (siwph`~ ... genomevnh~), finché un soldato spartano propone proprio quello che Cherea desidera, di far rotta su Siracusa (8, 2, @2). Il discorso calcolatamente disfattista di Cherea suscita un silenzio simile a quello che aveva causato il faraone con le sue parole sinceramente disfattiste, cui Cherea aveva ribattuto. In entrambi i frangenti, il giovane leader è perfettamente in controllo delle proprie manovre discorsive. Lo è ancora quando, di ritorno a Siracusa con la sposa al suo fianco, è chiamato nuovamente a narrare le sue peripezie all’assemblea. Il lungo racconto che tiene allora è una forma d’incoronazione. Cherea, ammiraglio vittorioso, è intitolato a riassumere le avventure della coppia davanti all’intera cittadinanza. È vero che in questa occasione l’aijdwv~ in un primo momento lo trattiene. Mentre l’assemblea vuole sentire “tutto” (8, 7, 3), “cominciò dalla fine, non volendo infliggere dolore al popolo per la tristezza degl’inizi”. La folla insiste: “Te lo chiediamo, comincia dall’inizio, dicci tutto, non tralasciare nulla”. “Cherea esitava, perché si vergognava (wJ~ ... aijdouvmeno~) di tante vicende che non erano andate come sperato, ma Ermocrate gli disse: ‘Non vergognarti (Mhde;n aijdesqh`~), figlio’” (8, 7, 3-4). Il leader di Siracusa si prende carico di ricapitolare lui la parte delle vicende che i cittadini già conoscono, e infine Cherea si mette a raccontare. Ma a un certo pun 

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  Vd. De Temmerman 20@4, p. 87.   Vd. Lalanne 2006, e recentemente De Temmerman 20@4, pp. 82-@@4. 3 4   Vd. De Temmerman 20@4, p. 86.   Vd. De Temmerman 20@4, pp. 94-@07. 5   Il riferimento a quest’episodio è esplicito: vd. 7, 3, 5. Vd. De Temmerman 20@4, pp. 95-96; Montiglio 20@5 (in corso di stampa). 2

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to, vedendo il popolo in lacrime, s’interrompe: “Permettetemi di tacere il resto, che è ancora più triste dell’inizio” (ejpitrevyatev moi ta; eJxh`~ siwpa`n, skuqrwpovtera gavr ejsti tw`n prwvtwn [8, 8, 2]). Cherea assomiglia a Dionisio perché anch’egli è suscettibile all’aijdwv~, ma l’emozione inibitoria questa volta non gli toglie il controllo della parola. Lungi dall’essere bloccato come nella precedente apparizione in assemblea, vorrebbe tacere per risparmiare dolori al popolo. Ma ancora una volta non gli viene permesso: “racconta tutto!” (8, 8, 2) L’ultimo silenzio di Cherea ne dimostra la capacità di misurare la parola al vaglio delle reazioni del pubblico. @ Non si tratta però di un silenzio studiato ad eπetto. Sulla pubblica piazza l’unico oratore la cui reticenza mira a pungolare la curiosità dell’uditorio è il satrapo Mitridate. S’interrompe nel bel mezzo della sua arringa di difesa, dopo aver sfidato Dionisio a ritirare l’accusa di tentato adulterio avvertendolo che in caso contrario perderà Calliroe e sarà lui, non Mitridate, a rivelarsi adultero. “Con queste parole tacque. Tutti gli sguardi si puntarono su Dionisio ...” (5, 7, 8). La concione di Mitridate è marcatamente teatrale. Mentre Dionisio annuncia che il suo discorso sarà “chiaro e breve” (5, 6, 5) e arriva subito al dunque, Mitridate è esuberante (nell’edizione Belles Lettres la sua arringa occupa 52 righe, escludendo l’intermezzo causato dall’interruzione, contro le 33 di quella di Dionisio) e allestisce uno spettacolo che culmina con l’apparizione di un fantasma, Cherea redivivo. L’interruzione avviene prima di questo momento cruciale e prolunga la suspense causata dalle parole di sfida, 2 che nessun astante può capire perché nessuno sa che Mitridate ha un’arma infallibile dietro le quinte, Cherea. Quando riprende la parola per farlo apparire, “alza la voce, come in preda a possessione divina”. Insieme al silenzio, questa nota di actio oratoria accentua l’istrionismo dell’esibizione. Tuttavia, neanche l’interruzione di Mitridate può essere equiparata alla reticenza di Odisseo (nel canto terzo dell’Iliade) che per Quintiliano esemplifica l’e√cacia retorica del silenzio. L’interruzione ha un grande eπetto sull’uditorio, ma è pur sempre necessaria, non accessoria, perché l’oratore naturalmente deve tacere se vuole permettere al suo rivale di accogliere o meno la sfida. Il primo colpo di scena di Mitridate è appunto la sfida, e il secondo l’invocazione roboante che fa apparire Cherea. Per trovare silenzi strategici come li intende Quintiliano dobbiamo lasciare la pubblica piazza e volgere l’attenzione a personaggi socialmente inferiori e di dubbia moralità: l’attore prezzolato dai pretendenti di Calliroe per mettere in scena l’intrigo a danno degli sposi, e Plangone, la schiava di Dionisio. L’attore, farabutto “dalla parola persuasiva” (@, 4, 3), è maestro dell’aposiopesi. 3 Approccia Cherea all’uscita della palestra dicendogli che lo ama come un figlio e che ha notizie di vitale importanza per lui. Ma quando il fanciullo, tutto agitato, “gli chiedeva di parlare, esitava, dando a pretesto che l’occasione presente non era adatta, che era necessario un rinvio e più tempo a disposizione” (@, 4, 4-5). Infine  

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@

  Cherea sa anche manipolare la parola a suo vantaggio: vd. De Temmerman 20@4, pp. @0@2 3 @04.   Vd. Schwartz @998, p. @00.   Vd. Kasprzyk 2007, pp. 96-97.

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si decide, premurandosi di corrugare le sopracciglia – una posa raccomandata da Quintiliano –, @ assumere un’aria a∫itta – un’altra raccomandazione di Quintiliano, suspiratione sollicitudinem fateri – 2 nonché versare qualche lacrimuccia (@, 4, 5). E prima di cominciare finge di farlo suo malgrado: “Non provo piacere ad annunciarti un fatto triste. È tanto che volevo parlare ma esitavo. Dato però che ti si insulta pubblicamente ... non posso più tacere” (@, 4, 5). Oltre a posporre ad eπetto la rivelazione dolorosa (e falsa) dell’infedeltà della moglie, l’attore si avvale di un altro topos retorico sfruttato con insistenza dagli oratori classici: mette in avanti la sua riluttanza a parlare, sostenendo che solo l’estrema disgrazia e la sua rettitudine lo costringono a rompere il silenzio. 3 Plangone non è da meno. Accortasi che Calliroe è incinta, aspetta prudentemente la circostanza opportuna per abbordarla: “al momento restò in silenzio perché numerose serve erano presenti, ma verso sera” le si avvicina e le comunica il suo stato (2, 8, 6). 4 Quando la fanciulla la supplica di trovar modo di salvare il bambino che porta in grembo, la schiava di Dionisio si comporta in modo simile all’attore, posponendo la sua risposta giorno dopo giorno, e sul punto di darla, corrugando le sopracciglia e strofinandosi le mani (2, @0, 3), un altro gesto raccomandato da Quintiliano per accompagnare l’esitazione, la cunctatio, che è bene far precedere al discorso (Inst. @@, 3, @58). Il giorno fatale in cui Calliroe deve decidere tra aborto e matrimonio con Dionisio, Plangone fa ostentazione di tatto servendosi ancora del silenzio. Non parla subito, ma “prima si sedette, l’aria triste, e fece mostra di un’aria compassionevole. Entrambe restarono in silenzio. Passò molto tempo, e Plangone le chiese ...” (2, @@, 4-5). Il suo tacere è parte di una messinscena che comporta, come quella dell’attore al servizio dei pretendenti, anche espressioni corporee studiate. 5 In entrambi gli episodi il silenzio manipolatore dell’intrigante è contrapposto con eπetto drammatico al silenzio fortemente emotivo dell’interlocutore ignaro delle macchinazioni in corso. Alla rivelazione dell’attore, Cherea “per lungo tempo restò ammutolito, incapace di muovere la bocca o gli occhi”. La voce che ritrova è “flebile” (@, 4, 7). Quanto al silenzio di Calliroe, è disperato. Alla domanda della serva non riesce a rispondere subito ma piange (2, @@, 5). I silenzi carichi di pathos dei protagonisti mettono in risalto il loro candore sullo sfondo dei silenzi freddi e calcolatori di chi li sta manipolando. Questa distribuzione suggerisce che in C&C imperturbabilità e perfetto controllo della parola, del silenzio, e delle reazioni fisiche che accompagnano entrambi non sono ideali di comportamento. 6 Silenzi involontariamente eloquenti, come quello di Dionisio che tradisce il suo amore o quello di Cherea pieno di  

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@

2   Quint. Inst. @@, 3, 78. Vd. Kasprzyk 2007, p. 99.   Quint. Inst. @@, 3, @58.   Sul topos, vd. Dover @974, p. 25; Démont @990, pp. 95-@00; Montiglio 2000, pp. @@8-@@9. 4   Plangone sa cogliere e sfruttare il kairov~: vd. De Temmerman 2006, pp. 68-73. 5   Sulla gestualità di Plangone e dell’attore, si veda anche Jouanno 200@. 6   Vd. Montiglio 20@3. Come abbiamo osservato sopra, Dionisio fa prova di fermezza assoluta nell’incontro con Artaserse, ma appena può “si precipita” fuori per sfogarsi (8, 5, @2). In un altro episodio in cui Caritone loda la sua eujstavqeia (5, 9, 8), l’emozione ha la meglio. 3

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lacrime, sono caratteristici degli eujgenei`~, @ come lo sono la vergogna, il pianto che impedisce la parola, o il rossore che colora il tacere. Un silenzio emotivo caratterizza anche Artaserse, che quando cerca di confidare al suo fedele eunuco il suo amore per Calliroe, dapprima si vergogna (hj/dei`to) e arrossisce (6, 3, @). L’eunuco lo deve incoraggiare facendo leva sulla sua lealtà e capacità di tenere i segreti. Ma nel corso della confessione Artaserse tace di nuovo, gli occhi pieni di lacrime (6, 3, 3). 2 Anche i silenzi dettati dall’emozione possono tuttavia avere forza studiatamente retorica: non nella mente dei personaggi che tacciono ma in quella del romanziere che li fa tacere. Torniamo agli attacchi di afasia, afonia, svenimenti. Un buon numero di essi avviene in momenti cruciali per lo sviluppo narrativo: all’annuncio del matrimonio dei protagonisti, nella messa in atto dell’intrigo che rovina la loro unione, all’annuncio del secondo matrimonio di Calliroe, e, aggiungerò ora, al momento culminante del racconto, l’agnizione e il ricongiungimento degli sposi. È un evento pubblico, che ha tra gli spettatori l’amico di Cherea, Policarmo. Al vedere l’eroe e l’eroina abbracciarsi, poi cadere a terra semisvenuti dalla gioia, “Policarmo in un primo momento restò senza voce (a[fwno~) davanti a quest’evento straordinario (to; paravdoxon)” (8, @, 9). L’improvvisa perdita della voce è una spia dell’e√cacia del racconto di Caritone, che moltiplica sviluppi incredibili, paravdoxa, 3 e sa attirare l’attenzione su di essi o commentandoli direttamente (“quale poeta ha messo in scena un evento così straordinario?” “Vale la pensa sentirne il racconto”) 4 o mostrandone l’impatto violento sui personaggi coinvolti. Non intendo sostenere che tutti gli episodi di afonia abbiano valore metaletterario, ma in alcuni casi, come al momento dell’agnizione, l’autore spiega il silenzio usando termini che appartengono alla sua poetica: paravdoxon, o ancora, quando Dionisio sviene alla notizia che Calliroe vuole sposarlo, ajnevlpiston (3, @, 3). 5 Lo scrittore che punta a sorprendere il lettore con continui colpi di scena, sfrutta l’afonia dei personaggi che li subiscono per sottolinearne l’eπetto. In conclusione, mi soπermerò brevemente su un’ulteriore funzione metaletteraria del silenzio, riprendendo l’episodio in cui Cherea, chiamato a raccontare le sue vicende, vuole cominciare dalla fine ed esita a parlare quando gli viene chiesto di narrare tutto e in ordine. Il suo silenzio da una parte tiene vivo l’interesse dei lettori, che potrebbe essere sul punto di smorzarsi perché già conoscono la storia, e dall’altra attira l’attenzione su una dimensione dichiarata della poetica di Caritone, l’importanza dello skuqrwpovn, di eventi tristi, nel movimento narrativo. Cherea vorrebbe tacere lo skuqrwpovn, ma i lettori sanno che è elemento essenziale della tessitura romanzesca. Lo sanno perché Caritone l’ha detto in apertura  

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@  L’eujgevneia è sottolineata specialmente per Calliroe (@, @@, 3; @, @4, 9; 2, 5, 6; 2, 5, @2; 2, 6, 3; 2, @0, 6; 2, @0, 7; 3, @, 6; 3, 2, 2; 8, 7, @0). 2   Mitridate si comporta in modo simile (4, 2, @3). 3   Vd. @, @, 4; 2, 8, 3; 3, 3, 2; 3, 4, @; 3, 3, @3; 5, 8, 2. 4   Si veda, rispettivamente, 5, 8, 2 e 2, 8, 3. 5  Si veda anche 2, 7, 4. I due termini possono comparire insieme (2, 8, 3). Non mi riferisco qui alla consapevolezza del romanziere di essere un novatore (su cui vd. Tilg, 20@0, cap. 5), ma al suo gusto per l’incredibile.

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dell’ultimo libro, dove annuncia che i lettori lo troveranno più piacevole degli altri perché non contiene episodi di schiavitù, guerra, o tentati suicidi, ma amori e nozze legittime. L’happy ending produrrà una catarsi dissipando la tristezza degli eventi precedenti: kaqavrsion ... tw`n ejn toi`~ prwvtoi~ skuqrwpw`n (8, @, 4). @ Alla luce di questo manifesto letterario, l’insistenza con cui Cherea è spinto a raccontare tutto 2 è anche una dichiazione di poetica. Il romanzo dà piacere perché finisce felicemente, ma le avventure dolorose non possono essere taciute perché altrimenti il lieto fine non potrebbe essere catartico—o, più radicalmente, perché senza lo skuqrwpovn non ci potrebbe essere un romanzo come lo intende Caritone. 3  

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F. Létoublon, ‘Luvto gouvnata: d’Homère aux romans grecs’, in D. Auget - J. Peigney (edd.), Phileuripidès. Mélanges oπerts à François Jouan, Nanterre 2008, pp. 7@@-724. P. Liviabella Furiani, ‘Metodi e mezzi di comunicazione interpersonale’, Giorn. it. filol. @990, pp. @99-232. S. Montiglio, Silence in the Land of Logos, Princeton 2000. S. Montiglio, ‘“His Eyes stood as though of Horn or Steel”: Odysseus’ Fortitude and Moral Ideals in the Greek Novels’, in M. Paschalis - S. Panayotakis (edd.), The Construction of the Real and the Ideal in the Ancient Novel, Groningen 20@3, pp. @47-@60. S. Montiglio, ‘Callirhoe’s Silenced Dilemma (Chariton 6, 7, @3): Narrative Strategies, Characterisation and the Power of Fortune in Chaereas and Callirhoe’ (cds.) C. Ruiz-Montero, La estructura de la novela griega: análisis functional, Salamanca @988. C. Ruiz-Montero, ‘Chariton von Aphrodisias: Ein Überblick’, Aufstieg und Niedergang ii 34/2, @994, pp. @006-@054. C. Ruiz-Montero, ‘The Rise of the Greek Novel’, in G. Schmeling (ed.), The Novel in the Ancient World, Leiden 20032. P. Scarpi, ‘L’eloquenza del silenzio. Aspetti di un potere senza parole’, in M. G. Ciani (ed.), Le regioni del silenzio. Studi sui disagi della comunicazione, Padova @983, pp. 29-52. S. Schwartz, Courtroom Scenes in the Ancient Greek Novels, PhD Diss. Columbia Univ. @998. S. Tilg, Chariton of Aphrodisias and the Invention of the Greek Novel, Oxford 20@0.

Abstract This essay discusses the uses and meanings of silence in Chariton’s novel Chaereas and Callirhoe. As the secretary of a lawyer, Chariton must have been familiar with the several rhetorical uses of silence –from the strategic pause to the sudden interruption and withdrawal of information – that were recommended by rhetoricians. In his novel, though, he attributes such calculated silences only to characters of lower social status and questionable morals, whereas the noble protagonists and those who resemble them are primarily the victims of emotional silences. The hero, however, at the end of the novel is no longer the prey of uncontrollable silences but has learned how to control his audience also by measuring his words. By means of his chosen silences as well as by the numerous attacks of speechlessness caused by emotional shocks Chariton highlights the effectiveness of his narrative, strewn with shocking developments, and the importance of detailing grim events in order to set off the novel’s happy ending.

L I R I C A C ORA LE

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I L SI L E N Z I O N E L L’ENCOMIO. R I F L E SSI ON I SULLE FIGURE D E L N ON DETTO N E L L ’E P I N I C I O PINDA RICO Li a na Lo miento Ogni lingua ha un suo silenzio. Elias Canetti, La provincia dell’uomo L’assurdo sta nel voler concludere ... Siamo un filo e vogliamo conoscere la trama ... Qual è la mente un po’ robusta che abbia concluso, a cominciare da Omero? Lettera di Flaubert a Bouilhet, 4 settembre @850 A Careone, che era ciarliero e intendeva intrattenersi con lui, Isocrate il retore chiese due paghe, e lo motivava in questo modo: “una è perché impari a parlare, e l’altra perché impari a tacere”. Isocr. fr. @6, 4

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he lo horror pleni che sorpassa lo horror vacui – per usare un’e√cace formulazione di Lysa Block de Behar – @ o, per dirla diversamente, che il “progetto di non dire nulla” sia l’atteggiamento che inaugura l’esperienza letteraria moderna, era riconosciuto poco dopo la metà del secolo scorso in pagine magistrali dedicate alla scrittura di Flaubert da Gérard Genette. Genette ne coglieva la germinale attestazione nell’opera del celebre romanziere francese, in quel suo voler riportare la parola al proprio “rovescio silenzioso” (“ce renvoi du discours à son envers silencieux”), che è poi – sottolineava l’eminente critico – l’essenza stessa della letteratura. Flaubert introduceva il silenzio per il tramite dei caratteristici momenti di estasi contemplativa e di vera e propria sospensione del movimento narrativo attraverso meticolosi e realistici quadri descrittivi di paesaggi o stati d’animo, sollecitato da quella tendenza all’austerità che nell’autore di Bouvard et Pécuchet si sposava al crescente disgusto per gli stereotipi del linguaggio e alla conseguente condanna della inevitabilità del pensare (o del non pensare) per mezzo di siπatti stereotipi. 2  

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  Lisa Block de Behar, A Rhetoric of Silence and Other Selected Writings, Berlin-New York @995, p. 4.   G. Genette, ‘Silences de Flaubert’, in Figures i, Paris @966, pp. 223-243: 242. Sul silenzio in Flaubert e altri autori moderni mi piace ricordare il volume miscellaneo L’opera del silenzio, a cura di Daniela De Agostini e Pietro Montani, in “Peregre”, Collana di Studi e Ricerche della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Urbino, Urbino @999. Sui silenzi in Flaubert è da rinviare anche al saggio, scritto da Marcel Proust, ‘A propos du style de Flaubert’, Nouvelle rev. franç. @4/@, @920, pp. 72-90. 2

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Molto prima nel tempo, e in tutt’altro ambiente culturale, nella civiltà della parola parlata e cantata – come è da tempo, e con ragione, definita, @ – e in una terra nella quale la preghiera e la poesia, il dolore e la paura, l’amore e l’odio, e persino la convivialità condivisa con gli amici, costituivano esperienze pubbliche e partecipate attraverso la voce e la voce intonata, il silenzio – come è stato chiarito in un recente e meticoloso studio – 2 esercitava un suo preciso ruolo, non limitandosi a essere mera “assenza di parole”, ma assumendo di volta in volta significati distinti e specifici nelle diverse occasioni discorsive. Anche nei canti epinici di Pindaro – sui quali in questa sede ci si soπermerà –, con i suoi “voli” che lasciano, tra le parole ordinate ad arte, spazi più o meno estesi di non detto, 3 si può ben cogliere una disciplinata organizzazione retorica del “silenzio”, inteso – dunque – non come “il contrario del linguaggio”, ma piuttosto come un silenzio eloquente, per così dire, comunicativo e deliberatamente predisposto, perfettamente funzionale alle strategie retoriche proprie della poesia eulogistica. Un aspetto notevole sotteso alle “figure del silenzio” che in questa poesia è possibile identificare, è – in eπetti – che tali figure sono tutte non già fini a se stesse ma sono invece, in qualche modo, tutte al servizio della parola. Il silenzio si configura di solito, in questi testi, come un mezzo espressivo, al pari di altri, e non come un fine. Ed è chiaro che non potrebbe essere diversamente se si considera, con Marcel Detienne, che “tra le Muse e la parola cantata, che qui si specifica come “parola di lode” esiste una solidarietà stretta” e che “questa solidarietà si aπerma in modo ancora più netto nei nomi, assai espliciti, delle figlie di Memoria, dal momento che in essi si dispiega tutta una teologia della parola cantata”: una civiltà orale esige lo sviluppo della memoria e di conseguenza la parola cantata (e la parola di lode) è inseparabile dalla memoria. 4 Di qui discende  

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@   Da ultimo rinvio a S. Montiglio, Silence in the Land of Logos, Princeton 2000, p. 3, che rinvia opportunamente ad Arist. Rhet. @355b @-2, dove si sottolinea come l’uso del logos pertenga all’uomo più dell’uso del corpo; ivi citata anche abbondante dossografia sul tema. Su questo punto vale la pena di leggere anche il saggio recente di J. Heath, The Talking Greeks. Speech, Animals, and the Other in Homer, Aeschylus, and Plato, Cambridge 2005. 2  Montiglio, Silence, cit. 3  Ciò è davvero un tratto marcato del testo pindarico, al punto da renderlo oscuro ai fruitori non più contemporanei, sebbene sia – alla fine – una caratteristica di ciascun testo quella d’essere, per sua natura, incompleto. Come nota Umberto Eco (Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano @979, p. 52): “Il testo è [...] intessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire, e chi lo aveva emesso prevedeva che essi fossero riempiti e li ha lasciati bianchi per due ragioni. Anzitutto perché un testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario [...] E in secondo luogo perché, via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa [...]. Un testo vuole qualcuno che lo aiuti a funzionare”. È notevole che considerazioni non troppo distanti da queste siano già presenti alla critica letteraria antica: cfr. Arist. Rhet. @357a @7-@9; Demetr. De eloc. 222, @ ss.; Scholl. Il. @, 449a; Q Od. @7, 4; bT Il. 24, @63b. In una fase relativamente precoce, e non più tardi di Aristotele, gli studiosi si resero conto che un testo poetico contiene “lacune”, e che un racconto “lacunoso” richiede e stimola la cooperazione del fruitore/lettore; cfr. su questo l’interessante contributo di R. Nünlist, The Ancient Critic at Work, Cambridge 2009, pp. @57-@67. 4  M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, tr. it. Roma-Bari @977, p. 2 ss. Clio, ad esempio, connota la gloria (kleos) delle grandi imprese che il poeta trasmette alle generazioni future, Thalia allude alla festa (thallein) che funge da cornice alla creazione poetica, Melpomene e

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il kleos, la fama com’essa si sviluppa di bocca in bocca, di generazione in generazione, che non prende forma se non attraverso la parola di lode, in modo tale che un uomo vale davvero quanto vale il suo logos. La sua controparte è il silenzio, e l’oblio, in quella dialettica di aletheia e lethe che istruisce la poesia della lode, e che Detienne ha genialmente e definitivamente esplorato e posto in piena luce. @ Fatta questa ovvia premessa, è pur possibile individuare nella trama sonora e melodiosa dei canti encomiastici di Pindaro un silenzio “presente e parlante” o, se vogliamo, una “semantica” del silenzio. Di essa, intendo ora passare in rassegna le diverse modalità, e la ratio sottesa a ciascuna. 2 Del novero in questione non possono evidentemente fare parte i casi di vera e propria “omissione”, come ad esempio quello della Ol. @4, dove Pindaro tace la specialità della gara in cui il giovane Asopico di Orcòmeno si era aggiudicato il premio, o come quello della seconda Pitica, per il tiranno di Siracusa Ierone, vincitore con la quadriga, nella quale – caso unico tra gli epinici – è passato sotto silenzio il luogo della vittoria, che è uno dei tre motivi obbligati in questa tipologia di encomio insieme al nome del vincitore e a quello della sua città. 3 Si tratta in questi casi di un “tacere” in senso stretto, antitetico al “dire”, che – con eπetto contrario a quello del kleos cercato dalla parola eulogistica – e nei casi suddetti non ne è chiaro il proposito – finisce con il determinare l’oblio dei fatti taciuti. Di un “tacere” assoluto che – senza evidentemente nuocere al fruitore attuale, il quale avrebbe potuto integrare con agio tutti i dati relativi alla vittoria e alla sua occasione festiva – ha per esito una lacuna di informazioni per il fruitore futuro. Ma nell’uso delle figure retoriche che, per così dire, “fingono” il silenzio, il discorso di lode esibisce evidente maestria. Non mi riferisco tanto alle figure che riguardano singole parole, ovvero a tropi come ad esempio la perifrasi, che vale a conferire al verbum proprium un tenore straniante, e dunque enfatico, come quando Simonide definisce le mule “figlie delle cavalle dal piede-di-tempesta” (PMG 5@5 = F 2 Poltera), di fatto tacendo la realtà dell’origine meno nobile di quegli animali nati dall’unione delle cavalle con gli asini; mi riferisco piuttosto alle figure che pertengono alla composizione della frase e alla formulazione di porzioni più estese del discorso.  

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Tersicore evocano entrambe le immagini della musica e della danza; altri nomi come Polymnia e Calliope esprimono la multiforme complessità della parola cantata. Cfr. Hes. Theog. 77-79. @

  In Pindaro cfr. Ol. 9, 92; @03 s.; Isthm. 4, 30; 7, @6-@9; Nem. 9, 7; frr. 94a, @0; @2@, 4; 240, @. In Bacchilide: 2, @; 3, 95; 5, @94. Su questo aspetto della poesia epinicia insiste, sulla scia di Detienne, lo studio di Montiglio, Silence, cit.; cfr. anche L. T. Pearcy, rec. a Montiglio, Silence, cit. in BMCR 200@[email protected], p. 2. 2  Trovo l’espressione “semantica del silenzio” nella recente opera di J. H. Kim On ChongGossard, Gender and Communication in Euripides’ Plays. Between Song and Silence, Leiden-Boston 2008, p. @@3: s’intende che tale aspetto non può che risultare potenziato sulla scena, tragica e comica. 3   Vi è menzionata, tuttavia, la specialità della gara in cui Ierone si aggiudicò la vittoria, la corsa delle quadrighe (per altri problemi di classificazione inerenti la seconda Pitica vd. E. Cingano in B. Gentili - P. Angeli Bernardini - E. Cingano - P. Giannini (edd.), Pindaro. Le Pitiche, Milano 20064, p. 43 s.). In casi come questi, l’informazione tralasciata si sarebbe forse potuta inferire dal contesto stesso nel quale la festa aveva luogo.

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Tra le figure del silenzio tradizionalmente utilizzate nel canto eulogistico di Simonide, Bacchilide, e soprattutto Pindaro (sul quale mi soπermerò), spiccano l’aposiopesi, o reticentia e la paravleiyi~ o preterizione. L’aposiopesi consiste, per ricordare quel che è già noto a molti, nella improvvisa interruzione di un pensiero, o di una catena di pensieri già avviati, lasciandone tuttavia intendere perfettamente gl’impliciti sviluppi e le prevedibili conseguenze. La figura può essere espressa sintatticamente, con la sospensione di una frase già cominciata (ovvero con una “ellissi”) o può rinunciare a una sospensione sintattica, e quindi alludere direttamente a qualche cosa che viene taciuto. L’esempio che si suole addurre è il dantesco “quel giorno più non vi leggemmo avante”. Interrompendo il discorso, tale figura impone un sovrappiù interpretativo, di tipo enfatico, circa le ragioni della sospensione. Questo eπetto di enfasi si trova già assai bene evidenziato nella critica antica, che rileva come l’aposiopesi renda “più grandi e solenni” i fatti taciuti. @ Dopo l’interruzione del pensiero segue un altro pensiero diverso dal precedente. Questa figura segna quindi, nel grande contesto dell’intero discorso e nel piccolo contesto di una successione di pensieri, una deviazione rispetto all’oggetto trattato fino a quel punto e può servire in tal modo – e di fatto serve sempre in Pindaro – come mezzo della transitio. Il motivo principale per l’uso della figura in Pindaro è il prevpon o, per usare un termine a Pindaro più caro, il kairov~, la convenienza, che ha a che fare con le attese del committente e dell’uditorio, laddove il pensiero introdotto potrebbe venir meno al programma prefissato, abusando dell’attenzione e delle emozioni dei presenti, eludendone le attese o eccedendo i confini consentiti al discorso di lode. 2 In Pindaro essa si confonde a volte con la preterizione, o paralessi, l’altra importante, e certamente più frequente, figura del silenzio utilizzata dal poeta, ma la si può ravvisare con certezza ogni qualvolta il discorso s’interrompe bruscamente per mezzo di una allocuzione diretta del poeta a se stesso che risospinge il discorso verso i temi programmati: nell’esordio della decima Pitica (v. 4 ss.), dove muovendo dall’elogio di Sparta e della beata Tessaglia rapidamente il canto è riportato alla vittoria delfica e al celebrando Ippòclea, atleta ragazzo, sponsorizzato dagli Alevadi di Larissa (vv. @-4): 3  

1





Sparta è felice, la Tessaglia beata. D’entrambe è regina la stirpe, da un solo padre discesa, d’Eracle supremo in battaglia. È questo un vanto inopportuno? Ma Pito e Pelinnèo mi chiamano

(tr. di B. Gentili);

@   Schol. Anon. in Hermog. Rhet. ad peri; ijdew`n 7, p. 962, 3 ajposiwvphsi~ e[stin o{te kai; mevqodo~ euJrivsketai th`~ semnovthto~, oi|on oi\da mevn, ajll’oujk ejqevlw levgein, dia; to; tw`n pragmavtwn mevgeqo~: ejndeiknuvmeqa ga;r mevgeqo~ kai; semnovthta ejnnoiva~; cfr. anche Alex. Rhet. De fig. p. 22, 7 ss. Spen-

gel. 2   Sul “programma” seguito nel discorso di lode, cfr. ad esempio P. Bernardini, Mito e attualità nelle odi di Pindaro. La Nemea 4, l’Olimpica 9, l’Olimpica 7, Roma @983. 3   Vd. Bernardini in Pindaro. Le Pitiche, cit. p. 622.

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nella undecima Pitica (v. 38 ss.), per il giovane corridore Trasidèo di Tebe, dove il poeta sente improvvisamente d’essersi smarrito e di dovere abbandonare le oscure vicende degli Atridi per tornare alla celebrazione del momento (vv. 38-40): Amici, forse mi sono smarrito in un trivio dove le strade si confondono, io che prima avanzavo per la retta via, o un vento mi ha gettato fuori dalla rotta, come una barca sul mare?

(tr. di B. Gentili);

e nella terza Nemea (v. 26 ss.), per il pancraziaste Aristoclide, dove egli esorta il proprio cuore a fermare il racconto di Eracle, e a riprendere la giusta rotta verso Eaco ed Egina, la patria del cantato (vv. 26-28): @  

1

[...]. Cuore, a quale estrania proda la mia nave vai disviando? Voglio che tu porti a Eaco la Musa e alla sua stirpe. (tr. di F. M. Pontani)

Il discorso vira all’improvviso, ma chi ascolta non può non soπermarsi sulle ragioni implicite che hanno condotto il canto “fuori strada”. Diversa dalla aposiopesi, che è – come si è visto – una sospensione brusca del pensiero, ma assai vicina ad essa in quanto figura legata al silenzio, è la preterizione o “paralessi”, paravleiyi~, che è un “voler tacere” annunciato: in riferimento alla situazione del discorso in atto, il poeta rende manifesta l’intenzione di omettere la trattazione completa di uno o più temi ad esso pertinenti i quali, intanto, vengono nominati ed esposti nei tratti essenziali. 2 Il caso esemplarmente addotto è il petrarchesco “Cesare taccio che per ogni piaggia/ fece l’erbe sanguigne” (cxxviii 49-5@). Nel discorso di lode, alla base di questa scelta retorica, vi sono ragioni di poetica, quando il tacere si lega all’opportunità e al decoro propri del genere encomiastico, vincolato a rispettare una sua propria virtù che rifugge da ogni eccesso. Un troppo lungo racconto mitico, o un troppo lungo elenco di successi susciterebbe sazietà e noia (kovro~) nell’uditorio, sortendo un eπetto negativo anche in relazione alla figura del celebrato: così, ad esempio, ancora in un’ode Nemea, la quarta, per l’egineta Timasarco, vincitore nella lotta, il poeta sospende la narrazione mitica, perché sarebbe troppo lungo elencare al completo le gesta degli Eàcidi, per tornare al momento attuale (vv. 69-7@):  

[...]. Ma Càdice verso l’ombra non si varca: @   Anche in Bacchyl. @0, 5@ ss., per l’Ateniese Aglao, vincitore all’Istmo, è possibile riscontrare l’aposiopesi in uno stile auto-allocutorio in tutto simile: “Ma dove sbando mai? dove questa mia lingua si dilunga?” (tr. di F. M. Pontani). 2  Cfr. Rhet. Anon. (Epitome Art. Rhet. iii p. 657, 26 s. Walz): paravleiyi~, a]n levgh/ ti~ sigh`~ ejn prospoihvsei, ajposiwvphsi~ d’ejsti; paralipei`n o} prevpei; Alex. Rhet. De fig. 23, @@. In generale vd. H. Laugsberg, Elementi di retorica, tr. it. Bologna @969 (München @949@), p. 226 ss.

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volgi la nave indietro, verso Europa, ché dei figlioli d’Eaco esaurire la storia non m’è dato

(tr. di F. M. Pontani);

oppure così, nella Nem. @0 per Teèo d’Argo, lottatore (vv. @9-20): Corto il mio fiato a dire tutte le glorie che la cinta sacra d’Argo racchiude. Noia male s’aπronta.

(tr. di F. M. Pontani)

Del pari, un eccesso di lode finirebbe col provocare invidia (fqovno~), di nuovo ponendo in cattiva luce il laudandus, ed è bene, in casi del genere, preferire le vie del silenzio, @ come quando, dopo avere enumerato le imprese atletiche degli Oligètidi di Corinto, nella Ol. @3, Pindaro taglia corto (vv. 44-48):  

1

Io sfido molti per tante belle imprese né mai saprei dire esattamente il numero dei ciottoli del mare, ma in ogni cosa conviene misura, il meglio a conoscerla è l’attimo giusto.

(tr. di B. Gentili)

Ancora nella quinta Istmica, per il pancraziaste Filàcida di Egina, dove si evoca – dopo l’eroismo degli Eàcidi – anche quello dei loro attuali discendenti, gloriosi combattenti a Salamina, Pindaro con ritegno conchiude (vv. 46-53): Molte frecce la mia abile lingua può far risuonare su di essi: anche ora durante la guerra, può provarlo la patria di Aiace, Salamina, decisa dai suoi marinai, nella pioggia micidiale di Zeus, con la strage grandinante di innumerevoli uomini. E tuttavia il vanto sommergilo con il silenzio: l’una sorte e l’altra Zeus l’assegna, Zeus il signore di tutto. (tr. di G. A. Privitera)

Dietro ai limiti imposti all’eulogia, dietro a questa opportunità del silenzio, che nella sensibilità di Pindaro dà piacere maggiore di una noiosa enumerazione, c’è l’esigenza della misura come valore etico supremo. 2 “Dolce è la sosta in ogni cosa  

@

  Per usare le parole stesse di Pind. fr. @80, 2 e[sq’o{te pistovtatai siga`~ oJdoiv.  Emblematico il caso della Ol. 2, 95 ss., per Terone tiranno di Agrigento: “Ma calpesta la lode/ la sazietà che non s’accompagna a giustizia/ ma che ad opera di uomini insensati/vuole il ciarlare e nascondere il bene/ con azioni malvagie;/ poiché la sabbia sfugge al numero,/ anche di lui tutte le gioie che donò ad altri/ chi potrebbe mai dirle?” (tr. di B. Gentili). Il medesimo concetto, per cui l’autore di encomi deve sapere quando tacere, è nei canti eulogistici di Orazio, che di Pindaro fu molto attento lettore, cfr. Gr. Davis, ‘Silence and Decorum: Encomiastic Convention and the Epilogue of Horace Carm. 3, 2’, Class. Quart. 2, @983, pp. 9-26. 2

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– leggiamo nella settima Nemea (v. 52 ss.) al termine di una sostanziosa sezione mitica – saziano anche il miele, anche i fiori d’Afrodite” (tr. di F. M. Pontani). @ Ancora a proposito della preterizione, resta da menzionare il caso forse più caratteristico della poesia pindarica, e come tale già ben evidenziato dalla critica, ovvero il dichiarato voler tacere aspetti del mito tradizionale sentiti come blasfemi. Si tratta di un aspetto che compare con insistenza nell’opera pindarica, e che molto piacque a Callimaco, il quale l’imitò negli Aitia e negli Inni. 2 Ma un’ulteriore, rilevante anche se meno studiata, “figura del silenzio” della quale occorre tener conto studiando l’epinicio pindarico è il riferimento allusivo, l’accenno, che i Greci chiamano ai[nigma/enigma. Esso si inquadra nell’ambito della allegoria – che consiste nella sostituzione del pensiero che si intende esprimere per mezzo di un altro pensiero, che si trova in un rapporto di somiglianza con il pensiero che si vuole intendere. All’ “enigma” nella sua qualità specifica di figura del silenzio nell’epinicio pindarico non si è prestata la debita considerazione, sebbene esso risulti presupposto con tenacia in relazione all’opera del poeta tebano – con un atto di forte “cooperazione interpretativa” – per ripetere la fortunata formulazione di Umberto Eco – 3 da parte dei suoi antichi commentatori (e poi anche da parte di autorevoli commentatori moderni), che tipicamente ne segnalano la presenza attraverso l’uso di verbi tecnici come aijnivttesqai o, meno frequentemente, uJpainivttesqai, con il valore – appunto – di “parlare per enigmi”, “alludere”, “accennare”. 4 Si tratta, propriamente, di un “tacere” parziale, o meglio di una accorta mescolanza del dire e del non dire, di un “dire tra le righe” che si ritiene, da parte degli antichi interpreti, alluda – di volta in volta – a poeti riva 

1







@   Formule di preterizione legate genericamente all’esigenza di una giusta misura in Nem. 4, 33 ss.; 7, 75 ss.; probabilmente rientra in questo novero anche il fr. @80; vd. anche Simon. PMG 582 = F 29@ Poltera; Bacchyl. 5, @77; formule legate all’evitare il koros che segnano la transitio da una lunga sezione mitica all’attualità: Pyth. 4, 247 s.; 8, 29-32; Nem. 4, 69 ss.; 7, 52 ss.; @0, @9 ss.; Isthm. @, 6@ ss.; 6, 56 ss.; formule legate all’evitare lo phthonos: Ol. 3, 45 ss.; @3, 47 ss.; Nem. @0, 29 ss.; Isthm. 2, 44 ss.; 5, 5@ ss.; fr. 94a, @0. Un vero e proprio elogio della brevitas si legge nella Pyth. @, 80 ss. 2   Cfr. Th. Führer, ‘A Pindaric Feature in the Poems of Callimachus’, Am. Journ. Philol. @09, @988, pp. 53-68. Cfr. Pind. Ol. @, 52; 9, 35 ss.; @3, 9@; Nem. 5, @4 ss.; fr. 8@, @-3. Cfr. B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al v secolo, Milano 20064, p. @88 s., a proposito del caso celebre di Bellerofonte; vd. anche Davis, ‘Silence and Decorum’, cit. p. @8. Celebri i casi di Ol. @3, 9@-92; Nem. 5, @4-@8 3  Eco, Lector in fabula, cit. Sull’enigma come figura del silenzio cfr. l’importante contributo di B. Mortara Garavelli, ‘Le “tacite congetture” dell’alludere’, in C. A. Augieri (ed.), La retorica del silenzio. Atti del Convegno Internazionale (Lecce, 24-27 ottobre @99@), Lecce @994, pp. 382-393; cfr. anche A. Bernabé, ‘El silencio entre los órficos’, Rev. ciencias relig. @9, 2007, pp. 53-66: 56-59. 4   Su questo vd. Nunlist, The Ancient Critic, cit. pp. 225-236. Sulla tenacia degli antichi interpreti nel ravvisare enigmi nella poesia di Pindaro vd. soprattutto R. C. Jebb, Bacchylides. The Poems and Fragments, Cambridge @905 (Hildesheim @967), p. 22 ss. e n. @ e D. Loscalzo, La parola inestinguibile, Roma 2003, p. 38 ss. con la dossografia più recente. Sull’enigma come legato intimamente al discorso encomiastico cfr. di recente P. T. Struck, Birth of the Symbol. Ancient Readers at the Limits of their Texts, Princeton-Oxford 2004, p. @79 e n. 44, il quale rinvia a G. Nagy, The Best of Achaeans. Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry, Baltimore-London @979, p. 239 s. Di fatto, i casi nei quali la critica antica ravvisa negli epinici di Pindaro riferimenti concreti a fatti attuali sono numerosi. Ci si limita qui a considerare quelli in cui è fatto uso del verbo aijnivttesqai o uJpainivttesqai, o del corrispondente sostantivo ai[nigma.

