La città greca. Gli spazi condivisi. Atti del Convegno del Centro internazionale di studi sulla grecità antica (Urbino, 26-27 settembre 2012) 9788862276504, 9788862277136, 9788862276511

Nei giorni 26-27 settembre 2012 ha avuto luogo ad Urbino il primo incontro organizzato dal 'Centro Internazionale d

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La città greca. Gli spazi condivisi. Atti del Convegno del Centro internazionale di studi sulla grecità antica (Urbino, 26-27 settembre 2012)
 9788862276504, 9788862277136, 9788862276511

Table of contents :
SOMMARIO
PREMESSA
INTRODUZIONE
IL RUOLO DEI CULTI NELLA FORMAZIONE DELLO SPAZIO PUBBLICO. IL CASO DELL’AGORA DI CORINTO
RICOSTRUIRE LA CITTÀ ATTRAVERSO GLI OCCHI DEL POETA : PINDARO E LA BEOZIA
I SANTUARI DI DIONISO AD ATENE
I LUOGHI DELL’ORATORIA POLITICA NELL’ATENE DI ARISTOFANE : L’AGORA E LA PNICE
SPAZIO POLITICO E SPAZIO DELLA SOVVERSIONE
LA CITTÀ PENSANTE. LA RAPPRESENTAZIONE DELLA MENTE COLLETTIVA IN ERODOTO
GLI SPAZI DELLA
POETICA NELLA
IL CASO DELL’EPINICIO
A SPASSO PER ATENE TRA LE ROVINE DI ARISTOFANE
INDICE DEI NOMI
INDICE DEI PASSI DISCUSSI

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B I B L I OT EC A D I «QUAD ERNI U RB I NAT I DI CU LT U R A CL A S S I CA »

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LA C IT T à GR E CA G LI S P AZ I C O N DIV ISI c o n v e g no d e l c e ntro in tern a zion a le

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d i stud i sul l a g recità a n tica urb ino, 26-27 se ttem bre 2 0 1 2 a cura d i P AOLA ANGELI BE R N A R D I N I

PISA · ROMA F A B R I Z I O S E R R A E D IT ORE MMXI V

Questo volume è stato stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze della comunicazione e Discipline umanistiche dell'Università di Urbino Carlo Bo. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

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* Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2014 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net issn 1828-8677 isbn 978-88-6227-650-4 (brossura) isbn 978-88-6227-713-6 (rilegato) isbn 978-88-6227-651-1 (elettronico)

SOMM A R IO Premessa

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Paola Angeli Bernardini, Introduzione

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gli spazi religiosi Rachele Dubbini, Il ruolo dei culti nella formazione dello spazio pubblico. Il caso dell’agora di Corinto Oretta Olivieri, Ricostruire la città attraverso gli occhi del poeta : Pindaro e la Beozia Giandomenico De Tommaso, I santuari di Dioniso ad Atene

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gli spazi politici Carmine Catenacci, Protostoria del ritratto ad Atene tra vi e v sec. a.C. : tiranni e poeti Maria Grazia Fileni, I luoghi dell’oratoria politica nell’Atene di Aristofane : l’agora e la Pnice Cinzia Bearzot, Spazio politico e spazio della sovversione Marco Santucci, Forme dello spazio e forme della politica nella città aristotelica  

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gli spazi cittadini Marco Dorati, La città pensante. La rappresentazione della mente collettiva in Erodoto Liana Lomiento, Gli spazi della performance poetica nella polis. Il caso dell’epi nicio Luigi Bravi, A spasso per Atene tra le rovine di Aristofane Indice dei nomi Indice dei passi discussi

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PR EMESSA

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N

ei giorni 26-27 settembre 2012 ha avuto luogo ad Urbino il primo incontro organizzato dal cisga (Centro Internazionale di Studi sulla Grecità Antica) che raccoglie l’eredità del Centro fondato e diretto da Bruno Gentili a partire dal 1965 e proseguito ininterrottamente per quasi cinque decenni nella cornice dell’Università urbinate. Il tema affrontato – la città greca e i suoi spazi religiosi, sociali e pubblici – si inserisce perfettamente nel filone di ricerche inaugurato dall’insigne studioso che nel suo lungo insegnamento e nella sua fervida attività di saggista e di editore di testi antichi ha sempre sostenuto che ogni forma di arte e di poesia nasceva nella Grecia antica dal rapporto vivo e costante con la realtà. E quale realtà era per i Greci più forte e più totalizzante della città-stato con i suoi miti, le sue istituzioni, la sua politica ? Su questi temi si sono confrontati gli studiosi invitati a parlare nell’ambito dell’incontro. Attraverso un percorso storico, politico e culturale, che presuppone uno stretto legame con l’indagine archeologica, essi hanno ricostruito e studiato i luoghi principali nei quali la città si strutturava e conduceva la sua esistenza. La pubblicazione degli Atti che, contrariamente alla prassi ormai diffusa, segue di poco lo svolgimento del Convegno, ottempera al proposito di organizzare gli incontri su vari aspetti della civiltà greca antica con periodicità biennale e di stampare gli Atti relativi nell’anno successivo. La regolarità dell’iniziativa è considerata indispensabile premessa per la continuità della ricerca e per la validità dei suoi risultati.  

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Particolare da : Città ideale. Pittore dell’Italia centrale (1480/1490?). Baltimora (USA), Walters Art Gallery.  

Nella tempera su tavola è raffigurata una piazza a più livelli con sullo sfondo imponenti costruzioni e in primo piano quattro colonne sulle quali si ergono le quattro Virtù Cardinali. Nella rappresentazione originaria non era prevista tra i monumenti della città la presenza di figure umane. Queste furono aggiunte in un secondo tempo e, secondo l’autorevole parere di F. Zeri (Italian Paintings in the Walters Art Gallery i, Baltimore 1976, p. 146), risalirebbero ad un pittore anonimo senese chiamato Maestro della leggenda di Griselda (protagonista di una novella del Boccaccio), molto vicino a Luca Signorelli. Le figurine di dignitari, di donne alla fontana e, forse, in primo piano anche di un oste, popolano gli spazi cittadini diversamente da quelli vuoti e deserti della coeva Città ideale di Urbino. Concezione rinascimentale dell’uomo o consapevolezza antropologica che la città è fatta di luoghi condivisi?

INTRODUZIONE Paola A ngeli Ber nar dini

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I

l vivace dibattito sorto tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo sulla città greca antica ha visto impegnati in prima linea gli archeologi, ma anche gli storici, i sociologi, gli storici della religione e gli interpreti della poesia. Basti pensare che la bibliografia in merito è vastissima e che da più parti sono state prospettate le difficoltà di procedere a una rassegna critica e a un bilancio complessivo di tutti questi studi e ricerche. Non v’è argomento collegato con il modello greco di aggregazione urbana che non sia stato affrontato, sviscerato, illustrato e non v’è aspetto della ‘città-stato’ che non sia stato preso in considerazione e valutato. Sono sorti centri di ricerca appositi, come il ‘Copenhagen Polis Centre (CPC)’, fondato e diretto da Mogens Herman Hansen, e sono stati dedicati interi volumi al tema ‘Origini e sviluppo della città’ in prestigiose collane come Storia e civiltà dei Greci diretta da Ranuccio Bianchi Bandinelli. I contributi su singole città non si contano. Sui centri abitativi della Magna Grecia si sono organizzati a Taranto, a partire dal 1961, numerosi Convegni i cui Atti restano un punto fermo nella storia di tutta questa zona. A Parigi presso l’ ‘École des hautes études en sciences sociales’ F. de Polignac nel 1979 discuteva la sua tesi di dottorato sulla naissance de la cité greque, cogliendo l’eredità di ricerche già avviate e dando inizio a nuove teorie sull’origine della medesima. Si potrebbe continuare a lungo su questo resoconto degli studi e dei lavori dedicati ai vari aspetti di un’istituzione che è stata il fondamento della storia degli antichi Greci e che è stata esportata nel mondo coloniale sia a Oriente sia a Occidente. 1 Ritengo, tuttavia, che sia più costruttivo – anche se può sembrare un paradosso – procedere in negativo ed enunciare sinteticamente gli argomenti, pur stringenti e fondamentali, che non verranno affrontati in questa occasione di incontro. Si avrà così, ad excludendum, un inventario degli argomenti centrali e più spesso dibattuti dalla comunità degli studiosi che, pur non rientrando nell’orizzonte della presente circostanza, sono stati e sono al centro dell’interesse critico degli ultimi cinquanta anni. Emergerà, per converso, la particolarità del disegno che ci siamo proposti di seguire e l’originalità dell’impostazione per la quale abbiamo optato e nella quale abbiamo creduto. Non verrà, dunque, affrontato il tema generale dell’origine e dei primordi della città. Un argomento che è un punto fermo dal quale muovere per ricostruire l’evoluzione e le trasformazioni della medesima sul piano storico, religioso, politico, urbanistico (R. Martin ; F. de Polignac ; E. Greco ; A. Schachter ; Ch. Morgan ; C. Marconi). Né verrà dibattuto il problema della fondazione delle città coloniali ; un dibattito che può persino portare a stravolgere l’idea tradizionale della riproduzione nella colonia del modello urbano della madrepatria ( J. Bérard ; C. Mossé ; D. Musti) e a proporre il contrario, vale a dire l’influenza del modello coloniale sulla struttura urbanistica  

















1  Utili riferimenti bibliografici si troveranno in C. Marconi, ‘L’agora e il santuario. I centri della vita pubblica nella polis di età arcaica e classica’, in M. Vetta (ed.), La civiltà dei Greci. Forme, luoghi, contesti, Roma 2001, pp. 225-267. Per le città della Magna Grecia si rinvia a E. Greco, ‘La città’, in Un secolo di ricerche in Magna Grecia. Atti del xxviii Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1989, pp. 305-328.

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introduzione

della madrepatria (C. Marconi). Sarà tralasciato anche un altro punto importante che negli ultimi decenni ha richiamato molta attenzione sia da parte degli storici che dei sociologi ed economisti ed anche degli archeologi/topografi, quello, cioè, relativo al contesto territoriale in cui sorgeva la città e al rapporto ‘spazio rurale/spazio urbano’. La città considerata in una visione d’insieme con il territorio e con le attività agricole/pastorali ed economiche, ma anche la città sede di emporia, attività commerciali e finanziarie (E. Lepore). A questo proposito il riferimento ad Atene e alla riforma clistenica, basata su un più spiccato senso regionale e foriera dell’istituzione, su base territoriale, della boulé, è d’obbligo. Come scrive D. Musti a proposito della boulé, si tratta di “un istituto di notevole portata ideologica che mette in gioco, a livello di esercizio di potere politico, la stessa campagna, sede anche di piccoli e medi proprietari”. 1 Vi è, infine, un’altra problematica qui non affrontata, ma strettamente connessa con la natura della polis greca la quale, pur nella propria autonomia, faceva parte di un modello federativo che, come ha dimostrato recentemente M. H. Hansen, era salvaguardia degli interessi delle singole città, ma al contempo difendeva la loro interrelazione e la loro cooperazione. 2 Da ultimo diamo per scontata la complessa attività di ricerca archeologica e in particolare quella urbanistica che prende in considerazione l’iter che portò allo sviluppo dei centri abitati secondo vari schemi : pianta irregolare, pianta regolare, innovazioni ippodamee, urbanistica tipica delle colonie. Sono tutte fasi per le quali è stata individuata anche una progressione cronologica (R. Martin ; E. Greco), non sempre facilmente dimostrabile. Parte rilevante della ricostruzione topografica, qui non trattata sistematicamente, sono i luoghi destinati alle sepolture e alle tombe. 3 Il quadro appena delineato da un lato fornisce l’idea della varietà degli interessi che si sono sviluppati intorno a questo punto nodale della struttura del mondo greco antico, dall’altro consente di delimitare l’osservatorio privilegiato e particolare dal quale ci siamo imposti di considerare le componenti della polis antica. La nostra attenzione si è focalizzata sugli spazi condivisi della medesima, cioè su quei luoghi – agora, santuari, teatri, simposi, siti dedicati all’ascolto – che vivevano in quanto popolati da persone, perché una città è fatta di spazi collettivi oltreché privati : spazi religiosi ; pubblici ; civici ; di intrattenimento e del sapere. Civici nel senso di ‘espace civique’ con riferimento, come precisano P. Lévêque e P. Vidal-Naquet, alla riforma clistenica. Spazi del sapere in quanto deputati all’apprendimento di qualsiasi tipo di nozione (Ch. Jacob). 4Dal punto di vista dei proprietari dei vari stanziamenti abitativi – quindi sul versante più privato – si può parlare anche di ‘spazio catastale’, come ha fatto G. Nenci. Ci si può persino interrogare sulla possibilità di parlare di ‘mente collettiva’ della città e di atti mentali in rapporto ai suoi abitanti in grado di ‘volere ‘ e ‘pensare’ e, quindi, in grado di prendere una decisione. Così M. Dorati nel suo contributo in questo volume. Tutto sta ad intendersi su come interpretare le definizioni sopra considerate e su come inquadrare nel loro ambito i luoghi cittadini che conosciamo o che siamo in

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1  Cfr. D. Musti, Demokratìa. Origini di un’idea, Roma-Bari 1997, p. 150. 2  M. H. Hansen, Polis. Introduzione alla città-stato dell’antica Grecia, Milano 2012 (trad. it. di Polis. An Introduction to the Ancient Greek City-State, Oxford 2006). 3  Solo per Tebe cfr. O. Olivieri, in questo volume, pp. 35-46. 4  Ch. Jacob, Lieux de savoirs. Espaces et communautés, Paris 2007.

introduzione

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grado di ricostruire attraverso le fonti archeologiche e quelle letterarie, perché in queste definizioni si riflettono, come osserva C. Marconi, “il nostro approccio alla città greca e le nostre attese”. 1 Possiamo adattare espressioni come ‘spazio civico’ e ‘spazio pubblico’ all’idea che via via ci siamo fatti della vita sociopolitica dei Greci o usare termini come ‘spazio religioso’ in senso comunitario, riferendoci a luoghi pubblici deputati all’attività religiosa, ma anche in senso privato, pensando ad esempio ai focolari domestici, luogo di religiosità familiare e di tutela delle tradizioni del genos. Se poi è vero che la città rappresenta in tutta quanta la Grecia uno spazio circoscritto che la società e il singolo individuo debbono difendere (ecco anche la presenza di ‘spazi strategici’ come mura, torri di guardia, zone di cinta e di difesa !) e se è vero che i diversi luoghi hanno in esso ubicazioni e destinazioni abbastanza specifiche –i santuari che rispetto all’abitato possono essere classificati in urbani, suburbani, extraurbani ; l’agora ; l’acropoli ; il teatro ; il ginnasio ; le tombe ecc. – è anche vero che le città e poi le colonie non si svilupparono in modo analogo e costante, ma ognuna progredì secondo una propria storia. È quindi difficile parlare genericamente di ‘processi’ e di ‘norme’. È questo il tenore della critica che A. Schachter ha mosso al sistema suggerito da F. de Polignac relativamente alla derivazione della città greca dai santuari extraurbani e liminali che hanno avuto un ruolo determinante nell’aggregazione di fedeli. Esemplare il caso della città di Argo. Nel suo contributo nel vol. xxxvii degli Entretiens Hardt sul santuario greco 2 lo studioso, pur ammettendo l’esistenza di luoghi di culto del tutto esterni all’abitato, precedenti all’emergere della città, e pur riconoscendo la loro specificità autonoma rispetto alla polis di riferimento, conclude sull’esempio di ben sette poleis analizzate nella loro singolarità (Argo, Corinto, Eretria, Taso, Tebe, Atene e Sparta) che in ogni formazione di città, anche se si ripetono determinati steps, non è necessariamente detto che il passaggio si realizzi nel medesimo ordine e secondo le medesime modalità. Va anche precisato che il culto cittadino rispecchia e ricalca determinati momenti del mito e che quest’ultimo, come ormai è generalmente ammesso, anche quando è panellenico, è ancorato alle tradizioni epicoriche e alle versioni locali, che conoscono varianti significative legate alle motivazioni di natura più diversa. Le pratiche cultuali non sono le stesse nei vari santuari extraurbani, suburbani e urbani, pur dedicati alle medesime divinità, ma riflettono aspetti peculiari di saghe anche panelleniche. Da qui deriva la necessità di ricostruire les fonctions du mythe nell’organizzazione spaziale della città (agora, templi, recinti sacri, monumenti, tombe), come è stato sottolineato in alcuni recenti lavori. Vorrei rileggere, al proposito, quanto da me scritto all’ inizio del contributo sull’Argolide e Bacchilide nel volume miscellaneo dedicato alla città di Argo : “Nel mondo antico le città sono tra i maggiori centri propulsori di miti perché nel mito ‘cittadino’ la comunità cerca le genealogie dei suoi primi re, la fondazione dei suoi riti, la delimitazione degli spazi prediletti in cui essa si riconosce. In questi luoghi la gente della città si riunisce a pregare, partecipa alle feste, fa politica ; in poche  

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1  C. Marconi, art. cit. p. 228. 2  A. Schachter, ‘Policy, Cult, and the Placing of Greek Sanctuaries’, in A. Schachter - J. Bingen (edd.), Le sanctuaire grec. Entr. Hardt xxxvii, Vandoeuvres-Genève 1992, pp. 1-58.

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introduzione

parole in essi consuma la vita pubblica e sociale e in essi trova quelle che un tempo si chiamavano vestigia, cioè i segni, le tracce attraverso le quali ricostruisce il passato”. 1 È naturale a questo punto interrogarci sulla documentazione di cui disponiamo. Il riferimento ai miti, alle tradizioni locali, alle saghe di fondazione richiama la questione delle fonti archeologiche e soprattutto iconografiche, ma anche delle fonti poetiche come supporto alle nostre conoscenze. Poesia e storia : un dibattito aperto, più pressante e drammatico per noi moderni che per gli antichi che, come ho già avuto modo di scrivere, consideravano il racconto in versi e il racconto in prosa imparentati e non alternativi. E un dibattito che investe soprattutto il teatro e in particolare la commedia di Aristofane, come hanno mostrato due nuove pubblicazioni che riguardano rispettivamente la storia sulla scena teatrale e la commedia e la storia. 2 Per limitare il discorso alla poesia arcaica, più fortemente connessa con il tema delle origini e delle istituzioni della città, si deve riconoscere che il poeta –sia egli cantore epico, lirico o elegiaco – esprime il legame tra l’origine della città, le tradizioni mitiche e gli aspetti cultuali perché la sua opera è calata in una realtà condivisa con i cittadini e appartenente alla comunità. A questo proposito, tuttavia, credo che sia da condividere l’appello alla prudenza con il quale si apre il volume di R. Dubbini sulla ricostruzione degli spazi religiosi nella città di Corinto e in particolare sui culti dell’agora. 3 Il modello di città greca alto-arcaica non può essere ricostruito su elementi caratterizzanti i siti nelle fasi tardo-arcaiche o classiche (a queste risale più spesso la testimonianza poetica di cui disponiamo, come quella di Pindaro e di Bacchilide, o la rappresentazione che delle città fornisce il teatro) e si deve evitare di proiettare retroattivamente sistemi identificati in periodi più tardi. Vi è poi un’ altra ragione per la quale alla voce dei poeti, limitatamente alla città, non va attribuito un valore assoluto, soprattutto dal punto di vista archeologico e topografico. Ai poeti interessano le località significative e rappresentative della polis. Quelle che si ricollegano a fatti prodigiosi, ad eventi miracolosi, all’intervento di qualche dio o eroe, e che conservano anche visivamente la memoria di tali eventi, garantendo in un certo senso la veridicità di quanto il mito racconta. Una fonte, una grotta, un altare, un sepolcro possono costituire i punti strategici intorno ai quali si sviluppa una città. Sono luoghi significativi e simbolici. La mappa della città arcaica viene infatti contrassegnata da luoghi che evocano episodi straordinari, diventando così documenti e al tempo stesso incentivo per l’immaginazione collettiva e stimolo per la ricerca delle origini. Questi luoghi vengono identificati poi da una destinazione precisa (religiosa, politica, sociale o privata) caricandosi anche di implicazioni ideologiche, come chiariscono C. Bearzot e M. G. Fileni in questo volume a proposito della Pnice. I poeti attestano la storia e la vitalità  



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1  Cfr. P. Angeli Bernardini, ‘La città e i suoi miti nella lirica corale : l’Argolide e Bacchilide’, in P. Angeli Bernardini (ed.), La città di Argo. Mito, storia, tradizioni poetiche. Atti del Convegno internazionale (Urbino, 13-15 giugno 2002), Roma 2004, p.127. 2  A. Beltrametti (ed.), La storia sulla scena. Quello che gli storici antichi non hanno raccontato, Roma 2011 ; F. Perusino - M. Colantonio (edd.), La commedia greca e la storia. Atti del Seminario di studio (Urbino, 18-20 maggio 2010), Pisa 2012. 3  R. Dubbini, Dei nello spazio degli uomini. I culti dell’agora e la costruzione di Corinto arcaica, Roma 2011.  



introduzione

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di questi siti attraverso le varie epoche. Su ognuno di essi, che si aprono sullo sfondo di città diverse – ma prima fra tutte Atene –, ci interrogheremo e ci confronteremo senza la pretesa di giungere a soluzioni definitive, ma nella speranza che le nostre considerazioni portino a nuove riflessioni e a nuove prospettive di ricerca.

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GLI SPA ZI R ELIGIOSI

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IL RUOLO DEI CULTI NELLA FOR M A ZIONE DELLO SPA ZIO PUBBLICO. IL CASO DELL’AGOR A DI COR INTO R achele Dubbini

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Spazio politico e identità cittadina nella polis arcaica

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ell ’ ambito del recente interesse per i fenomeni di formazione che portarono alla creazione della città greca, l’attenzione degli studi si è più volte concentrata sul valore degli spazi condivisi dalle prime comunità, per i loro pregnanti significati concettuali e spaziali : il grado di integrazione e di specializzazione funzionale degli spazi pubblici in relazione sia al centro urbano in fase di formazione che al processo di organizzazione del territorio in cui lo stesso si sviluppa è stato uno dei criteri maggiormente utilizzati per definire lo stadio e le forme di urbanizzazione della polis di età arcaica. L’analisi di tali elementi urbanistici è stata quindi affrontata da un punto di vista non tanto architettonico (l’organizzazione architettonica degli spazi urbani si definisce solo nel corso del tempo), ma soprattutto sociale e politico, essendo in tali luoghi che si costituisce l’identità di una comunità che si riconosce in quanto tale : il processo di acquisizione identitaria degli abitanti dei nuovi centri urbani si consolida proprio in tutte le manifestazioni di carattere collettivo, sacro e politico. 1 L’istituzione di spazi di dominio pubblico, presupponendo l’esistenza di un centro decisionale in grado di scegliere per la collettività e di mobilitare le risorse necessarie per il loro allestimento, testimonierebbe infatti una compiuta definizione e organizzazione del potere 2. Queste specifiche zone dell’abitato inoltre, allestite grazie allo sforzo collettivo, rifletterebbero e di rimando influenzerebbero la rappresentazione che la comunità della polis si è data dei propri spazi, affidando ai monumenta l’ostentazione di sé e dei suoi valori : è qui che la stessa si esprime al massimo in senso religioso, civico ed economico. In questo senso, l’istituzionalizzazione degli spazi pubblici è apparsa come segno tangibile dell’avvenuta organizzazione e integrazione sociale e quindi dell’acquisizione di una coscienza identitaria della popolazione rispetto alla città, mentre lo studio del fenomeno è sembrato determinante per la comprensione delle concezioni spaziali e quindi dei modi di organizzazione sociale in uso nel mondo greco del periodo alto-arcaico. 3 In particolare, tra il ix e l’viii sec. a.C. nei primi centri abitati sembra registrarsi una volontà progressiva di riunirsi attraverso pratiche specifiche e simbolismi convergenti che portano a strutturare una prima sovranità del gruppo su sé stesso, manife 











1  Molti sono stati i lavori che si sono concentrati sull’analisi dei santuari, soprattutto di quelli extraurbani per il ruolo di demarcazione del territorio (vd. ad es. De Polignac 1996) o degli spazi pubblici riservati ai defunti, le necropoli, su cui è necessario citare almeno l’opera di Morris 1987. Sul concetto di spazio pubblico nella Grecia arcaica si rimanda a Hölscher 1998, vd. inoltre Marconi 2001 ; Hölkeskamp 2004. 2  De Polignac 1996, p. 34. 3  Uwe 1993 ; De Polignac 1996, pp. 51-107 ; Marconi 2001 ; Hölkeskamp 2004.  







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rachele dubbini

sta soprattutto nel superamento dei legami di tipo familiare e quindi con l’autorità della collettività di deliberare su ciò che è giusto e ingiusto. 1 Nel momento in cui la comunità si costituisce in assemblea giudicante, si forma anche lo spazio in cui tutti gli aventi diritto si riuniscono per gestire gli affari collettivi. Partecipare, avere parte, e parte uguale, a tutto ciò che è di competenza comune diventa così il fulcro di una prima cittadinanza centrata sullo spazio riservato alle assemblee, ai dibattiti pubblici, alla battaglia dei discorsi sugli affari collettivi, in cui emerge una prima coscienza di sé del gruppo. Per ciò è in questi spazi politici che meglio si può osservare come si formarono gli elementi costitutivi di una cittadinanza focalizzata sugli affari comuni. 2 Nelle agorai, intese come “riunioni in assemblea”, inizia così quel processo di acquisizione identitaria degli abitanti di un territorio che porta le agorai, nel senso più compiuto di “luoghi in cui si riunisce l’assemblea”, a divenire il fulcro attorno al quale vanno a strutturarsi i nuovi centri urbani. 3 In questi spazi tendono inoltre a essere riuniti anche i principali culti della collettività, legati alla tradizione mitistorica del sito e quindi alla più antica memoria culturale dell’abitato che li ospita. 4 Presso i santuari presenti nello spazio politico la società della polis inizia a prendere corpo, raccogliendosi attorno ai culti che più la rappresentano e forgiando in questo modo la consapevolezza della propria identità. In tal senso, lo studio delle manifestazioni cultuali determinanti per la formazione dell’agora non può essere affrontato proponendo una generalizzazione del tema sul mondo greco avulsa dalle problematiche delle specificità locali. Per questo motivo si è scelto di concentrarsi sul caso di Corinto con la sua precisa identità, tenendo conto della storia religiosa propria del contesto territoriale in cui la stessa si sviluppa, con il fine ultimo di cogliere gli aspetti caratterizzanti delle tradizioni locali e delle funzioni del sacro in relazione al fenomeno della formazione della polis, dei suoi spazi pubblici e in particolare del suo spazio politico. La scelta di Corinto come caso di studio privilegiato rispetto ad altre poleis è dovuta non solo a motivi pratici – il sito dell’agora è indagato dal 1896 con scavi sistematici cui corrispondono ampie pubblicazioni delle strutture murarie e dei materiali rinvenuti 5 – ma soprattutto dal fatto che Corinto registra il suo massimo sviluppo proprio in età arcaica, anticipando lo sviluppo di altre poleis (Atene compresa) non solo nel progresso delle attività produttive, commerciali e coloniali, ma anche nell’avvalersi di moderne forme di governo : secondo la tradizione, attorno alla metà dell’viii sec. il dominio monocratico dei basileis sarebbe stato sostituito dalla direzione politica di un’élite aristocratica, a sua volta soppiantata dopo circa un secolo dal governo dei Cipselidi. 6 La precocità dello sviluppo del sito nei suoi vari aspetti divenne inoltre oggetto di interesse già degli autori antichi, con il risultato che ancora oggi è disponibile una certa abbondanza di fonti letterarie sulle  



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1  In proposito cfr. le assemblee descritte nei poemi omerici, su cui si rimanda a Longo 2010. 2  La volontà di riunirsi presuppone d’altronde che ciascun individuo sia disposto a riconoscere agli altri membri del gruppo una similitudine o una forma di uguaglianza, ovvero che esistano criteri condivisi che permettano di distinguere i caratteri di appartenenza alla stessa comunità : riconoscersi reciprocamente come parte del medesimo contesto contribuisce alla nascita dell’idea di comunità, se non proprio di città. In proposito vd. Detienne 2007, pp. 113-137. 3  Marconi 2001. Sull’evoluzione dello spazio politico nella Grecia arcaica vd. da ultimo Dubbini 2011, pp. 20-26 con bibl. prec. 4  Cfr. Hölscher 2011. 5  Vd. Williams - Bookidis 2003 con bibl. prec. 6  Sulla storia di Corinto in epoca arcaica vd. da ultimo Dubbini 2011, pp. 51-69, con bibl prec.  

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il ruolo dei culti nella formazione dello spazio pubblico

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vicende e sui racconti della tradizione corinzia di età arcaica. Esse, pur essendo avare di notizie relative alle più antiche istituzioni politiche, legislative e giudiziarie della polis, permettono però di ricostruire un quadro piuttosto preciso sulle più antiche credenze e usanze rituali della stessa. Pur con la coscienza che le versioni dei racconti tradizionali a noi note sono frutto di una stratificazione verificatasi in un ampio arco cronologico e consapevoli dei diversi livelli della loro leggibilità, l’estremo valore culturale di tali narrazioni sta infatti nel ruolo fondamentale che esse svolgono proprio nel processo di legittimazione del possesso del territorio e di formazione di quella memoria collettiva che porta alla costituzione dell’identità cittadina. L’insieme di questi elementi è particolarmente interessante proprio in relazione al fenomeno di aggregazione delle più antiche forme abitative corinzie e non solo per la ricostruzione del processo che portò all’istituzione dello spazio politico, ma soprattutto per comprendere quali tra le manifestazioni sacre di carattere pubblico furono maggiormente caratterizzanti le tradizioni locali e determinanti per la costruzione di una memoria culturale collettiva del neonato corpo civico, costitutiva dell’identità locale e quindi fondamentale per la comprensione della sua avvenuta integrazione. La formazione dell ’ agora di Corinto, tra archeologia e tradizioni mitistoriche La storia dell’abitato di Corinto, nel senso di un’unica comunità urbanizzata, sembra coincidere con una fase storica tradizionalmente caratterizzata dall’oligarchia dei Bacchiadi, genos aristocratico che avrebbe preso il potere attorno alla metà dell’viii sec. a.C. 1 Fino a quel momento l’insediamento corinzio era stato pressoché assente nel panorama culturale panellenico e quasi per nulla rappresentato nell’epica omerica, che lo ricorda con il suo nome soltanto nel “Catalogo delle Navi”, già opulento, ma posto sotto la guida di Agamennone, secondo una tradizione che voleva la città allora soggetta ai regnanti dell’Argolide. 2 Di fronte alla mancanza di una gloriosa tradizione epicorica che evidenziasse l’autonomia e il prestigio della stirpe corinzia già in epoca mitica, Eumelo, poeta del genos bacchiade, sarebbe stato quindi incaricato dalla stirpe reggente di comporre un’epopea dedicata alla storia della città dalle sue origini, in cui le più antiche tradizioni locali vennero rielaborate riconducendo alla terra corinzia temi e figure appartenenti a diverse realtà regionali. 3 A tale risveglio culturale testimoniato dalle fonti letterarie sembra corrispondere sul terreno una nuova organizzazione degli spazi abitati. In età geometrica la situazione insediativa era ancora costituita da nuclei abitativi dispersi su una superficie piuttosto estesa rispetto alla densità, cui corrispondevano gruppi di sepolture, riunite in nuclei familiari e organizzate lungo i principali assi di  





1  Così sulla base della cronologia alta, ormai maggiormente accreditata. In proposito : Ducat 1961, pp. 418-425 ; Cataudella 1964, pp. 204-225 ; Servasi 1969, pp. 28-81 ; Sealey 1976, pp. 53-55 e n. 5. Il regime bacchiade viene esplicitamente definito di stampo oligarchico da Hdt. 5, 92 b. 2 Hom. Il. 2, 570 ; 6, 152-159 ; Paus. 2, 4, 2. La definizione del regno di Agamennone e quindi del ruolo di Argo e Micene in età micenea era tema di discussione tra gli studiosi antichi. Sulla problematica vd. MustiTorelli 1986, p. 228. Sull’anacronismo dell’epiteto ajfneiovn per la città vd. Will 1955, pp. 36-38 e 80. A Corinto si fa ancora riferimento in un altro passaggio del poema (Hom. Il. 13, 663-672 e Schol. Il. 13, 663a-b), relativo al racconto della morte del corinzio Eukenore figlio del vate Polydias, combattente al fianco di Agamennone. In generale cfr. Dubbini 2011, pp. 37-38. 3  Su Eumelo vd. Debiasi 2004. Cfr. inoltre i contributi relativi in Bernardini 2013.  











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comunicazione viaria. Il sito sembra quindi agglomerarsi in epoca medio-geometrica, costituendosi in una forma apparentemente proto-urbana attorno a un complesso abitativo centrale (la cd. valle a sud della collina del tempio), che diventerà con il tempo il principale spazio pubblico della comunità. Questo fu scelto probabilmente tra gli altri in quanto il luogo di maggior visibilità e con le migliori condizioni di abitabilità rispetto a quelli esistenti in prossimità della pianura coltivabile, come testimonierebbe il riempimento della scarpata naturale della Peirene, predisposto per facilitare il passaggio tra le alture meridionali e la fertile pianura a nord, e la costruzione di un canale a cielo aperto, realizzato per drenare il flusso delle acque provenienti dagli altipiani maggiori verso le zone pianeggianti settentrionali. Nonostante il gruppo familiare dovesse essere ancora il modello principale di riferimento della storia politica e insediativa del periodo, queste imprese costruttive potrebbero essere interpretate come le prime opere pubbliche attuate all’interno dell’insediamento, in corrispondenza di un uso più estensivo della zona pianeggiante a nord quale necropoli : ciò indicherebbe per l’area dell’abitato centrale l’inizio della prevalenza dello spazio dei vivi su quello dei morti. 1 Non è verosimile che già in questa fase esistessero spazi sacri tipologicamente definiti, ma non è escluso che elementi caratterizzanti il paesaggio, come l’Acrocorinto, tanto immanente da ritenere che la più antica denominazione della montagna (Korinthos ?) abbia condizionato il nome dell’insediamento, potessero già essere considerati luoghi sacri, in cui avrebbero trovato spazio le primordiali entità divine protettrici del posto : è possibile che sin da questo momento all’altura fosse associata la figura del dio Elio, in relazione a una divinità femminile forse considerata sua paredra. 2 Denominare un elemento saliente del paesaggio è d’altronde il primo passo per l’acquisizione dell’identità di un territorio : un luogo acquisisce il suo significato attraverso la ricezione di un nome proprio e quindi tramite l’associazione con le memorie mitistoriche dei suoi abitanti 3 (Tav. ia). Soltanto in coincidenza con il nuovo ordinamento bacchiade si registra tuttavia una svolta decisiva nell’assetto dell’insediamento : la comunità inizia a crescere in senso urbano e la struttura sociale a non essere più focalizzata sulle singole unità familiari ma su bisogni comuni, come indicherebbe l’utilizzo delle fonti in senso pubblico. 4 Al processo di maggiore articolazione sociale corrisponde l’inizio di una funzionale riorganizzazione degli spazi, la cui prima manifestazione è la crescente separazione dello spazio dei vivi da quello dei morti : dal 750 ca., in concomitanza con l’inaugurazione della zona del “cimitero nord” quale necropoli comune della città nascente, fino alla fine del secolo il numero delle sepolture di adulti nell’area centrale diminuisce sostanzialmente, secondo un processo di specializzazione delle aree abitative che risulta in netto anticipo rispetto ad altre realtà del mondo greco 5 (Tav. ib). Contemporaneamente si assiste a un rafforzamento dell’agglomerato principale, attorno al  





















1  Dubbini 2011, pp. 73-74 con bibl prec. 2  Dubbini 2011, pp. 39-40 con bibl prec. Sul culto di Elio sull’Acrocorinto vd. infra. 3  Il valore fondamentale dei toponimi risiede infatti nella loro capacità di trasformare lo spazio naturale in un luogo culturale, dal valore cioè storico e sociale (vd. Tilley 1994, pp. 17-26). 4  Vd. l’utilizzo della Fonte Sacra dalla fine dell’viii sec. e forse già anche della Fontana Ciclopica in Dubbini 2011, pp. 74-76 e 171 con bibl. prec. 5  Williams 1995, p. 36. Morris 1987, pp. 185-186 nota che, con l’abbandono delle necropoli presso l’insediamento intorno al 750 a.C., lo sviluppo del centro urbano di Corinto avrebbe avuto una datazione eccezionalmente alta, anticipando di almeno 30 anni quello di Atene e di 50 quello di Argo.

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quale si va accentrando l’insediamento, fenomeno indicativo della formazione in atto di un sistema unitario e quindi di una maggiore coscienza e organizzazione collettiva : in questo senso cresce l’importanza degli spazi comuni, ormai differenziati in aree sepolcrali, santuariali e politiche. 1 Nello sviluppo dello spazio sacro e di quello politico, oltre alle nuove esigenze del corpo sociale di condivisione comunitaria e di identità rispetto all’abitato, un ruolo centrale viene svolto dall’aristocrazia, nel trasferimento dello spazio privilegiato per l’esibizione e la competizione sociale dal settore funerario a quello del sacro. In tal senso si può credere che l’impegno dei Bacchiadi fosse preminente e non è casuale che in questo momento vengano allestiti alcuni tra i più monumentali santuari del mondo ellenico, cioè quello di Istmia e l’altro nel centro dell’abitato, sulla cd. “collina del tempio” 2 (Tav. ii). Particolarmente proficua per la ricostruzione delle manifestazioni cultuali che furono alla base della costruzione del territorio corinzio è la comparazione tra gli indizi archeologici attribuibili all’epoca bacchiade e le tematiche mitiche proprie della tradizione corinzia e promulgate dall’epica eumelica contemporanea. In tal senso la concomitanza tra il deciso aumento in epoca geometrica di ceramica potoria presso l’area del santuario di Afrodite 3 e la diffusione del mito sulla sua fondazione da parte dell’eroina locale Medea, nipote di Elio da parte paterna e quindi idealmente tramite privilegiato nell’inserimento del nuovo culto nell’area dominata dall’avo divino, 4 sembra parlare in favore di una rinnovata attenzione per l’Acrocorinto, dove il culto di Afrodite, forse originariamente paredra del dio del Sole nelle sue accezioni di divinità urania e tutelare del luogo, parrebbe ora istituzionalizzato. Funzionale alla costruzione dell’identità cittadina è in maniera speciale la figura di Sisifo : prima di essere un regnante corinzio egli è soprattutto un eroe culturale dal valore panellenico, alla stregua di Prometeo, 5 ricordato nell’epica e nella lirica arcaica per aver beffato la morte a vantaggio dell’umanità e per essere dunque “il più scaltro degli uomini”. 6 Nella tradizione locale Sisifo sembra essere considerato il fondatore del sito corinzio, il primo ad aver istituito i Giochi Istmici e probabilmente a essersi  



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1  Hölscher 1998. 2  Sul santuario di Istmia si rimanda a Morgan 1999. Su quello della “collina del tempio” vd. infra. Nello spazio dell’insediamento, tra la fine dell’viii e gli inizi del vii sec. si datano anche le prime tracce di frequentazione rituale presso il santuario di Demetra e Core alle pendici settentrionali dell’Acrocorinto, area sacra per cui i regnanti corinzi sembrano aver avuto sempre un interesse particolare, assecondando il culto le necessità primarie di fertilità e abbondanza di cui gli stessi si facevano garanti (Bookidis 2003, p. 248). 3  L’occupazione del sito è documentata da epoca tardo-elladica, con una continuità in epoca protogeometrica, ma è solo in età geometrica che l’attività cultuale diventa più evidente configurandosi in un’area specifica e sembra quindi potersi inserire la figura di Afrodite (Bookidis 2003, p. 248). 4  Plut. Mor. 57, 39 ; Schol. Pind. Ol. 13, 32b = Theopomp. Hist. FGrHist 115 F 285b. Il legame tra l’eroina e Afrodite è quindi confermato dall’arca di Cipselo (Paus. 5, 18, 3). Sul dominio di Elio sull’Acrocorinto : Will 1955, p. 247. Al dio è concesso ampio spazio proprio nell’opera poetica di Eumelo (Eum. Tit. frr. 4 e 11 W. ; 16 W.). Dopo aver relegato Poseidone all’Istmo, Elio avrebbe detenuto il potere sull’Acrocorinto (Paus. 2, 1, 6) dove il suo culto sarebbe stato associato a quello di Afrodite (Paus. 2, 5, 1). È quindi probabilmente all’Acrocorinto che deve essere attribuito l’appellativo di Helioupolis testimoniato per Corinto da Eust. ad Il. 2, 570 e St. Byz. s.v. Kovrinqo~ (Will 1955, pp. 233-234). Paus. 2, 4, 6 testimonia che in effetti secondo i Corinzi il potentato sull’Acrocorinto sarebbe stato ceduto da Elio ad Afrodite. 5  Secondo Diod. Sic. 6, 6, 3 Sisifo è un indovino che attraverso l’osservazione delle viscere delle vittime “rivela ogni cosa agli uomini”. Non è d’altronde un caso che Eschilo inserisca il mito di Sisifo nel ciclo prometeico (Aesch. TrGF iii p. 337 Radt). 6  Così Hom. Il. 6, 153, ma anche Alc. fr. 38A V. ; Thgn. 702-712 ; Hsd. Cat. fr. 10, 43a.  









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stanziato sull’Acrocorinto. 1 L’altura sacra a Elio sarebbe stata infatti resa abitabile grazie alla Peirene superiore, sorgente d’acqua potabile che l’eroe riuscì a ottenere dal dio-fiume Asopo, in cambio di informazioni sul rapimento della figlia Antiope da parte di Zeus. 2 Non è quindi un caso che accanto alla fonte venisse riconosciuto il luogo in cui si sarebbe trovato il palazzo del regnante corinzio, successivamente trasformato in un santuario dedicato al personaggio eroizzato, come sembra indicare Strabone, nel momento in cui di fronte ai resti del Sisypheion non sa dire se si tratti di un luogo di culto (abbandonato ?) o dell’antico palazzo reale. 3 Se è vero che non ci sono elementi certi che consentano una datazione alta dell’heroon, tuttavia proprio l’eccezionalità di questo personaggio, la cui superiorità nell’uso della metis era riconosciuta in tutto il mondo ellenico, sembra giustificarne l’utilizzo a fini celebrativi della città e della stirpe corinzia in un periodo storico critico per la formazione poliade e di costruzione culturale quale quello affrontato. 4 Non si può escludere che ruderi dell’Età del Bronzo siano stati rifunzionalizzati in senso sacrale, in una dimensione politica desiderosa quanto bisognosa di istituire una relazione tangibile con un passato glorioso non altrimenti testimoniato. 5 Simili attività cultuali su rovine si riscontrano d’altronde per l’epoca bacchiade anche presso il sito di Solygeia in Corinzia, ritenuto dalla tradizione locale il luogo in cui si sarebbero accampati i Dori invasori di Corinto prima di prendere la città. 6 Si tratta di un’area caratterizzata dalla presenza di tombe a camera di epoca micenea, presso le quali dagli inizi del vii sec. si registrano tracce di un’attività rituale legata verosimilmente a un culto eroico o degli antenati, mentre sulla cima della collina viene apprestata una costruzione a megaron, dalla discussa funzione santuariale. 7 A prescindere dall’interpretazione della struttura, le cui  







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1  Sulla fondazione dei giochi istmici : Pind. Ep. fr. 4 ; Schol. Pind. Hypoth. Isthm. p. 192 Dr. ; Schol. Hom. Od. 5, 334 ; Apollod. 3, 4. 3 ; Paus. 1, 44, 7-8. Si ricordi che all’Istmo doveva trovarsi anche la sepoltura di Sisifo : Paus. 2, 2, 2. In proposito cfr. Will 1955, pp. 170-172. Essendo la punizione divina attribuita a Sisifo nell’Ade diretta conseguenza del patto stipulato con Asopo, anche in essa è forse possibile vedere un rimando all’occupazione dell’Acrocorinto : nell’atto di scalare un’irta altura trasportando un masso si è creduto di poter riconoscere il ricordo delle fatiche sopportate dai Corinzi al momento della prima fortificazione del sito o, più probabilmente, dell’azione tracotante attribuita all’eroe per aver cambiato l’ordine naturale delle cose anche con l’occupazione dell’altura sacra e fino ad allora inaccessibile (Simonsuuri 2002, pp. 263-267 con bibl. prec.). 2  Sul mito di Sisifo la testimonianza più completa e antica si trova in Schol. Hom. Il. 6, 153 = Pherec. Ath. FGrHist 3 F 119 ; ripresa poi da Paus. 2, 5, 1 e Apollod. 6, 9, 3. Una tradizione completamente diversa sul motivo della punizione divina si trova in Hyg. Fab. 60. 3  Str. 8, 6, 21. L’esistenza di un culto dedicato a Sisifo, in cui l’eroe veniva venerato come un dio (Pind. Ol. 13, 53), sembra quindi confermata archeologicamente dal rinvenimento sull’Acrocorinto di un’iscrizione apparentemente votiva, in caratteri greci ma di tarda epoca romana, con menzione dell’eroe (Blegen et al. 1930, p. 26). 4  Sulla celebrazione della metis corinzia come qualità propria del luogo e caratterizzante il sito, ripresa da Pind. Ol. 13, che al v. 53 definisce Sisifo “il più avveduto in espedienti”. Vd. Bernardini 2013. 5  Una simile operazione culturale è notoriamente attestata a Tebe, sito intimamente legato alla Corinto bacchiade, dove sull’acropoli della città resti dei palazzi tardo-elladici continuarono a essere rispettati perché identificati con le rovine della dimora di Cadmo, luogo di vari culti connessi all’epopea dei mitici regnanti locali. In base alle attuali conoscenze archeologiche, per l’Acrocorinto non si può immaginare la presenza di rovine altrettanto impressionanti, se non forse relative all’impianto difensivo dell’altura, mentre tracce di abitato sono testimoniate almeno per l’epoca tardo-elladica (vd. Carpenter-Bon 1936, pp. 30-43). Sul legame culturale esistente tra il genos bacchiade e l’area tebana vd. da ultimo Dubbini 2011, p. 56 con bibl. prec. 6  Thuc. 4, 42, 2. Cfr. Dubbini 2011, pp. 48-51 con bibl. prec. 7  Salmon 1984, pp. 49-50 ; Morgan 1994, pp. 136-138 ; Mazarakis Ainian 1997, pp. 65-67 ; Morgan 1999, 475.  





















