Gli dèi di Omero. Politeismo e poesia nella Grecia antica 9788843082735

Gli dèi di Omero non sono semplici personaggi letterari, ma complesse e straordinarie costruzioni poetiche che danno cor

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Gli dèi di Omero. Politeismo e poesia nella Grecia antica
 9788843082735

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Gli dèi di Omero Politeismo e poesia nella Grecia antica

A cura di Gabriella Pironti e Corinne Bonnet

Carocci editore

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Carocci editore

@ Studi Superiori

Gli dèi di Omero non sono semplici personaggi letterari, ma complesse e straordinarie costruzioni poetiche che danno corpo e parola alle divinità onorate dai Greci. Il libro è un'indagine a più voci volta a delineare i tratti specifici del politeismo omerico e le particolarità della rappresentazione del divino così come emergono dai poemi. Nei nove capitoli in cui si articola il volume, una particolare attenzione è dedicata all'intreccio narrativo, che vede gli dèi dell'Olimpo interagire con le creature mortali e influenzare il loro destino, nonché alla struttura stessa del mondo divino, con il suo funzionamento e le sue tensioni, e alla religione vissuta dai protagonisti, attraverso l'analisi di riti, luoghi e attori del culto. Nel restaurare una lettura integrale dei poemi omerici, si esaminano le forme mutevoli degli dèi, le loro strategie tra l'Olimpo e la terra, e l'intrecciarsi costante di azioni divine e vicende umane nel farsi del racconto, dalle mura di Troia alle rive di Itaca. Ritrovati gli dèi, la poesia epica ritrova se stessa e ricomincia a sorprenderci. Gabriella Pi ron ti insegna Storia delle religioni all'Università di Napoli

"Federico 11"; i suoi interessi scientifici sono rivolti al funzionamento del politeismo nella Grecia antica e alle rappresentazioni delle divinità nella letteratura e nel culto. Corinnt' Bonnt't insegna Storia greca all'Università di Tolosa; specialista

del mondo fenicio e punico, è autrice di numerosi lavori sulle religioni del mondo mediterraneo, in una prospettiva storica e storiografi.ca. Con Carocci editore ha pubblicato I Fenici (3• rist. 2010).

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€ 28,00

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I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicaci dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Victorio Emanuele II, 22.9 00186 Roma telefono 06 42. 81 84 17

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Gli dèi di Omero Politeismo e poesia nella Grecia antica A cura di Gabriella Pironti e Corinne Bonnet

Carocci editore

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università degli Studi di Napoli

L'editore è a disposizione per i compensi dovuti agli aventi diritto 1' edizione,

© copyright

l016

settembre lOI6 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel settembre lOI6 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-82.73-5

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione di Gabriella Pironti e Corinne Bonnet

li

Parte prima Raccontare le potenze divine I.

Visibilità, invisibilità e identità degli dèi di Maurizio Bettini

29

I.I.

Il doppio regime narrativo della visibilità divina Il paradosso dell'apparire divino L'inganno degli occhi Divinità in immagine: la statua e la presenza Indossare una nuvola Le sostanze dell'invisibile Altre illusioni Nuvole ingannatrici La povera vista dei mortali L'identità degli dèi: se stessi e altri da sé Riferimenti bibliografici

29

1.2. 1.3. 1.4. 1.5. r.6. I.7.

r.8. 1.9. I.IO.

2..

Colori e sensi: percepire la presenza divina di Adeline Grand-Clément

2.. I.

La natura sensibile dello splendore divino: luci, suoni e odori A contatto con il divino: quando gli dèi omerici toccano

2..2..

7

33

35 37 41 42 47 so 51 54 56

59

62 70

GLI DÈI DI OMERO

2..3.

Colori divini e modi d'azione Riferimenti bibliografici

76 82.

3.

Dall'eros al racconto: Zeus e la sua sposa di Gabriella Pironti

85

3.1.

Il piano di Era e i suoi agenti divini "Mai come ora ...": Zeus in amore e la sua sposa Era e l' apate La boule di Zeus Riferimenti bibliografici

89

3.2.. 3.3. 3-4-

94 100 104 109

Parte seconda Tra l'Olimpo e la terra 4.

Gli dèi in assemblea di Corinne Bonnet

4.1.

Da Troia a Itaca: quando gli dèi dibattono sulla sorte degli uomini 4.1.1.

4.2.. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6.

II3

II6

L'Iliade I 4.1.2.. L'Odissea

Gli dèi e la gestione del potere Assemblee divine, assemblee umane Tradurre in immagini le assemblee Assemblee in Grecia e altrove: Omero e l'Oriente Per concludere Riferimenti bibliografici

12.9 133 135 139 144 145

5.

Iris e Hermes, mediatori in azione di Carmine Pisano

147

5-I.

Inviati divini Iris e Hermes in Omero

147 150

5.2..

5.2..1. Luoghi d'azione/ 5.2..2.. Modalità di intervento

8

INDICE

5.3. 5.4.

Il riscatto del cadavere di Ettore La réactivité del dio Riferimenti bibliografici

6.

Il rituale: comunicare con gli dèi di Vinciane Pirenne-Delforge

175

6.r. 6.2..

«Così pregava e Febo Apollo lo udì» (Iliade, I, 457) « Offrire agli dèi immortali i doni che spettano loro»

176

(Iliade, XXIV, 42.5-42.6)

183

«Al tempio di Atena dagli occhi azzurri, sulla rocca della città» (Iliade, VI, 88) Riferimenti bibliografici

190 193

6.3.

162. 167 171

Parte terza Dalla guerra alla salvezza 7.

Lotta fra dèi, guerra di eroi di Pascal Payen

197

7.1.

Prologo: dèi ed eroi tra prossimità ed estraneità Riferimenti metodologici Gli dèi, gli eroi, la "guerra e i giorni" La guerra omerica e le dinamiche narrative Lo sguardo antropologico sulla guerra e la sua messa in discussione Riferimenti bibliografici

197 2.01 2.06

7.2.. 7.3. 7-47.5.

8.

La scelta di Afrodite e le cause della guerra di David Bouvier

8.1. 8.2..

Monoteismo versus politeismo: il problema della guerra Momigliano e la tesi della guerra come fatto naturale L'Iliade come modello per pensare la guerra in sé

8.3.

9

2.13 2.18 2.2. 7

2.31

2.31 2.3 5 2.39

GLI DÈI DI OMERO

8-48.5. 8.6.

Evitare la guerra dimenticando gli dèi L'onore e la soluzione di Afrodite La collera di Era Riferimenti bibliografici

245 254 256 261

9.

Quando un dio salva di Miguel Herrero de jduregui

265

9.1. 9.2. 9.3. 9.4. 9.5. 9.6. 9.7. 9.8.

La gnome di Atena La nozione di salvezza in Omero: la problematica Rheia: la potenza e i suoi limiti Theos: il soggetto divino Ethelon: la formazione della volontà salvatrice Kai telothen: forme dell'azione salvatrice Andra: salvezza individuale e salvezza collettiva Saosai: il dio che può salvare non è "salvatore"

265 268 272 275 277 282 285 288

9.8.1. Excursus: la storia del Palladio

9.9.

Conclusione Riferimenti bibliografici

295 296

Indice analitico

299

Gli autori

307

IO

Introduzione di Gabriella Pironti e Corinne Bonnet

Nel quarto canto della Divina Commedia, mentre il poeta si avventura verso l'Inferno, preceduto da Virgilio, e attraversa il Limbo, sente una voce rivolgergli questo invito: «Onorate l'altissimo poeta; l'ombra sua corna, ch'era dipartita». Quattro ombre si avvicinano allora a Dance e Virgilio, il quale mormora: «Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire», e aggiunge: «quelli è Omero poeta sovrano» (Inferno, IV, 80-81 e 86-88). Il mito di Omero era dunque ben vivo anche quando si era persa la conoscenza diretta dei poemi che gli erano attribuici. Malgrado questa soluzione di continuità, l'immensa ombra del «poeta sovrano» illumina, paradossalmente, buona parte della letteratura europea dall'Antichità ai giorni nostri, proiettandosi sull'arte e l'immaginario collettivo della cultura occidentale. I personaggi, divini e umani, dell'Iliade e dell'Odissea popolano i nostri musei e le loro avventure ci sono familiari: Achille e Odissea, i Ciclopi e i Feaci, la pianura di Troia e le rive di Itaca ... Il mondo di Omero, con i suoi eroi, le sue emozioni, i suoi conflitti, appartiene al patrimonio letterario amico e moderno. Già nell'Antichità, infatti, i piccoli alunni greci imparavano a leggere e scrivere con Omero, ripetendo e ricopiando brevi frasi esemplari. Omero è stato, in poche parole, il maestro di cucco il mondo greco-romano', il «poeta sovrano», come ricorda Dance. Più di recente, Philippe Jaccottet ( 1982., p. 404), illustre traduttore dell'Odissea, scriveva a proposito del suo modo di avvicinarsi a Omero: « Siamo di quelli per cui l'Odissea esiste soltanto nella misura in cui ancora penetra nelle profondità del nostro animo». Ognuno di noi, a suo modo, è "abitato" da Omero, ciascuno di noi viaggia verso

1.

Cfr. di recente Dubel, Favreau-Linder, Oudoc (2.015).

II

GLI DÈI DI OMERO

un porto chiamato Itaca, l'isola che dà «il bel viaggio», come canta il poeta greco di Alessandria Kostantinos Kavafìs in Ithaki. Eppure Omero appartiene a un mondo lontano, diverso, che va decodificato, interpretato, analizzato: «Omero è comunque così lontano da noi, e sotto ogni aspetto», continua lo stesso Jaccottet (2.004, p. 38). Da questo punto di vista, chi non si è interrogato di fronte alla presenza costante degli dèi sul campo di battaglia, oppure al fianco di Odissea? Chi non è rimasto sorpreso dall'estrema versatilità delle loro apparenze così come dall'emotività che traspare nelle loro decisioni e azioni? E cosa dire dell'antropomorfismo accentuato che pervade l'Olimpo? Al di là delle scene di seduzione, di diverbio, di inganno o di piacevole ozio, la società degli dèi omerici, familiari e misteriosi al tempo stesso, non costituisce un universo futile o superfluo, una cornice scontata. Con questo insieme di saggi, che per la prima volta affrontano specificamente gli dèi di Omero, vorremmo convincere i lettori che le divinità presenti nei poemi non costituiscono un semplice ornamento del racconto, bensì una via feconda per capire la maniera in cui i Greci concepivano e rappresentavano le potenze superiori che governano il cosmo e guidano il destino degli uomini. La nostra indagine non necessita di sottoporre i poemi omerici a una TAC al fine di distinguerne i vari strati compositivi. Punto di arrivo e di partenza di innumerevoli tradizioni, Omero è il poeta panellenico per eccellenza, colui che ha "forgiato", insieme a Esiodo, la storia degli dèi. La rappresentazione del mondo divino che emerge dai poemi omerici fu quindi inaugurale e ampiamente condivisa. Per questo motivo Omero offre un punto di osservazione privilegiato per capire i meccanismi, le logiche, le dinamiche che animano la società degli dèi e i loro rapporti con la sfera umana. Che si tratti dell'assedio di Troia, o del ritorno di Odisseo, che ci si interroghi sulla sorte di Achille o sul destino di Elena, sono sempre gli dèi a tirare i fili di una storia che costituisce la materia stessa della nostra indagine. Perderli di vista significa lasciarsi sfuggire il senso stesso del racconto. Quella che più ci sta a cuore, e che anzi intendiamo inaugurare, è una lettura di Omero "in chiave politeista". Per questo il secolare dibattito sulla natura e l'origine dei poemi, o sull'identità autoriale associata all'etichetta convenzionale "Omero" - che ha assorbito, e continua a farlo, l'attenzione dei filologi' - ci riguarda

2. Una preziosa sintesi è presence in Graziosi, Haubold (2005, in particolare pp. 15-34).

12.

INTRODUZIONE

solo in parte. La nostra attenzione si concentra piuttosto sulla materia narrativa dei poemi così come li leggiamo ed è rivolta a mettere in luce la rappresentazione degli dèi che la percorre, quella appunto per cui Omero era considerato, insieme a Esiodo, un maestro per i Greci tutti. Stando a quanto afferma lo storico Erodoto infatti, sono proprio Omero ed Esiodo ad aver insegnato ai Greci come rappresentarsi gli dèi: ne hanno raccontato le relazioni genealogiche e le sfere di competenza, hanno attribuito loro epiteti caratterizzanti e ne hanno indicato le apparenze (Erodoto, II, 53). Considerata in questa prospettiva, la poesia epica costituisce un contesto imprescindibile per chiunque si interroghi sull'immaginario religioso e, più in generale, sulla cultura della Grecia antica. Tuttavia non è questa la prospettiva che ha prevalso nell'interpretazione e nella ricezione dei poemi relativamente a questo tema, ma quella influenzata dalle severe critiche che filosofi autorevoli quali Senofane prima e Platone poi avevano rivolto, fin dall'Antichità, all' antropomorfismo degli dèi omerici e all'immoralità dei comportamenti loro attribuiti. Tali critiche sono testimonianza della diversità di opinioni, coltivata nel mondo antico, quanto alla rappresentazione del divino. Nel seguito però esse goderono di accresciuta fortuna, perché i primi autori cristiani se ne sarebbero serviti per gettare un durevole discredito sugli dèi del "paganesimo" nel loro insieme. L'onda lunga di questo pregiudizio è ravvisabile persino nelle analisi di quegli studiosi che, nell'intento di salvare Omero, finiscono con l'attribuirgli un atteggiamento critico nei confronti degli dèi, di cui sarebbero messe in rilievo volutamente nei poemi la crudeltà o l'indifferenza (cfr. Ahrensdorf, 2014). Non è questo il luogo per difendere Omero dai suoi detrattori o dai suoi presunti salvatori, antichi o moderni che siano, ma vale la pena sottolineare come ancora oggi si stenti a prendere sul serio gli dèi di Omero, ora giudicati alla luce di anacronistici pregiudizi moralistici, ora ridotti a figure di un "meraviglioso" letterario che avrebbero poco o nulla da insegnarci sulla cultura e la religione della Grecia antica. Eppure, non è possibile ignorare che la rappresentazione degli dèi ne costituiva parte integrante e che le opere attribuite a Omero ed Esiodo offrono sia ai lettori sia agli studiosi una via di accesso privilegiata per comprendere, nella sua straordinaria complessità, l'immaginario religioso dei Greci. E nemmeno è possibile ignorare quanto la comprensione stessa dei poemi omerici dipenda a sua volca da una lettura che tenga conto dell'intreccio costante tra le azioni degli uomini e quelle delle potenze divine chiamate in causa.