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li e addirittura a loro specifiche opere, @ a fatti storici attuali inerenti al contesto dell’occasione celebrativa (e, segnatamente, all’invidioso e malevolo comportamento di personaggi noti nei confronti del committente, alla situazione contingente del committente e della sua famiglia, o ad altri eventi di cronaca che stanno in relazione con il committente), 2 infine ad allusive formulazioni autoreferenziali. 3 La tipologia che tra tutte più ha intrigato gl’interpreti moderni, inducendo a dibattiti anche accesi, è certamente la prima, quella che presuppone in un discreto numero di luoghi, negli epinici, la presenza di nascoste polemiche intellettuali tra poeti rivali, e in particolare con Simonide e con suo nipote Bacchilide. 4 Tra questi, il caso più celebre è forse nella seconda Olimpica, per Terone di Agrigento vincitore col carro, ai vv. 85-87  

1





2



Ho sotto il braccio nella mia faretra molte rapide frecce che parlano a chi le intende, ma per il volgo hanno bisogno d’interpreti. Poeta chi molto sa per natura; ma quanti l’arte impararono intemperanti per loquacità come due corvi schiamazzano invano

(tr. di B. Gentili)

a proposito dei quali uno degli antichi esegeti chiarisce aijnivttetai Bakculivdhn kai; Simwnivdhn, eJauto;n levgwn ajetovn, kovraka~ de; tou;~ ajntitevcnou~ (@57a). 5  

Ma non meno numerosi sarebbero anche i riferimenti a fatti occasionali e concreti che, a prestare ascolto agli antichi esegeti, costellano l’epinicio pindarico. Lo può illustrare, tra altri, il caso della quinta Pitica, nel cui maestoso proemio il poeta si rivolge al committente, Arcesilao IV re di Cirene, con una complessa immagine (vv. @-@2): Possente è la ricchezza se mista a pura virtù e dal destino donata un uomo mortale l’adduca compagna che attira gli amici. Arcesilao dotato dai numi, tu l’eserciti @

ss.

  Come nei casi assai dibattuti di Ol. 2, 85 ss.; 9, 47/48 ss.; Pyth. 2, 54 ss.; 72 ss.; Isthm. 2, 6

2   Gli antichi scoliasti scorgono allusioni al comportamento invidioso di personaggi della cerchia del celebrato: Ol. 2, 95 ss.; allusioni alla situazione del committente e della sua famiglia: Ol. 8, 36 ss.; Pyth. 3, @07 ss.; Isthm. @, 35 ss.; Schol. 88a; allusioni a eventi di cronaca connessi con il committente: Pyth. @, 54 ss.; 4, 263 ss.; 5, 9 s. 3   L’allusione è colta dallo scolio @52 all’Ol. 9, 99 s. 4   Una rassegna degli studi in Loscalzo, La parola, cit. p. 38 ss.; vd. anche Catenacci in B. Gentili - C. Catenacci - P. Giannini - L. Lomiento (edd.), Pindaro. Le Olimpiche, Milano 20@3, ad Ol. 5 2, 85 ss.   Cfr. ancora Schol. @58d.

il silenzio nell’encomio con splendida fama dai primi passi della tua vita illustre per volontà di Castore dal carro d’oro, che dopo la pioggia violenta irradia di luce serena il tuo focolare beato.

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(tr. di B. Gentili)

La metafora della “luce serena” che segue alla “pioggia violenta” è decifrata con sicurezza dall’autore dello scolio @2a come riferimento a una recente rivolta popolare a Cirene contro il sovrano: uJpainivttetai de; to;n tw`n Kurenaivwn neoterismovn. Ancora nella prima Pitica, per il siracusano Ierone, gli antichi colgono il riferimento concreto alle recenti imprese militari del tiranno nei vv. 50-5@: Ed ora, come Filottete, si è portato sul campo di battaglia, e chi fu tracotante è pur costretto a lusingarlo amico.

(tr. di B. Gentili)

Così lo scolio 99a: aijnivttetai tou`to eij~ ∆Anaxivlaon to;n tw`n ÔRhgivnwn. @ Sono – come si vede – formulazioni vaghe, che eπettivamente parlano “a chi intende”, ovvero a chi, in quanto pubblico primo, per natura condivide le necessarie indicazioni extra-testuali sull’emittente, sul destinatario, sul contesto sociopolitico, culturale e performativo, ovvero parlano – in sede di esegesi a posteriori – agli interpreti più accorti e meglio informati. Estendendo lo sguardo ad altri generi compositivi, non stupisce che abbondino di spiegazioni in tal senso gli antichi commenti alle commedie di Aristofane, se si considera la natura della ajrcaiva, così profondamente radicata nell’attualità della polis. Ma, con nostra sorpresa, Aristofane non è l’unico autore nei cui versi gli antichi critici identificavano allusioni cifrate a eventi e personaggi della cronaca. 2 Tra questi sono anche Pindaro, come s’è appena detto, e Tucidide, nella cui produzione storiografica sono del pari ravvisati, oltre che riferimenti nel testo non espliciti a situazioni e a personaggi coinvolti nelle vicende storiche narrate, anche cifrati messaggi polemici verso il rivale Erodoto. 3  

1





@

 Per i dettagli sulla questione rinvio al commento di Cingano in Pindaro. Le Pitiche, cit. p. 345 s. 2   Cfr. Nünlist, The Ancient Critic, cit. p. 226. Le occorrenze del verbo aijnivttesqai negli scolii antichi ad Aristofane sono più di 80 (ThLG). 3   Cfr. su questo lo studio di Nünlist, The Ancient Critic, cit. che fa importanti considerazioni al riguardo (pp. 225-237). Per Tucidide (dove il bersaglio è in tutti i casi identificato dagli antichi commentatori con Erodoto), cfr. @, 20, 3 (aijnivttetai to;n ÔHrovdoton); @, 2@, @; @, 22, 4 (aijnivttetai de; ta; muqika; ÔHrodovtou; vd. il comm. ad locc. di Hornblower, che peraltro non si perita di accogliere l’idea già espressa dagli scoliasti); e Thuc. passim per altri generi di enigma. Non è privo di interesse che Tucidide fosse percepito dall’antica tradizione a sua volta come enigmatico: su questo aspetto della storiografia tucididea cfr. M. Dorati, Le Storie di Erodoto: etnografia e racconto, Pisa-Roma 2000, p. 32. È, per converso, notevole che la presenza di “enigmi” (nel senso di “allusioni”, “riferimenti cifrati” a fatti autobiografici o di cronaca”) non fosse tollerata in tutti i

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Se è vero che, in generale, nessun testo fornisce al fruitore un quadro perfettamente completo di informazioni senza soluzione di continuità, ovvero che ogni testo è, per attingere ancora a una fortunatissima espressione di Eco, “intessuto di spazi bianchi”, nel caso degli autori antichi, e di Pindaro in particolare, tale attitudine degli scoliasti a scorgere nel canto pindarico riferimenti eij~ to; ejgguv~, all’attualità, @ poté essere ragionevolmente indotta, da una parte, proprio dalla natura pragmatica dell’epinicio, eminentemente legato alla committenza e all’occasione e, dall’altra, dalla funzione propria dell’encomio e dai limiti imposti al discorso finalizzato primariamente all’eulogia. 2 Pindaro mostra d’essere consapevole di doversi muovere con equilibrio tra questi due poli quando auspica che i suoi doveri verso il committente non siano mai in contrasto con la verità (fr. 205 Maehl.):  

1



Principio di grande virtù, Verità sovrana, fa’ che il mio accordo non cozzi contro l’aspra menzogna.

(tr. di B. Gentili)

In questa prospettiva, il non detto, nella forma specifica dell’enigmaticamente alluso, o detto in forma nascosta, col suo coinvolgere informazioni importate “da fuori”, che – strettamente parlando – non appartengono all’universo narrativo proprio del testo poetico, poteva consentire al discorso di lode – in casi particolarmente problematici – un valore “referenziale” che non sarebbe stato altrimenti possibile esplicitare, restando tuttavia decifrabile da parte degli ascoltatori interessati. Come accade al disegno melodico del canto, che c’era, e non è più, e di cui restano nel testo solo esili tracce, anche il “disegno” sotteso ai silenzi, alle omissioni, e alle reticenze non sarebbe più per noi recuperabile, se non in virtù di deboli indizi. Nel caso dei riferimenti “enigmatici”, l’unica notizia esplicita che ne resta è, per quanto attiene alla poesia di Pindaro (come all’opera di Tucidide e Aristofane), quella – soggetta nel tempo al sospettoso giudizio dei filologi delle età seguenti – delle notizie scoliastiche. 3 In qualsiasi modo noi, dalla nostra distante prospettiva di moderni, decidiamo di comprenderli, quello che nitidamente emerge è che gli antichi commenti registrano la convinzione ferma dell’esistenza  

generi poetici e tendesse di fatto a essere esclusa dagli antichi esegeti, verisimilmente per ragioni estetiche di appropriatezza e decoro. Ciò accade, per esempio, nella poesia tragica, dove l’eventuale occorrenza di allusioni a eventi contemporanei risulta solitamente criticata, come in Eur. Andr. 733-736 (ma contra Hipp. 952-954) su cui vd. ancora Nünlist, The Ancient Critic, cit. p. 228 s. @

  L’espressione è attinta allo Schol. Pind. Ol. 8, 53e.   Cfr. Arist. Rhet. @458a 24; @394b 35; @405a 37. Sul parlare per enigmi come figura del silenzio vd. la documentazione raccolta da Montiglio, Silence, cit. p. @30 e n. 44; Bernabé, ‘El silencio’, cit. p. 56 s. 3   Cfr. il recente lavoro di R. Rawles, ‘Early Epinician: Ibycus and Simonides’, in P. Agócs, Chr. Carey - R. Rawles (edd.), Reading the Victory Odes, Cambridge 20@2, p. 4 n. 4: “The Scholia are of course keen to interpret some Pindaric passages as expressive of antagonistic relations with Simonides and/or Bacchilydes ... and they are some times followed by modern scholars. But this was the kind of biographical interpretation of Pindar that Bundy was trying to get away from”. 2

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– inequivocabilmente percepita – di un discorso sommerso che – senza la loro testimonianza – sarebbe per noi definitivamente inabissato. Come la risonante melodia del canto si fa di tempi pieni e vuoti, di note e di pause, così anche il discorso di lode risulta da una trama ordinata di detto e di non detto, di sottinteso e alluso e di sonoramente proclamato, e da questa complessa rete di discorsi manifesti e di discorsi nascosti si genera la qualità specificamente pindarica di una composizione encomiastica ben costruita, e rispettosa, al tempo stesso, degli accordi “contrattuali” imposti al poeta e della verità. @  

1

Abstract The essay focuses on the use of some rhetorical figures of the unsaid in Pindar’s laudatory poetry. The figure of the “enigma” is studied with special attention. It turns out to be very appropriate in the difficult balance that the poet must maintain between his economic agreement with the patron and the ethical duty to respecting the truth. @   Cfr. B. Gentili, ‘Verità e accordo contrattuale (suvnqesi~) in Pindaro, fr. 205 Sn.’, Ill. Class. Stud. 6, @98@, pp. 2@5-220. Come osserva Davis, ‘Silence and Decorum’, cit. p. 23, il discorso eulogistico è rappresentato spesso come intrinsecamente vulnerabile: il laudator è assediato da numerosi rischi che coinvolgono la veracità e l’adeguatezza del suo elogio. Interessante in questa prospettiva ciò che Rosalind Thomas osserva in un articolo recente: “was the success of Greek Epinician, at least in its Pindaric form, partly due to the way it deliberately embraces obscurity and riddling ambiguity?” (‘Pindar’s Di√culty: Some Suggestion from Ethnography’, in Reading the Victory Odes, cit. p. 233). Sul successo della opacità pindarica vd. in generale, oltre a Thomas, l’importante saggio di J. T. Hamilton, Soliciting Darkness: Pindar, Obscurity and the Classical Tradition, Cambridge ma 2003. Simonide di Ceo, un altro poeta professionale di epinici, aveva una attitudine opposta e cinicamente mercenaria verso l’oggetto dei suoi canti, cfr. Rowles, ‘Early Epinician’. cit. p. 24 s.

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D I R E O N ON D I R E ? ST RA TEGIE MITICHE N E L L A L I R I C A PINDA RICA O r et t a O l ivieri I sapienti lodano senza riserve la parola che non dice nulla di troppo. Pind. Hymn. @, fr. 35b

È

necessario per Pindaro sapersi muovere in un delicatissimo equilibrio, tra l’opportunità di dire e quella di non dire, ovvero tacere od omettere. Una sorta di tecnica a chiaroscuro: mettere in primo piano o lasciare sullo sfondo, a seconda dell’opportunità, particolari e personaggi del ricco repertorio mitico, non alterando i fatti, ma variandone la presentazione con un sapiente dosaggio di luci ed ombre. Esiste non la modalità, bensì le modalità del silenzio. È possibile, cioè, distinguere varie tipologie di silenzio nell’opera pindarica: si passa dal tacere volutamente all’omettere particolari di un racconto mitico, edulcorandone od enfatizzandone altri, dal prediligere una variante meno diπusa di un mito all’alterare la tradizione. Negli epinici il silenzio è d’uopo, è scelta fidata e necessaria, @ se si corre il rischio, raccontando certi miti, di essere blasfemi ed irriverenti nei confronti degli dèi o di cadere nel vanto (kauca`sqai, kauvcama) inopportuno e fuori luogo (para; kairovn). Molteplici e molto studiati gli esempi di epinici nei quali il poeta adopera il silenzio come mezzo per sfuggire a tali pericoli. 2 Interessante risulta essere l’impiego della aposiopesi o reticenza e ancora della preterizione o paralessi, 3 attraverso la quale Pindaro, ritraendosi quasi inorridito dalla tentazione di pronunciare parole blasfeme verso le divinità (vd., tra gli esempi, Ol. 9, 29-4@ e Dith. 2, fr. 8@ Maehl.), sortisce l’eπetto contrario di attirare maggiormente l’attenzione del suo pubblico sul fatto aborrito. Un accenno va anche al valore negativo del silenzio. Il silenzio fa morire la bella impresa se questa non viene cantata (fr. @2@, 4 qnav/skei de; sigaqe;n kalo;n e[rgon); “i vinti sono incatenati al silenzio” (fr. 229, @ nikwvmenoi ga;r a[ndre~ ajgruxiva/ devdentai; cfr. fr. 228); chi non ha valore, “chi non possiede nulla, di nero silenzio ha il capo velato” (Parth. @, 9-@0). La condanna al “nero silenzio” è la cifra distintiva di colui che, per mancanza di ajretav, è destinato all’oblio e alla pri 

1





@

  Vd. Pind. fr. @80 Maehl. su cui D. Loscalzo, ‘Il fr. @80 S.-M. di Pindaro’, Quad. Urb. n.s. 29 (58), @989, pp. 7@-75. 2   Vd. da ultimo L. Lomiento, ‘Il silenzio nell’encomio. Riflessioni sulle figure del non detto nell’epinicio pindarico’, in questo stesso volume, pp. @23-@33. 3   Sulla diπerenza tra queste figure del non detto con i relativi esempi tratti dagli epinici pindarici, vd. Lomiento, ‘Il silenzio nell’encomio’, cit.

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vazione dell’identità. Secondo l’etica arcaica, bisogna, poi, “nascondere nell’ombra” un’eventuale sciagura che capiti all’uomo (Hymn. fr. 42, 5-7), mentre occorre “mostrare solo il bello” (Pyth. 3, 83 ta; kala; trevyante~ e[xw). Altra faccia della stessa medaglia, la parola poetica ha per Pindaro valore divino e assoluto. Se il silenzio, nella sua accezione negativa, è buio (fr. 240), la parola è luce (Pae. 2, 67). Il poeta è un ejxaivreto~ ka`rux “araldo scelto” (Dith. 2, fr. 70b, 23-25) che annuncia “sapienti parole”; è un sofo;~ ajnhvr che celebra nel canto (Pros. fr. 89a ajei`sai); è un mavnti~ “indovino” (Parth. @, 5) che “è interprete del volere divino” (fr. @50 profateuvsw d j ejgwv) ispirato dalla Musa (frr. @50 e @5@ Moi`s j ajnevhkev me); è un artigiano della parola che “tesse una fascia variegata” (fr. @79 uJfaivnw ... poikivlon a[vndhma; cfr. Ol. 6, 86-87 e fr. @94, 2-3) “con il pettine delle Pieridi” (fr. 2@5, 6). Il poeta è profeta: perciò la sua parola è veritiera. L’∆Alavqeia è sovrana e ad essa si oppone la “dura menzogna” (fr. 205). Sul piano del racconto mitico, la profezia di Cassandra relativa al sogno di Ecuba nel Pae. 8a (= fr. 52i) si rivela veritiera grazie alla parola che rompe il silenzio e che opera su due livelli: descrive e, al contempo, interpreta il sogno di Ecuba, rendendolo intellegibile. @ E il vaticinio è dato (vv. @3-@4 sav- É mainen) non con parole qualunque, bensì attraverso parole e√caci e scelte (vv. @3-@4 korufa/`... lovgwn “con la cima delle parole”: cfr. Ol. 7, 68; Pyth. 3, 80; Ol. @, @3). La parola veritiera (Ol. 6, 89-90 ajlaqevsin lovgoi~) è, altresì, in grado di sopraπare e di invalidare altre parole turpi ed ignominiose, come l’antico insulto contro i Beoti “scrofa beotica” (cfr. Dith. fr. 83). 2 La parola deve essere credibile: perciò nel Parth. 2 il poeta adegua la parola, con una sorta di hjqopoiiv?a lirica, al coro di ragazze, che pensano cose adeguate alla loro mente (vv. 33-34 ejme; de; prevpei É parqenhvi>a me;n fronei`n) e le esprimono con i propri mezzi (v. 35 glwvssa/ te levgesqai). La parola del poeta deve essere compresa e, soprattutto, ricordata. Pindaro esorta più volte l’interlocutore a comprenderla come, ad esempio, nell’invito rivolto a Ierone nell’Iporchema fr. @05 (v. @ Suvne~ o{ toi levgw), e a trattenerla nella mente (vd. fr. @40a, 62 dove il poeta esorta Apollo a ricordare mnavsqhq j). La sua parola deve essere oggettiva ed imparziale: infatti, nello scolio a Nem. 7, 89b che tramanda il fr. **@8@ (attribuito da Schneider a Pindaro), è spiegato che il poeta loda gli Egineti, e non i suoi concittadini, perché, a causa della vicinanza (oijkeiovth~) “aπettiva”, egli rischierebbe l’accusa di compiacenza, dato che “la lode che viene da casa si mescola al biasimo” (**fr. @8@ oJ ga;r ejx oi[kou poti; mw`mon e[paino~ kivrnatai). Ma torniamo all’uso sapiente del silenzio. A proposito di questo tema – il silenzio nella lirica pindarica – oggetto della mia indagine, come già si è potuto constatare, sarà prevalentemente la produzione frammentaria del poeta tebano. Essa è stata meno studiata anche sotto questo aspetto: perciò può presentare degli  

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  A favore di Cassandra come colei che pronuncia il discorso, I. Rutherford, Pindar’s Paeans. A Reading of the Fragments with a Survey of the Genre, Oxford 200@, p. 235. 2   Sul fr. 83 Maehl., vd. O. Olivieri, Miti e culti tebani nella poesia di Pindaro, Pisa-Roma 20@@, p. @24 n. 37 con bibliografia.

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exempla di strategie compositive nuove ed interessanti in relazione all’intelaiatura mitica che sorregge il carme. Gli esempi in cui si esplicano le varie modalità del silenzio, sono molteplici. @. Tacere volutamente A volte omettere dei passaggi nel dipanarsi della trama mitica risponde al proposito, piuttosto ovvio del resto, di compiacere il committente. @ Soπermiamoci sul cospicuo e abbastanza ben conservato Pae. 2 (= fr. 52b). 2 Esso fu composto da Pindaro, verosimilmente dopo il 480 a.C., per la città di Abdera, colonia greca ionica sulle coste della Tracia. Una città periferica e un committente periferico, dunque. 3 Sappiamo, tuttavia, che la posizione strategica sul litorale tracio, i due porti e la sua ricca regione, celebrata a più riprese dal coro abderita nel Peana pindarico (vv. 24-26 naivw É Qªrºai>>kivan gªai`ºan ajmpelovªesºsavn te kaiv É eu[karpon “abito [questa] terra tracia ricoperta di viti e dai bei frutti” e v. 60 cqovna poluv- dwron “terra dai molti doni”), garantirono ad Abdera una rapida prosperità (cfr. v. 60 o[lªbon). Le sue monete d’argento, l’octodracma e il tetradracma, coniate con il simbolo del grifone, erano di grande pregio. 4 Non stupisce, dunque, che una città decentrata come Abdera avesse commissionato al poeta tebano un peana che celebrasse l’Apollo abderita, Apollo Dereno (v. 5), 5 e la città stessa. E Pindaro lo fa rievocando in un disteso racconto, intervallato da gnomai, le principali tappe della fondazione e della colonizzazione di Abdera. 6 La Urgeschichte della città comincia da Abdero, l’eroe eponimo invocato in incipit (vv. @-2) come figlio della ninfa Naiade Tronia e di Poseidone. 7 A questo punto si chiarisce anche, forse, la matrice della committenza, familiare e frequentata dal poeta. Abdero, eponimo di Abdera, è figlio della ninfa Tronia,  

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@   Su questo tema, si fa riferimento alla celeberrima monografia di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al v secolo, Milano 20064, in particolare cap. 9. ‘Poeta-committentepubblico, ovvero la norma del polipo’, pp. @86-236. 2  Per il commento, vd. H. von Arnim, ‘Pindars Päan für Abderiten’, Wiener Eranos zur 50. Versammlung deutscher Philologen und Schulmänner in Graz @909, Wien @909, pp. 8-@9; S. Radt, Pindars zweiter und sechster Paian. Text, Scholien und Kommentar, Amsterdam @958, pp. @7-5@; G. Bona (ed.), Pindaro. I Peani, Cuneo @988 e Rutherford, Pindar’s Paeans, cit. pp. 257-275. 3   Così come “beota”, anche “abderita” nel mondo greco aveva il significato ingiurioso di “sciocco, stolido”. 4   Vd. A. Cavagna, recensione a K. Chryssanthaki-Nagle, L’histoire monetaire d’Abdère en Thrace, Riv. it. num. @@@, 20@0, pp. 5@2-523. Sulla vitalità e sulla cultura di aree periferiche rispetto al mondo greco, vd. il recente volume di T. Alfieri Tonini - G. Bagnasco Gianni - F. Cordano, Culti e miti greci in aree periferiche, Aristonothos. Scritti per il Mediterraneo antico vi, Trento 20@2. Nel 408 a.C. Abdera era una delle più potenti città della Tracia: Diod. Sic. @3, 72, 2. Sull’origine fenicia del nome Abdera, vd. A. J. Graham, ‘Abdera and Teos’, Journ. Hell. Stud. @@2, @992, pp. 44-73, qui 44-45. 5  Epiteto di Apollo ad Abdera: cfr. schol. Lycophr. Alex. 440 p. @6@, 26 Scheer. Su Apollo Dereno in generale, vd. B. H. Isaac, The Greek Settlements in Thrace until the Macedonian Conquest, Leiden @986, pp. @06-@07. 6   Eventi storici locali per i quali M. R. Lefkowitz, ‘Tw` kai; ejgwv: The First Person in Pindar’, Harv. Stud. Class. Philol. 67, @963, p. @88 parla di “Paean 2’s provincialism”. 7   Vd. Schol. D ad Hom. Il. 2, 533. In Hes. fr. @37, 2 M.-W. Tronia è figlia di Belo. Adbero è figlio di Hermes per Hellan. FGrHist 4 F @05 e Apollod. Bibl. 2, 5, 8.

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a sua volta eponima della città di Tronio, nella Locride orientale. Tronio si trova immediatamente a nord-est di Opunte, da dove proviene il lottatore Efarmosto per il quale Pindaro compone l’Ol. 9. @ Dalla Locride orientale e occidentale partono coloni che fonderanno sulle coste ioniche della Calabria Locri Epizefirii, per la quale saranno composte le Ol. @0 e @@ per celebrare il pugile Agesidamo. Dunque Pindaro aveva rapporti stretti e frequenti con la Locride. Avanzerei l’ipotesi che, proprio per mettere in evidenza il legame di Abdera con la Locride, in Pindaro non c’è spazio per la tradizione mitica attestata da altre fonti, che attribuiva la prima fondazione di Abdera ad Eracle. Secondo questo secondo filone leggendario, l’avrebbe fondata l’eroe tebano presso la tomba del compagno ed amasio Abdero, morto mentre assisteva Eracle nella spedizione contro Diomede e le sue cavalle. 2 Prediligere, trasponendola nel canto, la prima tradizione a svantaggio dell’altra, sottintende la scelta, verisimilmente ben ponderata da parte del poeta, di far giocare ad Abdero un ruolo attivo e di primo piano, ovvero quello di eroe ecista, a scapito di quello, passivo e di second’ordine, che Abdero aveva, invece, nell’altra tradizione come eroe onorato post mortem dal compagno. 3 Le scelte strategiche di Pindaro non finiscono qui. La storia della costruzione di Abdera è lunga e travagliata. Di ciò dà l’idea lo stesso poeta che dal v. 50 fino alla fine preservata del carme ricorda le alterne vicende dei colonizzatori, ora vittoriosi ora sconfitti. Una serie di gnomai introduce le vicende della colonizzazione (vv. 50-58):  

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[...] ciò che si fonda sulla saggezza e il senso del rispetto sempre fiorisce in quieta serenità: questo conceda il dio. L’invidia che medita cose ostili di coloro che sono morti da tempo ormai è svanita: occorre invece che l’uomo renda agli avi l’ampia parte di gloria che spetta loro.

“Coloro che sono morti da tempo” e i tokei`~ (v. 57) sono gli antenati. Ad essi bisogna tributare gloria. Perciò il coro ricorda il loro successo contro la popolazione dei Peoni, abitanti della Macedonia e della Tracia orientale, risospinta oltre l’Athos (vv. 59-63). Seguì un nuovo rovescio (vv. 63-64). Ma la resistenza indefessa degli Abderiti portò il premio divino (vv. 64-65), resistenza che merita di essere celebrata (vv. 66-67). Infine, lo scontro non meglio precisato degli Abderiti presso il monte tracio del Melanfillo (vv. 68-70). 4 Le fonti tramandano varie spedizioni di colonizzazione: la prima, avvenuta in tempi mitici, fu opera di di Abdero; la seconda, resa vana dai Traci che di lì a  

@   Vd. il commento di Giannini in B. Gentili - C. Catenacci - P. Giannini - L. Lomiento (edd.), Pindaro. Le Olimpiche, Milano 20@3, p. 2@8. 2  Hellan. FGrHist 4 F @05 e Apollod. Bibl. 2, 5, 8. 3   Apollod. Bibl. 2, 5, 8; Tzetz. Chil. 2, 304; IG xiv @293, 86-88; Tab. Alb. [= FGrHist 40 F @]. 4   Per la battaglia presso il monte Melanfillo, vd. Graham, ‘Abdera and Teos’, cit. p. 50 ss.

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poco cacciarono l’artefice, è attribuita a Timesio di Clazomene nel 654-652 a.C.; @ infine la terza, definitiva, si registra un secolo dopo, portata a compimento dagli abitanti dell’isola di Teo al tempo dell’avanzata persiana, quando l’isola venne espugnata da Arpago, generale di Ciro. 2 La lettura attenta ai dati contestuali consente di ricostruire un quadro organico, che in alcuni particolari deve rispondere alle esigenze del committente (la città) e del pubblico (i cittadini di Abdera). Soπermiamoci su questi particolari. Recenti scavi di una necropoli arcaica a nord di Abdera hanno rivelato un ampio insediamento che, partendo dalla metà del vii secolo a.C., arriva almeno fino al primo quarto del vi secolo, da identificare probabilmente con quello clazomenio (che si riteneva invece estinto, con la morte dell’ecista Timesio, poco dopo la prima fondazione, nella seconda metà del vii secolo). 3 Ma al poeta, e dietro di lui alla sua committenza, non interessava ricordare la seconda impresa. Perciò Pindaro la passa sotto silenzio. 4 Ne è un indizio al v. 28 neovpoliv~ eijmi: se il coro, che parla a nome di Abdera, dice “sono una giovane città”, intende riferirsi alla colonizzazione dei Tei avvenuta solo circa settant’anni prima. O ancora subito dopo, ai vv. 28-3@ “tuttavia generai la madre di mia madre colpita dal fuoco nemico”, è ovvio e naturale pensare che il coro stia continuando a parlare a nome della città, Abdera (vd. sopra “sono una città di nuova fondazione”). La madre di Abdera è chiaramente Teo, mentre l’espressione “la madre di mia madre” ha dato adito a due possibili interpretazioni: potrebbe essere Atene, responsabile, secondo una versione, della fondazione di Teo, interpretazione verso la quale sembra orientare anche lo scolio 3b (a[poikoi gavr eijsin oiJ ∆Abdhri`tai ªThi?wn, Tevw~º É d j ejsti; th`~ ∆Iwniva~ povli~ hª). 5 La città “colpita dal fuoco nemico” sembra essere, da questa prospettiva, Atene nel frangente in cui fu incendiata all’epoca della seconda invasione persiana. 6 Oppure, il coro sta parlando a nome dei cittadini di Abdera. Se si considera che alcuni dei Tei stabilitisi ad Abdera tornarono in un secondo momento a Teo, si può pensare che Pindaro faccia riferimento alla rifondazione di Teo e dunque vedere nell’espressione “madre di mia madre” proprio l’isola di Teo. 7  

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@   Hdt. @, @68; Eus. Chron. 2, 86 Schoene; vd. anche Solin. @0, @0 p. 68, @5 s. Mommsen. Sulla fallita colonizzazione clazomenia, Graham, ‘Abdera and Teos’, cit. pp. 46-48. 2  Nel 545 a.C.: Hdt. @, @68; Strab. @4, 644; ps.-Scymn. 670 s. (Geogr. Gr. Min. i 222). Per l’arrivo di nuovi gruppi di immigrati tei ad Abdera, probabilmente in seguito all’insurrezione ionica, vd. G. B. D’Alessio, ‘Immigrati a Teo e ad Abdera (SEG xxxi 985; Pind. fr. 52b Sn.-M.)’, Zeitschr. Pap. Epigr. 92, @992, pp. 73-80; Graham, ‘Abdera and Teos’, cit. pp. 48-53. 3   D’Alessio, ‘Immigrati a Teo e ad Abdera’, cit. p. 76 n. @8. 4   Non così per tutti gli studiosi: vd. discussione in Bona, Pindaro. I Peani, cit. p. 44. 5   Così i primi editori B. P. Grenfell, A. S. Hunt, The Oxyrhynchus Papyri v, London @908, p. 83; H. Jurenka, ‘Pindaros neugefundener Paean für Abdera’, Philologus 7@, @9@2, p. @80; Isaac, The Greek Settlements, cit. p. 9@ e n. 99; Bona, Pindaro. I Peani, cit. pp. 36-38. Nel Pae. 5 Atene è celebrata come la città da cui è partita la colonizzazione ionica. 6   Molto si è discusso su quell’ e[tekon (v. 29), variamente emendato sin dai primi editori: discussione in Bona, Pindaro. I Peani, cit. p. 37 s. 7   Vd. Radt, Pindars zweiter und sechster Paian, cit. p. 58; Lefkowitz, ‘Tw` kai; ejgwv’, cit. p. @87; D’Alessio, ‘Immigrati a Teo e ad Abdera’, cit.; Graham, ‘Abdera and Teos’, cit. p. 53; Rutherford, Pindar’s Paeans, cit. pp. 268-269.

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Perché Pindaro rigetta, non menzionandola, la colonizzazione di Timesio? In proposito si possono avanzare delle congetture. Significativa è la testimonianza di Erodoto (@, @68), secondo cui la futura Abdera non trasse vantaggi dalla colonizzazione di Timesio perché “i Traci lo avevano cacciato”, anche se “ora è onorato come eroe dai cittadini di Teo stanziatisi ad Abdera”. @ Ma convince ancora di più pensare – con Hermann – che quella di Timesio sia stata un’impresa privata, dato che sia Plutarco che Eliano ricordano l’inimicizia verso i suoi concittadini. 2 Impresa privata e senza successo: due validi motivi per tacere l’opera del clazomenio Timesio e per dare tutta la risonanza possibile alla colonizzazione, travagliata ma coronata da successo, dei Tei. Ancora un esempio di silenzio che consiste nel tacere volutamente. Un altro caso di omissione di un passaggio nevralgico in una vicenda di fondazione di città e, al contempo, di discendenza di una casa regnante: Agrigento e gli Emmenidi nell’encomio frr. @@8. *@@9 Maehl. Come è noto, per Terone, tiranno di Agrigento, e per i suoi più stretti congiunti Pindaro compose diversi carmi. In particolare, per Terone le ben note Ol. 2 e 3 per celebrare la medesima vittoria nella corsa con le quadrighe riportata dal tiranno nel 476 a.C. Nell’Ol. 2 Pindaro ripercorre la genealogia degli Emmenidi, facendola risalire a Tebe e ai Labdacidi (vv. 35-42). Dal seme di Polinice, unitosi con la figlia del re argivo Adrasto, nasce Tersandro, progenitore di Terone e della sua famiglia (vv. 43-46). Tera, pronipote di Tersandro, va da Sparta all’isola di Tera; da quest’ultima partirà Telemaco alla volta della Sicilia, dove darà origine alla stirpe di Enesidamo, padre di Terone. Nell’encomio Pindaro sceglie un altro quadro genealogico, non quello celebrato nell’Olimpica. Come dicono chiaramente gli scolî che tramandano i frammenti dell’encomio, il genos di Terone deriva dalle figlie di Cadmo (schol. Ol. 2, 39a) e passa attraverso la progenie dell’ecista tebano fino ad arrivare ad Emone, che in questa linea genealogica, però, è figlio di Polidoro, a sua volta figlio di Eteocle. Emone va esule ad Atene e da lì i suoi discendenti giungono a Rodi. Da qui salpano direttamente per Agrigento senza passare per Gela (schol. Ol. 2, 70f), della quale erano originari, invece, i Dinomenidi di Siracusa. Come chiosa lo scoliasta, Pindaro racconta queste cose (tau`ta iJstorei`) nell’encomio in questione. Lo scolio ad Ol. 2, @5a corrobora questa tradizione, attribuendola non soltanto a Pindaro, ma anche allo storico siciliano Timeo di Tauromenio (FGrHist 566 F 92). Sorvolare su questo passaggio nel racconto mitico, dunque, avrebbe significato  

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 Hdt. @, @68: paraplhvsia de; touvtoisi kai; Thvioi ejpoivhsan: ejpeivte gavr sfewn ei|le cwvmati to; tei`co~ ”Arpago~, ejsbavnte~ pavnte~ ej~ ta; ploi`a oi[conto plevonte~ ejpi; th`~ Qrhivkh~ kai; ejnqau`ta e[ktisan povlin “Abdhra, th;n provtero~ touvtwn Klazomevnio~ Timhvsio~ ktivsa~ oujk ajpovnhto, ajll j uJpo; Qrhivkwn ejxelasqei;~ tima;~ nu`n uJpo; Thivwn tw`n ejn ∆Abdhvroisi wJ~ h{rw~ e[cei (“anche gli abitanti di Teo

fecero cose simili. Infatti, quando Arpago espugnò le loro mura con il cumulo di terra, imbarcatisi tutti sulle navi, navigando partirono per la Tracia. Qui fondarono la città di Abdera, già fondata prima di loro da Timesio di Clazomene che non ne aveva tratto profitto ma che, cacciato dai Traci, ora è onorato come eroe dai Tei di Abdera”). 2   K. F. Hermann, ‘Versuch einer urkundlichen Geschichte von Abdera’, in Gesammelte Abhandlungen und Beiträge zur class. Literatur und Altertumskunde, Göttingen @849, p. 96. Plut. De am. mult. 96b; Reipubl. ger. praec. 8@2a; Ael. Var. hist. @2, 9.

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sottolineare la non subordinazione della fondazione di Agrigento, di cui era sovrano Terone, rispetto alla città siciliana di Gela, che aveva dato i natali ai rivali Dinomenidi. La funzione propagandistica che si cela – e neanche tanto – dietro tale scelta (omettere il ponte di collegamento Gela tra Rodi ed Agrigento) @ è stata ampiamente ed ottimamente messa in luce in vari contributi culminanti con il recente commento alle Olimpiche per la Fondazione Lorenzo Valla. 2 Per quanto riguarda ciò che si deve o non si deve dire, ovvero sotto l’aspetto della strategia mitica più opportuna ed e√cace, quello che interessa sottolineare in questa sede è il silenzio su un fatto storico che viene volutamente omesso, cioè la derivazione e quindi, tradotto in linguaggio politico, la subordinazione di Agrigento rispetto a Gela, città madre molto più antica. Ma a ben riflettere, questo silenzio non tradisce la realtà dei fatti, non dice una non-verità, bensì una mezza-verità, dal momento che l’encomio fr. @@9 rivolge l’attenzione soprattutto a Rodi, l’isola madre sia di Gela che di Agrigento, e dal momento che anche Agrigento come Gela aveva origini rodiesi (e metà cretesi: Thuc. 6, 4, 3 s.):  

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Si stabilirono a Rodi ..., partiti da qui, abitano un’alta città, oπrendo moltissimi doni agli immortali, li seguiva nube di eterna ricchezza.

È un presentare la verità in altro modo, evidenziando certi aspetti ed oscurando ciò che non risponde alla propaganda politica del committente. 2. Omettere particolari di un racconto mitico, edulcorandone od enfatizzandone altri Il Pae. @2 (= fr. 52m) si presenta molto frammentario. Pura ipotesi inferita dal testo è la committenza: frequenti sacrifici di pingui greggi che giungono da Nasso (vv. 5-7) inducono a ritenere che il carme sia stato composto per i Nassii (così dubitativamente Maehler nell’inscriptio) per essere eseguito a Delo, mentre la menzione del monte Cinto nell’isola di Delo (v. 8) con la conseguente narrazione della nascita dei gemelli (vv. @5-@6 divdumoi É pai`de~) Apollo ed Artemide (cfr. fr.(a), 4 Lºatoi>dain°ª) colloca sicuramente il mito a Delo. 3 La nascita dei gemelli divini è presentata con notevoli diπerenze non solo rispetto all’Inno omerico ad Apollo, ma anche rispetto all’Inno @, fr. 33d dello stesso  

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 Agrigento fu fondata nel 582 a.C. come sub-colonia di Gela, fondata a sua volta nel 688 da una spedizione mista di Rodii e Cretesi (Thuc. 6, 4, 3 s.). Vd. il commento di Catenacci in Pindaro. Le Olimpiche, cit. p. 39@. 2   A. M. Buongiovanni, ‘Una tradizione filoemmenide nella fondazione di Akragas’, Ann. Scuola Norm. Pisa s. iiia @5, @985, pp. 493-499; D. Musti, ‘Le tradizioni ecistiche di Agrigento’, in L. Braccesi - E. De Miro (edd.), Agrigento e la Sicilia greca: storia e immagine (580-406 a. C.). Atti della settimana di studio (Agrigento, 2-8 maggio @988), Roma @992, pp. 27-45; M. G. Fileni, ‘Una pagina di storia agrigentina: Pind. frr. @@8 e @@9 Sn.-Maehl.’, in R. Pretagostini (ed.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili ii, Roma @993, pp. 427-440; C. Catenacci, ‘Pindaro e le corti dei tiranni sicelioti’, in M. Vetta - C. Catenacci (edd.), I luoghi e la poesia nella Grecia antica. Atti del Convegno Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara (20-22 aprile 2004), Alessandria 2006, pp. @77-@97, spec. p. @86; Catenacci in 3 Pindaro. Le Olimpiche, cit. p. 45 ss.   Rutherford, Pindar’s Paeans, cit. pp. 365-366.