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fasi più antiche si datano alla fine dell’viii sec., il caso di Solygeia sembra confermare la predilezione bacchiade per i luoghi ritenuti di interesse mitistorico. In tal senso possono essere letti anche alcuni complessi archeologici del centro di Corinto, dove si va configurando lo spazio politico del nucleo urbano in fase di formazione. Qui, poco più a nord della scarpata naturale della Peirene, agli inizi dell’epoca protocorinzia viene innalzato un muro di terrazzamento nord/est-sud/ovest, apparentemente funzionale all’erezione di una vasca similmente orientata e racchiusa in una grotta artificiale, nota come “Fontana Ciclopica”. 1 Se una prima analisi porterebbe a datare la muratura della grotta, in opera poligonale di blocchi non lavorati, in epoca micenea, un’analisi più approfondita evidenzia piuttosto diverse affinità costruttive con strutture corinzie di epoca geometrica o protocorinzia, momento in cui si sarebbe costruita la grotta imitando coscientemente la tecnica edilizia micenea. 2 Una tale interpretazione porta a una serie di considerazioni : in epoca bacchiade, nell’area che ormai si andava delineando come lo spazio politico della città, venne eretto un monumento evocativo di costruzioni che dovevano rimandare a un’epoca mitica, momento cui si attribuiva lo svolgimento delle imprese eroiche riconosciute come parte del patrimonio culturale collettivo e sentite per questo al tempo come particolarmente necessarie. Il caso di Corinto non sarebbe d’altronde un unicum nel mondo greco, se si tiene presente che anche la terrazza più antica dell’Heraion di Argo fu eretta in epoca tardogeometrica imitando la tecnica costruttiva di età micenea. 3 La possibilità che luoghi legati ai personaggi mitici locali, come la zona dell’Istmo o l’Acrocorinto, potessero fornire nei resti delle vestigia micenee i modelli costruttivi da imitare e considerando la prossimità della vasca con la più tarda sistemazione della Peirene, dalla cui sorgente per altro la stessa è rifornita, è possibile credere che la cd. Fontana Ciclopica altro non fosse che la più antica duplicazione della Peirene alta. Essa avrebbe riprodotto il luogo in cui sarebbe avvenuto l’imbrigliamento di Pegaso, episodio cruciale della mitistoria locale per cui Bellerofonte divenne un eroe culturale di Corinto. 4 L’impresa sembra avere una certa fortuna proprio in epoca bacchiade, se nelle raffigurazioni vascolari medio corinzie in cui l’eroe è rappresentato in groppa a Pegaso il dettaglio dei finimenti è sempre ben evidenziato, essendo il morso – secondo la tradizione antica– una di quelle invenzioni locali che meglio testimoniavano la particolare metis corinzia. 5 In questo senso è indicativo che il luogo della fontana sia  

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1  Hill 1964, pp. 44-47. 2  Non è possibile datare esattamente la vasca in base a elementi stratigrafici, avendo le costruzioni più tarde sconvolto completamente la zona, tuttavia sembra indicativo a tal fine il confronto con la tecnica edilizia adottata per il muro di contenimento della Fonte Sacra e del grande canale di drenaggio di epoca geometrica. Pur riconoscendo tale corrispondenza costruttiva, Robinson 2011, pp. 134-141, 155-158 sostiene che l’utilizzo di malta idraulica come rivestimento e legante per i blocchi abbassi la datazione della grotta al vi sec. Tuttavia, non solo una tecnica simile è conosciuta a Corinto dagli inizi del vii sec., ma soprattutto le operazioni di stucco e di rivestimento dei blocchi, scelti in un materiale che, nonostante risultasse più difficile da lavorare, fosse diverso dal poros locale proprio per risultare più evocativo alla vista, devono essere attribuite a una fase costruttiva successiva del complesso, forse alle rilavorazioni subite dalla struttura alla fine del v sec. (cfr. Dubbini 2011, pp. 171-172). 3  Wright 1982, pp.186-201. 4  Sull’impresa di Bellerofonte : Hes. Theog. 324-325 ; Pind. Ol. 13, 63-92 ; Eur. El. 475 ; Str. 8, 6, 21. 5  Se l’uccisione della Chimera da parte di Bellerofonte è tema comune a tutto l’ambito culturale ellenico, rientrando l’uccisione del mostro tra i miti civilizzatori di liberazione propri delle realtà proto-urbane in corso di definizione (Hölscher 2011), caratteristica corinzia sarebbe proprio la resa dettagliata dei finimenti di Pegaso (Yalouris 1950, pp. 19-101).  







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stato successivamente trasformato in un santuario apparentemente dedicato a una figura eroica, che non è escluso potesse coincidere con Bellerofonte stesso. 1 Accettando tale interpretazione, la Fontana Ciclopica rientrerebbe nel progetto di costituzione del centro urbano corinzio, per cui si assiste a una nuova organizzazione degli spazi e apparentemente al trasferimento di culti dall’altura sacra dell’Acrocorinto, così come sembra suggerire anche il rinvenimento presso la cd. collina del tempio di una prima dedica ad Afrodite Astarte. 2 Nel nuovo spazio pubblico troverebbe poi posto un ulteriore culto legato alla memoria locale, come sembra indicare il particolare rispetto attribuito a un gruppo di sepolture, riferite probabilmente ad antenati comuni al nuovo corpo sociale, se non specificatamente al genos al potere : si tratta delle tombe appartenenti a una famiglia prestigiosa, con corredi tra i più elaborati e ricchi della Corinzia. Le deposizioni principali si datano tra la metà del ix e quella dell’viii sec. a.C. – nella fase cioè in cui l’area in questione era ancora occupata da insediamenti sparsi e i morti venivano inumati nei pressi dei propri contesti abitativi –, ma successivamente il territorio occupato dal sepolcreto, il cui abbandono stabilisce il passaggio della zona a una condizione collettiva, risulta protetto da interventi e riutilizzi, condizione inimmaginabile se non si presuppone una qualche definizione sacrale dello spazio. 3 La prima costruzione monumentale del nascente centro urbano è quindi il grande santuario sulla collina, che agli inizi del secondo quarto del vii sec. sostituisce una più antica area sacra probabilmente all’aria aperta : per la realizzazione dell’edificio di culto la sommità della collina viene regolarizzata grazie al suo sbancamento e livellamento, impresa urbanistica di una portata tale da non poter che essere conseguente a una forte volontà politica, la quale in questo modo intendeva segnare in maniera decisiva il paesaggio del cuore dell’abitato. È proprio l’emergere del santuario, la cui importanza è tra l’altro indicata dall’esistenza al suo interno di uno dei primi edifici templari in pietra del mondo greco, 4 a definire l’utilizzo dell’area in senso pubblico, in rapporto sia alla partecipazione a riti religiosi di carattere collettivo che alla formazione di un centro urbano autoreferenziale, in cui si sarebbe fondata l’appartenenza comune e attuata l’integrazione della società politica. Quando il potere passa alla dinastia cipselide intorno alla metà del vii sec. il processo di formazione dello spazio politico può dirsi ormai concluso : la struttura dell’agora si consolida con lo sviluppo di edifici a carattere abitativo ma soprattutto produttivo e commerciale (come ad es. il Complesso dei Commercianti), nonché di strutture di carattere pubblico : le fonti Sacra e Ciclopica, presso le quali iniziano a registrarsi attività di culto, vengono ampliate, mentre si assiste al primo allestimento della Peirene vera e propria 5 (Tav. ic). Sotto i Cipselidi, il santuario sulla collina potrebbe avere già assunto il suo carattere apollineo, come sembrerebbero suggerire gli ottimi rapporti che intercorsero tra  



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1  Sul santuario si rimanda a Dubbini 2011, pp. 170-177, con bibl. prec. 2  Si tratta di una figurina in argilla della prima metà del vii sec. a.C. rappresentante una divinità femminile nuda nell’atto di coprirsi con le mani il seno e il pube, secondo lo schema iconografico della dea fenicia Astarte. Tale oggetto non deve essere considerato un’offerta isolata ma piuttosto relativo a un culto specifico sviluppatosi sin da questo momento sull’agora corinzia, come sembra suggerito da una coppa di v sec. con su inciso il nome della dea, la quale testimonierebbe la continuità del culto. In proposito vd. Dubbini 2011, pp. 91-95, con bibl. prec. 3  Dubbini 2009. 4  In proposito si rimanda a Rhodes 2003 ; Dubbini 2011, pp. 101-103. 5  In proposito vd. Robinson 2011, pp. 127-130 ; Dubbini 2011, pp. 76-77 con bibl. prec.  



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Cipselo e il clero pitico, i cui noti responsi tràditi da Erodoto investirono sacralmente il potere del tiranno a Corinto. 1 Cipselo avrebbe ricambiato le attenzioni ricevute offrendo protezione al santuario di Delfi e con la dedica di un thesauros, un grande edificio in poros del Peloponneso, posto accanto alla terrazza del tempio di Apollo : tale struttura si doveva stagliare in un paesaggio ancora privo di edifici, marcando lo spazio sacro ancor prima che ne venisse definito il peribolo, e doveva risultare eccezionale per l’epoca, se si considerano i costi e i tempi di estrazione, di trasporto e di costruzione, nonché l’impegno nella possibile trasferta di manovalanza corinzia specializzata nella lavorazione della pietra locale. 2 All’interno del thesauros inoltre il tiranno aveva dedicato un’offerta altrettanto eccezionale : una palma di bronzo ai piedi della quale erano state cesellate rane e serpenti d’acqua. 3 Degli stretti rapporti che intercorsero tra i due siti è d’altronde indicativa la massiccia esportazione a Delfi di terracotte architettoniche e di coperture fittili di fattura corinzia, al punto che dalla metà del vii sec. la quasi totalità degli edifici del santuario pitico, compreso il tempio principale, presentava tetti corinzi a quattro falde e del tipo corinzio I. 4 Considerando infine che all’epoca il controllo del santuario delfico era ancora detenuto dal clero di Cirra, città portuale fondata secondo il mito dallo stesso Apollo proprio per gestire l’oracolo pitico e che svolse tale compito dalle origini del culto sino agli inizi del vi sec. a.C., 5 anche la scelta da parte del tiranno di dare a uno dei suoi figli il nome Pilade, coincidente con quello dell’eroe di Cirra, deve essere letta in quest’ottica di politica religiosa. 6 Accettando questa interpretazione, la scelta del culto delfico per il santuario dell’agora di Corinto si potrebbe spiegare con l’intenzione di Cipselo di affidare la legittimità del proprio potere alla sfera divina, proponendosi come mediatore per  







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1  Hdt. 5, 92. L’accordo si sarebbe basato su un reciproco interesse : mentre Cipselo vedeva la sua autorità riconosciuta dal massimo esponente religioso dell’epoca, la sua devozione rafforzava l’autorità panellenica del santuario, il cui interesse per gli avvenimenti politici della città che controllava il golfo corinzio, principale via d’accesso allo stesso, è d’altronde facilmente comprensibile (cfr. Dubbini 2011, pp. 59-64 con bibl. prec.). 2  Sulla dedica del thesauros Hdt. 8, 14, 2 ; Plut. Mor. 164A ; 400D-E. Il thesauros è stato identificato grazie al ritrovamento del frammento di iscrizione Korin- relativo alla nuova dedica dell’edificio in seguito alla caduta della tirannia (Daux 1932, pp. 127-129). Per maggiori dettagli sull’architettura dell’edificio : Jacquemin 1999, in particolare pp. 245-246 ; Østby 2000, pp. 239-262, in particolare 241-242, in cui evidenzia l’esistenza nel santuario di Delfi di almeno un altro o altri due edifici corinzi di vii sec. a.C. Sul trasporto dei blocchi di poros dalle cave corinzie a Delfi e il possibile uso di manovalanza corinzia : Hansen 2000, pp. 201-213, in particolare pp. 208-209, con bibl. prec. 3  Sulla dedica della palma : Plut. Mor. 163F-164A ; 399E-400F ; 724B. Il significato di questo ex-voto sfuggiva già nell’antichità sia in rapporto al dio che al dedicante, dal momento che nessuno degli elementi che lo componeva risultava rappresentativo del committente o della sua città di origine. Per le varie proposte esegetiche suggerite dalla critica moderna vd. Deonna 1951, pp. 5-58. 4  Le Roy 1967 ; Salmon 1984, pp. 120-121. 5  Sull’influenza del clero di Cirra nella stesura dell’inno pseudo-omerico ad Apollo vd. Antonelli 1994 ; Antonelli 2000, pp. 79-80, con bibl. prec. 6  Schol. Eur. Or. 33  ; cfr. Salmon 1984, p. 219. Il legame dei Cipselidi con Cirra è particolarmente interessante in rapporto agli avvenimenti relativi alla Prima Guerra Sacra e quindi alla possibile epiclesi adottata per il santuario dell’agora corinzia : al contrario di quanto ipotizzato in Dubbini 2011, p. 108, è preferibile credere che prima del conflitto l’appellativo dell’Apollo delfico fosse Delphinios piuttosto che Pythios, epiteto quest’ultimo che sembra affermarsi a Delfi solo successivamente in relazione alla nuova gestione del santuario da parte dell’Anfizionia (vd. da ultimo Herda 2011 con bibl. prec. e cfr. Dubbini c.d.s.). Sul coinvolgimento di Corinto nella Prima Guerra Sacra vd. Antonelli 1994, in particolare pp. 42-48.  

























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la collettività del favore divino proveniente da uno dei maggiori centri religiosi dell’epoca. Almeno da questo momento il santuario sulla collina diventa d’altronde sede di un archivio cittadino, in cui erano conservati sia documenti sacri – come i calendari sacrificali – che statali – come i decreti –, garantendo così la validità delle deliberazioni collettive, che dovevano aver luogo nell’adiacente spazio aperto, ormai fissate per iscritto. 1 L’ordinamento di tale istituzione pubblica sembra così segnare il compimento del processo di gestazione dello spazio politico, che in questo periodo sembra accogliere nel cd. “Heroon all’incrocio” il primo culto eroico dedicato a un personaggio a noi sconosciuto, ma materialmente presente nel territorio con le sue spoglie, indice di una coscienza identitaria ormai definitivamente formata. 2  

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Dal mito al luogo di culto nel processo di costruzione identitaria della polis di Corinto L’analisi della configurazione religiosa dell’agora di Corinto nelle sue fasi iniziali è risultata particolarmente proficua per la ricostruzione del processo di formazione della comunità urbana : è presso i santuari dello spazio politico che la società della polis prende corpo, raccogliendosi attorno ai culti che più la rappresentano e forgiando in questo modo la consapevolezza della propria identità. Ma quali sono questi culti ? Al di là di quelli dedicati a entità sovrumane che hanno senso di esistere nel contesto dell’agora perché funzionali sin da epoca preistorica ai bisogni primari del corpo sociale (protezione dalle calamità, fertilità, armonia del gruppo etc.), soprattutto significative in relazione alla formazione dell’identità corinzia risultano quelle figure divine e mortali icastiche della tradizione mitica locale. Strumento di circolazione della tradizione sono infatti i racconti mitici, narrazioni contenenti un patrimonio culturale specifico del luogo, teso a veicolare tramite la memoria collettiva diverse modalità del sociale. 3 A Corinto l’uso del mito è particolarmente evidente in epoca bacchiade, quando è più forte la necessità di definire l’identità del nuovo centro urbano : se a livello letterario si assiste a una promozione delle tradizioni mitiche locali o riconducibili a Corinto, preziose per la composizione di un patrimonio culturale specifico della collettività corinzia, sul territorio si registra l’influenza del mito sul paesaggio. Questo a sua volta diventa palcoscenico delle narrazioni mitiche e quindi garante della loro veridicità, soprattutto tramite la mediazione della figura dell’eroe culturale e/o fondatore, le cui imprese risultano soprattutto costitutive dell’identità del luogo, operando lo stesso da legante tra la memoria culturale e il presente, che in questo modo viene legittimato. 4 In tal senso l’Acrocorinto sarebbe divenuta sede delle più antiche espressioni religiose della polis, ma anche di quei primi regnanti mitici così poco rap 









1  Sui calendari sacri vd. Bookidis-Stroud 2004, pp. 401-426, in particolare p. 409, sulla possibilità che i decreti precedentemente discussi in assemblea venissero esposti nel santuario cfr. Hölkeskamp 2003, pp. 81-104. Cfr. Dubbini 2011, pp. 209-210. 2  Il culto è relativo alla scoperta, nel Corinzio Antico, di una tomba, contenente l’inumazione di un uomo adulto, che viene aperta, spogliata del corredo e richiusa con attenzione. Le prime tracce di culto si registrano quindi nel Corinzio Medio (Williams 1978, pp. 79-85). Sul cd. “Heroon all’incrocio” vd. da ultimo Dubbini 2011, pp. 164-167 con bibl. prec. 3  Cfr. da ultimo Hölscher 2011. 4  Cfr. Pellizer 1991.

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presentati nell’epos omerico e di cui fu per questo necessario riscrivere la storia, ma anche mostrare i luoghi delle imprese. Medea, Sisifo, Bellerofonte testimoniano con le loro azioni la prima occupazione corinzia del territorio e quella ingegnosità tipicamente locale, la metis corinzia, che al contrario doveva godere già di una certa fama nel mondo greco : in tal senso può essere letta la fondazione del santuario di Afrodite da parte di Medea, la presenza del palazzo reale di Sisifo e della sorgente ottenuta dal sovrano sull’altura sacra, ma soprattutto la necessità di realizzare nel cuore dell’abitato la Peirene, sede dell’imbrigliamento di Pegaso, con una tecnica che doveva evocare le altre costruzioni del mito (di epoca micenea ?) conservate sull’Acrocorinto. 1 Una delle questioni che si ponevano doveva essere d’altronde proprio il trasferimento di miti e culti dall’altura, troppo distante e difficile da raggiungere per divenire il principale fulcro religioso e monumentale della nuova struttura comunitaria, in un nuovo centro attorno al quale strutturare l’insediamento e costruire l’identità pubblica, così come sembrano documentare anche le prime tracce del culto di Afrodite Astarte nel cuore dell’abitato. In questo spazio collettivo il legame con il territorio e la sua memoria viene quindi rafforzato con un probabile culto di archegetai fondatori della comunità, il cui valore sociale viene confermato dall’istituzione di un culto di tipo eroico presso il cd. “Heroon all’incrocio” in epoca cipselide. In questa fase il significato politico dell’agora sarebbe ormai definito dall’introduzione – se non dalla riaffermazione – del culto di Apollo nel santuario principale del centro abitato : pur tenendo conto del legame primordiale del dio con le apellai, termine con cui nel mondo dorico e in ambito delfico erano indicati sia l’assemblea che il luogo del suo svolgimento, la scelta del culto delfico doveva più degli altri riflettere e di rimando influenzare la rappresentazione che la comunità dava di sé e dei suoi valori, secondo linee di azione definite dal sistema reggente. In relazione alla formazione della polis, le prime manifestazioni della coscienza identitaria corinzia sembrano, in conclusione, seguire l’emergenza dell’abitato centrale sulla base di una costruzione consapevole di un patrimonio culturale specifico del territorio. In tal senso la maggior parte delle figure mitiche appartiene all’epoca bacchiade, momento storico in cui l’incessante sviluppo dell’insediamento richiede con una certa urgenza personaggi e luoghi del mito attorno ai quali strutturare la polis, intesa sia in senso urbano che soprattutto sociale. Il processo di formazione della città con i suoi spazi pubblici sarebbe invece già concluso sotto i Cipselidi, i quali sembrano sostanzialmente seguire l’opera dei predecessori sia in senso urbanistico che religioso, mantenendo i culti preesistenti e rafforzandone, ove possibile, il significato promozionale in un’ottica squisitamente politica.  

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Tav. i. L’evoluzione dell’agora di Corinto dal Tardo-geometrico all’epoca cipselide (rielaborazione grafica dell’autore).

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Tav. ii. Il sito di Corinto durante la sua formazione nell’viii/vii sec. a.C. (rielaborazione grafica dell’autore)

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R ICOSTRUIR E LA CITTÀ ATTR AVER SO GLI OCCHI DEL POETA : PINDA RO E LA BEOZI A  

Or etta Oliv ier i Qui [sc. nello studio della città greca], come in altri campi, senza un adeguato bagaglio storico di riferimento, l’approccio diventa parziale e fuorviante. 1

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A

iutati dal riscontro e dall’integrazione di fonti di varia natura, letterarie e non letterarie, nonché dalla ricognizione archeologica dei siti, partiamo dal presupposto dell’attendibilità delle informazioni pindariche che, considerate anche la genesi e la funzione pragmatica della lirica greca arcaica, non possono essere interpretate come mera finzione poetica. È anche vero – come afferma Paolo Morachiello 2 – che “la religione greca fu creazione del canto di poeti piuttosto che della teologia di sacerdoti”. Pertanto, quando si parla di spazio urbano, ed extra-urbano, tebano-beotico in Pindaro, si parla di spazio religioso, uno spazio, cioè, in cui l’attualità delle vittorie cantate negli epinici o l’attualità delle cerimonie religiose immortalate in carmi di vario genere, convive con il mito rivissuto nel rito. Nelle tradizioni locali e cittadine, il mito, vincolando determinati dèi ed eroi al territorio, ne articola le relazioni con la città e la sua chora. 3 Cantando tali personaggi o facendoli rivivere nel rito che Pindaro canta, il poeta tebano ne fissa l’immagine e la declina nei vari culti disseminati nella polis, consolidandone i rapporti con la realtà locale e con gli spazi cittadini pubblici ad essi dedicati. Il mito ci guida nella ricognizione dei luoghi, che acquistano un significato collettivo in virtù delle imprese eroiche e divine che lì sono avvenute e che il poeta, rinnovandole col canto, amplifica nell’esecuzione di fronte al pubblico cittadino. La città è spesso vista nella sua costituzione e nella sua interezza come la città del fondatore ; prende, cioè, il nome dall’eroe ecista : come Tebe che in Pae. 9, 44 è “il popolo di Cadmo nella città di Zeto” (cfr. Isthm. 1, 11 Kavdmou stratw`)/ o come Orcomeno, la vicina rivale, che nell’Istmica 1 (v. 56) e nell’Olimpica 14 (vv. 4 e 19) Pindaro lega a Minia e agli “antichi Minî” (v. 4 palaigovnwn Minua`n). Nella seconda strofe dell’Olimpica 14 per Asopico di Orcomeno, vincitore nello stadio, il poeta lega se stesso all’atleta vittorioso che è chiamato a cantare, ma anche alla città che per lui si fregia del titolo di “olimpionica” (vv. 19-20 ou{nek j∆Olumpiovniko~ aJ Minuveia seu` e{kati). Tra le località beotiche, il primato di presenza nell’opera pindarica spetta, come è del resto facilmente prevedibile, a Tebe. Un primato schiacciante, quasi assoluto, co 







1  Così Greco 1989, p. 306. 2  Morachiello 2003, p. 71. 3  Uno studio in tal senso, sull’organizzazione spaziale della città di Tanagra in relazione ai suoi miti, è quello di Jaillard 2007.

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oretta olivieri

me ho cercato di evidenziare nel volume sui miti e culti tebani in Pindaro di recente pubblicazione. 1 Orcomeno è oggetto di una caratterizzazione spaziale data non solo dai riferimenti alla storia antica della città, 2 ma anche da cenni alla geografia fisica del territorio. Per quanto riguarda il primo aspetto, Pindaro più volte si sofferma sul culto antichissimo delle Cariti e sulla discendenza del popolo orcomenio da Minia. 3 Dal punto di vista strettamente geografico, essa è attraversata dalle acque del Cefiso (Ol. 14, 1 Kafisivwn uJdavtwn ; le Cariti sono dette Kaºf≥i≥s≥s≥iva~ in fr. dub. 333(a), 11). 4 L’abbondanza delle acque è ribadita dalla menzione nel brevissimo fr. 244 Maehl., della ninfa orcomenia (A)cidalia che l’Etymologicum Genuinum definisce una livmnh, presso la quale si ergeva il santuario delle famose dee. 5 In Pyth. 12, 26-27 per Mida di Agrigento, il temenos delle dee è il Cefiso, forse anche perché il re di Orcomeno, Eteocle o Eteoclo, che per primo avrebbe instaurato il loro culto, era, secondo diverse fonti, figlio del Cefiso ; 6 tutta la città di Orcomeno è invece definita “città delle Cariti dai bei cori” (v. 26 kallivcoron ... povlin Carivtwn). In quanto luogo ricco di acque, esso è adatto all’allevamento dei puledri (Ol. 14, 2 kallivpwlon e{dran ; cfr. fr. dub. 333(a), 8-9 povlin diwvxippon “città che guida i cavalli”). Il torrente orcomenio Melas, inoltre, che si riversa, insieme al Cefiso, nella palude Copaide, è celebrato da Pindaro nel Peana fr. 70 + *249b Maehl. come habitat naturale delle canne per gli auli, nella cui produzione la Beozia notoriamente si distingueva (cfr. Pyth. 12, 25-27). Da Orcomeno Pindaro tocca Onchesto passando per Coronea e per la fonte Tilfusa o, secondo la grafia pindarica, Tilfossa. Il poeta menziona rapidamente in due occorrenze il santuario federale dei Beoti consacrato a Posidone ad Onchesto, una volta come sede dei giochi beotici nei quali ha trionfato il tebano Erodoto, celebrato nell’Istmica 1 (vv. 32 s. e 52 ss.), mentre nel Dafneforico per Agasicle (Parth. 2, fr. 94b, 46) in quegli agoni gareggiarono in prove equestri, ottenendone ampia fama, i familiari del ragazzo dafneforo Agasicle. Nello stesso contesto, sono ricordate le gare di respiro regionale, i Pamboiotia, che si tenevano nel tempio di Atena Itonia a Coronea, le quali avevano visto il trionfo coi cavalli della medesima famiglia (Parth. 2, fr. 94b, 47-49). Sulla fonte beotica Tilfossa, situata ai piedi del monte Tilfossio, resta un brevissimo frammento (fr. 198b Maehl.), che definisce le proprietà dell’acqua della fonte : “Dolce come il miele divina acqua [scaturisce] da Tilfossa dalla bella corrente”. Come ho cercato di dimostrare altrove, il contenuto mitico del carme è probabilmente connesso con la morte dell’indovino tebano Tiresia. 7 Il rilievo attribuito a Tilfossa nell’Inno omerico ad Apollo (vv. 244-276 e 375-387) attesta con verosimiglianza che nel luogo era attivo un culto della ninfa molto antico. Esso era connesso, forse, con la figura di Ti 









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1  Olivieri 2011. 2  Riferimenti a Minia e ai Minî in Pae. 8, 102-104 (per cui si rinvia a Olivieri 2011, pp. 105-110) e in Isthm. 1, 56 ; alle Cariti in Ol. 14, 1-4 ; Pyth. 12, 26-27 ; fr. 244 ; fr. dub. 333 (a), 9-15. 3  Sui miti orcomeni, vd. Paus. 9, 36, 2-38, 10 con il commento di Moggi-Osanna 2010, pp. 420-433. 4  Vd. D’Alessio 2000, p. 249. 5  Cfr. Paus. 9, 38, 2 “Hanno anche una fontana (krhvnh) degna di essere vista, e vi scendono per attingere acqua”. Tale fontana, collegata al culto e al mito delle Cariti che in essa si bagnavano (Serv. Ad Aen. 1, 720), è identificata con la fonte (A)cidalia : cfr. Moggi-Osanna 2010, p. 428 s. 6  Hes. fr. 71c M.-W. ; schol. Theocr. 16, 104 ; Paus. 9, 34, 9. Sulla ninfa Cefisia, vd. il commento di P. Angeli Bernardini in Gentili 2006, p. 682. 7  Olivieri 2011, pp. 62-67.  













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resia, che qui aveva incontrato la morte per aver bevuto le gelide acque della fonte e vi aveva ricevuto poi un sepolcro. 1 In questo caso, la fonte è il fulcro attorno al quale nasce e si sviluppa un luogo di culto : in seguito e in virtù di questi eventi, infatti, Tiresia divenne profeta del luogo nonché l’intestatario di un culto oracolare ctonio. 2 L’insieme degli elementi rilevabili nel sito può costituire quello che A. Schachter, nel suo studio fondamentale su sei culti oracolari attivi in Beozia, ha definito un “cult type”, che contempla un oracolo situato ai piedi di un monte (il Tilfossio nel nostro caso), dal quale sgorga una fonte con poteri mantici (la fonte Tilfossa), presieduta da una ninfa (omonima della fonte) e custodita da un profeta di sesso maschile, qui personificato da Tiresia. 3 A nord-est del lago Copaide e a quindici stadi dalla città di Tebe si trova il tempio di Apollo Ptoio. 4 Esso era costruito su tre livelli, lungo il pendio del monte Ptoio, presso la fonte chiamata oggi Perdikovrysi (“fonte della pernice”), a breve distanza dal villaggio di Karditza, l’antica Acrefia. 5 Nella mappa dei centri oracolari della Beozia, è un complesso religioso molto importante, che Pindaro celebra sia per il mito di fondazione che ne è all’origine, sia per il culto che vi si pratica. Se l’Inno ad Apollo Ptoios (fr. 51a-d) racconta le peregrinazioni di Apollo alla ricerca di un luogo a lui congeniale per edificarvi un santuario e la scelta, alfine, proprio del monte “tricipite” Ptoio, nel Peana 7 per Tebe, che all’epoca deteneva il controllo di quel territorio, il poeta apre uno spaccato, per noi purtroppo gravemente mutilo, su una manifestazione del culto apollineo. Ai vv. 9-12 forse inizia una sezione relativa all’esecuzione del Peana descritta dal coro : cevwn rJaqavªmigºga≥ ≥ (v. 9 “versando una goccia”) fa riferimento ad un’aspersione metaforica, quella del canto del poeta, 6 accompagnato dal favore delle Cariti (v. 10) e dal suono dell’aulo (v. 11 “sul dolce aulo”). La parte canora e musicale è completata dal movimento del coro, che dichiara di salire su “una cima che splende lontano” (v. 12 ijovnti thlaugev j ajg korufavn), forse mentre canta il Peana. Proprio quest’ultimo verso sembra attestare il movimento ascensionale del coro che sale,  







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1  Sull’episodio della morte, Aristoph. Boeot. FGrHist 379 F 4 ; Apollod. 3, 7, 3 ; Paus. 7, 3, 1 e 9, 18, 4 ; Eust. ad Hom. Od. 10, 515 (I p. 393 Stallbaum). A proposito della morte e della tomba, vd. Diod. Sic. 4, 66-67 ; Strab. 9, 2, 27 p. 410/411 e 9, 2, 36 p. 413 ; Paus. 9, 33, 1-2. La narrazione mitologica contenuta in PSI 1398 (edito da V. Bartoletti [Papiri greci e latini xiv, Firenze 1957, p. 83] e discusso da H. Lloyd-Jones in Gnomon 31, 1959, p. 113 s.), tratta verisimilmente la morte di Tiresia vicino alla fonte (r. 8 krhvnhn Tevlfoussan) dopo la conquista di Tebe da parte degli Epigoni (probabile ai rr. 11-12 un riferimento alla tomba : tou` shv- É ªmato~]). 2  Vian 1963, pp. 87 e 107 ; Bonnechère 1990, pp. 58-59. Per Defradas 1972, p. 68 l’Inno omerico rifletterebbe la rivalità fra il culto di Apollo Telfusio, istituito più tardi, e il culto oracolare della ninfa Tilfossa e dell’indovino Tiresia. 3  Schachter 1967, specialmente pp. 5 e 8. Il sito oracolare rientra anche nel gruppo dei siti oracolari analoghi disposti attorno al lago Copaide : Schachter 1994, p. 61 e n. 4, s.v. ‘Tilphossa (Haliartia)’. Vd. anche Schachter 1992, p. 6 a proposito della tecnica di divinazione praticata alla fonte Tilfossa : “the message was first received by a medium, who drank the water of the spring, and it was ultimately transmitted to the consultant by an interpreter”. Cfr. Schachter 1994, p. 39, s.v. ‘Teiresias (Tilphossa/Haliartia)’. 4  Paus. 9, 23, 6. 5  L. Vlad-Borrelli, s.v. ‘Ptoion’, Enc. arte ant. vi, 1965, coll. 535-538 ; Schachter 1967, p. 1 ; Wallace 1979, p. 137 s. ; R. E. Bell, s.v. ‘Ptoum’, in Place-Names in Classical Mythology : Greece, Santa Barbara-Oxford 1989, p. 234. I resoconti delle prime campagne di scavi sono riportati in Bull. corr. hell. 9, 1885, pp. 474-481 e nei numeri successivi. Per la storia degli scavi, Guillon 1946, p. 216 ; Ducat 1971, pp. 7-46. Le monografie di riferimento per il sito nel suo complesso rimangono Guillon 1943 e Ducat 1971. 6  Paia`no~ vel paia`ni Snell ad v. 9. Cfr. Pyth. 8, 57a rJaivnw kai; u{mnw/. Ferrari 1992, p. 146 ; Rutherford 2001, p. 342 ; vd. contra Bona 1988, p. 149 che vi scorge un momento del rito.  































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lungo il pendio, verso la meta del santuario. Qui il rito nei pressi dell’altare. Soltanto cenni desunti dai lembi di testo superstite : si parla di tori (v. 14 tauvrwn : era previsto un sacrificio di tali animali ?), dell’altare (v. 15 probwm [“davanti all’altare”, il luogo di arrivo del percorso compiuto dai coreuti ?) e del canto eseguito probabilmente in concomitanza della cerimonia (v. 17 kelºav≥dhsan aujdavn “intonarono un canto”) nei pressi dell’oracolo ( ?) (v. 18 ºantesi crhsthvrion). In questo ipotetico viaggio nella Beozia pindarica, ci avviciniamo a Tebe. Parlando della città natale, con la quale il poeta ha un rapporto privilegiato che gli deriva dalla familiarità dei luoghi, il punto di vista di Pindaro non si limita soltanto allo spazio dell’acropoli, il primo nucleo insediativo, nonché il cuore della città difeso dalle celeberrime mura dalle sette porte, ma si estende anche allo spazio decentrato immediatamente all’esterno della porta di Elettra. Esso era l’ingresso principale che si apriva a sud-est della città. Spazio di non minor rilevanza, considerata la funzione protettiva nei confronti della polis degli eroi e degli dèi venerati a ridosso di un’importante via di accesso al ‘centro storico’. Nella ricchissima architettura monumentale della città al tempo di Pindaro, si è costretti a fare una scelta, a selezionare, cioè, alcuni dei luoghi collettivi più significativi, spesso raggruppati in determinate aree dell’impianto urbanistico. Il centro storico, la Cadmea, è la memoria storica della nascita di Tebe. Ancora ai tempi di Pindaro, porta i segni di Cadmo e della sua sventurata/fortunata progenie femminile. Dalla figlia di Cadmo, Semele, nasce Dioniso che a Tebe è di casa, venerato col titolo di Cadmeo proprio sull’acropoli. Tutto il secondo Ditirambo di Pindaro per Tebe respira aria dionisiaca. Al luogo dove furono celebrate le nozze di Cadmo e Armonia, figlia di quell’Afrodite che aveva sulla Cadmea tre immagini cultuali secondo quanto attesta Pausania, 1 e dove cantarono le Muse per celebrare l’ordine divino stabilito da Zeus, rinviano sia l’Inno a Zeus di Pindaro che apriva l’intera raccolta pindarica, 2 sia il celebre passo di Pyth. 3, 87-95. Le mura singolari sono ossessivamente ricordate nell’epiteto eJptavpulo~ di chiara ascendenza epica. Delle porte, sul cui numero, nome e realtà non è il caso di soffermarsi in questa sede, 3 è menzionata la porta di Elettra nelle cui vicinanze sorgono i due complessi religiosi più significativi della polis oltre all’acropoli cadmea : l’Herakleion e l’Ismenion. 4 Se, tra gli spazi pubblici condivisi, E. Greco pone in primo piano, nella mente collettiva della cittadinanza, la triade templi, mura, necropoli, i primi due elementi sono fortemente presenti nell’opera di Pindaro. Per le sepolture, il poeta ricorda più volte la tomba comune di Iolao con il nonno Anfitrione (vd. Pyth. 9, 79 ss. ; Nem. 4, 20 ; Ol. 9, 98 ; fr. 169a, 41-52) perché monumento strettamente associato al culto di Eracle, del cui complesso monumentale essa faceva parte. Largo spazio è dato alle tombe dei guerrieri argivi caduti al tempo dello scontro dei Sette contro Tebe. Un elemento significativo da una duplice prospettiva – perché esclusivamente pindarico 5 e perché  







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1  Paus. 9, 16, 3-4. 2  Hymn. 1. Vd. Olivieri 2011, pp. 28-37. 3  Cfr. Olivieri 2011, p. 72 n. 129. 4  Vd. Schachter 1992, pp. 26-27. 5  Cfr. Aristar. in schol. Ol. 6, 23a, i p. 158, 27 Dr. (eJpta; d j e[peita pura`n) : oJ me;n ou\n jArivstarcov~ fhsin o{ti ijdiavzei kai; ejn touvtoi~ [sc. nella tradizione relativa alle sette pire] oJ Pivndaro~ wJ~ kai; ejn a[lloi~. Cfr. Hubbard 1992, p. 79.  

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legato al suolo tebano, quindi ad una tradizione locale –, 1 è rappresentato, in Nem. 9, 24, dalla menzione delle sette pire. 2 Nella Nemea 9 è detto che gli Argivi furono sconfitti “sulle rive dell’Ismeno” (v. 22) dove, allontanata definitivamente la possibilità del ritorno in patria, il rogo dei loro corpi “ingrassò il bianco fumo” e le sette pire divorarono “i guerrieri dalle giovani membra” (vv. 22-24). Esisteva a Tebe un luogo conosciuto nel v secolo a.C. come ÔEpta; Puvrai (“Sette Pire”), che si è tentato di localizzare o sulle due colline (i Kastellia) ad est della Cadmea e ad ovest dell’Ismeno, usate principalmente per le sepolture, 3 oppure tra la Cadmea e i Kastellia vicino alla porta delle Pretidi. 4 In entrambi i casi, il sito si trova comunque in prossimità dell’Ismeno e non viene a contraddire l’affermazione pindarica secondo la quale i Sette furono cremati sulle rive del fiume. Le fonti antiche non concordano sull’identità dei destinatari delle tombe : i figli di Anfione e Niobe oppure i sette eroi argivi. Armenida (fine v secolo a.C.) dice chiaramente che il luogo, chiamato ÔEpta; Puvrai, prende il nome o dai Sette contro Tebe oppure dai sette figli di Niobe ivi cremati. 5 Pausania attesta la presenza vicino alla porta delle Pretidi delle tombe dei figli di Anfione, sette per i maschi e sette per le femmine, e della loro pira a circa mezzo stadio dalle tombe. 6 Ma al tempo di Pindaro, o anche prima, le sette pire non erano certamente associate con i Niobidi, giacché il numero di quattordici per i figli di Anfione entra nella tradizione con il dramma attico. 7 Del resto, proprio nelle vicinanze della porta delle Pretidi, Pausania segnala anche la presenza di tombe di combattenti periti nello scontro argivo-tebano : quelle di Melanippo ucciso da Anfiarao e di Tideo ucciso da Melanippo, 8 e gli mnemata dei figli di Edipo, Eteocle e Polinice. 9 Si può concludere verisimilmente che il poeta indicasse, con il duplice riferimento alle sette pire, un luogo preciso della topografia  







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1  Stoneman 1981, p. 51 ; ma vd. contra Hubbard 1992, p. 96 s. e Cingano 2000, p. 154 n. 94. Alla tradizione locale, contrapposta alla versione non-tebana (ed euripidea), che identifica il sito con il luogo di sepoltura dei figli di Anfione, pensa anche A. Schachter (che ringrazio per il suggerimento). 2  Sul problema delle sette pire, vd. M. Daumas, ‘Argos et les Sept’, in Piérart 1992, p. 256 e A. Pariente, ‘Le monument argien des “Sept contre Thèbes”’, ibid. p. 203 n. 53. 3  Schachter 1994, pp. 22-24, s.v. ‘Pyres, Seven (Thebes)’. Le due colline sono denominate Mikro Kastelli (a nord) e Megalo Kastelli (a sud) : per i siti vd. Symeonoglou 1985, pp. 250. 25 ; 278. 139 e 140 ; 286. 176 ; 301. 235 ; 305. 254. 4  Keramopoullos 1917, pp. 379-381. Symeonoglou 1985, pp. 191-192 connette il sito delle Sette Pire al moderno sobborgo di Tebe denominato Pyri, a nord-ovest della collina di Anfione. 5  Armenid. FGrHist 378 F 6 in schol. Ol. 6, 23a : kai; pura;~ poieu`nte~ eJpta; ejpi; toi`~ ÔErmai`sin ejntau`qa o{pou kalou`ntai ÔEpta; Puvrai, h] ajpo; tw`n eJpta; ejpi; Qhvba~, h] ajpo; tw`n eJpta; paivdwn Niovbh~ ejkei` kauqevntwn. Sette erano i Niobidi in Hellan. FGrHist 4 F 21. Sette tombe : Eur. Phoen. 159-160 (cfr. anche schol. Phoen. 159 [i p. 271, 11 Schwartz] = Timagor. FGrHist 381 F 1) ; Suppl. 663. In alcune versioni le sette porte erano denominate da essi : vd. Wilamowitz 1891, p. 210 ss. 6  Paus. 9, 16, 7 e 9, 17, 2. 7  Hubbard 1992, p. 95 (vd. il paragrafo ‘The “Seven Pyres” and the Burial of the Argive Dead’, pp. 92100). Fino alla tragedia attica, vario è il numero dei Niobidi attestato : Hom. Il. 24, 603 s. conta dodici figli (seguito da Pherecyd. FGrHist 3 F 126 e Stat. Theb. 6, 124 s.) ; Hes. fr. 183 M.-W. parla di venti figli (Apollod. 3, 5, 6 ; cfr. Ael. Var. hist. 12, 36, per il quale Esiodo ne contava diciannove, ma è incerto se il dato provenga da un’opera di Esiodo) ; il numero venti è attestato da Pind. Pae. 13 ( ?) (ma cfr. Olivieri 2011, p. 42 n. 132) ; Bacch. fr. 20D, 6 s. Maehl. ; Mimn. fr. 18 Gent.-Pr. ; Xant. FGrHist 765 F 20c. Diciotto in Sapph. fr. 205 V. ; dieci in Alcm. PMGF 75 ; sette in Hellan. FGrHist 4 F 21 ; cinque in Herodor. FGrHist 31 F 56. Sulla disparità delle fonti greche a proposito del numero dei figli di Niobe, vd. Aul. Gell. 20, 7. Il dramma attico stabilisce il numero di quattordici : cfr. Aesch. Niob. fr. 167b Radt ; Soph. Niob. fr. 446 Radt ; Eur. Cresph. fr. 455 Kn. ; Eur. Phoen. 159 ; Ar. fr. 294 PCG e anche Lasus fr. 706 PMG. 8  Cfr. Hom. Il. 14, 114. 9  Paus. 9, 18, 1-3. Segnato da una colonna sormontata da uno scudo di pietra, era indicato alla porta Neiste il luogo in cui Eteocle e Polinice si erano uccisi reciprocamente (Paus. 9, 25, 2).  



















































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tebana, in prossimità del fiume Ismeno, al quale la tradizione cittadina collegava il ricordo dell’antica battaglia. 1 Pindaro menziona luoghi circoscritti e spazi privati, ad esempio case (l’antica casa di Cadmo sulla Cadmea o il palazzo di Anfitrione nell’Herakleion), talami nei quali furono concepiti o partoriti dèi ed eroi (il talamo di Semele e quello di Alcmena) e altri spazi (ad esempio il luogo, divenuto oracolo, nel quale la ninfa autoctona Melia diede alla luce il profeta Tenero) appartenuti a personaggi del mito. Luoghi privati in un tempo mitico, ma, nella coscienza collettiva dei Tebani e nell’attualità della poesia di Pindaro, divenuti “musei” a cielo aperto e simboli per tutti, luoghi sacri insomma, comuni e condivisi, nonché emblemi definenti l’identità cittadina, la facies particolare ed unica di quella, e non di altre, città. Nei carmi di Pindaro, non compaiono luoghi privati di uomini, di singoli cittadini (o compaiono solo laddove sono funzionali a lodare il destinatario umano del canto), bensì sono messi in luce luoghi condivisi, dove i cittadini rivivono, attraverso il rito, eventi remoti dei loro miti fondanti o dove celebrano vittorie recenti di atleti locali, le quali, a volte, si inseriscono anche nella cornice più ampia di pubbliche cerimonie religiose. Emblematico è il caso, ormai a tutti noto, della Pitica 11 per il tebano Trasideo, celebrazione nel contempo di un uomo dalla prestanza eccezionale, l’atleta vincitore a Pito, e di uno degli dèi più importanti per i Tebani, Apollo Ismenios. Oppure è anche il caso dell’Istmica 4, che, nelle intenzioni del poeta, da una parte vuole festeggiare la valentìa del lottatore Melisso, dall’altra descrivere il rito sacrificale per Eracle e per i suoi otto figli caduti in guerra. Dunque, sport e religione negli epinici o soltanto le pratiche cultuali in carmi di altro genere, sono sentiti dal poeta ed appaiono come momenti di aggregazione fra cittadini in spazi comuni. Tali spazi possono essere, a seconda delle circostanze, un santuario (ad esempio il santuario di Apollo Ismenios e quello di Eracle) ; o un altare adornato di corone, sul quale si celebra un sacrificio seguito da un banchetto comunitario ; oppure una via che conduce al santuario, lungo la quale si svolge una processione. Quest’ultimo è il caso del coro in movimento processionale previsto dalla dafneforia tebana e descritto nel Dafneforico per Agasicle (Parth. 2 fr. 94b). La dafneforia, diretta al santuario di Apollo Ismenio, era tra le più importanti e solenni festività religiose della città di Tebe. Essa era accompagnata da un canto, il partenio dafneforico, destinato all’esecuzione corale di un gruppo di ragazze. Il valore documentario del Partenio 2 per la ricostruzione della dafneforia tebana è indubbio. Grazie anche al sussidio di testimonianze più tarde, è possibile, in alcuni casi, decifrare il significato dei riferimenti contenuti nel testo e valutarne la portata per la comprensione sia del Partenio in se stesso sia del ruolo che esso doveva avere nell’ambito della festa. 2

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1  Ciò sembra confermato da Pind. Nem. 11, 33-38 : nell’ambito della migrazione eolico-peloponnesiaca, guidata da Oreste e partita da Amicle, è ricordata la sosta “presso le correnti dell’Ismeno”, dove il sangue di Pisandro, avo del vincitore Aristagora, si era unito a quello dell’avo materno Melanippo (v. 36 s.). Sull’argomento, vd. Bernardini 1997, p. 71 s. Per l’elemento dialettale come prova incontrovertibile dell’esistenza, e relativa datazione, della migrazione eolica, vd. Schachter 1996, pp. 18-20. Per Melanippo vd. Cingano 1985, p. 39 ; 2000, pp. 146, 153 e nn. 65 e 67. 2  Sul valore documentario della lirica pindarica in generale “per ricostruire determinati aspetti, sia di ordine storico e sociale che politico o economico, della grecità a cavallo tra il vi e il v secolo”, vd. Bernardini 1989, p. 40. Per una ricostruzione del contesto rituale-performativo del Dafneforico pindarico nonché degli aspetti storico-politici in esso riflessi, vd. da ultimo Kurke 2007 (interessante la prospettiva nuova di inquadrare la comparazione delle fonti [Proclo e Pausania] in uno “structural system”, p. 74).  



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Le parole delle coreute aiutano a comprendere il tipo di movimento, processionale appunto, l’ordine e il percorso che coro di vergini, dafneforo, padre del dafneforo e probabilmente fedeli partecipanti devono fare per raggiungere la meta : il tempio extramurario di Apollo Ismenio, altrove definito dal poeta metonimicamente come il “tesoro inaccessibile dei tripodi d’oro” (Pyth. 11, 4-5), ovvero la cella più nascosta del tempio. Tra gli aspetti organizzativi, il coro descrive se stesso affermando di “portare nelle tenere mani un ramoscello splendente di alloro”, dove l’azione dell’ojcei`n, insieme al significato di “portare”, veicola anche quello di “trasportare” nel movimento di avvicinamento al traguardo della teoria :  



Parth. 2, fr. 94b, 6-12 ajlla; zwsamevna te pevplon wjkevw~

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cersivn t j ejn malakai`sin o{rpak j ajgl≥aovn davfna~ ojcevoisa pavndoxo≥n ktl.

Afferma poi di aver costituito un coro per l’occasione (v. 39) mavrtu~ h[luqon ej~ corovn

giunsi nel coro

e di seguire il padre del dafneforo e la corifea subito dietro l’oggetto rivestito di alloro (la kopo) lungo una “via” (odos) prestabilita (vv. 66-70) :  

Damaivna~ p≥aª. .ºr≥ . . ª. . .ºw/ nu`n moi podi; steivcwn aJg≥evo≥: ªtºi≥;n ga;r≥ e≥ªu[ºfrwn e{≥yetai prwvta qugavthr ªoJºdou` davfna~ eujpetavlou scedªovºn baivnoisa pedivlo≥i~

Padre di Damena, ora con piede tranquillo avanzando guidami, poiché ti seguirà lieta per prima la figlia nella via procedendo con i calzari vicino all’alloro dalle belle foglie.