13

GLI DÈI DI OMERO

In un libro pubblicato una decina di anni fa (Baricco, 2.004), un noto scrittore italiano ha presentato una riscrittura dell'Iliade di Omero volontariamente decurtata delle scene in cui appaiono gli dèi e di ogni accenno alla sfera divina. Un tale intervento - spiega l'autore per giustificare la sua scelta - non altera la storia raccontata nel poema, poiché gli dèi nell'epopea omerica sarebbero sostanzialmente accessori, e poi il loro mondo sarebbe troppo lontano dalla sensibilità moderna. Il libro che qui si presenta nasce invece dalla consapevolezza che non è possibile comprendere i poemi omerici senza gli dèi: se la riscrittura moderna dei testi antichi è legittima, non lo è invece negare al pubblico la conoscenza della funzione essenziale che il mondo divino è chiamato a svolgere nell'economia generale dell'Iliade e dell'Odissea. Quanto alla sensibilità moderna, ci si dovrebbe poi interrogare sulla legittimità di operazioni culturali che tendano a svalutare l'alterità culturale e religiosa, per quanto lontana nel tempo, anziché aiutare il lettore a comprendere sia un'esperienza del mondo diversa da quella cui siamo abituati, sia la particolare forma di narrazione con cui tale alterità è strettamente collegata3• Tanto più quando questa alterità si presenta piena di interesse e di fascino. Questo libro, che raccoglie nove capitoli relativi ai poemi omerici, intende presentare in una nuova luce il mondo degli dèi quale è raccontato e messo in scena nell'Iliade e nell'Odissea, e si propone di interpretarlo con gli strumenti forgiati negli ultimi decenni, in particolare dagli studi di antropologia del mondo antico. Certo, gli dèi di Omero hanno sempre esercitato un indiscusso fascino su un vasto pubblico, più o meno esperto di cultura classica, soprattutto in quanto attori di vicende mitiche ben note e controfigura narrativa dei capolavori dell'arte greco-romana 4 • A fronte di un così ampio successo, gli studiosi del mondo antico hanno invece privilegiato altri aspetti dell'epopea omerica, interrogandosi sulla nascita dei poemi, sul rapporto tra vicende narrate e realtà storica, sulle tecniche della narrazione epica e sulle figure eroiche, più che divine, dei suoi protagonisti. Pressoché assenti sono invece, nella bibliografia disponibile, gli studi rivolti a indagare il mondo omerico in quanto espressione di una cultura politeista, 3. Le incongruenze testuali, e più in generale i limiti culturali, di siffatte operazioni sono acutamente messi in rilievo da Gentili, Catenacci (2.007 ). 4. Sulla fortuna degli dèi dell'Olimpo in generale, cfr. Graziosi (2.015).

14

INTRODUZIONE

quale era appunto quella della Grecia antica1 : gli dèi di Omero non sono infatti semplici personaggi, ma complesse costruzioni narrative che danno corpo e parola a una serie di divinità cui i Greci rendevano un culto nelle loro città, e ai quali si rivolgevano per affrontare innumerevoli aspetti del quotidiano. Nello stabilire una relazione con queste potenze divine, statutariamente invisibili e "altre", e anche per poterle raccontare, i Greci adottavano volentieri una rappresentazione antropomorfa delle divinità. Ma a queste veniva pur sempre riconosciuta la capacità di prendere varie forme e di manifestarsi nei modi più sorprendenti. Così anche gli dèi di Omero sono in continua trasformazione, e il loro antropomorfismo, spesso paradossale, lungi da "umanizzare" gli dèi, consente di costruirne il carattere sfuggente e di esprimere la fondamentale alterità delle potenze divine. Questo libro si propone quindi come un'indagine a più voci volta a delineare alcuni tratti specifici del pantheon omerico e ad approfondire le particolarità della rappresentazione del divino che emergono dai poemi. Gli autori chiamati a collaborare a questo progetto sono storici e antropologi dell'Antichità, esperti di religioni del mondo classico e studiosi di letteratura greca: a partire da un singolo episodio e/o da un insieme significativo di passi, tratti ora dall'Iliade ora dall'Odissea, i saggi riuniti nel libro intendono restaurare una lettura integrale dei poemi omerici, il cui mondo non può essere adeguatamente compreso facendo astrazione dalla sfera divina che lo permea in ogni sua parte. Gli dèi di Omero non sono però trattati individualmente come protagonisti di un romanzo, pur se di rango sovrannaturale; una particolare attenzione è invece rivolta alla trama, ossia all'intrigo narrativo che vede gli dèi dell'Olimpo interagire con le creature mortali, ma anche ali' intrecciarsi di azioni divine e vicende umane. Sono tenuti in conto ed esplorati non solo la struttura stessa del mondo divino, il suo funzionamento e le sue dinamiche, ma anche la rappresentazione narrativa delle pratiche religiose, cioè riti, luoghi e attori del culto, così come

5. Esistono certamente saggi relativi alla religione omerica in generale che, pur non affrontando in modo frontale o approfondito la sua componente "politeista", si rivelano molto utili per una visione d'insieme; segnaliamo, tra i più recenti: Kearns (2004) e Martin (2015), cui si rinvia per la bibliografia anteriore. Il lettore potrà trovare alla fine dei singoli capitoli indicazioni bibliografiche su aspetti specifici della religione omerica e/o su singole divinità. Più in generale, sugli dèi nella tradizione epica, cfr. Feeney (1991).

15

GLI DÈI DI OMERO

li presentano i poemi. Questo libro si nutre insomma della convinzione che la materia omerica, come appunto la tragedia che più spesso è stata interrogata in tal senso, offre un punto di vista molto interessante, complesso e profondo, sul mondo divino e sulla religione dei Greci, un punto di vista spesso tralasciato dagli studiosi 6. Per meglio comprendere quanto siano indissociabili, in Omero, mondo degli dèi e mondo degli uomini, può rivelarsi utile visualizzare il racconto come un'immensa tela. Al pari di Penelope che si mette e si rimette al telaio, e pazientemente fa e disfa il suo lavoro, ritardando in tal modo il corso degli eventi, così il poeta tesse con pazienza una tela narrativa in cui si incrociano destini e speranze, luoghi e tempi, istanze, bisogni, desideri ... sotto lo sguardo ora preoccupato, ora divertito, talvolta indifferente, degli dèi. Di questi sono plurali le intenzioni, i disegni, gli stratagemmi - nell'Iliade, gli uni sostengono gli Achei, gli altri i Troiani-, e tale pluralità nutre appunto il racconto, rendendone complessa la trama. Le azioni degli dèi e delle dèe convergono più o meno armoniosamente nell'autorità suprema di Zeus, il grande ordinatore del kosmos, che orienta i meandri del racconto e ne governa le ramificazioni. Le voci discordanti degli dèi, i loro piani spesso in concorrenza tra loro, creano un effetto sinfonico nel cuore stesso degli avvenimenti e della narrazione; questi funzionano, in altre parole, come cassa di risonanza dei conflitti umani, dell'incertezza del destino, della complessità del mondo e, in definitiva, della potenza stessa degli dèi, capaci di produrre armonia pur nelle discordanze. Questa particolare alchimia, plurale e relazionale, del politeismo non smette di esercitare il suo fascino su quanti, ieri come oggi, si accostano al mondo degli dèi di Omero. Come comprendere che Apollo possa da un lato scatenare la sua violenza, seminando la peste nel campo degli Achei, e dall'altro incantare con la sua lira l'assemblea degli dèi? Perché Zeus appare ora come il garante dell'ordine e dell' armonia in cielo come sulla terra, ora come un despota violento, pronto a scatenare la sua ira contro chiunque si opponga alle sue volontà? Il padre degli uomini e degli dèi si lascia commuovere dalla supplica di Teti, la divina madre di Achille, eppure lo ritroviamo a osservare con suprema indifferenza, dall'alto del Gargaro, le formiche umane massacrarsi a vicenda. Orientarsi nei meandri del politeismo, con le

6. Una significativa eccezione è costituita da Sissa, Detienne (1989 ).

16

INTRODUZIONE

sue innumerevoli configurazioni, e comprendere i diversi significati di questo mondo a geometria variabile è una sfida per chi è cresciuto in una cultura di matrice monoteista. I poemi omerici offrono, da questo punto di vista, un terreno di sperimentazione che non ha uguali per ricchezza e bellezza. La possibilità di leggere i poemi omerici alla luce della cultura che li ha prodotti è necessariamente subordinata all'abbandono di alcuni pregiudizi ben radicati. Il politeismo infatti è stato a lungo considerato una forma aberrante o primitiva di religione, i suoi culti mera superstizione, e i suoi dèi troppo umani, a maggior ragione in quanto protagonisti di racconti ritenuti poco edificanti. Se tale visione etnocentrica ed evoluzionista non è più all'ordine del giorno, i suoi effetti non sono però scomparsi del tutto, e riemergono soprattutto quando ci si trovi di fronte a una rappresentazione del divino che non corrisponde all'idea comune di religione7. Per ovviare a tale difficoltà si sono adottate, nel corso della storia degli studi, diverse strategie: diffusa è stata la tendenza a separare le pratiche del culto, considerate come la vera e propria religione greca, dal patrimonio iconografico e narrativo, dove la fantasia di artisti e poeti avrebbe trasformato le divinità in figure e personaggi antropomorfi. Di fronte alla pluralità che caratterizza il mondo divino, si è registrata poi la tendenza a considerare le divinità in modo individuale, quasi fossero singole persone divine, risolvendo così !"'impensabile" politeismo in una serie di micro-monoteismi giustapposti. L'appassionante sfida intellettuale e culturale che ci propone il politeismo antico richiede invece: di pensare insieme le pratiche del culto e la rappresentazione del divino nelle sue varie forme (rituale, narrativa, iconografica ecc.); di considerare gli dèi non come persone o personaggi, ma come vere e proprie potenze divine (cfr. Vernant, 1970, pp. 361-79 ); e infine di prendere in considerazione la fitta trama di relazioni che struttura il mondo degli dèi, dando luogo a configurazioni variabili di potenze divine. La pluralità abita infatti il politeismo a tutti i livelli: non è solo quantitativa, riferita cioè alla presenza di "molti" dèi in luogo di un solo e unico dio, ma è anche qualitativa, in quanto espressione di un network dinamico e mutevole di potenze divine che può espandersi, contrarsi e articolarsi, adattandosi in tal modo a

7. Sull"'impensabile" politeismo e la storiografia relativa, cfr. i saggi contenuti in Schmidc (1987 ).

17

GLI DÈI DI OMERO

ogni contesto (cfr. Pironti, 2014). Plurale è poi ogni singola divinità, generalmente irriducibile a un'unica sfera d'azione o un solo modo d'azione (cfr. Detienne, 1997 ), e ricca invece di aspetti e competenze che esprimono non solo gli epiteti e le azioni, ma anche le molteplici forme che le sono attribuite. L'antropomorfismo non è l'unica, bensì una di queste forme, quella che privilegiano poeti e artigiani per rappresentare gli dèi alle orecchie e agli occhi del loro pubblico, e rendere così visibili potenze e presenze che sono per definizione invisibili. Da quanto rapidamente esposto, appare chiaro che i poemi omerici costituiscono un documento tanto più prezioso in quanto offrono la straordinaria possibilità di "vedere" gli dèi in azione e in interazione, e che, per interpretarli correttamente, non si può prescindere né dalla sfera divina che li permea né dalla cultura politeista che li ha prodotti. In questa cultura, la dimensione narrativa svolge un ruolo fondamentale, ma alcune precisazioni sono necessarie per accostarsi in modo corretto ai racconti che ci sono pervenuti. Quello che chiamiamo comunemente "mito" è una nozione al tempo stesso vaga e problematica (cfr. Calarne, 2.015): i miti esposti nei moderni repertori di mitologia sono il frutto di un'operazione che disintegra la narrazione, estrapolando i racconti dal loro contesto, e che sintetizza intrecci disincarnati attingendo a fonti letterarie diverse per epoca e genere. La materia epica (ma non solo) richiede un approccio opposto, volto a reincarnare i "miti", restituendone il contesto e ripristinandone quindi la forma piena di racconti tradizionali aventi come protagonisti dèi ed eroi. I racconti, come a loro modo le raffigurazioni iconografiche, sono in Grecia antica i supporti di un pensiero che percepisce il mondo, lo esplora e tenta di spiegarlo, nella sua complessità relazionale, un pensiero diverso dal nostro che occorre rispettare e la cui comprensione non può che arricchirci. L'ambizione di questo libro, l'abbiamo detto, è quella di inaugurare una lettura "politeista" dei racconti omerici, che lasci emergere l'interazione profonda tra la dinamica narrativa e la fitta rete di potenze divine chiamate a intervenirvi. Per questo motivo, però, l'operazione che ci siamo proposti presuppone necessariamente che la narrazione stessa venga considerata nella sua integralità e nella sua fluidità, nell'intrecciarsi delle sue sequenze e dei suoi attori, senza smembrarla o riassumerla nei punti che (a noi) possano apparire superflui o ridondanti. Politeismo e racconto, pluralità divina e azione narrativa, nella nostra prospettiva, si presuppongono l'un l'altro, quasi si identificano.