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Pindaro. Egli edulcora alcuni particolari, pur non variando nelle linee portanti la tradizione. L’atmosfera di intensa luminosità (cfr. vv. @4-@6 “rifulsero come soli venendo alla splendida luce i figli gemelli”) ricorda quella della nascita di Iamo nell’Ol. 6, @ mentre la quieta staticità di Zeus che, “assiso sulle cime, sorveglia con preveggenza” finché non si compie l’atteso parto (vv. 8-@4), contrasta fortemente con la dinamicità del fr. 33d dell’Inno per Tebe, dove il poeta rappresenta il movimento burrascoso di Delo spinta da venti contrari prima di trovare stabile ubicazione sorretta da quattro colonne sottomarine. Scendiamo nei dettagli, iniziando da una diπerenza macroscopica. Innanzitutto, sia nell’Inno @, fr. 33c, che nel Peana Apollo e sua sorella Artemide sono gemelli nati nello stesso luogo, al contrario di quanto aπerma l’Inno omerico (vv. @4-@6): Apollo nasce a Delo, Artemide ad Ortigia. Completamente diversa l’atmosfera che fa da sfondo all’evento. Le dure doglie di Latona, che “smania” in preda ai dolori del parto (fr. 33d, 3-4 wjdiv- É nessi quivois j) nell’Inno tebano, sono “dolci” nel Peana delio (vv. @3-@4 terpna`~ É wjdi`no~°). 2 La nascita del dio, anziché essere osteggiata dalla gelosia di Era, che ritarda il parto di ben nove giorni e nove notti nell’Inno omerico (vv. 9@-92), e dall’indiπerenza di Zeus, è accolta dalla presenza rassicurante del padre: egli, “assiso sulle cime, attende con preveggenza” il momento della nascita all’interno di un quadretto luminoso, che nulla ha a che vedere con il clima di lotte fra divinità e di inimicizia di Era presente nelle varie narrazioni mitiche. Il parto, nel Peana pindarico veloce e quasi indolore, è assicurato proprio dalla presenza di quella Ilizia (vv. @6-@7) che è responsabile dell’inizio del travaglio e che “nulla sapeva”, lei sola, tenuta in disparte da Era per invidia nell’Inno omerico (vv. 97-@0@). 3 Come si potrebbe giustificare questa presentazione del mito diπerente, se non nella sostanza, nei toni e nei particolari? Data l’incertezza di tanti elementi, altrettanto incerta risulta la spiegazione. Alla luce delle ricerche da me condotte in relazione all’Inno pindarico per Tebe, mi verrebbe da spiegare questa “strategia mitica” nel contesto di tutto l’Inno. Oggetto del canto delle Muse è la genesi del cosmo e delle divinità, 4 avvenuta non senza lotte e travagli (vd. il riferimento ai Titani nel fr. **35), ma culminante alla fine con il sopravvento di Zeus che stabilisce quiete e ordine. Così relativamente al mito teogonico di Apollo (frr. 33b, 33c e 33d), la travagliata e movimentata nascita del dio contribuisce a dare maggiore rilievo, per opposizione, alla scena finale di Latona che “dopo aver partorito, contemplò la prole felice” (fr. 33d, 9-@0 tekoi`- É s j eujdaivmon j ejpovyato gevnnan). Parallelamente, se il Pae. @2 – come è stato ipotizzato – è per Delo, la narrazione distesa e luminosa, quasi idilliaca, contribuirebbe a celebrare maggiormente l’isola che ha dato i natali a tale dio.  

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  Vv. 43-44. Vd. il commento di Giannini in Pindaro. Le Olimpiche, cit. p. 459.  Cfr. Ol. 6, 43-44 uJp j wj-Édivness j ejratai`~ in relazione alla nascita di Iamo. 3   È presente anche una delle Moire, Lachesi (v. @7) che ha il compito di fissare il destino del neonato. Cloto in Ol. @, 25/27; le Moire in Ol. 6, 4@/42. Ilizia aveva un posto nel culto delio: Paus. 8, 2@, 3; 9, 27, 2; Call. Hymn. 4, 257. 4  Vd. P. Angeli Bernardini, ‘L’inno primo di Pindaro e la sua destinazione cultuale’, Paideia 64, 2009, pp. 73-87. 2

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3. Prediligere una variante meno diffusa di un mito Nell’Isthm. 4 per il tebano Melisso, come ho già discusso altrove, @ il poeta non accetta la vulgata della follia omicida di Eracle che è l’assassino dei suoi stessi figli per poi rinsavire in un momento successivo, ma egli è al riguardo l’unica voce dissonante nella trasmissione del mito, voce che aπerma l’innocenza del Tebano e la morte in battaglia dei suoi otto figli in età adulta (vv. 6@-64):  

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Nell’oπrirgli oltre le porte d’Elettra il festino e le nuove corone d’altari, noi cittadini compiamo grandi sacrifici per gli otto defunti armati di bronzo, che la Creontide Megara gli generò come figli. (tr. di G. A. Privitera)

Nell’intento, forse, di riabilitare l’eroe tebano titolare di una festa molto importante a Tebe, gli Herakleia, è lecito chiedersi se il poeta rifiuti la storia della follia per una forma di pietas che “gli impediva di credere che ad uccidere i figli fosse stato lo stesso Eracle”, 2 oppure – ipotesi più verisimile – egli scelga una variante, testimoniata solo qui, che potrebbe essere attestata localmente 3 e contemporaneamente a quella della follia. La prima ipotesi non escluderebbe l’altra e nessuna delle due può essere esclusa.  



4. Alterare la tradizione Ci sono anche numerosi esempi di carmi pindarici in cui il poeta varia, più o meno sensibilmente, la tradizione mitica. Nell’Ol. 9 per Efarmosto di Opunte, con una sorta di procedimento espositivo cumulativo e sintetico, 4 Pindaro riunisce in un solo episodio la lotta impari e blasfema di Eracle contro tre divinità – Poseidone, Ade e Apollo – (vv. 29-4@), sebbene la tradizione mitografica li renda protagonisti di tre singoli scontri con l’eroe tebano: Poseidone in occasione dell’attacco di Eracle a Pilo; Apollo per il tripode delfico; 5 Ade nel corso del rapimento di Cerbero. 6 Eracle intende punire Neleo, re di Pilo, perché non l’aveva purificato dopo l’uccisione di Ifito. Perciò attacca Pilo aiutato da Zeus e da Atena, 7 mentre Poseidone, padre di Neleo, va in difesa di Pilo, a√ancato da Ade, Aidoneo ed Era. 8 Se si vuole parlare di coalizione divina, questa coinvolge Poseidone ed Ade, non di certo Apollo estraneo ai fatti. L’episodio, accennato da Pindaro, viene, con dizioni icasticamente negative, espunto come blasfemo dal contesto celebrativo attuale. 9  











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 Olivieri, Miti e culti tebani, cit. p. @@0 ss.   G. A. Privitera (ed.), Pindaro. Le Istmiche, Milano 200@, p. @85. 3   E. Krummen, Pyrsos Hymnon. Festliche Gegenwart und mythisch-rituelle Tradition als Voraussetzung einer Pindarinterpretation (Isthmie 4, Pythie 5, Olympie @ und 3), Berlin-New York @990, p. 62. 4   J. H. Molyneux, ‘Two Problems concerning Heracles in Pindar Olympian 9, 28-4@’, Trans. 5 Am. Philol. Ass. @03, @972, pp. 30@-327, spec. pp. 3@@-3@2.   Apollod. Bibl. 2, 6, 2. 6 7   Scholl. 43, 44a, 48.   Schol. Hom. Il. @@, 690b. 8   Eracle ferisce Ade ed Era (Hom. Il. 5, 392), Ade in Apollod. Bibl. 2, 7, 3 e Ares (Ps.-Hes. Scut. 358 ss.). 9   Vd. Giannini, introduzione e commento all’Ol. 9 in Pindaro. Le Olimpiche, cit. pp. 529-533. 2

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Nel brevissimo fr. @7@ Pindaro rievoca probabilmente lo stesso episodio, se si accetta la congettura di Boeckh accolta dubitativamente da Maehler. Eracle “uccise i suoi dodici figli fiorenti di giovinezza, e lui stesso (scil. Neleo) per tredicesimo”. Alla luce della trattazione del medesimo episodio nell’Ol. 9, è naturale chiedersi come, in questo carme mutilo di eidos incerto, Pindaro abbia sviluppato la stessa vicenda dell’assedio a Pilo e soprattutto della ripartizione delle alleanze divine, magari fino allo scontro tra l’eroe e le divinità a lui superiori. Di risemantizzazione del mito si può parlare riguardo al Pae. 4 per i Cei a Delo. Il messaggio principale del carme è l’attaccamento che si deve nutrire verso la propria patria. Non a caso il Peana fu posposto dal poeta alla composizione dell’Isthm. @ per la sua patria, Tebe. L’isola di Ceo, povera e rocciosa, è cara ai suoi abitanti e non barattabile neppure con l’opulenta Babilonia (vv. @3-@5). Pertanto, al fine di dimostrare ciò, il poeta altera deliberatamente la tradizione su Melampo, uno dei due protagonisti della sezione riservata al mito. Quest’ultimo, che in tutte le fonti richiede insistentemente – e la ottiene – per sé e per il fratello Biante parte del regno di Argo per avere guarito dalla pazzia le donne argive, @ nel Peana pindarico rifiuta di “regnare ad Argo” (moªnaºrce°ªi`nº “Argei), pur di non abbandonare la propria patria (vv. 28-30). Tacere, cambiare prospettiva nella presentazione dei fatti mitici, dare credito e risalto a versioni mitiche municipalistiche e perciò meno diπuse, giungere a piegare il mito alle esigenze dell’occasione: aspetti diπerenti ma complementari del campo semantico del silenzio nella lirica pindarica. Nel fr. *43 Maehl., l’indovino argivo Anfiarao rivolge al figlio Anfiloco le celeberrime parole con le quali lo esorta a studiare e a scegliere il comportamento appropriato e ad usare bene ora la parola ora il silenzio, adattandosi alle diverse circostanze come detta il kairov~, similmente al “marino animale di scoglio” (v. @). Come abbiamo visto, i numerosi esempi pindarici di applicazione concreta della parenesi provano l’intima adesione di Pindaro alla stessa. Opportunismo? No, direi spiccato senso della realtà visto che Pindaro sapeva benissimo, con disincantato realismo, che “ogni parola ha conseguenze, ogni silenzio anche” (J.-P. Sartre).  

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Abstract In Pindaric poetry the agonistic exploit dies away, when it is not sung. As well as this negative value, the Theban poet makes other uses of the silence: if necessary, Pindar emphasizes particular details or characters of the myth to other myths’ disadvantage. More precisely, in Pindar the silence is used in different ways: a) to pass over a mythic episode in silence; b) to omit details by sweetening or emphasizing other details; c) to prefer a less common version of the myth; d) to change the mythic tradition. The present paper examines various examples in Pindaric non-epinician poetry, which answer different reasons of the timeliness of the silence. @

  Hdt. 9, 34; Apollod. Bibl. @, 9, @2; cfr. 2, 2, @-2.

T E AT R O

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Q U AL I SI L E N Z I P E R QUA LI SEGRETI I N T RAGE D I A: SC AN D ALI, TA BÙ, SA PIENZA ( e s ch il o , a ga menno ne; eurip ide, ip p olito; il m aest r o del pr o meteo incatenato) A nna Bel t ram etti i. I silenzi e le parole-bue, il rovescio e il diritto dell’enfasi

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l tema del silenzio nella tragedia attica e in particolare nella drammaturgia di Eschilo è antico e di lunga durata. Si ripresenta e si ridefinisce nei mutati contesti critici perché è intrinseco alla ritmica drammatica dei testi, congenito al dialogo tragico, necessario al senso, come le pause sono congenite e necessarie alle note nelle partiture musicali. Ma non tutti i silenzi sono fisiologici. Aristofane (Ra. 9@@ ss.) per primo aveva richiamato l’attenzione sull’abnorme uso del silenzio da parte di Eschilo. In quel capolavoro di teatro sul teatro tragico che furono le Rane, la commedia scritta forse in dissacrante omaggio a Euripide morto in Macedonia, ne aveva a√dato la caricatura proprio a Euripide. Il drammaturgo più giovane, che aveva scritto gran parte del suo teatro in controcanto rispetto al maestro, @ rinfacciava a Eschilo i suoi austeri personaggi velati, a lungo silenziosi, che dopo interminabili corali buttavano là una dozzina di “parole bue, grosse, superciliose e impennacchiate, spauracchi mostruosi, montature mai sentite dal pubblico” (Ra. 924-926). Attraverso Euripide che aveva sottoposto l’enfatica tragedia eschilea a un’opportuna cura dimagrante (Ra. 939-942), Aristofane riconosce e indica nei silenzi di Eschilo come nei lunghi discorsi, nelle chiacchiere, di Euripide le cifre rispettive di due poetiche, forse i segni di due patologie drammaturgiche 2 e le tecniche retoriche delle rispettive ipertrofie di solennità e di argomentazione. Solo alla fine della commedia Aristofane lascia trasparire dalla critica delle tecniche il senso della critica, ma a quel punto silenzi e chiacchiere saranno persi di vista e lasciati sullo sfondo.  

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ii. Silenzi, personaggi, intrecci La caricatura di Aristofane, la riduzione dei silenzi nel teatro di Eschilo a espediente drammaturgico prevedibile e stucchevole perché abusato, non passò inosservata. Nel @972, Oliver Taplin in un saggio giovanile ma fondativo, era ripartito proprio da Niobe e da Achille, i due personaggi eschilei chiamati in causa da Euripide (Ra. 9@@-9@3) da tragedie per noi purtroppo perdute. Taplin, attraverso un severo lavoro sulla tradizione e sugli scolii, aveva distinto i ‘silenzi eschilei’, con pregnanza semantica, dai ‘silenzi in Eschilo’, semanticamente vuoti, conven@

  La definizione di Euripide ajntivstrofo~ di Eschilo è di Dione di Prusa, Or. 52, @@.   Barthes @964, pp. 56-65.

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zionali o occasionali che fossero, e aveva letto i primi in funzione dei personaggi e della loro costruzione. Come aveva intuito un antico commentatore del Prometeo, i personaggi tacciono per una disgrazia (dia; sumforavn), per arroganza (dia; aujqavdeian), per riflessione (dia; perivskeyin). @ E – argomenta Taplin 2 – perché le parole che pronunceranno dopo il silenzio abbiano maggiore rilevanza: silenziosa e poi solenne interviene la regina nei Persiani; dirimenti sono le poche parole di Pilade che spingono Oreste al matricidio nelle Coefore (vv. 900-902); i silenzi di Cassandra nell’Agamennone (vv. 950-@07@) e quelli di Prometeo, nell’unica tragedia pervenuta della trilogia a lui dedicata, predispongono l’enfasi sulle profezie attraverso le attese che generano. Sulla scia di Taplin, Rachel Aélion nel @984 approfondisce le valenze psicologiche dei silenzi tragici ancora in stretta connessione con lo statuto dei personaggi – il silenzio in funzione dei personaggi e i personaggi in funzione del silenzio – che appaiono sempre dominanti sulle dinamiche degli intrecci. Non c’è dubbio che i personaggi, con le loro storie implicite e note al pubblico, siano ingigantiti per eπetto del silenzio che li impone alla vista sospendendo l’attenzione per la parola. Ma in quali rapporti stanno i silenzi con gli intrecci e con l’azione drammatica? Non tutti i silenzi si esauriscono nel carattere del personaggio che li pratica e operano a livelli più profondi della drammaturgia. 3 Ne è interprete eccellente Prometeo, nella tragedia attribuita a Eschilo, con il suo silenzio che attraversa la vicenda tragica e la apre su altri orizzonti. Non è possibile giustificare con il personaggio la battuta autoreferenziale di Prometeo (Prom. 436-442) che cerca di motivare il proprio silenzio in termini negativi, disconnettendolo dai tratti psicologici convenzionali: “Non dovete credere che io stia zitto per orgoglio, clidh`,/ o per arroganza, aujqadiva;/ mi piange il cuore invece per la consapevolezza, sunnoiva,/ per vedermi umiliato fino a questo punto. Chi altri, se non io, ha donato la sovranità a questi nuovi dèi? Ma di questo taccio, parlerei a voi che già sapete”. Il silenzio cui accenna Prometeo, che nella tragedia ha già parlato e cantato a lungo, non ha funzione caratterizzante né riguarda il modo del protagonista di stare in scena né, tanto meno, il suo essere stato, secondo il codice tragico, in ascolto del corale appena concluso. 4 Troppi interventi in deroga impediscono inoltre di pensare, con Taplin, a un’indicazione di regia, a una didascalia implicita intesa a rilevare l’esitazione della battuta ritardata per l’assenza di un nuovo  



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  Sugli scolii a Prom. 436, cfr. Taplin @972, p. 64 e Aélion @983-84, p. 35 n. @2.   Taplin @972, pp. 77-94. 3   Aristotele, alla luce di un numero di testi incommensurabile con quello dei pochi superstiti di cui noi disponiamo, aveva aπermato il primato logico e cronologico dell’intreccio, del mythos, rispetto ai personaggi, agli ethe, nella tragedia di v sec. Cfr. Poet. @450b: “Livello primario e in un certo senso anima della tragedia è l’intreccio, mu`qo~, al secondo posto vengono i personaggi, h[qh, [...] al terzo viene il pensiero, diavnoia, questo è il saper dire cose inerenti e adeguate, compito proprio dei discorsi della politica e della retorica [...] quarto poi è il linguaggio, levxi~, [...] dei rimanenti, la musica, melopoiiva, è la componente più gradita e la vista, o[yi~, è l’aspetto, per quanto molto seducente, meno regolato dall’arte e meno intrinseco alla poetica”. 4   È appena terminato il primo stasimo, vv. 397-435, di tre coppie strofiche di cui la prima in metri ionici e le altre due in metri trocaici. 2

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personaggio in apertura dell’episodio. A meno che il passo fosse interpolato, come Taplin non si sentiva di escludere per le di√coltà di leggerlo nel co-testo ristretto. @ M. G. Fileni 2 propone persuasivamente di ricondurre la battuta alla dinamica dell’intreccio e al motivo portante dell’opposizione tacere vs parlare, filo conduttore dell’azione e delle relazioni drammatiche. Il silenzio che Prometeo oppone a Zeus sembra tuttavia superare anche le dinamiche drammatiche, eccede di gran lunga anche le strategie retoriche dell’aposiopesi e della preterizione, ma non è neppure innocente. 3 Insiste sul tema sotteso a quello esplicito della punizione, fa a√orare il nocciolo scabroso del conflitto di sovranità tra vecchi e nuovi dèi, annunciando nuovi rivolgimenti, ma senza mai rivelarli compiutamente. Richiamando continuamente l’indicibile e il non detto, Prometeo evoca una sfera di segreto che sopraπà le informazioni dette e narrate. Invece che tessere una trama di pieni e di vuoti, turni di dialoghi e di pause che si valorizzano a vicenda, Prometeo squarcia a intervalli la sintassi drammaturgica per trascinare gli altri personaggi, Oceano e Io, il Coro e il pubblico al di là della parola, della scrittura e della finzione, nelle trame di una sapienza non disponibile per tutti, ma solo per chi sa.  



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iii. Il silenzio, lo scandalo, la paura. L’Orestea Prometeo non è il solo personaggio tragico che rivendica una sapienza dell’indicibile e ne dischiude uno spiraglio, richiamando l’attenzione, senza trasmetterlo, su un sapere di pochi e per pochi che corre sotto traccia, fuori dal pubblico dominio. Il grande disegno tragico dell’Orestea si apre sotto la stessa ipoteca di un silenzio che copre l’indicibile e attira nella dimensione del non detto personaggi e spettatori. Non c’è bisogno di attendere l’entrata in scena di Cassandra, il silenzio che la prigioniera oppone alla regina, il mutismo che prima esplode nel lamento e poi lascia il posto a parole chiare che dicono i rumori, gli odori, le figure dei delitti già consumati e di quelli pronti a consumarsi nel palazzo degli Atridi (Ag.@035@330). C’è un silenzio meno spettacolare e più vischioso, collettivo, che grava sul ritorno del vincitore e impregna l’atmosfera di Argo ancora prima del suo arrivo. È il silenzio della vedetta che dai tetti ha scorto la teoria dei fuochi e annunciato la vittoria su Troia, fermandosi di colpo, schermendosi dietro la saggezza di un proverbio (Ag. 36-39): 4  

Per il resto taccio. Un grosso bue mi è caduto sulla lingua. Questa casa, se avesse voce, potrebbe dire cose molto chiare. Io, per parte mia, parlo volentieri a quelli che sanno e con quelli che non sanno mi ritiro in silenzio.

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2   Taplin @972, pp. 83-84.   Fileni 20@4, pp. 2@8-2@9.   Il silenzio di Prometeo e il silenzio tragico non appartengono a quella scrittura sottile, neutra, innocente, ridotta a modo negativo dove si annullano i caratteri sociali o mitici del linguaggio, riferita da Barthes @982, pp. 56-57 allo Straniero di Camus. Ma non si iscrive neppure nella dimensione dei silenzi flaubertiani, in quell’inverso di silenzio cui il discorso deve rinviare per costituirsi in letteratura, cfr. Genette @969, p. 22@. 4  L’espressione è attestata anche nella silloge teognidea, vv. 8@5-8@8 e, nella variante della chiave d’oro che chiude la bocca degli Eumolpidi ministri dei misteri eleusini, Soph. OC @052. 3

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È anche il silenzio del Coro, dei vecchi argivi depositari della memoria e dei segreti della città e dei sovrani, che strozza il canto d’ingresso, la lunga rievocazione degli antefatti e del sacrificio sacrilego di Ifigenia, imponendosi e imponendo il riserbo (Ag. 248-254): Quel che venne poi, non lo vidi e non ne parlo. L’arte di Calcante non è vana. La Giustizia a chi ha soπerto concede di imparare. Il futuro, quando sarà, potrai conoscerlo. Prima, lasciamo che faccia il suo corso. Se no, è come piangere prima del tempo. Poi verrà e sarà chiaro, come l’alba ai primi raggi del sole.

A introdurre la dimensione del silenzio in apertura del primo dramma e della trilogia non sono i personaggi solenni di poche e grandiose parole, parodiati da Aristofane attraverso Euripide nelle Rane. A chiudersi nel riserbo definitivo che non promette e non darà alcuna rivelazione sono il personaggio prologante e il Coro. Entrambi, come Prometeo, sanno più di quello che hanno detto e, a diπerenza di Prometeo, si trattengono per prudenza, non per sfida o per provocazione. I loro silenzi sono annunciati in passaggi molto marcati, la chiusa del prologo e l’ultima antistrofe della parodos, non ammettono repliche, si confermano reciprocamente, amplificano l’eπetto di sospensione e sulla gioia della vittoria innestano la paura e la vergogna. Non solo. L’opposizione esplicita parola vs silenzio si riverbera sullo spazio e sul tempo, sui destinatari. La vedetta separa lo spazio esterno dei fuochi, della parola e del grido di esultanza per la vittoria, dallo spazio interno della casa che sa e non ha voce per dire, divide quelli che sanno da quelli che non sanno. Il Coro distingue il passato degli antefatti noti e narrati dal futuro prevedibile e non dicibile, chi vivendo impara da chi continua a non sapere. Vedetta e Coro si interrompono e tacendo tracciano i confini che non valicheranno, segnalano la cesura insormontabile che passa non tra il già detto e il non ancora detto, ma tra il dicibile e l’indicibile. Rovesciando il loro movimento, trasgredendo quei confini di spazio e di tempo, Cassandra passerà dal silenzio alla parola, si garantirà con la conoscenza del passato una credibile padronanza del futuro, dall’esterno del palazzo e sulla scena avrà la visione precisa del crimine che si consuma all’interno della casa, nel retroscena, e lo descriverà in presa diretta. Ma la scena di Cassandra, governata e interpretata magistralmente nella scrittura di Eschilo, può essere considerata un esempio eccellente di drammaturgia della preterizione replicata in crescendo a più livelli – dal silenzio agli enigmi del lamento che il Coro non intende (Ag. @@05 e @@@2), alle parole troppo chiare, comprensibili anche da un bambino, che mordono e feriscono (Ag. @@62-@@66) – con la moltiplicazione e il prolungamento degli eπetti espressivi. È un capolavoro di retorica drammatica del silenzio che illumina per diπerenza il silenzio della vedetta e del Coro senza scalfirne il senso e senza esaurirne le potenzialità tematiche. L’assassinio di Agamennone su cui culmina la visione di Cassandra è un esito fattuale e clamoroso, impossibile a tacersi, che tuttavia non interrompe e non risolve l’intreccio perverso di legami parentali, diritti dinastici, vincoli matrimoniali, lo scandalo che si annida nel complotto di palazzo, le trasgressioni di cui la vedetta e il Coro lasciano percepire la vergogna, di cui avvertono il pericolo

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e la paura. La ra√nata sapienza poetica di Eschilo non traduce questo intrigo in parole. Vi fa invece allusione per via indiretta attraverso il malessere, lo scompenso del Coro che vede il suo re avviarsi dentro la reggia sui tappeti di porpora e intona angosciato il terzo stasimo (Ag. 975-@034): Perché non mi dà requie questa paura, dei`ma, perché mi svolazza sul cuore, kardiva~ teraskovpou, e lo domina con cattivi presagi? mi predice l’avvenire un canto strano, non

richiesto e non pagato [...] Ho visto con i miei occhi il ritorno del re, ne sono testimone. Eppure il mio cuore, qumov~, intona un lamento senza lira, un funebre canto dell’Erinni, che ha appreso da sé, che viene da dentro, e non ha più la forza della speranza. Le viscere, splavgcna, si contorcono ma non sono impazzite, contro il petto, fresivn, che conosce giustizia si rivolta il cuore, kuklouvmenon kevar, in vortici senza scampo. @  

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Disagio fisico, voci di dentro, assenza di speranza, cattive premonizioni. I segreti a√orano nelle emozioni, battono su tutti gli organi sede degli aπetti e non diventano logos: questo è il senso del silenzio che avvia l’Agamennone e l’intera trilogia sotto il segno della paura, così come il disordine è il senso del canto anomalo, delle sue sonorità fuori canone. Mentre la narrazione va in direzione della vittoria e del trionfo, il silenzio insinua il timore per ciò che minaccia il buon esito della vittoria, per ciò che verrà da tutte le violenze e le violazioni compiute, da quelle note, come il sacrificio di Ifigenia che prolunga il catalogo dei crimini intrafamiliari dei Tantalidi, e da quelle sospettate, 2 dai complotti più recenti. Molto più che accorgimento retorico e tecnica drammaturgica, il silenzio dell’Agamennone segnala i punti opachi della vicenda mitica e della turbolenta storia recente cui la vicenda allude. Invece che predisporre, oltre che predisporre gli eπetti speciali per le azioni e le parole che seguiranno, risucchia gli spettatori nella dimensione del segreto, del nascondimento, 3 nel cono d’ombra dell’indicibile. Esprime paura, suscita paura, la alimenta come emozione dominante che culminerà con il matricidio del secondo dramma, per razionalizzarla alla fine, recuperandola come tema politico nel programma del buon governo e del nuovo mondo esposto da Atena nel finale delle Eumenidi. Introduce, in sordina, il problema del dissenso, tanto più insidioso quanto più silente e compresso, di cui un quindicennio più tardi si farà esplicito carico Emone nell’Antigone (vv. 688-700) di Sofocle.  



@   L’anomalia del canto anticipa il u{mno~ ajfovrmigkto~ delle Erinni in Eum. 334. Al Coro, nell’Agamennone, è a√dato spesso il compito di esplicitare le scelte metriche e ritmiche, di descrivere il carattere dei canti, il loro svolgersi dentro o fuori dalle regole. Per il Coro, anche il lamento di Cassandra è anomalo, un novmo~ a[nomo~ (v. @@42), l’autocompianto di una folle, invasata dal dio. Per una sistematica ricognizione dei passaggi autoreferenziali nell’Agamennone rimando alla bella relazione di Anton Bierl, ‘Melizein pathe oder die dionysisch-theatrale Dimension der Sinne im Agamemnon des Aischylos: Stimme, Gesang, Choreutik, Blick und Geruch als Medien der Äußerung im Leid’, di prossima pubblicazione. 2   È Clitemestra, nel monologo che segue l’annuncio della vittoria (Ag. 320-350) a immaginarsi il disordine dei vincitori nella città dei vinti e a temere o a sperare la loro punizione. 3  Le occorrenze di kruvptw e dei suoi derivati, per quanto non molto numerose nel corpus eschileo, sono concentrate nell’Orestea e nell’Agamennone in particolare.

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iv. Il silenzio, il tabù, la diversità. L’Ippolito Trent’anni dopo l’Orestea, Euripide porta in scena il suo Ippolito delle corone, una seconda versione rivista e corretta che non rimedierà al fiasco del primo Ippolito velato. Dopo lo stacco della parodos, e sulla sollecitazione delle donne del Coro preoccupate per la salute della loro regina, Fedra non entra, ma è portata in scena. Non si regge, è adagiata su un letto, forse sul piano dell’ekkyklema, è velata. Non parla, non mangia, non ha forza, assomma tutte le privazioni, @ è in preda a una sorta di stupefazione. 2 Alla nutrice e alle donne che l’assistono chiede di essere sostenuta e trattenuta, è agitata. Quando rompe il silenzio, dice cose del tutto inattese: desidera andare tra i boschi, sui monti, alla caccia; tradisce per lapsus l’illecita passione per Ippolito che la travolge e si vergogna, chiede di essere svelata e poi di nuovo velata (vv. 20@ e 239-249); dice di avere le mani pure e la mente bacata (cei`re~ me;n aJgnnaiv, frh;n d’e[cei mivasmav ti, v. 3@7), si sente assalire dall’eros proibito che, nella sua isola, a Creta aveva vinto sua madre Pasifae per il toro e sua sorella Arianna, la sposa di Dioniso (vv. 337-343). Quando comprende di avere non solo trasgredito il tabù con il pensiero, ma anche rivelato la trasgressione infrangendo il principio del pudore, Fedra sa di essersi perduta. Se il silenzio aveva garantito una forma di rispetto della norma, le parole, sebbene solo in via indiretta, per associazione e spostamento, hanno portato il pensiero allo scoperto. Esprimendo la passione, le parole la hanno realizzata, almeno in via simbolica, e l’hanno tradotta in colpa, impurità e contagio, in miasma. Decisa a morire per non coprire di vergogna lo sposo, i figli e la famiglia d’origine, 3 Fedra si impegna in un lungo discorso (vv. 373-430). Lei, vittima di Afrodite e di eros, rivela di aver cercato invano di reprimere nel silenzio il mal d’amore (vv. 392-394):  

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Fedra: [...] Ferita da eros, ho cercato il modo migliore di oppormi. Per prima cosa ho taciuto, siga`n, e ho nascosto, kruvptein, la malattia

e argomenta sul tema dell’aidos, del pudore e del rispetto, e sulla sua duplicità, sulla buona e sulla cattiva aidos. 4 La rhesis ben costruita, quasi una demegoria, pronunciata prima di lasciare per sempre la vita e la scena, sarà il suo lascito, l’estremo tentativo di dominare, con le risorse e le strategie del logos, l’emozione e la passione, la vergogna e la colpa che non era riuscita a controllare vivendo. Con un movimento rovesciato e speculare rispetto a quello di Fedra, Ippolito, dopo la rivelazione della nutrice si vincola al silenzio. Era entrato in scena per primo (v. 58), subito dopo il lungo prologo di Afrodite. Baldanzoso, con il  

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  Beltrametti 200@, in part. pp. @0@-@08.  Blanchot @976 legge la Fedra di Racine come tragedia del silenzio, ma la stupefazione che coglie nel personaggio raciniano può essere ritenuto il segno tragico dell’eroina a partire da Euripide, cfr. pp. 76-8@. 3  Evitare la vergogna (vv. 7@5-72@) e travolgere Ippolito nella propria rovina (vv. 724-73@) sono gli ultimi pensieri di Fedra prima di uscire per sempre di scena. 4   Il passaggio, vv. 383-387, è ellittico e per nulla chiaro. Fedra potrebbe fare riferimento a un dibattito corrente, ma non ricostruibile per noi, sulla doppia valenza, dissai, dell’aidos in cui sembrano confluire eredità della poesia arcaica e il senso comune, cfr. la ricostruzione di Susanetti 2005, p. @68 n. 74. 2

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suo corteo di compagni aveva cantato e pregato, aveva donato le ghirlande alla sua casta Artemide, la più bella delle vergini, e aveva ignorato la dea notturna dell’amore (v. @06). Poi aveva dovuto ascoltare cose per lui indicibili, a[rrhton o[pa, e avrebbe voluto gridare, ma la nutrice in un’accorata sticomitia gli aveva ricordato il silenzio giurato (vv. 60@-6@2). Profondamente oπeso, con una rhesis che segna la storia della misoginia occidentale (vv. 6@6-668), Ippolito inveisce contro le donne; avverte lo sporco che gli penetra nelle orecchie, si sente impuro solo per avere ascoltato, pw`~ a]n aJgneuvein dokw`, ma la devozione, to; eujsebev~, lo trattiene dall’infierire sull’anziana donna che gli sta davanti; preso alla sprovvista aveva giurato agli dèi, @ dunque se ne andrà dalla casa e dalla città tenendo la bocca chiusa, si`ga d’e{xomen stovma, fino al ritorno di suo padre. Al ritorno di Teseo, Ippolito deve difendersi dalla falsa accusa che Fedra aveva scritto sulla tavoletta prima di impiccarsi e dagli insulti di suo padre che gli rinfaccia l’ipocrisia, la diversità come mancanza e l’austerità come maschera (vv. 948-957):  

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Teseo: Tu, sei tu l’essere superiore, l’uomo che vive con gli dèi? Tu, l’uomo casto e senza macchia? Io non posso credere ai tuoi vanti, non posso attribuire agli dèi tanta stoltezza. E ora fatti grande, va a raccontare che non mangi carne e che hai Orfeo per maestro. Fa’ il mistico ispirato, perso in tutti quei libri, fumo, nient’altro. Ora sei stato preso! Gente come te, lo dico a tutti di evitarla. Vanno a caccia di adepti, con le loro grandi parole, e tramano nefandezze.

E Ippolito, che ha già tanto pregato e parlato, si rivela una delle più toccanti e dense figure antiche del silenzio. Si trincera dietro due ragioni di riserbo: non sa parlare in pubblico e di Fedra non sa e non gli è lecito dire di più, si era vincolato al silenzio con il giuramento (vv. 986-987; @032-@034): Ippolito: non sono preparato a parlare davanti alla folla, sono più capace davanti ai miei coetanei e davanti a poche persone [...] Per quale paura lei si è tolta la vita, non so e non mi è lecito, qevmi~, dire di più. Si è comportata secondo le regole, ejswfrovnhse, anche se per natura non aveva regole, oujk e[cousa swfronei`n.

Non c’è dubbio che l’Ippolito sia anche la tragedia della reticenza e dell’omissione. Ma al centro di questo gioco del parlare e del tacere sono i due protagonisti che vengono da altrove e che restano ai margini – anche Fedra che si era imposta di conformarsi (vv. 392-402) – del mondo di Teseo e della cultura politica. Fedra, la principessa cretese, e Ippolito, il figlio dell’Amazzone, con il silenzio proteggono o rivelano il segreto delle loro passioni che emergono dal passato e potrebbero tradire la loro non riuscita integrazione. Che potrebbero anche, con le loro devianze individuali ed elitarie, 2 far emergere e legittimare le pressioni che insidiano dall’esterno e minano dall’interno, rivelandone le fragilità, l’ordine della città fondato sul logos, sulla parola e sulla ragione univoca, sulla capacità di controllo e di autocontrollo.  

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  Sul giuramento che ha vincolato Ippolito torna Artemide, v. @306   È Fedra, secondo un’opinione che poteva essere corrente, a osservare come i cattivi comportamenti si diπondano dalle case nobili alla gente comune (vv. 409-4@2). 2

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Il silenzio di Fedra è la sua accettazione del tabù politico. La sua afasia è la prima fase di quel percorso di negazione progressiva che dapprima nasconde e soπoca eros, poi tenta di annullare il corpo nelle privazioni fino a darsi la morte definitiva. Resistere alla passione, per Fedra, vuol dire resistere al ritorno del rimosso, del passato e di Creta, di un desiderio che può compromettere il vincolo matrimoniale, il patto basilare della società politica e della sua riproduzione. È il segno di un supremo sforzo di adeguamento alla città che teme e cerca di controllare se non di escludere eros non solo dalle case, ma dall’orizzonte etico e filosofico, @ quando già ne misura gli eπetti sul piano politico, nella brama di dominio, nelle aspirazioni espansionistiche e nella guerra in corso che le esprime. Al contrario, il silenzio di Ippolito, sui due piani dell’impaccio pubblico e del segreto giurato, è la spia del suo distacco dalla città, di una aidos vissuta in via radicale come purezza dell’anima e disprezzo per il potere (vv. @03; 654-655; 995; @003-@006; @0@3-@0@5; @364-@365), che lo porta fuori, non meno di eros, dall’orizzonte di suo padre. Che, non meno dell’eros sovvertitore del gamos, impedisce la riproduzione della società e del suo ordine, sottraendo i giovani ai doveri del buon cittadino e alle nozze. È un silenzio a due facce quello di Ippolito. Per un verso è il segno della sua non appartenenza: tradisce la disaπezione o il disimpegno politico ormai, dall’inizio della guerra, serpeggiante tra le più giovani generazioni di nobili apragmones, 2 sempre più ripiegati sulle loro proprietà e sui loro diporti, 3 tra i filosofi più impegnati nella teoria che nella prassi politica, 4 anche tra i cittadini comuni. 5 Per l’altro è il segno della sua appartenenza: il silenzio del segreto e dell’obbedienza, la castità rivendicata, il puritanesimo indicano senza nominarla la dimensione iniziatica del suo mondo alternativo. 6 Considerati sullo sfondo degli spazi pre 

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@   Il circolo vizioso di desiderio e potere, condensato nell’espressione forse proverbiale “Erw~ tuvranno~, ripresa da Euripide (Hipp. 538), agiva non solo nelle psicologie individuali, ma nella

storia (Hdt. 5, 32; Thuc. 6, 24, 3). La rappresentazione platonica del tiranno come incarnazione di eros, Resp. 573a-b, può considerarsi l’interpretazione più estrema del desiderio politico patologico. Cfr. Beltrametti 200@, p. @@7. 2  La nozione di apragmosyne è presente in Tucidide, nell’autocritica dei Corciresi (@, 32, 5), nel discorso dei Corinti che rimproverano agli Spartani l’immobilismo rifuggito invece dagli Ateniesi innovatori, newteropoioiv (@, 70, 9), nell’epitafio di Pericle che assottiglia il confine tra tranquillità e inutilità (2, 40, 2) e ancora nel discorso di Pericle che mette in guardia dai pericoli del disimpegno gli Ateniesi, già stanchi della guerra (2, 63, 2-3) e nel discorso Alcibiade che la imputa come inerzia a Nicia (6, @8). Diversamente, in Aristofane (Eq. 26@; Vesp. @040; Av. 44), il disimpegno e la gente tranquilla sono miraggi degli eroi comici. 3   La posizione di Ippolito e il suo disinteresse per il potere (vv. @0@4-@020) richiamano l’atteggiamento di altri personaggi; Ione della tragedia omonima rifiuta i progetti di Xuto per lui in Atene preferendo la tranquillità di Delfi (Eur. Ion 62@-639); Creonte si difende dai sospetti di Edipo, rivendicando i privilegi della sua posizione di nobile senza gli obblighi del governo (Soph. OT 583-602). 4  La Lettera vii (326a-b) – il più importante documento della autobiografia o della biografia platonica, a seconda che lo si ritenga autentico o no – è molto esplicita sulla progressiva rinuncia di Platone alla politica attiva praticata da numerosi suoi familiari e sulla necessità di una totale dedizione alla filosofia in vista di un mondo rifondato sul nesso sapere-potere. 5  Nelle Vespe del 422, Bdelicleone, il figlio, cerca in ogni modo di dissuadere il padre Filocleone dagli impegni di giudice e dall’aπezione per la vita politica e i suoi meccanismi che ormai risultano fasulli. 6   Un servo, ancora sulla scena del prologo, aveva rilevato il tratto altero, to; semnovn, e poco amabile, to; mh; pa`sin fivlon, di Ippolito (v. 93).