Anche il pasto pubblico, la daiv~, e di conseguenza il luogo deputato ad accoglierlo, rivestono grande importanza per la collettività, 1 daiv~ che Pindaro non tralascia di ricordare in varie occasioni cantate in carmi tebani : nell’Istmica 4 sono nominati gli e[mpura (v. 63 “i sacrifici con il fuoco”) e la daiv~ (v. 61) ; nel Peana 1, ancora di committenza tebana, le Ore e l’Anno ( jEniautov~) portano nell’a[stu in onore di Apollo una daiv~ filhsistevfano~ (“un banchetto che ama le corone”), dove i fiori di cui sono fatte le corone, sono richiamati dai metaforici “fiori del buon governo” (a[nqesin eujnomiva~) che il dio deve propiziare per Tebe (vv. 5-8). Il binomio banchetto-corone si ripropone anche nella festa per Echecrate di Orcomeno, descritta nel fr. dub. 333(a), 7 stefav- nwma daitiv≥k≥l≥utªon “corona celebre per il banchetto”. 2 Il fr. 333 Maehl. è tra i fragmenta dubia : di esso non si conoscono né l’autore né il genere né l’occasione concreta di composizione ed esecuzione. Sulla scia di Blass, una decina di anni fa G. B. D’Alessio ha cercato di dimostrare, con argomenti persuasivi, la paternità pindarica in virtù  









1  Vd. Ekroth 2002, pp. 181-182. 2  Per il tema del banchetto nel mondo greco, si rinvia a Schmitt-Pantel 1992.

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dell’affinità stilistica e, in misura meno vincolante, della probabilità geografica. 1 Sulla base di una notizia di Plutarco, 2 l’Echecrate, figlio di Pitangelo, celebrato nel carme è verisimilmente da identificare con l’Echecrate profeta, durante le guerre Persiane, del tempio di Apollo a Tegira, località nel territorio di Orcomeno, da cui dista poco più di 5 km. Si tratta, dunque, di una cerimonia religiosa della quale non sappiamo nulla se non che una daiv~ era un elemento strutturale del rito descritto e che questa era in qualche modo connessa all’incoronamento di altari per mezzo di ghirlande. Di corone reali, usate nel rito e poste sugli altari, si tratta probabilmente anche nella tebana Istmica 4. La digressione pindarica ai vv. 61-68, una delle più lunghe e dettagliate su una cerimonia religiosa cittadina, rimanda, come dicevo, a dati reali. Che il culto fosse tipicamente locale e tebano, è attestato dal fatto che Pindaro rappresenta la prima fonte che menziona il complesso architettonico e cultuale-celebrativo dedicato ad Eracle e ai suoi figli, l’Herakleion appunto, e soprattutto descrive nei particolari lo svolgimento del rito prima e degli agoni poi. 3 L’importanza del luogo di culto 4 è rivelata anche dall’ubicazione nevralgica nella topografia urbana : nelle vicinanze dell’Ismenio, altro santuario significativo per Tebe, 5 e davanti alla porta di Elettra, a sud-est della Cadmea, che era l’ingresso principale della città per chi proveniva da Platea o da Atene. 6 Anzi, “oltre la porta di Elettra” (v. 61 ∆Alektra`n u{perqen), come dice Pindaro dal suo punto di vista interno alla città. 7 Oltre al luogo dove avviene la festa (v. 61), il poeta specifica i destinatari della cerimonia, Eracle e i suoi figli (v. 61 tw/` [sc. ad Eracle] e v. 63 calkoara`n ojktw; qanov- ntwn) ; i celebranti, cioè la coralità dei cittadini tebani (vv. 61-62 ajstoiv ... au[xomen) e lo svolgimento, che si protrae ogni anno per due giorni. Esso prevede un banchetto (v. 61 dai`ta porsuvnonte~) all’apertura della festa con l’offerta di sacrifici serali (v. 63 e[mpura), la cui fiamma rimane viva tutta la notte (v. 65 flovx ... sunece;~ pannucivzei). 8  

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1  D’Alessio 2000. 2  Plut. Pelop. 16. 3  Cfr. Roesch 1975, p. 1 ; Robert 1977, p. 209 s. (= 1990, p. 779 s.) ; Schachter 1986, p. 22 ss., s.v. ‘Herakles (Thebes)’. Rapidi cenni agli Herakleia tebani in Bacch. Ep. 10, 30-31 (l’ateniese Aglao ha vinto ai giochi : aJ kleiºnav te Qhvba É devktªo nin) ; Simon. Anth. Pal. 13, 19 = D. L. Page (ed.), Further Greek Epigrams, Cambridge 1981, p. 262, “Simonides” xliii = J. Ebert, Griechische Epigramme auf Sieger an gymnischen und hippischen Agonen, Berlin 1972, nr. 26, pp. 92-96 : si tratta di un epigramma posto su una statua offerta dal corinzio Nicolada, vincitore in varie località fra le quali Tebe (v. 10 kai; Qhvba/). Un trattato sulla festa, ora perduto, il Peri; tw`n Qhvbhsin ÔHrakleivwn, fu scritto da Polemone di Ilio (202/181 a.C. circa : schol. Ol. 7, 153d = FHG iii fr. 26, p. 123 ; FGrHist iiiA p. 80). Per un elenco delle iscrizioni riguardanti gli Herakleia, si rinvia a Roesch 1975. 4  Symeonoglou 1985, p. 183 ; Krummen 1990, p. 40. 5  Si rinvia a Olivieri 2011, pp. 161-192. 6  Paus. 9, 8, 7 ; 9, 11, 1 ; Eur. Bacch. 780-785 (v. 780 s. stei`c j ejp j jHlevktra~ ijw;n É puvla~, dalla porta di Elettra partiva la via per il Citerone) ; F. Schober, s.v. ‘Thebai (Boiotien). Topographie und Geschichte’, RE v A2, 1934, coll. 1423-1492, qui col. 1430 ; Keramopoullos 1917, p. 325 ss. ; per altre testimonianze letterarie, vd. R. Unger, Thebana Paradoxa I, Halis 1839, p. 270 ss. La porta era stata così denominata in onore di Elettra, figlia di Atlante e madre di Armonia (Ephor. FGrHist 70 F 120 = schol. Eur. Phoen. 7 [i p. 248, 16 Schwartz] ; cfr. anche schol. Eur. Phoen. 1129 [I p. 368 Schwartz]) ; oppure da Elettrione, padre di Alcmena ; o da Elettra, figlia di Anfione (schol. Eur. Phoen. 1129 [I p. 369, 2 Schwartz]) ; o da Elettra, sorella del fondatore della città Cadmo (Paus. 9, 8, 4). Secondo Aesch. Sept. 423 ss. e Eur. Phoen. 1129, a Capaneo capitò in sorte di appostarsi alla porta di Elettra, dove fu colpito dal fulmine di Zeus. In Eur. Suppl. 651 ss. il messaggero osserva da una torre presso la porta di Elettra la battaglia tra Ateniesi e Tebani. 7  Wilamowitz 1922, p. 340 n. 3 ; Privitera 2001, p. 185. Pindaro guarda da dentro la città verso l’esterno ; Pausania, invece, entrando a Tebe attraverso questa porta, dall’esterno verso l’interno (9, 11, 1). 8  Il sacrificio fatto sul far della sera è tipico dei culti eroici di contro ai sacrifici per gli dei, fatti al mattino (schol. Isthm. 4, 110b, iii p. 238, 14 Dr. ; vd. Shapiro 1983, p. 10). Le offerte bruciate in onore dei figli di Eracle rientrano nei “thysia sacrifices followed by dining” : Ekroth 2002, pp. 181-182.  









































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Il secondo giorno si svolgono le gare sportive annuali (v. 67 ejteivwn ... ajevqlwn), in particolare il pancrazio (v. 68 ijscuvo~ e[rgon). 1 Oltre alla non meglio precisata daiv~ – il banchetto sacrificale –, durante la quale vengono probabilmente consumate le carni delle vittime bruciate, i cittadini offrono neovdmata stefanwvmata bwmw`n (v. 62 “nuove corone di altari”). 2 Sul significato dell’espressione sono state avanzate più interpretazioni : a) corone di foglie e di fiori freschi (neovdmata = neva) deposte sugli altari come parte dell’ornamentazione sacra ; 3 oppure b) altari costruiti di recente (neovdmata = nevo~ + devmw) e collocati in circolo quasi a formare delle corone (stefanwvmata) ; 4 infine, c) le “cataste di legna” disposte su ogni altare per la cottura delle carni delle vittime sacrificate destinate al pasto comune, secondo una recente interpretazione. 5 Ovviamente, il confronto con i passi paralleli ci fa propendere per la prima interpretazione. Anche il frontone di un tempio può divenire segno dell’identità locale. Nella medesima Istmica 4, la valentìa agonistica di Melisso viene associata a quella dell’eroe concittadino Eracle. Egli, con abili mosse da lottatore, ha dato prova della sua forza sollevando da terra e sconfiggendo in questo modo il gigante libico Anteo (vv. 5255) : “Anche in casa di Anteo giunse / una volta da Tebe cadmea un uomo / basso d’aspetto, ma inflessibile d’animo, nella Libia / ricca di grano, per lottare e impedirgli di coprire / coi teschi dei forestieri il tempio di Posidone : / era il figlio di Alcmena”. A proposito dell’Herakleion di Tebe, sarà un caso che nelle metope del tempio, fra le undici fatiche di Eracle scolpite da Prassitele (cronologia della realizzazione 346-339 a.C.), fossero escluse l’impresa contro gli uccelli stinfalidi e quella relativa alle stalle di Augia a favore della lotta dell’eroe contro il gigante libico Anteo ? 6 Nel commento al nono libro di Pausania sulla Beozia di recente pubblicazione, M. Moggi e M. Osanna  













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1  Stando alla notizia di Ant. Lib. Met. 29, 4, la festa di Eracle era preceduta da un sacrificio a Galinzia. 2  Per la medesima associazione daiv~ – stefavnwma (“banchetto sacrificale – corona”), cfr. fr. 333, 7 così ricostruito da D’Alessio 2000, p. 241 stefavnwma daiti;° con rinvio (p. 244) a Pae. 1, 7 s. che presenta il medesimo binomio in ambito festivo (a[stu Qhvba~ ejph`lqon É jApovlºlwni dai`ta filhsistevfanon a[gonte~). La correlazione daiv~ – bwmov~ in riferimento al culto di Aiace si trova in Ol. 9, 112. 3  Schol. Isthm. 4, 104d, e (iii p. 237 Dr.) ; Thummer 1969, pp. 78-79 ; Boeckh 1821, p. 509 (“recentes coronas ararum”) ; Dissen 1847, p. 559 ; Puech 1961, p. 47 ; D’Alessio 2000, pp. 244-246 con il rimando, per l’uso di incoronare gli altari, alla documentazione epigrafica e figurativa. 4  Per neovdmato~, vd. LSJ s.v. ‘new built’ (cfr. App. Mithrid. 40 ; IG xiv 2508 ; Il. 1, 448 ejuv>dmhton peri; bwmovn). Crisippo in schol. Isthm. 4, 104d (Cruvsippo~ dev, ejk perifravsew~ tou;~ bwmou;~ aujtou;~ stefanwvmata bwmw`n eij- rhkevnai) ; F. Mezger, Pindars Siegeslieder, Leipzig 1880, p. 285 ; Farnell 1965, p. 355 (con il rinvio a Soph. Ant. 122 stefavnwma puvrgwn, la “corona di torri” che circonda la città) ; C.A.M. Fennell, Pindar : The Nemean and Isthmian Odes, with Notes Explanatory and Critical, Introductions, and Introductory Essays, Cambridge 18992, p. 178 (gli altari erano permanenti e non, come la daiv~, rinnovati ogni anno) ; Bury 1965, p. 76 (per la festa annuale di Eracle erano disposti in cerchio, a forma di corona, otto “temporary altars”) ; Wilamowitz 1922, p. 340 ritiene che gli altari fossero stati ricostruiti dopo l’assedio di Tebe da parte di Pausania ; Privitera 2001, p. 185. Vd., infine, anche la posizione di Krummen 1990, p. 42, la quale, attribuendo ad au[xw il significato di “lodare, celebrare” e al kaiv (v. 62) il valore enfatico di “anche”, considera l’espressione neovdmata stefanwvmata bwmw`n apposizione di e[mpura : “offrendo a lui ... il festino, abbelliamo anche le nuove corone di altari, (cioè) i sacrifici ...”. In questo modo, l’intera espressione verrebbe ad assumere un significato metaforico che sembra, tuttavia, improbabile giacché Pindaro descrive con estrema precisione gli aspetti concreti e reali della festa. Inoltre, in questa occorrenza il verbo au[xw non ha il valore di “celebrare con la lode”, bensì quello tecnico di “fare sacrifici” : vd. LSJ s.v. 4 au[xein e[mpura “to sacrifice” ; Slater 1969, s.v. “make great the sacrifice of burnt offerings to” ; Eur. Hipp. 537 bouvtan fovnon ÔElla;~ ãai\ jà ajevxei. Farnell 1965, p. 355 equipara au[xein al verbo rJevzein, termine tecnico per il rituale del sacrificio religioso. 5  Bocksberger 2009, pp. 111-112. 6  Paus. 9, 11, 6.  



































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avanzano l’ipotesi che le gesta di Eracle fossero proposte in maniera non canonica, ma “forse secondo una norma del culto tebano”. 1 Non è forse ragionevole e verisimile ipotizzare che tale selezione tebana delle imprese dell’eroe sia stata in certo qual modo influenzata anche dalla celebrazione che dell’impresa aveva fatto Pindaro proprio nell’Istmica 4 che fu probabilmente eseguita nell’Herakleion tebano ? Del resto, non va neanche taciuta la possibilità di riesecuzioni dell’ode nel tempo a venire nella stessa sede, che avrebbero potuto accrescere il prestigio dell’azione eroica, selezionata da Pindaro fra tante in un’ode tebana – l’Istmica 4 –, a tal punto da indurre Prassitele a rappresentarla visivamente nel frontone del tempio. In conclusione, anche una metopa può richiamare l’attenzione di tanti, può essere, cioè, una demonstratio ad oculos in relazione ad un fatto ben noto alla gente del posto o illustrarlo ai più giovani e agli stranieri di passaggio. 2 Anche una corona che addobba un altare, e non solo l’altare, può indicare che lì c’è stato o ci sarà un sacrificio al quale in molti hanno assistito o assisteranno. Se un complesso architettonico religioso individua una città e parla della sua vita religiosa, se un’agora definisce la pianta di una polis e ne ospita i dibattiti politici o le attività economiche, anche una metopa, parte minima del tempio, o uno stevfano~, e non soltanto quello che incorona il capo di un atleta vittorioso, possono identificare luoghi significativi della città e veicolare significati culturali più ampi.  



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1  Moggi-Osanna 2010, p. 285. 2 Di demonstratio ad oculos in relazione al pubblico convenuto, parla giustamente Krummen 1990, p. 38 (cfr. anche p. 92), che però collega erroneamente l’immagine del frontone di iv secolo con l’esecuzione dell’Istmica 4 di v secolo a.C. (a meno che Paus. 9, 11, 6 non faccia riferimento ad uno scultore omonimo di v secolo). Per la questione delle repliche degli epinici, si rinvia a Loscalzo 2000, pp. 1-18 e 2003, pp. 85-119, spec. pp. 103-106 a proposito delle odi trionfali eseguite durante feste religiose locali (“il ritorno ciclico della festa pubblica poteva fornire l’occasione per una ripresa, una riedizione dell’epinicio”, p. 103) ; cfr. Kowalzig 2007, p. 351 che parla di “reperformance in ritual”.  

ricostruire la città attraverso gli occhi del poeta

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I SA NTUA R I DI DIONISO A D ATENE Giandomenico De Tommaso Premessa

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D

ei tre santuari di Dioniso attestati nell’Atene arcaica e classica, conosciamo l’esatta ubicazione solo del santuario di Dioniso Eleuthereus, grazie all’evidenza monumentale del teatro. Per gli altri due, Dioniso en Limnais e Dioniso Leneo, l’identificazione dell’esatta posizione topografica costituisce ancora argomento di dibattito tra gli studiosi. Non si pretende certo in questa sede di risolvere l’oramai annoso problema, ma solo di porre all’attenzione degli studiosi alcune considerazioni. 1  

1. Dioniso en Limnais 2  

Considerato il più antico e venerabile da Tucidide (2, 15, 4) e Demostene (59, 76), viene citato da Tucidide (2, 15, 4) nell’area della città a sud dell’acropoli, nella valle dell’Ilisso, nei pressi del “Tempio di Zeus Olimpio, quello di Apollo Pizio, quello di Gea”. Vi si celebravano “le più antiche feste di Dioniso nel dodicesimo giorno del mese di Antesterione”. Indicazioni topografiche si possono dedurre dalle Rane di Aristofane, 3 che numerosi elementi indicano ambientato nel santuario stesso. Infatti, il coro delle rane che danno il titolo alla commedia (vv. 209-220) presenta numerosi elementi che rimandano alle Antesterie : le rane sono definite la “Prole delle paludi che fa echeggiare il suo canto nelle Limnai”, il riferimento alle pentole rimanda al giorno delle pentole (13 Antesterione), mentre “la turba del popolo/ [che] ebbra di festa viene al mio santuario” rimanda alla giornata dell’apertura delle botti (Pithoigia) e alla festa delle brocche (Choes), quando si tenevano agoni di bevute di vino cui partecipano anche bambini e schiavi. Il 12 Antesterione la città si popola di fantasmi e numerosi sono nella commedia gli accenni al mondo dei morti : tutta la trama ruota intorno alla discesa di Dioniso nell’Ade per riportare ad Atene Eschilo ed Euripide, effettivamente presenti sulla scena (ma si parla anche di Sofocle, deceduto qualche mese prima della rappresentazione della commedia) e una delle prime scene vede l’incontro di Dioniso con un fantasma prima della partenza per l’Aldilà. Di fatto, tutto concorre a far ritenere che le Rane siano ambientate nel santuario dove si celebravano le Antesterie. Così, altri passi della commedia consentono di definirne la posizione topografica : Eracle, che conosce bene le vicende di Atene e quindi abita per lo meno nei pressi della città, vive non a Melite (v. 501), ma a Diomeia (v. 650), le cui feste erano le principali a lui dedicate e si tenevano a Cinosarge, non lontano dalla porta Diomeia, dove era un Herakleion : cioè tra l’Ilisso e le mura. Per contro, il coro principale della commedia è costituito da iniziati che hanno già concluso l’iniziazione (vv. 158, 318 : oiJ  











1  Non è questa la sede per ripercorre la vastissima e oramai più che centenaria bibliografia sul problema : ci si limita solo ai contributi effettivamente citati nel testo, rimandando alla esaustiva rassegna che accompagna i singoli capitoli di Greco 2010 e 2011. 2  Di Cesare 2011. 3  Hooker 1960.  

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memuhmevnoi), hanno già compiuto il sacrificio e consumato la vittima sacrificale (vv.

337-339 : “Xanthia : O signora veneranda figlia di Demetra, che dolce profumo sento spirare, di maiale arrosto ! Dioniso : Sta’ calmo, che forse ti tocca anche un po’ di salsiccia. Coro : abbiamo pranzato quanto basta”) ; si preparano a intrecciare corone di fiori per le danze (v. 326 : “vieni su questo prato a danzare” ; v. 351 : “umido prato fiorito” ; v. 373 : “nel fiorito grembo dei prati battendo il piede” ; v. 445 : “Giocando nel bosco in fiore” ; vv. 448-449 : “Andiamo nei prati dove fioriscono le rose in gran copia”). Non sono, cioè, iniziati che cantano durante la loro processione a Eleusi nei Grandi Misteri a settembre, ma quelli che partecipano ai Piccoli Misteri di Agrai, che si tenevano durante il mese di Antesterione, quando i fiori cominciavano a uscire dal bocciolo, quando il santuario en Limnais era aperto. Gli iniziati avevano eseguito i loro riti ad Agrai, subito al di là del fiume Ilisso : cioè nella stessa area indicata da Tucidide. Nel suo percorso dalla valle dell’Ilisso all’Acropoli Pausania non parla del santuario, ma dice (1, 1, 20, 3) che il più antico santuario di Dioniso alle pendici meridionali dell’Acropoli è Dioniso Eleuthereus,circostanza per lo meno bizzarra se consideriamo la sostanziale accuratezza delle descrizioni del periegeta. Ciò non significa, come vorrebbe Wycherley, 1 l’identità, fin dai tempi più antichi, tra i due santuari, ma certo una sorta di contiguità tra loro. In realtà, l’area paludosa del santuario era stata da tempo sanata (Strab. 8, 5, 1) quando Pausania percorre le strade di Atene. Anche queste considerazioni ci inducono a collocare il santuario di Dioniso delle paludi nell’area sud-orientale dell’Acropoli e non, come voleva Dörpfeld, 2 a sud ovest dell’Areopago, dove peraltro collocava l’Agora arcaica e dove interpretava come Bakcheion, erede in età romana del santuario di Dioniso en Limnais, un edificio tardo antico in cui era reimpiegata una colonna con l’iscrizione relativa al regolamento degli iobakchoi (IG ii 1368). 3 Più coerente con i dati sopraesposti è l’ipotesi di Travlos 4 che colloca il santuario delle paludi immediatamente a est del teatro. Un’iscrizione rinvenuta nel 1884 con un decreto del 418/417 conserva un contratto di locazione ventennale relativo a una parte dello hieron di Kodros, Neleus e Basile. Vi si dispone una nuova delimitazione del santuario e la piantagione di almeno 200 olivi a carico dell’affittuario, circostanza che giustifica la menzione di una serie di monumenti prossimi al temenos : un santuario di Dioniso, una porta delle mura attraverso cui gli iniziati ai Misteri (muvstai) si recavano al mare (a{lade), una casa pubblica (oi\ko~ dhmovsio~) e una seconda porta sita presso “il bagno di Isthmonikos”. 5 Benché ritrovata reimpiegata in un muro di un edificio dell’attuale Odos Makriyanni, per le sue notevoli dimensioni la pietra fu ritenuta non troppo lontana dal luogo di esposizione originario, che la clausola indicava come Neleion, “presso gli spalti lignei” (ta; i[kria). La menzione del Dionysion in un primo momento fece pensare a Dioniso Eleuthereus, ma il ritrovamento negli anni ’60, a non molta distanza dal luogo del decreto, di due horoi relativi a un santuario del v sec. (uno in situ ai margini di una via antica che segna un’importante direttrice tra la Pnice e l’Areopago-Acropoli) fece ipotizzare a J. Travlos che qui si trovasse il santuario di Kodros, Neleus e Basile, immaginato di notevoli dimensioni per la menzione di 200 olivi. 6 A poca distanza dal  





























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1  Wycherley 1963. 2  Dörpfeld 1895 e 1921. 3  Longo 2010, pp. 257-260. 4  Travlos 1971, pp. 332-334. 5  IG i2 84 ; Wheeler 1897, pp. 38-49. 6  Travlos 1971, pp. 332-334.  

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cippo si troverebbe il Dionysion citato dall’iscrizione : presso l’Ilisso, quindi, e perciò, come dice Tucidide, “Dioniso en Limnais”. Le due porte sarebbero quelle del Falero, ancora oggi solo ipotizzate in connessione con la moderna Odos Phalerou (Porta xii), e le Itonie (Porta xi). Altre informazioni possono derivare da alcune considerazioni sui percorsi relativi ai riti delle due feste legate al santuario : certamente le Antesterie, probabilmente le Oschophoria, 1 che mettono in stretta relazione “Dioniso en Limnais” con il tragitto tra il Falero e la cosiddetta Agora arcaica. Infatti, l’ultimo giorno delle Antesterie era caratterizzato dal (per noi) oscuro momento dell’unione della basilissa con Dioniso. Secondo Aristotele (Ath. 3, 5), luogo della ierogamia era il Boukoleion, dimora dell’arconte re, 2 magistratura definita da Aristotele (Ath. 3, 2) e Demostene (C. Neaer. 75) sopravvivenza del regime monarchico che aveva sede, appunto, nel cuore della città (in precedenza il re abitava sull’acropoli). Dell’edificio, situato accanto al Pritaneo, non sappiamo nulla, se non per una suggestiva ipotesi che lo identifica nella struttura raffigurata di scorcio in un cratere a calice del Gruppo di Polignoto oggi a Tarquinia con Dioniso ebbro che, di notte, si avvia verso una casa sorvegliata da un satiro seduto sulla soglia ed entro la quale è una figura femminile in attesa. 3La vicinanza col Pritaneo consente di collocare il Boukoleion lungo il cammino intrapreso da Pausania per raggiungere dal Ceramico la Valle dell’Ilisso, in un’area della città ricca di “relitti” dell’Atene più antica (Theseion, Anakeion, Santuario di Aglauro, Pritaneo, il luogo dell’incontro tra Teseo e Piritoo) convenzionalmente nota come “Agora arcaica”, che ora possiamo con sicurezza collocare alle pendici sud-orientali dell’Acropoli grazie all’acquisita identificazione della grotta d’Aglauro. 4 Le Oschophoria, istituite da Teseo al ritorno vittorioso da Creta, si tenevano durante le Theseia, lo stesso giorno della festa in onore di Apollo (Pyanepsia), protettore dei giardini e frutteti, a metà ottobre. Un corteo di ragazzi e ragazze non orfani partiva da un santuario di Dioniso ad Atene per arrivare al tempio di Atena Skiras a Falero, dove era un oschophorion. Nessuna fonte nomina esplicitamente la sede della festa, ma la connessione con Apollo e Teseo rimanda, ancora una volta, alla valle dell’Ilisso nell’area sud-orientale della città, dove era il tempio di Apollo Pizio, ai piedi dell’Agora di Teseo. 5Da queste osservazioni emerge una stretta connessione tra il Santuario di Dioniso nelle paludi e il percorso che da Falero giungeva all’Agora arcaica, Va, infine, notata la menzione nel succitato decreto del 418/7 di spalti lignei (ta; i[kria) nell’area limitrofa al santuario.  





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2. Dioniso Eleutereo 6  

Se l’ubicazione del santuario alle pendici meridionali dell’Acropoli non pone alcun problema, più incerti sono i dati relativi alla sua nascita e al suo sviluppo in età arcaica. Se la tradizione che attribuisce a Tespi l’organizzazione e la vittoria del primo concorso drammatico nel 534 a.C. 7 dovrebbe implicare una frequentazione del santuario intorno a quegli anni, la ricerca archeologica ha messo in luce i resti della fondazione in poros dell’Acropoli di un gradino del crepidoma in calcare di Karà riferibili  

1  Simon 1983, p. 89. 2  Polluce cita il Basileion, comunque vicino al Boukoleion. 3  Tarquinia RC4197 : Beazley 1956, p. 1057.96 ; Carpenter-Mannack-Mendonça 1989 ; Pala 2007. 4  Dontas 1983. 5  Greco-Osanna 1999, p. 170. 6  Santaniello 2010. 7  Marmor Parium : FGrHist 239 A 43.  







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a un tempio dorico distilo in antis della metà del vi sec. a.C. e un rilievo frontonale in poros con sileni e menadi, databile intorno al 540 a.C., forse pertinente ad un altare, più che a un tempio. 1Non si può sfuggire alla suggestione di attribuire i frammenti di sculture architettoniche stilisticamente avvicinabili al Thesauros degli Ateniesi a Delfi 2 a una ristrutturazione del complesso quando questo divenne definitivamente l’area del teatro dopo il rovinoso crollo di i[kria durante la rappresentazione di un dramma di Pratina di Fliunte tra il 500 e il 496 a.C. (Suid. s.v. ‘Pratinas’). Le prime due fasi dell'edificio teatrale sono caratterizzate dalla pianta trapezoidale, 3 come gli edifici di Thorikos 4 e Trachones (Euonymon ?). 5 Solo nella seconda metà del iv sec. a.C. viene definitivamente adottata la pianta curvilinea, con un progetto attribuito a Licurgo (Paus. 1, 29, 10) connesso probabilmente alla costruzione del tempio di età classica 6 e a una nuova sistemazione del tratto finale della Via dei Tripodi che vede ora, almeno a partire dal 334, l’erezione dei monumenti coregici imponenti. 7  













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3. Dioniso Leneo 8  

È certamente il santuario di Dioniso dagli aspetti più evanescenti, legato a una festa, quella delle Lenee, comunque connessa al mondo del teatro, ma dai molti aspetti ancora oscuri 9 (anche le raffigurazioni dei cosiddetti vasi lenei non da tutti gli studiosi sono ricondotte a essa). Da Esichio (s.v. ejpi; Lhnaivw/ ajgwvn) sappiamo che si trattava di un santuario recintato da un peribolo consacrato agli agoni drammatici prima della costruzione del teatro, in un testo in contraddizione con quanto sappiamo sul santuario di Dioniso Eleuthereus. Tuttavia questa (almeno apparente) antinomia può forse trovare una soluzione considerando i dati sulle processioni delle Dionisie. Il 9 di Elafebolione, durante la notte, la statua di Dioniso veniva trasportata dal tempio di Dioniso alle pendici dell’Acropoli all’Accademia e, nel giorno successivo, ricevuta da cori itifallici, portata all’eschara (forse quella individuata nell’area nord-ovest del Ceramico) ; quindi, presso l’Altare dei Dodici Dei, si eseguivano inni e venivano compiuti sacrifici ; in seguito la statua veniva ricondotta da efebi nel teatro di Dioniso Eleuthereus, dove era ricevuta da ithyphalloi e phallophoroi ; 10 qui, nei giorni successivi, avevano luogo, alla presenza della statua, gli agoni drammatici veri e propri. Un ditirambo di Pindaro (fr. 75 Sn.), eseguito nel 470 e dedicato ai Dodici Dei, 11 testimonia del rapporto tra agoni ditirambici e l’altare stesso : appare così non casuale la posizione della statua del poeta nei pressi della Stoa Basileios, dove la vede Eschine (Epist. 4, 2-3) e non lontano dal tempio di Ares, dove è descritta da Pausania (1, 1, 8, 4). Peraltro, Senofonte (Hipparch. 3, 2) parla di danze in onore dei Dodici Dei, evidentemente eseguite nei pressi dell’altare, in connessione con le Dionisie. Siamo, cioè nell’area del Ceramico definita Orchestra almeno dai tempi di Platone (Apol. 26de),  













  1 

Despinis 1996-97. 2  Despinis 1996-97, pp. 193-213. Polacco 1990 ; Moretti 2000, pp. 275-280. 4  Isler 1994, p. 308.   5  Isler 1994a, p. 311.   6  Si basava prevalentemente sulla cronologia dell’attività di Alkamenes, autore del Dioniso crisoelefantino (Paus. 1, 20, 3), la datazione del tempio al v sec. (vd. anche recentemente Livadiotti-Rocco 2007, p. 567), che ora, in base ad un più attento esame dei livelli di fondazione, viene datato alla metà del iv sec. : vd. Santaniello 2010 ; Lippolis-Vallarino, p. 266. 7 Greco 2001 ; Ficuciello 2008, pp. 66-74.   8  Di Cesare 2010, pp. 170-171. 9  Di Cesare 2010a, pp. 171-173. 10  Sourvinou-Inwood 2003. 11  Pickard-Cambridge 1968, p. 20.   3 









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dove era il gruppo dei Tirannicidi (Tim. Soph. Lex. Plat. s.v. ‘orchestra’), nominata Theatron da autori tardi (Esichio, Eustazio, ad Od. 5, 64, Suid. s.v. ‘Pratinas’), dove, evidentemente non a caso, Agrippa edificò il suo sontuoso Odeion. Appare plausibile che qui fosse il pioppo ricordato da Eustazio (Eustath. ad Od. 5, 64) e che Esichio pone presso lo hieron dove si montavano ta; i[kria : un’altra area dove, evidentemente, si erigevano spalti lignei provvisori, oltre a quella ricordata a proposito del santuario di Dioniso en Limnais. Ai tempi di Pausania, l’angolo nord-occidentale del Ceramico è caratterizzato da numerosi “relitti” dionisiaci (“la casa di Punizione ... consacrata a Dioniso … Melpomenos : la statua … del demone Akratos ; un sacello con statue di terracotta che raffigurano il re degli Ateniesi Anfizione mentre accoglie a mensa alcune divinità, tra cui anche Dioniso … e Pegaso di Eleutere, che introdusse il dio fra gli Ateniesi” : Paus, 1, 2, 4-5), che circondano l’altare dei Dodici Dei, come a ricordare l’originaria vocazione dionisiaca : forse, appunto, il Leneo. 1  





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4. A mo’ di conclusione Quanto esposto consente per lo meno di elaborare una sorta di cronologia relativa sulla definizione ad Atene degli spazi sacri a Dioniso. Probabilmente già dal vii sec., certamente nel corso del vi, s’impianta nell’area meridionale della città il santuario di Dioniso en Limnais, nel quale per la celebrazione delle Antestrie vengono approntati spalti provvisori lignei. A questo si affianca, almeno dal 534 a.C. (Tespi), quello di Dioniso Eleuthereus alle pendici meridionali, destinato alla celebrazione delle Dionisie, dove, dopo il 496 a.C., vennero allestiti i primi edifici teatrali stabili. Ma almeno dopo il 522 a.C., anno della dedica dell’Altare dei Dodici Dei, venne individuata anche un’altra area della città per l’esecuzione di danze e agoni ditirambici, dove poi si sarebbe sviluppato il Leneo, nell’Orchestra dove venivano allestiti anche spalti provvisori. Leneo ed Eleuthereus sarebbero coesistiti fino a Licurgo, quando le esecuzioni teatrali passarono definitivamente al nuovo teatro a pianta semicircolare 2. Prima della fine del i sec. a.C., poi, come testimonia Strabone, la bonifica delle paludi determinò la scomparsa del santuario en limnais, le cui funzioni – e la fama di più antico e venerabile santuario di Dioniso – passarono a Dioniso Eleuthereus, come attesta Pausania.  

Bibliografia Beazley 1956, J. D. Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painters, Oxford 19562. Carpenter-Mannack-Mendonça 1989, T. H. Carpenter - T. Mannack - M. Mendonça, Beazley Addenda. Additional References to ABV, ARV2 & Paralipomena, Oxford 19892. Despinis 1996-97, G. Despinis, ‘Il tempio arcaico di Dioniso Eleutereo’, Ann. scuola arch. it. Atene 74-75, 1996-97, pp. 193-213. Despinis 2003, G. Despinis, Hochrelieffriese des 2. Jahrhunderts n. Chr. aus Athen, Monaco 2003. Di Cesare 2010, R. Di Cesare, ‘Il Leneo’, in Greco 2010, pp. 170-171. Di Cesare 2010a, R. Di Cesare, ‘Lenee e Dionisie urbane’, in Greco 2010, pp. 171-173. 1  Kolb 1981 e Schnurr 1985, pp. 139-153. Nell’area dell’Agora arcaica, invece, pongono il santuario Despinis 2003 e Sourvinou-Inwood 2003. Insostenibile la tesi di Kotsidu 1991, che identifica il Leneo con Dioniso en Limnais, dato che questo era aperto un solo giorno all’anno. 2  Così Russo 1962.

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Di Cesare 2011, R. Di Cesare, ‘Il santuario di Dioniso en Limnais’, in Greco 2011, pp. 423-424. Dontas 1983, G. S. Dontas, ‘The True Aglaurion’, Hesperia 52, 1983, pp. 48-63. Dörpfeld 1895, W. Dörpfeld, ‘Die Ausgrabungen am Westabhange der Akropolis. ii. Das Lenaion oder Dionysos in den Limnai’, Ann. Midi 20, 1895, pp. 161-206. Dörpfeld 1921, W. Dörpfeld, ‘Das Dionysos in den Limnai und das Elanion’, Ann. Midi 46, 1921, 2001, pp. 81-104. Ficuciello 2008, L. Ficuciello, Le strade di Atene, Atene-Paestum 2008. Greco 2001, E. Greco, ‘Tripodes. Appunti sullo sviluppo urbano di Atene’, Ann. stor. ant. n.s. 8, 2001, pp. 25-28. Greco 2010 , E. Greco (ed., con la collaborazione di F. Longo e M. C. Monaco), Topografia di Atene. Sviluppo urbano e monumenti dalle origini al iii secolo d.C. i. Acropoli, Areopago, tra Acropoli e Pnice, Atene-Paestum 2010. Greco 2011, E. Greco (ed., con la collaborazione di F. Longo, D. Marchiandi, M. C. Monaco, R. Di Cesare e G. Marginesu), Topografia di Atene. Sviluppo urbano e monumenti dalle origini al iii secolo d.C. ii. Colline sud-occidentali - Valle dell’Ilisso, Atene-Paestum 2011. Greco-Osanna 1999, E. Greco - M. Osanna, ‘Atene’, in E. Greco (ed.), La città greca antica : istituzioni, società e forme urbane, Pomezia 1999, pp. 161-182. Hooker 1960, G. T. W. Hooker, ‘The Topography of the Frogs’, Journ. Hell. Stud. 80, 1960, pp. 112-117. Isler 1994, H. P. Isler, ‘Thorikos’, in P. Rossetto - G. P. Sartorio (edd.), Teatri greci e romani ii, Torino 1994, pp. 308-309. Isler 1994a, H. P. Isler, ‘Trachones (Euonymon ?)’, in P. Rossetto - G. P. Sartorio (edd.), Teatri greci e romani ii, Torino 1994, pp. 311-312. Kolb 1981, F. Kolb, Agora und Theater. Volks und Festversammlung, Mainz 1981. Kotsidu 1991, H. Kotsidu, Die musischen Agone der Panathenaen in archaischer und klassischer Zeit, Eine historisch-archäologische Untersuchung, Monaco 1991. Lippolis-Livadiotti-Rocco 2007, E. Lippolis - M. Livadiotti - G. Rocco, Architettura greca. Storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al v secolo, Milano 2007. Lippolis-Vallarino 2010, E. Lippolis - G. Vallarino, ‘Alkamenes. Problemi di cronologia di un artista attico’, in G. Adornato (ed.), Scolpire il marmo. Importazioni, artisti itineranti, scuole artistiche nel Mediterraneo antico. Atti del convegno di studio (Pisa, Scuola Normale Superiore, 9-11 novembre 2009), Milano 2010, pp. 251-278. Longo 2010, F. Longo, ‘Il c.d. Backheion e il santuario di età classica’, in Greco 2010, pp. 257260. Moretti 2000, J. C. Moretti, ‘Le théâtre du sanctuaire de Dionysos Eleuthéreus à Athènes, au ve siècle av. J.C.’, Rev. ét. gr. 113, 2000, pp. 275-298. Pala 2007, E. Pala, ‘Iconografia e mito. La figura di Arianna nella ceramica attica’, in S. Angiolillo - M. Giuman (edd.), Imago. Studi di iconografia antica, Cagliari 2007, pp. 139-182. Pickard-Cambridge 1968, A. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 19682. Polacco 1990, L. Polacco, Il Teatro di Dioniso Eleutereo ad Atene, Roma 1990. Russo 1962, C. F. Russo, Aristofane autore di teatro, Firenze 1962. Santaniello 2010, E. Santaniello, ‘Il santuario di Dioniso Eleuthereus : il tempio e il teatro’, in Greco 2010, pp. 166-169. Schnurr 1985, C. Schnurr, ‘Zur Topographie der Theaterstätten und der Tripodenstrasse in Athen’, Zeitschr. Pap. Epigr. 105, 1985, pp. 139-153. Simon 1983, E. Simon, Festivals of Attica. An Archaeological Commentary, Wisconsin 1983. Sourvinou-Inwood 2003, C. Sourvinou-Inwood, Tragedy and Athenian Religion, Lexington 2003. Travlos 1971, J. Travlos, Bildlexikon zur Topographie des Antiken Athenen, Tübingen 1971. Wheeler 1897, J. R. Wheeler, ‘An Attic Decree, the Sanctuary of Kodros’, Am. Journ. Archaeol. 3, 1897, pp. 38-49. Wycherley 1963, R. E. Wycherley, ‘The Scene of Plato’s Phaidros’, Phoenix 17, 1963, pp. 88-98.  





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GLI SPA ZI POLITICI

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PROTOSTOR I A DEL R ITR ATTO A D ATENE TR A V I E V SEC. A.C. : TIR A NNI E POETI *  

Car mine Catenacci

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Fenomenologia del ritratto

L

’eroe omerico è, nell’immaginario comune, bello e valente. Eppure, se si volesse dipingere il ritratto di un eroe sulla base dell’Iliade e dell’Odissea, non ne verrebbe fuori granché. Nei poemi omerici la bellezza è affermata piuttosto che descritta. Mancano caratteri fisici personali. Mancano soprattutto tratti specifici del volto. Dalla lettura dei testi si potrà ricavare ripetutamente che Menelao è biondo. Epiteti, più o meno tipici, sono attribuiti ad alcuni personaggi, specialmente femminili. Qualche elemento affiora in situazioni particolari, per esempio in relazione al vagheggino Paride, quando fa mostra della sua non proprio edificante condotta militare. 1 Ma non c’è molto di più. L’unica figura omerica cui è riservato il privilegio del ritratto è, com’è noto, Tersite, l’uomo più brutto (ai[scisto~ ajnhvr) che giunse sotto Ilio (Il. 2, 216) : anche questo, tutto sommato, un primato eroico. Per il resto, in Omero il bello è : pertiene agli eroi senza specifiche qualificazioni. Sembra quasi esistere un rapporto inversamente proporzionale tra sottolineatura della bellezza e valore militare. 2 In un geniale articolo del 1940 Giorgio Pasquali analizzava il fenomeno e concludeva che, da Omero sino alla prima età classica, i Greci “vedono e rappresentano come individuale solo ciò che si ribella alla norma, cioè il brutto ; il bello è per essi tipico”. 3 Pasquali prendeva spunto dalla lettura di un lavoro appena pubblicato in Germania : gli studi sulla formazione del ritratto greco dell’archeologo Bernhard Schweitzer. 4 Pasquali intuì subito l’importanza del saggio, destinato a entrare come testo miliare nella storia dell’arte classica. Ai Greci, sostiene Schweitzer, va riconosciuta l’invenzione del ritratto fisiognomico o realistico, inteso come riproduzione fedele delle fattezze fisiche di una persona ben determinata, di cui si mettono in rilievo anche aspetti peculiari del carattere. Ma l’epocale scoperta, continua Schweitzer, è da collocare intorno alla metà del iv secolo a.C. In precedenza, la rappresentazione della figura umana nell’arte greca si conforma non a individui, ma a tipologie e a modelli (il giovane, l’uomo maturo, l’atleta, lo stratego, e così via). Le statue dei kouroi, per fare un esempio, rispondono a tipi tradizionali, paradigmatici, non individuali. O nei dipinti su vasi, per fare un altro esempio, i personaggi si somigliano un po’ tutti, tanto che, là dove il rimando è a persone reali, sarebbe impossibile distinguere l’identità se non vi fossero i nomi iscritti.  















*  Si ringraziano per la gentile concessione delle immagini il Museo Archeologico Nazionale di Atene, il National Museum di Copenhagen, il British Museum di Londra e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. 1  Hom. Il. 3, 39 ss. ; 11, 385 (con lo scolio ad loc.). 2  Oltre Paride, cf. Il. 5, 787 ; 17, 142. 3  Pasquali 1940. 4 Schweitzer 1940.  



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Alla norma derogano alcuni soggetti, rappresentati con maggiore attenzione alle sembianze personali e atipiche : i vecchi e i personaggi marginali (bavnausoi, schiavi, tipi deformi, figure grottesche) ; i non greci (Egiziani, Neri, Pigmei, Sciti) ; gli esseri a metà tra condizione umana e ferina (Satiri, Centauri etc.). In queste manifestazioni del diverso e del brutto risiede, secondo Schweitzer, la preistoria del ritratto che trova le sue prime occorrenze nei Centauri delle metope del lato sud del Partenone e che tuttavia giungerà a maturazione solamente nel iv secolo. Inutile dire che la questione, sorta nella critica moderna già alla metà del xviii secolo e riaccesa dal saggio di Schweitzer, arriva in forme assai complesse fino ai giorni nostri, seguendo percorsi diversificati e accumulando una notevole bibliografia interdisciplinare che vanta interventi di illustre levatura. 1 Non ho intenzione di rifare la storia della critica sull’argomento. In questa sede ci si può limitare a dire, in linea generale, che oggi si tende a partiture temporali e a categorizzazioni meno rigide. Le scoperte archeologiche hanno allargato l’orizzonte delle conoscenze e messo in luce opere con caratteri ritrattistici di epoca anteriore al iv secolo. Il processo di formazione è inteso in maniera meno rettilinea e con maggiore attenzione alla pluralità delle forme espressive e delle loro funzioni storiche e culturali, come già indicavano alcuni esempi di pittura vascolare addotti da Franz Studniczka negli anni Venti del secolo scorso. 2 La stessa nozione di realismo può essere messa in discussione. Epoche e contesti differenti, condizionati dalle technai diffuse e dai propri habitus mentali, hanno maniere differenti di intendere un’opera come aderente al reale. Per semplificare con un confronto estremo che mette in gioco le nostre consuetudini estetiche di percezione e riproduzione della realtà, si può dire che a poche technai oggi è comunemente attribuita la capacità di ritrarre la realtà come alla fotografia. Così, la corrente artistica contemporanea, che va sotto l’etichetta di Iperrealismo, ha come oggetto primario la riproduzione fedelissima, “più vera del vero”, di scatti fotografici attraverso la pittura o la scultura. Ma, al di là di ogni possibile osservazione sugli aspetti soggettivi e artificiali dell’occhio fotografico, non è difficile avanzare dubbi sul fatto che sia davvero reale ciò che dura soltanto un istante e, conseguentemente, che sia realistico ciò che rappresenta quell’istante. Come avrebbe detto Roland Barthes, “che il soggetto ritratto sia o non sia già morto”, ogni fotografia incarna “la catastrofe della morte” : un momento esistito, ma già irrecuperabilmente scomparso. 3 Per i Greci antichi, al contrario, la realtà e la sua rappresentazione verbale e figurativa sono legate al kleos e allo mnema. Esse sono protese proprio verso il superamento della dimensione contingente, pur facendo riferimento a una persona o a un fatto concreti. La mimesi, che è il fondamento d’ogni creazione d’arte greca, non è mai semplice rispecchiamento del mondo, ma imitazione e riproduzione del reale attraverso la selezione e la combinazione di aspetti significativi. 4 Nella rappresentazione della persona, l’operazione mimetica tende a unire ai tratti del singolo quelli più generali, durevoli e socialmente condivisi della realtà inerente allo stesso soggetto (la classe d’età, lo status familiare e sociale, le azioni pubblicamente rilevanti, il tipo di morte).  





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1  Nella smisurata bibliografia mi limito a citare i seguenti studi ai quali si rinvia per ulteriori indicazioni : Richter 1984 ; Bianchi Bandinelli 1968 ; Torelli 1979 ; Fittschen 1988 ; La Rocca 1988 ; Zanker 1995 ; Picozzi 1996 ; Giuliani 1997 ; Santoro Bianchi 2002 ; Dillon 2006 ; Jaeggi 2008. 2  Studniczka 1928-29, p. 128 ss. 3  Barthes 2003, p. 95 s. 4  Sul concetto di mimesi vd. Gentili 2006, p. 86 ss.  





















protostoria del ritratto ad atene tra vi e v sec. a.c.