18

INTRODUZIONE

Un altro aspetto della Grecia politeista merita di essere ricordato a questo proposito per essere messo in relazione con la maniera in cui è costruito il racconto epico. Come ogni città o regione organizzava un proprio pantheon, che spesso era diverso da quello di altre città o regioni, così anche i singoli contesti narrativi potevano organizzare un proprio pantheon, configurando il mondo divino in accordo con le proprie esigenze e in funzione della storia raccontata. Questo discorso vale anche per il pantheon omerico in generale e per le varie configurazioni divine messe in scena nelle sequenze narrative di cui si compongono i poemi. Tra il pantheon dell'Iliade e quello dell'Odissea, ad esempio, esistono importanti differenze che trovano spiegazione non tanto in una qualche evoluzione della religione greca tra l'epoca della composizione dell'uno e dell'altro poema, bensì nella diversa materia narrativa con cui il mondo degli dèi è chiamato di volta in volta a interagire. Il conflitto di cui è preda il mondo divino nell'Iliade, diviso com'è tra divinità filo-achee e filo-troiane, non è assoluto, ma relativo a quel particolare contesto, dove interagisce con, e in un certo qual modo riflette, la guerra in corso nel mondo degli uomini. Pur avendo una portata panellenica, il pantheon omerico non riproduce cioè una versione "standard" del pantheon dei Greci nella sua totalità - che in quanto tale non sembra essere mai storicamente esistita -, ma è il frutto di un'operazione di costante selezione e di riarticolazione, non dissimile da quella cui procedono le città greche nell'organizzare eriplasmare, ciascuna a suo modo, il proprio pantheon, seguendo il filo degli eventi e delle necessità. Alla fondamentale plasticità del mondo divino può essere ricollegata, ad esempio, la scarsa rilevanza di Dioniso nell'Iliade, che non è certo dovuta alla volontà del poeta di escludere dall'Olimpo una divinità i cui eccessi avrebbero turbato i sereni banchetti degli dèi (cfr. Graziosi, 2015, pp. 23-4). Anche l'irreprensibile Demetra non riceve nei poemi un posto d'onore, pur trattandosi di una divinità di primo piano. Ai poeti sembra dunque concesso un certo margine di libertà e di creatività rispetto alla tradizione, e questo anche nel ridisegnare i contorni del mondo degli dèi e le sue articolazioni interne. Sul rapporto della narrazione omerica con l'insieme della tradizione epica insiste una recente rilettura dei poemi che ne inquadra la materia ali' interno di una overall history dell'universo, dove la scomparsa della stirpe eroica sarebbe chiamata a sancire il distacco definitivo tra gli dèi immortali e gli uomini mortali (cfr. Graziosi, Haubold, 2005). Questa

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prospettiva si rivela assai utile se applicata con misura: è giusto ricordare che i poemi omerici erano parte di un'ampia tradizione epica e che trovano il loro senso in un sapere largamente condiviso. Occorre tuttavia evitare di subordinarne l'interpretazione alla ricostruzione di un metaracconto globale, teleologicamente orientato, che traccerebbe la storia dell'universo tutto intero. La figura di Achille e il destino mortale del figlio di Teti sono certo fondamentali per comprendere l'Iliade, ma non per questo è legittimo erigere il tema mitico della scomparsa degli eroi ad asse portante di tutta la tradizione epica, come non lo è interpretare alla luce di questo tema ogni singolo episodio del poema8• In altre parole, la ricostruzione del meta-racconto ipotetico non può fondarsi sulla decostruzione del racconto tradito, di cui occorre invece lasciar emergere le specifiche dinamiche narrative. Riconoscere nel mondo dell'Odissea uno stadio culturale successivo a quello dell'Iliade, dove gli dèi si starebbero allontanando dagli uomini e dalle loro vicende, è ipotesi che induce a sottovalutare la presenza multiforme e costante di Atena al fianco di Odissea e di suo figlio Telemaco. Alla tradizione omerica non andrebbe tanto riconosciuta la funzione primaria di raccontare la separazione progressiva tra uomini e dèi, ma piuttosto una singolare vocazione a mettere in scena, interrogare, e tradurre sul piano della narrazione, il continuo intrecciarsi tra sfera divina e sfera umana. La poesia epica ci offre infatti la straordinaria occasione per "vedere" gli dèi in azione, questo non bisognerebbe mai dimenticarlo. Un privilegio offerto dal poeta al suo pubblico, ascoltatori o lettori che siano, ma per lo più negato ai personaggi umani interni al racconto (come ci spiega Maurizio Bettini nel CAP. 1). La metamorfosi narrativa delle potenze divine, trasfigurate ora in personaggi divini interni al racconto, ora nel caleidoscopico ventaglio di forme, spesso umane ma non solo, che queste assumono per relazionarsi agli uomini, ci mette in presenza di dèi che agiscono, adottano strategie, si rivelano e si nascondono, salvano e perdono gli esseri mortali. Nel racconto omerico, il politeismo si dispiega quindi compiutamente: il poeta rappresenta gli dèi nei rapporti tra loro e con gli uomini, ma esplora anche il relazionarsi incerto e accorato degli uomini alle

8. Sulla nascita degli eroi e il rema della loro scomparsa, cfr. Tosetti (2.008). Su questo rema è incentrata la lettura dell'Iliade da parre di Slarkin (1991), mentre de Roguin (2.007) vi fonda l'interpretazione di entrambi i poemi.

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INTRODUZIONE

inafferabili potenze divine che abitano il mondo e innervano il corso degli eventi. Figure vive e concrete in talune sequenze narrative, gli dèi agiscono altre volte pur restando invisibili o lontani, forti di quell' assenza attiva che ne rivela la fondamentale alterità. L'intero spettro della vita e del pensiero dell'uomo greco nei suoi rapporti con la sfera divina vi trova una trasfigurazione narrativa, dal rituale, individuale o collettivo, alla divinità che lo riceve, e che può rifiutarlo. Gli uomini oscillano, a seconda degli eventi, dalla profonda convinzione che gli dèi si interessino alla loro sorte all'altrettanto profonda convinzione della fondamentale indifferenza che li contraddistingue. Le divinità oscillano di conseguenza tra passione e disinteresse. In uno stesso episodio dell'Iliade, ad esempio, ora gli dèi lottano accanitamente tra loro in sostegno dei propri favoriti (Iliade, XXI, 385 ss.), un momento dopo abbandonano gli uomini al loro destino, giudicandone lo statuto effimero indegno del loro interesse (Iliade, XXI, 461-467 ). Zeus dal canto suo, mentre gli uomini stanno per darsi battaglia, si prepara a osservarli dall'alto: «me ne curo, ora che stanno per esseri uccisi» (Iliade, xx, 21). Il senso di questo verso resta enigmatico: che cosa intende dire il re degli dèi ?9 Che si interessa alla sorte degli uomini? Che li accompagna forse con paterna sollecitudine nel momento della morte? Oppure che osserva con sovrana indifferenza il compiersi del loro destino? Lo stesso Zeus dichiara infatti subito dopo: «in una valle dell'Olimpo io rimarrò, seduto, e mi diletterò a guardare» (Iliade, xx, 22-23). Nello spettacolo della vita e della morte che si dispiega sotto gli occhi degli dèi sono iscritti anche i dubbi dell'uomo di fronte alla natura insondabile delle cose: ed è appunto questo spettacolo che il poeta offre al suo pubblico, di ieri e di oggi. Da quanto abbiamo esposto, appare evidente come non abbia alcun senso presentare gli dèi di Omero in forma di catalogo o in ordine alfabetico, come se fosse possibile isolarli gli uni dagli altri e legittimo reificarli in figure concrete dotate di un'identità pienamente umana. Parlare degli dèi separandoli dagli eroi sarebbe altrettanto vano e privo di

9. Diverse sono le traduzioni proposte: M. G. Ciani (Marsilio, Venezia 1990 ): «Non voglio vederli morire»; P. Mazon (Les Belles Leccres, Paris 1938): «J' ai souci à les voir périr»; R. Calzecchi Onesti (Einaudi, Torino 1950): «Sì, me ne curo, ché ormai son periti»; Bouvier (2.002., p. 35) segnala alcune traduzioni inglesi del verso in questione: « They are che objecc of my inceresc even while chey are dying» (Golden), e «I am concerned abouc chem, dying as chey are» (Edwards).

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GLI DÈI DI OMERO

pertinenza. È impossibile infatti comprendere il destino degli eroi senza prendere in conto la volontà, spesso polifonica, degli dèi. Come i diversi registri che decorano lo scudo di Achille, il mondo è costituito da una moltitudine di piani e di situazioni che interferiscono e dialogano tra loro. Sulla scena epica, gli eroi sono indissociabili dagli dèi, che si tratti dei figli di Zeus, di Afrodite o di Ares, dei re e guerrieri protetti con accanimento da Atena e da Era, del magnanimo Ettore che offre pii sacrifici a Zeus o della folla anonima che rende omaggio agli dèi, facendo loro libazioni durante il banchetto. Questi due mondi sono indissolubilmente legaci, unici pur se differenti, e intrecciati tra loro nella cela del racconto. Diventa allora cruciale, anziché separarli, tentare di chiarire la natura dei loro scambi, asimmetrici certo, ma comunque essenziali per una parte come per l'altra. Al fine di lasciar emergere il carattere dinamico del ruolo attribuito agli dèi nell'epopea, i nove capitoli di questo libro sono ripartiti in tre parti i cui temi portanti attraversano il racconto esplorando l' intersezione tra uomini e dèi. La Parte prima mette in luce le strategie e le astuzie che caratterizzano la rappresentazione narrativa delle potenze divine. Visibili o invisibili, luminose o discrete, seduttive, quando non illusorie ed elusive, le divinità giocano con la loro straordinaria potenza per raggiungere lo scopo cui tendono e veder realizzate le proprie volontà. I loro molteplici stratagemmi, che spesso si riecheggiano l'un l'altro, non sono però semplici espedienti: essi esprimono la metis, la superiore intelligenza e l'efficacia di potenze divine naturalmente votate all'azione, e tendenzialmente incontrollabili. La Parte seconda del libro si interessa alla comunicazione degli dèi tra loro, ma anche tra questi e gli uomini: pratiche assembleari, tra discorsi fatti e decisioni prese, messaggi e missioni diplomatiche, offerte, preghiere, sacrifici. In ciascuno di questi casi, al centro del racconto vi è una relazione, ed è questa a configurare i gesti e le parole, i ruoli e le gerarchie, a disegnare la rete di antagonismi e di alleanze che innervano il racconto. L' indispensabile comunicazione fra dèi e uomini si instaura in numerose circostanze, all'insegna della norma e della strategia, ma anche facendo leva su un duplice registro, quello della ragione e quello delle emozioni. La Parte terza del libro percorre tutto lo spazio che va dal conflitto alla salvezza, dalla guerra alla pace, seguendo le tracce degli dèi e degli uomini, ma anche quelle disegnate dal poeta. L"'Omero" dell'Iliade mostra la guerra in modo diretto, lasciandone emergere tutta la crudeltà, e in tal modo il suo lettore è invitato a riflettere sugli effetti di