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diletti da Ippolito – i monti, i boschi della caccia e di Artemide, i prati fioriti e puri – richiamano il mondo nomade e arcaico, fantasticato come originario, delle Amazzoni e di sua madre. Riportati nella rete delle relazioni privilegiate da Ippolito, nel suo universo di giovani maschi coetanei e incorrotti (vv. 994-@006), silenzio e segreto alludono invece alle comunità dei thiasoi, che convivono con la società politica, ma non sempre ben tollerate, @ come lascia intendere la sprezzante invettiva di Teseo. Fedra tace per non proiettare nella città il pericolo della fascinazione e del desiderio incontrollabile. Ippolito tace, ma tacendo proietta intorno e nella città l’astensione, il sogno, l’utopia.  

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v. Reticentia mystica? Il Prometeo incatenato Con il secondo Ippolito, Euripide drammatizza le valenze più profonde del silenzio nel quadro antropologico, religioso, etico e politico della città e degli antimondi, la Creta di Fedra e il thiasos di Ippolito, con cui la città si confronta. Ma è il dramma di Prometeo, il testo ineludibile per ogni riflessione sul silenzio tragico. La lunga vexata quaestio aπrontata da eccellenti filologi sull’attribuzione della tragedia 2 non può considerarsi risolta. La forza della tradizione, alcune coincidenze tematiche – prima tra le altre la centralità del conflitto tra dèi del vecchio e del nuovo ordine drammatizzata anche nelle Eumenidi – e il mito argivo di Io 3 che ricondurrebbero la tragedia a Eschilo sono troppo contrastati da un linguaggio e da risoluzioni compositive e scenografiche che non sono né vogliono sembrare eschilei 4 e che, semmai, suggeriscono l’ipotesi di una ristrutturazione radicale del testo originario. L’incertezza, forse l’aporia, dell’attribuzione e di una datazione, sia pure approssimativa, a sua volta blocca l’interpretazione. Sospende nel vuoto il messaggio molto complesso del Prometeo incatenato, quasi astraendolo dalla storia del teatro e dalla storia molto dinamica del v secolo. Per tornare a leggere la tragedia in mancanza di riferimenti extratestuali orientativi, senza quel gioco spesso molto illuminante di specchi e di rimandi tra il dentro e il fuori del testo, non resta che procedere attraverso le ipotesi già proposte dagli studi e con altre ipotesi da verificare, rimettendo ogni volta a fuoco e in causa la drammaturgia dall’interno. Non resta che ripartire da un’analisi testarda dei dati testuali salienti, cercare di collocarli in una rete intertestuale meno manifesta, anche sulle tracce di una probabile composizione stratificata, e riconsiderarli alla luce di queste consonanze inattese. La tragedia è strutturata sull’opposizione parola-silenzio che innerva, una dopo l’altra, tutte le scene, che introduce o conclude le rheseis capitali del protagonista e  





@  Sul rapporto città-iniziati e sui culti misterici come “alternativa” all’ordine politico, vd. Sabbatucci @979. 2   Nell’impossibilità di ripercorre tutte le tappe significative del dibattito, si ricordano in ordine cronologico: Gri√th @977; West @979; Pattoni @987; Marzullo @993; Zuntz @993; Lloyd-Jones 2003. 3   La vicenda di Io e della sua erranza è l’antefatto delle Supplici del 462. 4   Tra le osservazioni più recenti sulle anomalie del prologo, cfr. Centanni 2003, p. 904 e Susanetti 20@0, pp. @46-@48; le particolarità del vocabolario sono state ben evidenziate da Gri√th @984.

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diventa il segno inconfondibile del Prometeo tragico. Dopo la scena del prologo, la sola di azione in cui Prometeo è inchiodato alla rupe da Efesto incalzato da Kratos, il dramma si compie in un susseguirsi di incontri e di dialoghi diversamente modulati, ma culminanti, tutti, nelle battute dell’eroe. Prometeo, legato e dolente, ora rompe il silenzio con una parola potentissima @ – la sua parola domina il passato e il futuro, controlla la relazione tra il mondo degli uomini e quello degli dèi, è libera e coraggiosa 2 fino a sfidare il potere assoluto di Zeus nella disapprovazione del Coro e di Oceano 3 – ora si chiude, trincerandosi in un silenzio gravido quanto la parola interrotta. 4 Ma prima ancora di essere parola e silenzio, Prometeo nella tragedia è il suo corpo incatenato a una roccia a strapiombo sul nulla, nel finisterrae desertico di una Scizia spopolata e quasi metafisica (vv. @-2). È il corpo che gli duole, di cui avverte con vergogna lo scempio (vv. 92-@00), su cui anche il Coro e gli altri personaggi, in ordine di entrata, sono attratti e si interrogano, richiamandovi l’attenzione del pubblico. Per i primi 87 versi del dialogo tra Kratos ed Efesto alla presenza muta di Bia, Prometeo tace. La sua presenza è pura immagine, l’icona della punizione esemplare in cui si compenetrano tutti i soggetti tragici coinvolti: la volontà del dio sovrano, la Forza della coercizione, le giustificazioni del Potere e le tecniche del dio fabbro. È lo spettacolo della repressione 5 che i torturatori, per primi, ostentano nominando i gesti di Efesto, elencando i patimenti che Prometeo sta soπrendo e quelli che soπrirà (vv. 29-35), provocando l’eroe con continue allocuzioni, additandolo con l’uso insistente dei deittici e con ridondanti sollecitazioni allo sguardo: “lo vedi con gli occhi quale spettacolo inguardabile?” – chiede Efesto a Kratos. E Kratos risponde: “vedo che ha quello che si è meritato” (vv. 69-70) . 6 Prometeo rompe il silenzio con un monologo spezzato da continui cambiamenti di ritmo (vv. 88-@26) 7 che stacca bruscamente dal prologo degli dèi punitori 8  

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  I passi più significativi della preterizione di Prometeo sono nei dialoghi con il Coro: vv. @06-@07 che accennano per la prima volta al dono del fuoco; vv. @97-@98 in apertura del racconto omodiegetico di Prometeo che, grazie ai consigli di sua madre Themis, aveva favorito Zeus contro Kronos nel conflitto dinastico e generazionale; vv. 436-442 che sfumano il motivo del sostegno ai nuovi dèi, già noto alle Oceanine, per deviare la narrazione sui benefici del fuoco e delle tecniche per il progresso dell’umanità. 2   Gri√th @984, p. 289, rileva l’importante ricorrenza di aujqadiva e di termini della stessa famiglia come pure dei composti in – stomo~ nel Prometeo e negli altri tragici, ma assenti nelle altre 3 opere di Eschilo.   Cfr. vv. @78-@80; 3@@-3@2; 3@8-320. 4  Sulla caduta di Zeus, Prometeo oppone costante silenzio alle domande del Coro (vv. @60@76), della corifea (vv. 5@9-525), di Io (vv. 757-776) e ancora, nell’esodo, della corifea (vv. 92893@), sollecitata dalla diπusa esposizione di Prometeo che ha ribadito la profezia annunciata a Io, ma senza spingersi oltre (vv. 907-927). 5   Cerri 2006 coglie con precisione e nuove riflessioni, anche rispetto agli studi di Jaeger e Di Benedetto a cui rinvia, lo spettacolo nello spettacolo, le sue implicazioni poetiche e i probabili referenti giudiziari. 6   La tragedia sembra contraddire l’analisi di Arist. Poet. @450b, che attribuiva forte attrattiva, ma nessuna necessità poetica alla componente visiva dello spettacolo. 8  Si susseguono giambi allitteranti (88-92), anapesti (93-@00), ancora giambi (@0@-@@3), metri lirici (@@4-@@9) e ancora anapesti (@20-@27). 7   La convenzione di far coincidere la fine del prologo con l’ingresso del Coro non corrisponde qui né alle evidenze metriche né a quelle tematiche.

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e introduce il duetto con il Coro delle Oceanine (vv. @28-@92) in un esteso movimento di parodos articolato, ma unitario. L’eroe, inchiodato e incatenato alla roccia, esordisce con un’invocazione alle forze della natura – aria, acqua, terra e sole, il fuoco che tutto vede (vv. 88-@00) – che stupirebbe meno in un personaggio di Euripide e che Aristofane, ripetutamente, attribuisce a Euripide nelle sue caricature. @ La preghiera approda immediatamente sullo spettacolo del corpo punito – guardatemi, osservate, i[desqe, devrcqhte (vv. 92 e 94) – che si ripresenterà con regolarità all’arrivo del Coro (vv. @@9; @4@-@46; @52-@58; 239-24@; 242-245; 246; 540-54@) e degli altri personaggi, Oceano (vv. 298-299; 302-304) e Io (vv. 56@-565). Con l’arrivo di Io, lo spettacolo del corpo è al culmine. 2 La principessa errante, con il suo corpo sfigurato in bestia, agitato dall’estro e dal vagabondaggio senza remissione, raddoppia e rovescia sulla scena il corpo immobile di Prometeo, reificato, tutt’uno con la sua rupe. Nel paesaggio derelitto e estremo della Scizia, il corpo femminile di animale inquieto e il corpo maschile bloccato, di pietra, compongono il dittico dei reietti del potere. Entrambi vittime di Zeus, Prometeo e Io portano impressi sui loro corpi i segni del nuovo ordine divino, di un nuovo potere accentrato da un nuovo giovane sovrano, Zeus, che non rispetta le regole antiche, non si dà limiti, non rende conti (vv. @47-@5@; @86-@87; 324; 389; 40@-405) e punisce anche gli intimi e il fido compagno di lotta, to;n sugkatavsthsanta th;n turannivda, se li teme (vv. 22@-24@; 305). Prova visibile del nuovo corso, spettacolo della tirannide divina e della pena che un dio deve subire da parte degli dèi (v. 92), il corpo di Prometeo, nella tragedia, è anche il luogo della verità – è colpito per la trasgressione compiuta e non millantata, per il furto del fuoco che ha risollevato le sorti dell’umanità – e la migliore garanzia di veridicità per ciò che dice e per i segreti che tace. Il gioco della parola e del silenzio che Prometeo alimenta all’inizio o alla fine di ogni rhesis non prescinde dal suo corpo. Lo strazio del corpo è il costo pagato che giustifica la parola libera e tagliente dell’invettiva, 3 che accredita il ricordo delle colpe prima a favore di Zeus (vv. @99-24@) e poi degli uomini contro Zeus (vv. 442-47@ e 476-506) come pure la profezia sul destino di Io e dei suoi discendenti (vv. 700-74@; 786-876). Dal corpo e dalla sua liberazione muovono le domande ricorrenti che convergono, tutte, sulla caduta di Zeus, sulle nozze e sul figlio che lo spodesterà, il segreto mai del tutto rivelato e sempre rivendicato da Prometeo fino alla fine. 4  

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  La caricatura più che riprodurre i personaggi bersaglio li riduce ai loro tratti somatici più caratteristici come pure ai più individuali modi di fare e di dire esasperati all’estremo. Per la devozione di Euripide a Aijqhvr, cfr. Ar. Thesm. @3-@8; 5@; 272 e Ra. 892. Ma Thesm. 45@ e Ra. 888-889 sono ben più espliciti sulla distanza del poeta dalla religione olimpica e sulla sua attenzione per i culti alternativi in consonanza con le invocazioni di Socrate, Nub. 263-266 e 376-38@. 2   Cerri 2006, p. 279, mette bene in evidenza la semantica della simmetria tra i due personaggi in scena, sottointerpretata o anacronisticamente interpretata da Wilamowitz come zeppa. 3  Sulla rilevanza della libertà di parola o parrhesia nel formarsi del soggetto occidentale, cfr. Bodei 2008, pp. @24-@33, che aπronta il tema con riferimento alle riflessioni dell’ultimo Foucault. 4   Il motivo del segreto da custodire si aπaccia al v. @85 ss. e prosegue nel dramma, vv. 522525; 766, per dominarne la fine.

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Il segreto è la verità ultima del corpo e delle parole di Prometeo che sempre, anche quando si diπonde più a lungo sul prossimo rivolgimento dinastico, preserva ostinatamente e sottolinea di preservare un angolo d’ombra (vv. 907-927): Prometeo: Zeus... lui, così orgoglioso della sua intelligenza, farà una triste fine ...… si sta preparando nozze che lo cacceranno dal trono e dal potere, nell’oscurità. La maledizione di suo padre Kronos allora si compirà in pieno: l’aveva maledetto mentre decadeva dal suo antico trono. Nessuno degli dèi potrà indicargli il modo di evitare questi guai, solo io. Io so di che si tratta e so come fare. Continui pure a sedere sul suo trono, sicuro dei tuoni e del loro fragore, armeggi con i suoi fulmini di fuoco: non gli serviranno a evitare la caduta vergognosa, intollerabile. Se lo sta preparando da sé il suo avversario, invincibile, prodigioso, uno che troverà una fiamma più potente del fulmine, un boato più forte del tuono, che spezzerà la sferza marina che batte la terra, il tridente di Posidone. Inciamperà in questa disgrazia e allora Zeus imparerà quanta diπerenza passa tra comandare e servire.

Neppure nell’esodo, a Hermes che non gli chiede, ma gli intima minacciandolo nel nome del padre Zeus di svelare l’arcano (vv. 944-952), Prometeo dice di più. Anzi, le provocazioni di Hermes oπrono all’eroe tragico le ultime opportunità per marcare il limite invalicabile tra il tracollo annunciato del terzo sovrano e il segreto da custodire sul nome del successore (vv. 953-963 e 987-996). Né l’ulteriore supplizio dell’aquila che gli divorerà il fegato (vv. @0@6-@029), né gli sconvolgimenti cosmici di cui già avverte i segni (vv. @07@-@093) piegano Prometeo a scoprire il disegno che travolgerà il regno degli dèi che gli hanno ricambiato con il male il bene ricevuto, contro i quali grida il suo odio (vv. 975-976): Prometeo: Per essere chiaro, io odio tutti quanti gli dèi! hanno avuto del bene da me e ora mi fanno del male, ingiustamente.

Prometeo ha parlato moltissimo e ha dato informazioni che non coincidono con i racconti esiodei (Theog. 52@-6@6; Op. 42-@05) @ né nei fatti né nella tonalità. Nella tragedia Prometeo non è figlio dell’oceanina Climene, ma di Themis-Gaia e appartiene alla prima generazione dei Titani. Il ruolo che narra di avere avuto nella titanomachia era stato attribuito da Esiodo a Gea e ai giganti (Theog. 6@7-735). Non accenna al sacrificio originario per cui aveva spartito la carne dalle ossa ingannando Zeus (Theog. 535-557), ma solo all’osservazione delle viscere e delle parti bruciate secondo la tecnica divinatoria (Prom. 496-499). Esiodo aveva narrato la rivalità di Prometeo e di Zeus nei toni della sfida giocosa, lanciata dall’astuzia di Prometeo al potere sovrano di Zeus che ricambiava colpo su colpo, talvolta ridendo (Op. 59). Aveva raccontato della liberazione di Prometeo da parte di Eracle e per volontà di Zeus. Il dramma mette in scena a tinte fosche e sempre dal punto di vista di Prometeo e dei personaggi che lo visitano e lo soccorrono, una feroce prova di forza: uno Zeus assente e nero, che aveva progettato lo sterminio dell’umanità (vv. 232-233), a√da a sgherri il lavoro sporco della tortura e dell’intimidazione del Titano filantropo, salvatore degli uomini con il suo dono del  

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  Sulle variazioni antiche e moderne di Prometeo, vd. la ricca introduzione di Condello 20@@, ‘“Molte migliaia d’anni io soπrirò”: L’infinita fortuna di Prometeo’.

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fuoco padre di tutte le tecniche, pantevcnou purov~ (v. 7) . Esiodo aveva raccontato il passato, dal caos al cosmos del regno di Zeus. La vicenda tragica è rivolta al futuro, alla caduta di Zeus e al mondo che verrà con il nuovo sovrano, secondo il segreto di cui il Titano è depositario. Non sono solo diπerenze di generi poetici o di codici espressivi quelle che passano tra la vicenda epica e quella tragica di Prometeo. Per i nuclei mitici che seleziona e i toni che privilegia, la tragedia sembra proporsi come una riscrittura antiesiodea del hieros logos di Prometeo. Nei due quadri esiodei, Prometeo restava, malgrado gli scarti, dentro l’ordine olimpico di Zeus, mentre nel dramma è il filantropo ribelle all’ordine che aveva contribuito a instaurare e che sta scontando sul proprio corpo la violenza della rivoluzione annunciata. Chi avrà il nuovo regno? A liberare, luvsei (v. 873), Prometeo sarà Eracle, mai nominato, ma evocato con chiarezza tra i futuri discendenti di Io. Su chi sarà il futuro sovrano invece, Prometeo, annunciando il mondo liberato, non dà indizi su√cienti. Martin West, commentando il Papiro Derveni, con un’intuizione formidabile aveva suggerito che, alla luce delle altre teogonie orfiche, anche la teogonia commentata nel papiro dovesse concludersi con Dioniso successore di Zeus. @ Dalla sua ipotesi prendono le distanze gli editori del Papiro, 2 ma la linea del regno di Dioniso che arriva fino a Nonno di Panopoli (6, @62-@86), non si smentisce facilmente. Se questa tragedia fosse una sacra rappresentazione in chiave orfica della prossima fine di Zeus e dell’avvento di Dioniso? Il Prometeo di questa tragedia, il dio che soπre a causa degli dèi (i[desqe m’oi|a pro;~ tw`n qew`n pavscw qeov~, v. 92) evoca per molti motivi il Dioniso delle Baccanti, il dio oπerto in libazione agli altri dèi (ou|to~ qeoi`si spevndetai qeo;~ gegwv~, v. 284): sono entrambi esclusi per i doni che oπrono ai mortali per liberarli dalle ristrettezze e dagli aπanni, sono entrambi ribelli, portatori di una duvnami~ che sconfigge il kravto~ non temperato di un giovane sovrano, Zeus o Penteo, 3 e si corrispondono fino ai limiti di un’eco intertestuale. D. Sabbatucci 4 ha descritto il “complesso orfico” come movimento intellettuale e sistema di pratiche cultuali che reinterpretavano la religione olimpica in una prospettiva alternativa a quella della città e orientata sulla salvezza, operando in particolare nella sfera misterica demetriaca-eleusina, in quella orgiastica dionisiaca e in quella pitagorica, comunitaria e sapienziale. Situata in questo orizzonte alternativo ben aπermato negli ultimi anni del v secolo, la tragedia di Prometeo sembra trovare una speciale coerenza interna. Il silenzio, il segreto, la rivelazione parziale e l’insistenza metadiscorsiva sull’obbligo di mantenere il segreto esaltano il senso della verità secretata, ma, soprattutto, danno senso alla disciplina del segreto, alla capacità di aggirare con le parole, senza mai svelarlo, il punto che deve restare e apparire cieco per coloro  



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  West @983, pp. 82-94 e @08-@@3.   Kouremenos 2006, p. 25 con riferimenti a Bernabè 2002; Brisson 2003 e Betegh 2004. Cfr. anche Bernabé-Casadesús 2008 e Massa 20@4, p. 93. 3   Tiresia, con una spiegazione da teologo e cercando di persuadere Penteo, illustra la potenza e la grandezza di Dioniso (Eur. Bacch. 266-327) e di Demetra, la dea dai molti nomi (Bacch. 276) come Themis nel Prometeo (Prom. 2@0). I molti nomi della dea sono ricordati anche nel Papiro 4 Derveni, col. xxii.   Sabbatucci @979, pp. 43-55. 2

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che non sanno, per i profani. La disciplina del silenzio, interpretata come forma di comunicazione e come patto tra gli iniziati, porta a Eleusi 2 e a Eleusi porta il motivo dominante della visione come via privilegiata di apprendimento e illuminazione, iscritta anche nel nome del rito massimo, l’epopteia, e della più alta carica iniziatica, epoptes, e in quello del massimo sacerdote hierophantes (vv. 298-306): 3  

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Prometeo: Che accade? Anche tu sei qui a prendere visione dei miei patimenti, povnwn ejmw`n ejpovpth~? [...] Sei venuto per assistere alle mie disgrazie, per compatire i miei mali? Guarda allora lo spettacolo: ero alleato di Zeus, lo ho aiutato a instaurare il suo potere assoluto, guarda con quali colpi mi ha piegato.

L’espressione povnwn ejmw`n ejpovpth~ con cui Prometeo accoglie Oceano (vv. 298299), riprende il sintagma povnwn ejmw`n qewrov~ del v. @@8, ma anche lo corregge con un vocabolario più specificamente eleusino che ridefinisce e amplia il motivo tragico della soπerenza, dei ponoi e dei pathe, 4 e quello dell’apprendere attraverso la soπerenza, del pavqei mavqo~ (Ag. @77 e 250) più genuinamente eschileo. Il patire e lo spettacolo del patire, allo stesso titolo vie della conoscenza, 5 definiscono così l’ambito di un’esperienza tragica, estetica, che coincide con l’esperienza iniziatica delle prove estreme o della rievocazione rituale, per simboli visivi, delle prove che vincono la morte 6 e conquistano un mondo di liberazione e giustizia, aprono un futuro che dovrà tornare ai primordi. E dai primordi nella tragedia arrivano le Oceanine e Oceano, le creature anfibie e metamorfiche, acquatiche e alate, che sono le prime destinatarie del messaggio messianico di Prometeo e abitano letteratura orfica 7 a cui appartengono anche Eracle e Adrasteia il legame, e il principio di necessità, Ananke, ricorrenti in questa tragedia più che nel resto del corpus eschileo. 8 Disponiamo di un ragionevole margine di indizi per ritenere che questa costellazione di figure così intrinseche alla letteratura orfica riconnoti in altro senso la figura di Prometeo e i suoi doni? In questa prospettiva, anche l’invocazione incipitaria (v. 88 ss.) di Prometeo ai principi elementari della natura e il suo odio  









@   Ai vv. 44@-442 il silenzio segna chiaramente il discrimine tra coloro che sanno e quelli che non sanno. La separazione dei profani è richiesta da Alcibiade nel Simposio 2@8b di Platone con un’espressione ricorrente nella letteratura orfica, cfr. Papiro di Derveni, col. vii 9-@0 e frr. 59, 245, 247, 334 Kern. 2   Cfr. Soph. OC @052: una grossa chiave d’oro blocca la bocca degli Eumolpidi. 3   Il complesso eleusino per le informazioni malevole dei Padri della Chiesa è l’ambito meglio noto e per molti aspetti paradigmatico. Sul ruolo degli epoptai e del hierophantes vd. Plut. Alc. 22; cfr. Sabbatucci @979, pp. @46-@48. 4   Il termine, sempre al plurale ricorre 20 volte nel Prometeo e registra 74 occorrenze nel corpus eschileo. Il verbo ponevw conta 4 occorrenze solo nel Prometeo. 5   Il motivo domina il secondo stasimo, in particolare la prima e la seconda antistrofe, vv. 540 ss. e 553 ss. 6   Prometeo sa che non morirà (vv. 755-756; 933; @053) e invece di fermarsi ai conflitti passati, come nelle Eumenidi, prennauncia una nuova era. Sul percorso iniziatico come confronto con la morte per il guadagno dell’immortalità, cfr. Sabbatucci p. @48. 7   Met. @, 983b 27-984a 2. Cfr. Sabbatucci @979, pp. @@0-@@5 e Scarpi 2002, i p. 628. 8   Ananke ricorre nel Prometeo 7 volte sulle 23 registrate in tutto il corpus eschileo e Adrasteia occorre una sola volta (v. 936) sulle due registrate. Sul nesso di Adrasteia e Ananke nel pensiero orfico, cfr. Sabbatucci @979, pp. @02-@05 e West @983, pp. @94-@96.

quali silenzi per quali segreti in tragedia

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blasfemo, dichiarato nell’esodo contro tutti gli dèi in corso (vv. 975-976) e contro Zeus in particolare (v. @004), troverebbero ben altra pregnanza. Possiamo incominciare a leggere la tragedia come dramma culturale di un ripensamento profondo, spettacolarizzato attraverso la riscrittura di un personaggio chiave, delle credenze, dell’immaginario e della devozione alla fine del v sec. in Atene? Bibliografia Aélion, R., ‘Silences et personnages silencieux chez le Tragiques’, Euphrosyne n.s. @2, @98384, pp. 3@-52. Barthes, R., Il grado zero della scrittura, Torino @982 (ed. or. Paris @953). Barthes, R., Essais critiques, Paris @964. Beltrametti, A., ‘Al di là del mito di Eros. La tragedia del desiderio nella drammaturgia dei personaggi’, Quad. Urb. n.s. 68 (97), 200@, pp. 99-@2@. Bernabé, A. - Casadesús, F., Orfeo y la traditión órfica. Un reencuentro, Madrid 2008. Bierl, A., ‘Melizein pathe oder die dionysisch-theatrale Dimension der Sinne im Agamemnon des Aischylos: Stimme, Gesang, Choreutik, Blick und Geruch als Medien der Äußerung im Leid’, in Convegno internazionale della Fondazione Inda, Agamennone cento anni dopo, Roma - Complesso dei Dioscuri al Quirinale (27-29 marzo 20@4). Blanchot, M., Passi falsi, Milano @976 (ed. or. Paris @949). Bodei, R., Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale, in Galzigna 2008, pp. @24-@33. Centanni, M. (ed.), Eschilo. Le tragedie, Milano 2003. Cerri, G., ‘Il dio incatenato come spettacolo, il coro come pubblico’, Lexis 24, 2006, pp. 265-28@. Condello, F. (ed.), Prometeo. Variazioni sul mito, Venezia 20@@. Fileni, M. G., ‘La parola sulla scena del dramma attico: il Prometeo’, in A. Gostoli - R. Velardi (edd. con la collaborazione di M. Colantonio), Mythologeîn. Mito e forme di discorso nel mondo antico. Studi in onore di Giovanni Cerri, Roma 20@4, pp. 229-244. Galzigna, M. (ed.), Foucault oggi, Milano 2008. Genette, G., Figure, Torino @969 (ed. or. Paris @966). Gri√th, M., The Authenticity of Prometheus Bound, Cambridge @977. Gri√th, M., ‘The Vocabulary of Prometheus Bound’, Class. Quart. 34, @984, pp. 282-29@. Kouremenos, Th. - Parassoglou, G. - Tsantsanoglou, K. (edd.), The Derveni Papyrus, Firenze 2006. Lloyd-Jones, H., ‘Zeus, Prometheus and Greek Ethics’, Harv. Stud. Class. Philol. @0@, 2003, pp. 49-72. Marzullo, B., I sofismi di Prometeo, Firenze @993. Massa, F., Tra la vigna e la croce. Dioniso nei discorsi letterari e figurativi cristiani (ii-iv secolo), Stuttgart 20@4. Pattoni, M. P., L’autenticità del Prometeo Incatenato di Eschilo, Pisa @987. Sabbatucci, D., Saggio sul misticismo greco, Roma @979. Scarpi, P. (ed.), Le religioni dei misteri i-ii, Milano 2002. Susanetti, D. (ed.), Euripide. Ippolito, Milano, 2005 Susanetti, D. (ed.), Eschilo. Prometeo, Milano 20@0. Taplin, O., ‘Aeschylean Silences and Silences in Aeschylus’, Harv. Stud. Class. Philol. 76, @972, pp. 57-98. West, M. L., ‘The Prometheus Trilogy’, Journ. Hell. Stud. 99, @979, pp. @30-@48. West, M. L., The Orphic Poems, Oxford @983. Zuntz, G., ‘Aeschyli Prometheus’, Harv. Stud. Class. Philol. 95, @993, pp. @07-@@@.

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anna beltrametti Abstract

In dramaturgical writing, the characters’ silence cannot be always traced back to the rhetorical devices of praeteritio or aposiopesis. In some dramas, silence is allusion, is the poetic form of what is secret and unspeakable: scandal and fear in Aeschylus’ Agamemnon; disrespect and shame – aidos – in Euripides’ Hippolytus; promise of a new kingdom in the Prometheus Bound.

ESOR T AZ I ON I AL SILENZIO N EL L A T R AGE D I A DI V SECOLO Gi a mpa o l o Galvani hJ sigh; e[cei meqovdou~ pollav~.

Schol. Prom. 437

Introduzione

I

n questi ultimi quindici o vent’anni la discussione sul silenzio è stata più rumorosa di quanto ci si aspettasse”. @ Con queste parole Paolo Valesio alludeva alla vasta produzione di opere, contributi e articoli, perlopiù di argomento retorico, dedicati al tema del silenzio. Un’attenzione altrettanto vivace verso tale tema è riscontrabile nell’ambito degli studi di antichistica e, in particolare, nei lavori dedicati alla letteratura drammatica, sia tragica che comica. È, infatti, noto che il silenzio costituisce una componente fondamentale non solo del teatro contemporaneo – sia su√ciente citare i nomi di Beckett e Pinter, che hanno fondato la propria scrittura scenica sulle pause e sui silenzi –, ma anche del teatro antico, seppure con modalità diverse. Taplin ha giustamente osservato come, sulla base delle indicazioni ricavabili dai testi tramandati, il teatro greco abbia tendenzialmente evitato silenzi totali a favore di una circolazione continua della parola. 2 Questo non significa che nel teatro antico non ci fossero “silenzi eloquenti”: 3 con tale espressione si intendono tutti quei silenzi che non sono riconducibili a mere esigenze tecniche, ma che, oltre ad essere il frutto di una scelta consapevole, risultano caratterizzati da una forza comunicativa pari – e forse maggiore – a quella del discorso. Per limitarci al solo Eschilo si può pensare alle figure silenziose di Niobe e Achille, parodiate nelle Rane di Aristofane, a Cassandra nell’Agamennone e a Prometeo nella tragedia omonima. In tutti i casi citati il silenzio costituisce il fulcro drammatico attorno al quale si sviluppa la scena: gli altri attori spesso domandano al personaggio che tace le motivazioni che lo spingono a rifiutare la parola, inducendo così il pubblico ad interrogarsi sul significato profondo di tale silenzio. 4 La presenza di un personaggio che sceglie di non parlare e il cui “



1







@

  Cfr. Valesio @986, p. 353.   Cfr. Taplin @972, p. 57. Non mancano casi in cui gli editori moderni ipotizzano la presenza di silenzi significativi sulla scena, senza che questi abbiano, tuttavia, alcun fondamento sul testo tradito: sull’argomento cfr. Montiglio 2000, pp. @73-@76. 3  Questa espressione è utilizzata nell’ambito degli studi di linguistica pragmatica. Ehrhardt (@999, pp. 532-538), ad esempio, sostiene che il “silenzio eloquente”, capace di comunicare al pari della parola, è quello che giunge inaspettato, che infrange le regole della comunicazione e che si presenta, dunque, come non convenzionale. 4   Cfr. Taplin @972, p. 58. Sui silenzi di Cassandra, Niobe e Achille cfr. anche Montiglio 2000, pp. 2@3-2@6 e Vogt 200@. Anche negli altri tragediografi sono presenti silenzi significativi, sebbene paiano meno marcati e caratterizzati rispetto a quelli eschilei, non costituendo il fulcro 2

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tacere diviene oggetto dei discorsi di altri personaggi è solo una delle forme in cui si concretizza la complessa fenomenologia del silenzio nel teatro antico. Altre manifestazioni del silenzio sulla scena sono rintracciabili nell’uso dei personaggi muti (kwfa; provswpa), come Iole nelle Trachinie di Sofocle o Pilade nelle Coefore di Eschilo. Quest’ultimo, in particolare, costituisce un unicum nella superstite produzione tragica: rimasto silenzioso per buona parte della tragedia, esso prende la parola solo ai vv. 900-902 – generando con ogni probabilità stupore nel pubblico – per spronare Oreste a rispettare gli oracoli di Apollo, che imponevano di vendicare Agamennone e di uccidere Clitemestra. Il silenzio sulla scena può assumere anche la forma dell’aposiopesi, @ ovvero di quella figura retorica consistente nell’improvvisa interruzione di un messaggio, mediante la soppressione di una sua parte, o nell’allusione a qualcosa che viene taciuto: è il caso dei vv. @287-@289 dell’Edipo Re dove il messaggero si rifiuta di parlare dell’incesto dicendo “Grida che si aprano le porte e si mostri a tutti i Tebani l’uomo che ha ucciso il padre e con la madre ... ah sono cose spaventose, non posso dirle”. 2 Questi sono solo alcuni tra gli aspetti più studiati e dibattuti di quel fenomeno ampio e complesso costituito dal silenzio nel teatro greco antico. Il presente contributo si propone di raccogliere e di analizzare le attestazioni tragiche di esortazione al silenzio rivolte al coro. Personaggio drammatico che collabora con gli attori, secondo la spiegazione fornita da Aristotele nella Poetica, 3 “spettatore ideale” della tragedia, secondo la definizione di Schlegel, 4 gruppo di performer che cantano e danzano in un contesto rituale, secondo l’impostazione di Henrichs, 5 il coro viene ad assumere una molteplicità di funzioni all’interno della rappresentazione tragica. 6 Proprio alla luce di tale complessità può essere utile indagare i termini in cui si iscrive il rapporto tra il coro e il silenzio. Sono necessarie alcuni precisazioni: in primo luogo, visto l’elevato numero di attestazioni, qui si propone l’analisi di una selezione di passi che vuol essere rappresentativa delle “tipo 

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dell’azione drammatica: basti pensare al silenzio di Fedra nell’Ippolito di Euripide (cfr. Longo @989), alle uscite silenziose di Giocasta nell’Edipo re o di Deianira nelle Trachinie (cfr. Rood 20@0). Un’analisi dei tre esempi citati si trova in Montiglio 2000, pp. @9@-@92; 233-245. Sul silenzio nei tre tragici cfr. anche Aélion @983-84, sui silenzi sofoclei si veda anche Suksi 200@. @

  Sull’aposiopesi si vedano Ricottilli @984; @994.   Tr. di G. Paduano. Altra figura retorica è quella della preterizione, mediante la quale si finge di voler tacere ciò che in realtà si dice: cfr. Ag. 36-38 “Sul resto taccio: un gran bove mi è salito sulla lingua. Ma la casa stessa se avesse voce potrebbe dire chiaramente tutto” (tr. di E. Medda); sul passo si veda Marino 2002. Il proverbio ricorre anche in Theogn. 8@5 (bou`~ moi ejpi; glwvssh/ kraterw`/ podi; la;x ejpibaivnwn); Strattis fr. 67 PCM (bou`~ ejmbaivnei mevga~); cfr. anche Hesych. B 968. Sulla fortuna del proverbio e sulle sue varianti cfr. Headlam-Thomson @966, ii p. @9. 3   Cfr. Arist. Poet. @456a 25 ss. Sull’argomento cfr., ad esempio, Di Benedetto-Medda @997, pp. 249-253; 396-397. 4   Cfr. Schlegel @846, pp. 76-77 e più di recente Vernant-Vidal-Naquet @972, p. @4. In merito al dibattito sulla funzione e sull’autorità del coro cfr. Gould @996; Goldhill @996; Rehm @996; 5 Silk @998; Calame @999; Foley 2003.   Cfr. Henrichs @994-95, pp. 58-59. 6   Si vedano a questo proposito le riflessioni di Mastronarde @998, p. 55. Lo studioso si soπerma sulla varietà e sull’instabilità della voce corale, capace di passare da una posizione “intradrammatica” di un gruppo – con una identità particolare, una specifica condizione, motivazioni psicologiche plausibili e risposte emozionali immediate – a una posizione “extradrammatica” di una voce collettiva, meno legata a una particolare identità e più in disparte rispetto all’azione. 2

esortazioni al silenzio nella tragedia di v secolo

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logie” individuate. In secondo luogo, è doveroso sottolineare che la classificazione operata ha un valore indicativo, perché non tutte le attestazioni sono sempre riconducibili in maniera univoca ad una singola tipologia. @ Un caso sui generis è costituito dal primo episodio dei Sette a Tebe, dove le molteplici esortazioni al silenzio rivolte dal sovrano al coro hanno la funzione di impedire che il timore ingovernabile delle donne nei confronti del nemico argivo si diπonda all’interno delle mura.  

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@. Esortare il coro al silenzio per richiamare l’attenzione su quanto sta per accadere 2  

Silvia Montiglio ha giustamente richiamato l’attenzione sul fatto che in un teatro privo di silenzi totali le esortazioni a tacere possono assolvere il compito di marcare momenti importanti nello sviluppo dell’azione tragica, come il passaggio ad un nuovo tema, l’arrivo di un personaggio o l’utilizzo di una diversa modalità espressiva, ad esempio, il passaggio dal canto al recitato. I destinatari di queste esortazioni sono, dunque, chiamati a focalizzare la propria attenzione su quanto sta per accadere. 3 Si osservi, inoltre, che tali inviti al silenzio svolgevano la funzione di catturare l’attenzione, non solo dei personaggi sulla scena, ma anche degli spettatori. Si tratta di un espediente drammaturgico ben noto al linguaggio della commedia, ma che, seppure in forma più attenuata e indiretta, sembra operativo anche per la tragedia. 4 Piuttosto numerose risultano le esortazioni a tacere rivolte al coro che sembrano assolvere tale funzione. Si consideri, ad esempio, il v. 865 del Filottete: siga`n keleuvw, mhd’ ajfestavnai frenw`n. Il protagonista della tragedia giace addormentato, vittima di un attacco del terribile male che lo a∫igge e il coro ai vv. 827-864 intona un canto mediante il quale tenta di convincere Neottolemo a scappare con l’arco di Filottete, sfruttando il momento opportuno. L’esortazione al silenzio (“ti ordino di tacere e di non uscire di senno”) non è solo funzionale ad impedire che l’eroe malato oda le parole del coro, ma serve anche a focalizzare l’attenzione dell’uditorio verso un punto cruciale della tragedia: con il risveglio di Filottete, infatti, Neottolemo è chiamato a scegliere quale via percorrere, quella del tradimento o quella della solidarietà.  



@   Si consideri, ad esempio, il caso di Soph. Phil. 865, discusso infra, in cui l’esortazione al silenzio, che Neottolemo rivolge al coro, ha come scopo principale quello di focalizzare l’attenzione sul risveglio dell’eroe, e, allo stesso tempo, quello di impedire che il coro riveli il tradimento che sta per essere messo in atto. 2   Salvo laddove diversamente indicato, i testi sono citati dalle edizioni di M. L. West (Eschilo), di H. Lloyd-Jones, N. G. Wilson (Sofocle) e di J. Diggle (Euripide). 3   Cfr. Montiglio 2000, pp. @58-@67. Tali esortazioni, sottolinea la studiosa (p. @68), erano considerate tipiche del linguaggio tragico, come sembra testimoniare la parodia contenuta in Ar. Thesm. 570 ss. L’arrivo dell’eπeminato Clistene (scambiato addirittura per una donna: kai; ga;r gunhv ti~ hJmi`n /ejspoudakui`a prostrevcei), ricalca una scena tipica della tragedia: quella dell’arrivo del nunzio che comunica una novità importante ai fini dell’intreccio. Aristofane fa precedere tale arrivo dall’esortazione a tacere (pri;n ou\n oJmou` genevsqai, /siga`q’, i{n’ aujth`~ kosmivw~ puqwvmeq’ a{tta levxei). 4  Pare forse troppo radicale l’opinione di Bain @975, p. 2@ secondo la quale in tragedia non sarebbe attestato “anything resembling the kind of direct appeal to the audience found so frequently in Old Comedy ...”. Cfr. Montiglio 2000, pp. @68-@73, in part. p. @72 n. 38.

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Si considerino, ancora, i vv. 72@-724 dell’Ecuba: w\ tlh`mon, w{~ se poluponwtavthn brotw`n daivmwn e[qhken o{sti~ ejstiv soi baruv~. ajll’ eijsorw` ga;r tou`de despovtou devma~ ∆Agamevmnono~, toujnqevnde sigw`men, fivlai.

Misera! Un dio, quale che sia, funesto, fa di te la mortale più infelice. Ma vedo la figura di Agamennone nostro padrone. Ora silenzio, amiche! @  

1

Alla regina è appena stato riconsegnato il cadavere del figlio Polidoro e il dialogo lirico-epirrematico tra il coro, Ecuba e l’ancella, è interrotto dalle parole della corifea, che esorta le amiche al silenzio. Tale invito segnala l’ingresso di un nuovo personaggio, Agamennone, e la transizione verso la seconda parte dell’episodio, nella quale Ecuba chiederà – e otterrà – l’aiuto di Agamennone per vendicarsi ai danni di Polimestore. Un ultimo, problematico, esempio merita di essere preso in considerazione: si tratta dei vv. 566-575 delle Eumenidi. Nel primo stasimo (vv. 490-565) le Erinni si lamentano dello stravolgimento che produrrebbe l’assoluzione di Oreste; senza di esse, infatti, verrebbe meno uno dei fondamenti su cui si basa la giustizia: il terrore. 2 Il coro passa poi ad aπrontare tematiche tipiche della teodicea eschilea, quali l’elogio di una vita secondo misura e rispettosa dell’altare di giustizia e il castigo che colpisce ineluttabilmente chi brama un guadagno eccessivo. Concluso il canto Atena prende nuovamente la parola:  

khvrusse, kh`rux, kai; strato;n kateirgaqou`, †ei[t’ ou\n † diavtoro~ Turshnikh; savlpigx broteivou pneuvmato~ plhroumevnh uJpevrtonon ghvruma fainevtw stratw`./ plhroumevnou ga;r tou`de bouleuthrivou siga`n ajrhvgei kai; maqei`n qesmou;~ ejmou;~ povlin te pa`san eij~ to;n aijanh` crovnon kai; touvsd’ o{pw~ a]n eu\ katagnwsqh` divkh. a[nax “Apollon, w|n e[cei~ aujto;~ kravtei. tiv tou`de soi; mevtesti pravgmato~ levge.