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Dunque, se si analizza il fenomeno dal punto di vista storico-culturale, appare riduttivo limitare il discorso al cosiddetto ritratto fisiognomico che si basa sui soli criteri della somiglianza fisica e della connotazione psicologica, e non anche su altri mezzi di identificazione che attingono a un più articolato sistema di elementi sociali e personali di riconoscimento. La nozione di unicità somatica, che fonda la moderna concezione occidentale dell’io e della sua rappresentazione, ha origine nel mondo greco e romano, ma convive e coopera, soprattutto nella Grecia arcaica e classica, con diversi strumenti di affermazione dell’identità personale e della sua espressione mimetica. 1 Un principio, insomma, di riconoscibilità sociale piuttosto che di esclusiva riconoscibilità somatica e fisiognomica. Fatta questa cursoria ma necessaria premessa terminologica e metodologica, passiamo al tema specifico della nostra discussione. Immagini di uomini – scolpite, dipinte, ma anche affidate alla poesia e, più in generale, alle parole – pervadevano gli spazi condivisi della polis : l’agora, i luoghi di riunione, di culto e di sepoltura, ma anche i contesti festivi e celebrativi, le occasioni rituali, i simposi. Anche questi ultimi costituiscono, com’è evidente, spazi comunitari e identitari, anche se circoscritti, e pur tuttavia proiettati verso l’esterno, soprattutto attraverso il komos. In un così ampio campo d’indagine noi centreremo il nostro sguardo su un luogo e su un periodo precisi. Il luogo è Atene. Il periodo è lo snodo tra il vi e il v secolo a.C. : un’epoca che presenta significativi aspetti d’innovazione nella storia della rappresentazione della persona. Naturalmente non abbiamo pretese di esaustività : diverse opere, riconducibili al discorso sul ritratto e anche all’epoca in questione, non potranno essere prese in considerazione. 2 Più specificamente ci occuperemo di due figure : il tiranno, in particolare Pisistrato ; il poeta, in particolare Anacreonte. Faremo interagire parole e immagini, testimonianze letterarie e documenti archeologici, naturalmente nel presupposto consapevole della differenza dei codici espressivi e delle diverse funzioni d’uso di ciascun genere artistico. Un confronto spesso accennato, ma non sempre esplorato in profondità e ancora aperto, credo, a risultati originali.

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L’immagine del tiranno Gli studi sul ritratto chiamano talvolta in causa la tirannide. Di solito il nesso è indicato nell’individualismo, in particolare di matrice ionica, che è sottinteso sia al fenomeno storico della tirannide sia alla manifestazione artistica del ritratto. Il rapporto è esteso al contemporaneo sviluppo del genere narrativo e letterario della biografia. Tanto il ritratto quanto la biografia sono interessati a delineare i tratti caratteristici di singole personalità ; tanto l’uno quanto l’altra si legano, nelle prime fasi, ai tiranni. 3 Il nesso è prospettato anche in relazione a testimonianze archeologiche. Tra le prime rappresentazioni orientate in senso individuale, sebbene ancora improntate a tipi, vi è una testa barbata coperta di tiara, ritrovata ad Eraclea Pontica e datata al 540-30 cir 



1  Tra le più recenti formulazioni di quest’idea Neer 2002, p. 96 s. 2 Dagli iconicos duces della battaglia di Maratona dipinti nella Stoà Poikile (Plin. Nat. hist. 35, 57), per esempio, a Elpinice, sorella di Cimone, rappresentata sotto le spoglie di Laodice nell’Ilioupersis di Polignoto (Plut. Cim. 4) sino alle statue ‘iconiche’ degli atleti (Plin. Nat. hist. 34, 16). 3  Torelli 1979, p. 457 ; Santoro Bianchi 2002, p. 98 s. ; su tirannidi e biografia vd. Momigliano 1974 e Musti 1987.  



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ca. 1 È assai probabile che si tratti dell’immagine di un signore del luogo, governato in quegli anni da tiranni sotto l’influenza persiana. Tra i casi prodromici di rappresentazioni orientate in senso individuale in terra greca figurano le sculture note come cavaliere Rampin 2 e testa Sabouroff. 3 Quanto al primo, rinvenuto sull’Acropoli e datato al 550 a.C. circa, una celebre proposta identifica nella figura, che probabilmente era affiancata da un altro cavaliere, un figlio di Pisistrato insieme col fratello. Il nome dello stesso Pisistrato è stato avanzato per l’altra scultura : la testa Sabouroff (540 a.C. circa, da Atene o da Egina). In verità, attribuzioni di questo genere sono tanto affascinanti quanto ipotetiche. Si rischia di spiegare tutto, in maniera circolare, in funzione e in ragione delle poche informazioni che possediamo. La prudenza è d’obbligo. Tuttavia è un dato di fatto che per il cavaliere Rampin, e forse anche per la testa Sabouroff, l’Atene pisistratea sia lo sfondo storico. Ed è un dato di fatto che le corti dei tiranni furono un’ineguagliabile luogo di incontro e di committenza per artisti, poeti, celebrità della scienza e dell’ingegno. 4 Tali ambienti, marcati dalle spiccate personalità accentratrici dei singoli tyrannoi e animati dai principali artefici e intellettuali dell’epoca, furono il crocevia di esperienze espressive e tecniche, esperimenti e novità. Valga il caso di Teodoro di Samo, poliedrica figura di scultore, toreuta, architetto e inventore (gli è attribuita l’invenzione della fusione in bronzo per la scultura). Fu attivo alla corte di Policrate e fabbricò, tra le altre cose, l’anello cui il tiranno samio era affezionatissimo, come ricorda Erodoto nel celebre logos. 5 Teodoro fu autore di un autoritratto bronzeo, “noto – scrive Plinio il Vecchio – per la grande finezza artistica oltre che per la mirabile somiglianza”. 6 Un’autorappresentazione in cui l’identità era rivendicata anche mediante uno strumento caratterizzante il suo lavoro e quindi il suo ruolo pubblico : la lima che teneva nella mano sinistra. Se scendiamo ai primi decenni del v secolo a.C. e torniamo in Attica, troviamo una delle prime opere alle quali è riconosciuto concordemente (o quasi) il titolo di ritratto fisiognomico : l’erma di Temistocle, copia romana (ii sec d.C.) di un originale datato al 470 a.C. circa. 7 A quell’epoca ad Atene, da più di una trentina di anni, vige ormai il governo dell’isonomia. Temistocle è uno dei più brillanti leader della giovane democrazia ateniese. Tuttavia non sembra un caso che la scultura riguardi proprio lui. La testimonianza archeologica s’incrocia con informazioni storiche. Plutarco riferisce che, nel discusso tempio eretto ad Artemide Aristobule, si conservava una piccola statua di Temistocle dalla quale appariva che egli aveva non solo l’animo da  





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1  Ankara, Museum of Anatolian Civilizations 19367 ; Akurgal 1986, p. 9 ss. ; tabb. 4-5 ; cf. Schefold 1997, pp. 27 ; 484 ; Abb. 7. 2  Paris, Musée du Louvre Ma 3104 (testa) ; Atene, Museo dell’Acropoli 590 (corpo e cavallo). Sulla proposta di identificazione con Ipparco e Ippia vd. Kleine 1973, p. 32 ss. ; Kyle 1987, p. 221 ; Eaverly 1995, p. 78. 3  Berlin, Staatliche Museen, Antikensammlung 308 ; cf. Kleine 1973, p. 40 ss. ; Schefold 1997, pp. 24 ; 483 s. ; Abb. 6. 4  Vd. Catenacci 2012, p. 185 ss. 5  Hdt. 3, 41, 1 ; Paus. 8, 14, 8. 6  Plin. Nat. hist. 34, 83 (trad. S. Ferri). Altre notizie sulla multiforme attività di Teodoro in Hdt. 1, 51, 3 ; 7, 27 ; Plin. Nat. hist. 7, 198 ; 35, 152 ; 36, 90 ; Diod. Sic. 1, 98 ; Paus. 3, 12, 10 ; Athen. 12, 514f ; Diog. Laert. 2, 103. 7  Ostia, Museo Ostiense 85 (foto in Picozzi 1996, p. 742). La controversia critica sulla datazione e sulla fisiognomicità originale della statua è ampia e articolata, spesso negativamente condizionata dal preconcetto dell’impossibile caratterizzazione in senso individuale prima del iv sec. a.C., non diversamente da casi analoghi quale il celebre ‘filosofo’ di Porticello (cf. Podlecki 1975, p. 143 ss. e Picozzi 1996 con bibliografia).  









































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eroe, ma anche l’aspetto. 1 Se la statua di cui parla Plutarco sia in relazione archetipica con il busto di Ostia è questione discussa. 2 Comunque, emerge uno speciale interesse di Temistocle per il ritratto. 3 A questo interesse si possono affiancare lo spiccato protagonismo politico e una serie di suoi tratti comportamentali, che non sarebbe improprio definire tirannici secondo la mentalità antica : la scaltrezza, la spregiudicatezza e la dissimulazione nella vita pubblica ; le qualità personali prima ancora che il lustro familiare ; la struttura della sua biografia ; i rapporti con il Gran Re di Persia ; i sospetti sulle mire tiranniche. 4 Luci che proietteranno ombre sempre più lunghe sino all’ostracismo e al soggiorno finale presso la corte persiana, non diversamente da quanto era accaduto a Ippia pochi anni prima. Non è possibile misurare quanto davvero l’inclinazione di Temistocle a farsi rappresentare fosse parallela ad aspirazioni tiranniche. Ma certamente essa rientra nel quadro di un’azione e di una figura politica chiaramente marcate in senso personalistico. È sintomatico che, nella Vita plutarchea, le considerazioni sull’eccesso di potere e prestigio che portano all’ostracismo (Them. 22, 4) siano immediatamente successive alla notizia sull’eikonion. La vicenda di Temistocle richiama, per alcuni aspetti, quella del suo omologo spartano nella vittoria antipersiana : Pausania. Dopo la vittoria, anche quest’ultimo cadde in disgrazia, accusato di medismo e di comportamenti autocratici. Gli Spartani, come afferma Tucidide, non avevano indizi chiari delle sue deviate ambizioni politiche, ma adducevano a sostegno dell’accusa l’iscrizione personale che Pausania aveva fatto apporre sul tripode offerto a Delfi. 5 Iscrizioni e sculture votive, scrittura-firma e immagine-ritratto : due forme della comunicazione pubblica che, utilizzate in chiave personalistica da Pausania e da Temistocle, rendono entrambi sospetti di ambizioni tiranniche. La conferma esplicita del legame tra mire tiranniche ed esibizione artistica della propria immagine verrà più tardi dall’uso sfrontato che ne farà Alcibiade alla fine del v secolo. Nella storia di Alcibiade tutto è smodato e ostentato in maniera, si direbbe, provocatoria. Non fa eccezione a questa regola l’appropriarsi intenzionale e sfrontato di tratti che, nell’opinione pubblica, contrassegnano la figura del tiranno. 6 Una notizia riguarda il nostro tema. Ad Atene due dipinti ritraevano Alcibiade : in uno, Olympìas e Pythìas, personificazioni dei giochi olimpici e pitici, lo incoronavano ; nell’altro, opera del pittore Aristofonte, Nemea teneva sulle sue ginocchia il bell’Alcibiade. 7 Inequivocabile la reazione degli ateniesi anziani : essi si indignarono, scrive Plutarco (Alc. 16, 5), di fronte a tali cose “tipiche dei tiranni e contro la legge”. Del resto, un’altra testimonianza sembra ribadire, per contrasto, il nesso tirannideritratto. Demostene rivendica il fatto che ad Atene il privilegio del ritratto onorario fu concesso soltanto ai tirannicidi (Adv. Lept. 70). Quasi uno spossessamento e un rovesciamento simbolico del diritto all’effigie personale, per quanto ancora ispirata  















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1  Plut. Them. 22, 3. 2  A favore della relazione Metzler 1971, p. 182 ss. 3  Si consideri anche l’episodio di cui è protagonista con Simonide in Plut. Them. 5, 7 (vd. infra, p. 70) ; per le altre rappresentazioni antiche di Temistocle vd. Richter 1984, p. 210 s. cui si aggiunga una statua eretta a Gades (vd. Bonnet 1987). 4  Diod. Sic. 11, 42, 4 ; vd. Torelli 1979, p. 444 s. e n. 179 (con bibliografia). 5  Thuc. 1, 132, 1 ss. ; su tiranni e scrittura vd. Catenacci 2012, pp. 191 s. ; 158 n. 15 (su Temistocle). 6  Thuc. 6, 15, 4 ; Plut. Alc. 34, 7 ; altre informazioni in Catenacci 2012, pp. 18 ; 45 n. 30 ; 141 ; 190 n. 200. 7  Satiro ap. Athen. 12, 534d ; Paus. 1, 22, 7 ; Plut. Alc. 16, 5.  





















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a tipi ideali come quella di Armodio e Aristogitone. Il ritratto pubblico spetta non al tiranno, bensì significativamente ed esemplarmente ai suoi uccisori. Pisistrato e i mazzieri Licopodi Ma torniamo a tyrannoi in carne e ossa, non aspiranti o presunti tali. Un’anfora a figure nere, attribuita al Pittore dell’Altalena e datata al 530 a.C. circa, raffigura un uomo anziano preceduto da tre uomini (due con barba e uno senza barba) armati di bastoni (Fig. 1). 1 L’immagine è inusuale sia nell’impianto generale sia in alcuni elementi specifici, come la clava che normalmente appartiene a episodi mitici piuttosto che a scene reali o quotidiane. È irresistibile l’ipotesi che l’anziano signore a sinistra sia, come è stato supposto, Pisistrato. 2 Sappiamo da Erodoto e da altre fonti che il tiranno ateniese era accompagnato da speciali guardie del corpo che erano dette non dorifori, ma korynephoroi (“mazzieri”) proprio perché avevano la peculiarità di seguirlo sempre armati di bastone. 3 Oltre al chiaro uso militare, l’arma che distingue le guardie di Pisistrato potrebbe caricarsi di un significato simbolico, se coglie nel segno, com’è plausibile, l’ipotesi di John Boardman che attribuisce alla propaganda pisistratea la costruzione del parallelismo tra Eracle e il tiranno, con il conseguente cospicuo sviluppo dei temi artistici relativi a Eracle sulla ceramica attica del vi secolo. 4 Un parallelismo al quale non si sottrarrebbe neppure la clava come arma caratteristica. Ma c’è un altro punto di grande interesse che, mi pare, sia finora sfuggito. I korynephoroi di Pisistrato erano contraddistinti anche da un altro speciale nome : Licopodi (“Piedi di lupo”). E allora è un caso che i tre mazzieri del nostro vaso portino sul braccio sinistro una pelle di animale, e si direbbe una pelle di lupo, di cui si distinguono le zampe ? Le ragioni dell’appellativo Licopodi erano discusse già nell’antichità. Due le ipotesi principali : o perché le guardie avvolgevano i piedi con pelli di lupo o perché avevano un lupo come emblema sugli scudi. 5 L’immagine vascolare non coincide con nessuna delle due spiegazioni. Forse non va tralasciato che i sostenitori più fedeli di Pisistrato provenivano dalla regione più interna e montuosa dell’Attica. 6 Come per gli Egipodi (gli uomini “Piedi di capra”) della Scizia, 7 la denominazione potrebbe rinviare alle pellicce usate da queste genti (il primo dei korynephoroi avvolge la pelle attorno alle spalle) e, dunque, alla loro natura montanara e liminale. Un uso originario che assume poi valenza simbolica e identitaria : l’indumento tipico di quel gruppo diventa una sorta di ‘divisa’, per così dire, che contraddistingue, insieme col randello, le guardie del corpo del tiranno con funzioni di ordine interno alla comunità cittadina, al posto di armi da guerra vere e proprie quali armi da taglio e scudo. Inoltre i korynephoroi portano la pelliccia sul braccio sinistro a mo’ di scudo : di qui forse – ma siamo nel campo delle più pure ipotesi – il passaggio metasemico da indumento e oggetto della panoplia all’emblema. 8  

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1  Atene, Museo Archeologico Nazionale 15111 ; cf. Kaltsas 2006, p. 118, n. 42. 2  Vd. Böhr 1982, p. 48. 3  Hdt. 1, 59, 5 ; Arist. Ath. Pol. 14, 1 ; Plut. Sol. 30, 3 ; Diog. Laert. 1, 66 ; Poliaen. Strat. 1, 21, 3 ; schol. Plat. Resp. 566b ; cf. Suda s.v. korunhfovroi. 4  Boardman 1972. 5  Schol. Ar. Lys. 665 ; cf. Perusino 1998. 6  Hdt. 1, 59, 3 ; Arist. Ath. Pol. 13, 4 ; Pol. 1305 a ; Plut. Sol. 13, 2 ; 29, 1. 7  Hdt. 4, 25, 1 con il commento di Corcella 1993, p. 253 ; su pellicce di lupo e milizie cf. Paus. 4, 11, 3. 8  Un processo non dissimile di sovrapposizione tra armamento reale, scudo ed episema è in Erodoto  

























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In ogni caso, al di là delle origini dell’appellativo, è straordinario il riscontro che l’anfora del Pittore dell’Altalena offre alle notizie antiche in merito a bastoni, pelli di lupo e guardie del corpo di Pisistrato. Un riscontro straordinario e una preziosa immagine della realtà storica ateniese del vi secolo. Voglio segnalare rapidamente altri due aspetti che legano il tiranno, in particolare Pisistrato, con la sfera della mivmhmi~ e della oJmoiovth~, che sono alla base del processo di rappresentazione della persona. Nelle prime due occasioni in cui Pisistrato conquista il potere, egli ricorre all’imitazione e all’artifizio. Nella prima, egli finge di essere stato ferito dai suoi avversari e ottiene così la guardia del corpo. 1 Non senza ragioni, in alcune fonti, Solone pronuncia una condanna parallela della messinscena di Pisistrato e delle finzioni sceniche della tragedia. 2 In particolare, poi, quando sale al potere la seconda volta, l’aspirante tiranno fa vestire una ragazza molto bella e alta (più di un metro e settanta) con l’abbigliamento di Atena e le insegna la posa solenne (sch`ma eujprepevstaton) della dea. 3 Quindi la donna è portata per la città su un carro ; la precedono araldi che esortano gli Ateniesi ad accogliere il tiranno, ricondotto in patria dalla stessa dea poliade. L’episodio si presta a diverse osservazioni e letture. Ma ciò che a noi qui preme è il rapporto di somiglianza e imitazione tra persona e opera figurativa, anche se in senso inverso rispetto al consueto. La ragazza conforma il proprio atteggiamento a immagini della dea, quasi certamente a una statua. Non è l’opera che riproduce la realtà, ma la realtà che riproduce l’opera. L’artefice è Pisistrato. L’altro punto di contatto tra tiranno, criteri di somiglianza e tratti somatici è tramandato da Plutarco (Per. 7, 1). In giovinezza Pericle si comportava in maniera prudente col popolo, poiché ricordava nell’aspetto Pisistrato, e gli anziani erano profondamente colpiti dalla somiglianza della voce e dell’eloquio. Questa oJmoiovth~ fisica rientra nella più ampia caratterizzazione di Pericle come tyrannos, che trova diverse attestazioni, soprattutto nella commedia. 4 In linea di principio, un ottuagenario ai tempi del giovane Pericle (diciamo intorno al 470) poteva effettivamente aver conosciuto Pisistrato (morto nel 528/7). Comunque lo spunto, che ritengo più interessante e forse meriterebbe un approfondimento, è la conservazione per così dire ‘orale’ delle sembianze fisiche in assenza di una riproduzione per così dire ‘scritta’, ovvero dipinta o scolpita, dell’aspetto e dei tratti somatici di una persona. Un’antropologia della memoria fisionomica, ancora da studiare, alla quale partecipa in maniera rilevante il tiranno.  

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Anacreonte e i “vasi anacreontici” Ma se devo scegliere una figura di età tardoarcaica attorno alla quale s’intersecano testimonianze letterarie e documenti iconografici, questi è un poeta : Anacreonte. Tre vasi attici a figure rosse, datati tra il 520 e il 500, lo raffigurano. L’identificazione  

(9, 74). Di Sofane si raccontava che portasse un’àncora legata alla corazza che egli piantava a terra per non retrocedere ; ma, secondo un’altra versione, Sofane non portava l’àncora incatenata alla corazza, bensì effigiata sullo scudo. Dunque, al di là della veridicità delle versioni, un processo di identificazione analogica tra un pezzo dell’armamento e l’emblema sullo scudo. 1  Hdt. 1, 59, 4 ; vd. anche Arist. Ath. Pol. 14,1 ; Diog. Laert. 1, 66. 2  Plut. Sol. 29, 7 s. ; Diog. Laert. 1, 60. 3  Hdt. 1, 60, 4. Sulle valenze specifiche di sch`ma in questa scena vd. Catoni 2005, p. 105 s. 4  Vd. Catenacci 2012, p. 18 e n. 34. Per il topos della somiglianza tra tiranni cf. Plut. Arat. 3, 5.  







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è assicurata dall’iscrizione. Non si tratta di un unicum. Anche il nome di Solone appare accanto a un personaggio in una scena di komos su una coppa di Oltos del 515 circa. 1 E, soprattutto, Saffo (una volta con Alceo) diventa soggetto ricorrente della ceramica attica a partire dagli ultimi anni del vi secolo. 2 Ma è evidente la differenza. Solone, Saffo e Alceo sono ormai morti, da tempo. Gli ultimi due, inoltre, non avevano mai messo piede ad Atene : queste rappresentazioni sono gli antenati dei cosiddetti ritratti di ricostruzione. Anacreonte invece è vivo, e vive in quegli anni proprio ad Atene. Un caso similare è quello di Cidia : un poeta di cui sappiamo pochissimo, 3 ma che troviamo per ben due volte sulla ceramica ateniese poco prima del 500 a.C. 4 Un dato che, se ce ne fosse bisogno, induce ulteriormente alla prudenza, a non dimenticare mai i sentieri imperscrutabili della tradizione e i limiti delle nostre conoscenze. Il primo vaso con Anacreonte è una coppa dipinta da Oltos intorno al 515. 5 È una scena di komos. Anacreonte, con una vistosa corona di pampini di vite, è impegnato in un’esecuzione poetica. Due giovani si muovono verso di lui. Accanto al primo si legge NU(M)FES ; accanto all’altro poche tracce di scrittura (...ON). Sul lato B vi sono due amazzoni che fuggono da Eracle, mentre nel tondo vi è una ragazza nuda che si allaccia un sandalo : un tema che non può non far venire in mente il carme della ragazza di Lesbo col suo sandalo variopinto (13 Gent. = 358 Page). In ogni caso, su questa coppa Anacreonte non è distinto dal tipo comune del comasta. Meno generica è la rappresentazione su una lekythos del pittore di Gales (490 a.C. circa), piuttosto danneggiata. 6 Riusciamo a vedere Anacreonte che nuovamente incede avendo in mano la barbitos durante un komos. Ancora due giovani, tema centrale della sua poesia, sono con lui ; uno lo precede e l’altro lo segue. Dalle tracce si evince un’acconciatura piuttosto elaborata. Il poeta cinge una corona e sembra portare il sakkos ; lunghe e curate ciocche di capelli gli cadono sulle spalle. Indossa una fluente tunica sotto il mantello. Per diversi aspetti questa lekythos richiama il terzo oggetto in esame : i frammenti di un cratere del pittore di Kleophrades (500 a.C. circa). 7 Sul lato A è rappresentato un simposio. 8 Sul lato B un komos (Fig. 2). Ad esso partecipano quattro personaggi. Si vedono le parti finali dei chitoni e i piedi che calzano stivaletti. Un altro frammento conserva la testa di un comasta barbato : indossa tunica e mantello, ha al collo una corona di edera, porta un copricapo a turbante e ombrellino parasole. Come mostrano il capo gettato all’indietro e i segni (IOOO) iscritti vicino alla bocca, sta cantando. Un ulteriore frammento mostra parte del corpo di un uomo che tiene nelle mani la barbitos e il plettro. Nella sfortunata ricezione frammentaria del vaso, siamo tuttavia fortunati. Il pezzetto di ceramica conserva una notizia preziosa. Su un braccio della barbitos si legge ∆Anakrevwn. La scena rappresenta un komos a cui  











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1  London, British Museum E19 ; cf. Schefold 1997, p. 80 s. 2  Sull’iconografia di Saffo, oltre ai lavori di Richter 1984 e Schefold 1997, vd. ora soprattuttoYatromanolakis 2007. 3  Cf. Plat. Charm. 155d e forse in Ar. Nub. 966 s. 4  München, Staatliche Antikensammlungen 2614 ; London, British Museum E767 ; cf. Shapiro 1982. 5  London, British Museum E18 ; cf. Schefold 1997, p. 76 s. 6  Siracusa, Museo Archeologico P. Orsi 26967 ; cf. Schefold 1997, p. 76 s. 7  Copenhagen, National Museum 13365. 8  Sulla ricostruzione di questo simposio si veda Immerwahr 1965.  









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partecipano Anacreonte e i suoi gaudenti amici, booners, secondo una denominazione in voga. 1 A questi tre vasi col nome iscritto è spesso aggiunto, tra gli altri, un piatto a figure nere di Psiax (515 a.C. circa) in cui è dipinto un uomo barbato che danza accanto a una suonatrice di aulo. 2 Lo speciale abbigliamento (chitone, mantello, copricapo, stivaletti) del personaggio maschile, l’elegante barbitos che ha in una mano (l’altra mano solleva una coppa) e, al tempo stesso, il vivace movimento di danza conferiscono all’immagine una plasticità e una peculiarità che hanno indotto a identificare la figura con Anacreonte. Si può anche ricordare che, alla metà del xix secolo, Samuel Birch, in modo più estemporaneo, aveva proposto di identificare Anacreonte come protagonista di alcuni dipinti vascolari. Si tratta del tipo che raffigura il suonatore di barbitos, vestito col solo mantello, in compagnia di un cagnolino, mentre sull’altro lato vi è un giovane che solleva un’anfora. 3 Birch interpretava questa immagine alla luce di una storia ricordata da Tzetzes nelle Chiliades. 4 Una emblematica e triste storia di fedeltà, perché il cane di Anacreonte custodì per giorni, fino al ritorno del padrone, i beni acquistati dal poeta e dimenticati per strada dal suo schiavo, ma la povera bestiola, per fare la guardia, non mangiò e morì. In quest’ottica il giovane sul lato B sarebbe lo schiavo sbadato. Ma torniamo al cratere del Pittore di Kleophrades. John Beazley ha messo in relazione quest’opera con un più ampio gruppo di vasi prevalentemente a figure rosse, prodotti tra il 520 e il 460 circa, in cui sono ritratti personaggi connotati dallo stesso abbigliamento peculiare, inusuale e ricercato : chitone lungo e mantello ; copricapo a turbante, sakkos o mitra ; spesso calzature alte e morbide ; anche orecchini e ombrellino. 5 Ad essi si accompagna frequentemente un suonatore di barbitos. Molte delle figure dipinte hanno in mano vasellame da simposio. Secondo Beazley, queste scene rappresentano Anacreonte e i suoi amici di bevute. Di qui la definizione complessiva della serie come “vasi anacreontici”. Più in generale e in una fase seguente, essi avrebbero potuto rappresentare – concludeva Beazley – non tanto o non solo Anacreonte in persona e i suoi amici quanto gli allegri compagnoni dei bei tempi andati. Nell’insieme, circa cinquanta esemplari sono riconducibili alla tipologia. 6 Nessuno si sorprenderà se dico che si tratta di ceramica destinata al simposio. Il simposio era il regno di Anacreonte e delle sue canzoni. Su circa una ventina è presente un poeta musico. L’interpretazione dei vasi cosiddetti anacreontici ha sollevato varie questioni. In estrema sintesi : il soggetto è davvero Anacreonte ? Gli abiti indossati dai  

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1  Si è obiettato che l’iscrizione su un oggetto raramente identifica il personaggio cui l’oggetto è vicino o appartiene. L’osservazione è genericamente valida, ma non mancano precisi confronti, soprattutto quando l’oggetto, come nel caso della barbitos e di Anacreonte, è strettamente connesso al personaggio (vd. KurtzBoardman 1986, p. 68 s. e n. 148). In ogni caso, che individui la persona o lo strumento, è indubbio che l’iscrizione designa un contesto anacreonteo. Nella descrizione del cratere, va aggiunto che il tra petto del personaggio e la barbitos si legge A[ : difficilmente si tratta della duplicazione del nome ∆Anakrevwn. 2  Basel, Antikenmuseum Kä 421 ; vd. Schefold 1997, p. 78 s. 3  Si prenda l’esemplare ora a London, British Museum E26 ; vd. Birch 1844. 4 Tzetz. Chil. iv p. 129 Kiessling ; in Eliano, De nat. an. 7, 29 padrone del cane è un uomo di Colofone. 5  Beazley 1954. 6  Per il catalogo vd. Kurtz-Boardman 1986 più Miller 1999, p. 230 e n. 27 cui si rinvia, insieme con Price 1990, per una puntuale rassegna delle numerose e diverse interpretazioni nella storia degli studi.  







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barbuti personaggi sono femminili ? Dunque siamo di fronte a scene di travestitismo ? E quale sarebbe il loro eventuale significato (un gioco post-simposiale, un’occasione cultuale) ? Oppure, senza nessun riferimento al travestitismo, il poeta ionico e i suoi compagni sono attori di rappresentazioni protocomiche e caricaturali (“a popular burlesque”) ? 1 E in che misura il dionisismo, che traspare da elementi come il vino e il chitone appartenente all’iconografia di Dioniso, interferisce con tutto questo ? 2 Negli anni recenti è prevalsa la tendenza a sganciare i vasi detti anacreontici dalla persona di Anacreonte. Tuttavia, personalmente continuo a condividere l’opinione di coloro che ritengono che l’improvvisa fioritura della tipologia iconografica rifletta la personalità e la presenza di Anacreonte ad Atene. Il suo arrivo in Attica fu clamoroso già nelle modalità con cui si svolse. Ipparco si preoccupò di mandare una nave pentencontere a prelevarlo a Samo quando il tiranno Policrate fu ucciso nel 522. 3 Anacreonte portò ad Atene il fiore della poesia lirica di area orientale e, insieme, aspetti del mondo e della vita che s’intrecciavano ad essa, non solo del vestiario (la barbitos normalmente dipinta sui nostri vasi, per esempio, è di tipo ionico). 4 Il longevo poeta (morì a 85 anni intorno al 485 a.C.) lasciò un segno profondo nella società attica. Frequentò i gruppi più in vista della città e animò i loro conviti, tra cui quelli di Crizia, come ancora echeggerà nei bei versi di Crizia il Giovane (fr. 8 Gent.-Pr.) verso la fine del v secolo. La sua memoria rimase viva nei simposi ateniesi per decenni. 5 E sull’acropoli si ergeva, com’è noto, una statua di Anacreonte, accanto a quella di Santippo, padre di Pericle. 6 L’arrivo del famoso poeta e, con lui, di alcuni suoi compagni fornisce una risposta valida se ci si interroga sulle ragioni della diffusione massiccia e simultanea di novità così vistose, soprattutto nell’abbigliamento, sui vasi degli anni Venti del vi secolo rispetto ai costumi attici e al tipico simposiasta/comasta, rappresentato nudo o seminudo. Spiccano il chitone ionico, le varie forme di copricapo orientaleggiante, gli stivaletti morbidi, gli orecchini e l’ombrellino. Le indagini degli ultimi anni hanno mostrato come questi elementi eccentrici appartengano all’abbigliamento orientale e, più precisamente, alla moda lidia ripresa dai Greci di Ionia. È ormai un dato acquisito che essi sono portati anche da uomini e non sono esclusivamente femminili. 7 Tuttavia, non è in contrasto con questa realtà l’ipotesi che tali abiti e accessori della moda lidia e ionica potessero essere reinterpretati nella mentalità comune ateniese, proprio per la aJbrovth~ che incarnavano e per la loro natura raffinata ed esotica, come segni di delicatezza ed effeminatezza. Questo significato ambiguo, in effetti, attribuirà loro Aristofane nelle Tesmoforiazuse (v. 95 ss.) L’abbigliamento di Agatone,  













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1  Price 1990. 2  Sull’elemento dionisiaco richiamano particolarmente l’attenzione Frontisi-Ducroux - Lissarrague 1983. 3  Ps.-Plat. Hipp. 228c ; cf. Arist. Ath. Pol. 18, 1. 4  L’invenzione della barbitos è attribuita ad Anacreonte in Athen. 4, 175. 5  Come testimonia Aristofane, Thesm. 161 ; fr. 235 K.-A., ma anche Av. 1372/3. 6  Paus. 1, 25, 1. In questa sede non è possibile addentrarsi nella discussione di questa importante testimonianza. La statua descritta da Pausania è normalmente identificata con copie di epoca romana, in particolare con l’erma (recante l’iscrizione ∆Anakrevwn lurikov~) ora presso il Museo nuovo dei Conservatori a Roma (838) e con la statua a corpo intero che si trova a Copenhagen (NY Carlsberg Glyptothek I n. 491) : la datazione dell’originale è fatta risalire alla metà circa del v sec. a.C. (Schefold 1997 p. 102 s. ; Richter 1984, p. 85 ; ma Sismondo Ridgway 1998 ha tentato di rimettere in discussione la cronologia e l’identificazione). Una nuova interpretazione, nel solco della datazione tradizionale alla metà del v sec. a.C., in Shapiro 2012. 7  Kurtz-Boardman 1986 (con bibliografia).  









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caratterizzato proprio da capi del corredo anacreontico (copricapo a turbante, fascia, calzature eleganti, chitone elaborato e mantello, barbitos), ha una doppia valenza : segnalare l’ambiguità sessuale del personaggio e, al contempo, la sua vanagloriosa pretesa a collocarsi nel solco di poeti quali Ibico, Anacreonte e Alceo che, afferma lo stesso Agatone, “portavano la mitra e si muovevano mollemente alla maniera ionica”. 1 Né, soprattutto, mancano riscontri nella produzione superstite di Anacreonte. Penso ovviamente al fr. 82 Gentili (= 388 Page). Nella descrizione della metamorfosi di Artemone da gaglioffo miserabile ad arricchito chic, l’attenzione si concentra su alcuni particolari del look : il copricapo, gli orecchini, l’ombrellino d’avorio, ma non trascurerei neppure la barba spelacchiata nei giorni ‘gloriosi’ della malvivenza, se si considera l’immancabile lunga barba a punta dei booners nelle rappresentazioni ceramiche. Non va taciuto che il confronto tra il carme di Artemone e i vasi anacreontici ha messo capo a ipotesi contrastanti, anche vivacemente polemiche, e resta sostanzialmente una questione ancora aperta. 2 Ma, al di là di ogni interpretazione, è innegabile la coincidenza specifica e puntuale, tutt’altro che generica, tra i versi di Anacreonte e il materiale iconografico. La frammentarietà dei testi non consente riflessioni di ampio respiro. Tuttavia non possono passare inosservate espressioni anacreontee isolate dal contesto, ma comunque significative e in sé eloquenti quali sau`la baivnein (“incedere mollemente”), 3 Ludopaqei`~ (“voluttuosi come Lidi”) 4 o Dionuvsou sau`lai bassarivde~ (“Bassaridi, dal molle incedere, di Dioniso”). 5 Lo stesso dionisismo, opportunamente evocato per le scene dipinte sui nostri vasi, è tutt’altro che estraneo al mondo e alla poesia di Anacreonte. In più frammenti il dio, di cui ad Atene non mancheranno di essere sottolineate l’origine orientale e l’ambiguità sessuale, 6 è celebrato in relazione a una sua festa, al simposio o al komos. 7 Anzi, uno dei tratti identitari dell’arte e della socialità di Anacreonte è, come ha mostrato Bruno Gentili, proprio il dionisismo in una sua forma urbana e temperata, elegante e raffinata, che trovò terreno propizio nell’Atene tra vi e v secolo. 8 Insomma, cercare nei vasi “anacreontici” l’uniformità assoluta per riconoscere in essi il ‘ritratto’ di Anacreonte è una pretesa eccessiva. Ed è anche chiaro che un  



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1  Ar. Thesm. 163 ; vd. McIntosh Snyder 1974. 2  Se il confronto tra l’ode e i vasi da un lato conferma gli indubbi e stimolanti punti di contatto, dall’altro lato esso complica l’interpretazione : Anacreonte, viene da chiedersi, accusa Artemone di indossare quegli abiti che sui vasi sono tipici del poeta stesso e dei suoi compagni di komos ? In verità il testo e il testimone (Athen. 12, 533f ) assicurano che il tema sostanziale della beffa è l’ascesa sociale del parvenu Artemone. Tuttavia resta un punto specifico dello scherno : l’associazione dell’ombrellino d’avorio alle femmine ; né, sul travestitismo simposiale, va taciuta la testimonianza di Philostr. Imag. 1, 2. Negli anni passati l’interpretazione del carme ha dato origine a un’aspra polemica : vd. Slater 1978 ; Davies 1981 ; Brown 1983. 3  Fr. 138 Gent. = 458 Page. 4  Fr. 158 Gent. = 481 Page ; cf. aJbrov~ nel fr. 141 = 461 con l’osservazione del testimone (Orio, Lex. 3, 11) e korwna; baivnwn (fr. 133 = 452), ma anche aJbrobavta~ per “lidio” in Bacchyl. 3, 48 (col commento di PerrottaGentili-Catenacci 2007, p. 353) o “persiano” in Aesch. Pers. 1072 (cum schol. ad loc.). 5  Fr. 32 Gent. = 411b Page. 6  P. es. nelle Baccanti di Euripide, ma già Aesch. fr. 61 Radt ; ulteriori manipolazioni comiche in questo senso in Cratin. fr. 40 K.-A. ; Ar. Ran. 46. 7  Frr. 14 Gent. = 357 Page ; 16 = 365 ; 30 = 410 ; 32 = 411(b) ; 65 = 346 fr. 4, 5 ; 123 = 442. 8  Gentili 1958, p. xxi s.  































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modello iconografico, una volta affermatosi, può avere sviluppi autonomi sia negli aspetti formali sia nel significato storico, o può irrigidirsi in cliché. Ma resta la questione di quando, perché e come esso ha origine. Non si può non rimarcare che il modello detto anacreontico presenta una solida unità originaria di elementi caratterizzanti, specifici e ricorrenti (tutti insieme o separatamente), oltre che una circoscritta e definita collocazione nello spazio e nel tempo. I diversi tratti connotanti, dal nome iscritto all’aJbrosuvnh e all’originale abbigliamento sino al dionisismo, convergono sulla figura e sull’opera di Anacreonte nell’Atene tardoarcaica. In esse trovano il loro denominatore comune e, a mio parere, generativo.

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Nuovi soggetti della rappresentazione Nella storia della rappresentazione della persona, Anacreonte non entra solo come tema figurativo, ma ad essa contribuisce direttamente con i suoi versi. Credo che per un pittore dotato di una sufficiente dose di immaginazione ci sia materiale per un ritratto di Artemone. Certo, i dati somatici non sono ancora preminenti, ma la descrizione della persona, soprattutto nel periodo gaglioffesco, è individualizzata : barba e capelli spelacchiati, il corpo rigato da frustate, l’improbabile copricapo, gli astragali orecchini, la stessa visività delle situazioni con il corteggio di fornaie e prostituti e lo spettacolo della punizione pubblica. Un altro soggetto caro al poeta furono i ragazzi, “i suoi dèi”, come egli stesso li definisce in un noto aneddoto. 1 Sono conservati alcuni nomi : Batillo, Megiste, Smerdi, Cleobulo. Scarnissimi frammenti ci dicono qualcosa di loro e della loro bellezza. Come nella tradizione precedente a partire da Omero, la bellezza non è disgiunta dal valore morale. Basterà citare il detto anacreonteo : “Bello in amore è ciò che è giusto” (fr. 120 Gent. = 402b Page) o ricordare la lode fervida dei fanciulli dall’indole mite. 2 Dell’aspetto fisico risaltano, come nella poesia anteriore, i capelli e gli occhi (e le cosce). Anche le qualificazioni, per quel poco che ci resta, sono simili, cioè piuttosto generiche. Tuttavia qualcosa di più specifico e personale traspare, come lo sguardo virginale di Cleobulo (fr. 15 Gent. = 360 Page). Massimo di Tiro assicura che le odi di Anacreonte erano piene degli occhi, appunto, di Cleobulo, e della giovinezza fiorente di Batillo e delle chiome di Smerdi 3 (proverbiale il suo “boccolo tracio” nell’Antologia Palatina 7, 25). È lecito supporre qualche dettaglio individuale, ma allo stato della nostra documentazione non possiamo dire quanto il bello in Anacreonte fosse descritto e individuale o, al contrario, autoassertivo ovvero, per dirla con Pasquali, tradizionale. Né va trascurato che i canti di Anacreonte non intendevano descrivere questi giovani per un pubblico lontano o conservarne il ricordo fisionomico, ma andavano a destare, illuminare e integrare situazioni simposiali reali, istantanee, di fronte a un uditorio che ben conosceva e spesso aveva di fronte i protagonisti in carne e ossa. Nelle stesse occasioni conviviali vanno ambientate le icastiche descrizioni di donne, presumibilmente etere, colte in tratti e atteggiamenti specifici della loro persona : la ragazza di Lesbo dal sandalo colorato che sta a bocca aperta (fr. 13 Gent. = 358 Page) ; la donna beona (136 = 455) ; la cerbiatta (apparentemente ?) spaurita (28 = 408) ; le donne-cavalla che sono tali nel comportamento come la recalcitrante puledra tracia  



















1  Schol. Pind. Isthm. 2, 1b ; cf. fr. 22 Gent. = 402c Page. 2  Frr. 23 Gent. = 402a Page ; 99 = 416. 3  Max. Tyr. 18, 9, p. 233 Hobein.  





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(78 = 417) o quella pascolante nei campi di giacinto (60 = 346 fr. i) o anche nel nome come Leucippe (6 = 368). E nei nomi parlanti spesso è racchiusa la cifra caratterizzante della persona, come per la chiassosa intemperante Gastrodora (48, 3 = 427, 3) o per la bionda Euripile (“Porta aperta”), degna partner di Artemone (8 = 372). Un Anacreonte ancora più ritrattista, per così dire, sembra emergere dagli scarni frammenti a nostra disposizione quando il poeta si diverte a tratteggiare figure di varia umanità tratte dal mondo reale : “tipi della vita quotidiana individualizzati nelle loro umane debolezze, nell’esercizio del proprio mestiere o nella loro condizione sociale”. 1 Si pensi al profumiere Strattis di cui il poeta si chiede se porterà i capelli lunghi : un gioco comico che possiamo solo intuire, forse maliziosamente allusivo alla calvizie del personaggio. 2 Si consideri, poi, la lavandaia loquens del fr. 86 Gent. (= 385 Page) oppure il tipo farfallino, per riprendere la definizione di Ettore Romagnoli, o, se si preferisce, ‘farfallone amoroso’, il quale svolazza “più vuoto d’una canna, unto di profumo il petto” (17 = 363). In un altro frammentino “Targelio dice che tu sai lanciare con eleganza il disco” (119 = 364). Persone rappresentate nelle pose tipiche e nei loro tic, nei caratteri distintivi e originali, anche fisici, come il calvo Alessi che di nuovo cerca moglie (fr. 113 = 394b), dove compare la prima attestazione dell’espressivo aggettivo falakrov~, ora in uso nel greco moderno, e dove è verosimile che la smania matrimoniale sia sottolineata beffardamente dalla connotazione ipersessuale dei calvi, di particolare evidenza sui vasi. Lo sfondo vitale di questi e altri bozzetti è costituito da una società multiforme in trasformazione : mercanti, artigiani, piccoli borghesi, donne comuni ed etere, sportivi, tipetti vanesi, furfanti rivestiti. Un’umanità varia e una poesia altamente mimetica, come colse Ermogene, quando accostò Anacreonte a Menandro nella cui opera si possono trovare “donne parlanti, giovinetti amanti e macellai e alcuni altri”. 3 Nel poeta di Teo, la descrizione realistica della ‘commedia umana’ non sfocia mai in una satira di classe, acre e intransigente, ma è condotta sul piano dell’ironia e della parodia, rivolta ai nuovi ceti sociali, con fine distacco e disincanto. E, ciò che più vale per il nostro discorso, quest’arte mimetica della parola trova un preciso parallelo nei vasi attici contemporanei, specialmente a figure rosse. Dalla fine del vi secolo si diffonde la rappresentazione di figure caratterizzate in senso individuale, che si differenziano dai tipi tradizionali e paradigmatici. In scene di vita comune sono rappresentati personaggi che mostrano una fisionomia propria : teste pelate ; nasi prominenti, camusi, aquilini o comunque individualizzati ; barbe sfrangiate o ispide ; corpi non proprio ideali ; atteggiamenti espressivi e connotanti (un bell’esempio è la Fig. 3). 4 L’immagine spesso si lega a particolari ambienti sociali, a lavoratori e artigiani 5 o a scene di commercio. 6 Un realismo crescente che non si limita più – come era stata finora la norma – a vecchi, barbari ed esseri semiferini e mitici. La resa del corpo, poi, nei suoi tratti concreti e più personali, non  





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1  Gentili 1958, p. xvi. 2  Una diversa, non implausibile ipotesi, in Soverini 1994. 3  Hermog. 2, 3, 323 Rabe. 4  London, British Museum E44. 5  P. es. il ciabattino rappresentato sulla kylix datata al 490 a.C. circa (London, British Museum E86). 6  Si può vedere, tra i vari casi, la vivace scena di compravendita di profumo su una celebre pelike (510 a.C. circa) conservata a Firenze (Museo Archeologico Nazionale 72732) con le osservazioni e i confronti di De Tommaso 1998 ; cf. da ultimo Mitchell 2009, p. 56 n. 73 con la notazione di Iozzo 2011, p. 98 n. 1.  

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proporzionati e irregolari, trova in quegli stessi anni un parossistico ma fisiologico sviluppo nella caricatura. 1 Per chiudere infine il discorso su Anacreonte e la coeva pittura su ceramica, possiamo solo accennare, per ragioni di tempo, a un noto gruppo di vasi su cui sono dipinti simposiasti che indossano un cappello (comunemente denominato kidaris da Beazley in poi) di origine orientale e, più spesso, attributo scitico. 2 Anche le interpretazioni in materia sono disparate, ma è difficile ridurre a un’ennesima semplice coincidenza la relazione con i versi di Anacreonte in cui si esorta a non condurre un simposio alla maniera degli Sciti tra chiasso e urla (fr. 33 Gent. = 356 Page). 3 Sia in Anacreonte sia nell’iconografia il riferimento è, a mio parere, a un tipo di simposio reale che probabilmente era prerogativa di un gruppo specifico e assurse a genere alla moda. Queste riunioni dovevano essere caratterizzate da un’atmosfera particolarmente movimentata e smodata. La connotazione d’eccesso è espressa con chiarezza nel brano di Anacreonte e trova riscontro su diversi – anche se non su tutti – i vasi della serie. 4 Se era praticato e in voga un simposio alla ‘Anacreonte’, cioè orientaleggiante, raffinato e costumato, praticato e in voga era anche un simposio alla scitica, volutamente esagerato e sfrenato, in cui un partecipante (il simposiarca ?) o altri partecipanti indossavano la kidaris. Un elemento concreto e, al tempo stesso, simbolico come il copricapo scitico identifica il programma e il clima di eccitazione ed euforia cui tende il bere insieme di quella particolare compagnia.  



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Conclusioni Atene fu lo scenario di queste vivaci tendenze iconiche, e fu anche il luogo in cui nuovi soggetti trovarono nell’humus democratica una visibilità sociale e politica sconosciuta fino ad allora. Ma, nel corso del v secolo, un nuovo ordine figurativo andò imponendosi. “Nell’esuberanza tardoarcaica c’erano promesse di un approccio completamente nuovo dell’arte figurativa greca, che tuttavia andarono deluse”. 5 I monumenti del pieno v secolo mostrano l’adozione di schemi che manifestano uno scarso interesse per la differenziazione in senso individuale. Le retour à l’ordre e l’omogeneità nella ritrattistica ufficiale sono stati messi in relazione con gli sviluppi della democrazia. “L’eguaglianza figurativa corrisponde all’eguaglianza sociale”. 6 La rappresentazione dei singoli si conforma, così, a prototipi ispirati a tratti idealizzanti più che personali, nei quali la comunità civica può identificare sé stessa e i propri valori, anche se va detto che correnti meno ufficiali e più mimetiche non furono assenti. Se per l’impostazione idealizzante il pensiero corre subito alla celebre statua-ritratto (con elmo) di Pericle, “poco appariscente”, conforme a una tipologia generica e priva di note personali, 7 d’altro canto abbiamo anche la notizia secondo cui Fidia ritrasse sé stesso (calvo) e Pericle (“un’immagine bellissima”) sullo scudo dell’Athena Parthe 





1  Cf. Keuls 1988. 2  Uno dei più celebri esempi è una coppa di Duride (480 a.C. circa), ora a Firenze, Museo Archeologico Nazionale 3922 ; per la raccolta dei materiali e la discussione delle interpretazioni si rinvia a Miller 1991. 3  Con il commento di Perrotta-Gentili-Catenacci 2007, p. 219 ss. Sul bere alla scitica vd. Cerri 1991. 4  Sarebbe necessaria una rilettura in questa prospettiva di tutto il materiale iconografico, ma già Miller 1991, che pure giunge a conclusioni differenti, evidenzia la presenza di aspetti della bevuta smodata in alcune delle scene vascolari. 5  Boardman 1995, p. 166. 6  La Rocca 1988, p. 10. 7  Vd. Richter 1984, p. 173 ss. ; Giuliani 1997, p. 997.  