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INTRODUZIONE

questa patologia delle società umane che lacera il tessuto del contratto sociale, degli usi e delle convenzioni. La nostra speranza è che ogni lettore possa trovare nei capitoli che compongono questo libro l'occasione di sognare, meditare, riflettere. Specialista o meno, storico o filologo, studente o insegnante, ci auguriamo che egli sia spinto a ritornare ai poemi omerici, per leggerli nella loro integralità o rileggerli con sguardo diverso, lasciandosi sorprendere dalla loro inesauribile forza. Questo stesso lettore, forse, non aveva prestato finora sufficiente attenzione al ruolo degli dèi nell'Iliade e nell'Odissea, alla loro versatilità e potenza, ai legami che si tessono fra loro, all'impronta di sé che lasciano a ogni tappa del racconto. I capitoli sono stati concepiti e scritti in modo che se ne possa apprezzare la lettura senza sentirsi sopraffatti dalle pesantezze di un'erudizione specialistica, ma i diversi contributi sono comunque accompagnati da consigli bibliografici rivolti a chi volesse approfondire i temi trattati. Il nostro è un "invito al viaggio", con e attraverso il racconto, nella speranza che l'itinerario sia «fertile in avventure e in esperienze», per riprendere ancora una volta le parole di Kavafis nel poema lthaki. Un invito il nostro che riguarda anche il politeismo greco, e si estende quindi al viaggio necessario per comprendere questa forma di pensiero e di cultura nella sua diversità, in tutta la sua alterità, perché l'Antichità possa così continuare ad arricchire il nostro modo di pensare il mondo e le varietà di culture che lo abitano. Vogliamo ringraziare sentitamente coloro che hanno generosamente tradotto in italiano i contributi del volume: Nicola Cusumano per il capitolo di Corinne Bonnet, Daniela Bonanno per quello di Pascal Payen, Carmine Pisano per quello di Adeline Grand-Clément, Stefano Caneva per quello di Vinciane Pirenne-Delforge, Ombretta Cesca, Valeria Flavia Lovato e Valentina Calzolari Bouvier per quello di David Bouvier. Desideriamo infine ricordare che questo libro è il risultato di un vero e proprio lavoro di gruppo che ha beneficiato della partecipazione attiva di tutti gli autori. I testi qui pubblicati sono stati discussi collettivamente, in occasione di un piccolo "conclave" che si è svolto a Roma, tra l 'Academia Belgica e l' École Française de Rome, nel settembre del 2.015. L'esaltante esperienza di questa immersione condivisa nei poemi omerici e nell'universo degli dèi greci ha contribuito ad arricchire i nostri testi. Lo scambio ispirato e le passioni comuni sembrano poter sospendere, seppur temporaneamente, la veridicità di quanto Achille dichiara a Priamo nell'ultimo libro dell'Iliade: «Gli dèi stabi-

2.3

GLI DÈI DI OMERO

lirono questo per gli infelici mortali, vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni» (Iliade, XXIV, 525-526). Napoli e Tolosa, 15 novembre 2.015

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INTRODUZIONE

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2.5

Parte prima Raccontare le potenze divine

I

Visibilità, invisibilità e identità degli dèi di Maurizio Bettini

Non sempre i lettori di Omero sono consapevoli del privilegio di cui godono: a loro infatti il poeta concede di vedere gli dèi nel proprio "vero" e visibile aspetto. E per quanto la tradizione letteraria, che dura inincerroccamence dall'vnI secolo a.C., ci abbia assuefatto a canea meraviglia, non si tratta di un privilegio da poco. Ad altri infatti, come subito vedremo, esso non è concesso.

I.I

Il doppio regime narrativo della visibilità divina Quando Era si abbiglia per sedurre Zeus (Iliade, XIV, 169-186), il poeta ci mecce di fronte a una persona femminile dotata di un corpo affascinante, un capo da cui scendono capelli pettinaci in splendide trecce, un petto su cui è fermata la vesce, fianchi attorno ai quali si lega una cintura adorna di pendagli, lobi delle orecchie foraci per passarvi l'anello degli orecchini, floridi piedi, calzaci di bei sandali. La pelle (chros) della dea è bella, spira desiderio; e il velo che si pone sulla cesta è splendente come il sole. Non ne dubitiamo, ma non dubitiamo neppure di aver visco delinearsi di fronte a noi l'immagine di una donna, a cucci gli effetti, sia pure dotata di straordinaria e divina bellezza. Qualcosa di simile, seppure in un contesto cucc'alcro che seduttivo, accade quando Atena si vesce delle armi per correre in aiuto ai Danai, incalzaci da Ettore e da Ares: Una volta indossato il chitone di Zeus adunatore di nubi si rivestiva delle armi per la guerra luttuosa.

GLI DÈI DI OMERO

Sulle spalle si mise l'egida ornata di frange, terribile, tutt'intorno alla quale fanno corona Phobos ed Éris, Alké e Ioké dolorosa e la testa del mostro tremendo, Gorgone, spaventosa e orribile, prodigio di Zeus, portatore dell'egida. Poi si mise sul capo l'elmo d'oro, dal doppio cimiero, a quattro piastre, adorno dei guerrieri di cento città; pose i piedi sul carro fiammante, e prese la lancia pesante, grande, possente; con cui schiaccia le schiere degli uomini eroi, coi quali s'adira, la figlia del padre possente (Iliade, V, 736-747 ).

Attraverso le parole del poeta Atena ci viene incontro come una maestosa persona femminile dot_ata di spalle, testa, piedi, mani con cui afferra la lancia: e soprattutto provvista dei suoi più tipici insignia, l'egida, l'elmo, la testa di Gorgone, la lancia pesante, quegli attributi cioè che, alla pari di membra vere e proprie, definiscono la configurazione fisica del corpo divino ( in particolare nel caso di Atena, cfr. Loraux, 1991; Vernant, 2000). La minuziosa descrizione del carro sul quale la dea sale subito dopo aver vestito le armi - ruote, razzi, asse, cerchio, mozzi, parapetti, timone, giogo, finimenti, cavalli - non fa che accrescere questo effetto di meravigliosa realtà (Iliade, v, 720-732). Attraverso le parole del poeta Atena ci si presenta simile a una delle sue tante immagini, quelle a cui ci ha abituato l'iconografia di questa divinità. Erodoto del resto lo aveva detto (n, 53): sono stati Omero ed Esiodo coloro che, per i Greci, hanno «indicato quale fosse l'aspetto (eidea) degli dèi ». . Tutto questo, però, può accadere solo nella fascia divina della narrazione: quella più alca, in cui agiscono esclusivamente gli immortali. Nella fascia umana, in cui si svolge la vicenda dei mortali, le cose vanno in modo diverso. Ai personaggi dei poemi, infatti, il privilegio di vedere gli dèi per come "veramente sono" viene negato. Allorché, abbandonate le sommità dell'Olimpo, la divinità si trova a interagire con gli esseri umani - gli eroi che combattono nella piana di Troia, Odissea vagabondo, Telemaco - essa non si presenta con l'aspetto che conosciamo dalla fascia della narrazione divina. Il dio "mitiga", "indebolisce" il proprio aspetto, spegnendone la potenza, come ci dice il poeta dell'Inno omerico a Demetra (vv. 93-95):

30

I.

VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

[Demetra] andava per le città degli uomini e i ricchi ca,mpi a lungo mitigando il proprio aspetto (eidos amaldynousa)': nessuno fra [gli uomini né fra le donne dall'ampia cintura guardan_dola poteva riconoscerla.

Nei poemi esiste un solo caso in cui un mortale - Diomede, di cui parleremo - ha il privilegio di vedere gli dèi nella loro "vera" sembianza'. Di norma però il dio o la dea si rendono manifesti assumendo di volta in volta l'aspetto di qualcun altro, ovvero la forma di qualcos'altro: in primo luogo possono presentarsi sotto l'aspetto di una persona mortale, dotata di un'identità precisa (Acamante, Deifobo, Mente ecc.: Iliade, v, 642; XXII, 227-228; Odissea, I, 105) o genericamente umana («un giovane pastore», « una donna bella e grande» ecc.: Odissea, XIII, 221; 288-289 ); oppure si manifestano alla maniera di un astro (Iliade, IV, 75-84: Atena), di un fiotto di nebbia (Iliade, r, 359-360: Teti), di una cupa nube (Iliade, v, 864-867: Poseidone), di un uccello: come accade allorché il Sonno assume le sembianze di quello che gli dèi chiamano chalkis e gli uomini kymindis; ovve-

1. Il verbo amaldyno è usato qui nel significato proprio ed etimologico di «mitigare», «indebolire» (cfr. amalos, amblys, malthakos, lat. mollis ecc.: Chantraine, 1968, s.v.), come in Apollonio Rodio, Argonautiche, I, 834; IV, 112 e alcrove nella letteratura greca. Non credo che nell'Iliade (v11, 463; Xli, 18 e 32) amaldyno significhi «distruggere» come spesso si traduce. Il verbo è usato solo in riferimento al desiderio dei Troiani di cancellare ogni presenza del muro costruito dagli Achei attorno alle loro navi. Nel passo in cui questo processo è descritto più diffusamente (vn, 461463), l'azione indicata con amaldyneiai è preceduta da quella di «spezzare» il muro (,marrhexas), «gettarlo» (katacheuai) in mare e «coprire» (kalypsai) con la sabbia la riva. Si tratta insomma di "cancellare" ogni traccia di quel grande muro, "effacer" del francese. Le traduzioni dei testi omerici, dove non diversamente specificato, sono a cura del!' autore. 2. Anche ad Achille una dea, Atena, si rende visibile (Iliade, I, 197-200 ), pur rimanendo invisibile a tutti gli altri: ma ciò che appare al figlio di Teti sembrano essere in realtà solo gli «occhi» della divinità «che brillano tremendi» (cfr. Giardino, 2003, cap. lii, pp. 53 ss.); anche nei pochi casi in cui si dice che gli dèi si Inoscrano enargeis, questo aggettivo (enarges) non indica in realcà che la divinità si disvela nel suo vero aspetto (cfr. Loraux, 1991; Piettre, 1999). Per la ricchezza dei materiali analizzati e per il metodo adottato nell'analisi, Giardino (2003) offre il contributo più ricco al tema affrontato in queste pagine. Ci rammarichiamo che i risultati raggiunti siano stati pubblicati solo in forma parziale (Giardino, 2003; 2oosa: 20osb).

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GLI DÈI DI OMERO

ro quando Atena ed Apollo siedono « simili ad avvoltoi» (ornisin eoikotes aigypiois) sull'alta quercia che sorge presso le porte Scee per osservare il crudele combattimento. L'indovino Elena, che conosce il linguaggio degli uccelli, riuscirà anzi a udire e comprendere le loro parole (Iliade, VII, 2.3 ss.: Bettini, 2.008b, pp. 187-9; cfr. Iliade, xv, 2.37; XIX, 350 ecc.). In moltissimi casi, infine, come vedremo diffusamente, la divinità agisce semplicemente protetta dalla propria invisibilità. Dunque il personaggio omerico non incontra il dio nella sua dimensione «antropomorfa», per usare il termine che fu caro a Epicuro (fr. 353 Usener): dotato cioè di quel meraviglioso corpo che lo rende insieme simile, e abissalmente diverso, rispetto agli umani. E se anche qualcuno incontra un dio in sembianze umane, come spesso accade, ciò che a lui o a lei si manifesta non è la divinità nella sua forma "propria": si tratta di una figura assunta per l'occasione, una "rassomiglianza" ovvero una "assimilazione" (eikyia, eidomene, eikto, eidomenos ecc.) all'aspetto umano in generale o a quello di qualcuno in particolare. Come dice Odissea ad Atena ( Odissea, XIII, 312.-313), «è difficile, o dea, riconoscerti per un mortale che ti incontri, / anche se costui è molto esperto; infatti ti rendi simile a tutto (panti eiskeis) ». «Tutto»: ecco l'orizzonte entro il quale si realizza l"'assimilarsi" del dio a una qualche presenza concreta quando egli intenda interagire con i mortali. E si tratta, come si vede, di un orizzonte decisamente sconfinato. Conscio del proprio privilegio il lettore dei poemi a questo punto deve chiedersi: perché questa differenza? Perché Omero, che pur sembra essere perfettamente a conoscenza del "vero" aspetto degli dèi, non permette che i suoi personaggi li vedano per come sono? Non si tratta di una scelta arbitraria, ovvero di una decisione dettata da semplici-opportunità di carattere letterario o narrativo. Al contrario, il poeta obbedisce a una norma ben presente nella cultura greca, tanto che Callimaco, formulandola esplicitamente, la fa risalire addirittura a Crono: il che significa "dall'inizio dei tempi" (Kleinknecht, 1939, pp. 341-3). Il poeta sta narrando la disavventura di Tiresia, privato della vista perché un giorno il suo sguardo si è rivolto su Atena che si bagnava (Inno ai lavacri di Pallade, 74 ss.; 99 ss.): sventurato, egli vide quello che è contro la norma divina vedere (ta me themita).

I.

VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

E poi: così recitano le leggi (nomoi) di Crono: colui che dirige lo sguardo su un immortale, quando il dio non lo voglia, lo paga a caro prezzo.

Il principio che Callimaco formulerà in modo così imperativo, comunque, in Omero è già chiaramente affermato: «chi potrebbe vedere con i propri occhi un dio che non lo voglia?» si chiede retoricamente Odissea (Odissea, x, 573-574); mentre Era, preoccupata che Achille possa imbattersi in qualche divinità durante la battaglia, afferma che «gli dèi sono terribili quando si mostrano in piena luce» (chalepoi [... ] phainesthai enargeis: Iliade, xx, 131; cfr. Inno omerico a Demetra, m). Ecco perché, quando concepiscono il sospetto, o meglio il timore, di trovarsi di fronte a una divinità, i personaggi di Omero distolgono immediatamente gli occhi (Iliade, XIX, 14-15: i Mirmidoni di fronte a Teti che porta le armi ad Achille; Odissea, XVI, 178-179: Telemaco che, vista l'improvvisa trasformazione di Odisseo, lo scambia per un dio; cfr. Inno omerico ad Afrodite, 174-175: Anchise di fronte alla bellezza di Afrodite).