Da’ l’ordine araldo, e contieni la folla. E la penetrante tromba tirrenica, empita d’alito umano, diπonda tra il popolo il suo acuto squillo. Poiché questa corte si è completata, conviene che tutta la città e costoro, tacciano ed apprendano le mie norme, eterne nel tempo, perché sia pronunciata un’equa sentenza. Apollo signore esercita il tuo potere sul dominio che ti appartiene: di’, che parte hai tu in questa contesa. 3  

@

  Tr. di F. M. Pontani.   Si consideri, ad, es., il v. 5@7: e[sq’ o{pou to; deino;n eu\, “vi sono momenti in cui il terrore è bene”. 3   Tr. di M. P. Pattoni. L’edizione di Page qui riprodotta (e la traduzione di Pattoni) attribuiscono gli ultimi due versi al coro: sui problemi di attribuzione delle battute vd. infra. 2

esortazioni al silenzio nella tragedia di v secolo

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Un primo problema (v. 573), riguarda i destinatari dell’esortazione al silenzio pronunciata da Atena. I codici M (Laurent. 32.9, x sec.) ed E (Salmantic. 233, xv sec.) riportano la lezione tovnd’, un accusativo singolare, riferito ad Apollo @ o ad Oreste. Suscita qualche perplessità il fatto che l’invito a tacere per apprendere i nuovi qesmoiv sanciti da Atena, non coinvolga le Erinni: anch’esse, infatti, sono parte in causa nel processo e sono dunque interessate alla creazione del nuovo tribunale. A ciò si aggiunga che l’esortazione della dea pone fine al canto delle Erinni e pare logico attendersi che esse per prime siano chiamate a tacere. Si noti, inoltre, che lo scolio antico di M leggeva verosimilmente tw`nd’, poiché commenta il verso con l’espressione tw`n ∆Areopagitw`n. Il pronome tovnd’ esibito da M ed E potrebbe forse essere conservato ipotizzando che esso sottintenda stratovn (cfr. vv. 566 e 569) e che con tale termine Atena indichi la “folla” di personaggi presenti sulla scena, ovvero Oreste, le Erinni, i giudici Areopagitici e, forse, anche un gruppo di cittadini ateniesi. 2 Si osservi, tuttavia, che il sostantivo stratov~, che ricorre altre tre volte nella tragedia (vv. 683; 762; 889), è sempre utilizzato per indicare il solo popolo ateniese. I codici tricliniani F (Laurent. [email protected], xiv sec.), G (Marc. gr. 6@6, xiv sec.), T (Neapol. ii fr. 3@, xiv sec.) presentano il genitivo tw`nd’, ma tale lezione pare di√cilmente difendibile in questo contesto: le congiunzioni te di v. 572 e kaiv di v. 573 sembrerebbero essere in correlazione tra loro. 3 Di qui la necessità di avere al v. 573 un pronome al caso accusativo. Due le congetture accolte dagli editori: touvsd’ di Hermann, riferito in questo contesto agli Areopagitici, a Oreste e alle Erinni, 4 e twvd’ di Voss, dietro al quale sarebbero da vedere solo i contendenti nel processo. Un secondo problema riguarda la distribuzione delle battute: i mss. pongono una paragraphos prima di v. 574, attribuendo così i vv. 574-575 al coro, ma tale assetto pare di√cilmente ammissibile. 5 In primo luogo Atena ha appena imposto il silenzio e sarebbe fuori luogo che le Erinni lo interrompessero così repentinamente; in secondo luogo, l’espressione w|n e[cei~ aujto;~ kravtei sembra più appropriata in bocca ad Atena (è la dea che come garante della disputa chiede ad Apollo di chiarire il suo ruolo nel processo); da ultimo la risposta di Apollo  

1









@

  Così Headlam-Thomson @966, ad.loc.   La presenza di personaggi muti che interpreterebbero il ruolo di cittadini durante il processo è oggetto di disputa. Secondo la maggioranza degli editori la loro presenza sarebbe testimoniata proprio dall’uso del termine stratov~, ma non sono mancate altre ricostruzioni: cfr. Taplin @977, p. 394; Sommerstein @989, p. @86. 3   West @990, ad loc. conserva il genitivo, ma non dà spiegazioni sulla costruzione della frase; la traduzione di Centanni, basata sul testo di West, non pare del tutto perspicua: “è opportuno che tutta la città faccia silenzio e senta quali sono le mie disposizioni, valide per sempre, e che in forza dei miei dettami si decida il verdetto di giustizia”. Il genitivo è conservato anche da Wilamowitz @9@4, pp. 3@2-3@3 – ma lo studioso ipotizza una lacuna tra il v. 57@ e il v. 572 –, e da Mazon @925, p. @54, che traduce: “il convient de faire silence et de laisser la citè toute entière entendre les lois qu’ici j’ai établis, pour durer à jamais, et, dès aujourd’hui, pour permettre à ces hommes de prononcer un juste arrêt”, ma la sintassi non pare convincente. 4  Così, tra gli editori più recenti, l’edizione oxoniense curata da Page e Di Benedetto @995, p. 5@9 n. @02. Sommerstein @989, p. @88 (id. 2008, ii pp. 426-427 e n. 2), pur accogliendo la congettura di Hermann, preferisce riferire l’accusativo ai soli giudici areopagitici, ma si avrebbe un’esortazione al silenzio rivolta a una serie di personaggi muti. Si osservi che, qualora si accolga touvsd’, non è agevole spiegare sul piano paleografico la genesi delle lezioni tovnd’ e tw`nd’ esibite dai manoscritti. Sidgwick @895, ii p. 38 ipotizza che il genitivo tw`nd’ possa essere stato erroneamente introdotto a causa del verbo katagignwvskw, che spesso (soprattutto quando assume il significato di “incolpare”) si costruisce con il caso genitivo. 5   Conservano l’attribuzione dei mss. Mazon, Headlam-Thomson e Page. 2

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pare rispettosa e formale, dunque adeguata ad una dea sua pari (ben diverso il tono con il quale il dio si rivolge alle Erinni). @  

1

Due aspetti meritano di essere presi in considerazione: @) le norme che dovranno garantire un’equa sentenza, sebbene preannunciate da Atena al v. 57@, saranno di fatto esposte solo ai vv. 68@-7@0; 2) Apollo entra in scena senza essere annunciato, probabilmente al v. 574, 2 e questo fatto sembrerebbe contravvenire alla convenzione teatrale in base alla quale l’arrivo dei personaggi è tendenzialmente annunciato. È doveroso sottolineare che tale convenzione non costituisce una regola assoluta e che nella superstite produzione tragica non mancano esempi di ingressi non annunciati. 3 Sulla base di queste due presunte anomalie Taplin ipotizza un complesso processo di corruzione e rimaneggiamento. Dopo il v. 57@, sostiene lo studioso, sarebbe necessario ipotizzare una lacuna di circa quaranta versi contenente il discorso di apertura di Atena, l’annuncio dell’arrivo di Apollo e forse anche il giuramento dei giudici e la convocazione dei testimoni. Di tutto ciò, prosegue Taplin, si sarebbe conservato solo una parte del discorso di Atena, che un anonimo copista avrebbe collocato, dopo un parziale riadattamento, ai vv. 68@706. 4 Le conclusioni dello studioso sulle condizioni del testo ai vv. 57@ ss. sono forse eccessive. Per quel che riguarda l’esposizione dei qesmoiv, preannunciata da Atena al v. 57@, ma realizzata solo cento versi più avanti, è stato opportunamente osservato che tale diπerimento pare essere il frutto non tanto di una maldestra costruzione della scena, ma piuttosto di una precisa scelta drammaturgica. Atena è in procinto di annunciare nuove norme che regolamentano l’amministrazione della giustizia; l’entrata di Apollo e la contesa verbale tra il dio, le Erinni e Oreste, riportano il pubblico a un mondo antico, dove vige una concezione arcaica della giustizia, basata sul concetto di vendetta di sangue. L’esposizione dei nuovi qesmoiv è allora sapientemente ritardata e collocata immediatamente prima di quel verdetto che sancirà un elemento di rottura con il passato, inaugurando un nuovo modo di amministrare la giustizia. 5 In merito all’ingresso non annunciato di Apollo, si osservi che ad esso segue una uscita altrettanto “silenziosa”, al punto che non è facile individuare con precisione il punto della tragedia in cui il dio abbandona la scena. Dunque, a meno di non postulare una corruzione anche ai vv. 754 ss., è forse preferibile pensare che Eschilo abbia voluto conferire un valore preciso alle modalità di entrata e di uscita di Apollo. Il fatto che esse si realizzino senza annunci, in maniera discreta e quasi silenziosa, sembra funzionale al ruolo  







@

  Cfr. Taplin @977, p. 396; Sommerstein @989, pp. @89-@90.  Taplin @977, pp. 396-397 sottolinea come l’ipotesi di un ingresso al v. 566 insieme a – o separatamente da – Atena paia poco probabile, “because his arrival would then be unexplained and unnoticed”; le stesse considerazioni valgono anche per un’entrata del dio tra i vv. 566-573. Pur con molte perplessità, lo studioso non esclude la possibilità di un ingresso al v. 574; non mancano, infatti, esempi di attori sulla scena che si rivolgono ad altri attori appena entrati, prima ancora che questi ultimi abbiano preso la parola, “particularly if the speaking actor is of superior status, as Athena is here (cfr. e.g. Soph. Ant. 530, 632, Trach. 227; Eur. IT @@57, Hel. @@84, Or. @32@)”. 3  Cfr., ad esempio, Soph. Aj. @3@6. Sull’argomento si veda Di Benedetto-Medda @997, pp. 4 @93-@96.   Cfr. Taplin @977, pp. 398-40@. 5   Cfr. Winnington-Ingram @983, p. @50; Conacher @987, pp. @59-@62. 2

esortazioni al silenzio nella tragedia di v secolo

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che il dio ricopre nella scena: quello di testimone in un processo che si svolge nella città protetta da un’altra divinità, Atena. 1 Se si conserva il testo ai vv. 57@ ss., rimane da chiedersi quale funzione svolga in questo frangente l’esortazione al silenzio. Analogamente a quanto accade nei passi precedentemente analizzati, anche in questo caso l’invito a tacere ha la funzione di catturare l’attenzione, sia dei personaggi sia, indirettamente, del pubblico su quanto per accadere sulla scena. L’attesa che si viene a creare attorno alle parole che Atena è in procinto di pronunciare è, almeno per il momento, disattesa e questo momento di “attenzione collettiva” è sfruttato per far entrare un nuovo personaggio in scena, Apollo, 2 con il quale si apre la scena del dibattimento. 3  





2. Silenzio del coro e silenzio dei performer In questa seconda categoria sono riuniti i passi in cui un personaggio chiede ai coreuti di fare silenzio perché l’eccessivo rumore prodotto dal canto e dalla danza rischia di svegliare un personaggio addormentato. Nei due casi che andrò ad esaminare (Eracle e Oreste) 4 l’esortazione a tacere sembra essere rivolta non  

@

 Cfr. Sommerstein @989, p. @89. Winnington-Ingram @983, p. @49 osserva come il distacco con cui Atena si rivolge a Apollo, quando questi fa la sua comparsa in scena, sia intenzionale e funzionale alla situazione drammaturgica. Atena, infatti, presiede la giuria, mentre Apollo è parte della disputa: la sua imparzialità è essenziale ad evitare l’impressione di un possibile accordo tra i due, tanto più che la dea finisce per sostenere l’argomento di Apollo. 2  Non paiono cogliere pienamente nel segno le spiegazioni di Moutsopoulos @959, p. 38 e Montiglio 2000, p. @68, secondo i quali lo scopo del silenzio sarebbe quello di richiamare l’attenzione su quanto Atena sta per dire, sottolineando il momento di particolare solennità. Di fatto Atena non annuncia in questo frangente le nuove norme e, dunque, il silenzio pare finalizzato a marcare qualcosa di diverso. 3  Riporto qui di seguito altri esempi di questa prima tipologia: in Aesch. Ag. @344 è il corifeo che chiede il silenzio, subito dopo avere sentito le grida di Agamennone provenienti dall’interno della reggia (si`ga: tiv~ plhgh;n ajutei` kaivr∆ wJ~ oujtasmevno~...). In Soph. El. @398-@399 (w\ fivltatai gunai`ke~, a{ndre~ aujtivka /telou`si tou[rgon: ajlla; si`ga provsmene) Elettra uscita dalla reggia chiede il silenzio delle giovani donne di Micene, focalizzando l’attenzione sul delitto che sta per compiersi all’interno del palazzo. In Eur. Hipp. 565 è Fedra che chiede alle coreute di tacere, per udire quanto sta accadendo all’interno: sighvsat’, w\ gunai`ke~: ejxeirgavsmeqa. L’esortazione al silenzio convoglia l’attenzione del coro e dell’uditorio su un avvenimento cruciale per lo sviluppo della tragedia: si tratta del “tradimento” della nutrice, che svela ad Ippolito l’incestuoso amore della matrigna. In Or. @3@@-@3@2 (siga`te siga`t’: hj/sqovmhn ktuvpou tino;~ / kevleuqon ejspesovnto~ ajmfi; dwvmata) è la corifea che pone fine al canto del coro per richiamare l’attenzione sull’arrivo di Ermione. Sempre la corifea ai vv. @366-@368 (ma i vv. sono espunti in alcune edizioni) interrompe il canto per introdurre l’arrivo sulla scena del Frigio, che con la sua monodia racconta l’assalto di Oreste e Pilade contro Elena. In IT 458-460 (siga`te, fivlai: / ta; ga;r ÔEllhv- nwn ajkroqivnia dh; / naoi`si pevla~ tavde baivnei) è ancora la corifea che richiama le compagne al silenzio, poiché i due stranieri greci (Oreste e Pilade), trascinati sulla scena in catene, stanno per essere sacrificati. Nell’Andromaca @42-@46 fovbw/ d’ / hJsucivan a[gomen / (to; de; so;n oi[ktw/ fevrousa tugcavnw) / mh; pai`~ ta`~ Dio;~ kovra~ / soiv m’ eu\ fronou`san eijdh`,/ le donne di Ftia annunciano il proprio silenzio alla fine della parodo. Esse, infatti, temono che Ermione, che sta facendo il suo ingresso in scena, intuisca la compassione che provano per Andromaca. Il richiamo al silenzio anche in questo caso sembra focalizzare l’attenzione sull’arrivo di un nuovo personaggio. 4   I due passi, che descrivono entrambi la medesima situazione (un eroe malato rischia di essere svegliato dal canto del coro), presentano stringenti somiglianze, anche nella scelta dei termini utilizzati: cfr. Bond @98@, pp. 332-333; Willink @986, p. @04.

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solo al coro-personaggio drammatico, ma anche – e soprattutto – al coro inteso come gruppo di performer. Tali passi paiono di particolare interesse perché con essi si assiste all’incontro/scontro tra il livello della finzione drammatica, in base al quale il coro rappresenta un anonimo gruppo di vecchi tebani o di vecchie argive, con quello della performance orchestica, all’interno della quale il coro rappresenta, invece, un gruppo di cantori-ballerini. @ Si considerino, ad esempio, i vv. @042-@060 dell’Eracle:  

1

Co. Am.

Kadmei`oi gevronte~, ouj si`ga si`ga to;n u{pnwi pareimevnon ejavset’ ejklaqevsqai kakw`n… kata; se; dakruvoi~ stevnw, prevsbu, kai; tevkea kai; to; kallivnikon kavra. eJkastevrw provbate, mh; ktupei`te, mh; boa`te, mh; to;n eu[di’ ijauvonq’ uJpnwvdeav t’ eujna`~ ejgeivrete. Co. oi[moi, fovno~ o{so~ o{d’ Am. a\ a\, diav m’ ojlei`te. kecumevno~ ejpantevllei. oujk ajtremai`a qrh`non aijavxet’, w\ gevronte~… h] devsm’ ajnegeirovmeno~ calavsa~ ajpolei` povlin, ajpo; de; patevra, mevlaqrav te katarrhvxei. ajduvnat’ ajduvnatav moi. si`ga, pnoa;~ mavqw: fevre, pro;~ ou\~ bavlw.

Am. Co. Am. Co. Am. Co. Am.

Silenzio, silenzio, vecchi Cadmei, Lasciate che, nell’abbandono del sonno, dimentichi le sue sciagure. È per te, vecchio, che piango le mie lacrime, e per i figli e per il capo che ha cinto la corona del trionfo. Andate più in là, non fate rumore, non gridate. Non risvegliatelo mentre, vinto dal sonno, riposa quietamente. Co. Ahimé, Quanto sangue ... Am. Ah! Ah! Mi ucciderete! ... versato si rivela al mio sguardo! Intonate senza agitarvi il vostro canto funebre, vecchi. O farà strage, ridestandosi e sciogliendo i legami, dei cittadini e del padre e abbatterà la casa. Non posso, no, non posso. Silenzio, ch’io ne ascolti il respiro e accosti l’orecchio. 2

Am.



Co. Am.





@  Già Arnott @985, pp. @50-@52 richiamava l’attenzione su questi passi, concludendo che il pubblico ateniese non doveva trovare nulla di spiacevole in tali manifestazioni del conflitto tra 2 convenzione corale e realismo drammatico.   Tr. di M. S. Mirto.

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Preda di un accesso di follia, che lo ha portato ad uccidere i propri figli, l’eroe giace ora addormentato, dopo essere stato colpito al petto da un macigno scagliato da Atena (vv. 922-@0@5). Il coro intona un canto (vv. @0@6-@04@) con il quale lamenta le tristi sorti di Eracle, che i servitori, sfruttando il suo sonno, stanno ora legando con nodi e catene a pilastri di pietra. Al v. @04@ Amfitrione entra nuovamente in scena e inizia un dialogo lirico con il coro, nel quale chiede ripetutamente ai vecchi di fare silenzio: “Silenzio, silenzio, vecchi Cadmei, Lasciate che, nell’abbandono del sonno, dimentichi le sue sciagure” (vv. @042-@044). Ancor più significativi i vv. @053-@054, con i quali il vecchio padre fa riferimento a uno specifico tipo di canto intonato dal coro: il qrh`no~. Sul piano della finzione drammatica ha poco senso che i vecchi tebani eseguano un canto e, soprattutto, danzino; @ è la performance del coro, inteso come gruppo di cantori-ballerini, che Anfitrione tenta di far tacere. Ancor più emblematico il caso dell’Oreste di Euripide. La tragedia si apre con il prologo recitato da Elettra che veglia il fratello addormentato e aπetto da un grave morbo: il sangue della madre, dice la giovane, lo scuote con attacchi di follia. Dal momento del funerale di Clitemestra egli non si è più lavato né ha interrotto il digiuno, ma trascorre i giorni a piangere coperto dalle coltri. Le parole di Elettra sono interrotte dall’arrivo di Elena intenzionata a portare libagioni sulla tomba della sorella, ma timorosa del rancore degli Argivi. A√date le libagioni a Ermione, Elena rientra in casa e ha inizio la parodo (vv. @40-@50; @70-@72; @83-@86): 2  

1



Hl. Co. Hl. Co.

si`ga si`ga, lepto;n i[cno~ ajrbuvlh~ tivqete, mh; ktupei`te, [mh; ’stw ktuvpo~] ajpopro; ba`t’ ejkei`s’, ajpoprov moi koivta~. ijdouv, peivqomai. a\ a\ suvriggo~ o{pw~ pnoa; leptou` dovnako~, w\ fivla, fwvnei moi. i[d’ ajtremai`on wJ~ uJpovrofon fevrw boavn. Hl. naiv, ou{tw~: kavtage kavtage, provsiq’ ajtrevma~, ajtrevma~ i[qi: lovgon ajpovdo~ ejf’ o{ti crevo~ ejmovletev pote. crovnia ga;r pesw;n o{d’ eujnavzetai.

... Hl. oujk ajf’ hJmw`n, oujk ajp’ oi[kwn



pavlin ajna; povda so;n eiJlivxei~ meqemevna ktuvpou…

@   Si noti a tal proposito l’aπermazione di J. S. Rusten (in Henrichs @994-95, p. 97) a proposito di Soph. OC @0: “an odd question coming from the old men of Thebes, who as characters in this play (rather than performers) are not really dancing at all” (mio il corsivo). 2   Riporto qui di seguito il testo e la traduzione di Medda 200@, con l’unica eccezione di v. @4@ dove, con la maggioranza degli editori, considero interpolata l’espressione mh;d’ e[stw ktuvpo~ dei mss. (mh; ’stw ktuvpo~ è congettura metri causa di Lachmann). Argomentazioni a favore dell’espunzione si trovano in Willink @986, pp. @06-@07. Per i problemi relativi alle diverse attribuzioni delle battute iniziali vd. infra.

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Hl.

...

ktuvpon hjgavget’: oujci; si`ga si`ga fulassomevna stovmato~ †ajnakevladon† ajpo; levceo~ h{ sucon u{pnou cavrin parevxei~, fivla…

El. Zitte, Zitte, Appoggiate leggere l’orma del calzare; non fate rumore, [non vi sia rumore]. Andate lontano, là, lontano dal letto. Co. Ecco, obbedisco. El. Ah! ah! parlami con voce simile al so√o di una fistola di canna sottile, mia cara. Co. Guarda: sommesso io levo, come fosse sotto un tetto, il suono della mia voce. El. Sì, va bene così: Accosta, Accosta, avvicinati piano, piano avvicinati Spiegami qual è mai il motivo per cui siete venute. Dopo tanto tempo si è steso a letto e si è addormentato. ... El. Vuoi tornare sui tuoi passi e andartene via da noi, via dalla casa, smettendo di fare rumore? ... El. Avete fatto rumore! Non vuoi dunque concedergli, amica mia, il quieto dono del sonno, in silenzio, in silenzio lontano dal letto trattenendo il frastuono della bocca? Anche per i vv. @40-@4@, che contengono l’esortazione al silenzio, si pongono problemi di attribuzione. I mss. (MAVBLP) li assegnano al coro, ma un cospicuo numero di fonti antiche li attribuisce a Elettra: così l’hypothesis di Aristofane di Bisanzio (e[sti de; uJponoh`sai tou`to ejx w|n fhsin ’Hlevktra “si`ga si`ga, lepto;n i[cno~ ajrbuvla~”), Dion. Hal. De comp. verb. @@, 97 (th;n ’Hlevktran levgousan ejn ∆Orevsth/ pro;~ to;n corovn: sivga si`ga, leuko;n i[cno~ ajrbuvlh~ tivqete, mh; ktupei`t’: ajpopro; ba`t’ ejkei`s’, ajpoprov moi koivta~.), Diog. Laert. 7, @72 (“to; th`~ ’Hlevktra~, e[fh (Eur. Or. @40), si`ga, si`ga, lepto;n i[cno~) e Psell. De Euripide et Georgio Pisida iudicium. @ Gli editori moderni si dividono. Di Benedetto ha sostenuto con valide argomentazioni l’attribuzione delle battute a Elettra, 2 e tale distribuzione è accolta anche nella più recente edizione curata da Kovacs. 3 Willink, al contrario, preferisce attribuire i versi al coro, sostenendo che in tal modo si preserverebbe una perfetta simmetria nella distribuzione delle battute tra strofe a antistrofe. 4  

1







La parodo si configura come un dialogo lirico, composto prevalentemente in docmi, tra il coro e Elettra. A più riprese quest’ultima esorta al silenzio @

  Cfr. Musso @978, pp. 607-7@3. 3   Cfr. Di Benedetto @96@, pp. 3@2-3@4; @965, pp. 34-35.   Cfr. Kovacs 2002, p. 426. 4   Willink @986, p. @05. Così anche le due edizioni oxoniensi, curate da O. Murray e J. Diggle, e West @987, pp. @9@-@92. Di Benedetto @96@, pp. 3@2-3@4 ha tentato di mostrare come tale simmetria nella distribuzione delle battute tra strofe e antistrofe non paia sempre rispettata nell’ultimo Euripide. Non concorde risulta anche l’attribuzione dei vv. @74-@8@a: a favore di Elettra si pronunciano Willink @986, p. @@5; West @987, p. 72 e Kovacs 2002, p. 430; a favore del coro si schierano, invece, Di Benedetto @965, p. 4@ e Medda 200@, pp. @66-@67. 2

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le donne argive, nel timore che il rumore prodotto possa svegliare Oreste. Come nel passo dell’Eracle, anche in questo frangente Elettra fa esplicito riferimento al rumore prodotto dal canto e dalla danza del coro. Si consideri, ad esempio, l’espressione lepto;n i[cno~ di v. @40, dove i[cno~ può significare non solo l’“orma”, ma anche il “passo” di danza, come in Eur. El. 859 qe;~ ej~ coro;n, w| fivla, i[cno~ “muovi il piede alla danza, o cara”; il verbo ktuvpw (vv. @4@; @72; al v. @83 ricorre ktuvpon) che potrebbe qui indicare il rumore dei passi; @ o ancora l’espressione ajna; povda so;n eiJlivxei~ (v. @7@), che indica un movimento circolare del piede. 2 Non mancano, poi, riferimenti al tipo di canto intonato: con l’espressione suvriggo~ pnoa; leptou` dovnako~ (vv. @45-@46) Elettra chiede al coro di cantare con una voce leggera come il so√o della suvrigx, uno strumento sentito nella tradizione poetica come adatto al riposo e al sonno. Anche il coro indugia a descrivere il proprio canto, quando aπerma i[d’ ajtremai`on wJ~ uJpovrofon fevrw boavn, “Guarda: sommesso io levo, come fosse sotto un tetto, 3 il suono della mia voce” (vv. @47-@48). In quest’ultimo caso ci troviamo di fronte a una di quelle espressioni che Albert Henrichs ha felicemente definito “autoreferenziali”. 4 Si tratta di espressioni meta-teatrali e mimetiche, nelle quali il coro fa esplicito riferimento alla propria performance corale: si considerino ad i vv. 372-375 delle Eumenidi “con odiosi movimenti di danza del piede” ... “dunque molto saltando faccio cadere la punta pesante del piede”; Soph. OT 895-896 tiv dei` me coreuvein “perché dovrei danzare”. In tutti questi casi i coreuti pronunciano tali “asserzioni autoreferenziali”, 5 non in qualità di personaggio drammatico, ma in qualità di gruppo di cantori e ballerini che, descrivendo gli aspetti della performance, enfatizzano la propria identità di coro lirico. Lungi dal rompere l’illusione scenica tali espressioni conducono l’uditorio in una rappresentazione teatrale complessa: la performance ha luogo nel concreto spazio dell’orchestra, ma è simultaneamente proiettata nel passato immaginario dell’azione drammatica. Nel passo dell’Oreste, come nel passo dell’Eracle, la richiesta di silenzio sembra rivolta, dunque, non solo al coro personaggio drammatico, ma anche ai ballerini-cantori, impegnati ad eseguire un canto e una danza che minacciano di svegliare gli eroi addormentati. In entrambi i casi si assiste ad una sovrapposizione tra il livello della finzione drammatica, che sposta l’azione nel passato mitico, e  

1









@

 Cfr. Willink @986, ad loc.; diversamente Medda 200@, pp. @66-@67 n. 27, a proposito di

ktuvpon (v. @8@) preferisce pensare al rumore prodotto con la bocca e non con i piedi. 2   Cfr., ad esempio, Eur. IA 2@5: podoi`n eJlivsswn, “vorticando coi piedi”, riferito alla danza di

Achille. 3   Lo scolio antico al verso fa derivare l’aggettivo da o[rofo~, un tipo di canna fragile e simile al papiro che produrrebbe un suono debole e flebile: oJ de; o[rofo~ kavlamov~ ejstin ajsqenhv~ te kai; lepto;~ kai; papurwvdh~, ou| mevmnhtai kai; ”Omhro~ [W 45@]: ‘lacnhvent’ o[rofon leimwnovqen ajmhvsante~’. ejk touvtwn dev eijsi kai; aiJ glwssivde~ tw`n aujlw`n. wJ~ ajsqenh;~ de; ajsqenh` poiei`tai th;n ajphvchsin tw`/ mh; ajnqivstasqai th` biva/ tou` pneuvmato~ (i p. @@2, @8-22) Schwartz. Più plausibilmente l’aggettivo è legato a uJpwvrofo~ e significa letteralmente, “che sta sotto il tetto, domestico”: cfr. Di Benedetto @965, p. 36; Willink @986, p. @08. 4   Cfr. Henrichs @994-95, p. 58; @996, pp. 48-49; Calame @999, pp. @30-@32. 5   Sia l’ u{mno~ devsmio~ delle Eumenidi sia il passo sofocleo sono analizzati da Henrichs @994-95, pp. 60-73.

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quello della performance corale che viene eseguita nell’orchestra del teatro di Dioniso. @  

1

3. Silenzio del coro e complicità L’ultima tipologia presa in esame riguarda i casi in cui un personaggio chiede al coro di tacere un segreto: si consideri, ad esempio, la richiesta di silenzio rivolta da Fedra alle donne del coro, a√nché non rivelino nulla di quanto hanno appena udito circa l’insana passione verso il figliastro. 2 Spesso tale richiesta è funzionale alla realizzazione di un piano ben preciso, che può consistere in un assassinio (Coefore, Ifigenia in Aulide, Medea), 3 nella fuga da un paese straniero (Elena e Ifigenia in Tauride), 4 nella somministrazione di un filtro d’amore (Trachinie), 5 in un atto di devozione sulla tomba del padre ucciso (Elettra di Sofocle), 6 o ancora nel tentativo di tenere nascosta l’identità di un personaggio (Ione). 7 È stato da più parti sostenuto che la complicità del coro costituisce una sorta di elemento convenzionale del genere tragico: il coro, infatti, dopo la parodo, risiede stabilmente sulla scena e risulterebbe impossibile agli attori ordire piani senza coinvolgere direttamente il coro stesso. 8 Tale spiegazione, che considera la complicità del coro come la so 













@   Arnott @985, p. @52, richiama opportunamente l’attenzione su un parallelo significativo: si tratta dei vv. 624 ss. del Ciclope euripideo: siga`te pro;~ qew`n, qh`re~, hJsucavzete, / sunqevnte~ a[rqra stovmato~: oujde; pnei`n ejw,` / ouj skardamuvssein oujde; crevmptesqaiv tina, / wJ~ mh; ‘xegerqh`/ to; kakovn, e[st’ a]n o[mmato~ / o[yi~ Kuvklwpo~ ejxamillhqh`/ puriv. Odisseo richiama al silenzio il coro di satiri, che con il proprio canto rischiano di svegliare Polifemo. 2  Cfr. Eur. Hipp. 7@0-7@2: uJmei`~ dev, pai`de~ eujgenei`~ Trozhvniai, / tosovnde moi paravscet’ ejxaitoumevnh/: / sigh`/ kaluvyaq’ aJnqavd’ eijshkouvsate. 3   Il passo delle Coefore è analizzato più avanti (p. @85 ss.). Nell’Ifigenia in Aulide (v. 542) è Agamennone che chiede alle donne di Calcide di tacere l’empio delitto che sta per essere compiuto: uJmei`~ de; sighvn, w| xevnai, fulavssete. Nella Medea è la maga della Colchide ad ottenere la solidarietà del coro (vv. 259-263): tosou`ton ou\n sou tugcavnein boulhvsomai, / h[n moi povro~ ti~ mhcanhv t’ ejxeureqh`/ / povsin divkhn tw`nd’ ajntiteivsasqai kakw`n /[to;n dovnta t’ aujtw`/ qugatevr’ h{n t’ ejghvmato], / siga`n ... 4  Nell’Elena la protagonista chiede la complicità del coro di schiave greche a√nché non riveli a Teoclimeno il piano di fuga (vv. @387-@389): sightevon moi: kai; se; prospoiouvmeqa / < > / eu[noun kratei`n te stovmato~, h]n dunwvmeqa / swqevnte~ aujtoi; kai; se; sussw`saiv pote. Diggle, riprendendo un’idea di Hartung, ipotizza una lacuna dopo v. @387 (cfr. Burian 2007, p. 276). I problemi testuali non rendono meno perspicua la richiesta di “tenere la bocca chiusa” rivolta al coro. Una situazione analoga ricorre in IT @063-@064, dove Ifigenia esorta al silenzio le schiave per la buona riuscita della fuga: sighvsaq’ hJmi`n kai; sunekponhvsate / fugav~: kalovn toi glw`ss’ o{tw/ pisth; parh`./ 5   Cfr. Soph. Trach. 596-597. All’inizio del secondo episodio Deianira rientra in scena e, dopo, aver raccontato alle donne del coro il progetto di somministrare ad Eracle un potente filtro d’amore, chiede il loro silenzio: Movnon par’ uJmw`n eu\ stegoivmeq’: wJ~ skovtw/ / ka]n aijscra; pravssh/~, ou[pot’ aijscuvnh/ pesh`. 6   Crisotemi, convinta dalle parole di Elettra a non portare i “perfidi omaggi” di Clitemestra sulla tomba del padre e a pregare a√nché Agamennone e Oreste portino a termine la vendetta contro i nemici, chiede il silenzio del coro su quanto sta per compiere (vv. 468-47@): peirwmevnh/ de; tw`nde tw`n e[rgwn ejmoi; / sigh; par’ uJmw`n pro;~ qew`n e[stw, fivlai: / wJ~ eij tavd’ hJ tekou`sa peuvsetai, pikra;n /dokw` me pei`ran thvnde tolmhvsein e[ti. 7   Xuto intima alle serve di Creusa di mantenere il silenzio circa l’identità di Ione, pena la morte (vv. 666-667): uJmi`n de; siga`n, dmwivde~, levgw tavde, / h] qavnaton eijpouvsaisi pro;~ davmart’ ejmhvn. 8   Cfr. Paduano @984-85, p. 259; Mastronarde 2002, p. 2@6.

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luzione più ovvia a una mera esigenza tecnica pare forse troppo riduttiva. Come è stato giustamente osservato, il tragediografo poteva impedire che il coro udisse i piani segreti di un personaggio, ricorrendo alla metavstasi~, ovvero all’uscita temporanea dei coreuti. @ Nell’Aiace (vv. 8@5-865) il coro di marinai abbandona la scena cosicché il suicidio del protagonista possa compiersi senza testimoni. Nell’Alcesti (vv. 746-860), grazie all’uscita del coro, Eracle può descrivere il proprio piano di salvataggio a favore della moglie di Admeto. Nel Reso (vv. 565-674) Ulisse e Diomede possono entrare di nascosto sfruttando la temporanea assenza delle sentinelle. 2 Si osservi, inoltre, che la complicità del coro, lungi dall’essere una mera convenzione, sembra costituire, invece, un’importante risorsa drammaturgica, della quale i tre tragediografi, e in particolare Euripide, si sono serviti per creare situazioni molto diverse tra loro. Basti pensare al conflitto che vive il coro nella Medea: mosse a compassione dalle parole della protagonista (vv. 2@4266), le donne corinzie promettono di non tradirla quando questa avrà messo a punto il proprio piano di vendetta (vv. 267-270). La solidarietà delle coreute, tuttavia, viene messa a dura prova quando Medea rivela l’intenzione di uccidere i propri figli (764-8@0): pur mantenendo il silenzio, esse esprimeranno la propria disapprovazione per le turpi azioni di cui Medea è in procinto di macchiarsi. Significativo è anche il caso dello Ione, dove il coro di serve tradisce la richiesta di segretezza avanzata da Xuto, rivelando alla regina il responso del dio: proprio questo tradimento innesca lo sviluppo della seconda parte della tragedia, basata sul progetto di Creusa di uccidere Ione. Tra le attestazioni di tale tipologia di silenzio, merita una attenzione particolare il passo delle Coefore, in cui Oreste chiede la complicità del coro. Dopo aver onorato insieme a Elettra la tomba del padre, “che non aveva avuto compianto” (v. 5@@), Oreste viene a conoscenza del terribile incubo che ha turbato a tal punto Clitemestra, da spingerla a inviare libagioni sul sepolcro di Agamennone. L’interpretazione del sogno narrato dalla corifea è chiara per il protagonista; il serpente avvolto in fasce, che si nutriva del latte e del sangue di Clitemestra, altri non può essere che Oreste stesso: “bisogna allora che lei, proprio come nutrì l’orribile mostro, abbia morte violenta: ed io fattomi serpente, sono io che la uccido, come  

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 Sulla metavstasi~ nel teatro greco cfr. Di Benedetto-Medda @997, pp. 239-240.  Cfr. Arnott @985, p. @48; Paduano @984-85; Montiglio 2000, pp. 252-253. La studiosa, in particolare, nota come, tra le due possibilità drammaturgiche che il tragediografo aveva a disposizione per impedire che un segreto venisse divulgato, ovvero garantirsi il silenzio o far uscire i coreuti dalla scena, la prima sia tendenzialmente riservata ai cori femminili, la seconda ai cori maschili. A ciò si aggiunga, prosegue Montiglio, che nella maggioranza dei casi sono personaggi femminili a ottenere il silenzio del coro. La complicità delle coreute, dunque, sarebbe attribuibile nella maggioranza dei casi alla solidarietà femminile: “Within a society, that of democratic Athens, in which silent seclusion is the condition imposed on woman in real life, it is not surprising that are experts at the conniving silences also on the stage” (cfr. Montiglio 2000, p. 256). Non mancano eccezioni (rilevate anche da Montiglio 2000, p. 253 n. 5): nella Coefore è un uomo che chiede e ottiene la complicità del coro (la studiosa ipotizza che qui il ruolo di Oreste “can be explained by the special relationship that he entertains with Apollo and with the god’s own orders of silence”), nell’Ifigenia in Tauride le donne del coro mantengono il segreto di Agamennone e dunque non solidarizzano con la protagonista. Sul silenzio, legato al tema della solidarietà femminile nelle tragedie euripidee si veda anche Chong Gossard 2008, p. @55-203. 2

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dice questo sogno” (vv. 548-550). @ Su invito del coro il giovane mette a punto il piano di vendetta (vv. 554-584): Elettra dovrà rientrare in casa mantenendo il segreto e controllando bene quanto avviene all’interno, mentre egli insieme a Pilade si presenterà alla porta, fingendo di essere uno straniero proveniente dalla Focide. Una volta all’interno Egisto potrà finalmente trovare la morte. L’ultimo tassello per la buona riuscita dell’azione di vendetta è la complicità del coro, che Oreste richiede con le seguenti parole: uJmi`n d’ ejpainw` glw`ssan eu[fhmon fevrein, siga`n q’ o{pou dei` kai; levgein ta; kaivria, “e a voi raccomando di tenere pura la lingua da auspici cattivi, di tacere a suo luogo e di dire ciò che è opportuno” (vv. 58@-582). 2 Il v. 582, che ricorre con lievi variazioni in altri passi tragici, 3 ha suscitato le perplessità di molti studiosi: Dindorf, ad esempio, suggeriva di espungerlo, ritenendolo una interpolazione confluita nel testo. 4 Dawe osservava che la seconda parte di v. 582 (“di’ cose opportune”) sembra essere in contrasto con la richiesta di silenzio fatta al v. 58@ (glw`ssan eu[fhmon). 5 Si noti, tuttavia, che il termine eujfhmiva, come è stato ben evidenziato da alcuni studi recenti, non indica sempre un silenzio totale, ma implica spesso una duplice azione: quella di tacere parole nefaste e, al tempo stesso, quella di pronunciare un discorso benaugurale e opportuno. 6 Il v. 582, dunque, sembra illustrare con precisione il significato del termine eu[fhmon nella sua duplice accezione. 7 Se è facilmente comprensibile che cosa il coro debba tacere, appare sicuramente più arduo individuare in che cosa consistano i discorsi opportuni, ta; kaivria. Garvie richiama l’attenzione su due passi: i vv. 766 ss., con i quali il coro, attraverso un breve scambio di battute con la nutrice, ottiene che Egisto entri nel palazzo privo di una scorta armata, e i vv. 848-850, mediante i quali le schiave esortano Egisto ad entrare per accertarsi che la notizia della morte di Oreste sia vera. Le osservazioni dello studioso sono senza dubbio valide. Nei passi citati, infatti, si assiste ad una fatto raro: il coro non si limita a mantenere un segreto, ma collabora attivamente alla riuscita del piano. L’esortazione di Oreste a “dire cose opportune”, tuttavia, non si concretizza solo nelle parole che il coro rivolge alla nutrice e a Egisto, ma influenza, a mio avviso, anche l’argomentazione che il coro sviluppa nel primo stasimo. 8  