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nos : un ritratto tuttavia che, ancora una volta, fu malvisto dall’opinione pubblica. 1 Nel campo letterario, poi, la mimesi della persona reperirà nuove sollecitazioni e nuovi esiti nel teatro, in particolare nelle maschere della commedia. 2 Ma questo è un altro discorso. Se torniamo all’arcaismo maturo e finale, la rappresentazione della singola persona e, se si vuole, la tendenza al ritratto trovarono uno dei terreni fertili nello spazio d’interazione di tiranni, poeti e artisti. Le tirannidi offrirono un ambiente favorevole : la forte spinta personalistica del principe, il patrocinio delle arti, la ricerca e sperimentazione di nuovi linguaggi espressivi in funzione del potente e pervasivo messaggio di propaganda. Un legame tra politica e ritratto che per decenni continuò a essere avvertito e riconosciuto in maniera ambigua, come mostreranno successivamente i casi eterodossi di Temistocle, Alcibiade e, tutto sommato, di Pericle (e Fidia). Una preziosa testimonianza figurativa non fisionomica, ma non per questo meno riconoscibile, è offerta già dall’anfora del Pittore dell’Altalena, dove Pisistrato è insieme ai suoi korynephoroi/Licopodi, che in quanto tali sono armati di bastoni e muniti di pelle di lupo. Tra le personalità di spicco, che più furono addentro alle corti tiranniche ma anche in rapporto con i principali gene aristocratici agli albori della democrazia ateniese, vi fu Anacreonte, una sorta di figura catalizzatrice di queste tendenze culturali. Nei caratteri peculiari del suo aspetto e della sua opera, Anacreonte diventa oggetto della rappresentazione artistica, tra tipologia e individualità. Al tempo stesso, i suoi versi rivelano un maggiore interesse e una maggiore duttilità nella rappresentazione della realtà umana, personale e sociale, anche nelle sue articolazioni specifiche ed emergenti. Poeti e artisti contribuirono, ciascuno con i propri strumenti espressivi e con la propria cifra stilistica, allo sviluppo della descrizione della persona, alla sua riconoscibilità e forse persino a una definizione parzialmente nuova della figura umana. In questo processo essi condivisero temi, committenze e contesti, sino a divenire essi stessi reciprocamente soggetti delle rappresentazioni. 3 Possiamo solo immaginare, per esempio, l’interazione tra canto poetico e immagine vascolare che certamente si realizzava nei simposi anacreontei. Arte e poesia seguirono percorsi paralleli, ma non mancarono collisioni e contrasti. Il primo ritratto (sebbene piegato alla caricatura) di cui abbiamo notizia fu quello di Ipponatte, scolpito da Bupalo e suo fratello Atenide intorno al 540 a.C. 4 La ragguardevole bruttezza del poeta divenne l’oggetto della mimesi derisoria dei due artisti e dei loro compagni : ancora il brutto – in quanto devianza dal bello e dalla norma – come fulcro del ritratto, e ancora il mondo ionico sullo sfondo. Beninteso, Ipponatte si difese egregiamente e contrattaccò con le armi della poesia. 5 I suoi strali non risparmiarono neppure un altro artigiano pittore : Mimnes (fr. 39 Degani = 28 West). Si delinea il rapporto dialettico e anche competitivo tra artigiani della parola e artigiani dell’immagine che culminerà in forme non giambiche, ma pur sempre polemiche nell’ideologia di Simonide e di Pindaro. 6  





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1 Plut. Per. 31, 3 s. : la notizia non va assolutamente accantonata (opportune osservazioni in Torelli 1979, p. 447) ; sul giudizio negativo dell’opinione pubblica cf. i casi di Temistocle e Alcibiade (supra, p. 58 s.). 2  Vd. ora Catenacci 2013. 3  Un originale e intrigante caso di autorappresentazione figurativa sembra costituito dal gruppo di ceramografi detti i Pionieri ; sull’ampia problematica si rinvia a Neer 2002, p. 87 ss. 4  Suda, s.v. ÔIppw`nax;; ; Plin. Nat. hist. 36, 12 ; raccolta delle testimonianze e discussione critica in D’Acunto 2007. 5 Frr. 121-122 Degani = 120 + 121 West. 6  Cf. Gentili 2006, p. 245 ss.  









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E proprio con questi due campioni del tardo arcaismo, Simonide e Pindaro, voglio terminare. In una testimonianza tanto comunemente quanto sorprendentemente trascurata negli studi sul ritratto, 1 Plutarco racconta che Temistocle irrideva Simonide perché, pur essendo brutto d’aspetto, si faceva ritrarre (Them. 5, 7). L’episodio riassume diversi elementi portanti della nostra discussione : di nuovo l’Atene del primo v secolo e di nuovo Temistocle, il suo circolo e la moda del ritratto ; di nuovo il brutto come componente quasi ineludibile, ma qui ora anche la possibilità del ritratto positivo, come del resto fu l’eikòn eroico di Temistocle. Forse Simonide avrà risposto, come afferma nel carme a Scopas, che “bello è ciò cui non si mescola il turpe”, cioè che il bello assoluto è poco più che un’illusione. 2 Ma, se del ‘brutto’ Simonide non sono conservati ritratti, sorte diversa è toccata al suo contemporaneo più giovane Pindaro. L’iscrizione di un’immagine clipeata (iii d.C.), rinvenuta nel 1981 ad Afrodisia in Caria, 3 testimonia che un ritratto-tipo, noto già da vari esemplari e precedentemente identificato con lo spartano Pausania, in realtà rappresenta Pindaro (Fig. 4). L’originale risale alla metà del v secolo, cioè l’epoca del poeta, visto che Pindaro morì nel 438 a.C. Nell’indubbia caratterizzazione fisiognomica del volto, spiccano le lunghe ciocche della barba, sapientemente pettinate e annodate sotto il mento : probabile segno di un’eleganza ricercata e démodée. 4 Come ha concluso in modo convincente Luca Giuliani, un elemento così specifico e al limite della stravaganza nell’immagine di un personaggio vivente o morto da poco non sarebbe stato comprensibile ai contemporanei senza un corrispettivo reale. 5 La barba annodata doveva rinviare a un tratto notorio, personale e distintivo di Pindaro di Tebe. Non riesco, così, a non citare le pagine finali, quasi divinatorie, del Pindaros di Wilamowitz che nel 1925 scriveva che, negli ultimi anni della sua vita, Pindaro tra gli Ateniesi avrebbe fatto lo stesso effetto di un funzionario in congedo di Federico II col suo codino tra la Jugend del 1820. 6 Ma, per ironia non infrequente della storia, il conservatore Pindaro, con la sua barba annodata, segna ai nostri occhi uno dei passaggi più innovativi nella storia della rappresentazione della persona e della cultura occidentale.  







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Fig. 2. Cratere del Pittore di Kleophrades, Copenhagen, National Museum (500 a.C. circa).

Fig. 1. Anfora attribuita al Pittore dell’Altalena, Atene, Museo Archeologico Nazionale (530 a.C. circa).

Fig. 3. Coppa firmata da Euphronios come ceramista e attribuita a Onesimos come pittore, Londra, British Museum (490 a.C. circa). Fig. 4. Pindaro (copia romana da un originale della metà del v sec. a.C. circa), Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I LUOGHI DELL’OR ATOR I A POLITICA NELL’ATENE DI A R ISTOFA NE : L’AGOR A E LA PNICE  

Mar ia Gr azia Fileni

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ra il vi e il iv sec. a. C. la città di Atene predispose una serie di spazi che assolvevano la specifica funzione di accogliere le nuove magistrature politiche : fra di essi, l’agora e la Pnice costituirono luoghi altamente significativi e rappresentativi della democrazia diretta, entrambi sedi dell’assemblea generale del popolo (ekklesia), che garantivano, dal punto di vista spaziale e ambientale, un modello di comunicazione perfettamente conforme all’ideologia democratica ; erano, di conseguenza, luoghi privilegiati dell’oratoria e del dibattito politico, dove colui dei cittadini che lo avesse voluto – oJ boulovmeno~, una tipica categoria democratica 1 – e che fosse diventato, in quella precisa circostanza, rhetor – termine giuridico indicante chi avesse un discorso da fare o una proposta da presentare al popolo 2 – saliva sul bema con una corona in capo (Ar. Eccl. 131), segno della dignità di cui era investito, e traduceva nella pratica dell’orazione il suo diritto, condiviso in ugual misura dagli altri cittadini, a parlare (isegoria), con la libertà di dire tutto di tutto (parrhesia).  







Le agorai di Atene tra vi e iv secolo L’agora – in ogni città greca punto focale della vita politica – nel caso di Atene si trova localizzata, nel periodo tardo-arcaico e in quello classico, in due siti diversi : nel vi sec. era la cosiddetta ajgora; ajrcaiva o agora di Teseo, che oggi è plausibile pensare ad est dell’Acropoli, nel cuore della moderna Plaka. 3  



In questa antica piazza, nello spazio delimitato da una serie di importanti edifici, purtroppo quasi tutti ignoti archeologicamente, alcuni di valore religioso come l’Aglaureion, l’Anakeion e il Theseion, altri di funzione civica, come l’Epilykeion, il Thesmotheteion e il Boukoleion situato vicino al Pritaneo, è presumibile l’ambientazione di assembramenti di cittadini che ascolta1 L’espressione oJ boulovmeno~, in particolare riferita al cittadino che si presentava alla Boule con l’intenzione di esprimere utili proposte riguardo alle leggi, è in And. 1, 84. 2  Del discorso o della proposta il cittadino era direttamente responsabile : Hyp. 3, 8 ; cfr. Hansen 2003, pp. 215-216. Con il senso di rhetor è documentato anche oJ levgwn (Dem. 9, 38) e, specialmente nel iv sec., oJ politeuovmeno~ è il retore che esercitando i diritti civici era politicamente attivo, avanzava proposte o si opponeva a quelle altrui (Dem. 18, 173). 3  In tal senso convergono le testimonianze letterarie (Arist. Ath. Pol. 3, 5 e Paus. 1, 18, 1-3) e l’unico, prezioso dato topografico disponibile, conseguente alla scoperta, nel 1980, di una iscrizione su stele, rinvenuta in situ, che permette di identificare il santuario di Aglauro, dedicato alla figlia di Cecrope, con la grotta situata a metà del versante orientale dell’Acropoli. Sulla prospettiva inaugurata da questa scoperta e sulle sue importanti implicazioni topografiche, nonché sulla questione, ancora dibattuta, della sede dell’ajgora; ajrcaiva, altrimenti localizzata, sulla base di altre testimonianze antiquarie, nella zona a nord-ovest o a sudovest dell’Acropoli, o identificata con l’agora del Ceramico (Thompson-Wycherly 1972, p. 19 ss.), si vedano, con bibliografia precedente : Dontas 1983 ; Robertson 1998 ; Greco 2010, pp. 22-24 ; Musti-Beschi 2013, pp. 469-471 (Addenda ad pp. 320-321, 323-324).  











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vano la parola di eminenti personaggi politici, come Solone e Pisistrato, in circostanze altamente critiche e cruciali per la storia della polis, di cui riferisce la tradizione antica. Fu tale l’intervento, del tutto sui generis, da parte di Solone (fr. 2 Gent.-Pr. = 1-3 W.) che, fingendo di aver perso la ragione, si recò nella piazza e, salito sulla pietra da cui solitamente parlava l’araldo, del quale egli assumeva in quell’occasione il ruolo, eseguì un’elegia, successivamente denominata Salamina, segretamente composta e memorizzata, di fronte ad una gran folla radunatasi intorno a lui. Il fine, efficacemente raggiunto per mezzo di una ordinata composizione di parole (v. 2 : kovsmon ejpevwn wj/dh;n ajnt j ajgorh~` qevmeno~) – un canto, anziché un semplice discorso in prosa 1 – era quello di far abrogare la legge che impediva agli Ateniesi di proporre in assemblea la ripresa della guerra contro Megara per il possesso di Salamina, d’importanza vitale per lo sviluppo di Atene. 2 Alla felice riuscita dell’operazione collaborò anche Pisistrato, che da parte sua, nell’agora, esortava i cittadini a prestare ascolto all’oratore. E’ ancora il tiranno di scena sulla piazza, dove diverse fonti (Hdt. 1, 59 ; Arist. Ath. Pol. 14, 1-2 ; Plut. Sol. 30, 1-5) ambientano un episodio decisivo per la sua carriera politica, in seguito al quale, nel 561-560 a. C., egli ottenne il potere nella prima delle tre distinte fasi del suo governo. Fattosi portare in piazza, su di un carro, egli cercò di esasperare il popolo accusando i suoi avversari politici del ferimento che in realtà si era inflitto da solo, e di convincerlo a concedergli una guardia del corpo. L’assemblea convocata approvò la richiesta e con il gruppo di mazzieri Pisistrato occupò l’Acropoli e prese il potere. 3  





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Nel divenire storico dei luoghi pubblici di Atene, in un’età sulla quale non è unanime il parere degli studiosi, ma che sembra verosimile far coincidere con la seconda metà del vi sec., si andava definendo e strutturando un nuovo spazio, che gradualmente acquisì le funzioni politiche, qui trasferite : l’agora del Ceramico, 4 ampia e pianeggiante, a nord-ovest dell’Acropoli, luogo privilegiato degli incontri pubblici, piantato a platani e abbellito con passeggiate da Cimone (Plut. Praec. ger. reip. 24, 818d ; Cim. 13, 7). 5 Come è evidente sulla base delle testimonianze letterarie e del ricco materiale archeologico, la piazza, dopo un esordio sotto i Pisistratidi e una successiva “demo 







1  Solone stesso si mostra consapevole dell’eccezionalità della sua performance in quel preciso contesto e ne precisa all’uditorio, che viene così guidato ad una corretta ricezione di ciò che si accinge ad ascoltare, la modalità compositiva ed esecutiva, decisamente contrapponendo la sua elegia al “discorso in prosa”, che il pubblico doveva aspettarsi in occasione di una riunione nell’agora. In questo senso bisogna infatti intendere l’espressione ajnt j ajgorh~` , spiegata da Fozio (s. v.) come to; pezw/` lovgw/ ajgoreuvein (per l’uso, già omerico, di ajgorhv nel significato di “discorso” cfr. Hom. Il. 2, 275 ; Od. 4, 818). 2  L’episodio della follia (da alcuni studiosi attribuito all’elaborazione in seno ad ambienti politici ostili oppure ad una tarda invenzione : cfr. Masaracchia 1958, p. 243) e gli 8 versi superstiti dell’elegia che ne contava un centinaio, furono recepiti e tramandati principalmente (e con varianti nei particolari) dall’opera biografica plutarchea (Sol. 8, 1-3) e da quella dossografica di Diogene Laerzio (1, 46-47 ; vd. Manfredini-Piccirilli 1977, pp. 130-133 per una disamina delle fonti antiche). In relazione alla contestualizzazione dell’ode, è giustamente sembrato decisivo il peso delle testimonianze antiche, le quali non mancano di sottolinearne la collocazione al di fuori dell’ambito simposiale, che costituiva invece l’idoneo ambito di una poesia rivolta ad un gruppo eterico (cfr. Tedeschi 1982, p. 41 ss. e Vetta 1983, p. xix). Per la proposta di un’esecuzione a simposio, che avrebbe comportato però una finzione dell’occasione assembleare, enfatizzata attraverso la precisazione dell’uso sia dei versi in luogo dell’atteso discorso in prosa, sia del pi`lo~ dell’araldo indossato da Solone, vd. Maehler-Noussia-Fantuzzi 2001, pp. 226-229. 3  Cfr. Manfredini-Piccirilli 1977, pp. 273-275. In un’area localizzabile alle pendici orientali dell’acropoli è possibile contestualizzare anche la prima parte di un episodio successivo, connesso al terzo insediamento di Pisistrato ad Atene (534-533 circa), che segnò l’affermazione definitiva della sua tirannide (Arist. Ath. Pol. 15, 4-5 ; Polyaen. Strateg. 1, 21, 2) : vd. Greco 2010, p. 23 s. 4  Per la ricca bibliografia sulla questione della nascita e dello sviluppo dell’agora del Ceramico si rinvia a Greco 2010, p. 23 ss. 5  Un riferimento, carico di significato politico, a questa iniziativa cimoniana si coglie nel frammento aristofaneo 113 K.-A. secondo la lettura di Bravi, in questo volume, alle pp. 157-165.  









i luoghi dell ’ oratoria politica nell ’ atene di aristofane

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cratizzazione” dello spazio che ospitava il gruppo dei Tirannicidi, divenne il simbolo dell’Atene democratica, 1 sede degli archeia, 2 delle maggiori istituzioni religiose, civili, giudiziarie, oltre che del mercato e delle attività commerciali e artigianali. In questo contesto, incisivamente segnato da una forte densità di strutture fondamentali per la realizzazione della forma democratica di governo e per la vita della polis, nella quale si moltiplicavano le occasioni per le riunioni assembleari, l’area semicircolare ricavata dallo sbancamento di una porzione dell’altura che delimitava il lato occidentale della piazza, dove sorgeva il quartiere di Kolonos Agoraios, caratterizzata, come sembra, da una naturale conformazione “teatrale”, ospitava l’assemblea generale degli Ateniesi, l’ekklesia, la sede deliberativa del governo democratico. 3  





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La Pnice: forme e funzioni Motivi di convenienza pratica facilmente intuibili devono avere in seguito determinato la scelta di abbandonare l’agora per le riunioni del popolo e di approntare per esse un apposito spazio, sul fianco settentrionale, dolce e naturalmente degradante, della collinetta della Pnice, 4 con un’operazione che si può verosimilmente datare  

  1  Steli di marmo rinvenute in situ, databili alla fine del VI sec., quindi a ridosso delle riforme clisteniche, e recanti l’iscrizione hovro~ eijmi; te`~ ajgora`~, assolvevano la funzione di circoscrivere ufficialmente un suolo pubblico che era anzitutto sacro, ma che si costituiva anche come spazio civico, utilizzato per pubblici incontri, nonostante non si abbiano testimonianze, né letterarie né epigrafiche, che attestino la regolarità del loro svolgimento : cfr. Thompson- Wycherley 1972, pp. 117-119 ; Hansen 1976, pp. 117-121 ; Thompson 1982, p. 136. 2 La Tholos, il Metroon, il Bouleuterion, la Stoa Poikile, la Stoa Basileios : essi resero la piazza il punto focale della vita comunitaria ateniese, simbolizzato dall’altare dei dodici dèi, fatto erigere nel 521 a. C. da Pisistrato, nipote del tiranno, e definito da Pindaro (fr. 75, 1-5 Maehl.) l’ojmfalov~ della città (per questa interpretazione del passo si veda Lavecchia 2000, pp. 257-260). 3  Una serie di tarde testimonianze lessicografiche e scoliografiche (Poll. 7, 125 ; Hesych. s. vv. i[kria, aij- geivrou qeva e par jai[geron qeva ; Phot. s. v. i[kria ; Su(i)d. s. vv. i[kria e Prativna~ ; schol. Ar. Thesm. 395), non prive di difficoltà interpretative, fa intuire che il luogo fosse munito di un’orchestra (cfr. Plat. Apol. 26d-e) e di i[kria, tribune di legno usate sia per spettacoli musicali e teatrali sia per riunioni, e che dunque lì fosse possibile organizzare un’assemblea, oltre che assistere ad altre manifestazioni pubbliche, come la proclamazione dello ierofante nella Stoa Poikile, le danze del coro in onore dei Dodici Dèi, la processione delle Panatenee che attraversava la piazza. Se si possa parlare dell’esistenza, in questo spazio, di un vero e proprio teatro arcaico - una questione ancora dibattuta a causa della mancanza di forti evidenze archeologiche - è sembrata a Thompson-Wycherly (1972, pp. 126-129) una tesi sostenibile sulla base, oltre che delle testimonianze letterarie, delle tracce compatibili con il posizionamento degli i[kria e dei lunghi gradini scavati nel V sec. nell’area più bassa del pendio di Kolonos Agoraios. La maggior parte degli studiosi identifica questo spazio con l’agora del Ceramico e propende per una localizzazione in essa del teatro lenaico (vd. ad es. Pickard-Cambridge 1968, pp. 37-38 ; Kolb 1981 ; Polacco 1990, pp. 23-32 ; Scullion 1994, pp. 52-66) ; diversamente Greco 2010, pp. 31-34, il quale suggerisce che gli i[kria si trovassero fra l’agora arcaica e il contiguo temenos dionisiaco, in un’area riservata al culto del dio dove è possibile che fosse ubicato il Leneo e dove, in seguito al crollo delle strutture lignee durante la rappresentazione di un dramma di Pratina (TrGF 4 T 1, 3-4), nella 70a Olimpiade (499-496 a. C.), fu ristrutturato il teatro di Dioniso Eleutereo, immediatamente a nord del santuario (cfr. De Tommaso, alle pp. 47-52 di questo volume, per una ricognizione delle fonti letterarie e archeologiche riguardanti i santuari ateniesi dedicati al culto di Dioniso). 4  Sicuramente decisiva in questo senso fu l’esigenza di uno spazio più ampio, che consentisse la partecipazione a un maggior numero di persone, di un pendio che garantisse una più comoda sistemazione dell’assemblea, di un luogo più quieto e appartato, rispetto a quello della piazza che ospitava anche il mercato, diventato sempre più chiassoso e invasivo. Un’attenzione particolare verso una corretta ambientazione dei consessi assembleari è attestata anche nel mondo spartano, dove l’ajpevlla, la riunione dei cittadini soldati, si teneva all’aperto, tra i fiumi Babica (ma in Arist. fr. 536 Rose, Babica è un ponte) e Cnacione, secondo le indicazioni fornite dal legislatore Licurgo, il quale riteneva che una grande sala, un edificio potes 























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all’età delle riforme costituzionali di Efialte (461 a. C.) : 1 una soluzione che nella sua specificità aveva pochi paralleli nelle altre città greche, dove a quello scopo erano più frequentemente utilizzati l’agora o, nella maggior parte dei casi, il teatro. 2 Come indicano le tracce archeologiche e le testimonianze letterarie, nel v secolo e per buona parte del iv la Pnice fu il luogo adibito alle assemblee plenarie del popolo ateniese. 3  







Nella sua utilizzazione come spazio strutturato per accogliere l’ekklesia è possibile individuare tre diverse fasi : dal 460 al 400, dal 400 al 340 a. C. circa, dal 340 in poi. 4 Il quorum di 6000 unità richiesto per le operazioni che l’assemblea doveva espletare determinò l’estensione e la delimitazione dell’area riservata ai cittadini, i quali sedevano lungo il pendio declinante, verso la tribuna (bema) dell’oratore, vicina all’altare di Zeus Agoraios e collocata presumibilmente in posizione centrale, di fronte allo spazio riservato al pubblico, che costituiva una specie di cavea naturale. 5 I riferimenti della poesia comica fanno pensare alla presenza di  



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sero danneggiare la capacità deliberativa dei cittadini, rendendo frivole e vuote le loro menti, distratte da quadri e statue, da prosceni di teatri e soffitti sontuosamente decorati (Plut. Lyc. 6, 4-5). Anche quando fu soppiantata dalla Pnice come luogo dell’ekklesia, l’agora del Ceramico restava pur sempre un occasionale luogo di incontro, dove, prima o dopo le riunioni regolari tenute sulla Pnice, si poteva continuare a discutere privatamente di politica, certo in forme oratorie più modeste rispetto a quelle esibite in assemblea, ma con ogni probabilità non meno interessanti quanto a contenuti e non meno accese riguardo ai toni. Nell’orazione Sull’ambasceria corrotta (19, 122 ; cfr. 225), pronunciata nel 343 a. C., con la quale Demostene accusava Eschine di essersi lasciato corrompere dal re macedone, il riferimento a “riunioni e discorsi di ogni genere nella piazza” fa avvertire l’eco dell’intensa attività politica e oratoria che in un clima di grande incertezza aveva coinvolto, ponendole anche in acceso contrasto, l’assemblea e la Boule, durante le trattative diplomatiche che avevano portato alla negoziazione della pace di Filocrate sancita nel 346 a. C. fra Atene e Filippo. Ancora nell’agora dobbiamo forse pensare gli Ateniesi che Isocrate, nell’Areopagitico (15), del 357 a. C. circa, con spirito critico dipinge mentre, seduti nelle botteghe a parlare di politica, a parole criticavano l’attuale regime democratico, ma di fatto, nelle azioni oltre che nei pensieri, si rivelavano più affezionati ad esso piuttosto che alla costituzione tramandata dagli avi, che l’oratore avrebbe volentieri visto restaurata. 1  L’iniziativa sembra infatti molto coerente con il programma di costruzione, in particolare nella zona sud-occidentale dell’agora, degli edifici civici che accoglievano le istituzioni politiche e giuridiche del governo democratico in modo adeguato rispetto alla fervida attività degli organi di governo. Una pietra di confine rinvenuta da K. S. Pittakis nella metà del xix secolo sotto il bema della Pnice, recante l’iscrizione ¸ovro~ Puknov~ (IG i2 882), databile su base epigrafica alla metà del v sec., proprio nel momento delle riforme di Efialte, sembrerebbe confermare la delimitazione ufficiale dell’area pubblica assembleare in questo periodo : cfr. Thompson 1982, p. 137 (ma in Kourouniotes-Thompson 1932, p. 108 s. si propendeva per una data intorno al 500 a. C., più vicina all’età delle riforme di Clistene). 2  Mc Donald 1943, pp. 80-84, 91-96 ; Hansen 2003, p. 194. 3  Le riunioni dell’assemblea si tenevano tutte sulla Pnice, ad eccezione di una seduta, che si svolgeva nel tevmeno~ di Dioniso dopo le Grandi Dionisie (Dem. 21, 8-9 ; IG ii2 223 B 5-6), e di quelle, concernenti questioni navali, che potevano svolgersi al Pireo (Dem. 19, 60). 4  Per questa periodizzazione, più frequentemente accolta dagli studiosi, vd. Thompson 1982. Descrizioni dettagliate della struttura della Pnice nella prima e anche nelle successive fasi sono in KourouniotesThompson 1932 ; McDonald 1943, pp. 67-80 ; Thompson 1982 ; Hansen 2003, pp. 193-194. Lo sbancamento dei materiali di riporto relativi ai due periodi più tardi ha mostrato quello che doveva essere l’aspetto originario, nel momento iniziale della sua storia, quando furono spianate le asperità rocciose del terreno e venne realizzata una serie di interventi finalizzati ad una più congrua sistemazione dell’ampio settore della collina, i cui contorni naturali non furono comunque alterati in modo consistente. La costruzione di un muro di contenimento nella parte meridionale, lineare nella sezione centrale e curvato alle due estremità, conferiva all’area la forma di una larga sezione di cerchio, un gradone più ampio che profondo, capace di accogliere approssimativamente, nei suoi circa 2400 mq., dalle 5000 alle 6000 persone, che formavano l’ecclesia ateniese e che rappresentavano il 15% della popolazione, costituita all’incirca da 40000 persone, e il 24% dei 25000 maschi adulti. 5  Poiché verso est, sud e ovest lo spazio non era delimitato in modo preciso, niente impediva che un numero anche maggiore di cittadini sedesse al di là della linea dove finiva il livellamento della roccia ; a nord  















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un bema in pietra, 1 nella prima fase orientato verso sud-ovest, di fronte al pubblico rivolto a nord-est, 2 e sufficientemente ampio da consentire all’oratore una certa libertà di movimento. 3  





La conoscenza degli eventi storici di questo periodo consente di ritenere che la Pnice, in quanto luogo delle regolari ekklesiai, fosse connotata e percepita, anche a livello ideologico e simbolico, come spazio della democrazia : è significativo, infatti, che essa andò deserta in coincidenza di situazioni e momenti eccezionali della storia ateniese della fine del secolo, che videro vacillare e crollare, seppure temporaneamente, il governo democratico. Non può sfuggire la forte implicazione ideologica insita nella scelta di evitare, in queste circostanze, l’utilizzazione di uno spazio istituzionalmente legato alla democrazia, come accadde durante il colpo di stato oligarchico del 411 a. C. Fu solo a settembre dello stesso anno, dopo la defezione delle città dell’Eubea, che i cittadini si riunirono di nuovo, per la prima volta in quel tempo, sulla Pnice, là dove, come precisa Tucidide (8, 97, 1) ricordandone l’antica tradizione (kai; a[llote eijwvqesan), erano soliti radunarsi precedentemente ; proprio in quel luogo destituirono i Quattrocento e decisero di consegnare il governo ai

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un muro basso doveva invece segnare il luogo del bema. Il quorum di 6000 cittadini, che si rendeva necessario per l’espletamento di specifiche procedure, per le quali siamo meglio informati relativamente al iv sec., come quella relativa all’ostracismo (Plut. Arist. 7, 6) o alla concessione della cittadinanza (Ps.-Dem. 59, 89) o dell’impunità (Dem. 24, 45-46), era dunque garantito anche nella Pnice della prima fase ; si calcola che l’area corrispondente alla seconda fase, che poteva andare dai 2600 ai 3200 mq., fosse capace di contenere da 6500 a 8000 persone, anche se forse si continuava a mantenere il quorum dei 6000 (Hansen 2003, pp. 197-198). Una cifra più bassa si registra invece in una notizia di Tucidide (8, 72, 1), secondo cui gli oligarchi ateniesi inviarono a Samo dieci rappresentanti con lo scopo di rassicurare gli abitanti dell’isola riguardo alle intenzioni del governo oligarchico, che avrebbe garantito la piena funzionalità di un’ecclesia formata da 5000 cittadini : questo numero complessivo - si precisava nell’ambasceria palesemente speciosa (cfr. 8, 66, 1) - non era mai stato raggiunto, neanche per discutere delle questioni più importanti (sul passo cfr. Hansen 1976, pp. 123-124 (= 1983, pp. 9-10) e Hornblower 2008, p. 967). 1 Nel senso di blocco di pietra isolato, ritagliato dalla roccia e utilizzato come bema, KourouniotesThompson (1932, pp. 112-113) intendono il termine lithos, attestato in Ach. 683, Pax 680, Eccl. 86-87 ; diversamente, il termine pevtra, che nel contesto metaforico di Eq. 956 indica la pietra viva, lo scoglio dov’è assiso un gabbiano, simbolo dell’ingordigia del politico còlto mentre arringa il popolo, suggerisce, ma non designa il bema, come precisa Allen 1933-44, p. 30. 2  Per quanto riguarda invece la seconda fase della Pnice, sul cui bema dovettero avvicendarsi i maggiori oratori del tempo (Andocide, Lisia, Iseo, Isocrate, Demostene, Eschine, Iperide), l’evidenza archeologica documenta una inversione della pendenza della superficie, che ora declinava verso sud-ovest, in modo contrario all’inclinazione della collina, e un completo capovolgimento delle precedenti posizioni del pubblico e dell’oratore, che dal bema parlava agli astanti rivolto verso nord-est. Come è noto, Plutarco (Them. 19, 4-6) attribuisce l’iniziativa ai Trenta tiranni i quali, nel 404-403 a.C., avrebbero rivolto verso la terra il bema, “ritenendo che il dominio sul mare fosse l’origine della democrazia, mentre i contadini fossero meno insofferenti dell’oligarchia”. Sull’inattendibilità del passo, in cui suona incongruente l’attribuzione ai Trenta dei lavori di ristrutturazione di un monumento simbolo della democrazia, e poco credibile l’indicazione della forte motivazione ideologica che avrebbe sostenuto l’operazione attribuita ai Trenta, più verosimilmente condotta nell’ambito della democrazia restaurata, riflette Bearzot, alle pp. 93-106 di questo volume (cfr. Moysey 1981). Per quanto riguarda il passo di Plutarco, tuttavia, resta integro il suo valore di testimonianza della consapevolezza, ben radicata nella cultura ateniese classica e viva nella tradizione più tarda, della stretta connessione tra la democrazia e il mare, come aveva insegnato Temistocle (Plut. Them. 19, 4), e come Pericle aveva ricordato in un discorso, riferito da Tucidide (1, 143), durante un infervorato dibattito assembleare sull’opportunità di intraprendere la guerra contro i Peloponnesiaci. 3  Una testimonianza in tal senso proviene da un frammento dei Demi di Eupoli (220 K.-A.), dove il politico Siracosio è descritto nell’atto di parlare mentre, come un cagnolino sul muretto, abbaiando corre di qua e di là.  





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Cinquemila. 1 A quella seguirono numerose altre riunioni, presumibilmente sulla Pnice, nel corso delle quali furono presi provvedimenti politici e amministrativi che, per lo meno nel giudizio tucidideo, consentirono alla città, per la prima volta dopo la parentesi oligarchica, di risollevarsi, realizzando una equilibrata fusione degli interessi della minoranza e di quelli della maggioranza (Thuc. 8, 97, 1). E ancora, nessuna delle assemblee convocate nell’imminenza dell’insediamento dei Trenta tiranni, nel 404 a. C., si tenne sulla Pnice. 2 Gli oligarchici, così come i Trenta tiranni, evitarono di tenere riunioni nel luogo considerato la roccaforte della democrazia e cercarono ambienti di capienza più limitata, dove era più agevole controllare la presenza dei partecipanti.  



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La Pnice e l ’ agora negli Acarnesi e nelle Ecclesiazuse di Aristofane L’insieme delle testimonianze archeologiche, epigrafiche e letterarie riferibili alle agorai e alla Pnice consentono non solo di recuperare dati salienti che riguardano la configurazione, l’evoluzione e la funzione di quei luoghi adibiti all’oratoria politica e delle istituzioni da essi accolte, ma anche di comprendere che cosa essi potessero evocare, della loro storia passata e della loro condizione presente, agli Ateniesi seduti a teatro, i quali in prima persona, proprio in quelle sedi, continuavano ad impegnare una parte cospicua del loro tempo in regolari riunioni assembleari o, in modo più informale, nella consuetudine sempre viva del confronto dialettico sui problemi della città, nelle diverse e frequenti occasioni della vita associativa. Nel periodo delle rappresentazioni delle commedie di Aristofane, l’agora del Ceramico, senza perdere la centralità che a diversi livelli la connotava, era ormai divenuta il luogo della retorica quotidiana, del discorso spicciolo, tra le bancarelle o nelle botteghe del mercato, mentre sulla Pnice si tenevano le quaranta riunioni annuali dell’ekklesia, con una fioritura dell’oratoria politica facilmente immaginabile. Ma, quasi paradossalmente, nulla è conservato di quella immensa produzione del v secolo che, essendo orale nella composizione e nell’esecuzione e legata alla contingenza dell’occasione assembleare, è andata completamente perduta : scene e battute della commedia e i resoconti tucididei di alcuni discorsi di uomini politici (Pericle, Cleone, Alcibiade, Nicia, Brasida, Archidamo) costituiscono le uniche testimonianze, indiret 

1  È noto che nei mesi precedenti un’assemblea straordinaria era stata convocata da Pisandro non sulla Pnice, ma a Colono, nel recinto sacro a Posidone Ippio, distante dieci stadi dalle mura della città (Thuc. 8, 67, 2-3 ; cfr. Arist. Ath. Pol. 29, 4 s.) ; lì venne approvata una riforma costituzionale che, sotto l’apparenza della legalità, sanciva una decisa virata in senso oligarchico e vennero ratificate proposte che di fatto abolivano una serie di azioni penali, come l’accusa di illegalità, garanti della democrazia. Più tardi nello stesso anno gli opliti si riunirono prima nel teatro di Dioniso vicino Munichia, al Pireo, e poi, tornati in città, nell’Anakeion, dove si incontrarono con alcuni dei Quattrocento. Il proposito di ritrovarsi successivamente nel teatro di Dioniso fu bloccato dalla notizia dell’avvicinamento di navi nemiche, che costeggiavano Salamina, al comando dello spartano Agesandrida (Thuc. 8, 93-94). 2  Una, costituita solo di cavalieri e opliti i cui nomi erano iscritti nelle liste, fu convocata nell’Odeion di Pericle, di capienza limitata, alla presenza di truppe spartane armate (Xen. Hell. 2, 4, 9-10 e 24) ; altre due, riunite per valutare le dichiarazioni precedentemente rivolte al Consiglio da Agorato, nel teatro di Dioniso a Munichia (Lys. 13, 32 e 55). Sulle forti valenze politiche della scelta di tali luoghi per la convocazione dell’assemblea nel 411 e nel 404, cfr. Bearzot, alle pp. 93-106 di questo volume.  





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te e mediate attraverso il filtro del genere comico e storiografico. 1 Nel contesto di un’assemblea è ambientato il prologo della prima commedia di Aristofane pervenuta per intero, gli Acarnesi, messa in scena con successo alle Lenee del 425 a. C., che costituisce per noi la più antica testimonianza letteraria riguardante la Pnice. 2 Il protagonista, un contadino di Acarne di nome Diceopoli, salito di buon’ora, come sua abitudine, sulla collina dov’è stata indetta l’assemblea, la trova desolatamente vuota (v. 20), e grida tutta la sua rabbia per l’assenza dei concittadini e per il disinteresse dei politici riguardo alle trattative di pace (vv. 21-27), che nella sua ottica si impongono con urgenza, dopo le ripetute incursioni dei Peloponnesiaci nelle campagne dell’Attica, in particolare nel demo di Acarne, dove le truppe nemiche, al comando del re Archidamo, avevano stazionato per molto tempo devastando la regione. 3 La situazione assembleare viene ricreata e descritta, nella lunga scena ai vv. 1-173, 4 con un lessico appropriato e con dettagli che, fatte salve le esigenze della scena comica, risultano per la maggior parte precisi e coerenti non solo con i dati forniti da altre commedie aristofanee, in particolare le Ecclesiazuse, ambientate nello stesso contesto, ma anche con quanto si apprende da diverse fonti, prima di tutto l’Athenaion politeia aristotelica, in un passo di capitale importanza (43, 3-6) sullo svolgimento, l’organizzazione e le competenze delle ekklesiai, e le opere di retorica composte nel iv sec., che forniscono preziose informazioni, riferibili anche all’oratoria del secolo precedente, su come si svolgevano le pubbliche discussioni sulla Pnice, come si comportavano i rhetores quando si alternavano sulla tribuna, qual era la portata dei loro interventi, quali le attese dell’uditorio nei loro confronti.  





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Realistica è, anzitutto, la localizzazione della Pnice : Diceopoli, ai vv. 21-22, con espressioni dal tono epidittico, richiama l’attenzione sui fannulloni che disertando l’assemblea si attardano in basso, nell’agora, visibile sia dal luogo dove egli, nella finzione scenica, si trova, non lontano dalla piazza in linea d’aria e favorevolmente collocato sul pendio collinare, sia dal posto, che egli ha già occupato, riservato al pubblico, di fronte al bema e volto verso nord-est, secondo  

1  Cicerone, quando nel De oratore e nel Brutus intese delineare una storia dell’oratoria politica greca, ben comprese il valore dei discorsi elaborati da Tucidide come fonte per la fase più antica di quel genere letterario (vd. Nicolai 1996, pp. 95-100). Sul trapasso dalle forme di produzione orale alla composizione scritta dei discorsi, valutata soprattutto in rapporto all’opera demostenica, e sulla evoluzione del rhetor nel senso di specialista della politica, cfr. Canfora 1992, p. 390 ss. 2  Alla Pnice così come era strutturata nel primo periodo della sua storia alludono i riferimenti presenti nelle commedie di Aristofane rappresentate nell’ultimo quarto del v secolo, dal 425 al 421 : Acarnesi (vv. 1933), Cavalieri (vv. 396, 754, 783), Vespe (vv. 31-33, 42-43), Pace (v. 680). 3  Cfr. Thuc. 2, 19-23. Anche se nell’assemblea era maggiormente rappresentato il nucleo urbano della popolazione, non erano assenti i contadini (come si evince dalle Ecclesiazuse e dal Pluto, oltre che dagli Acarnesi), sebbene svantaggiati, poiché vivevano nei demi più lontani, verso la costa o la campagna, distanti fino a 40 km. (cfr. Ar. Eccl. 300 ; vd. Hansen 2003, p. 372). Nella prospettiva aristotelica (Pol. 6, 4, 1318 b-1319 a) è proprio la qualità del dh`mo~ gewrgikov~ a garantire la forma migliore e più antica di democrazia, basata sugli agricoltori i quali, dovendo procacciarsi il necessario per vivere, provano più piacere a lavorare, attendendo agli erga, che a riunirsi in assemblea e a prendere parte alla politica : una posizione fortemente dissonante rispetto a quella, espressa da Tucidide attraverso l’epitafio di Pericle (2, 40, 2), che aveva auspicato, nel cittadino, la possibilità di coniugare gli interessi privati, in particolare gli erga, cioè il lavoro produttivo, e quelli politici (cfr. Musti 1995, pp. 152-153, 362-363). 4  Propriamente, la seduta ha termine al v. 173, ma un vero cambio di scena è al v. 203, quando Diceopoli, che nel frattempo è rimasto solo sulla Pnice, rientra in casa per celebrare le Dionisie rurali e Anfiteo, che in quel luogo lo aveva raggiunto, si allontana di corsa alla vista degli Acarnesi.  





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l’inclinazione dell’auditorium che in quella prima fase seguiva ancora la pendenza naturale ; più o meno nella stessa direzione, verso il demo di Acarne dove si trova il suo podere 1, con nostalgia indirizza lo sguardo (v. 32) ; se ne sta seduto (v. 29 ; cfr. v. 538), come era d’uso per i partecipanti all’assemblea (Ar. Eq. 749-750 ; Vesp. 31-32) che si sistemavano sulla nuda roccia (Ar. Eq. 754) o per terra (Vesp. 42-43), confortati eventualmente dall’uso di cuscini (Ar. Eq. 783-784). L’ejkklhsiva è con termine preciso definita kuriva (v. 19), la denominazione usata già nei decreti del v sec. per indicare la prima, e la più importante, delle 4 assemblee che si tenevano in ogni pritania, e nel corso della quale si discutevano le questioni di maggiore importanza ; 2 l’assemblea è stata regolarmente indetta all’alba (v. 20), 3 come si faceva di norma per evitare di essere sorpresi dal buio nel caso di sedute più impegnative ; vi giungono, anche se con vergognoso ritardo (a mezzogiorno : v. 40) e con modi indisciplinati indegni del loro ruolo (si spintonano per guadagnarsi l’ambita proedria e occupare i posti migliori : vv. 24-26), i pritani, i 50 rappresentanti di ognuna delle dieci tribù che a turno, per una decima parte dell’anno, riunivano il popolo, prestabilivano (progravfein) le questioni da trattare, 4 presiedevano le sedute e, come accade alla fine di questa scena, al v. 173, scioglievano l’assemblea. 5 Del loro operato si lamenta Anfiteo (vv. 51-54), incaricato dagli dèi di stipulare la pace con gli Spartani ; a causa della sua ascendenza divina, egli si vede negata l’indennità di viaggio, 6 che non poteva in ogni caso essere discussa ed eventualmente approvata poiché, come si deduce dalla scena, i pritani non avevano inserito la proposta nell’ordine del giorno ; e contro il loro comportamento nei confronti di Anfiteo inveisce Diceopoli, il quale, accusandoli di fare un oltraggio all’assemblea (vv. 56-58), balza in piedi, provocando l’immediata reazione dell’araldo, che gli impone più volte, anche nel prosieguo della scena, con la formula Kavqhso, sig ` a (v. 59), altrove variata (vv. 64, 123), di starsene seduto e di fare silenzio. Il khr` ux, l’ufficiale dello stato solitamente incaricato di aprire e chiudere le riunioni, di leggere una preghiera dopo il sacrificio animale, di chiamare gli oratori sulla tribuna, di pronunciare le maledizioni rituali sui traditori, sui nemici dello stato e su ogni oratore che si fosse lasciato corrompere 7, di aprire la discussione sui punti all’ordine del giorno proposti  









   











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1  Quello di Acarne, a sessanta stadi a nord di Atene (Thuc. 2, 21, 2), era uno dei demi più grandi e maggiormente popolati ; sulla strada che conduceva ad esso si situava il complesso noto come ∆Acarnikai; puvlai (Hesych. s. v. ∆Acavrnh), che doveva essere dotato di due porte (Ficuciello 2008, p. 198). 2  Secondo la testimonianza aristotelica (Ath. Pol. 43, 3-6) nella ejkklhsiva kuriva non era previsto il disbrigo di affari concernenti le ambascerie (come invece accade negli Acarnesi, v. 65 ss.), solitamente programmate nella terza riunione della pritania. Olson (2002, p. 72) ritiene che il termine presbeivai nel passo dell’Athenaion politeia riguardi le ambascerie di stranieri, piuttosto che, come in Aristofane, di ateniesi di ritorno da missioni all’estero : tuttavia l’obiezione non sembra valere per Pseudartabano, che si svela essere un ateniese, ma che nel gioco comico “deve” essere un vero persiano. Lo studioso, e prima di lui Sommerstein (1980, p. 159), è dell’opinione che i dati aristotelici riguardanti la programmazione delle assemblee non corrispondano a quelli vigenti nel 425, all’epoca della rappresentazione degli Acarnesi, e che il termine kyria fosse a quel tempo indifferentemente riferito a tutte le riunioni regolari dell’ecclesia, in opposizione a quelle denominate provsklhtoi o suvgklhtoi, convocate per motivi speciali (ma vd. Hansen 1977 = 1983 e 2003, pp. 201-203, che intende l’ekklesia synkletos come una riunione ordinaria, contraddistinta da particolari modalità di convocazione, ovvero da breve preavviso o da decreto dell’assemblea o del Consiglio). 3  Cfr. Ar. Thesm. 375 ; Eccl. 20-21, 84-85, 289-292, 739-741 ; per la medesima consuetudine nelle sedute giudiziarie è ancora Aristofane la migliore testimonianza : Vesp. 100-102, 214-218, 245, 552-553. 4  Le stesse funzioni assolvevano nella Boule (Arist. Ath. Pol. 43, 3-4). Per scene di parapiglia generale all’ingresso delle assemblee cfr. Ar. Eccl. 95-97 e Pl. 329-330. 5  Il termine luvein è in genere, come in questo verso, usato in riferimento all’ekklesia, mentre ajfivhmi alle riunioni nella Boule e nei tribunali : cfr. Olson 2002, p. 125. 6  L’indennità gli spetterebbe per le spese di viaggio, cibo e alloggio da sostenere nel caso di una sua ambasceria a Sparta : per questo incarico privato Diceopoli gli darà otto dracme (vv. 130-132). 7 Ar. Thesm. 295-311 ; Aeschin. 1, 23 ; Din. 2, 14 e 16 ; Dem. 19, 70 ; cfr. 18, 282 ; 23, 97. L’oratore corrotto non avrebbe dovuto parlare in quanto non più in grado di presentare proposte conformi agli interessi del popolo ateniese ; in caso contrario egli veniva denunciato con una eijsaggeliva (Hyp. 3, 7-8).  

