I.2

Il paradosso dell'apparire divino La rappresentazione della divinità, in Omero, appare dunque costruita sull'abile filo di un paradosso: da un lato si afferma la natura antropomorfica degli dèi, e in certi segmenti della narrazione la si lascia anzi risplendere in tutta pienezza; dall'altro la si nega, disperdendone la visione attraverso una galleria di figure di volta in volta diverse e ingannevoli. Se nella fascia divina della narrazione l'identità fisica della divinità è affermata e descritta in modo chiaro, alla maniera che ogni lettore di Omero conosce, nella fascia della narrazione umana avviene invece tutt'altro. Qui l'identità del dio non solo si articola in una pluralità di figure provviste di visibilità (o di invisibilità), come abbiamo visto, ma, possiamo aggiungere, essa si manifesta anche attraverso un Ventaglio di segni o indizi. Può trattarsi della voce che la divinità fa intendere senza lasciarsi vedere (la sua "epifonia", com'è stata definita con un bel gioco di parole: Pucci, 1988); oppure delle impronte di passi che, nel loro carattere eccezionale, lasciano intuire la presenza divina. Come accade allorché Aiace Oileo comprende che colui il quale si sta

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GLI DÈI DI OMERO

allontanando - Poseidone sotto le sembianze di Calcante - non è in realtà l'indovino, ma un dio 3: dunque a noi uno degli dèi che abitano l'Olimpo, sembrando (eidomenos) l'indovino, ordina di combattere presso le navi, ma costui non è Calcante, il profeta interprete di uccelli; infatti da dietro, nelle impronte (ichnia) dei piedi e delle gambe facilmente l'ho riconosciuto mentre se ne andava; gli dèi sono ben riconoscibili (Iliade, XIII, 66-72.).

Atena poi si rivela ad Achille attraverso uno sfolgorio d'occhi, «che brillano tremendi» (Iliade, I, 200), mentre Elena comprende di aver di fronte Afrodite (sotto le sembianze di una vecchia) allorché riconosce «lo splendido collo della dea, il seno che spira desiderio e gli occhi luminosi» (Iliade, III, 396-397 ). In casi del genere il segno o indizio, tramite cui la divinità viene riconosciuta, corrisponde a uno dei suoi tratti distintivi: uno di quegli attributi, cioè, che ne definiscono modo o sfera d'azione all'interno del sistema politeistico. Atena - la dea glaukopis, la gorgopis, I' oxyderkes (Carastro, 2006, pp. 77-9 ), tutti epiteti che si riferiscono ai suoi occhi - si rende manifesta ad Achille proprio attraverso «occhi che brillano tremendi»; la vera identità di Afrodite si disvela assieme alla sensuale bellezza che spira dalle sue membra; Poseidone, riconosciuto dal suo «andare», è appena disceso verso la piana di Troia « avanzando veloce con i piedi» mentre « gli alti picchi e la selva tremavano sotto i suoi piedi immortali» (Iliade, XIII, 18-19), attraverso l'andare manifestando cioè il suo carattere di « scuotitore della terra». Infine vi sono casi in cui i mortali si accorgono di aver interagito con una divinità solo dopo averla incontrata, e senza che ci venga detto attraverso quali segni l'abbiano riconosciuta: come accade allorché Ettore intuisce che chi gli ha parlato non era Polite - di cui Iris aveva assunto le sembianze - ma una divinità (Iliade, II, 807; XVII, 333-334: cfr. Giardino, 2.003, cap. IV, p. 161 e nota 2.2.). Dietro questo moltiplicarsi di figure, sembianze, forme o segnali stanno esseri che restano comunque inafferrabili nella loro "vera" identità; e che proprio attraverso la propria mancata afferrabilità, da

3. Anche Platt (2.oII, p. So e nota 188), assieme ad alcri prima di lei, si chiede perché proprio gli ichnia rendano riconoscibile il dio: orme e andatura fanno identità nella culcura antica (cfr: Bettini, 2.000, pp. 319-2.2.; 2.008a, pp. 18-2.0).

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I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

parte dei sensi umani, manifestano per negationem il proprio statuto divino. Ciò che abbiamo detto fin qui potrebbe anzi farci dubitare di un'opinione diffusa, secondo cui le forme assunte di volta in volta dalla divinità, nella fascia della narrazione umana, costituirebbero il risultato di una "metamorfosi". Il processo che si definisce metamorfosi, infatti, presuppone il possesso di una forma propria, originaria, che « in successione» (meta-) viene sostituita da una forma diversa: come Dafne che, abbandonando le proprie sembianze di fanciulla, assume quelle di alloro; o Atteone che, spogliatosi della propria figura di uomo, prende quella di cervo. Solo che Omero, quando introduce gli dèi nella fascia della narrazione umana, non mette mai le cose in questi termini. In nessuna occasione ci viene detto che la divinità, nell'atto di assumere una qualche sembianza visibile, abbandona la propria, meravigliosa sembianza antropomorfica per "trasformarsi" in alcro. Come abbiamo detto, ogni volta il dio puntualmente "si assimila" ad altro, non si muta in esso; e soprattutto il punto di partenza di questo processo non è mai mostrato dal poeta. In nessun caso infatti dal testo emerge una qualche forma "propria", "originaria", che la divinità abbandoni per presentarsi sotto nuova sembianza. Ecco perché, parlando dell'apparire degli dèi ai mortali, non si può dire che vi sia "metamorfosi" ma, se mai, semplice "morfosi" o "diamorfosi": ossia l'articolarsi in figure di volta in volta diverse di un'entità la cui forma, per definizione, è sconosciuta, anzi inconoscibile. Solo il lettore, che negli occhi della mente conserva l'immagine di un corpo divino, immagina che Atena, per assumere le sembianze di Mente o la forma di una rondine, abbia abbandonato le proprie splendenti sembianze divine per assumerne altre, e realizzare così una "metamorfosi". Ma non è di questo che il poeta ci parla.

1.3

L'inganno degli occhi Al contrario, un episodio dell'Iliade lascia piuttosto ritenere che questo "assimilarsi" degli dèi a personaggi umani si realizzi nella forma di un'illusione - una sorta di incantamento - che soggioga la vista dei 111orcali facendo loro vedere ciò che non è. Siamo- al momento in cui

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GLI DÈI DI OMERO

Apollo decide di sottrarre alla morte Agenore incalzato da Achille. Per raggiungere questo scopo il dio prima avvolge di nebbia il guerriero troiano, sottraendolo alla vista del Pelide; poi trascina Achille lontano dalla battaglia, manifestandosi a lui sotto le sembianze di Agenore. Achille non si accorge dello scambio di persona e insegue il falso Agenore finché il dio gli si rivelerà. « Con l'inganno Apollo lo affascinava (doloi ethelgen) » commenta il poeta, fornendoci così una chiave preziosa per comprendere in quale dimensione si consumi l'apparire divino in sembianza umana (Iliade, XXI, 604). Il verbo thelgo, infatti, evoca la fascinazione, l'incantamento che gli dèi esercitano sulla mente, l'animo o le forze degli uomini (Carastro, 2006, pp. 66-99 ); e che anzi può specificamente indirizzarsi agli occhi di qualcuno. Altrove infatti thelgo designa l'agire di Hermes che, con la sua verga, «affascina (thelgei) gli occhi dei mortali» per assopirli o destarli (Iliade, XXIV, 343 ss.; Odissea, v, 47 ss.; XXIV, 3 ss.); ovvero la fascinazione che Poseidone esercita sulla vista di Alcatoo «soggiogandone gli occhi splendenti (edamasse thelxas osse phaeina) », per farlo cadere sotto i colpi di Idomeneo (Iliade, XIII, 435 ss.). L'assunzione delle sembianze di Agenore, da parte di Apollo, dunque, si è realizzata sotto la forma di un inganno visivo, di un miraggio. Il dio non si è "mutato" in Agenore, operando una metamorfosi, ma ha illuso gli occhi di Achille. Un altro esempio mostra come l'assunzione di un determinato aspetto, da parte di una divinità, in Omero venga interpretato come un prodotto del thelgein di cui gli dèi sono capaci. Nel sedicesimo libro dell'Odissea (vv. 172.-185) Atena libera finalmente Odissea dall'aspetto senile che gli aveva attribuito. Telemaco, vedendolo in questa nuova sembianza, si stupisce spaventato, e, poiché un momento prima l'eroe gli « appariva ben diverso da ora», crede che sia un dio. Odissea cerca di rassicurare il figlio, dicendogli di essere suo padre, ma Telemaco non cambia idea: Tu non sei Odissea, mio padre, ma un dio mi incanta (daimon thelgei) perché ancor più io soffra piangendo (vv. 194-195).

L'assunzione di un aspetto diverso, operazione tipicamente divina, non implica metamorfosi, ma illusione. Apparendo sotto sembianze umane gli dèi non si trasformano: piuttosto si fanno gioco degli occhi dei mortali, affascinandoli, e creando miraggi di sé.

I.

VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

1.4

Divinità in immagine: la statua e la presenza In Omero la rappresentazione delle divinità funziona dunque in questo modo: da un lato, nella fascia della narrazione divina, si afferma visibilmente la loro natura antropomorfica; dall'altro, nella fascia della narrazione umana, la si nega. Questo principio, invero paradossale, secondo cui gli dèi sono contemporaneamente se stessi e altri da sé, in Grecia può esprimersi anche nelle rappresentazioni figurative. Anche i pittori di vasi, infatti, articolano talora le proprie composizioni in modo tale da distinguere fra la visione della divinità - più limitata - che viene concessa ai personaggi che stanno dentro la scena rappresentata; e quella, più piena, riservata ai destinatari dell'immagine. Naturalmente essi esprimono questa distinzione utilizzando i mezzi che sono a disposizione di un artista figurativo; il quale, a differenza di un poeta, non può utilizzare il campo lungo della narrazione, ma deve concentrare la rappresentazione nel breve spazio concesso dalla superficie di un vaso, ricorrendo quindi a costruzioni di carattere simbolico. I risultati sono interessanti. In un lavoro recente Hélène Collard (2013) ha portato all'attenzione alcune immagini vascolari (v-1v a.C.), rappresentanti scene mitologiche, in cui una stessa divinità è presente due volte: sia nella sua abituale raffigurazione antropomorfica, sia sotto forma di statua. Su un cratere a volute attribuito al pittore dei Niobidi, ad esempio, vediamo Elena che tenta di sfuggire alla stretta di Menelao, dirigendosi verso la sua destra: là dove stanno Afrodite, la statua di Apollo e Apollo/ dio (FIG. 1.1). Su un'anfora di Cambridge vediamo invece Cassandra, inginocchiata presso la statua di Atena, che viene afferrata per i capelli da Aiace: alla sinistra della statua sta Atena/ dea, in piedi, che alza la mano in direzione di Cassandra in un gesto di protezione (FIG. 1.2). La stessa scena è rappresentata anche su un cratere apulo da Taranto (FIG. 1.3). Qui Cassandra è abbracciata alla statua di Atena, mentre Aiace l'afferra per i capelli. In alto a destra è raffigurata Atena/ dea, seduta, con lo sguardo rivolto verso l'azione che si svolge alla sua sinistra, dunque consapevole di quanto sta accadendo. Ancora, su un cratere del pittore di Pisticci è rappresentata la scena cruciale del mito di Laocoonte, secondo una versione in cui la punizione del sacerdote è provocata da Apollo (FIG. 1.4). Due serpenti si avvolgono attorno alla statua del dio, ai cui piedi si vedono i resti di un bambino; al centro sta una donna

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GLI DÈI DI OMERO

FIGURA I.I

Apollo/dio e la sua statua (cratere attribuito al pittore dei Niobidi)

Fonte: Collard (2013, p. 67, fig. 3); Bologna, Museo Archeologico 269 (LIMC, IV, cav. 236, n. 250 ).

FIGURA I.l

Atena/dea e la sua statua (anfora a collo del Gruppo di Polignoto)

Fonte: Collard (2013, p. 65, fig. 2); Cambridge, Firzwilliam Museum 1op2.

I.

r!GURA

VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

1.3

Arena/ dea e la sua statua (cratere apulo)

lrm/1':

C:ollard (2013, p. 70, fìg. 5); Taranto, Museo Archeologico 5L665.

che brandisce un'ascia sopra la testa e, dietro di lei, un uomo barbuto e disperato. A destra la scena è chiusa da Apollo/dio. Altri esempi vascolari, ugualmente studiati da Collard, si possono citare, in cui la stessa divinità è presente sia in forma di statua sia, per così dire, in persona. Il significato di questi raddoppiamenti divini, comunque, è chiaro. Si tratta di scene che ruotano attorno alla presenza di un dio, che in una determinata circostanza interviene, o viene evocato, in qualità di protettore o punitore. Di questo dio, però, i personaggi interni alla scena vedono soltanto un'immagine, la sua statua: mentre all 'osservatore esterno viene concesso di vederlo anche nella sua abituale rappresentazione antropomorfica. La presenza di una statua, accanto alla raftìgurazione del dio, ha la funzione di ribadire l'invisibilità degli dèi da parte degli umani, nella fattispecie quelli che interpretano la vicenda rappresentata. Il dio è presente, sembra dire il pittore, tant'è vero che viene rappresentato, ben riconoscibile e con i suoi abituali attributi: ma tu, personaggio raffigurato, interprete della vicenda mitica, puoi vederlo solo come sempre lo si vede nella realtà degli umani, ossia sotto forma di

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GLI DÈI DI OMERO

FIGURA 1.4

Apollo/dio e la sua statua (cratere lucano attribuito al pittore di Pisticci)

Fonte: Collard (101,, p. 74, fìg. 8); Basilea, Ancikenmuseum Lu 70.

immagine. La presenza di una statua, in questo tipo di rappresentazioni, riafferma l'inflessibilità delle leggi di Crono: Cassandra non può vedere Atena sdegnata per quanto sta accadendo, o desiderosa di proteggerla da Aiace, ma solo la statua ai cui piedi si inginocchia; a Laocoonte è preclusa la visione di Apollo che lascia straziare i suoi figli, gli è concesso vedere solo la statua del dio, circondata dai due serpenti punitori. Siamo noi, osservatori esterni alla scena, che godiamo il privilegio di contemplare il dio (anche) per come "realmente" si presenta. Com'è facile constatare, la distinzione che, in questo tipo di pitture, viene fatta tra i due diversi modi di "vedere" gli dèi, corrisponde a quella osservata nei poemi: le statue della divinità svolgono la stessa funzione che, nella fascia della narrazione umana, assolvono l'assunzione di sembianze umane o l' assimilazione a un astro o un uccello, manifestando cioè la presenza del

I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

dio senza svelarne le "vere" sembianze; mentre le rappresentazioni degli dèi che si accompagnano a quelle delle loro relative statue ricoprono lo stesso spazio che, nella fascia della narrazione divina, occupano le apparizioni antropomorfe delle varie divinità.