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str. A @ polla; me;n ga` trevfei 585 str. A : esempi mostruosi tratti deina; {kai;} deimavtwn a[ch, dal mondo naturale povntiaiv t∆ ajgkavlai knwdavlwn ajntaivwn brotoi`si 5 plhvqousi. blastou`si kai; pedaivcmioi lampavde~ pedavoroi 590 ptanav te kai; pedobav@

2   Tr. di L. Battezzato.   Tr. di L. Battezzato.   Cfr. Aesch. Sept. 6@9; Eum. 277-278; Eur. Or. 638-639; fr. 4@3, 2 Kn. Cfr. anche Aul. Gell. Noct. Att. @3, @9, 4. 4   Cfr. Dindorf @830, p. x. Lo studioso sosteneva che il coro nel prosieguo della tragedia non dicesse nulla di opportuno, ma si limitasse a tacere. 5   Cfr. Dawe @963, p. 56 n. 2. 6   Cfr. Montiglio 2000, p. @6 e, in particolare, Gödde 2004; 20@@. 7   Sia nei testi comici (cfr., ad es., Ar. Ra. 354) sia in quelli tragici (Aesch. Eum. @035, @038; Eur. Bacch. 70; IT 456) il coro utilizza tale termine per invocare il silenzio prima della celebrazione di 8 un rito.   Per il testo e l’analisi del primo stasimo rinvio a Galvani 20@2 e 20@5. 3

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mona kajnemoevnt∆ a[n aijgivdwn fravsai kovton. ant. A @ ajll∆ uJpevrtolmon ajn dro;~ frovnhma tiv~ levgoi 595 kai; gunaikw`n fresi;n tlhmovnwn{kai;} pantovlmou~ 5 e[rwta~, a[taisi sunnovmou~ brotw`n… xuzuvgou~ d∆ oJmauliva~ qhlukrath;~ ajpevrw­- 600 to~ e[rw~ paranika`/ knwdavlwn te kai; brotw`n.

ant. A: terribili eπetti prodotti dalle passioni umane, in particolare dalle passioni femminili

str. B @ i[stw d∆, o{sti~ oujc uJpovptero~ frontivsin: daeiv~ ta;n aJ paidoluv­- 605 ma~ tavlaina Qestia;~ mhvsato 5 purdah` tina provnoian, kaivqousa paido;~ dafoinovn dalo;n h{lik∆, ejpei; molwvn matrovqen kelavdhse, 6@0 xuvmmetrovn te dia bivou @0 moirovkranton ej~ h\mar.

str. B: mito di Altea

ant. B @ a[lla d∆ h\n tin∆ ejn lovgoi~ stugei`n, ant. B: mito di Scilla foinivan Skuvllan, a{t∆ ejcqrw`n uJpai; 6@5 fw`t∆ ajpwvlesen fivlon, Krhtikoi`~ 5 cruseodmhvtoisin o{rmoi~ piqhvsasa dwvroisi Mivnw, Ni`son ajqanavta~ tricov~ nosfivsasa probouvlw~ 620 pnevonq∆ aJ kunovfrwn u{pnw/: @0 kigcavnei dev nin ÔErma`~. str. C @ ejpei; d∆ejpemnasavmhn ajmeilivcwn str. C: riflessione del coro sull’inadeguatezza povnwn, ajkaivrw~ de;, dusfile;~ gamhv-­ delle proprie argomentazioni leum∆ajpeuvceton dovmoi~ 625 gunaikobouvlou~ te mhvtida~ frenw`n 5 ejp∆ajndri; teucesfovrw/ †ejp∆ajndri; dhi?oi~ ejpikovtw/ sevba~† tivwn d∆ajqevrmanton eJstivan dovmwn gunaikeivan a[tolmon aijc mavn. 630 ant. C @ kakw`n de; presbeuvetai to; Lhvmnion ant. C: i mali di Lemno lovgw/: boa`tai de; dhvmoqen katav­ ptuston, h[/kasen dev ti~ to; deino;n au\ Lhmnivoisi phvmasin. 5 qeostughvtw/ d∆ a[gei 635 brotw`n ajtimwqe;n oi[cetai gevno~: sevbei ga;r ou[ti~ to; dusfile;~ qeoi`~. tiv tw`nd∆ oujk ejndivkw~ ajgeivrw…

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In questo corale le Coefore vogliono rimarcare la gravità dei terribili crimini commessi da Egisto e, soprattutto, da Clitemestra, utilizzando come pietra di paragone prima alcuni fenomeni spaventosi che caratterizzano il mondo della natura, poi tre esempi mitici particolarmente rappresentativi dell’eπeratezza umana. Servendosi di un accorgimento retorico proprio della lirica corale, la priamel, @ il coro scarta progressivamente sia gli esempi tratti dal mondo naturale sia gli exempla mitici, in quanto non adeguati a illustrare la turpi azioni che hanno funestato nuovamente la casa degli Atridi. Come si evince dal testo, Eschilo costruisce una simmetria quasi perfetta tra articolazione strofica e contenuto: ciascuna stanza, infatti, sviluppa un tema ben definito. La prima strofe (vv. 585-593) contiene esempi mostruosi tratti dal modo naturale, mentre l’antistrofe (vv. 594-602) si soπerma sui terribili eπetti prodotti dalle passioni umane, soprattutto da quelle femminili. La seconda coppia strofica è dedicata a due esempi mitici, le cui protagoniste si sono macchiate di terribili colpe: in particolare, la strofe (vv. 603-6@2) è dedicata ad Altea, rea di aver ucciso il figlio Meleagro, 2 l’antistrofe (vv. 6@3-622) a Scilla, colpevole di aver provocato la morte del padre e la caduta di Megara, recidendo il capello d’oro (o purpureo secondo alcune versioni del mito) da cui dipendeva la vita del re. 3 Con la terza strofe (vv. 623-630) la rassegna mitica si interrompe: ejpei; d∆ ejpemnasavmhn ajmeilivcwn povnwn, ajkaivrw~ dev, “Dopo aver ricordato inesorabili soπerenze, ma inopportunamente”. Seguono alcuni versi problematici e segnati da corruzioni testuali (vv. 625-628), ma il cui contenuto pare comunque ricostruibile nelle linee più generali. Con buona probabilità il coro fa qui riferimento alla deprecabile unione tra Egisto e Clitemestra (vv. 625-626) e alle astuzie escogitate da quest’ultima per uccidere il marito (vv. 627-628). Con la terza antistrofe (vv. 63@-638) il coro introduce un terzo exemplum mitico, capace di superare in eπeratezza quelli narrati in precedenza: si tratta dei terribili crimini commessi nell’isola di Lemno, dove le donne, con l’unica eccezione di Ipsipile, trucidarono i propri mariti, colpevoli di averle tradite con alcune concubine tracie. Le Lemnie si unirono poi agli Argonauti, ma i loro discendenti furono scacciati dai Pelasgi. 4 Per questi empi crimini fu coniata l’espressione “i mali di Lemno” con la quale i Greci indicavano le azioni più scellerate. 5  

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 Sulla priamel si veda, ad esempio, Race @982.   La versione omerica del mito (Il. 9, 524-605) non dice nulla del tizzone che le Moire consegnarono ad Altea e che questa bruciò, decretando la morte di Meleagro, dopo essere venuta a conoscenza dell’uccisione dei propri fratelli per mano del figlio. Il particolare del tizzone doveva ricorrere nelle Pleuronie di Frinico e ritorna anche in un epinicio di Bacchilide (5, 65 ss.). 3   Nella versione proposta da Eschilo Scilla è convinta da ornamenti cretesi, mentre secondo altre fonti il folle gesto era dettato dall’amore che la giovane provava per Minosse, il sovrano cretese che aveva posto sotto assedio la città: cfr. Paus. @, @9, 4; Apollod. 3, @5, 8; Nonn. Dion. 25, @6@ ss; Prop. 4, 4, 39 ss.; Ov. Met. 8, 90 ss. 4   Cfr. Hdt. 4, @45; Ap. Rh. @, 609-632. 5  Erodoto (6, @38) descrive un’altra vicenda terribile accaduta nell’isola: i Pelasgi, rapite le donne ateniesi che celebravano Artemide Brauronia, ne fecero le proprie concubine. I figli nati da questa unione si mostrarono molto solidali tra loro, e i Pelasgi temendo di essere spodestati decisero di ucciderli insieme alle loro madri: “Da questo delitto e da quello, ad esso precedente, che le donne avevano commesso uccidendo i Lemni del tempo di Toante, loro mariti, è invalsa 2

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Per comprendere la struttura argomentativa del corale è necessario riflettere sull’avverbio ajkaivrw~, che richiama, seppure in negativo, il ta; kaivria con cui Oreste chiedeva alle schiave di dire cose opportune. @ Al v. 623 le schiave aπermano che tutti gli exempla narrati fino ad ora non sono stati capaci di esprimere il kairov~, ovvero l’argomento più adatto alla situazione. 1 Il coro, in altre parole, starebbe qui esprimendo la propria di√coltà nel reperire un esempio e√cace, capace di fornire un’adeguata rappresentazione dei crimini della regina, e la necessità di riflettere sulla ‘appropriatezza’ delle proprie parole. Solo ricorrendo al terribile mito di Lemno, talmente terribile da essere diventato proverbiale, il coro si convince di avere trovato l’exemplum adatto e di avere finalmente esaudito la richiesta avanzata da Oreste di dire ta; kaivria.  



4. Eteocle e le donne di Tebe Un ultimo passo, contenente un’esortazione al silenzio rivolta al coro, merita di essere preso in considerazione: si tratta del primo episodio dei Sette a Tebe di Eschilo, per il quale gli studiosi hanno proposto interpretazioni molto diverse fra loro. 2 Nel prologo Eteocle entra in scena pronunciando le seguenti parole: “Voi, della città di Cadmo ! Dire le parole giuste in quest’ora è il dovere di chi governa e, in poppa alla nave, regge il timone della città senza mai abbassare le palpebre”. 3 Il figlio di Edipo si presenta come il saggio condottiero della città, capace di scegliere le parole opportune (crh; levgein ta; kaivria) nei momenti di√cili: attraverso un’analisi realistica, secondo alcuni addirittura cinica, egli dimostra di sapere bene che se la città sarà conquistata la responsabilità ricadrà solo sulle sue spalle, mentre in caso di vittoria i meriti saranno attribuiti agli dei (vv. 4-8). I cittadini di ogni età, prosegue il sovrano, dovranno salire sugli spalti per difendere gli altari delle divinità, i figli e la Terra madre: con l’aiuto degli dei tutto andrà bene (eu\ telei` qeov~). La rhesis del messaggero, che descrive i riti compiuti dall’esercito avversario e la scelta di schierare sette guerrieri argivi alle sette porte di Tebe (vv. 39-68), induce la preghiera di Eteocle. Invocando Zeus, la Terra, gli dei tutti della città e anche l’Erinni potente del padre, 4 il re chiede che la  





in tutta la Grecia l’abitudine di chiamare “Lemnie” tutte le azioni empie e scellerate” (tr. di L. Annibaletto). Anche i Pelasgi, prosegue Erodoto, dovettero pagare per le empie azioni commesse: dapprima le terre, le donne e le greggi divennero sterili (6, @39) e molti anni più tardi essi furono scacciati dall’isola per mano degli Ateniesi guidati da Milziade (6, @40). Sul passo erodoteo e sul ruolo che tale mito ha assunto nella scena politica ateniese tra la fine del vi e l’inizio di v secolo cfr. Dorati 2005. 1

  Sul concetto di kairos cfr. Race @98@; Wilson @980; Tredé @992.   Un aspetto assai dibattuto dalla critica è la presunta incoerenza psicologia che Eteocle mostrerebbe nel corso del dramma. Secondo alcuni studiosi sarebbe ravvisabile una dicotomia netta tra il lucido e pragmatico condottiero tebano dei vv. @-652, e l’uomo avventato, schiacciato dalla maledizione del padre, desideroso di lanciarsi in un scontro fratricida dei vv. 653 ss. Altri studiosi, invece, pur partendo da posizioni diπerenti, sostengono l’assoluta coerenza del personaggio: per una sintesi delle diπerenti posizioni (con ulteriore bibliografia) cfr. Vernant - Vidal-Naquet @99@, pp. @03-@09. Vd. anche Winnington-Ingram @983, in particolare pp. 22-23; Novelli 2005, pp. 5@-57. 3   Tutte le traduzioni del testo dei Sette sono di M. Centanni. 4   Cfr. Aesch. Sept. 69-70 w\ Zeu` te kai; Gh` kai; polissou`coi qeoiv, / ajrav t’ ∆Erinu;~ patro;~ hJ megasqenhv~. Anche l’accostamento dell’Erinni alle altre divinità ha suscitato interpretazioni con2

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città non sia distrutta e non divenga bottino di guerra: è interesse delle divinità invocate che la città non venga conquistata, poiché “città che prospera onora i suoi dei”. Al discorso razionale del sovrano e alla sua composta preghiera si oppongono le urla frenetiche e i lamenti del coro, che al v. 78 fa il suo ingresso in scena: @ qrevomai fobera; megavl’a[ch, “urlo di paura: forte è l’angoscia”. Entrate probabilmente in ordine sparso, 2 esse eseguono un lungo canto astrofico (vv. 78-@50), che solo alla fine assume una più ordinata struttura responsiva (vv @5@@8@). 3 Il frastuono dei carri, il rumore delle armi, la vista della polvere, “messaggero silenzioso” (a[naudo~ a[ggelo~), e il luccichio degli scudi suscitano nelle donne un timore incontenibile. 4 Tutto il corale è caratterizzato dalla presenza di due filoni tematici principali: quello della battaglia “che insiste, attraverso gli aspetti visivi e acustici, sulla ricostruzione quasi allucinata della lotta che ha luogo alle porte di Tebe, fuori dalle mura”, 5 e quello della preghiera, caratterizzato dalle invocazioni e dalle richieste di protezione rivolte alle divinità protettrici di Tebe. Con il v. @82 ha inizio il primo episodio, che presenta una struttura quadripartita: A) monologo di Eteocle (vv. @82-202); B) kommos tra il coro ed Eteocle (vv. 203-244); C) sticomitia (vv. 245-264); D) nuovo monologo di Eteocle (vv. 265-286). Nel primo monologo (A) il sovrano rimprovera aspramente le donne tebane: prostrandosi al suolo davanti alle statue degli dei e strillando come animali, esse sono colpevoli di diπondere il panico tra i cittadini che devono difendere la città. Il rimprovero assume a tratti i toni di una vera e propria tirata contro il genere femminile: “mai e poi mai nelle disgrazie – ma neppure nella buona sorte – voglio avere a che fare con la genia delle donne” (vv. @87@88). A più riprese, sia nel kommos (B) e sia nella sticomitia (C), il sovrano intima alle donne di tacere. Si considerino ad es. i vv. 230-232:  

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ajndrw`n tavd’ ejstiv, sfavgia kai; crhsthvria qeoi`sin e[rdein, polemivwn peirwmevnou~: so;n d’ au\ to; siga`n kai; mevnein ei[sw dovmwn.

Spetta ai maschi, ai guerrieri occuparsi di tutto questo: oπrire le vittime agli dei e trarre vaticini, quando ci cimentiamo con i nemici. Compito tuo è invece fare silenzio e startene a casa.

Quando il coro torna a esprimere la propria paura per i rumori provenienti da fuori le mura, Eteocle non esita a imporre il silenzio in maniera brusca, come ai vv. 249-252: trastanti: si veda a questo proposito Novelli 2005, pp. 5@-56. Secondo lo studioso, l’imprevista comparsa della maledizione paterna “introduce la dimensione “personale” di Eteocle istituendo una tensione tra il ghenos (patrov~) e la polis (gli dei sono “protettori della città”), in altri termini tra il “mitico-familiare” e il “sociale” ”. @   Non c’è accordo tra gli studiosi sull’età delle donne che compongono il coro: secondo alcuni esse sono giovani fanciulle, secondo altri si tratta di un gruppo misto, formato da donne di diverse età. Sull’argomento cfr. Lupas-Petre @98@, p. 56; Ieranò 2002, p. 86 n. 48. 2   Cfr. Taplin @977, pp. @4@-@42. 3  Sulla struttura metrica della parodo e sulle connessioni tra il disegno metrico-ritmico e il piano dei significati si veda Lomiento 2004. 4   Sugli elementi acustici nei Sette cfr. Edmunds 2002; Ieranò @999. 5   Cfr. Lomiento 2004, p. 55.

esortazioni al silenzio nella tragedia di v secolo Co. Et. Co. Et.

Co. Et. Co. Et.

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devdoik’, ajragmo;~ d’ ejn puvlai~ ojfevlletai. ouj si`ga mhde;n tw`nd’ ejrei`~ kata; ptovlin… w\ xuntevleia, mh; prodw`/~ purgwvmata. oujk eij~ fqovron sigw`s’ ajnaschvsh/ tavde…

Ho paura: c’è uno sconquasso alle porte, sempre più forte! Taci! Devi proprio dirlo a tutta la città? Potenza divina non abbandonare queste mura! Ma va’ alla malora! non puoi tenertela per te e stare zitta?

O ancora i vv. 259-262 Co. Et. Co. Et.

Co. Et. Co. Et. Co.

ajyuciva/ ga;r glw`ssan aJrpavzei fovbo~. aijtoumevnw/ moi kou`fon eij doivh~ tevlo~. levgoi~ a]n wJ~ tavcista, kai; tavc’ ei[somai. sivghson, w\ tavlaina, mh; fivlou~ fovbei.

Non ho più animo – sai – e la mia lingua è preda del terrore Ti chiedo ora se puoi fare una cosa, una cosa da poco ... Dimmela subito e saprò se posso farla. Taci, infelice, taci! E non terrorizzare i nostri Taccio sì: insieme agli altri sopporterò il mio destino

Nel monologo conclusivo (D) Eteocle, soddisfatto di avere finalmente messo a tacere le donne, chiede loro di pregare per la cosa più importante, ovvero che gli dei siano dalla parte di Tebe durante la battaglia. Dopo aver ascoltato la preghiera innalzata dal sovrano, il coro dovrà elevare il peana propiziatorio, come costume ellenico durante i sacrifici, così da infondere coraggio nei guerrieri tebani. Il violento attacco che il sovrano muove contro le donne tebane all’interno del primo episodio ha suscitato interpretazioni contrastanti. Alcuni studiosi hanno posto l’accento sulla forte contrapposizione tra l’atteggiamento pio del coro e il cinismo di Eteocle; @ altri hanno ricondotto la misoginia del sovrano ai rapporti incestuosi che caratterizzano la stirpe dei Labdacidi; 2 altri ancora, infine, hanno sostenuto che dietro il violento attacco di Eteocle si celerebbe la paura della maledizione paterna. 3 Se ci si attiene più strettamente ai dati ricavabili dal testo, pare forse preferibile ipotizzare che le motivazioni che oppongono il sovrano alle donne siano di natura politico-sociale e religiosa. Eteocle, in particolare, sembra interpretare le parole del coro come una intromissione nel campo esclusivamente maschile della politica e ritiene, inoltre, che il modo in cui le donne si rivolgono alle divinità non sia adeguato né sul piano dei contenuti né su quello della forma. Rientrato in scena il re tenta di arginare con le proprie parole la paura irrazionale espressa dal coro, per evitare che questa si diπonda tra i combattenti. Le donne rappresentano agli occhi del sovrano un nemico all’interno delle mura cittadine,  

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  Così Verrall @887, p. @9; Podlecki @964, pp. 290-29@; 294-295.   Cfr. Ferrari @972; Caldwell @973; Winnington-Ingram @983, in particolare, pp. 45-46. cfr. anche Bacon @964, p. 3@: “For the House of Laius the female is destruction”. 3   Cfr. Montiglio 2000, p. 209. Questa interpretazione si trova già in Winnington-Ingram @983, pp. 28-29. 2

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pericoloso quanto il nemico argivo che si trova all’esterno della città. @ In qualità di guida dello stato, Eteocle cerca subito di aπermare la propria autorità e di pronunciare discorsi adeguati alle circostanze, secondo il principio del levgein ta; kaivria espresso al v. @. Se gli uomini sono stati esortati a combattere, ora le donne sono invitate ad ubbidire (peiqarciva v. 224) e a rimanere in casa: “sta all’uomo, e non certo alla donna, decidere. Su tutto quanto accade fuori dalle mura di casa; a casa, dunque, vai dentro”! (vv. 200-20@); “Compito tuo, invece, è fare silenzio e startene a casa” (v. 232). Eteocle aπerma qui il principio della necessaria separazione tra l’ambito sociale e politico, prerogativa esclusiva del sesso maschile, e l’ambito domestico, al quale è relegato il sesso femminile. Le parole pronunciate dal coro in relazione alla guerra, le preghiere elevate agli dei perché proteggano la città, sono avvertite dal re come un’indebita intromissione all’interno di uno spazio esclusivamente maschile: significativo a questo proposito l’uso insistito nelle parole del sovrano del verbo bouleuvw (cfr. 200, 223, 248), un termine appartenente al lessico tecnico della politica. 2 In questa cornice va inteso il violento attacco al genere femminile contenuto nel primo monologo di Eteocle (vv. @82-202). Più che dipendere da una misoginia congenita o da una recondita paura nei confronti dell’Erinni, esso è riconducibile alla “norma greca – puntualmente riflessa nella tradizione letteraria – della netta diπerenziazione di compiti tra uomini e donne nello spazio civile”. 3 Un aspetto che merita di essere sottolineato è la reale mancanza di comunicazione tra i due interlocutori: l’attenzione del coro, infatti, non è rivolta alle parole del re, ma è continuamente attirata dai rumori che provengono dall’esercito avversario. Si viene così a creare quello che è stato opportunamente definito “un impossibile dialogo civico”: indicative a tale proposito risultano essere le ripetute richieste di prestare ascolto che Eteocle rivolge al coro: cfr. ajkouvsetai (v. @96); h[kousa~ h] oujk h[kousa~; h] kwfh`/ levgw; (v. 202); kajmw`n ajkouvsas’eujgmavtwn (v. 267). Proprio questa incomunicabilità di fondo spingerà il re a chiedere con un’insistenza sempre maggiore il silenzio delle donne (vv. 250; 252; 262). 4 Per comprendere le ragioni del violento attacco che il re muove contro le donne del coro è necessario analizzare anche il diverso atteggiamento religioso manifestato rispettivamente da Eteocle e dalle coreute. Entrambi chiedono l’aiuto degli dei, a√nché Tebe non cada sotto i colpi dell’esercito nemico, ma il conte 

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@   Cfr. Bacon @964, pp. 29-30: “The chorus fears the noise of war outside the gates. Eteocles fears the noise of the chorus inside the city, as a kind of magic practiced by women, which can unman the citizens [...] There is a danger “outside” which must not be let in and a danger “inside” which must not be let out”. Novelli 2005, p. 77 n. 296 fa notare come il verbo au[w, con cui Eteocle descrive le urla scomposte del coro, nel lessico omerico assuma il significato di grido di guerra; il suo impiego in questo contesto evidenzierebbe ulteriormente l’analogia tra l’esercito 2 nemico e il coro.   Per questa osservazione si veda Ieranò 2002, p. 83. 3  Cfr. Novelli 2005, p. 73. Tra i numerosi esempi di poesia contro le donne basti citare, ad esempio, Hes. Th. 590 ss.; Op. 57 ss.; Archil. fr. @3 W.; Sem. fr. 7 W.; Eur. Hipp. 6@6 ss.; etc. 4   Novelli 2005, p. 74 nota come il discorso del sovrano nel kommos e nella sticomitia realizzi una vera e propria contraddizione perlocutoria: “I reiterati imperativi rivolti alle donne perché si riducano al silenzio restando confinate all’interno dell’oikos, cioè, trovano puntuale negazione nella necessità dello stesso Eteocle di reintrodurre continuamente il coro come interlocutore indispensabile per illustrare compiutamente, e rendere operativo, il proprio enunciato”.

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@

nuto e la forma di tali preghiere paiono molto diversi tra loro. Eteocle dopo il racconto del messaggero eleva una vera e propria eujchv, 2 dalla quale emerge una concezione religiosa fondata su un rapporto di reciprocità con gli dei: “Anche nel vostro interesse – spero – io parlo: perché città prospera onora i suoi dei” (vv. 76-77). 3 Di fronte allo scontro ormai imminente egli non si rimette passivamente alla volontà degli dei, ma, in qualità di capo militare, fa a√damento principalmente nelle capacità dei soldati, supportate, certo, dall’aiuto divino: “prega invece per la cosa più importante: che gli dei siano al nostro fianco in battaglia” (v. 266). 4 Ben diverso, invece, è l’atteggiamento religioso del coro, che nella parodo assume chiaramente i toni della iJketeiva, come mostrano sia le azioni di gettarsi ai piedi delle statue (vv. 95-96) e di cingerle con le braccia (v. 98), sia l’utilizzo di termini legati alla sfera semantica della supplica, come iJkevsio~ lovco~ (v. @@0), con cui le donne definiscono se stesse, e lithv (vv. @43-@44 e @7@-@73), con cui esse descrivono la propria peculiare forma di preghiera. 5 Se Eteocle confida nelle forza dei soldati, sostenuta dall’aiuto divino, le donne si rimettono completamente alla volontà degli dei, senza nutrire alcuna fiducia nelle possibilità umane: “grazie agli dei la città che abitiamo non è mai stata vinta; grazie agli dei queste mura da sempre respingono gli eserciti ostili” (vv. 233-235). Diversamente dall’eujchv del sovrano, caratterizzata da un rapporto di tipo da ut dem, 6 la lithv delle donne non contempla alcuna forma di reciprocità. 7 I ripetuti appelli al silenzio vogliono mettere a tacere questo “pericoloso” 8 modo di pregare che, con le sue fughe precipitose ai piedi delle statue e con la sua assoluta passività nei confronti del nemico, rischia di minare il morale dei difensori. Ne è prova il fatto che il sovrano, non appena ha ottenuto il silenzio del coro, si premura di educare le donne  

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 Sull’argomento si veda l’analisi approfondita di Giordano-Zecharya 2006. Si vedano anche Hutchinson @985, pp. 73-74, (lo studioso preferisce parlare non tanto di due atteggiamenti diπerenti verso la religione, quanto di due diversi modi di pregare); Amendola 2005, pp. 45-59. 2   Cfr. Giordano-Zecharya 2006, pp. 59-60. Nei vv. 69-77 la studiosa individua quella struttura tripartita che caratterizza la maggior parte delle preghiere antiche. Rispetto allo schema tradizionale, costituito dalla successione A. Invocation, B. Argument, C. Request, la preghiera di Eteocle presenterebbe l’anticipazione della Request in seconda posizione: (A. Invocation, vv. 69-7@; C. Request vv. 7@-75; B. Argument vv. 76-77). Sulla struttura tripartita della preghiera antica si vedano Aubriot-Sévin @992, pp. @99-253; Pulleyn @997, p. 47; Amendola 2005, pp. @6-@7. 3   Su questo passo si vd. Judet de La Combe @988, p. 2@6: lo studioso osserva giustamente che, se il coro richiede la protezione divina, ricordando i sacrifici passati (vv. @79-@8@), Eteocle nella sua preghiera menziona, invece, solo i sacrifici futuri, e li utilizza come elementi del contratto che sta stringendo con gli dei. Il medesimo concetto è ribadito alla fine del secondo monologo (vv. 27@-278a), quando il sovrano, intenzionato a mostrare al coro il giusto modo di pregare aπerma: “ ... e se la città sarà salva, allora il sangue delle greggi tornerà a scorrere sui focolari divini”. Il testo di questa seconda preghiera di Eteocle è segnato da numerose corruttele. 4   Cfr. Jackson @988, pp. 289-290; Giordano-Zecharya 2006, p. 60. 5  Cfr. Amendola 2005, pp. 52-53: lo studioso osserva come il sostantivo lithv e il verbo livs- sesqai siano, specialmente nei tragici, complementari al vocabolario dell’ iJketeiva. Sul significato e sull’uso di lithv e livssesqai si veda la sintesi di Giordano @999, pp. 2@@-2@9. 6 7   Cfr. Pulleyn @997, p. @7.   Cfr. Giordano-Zecharya 2006, p. 64. 8   Che il coro stia cantando in “modo sbagliato” parrebbe testimoniato dal v. 258, pronunciato da Eteocle: palinstomei`~ au\ qiggavnous’ ajgalmavtwn... Il verbo palinstomevw è generalmente inteso, sulla base degli scoli antichi al verso, come un sinonimo di dusfhmei`n. Cfr. Hutchinson @985, pp. 86-86; Novelli 2005, pp. @72-@74.

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al giusto modo di pregare: per prima cosa esse si devono allontanare dalle statue, rinunciando a uno dei gesti tipici della supplica, poi, dopo aver ascoltato la preghiera di Eteocle, devono intonare il peana propiziatorio, senza cedere a inutili e selvaggi sospiri, così da infondere coraggio ai soldati e allontanare la paura della guerra. Nello scontro con le donne tebane Eteocle esce vincitore: al v. 263 il coro dichiara di tacere, ma si tratta di una vittoria e√mera: @ con l’incipit del primo stasimo, infatti, il terrore torna a dominare il canto delle donne: “Si, così vorrei; ma per il terrore non ha sonno il mio cuore. Mi stringono dentro al petto le angosce e rinfocolano la paura: è già intorno alle mura l’armata” (vv. 287-290).  

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Abstract The aim of this paper is to analyse the different functions of the exhortations to silence addressed to the tragic chorus. Three different typologies of exhortation can be picked out. @. Very often the chorus is invited to be silent in order to draw the attention of actors and spectators to what is happening on stage: an interesting example is Aesch. Eum. 566-575, where the silence imposed by Athena serves to focus the attention on Apollos’ entry. 2. Sometimes the exhortations to silence seem directed to the chorus not as a dramatic character, but as a group of performers who are dancing and singing on stage: in Eur. HF @042-@060 and Or. @40 ss., Amphitrion and Electra respectively call for silence because the noise made by the chorus when singing and dancing threatens to wake up a sick character who is sleeping. 3. The third category brings together the numerous examples in which a character asks the chorus to keep a secret: particular attention is devoted to Aesch. Choe. 585 ss. Finally, a special case is represented by the first episode of Aeschylus’ Septem: the many invitations to silence that Eteocles addresses to the scared chorus are meant to prevent the terror of women from spreading within the city of Thebes.

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SC E N E D I E UFH MIA N E LL A C OM M E D I A DI A RISTOFA NE Lu i g i Br avi

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n un recente saggio dedicato al concetto di eujfhmiva, @ Susan Gödde ha dedicato alcune pagine alle occorrenze di questa parola e dei suoi derivati nelle commedie di Aristofane, partendo dal fatto che l’ eujfhmiva, sul piano della teoria del discorso comico, si pone in opposizione all’aijscrologiva. 2 Questa riflessione, che resta tutto su un livello asetticamente teorico, un fatto da tavolino, inciampa qua e là su alcuni temi ricorrenti nella storia del genere comico greco, ovvero la libertà nell’uso del linguaggio e le sue eventuali limitazioni, per dedicarsi poi ad una dettagliata analisi delle occorrenze nella Pace, con la preoccupazione di verificare se si tratti di situazioni parodiche o non parodiche. La studiosa arriva a concludere che “l’insistenza con cui Aristofane in molte scene di eujfhmiva s’attarda sul silenzio si deve ad un’esagerazione comica e non può essere valutata come testimonianza indiscussa per una prassi storica”. 3 Credo che sul piano del metodo non si possano assumere i dati presenti in qualsiasi forma di poesia, senza averli preventivamente valutati per la funzione contingente che questi svolgono nel loro contesto, perciò ritengo che vi sia ancora spazio per una riconsiderazione elementare dell’eujfhmiva, specie per la valenza e la portata drammaturgica che essa ha assunto; qualcosa di nuovo può pertanto scaturire solo da una nuova lettura dei singoli passi, commedia per commedia. 4  

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Acarnesi L’ingresso del coro di vecchi carbonai di Acarne avviene a v. 204, dopo la scena iniziale della commedia nella quale il protagonista Diceopoli, infastidito dalle lungaggini dell’assemblea su temi che non toccano l’urgente esigenza della pace, ha trovato il modo di concludere una tregua trentennale a titolo privato; esso porta sotto gli occhi degli spettatori ventiquattro coreuti che lamentano le condizioni della vecchiaia ed una giovinezza irrimediabilmente lontana, condizioni che rendono faticoso e goπo un inseguimento a tutti i costi di Diceopoli. L’auspicato incontro ha tuttavia luogo: i carbonai odono un invito a far silenzio, eujfhmei`te eujfhmei`te, a v. 237, emesso extra metrum dall’attore che interpreta il ruolo di Diceopoli e che si trova ad essere non visibile agli occhi degli spettatori; l’invito a far silenzio, dopo l’interruzione di tre versi del corifeo, 5 è ripetuto a v. 24@. Sembra opportuno verificare meglio cosa accada sulla scena e come sul piano esecutivo tutto ciò abbia luogo.  

@

2 3   Gödde 20@@.   Gödde 20@@, pp. 289-3@4.   Gödde 20@@, p. 3@4.   Si vedano anche Pulleyn @997, p. @84; Willi 2003, pp. 42-45. 5   Qui è esplicitato che la richiesta di eujfhmiva si deve concretizzare nel siga`n. 4

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Terminata la parodo, il corifeo incoraggia in tre tetrametri trocaici catalettici, eseguiti probabilmente in parakataloghv, @ i compagni a non cessare l’inseguimento, vv. 234-236. Si ode poi l’extra metrum di invito al silenzio, eseguito nello spazio retroscenico; 2 la voce torna di nuovo al corifeo, che, sempre in parakataloghv, avendo udito l’invito a tacere, si accorge di aver trovato colui che i carbonai stavano cercando, intento, per le parole impiegate, a preparare un sacrificio. Diceopoli ripete l’eujfhmei`te e, in trimetri giambici recitati inizia la scena della preparazione della falloforia, accompagnata di seguito, ai vv. 263-279 dal canto dell’inno al dio Fallo che accompagna la processione del medesimo. L’esegesi antica fornisce due utili notazioni: lo schol. 237 dice che Dikaiovpoli~ mevllwn poiei`n qusivan tou`to levgei. tou`to ga;r h\n e[qo~. Al di là dell’osservazione autoschediastica che collega l’invito all’esecuzione di una qusiva (dedotta probabilmente dal testo di v. 240, dove si legge quvswn), sembra interessante la presentazione dell’invito al silenzio in quei termini come fatto consueto. Seconda notazione di forte portata drammaturgica ed editoriale insieme è lo schol. 242b che recita: diplh` de; meta; korwnivdo~, o{ti eijsivasin oiJ uJpokritaiv, kai; e[stin ijambei`a. Queste parole, attinte dal linguaggio della semiotica dell’edizione eliodorea di Aristofane, avvisano dell’uso di due segni diacritici: la diplh` e la coronide. 3 La prima segna un cambio di ritmo o di misure pur all’interno dello stesso ritmo, la seconda invece è riservata a fatti scenici. I due extra metrum fanno da cerniera nel passaggio dai tetrametri trocaici catalettici in parakataloghv ai trimetri giambici recitati, proprio mentre iniziano a comparire nello spazio scenico gli attori coinvolti nella messinscena della processione.  

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Cavalieri Nella vittoriosa commedia che Aristofane presentò per la prima volta come regista agli agoni lenaici del 424 a.C. l’invito ad eujfhmei`n, v. @3@6, è dato dal Salsicciaio subito dopo la seconda parabasi, dopo i tetrametri trocaici catalettici dell’ ajntepivrrhma, in una scena dialogica in tetrametri anapestici catalettici tra il corifeo e il Salsicciaio. Il passo condivide alcune caratteristiche di contenuto e di performance col precedente caso degli Acarnesi. Va subito detto che l’invito non è altrettanto diretto, ma fa parte di una serie di azioni che preparano l’annuncio di una notizia (“bisogna far silenzio, chiudere la bocca, astenersi dalle deposizioni, serrare le porte dei tribunali dei quali ha goduto questa città, il teatro deve intonare un peana per le nuove venture”). La battuta eujfhmei`n crhv è pronunciata da un attore che esce dallo spazio retroscenico attraverso la porta di casa di Demos. 4 L’insieme di prescrizioni genera nel coro l’attesa di una bella notizia, bella al punto tale da far sacrifici di ringraziamento; è l’annuncio del ringiovanimento di Demos per bollitura. Il silenzio è propedeutico al canto del peana  

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  Su questa modalità esecutiva si veda, per esempio Gentili-Lomiento 2008, p. 96 s.   Dearden @976, p. @44; Russo @994, p. 48; sulle modalità dell’uso dello spazio retroscenico in tragedia cfr. Di Benedetto-Medda @997, pp. 49-69; si veda anche Arnott @982. 3   White @9@2, pp. 384-395, in part. pp. 390-392 per la diplh` e p. 393. Cfr. Holwerda @967, pp. 254-256. 4   Gli attori erano usciti per la seconda parabasi, come avverte lo schol. @264a. 2

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da parte del teatro per la buona ventura che ora tocca alla città. Lo schol. @3@6a avverte che la sezione aveva nella pagina scritta un assetto distinto: i tetrametri anapestici catalettici sono sporgenti rispetto ai tetrametri che precedono. Quanto alla dimensione rituale di ciò che accade dopo l’invito al silenzio, non è altro che un rendimento di grazie attraverso il canto del peana. Ma questo non basta e qui si trova forse una pointe comica: il prodigio che genera l’esultanza è il ringiovanimento per cottura di Demos, prassi che ha nel mito illustri precedenti, si pensi alle pratiche di Medea esercitate su Giasone, Esone e le nutrici di Dioniso, come sono presentate per esempio nell’argumentum alla Medea di Euripide e dagli stessi scholl. @32@a e @32@b. Questa pratica è associata al ringraziamento esercitato con il rito della fumigazione. @ Il coro non parla esplicitamente di qusiva, ma fa riferimento ad essa con il verbo knisavw, v. @320, etimologicamente connesso con il grasso degli animali oπerti in sacrificio, il quale – bruciato – produce fumo oπerto agli dei. 2 Gli scoli avvertono che usualmente ciascuno poteva fare queste oπerte davanti alla porta di casa, quando riceveva una buona notizia (@320a); lo schol. @320b parla di sacrifici oπerti alle statue delle divinità erette lungo le strade per l’arrivo di annunci per approvare quelle notizie positive che venivano portate e per respingere quelle negative. (wJ~ a]n eij ajgaqai; ei\en, ejpineuvsaien tauvtai~, eij de; toujnantivon, ajpotrevyaien).  

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Nuvole Per due volte Socrate nelle Nuvole invita Strepsiade a far silenzio (vv. 263 eujfhmei`n crhv; 297 ajll’ eujfhvmei) in prossimità della parodo. Si tratta di una di quelle parti delle Nuvole che rimasero tali nella revisione del dramma che la tradizione manoscritta ci ha restituito e quindi completamente al di fuori di ogni dubbio di una reale messa in scena. 3 Il contesto rituale è molto chiaro, siamo in presenza dell’iniziazione di Strepsiade ai misteri del Frontistevrion; l’invito di v. 263 precede l’invocazione alle dee Nuvole, un inno cletico (v. 266 favnhte, v. 269 e[lqete), al quale risponde il coro di Nuvole con il canto della parodo, che avviene in una situazione scenica singolare. L’invito all’eujfhmei`n è proposto di nuovo in coincidenza di un cambio sul piano esecutivo: a v. 263 si apre infatti la sezione in tetrametri anapestici catalettici che prepara la preghiera alle Nuvole; è il primo cambio di metro dall’inizio della commedia, segna la fine del prologo ed avvia il segmento drammatico della parodo, che ha inizio con la strofhv del coro (vv. 275290), prosegue con poche battute di Strepsiade e Socrate sempre in anapesti (vv. 29@-297) che riportano con l’invito all’eujfhmei`n, v. 297, al canto dell’ajntistrofhv (vv. 298-3@3), al quale segue il dialogo sull’identità delle dee (vv. 3@4-325) fino al comparire di esse sulla scena (v. 326). Lo stacco esecutivo aperto dal primo invito all’eujfhmei`n è anche funzionale sul piano dei contenuti; Strepsiade ha bussato alla scuola di Socrate per apprenderne le arti e, dopo essersi preparato per l’iniziazione, con i tetrametri si avvia il rituale.  

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  Vd. Simon-Sarian 2004.   Sonnino 2005, p. 222.

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  Cfr. Chantraine @968-80, p. 548.