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dalla Boule 1, in questo passo svolge alcune delle sue canoniche mansioni : oltre a mantenere l’ordine, minacciato da Diceopoli, egli introduce i cittadini all’assemblea, con una formula di tono elevato, forse un adattamento in versi di quella ufficiale (vv. 43-44), che ricorda il valore sacrale dell’area, dove prima di ogni seduta il peristivarco~ compiva il rito di purificazione in onore di Zeus Agoraios, facendo girare la vittima sacrificale, un porcellino, lungo tutto il perimetro. 2 Egli pronuncia la domanda rituale, breve e densa di significato, che doveva precedere la discussione relativa alle singole proposte – “Chi vuole prendere la parola ?” (v. 45) –, con cui solennemente si ribadiva il diritto di tutti i cittadini a parlare ; 3 fa intervenire gli arcieri sciti (v. 54), che probabilmente avevano fatto con lui il loro ingresso, perché trascinino via Anfiteo. Nella funzione di polizia urbana, gli arcieri – numerosi in città da quando, all’incirca nel 450 a. C., erano stati assoldati nel numero di 300 (And. 3, 5 ; Aeschin. 2, 173) – dovevano mantenere l’ordine nell’assemblea e nella Boule, liberandole, per ordine dei pritani, dai disturbatori o anche dagli oratori incompetenti. 4 L’araldo introduce gli ambasciatori ateniesi, tutti emeriti furfanti mantenuti a spese dello stato, di recente tornati in città e pronti a relazionare impunemente sulle loro missioni-truffa in terra straniera : quelli provenienti dalla Persia (v. 61 ss.), che hanno condotto con loro Pseudartabano, l’Occhio del Re (v. 94 ss.) – in realtà un ateniese travestito da persiano al quale l’araldo annuncia, con una formula variata rispetto a quella ufficiale, di essere stato invitato al Pritaneo dai buleuti (vv. 124-125) 5 – e Teoro, appena giunto dalla corte del re tracio Sitalce (v. 134 ss.), da dove ha riportato il terribile esercito degli Odomanti, alcuni dei quali il khr` ux guida sulla scena (v. 155), per poi congedarli con l’ordine, espresso attraverso una formula convenzionale, di ripresentarsi dopo due giorni (v. 172). 6  







   



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Un dato che fra gli altri emerge dal passo degli Acarnesi e che corrisponde esattamente a quanto è attestato circa la pratica assembleare di questo periodo, è la scarsa partecipazione dei cittadini che disertavano un luogo di riunione le cui stesse dimensioni prevedevano d’altronde che solo una parte degli aventi diritto (6000 su 25000 maschi adulti) partecipasse alle attività assembleari. Il deplorevole comportamento lamentato da Diceopoli è da lui descritto nella sintetica immagine dei vv. 21-22, che immedia1  Questo accadeva nel momento successivo all’approvazione di quei probouleumata che, sottoposti dalla Boule al vaglio dell’ekklesia, avevano ricevuto un consenso unanime e non venivano discussi dall’assemblea (cfr. Hansen 1983, pp. 123-130). 2  Cfr. Aeschin. 1, 23 ; Istr. FGrHist 334 F 16 ; offre un valido riscontro anche Ar. Eccl. 128-130, dove la ritualità della formula è infranta dall’aprosdoketon costituito dalla sostituzione del porcellino con una gatta come vittima sacrificale. 3 Questo usus assembleare è attestato in diverse opere (Eur. Or. 885 ; Ar. Thesm. 379, Eccl. 130 ; Aeschin. 1, 27 ; Alcid. Soph. 11). Un interessante passo del discorso demostenico Sulla corona (18, 169 ss. ; cfr. 191) riferisce di un’assemblea straordinaria, riunita d’urgenza prima ancora che la Boule, come d’uso, formulasse la sua proposta (probouleuma) ; il clima di massima tensione e di panico, che dalla città rimbalzò sulla Pnice in seguito alla notizia dell’arrivo di Filippo II di Macedonia a Elatea, provocò una specie di paralisi dell’affollata assemblea, dove non si ebbe alcuna risposta alla domanda ripetuta più volte dall’araldo, finché Demostene stesso, “unico tra gli oratori e i politici”, uomo capace di parlare per la salvezza della patria, si fece avanti e pronunciò il suo discorso. Una formula rituale maggiormente articolata (“Chi, fra quanti hanno superato i cinquant’anni, vuole prendere la parola ?”) è riferita da Eschine (1, 23-24 ; cfr. 3, 2), che apprezza la saggezza di questa disposizione soloniana nei confronti degli anziani i quali, perdendo facilmente il coraggio, venivano invitati a prendere la parola e, rispettati per la loro età, erano messi in grado di fornire alla città i consigli migliori, derivati dall’esperienza. È opinione condivisibile di Olson 2002, pp. 82-83, che la richiesta dell’araldo tiv~ w[n, al v. 46 degli Acarnesi, non rifletta, come invece la precedente Tiv~ ajgoreuvein bouvletai, una formula in uso, in quanto nella prassi assembleare non veniva chiesto il nome a chi si accingeva a parlare, come testimoniano ad es. Ar. Eccl. 427 ss. e, sulla scena tragica, Eur. Or. 902 ss. 4  Ar. Eq. 664- 665 ; Thesm. 922-923 ; Eccl. 142-143, 258-259 ; Plat. Prot. 319 c. 5 Vd. ex. gr. l’attestazione in IG i3106, 23-24. 6  Il tono formale dell’espressione che riferisce una decisione ufficiale è dato dalla presenza degli infiniti iussivi (Olson 2002, p. 125).  























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tamente stabilisce una relazione oppositiva fra gli spazi dell’agora e quelli della Pnice : “Eccoli, se ne stanno a ciarlare in piazza, su e giù, e fuggono la corda tinta di rosso”. 1 Come ricorda lo scolio, nei giorni in cui si svolgevano le assemblee, le strade dell’agora erano bloccate, tranne quelle che portavano alla Pnice, dove i cittadini affluivano spinti dagli arcieri sciti che, dopo aver liberato il mercato dalla merce in vendita che poteva ostacolare il passaggio, li incanalavano nella giusta direzione servendosi di una corda tinta di minio ; venivano multati coloro che, macchiati di vernice, erano còlti nel manifesto tentativo di eludere il proprio dovere. 2 E’ noto che all’inizio del iv sec. si cercò di ovviare al problema dell’assenteismo con l’istituzione del misqo;~ ejkklhsiastikov~, consistente in un obolo, secondo la proposta di Agirrio subito dopo la restaurazione della democrazia nel 403-402, elevato a due oboli da Eraclide di Clazomene e a tre dallo stesso Agirrio (Arist. Ath. Pol. 41, 3). Anche il riflesso degli effetti del provvedimento, che incentivò la frequentazione delle assemblee, trova spazio sulla scena aristofanea, che ne stigmatizza alcuni aspetti ridicoli ed eclatanti : in un passo delle Ecclesiazuse (vv. 309-310), 3 rappresentate alle Lenee del 391 a. C., poco dopo l’introduzione del triobolo, le donne del coro lamentano l’eccessivo zelo dei cittadini che si affrettano all’alba sulla Pnice per non perdere la paga, concessa molto probabilmente solo ai primi 6000, 4 e ricordano che quando essa era di un solo obolo gli stessi cittadini se ne stavano tranquilli a ciarlare nella zona dell’agora riservata al mercato dei fiori (vv. 302-303), che anche il comico Ferecrate (fr. 2 K.-A.) menziona come punto d’incontro di giovincelli raffinati e sfaccendati. Nell’agora, divenuta il luogo della pratica sempre più diffusa di un esercizio oratorio insignificante e disimpegnato, connotato negativamente non solo nel teatro comico, 5 essi si riunivano per chiacchierare in modo futile, di preferenza nel negozio dei profumi dove, come li  





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1  Per l’antitesi agora / Pnice nel teatro di Aristofane cfr. Saïd 1997, p. 356 ss. 2  Schol. Ar. Ach. 22 ; Eccl. 378-379 ; cfr. Dem. 18, 169 ; Plat. fr. 82 K.-A. e Poll. 8, 104. Olson (2002, p. 73) ritiene che la notizia possa essere frutto di una tarda congettura scoliografica e che “la corda rossa” indichi per sineddoche la linea di delimitazione dell’area purificata della Pnice, che accoglieva l’assemblea. 3  Cfr. vv. 185-186, 282-284, 289-293, 380-381 ; Plut. 329-330. 4  Toni nostalgici pervadono i vv. 303-310, dove il coro evoca gli anni della metà del secolo quando, per dovere civico e non per desiderio di guadagno, con una fiaschetta di vino, pane secco, due cipolle e tre olive, gli Ateniesi partecipavano al governo della città. La foga con cui ora si accalcano sulla Pnice è resa con il verbo wjstivzomai in Plut. 329-330, termine riferito ai pritani che fanno a spintoni per occupare la prima fila in Ach. 24 e 42. 5  Cfr. Ar. Nub. 1002-1004 ; Phryn. fr. 3, 4 K.-A. ; Eup. fr. 222 K.-A. ; Plat. Apol. 17c ; Theophr. Char. 8, 13 ; Dem. 25, 52. In Nub. 1003 si segnala l’hapax tribolektravpel j(a), da intendere come “fastidiose insulsaggini”, che costituiscono l’oggetto dei discorsi dei giovani in piazza, recriminate dal Discorso Migliore (per il valore del composto vd. Taillardat 1965, pp. 295-296). Fra i numerosi termini che esprimono riprovazione è lalevw, che Aristofane usa, oltre che al v. 21 degli Acarnesi, anche in altri passi, sempre in relazione ad esempi negativi di una retorica deteriore, praticata in diversi contesti pubblici : in tal senso sono colpiti personaggi come Evatlo, demagogo e sicofante (Ach. 705), Alcibiade (Ach. 716 ; cfr. Eup. fr. 116 K.-A.), un sicofante (Ach. 933), Cleone (Pax 653), Euripide (Ran. 1069). Più fortemente critica è l’attenzione rivolta da Aristofane nei confronti di una pratica scellerata della parola esercitata nella polis da cittadini disonesti, che nell’antistrofe di un breve corale degli Uccelli (vv. 1694-1705) il commediografo relega nella categoria cumulativa dei Ventrilingui ( jEgglwttogavstore~, “quelli che si procurano da vivere lavorando con la lingua”, un termine creato su ejgceirogavstore~ “quelli che si procurano da vivere con il lavoro delle proprie mani”), comprendente, oltre ai sicofanti (cfr. vv. 1410-1469), anche i retori di stirpe barbara, come i “Gorgia” e i “Filippo” (per un analogo uso del plurale dei nomi propri in senso spregiativo cfr. Ach. 270, 602-605 ; Av. 1221-1223 ; Thesm. 547, 550 ; Ran. 1043), professionisti di tevcnai esercitate nelle assemblee e nei tribunali per il personale profitto, con incalcolabile danno per la città.  



























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descrive Demo in Eq. 1375-1380, se ne stavano seduti a dire stupidaggini, esaltando e ammirando l’abilità oratoria di Feace, ricco e brillante ateniese che aveva saputo, con la sua eloquenza, sfuggire alla pena capitale, prevista, se ci si attiene alla spiegazione dello scolio, da un’accusa giudiziaria a suo carico. 1 L’eroe comico partecipa anche attivamente e rumorosamente alla seduta assembleare con una condotta che, seppure portata all’ovvia esagerazione in funzione della vis comica, non doveva essere inusuale nel contesto di un’ekklesia. Qui in teoria ogni partecipante poteva prendere la parola, anche se è presumibile che solo una minoranza di gente, esperta nell’elaborazione dei discorsi e competente in fatto di politica, era in grado di farsi avanti : qualità che solo i leaders politici, educati da sofisti e oratori e divenuti i padroni del mezzo suasorio della parola, strumento di potere, potevano sfoggiare nelle assemblee. A metà tra la folla anonima e i capi politici si agitava una massa di retori di secondo piano, che Iperide, riferendosi alla cerchia di Demostene, chiama con grande disprezzo “signori del tumulto e dell’urlo” (1, fr. 3, col. xii ; cfr. Dem. 13, 20), una sorta di gregari che ruotavano intorno ai capi politici, e a vantaggio di quelli cercavano, anche con minacce, di influenzare il popolo. 2 Non gregario di qualche capo politico, né tanto meno rhetor, il contadino di Acarne dovrebbe far parte della schiera degli anonimi cittadini che ascoltavano in silenzio i discorsi dei politici ; fin dall’inizio, invece, con i suoi continui interventi, egli gioca il ruolo di perturbatore dell’ordine e, come aveva annunciato ai vv. 37-39, grida, interrompe e insulta gli oratori poiché rifiutano di parlare della pace, anche se, con una modalità convenzionale nel genere comico, le sue critiche moleste sono del tutto ignorate dagli altri personaggi in scena, che non gli permettono di inserirsi nel dialogo e agiscono come se egli non fosse presente. 3 Il comportamento da cittadino indisciplinato e facile all’insulto esibito nell’assemblea da Diceopoli rientrava nel diffuso malcostume che non sfuggiva alla critica mordace dei poeti comici 4 e al profondo sdegno dei retori del iv sec., i quali descrivono l’ekklesia piena di schiamazzi e di urla che interrompevano i rhetores, anch’essi, tuttavia, aspramente criticati per la loro indisciplina (ajkosmiva), che né le leggi né i pritani riuscivano a frenare. 5 Denunciando questa deprecabile situazione, che testimoniava uno scadimento generale dei costumi della vita civile e politica, gli oratori del iv sec. individuarono piuttosto nelle più grandi figure del secolo precedente (Pericle, Nicia, Aristide) i loro esempi da imitare e, misurando compiaciuti l’abisso che li separava  

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1  Schol. Eq. 1377 a : deino;~ rJhvtwr oJ Faivax ou|to~, wJ~ kai; ajpofugei`n qanavtou ejp j aujtofwvrw/ krinovmeno~ ; sul ruolo di Feace nella vita politica della città, sulla sua rivalità con Alcibiade e sulle sue attitudini oratorie, cfr. Thuc. 5, 4-5 e Plut. Alc. 13, Nic. 11. Altre fonti comiche riguardanti il negozio dei profumi come luogo d’incontro privilegiato dei giovani ateniesi perditempo sono Ar. Dait. frr. 210 ; 213 K.-A. (= 8 ; 9 Cassio), Pherecr. frr. 2 e 70 K.-A. ; Eup. fr. 222 K.-A. ; e, nella produzione oratoria, Isocr. C. Call. 9 ; Lys. 23, 3 ; 24, 20 ; Dem. 34, 13 ; 54, 7. 2  Corrisponde a questa tipologia di politicante la descrizione demostenica di Aristogitone, avversario dell’oratore, còlto mentre urla, si lamenta e va su e giù per le assemblee, per tacere, poi, una volta intascata una bella somma (25, 47 ; 26,19) ; vd. Canfora 1992, pp. 382-385. 3  È quanto ripetutamente accade in tutta la scena, con sicuro effetto comico, ai vv. 67, 71-72, 75-76, 79, 83, 86-87, 90, 92-93, 94-97, 135, 137, 139-140, 151-152, 154, 156-158. 4  Ad es. Ar. Eccl. 248-257, 399-407, 431-433 : vd., relativamente a questi passi, il commento di Vetta 1989. 5  In vari modi il pubblico poteva disturbare lo svolgimento della seduta, con interruzioni (Lys. 12, 73 ; Dem. 8, 38), applausi o proteste (Aeschin. 2, 51 ; 3, 224), insulti e minacce (Dem. 21, 194), risa e sghignazzi (Aeschin. 1, 80-4), fischi e grida (Plat. Prot. 319 c ; Xen. Hell. 1, 7, 13).  































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dai demagoghi del v secolo e dai retori corrotti del loro tempo, rivendicavano la libertà di parlare senza dover compiacere il popolo nell’assemblea, essendo essi estranei alla corruzione 1. In una famosa pagina dell’orazione Contro Timarco (25-32), Eschine ricorda leggi di antica data, di matrice soloniana, espressione della swfosuvnh giuridica del legislatore il quale, oltre a indicare chiaramente i casi in cui il cittadino colpito da ajtimiva non poteva parlare, affermava che le parole semplici e disadorne di un uomo onesto erano più utili alla città di quelle che – seppure un modello d’eloquenza – erano pronunciate da un uomo spudorato e insolente : chi si presentava alla tribuna doveva curare la sua condotta di vita prima che lo stile del discorso, senza trascurare le buone norme di un comportamento ordinato (eujkosmiva), che vietavano, ad esempio, di parlare con la mano fuori del vestito. La tradizione di stampo conservatore, espressa da autorevoli rappresentanti della poesia comica e della storiografia del v secolo, Aristofane e Tucidide, aveva già indicato, come responsabili del processo involutivo, i demagoghi, i politici che dopo la morte di Pericle si erano posti alla guida del versante radicale del partito democratico : soprattutto, fra di loro, Cleone fu rappresentato come il prototipo dell’oratore dalla gestualità scomposta, dai toni violenti, dall’atteggiamento tracotante e compiacente, e come l’autore del degrado della retorica politica e, insieme, della democrazia, 2 in perfetta antitesi con Pericle, del quale, invece, si ricordava l’oratoria misurata e composta, vigorosa ed efficace, sorretta dall’inalterabilità della voce e accompagnata dalla solennità dei gesti (Plut. Per. 5). 3 Conseguente alla denuncia inascoltata di Diceopoli riguardo al cattivo uso dell’istituzione democratica, è la progettazione di un piano, da lui stesso definito deino;n e[rgon kai; mevga (v. 128) e realizzato nel suo spazio privato, che si concretizza con la conclusione di una tregua personale con i Lacedemoni, della durata di 30 anni, per sé e per la sua famiglia, che gli permetterà, invidiato da tutti, di trafficare liberamente con i Peloponnesiaci nel suo mercato e di godere finalmente delle gioie della pace. Nella dinamica teatrale, si passa così dalla rappresentazione di una verosimile riunione sulla Pnice, che per certi tratti presenta addirittura un valore documentario, all’attuazione di un programma che si pone in termini alternativi rispetto alla modalità democratica, dalla quale prescinde completamente : una soluzione drammaturgica solo in apparenza di tenore antidemocratico, poiché la trovata ingegnosa di Diceopoli non si pone propriamente come un atto di eversione, ma piuttosto come una ingegnosa, individuale, privata soluzione che coesiste con l’istituzione democratica, che non è necessario rovesciare ; e si configura, al tempo stesso, talmente inattuabile da consistere di pura fantasia. Essa denuncia sì un profondo disagio, e alcune macro 

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1 Dem. 3, 21-22. Sulla presenza rilevante di questo tema nella produzione demostenica cfr. Canfora 1992, pp. 390-392. 2  Aristofane colpisce con forza la sua oratoria esercitata nella Boule (Ach. 377-382 ; Eq. 624-682), descrivendola, mediante elaborate immagini metaforiche, come violenta, menzognera, spudorata e demagogica, in diversi passi delle opere composte tra il 425 e il 421 (ad es. Vesp. 31-46 e 1030-1035, quasi identici a Pax 752-758), nell’intera commedia Cavalieri e poi nelle Rane (vv. 569-578). La tradizione storiografica (Thuc. 3, 25-40 ; 4, 27-28 ; Theop. FGrHist 115 F 92 ; Arist. Ath. Pol. 28, 3 ; Plut. Praec. ger. reip. 3, 799d ; Nic. 8, 6) ricorda, del politico che urlava dalla tribuna lanciando insulti con indosso una cintura stretta ai fianchi che gli permetteva di essere libero di gesticolare e correre qua e là, gli aspetti deleteri delle sue esibizioni concernenti, in particolare, l’actio : vd. Fileni 2012. 3  Secondo il severo giudizio espresso da Tucidide sui successori dello statista (2, 65, 7-12), il governo di Pericle e il suo modo di parlare al popolo avrebbero segnato il discrimine fra politica e oratoria positiva e negativa.  













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scopiche falle del sistema, ma non il sistema tout court. La scelta della pace, operata dal contadino di Acarne, e anche una concezione positiva della felicità, del benessere, e una fiducia ottimistica nelle potenzialità individuali che percorrono tutta la commedia, erano d’altronde profondamente connaturate all’ideale della democrazia, che nel programma enunciato da Pericle nell’Epitafio (Thuc. 2, 35 ss.) prevedeva la realizzazione delle condizioni necessarie per la fruizione di quei beni materiali di cui Diceopoli, come probabilmente la maggior parte dei cittadini, voleva godere, rivendicando il diritto a una vita serena e il rifiuto di una guerra voluta da alcuni demagoghi guerrafondai, ambiziosi e avidi di potere che, fra l’altro, erano condannati anche negli stessi ambienti democratici. 1 Teatro dell’azione, questa volta non agìta direttamente sulla scena, ma narrata da diversi personaggi, è ancora, a distanza di anni, la Pnice, nella commedia Ecclesiazuse che, rappresentata alle Lenee del 391 a.C. nel contesto della nuova democrazia moderata, inscena il rivoluzionario tentativo delle donne ateniesi di impadronirsi del governo della città. Nel corso di un’assemblea le donne, travestite da uomini, riescono ad ottenere il consenso generale e ad attuare il loro piano. 2 L’utopico progetto di un governo al femminile – un esempio di mondo alla rovescia – è disegnato, e messo a punto con successo, proprio dall’interno del sistema democratico, nel cuore dell’istituzione che meglio lo rappresenta : ancora una volta non si propone il rovesciamento del sistema, né un’alternativa istituzionale, ma un disegno inaudito che, attraverso la sostituzione della dimensione domestica a quella pubblica, risani la polis ponendo rimedio allo stato di sofferenza sociale ed economica in essa prodottosi. Il percorso che porta le donne alla realizzazione del loro progetto passa attraverso la Pnice e ne è strumento l’oratoria esercitata nel suo ambito. Conseguenza di questa impostazione drammaturgica è che in misura più massiccia rispetto agli Acarnesi e alle altre commedie, le Ecclesiazuse offrono una testimonianza fondamentale degli usi assembleari e della retorica politica. 3 Sulla scena di quest’opera è particolarmente elevato il livello di attenzione verso alcune modalità della performance oratoria, riprodotte secondo diversi standard esecu-

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1  Cfr. Musti 1995, pp. 118 ss. e 263. 2  La commedia riporta alla ribalta il tema dell’oratoria politica che è piuttosto estranea a questa fase finale della carriera del commediografo, contrariamente a quanto accade nella prima produzione, così strettamente legata alla tematica politica, alla lotta contro Cleone e all’impegno pacifista. 3  Soprattutto nella prima parte dell’opera : vv. 19-21, 82-85, 148, 282-284, 291, 394-395 : assemblea all’alba ; 86-87 : posti a sedere sotto la tribuna dei pritani ; 122, 171 : corona indossata dall’oratore ; 129-130 : rito purificatorio con animale ; 130 : chi vuole prendere la parola ? ; 142-143 : ubriachi buttati fuori dalle guardie ; 151-155 : breve orazione ; 183-188 : Agirrio ; 171-240 : demegoria di Prassagora ; 248-256 : insulti nell’assemblea ; 258-259 : intervento degli arcieri ; 301-310, 380, 547-548 : compenso dei partecipanti ; 378-379 : corda tinta di rosso ; 396397 : ordine del giorno ; 398-404, 431-432 : urla del demo ; 677-679 : il bema. Un’altra rilevante fonte di notizie e di dati relativi allo svolgimento dell’assemblea è costituita dalle Tesmoforiazuse, messe in scena nel 411, dove in un’ardita situazione comica si rappresenta la riunione delle devote di Demetra e Core, che probabilmente si svolgeva proprio sulla Pnice (dove le donne salivano nel primo giorno delle Tesmoforie, per raggiungere il santuario di Demetra che, come sembra, aveva sede sulla collina : cfr. Judeich 1931, pp. 398399) e che era stata indetta apparentemente per celebrare la festa in onore delle dee, in realtà per decidere le sorti di Euripide in una seduta assembleare : un continuo intreccio del piano religioso e di quello politico, di linguaggio cultuale e giuridico, particolarmente evidente e ricco di soluzioni poetiche brillanti nella parodo (vv. 295-382), dove si svolgono le operazioni preliminari della riunione, descritte secondo la modalità parodica, che comporta un riadattamento, nella forma o nel contenuto (o in entrambi) delle formule sia religiose che assembleari (per un commento puntuale delle singole sezioni, che mette in rilievo questo duplice livello di scrittura, cfr. Prato-Del Corno 2001).  





































































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tivi : le strutture tipiche della demegoria, rintracciabili nell’intervento di Prassagora ai vv. 171 ss., che riproduce in modo parodico le diverse parti del discorso assembleare, riproponendone formule, lessico e figure retoriche ; 1 i tentativi impacciati di alcuni partecipanti, che precedono forme più sicure e intraprendenti di linguaggio da parte della protagonista (vv. 395-457) ; il riferimento preciso ai topoi della retorica assembleare (vv. 151-155), 2 propri del discorso del rhetor che è ormai un politico di professione formato alle scuole di retorica, per il quale l’assemblea rimane il luogo privilegiato dell’affermazione personale, in un generale clima di stimolazione alla partecipazione politica, alla volontà di intervenire nell’ekklesia e di avanzare proposte, nel iv sec. incentivata dalla concessione di decreti onorari e di corone d’oro al rhetor che si fosse distinto nel corso dell’anno (IG ii2 223 A). Complessivamente, si realizza una variegata rappresentazione del linguaggio assembleare, riprodotto in chiave parodica nella gamma delle sue possibili realizzazioni, in questa commedia rappresentata, esattamente come gli Acarnesi, durante le feste lenee : 3 una destinazione che prevedeva la partecipazione di un pubblico esclusivamente ateniese, in grado di percepire e gustare la comicità di un’opera saldamente incentrata su personaggi, leggi, istituzioni, monumenti pubblici, spazi condivisi della polis. In due opere appartenenti l’una all’inizio e l’altra all’ultimo periodo della sua attività, il commediografo ambienta l’azione nel contesto di una pubblica assemblea, riservando alla sua rappresentazione un livello di discreto realismo e richiamando allo stesso tempo il rapporto oppositivo tra Pnice e agora : con esiti, tuttavia, un po’ diversi sul piano drammaturgico e ideologico. Gli Acarnesi avevano proposto, contro la politica imperialistica e la corruzione della democrazia radicale, una via di fuga nel sogno, in un mondo – il mercato privato di Diceopoli – onirico e al tempo stesso speculare rispetto a quello reale ; le Ecclesiazuse, composte in un periodo segnato, a livello istituzionale, dalla recente restaurazione della democrazia moderata 4 e dalla riaffermazione della legittimità del governo popolare, successiva alle traumatiche esperienze del governo oligarchico del 411 e del colpo di stato dei Trenta tiranni nel 404, trasformano in spettacolo la fantasia di un’assemblea in mano alle donne, che ha la finalità di rovesciare non l’istituzione, bensì i rapporti intercorrenti, nella sfera del reale, fra ricchezza e povertà, oltre ai normali ruoli fra i sessi. Ma la vecchia formula del progetto utopico viene qui deformata in modo vistoso, tanto da autorizzare una parte della critica moderna a leggerla come una forma di parodia, come un processo di autodistruzione dell’antica commedia utopistica. 5 Il comunismo dei beni, delle donne e dei figli, l’abolizione dei tribunali e l’istituzione dei pasti in comune rivelano, alla prova dei fatti, incongruenze e conseguenze assurde tali da far rimpiangere la realtà vera, che viene in tal modo implicitamente rivalutata : una tendenza dell’ulti 







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1  Cfr. Vetta 1989, pp. 158-159. 2  In questi pochi versi sono concentrate le parti canoniche dell’orazione (prooivmion, provqesi~, ejpivlogo~, dichiarazione di voto) : cfr. Vetta 1989, pp. 156-157, al quale si rinvia anche per l’interessante ipotesi che sulla scena avesse luogo la parodia degli oratori più noti, dei quali potevano essere riprodotti le inflessioni della voce o i difetti di pronuncia e la gestualità (pp. xxi-xxii e 168). 3  Lo si può affermare, sebbene in assenza della didascalia agonale, sia per il registro comico sia per alcuni particolari interni che sono altrettanti indizi di questo contesto (cfr. Vetta 1989, pp. xxx-xxxi). 4  Essa corrisponde all’undicesima delle metabolai individuate da Aristotele, Ath. Pol. 41, 2, nella storia costituzionale di Atene. 5  Cfr. Flashar 1967 ; Carrière 1979, pp. 102-107 ; Vetta 1989, pp. xxii-xxv.  





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mo Aristofane che credo debba essere valutata non solo in rapporto ad una linea evolutiva del teatro comico, preludio di forme e contenuti della produzione della neva, 1 ma anche, a livello ideologico, come un’adesione alla tendenza generalizzata, che si profila all’inizio del iv sec., verso un allentamento della tensione dell’idea democratica e della situazione politica fortemente conflittuale che avevano caratterizzato il secolo precedente. 2 In alcune occasioni create da Aristofane, il teatro di Dioniso si fa, nella finzione scenica, spazio assembleare, rendendo possibile una identificazione del pubblico teatrale con quello assembleare, di solito sottolineata dal coro o da un personaggio nei momenti di improvvisa rottura dell’illusione scenica, come ad esempio fa Cremete, indicando gli spettatori, in un passo delle Ecclesiazuse (vv. 439-440) : una sorta di prefigurazione, sul piano drammaturgico, di quello che poi effettivamente si verificò quando, a partire dalla fine del iv secolo, il teatro, ricostruito in pietra da Licurgo e ampliato, cominciò ad essere preferito alla Pnice fino a costituire lo spazio canonico per le riunioni dell’assemblea (IG ii2 389), come accadeva in molte città greche. 3 Il teatro, che era strutturalmente e ideologicamente politico, nel senso di uno stretto legame con la città, e che era espressione della cultura democratica, si arricchiva ora di una importante funzione politica e civile, realizzando quella complementarità e specularità tra spazio scenico e spazio assembleare che aveva già caratterizzato l’agora ; allo stesso tempo testimoniava quella specificità che lo contraddistingueva rispetto a tutti gli altri luoghi pubblici della città e che trova, in un passo di Polluce (8, 132) tratto dall’Onomasticon, un’appropriata qualificazione nel termine polupragmosuvnh, riferito in particolare al teatro di Dioniso dove si svolgevano le attività fino a quel momento condotte sulla Pnice, della quale si ricordava ormai, per contrasto, l’antica semplicità. Nel concetto, evidenziato dagli antichi e accolto dai moderni, di “polifunzionalità” non va dimenticata la capacità del teatro di sussumere, secondo le diverse modalità proprie delle varie forme di spettacolo in esso allestite, spazi “altri”, e, fra essi, quelli adibiti all’oratoria pubblica, quali l’agora e la Pnice, dove quotidianamente erano protagonisti gli stessi spettatori teatrali, i quali in un raffinato e talvolta inquietante gioco di specchi si vedevano riflessi sulla scena e si osservavano, impietosamente descritti come vittime delle lusinghe degli adulatori, come tanti sciocchi creduloni che se ne stavano a bocca aperta, con l’aria inebetita di chi mastica fichi secchi (Eq. 752-755), a farsi abbindolare dalle chiacchiere dei demagoghi (Ar. Ach. 633-640 ; Eq. 651), aprendo e chiudendo meccanicamente le orecchie quasi fossero ombrelli (Eq. 1347-1348) : sperava, il poeta comico, di mettere in guardia i suoi concittadini dall’oratoria seduttiva e ingannatrice dei politici corrotti e di trasmettere loro, mediante una precisa operazione didattica (didavskei, Ach. 656), gli insegnamenti più utili alla polis, adempiendo quella funzione paideutica istituzionalmente svolta dalla poesia drammatica.  



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1  Per le novità dell’impianto strutturale della commedia, che si discosta da quello tradizionale, si rinvia a Vetta 1989, p. xxii ss. 2  La democrazia moderata conosce una maggiore espansione e diffusione dell’idea democratica, che si concretizza nella presenza accentuata di personaggi comuni, di livello sociale più basso, sulla scena politica, di una classe media che fa sua l’idea della patrios politeia e della homonoia : sugli aspetti della politica e della democrazia nel iv sec. vd. Musti 1995, pp. 213-219. 3  Vd. McDonald 1943, p. 56 ss. La Pnice continuò ad essere usata preferibilmente per le elezioni dei magistrati, se dobbiamo affidarci a Polluce (8, 132-133 ; cfr. Hesych. s.v. Pnuvx), che però non fornisce precise indicazioni cronologiche.  



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SPA ZIO POLITICO E SPA ZIO DELLA SOV VER SIONE Cinzia Bear zot

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U

n recente lavoro di Julia Shear, Polis and Revolution. Responding to Oligarchy in Classical Athens (Cambridge 2011), 1 prende in esame le strategie di carattere pubblico adottate dagli Ateniesi per uscire dalle brevi, ma dolorose crisi oligarchiche di fine v secolo e favorire la ricostruzione di una comunità democratica unita e concorde. Particolarmente originali, in un volume il cui limite è quello di ignorare sistematicamente la bibliografia che non sia scritta in inglese e di muoversi dunque spesso in un contesto del tutto autoreferenziale, appaiono le osservazioni sulla ‘politica dello spazio’ e sugli obiettivi comunicativi e propagandistici perseguiti sia dagli oligarchi, sia dai democratici : lo spazio pubblico, già plasmato e sfruttato a proprio favore dagli oligarchi durante il loro governo, venne ‘ridemocratizzato’ attraverso un articolato processo di riappropriazione, con interventi che coinvolsero l’agora con i suoi edifici pubblici, dalla Stoa Basileios al bouleuterion, e l’Acropoli. La Shear mette l’accento su un tema importante, che è già stato ampiamente valorizzato dalla critica : quello dello spazio della polis, con le ben note antinomie tra spazio pubblico e spazio privato, spazio politico e spazio religioso, spazio dei cittadini e spazio dei residenti. 2 Le crisi democratiche di fine v mettono in evidenza il carattere potenzialmente sovversivo degli spazi pubblici – o, meglio, della ‘politica dello spazio’ di volta in volta adottata : gli spazi della città, normalmente deputati allo svolgimento delle regolari attività politiche, vengono utilizzati, oppure abbandonati e sostituiti da altri, o ancora manipolati per scopi sovversivi. La questione non è stata studiata in modo sistematico finora. In questa sede mi limito a prendere in considerazione qualche esempio di questo stravolgimento degli spazi pubblici (spazi democratici, trattandosi di Atene), che attenta al kosmos democratico, 3 nel corso delle vicende del 411 e del 404.  











L’assemblea di Colono (giugno 411: Th. 8, 67, 2-3; 69, 1) Non è il caso di ripercorrere qui dettagliatamente le vicende del colpo di stato del 411, 4 che, come è noto, prende le mosse dall’iniziativa di Alcibiade, il quale, esule presso il satrapo Tissaferne, cercava con ogni mezzo di ottenere il richiamo in patria. Nel 412 la flotta ateniese si trovava di stanza a Samo, rimasta fedele e divenuta la base per le operazioni nell’Egeo ; Alcibiade contattò gli antidemocratici ateniesi, forse ritenendo di poter trovare più facilmente appoggio presso i nemici di quella democrazia che lo aveva esiliato, e promise di procurare ad Atene, in cambio del rientro in patria, l’amicizia di Tissaferne e il denaro del Re ; Atene avrebbe però dovuto instaurare un regime non democratico.  





1  Cfr. Bearzot 2012. 2  Una sintesi in Bearzot 2009b, p. 60 ss. 3  Un riferimento al kosmos democratico si trova nel discorso di Frinico riportato da Th. 8, 48, 4. Cfr. in proposito Cagnetta 1977 e 1980. 4  A questo proposito, si rimanda a Heftner 2001.

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Pisandro, incaricato dagli antidemocratici ateniesi a Samo di recarsi ad Atene “per discutere sul ritorno di Alcibiade e sullo scioglimento della democrazia, e per fare Tissaferne amico di Atene” (Th. 8, 49), 1 vi giunse, con gli altri delegati, nel gennaio del 411. Il gruppo si presentò in assemblea (Th. 8, 53), per dire che gli Ateniesi “potevano avere il re come alleato e vincere i Peloponnesiaci, se avessero richiamato Alcibiade e se non si fossero governati in modo così democratico”. Avvalendosi abilmente della propaganda sulla ‘democrazia diversa’ (mh; to;n aujto;n trovpon dhmokratei`sqai) e sull’emergenza (soteria), Pisandro ottenne l’assenso del popolo, il quale “dapprima malvolentieri accettava che si parlasse di oligarchia, ma, informato con chiarezza da Pisandro che non c’era altro modo di salvarsi, temendo e sperando di cambiare poi nuovamente il futuro ordinamento oligarchico, cedette” (Th. 8, 54, 1). Ottenuto questo successo, Pisandro, dovendosi allontanare da Atene per gestire i rapporti con Tissaferne e Alcibiade, prese contatto con i membri delle eterie e li invitò a riunirsi per concordare un’azione volta ad abbattere la democrazia (Th. 8, 54, 2). Le trattative con Tissaferne fallirono, ma il progetto antidemocratico andò avanti. Ebbe inizio così la seconda parte della missione di Pisandro, inviato ad Atene con altri ambasciatori “perché vi sistemassero ogni cosa” : essi avevano ricevuto l’ordine di istituire l’oligarchia nelle città dell’impero in cui fossero approdati durante il viaggio, e così fu fatto a Taso e in altri luoghi (Th. 8, 64 e 61, 1). Pisandro giunse ad Atene intorno a marzo, e vi trovò il terreno preparato dall’azione delle eterie. Esse avevano agito con il terrorismo e la propaganda, eliminando i capi del popolo presenti in città, creando un clima di insicurezza e di sospetto e diffondendo un programma consistente nell’abolizione della retribuzione delle cariche pubbliche (che doveva essere riservata ai soldati) e nella riduzione dei diritti politici a circa 5000 cittadini di censo oplitico. 2 Tucidide non esita a giudicare questo programma del tutto fittizio e mirante solo a catturare il consenso dell’opinione pubblica : “questa era la scusa presentata al popolo, giacché chi cambiava la costituzione della città voleva anche dominarla” (Th. 8, 66, 1). A Pisandro e ai suoi restava solo da compiere l’opera : convincere l’assemblea a ratificare formalmente il cambiamento costituzionale. E proprio a questo punto incontriamo, nel racconto di Tucidide, una interessante anomalia di carattere ‘spaziale’ : dopo una prima assemblea, in cui si deliberò di nominare dieci syngrapheis autokratores, incaricati di redigere una proposta da presentare al popolo “sul modo migliore di governare lo stato” (Th. 8, 67, 1), l’assemblea decisiva venne convocata non nella Pnice, l’ekklesiasterion appositamente costruito dove abitualmente si riuniva il popolo, ma fuori dalle mura della città, a Colono, in un tempio dedicato a Posidone Ippio e situato a dieci stadi (un paio di km. scarsi) dalla città (Th. 8, 67, 2). Il testo presenta un problema a proposito del verbo che esprime l’idea della convocazione dell’assemblea : la lezione xunevklh/san (“chiusero”, oppure “confinarono”), che sembra implicare già un chiaro giudizio da parte di Tucidide, sembra preferibile a xunevlexan (“riunirono”), che costituisce lectio facilior. 3 Ci si è interrogati sulla motivazione di questa convocazione anomala, che sembra

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1  Trad. Ferrari 1985. 2  Su queste “tecniche” cfr. Bearzot 2006. 3  Cfr. Gomme-Andrewes-Dover 1981, p. 165 : va accettato xunevklh/san, con cui si allude probabilmente al recinto di Posidone come a un luogo chiuso, forse troppo piccolo per ospitare una normale assemblea.  

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da collegare con intenti di manipolazione della volontà popolare. 1 Nulla possiamo dire su un altro caso attestato per via epigrafica (forse un possibile precedente), la riunione assembleare nel Liceo cui si fa riferimento in IG i3105, 34 (tavde e[docsen ejl Lukeivo to º i` dº[evmoi toi` ∆A]qeº º[na]ivon). L’iscrizione contiene, a quanto sembra, il testo di una legge che stabilisce i limiti di competenza della boule ; la si data al 409 ca., inserendola nell’opera di revisione delle leggi avviata dopo il 411, ma alcuni ritengono che sia la copia di un testo più antico, risalente all’epoca clistenica. 2 Perché una legge di questo genere sia sortita da una assemblea tenuta nel Liceo è impossibile dire. Molto dipende anche dalla data : se la legge è clistenica, forse la Pnice non esisteva ancora ; se è più tarda, si può ipotizzare un motivo di carattere religioso-sacrale. Ma non si può andare oltre. Tornando a Colono, un primo elemento che è stato sottolineato per spiegare la scelta di convocare colà l’assemblea è l’intento di intimidire il popolo. È stato osservato che difficilmente gli Ateniesi sarebbero usciti volentieri dalle mura disarmati, con gli Spartani in Attica, e ciò avrebbe favorito la partecipazione degli opliti, che avevano le armi, e limitato quella dei teti. 3 Ciò avrebbe avuto due possibili conseguenze : da una parte, gli opliti ateniesi in armi avrebbero potuto svolgere una funzione simile a quella svolta in seguito dagli opliti stranieri che aiutarono i Quattrocento a sciogliere la boule e a sgombrare il bouleuterion (Th. 8, 69, 3) ; 4 dall’altra, la convocazione extramurale avrebbe inteso limitare il numero dei presenti, soprattutto se di orientamento sicuramente democratico, e ottenere un’assemblea più facilmente manovrabile. 5 È stata anche attirata l’attenzione sull’aspetto simbolico della scelta di un luogo, il tempio di Posidone Ippio, legato, anche sul piano cultuale, ai cavalieri, che in buona parte simpatizzavano per l’oligarchia : la scelta avrebbe dunque un preciso carattere politico. 6 Si possono certamente ammettere diverse motivazioni convergenti, che in gran parte non siamo più in grado di cogliere : a me pare, però, che l’intento prevalente debba essere stato quello di ridurre (ed eventualmente selezionare qualitativamente) il numero dei presenti. La partecipazione all’assemblea, come è noto, non era mai amplissima : 6000 era il quorum per le votazioni sui diritti personali dei cittadini, il che fa supporre che difficilmente si superasse questa quota, che corrisponde, mediamente, al 20% degli aventi diritto. 7 La convocazione fuori dalle mura, per il suo stesso carattere anomalo e per difficoltà logistiche, avrebbe probabilmente scoraggiato molti ; lo stesso luogo non doveva essere in grado di accogliere un pubblico numeroso, giacché l’uso del verbo xunkleivw sembra alludere a un luogo chiuso, che,  





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  1  Cfr. Hornblower 2008, pp. 949-950. Sul tema della manipolazione nella democrazia ateniese cfr. Bearzot 1999 ; Tuci 2002 ; 2002-03 ; 2013.   2  Cfr. Gomme-Andrewes-Dover 1981, p. 166 ; IG i3 105 ; Shear 2011, p. 89 ss., in part. pp. 97-98, 108 (ove si sottolinea il linguaggio arcaizzante). 3  Cfr. Ostwald 1986, pp. 373-374. 4  In Xen. Hell. 2, 3, 56 si sottolinea che, all’epoca della condanna di Teramene, i buleuti – peraltro nominati dai Trenta fra persone di loro fiducia, cfr. § 11 – non reagirono alla palese illegalità del comportamento di Crizia per paura, in quanto fuori dal bouleuterion era pieno di uomini armati. Condizionare le assemblee con la minaccia delle armi era abitudine degli oligarchici. 5  Cfr. Gomme-Andrewes-Dover 1981, p. 167, ove si fa notare che Colono è molto vicina e timori di questo genere non dovevano essere giustificati ; tuttavia Hornblower 2008, p. 947 ricorda che secondo Th. 8, 71, 1 il re Agide giunse, con una sortita, fin sotto le mura di Atene. 6  Cfr. Siewert 1979 ; Spence 1993, p. 189. Possibili motivazioni cultuali sono sottolineate anche da Gomme-Andrewes-Dover 1981, pp. 166-167. 7  Cfr. Hansen 1983 ; Hansen 1991, p. 130 ss.  















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diversamente dalla Pnice, probabilmente non offriva grandi spazi. 1 Se si tiene conto che già la lontananza della flotta sottraeva all’assemblea una parte significativa dei teti, l’ultima classe di censo, che servivano come rematori, è chiaro che, limitando ulteriormente il numero dei partecipanti provenienti dal proletariato urbano, l’assemblea sarebbe risultata assai più controllabile ; sarebbe stato così possibile ridurre al silenzio quell’opposizione che, in gennaio, si era presentata ancora piuttosto vivace (Th. 8, 53, 2 e 54, 1). E così fu. A Colono i congiurati gettarono finalmente la maschera : dopo che i syngrapheis ebbero chiesto l’impunità per chi avesse avuto proposte da fare, “fu detto a chiare lettere (lamprôs) che da allora in poi nessuna magistratura si sarebbe esercitata nello stesso modo di prima” e che la retribuzione sarebbe stata abolita ; l’assemblea avrebbe dovuto scegliere cinque proedri, i quali avrebbero designato cento persone, che a loro volta ne avrebbero indicate tre ciascuno. “Questi Quattrocento … avrebbero governato nel modo migliore secondo il loro giudizio, e avrebbero radunati i Cinquemila quando loro fosse piaciuto” (Th. 8, 67, 3). Venne così istituita un’oligarchia ristretta di Quattrocento persone, scelte con un sistema di cooptazione, destinate a governare autocraticamente. La riforma, presentata come l’attuazione di un regime più moderato, ma in fondo sempre democratico, si rivelò in realtà di carattere fortemente oligarchico. È molto significativo che l’assemblea di Colono abbia ratificato questa proposta “senza alcuna opposizione” (Th. 8, 69, 1 : oujdeno;~ ajnteipovnto~). La capacità di reazione del popolo ateniese era stata annichilita dall’attività delle eterie : prima di tutto, dall’eliminazione dei leader democratici, nonché dalla propaganda, dall’intimidazione e dal terrorismo, di cui Tucidide ci dà conto nel drammatico racconto di 8, 65-66. Nell’ambito di queste forme di condizionamento, merita di essere considerata anche la convocazione dell’assemblea a Colono : nel momento in cui si chiese al popolo di ratificare l’abbattimento della democrazia, ‘simbolicamente’ si disertò la Pnice, lo spazio delle assemblee democratiche, come se il luogo anomalo, in un certo senso, potesse contribuire a far sentire il popolo più disorientato e più debole. Un passo dei Cavalieri di Aristofane (424) sottolinea la grande importanza simbolica della Pnice per il popolo : ai vv. 746 ss., Paflagone chiede al popolo di riunirsi in assemblea per decidere chi gli sia più devoto, se lui stesso o il Salsicciaio ; quest’ultimo chiede di decidere, sì, ma non nella Pnice ; al che Demo risponde : “Non potrei sedere in altro luogo” (v. 750 : oujk a]n kaqizoivmhn ejn a[llw/ cwrivw)/ . Una battuta che induce a riflettere sul significato delle convocazioni in altra sede, come appunto quella a Colono. Subito dopo l’assemblea di Colono, la boule democratica fu sciolta, ancora una volta senza alcuna opposizione (Th. 8, 70, 1 : oujde;n ajnteipou`sa). I Quattrocento presero il potere in giugno (il 21 Targelione dell’arcontato di Callia : la data viene da Arist. Ath. 32, 1), insediandosi nel bouleuterion al posto della boule democratica dei Cinquecento (Th. 8, 69-70). Con ciò, uno spazio democratico altamente simbolico come il bouleuterion – l’istituzione della boule dei Cinquecento era stata uno dei perni della riforma di Clistene – venne occupato e trasformato nella sede della boule oligarchica : una boule che, nel numero, si richiamava alla boule dei Quattrocento, presente, secondo la tradizione, nelle antiche costituzioni di Dracone e di Solone e quindi pienamente  





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1 Cfr. supra, p. 94 n. 3.