1.5

Indossare una nuvola Quando gli dèi dei poemi entrano nella fascia della narrazione umana, se non assumono una delle tante forme che li rende illusoriamente percepibili ai mortali, essi appaiono protetti da invisibilità. Lo stesso privilegio che, secondo le medesime modalità, frequentemente concedono anche ai mortali che intendono proteggere da sguardi ostili. Ma che cosa significa essere "invisibile" in Omero? Non dobbiamo farci trarre in inganno dalle nostre categorie culturali, spesso così lontane da quelle antiche. Potremmo infatti pensare che l'invisibilità dei personaggi omei:ici fosse simile a quella posseduta da eroi moderni come il dr. Griffin, lo scienziato creato dalla fantasia di H. G. Wells e riproposto sullo schermo daJames Whale nel film del 1933, L'uomo invisibile. Nella nostra cultura, infatti, l'invisibilità corrisponde al grado massimo della trasparenza. In altre parole è una condizione che si realizza quando un determinato corpo è in grado di scomparire totalmente, pur tuttavia rimanendo lì attivo e presente. Nel celebre film di Whale, come si ricorderà, il dr. Griffìn è divenuto in tutto e per tutto trasparente, lo sguardo degli altri lo attraversa come se non ci fosse: eppure lui c'è, sposta oggetti, produce rumore, urta persone. Di conseguenza la sua presenza si lascia percepire alla vista, assai paradossalmente, solo quando il suo corpo è coperto. È difficile dimenticare la scena, tanto ironica quanto perturbante, in cui Griffin toglie la benda dal proprio capo, rendendolo così progressivamente invisibile e, inversamente, svelando alla vista ciò che sta dietro di lui. Tutto al contrario, nella concezione omerica l'invisibilità non si realizza come trasparenza assoluta, ma corrisponde a una barriera che si interpone fra lo sguardo dell'osservatore e l'oggetto verso cui questo sguardo è rivolto. Questa barriera ha una natura precisa: si tratta di nebbie, nuvole o altre forme di oscuramento che, avvolgendo un dio o un mortale protetto da una divinità, impediscono di essere visti. In altre parole, mentre nella nostra concezione l'invisibilità corrisponde a una rarefazione del soggetto - talmente estrema da farlo dileguare - in quel-

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GLI DÈI DI OMERO

la omerica lo stesso fenomeno sembra piuttosto realizzarsi socco forma di un ispessimento o di un oscuramento dell'atmosfera che lo circonda. Se nel corso dei poemi questo fenomeno viene in genere rappresentato attraverso l'atto di versare/spargere nebbia, nuvole o oscurità attorno agli dèi, alcre volce esso consiste più specificamente nell'"indossare" questi operatori di invisibilità. È infatti «vestiti di nebbia» che Era e il Sonno si avviano verso il monte Ida (heera essameno: Iliade, XIV, 281-282); e « indossando sulle spalle una nuvola» (heimenos omoiin nephelen) Apollo accompagna Ettore in baccaglia (Iliade, xv, 306-308). Ugualmente gli dèi, attorno alle mura di Troia, «indossavano sulle spalle impenetrabile nuvola» (arrekton nephelen omoisin hesanto: Iliade, xx, 149-150 ), mentre alcre volce il dio agisce «con le spalle avviluppate di nuvola» (nephele eilymenos omous: Iliade, v, 184-187: cfr. Giardino, 2003, cap. II, pp. 59 ss.). L'invisibilità divina viene dunque rappresentata quasi fosse un indumento di vapori, che si indossa alla maniera di una cappa o di un mantello. Non si tratta, a dire il vero, di una specificità omerica. Questo modo di realizzare l'invisibilità, infatti, corrisponde a un modello che ricorrerà anche nel folclore e nella letteratura germanica, in cui questa straordinaria condizione corrisponde concretamente a un "mantello": un indumento magico che, una volca indossato, ha il potere di celare alla vista. È la Nebelkappe, il «mantello di nebbia» in possesso dei Nibelunghi, nani meravigliosi il cui nome significa a sua volca «esseri della nebbia» (Niflungar); è la Tarnkappe, il «mantello del mascheramento» che nel Nibelungenlied Sigfrido coglie al nano Alberico (Belmont, 1971, pp. 903; Chiesa Isnardi, 1991, p. 392 e nota; cfr. Bachcold-Scaubli, HoffmannKrayer, 1987, p. 1031). L'invisibilità intesa come indumento costituisce dunque un frammento dell'immaginario che ha attraversato i secoli e le culture - e del quale gli invisibility cloaks resi celebri da Harry Potter costituiscono l'estrema (ma forse non ultima) reincarnazione.

1.6 Le sostanze del!' invisibile Vediamo dunque quali sono gli operatori di invisibilità messi in opera nei poemi. Cominciamo dall 'aer. Quando l'azione degli dèi si sposta nel mondo degli uomini, infatti, essi «si vestono» (hennymi) di aer, come sappiamo; o con essa «si nascondono» (kalyptein), celando così la propria presenza (Iliade, XVI, 788-792 ecc.). Ed è ancora alla pro-

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I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

tezione offerta dall' aer che gli dèi fanno ricorso quando, sul campo di battaglia, vogliono salvare un guerriero in difficoltà, sottraendolo alla vista dei nemici (Iliade, III, 380-382.; xx, 443-444 ecc.). Che cosa significa propriamente aer? Non si tratta né di «aria» né di «vento», come talora si è pensato. In un saggio tanto breve quanto magistrale, Antoine Meillet (192.5; cfr. Mugler, 1963, pp. 60-1) ha infatti a suo tempo mostrato che questa parola costituisce un derivato del verbo aeiro «sollevare», e dunque indica «sospensione», « ciò che è in sospensione». Come appunto accade alla nebbia, ai vapori che flottano sulla superficie della terra. Non mancano in effetti casi in cui, nel linguaggio epico, aer viene usato in senso proprio, per designare l'aria cupa che si genera sotto l'incalzare di un vento impetuoso, ovvero i vapori umidi che si sollevano all'alba di un giorno tempestoso: tutte circostanze atmosferiche, cioè, che prevedono la presenza di una «sospensione» opaca e volatile che flotta sulla superficie della terra (Iliade, v, 864-867; Esiodo, Opere, 549-553). In quanto «sospensione» nebbiosa l'aer si oppone all' aither, un derivato dal verbo aitho « bruciare, risplenqere »: che come tale designa la materia aerea mettendone al contrario in evidenza il carattere chiaro e brillante (cfr. Iliade, XVII, 640-647 ). Altre volte, poi, in Omero l'invisibilità divina viene realizzata circondandosi non di aer, ma di nephele o nephos, «nuvola»: come quando Apollo accompagna Ettore in battaglia «indossando sulle spalle una nuvola» (heimenos omoiin nephelen: Iliade, xv, 306-308); o quando gli dèi attorno alle mura di Troia indossano sulle spalle una «nuvola impenetrabile» (arrektos nephele). Anche in questo caso ciò che impedisce la vista degli uomini corrisponde a una sostanza opaca e volatile, simile all' aer. La cosa interessante è che la nuvola, in quanto strumento di invisibilità, può agire nascondendo gli dèi non solo alla vista dei mortali, ma anche a quella delle altre divinità: in questo caso però essa riceve un'ulteriore specificazione, è definita «aurea» (chryseie). Quando Zeus, sedotto da Era e in preda al desiderio d'amore, vorrebbe unirsi immediatamente a lei sulla cima del monte Ida (cfr. CAP. 3), la dea finge inizialmente di resistergli: teme infatti che, amandosi così allo scoperto, possano essere scorti da qualche altra divinità. Ma Zeus la rassicura con queste parole: Era, non temere che uno degli dèi o degli uomini ci veda; io stenderò tutt'intorno una nube d'oro

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GLI

ntr

DI OMERO

così densa (toion ... nephos ... chryseon), che attraverso non ci potrebbe vedere neppure il Sole, la cui luce è acutissima nel guardare (Iliade, XIV, 342.-345).

Così avviene. Il racconto infatti prosegue in questo modo: Su questa [la terra] si stesero, su di sé vestirono una nuvola bella, d'oro (nephelen ... kalen chryseien); ne cadevano gocce di rugiada

(Iliade, XIV, 350-351). Il carattere "aureo" della nuvola che protegge Era e Zeus dagli sguardi indiscreti degli dèi segnala immediatamente la sua relazione con il mondo divino, come spesso accade nei poemi quando è in gioco l'aggettivo chryseos, «aureo» (Giardino, 2003, cap. II, pp. 69 ss. e nota 26). In quanto strumento di invisibilità la nuvola agisce dunque secondo due livelli distinti: quando si tratta di nascondere la presenza degli dèi alla sola vista dei mortali, è sufficiente una semplice nuvola; allorché però è necessario respingere lo sguardo anche delle divinità, la nuvola è definita specificamente «aurea», per segnalare che stavolta la barriera visiva è chiamata ad agire anche nello spazio divino (Giardino, 2003, cap. II, pp. 69 ss.) 4 • Nei poemi esiste poi un ulteriore operatore di invisibilità, l' achlys. Odisseo è giunto all'isola dei Feaci e Atena lo guida verso la reggia: I Feaci celebri navigatori non si accorsero di lui che fra loro andava per la città. Non lo permise Atena dalla bella chioma, terribile dea: perché achlys divina (thespesie) gli aveva versato intorno, sollecita nell'animo (Odissea, VII, 39-42.).

Più avanti nel racconto, lo stesso operatore di invisibilità che qui viene designato come achlys è definito con il termine più consueto di aer.

4. Dione Crisostomo, Orazioni XI, l i (Sull'inaffidabilita di Omero) ironizzerà sui poteri di questa nube promessa da Zeus a Era: del tutto inefficace, visto che almeno Omero aveva ben potuto vedere quel che accadeva su quella montagna. La nube che avvolge Zeus sul Gargaro, una volta che Era è ritornata sull'Olimpo (Iliade, xv, 15l153), è definita semplicemente «odorosa». Sull'Olimpo «dietro nubi dorate» siede Ares, assieme agli altri dèi, ignaro della morte di suo figlio Ascalafo (Iliade, XIII, SllSlS)- Quando Atena pone sul capo di Achille una «nube d'oro» (Iliade, xvm, lOS· l06) non è per renderlo invisibile, ma al contrario più splendente e terribile.

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I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

Che cosa significa propriamente achlys? Non si tratta di «nebbia» o «bruma» - al contrario è così che questo termine viene spesso inteso1 ma di una più generica «oscurità». Quando nell'Odissea (xn, 405-406) si dice che il mare, all'avanzare di una «fosca nube», «echlyse sotto di lei» - achlyo è il verbo derivato dal sostantivo achlys - il poeta non intende certo affermare che la superficie marina si copre di nebbia. Al contrario, si tratta di un fenomeno atmosferico legato alla luce solare, provocato dalla comparsa nel cielo di una fitta nube: in conseguenza di ciò il mare «si abbuia», «si oscura». La stessa conclusione ricaviamo dal ricorrere di questo termine in una delle scene più impressionanti dell'Odissea, la visione allucinata dell'indovino Teoclimeno (xx, 3513s7): ecco che i pretendenti, ormai condannati a morte, sono avvolti dalla notte (nyx) fino alle ginocchia, le pareti della sala appaiono spruzzate di sangue, l'atrio e il cortile si sono riempiti di fantasmi (eidola); e infine « il sole è scomparso dal cielo, si è diffusa tetra oscurità» (kake d'epidedromen achlys: 357). La presenza di nebbia o bruma sarebbe decisamente immotivata qui: l'invasione dell' achlys è posta direttamente in relazione con la scomparsa del sole, come nel caso precedente; si tratta di tenebra, oscurità, che corrisponde alla «notte» da cui i corpi dei pretendenti sono avvolti, quasi fossero già stati sprofondati nelle tenebre dell'Ade. A questo proposito, non dimentichiamo che in Omero I' achlys si presenta anche con una coloritura a carattere funebre. È ciò che accade le numerose volte in cui essa definisce una condizione visiva non di carattere oggettivo, come nei casi che abbiamo visto, ma soggettivo. Questa parola infatti viene usata per descrivere la perdita di capacità visiva da parte di un morente, e segnalare così l'approssimarsi della fine: «lo abbandonò la psyche, sugli occhi si versò achlys», ecco la formula all'interno della quale tipicamente ricorre l' achlys (Iliade, V, 696; XIII, 344; xx, 42.1 ecc.)6. In Omero, infatti, la capacità visiva è concepita come un flusso luminoso che parte dagli occhi, attinto al fuoco sottile che essi contengono (Mugler, 1963, pp. 131-4; Frontisi-

5. Così LSJ (H. G. Liddel, R. Scoct, H. S. Jones, A Greek-English Lexicon, Clarendon-Press, Oxford 1996): «mise»; Mugler (1963, pp. 62.-3); e spesso le traduzioni correnti. 6. Nello Scudo attribuito a Esiodo (vv. 2.64 ss.) Achlys compare come orrida figura umana, pallida, raggrinzita, con le unghie adunche e le ginocchia gonfie come quelle degli affamaci: fantasmatica personificazione di quel buio che, impadronendosi degli occhi, annunzia la morte.