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Come nelle Nuvole, nelle Vespe l’espressione eujfhmiva me;n nu`n uJparcevtw, v. 868, l’invito al silenzio, chiude una fase preparatoria, la creazione di un tribunale domestico, ed apre la celebrazione dei processi nella casa-prigione di Filocleone. Sul piano esecutivo si tratta di un’articolazione complessa: l’allestimento dell’aula è descritto ed avviene in una scena dialogata in trimetri giambici; la scena è chiusa da dimetri anapestici del coro (vv. 863-867). @ Con un trimetro giambico (v. 868) Bdelicleone invita al silenzio che apre la celebrazione di un sacrificio preliminare all’apertura di un tribunale; MacDowell rilevava che sacrifici in apertura dei processi non sarebbero noti da altre fonti; 2 credo piuttosto che si tratti di una consacrazione dello spazio domestico ad una nuova funzione espressa chiaramente a v. 876, devxai teleth;n kainh;n ... h[n tw`/ patri; kainotomou`men. Sul piano esecutivo ed anche contenutistico il trimetro giambico che ci riguarda segna uno stacco esecutivo con i dimetri anapestici che precedono, non solo nel senso che si tratti di un trimetro recitato in opposizione a dimetri. Sulla natura esecutiva di questi dimetri non si può escludere che fosse almeno in parakataloghv. 3 In ogni caso, se non si tratta di uno stacco esecutivo, di certo c’è uno stacco strofico (a v. 870 inizia il canto della strofe del coro) e di misura entro il ritmo giambico (dai trimetri di Bdelicleone, v. 868, e del coro, v. 869, forse in parakataloghv?), per giunta in coincidenza di un cambio di battuta, messo in bocca a Bdelicleone, che nei fatti agisce sulla scena in forma rituale.  

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Pace La Pace è la commedia in cui con maggior frequenza ricorrono scene che comportano inviti al silenzio con la parola eujfhmiva e la sua sfera semantica. Già subito all’inizio della commedia; dopo un prologo dialogato in trimetri giambici (vv. @-8@), che vede due servi indaπarati, uno dei quali espone esplicitamente to;n lovgon, v. 50, ed un padrone che sta per mettere in atto il suo desiderio di avvicinarsi a Zeus, inizia una sezione in dimetri anapestici particolarmente carichi di pavqo~, vv. 82-@0@: sono i versi che accompagnano il volo sulla mhcanhv di Trigeo, a cavallo di uno scarabeo gigante. L’attenzione dello spettatore è tutta concentrata su questo volo sia sul piano spettacolare dell’o[yi~, sia sul piano esecutivo, che probabilmente comportava una resa in parakataloghv, 4 sia proprio per il contenuto, che subito si apre con un invito alla quiete, alla calma, ad una grande attenzione; in quest’operazione Trigeo invita due volte al silenzio, a v. 9@ sivga sivga e a v. 96 eujfhmei`n crhv; la consistenza di questo secondo, più complesso invito sta nell’impedire di borbottare sciocchezze, levando piuttosto un grido di gioia; di seguito  

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2   Pretagostini 20@@, p. 39.   MacDowell @97@, p. 245.   Non mi sembra pienamente convincente il confronto con un passo degli Acarnesi (vv. @@43@@73) dove lo schol. @@43 individua un mevlo~ prow/dikovn di struttura ABB, con una prima perivodo~ anapestica (vv. @@43-@@49), per concludere che i nostri dimetri avessero resa lirica, così Pretagostini 20@@, loc. cit. Non persistono infatti elementi del testo che indichino questo tipo di struttura 4 anche nelle Vespe.   Pretagostini 20@@, p. 40. 3

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agli uomini è imposto di tacere (siga`n, v. 98), conseguenza che il servo accetta pur di conoscerne le motivazioni, in una parte che, diventando argomentativa perde la carica patetica dei dimetri anapestici e torna giambica e concitata, con anche l’uso insistito dell’ ajntilabhv. Questa grande attenzione serve ad accompagnare l’approssimarsi dell’uomo alla divinità in un gioco tutto parodico: il volo di Trigeo verso Zeus con uno scarabeo, paragonato a Pegaso, @ il tutto abbassato nella coprolalia dell’attacco della Pace. Un secondo passo è preparato dalla presenza festante del coro di contadini, che entra, v. 30@, e si mette a danzare pregustando la pace riconquistata. Più volte Trigeo invita ad un silenzio che vuol censurare l’anticipazione dei festeggiamenti (v. 309, ouj siwphvsesq’;). 2 Nel lavorio concitato, necessario per liberare Pace dalla grotta in cui è immaginata rinchiusa, Trigeo riesce a convincere il dio Hermes a collaborare, dietro la promessa di libagione, che accompagna una preghiera agli dei; sarà il dio stesso a pregare che inizi il bene per tutta l’Ellade, dopo aver formulato l’invito all’ eujfhmiva, v. 434. Ma l’articolazione della preghiera è tutta un battibecco tra Hermes e Trigeo ed in fondo non riceve lo spazio sacrale che ci si aspetterebbe; non a caso essa è preannunciata da un invito extra metrum alla libagione e al silenzio, ma viene realizzata in trimetri giambici molto aπannati, che continuano il metro dei versi precedenti. Si tratta quasi di una decostruzione di una preghiera, di cui si negoziano anche i destinatari, un tentativo che non trova spazio. È l’auspicio di una preghiera preparata con tutta l’attenzione, che sfocia senza variazioni esecutive in una non-preghiera. È invece strutturata nella consueta articolazione la scena con il terzo invito all’eujfhmiva, v. @3@6. Questo invito segna il rientro in scena di Trigeo, dopo cinque tetrametri giambici del corifeo (vv. @3@@-@3@5), e dà l’inizio ad una sezione anapestica (tetrametri e dimetri, come aπerma lo schol. @3@6) di preparazione al finale della commedia, occupato dal canto di un epitalamio, che dà consistenza all’invito a sugcaivrein kajpikeleuvein, v. @3@7. L’insieme delle prescrizioni (condurre la sposa fuori di casa, portar le torce ed esultare) aperto da eujfhmei`n crhv, resosi concitato nel pni`go~ in dimetri, da v. @320, lascia spazio al canto del coro con cui si chiude la commedia, alla presenza di Opora in abiti nuziali (vv. @332-@359).  

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Uccelli Al v. 959 degli Uccelli Pisetero chiede il silenzio necessario a compiere il sacrificio per la fondazione della città, in una scena in cui più volte il personaggio-Poeta lo interrompe, ma anche questa volta il suo tentativo resta a metà, proprio come il trimetro di v. 959, che dalla cesura pentemimere prosegue nella bocca di un altro personaggio, l’Oracolista. Questo silenzio richiesto che dovrebbe essere preparatorio di un sacrificio, scopo che determina la scelta lessicale, di fatto non @

  Più volte vi sono riferimenti a Pegaso, già a v. @26, che è una citazione della Stenebea di Euripide, Trigeo parla di un pthno;~ ... pw`lo~ che lo accompagnerà nel suo viaggio; poi esplicitamente a v. @35 la figlia suggerisce a Trigeo che sarebbe stato allora opportuno per il suo progetto cavalcare Pegaso in luogo di uno scarabeo; infine Trigeo a v. @54 chiama Pegaso lo scarabeo. 2   A v. 384 invece Trigeo invita il coro a non tacere, per impedire le grida di Hermes adirato con lui.

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segna uno stacco tra quel che segue e quel che precede né sul piano esecutivo (la scena è tutta in trimetri) né sul piano drammaturgico; è semplicemente usata la parola più adatta per marcare proprio la sua impossibile realizzazione, per dare spazio al gioco comico della serie di personaggi che si confrontano con il progetto dell’eroe comico. Il sacrificio, poi, nella trama, ha luogo nello spazio retroscenico, mentre si svolge la parabasi, come si intuisce a v. @@@8 ta; me;n iJevr’ hJmi`n ejstin, w\rniqe~, kalav. L’occorrenza dell’espressione ajnoivgein iJero;n eu[fhmon stovma a v. @7@8 s. non ha pertinenza con l’azione del tacere; è il momento infatti in cui si apre la bocca per un discorso elogiativo: il makarismov~ dello sposo nell’imeneo che chiude la commedia. Tesmoforiazuse L’ingresso del servo di Agatone nel prologo delle Tesmoforiazuse è preceduto da un invito che Euripide rivolge al proprio parente a fare silenzio (sivga nun a v. 27) e ad ascoltare, invito che è presto raccolto e congiunto nell’espressione ajkouvw kai; siwpw` di v. 29, con il quale il parente è pronto a far spazio alle parole di Euripide, che vuole introdurre il personaggio di Agatone. La descrizione è però interrotta, con il v. 38, dall’uscita di un servo dalla casa di Agatone; egli reca fuoco e rami di mirto per preparare un sacrificio per la buona riuscita della creazione poetica. Con l’uscita del servo il metro cambia in dimetri anapestici e cambia anche la resa, qui in parakataloghv (vv. 39-62). @ In questa atmosfera, con i due attori che se ne stanno nascosti, 2 il servo invita al silenzio preparatorio di un sacrificio eu[fhmo~ pa`~ e[stw laov~, v. 39. Le Muse sono in visita presso Agatone e questo prodigio richiede un silenzio cosmico, non so√a neppure il vento, non rumoreggia l’onda del mare, dormono gli animali. 3 La creazione poetica, con enfasi smisurata è presentata come un atto sacro. Si tratta della divina ispirazione, la visita delle Muse al Poeta, un tema istituzionale nella poesia, quando essa rifletta su di sé, cui è dato il massimo rilievo sacrale, soprattutto per preparare l’uscita di Agatone, il poeta tragico, delle cui scelte spettacolari Aristofane si fa beπa in questa sezione della commedia. Il prologo si chiude con un significativo cambio di scena. Eravamo sulla strada con Euripide ed il Parente davanti alla casa di Agatone, ma una battuta di Euripide avvisa della comparsa sul Tesmoforio del segnale dell’Assemblea, v. 277. Da quel momento è verisimile che avvenisse l’ingresso dei coreuti in abiti di Tesmoforianti, poi descritto nelle parole del Parente. Al termine della battuta, una volta sistematosi il coro nell’orchestra, con richiamo extra metrum, eujfhmiva ‘stw, eujfhmiva ‘stw, il corifeo, rivestendo il ruolo di araldo, 4 apre l’assemblea delle Tesmoforianti, che si chiude nella forma rituale a v. 37@. Questo momento è articolato in quattro parti: vv. 295-3@@, 3@2-330, 33@-35@, 352-37@. Le sezioni seconda e quarta sono canti corali ajpolelumevna intervallati da trimetri giambici del corifeo, sezione terza. Il tutto è preceduto da un segmento di definizione particolarmente problematica sul piano della struttura. Da Hermann in poi sono considerati pro 

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  Pretagostini 20@@, p. 43.

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  V. 36.

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  Vv. 43-48.

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  Schol. 295a.

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sa, io preferisco pensare che si tratti di una poco lineare struttura metrica volta forse a rendere mimeticamente la prosa. @  

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Rane Due passi delle Rane riguardano il tema oggetto della nostra ricerca: ai vv. 353 e @273. Invertendo l’ordine naturale dei versi, inizierei con v. @273. Siamo in una sezione della commedia in cui Euripide ed Eschilo irridono vicendevolmente i corali di Eschilo per la fissità e di Euripide per il difetto opposto. Nella prima parte è Euripide che attacca Eschilo citandone versi ed accodando a ciascuno di essi il refrain ivh; kovpon ouj pelavqei~ ejp’ ajrwgavn; a v. @273 s. si legge eujfamei`te melissonovmoi dovmon ∆Artevmido~ pevla~ oi[gein che lo schol. @273a garantisce tratto ejx ÔIereiw`n Aijscuv- lou (fr. 87 Radt); di questa tragedia conosciamo, oltre a questo, due frammenti che non fanno luce sulla trama, tantomeno sull’invito eujfamei`te qui citato da Aristofane; in assoluto comunque questo invito rimane interno alla trama per noi ignota di Eschilo e non riguarda lo svolgimento dell’azione sulla scena di Aristofane. Invece la prima occorrenza in questa commedia è carica di significati. Il primo intervento corale è notoriamente a√dato al coro secondario di rane (vv. 209-267, con molti interventi di Dioniso), mentre la vera e propria parodo è quella del coro principale costituito dagli iniziati ai misteri dionisiaci. L’arrivo è preceduto dal suono di aujloiv (post v. 3@@), poi ha inizio il canto a Iacco (vv. 323-352, anticipato dai retroscenici vv. 3@6-3@7), un inno cletico in versi lirici, frammezzati da trimetri resi a parte dagli attori (vv. 337-339); a v. 353, con cambio di resa e di verso (si passa ai tetrametri anapestici catalettici) ha luogo il bando dei profani; gli iniziati ordinano di fare silenzio e di farsi da parte a tutti coloro che non sono stati iniziati o che siano pessimi cittadini. L’ordine principale è di ejxivstasqai muvstaisi coroi`~ v. 370 che riprende il kajxivstasqai toi`~ hJmetevroisi coroi`sin di v. 353. Si tratta quindi di un invito al silenzio e ad allontanarsi dai cori degl’iniziati in vista della preparazione di un atto rituale, non è l’invito di una battuta, veloce, nervoso e asciutto, ma la vera e propria esposizione di un bando da parte di chi è pienamente partecipe di un rito, che è già iniziato con l’invocazione alla divinità. Esso acquista una verisimiglianza ancor maggiore quando si pensi che questo bando è pronunciato dal corifeo, forse in parakataloghv. Non si può tacere un elemento di assoluto rilievo desumibile dagli scoli, ovvero il fatto che essi conservino a questo passo una notazione dall’uJpovmnhma di Aristarco alle Rane, per giunta con portata drammaturgica: lo schol. 354a (ma anche 354b) ricorda che Aristarco indicava a questo punto la suddivisione del coro in due semicori di dodici coreuti. 2  

Pluto Resta un solo passo in Aristofane, con il verbo eujfhmevw al participio eujfhmou`nte~, nel Pluto, a v. 758, ma qui la parola non è in nulla legata alla sfera semantica del @   Sul tema della presenza di brani in prosa nella commedia è in elaborazione una mia serie di riflessioni che spero trovino presto la forma definitiva; si vedano comunque Farioli 2000; Pace 2 2008.   Vd. Boudreaux @9@9, pp. 6@-64.

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silenzio. Qui anzi il significato è quello di acclamare festosi ed accompagnare comunque un atto sacro, nel racconto del corteo festante del dio Pluto, pratica alla quale Carione invita un “voi” non specificato a partecipare aprendo la via quindi all’intervento del coro; la sigla KOMMATION COROU è nei manoscritti dopo il v. 770 al termine di questa sezione. @  

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Le conclusioni, a cui porta l’analisi che abbiamo condotto di tutte le occorrenze della parola eujfhmiva e dei suoi composti, possono solo rimarcare che questa parola, così pesante e carica si usa per indicare lo spazio privo del vociare che si lascia al rito, al sacro, sia esso gesto o parola; di essa Aristofane ha fatto uso in punti tutti strategicamente significativi nella costruzione delle trame dei suoi drammi. Essa segnala preferibilmente dei cambiamenti, in special modo per quel che riguarda la resa esecutiva dei versi e prepara situazioni pertinenti il sacro, come la preghiera a un dio, l’atto di consacrazione di un luogo, un sacrificio, l’ispirazione poetica, l’ambito delle aggregazioni iniziatiche, l’assimilazione di un uomo ad un dio, il rituale di ringiovanimento. In nessun caso è sinonimo di sigavw o di siwpavw, termini usati invece per situazioni che non chiamano in causa il sacro o, come nel caso di Ach. 238, per spiegare in che azione si deve tradurre concretamente l’invito all’eujfhmiva.2 Bibliografia Arnott @982, W. G. Arnott, ‘Oπ-Stage Cries and the Choral Presence: Some Challenges to Theatrical Convention in Euripides’, Antichthon @6, @982, pp. 35-43. Boudreaux @9@9, P. Boudreaux, Le texte d’Aristophane et ses commentateurs, Paris @9@9. Chantraine @968-80, P. Chantraine, Dictionnaire étymologicque de la langue grecque, Paris @96880. Dearden @976, C. W. Dearden, The Stage of Aristophanes, London @976. Di Benedetto-Medda @997, V. Di Benedetto - E. Medda, La tragedia sulla scena. La tragedia greca in quanto spettacolo teatrale, Torino @997. Farioli 2000, M. Farioli, ‘Su alcuni passi in prosa in Aristofane e Archippo’, Eikasmos @@, 2000, pp. @@5-@20. Gentili-Lomiento 2008, B. Gentili - L. Lomiento, Metrics and Rhythmics. History of Poetic Forms in Ancient Greece, Pisa-Roma 2008. Gödde 20@@, S. Gödde, Euphêmia. Die gute Rede in Kult und Literatur der griechischen Antike, Heidelberg 20@@. Holwerda @967, D. Holwerda, ‘De Heliodori commentario metrico in Aristophanem ii’, Mnemosyne s. iv 20, @967, pp. 247-272. MacDowell @97@, D. M. MacDowell (ed.), Aristophanes. Wasps, with Introduction and Commentary, Oxford @97@. Pace 2008, C. Pace, ‘La prosa in commedia (Archipp. fr. 27 K.-A.)’, Sem. Rom. @@, 2008, pp. @@3-@27. Pretagostini 20@@, R. Pretagostini, Scritti di metrica, Roma 20@@. Pulleyn @997, S. Pulleyn, Prayer in Greek Religion, Oxford @997 Russo @994, C. F. Russo, Aristophanes an Author for the Stage, London-New York @994. @

  Vd. Russo @994, p. 232.   Ringrazio l’amico Andrea Rodighiero per l’attenta lettura.

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Simon-Sarian 2004, E. Simon - H. Sarian, ‘Rauchopfer’, in Thesaurus cultus et rituum antiquorum @. Processions Sacrifices Libations Fumigations Dedications, Basel 2004, pp. 255-268. Sonnino 2005, M. Sonnino, ‘Aristofane e il concorso lenaico del 422: la parabasi delle Vespe e il contenuto delle Nuvole prime’, Sem. Rom. 8, 2005, pp. 205-232. White @9@2, J. W. White, The Verse of Greek Comedy, London @9@2. Willi 2003, A. Willi, The Languages of Aristophanes. Aspects of Linguistic Variation in Classical Attic Greek, Oxford 2003.

Abstract This paped focuses on some Aristophanean passages where the author has employed the word euphemia; each occurrence is analized in its literal meaning, in its stage connexions and finally in a wider consideration of the plot.

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AP P E N D ICE

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I L OQ UAC I SI L E NZI FILMICI D I M E D E A E LA VINIA . ME DE A D I P I E R P AOL O PA SOLINI E TITU S D I JUL I E T AYMOR Ro b er t o M. Danes e

M

aria Grazia Fileni ci ha mostrato con chiarezza come i Greci considerassero i barbari incapaci di parlare, anzi addirittura privi di un linguaggio articolato che potesse paragonarsi a quello che la civilizzata Ellade utilizzava. L’Eracle morente delle Trachinie sofoclee (vv. @058-@063) dice che le sue sofferenze nessuno prima d’ora avrebbe potuto provocarle in quel modo, né una belva né un Greco né un ‘senza-lingua’ (a[glwsso~). Gli scoli sofoclei, @ il lessico di Polluce 2 ed Esichio 3 ci spiegano chiaramente che per un Greco antico il ‘senza-lingua’ era il barbaro, colui che parlava male o in modo troppo diverso e che quindi era considerato non in grado di esprimersi in modo accettabile per un mondo culturalmente evoluto come quello ellenico. Il non essere in grado di articolare un linguaggio comprensibile equivale al silenzio: Esichio 4 dice tranquillamente che a[glwsso~ indica tanto i barbari quanto i siwphroiv, cioè, potremmo dire, ‘coloro che si ammantano di silenzio’.  

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@. Medea Uno dei testi tragici dove l’estraneità e la diversità della cultura ‘altra’ rispetto a quella greca è più funzionale alla drammaturgia è senz’altro Medea di Euripide, dove la maga/sacerdotessa della Colchide è immersa in una struttura culturale, quella di Corinto, a lei totalmente aliena ed invisa. Lo scontro fra la cultura di Giasone, con le sue logiche, e quella di Medea, con le sue passioni, investe non poco il dramma euripideo. Questo elemento sarà, nelle epoche a venire, uno dei fattori più produttivi nella ricezione tanto del mito di Medea quanto del capolavoro di Euripide, soprattutto nel Novecento e, in primis, nel cinema. 5 L’opposizione fra silenzio, come caratterizzante la cultura barbara, e parola, come caratterizzante quella greca, è sfruttata in modo magistrale da Pier Paolo Pasolini in Medea (@969). A Pasolini interessa moltissimo contrapporre la semplicità del mon 

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  Schol. Soph Trach. @060 (p. 339, @7-@8 Papageorgius). 3 4   Poll. 2, @09, p. @@7, 25 Bethe.   Hesych. s.v. a[glwssoi.   Cf. n. 3. 5   Sulla ricezione cinematografica del mito di Medea vd., ad esempio, M. Rubino - C. Degregori, Medea contemporanea, Genova 2000, @5-8@; M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Roma 2007, @03-@37; F. Carlà, ‘Pasolini, Aristotle, Freud: Filmed Drama between Pasychoanalisis and “Neoclassicism” ’, in I. Berti - M. García Morcillo (edd.), Hellas on Screen, Stuttgart 2008, @00 -@04 e @@@-@@2; R. M. Danese, ‘Tre Medee sullo schermo’, in A. Camerotto - C. De Vecchi - C. Favaro (edd.), La nuova Musa degli eroi. Dal mythos alla fiction, Treviso 2008, 5@-66. 2

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do dei Colchi alla complessità della cultura greca, la cultura del lovgo~. La prima parte del film, ispirata soprattutto alle Argonautiche di Apollonio Rodio, descrive la selvaggia e ‘pura’ civiltà della Colchide: le case sono scavate nella roccia e quindi inglobano i loro abitanti nella natura; @ si compiono sacrifici umani per propiziare la fertilità della terra riportando l’uomo a divenire componente fisiologica del sistema naturale; i Colchi e, in special modo, Medea non usano quasi mai parole e non fanno complessi ragionamenti, bensì comunicano attraverso la sacralità del gesto, spesso iterato ritualmente. Gli Argonauti, dal canto loro, parlano e dialogano in continuazione, elaborando strategie per portare a compimento la loro missione. Per Pasolini la semplice e un po’ cruenta cultura dei barbari rappresenta la purezza della cultura del proletariato rurale dei nostri giorni, mentre l’evoluta cultura dei Greci corrisponde al sistema abile e fallace della nostra borghesia capitalista. Da qui deriva la funzione ‘ideologica’ nel film dell’opposizione fra silenzio dei barbari e uso della parola da parte dei Greci. Pasolini sviluppa questo concetto utilizzando soprattutto le potenzialità del linguaggio cinematografico, cioè in primis l’uso combinato del trattamento dell’immagine e del sonoro. Analizziamo una scena cardine della Medea pasoliniana per illustrare questa peculiarità del testo filmico. Medea, dopo aver rubato il vello d’oro con la complicità di Apsirto, fugge con lui su di un carro verso il campo greco (37’). Il carro percorre la selvaggia terra di Colchide ripreso in campo lungo, mentre risuona una musica etnica semplice e primitiva con funzione extradiegetica. Le vedette degli Argonauti avvistano il carro (37’ 39”) e subito segnalano a voce la cosa a Giasone: i Greci si pongono domande e discutono su quello che sta accadendo. La vedetta dice: “Arriva un carro con a bordo una donna e una pelle di capra d’oro”. Giasone ordina subito di preparare i cavalli. Il dialogo è semplice, ma mostra inequivocabilmente la necessità dei Greci di definire le cose attraverso la parola, che guida e razionalizza le loro azioni. Anche questa scena viene mostrata in campo lungo. Poi Giasone si avvicina al carro e tanto il campo quanto il controcampo cominciano a restringersi, fino ad arrivare ad un primo piano di Giasone (38’). Dopo un totale del carro con Medea e Apsirto, si passa subito ad un primo piano di Medea, il cui sguardo è inquieto. Giasone è ripreso frontalmente, mentre Medea è ripresa di tre quarti, con il viso rivolto verso la sinistra dello spettatore, ma lo sguardo fisso verso il centro dello schermo, dunque, idealmente, su Giasone. Pasolini, costruendo così la scena, stabilisce un contatto visivo e intimo fra Medea e Giasone, una sorta di dialogo muto. In questo ‘dialogo’ interviene anche Apsirto: con uno stacco di montaggio (38’ 20”) Pasolini passa da Giasone ad un primissimo piano del fratello di Medea, anch’egli ripreso di tre quarti e con lo sguardo rivolto verso l’Argonauta. Apsirto fa un cenno di saluto col capo e sorride a Giasone, dichiarando così la sua complicità nel furto del vello e nella fuga di Medea. Giasone, ripreso in campo medio, si avvicina al carro, vi gira attorno e si pone sul lato opposto, rispetto a quello di fronte al quale si trovava, costringendo  

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@   Di contro la reggia di Corinto sarà rappresentata con le architetture medioevali di Campo dei Miracoli a Pisa, un complesso costruito edificando sulla terra, con materiali che a quella terra non appartengono, l’ipostasi del pensiero e dell’ingegno umano.

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Medea e Apsirto a voltarsi verso di lui (38’ 33”). Anche questo movimento ha una ragione ben precisa: sul lato del carro verso cui si dirige Giasone è appoggiato il vello d’oro, che diverrà il centro dello scambio ‘dialogico’ fra i tre. Ora è Giasone ad essere inquadrato di tre quarti col viso rivolto verso la sinistra dello spettatore: la costruzione spaziale della scena è completamente rovesciata. Uno stacco di montaggio ci mostra che il condottiero greco sta osservando il vello d’oro, ripreso in primissimo piano (38’ 37”), con il dettaglio della mano di Giasone che lo accarezza. Segue un primissimo piano di Medea, sempre di tre quarti, ma, ovviamente, questa volta con lo sguardo inclinato verso la destra dello spettatore, nell’ottica di una soggettiva di Giasone, a cui l’interlocuzione visiva è rivolta (38’ 42”).

In questo modo Pasolini costituisce un decoupage classico su un piano di @80°, perfettamente conforme a quelli che nel cinema si utilizzano canonicamente per descrivere un dialogo fra due persone: ovviamente Medea è inquadrata in contreplongée perché si trova sul piano rialzato del carro. @ A questo punto Pasolini crea  

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@   Questo rapporto spaziale fra Medea e Giasone prelude visivamente a quello che si vedrà nel finale del film, quando Medea, dopo aver ucciso i figli e dato fuoco alla casa, inveisce dall’alto dell’edificio su Giasone e viene ripresa in primo piano e in contre-plongée (@04’ 34”). Questo tipo di prospettiva topologica non è esplicitata nella Medea di Euripide, bensì appare chiaramente nella Medea di Seneca, quando Giasone, accorso alla casa di Medea dopo l’uccisione dei figli, dice (v. 995): En ipsa tecti parte praecipiti imminet. È sicuramente azzardato pensare che Pasolini abbia qui ‘contaminato’ Euripide con Seneca visualizzando le coordinate spaziali fornite dal verbo imminet, ma è evidente che una prospettiva in cui Medea domina dall’alto su Giasone ormai sconfitto sia molto efficace cinematograficamente (e, per quanto riguarda Seneca, utilissima per dare enfasi al finale tragico) e quindi è possibile che Pasolini abbia scelto questo tipo di inquadratura come interpretazione personale del testo euripideo, allineandosi involontariamente alla scelta mostrativa inferita dal testo senecano (si tratta di una vera e propria didascalia interna, che può indurre anche a qualche riflessione sulla rappresentabilità del teatro di Seneca). Scontata è invece l’intenzionalità dell’analoga scelta (mutatis mutandis) di Arturo Ripstein in Así es la vida (2000), una pellicola esplicitamente ispirata alla Medea senecana (cf. R. M. Danese, ‘La Medea di Seneca

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una sequenza di campi e controcampi di Medea e Giasone, nei quali i due si osservano intensamente, in modo sempre più significativo, ma senza dire nemmeno una parola. Infine il regista ci porta di nuovo al campo lungo, mostrandoci il carro di Medea che corre verso il mare (idealmente immaginato in un lontanissimo fuori campo verso la sinistra dello schermo), seguito e scortato dagli Argonauti a cavallo (38’ 58”). In questa scena la barbara Medea confessa a Giasone il suo amore e gli dice che, insieme al fratello, ha rubato per lui il vello e vuole fuggire con lui. Ma non ci sono parole qui; anche i corpi sono immobili, quasi a sancire ieraticamente la sacralità di ogni atto dei Colchi. Parlano solo gli sguardi e i gesti: nel mondo della barbara Colchide non c’è spazio per il lovgo~, non c’è lingua umana che possa esprimere in modo articolato quello che invece la scabra semplicità di un movimento degli occhi e delle mani può dire in modo esaustivo. Pasolini ci rappresenta dunque la Colchide come un mondo ancestrale e profondamente diverso rispetto a quello della ‘logorroica’ civiltà greca, un mondo dove il pensiero e gli affetti si esprimono soprattutto attraverso il silenzio. La soluzione filmica adottata da Pasolini è stilisticamente molto pregnante: il montaggio utilizzato è quello del cinema classico per gli scambi dialogici fra due personaggi, ma il dialogo inteso in senso stretto non c’è, perché non ci sono parole. C’è dunque il rispetto di una norma del linguaggio filmico, ma con uno spostamento semantico importante e ardito: il dialogo è visualizzato, ma non c’è scambio di pensieri articolati attraverso le parole, bensì scambio di emozioni e sentimenti attraverso il silenzio. Cosa resta dunque allo spettatore? Per quanto riguarda la narrazione della vicenda nulla di nuovo o di importante, ma dal punto di vista retorico/ stilistico un dato rilevantissimo, la messa in risalto del silenzio che caratterizza il mondo di Medea, in una dimensione ‘altra’ che confligge e confliggerà in modo sempre più devastante con le coordinate della cultura greca. 2. Lavinia Il contrasto fra i sistemi comunicativi della ‘civiltà’ e quelli della barbarie è iconizzato a livello cinematografico anche attraverso il dominio culturale della letteratura, intesa come parola scritta capace di dar voce al silenzio, quel silenzio che i barbari talvolta tentano di imporre con la violenza a chi della lingua e della scrittura ha fatto il fondamento della propria civiltà. Un ‘testo’ significativo è, da questo punto di vista, Titus di Julie Taymor (@999), visto nel suo rapporto dialettico/traduttivo con la tragedia Titus Andronicus di Shakespeare. In questo caso l’opposizione è fra i Romani e i Goti che tentano di penetrare subdolamente nel sistema socio-culturale romano per sovvertirlo. In tutta la tragedia le azioni e le decisioni dei personaggi sono guidate da tracce ed esempi tratti dal mito, dalla letteratura e dal teatro. In particolare il testo scritto diventa ‘attore’ in molti punti del dramma, @ sostituendosi talvolta all’impossibilità di parlare dei personaggi.  

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di fronte allo specchio cinematografico. Así es la vida di Arturo Ripstein’, in T. J. Moore - W. Polleichtner (hrsg.), Form und Bedeutung im lateinischen Drama / Form and Meaning in Latin Drama, Trier 20@3, @3@-@62). @

  Cf. E. Bonelli, Tito Andronico. Il testo come simulacro del corpo, Urbino 2004, 35-47.

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Vediamo anche in questo caso un esempio importante: l’episodio della violenza compiuta dai figli di Tamora, la regina gota andata in sposa all’imperatore Saturnino, su Lavinia, la figlia del valoroso generale romano Tito. L’episodio è tutto costruito, con esplicita dichiarazione metaletteraria, su quello di Filomela così come è narrato da Ovidio (Met. 6, 42@-674). Il moro Aronne, infatti, suggerisce in questo modo a Tamora la ritorsione su Tito mediante la violenza sulla fanciulla (II. iii 43-44): “His Philomel must lose her tongue today, / Thy sons make pillage of her chastity”. @ Demetrio e Chirone, i figli di Tamora, saranno gli esecutori del delitto, aggiungendo però un sanguinoso dettaglio che in Ovidio manca, ma che, in qualche modo, da lui sarà suggerito. Lavinia sarà stuprata e, come Filomela, sarà privata della lingua perché non possa denunciare i colpevoli; tuttavia il testo ovidiano avverte come la sventurata Filomela riesca a fare il nome del suo aguzzino Tereo tessendo sulla tela la sua triste storia. Perciò i figli di Tamora, allertati dal modello letterario, preverranno il rischio di essere denunciati mozzando anche le mani di Lavinia. In II. iv Lavinia viene condotta sulla scena ormai muta e monca. Demetrio le dice (II. iv @-2):  

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So now go tell and if thy tongue can speak, Who ‘twas that cut thy tongue and ravish’d thee. 2  

Poi Chirone aggiunge (II. iv 3-4) Write down thy mind, bewray thy meaning so, And if thy stumps will let thee play the scribe. 3  

Infine Demetrio ne sancisce la condanna al silenzio (II. iv 7-8): She hath no tongue to call, nor hands to wash. And so let’s leave her to her silent walks. 4  

Lo scarto fra il destino di Lavinia e quello di Filomela viene poi esplicitato da Marco, suo zio, quando si trova di fronte allo scempio compiuto sulla vergine (II. iv 38-43): Fair Philomela, why, she but lost her tongue, And in a tedious sampler sewed her mind. But, lovely niece, that mean is cut from thee: A craftier Tereus, 5 hast thou met,  

@

  “Alla sua Filomela sarà tolta la lingua, / i tuoi figli faranno scempio della sua castità”. Per il testo del Titus Andronicus si segue qui l’edizione curata da Giorgio Melchiori con la traduzione di Maria Vittoria Tessitore (W. Shakespeare, I drammi classici, Milano @978). 2  “Va, adesso, va, e racconta, se la lingua ti aiuta, / chi ti ha tagliato la lingua e ti ha stuprato”. 3   “Scrivi quello che hai in mente, rivela i tuoi pensieri, / se coi tuoi moncherini puoi fare la scrivana”. 4  “Non ha lingua per chiedere, né mani da lavare; / lasciamo, dunque, che vada via in silenzio”. 5  Il vocativo cousin compare nel quarto del @600 (Q2), mentre è assente nel quarto del @6@@ (Q3), con evidente lacuna dal punto di vista metrico (mancherebbero il terzo tempo forte e il quarto tempo debole del blank verse), mentre il folio del @623, per ripristinare il metro, aggiunge a fine verso la parola withal.

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And he hath cut those pretty fingers off, That could have better sewed than Philomel. @  

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Nella prima scena del quarto atto Lavinia troverà comunque il modo di narrare al padre Tito quanto è successo, ricorrendo sempre al modello mitico e alla parola scritta. 2 Prima riesce ad attirare la sua attenzione su uno dei libri che portava con sé il giovane figlio di Lucio, quello che contiene le Metamorfosi di Ovidio. Poi all’interno del libro segnala l’episodio di Filomela, sulla cui falsariga già lo zio Marco aveva tentato di ricostruire la sua triste storia: in questo modo la ragazza ‘narra’ la propria vicenda usando la voce muta della scrittura letteraria, che da pura invenzione poetica si trasforma così in cronaca della realtà. Il silenzio forzato di Lavinia sta diventando estremamente eloquente. Tuttavia il testo ovidiano non è in grado di rivelare chi, nella vicenda di Lavinia, ha coperto il ruolo attanziale di Tereo. È per questo che comunque dalla bocca di Lavinia devono uscire parole non udite bensì visualizzate. Vediamo come ciò accade facendo entrare in scena anche la trasposizione cinematografica della Taymor. Nel film la scena si  

@

  “La dolce Filomela perse solo la lingua / e laboriosamente ricamò i suoi pensieri. / Ma a te, cara nipote, questo mezzo fu tolto, / tu hai incontrato un più astuto Tereo / ed egli ti ha mozzato quelle dita gentili / che avrebbero saputo ricamare meglio di Filomela”. 2  Nelle Metamorfosi di Ovidio non è chiarissimo se Filomela tessa sulla tela un testo scritto oppure produca degli indicia iconici che denunciano al colpa di Tereo. In particolare si è molto discusso sull’ambiguità dei termini utilizzati da Ovidio, il quale, al v. 577, dice che Filomela ha tessuto sulla tela bianca purpureas notas. Il termine nota non indica necessariamente la parola scritta, bensì più genericamente un segno indiziario che rinvia in modo non immediato ad un significato. Quando la tela arriva a Procne Ovidio dice (v. 582) che la donna germanae [...] suae carmen miserabile legit. Il verbo legere significa sia ‘cogliere con lo sguardo’ e quindi intuire un messaggio in base a qualcosa che si vede sia più propriamente ‘leggere’ caratteri di scrittura: il miserabile carmen ‘intessuto’ da Filomela è un lamento scritto che viene letto da Procne? È possibile che il nesso miserabile carmen sia piuttosto una sottile e raffinata anticipazione da parte del poeta della sorte metamorfica che toccherà alla vittima della violenza di Tereo e che quindi si riferisca al fatto che, una volta divenuta usignolo, ella continuerà a modulare nel canto il dolore per il proprio destino: con miserabile carmen, infatti, già in Virgilio, Georg. 4, 5@@-5@5, indicava il lamentoso canto senza parole della philomela, ovvero dell’usignolo, come anche in Ovidio, Met. 5, @@8 si riferisce al suono funebre delle corde della lira pizzicate da un cantore in punto morte. Resta dunque l’ambiguità: o Procne legge parole purpuree intessute da Filomela nella tela bianca oppure coglie con lo sguardo muti e imprecisati segni che rivelano quali indizi visivi tanto la storia della sorella quanto il suo tono fatidicamente un po’ blues. Gianpiero Rosati (Ovidio. Metamorfosi (Libri v-vi), a cura di G. R., traduzione di G. Chiarini, Milano 2009) ritiene che le notae siano segni alfabetici, seppur cifrati. Per Moritz Haupt (P. Ovidius Naso. Metamorphosen, Erster Band, Buch i-vii, erkl. von M. H., Dublin-Zürich @966) le notae sono Buchstaben. Le altre fonti antiche sono sempre piuttosto vaghe. Servio, nel commento all’Ecl. 6, 78 afferma che Filomela ha rivelato tutto alla sorella ‘scrivendo’ o ‘descrivendo’ col proprio sangue sulla tela (rem in ueste suo cruore descriptam). Per Nonno invece (Dion. 4, 328-330) i colori della tela avrebbero un rapporto simbolico diretto con le ingiurie fisiche subite: parqenikh;n fugovdemnon ojduromevnh Filomhvlhn, oJppovte foinhventi memigmevnon ai{mato~ oJlkw`/ glwvssh~ ajrtitovmoio sunevbluen ai|ma koreivh~. Apollod. Bibl. 3, @4, 8, 3 parla di gravmmata intessuti nella tela, mentre Achille Tazio 5, 5, 5 fa

un riferimento generico ma pregnante alla sostituzione del racconto aurale con quello visivo: ÔUfaivnei ga;r pevplon a[ggelon kai; to; dra`ma plevkei tai`~ krovkai~, kai; mimei`tai th;n glw`ttan hJcei;r kai; Provknh~ toi`~ ojfqalmoi`~ ta; tw`n w[twn mhnuvei kai; pro;~ aujth;n a} pevponqe th`/ kerkivdilalei`.