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titolata ad essere definita patrios, “tradizionale”, e posta in contrasto con quella clistenica. 1 Con l’assemblea di Colono e l’occupazione del bouleuterion comincia la lotta per il controllo, da parte oligarchica, dello spazio della città, cui gli avversari, moderati e democratici, risponderanno prima con il ritorno spontaneo alla Pnice e poi con la dismissione del vecchio bouleuterion, trasformato in archivio di stato e sostituito dal nuovo bouleuterion. 2  



Il ritorno alla Pnice (settembre 411: Th. 8, 93-94, 1; 97, 1) Non abbiamo notizia di riunioni assembleari durante i quattro mesi in cui i Quattrocento restarono al potere e la cosa è ben comprensibile : essi non avevano alcuna intenzione di convocare assemblee, né del popolo, che avevano esautorato, né dei Cinquemila, che avrebbero dovuto godere dei diritti politici ma che non furono mai nominati, 3 e a proposito dei quali, dice Tucidide, essi non volevano “né che ci fossero né che si sapesse che non esistevano” (8, 92, 11). Abbiamo invece notizia di un’assemblea degli opliti ateniesi nel momento della caduta del regime, nel settembre del 411. Dopo aver distrutto, sobillati da Teramene e da Aristocrate, il muro si Eetionea, dal quale si sospettava che gli oligarchi irriducibili avrebbero introdotto gli Spartani in Atene, tradendo la città al nemico, gli opliti, “andati nel teatro di Dioniso dalla parte di Munichia (ej~ to; pro;~ th`/ Mouniciva/ Dionusiako;n qevatron) e deposte le armi, si riunirono in assemblea” (Th. 8, 93, 1) ; decisero in questa sede di dirigersi in città, e là deposero le armi nell’Anaceo, il santuario dei Dioscuri sulle pendici settentrionali dell’Acropoli. I Quattrocento inviarono delegati a trattare e a promettere agli opliti l’effettiva partecipazione al governo ; anche in considerazione della situazione di emergenza militare, ci si accordò per tentare una riappacificazione, da discutere in un’assemblea peri; oJmonoiva~ da tenersi nel santuario di Dioniso ad Atene (ejn tw`/ Dionusivw)/ , 4 in un giorno stabilito (Th. 8, 93, 3). Quando però venne il giorno dell’assemblea, l’avvicinarsi delle navi peloponnesiache che si recavano in Eubea costrinse gli Ateniesi a occuparsi primariamente della guerra esterna, e l’assemblea preventivata non poté svolgersi (Th. 8, 94, 1). Le due assemblee di cui parla Tucidide sono, in entrambi i casi, assemblee degli opliti, cioè di quanti avrebbero dovuto, almeno sulla carta, mantenere la cittadinanza sotto i Quattrocento : è interessante che entrambe siano collocate (l’una di fatto, l’altra solo in previsione) in luoghi alternativi, rispettivamente il teatro di Dioniso a Munichia e il santuario di Dioniso. La valutazione di queste scelte non è facile, anche in considerazione della diversità delle due situazioni in oggetto. Nel caso dell’assemblea nel teatro di Munichia, la scelta degli opliti può riflettere semplici problemi organizzativi. Si trattò di una riunione di carattere spontaneo, non convocata ufficialmente, con semplici funzioni consultive, ed è comprensibile che si

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1  Sul tema propagandistico della patrios politeia cfr. Cecchin 1969, p. 85 ss. ; inoltre, Mossé 1978 ; Bordes 1982, p. 342 ss. ; Shear 2011, p. 19 ss. 2  Shear 2011, p. 112 ss. 3  Su questo punto, fondamentale per la valutazione dell’esperimento oligarchico del 411, e oggetto di difformità tra Tucidide e Aristotele, cfr. Sordi 1981. 4  Alcuni preferiscono la variante testuale (ms. C) ejn tou` Dionuvsou : cfr. Hornblower 2008, p. 1024. Il significato, tuttavia, non cambia.  







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sia tenuta dove era possibile, e anche comodo, farlo, senza operare scelte significative dal punto di vista della sensibilità istituzionale. Che opliti che operavano al Pireo si siano riuniti a Munichia sembra dovuto pertanto, con ogni probabilità, a motivi di ordine pratico : la scelta non sembra poter essere caricata di significati particolari. Nel caso dell’assemblea “sulla concordia” prevista nel santuario di Dioniso, la motivazione è stata ricercata in questioni di carattere sacrale, o anche semplicemente in esigenze di spazio. 1 Ma forse è possibile, in questo caso, dire qualcosa di più, almeno in via ipotetica. L’assemblea ejn tw`/ Dionusivw/ venne decisa in seguito alle trattative svoltesi a Munichia tra gli opliti e i Quattrocento ; ora, in questa occasione questi ultimi avevano cercato di “persuadere quelli che vedevano moderati (epieikeis) a stare tranquilli e a trattenere gli altri, dicendo che avrebbero fatto conoscere i Cinquemila e che i Quattrocento sarebbero stati scelti tra di loro secondo il turno stabilito dagli stessi Cinquemila” ; queste promesse, e l’appello a non rovinare la città, avevano placato gli opliti e indotto a tentare una riappacificazione. Si comprende allora perché non si sia stabilito di incontrarsi nella Pnice : l’obiettivo, almeno da parte dei Quattrocento, era salvare il regime e una riunione assembleare nella Pnice, spazio democratico per eccellenza, aveva un valore simbolico pericoloso per gli oligarchi. Si può aggiungere che gli opliti stessi auspicavano, per il momento, non il ritorno della democrazia, ma solo il rispetto della promessa di attuare il governo dei Cinquemila ; accettare, in queste condizioni, di riunirsi in uno spazio alternativo non doveva costituire un problema particolare per loro, e non c’era dunque da aspettarsi una risposta come quella data dal Demo dei Cavalieri. Anche in considerazione di ciò, assume un notevole significato il fatto che l’assemblea degli opliti che depose i Quattrocento si riunì “nella cosiddetta Pnice, dove la convocavano di solito anche nei tempi precedenti” (Th. 8, 97, 1). Si trattò, in questo caso, di una assemblea di carattere deliberativo, in cui gli opliti si ripresero di fatto la sovranità loro sottratta, come avevano fatto i soldati della flotta di Samo nell’assemblea di Th. 8, 76. Questa assemblea, si noti, non segnò il ritorno della democrazia, ma il passaggio al regime dei Cinquemila, che restò in vigore fino al febbraio del 410 : tuttavia, gli opliti decisero in questo caso di tornare a utilizzare la Pnice, con una scelta di elevato valore simbolico che segnala, da una parte, una espressa frattura con l’esperienza oligarchica, dall’altra una consapevole riappropriazione dello spazio democratico da parte degli esponenti di un regime sentito, in ogni caso, più vicino alla democrazia che all’oligarchia. Parere, quest’ultimo, condiviso dai democratici della flotta di Samo, che avevano instaurato un governo democratico in esilio sotto la guida di Trasibulo e di altri democratici di fede sicura : 2 essi, che avevano rifiutato ogni trattativa con i Quattrocento, si erano detti invece disposti a trattare con i Cinquemila (Th. 8, 86, 6). La Pnice era il luogo della libertà e dell’autonomia democratiche : gli Ateniesi liberatisi dagli oligarchi estremisti, pur non restaurando ancora la piena democrazia, tornarono ad utilizzarla per indicare la fine dell’emergenza e il ritorno alla normalità. La successiva, piena restaurazione della democrazia, che si verificò in modo quasi ‘automatico’ nel febbraio del 410, sembra quasi anticipata dal ritorno alla Pnice da parte degli opliti ribelli all’oligarchia : un ritorno che segna l’abbandono degli spazi  





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1  Cfr. Gomme-Andrewes-Dover 1981, pp. 316-317.

2  Cfr. Mossé 1964 ; Sordi 2000.  

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politici anomali e potenzialmente ‘sovversivi’ e la riappropriazione dello spazio istituzionale. Questi episodi rivelano come la scelta del luogo dell’assemblea non sia, in linea di massima, casuale. Si può scegliere uno spazio anomalo rispetto alle consuetudini democratiche, con intenti sovversivi che ricadono inevitabilmente sulla qualifica dello spazio stesso (è il caso dell’assemblea di Colono e, probabilmente, dell’assemblea degli opliti prevista nel teatro di Dioniso) ; si può tornare allo spazio istituzionale normalmente utilizzato e poi abbandonato dalle forze sovversive, il cui rinnovato uso testimonia la riappropriazione politica delle strutture cittadine, la piena normalizzazione della vita politica e il passaggio dalla sovversione al ristabilimento del kosmos (è il caso dell’assemblea nella Pnice che depone i Quattrocento). Questi casi testimoniano anche la particolare attenzione di Tucidide ai luoghi del contrasto politico e alla gestione degli spazi pubblici, attenzione che è del tutto assente nella versione di Aristotele : del resto, forse solo una fonte contemporanea poteva percepire appieno il valore simbolico di certe scelte. Osserva giustamente la Shear che la vicenda dei Quattrocento è compresa, nel racconto di Tucidide, tra l’assemblea di Colono, espressione di anomalia istituzionale e di sovversione, e l’assemblea degli opliti nella Pnice, espressione della normalizzazione e del ritorno al kosmos democratico tradizionale. 1

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L’assemblea di Munichia (primavera 404) 2  

La seconda crisi democratica, quella del 404, che portò all’avvento dei Trenta Tiranni, ci propone un altro caso interessante di collocazione anomala dell’assemblea. Nell’ambito della preparazione del colpo di stato oligarchico, svolge un ruolo significativo il complotto giudiziario contro gli strateghi e i tassiarchi democratici che cercarono di opporsi alla ratifica del trattato di pace, contenente condizioni molto dure, che Teramene aveva riportato da Sparta e che costituì il presupposto dell’imposizione dell’oligarchia. 3 Tra costoro vi erano Dionisodoro, Strombichide, Nicia, Nicomene, Eucrate, Aristofane, Menestrato, oltre a molti altri cittadini. Il complotto che portò alla loro condanna a morte fu avviato dalle denunce di Agorato, contro il quale Lisia scrisse, per i parenti del defunto Dionisodoro, l’orazione 13 (Lys. 13, 13 ss.). 4  



1  Cfr. Shear 2011, pp. 37-38. 2  La cronologia assoluta dell’intero periodo compreso tra Egospotami e il rientro dei democratici (dunque tra la tarda estate del 405 e l’autunno del 403) e, in particolare, tra la resa di Atene e la caduta dei Trenta, si fissa con difficoltà. Gli agganci sicuri sono molto scarsi : la resa di Atene a Lisandro il 16 Munichione 404 (Plut. Lys. 15, 1), l’elezione dei Trenta sotto l’arconte Pitodoro (404/3 : Xen. Hell. 2, 3, 1 ; Arist. Ath. 35, 1), il ritorno di Lisandro a Sparta dopo la conclusione dell’assedio di Samo alla fine dell’estate 404 (Xen. Hell. 2, 3, 9), l’occupazione di File all’inizio dell’inverno 404 (Arist. Ath. 37, 1), la conclusione delle dialyseis alla fine della guerra civile sotto l’arconte Euclide (403/402 : Arist. Ath. 39, 1), la celebrazione dei caristevria ... ejleuqeriva~ per il ritorno degli esuli democratici il 12 Boedromione 403 (Plut. Mor. De glor. Ath. 349e), infine la durata di otto mesi del governo dei Trenta (Xen. Hell. 2, 4, 21). All’interno della griglia offerta da questi punti di riferimento, molti dei quali peraltro non esenti da motivi di incertezza, gli avvenimenti si distribuiscono in modo assai incerto, il che ha dato luogo ad una serie di ipotesi molto diversificate. Rimando, per una visione d’insieme della questione, a Rhodes 1981, pp. 436-437 ; Krentz 1982, p. 131 ss. ; Natalicchio 1996, p. 126 ; Green 1991. 3  Cfr. Xen. Hell. 2, 2, 22 ; Plut. Lys. 14, 5-6 ; Bearzot 2006, p. 47 ss. 4  Sulla quale, oltre a Bearzot 1997, si veda ora anche Piovan 2011, p. 94 ss.  

















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La vicenda è collocata da Lisia dopo il ritorno di Teramene da Sparta, nella fase di preparazione della terza assemblea “sulla pace” (cfr. Lys. 13, 17). 1 M quest’ultima si svolse, secondo Senofonte, il giorno immediatamente successivo al ritorno di Teramene (Xen. Hell. 2, 2, 22) e non è possibile inframmezzarvi le complesse trame di Agorato contro strateghi e tassiarchi. In Lisia errori e contrazioni cronologiche sono frequenti : egli non è uno storico e non si preoccupa di restituire un racconto storicamente impeccabile, ma di rendere efficace la sua argomentazione. In realtà, Strombichide, Dionisodoro e i loro compagni si recarono probabilmente da Teramene, rientrato da Sparta, per manifestare il loro malcontento e preannunciare la loro opposizione, probabilmente dopo l’assemblea “sulla pace” che si tenne all’indomani del ritorno degli ambasciatori e durante la quale furono comunicati i contenuti del trattato. 2 I democratici colsero subito le conseguenze della ratifica del trattato, soprattutto per la clausola costituzionale (forse espressa con politeuvesqai kata; ta; pavtria) 3 in esso contenuta, che diede adito alla discussione sulla patrios politeia di cui riferisce Aristotele (Ath. 34, 3) : “a parole la si chiamava pace, ma di fatto era la fine della democrazia” ; essi “non avrebbero mai permesso che accadesse una cosa simile … perché si rendevano conto che il potere del popolo in quel modo sarebbe stato abbattuto” (Lys. 13, 15). Per quanto certamente disposti a un accomodamento su molte delle clausole proposte da Teramene (ormai tutto era perduto e un compromesso era necessario), i democratici non intendevano recedere sulla salvaguardia della democrazia. Di qui la necessità, per Teramene e i suoi, di toglierli di mezzo prima della seduta assembleare decisiva, quella “sulla costituzione” in cui si instaurarono i Trenta : 4 essi, resisi conto della presenza di una potenziale opposizione ai loro piani, “decisero di coinvolgere in accuse e processi questi uomini prima che si tenesse l’assemblea sulla pace, in modo che poi in quella sede nessuno si levasse a parlare contro di loro in difesa del popolo” (Lys. 13, 17). L’obiettivo dell’azione è espressamente individuato nella volontà di stroncare l’opposizione in sede assembleare preannunciata dai democratici a Teramene ed è apertamente denunciato da Lisia come parte del piano organico concepito e sistematicamente realizzato da parte antidemocratica. La vicenda giudiziaria è complessa : l’iniziatore dell’iter fu un certo Teocrito (Lys. 13, 19), che chiamò in causa Agorato ; alla denuncia di Agorato in sede buleutica seguì un processo che va considerato, probabilmente, una eisanghelia all’assemblea promossa dalla boule. 5 Né Teocrito né Agorato stesso possono essere considerati, sul piano tecnico, i veri e propri attori del processo, ruolo che sembra spettare alla stessa boule. La denuncia di Agorato alla boule fu riproposta in sede assembleare, con l’intento di coinvolgere il popolo nel procedimento giudiziario contro gli strateghi e i tassiarchi (Lys. 13, 32) ; l’assemblea si tenne “a Munichia, nel teatro”, quindi in una sede anomala.  



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1  Per la sequenza delle assemblee, almeno quattro, ricostruibili dal confronto fra Senofonte e Lisia cfr. Bearzot 1997, p. 207 ss. 2  Cfr. Bearzot 2006, pp. 47-48. 3  Cfr. Arist. Ath. 34, 3 ; Diod. Sic. 14, 3, 2 ; cfr. Bearzot 1997, p. 215 ss. 4  Cfr. Xen. Hell. 2, 3, 2 ; cfr. 2, 3, 11) ; Lys. 12, 71-72 ; Arist. Ath. 34, 3 ; Diod. Sic. 14, 3, 2 ss. 5  Non tanto sulla base del verbo eisanghellein, presente in Lys. 13, 50, quanto sulla base del fatto che la causa fu istruita dalla boule e poi sottoposta al giudizio del tribunale per decreto assembleare (Lys. 13, 32). Cfr. Hansen 1975, p. 86, nr. 67.  











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È stato fatto notare 1 che la scelta del teatro di Munichia, certamente meno grande della Pnice e di altri luoghi di riunione assembleare come il teatro di Dioniso, e meno facilmente raggiungibile, sembra intesa a riunire un’assemblea più ridotta e quindi più facilmente manovrabile, come si era fatto nel 411 con l’assemblea tenuta a Colono. 2 È vero che Agorato, chiamato in causa da Teocrito, si era rifugiato, insieme ad alcuni dei garanti che avevano evitato il suo arresto, all’altare di Artemide a Munichia : ma ciò non richiedeva affatto di tenere a Munichia un’assemblea che dovesse prendere in esame il caso su richiesta della boule. La scelta di convocarla in una sede periferica obbedisce dunque anche in questo caso, con ogni probabilità, a un intento manipolatorio. A Munichia come a Colono, gli oligarchici cercavano una legittimazione popolare del loro operato, che andava preparata con cura, anche predisponendo con diversi metodi (compreso quello di ridurre il numero dei partecipanti) una maggioranza orientata. La variazione del luogo regolare dell’assemblea sembra dunque collegata nuovamente con un complotto antidemocratico, in questo caso di carattere non strettamente politico, ma piuttosto giudiziario. Vale comunque la pena di osservare che il popolo, in questa occasione, seppe prendere le sue contromisure : fu probabilmente in questa assemblea di Munichia che si prese la decisione di far giudicare strateghi e tassiarchi da un tribunale popolare di duemila membri (cfr. Lys. 13, 35). 3 Se, dunque, gli oligarchici ebbero successo nell’ottenere dal popolo l’autorizzazione a procedere che desideravano (con la relativa custodia cautelare degli accusati, che bastava a impedir loro di mettere in atto forme di opposizione), tuttavia il popolo seppe adottare una valida contromisura, stabilendo per decreto una speciale composizione dell’organo giudicante, certamente con l’obiettivo di porre il giudizio definitivo sotto stretto controllo popolare e di garantire ai denunciati un giudizio equo. La scelta non corrispondeva agli interessi degli oligarchi, che volevano coinvolgere il popolo nella decisione di processare strateghi e tassiarchi, ma volevano anche che fossero giudicati da un organismo compiacente : tale organismo fu poi, come Lisia riferisce (13, 36-38), la boule nominata personalmente dai Trenta come docile strumento della loro politica ; essa dovette giudicare in presenza dei Trenta stessi e con voto palese ; tutti gli accusati vennero condannati a morte. Ma ciò avvenne più tardi. Al momento, l’arresto degli strateghi e dei tassiarchi bastò ad indebolire l’opposizione democratica e a rendere il popolo, privo di rappresentanza, incapace di reazione. La violazione delle consuetudini sul luogo di riunione dell’assemblea appare anche in questo caso gravemente sospetto : esso segnala un uso anomalo, e potenzialmente sovversivo, dello spazio politico.  



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1  Gernet 1924, p. 199 n. 1. 2  Non ci sono, credo, elementi cogenti per affermare, con McDonald 1943, pp. 46-47, che il teatro di Munichia era il luogo normale di riunione dell’assemblea all’epoca dei Trenta (i fatti di cui parla Lys. 13, 32 e 55, addotti come testimonianza, sono anteriori, anche se di poco, all’avvento dei Tiranni) ; analogamente, il tentativo di Moysey 1981, pp. 34-35, di dimostrare che la Pnice era a quest’epoca inutilizzabile non trova riscontri convincenti. 3  L’alto numero di membri, superiore a quello già eccezionale di mille o millecinquecento previsto in caso di eisanghelia (cfr. Hansen 1975, p. 52), sembra rivelare il timore di pressioni oligarchiche, se non addirittura di corruzione.  

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cinzia bearzot I Trenta e la Pnice

La Shear non tratta la questione dell’assemblea di Munichia nel suo lavoro ; dedica invece un certo spazio al problema della Pnice, il luogo normalmente deputato alle riunioni dell’assemblea ateniese, e degli interventi su di essa che vengono attribuiti ai Trenta. Tali interventi avrebbero comportato, secondo una notizia data da Plutarco (Them. 19, 6), il rovesciamento dell’orientamento della tribuna degli oratori, prima volta verso il mare e ora girata simbolicamente verso terra : i Tiranni, da buoni antidemocratici, pensavano infatti, spiega il biografo, che l’impero del mare fosse l’origine della democrazia, e che invece i contadini fossero meno ostili all’oligarchia ; e avrebbero quindi voluto segnalare la necessità, per Atene, di guardare alla campagna e non al mare. La spiegazione di Plutarco, che è ‘facile’ perché riflette orientamenti ben presenti nel pensiero antidemocratico ateniese, è apparsa a molti convincente : i Trenta avrebbero proceduto a un intervento sulla Pnice per appropriarsi di uno spazio democratico, nato per le riunioni assembleari previste dalla democrazia (di Clistene o di Efialte, a seconda della datazione che si assegna alla cosiddetta Pnice I) e dunque luogo simbolico della democrazia stessa. La notizia però è già stata convincentemente discussa con buoni argomenti. 1 Nonostante ciò, la Shear, pur conoscendo questi interventi, afferma che “archaeological excavation has shown that the meeting place of the ekklesia was rebuilt at just this time 2 and the orientation of the structure was reversed”. L’archeologia confermerebbe dunque in modo inequivocabile la notizia plutarchea. In realtà, le cose non sono così semplici. Come è noto, gli scavi della Pnice hanno evidenziato tre fasi : 3 una prima fase di dimensioni modeste (2400 m2.) e dalle strutture semplici, comprendente circa 6000 posti, datata al vi-v secolo e ricollegata, per motivi storici, all’epoca clistenica o efialtea ; una fase intermedia, con un leggero ampliamento (2600 m2.), comprendente fino a 6500-8000 posti, datata a fine v ; infine, una fase di iv secolo, molto più ampia (5.550 m2.) e di grande monumentalità, comprendente circa 13.500 posti e ricollegata con l’età di Licurgo, periodo di vasti interventi edilizi in Atene. La seconda fase non offre elementi di datazione assoluta, se non ceramica di fine v che, per quel che può valere come indicatore cronologico, costituisce comunque solo un t.p.q. ; di questa fase è possibile dare, su base archeologica, solo una datazione relativa, tra la prima e la terza fase ; la data di fine v è stata ricavata agganciando questa seconda fase all’unica data offerta dalla tradizione, appunto quella plutarchea che parla di un intervento dei Trenta Tiranni. L’idea di una riappropriazione e, contestualmente, di una manipolazione dello spazio assembleare democratico da parte dei Trenta è ovviamente accattivante. Tuttavia, non può che lasciar perplessi l’attribuzione ai Trenta di un intervento sulla Pnice, soprattutto se impegnativo come pare esser stato il rovesciamento del bema, che comportò la costruzione di un possente argine di terra, sostenuto da pietra e muratura, senza parlare dell’ampliamento dell’estensione e dei posti disponibili. Perché mai, infatti, i Trenta avrebbero dovuto spendere quantità notevoli di denaro, a guerra  



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1  Cfr. Moysey 1981, pp. 31-37 ; Hansen 1986. 3  Cfr. Thompson 1982.  

2  Shear 2011, p. 177 (il corsivo è mio).

spazio politico e spazio della sovversione

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appena finita e con i relativi debiti da pagare, con le risorse economiche e finanziarie azzerate, per ristrutturare (e ampliare !) la Pnice, dopo aver ristretto i diritti a Tremila ricchi e aver instaurato un regime che non prevedeva affatto di convocare il popolo ? Abbiamo peraltro qualche testimonianza interessante sulle ‘assemblee’ dei Trenta. Racconta Senofonte (Hell. 2, 4, 9-10) che gli opliti del catalogo dei Tremila e i cavalieri vennero un giorno riuniti nell’Odeon di Pericle, subito ad est del teatro di Dioniso, e costretti a ratificare col loro voto la decisione dei Trenta di uccidere gli Eleusini, in presenza della guarnigione spartana in armi che occupava metà dell’Odeon. È evidente dalle parole che Crizia pronunciò in questa occasione che il voto dell’assemblea era per gli oligarchi solo una legittimazione formale, ottenuta con l’intimidazione, delle proprie decisioni, e che alla volontà dei Tremila essi non davano alcuna importanza : “Cittadini, abbiamo redatto questa costituzione per voi come per noi ; perciò, nella misura in cui condividete gli onori, dovete condividere i pericoli. Bisogna giudicare gli Eleusini arrestati, perché quelli che sono motivi di fiducia e di terrore per noi, lo siano anche per voi”. 1 In questa situazione, è interessante che l’assemblea dei Tremila non sia stata convocata nella Pnice, peraltro sovradimensionata, ma si sia preferito uno spazio più ristretto e meno significativo sul piano simbolico, come appunto l’Odeon, che di norma non era uno spazio di carattere politico, ma era adibito a scopi ricreativi (benché Ar. Vesp. 1109 attesti un suo uso a scopo giudiziario). 2 Che i Tremila non fossero abituati a pensare alla Pnice come a un luogo di riunione lo mostra anche il racconto di Aristotele (Ath. 38, 1) sulla deposizione dei Trenta : l’assemblea che li depose dalla carica ed elesse al loro posto dieci plenipotenziari, incaricati di trattare con i democratici, si svolse nell’agora. 3 Sembra dunque lecito aspettarsi dai Trenta la dismissione della Pnice democratica piuttosto che la riappropriazione di essa. Aggiungiamo che mancano, forse, anche i tempi tecnici per pensare a un intervento di una certa portata, come sembra quello sulla Pnice ii : i Trenta rimasero in carica un solo anno, per un’ampia parte del quale (dall’inverno alla fine dell’estate del 403) infuriò la guerra civile. Considerando questa situazione e le difficoltà finanziarie in cui Atene versava, un eccessivo impegno propagandistico, soprattutto se espresso in interventi di una certa mole, non è da ritenere probabile. Un intervento di questo genere trova una collocazione più opportuna dopo il 394, con l’arrivo in Atene del denaro persiano portato da Conone, che servì per portare avanti la ricostruzione delle mura iniziata già nel 395 e poté forse essere utilizzato anche per ampliare e ristrutturare la Pnice, il luogo simbolico della democrazia. 4 In questo caso, l’intervento andrebbe inserito fra le reazioni democratiche alla tirannide dei Trenta, piuttosto che fra i tentativi dei Tiranni di appropriarsi degli spazi della città democratica, tanto più che la spregiudicatezza di un Crizia puntava più sull’esercizio senza remore del potere che su raffinate strategie di comunicazione. Il tentativo di fare della Pnice uno spazio non più democratico, ma sovversivo e ‘rifondativo’, non sembra poter essere convincentemente attribuito ai Trenta : al mas 



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1  Trad. Daverio Rocchi 2002. 2  Cfr. [Dem.] 59, 52. 3  Per l’ipotesi che la Pnice non fosse utilizzabile a quest’epoca cfr. supra, p. 101 n. 2. 4  Non si possono escludere obiettivi più pratici, come il collegamento con l’introduzione del misthos per gli ecclesiasti : cfr. Hansen 1986. La struttura della Pnice ii consentiva infatti il controllo dell’accesso : questo, più che con la volontà politica dei Tiranni (Krentz 1982, pp. 62-63), potrebbe trovare le sue motivazioni nell’intento di non far accedere all’assemblea chi non avesse diritto alla retribuzione.  



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cinzia bearzot

simo, si può pensare all’uso, da parte di Tiranni, del pretesto della ristrutturazione per chiudere la Pnice. 1 Anche nel 404, dunque, con la consueta continuità tra prima e seconda oligarchia, già rilevata da Lisia (12, 65), la scelta del luogo dell’assemblea sembra aver dietro di sé motivazioni significative. Come Colono, anche Munichia è, come sede assembleare, uno spazio anomalo e potenzialmente sovversivo, scelto per mettere in atto agevolmente un piano antidemocratico attraverso il controllo di un’assemblea artificiosamente ristretta. Come già nel 411, la Pnice viene obliterata in quanto spazio democratico riconosciuto e altamente simbolico, per essere riportata al centro della vita democratica nel momento della piena rinascita politica di Atene, all’epoca dell’acme di Conone. E anche in questo caso, è una fonte contemporanea come Lisia, autore di viva sensibilità democratica, a cogliere la manipolazione dello spazio politico e a suggerirne il significato sovversivo. Per concludere : ho parlato qualche anno fa a un convegno della Fondazione Canussio a Cividale del Friuli sul tema La sovversione dell’ordine costituito nei discorsi degli oligarchici ateniesi. 2 Ho esaminato in quella sede il discorso della sovversione e il discorso della continuità negli interventi dei congiurati antidemocratici. Si tratta di un tema che ben si presta ad essere trattato anche dal punto di vista dello spazio politico. I tradizionali luoghi di incontro dell’assemblea e della boule sono, ad Atene, espressione della continuità democratica e hanno un alto valore simbolico ; ogni cambiamento fa assumere agli spazi alternativi un carattere potenzialmente sovversivo o, comunque, segnala una anomalia che suscita sospetto. La vera normalizzazione è segnalata dal ritorno alla situazione tradizionale, che talora può rendere necessario un atto di riappropriazione simbolica : in questo senso vanno intesi, a mio avviso, la costruzione del nuovo bouleuterion dopo il 411 e, soprattutto, la ristrutturazione della Pnice dopo il 404, che va con ogni probabilità riportata a un contesto pienamente democratico. Anche nell’uso dello spazio politico si riscontra dunque l’alternativa continuità/sovversione, chiave di lettura polivalente in una società in cui la tradizione si contrappone alla novità, in una dialettica che va tutta a favore della prima. E tuttavia, voglio sottolineare in chiusura che non è il luogo (delle riunioni buleutiche o dell’assemblea) in sé ad avere un valore legittimante, ma lo sono piuttosto i contenuti politici. Nell’assemblea di Samo (Th. 8, 76), i soldati ateniesi rivendicano al popolo in armi la funzione di assemblea democratica legittima, sulla base di alcuni criteri : la consapevolezza di costituire la maggioranza rispetto a una minoranza, il possesso delle risorse necessarie a salvare la città, la capacità di esprimere una “buona decisione” (bouleuma chreston) per il bene comune, la difesa delle leggi patrie, cioè della democrazia 3. Il fatto che questa assemblea si svolga addirittura fuori da Atene, a Samo, non sembra creare problemi significativi. La forma ha una sua importanza, tanto è vero che i soldati cercano evidentemente, in questa riunione, di trovare argomenti di legittimazione : ma è la sostanza democratica a prevalere.

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1  Cfr. Moysey 1981, p. 35 ; Hansen 1986, pp. 97-98. 3 Cfr. supra, p. 98 n. 2.  

2  Bearzot 2009a.

spazio politico e spazio della sovversione

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FOR ME DELLO SPA ZIO E FOR ME DELLA POLITICA NELLA CITTÀ A R ISTOTELICA*

Marco Santucci

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A

ccingendomi ad affrontare il tema che è nel titolo di questo contributo ritengo doveroso porre in premessa il ricordo di uno dei tanti insegnamenti non scritti di Domenico Musti, che rappresentano una parte importante della preziosa eredità del suo magistero per quanti, come me, ne sono stati allievi. Del sistema del pensiero greco Musti amava parlare come di un edificio straordinariamente ricco e complesso : solido e tuttavia non privo di disordine e di caos. Egli vedeva così rappresentate le aporie, le contraddizioni, e perfino le confusioni di una civiltà la cui tensione verso l’ideale scaturisce da una sorta di reazione vitalistica alle contingenze del reale : 1 spesso difficili, comunque variabili, multiformi e in apparenza prive di un senso unitario. All’interno di questo edificio – in linea con la tendenza tipicamente greca, che giunge, infine, all’ordine facendolo emergere, per contrasto, dal caos e dal disordine – egli identificava, però, due robuste e rassicuranti colonne maestre : Omero e Aristotele. E la distanza tra Omero e Aristotele era per lui interpretabile nel senso di un vero e proprio percorso evolutivo : dal fascino dell’intuizione alla sistematicità della teoria. Aristotele era dunque, per Musti, per diversi fondamentali aspetti, colui che aveva infine dato sistemazione teorica a quell’enciclopedia di intuizioni ed esperienze che sono in Omero e che già contengono in nuce l’essenza della futura civiltà greca. Uno degli obiettivi di questo mio contributo sarà quello di verificare se e quanto questo filo rosso che lega Aristotele a Omero sia identificabile nella riflessione dello Stagirita sulla polis, per quel che riguarda i suoi caratteri politico-istituzionali e il loro rapporto con la topografia e l’organizzazione degli spazi.  









1. Nella storia della riflessione greca sulla città, Aristotele rappresenta il punto di snodo attorno al quale si raccolgono e si fissano nella forma della teoria le eredità della polis arcaica e classica ma, anche, si pongono le premesse del concetto nuovo di città che caratterizza l’età ellenistica. Nelle pagine iniziali del ii libro della Politica, Aristotele riconosce che “l’unità di tutta una città nella sua totalità è il suo sommo bene” (to; mivan ei\nai th;n povlin wJ~ a[[riston o]n o{ti mavlista pa`san). 2 E, tuttavia, la polis è “per natura” una realtà molteplice, un plethos (plh`qo~ gavr ti th;n fuvsin ejsti;n hJ povli~) : 3 non solo perché costituita  





*  È mio desiderio ringraziare Paola Angeli Bernardini per aver voluto accogliere questo mio contributo. A lei e ai colleghi della scuola urbinate esprimo il mio debito di riconoscenza per la loro vicinanza scientifica e per l’amicizia dimostratami, alle quali devo incoraggiamenti, consigli e suggerimenti preziosi. 1  Cfr. Musti 2006, p. 6. 2 Arist. Pol. 1261a 15. 3  Ibid. 18. In ordine con questo rapporto naturale istituito da Aristotele potrebbe considerarsi l’ipotesi di una parentela linguistica tra i termini polis e plethos, forse da ricondurre a una radice del tipo *pl- *pel*pol-. Essa avvicinerebbe, così, il concetto di polis a quello dell’ “esistere”, dell’ “esserci”, espresso ad esem-

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da più uomini ma anche perché costituita da uomini che sono tra loro differenti ; “una città, infatti, non nasce da uomini uguali” (ouj ga;r givnetai povli~ ejx oJmoivwn). 1 Se la città è dunque il luogo in cui l’Uno convive con il Molteplice, ne consegue che è impossibile che esista una città che sia unitaria fino in fondo, e che, anzi, il tentare di rendere la città ‘troppo una’ (to; livan eJnou`n zhtei`n th;n povlin), 2 ne minaccia l’esistenza stessa e fa sì che la polis smetta di essere tale. Referente polemico, fin troppo scoperto, è qui il modello comunistico della Repubblica di Platone, teso ad abbattere i confini della famiglia, per far scomparire i particolarismi del privato e per creare una città che viva come organismo unitario. 3 Del resto, ancora nelle Leggi (che pure rappresentano per molti aspetti un superamento della politeia ideale e perciò non realizzabile della Repubblica) 4 resta, da parte di Platone, l’assillante ricerca di unità per la città. Essa si traduce in una coincidenza tra il privato e il pubblico che è qui declinata in una dimensione anche spaziale, e che finisce per identificare fisicamente gli spazi dell’oikos e quelli della polis. Dice infatti il filosofo, per bocca dell’anonimo personaggio ateniese a cui, nel dialogo, egli pare affidare in maniera più sistematica la propria visione, che “non è spiacevole una città che abbia la forma di un’unica casa” (mia`~ oijkiva~ sch`ma ejcouvsh~). 5 La sua proposta è quella di costruire le abitazioni private (ijdivai oijkhvsei~) di questa polis disponendole una accanto all’altra, senza soluzione di continuità, in modo tale che i loro muri possano svolgere anche la funzione, pubblica, di mura difensive per l’intera città. 6 A tal proposito, sarà il caso di ricordare che la fantasia di Aristofane dà un’espressione urbanistica assai simile al regime comunistico ideato da Prassagora nelle Ecclesiazuse, ricorrendo, tra l’altro, a una formulazione di cui qui possiamo solo limitarci a notare le significative coincidenze con quella platonica. 7 Il progetto elaborato da Prassagora contempla un sovvertimento politicoistituzionale, sociale ed economico della polis democratica, e coerente con questo  







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pio dal verbo pevlomai (cfr. Musti 2006, p. 77), ma anche alle idee dell’ “abbondanza” e della “molteplicità” (vd. poluv~, plh`qo~), a loro volta vicine, da un punto di vista semantico e anche etimologico, al concetto di ricchezza (plou`to~). 1  Ibid. 24. 2  Ibid. 1261b 10 s. 3  Plat. Resp. 462a-d 4  Cfr., ad es., Pegone 1997, p. 49. 5  Vd. n. 6. 6 Plat. Leg. 779a 8-779b 7 : all jeij dh; tei`cov~ gev ti crew;n ajnqrwvpoi~ ei\nai, ta;~ oijkodomiva~ crh; ta;~ tw`n ijdivwn  

oijkhvsewn ou{tw~ ejx ajrch`~ bavllesqai, o{pw~ a]n h/\ pa`sa hJ povli~ e}n tei`co~, oJmalovthtiv te kai; oJmoiovthsin eij~ ta;~ oJdou;~ pasw`n tw`n oijkhvsewn ejcousw`n eujevrkeian, ijdei`n te oujk ajhde;~ mia`~ oijkiva~ sch`ma ejcouvsh~ aujth`~, ei[~ te th;n th`~ fulakh`~ rJa/stwvnhn o{lw/ kai; panti; pro;~ swthrivan givgnoit j a]n diavforo~.

7  Molto discussa è, a partire dagli studi di Zimmermann 1834 ; Chiappelli 1883 ; Zuccante 1929, la questione dei rapporti tra le Ecclesiazuse e il modello comunistico della filosofia di Platone. La ‘pubblicazione’ della Repubblica è stata variamente datata tra il 375 a.C. e gli anni ’60 del iv secolo ; in ogni caso, essa è da ritenersi successiva alla rappresentazione della commedia aristofanesca nel 392/1 a.C. (sulle difficoltà cronologiche dell’opera platonica cfr. ora Vegetti 2006, pp. 7-9). Capra 2010, p. 19 s., è tornato recentemente a elaborare una tabella delle congruenze tematiche e testuali tra la commedia aristofanesca e il progetto politico platonico, esprimendosi contro il “rifiuto aprioristico” dell’ipotesi che Platone possa aver attinto ad Aristofane. Certo la discussione intorno a questi argomenti doveva essere piuttosto comune nell’Atene del periodo. Quarta 1993, p. 252 s., ricorda la possibile influenza su Aristofane dell’insegnamento orale di Platone, ma pare anche non escludere, con Adorno 1981, p. liv ss., che il commediografo possa aver tenuto presente, nella parodia delle Ecclesiazuse, una parte della Repubblica che già doveva circolare ad Atene. L’ipotesi di una diffusione originariamente non unitaria dell’opera platonica si basa su una testimonianza di Aulo Gellio (Noct. Att. 14, 3, 3), secondo la quale Senofonte avrebbe scritto la Ciropedia contro la Repubblica dopo aver letto quasi due dei suoi libri che per primi furono ‘pubblicati’ (lectis ex eo duobus fere libris, qui primi in vulgus exierant). Del resto, anche Isocrate quando scrive il Busiride (tra il 393 e il 386) sembra conoscere e addirittura riepilogare “i punti fondamentali della Repubblica”.  





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quadro appare sì il desiderio della donna di rifunzionalizzare tutti gli spazi pubblici che rivestono un valore simbolico per la democrazia, 1 ma anche quello di giungere a una totale destrutturazione degli spazi privati. L’intento di Prassagora è infatti quello di sfruttare il particolare assetto delle case private, per lo più ad Atene ‘agglutinate’ e caoticamente addossate l’una all’altra, per la creazione di una sorta di “open space domestico”, come ha avuto modo di definirlo in maniera audace ma assai incisiva A. Camerotto. 2 La donna ordinerà infatti l’abbattimento delle pareti comuni, così che si possa andare liberamente da una casa all’altra. 3 Al di là della comica paradossalità del progetto, conta, ai fini del nostro discorso, rilevare che l’oi[khsi~ smette la sua dimensione privata, facendo sì che si perda la polarità tra oikos e polis, tra il luogo della comunità familiare e quello della comunità politica ; e la città intera, esattamente come contemplerà il progetto urbanistico delle Leggi platoniche, diventa “un’unica casa” 4 persino dal punto di vista dello spazio.  







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2. Non di questo genere, ovviamente, è l’unità che Aristotele auspica per la polis. L’unità possibile alla città ha infatti, per lo Stagirita, i caratteri del movimento e del mutamento, 5 in quanto frutto di continua sintesi dialettica tra posizioni e aspirazioni diverse. La koinwniva politikhv non nasce infatti, per Aristotele, dalla staticità di un singolo individuo : non l’Uno ma il Due, il diverso e la divisione, sono all’origine della città. 6 La polis è, dunque, il frutto – teleologicamente determinato dalla fuvsi~, poiché la città è “per natura” – di un’evoluzione che ha il suo punto di partenza nella famiglia (oi[ko~) ; ma la famiglia è, appunto, un’unità dinamica, costituita da due diversi per natura : l’uomo e la donna. Stiamo così evocando le pagine di apertura del i libro della Politica (1252a-1253a) e, con esse, i presupposti teorici del celeberrimo assunto in base al quale si afferma l’impossibilità per l’uomo, politiko;n zw/`on, di vivere come individuo isolato. Sono idee, queste, fin troppo note, delle quali però interessa qui tornare a rimarcare la potente anticipazione nell’intuizione omerica. Al Ciclope Omero concede di vivere “da solo” (oi\o~), “in disparte” (ajpovproqen), senza mischiarsi con gli altri ; ma, non a caso, egli non è un uomo, bensì un “uomo-mostro” (ajnh;r ... pelwvrio~). Proprio per questo motivo il Ciclope può farsi simbolo di una vita primitiva che è ormai inconcepibile per il poeta dell’Odissea, perché condotta al di fuori del contesto delle leggi della polis (qevmiste~) e dello spazio dell’agora che ha già una connotazione po 











1  Sono i tribunali, i portici, l’agora e lo spazio intorno alla statua di Armodio ; un analogo processo di rifunzionalizzazione attende la tribuna e le urne per i sorteggi, in quanto simboli di una forma istituzionale fondata sull’esercizio della parola e sulla turnazione delle cariche (vv. 676-685). 2  Camerotto 2007, p. 133. 3 Ar. Eccl. 673-675. Vetta 1989, p. 209, non manca di ricordare che l’idea di mettere in comunicazione le abitazioni forando le pareti comuni era stata realizzata nel 431 a.C. dagli abitanti di Platea, i quali, nel corso dell’occupazione tebana della città, potevano in questo modo riunirsi nelle loro case per complottare, evitando di esser visti all’esterno (Thuc. 3, 3, 2). 4  Ibid. 673 : … to; ga;r a[stu / mivan oi[khsivn fhmi poihvsein. 5  Per la Politica aristotelica come “philosophie du mouvement”, cfr. Vilatte 1995, pp. 183-190. 6  Loraux 2006, pp. 159-198, sintetizza quest’idea ricorrendo alla definizione ossimorica di “legame della divisione”.  



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litica in quanto boulhfovro~. 1 Particolarmente utile, in questo contesto, è il raffronto con l’ekphrasis dedicata allo scudo di Achille nel xviii libro dell’Iliade, dove si legge la più compiuta descrizione omerica della realtà della polis. È proprio qui, infatti, che si coglie in maniera più precisa l’intuizione da cui ripartirà la teoresi aristotelica : della città come luogo di quell’unità dinamica che viene a configurarsi come punto di arrivo e come evoluzione di una divisione e di una dualità originarie. Siamo, certamente, tanto lontani da quello che sarà il concetto platonico di un’unità che è invece presupposta alla polis, come antidoto che deve servire a scongiurare anche solo l’avvicinarsi del male assoluto rappresentato, per il filosofo ateniese, dalla stasis ! Nei versi di Omero, che quasi rappresentano un atto di nascita dell’idea della polis, la realtà cittadina evoca invece, in modo naturale e immediato, proprio il concetto di nei`ko~ (“lite”). Due uomini ne sono protagonisti nello Scudo, e due ali di folla si formano a sostegno dell’uno e dell’altro mentre gli araldi cercano faticosamente di contenerle. 2 È la rappresentazione di un momento di divisione del corpo civico, di stasis solo potenziale però, che la polis riesce a ricomporre attraverso la mediazione e il nobile compromesso rappresentato dall’esercizio della giustizia. 3 Abbiamo a che fare con un’idea di fondamentale importanza per i suoi esiti storici : è il “gesto inaugurale” del politico, rappresentato dal “riconoscimento della legittimità del conflitto nella società”, nel quale si identifica l’origine della stessa idea di democrazia. 4 Ho avuto occasione di ricordare altrove 5 come questo momento di composizione degli opposti si accompagni, nella digressione omerica, a una ben individuabile simbologia geometrica e aritmetica che si presta a rappresentare le dinamiche del dibattito politico nella città greca. Vi è innanzitutto la figura del cerchio, evocata dal iJero;~ kuvklo~ dei giudici che a turno si alzano per pronunciare ciascuno la propria sentenza. Il kuvklo~ ha una valenza sia politica sia topografica, poiché allude sì all’idea di una condivisione in base alla quale l’incontro dei diversi si fa convergenza e può teoricamente spingersi fino alla coincidentia oppositorum, 6 ma rinvia anche all’immagine di uno spazio cittadino che è pensato circolare e organizzato secondo fasce concentriche. 7 Lo scudo consegna inoltre, alla futura riflessione teorica sulla polis il concetto del mevson : 8 anch’esso da ricollegare alla necessità della condivisione, soltanto che si tratta, in questo caso, di una condivisione che è ricerca di equidistanza e mediazione tra gli opposti. Pagine fondamentali ha scritto il Vernant, nelle quali ha giustamente interpretato il meson come concetto non solo spaziale ma anche sociale e politico : esso è sì il centro del kyklos che identifica lo spazio del pubblico, 9 ma, direi, il meson è in prima istanza la  





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1  Cfr. Hom. Od. 9, 112-115, 187-189. Sull’agora omerica, Longo 2010. 2  Ibid. 497-507 : “è questa la grande scena del Due sullo scudo di Achille” (Loraux 2006, p. 169), che continua, per la verità, fino al v. 540 con la descrizione della faccia più tragica della dualità, quella del polemos. 3  Sulla “scena del giudizio”, vd. Veneri 2007. 4  Lefort-Gauchet 1971, p. 9. 5  Santucci 2008, pp. 196-204. 6  Lo suggerisce, del resto, il significato geometrico della circonferenza, figura che risulta dalla curvatura di un segmento fino alla congiunzione dei suoi due punti estremi. 7  Musti 2008, pp. 3-13. 8 Hom. Il. 18, 507 : kei`to d j a[r j ejn mevssoisi duvw crusoi`o tavlanta ; 604 s. : … doiw; de; kubisthth`re kat j aujtou;~ / molph`~ ejxavrconte~ ejdivneuon kata; mevssou~. 9 Vernant 1978, p. 211, ricorda la scena che apre il ii canto dell’Odissea, laddove Telemaco, radunata l’aristocrazia militare di Itaca, prende in mano lo scettro e parla stando “nel centro dell’assemblea” (mevsh/ ajgorh/)` (vv. 35-40). “Quando ha finito”, però, “un altro prende la parola al suo posto e gli risponde”. Vernant identifica dunque il meson con il luogo della parola libera e del dibattito, nel quale si depone o si discute ciò che è pubblico o comune. L’immagine del meson appare, così, del tutto coerente con l’esigenza che porta  







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posizione di mezzo, la ‘terza via’ che, all’interno del neikos rappresentato dalla dialettica del dibattito politico, permette il superamento degli originari dualismi ed evita la radicalizzazione di situazioni di bipolarismo. Questa interpretazione dell’idea di meson all’interno di una logica ternaria è, del resto, già intuita in Omero. Dopo aver insistito sull’idea della dualità (vv. 490-540) il poeta sembra porre, infatti, anche le premesse per il suo superamento, e descrive la chora segnandola della presenza quasi ossessiva del dato numerico del tre. 1 Ora, pare persino superfluo ricordare che proprio lo schema ternario e l’idea del meson rappresentano, insieme, i cardini della riflessione politica di Aristotele. E quanto questi schemi fossero presenti alla mente del filosofo basterebbe a testimoniarlo il celeberrimo passo della Costituzione degli Ateniesi (13, 4), che analizza la situazione politica di Atene alla vigilia dell’avvento della tirannide. Nell’elencare e caratterizzare politicamente e socialmente le “tre fazioni” (stavsei~ trei`~), Aristotele afferma che quella dei “parali”, capeggiata dall’alcmeonide Megacle, riteneva di dover seguire una forma costituzionale che fosse una “via di mezzo” (ejdovkoun mavlista diwvkein th;n mevshn politeivan) tra le istanze democratiche dei “diacri” e quelle oligarchiche dei “pediaci”. 2 All’interno della Politica, del resto, lo schema ternario è alla base dell’intera riflessione sulle costituzioni (con le tre forme rette e le tre deviate), e sulle stratificazioni economico-sociali che, di nuovo, dànno alla terza forza una connotazione di centralità. È preferibile perciò, per lo Stagirita, che il governo della polis sia affidato ai mesoi, cioè a quanti occupano la posizione mediana tra i ricchi e i poveri. Dice infatti il filosofo :

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dh`lon a[ra o{ti kai; hJ koinwniva hJ politikh; ajrivsth hJ dia; tw`n mevswn, kai; ta;~ toiauvta~ ejndevcetai eu\ politeuvesqai povlei~ ejn ai|~ dh; polu; to; mevson kai; krei`tton, mavlista me;n ajmfoi`n, eij de; mhv, qatevrou mevrou~: prostiqevmenon ga;r poiei` rJoph;n kai; kwluvei givnesqai ta;~ ejnantiva~ uJperbolav~.