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Ducroux, Vernant, 1998, pp. 139-46): la morte lo spegne, versando

achlys e abbuiando irrimediabilmente lo sguardo. In conclusione dobbiamo immaginare che l' achlys «versata» da Atena attorno ad Odissea sia non «nebbia» o «bruma», ma buio, oscurità. È solo l'analogia con gli altri termini omerici che designano normalmente l'operatore di invisibilità, ossia aer, nephele o nephos, a suggerire che anche nel caso dell' achlys a essere in gioco sia una materia nebbiosa. A questo proposito può essere interessante il fatto che Oppiano (Halieutica, III, 158) userà il termine achlys per indicare il nero liquido che la seppia secerne attorno a sé per «abbuiare» lo spazio che la circonda, e nascondersi così alla vista dei predatori. Dunque, si licet heroas componere piscibus, possiamo immaginare che, quando Atena versa achlys attorno ad Odissea, si verifichi qualche cosa di simile a quanto accade allorché una seppia «abbuia» il campo visivo che l'avvolge. Il fatto che, accanto ai più usuali vapori (aer, nephele, nephos ), anche la semplice «oscurità» (achlys) venga usata come operatore di invisibilità, corrisponde al ricorrere, in questa stessa funzione, direttamente della «notte» (nyx). Così accade allorché Efesto «nasconde con la notte» il troiano Ideo incalzato da Diomede, o quando Atena « nasconde con la notte» Odissea, Telemaco, Eumeo e Filezio dopo la strage dei pretendenti (Iliade, v, 2.2.-2.4; Odissea, XXIII, 371-372.). Viene in mente l'Apollo vendicatore che «simile alla notte», dunque invisibile agli Achei, scaglia su di loro i suoi dardi micidiali (Iliade, I, 47 ). Ancor più interessante il caso di Atena che, per celarsi alla vista di Ares, si infila in testa il celebre elmo di Ade, laAidos kynee (Iliade, V, 845): un copricapo che ha la capacità di donare l'invisibilità a chi lo indossa. In quanto appartenente alla divinità che porta l'invisibilità nel suo stesso nome - Aides «l'Invisibile» - il potere di questo elmo doveva essere particolarmente grande. Indossandolo infatti si può sfuggire perfino allo sguardo degli dèi - Ares nella fattispecie - ottenendo cioè lo stesso risultato prodotto altrove avvolgendosi di una «nuvola aurea». Anche in questo caso, però, dobbiamo presupporre che l'invisibilità ottenuta tramite il meraviglioso elmo sia del genere abbuiante, notturno. Lo Scudo di Eracle (vv. 2.2.6-2.2.7 ), un poemetto attribuito a Esiodo, ci fornisce infatti una breve descrizione dei meravigliosi poteri posseduti dallaAidos kynee, che come si sa svolge un ruolo importante nelle imprese compiute da Perseo: terribile attorno alle tempie del signore [Perseo] c'era l'elmo di Ade, che porta con sé della notte la tenebra terribile (nyktos zophon ainon ).

I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

L'invisibilità che la Aidos kynee concede ha dunque carattere notturno, tenebroso. Non dimentichiamo anzi che, se nello Scudo il termine zophos «tenebra» designa l'operatore di invisibilità messo in azione dall'elmo di Ade, in Omero lo stesso termine è usato per designare la tenebra infernale; ed è accompagnato proprio dall'epiteto eeroeis «denso di aer» (Iliade, XII, 2.40; XXI, 56 ecc.). A questo livello insomma "tenebre" e "nebbia", come operatori di invisibilità, si confondono. Allo stesso modo le Muse Eliconie che Esiodo canea sono contemporaneamente «nascoste da molca nebbia (eeri) » e «notturne (ennychioi)» (Teogonia, 9-10): di loro il poeta può udire solo la voce meravigliosa. Contrariamente a quanto l'aggettivo ennychioi potrebbe far supporre, l'incontro non si svolge di notte, come talora si è pensato (Brillante, 2.009, pp. 80-3): questa espressione ribadisce solo l'invisibilità delle dèe, aggiungendo il potere oscurante della tenebra a quello esercitato dall' aer. Possiamo dunque concludere che, in Omero, l'invisibilità viene prodotta avvolgendo il soggetto sia di una sostanza nebbiosa (aer, nephele, nephos ), sia velandolo di oscurità (achlys, nyx). Solo che a questo punto corna inevitabilmente a riaffacciarsi la domanda che già prima ci ponevamo: come dobbiamo immaginarcela, questa invisibilità omerica? Quando un dio, avvolco dall'aero dalla nephele, si sposta sul campo di baccaglia, i guerrieri scorgono forse una nuvoletta che trascorre davanti ai loro occhi? E allorché qualcuno venga avvolco di oscurità o notte, che cosa accade? Che i presenti vedono il buio scendere davanti a loro? Torniamo dunque nell'isola dei Feaci e vediamo dall'inizio l'episodio in cui, come sopra accennavamo, Odissea viene avvolto da Atena - alternativamente - di aer e achlys: nebbia e oscurità.

1.7

Altre illusioni Dopo l'incontro con Nausicaa, e quel che ne segue, l'eroe viene dunque reso invisibile da Atena che versa incorno a lui «molca nebbia» ( Odissea, VII, 14-17: polle aer). Odissea attraversa il porco e la città, discorrendo con la dea che ha assunto sembianze di ragazza, ma nessuno dei Feaci può vederlo, in quanto egli è protetto dalla «oscurità divina» (achlys thespesie: vv. 39-43) nella quale Atena lo ha avvolco. Il

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GLI DÈI DI OMERO

momento più interessante, per noi, è offerto però dalla conclusione della passeggiata di Odissea. Ecco che l'eroe è entrato, non visto, nella reggia di Alcino o: poi il paziente divino Odissea attraversò la sala avvolto da molta nebbia r_polle aer), che gli versò incorno Atena, finché giunse presso Arete e Alcinoo sovrano. Incorno alle ginocchia di Arete gettò le braccia Odissea; e allora da lui si sciolse la prodigiosa nebbia (thesphatos aer). Quelli fecero silenzio vedendo un uomo nella sala e guardando ammiravano (Odissea, VII, 139-145).

È impossibile pensare che il poeta omerico avesse in mente una scena come la seguente: Alcinoo, Arete e le altre persone presenti nella reggia vedono la sala progressivamente attraversata da una nuvoletta in direzione di Arete; dopo di che vedono ancora questa nuvoletta abbassarsi di fronte alla regina e, finalmente, da essa venir fuori un uomo. Al contrario, il testo lascia intendere che fino al momento in cui l' aer divina è «versata indietro» (,palin chyto), liberando così Odissea dall'involucro che lo protegge, nessuna presenza straordinaria viene avvertita nella reggia: il silenzio e lo stupore si impadroniscono dei presenti solo al momento in cui «vedono un uomo nella sala» (Giardino, 2003, cap. I, pp. 24 ss.). Com'è possibile però immaginare una nebbia, o una nuvola, che rendono invisibili senza essere, a loro volta, visibili? Per rispondere a questa domanda è necessario osservare più da vicino quali sono i poteri dell' aer. A darcene l'opportunità sono i fatti che si svolgono allorché Odisseo, sbarcato finalmente nella sua agognata Itaca, si risveglia dal meraviglioso sonno in cui è sprofondato. A questo punto infatti l'eroe ha una brutta sorpresa: non riconosce la sua isola ( Odissea, XIII, 189-196). Atena gli ha giocato uno scherzo davvero inatteso: [... ] nebbia (aer) incorno diffuse la dea Pallade Atena, figlia di Zeus, perché lo rendesse irriconoscibile (agnostos) e ogni cosa gli potesse spiegare, e perché la moglie e la gente e i suoi non lo riconoscessero prima che i pretendenti pagassero tutta la loro tracotanza. Perciò altro alla vista (alloeidea) ogni cosa appariva al signore, i lunghi sentieri e i porti di facile approdo, e le rupi scoscese e gli alberi rigogliosi.

I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

Incapace di riconoscere i luoghi a lui pur così familiari, Odissea si dispera, teme di esser stato sbarcato dai Feaci in una terra selvaggia e inospitale. Per un lungo tratto, anzi, l'eroe resterà convinto di essere capitato altrove, non a Itaca come gli era stato promesso. Sarà solo dopo un lungo dialogo con l'eroe che Atena - la quale assume sembianze via via diverse fino a farsi riconoscere - restituisce a Itaca il suo aspetto naturale: finalmente la dea «disperse la nebbia (aer) ed apparve la cerra» (Odissea, XIII, 352.). Quanto ad Odissea, l'effetto deformante che su di lui ha l' aer versatagli attorno da Atena sarà ulteriormente accresciuto dalla dea stessa, che col tocco della sua verga d'oro lo renderà simile a un vecchio mendicante: fino al momento in cui, toccandolo nuovamente con la sua verga, gli restituirà il colorito, la barba e le « guance distese» che gli erano proprie ( Odissea, XIII, 397 ss.; XVI, 172. ss.). Come si vede, nel caso di Itaca divenuta irriconoscibile agli occhi di Odissea, l' aer - quella nebbia che normalmente viene usata per rendere invisibile qualcuno - ha più semplicemente la funzione di deformare, di alterare la visibilità di quanto cade sotto la vista: non si tratta di celare allo sguardo, quanto di rendere irriconoscibile ciò che si vede. Sia la terra di Itaca, sia lo stesso Odissea, si presentano diversi da come sono: essi continuano a essere visibili, non sono scomparsi, solo che tutto quanto appare alloeides « altro alla vista». La particolare funzione svolta dall' aer in questa circostanza ci conduce al cuore stesso della sua meravigliosa natura: questa nebbia ci appare adesso per quel che è, una produttrice di inganni ottici. Si tratta di una sostanza che ha la capacità di alterare la visibilità degli oggetti, sia celandoli completamente, sia mutandone o deformandone l'aspetto. Il campo in cui ci muoviamo, quando parliamo di invisibilità omerica, è dunque costituito dall' illusione7• Quando Odissea, nella reggia dei Feaci, avanza protetto dall 'aer, ciò che si verifica è prima di tutto un miraggio, un abbaglio: la «nebbia» che protegge Odissea dobbiamo immaginarla come una condizione atmosferica che - meravigliosamente manipolata dalla divinità 8 - ha la capacità di scompigliare la visibilità

7. I Romani avrebbero un'espressione molto precisa per descrivere questa condizione, praestringere oculos, «manipolare lo sguardo», facendo sì che si veda altro da ciò che in realtà si vede. 8. Il carattere divino di questi operatori di invisibilità è esplicitamente dichiarato: «divina nebbia» (thesphatos aer: Omero, Odissea, VII, 139-143), «oscurità divina» (achlys thespesie: Odissea, VII, 39-43); si vedano poi i numerosi casi in cui I' aer,

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GLI DÈI DI OMERO

di quanto cade sotto la vista dei presenti. Ed è così, come un'illusione subita dallo sguardo mortale, che dobbiamo figurarci ciò che avviene quando una divinità si rende invisibile coprendosi di nebbie o oscurità. In altre parole, l'invisibilità degli dèi segue le stesse regole secondo cui si realizza anche il loro apparire ai mortali in forma umana: quella che si produce è - ancora una volta - un'affascinazione, un miraggio capace di illudere gli occhi degli uomini. Allorché Apollo si rende invisibile agli Achei « indossando sulle spalle una nuvola» (Iliade, xv, 306-308 ), non accade nulla di diverso dalla volta in cui, dopo aver assunto le sembianze di Agenore, «con l'inganno affascinava (ethelgen)» Achille (Iliade, XXI, 604). La divinità si rende invisibile agli umani producendo un miraggio di sé: esattamente allo stesso modo in cui, ancora tramite un miraggio, ai mortali essa si rende visibile in forma umana.

1.8

Nuvole ingannatrici Il fatto che in Omero nebbie e nuvole, in particolare, siano concepite come produttrici di illusione, allo stesso titolo dell'oscurità e della notte, corrisponde a un tratto generale della cultura greca; e si inserisce perfettamente nel sistema delle sue rappresentazioni simboliche. Non può essere un caso che, quando una divinità suscita il "doppio" di una persona, umana o divina, per difenderla da un'aggressione, questa entità illusoria - creata per mescolare realtà e inganno, illudendo i sensi di un aggressore - sia fatta proprio di "nuvola" (Bettini, 2012, pp. 25-31). Allorché Pindaro riferisce dell'amore sciagurato che Issione concepì per Era, egli descrive così lo stratagemma ordito da Zeus per difendere la moglie e dileggiare la follia dell'amante: giacque con una nuvola (nephela), inseguendo una dolce illusione (pseudos ), uomo senza discernimento (aidris): somigliava nel sembiante alla figlia di Crono, sovrana fra le Uranie; gli tesero l'inganno (dolos ), bella sciagura, le mani di Zeus (Pitiche, II, 36-40 ).

usata come operatore di invisibilità, è definita «moira» (polle) per sottolinearne l'accresciuto potere (Iliade, v, 775-776; VIII, 49-50; XI, 750-752.; XIV, 2.81-2.82.; XVI, 788-792.; XXI, 547-549;

Odissea, VII, 14-17 ).