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svolge in un uliveto dove Lavinia, vestita con una tunica rosso sangue dalle lunghe maniche in grado di nascondere i moncherini, insegue il piccolo Lucio che ha in mano i libri (90’ 57”). Lucio, come in Shakespeare, chiede aiuto al nonno e allo zio, lascia cadere in terra i libri e viene raggiunto da Lavinia (9@’ @6”). Qui il cinema può aumentare a modo suo l’enfasi del testo scritto: Lavinia guarda disperata Lucio emettendo suoni inarticolati con la bocca, sottolineando come anche il non-silenzio sia un non-linguaggio, una vocalità priva di parole, ma in grado di esprimere dolore e disperazione. La bocca di Lavinia deve tuttavia dire, cercando smaniosamente le parole che le sono state strappate. Come suggerito dal testo shakespeariano (IV. i 45: “Soft, so busily she turns the leaves”), @ fruga coi moncherini fra le pagine del codex ovidiano. Lucio, Marco e Tito la aiutano, ma quando viene raggiunto l’episodio di Filomela, la Taymor aggiunge un tocco visivo importante, ove nel Titus Andronicus Marco dice genericamente (IV. i 50): “See, brother, see, note how she coats the leaves”. 2 Come indica le pagine Lavinia? Shakespeare non lo dice, ma la Taymor deve per forza mostrarcelo (9@’ 5@”): Lavinia sfoglia tutto l’episodio di Filomela usando la bocca, come se cercasse disperatamente di riappropriarsi, grazie alla pagina scritta, di quelle parole che la sua voce non può più articolare. È come se la fanciulla volesse riportare nella sua bocca le frasi che le sono state tolte dai carnefici, concedendosi un’altra possibilità di parlare a dispetto del suo silenzio forzato: ma saranno invece i suoi cari a prestare la voce ai versi delle Metamorfosi da lei indicati. Come dicevamo, la traccia del racconto ovidiano può svelare a Tito e ai suoi la dinamica degli eventi, ma non i nomi dei colpevoli. Marco, come nel testo originale (IV. i 64-70), insegna allora a Lavinia a scrivere sulla sabbia con un bastone retto dai moncherini e guidato dalla bocca (92’ 27”) e, come in Shakespeare, la ragazza riesce a scrivere i nomi di Chirone e Demetrio. 3 La Taymor, tuttavia, compie ancora un piccolo scarto rispetto al testo originario, uno scarto significativo. Lavinia prende il bastone fra i moncherini (92’ 49”), poi, inquadrata in primissimo piano, ne osserva intensamente la sommità, quella che Marco aveva guidato con la bocca. Quindi schiude le labbra esponendo allo spettatore i segni della sua mutilazione e si accinge a imboccare il bastone, come se così, tramite una protesi che supplisca la fonazione tarpata, potesse di nuovo articolare segni linguistici. Ma d’improvviso emette un gemito disperato e allontana la testa dal bastone, attorno al quale si avvolge invece quasi con tutto il corpo, tracciando furiosamente grafemi sulla sabbia, mentre le scorrono nella mente le immagini allucinate e simboliche 4 del suo supplizio. È la rinunzia definitiva alla voce, anche per tratto  

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  “Zitti! Come si ingegna a voltare le pagine!”.   “Guarda, fratello, guarda! Osserva come indica le pagine”. 3  La didascalia nel testo di Shakespeare a IV. i 76 recita così: “She takes the staff in her mouth, and guides it with her stumps and writes” (“Lavinia afferra il bastone con la bocca e aiutandosi con i moncherini scrive”). Lavinia riuscirà a scrivere un tricolon asindetico e ascendente (letto ad alta voce da Tito e stampato nell’edizione in uno stichos autonomo) avulso dalla tipica versificazione shakespeariana, ma ritmicamente e poeticamente assai efficace (IV. i 77): Stuprum, Chiron, Demetrius. 4   Si tratta di sequenze intervallate più volte al suo scrivere frenetico. Qui i fotogrammi sono virati in blu e si vede sullo sfondo il volto di Lavinia terrorizzato in primissimo piano, mentre 2

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metonimico, è la scelta di un silenzio assai fragoroso, dove è il corpo stuprato in tutta la sua interezza a tradurre in scrittura le lancinanti visioni che abitano la memoria di Lavinia. Schede filmografiche Asì es la vida 2000 Messico-Francia 96´; regia: Arturo Ripstein; produzione: J. M. Morales e Th. Forté, L. Imperiales, J. Sanchez, A. Granica per Filmanía con Gardenia Producciones e Fondo Para la Producción Cinematográfica di Calidad/Wanda Visión/ D.M.V.B. Films; sceneggiatura: P. A. Garciadiego; fotografia: G. Granillo; montaggio: C. Puente; suono: A. Diego; musica: D. Mansfield e Leoncio Lara (Bon); cast: Arcelia Ramirez (Julia), Luis Felipe Trovar (Nicolás), Patricia Reyes Spindola (Adela, la madrina), Ernesto Yanez (La Marrana), Francesca Guillén (Raquel). Medea @969 Italia @@0’; regia: P. P. Pasolini; sceneggiatura: P. P. Pasolini; fotografia: E. Guarnieri; montaggio: N. Baragli; produzione: K. Hellwig, P. Kalfon, F. Rossellini; produzione grafica: D. Ferretti; costumi: P. Tosi; consulenza musicale: E. Morante; cast: M. Callas (Medea); G. Gentile (Giasone); M. Girotti (Creonte); L. Terzieff (centauro); M. Clémenti (Glauce); S. Tramonti (Apsirto).

al centro compare in piedi su un basamento di colonna Lavinia stessa a figura intera con un succinto abito bianco che viene sollevato dal vento mentre lei tenta di tenerlo fermo sul ventre con la mano destra. La ragazza ha sul capo, a guisa di cappello, la testa di una cerbiatta. Su di lei si gettano, in overprojection, due tigri la cui immagine con una sorta di effetto stroboscopico si sovrappone a quella di Chirone e Demetrio. La Taymor descrive l’orrore della violenza subita da Lavinia usando le metafore animali che Shakespeare stesso suggerisce: Demetrio, parlando con Aronne del suo desiderio di conquistare Lavinia (II. i 93) dice: “What, hast not thou full often stroke a doe?” (“Come, non ti è successo tante volte di colpire una cerbiatta?”); Lavinia, rivolgendosi a Tamora, parla così dei figli della regina gota (II. iii @42): “When did the tiger’s young ones teach the dam?” (“Che? I cuccioli di tigre fanno scuola alla madre?”).

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Titus @999 Italia-USA-UK @62’; regia: J. Taymor; sceneggiatura: J. Taymor; fotografia: L. Tovoli; montaggio: F. Bonnot; produzione: C. Airoldi, J. Allen, P. G. Allen, S. K. Bannon, R. Bernacchi, M. Bisgeier, A. Leipzig, E. Dinnerman Little, R. Little, B. Moseley, L. Reisman, J.Taymor, K. L. Thorson, M. Yoshizaki; musica: E. Goldenthal; produzione grafica: D. Ferretti; costumi: M. Canonero; cast: O. Jones (il giovane Lucio), D. D’Ambrosi (clown), A. Hopkins (Tito Andronico), J. Lange (Tamora), R. Degan (Alarbus), J. Rhys Meyers (Chirone), M. Rhys (Demetrio), H. Lennix (Aronne), A. Macfayden (Lucio), K. Doughty (Quinto), C. Feore (Marco Andronico), L. Fraser (Lavinia), A. Cumming (Saturnino), J. Frain (Bassiano).

Abstract In ancient mythology, one cultural feature of the barbarians is silence conceived as the impossibility to use a civilized language. The cinematic translations of Euripides’ Medea and of Shakespeare’s Titus Andronicus both use a visual representation of silence to show some voiceless talk that somehow involve the barbarians. In Pasolini’s movie, the barbarian Medea talks intensely with Jason without any word; in Julie Taymor’s film Titus, Lavinia, raped and mutilated of her tongue by the sons of the barbarian queen Tamora, silently complains about her tormentors through the book that contains the ovidian tale of Philomela.

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I N D I C E D E I NOMI Abdera

(città): @43 e nn. 4-5, @44-@46 e n. @ Abdero (eroe): @43 e n. 7, @44 Acarne: @95 Acerato: 22 Acessamene: 76 Acestore: 77 Achei: @09 n. 2 Acheloo: 29, 3@ n. @ Achemene: 78 Achille: 33 n. 3, 74-76, @53, @69 e n. 4, @79 n. 2 Ade: 28 n. 8, @49 e n. 8 Admeto: @8@ Adone: 39 n. 5 Adrasteia @66 Adrasto: @46 Aethon: @@0 Afrodite: 55, 75, @@6-@@9 n. 2, @35, @58-@59 Afrodite Urania: @6 Agalo: @33 n. @ Agamennone: @4, @2@, @56, @70, @72, @75 n. 3, @80 nn. 3 e 6, @8@ e n. 2 Agamestore: 77 Agatirso: 8@ Agatone: 200 Agenore: 77 Agesia di Siracusa: 82 Agesidamo (di Locri Epizefirii): @44 Agron: 79-80 Aiace Telamonio: 4@, 77, @09 n. 2, @@0 n. 2 Aidoneo: @49 Aithon: @03, @05-@06 n. 6, @07 e n. @, @08, @@0 e n. 3, @@@-@@2 Alceo (figlio di Eracle): 79-80 Alcibiade: 89 n. 2, 94 e n. 2, @60 n. 2, @66 n. @ Alcinoo: @03 Alessandria: 39 n. 5 Alessandro (di Macedonia): 27 n. 3, 78 Alevadi: @32 Aliatte: 80 n. 3 Aliterse: @08 Altea: @84 e n. 2 Amasi: 8@

Amfitrione: @77 Anacarsi: @4 Ananke @66 n. 8 Anchise: 75 Andocide: 82 Androcle: 88 e n. 9 Andromaca: 94 n. @, @75 n. 3 Anfiarao: @50 Anfiloco: @50 Anfitrione: 30 n. 5, 3@ n. 3 Antenore: 75, @@5 Antifonte: 96 e n. @ Antiloco: @@5 Antinoo: @20 Antipatro: 22 Apheidas: @04-@05 Apollo: 74, 82, @09, @42, @47-@49, @70, @72@74, @75 e nn. @ e 2, @8@ n. 2 Apollo Dereno: @43 e n. 5 Apollo Ulio: 78 n. 3 Apollodoro: 33, 34 nn. 2-3, 74 Apollonio di Tiana: 65-66 Apsirto: 208-209 Arcesilao IV di Cirene: @36 Ardys: 79, 80 n. 3 Areopago: 53 Ares: @49 n. 8 Argo: @34, @55 Argonauti: @84, 208, 2@0 Arianna: @58 Aristagora di Tenedo: 82 Aristide: 89 n. 2 Aristoclide: @33 Aristofane: @0, @37 e n. 2, @38 Aristotele: 40, @30 n. 3 Aronne: 2@@ Arpago: @45, @46 n. @ Arpossai: 80-8@ Artaserse: @@8-@20, @23 n. 6, @24 Artemide @47-@48, @59, @6@ Artemide Brauronia: @84 n. 5 Artemisio: 38 n. @ Asia: 38 n. 5 Asio: 73 n. 4 Asopico di Orcomeno: @3@

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indice dei nomi

Assaraco: 75 Assio: 76 Assiri: 80 Asteropeo: 76 Atena: @03, @20 n. 3, @49, @57, @72, @73, @74 e nn. @-2, @75 e n. @, @77 Atene: @0, 43, 77, 85-87, 89 e n. 2, 92, 97, @60 n. 3, @67 Atridi @55, @84 Atteo: 77 Attica: 77, 86 Atys: 79

Babilonia: 80, @@5, @@8-@@9 Bacchiadi: @09 Bacchilide: @32, @36 Bdelicleone: 97, @60 n. 5, @98 Belo: 79-80, @43 n. 7 Bia: @62 Biante: @50 Boristene: 80-8@ Cadice: @33

Cadmo: @46, @85 Calasiri: @@7 n. 5 Calcante @56 Callimaco: @35 Calliroe: @6, @@5-@@7 e n. 4, @@8 e n. 2, @@9 e nn. 2 e 4, @20 e n. @, @22-@24 e n. @ Candaule: 79 Canidia: 63 Capi: 75 Cari: 33-34 e n. @ Cariclea: @@7 e nn. 3 e 5 Carione: 202 Caritone: @@5, @@6 e n. 2, @@8-@@9, @23 n. 6, @24-@25 Cassandra: @4, @5, @42 e n. @, @54-@57 n. @, @69 e n. 4 Castore: @03 n. 3 Catreo: 76 n. 2 Centauri: 29 e n. 6, 30 n. 5 Cerbero: 29, @49 Cerellia Fortunata: 22 Cherea: @6, @@6-@22 e n. @, @23-@25 Chersoneso: 77 Chirone: 2@@, 2@3 e n. 4 Ciclopi: @03 Cicreo: 77

Cimone: 77, 78 n. 3 Cinetone: 73 n. 4 Cipselo: @09 Circe: 69-70 Cirene: 69-70, @37 Ciro: @4, 78, @45 Cleandrida: @@, 86 Clearista: 23 Cleofonte: 32 n. 7, 39 Cleomene I: 92 Climene @64 Clistene: 92 Clistene (personaggio delle Tesmoforiazuse): @7@ n. 3 Clitemestra: @4, 39, @57 n. 2, @70, @77, @80 n. 6, @8@, @84 Colassai: 80-8@ Colchi: 208, 2@0 Colchide: 207-208, 2@0 Colono: 88 e n. 4, 90 Corinto: @34, 207-208 n. @ Creonte: @60 n. 3 Creso: @4, 80 n. 3 Creta: @58, @60-@6@ Crete: 76 n. 2 Creusa: @80 n. 7, @8@ Crisomallo: 23 Crisotemi: @80 n. 6 Crizia: 50 Ctesippo: @20 Curdi: 37 n. 2

Dardania: 75 Dardanidi: 75 Dardano: 75 Dario: 8@, 85-86 Deianira: @4, 28 e nn. 4 e 6 e 8-@0, 29 e n. 2, 3@ n. @, @69 n. 4, @80 n. 5 Deifobo: 76 Delfi @60 n. 3 Delo: @47-@48, @50 Demetra: 33 n. 6, 57-58, 93, @65 n. 3 Demetrio: 2@@, 2@3 e n. 4 Demodoco: @3 Demos: 94, @96-@97 Demostene: 55 Deucalione: 34 n. 3, 76, @03, @05 Diana: 63 Diceopoli: @95-@96

indice dei nomi Dinomenidi: @46-@47 Diomede: @2@, @44, @8@ Dionisio (personaggio di Cherea e Calliroe): @6, @@6-@@7 e n. 4, @@8-@@9 e n. 4, @20 e n. @, @22-@23 e n. 6, @24 Dioniso: 43 n. 2, @58, @65 e n. 3, @80, @97, 20@ Dodona: 28 n. 8, 43 n. 2 Dolone: @@ Draconte: 70

Eacidi: @34

Eaco: 76-77, @33-@34 Ecate: 57-58, 63 Eclo: 77 Eco: 32 n. 7 Ecuba: @42, @72 Edipo: @85 Eetione: @09 Efarmosto (di Opunte): @44, @49 Efesto @62 Efialte: 90 n. 3 Eforo: 86 Egina: 77, @33 Egisto: @82, @84 Egitto: 42 n. @, 44 n. 3 Egiziani: 27 n. 4 Elena: @08, @@5, @75 n. 3, @77 Elettra: 49, @49, @75 n. 3, @77-@78 e n. 4, @79, @80 n. 6, @8@, @84 Eleusi: 32 n. 6, @66 Ellade: @99 Ellanico di Lesbo: 8@ e n. 4 Elleno: 33 n. 3 Emmenidi: @46 Emone: @46, @57 Enea: 74, 75 e n. 3 Enesidamo: @46 Eperitos: @03, @04 e n. 3, @05 Epiluco: 77 Epimenide: 52 Epiro: 39 Era: @48-@49 e n. 8 Eracle: 28 e nn. 4 e 8, 29 e nn. @ e 4, 30 e n. 4, 3@ e n. @, 43 n. 2, 78-80 e n. 4, 8@, @09 n. 2, @32-@33, @44, @49 e n. 8, @50, @65-@66, @77, @80 n. 5, @8@, 207 Eraclidi: 79 Erimanto: 29 Erinni @57 e n. @, @72-@74, @85 e n. 4, @88

219

Erisittone: @06 n. @@ Erittonio: 75 Ermes: 62 e n. 3, 82 (vd. anche Hermes) Ermes Agoraios: 54 e n. 2, 55 Ermes Psithyristes: 55 Ermione: @75 n. 3, @77 Ermocrate: @2@ Erodoto: 39 n. 5, 78 e nn. 5 e 7, 79-80 e n. 4, 8@, @37 e n. 3 Eros: 55 Eschilo: 20@ Esichidi: 52-54 Esone: @97 Esperidi: 29 Eta: 3@ n. @ Eteocle: @46, @85-@86 e n. 4, @87-@88 e nn. @ e 4, @89 e nn. 3 e 8, @90 Etolia: 28 Ettore: @@, 22, 74-75, @05 Eubea: 28 Eumelo (epico): 73 n. 4, Eumelo: @@5 Eumenidi: 5@-53 Eumeo: @03 e n. 3 Eumolpidi: 32 n. 6 Euribate: @@5 Euriclea: 32 n. 2, @03 n. 2, @@5 Eurimaco: @04 n. 4 Euripide: @97, @99 n. @, 200-20@, 209 n. @ Eurito: 28 e n. 6, 3@ n. @ Europa: 76 n. 2, @34 Eveno: 28

Fanodemo: 70 Farnace: @@9 n. 4 Feaci: @03 Fedra @5-@6, 55, @58-@6@, @69-@70 n. 4, @75 n. 3, @80 Ferecide di Atene: 76, 82 Fidia: @6 Filacida di Egina: @34 Filaidi: 77, 78 n. 3, 82 Fileo: 77 Filippo II di Macedonia: 85 Filocleone @60 n. 5, @98 Filomela: 38 n. 5, 2@@ e n. @, 2@2 e nn. @-2, 2@3 Filottete: @37, @7@ Flegra: 29 n. 4

220

indice dei nomi

Foca: @@9 n. 4 Frigio (personaggio dell’Oreste): @75 n. 3 Ftiotide: 33 n. 3

Ganimede: 75

Gelono: 8@ Gerione: 8@ Giasone: 69-70, @97, 207-209 e n. @, 2@0 Giganti: 29 e n. 4, 30 n. 5 Gige: 79, 80 n. 3 Giocasta: @69-@79 n. 4 Glauce: 77 Glauco: 74 n. 4, 76 n. 2 Gorgò: 39 n. 5 Gregorio di Nazianzo: 23

Hermes: 20, @43 n. 7, @64, @84, @99 e n. 2 (vd. anche Ermes) Hesychos (eroe): 53

Iacco: 20@ Iamo: 82, @48 Iardano: 79 Idaspe: @@7 n. 3 Idomeneo: 76 e n. 2, @05 Idra di Lerna: 29 Ierone di Siracusa: @3@ e n. 3, @37, @42 Ifigenia @56-@57, @80 n. 4 Ifito: 3@ n. @, @49 Igino: @@0 Ilacide: @03 n. 3 Illo: 28 n. 9 Ilo: 75 Io: @6@, @63 Iole: @4, 28 n. 6, @70 Ione: @80 n. 7, @8@ Ioni: 34 e n. @ Ippia: 73 n. 2, 97 Ippoclea: @32 Ippoclide: 77 Ippolito: @5, 55, @58-@6@, @75 n. 3 Ipsipile: @84 Isagora: 78 n. 5, 92 Israele: 42 n. @ Itacesi: 32 n. @, @08

Kratos @62 Kronos @62 n. @, @64

Labdacidi: @46, @87

Lacedemonii: 86-92 Laerte: @03, @04 e nn. 3-5, @@5-@@6 Laio: @87 n. 2 Lampos: @05 Laodamia: 76 n. 2 Laomedonte: 29 n. 4, 75 Larissa: @32 Latona: @48 Lavinia: 2@0-2@3 e nn. 3-4, 2@4 Lenee: 8@ Leona: @@8 Leonida: 22 Libia: 39 Lica: @4, 3@ n. @ Licaone: 74 Lice: 77 Lidia: 79-80 Lido: 79 Lindo: 55 Lipossai: 80-8@ Lisia: 82 n. 3 Lisistrata: 92-95, 97 Luciano: 20, 50 Lucio: 2@2-2@3

Macaria: @@7

Marco: 2@@-2@3 Marco Antonio Encolpo: 22 Mardonio: @0 Maronea: 86 Medea: 69-70, @8@, @97, 207 e n. 5, 208-209 e n. @, 2@0 Medi: 80 Megabizo: 85 Megara (Creontide): @49 Melampo: @50 Melanfillo (monte tracio): @42 e n. 4 Meleagro: 23, @84 e n. 2 Melisso di Tebe: @49 Menippo: 20 Mentore: 32 n. @ Meoni (Lidi): 79 Meri: 8@ Mermnadi: 79 Mileto: @@6 Milziade: 77, 89 n. 2, @84 n. 5 Min: 8@

indice dei nomi Mini: 29 n. 4 Minosse: 76 e n. 2, @84 n. 3 Mirso: 79 Mitridate: @6, @@5, @22, @24 n. 2 Moire: @84 n. 2 Molo: 76 n. 2 Musa: @33, @42 Muse: 4@, @20, @30, @48 Muta (dea): 63-64

Nausicaa: 82

Neleo: @49-@50 Nemea: 29 e n. 5 Neottolemo: @7@ Nesso: 28 e n. 8, 29 e n. 6 Nicia: 89 e n. 2, 94 n. 2, @60 n. 2 Nicolao di Damasco: 79 e n. 2 Ninive: 80 e n. 3 Nino: 79, 80 e n. 3 Niobe: @53, @69 e n. 4 Niso: @83, Nitocri: 8@

Oceanine: @62 n. @, @63, @66 Oceano: 76, @55, @62-@63, @66 Odisseo (/ Ulisse): @@, @3, 2@, 38 n. 5, 82, @03-@@2 e nn., @@5-@@6 e n. @, @@9-@20, @22, @80 n. @, @8@ Oligetidi: @34 Olimpia: 73 n. 2 Olimpo: 38 n. @ Omero: @3, 33 e n. 3, 4@, 73-74, 75 n. @, @04 n. 3, @05, @07, @08 n. 2, @@0-@@@, @29 Onfale: 78 Opora: @99 Opunte: @42 Oracolista: @99 Orazio: @34 n. 2 Oreste: 68-70, 82, @54, @70, @72-@75 n. 3, @79, @80 n. 6, @8@ e n. 2, @82, @85 Orfeo: @59 Ortigia: @48 Otane: 85 Paflagone: 93

Paolo Silenziario: 23 Parente di Euripide: 200 Pasifae @58 Patroclo: 74

221

Pausania (storico): 73 n. 4, 74 Pegaso: @99 e n. @ Pelegone: 76 Peleo: 76-76 Pelinneo: @32 Peloponneso: 33 n. 3, 77 Penelope: @@, 32 n. 2, @03-@09 e nn., @@0@@2 e nn., @@5 Penteo @65 Peoni: 76 n. 4, @42 Peonia: 76 n. 4 Perdicca: 78 Peribea: 76 Pericle: @@, 2@, 85-87, 90, @60 n. 2 Persefone: 32 n. 6, 57-58 Persia: 44 n. 3 Persiani: 80 Pieridi: @42 Pilade: @70, @75 n. 3, @82 Pindaro: @06 n. @, @07, @3@-@32, @34 e n. 2, @35 n. 5, @37-@38 Pireo: 86 Pirra: 33 n. 3 Pisandro: 8@, 87-9@, 93, 96 n. 2, 97 Pisetero: @99 Pitagora: 3@, 35 Pito: @32 Pitodoro: 90-9@ Pizia: @09 Plangone: @6, @@8-@@9, @22-@23 e nn. 4-5 Platone: 27 n. @, 35, 73 n. 2 Plistoanatte: 86 Pluto: 202 Podargos: @05 Policarmo: @@9, @24 Polidoro: @46, @72 Polifemo: @06 n. @, @80 n. @ Polimestore: @72 Polinice: @46 Polipemonide: @04 e n. 5, @05 Ponto: 8@ Posidone: 39, @03, @43, @49 Prassinoa: 39 n. 5 Priamo: 75 e n. 3 Proci: 3@, @@5, @20 Procne: 2@2 n. 2 Prometeo: @5, @@0, @54-@55 e n. 3, @56, @6@@62 e nn. @ e 4, @65 e n. 3, @66 e n. 6, @69

222

indice dei nomi

Quattrocento (i): @0 Quintiliano: @22-@23 Radamanto: 76 n. 2 Sadiatte: 80 n. 3

Salamina: 77, 86, @34 Salsicciaio: @96 Samo: 87 Sardi: 79-80 Sarpedonte: 76 n. 2 Saturnino: 2@@ Scamandro: 76 Scilla: @83-@84 e n. 3, @85 Scite: 8@ Sciti (Sciti Aucati, Catiari, Traspi, Paralati): 80-8@ Scizia: 44 n. 3, 8@, @62-@63 Seneca: 209 n. @ Senofonte: @@7 n. 5 Serse: @0, 78 Sesostri: 8@ Sicilia: 44 n. @, 89 n. 2, 95 Simonide: @32, @36, @39 n. @ Siracusa: 56, @@9, @2@, @46 Siracusani: @20 Socrate: 27 n. @, @97 Sofrone: 60-63 Solone: @2, @4 Sparta: @0, @32 Spartani: 94, 97 Statira: @@8, @@9 n. 4 Strabone: 33 e n. 3, 35 e nn. @-2, 40, 42-43 Strepsiade: @97

Tacita (dea): 63-64

Talete: 27 n. @ Taltibio: @@5 Tamora: 2@@, 2@3 n. 4 Targitao: 80-8@ Teagene: @@7 e n. 5 Tebe: 3@ n. 3 Teeo di Argo: @34 Telamone: 77, @09 n. 2

Telemaco: 3@, 32 n. 2, 82, @0@, @08, @46 Temistocle: 86-87, 90 Tenedo: 82 Teo: @45, @46 e n. @ Teoclimeno: @80 n. 4 Tera: @46 Teramene: 90 n. @ Tereo: 38 n. 5, 2@2 e nn. @-2 Terone (tiranno di Agrigento): @34 n. 2, @36, @46-@47 Tersandro: @46 Teseo @59, @6@ Tesmoforio: 200 Tessaglia: 33 n. 3, @32 Teti: 75 Themis @62 n. @, @64-@65 n. 3 Timasarco: @33 Timesio di Clazomene: @45-@46 e n. @ Tisandro: 77 Titani: @48 Tito (generale): 2@@-2@3 e n. 3 Toante: @84 n. 5 Tossari: @4 Trasideo di Tebe: @33 Triballo: 39 Trigeo: @98-@99 e nn. @-2 Trogloditi: 38 n. 5 Troia: 29 n. 4, 4@, 75 Troiani: 33, 75 Tronia (ninfa Naiade): @43 e n. 7 Tronio (città): @42 Troo: 75 Tucidide: 2@, 33 n. 3, 34, 90, 92-93, 95-96, @37 e n. 3, @38 Turchi: 39 n. 2

Ulio: 77 Xanthos: @05 Xanto di Lidia: 79 e n. 2 Xuto: @60 n. 3, @80 n. 7, @8@ Zeus:

28, 38 n. @, 39, 75-76 e n. 2, 80-8@, @09 n. 2, @55, @62-@67, @85, @99 Zeus Cario: 78 n. 7

I N D I C E D E I P ASS I DISCUSSI Aeschylus Ag. 36-37: 30 36-39: @55 248-254: @56 950-@07@: @54 975-@034: @57 @035-@330: @55 @050-@05@: 39 @06@: @4 @@05-@@@2: @56 @@62-@@66: @56 Choe. 585-638: @8@-@85 900-902: @54 Eum. 566-575: @72-@75 Prom. @-87: @62 88-@26: @62 298-306: @66 436-442: @54 944-@093: @64 Sept. 230-232: @86-@90 249-252: @86-@90 259-262: @86-@90 fr. 3@6 Radt: 32 450: 39 n. @ Andocides @, @7, 22: 90 n. 3 @, 97: 94 n. 2 Anecdota Graeca s.v. ajglwttiva (p. 329, 22 Bekker): 30 e n. 3 Anthologia Palatina 7, @38: 22 7, 2@@: 23 7, 3@6: 22 s. 7, 562: 23 7, 563: 23 7, 588: 23 7, 597: 23 7, @282: 23 8, 4: 23 8, 96: 23 8, @37: 23 8, 236: 23

9, 505, @8: 44 n. 4 @0, 42: 32 @0, 46: 32 n. 4 @4, @: 32 n. 4 @6, @32: 32 n. 7 @6, 325-326: 32 n. 4 Apollodorus Bibl. 2, 5, 8: @43 n. 7, @44 e n. 3 3, @2, 7: @09 n. 2 Aristophanes Ach. 237: @95-@96 24@: @95-@96 Av. 44: @60 n. 2 7@8 s.: 200 959: @99-200 @68@: 39 Eq. @80 ss.: 94 n. 6 257: 92 n. 2 26@: @60 n. 2 452: 92 n. 2 475 s. 92 n. 2 628: 92 n. 2 862: 92 n. 2 @3@6: @96-@97 @32@ ss.: 89 n. 2 Lys. 30: 92 4@: 92 e n. 5, 95 n. 3 46: 92 e n. 5 94 ss.: 9@ @@9: 9@ n. 6 @73 ss.: 92 @82: 92 239: 92 n. @ 27@ ss.: 92 350-35@: 94 373: 92 n. @ 497 ss.: 92-93 507 ss.: 93 509: 93 n. 4 5@5 s.: 94 n. @ 5@7-520: 94 525 ss.: 95 525-528: 95 n. 4

224

indice dei passi discussi

528: 96 529: 97 534: 97 540: 92 n. @ 577 ss.: 95 n. 3 579: 95 n. 3 6@9 ss.: 97 630: 97 7@2: 92 n. @ Nub. 263: @97 263-266: @63 n. @ 297: @97 376-38@: @63 n. @ Pax 96: @98-@99 434: @99 @3@6: @99 Plut. 758: 20@-202 Ra. 353: 20@ 679-682: 39 838: 32 n. 7 888-892: @63 n. @ 9@@: @53 9@@ ss.: @5 924-926: @53 939-942: @53 @273: 20@ Thesm. @3-@8: @63 n. @ 39: 200 5@: @63 n. @ 272: @63 n. @ 45@: @63 n. @ 295: 200 Vesp. 345: 92 n. 2 483: 92 n. 2 488: 92 n. 2 488 ss.: 97 507: 92 n. 2 868: @98 953: 92 n. 2 @040: @60 n. 2

@305a 37-@306b 2@: 85 n. 2 @3@3b @0-@5: @@ Resp. Ath. 20, 3: 92 n. 4 22, 7: 86 n. 2 29, @: 89 n. 3 29, 2: 90 n. 2 29, 4: 9@ n. 2 Rhet. @380b: @03 n. @ fr. 304 Rose: 36 658: 27 e n. 3

Aristoteles De interpr. @6a @9-34: 4@ e n. @ @6a 20-34: 40 e n. 2 Eth. Nic. 7, @, @@45a 30 ss.: 40 e n. @ Metaph. 5, @022b 34-36: 4@ Poet. @450b: @54 n. 3 @452a: @05 n. @ @459b: @05 n. @ Pol. @253a @0-@8: 43 e n. @

Dionysius Halicarnassensis De comp. verb. 6, @2, 3: 37 e n. 5

Ps.-Aristoteles De audibil. 80@b @-22: 37 e n. 2 80@b 5: 37 e n. 2 802b 29-803a 5: 38 803b 29: 37 n. 5 804a 9-22: 36 804a 32-33: 37 n. @ 804b 4-8: 37 n. @ De voce 30, 902b 27-28: 37 e n. 3 Chariton Chaer. et Call. passim: @@5-@25 Cicero Tusc. disp. 2, 8, 20: 29 n. 6 Demosthenes Or. 9, 27: 30 n. @ Phil. 4, 3: 85 n. 3 Diodorus @@, 4@ s.: 86 n. 3 @3, 34, 2: 88 n. @ Diogenes Laertius @, 33: 27 e n. @ Dio Chrysostomus Or. 52, @@: @53 n. @

Eupolis fr. @@6 K.-A.: 38 n. 4 Euripides Bacch. 266-327: @65 n. 3 Hec. 722-725: @72

indice dei passi discussi HF @042-@060: @76-@77 Her. @77-@84: 30 n. 5 225-226: 30 n. 5 Hipp. passim: @58-@60 93: @60 n. 4 538: @60 n. @ @0@4-@020: @60 n. 3 Ion 62@-639: @60 n. 3 IA @400: 27 e n. 3 Or. @40-@50: @76-@80 @70-@72: @76-@80 @83-@86: @76-@80 903-905: 32 n. 7 fr. 56 Kn.: 4@ n. 4 Eustathius ad Hom. Od. 2@, 4@@, @9@4, 29 ss.: 38 n. 5 Hellanicus Lesbius FGrHist 4 F @05: @43 n. 7, @44 e n. 2 4 F @70 (= FGrHist 323a F 24): 82 Heniochus fr. @ K.-A.: 36 Herodotus @, 7: 79-80 @, 86: 44 n. 3 @, @68: @45 e nn. @-2, @46 e n. @ 2, 54-57: 39 2, 99 ss.: 8@ 2, @58, 5: 27 n. 4 3, 38, 4: 44 n. 3 3, 8@, 7: 93 n. @ 3, 82: 85 3, 82, 2: 85 n. @ 3, 82, 3: 85 n. 3 3, @40, 3: 44 n. 3 4, 5-7: 80-8@ 4, @@3: 45 e n. @ 5, 32: @60 n. @ 5, 72: 92 n. 4 5, 92b 2 s.: @09 7, 8-@3: @0 7, @@, 2: 78 7, 204: 78 8, @3@: 78 8, @39: 78 8, @44: 27 s.

225

Hesiodus Op. 42-@05: @64 Theog. 2@@-2@2: 20 52@-735: @64 758-766: 20 839-843: 38 n. @ Hesychius s.vv. a[glwssoi (@, 25, 26 Latte): 30 e n. 3 ajglwttiva (@, 25, 28 Latte): 30 e n. 3 celidovno~ divkhn (iv p. 280, 25-26 Schmidt): 39 Homerus Il. 2, 484-493: 4@ 2, 76@-762: 4@ 2, 867: 33 9, 443: 43 @0, 3@4-549: @@ @3, 449 ss.: 76 @3, 82@ ss.: @09 n. 2 @4, 9@: 32 @4, 23@: 20 @5, 690: @@0 @6, 454: 20 @6, 672: 20 @6, 682: 20 20, 2@5 ss.: 74-75 2@, @39 ss.: 76-77 Od. @, 38@: 32 e n. @ 2, @46 ss.: @06 2, 239-24@: 32 n. @ 8, 487: @3 9, @9: @03 9, @83: @03 9, 366: @03 9, 504 ss.: @03 @@, 43: 2@ @4, 204: @03 n. 3 @5, @54 ss.: @08 @6, @87 ss.: @03 @7, 57: 32 n. 2 @8, 353-354: @06 @8, 4@0: 32 e n. @ @9, 29: 32 n. 2 @9, 34-43 : @06 @9, @83: @@, @03-@04 @9, 204-209: @06 @9, 225 ss.: @05

226

@9, 406 ss.: @07 @9, 474 ss.: @03 n. 2 @9, 478: @06 @9, 535 ss.: @08 20, 242 ss.: @08 20, 268: 32 n. @ 2@, 386: 32 n. 2 22, 55: @04 n. 4 22, 398: 32 n. 2 24, 290 ss.: @04 n. 4 24, 306: @03 24, 538: @08

Hyginus Fab. 3@: @@0 Hymni Homerici ad Ap.: @47-@49 ad Cer. @98-20@: 58 Iamblichus Vit. Pyth. @7, 72: 32 n. 4 Inscriptiones CIL @4672: 22 GV @906: 2@ Ion fr. 33 Sn.: 39 n. @ Isocrates Nic. 6-7: 43 e n. @ Paneg. 47-50: 43 e n. @ Lucianus De saltat. 63-64: 45 Dial. mort. @0, @2: 20 Lysias @2, 68-70: 90 n. @ Maximus Tyrius 35, 2, 69-70: 30 n. @ Nonnus Dion. @56-@57: 44 n. 4 Oracula Sibyllina 3, 6@@: @@0

indice dei passi discussi Pausanias 6, 25, @: @6 Pherecydes Atheniensis fr. 2 Fowler: 78, 82 60: 77 Philostratus Ap.@, @, 3: 32 n. 4 6, @@, 3: 32 e n. 4 Pindarus Dith. 2, fr. 70b, 23-25: @42 fr. 8@: @4@ fr. 83: @42 e n. 2 Enc.frr. @@8. *@@9: @46 @@9: @47 @2@, 4: @4@ @40a: @42 @50: @42 @5@: @42 @7@: @50 @79: @42 @80: @4@ e n.@ **@8@: @42 205: @42 2@5, 6: @42 229, @: @4@ 240: @42 Hymn. @, fr. 33b: @48 @, fr. 33c: @48 @, fr. 33d: @47-@48 fr. 42, 5-7: @42 fr. *43: @50 Hyporch. fr. @05: @42 Isthm. 4, 6@-64: @49 5, 46-53: @34 6, 37 ss.: @09 n. 2 Nem. 3, 26-28: @33 4, 69-7@: @33-@34 5, @7-@8: @2 8, 24-25: 4@ @0, @9-20: @34 @@, 33-39: 82 Ol. 2, 35-46: @46 2, 85-87: @36 2, 95: @34 n. 2 6, 24-25: 82 6, 7@: 82

indice dei passi discussi 6, 82-84: 32 n. 7 6, 89-90: @42 9, 29-4@: @4@; @49-@50 @@, @9: @07 @3, 44-48: @34 @4: @3@ Pae. 2, fr. 52b: @43-@46 2, 67: @42 4: @50 8a, fr. 52i, @3-@4: @42 @2, fr. 52m: @47-@48 Parth. @, 5: @42 @, 9-@0: @3 @, 9-@0: @4@ 2, 33-35: @42 Pros. fr. 89a: @42 Pyth. @, 50-5@: @37 2: @3@ 3, 83: @42 5, @-@2: @36-@37 @0, @-4: @32 @@, 38-40: @33 fr. @80 Maehl.: @2 205: @38 229: @4 Schol. Isthm. 6, 53a: @09 n. 2 Schol. Ol. 2, @5a: @46 2, 39a: @46 2, 70f: @46 Plato Crat. 422e: 45 Epist. VII 326a-b: @60 n. 4 Euthyd. 287d: 38 n. 4 Polit. 303b: 93 n. @ Resp. 365c-d: 9@ n. 5 573a-b: @60 n. @ Symp. 2@8b: @66 n. @ Plutarchus Alc. 22: @66 n. 3 De Alex. fort. @, 6, 329b-c (= Arist. fr. 658 Rose): 27 e n. 3 Is. et Os. 75: @6 Per. 23, 2: 86 n. 4 Sol. 2@, @: @2 Ps.-Plutarchus De plac. philos. 5, 20, 909a: 35 e n. 4

227

Pollux 2, @09, @: 30 e n. 2 6, @45: 39 n. 4 Simonides fr. 77 PMG: @2 54@, 2: 32 n. 7 Sophocles Ai. 22@: @@0 n. 2 @088: @@0 n. 2 Ant. @25@-@252: 3@ n. @ @256: 33 Her. 2@7-2@8: 3@ n. 3 OC 8, 66: 85, 95 @23-@33: 5@-52 @05@-@053: 32 @052: @66 n. 2 OT 583-602: @60 n. 3 Phil. 727-729: 3@ n. @ 865: @7@ @4@3-@4@5: 3@ n. @ @4@8-@420: 3@ n. @ Trach. 269-273: 3@ n. @ 503-52@: 3@ n. @ 555-577: 28 777-782: 3@ n. @ @0@0-@0@7: 3@ n. 3 @046-@047: 3@ n. @ @058-@063: @4, 29 ss. @089-@09@: 3@ n. @ @@02: 3@ n. @ @@@2-@@@3: 3@ e n. 2 @@9@ ss.: 3@ n. @ Schol. Trach.@060 (p. 339, @7-@8 Papageorgius): 30 e n. 2 Sophron fr. 4a K.-A.: 60-63 Stobaeus Flor. 4, 34, 7 (p. 683, @3-@4 H.): 32 n. 4 Strabo @4, 2, 28: @4 @4, 2, 28, 66@C: 34 n. @ @4, 2, 28, 66@-663C: 33 @4, 2, 28, 662C: 34 ss. @4, 2, 28, 662-663C: 35 n. 2 @4, 2, 28, 663C: 34 n. 3

228 Theocritus Id. @5, 87-89: 39 n. 5 Theognis @77-@78: @3 42@: 30 n. 7 8@5: 32 @209: @07 n. @ Thucydides @, 3, 3: 33 @, 32, 5: @60 n. 2 @, 70, 9: @60 n. 2 2, 35 ss.: 84 2, 35-46: 2@ 2, 37, 2 s.: 87 n. 4 2, 40, 2: 85 n. 6, @60 n. 2 2, 63, 2-3: @60 n. 2 2, 65, @@: 95 n. @ 6, @7: 94 n. 2 6, @8: @60 n. 2 6, 24, 3: @60 n. @ 6, 24, 4: 95 6, 60, @: 97 6, 89, 5: 89 n. @, 9@ n. @ 6, 89, 6: 94 n. 3 8, 53, @: 96 n. 2

indice dei passi discussi 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8, 8,

53, 3: 89 n. 4, 93 54, @: 89 n. 5, 90 54, 4: 92 n. 3, 96 n. 3, 97 n. 2 65, 2 s.: 88 65, 3: 97 66: 85, 95 66, @: 88 n. 3 66, 2: 87 n. 3, 88 n. 8 66, 3: 88 n. 7 66, 4 s.: 87 n. 4 67, 2: 90 n. 4 68, @: 96 n. @ 68, 4: 95 n. 4, 97 n. @ 69, @: 88 n. 5 70, @: 88 n. 6 89, 6: 89 n. 2

Vetus Testamentum Salm. @@4, @: 42 Xenophon An. 4, 5, 33: 45 e n. @ Hell. 7, 4, 22: @04 n. 3 Ps.-Xenophon Resp. Ath. @, @: 94 n. 5 @, 5: 93 n. @, 94 n. 4

c o mposto in ca r a tter e serr a ga r a mo n d d a l l a fa br izio ser r a editor e , p i sa · r o ma . im p r esso e r ilega to d a l l a t ipo gr a fia di a gna no, a gn a n o p i sa n o ( p i sa ).

* Dicembre 20@5 (cz2/fg@3)

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