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I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

Illusione, inganno, mancanza di discernimento, ecco ciò che attorno a sé riesce a suscitare la presenza di una nuvola. Ed è ancora da un eidolon nepheles, un fantasma di nuvola, che Endimione, anche lui invaghitosi di Era, viene tratto in inganno (Esiodo, fr. 260 Merkelbach-West); così come ancora un eidolon ek nephon, un «fantasma fatto di nuvole», è ciò che Paride - nella variante del mito inaugurata da Stesicoro - porta a Troia illudendosi di avere con sé nientemeno che la bellissima Elena (Apollodoro, Epitome, III, 5 e VI, 30 ). Le nuvole sono di per se stesse sinonimo di inganno, vanità, illusione. Nella logica simbolica della cultura greca esse assolvono una funzione di cui le nuvole messe in scena da Aristofane - maestre di profeti esaltati, medici stregoni, perdigiorno zazzeruti, impostori: tutti personaggi capaci di illudere e ingannare gli ingenui - costituiscono solo una delle tante manifestazioni (Nuvole, 314-355) 9 •

1.9

La povera vista dei mortali Torniamo all' achlys, quell'oscurità che abbiamo visto capace di circondare un soggetto suscitando il miraggio della sua inesistenza. Questa illusoria condizione, infatti, ci offre la possibilità di osservare un ulteriore aspetto dell'invisibilità di cui godono gli dèi omerici. Adesso la prospettiva si presenta rovesciata: la stessa achlys che è capace di confondere lo sguardo, avvolgendone l'oggetto, altrove è infatti presentata come una presenza posta stabilmente davanti agli occhi dei mortali; che in questo modo sono resi costituzionalmente incapaci di vedere gli dèi. Si tratta della stessa achlys che, come sappiamo, invade gli occhi del morente, privandolo della capacità di vedere: salvo che stavolta tale oscurità è presentata come una condizione stabile dello sguardo umano. Come produttrice di invisibilità, l' achlys svolge dunque non una ma due funzioni complementari e inverse: può giocare la sua partita

9. Allo stesso tipo di rappresentazione culturale appartiene anche il latino nelJ/do: un derivato accrescitivo da nebula «nebbia» che indica un personaggio inaffidabile, un perdigiorno, un ingannatore. Elio Stilone lo definiva in questo modo: qui non pluris sit, quam nebula, aut qui non facile perspici possit qualis sit ( in Festo, De verhorum signifìcatione, 162. Lindsay ).

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GLI DÈI DI OMERO

dalla parte dell'oggetto, creando l'illusione della sua inesistenza; oppure può giocarla dalla parte del soggetto, impedendogli di vedere ciò che altrimenti potrebbe cadere sotto il suo sguardo. Possiamo dire che l'achlys funziona in maniera analoga all'aggettivo typhlos «cieco», capace di designare sia l'incapacità di vedere (la cecità), sia reciprocamente quella di esser visti 1°. A rivelarci questa diversa realizzazione dell'invisibilità divina, tramite achlys soggettiva, è ancora la dea Atena, la volta in cui concede a Diomede la possibilità di discernere gli dèi dagli uomini sul campo di battaglia: ti ho tolto dagli occhi l'oscurità (achlys) che prima vi stava sopra, affinché tu riconosca bene sia gli dèi che gli uomini (Iliade, v, Il7-Il8).

In conseguenza di questo privilegio, Diomede sarà capace di vedere Afrodite che si cela dietro il proprio peplo (Iliade, v, 330-342) e Ares che, sul campo di battaglia, ha assunto l'identità di Acamante (Iliade, V, 462-463). Qualcosa di simile accade allorché, ancora Atena, libera dall'oscurità lo sguardo degli Achei, per permettere loro di meglio difendersi dall'infuriare di Ettore: Atena dissipò dai loro occhi la nube di oscurità (nephos achlyos) prodigiosa (thespesion ); per loro si fece molta luce da entrambe le parti sia verso le navi sia verso la crudele battaglia (Iliade, xv, 668-670 ).

Privati della «nube di oscurità» che velava i loro occhi, gli Achei hanno la possibilità di guardare molto lontano, assai più di quanto umanamente si potrebbe: non solo vedono Ettore e i compagni, ma anche coloro che «stavano indietro e non combattevano» e perfino «quanti alle rapide navi sostenevano lo scontro» (Iliade, xv, 671-673) Dobbiamo concludere che, nella rappresentazione omerica, la vista degli uomini è concepita come difettosa, limitata ( Giardino, 2003, cap. II, pp. 60 ss.). Senza l' achlys che la offusca, essi non solo 11



10. Sulla reciprocità della visione in Grecia cfr. in particolare Frontisi-Ducroux, Vernant (1998, pp. 139-46); Carastro (2.006, pp. 90-1). 11. Cfr. Iliade, xx, 32.1: Poseidone versa achlys negli occhi di Achille per sottrarre Enea alla sua vista; ciò fatto, libera nuovamente dall'oscurità gli occhi dell'eroe

(vv. 341-342.).

Sl

I.

VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

riuscirebbero a vedere molto più lontano di quanto possano fare normalmente, ma potrebbero perfino vedere gli dèi nel loro "vero" aspetto, come capita a Diomede. Se lo osserviamo attraverso la lente della nostra cultura, questo modo di immaginare le facoltà sensoriali risulta singolare. Quasi che ad esse fosse connaturato una sorta di blocco, un "limitatore" che le rende congenitamente più deboli di quanto porrebbero esserell. In realtà, non dobbiamo dimenticare che, per i Greci, il corpo dei mortali - in generale - costituisce una versione immiserita del corpo divino: quel modello perfetto che gli uomini realizzano in forme che ad esso si richiamano, pur restando ineluttabilmente prive della sua irraggiungibile perfezione. «L'uomo e il suo corpo [... ] portano il marchio di una menomazione congenita» (Vernant, 2000, p. 7 ). Ciò che noi, dal nostro punto di vista e sulla scorta di Epicuro, definiamo antropomorfismo degli dèi, dovrebbe essere piuttosto riscritto nei termini di un "teomorfismo" degli umani. Nel senso che non sono tanto gli dèi dei Greci a essere immaginati sotto forma umana, è piuttosto il corpo dell'uomo che ripete le forme della divinità - pur se in misura più debole, caduca, priva di quello splendore meraviglioso ed eterno di cui gode il corpo della divinità. Così come il sangue degli uomini ripete solo grossolanamente I' ichor che scorre nelle membra degli immortali - e il «cibo effimero» degli uomini altro non è che pallida variante di quello «immortale» proprio degli dèi ( ivi, pp. 11 -2) - anche la capacità visiva degli umani appare ridotta, miserevole nei confronti di quella posseduta dagli dèi. Raccontandoci delle gesta di Diomede, Omero ci mette a parte della ragione di questa specifica debolezza: essa risiede in una congenita oscurità da cui solo una divinità può liberare la vista degli uomini, rendendola così, per un breve periodo, simile a quella posseduta dagli dèi. I quali "si vedono" fra loro con lo stesso sguardo con cui Diomede, per uno straordinario privilegio, può adesso "vedere"

12.. Virgilio, Eneide, II, 604-606, riprenderà lo stesso schema allorché Venere ,trappa (eripui) dagli occhi di Enea la nubes che ne «spuntava» (hebetabat) la «vista mortale» (mortalis visus), circondandola di umida caligine (caligo ): permettendo così al figlio di contemplare la terribile scena degli dèi intenti a distruggere Troia. In questo caso la visione è concepita come una vera e propria acies, una «punta» che la caligine rende ottusa. Per la fortuna successiva di questo tema cfr. Paschalis (2.010, pp. 72.-85).

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GLI DÈI DI OMERO

Afrodite e Ares. L' achlys costituisce il corrispettivo fisico delle leggi di Crono, quelle che, come sappiamo, impediscono a un mortale di vedere gli dèi.

I.IO

L'identità degli dèi: se stessi e altri da sé Il privilegio concesso a Diomede da Atena ci invita a tornare conclusivamente sul problema dell'identità divina in Omero. Il Tidide infatti - un umano liberato dall'oscurità costitutiva che velerebbe altrimenti il suo sguardo - vede gli dèi sotto le stesse sembianze antropomorfe che nei poemi, come abbiamo detto, si rivelano solo nella fascia della narrazione divina. Quando l'eroe insegue Afrodite, egli non solo la riconosce distintamente per colei che è, ma con la lancia la ferisce alla mano (cheira), trapassandole il peplo immortale, forandole la pelle (chroos) e facendo scorrere l' ichor dalla ferita (Iliade, v, 330-343): tanto che la dea corre via terrorizzata lasciando ad Apollo il compito di proteggere Enea ferito. Così come più avanti ancora Diomede riconoscerà Ares sotto le sembianze di un mortale e lo colpirà con la lancia al basso ventre (neiaton es keneona), provocando l'urlo selvaggio del dio (vv. 855-861). Mano, peplo, pelle, sangue, ventre: ciò che Diomede ha davanti a sé - e noi con lui - sembrano dunque essere dei veri e propri "corpi", i corpi divini degli dèi, gli stessi con cui essi si manifestano alle altre divinità sull'Olimpo. Sembrerebbe di dover concludere che il dio, quando si muove fra gli umani, ha la stessa identità fisica che ci si rivela nella fascia della narrazione divina; e che è questa stessa divina sembianza a essere occultata, dai diversi operatori di invisibilità, quando la divinità agisce non vista fra i mortali. Dunque al fondo di tutto gli dèi corrispondono "veramente" al loro splendente, antropomorfico apparire? È questa la loro prima e vera identità? In realtà pensiamo che le cose siano più complicate di così. Non bisogna dimenticare infatti che, nei poemi, l'insistenza sulle molteplici forme altre attraverso cui la divinità di norma si manifesta, è estremamente forte: lo è a tal punto da far supporre che questo caleidoscopio di figure - segni e barlumi, identità umane, uccelli, astri, fenomeni atmosferici - costituisca a suo modo un'ulteriore "vera" identità degli dèi. Il dio sembra essere veramente se stesso anche, o proprio, allorché si manifesta attraverso sembianze che non corrispondono a quelle del suo splendente antropomorfismo: e lo definiscono più come

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I. VISIBILITÀ, INVISIBILITÀ E IDENTITÀ DEGLI DÈI

inafferrabile potenza, suscitatrice di segni o di immagini illusorie, che come figura personificata. In realtà, se vogliamo osservare gli dèi con uno sguardo (il più possibile) vicino a quello che a loro rivolgevano Omero e il suo pubblico, dobbiamo prima di tutto evitare di definire la loro identità sulla base di criteri dettati da ciò che a noi appare "ragionevole". Logica e verisimiglianza - cattive consigliere quando si affrontano culture diverse dalla propria, specie in materia divina - vorrebbero infatti che anche gli dèi omerici non potessero avere che una, e una sola, identità, allo stesso modo delle persone umane; cosicché le alcre figure, attraverso le quali di volta in volta gli dèi si manifestano, risultino necessariamente trasformazioni secondarie di questa identità, che è la "vera". Il fatto è che la nostra rappresentazione dell'identità è di carattere non solo umano, ma soprattutto gerarchico.L'idea è che i singoli elementi dei quali si compone l'esserci di qualcuno, facciano tutti capo a un nucleo duro, a un nocciolo, che di questo qualcuno costituisce la "vera" e irriducibile identità. Non dimentichiamo però che stiamo parlando di divinità greche, non di persone occidentali moderne. E al contrario di quello che siamo abituati a ritenere, nel caso degli dèi l'identità non deve essere pensata in modo gerarchico, ma piuttosto seriale' 3• L'eroe Mente, la rondine o uno sfolgorio dello sguardo non fanno capo, verticalmente, all'immagine antropomorfa di Atena con egida, lancia e scudo, della quale costituirebbero altrettante "trasformazioni" secondarie; al contrario l'eroe Mente, la rondine, uno sfolgorio d'occhi e la figura antropomorfa di Atena debbono essere collocate ali' interno di una stessa serie, che compone queste figure all'interno di uno stesso paradigma divino. In gioco ci sono potenze, non persone. Dietro la presenza degli dèi aleggia sì l'immagine di splendidi esseri in forma umana, una sorta di presupposto ideale che li rende raffigurabili sulla superficie di un vaso o fa sì che un poeta possa descriverne le meravigliose apparenze; ma si è contemporaneamente ben consapevoli del fatto che il dio è altrettanto "se stesso" anche quando si manifesta in forme mortali, animali, atmosferiche, o semplicemente attraverso segni e barlumi, ovvero non si manifesta affatto. Ed è proprio in questa molteplicità identitaria, nel poter essere serialmente molti, non uno solo - se stessi e altri da sé - che risiede il privilegio divino.

13. Del carattere necessariamente "distribuito" dell'identità divina mi occupo più diffusamente in Bettini (2.015).

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