È chiaro dunque che la miglior comunità politica è quella che si fonda sulla classe media e che le città che sono in queste condizioni possono avere una buona costituzione, quelle, dico, in cui la classe media è più numerosa e più potente delle due estreme o almeno di una di esse. Essa infatti, legandosi all’una o all’altra, farà pendere la bilancia e impedirà che uno degli estremi contrari raggiunga un potere eccessivo. 3  

i Greci a elaborare meccanismi di esorcizzazione del kratos, della quale è figlia, in ultima analisi, anche l’idea di democrazia, forma istituzionale in cui “a rotazione si è comandati e si comanda” (ejn mevrei a[rcesqai kai; a[rcein) (Arist. Pol. 1317b 2 s.). Nello spazio circolare e centrato dell’agora della città omerica le relazioni tra i cittadini appaiono segnate, infatti, dai caratteri dell’uguaglianza e, soprattutto, della reversibilità, che rappresentano il superamento della visione rigidamente gerarchica del passato miceneo. Non è un caso che, in età successiva, espressioni come ej~ mevson tiqevnai th;n ajrchvn e simili si prestino a descrivere situazioni in cui avviene il passaggio da forme di potere autocratico a forme di potere condiviso (cfr. Hdt. 3, 142 ; 7, 164 ; 4, 161). Sul valore politico-sociale della nozione di centralità, vd., inoltre, Detienne 1965 ; Vidal-Naquet 1981, pp. 319-334, in part. p. 329 ; Loraux 2006, pp. 166-174. 1  È questa la ‘scena del Tre’ (vv. 541-572) : tre le arature del campo da seminare, tre i legatori delle messi, tre le tipologie di lavori agricoli (aratura, mietitura, vendemmia), tre le stagioni nelle quali questi lavori si svolgono. 2  La terminologia usata qui da Aristotele può essere in certa misura influenzata dalla situazione del dibattito politico ateniese di iv secolo. Esso aveva visto la nascita di una sorta di “tripartitismo”, in conseguenza dell’affermarsi del concetto ‘mediano’ di patrios politeia che si proponeva di correggere il bipolarismo democrazia-oligarchia caratteristico del v secolo (Musti 1995, pp. 191-194 ; cfr. Arist. Resp. Ath. 34, 3). 3 Arist. Pol. 1295b 34-39, trad. di C. A. Viano (sulla lettura del passo cfr. Santucci 2004, p. 98 n. 51, e vd. Carlier 2005). Questo schema, valido per leggere le dinamiche interne alla polis, è usato da Aristotele anche per interpretare i rapporti tra ethne diversi, in particolare, quelli tra i Greci e i barbari d’Occidente e d’Orien 











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Quanto si è finora ricordato permette di identificare una linea di continuità tra le premesse omeriche e la teoria aristotelica, dal punto di vista di quella che potremmo definire una semiotica dei meccanismi politici che caratterizzano la città greca. Ma che cosa ne è della concezione dello spazio fisico della polis che è argomento che qui precipuamente interessa ? Nel libro vii della Politica Aristotele si preoccupa innanzitutto di definire l’estensione della città rispetto alle sue due principali componenti, quella umana e quella del territorio, il plethos e la chora. Misura di entrambi sono i sensi umani, l’occhio e l’orecchio in particolare ; e così, sia il plethos sia la chora non devono superare, secondo Aristotele, il limite della sensibilità della vista umana e devono essere “abbracciabili con lo sguardo” (e[ti d jw{sper to; plh`qo~ to; tw`n ajnqrwvpwn eujsuvnopton e[famen ei\nai dei`n, ou{tw kai; th;n cwvran) 1. Ancora, la componente umana della città, il plethos, deve mantenersi entro limiti tali da permettere di udire facilmente la voce dell’araldo 2, e lo stesso limite uditivo vale per la componente territoriale. Ciò è garanzia di sicurezza per la polis, poiché più facilmente si percepisce anche la bohv, cioè la voce di qualcuno che gridi, e più facilmente può arrivare anche la bohvqeia, il “soccorso”, l’ “aiuto” 3 : questo è, in buona sostanza, il significato che compete all’aggettivo eujbohvqhto~ usato da Aristotele alla linea 3 della pagina 1327a, che, insieme all’aggettivo eujsuvnopto~, sintetizza i requisiti fisici della polis ideale. Questa immagine di città dagli orizzonti limitati, che rifugge la grandezza eccessiva e che letteralmente è ‘a misura d’uomo’ come diremmo oggi, è figlia di una concezione organicistica, nella quale si rintraccia anche la radice prima del pessimismo greco. L’osservazione dei cicli a cui sono sottoposti gli organismi viventi porta, infatti, alla conclusione che l’auxesis, cioè la “crescita”, non può estendersi all’infinito : essa è un momento positivo ma di durata troppo breve, e inevitabilmente è destinata a produrre il declino e la morte. Nella sfera cittadina l’inevitabile momento della crisi è definito, con una terminologia che è variabile in base alle epoche e agli autori, dai concetti di stasis, metabole o kinesis. Una città cresciuta oltre i limiti sarà così destinata, secondo lo Stagirita, a fare i conti con la difficoltà di darsi una politeia, una “forma costituzionale” stabile (politeivan ga;r ouj rJav/dion uJpavrcein) ; smetterà dunque di essere una polis, perché ingovernabile come tale, e si trasformerà in un ethnos. 4 Diciamo per inciso che su questo terreno si coglie, forse, una delle più grandi divergenze che separano la concezione greca della città da quella romana. Appartiene a Roma l’idea dell’Urbs che si identifica, di fatto, con il suo impero e che, come quest’ultimo, è destinata a crescere infinitamente e in 

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te : to; de; tw`n ÔEllhvnwn gevno~, w{sper meseuvei kata; tou;~ tovpou~, ou{tw~ ajmfoi`n metevcei. kai; ga;r e[nqumon kai; dianohtikovn ejstin (Pol. 1327b 29 s.). Ancora un altro ‘sistema a tre’, stavolta determinato dalla geografia che ha assegnato alla Grecia una posizione centrale, ma con risvolti che sono di tipo antropologico e, in ultima analisi, politico, perché mettono in campo il diverso rapporto dei popoli con il potere e dunque con la tendenza a esser schiavi o liberi (1327b 20-38). 1  Ibid. 1327a 1-3. 2  Ibid. 1326b 6 s. 3  La vicinanza tra i concetti di bohv e bohvqeia è testimoniata, tra l’altro, dall’uso eschileo del termine bohv con il significato di “grido d’aiuto” (Suppl. 730, Ag. 1349). 4  Arist. Pol. 1326b 3-7.  

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definitamente, nella duplice dimensione del tempo e dello spazio, in aeternum e in immensum, 1 sine fine come profetizza Giove nel libro i dell’Eneide. 2 Ma torniamo ad Aristotele. L’attenzione del filosofo alla definizione delle dimensioni della città è tutta mirata a garantirne l’autosufficienza, l’aujtavrkeia. Anche questa è un’idea che possiamo considerare risultato teorico di un’intuizione omerica : quella della polis autoconclusa – e perciò tendenzialmente autarchica – dello Scudo, vista come isola circondata dal fiume Oceano, che comunica l’aspirazione della città a riprodurre dentro di sé il mondo (un mondo tuttavia ordinato e sottratto al caos) con tutte le sue potenzialità e possibilità, e dunque autosufficiente. D’altronde, sono in Omero anche le premesse di quell’idea aristotelica di città che empiricamente è definita, nei suoi limiti e nella sua estensione, dai sensi umani. Ai vv. 293-296 del vi dell’Odissea Omero riporta le parole di Nausicaa che anticipano e guidano il percorso di Odisseo dalla eschatia e dalla periferia della città dei Feaci verso il suo centro, dove si trova la reggia di Alcinoo. Ebbene, la fanciulla suggerisce all’eroe di fermare per un po’ il suo passo dopo che avrà fiancheggiato un boschetto sacro ad Atena che è lungo la via. L’eroe dovrà, allora, sostare sul campo di proprietà del re Alcinoo, che si trova lì accanto, e attendere che lei sia rientrata in casa per evitarle le “chiacchiere amare” della gente del popolo. Ci interessano qui le modalità attraverso le quali Nausicaa esprime la distanza del campo del padre (evidentemente situato nella chora) rispetto al centro della polis : esso si trova “tanto lontano dalla rocca, quanto s’arriva col grido” (tovsson ajpo; ptovlio~ o{sson te gevgwne bohvsa~) : 3 ed è un’espressione, questa, che non possiamo fare a meno di confrontare con l’aggettivo aristotelico eujbohvqhto~ sul quale si è già avuto modo di riflettere sopra.  



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4. Possiamo dunque affermare che l’eredità dell’idea omerica di una città circolare e centrata rappresenta una componente determinante e ineliminabile della concezione aristotelica della polis. Ancora nel solco della tradizione epica, con un significativo distacco da Platone per il quale la facilità delle comunicazioni significa anche facilità della corruzione dei buoni costumi, 4 si inserisce l’idea aristotelica della collocazione onfalica della città rispetto alla terra e al mare, tale da rendere facili i collegamenti “con ogni punto del suo territorio”. 5 Non a caso la polis può persino prestarsi a costruire, nella riflessione dello Stagirita, la metaforica della concezione cardiocentrica del corpo degli animali e dell’uomo. 6 Nel trattato Sulle parti degli animali Aristotele  





1  Liv. 4, 4, 4 : … in aeternum urbe condita, in immensum crescente. 2 Verg. Aen. 1, 278 s. : His ego nec metas rerum nec tempora pono, / imperium sine fine dedi … 3 Hom. Od. 6, 294. 4 Plat. Leg. 704d-705b, in part. 705a : “… Il fatto che il mare sia vicino ad una regione è cosa piacevole (hJduv) ogni giorno, ma in realtà si tratta di una salata ed amara vicinanza (aJlmuro;n kai; pikro;n geitovnhma) : infatti, riempiendo lo stato di traffici e di affari dovuti al commercio, fa nascere negli animi modi di vita incostanti e infingardi (h[qh palivmbola kai; a[pista), e rende lo stesso stato infido e nemico di se stesso (pro;~ auJth;n th;n povlin a[piston kai; a[filon poiei`) …” (trad. di E. Pegone). 5 Arist. Pol. 1330a 34-36 e cfr. 1327a 11-40. 6  L’uso dell’immagine della città per costruire la metaforica del corpo umano rappresenta l’altra faccia della medaglia della concezione organicistica della polis (cfr. p. precedente), e attinge a una tradizione che risale perlomeno al medico-filosofo Alcmeone di Crotone (fine vi secolo ?). Egli spiega infatti i concetti di salute e malattia ricorrendo all’opposizione isonomia/monarchia che vede operante all’interno della polis :  











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dice che il cuore è posto “al centro” del corpo (ejn mevsw/ kei`tai), come si conviene a un principio d’altronde, essendo ajrchv delle sensazioni e del movimento. “Intorno” a questo principio (peri; tauvthn) la descrizione aristotelica colloca i polmoni. 1 Sentiamo presenti, a questo punto, tutti gli elementi in grado di evocare il paragone con la città : ed esso non manca, infatti, di arrivare soltanto poche pagine dopo, 2 dove il filosofo definisce il cuore “acropoli del corpo” (ajkrovpoli~ ... tou` swvmato~), e, ancora, lo assimila al “focolare” (eJstiva), cioè a quell’elemento (circolare) che nella città greca rappresenta la sacralizzazione del centro e si carica di una forte valenza simbolica, aggregante e identitaria 3. Chiara è la descrizione aristotelica e – lo ripetiamo – indubbio pare il riferimento alla concezione circolare e centrata della topografia della polis che proviene dalla tradizione omerica. Ovviamente però, ci sono esigenze nuove nelle cose e nella storia, che non consentono in alcun modo di esaurire la visione aristotelica dell’organizzazione degli spazi della città nel segno della totale continuità con Omero. 4 Il vero banco di prova è, per Aristotele, l’armonizzazione degli schemi topografici della tradizione con la grande rivoluzione urbanistica rappresentata dalla diffusione della pianta ortogonale ippodamea. Essa descrive un modello di città del tutto diverso, canonizzato teoricamente nel v secolo, anche se, come ha insegnato il Castagnoli, 5 è possibile coglierne le premesse nelle fondazioni coloniali di vii secolo a.C., dove sono già ben presenti il dato rettilineo e l’idea, che accompagna l’atto fondativo, di una suddivisione razionale dello spazio secondo uno schema predefinito, che può estendersi, come nel caso di Metaponto, non solo al centro abitato ma anche alla chora. 6 Un sistema in cui dominano la linea retta, la quadrangolarità e la disposizione regolare degli isolati si presenta, nei fatti, opposto rispetto a quello dell’antica città trochoeides, “a forma di ruota”, dove dominano, invece, il cerchio e la linea curva, e dove gli abitati si dispongono irregolarmente e spesso addossati l’uno all’altro. Opposti e in apparenza inconciliabili questi due sistemi. Eppure, di fronte a questa  





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∆Alkmaivwn th`~ me;n uJgieiva~ ei\nai sunektikh;n th;n ijsonomivan tw`n dunavmewn ... th;n d jejn aujtoi`~ monarcivan novsou poihtikhvn: ... (24 B 4 D.-K.).

1  Arist. Part. an. 665a 10-17. 2  Ibid. 670a 22-26. 3  Resta ancora oggi fondamentale quanto scriveva Glotz 1928, p. 23, in merito al “foyer commun” (koinh; eJstiva) come luogo che identifica il centro della vita non solo religiosa, ma anche politica della città, perciò “inséparable de l’édifice où se tenaient le premier ou les premiers de la cité”. 4  Vilatte 1995, pp. 59-61, identifica, nella Politica di Aristotele, un superamento della concezione circolare della polis, tipica della tradizione epica, e parla della sfera come “métaphore de la cité”. Certo, si tratta di un superamento che non significa rottura, poiché, come sottolinea l’autrice, “la sphère et le cercle ne se divisent pas, puiqu’ils sont composés d’une seule ligne, contrairement aux figures rectilignes … Le cercle comme la sphère sont donc pour Aristote des figures premières et parfaites” (cit. da p. 60 ; cfr. Arist. Cael. 286b 27-33 ; 287a 11-22). Punto di partenza dell’argomentazione è l’analogia riscontrabile tra la descrizione del Cielo, nel Peri ouranou (278b 11-28), come sistema di sfere concentriche, e quella della città con cui si apre la Politica. In particolare, Vilatte rileva che lo stesso verbo perievcein usato nel Peri ouranou per definire il rapporto tra la sfera più esterna del Cielo e quelle più interne, descrive, nella Politica, il rapporto tra la polis e le altre forme di koinonia che risultano in essa comprese : ... mavlista de; kai; tou` kuriwtavtou pavntwn hJ pasw`n kuriwtavth kai; pavsa~ perievcousa ta;~ a[lla~ (1252a 3-6). Senz’altro giuste le notazioni di Vilatte che riflette anche sull’accostabilità del superlativo kuriwtavth che si legge nel passo citato della Politica con l’aggettivo ejscavth riferito nel Peri ouranou al più esterno dei cieli. Potremmo tuttavia aggiungere – ma si tratterebbe, in questo caso, di una pura suggestione – che già nelle premesse omeriche il dato cittadino e il dato cosmico sono posti in relazione l’uno con l’altro, in particolare nei versi che descrivono la parte centrale dello scudo di Achille (Il. 18, 483-489), dove è presente, appunto, il Cielo, con il Sole, la Luna e le costellazioni. 5  Castagnoli 1971. 6  Vd., ad es., Morachiello 2004, pp. 60-62.  





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inconciliabilità, che rappresenta una vera e propria quadratura del cerchio, il pensiero greco non sembra disposto ad arrendersi ! È proprio questo il sentimento che la geniale fantasia di Aristofane porta sulla scena con il paradossale progetto urbanistico del Metone degli Uccelli. Il vanesio architetto ha intenzione di disegnare gli spazi della nuova città mediante l’uso di regoli e di un compasso dai bracci ricurvi che avrebbe l’ambizione di tracciare quadrati al posto di cerchi. È, appunto, la risoluzione della quadratura del cerchio ! Così Aristofane fa parlare Metone ai vv. 1004-1009 :  





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∆Orqw/` metrhvsw kanovni prostiqeiv~, i{na oJ kuvklo~ gevnhtaiv soi tetravgwno~ kajn mevsw/ ajgorav, fevrousai d jw\sin eij~ aujth;n oJdoi; ojrqai; pro;~ aujto; to; mevson, w{sper d jajstevro~ aujtou` kukloterou`~ o[nto~ ojrqai; pantach/` ajkti`ne~ ajpolavmpwsin.

In questi versi l’idea tradizionale del meson (evocata due volte) convive con il dato rettilineo della nuova moda (anch’esso evocato più volte, attraverso l’aggettivo ojrqov~). Siamo all’interno di un progetto certo assurdo, che tuttavia non è liquidabile come semplice nonsense comico. 1 Aristofane scherza, rendendosene ben conto, con il problema forse più grande dell’urbanistica greca, quello della convivenza dialettica tra una pianta (circolare e curvilinea) che nasce dall’osservazione e dall’applicazione degli stessi processi che avvengono in natura – ed è perciò più economica (la natura non fa crescere tronchi d’albero o frutti di forma quadrangolare !) –, e un’altra che è invece risultato di sistemazione e speculazione razionale e richiede dunque un maggior grado di artificio. Ebbene, allo stesso desiderio comicamente espresso dal Metone aristofanesco intende rispondere, nel libro vii della Politica (1330b 17-26), la descrizione della città ideale aristotelica, certo con esiti tutt’altro diversi in termini di razionalità e realizzabilità. Qui il filosofo prende posizione nei confronti dell’assetto ippodameo che egli identifica chiaramente come un newvtero~ trovpo~, una “nuova moda”. Suo dato fondamentale è, per lo Stagirita, il taglio regolare della divisione degli spazi della città. Egli giudica questo tropos particolarmente adatto a garantire la piacevole “disposizione delle case private” (tw`n ijdivwn oijkhvsewn diavqesi~), mentre considera lo schema urbanistico non regolare, tipico dei tempi antichi (kata; to;n ajrcai`on crovnon), più adatto a garantire la difesa, poiché utile a disorientare i nemici che si trovino a percorrere la città. Alla città ideale occorrerà, dunque, per il filosofo della mesotes, tener conto di entrambi i tropoi, e applicare il taglio regolare ippodameo non a tutta la città ma solo ad alcune parti di essa. 2 Ora, è facile pensare che lo Stagirita ne raccomandasse l’adozione so 





1  Del tutto condivisibile la posizione di Grilli 2006, p. 298 s., secondo il quale “si può considerare superficiale” il giudizio di Simmaco (il commentatore di i-ii secolo d.C. citato nello scolio antico al v. 1001) che ritiene il discorso di Metone “intenzionalmente privo di senso” (cfr. l’espressione ejpivthde~ ajdianovhta in Schol. Ar. Av. 1001). 2  Ibid. 27-31 : dio; dei` touvtwn ajmfotevrwn metevcein (ejndevcetai gavr, a[n ti~ ou{tw~ kataskeuavzh/ kaqavper ejn  

toi`~ gewrgivoi~ a}~ kalou`si­ v tine~ tw`n ajmpevlwn sustavda~), kai; th;n me;n o{lhn mh; poiei`n povlin eu[tomon, kata; mevrh de; kai; tovpou~: ou{tw ga;r kai; pro;~ ajsfavleian kai; pro;~ kovsmon e{xei kalw`~. Problematica è, in questo

passo, l’interpretazione della frase che nelle edizioni moderne di Aristotele si legge fra parentesi tonde. Essa si pone con intento esplicativo rispetto all’affermazione aristotelica riguardo alla necessità di tenere conto di entrambe le tipologie urbanistiche : dunque sarebbe possibile farlo imitando la sustav~, usata dai contadini per le vigne. Tradizionalmente si è identificata la sustav~ con la disposizione che i Latini avreb 

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prattutto nella città bassa, dove si concentrava la maggior parte di quelle abitazioni private che egli vedeva più piacevolmente disposte secondo il nuovo schema urbanistico. Altrettanto facilmente possiamo pensare che le parti della città che avrebbero dovuto essere costruite secondo un impianto non ippodameo dovevano coincidere con quelle che, secondo Aristotele, richiedevano una maggiore difesa. E quali dovevano essere queste parti ? Sempre all’interno del vii libro (1331a 28-30), il filosofo dice che “dovrebbero essere più forti – e perciò meglio difesi – rispetto alle altre parti della città” i luoghi destinati alle dimore degli dèi e ai pasti comuni più importanti, i quali dovrebbero anche essere bene “in vista” (e perciò in una posizione rialzata). È chiaro che il filosofo sta pensando a un’acropoli, e credo sia il caso di convenire che di questa acropoli egli auspicasse una sistemazione che potesse inscriversi nel solco dell’antica tradizione urbanistica per la sua possibilità di disorientare i nemici piuttosto che in quello della nuova moda razionale ippodamea. In 1330b 19-21 Aristotele aveva ricordato che : “un’acropoli serve a un regime oligarchico e a quello monarchico, mentre alla democrazia è più propizio un luogo pianeggiante”. Ebbene, questa affermazione ci permette di interpretare l’assetto urbanistico misto che Aristotele propone per la sua città ideale come la fedele trasposizione nello spazio della politeia per eccellenza, che rappresenta per il filosofo il regime costituzionale ideale. Essa risulta, infatti, dalla “mescolanza” (mivxi~) delle due costituzioni sentite, nel iv secolo, come opposte l’una rispetto all’altra : l’oligarchia e la democrazia. 1 E così, negli spazi della città retta secondo questa forma costituzionale mista, l’oligarchia troverebbe espressione nell’acropoli organizzata secondo

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bero chiamato quincunx (il cui nome si deve all’analogia tra il suo modulo-base e la rappresentazione del numero cinque sui dadi). Resta tuttavia il problema, di non poco conto, che nella tradizione greca non esistono riferimenti a uno schema di questo tipo. Non sono perciò mancate, anche in studi recenti, altre ipotesi che, in qualche modo, contemplassero la presenza di un elemento di circolarità rotante attorno a un asse centrale (si veda, ad esempio, Shipley 2005, p. 359 s., con bibl. e status quaestionis). Si può convenire, in ogni caso, che il problema dell’identificazione della sustav~ non ammette facili soluzioni e costituisce “una vera e propria crux”, mentre rimane, come elemento di certezza, l’idea che “Aristotele sembra favorevole ad un impianto urbano che combini parti a pianificazione regolare, con altre che segnino la rottura di linee rette” (Greco 2004-05, p. 355). Mi limito qui a osservare che le ll. 27-31, così come le leggiamo, pongono qualche difficoltà da un punto di vista meramente argomentativo. L’affermazione collocata fra parentesi sembra, infatti, parzialmente in conflitto con la frase che immediatamente segue : se alla città ideale occorre tener conto di entrambi i tropoi, e questo obiettivo già lo si raggiungerebbe adottando lo schema a sustav~, come si spiega il fatto che kata; mevrh de; kai; tovpou~ si dovrà comunque continuare a osservare l’impianto ippodameo ? Personalmente, non mi sentirei di escludere che la proposizione entro parentesi possa esser frutto di un’intrusione, forse una glossa di un copista che potrebbe effettivamente aver usato il concetto di sustav~ sottintendendo lo schema della quincunx varroniana (De re rust. 1, 7, 2). Il kai; che lega gli infiniti poiei`n e metevcein potrebbe, senza alcuna forzatura alla lingua, assumere non un semplice valore copulativo, bensì un valore correttivo-esplicativo : l’infinito poiei`n illustrerebbe, così, nel dettaglio come realizzare concretamente l’idea espressa, solo in teoria, dal verbo metevcein. Il modo per tenere conto di entrambe le esigenze urbanistiche (quella antica e quella moderna) potrebbe non essere, dunque, quello di cercare uno schema alternativo che sia una risultante geometrica (peraltro impossibile !) della loro fusione, e che comunque vedrebbe sopravvivere accanto ad esso anche l’impianto ippodameo. La soluzione potrebbe essere più a portata di mano se ci limitassimo a recuperare la lettera di ciò che Aristotele afferma con quei due infiniti retti da dei` : tener conto del tropos dei tempi antichi e del neoteros tropos sarebbe possibile semplicemente adottandoli entrambi e usando ora l’uno ora l’altro “a seconda delle parti e dei luoghi” della città. 1  Ibid. 1293b 31-34 ; 1294a 30-35. Sull’opposizione democrazia-oligarchia nella Politica, cfr. Carlier 2005 ; sulla politeia come forma di costituzione mista, Lintott 2000.  













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il tropos non ippodameo, mentre la democrazia troverebbe espressione nella parte bassa (perciò tendenzialmente pianeggiante) della città, organizzata secondo il tropos ippodameo. 1 La lettura che si sta proponendo, per la verità aggiungendo poco in termini di interpretazione a quanto è già nel testo aristotelico, parrebbe consentirci l’associazione pianura/città bassa-democrazia-pianta ippodamea. E se prendiamo in considerazione un altro passo di Aristotele sembra trovare un’ulteriore conferma l’idea che il filosofo sottintenda, effettivamente, un legame tra il tropos ippodameo e la democrazia. Nel libro v della Politica infatti, dopo aver ricordato come la topografia del territorio possa facilitare la stasis e il mutamento costituzionale, e dunque rappresentare una minaccia per l’unità della polis, lo Stagirita afferma che ad Atene gli abitanti del Pireo sono “più democratici”, ma`llon dhmotikoiv, rispetto a coloro che abitano l’asty. 2 E Aristotele sa bene che è stato Ippodamo a “tagliare” il Pireo, cioè a suddividerne gli spazi in maniera regolare. 3 Dell’urbanista il filosofo parla ampiamente nel ii libro della Politica, 4 ricordando che, oltre a essere “l’inventore del piano regolatore delle città”, 5 fu anche il primo che “prese a parlare sulla costituzione migliore”. Aristotele si sofferma quindi sulla riflessione politica di quest’uomo che presenta come vanitoso e presuntuoso, preparandoci a un giudizio negativo anche nei confronti della sua proposta di politeia ideale. La descrizione aristotelica del modello costituzionale ippodameo è centrata intorno al principio, che certo non possiamo ritenere democratico, della divisione della popolazione in tre distinte classi sociali apparentemente chiuse l’una rispetto all’altra in termini di partecipazione alle cariche. La politeia di Ippodamo contemplava tuttavia che “tutti i governanti fossero eletti dal popolo” (tou;~ d∆ a[rconta~ aiJretou;~ uJpo; tou` dhvmou ei\nai pavnta~) ; e Aristotele specifica che con il concetto di demos egli intendeva tutte e tre le parti della cittadinanza indistintamente (dh`mon d jejpoivei ta; triva th`~ povlew~) 6. Obiettivo doveva essere, insomma, che “tutti” si sentissero parte della politeia (koinwnou`si th`~ politeiva~ pavnte~). In questo caso, l’insistenza sui pantes ci proietta chiaramente all’interno del bagaglio ideologico e lessicale della democrazia. Ancora, Aristotele attribuisce a Ippodamo la proposta di dare una ricompensa (timhv) a quanti facciano qualcosa di buono per la polis (1268a 6-8). È significativo rilevare che il filosofo deve sentire questa misura vicina all’istituzione  

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1  In sintonia con questo modello teorico, indubbiamente già debitore di esperienze reali, è la fondazione di Alessandria d’Egitto. La pianta della città si trova, infatti “proprio in bilico tra passato e futuro” (Musti 2008, p. 72). Essa accoglie, del futuro, la divisione viaria regolare e la forma quadrangolare simile a quella di una clamide ; del passato accoglie la connotazione istmica e biportuale (il cui paradigma è nella città omerica dei Feaci), addirittura ricostruendola artificialmente mediante la realizzazione dello heptastadion che collega la città all’isoletta di Faro. Ancora è eredità del passato la disposizione irregolare e caoticamente ‘agglutinata’ delle costruzioni che si affollano nel quartiere “eminente” e dunque più importante del Brouchion, vero centro della città, dove si trova il complesso di edifici sacri e civili che costituiscono qui un tutt’uno con il palazzo del re. 2 Arist. Pol. 1303b 7-12 : stasiavzousi de; ejnivote aiJ povlei~ kai; dia; tou;~ tovpou~, o{tan mh; eujfuw`~ e[ch/ hJ cwvra  



pro;~ to; mivan ei\nai povlin, oi|on ejn Klavzomenai`~ oiJ ejpi; Cutw/` pro;~ tou;~ ejn nhvsw/, kai; Kolofwvnioi kai; Notiei`~: kai; ∆Aqhvnhsin oujc oJmoivw~ eijsi;n ajlla; ma`llon dhmotikoi; oiJ to;n Peiraia` oijkou`nte~ tw`n to; a[stu.

3  Ibid. 1267b 22 s. 4  Ibid. 1267b 22-1268a 15. 5  Concordo con Gehrke 1989, p. 58 s. (ma vd. già Greco-Torelli 1983, p. 240), che riferisce il termine diaivresi~ in 1330b 23 all’atto concreto della divisione degli spazi nella pianta urbana, piuttosto che a un contesto costituzionale di divisione della popolazione in classi sociali come pensa invece Gorman 1995. 6  Ibid. 1268 11-13.

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democratica del misqov~, se la giudica pericolosa poiché produttrice della sicofantia. Il suo pensiero va certamente al fenomeno che aveva segnato negativamente la ‘radicalizzazione’ della democrazia ateniese in seguito all’introduzione della misqoforiva da parte di Pericle ed Efialte. Ora, è utile confrontare questo quadro aristotelico con le notizie che si recuperano dai frammenti del Peri; politeiva~, opera la cui attribuzione a Ippodamo è certamente problematica, 1 ma che, anche qualora fosse spuria, resterebbe un’interessante testimonianza di una diversa tradizione sul personaggio. Ebbene, qui la democrazia è sì descritta come una necessità, ma di quelle dure da accettare, che rientra, appunto, nel dominio dell’ajnagkai`on, dell’ineluttabilità più che dell’auspicabilità. Essa dovrà essere infatti una delle componenti di un regime costituzionale misto, che contempli anche elementi aristocratici e monarchici, ma che guardi alla monarchia come a un modello (purtroppo non realizzabile umanamente) di costituzione perfetta, in quanto immagine della divinità (qeomivmaton pra`gma). E molto meno incline pare qui Ippodamo a fare concessioni al popolo, tanto che ne parla come di una massa, plethos, che va tenuta sotto controllo, in quanto “petulante e smodata”. 2 Dai frammenti del Peri; politeiva~ si recupera inoltre una serie di argomenti che decisamente appartengono ai clichés della propaganda antidemocratica. Tale è la critica nei confronti dei sofisti che negano le divinità e corrompono le anime ; o anche l’insistenza sulla necessità di educare i giovani alla dimensione comunitaria, attraverso la pratica dei sissizi e di altre forme di vita associata che trovano in Sparta il loro modello più prossimo. 3 Ora, è innegabile che rispetto al quadro del Peri; politeiva~, il ritratto aristotelico presenta caratteristiche che, pur non facendo di Ippodamo un democratico, perlomeno ne riducono l’ostilità nei confronti del demos e della democrazia. 4 Ci troviamo qui di fronte a un nodo piuttosto problematico. Assai giustamente E. Greco ha insistito, infatti, sulla necessità di rigettare la visione pseudo-tradizionalista, da lui definita “romantica”, che ha visto nel Milesio ‘l’architetto della democrazia’. 5 Egli ha posto l’accento, ad esempio, sull’esistenza di una tradizione (riferita incidentalmente da Strabone) che vuole Ippodamo attivo anche a Rodi, 6 città la cui fondazione fu incoraggiata nel 408 a.C. dagli Spartani in funzione antiateniese, e dunque certamente non animata da un afflato democratico. 7 Si è ipotizzata qualche decennio fa l’esistenza di una “casa-tipo” (Typenhaus) come sorta di traduzione urbanistica del-

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1  Si rinvia all’ottimo quadro di sintesi in Greco 1999, p. 421 s. 2  [Hippod.] Resp. 102 (Thesleff ), in part. ll. 17-20 : damokrativan ajnagkai`on me;n ei\men pavntw~: dei` ga;r  

to;n polivtan mevro~ uJpavrconta ta`~ sumpavsa~ politeiva~ fevresqaiv ti ajp j aujta`~ gevra~: ejpevcesqai d j iJkanw`~ auta;n dei`: qrasu; ga;r kai; propete;~ to; polu; plh`qo~. 3  Ibid. 101, 20-23 ; 100, 19-21.  

4  Ciò non significa che all’interno del quadro aristotelico non restino comunque diversi indizi che permettono di ricostruire per il personaggio un’appartenenza al contesto aristocratico. Condivisibile, in tal senso, è l’analisi di Talamo 2006, secondo la quale è probabile che Ippodamo fosse uno dei bevltistoi di Mileto. 5  Greco 1999, pp. 423, 427 s. con bibl., e, più recentemente, 2004-05, p. 354 s. 6  Strab. 14, 2, 9 : ÔH de; nu`n povli~ ejktivsqh kata; ta; Peloponnhsiaka; uJpo; tou` aujtou` ajrcitevktono~, w{~ fasin,  

uJf j ou| kai; oJ Peiraieuv~.

7  La testimonianza straboniana è stata spesso rigettata o comunque è stata ritenuta problematica, in quanto non conciliabile con una cronologia di Ippodamo basata sulla opinio communis che vuole l’urbanista attivo nella pianificazione di Mileto dopo la distruzione persiana del 494 a.C. (cfr. ad es. Wycherley 1964). Sulle giuste riserve nei confronti di questa impostazione che “presuppone l’eliminazione di una preziosa testimonianza (quella di Strabone) e un rapporto tra Ippodamo e la ricostruzione di Mileto che non è basato su nessuna fonte antica”, vd. Greco 1997, p. 643 s.

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le idee di democrazia e uguaglianza (Demokratie und Gleichheit). 1 Ad essa si è pensato come a un’unità abitativa di base, la cui ripetizione avrebbe costituito – ad esempio al Pireo – gli isolati che caratterizzano lo scacchiere dell’impianto ippodameo, rispettando criteri di uniformità e uguaglianza. L’ipotesi, di per sé suggestiva, si basava su ritrovamenti archeologici di lettura perlomeno controversa, 2 ma quel che più conta è che l’attribuzione di un valore ideologico democratico a edifici di questo tipo contraddice fortemente la visione che della democrazia si ha nel v secolo a.C. La mentalità periclea tende infatti ad associare la democrazia alla libera espressione del privato e alla fruizione del bello, più che a uno spirito livellatore quale potrebbe esprimersi nella costruzione modulare di edifici uguali e uniformi. Basterebbe ricordare l’epitafio che Tucidide pone sulla bocca di Pericle, in 2, 35 ss., tutta improntata a un’etica attivistica che elogia la democrazia per la possibilità di iniziativa lasciata al singolo individuo, come forma istituzionale che non ammette l’invidia sociale, e che si fa sì garante di uguaglianza ma di un’uguaglianza fondata sull’opportunità, sul kairov~ per tutti. 3 Tra gli altri argomenti usati dal democratico Pericle vi è, non a caso, anche l’orgogliosa rivendicazione della possibilità, per i cittadini di Atene, di fruire di idiai kataskeuai, “belle case private” 4. Contraltare negativo del discorso pericleo è certamente la diaita della oligarchica Sparta che imponeva invece ai suoi pochi cittadini di pieno diritto di essere degli homoioi e di osservare regole molto rigide di contenimento dei lussi e delle agiatezze. In ordine con questo quadro è il fatto che il Platone della Repubblica, indubitabilmente antidemocratico, paragona la democrazia a un mantello variopinto, ricamato a fiori d’ogni genere, simbolo di uno sfarzoso benessere che ha tutti i caratteri della tryphe e della polyteleia. Molti potranno considerarla “bellissima”, dice Platone, ma saranno “come i bambini e le donne che contemplano con ammirazione gli oggetti di vario colore”. 5 Nelle Leggi, poi, sempre Platone si pronuncia esplicitamente in favore di un progetto urbanistico improntato ai criteri della oJmalovth~ e oJmoiovth~ : “uniformità” e “somiglianza”, 6 certo in ossequio alle solite preoccupazioni morali che connettono il lusso eccessivo all’idea della corruzione, ma altrettanto certamente lontano da quella che è, per il filosofo, l’immagine della democrazia.  

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5. Resta da chiarire, a questo punto, come mai in Aristotele si trovi quella ampia serie di indizi, sui quali si è già riflettuto, che paiono avvicinare lo schema urbanistico ippodameo al campo della democrazia. La risposta va cercata, forse, nella distanza che separa lo spirito della democrazia di iv secolo da quello della democrazia del secolo precedente. E gli anni che separano Platone da Aristotele sono, in questo caso, determinanti. Ancora all’ombra del v secolo si delineano, infatti, i contorni dell’immagine che Platone si farà della democrazia ; e proprio quell’immagine Platone traghetterà, attra 

1  Hoepfner-Schwandner 1986 ; contra vd. ora Shipley 2005, p. 370 ss. che rigetta la connotazione ideologica della “casa tipo” e afferma che “the Typenhaus would then be a marker of low, rather than equal, status”. 2  Cfr. Étienne 1991, p. 41 s. 3  Thuc. 2, 37, 1 s. ; 40, 1. Cfr. Musti 1995, pp. 14 s., 45 s. 4  Thuc. 2, 38, 1. Fondamentale Ferrucci 1996, ma vd. già Musti 1995, pp. 119-122, e cfr. Greco 1999, p. 427. 5  Plat. Resp. 557c 4-9 : kallivsth au{th tw`n politeiw`n ei\nai: w{sper iJmavtion poikivlon pa`sin a[nqesi pepoikil 





mevnon ... w{sper oiJ pai`dev~ te kai; aiJ gunai`ke~ ta; poikivla qewvmenoi, kallivsthn a]n polloi; krivneian.

6  Plat. Leg. 779b (per il testo vd. supra, p. 108 n. 6).

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verso la sua polemica antidemocratica, nella prima metà del iv secolo. Ma, nella storia dell’idea di democrazia è soprattutto il periodo 355-322 a.C., nel quale è pienamente immerso Aristotele, che vede i maggiori cambiamenti e perciò anche il più deciso allontanamento dalle esperienze del secolo precedente. 1 Questo periodo è caratterizzato, dal punto di vista sociale, dalla diffusione di un forte pauperismo e, nello stesso tempo, dal fiorire delle banche private, 2 e perciò dall’approfondirsi dei contrasti tra ricchi e poveri, tanto che le stesse forme costituzionali sono sempre più connotate in senso sociale ed economico. Del resto, proprio Aristotele introduce con forza una lettura economicistica della dialettica tra oligarchia e democrazia, in base alla quale l’opposizione tra “pochi” e “molti” diventa accessoria, mentre conta quella tra “ricchi” e “poveri”, tra plousioi e penetes. 3 La democrazia è ormai diventata, nei fatti, la forma politica che esprime, per Aristotele, le istanze dei poveri che dobbiamo pensare volte al raggiungimento di forme di uguaglianza ormai da interpretare come egualitarismo sociale :  





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Ciò per cui la democrazia e l’oligarchia differiscono l’una dall’altra sono la povertà e la ricchezza, sicché dove dominano i ricchi, in molti o in pochi che siano, ci sarà necessariamente un’oligarchia, e dove dominano i poveri una democrazia. 4  

Ben altre basi sociali ed economiche aveva la democrazia marittima e imperialistica ateniese del v secolo, modello anche per le altre democrazie contemporanee, in cui a governare non erano i penetes, i poveri, bensì il ceto dei nuovi ricchi, quelli alla Cleone e alla Iperbolo, quelli che Cratino definisce, con una costruzione linguistica di geniale efficacia comica e impareggiabile espressività storica, neoploutopovnhroi : “miserabili arricchiti”. 5 È chiaro che in una accezione della democrazia quale quella che sempre più si impone nel iv secolo, come regime dei poveri, l’uguaglianza si presta maggiormente a essere interpretata in senso aritmetico come egualitarismo livellatore più che in senso geometrico come uguaglianza dei kairoi. È rivelatrice, del resto, la presenza del termine oJmalovth~ nel passo di Aristotele già ricordato, nel quale il filosofo costruisce la sua tabella delle corrispondenze tra topografia e forme costituzionali. 6 Al di là della valenza topografica che qui assume il concetto di oJmalovth~, da intendersi come “pianura”, non possiamo non sentire infatti la eco del suo significato più proprio e originario di “uniformità”, “uguaglianza”, “equilibrio”, che trascina con sé una indubbia connotazione socio-economica. Prova del nove può considerarsi l’analisi degli altri due luoghi della Politica in cui compare lo stesso termine, nei quali esso assume il significato inequivocabile di “uguaglianza delle ricchezze”. 7 Ebbene, è sintomatico che nel passo aristotelico, la oJmalovth~ sia accostata alla democrazia, con una virata che è fortissima rispetto all’uso platonico (quello delle Leggi, ad esempio, che, come si è visto, la pone piuttosto nel campo dell’alternativa alla democrazia). Se queste sono le premesse, si può capire meglio, forse, perché, in una fase avanzata del iv secolo, Aristotele può percepire più vicina al bagaglio ideologico della  







1  Cfr. Hansen 2003, p. 8. 2  Vd. Musti 1999, pp. 108 s., 125 ss. 3  Cfr. Carlier 2005, pp. 266-269. 4 Arist. Pol. 1279b 39-1280a 3 (trad. di C. A. Viano). 5  Crat. fr. 208 (428 a.C. ?, riferito a un uomo politico di nome Androcle) ; cfr. neoplou`to~ in Ar. Vesp. 1309. Sul ruolo dei nuovi ricchi nella democrazia della seconda metà del v secolo, Connor 1971, p. 155 s. 6 Arist. Pol. 1330b 17-21 : peri; de; tovpwn ejrumnw`n ouj pavsai~ oJmoivw~ e[cei to; sumfevron tai`~ politeivai~: oi|on ajk 





rovpoli~ ojligarciko;n kai; monarcikovn, dhmokratiko;n d joJmalovth~, ajristokratiko;n de; oujdevteron, ajlla; ma`llon ijscuroi; tovpoi pleivou~. 7  Ibid. 1266b 15 ; 1309b 39.  

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democrazia la disposizione ippodamea a scacchiera, che più facilmente può adattarsi a rappresentare la reificazione di quella oJmalovth~, cioè di quella uguaglianza livellatrice un tempo ritenuta di marca antidemocratica. Del tutto coerente con questo quadro è quanto si legge in Demostene, il quale, nella iii Olintiaca e nell’orazione Contro Aristocrate, bolla la tendenza dei politici del suo tempo a eccedere nel lusso delle abitazioni private, 1 auspicando dunque, da democratico della seconda metà del iv secolo, modelli di architettura domestica improntati a un maggiore egualitarismo. Ancora una volta, abbiamo la misura di come la democrazia di iv secolo abbia cambiato i suoi valori di riferimento rispetto a quelli dell’epitafio pericleo !  



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6. Lo spazio fisico della polis, nel quale dovevano manifestarsi con maggior evidenza le lacerazioni sociali e anche la confusione tra il dato economico e quello politico era senza dubbio quello dell’agora. Luogo che nasce con una caratterizzazione pubblica, che ha a che fare già in Omero con l’esercizio della parola politica (l’agoreuein, appunto) e con il momento deliberativo 2, l’agora diventa nel corso della storia della grecità – con una significativa accelerazione impressa dallo sviluppo dell’economia monetaria – il luogo in cui pubblico e privato si mescolano in maniera ambigua e indebita. In essa si pratica infatti il commercio e si ricorre all’esercizio di una parola che, in un’ottica aristocratica, è sempre più percepita come inutile ciarla (cui si addice ormai il verbo lalein in luogo del più nobile agoreuein), se non, addirittura, come calunnia urlata e come strumento di cattiva educazione morale e politica, che fa dell’agora il luogo della trivialità e della cialtroneria che rovescia le virtù aristocratiche. 3 Nessuna meraviglia, dunque, che Aristotele abbia parole di disprezzo non solo per l’agoraios ochlos, ma addirittura per un agoraios bios quale si era ormai imposto, vero ostacolo al raggiungimento della “felicità” (eujdaimoniva) all’interno della città. 4 E non deve neppure far meraviglia che proprio la riforma dello spazio dell’agora rappresenti un elemento cardine del progetto di sistemazione urbanistica della polis ideale aristotelica. 5 La soluzione è, per il filosofo, quella di dotare la città di due agorai : un’agora  









1  Demosth. 23, 208 ; 3, 29. La critica di Demostene propone, tuttavia, una lettura idealizzata e perciò fuorviante dei tempi di Temistocle, Aristide e Milziade, i quali, a suo dire, erano abituati a vivere modestamente e a non ricercare il lusso nel privato. È fin troppo chiaro che si tratta di un motivo che viene usato a scopo retorico, per enfatizzare la critica nei confronti del presente (Gomme 1956, p. 116 parla di “conventional picture of the simplicity of the houses of Miltiades and Aristides”). Per questa ragione, Demostene è, secondo Ferrucci 1996, p. 428, il “divulgatore di quel topos sull’aspetto modesto dell’Atene di v secolo che è sopravvissuto fino ad oggi”, sul quale si fondano i “sostenitori della tesi ‘livellatrice’ dell’architettura domestica” di impianto ippodameo. 2  Basti ricordare l’aggettivo boulhfovro~, per il quale vd. supra, p. 110. 3 Ar. Eq. 180 s., 276-300 ; Ran. 1013-1017. Sul tema cfr., in questo volume, il contributo di M. G. Fileni. 4  Arist. 1328b 35 ss. : th;n d jeujdaimonivan o{ti cwri;~ ajreth`~ ajduvnaton uJpavrcein ei[rhtai provteron, fanero;n ejk  





touvtwn wJ~ ejn th/` kavllista politeuomevnh/ povlei kai; th/` kekthmevnh/ dikaivou~ a[ndra~ aJplw`~, ajlla; mh; pro;~ th;n uJpovqesin, ou[te bavnauson bivon ou[t jajgorai`on dei` zh`n tou;~ polivta~ ... Cfr. 1319a 19-39.

5  Aristotele descrive la pianificazione degli spazi di questa città in Pol. 1331a 23-1331b 23. Egli tiene tuttavia a sottolineare che in merito a questo argomento non ha intenzione di dilungarsi in un’esposizione troppo precisa (e dunque non vuole creare un modello che abbia la pretesa di essere rigorosamente prescrittivo e normativo). Un tale sforzo sarebbe “perdere tempo”, poiché in questo campo “è difficile non il pensare le cose, bensì il realizzarle” (ajlla; to; diatrivbein nu`n ajkribologoumevnou~ kai; levgonta~ peri; tw`n toiouvtwn ajrgovn ejstin: ouj ga;r calepovn ejsti ta; toiau`ta noh`sai, ajlla; poih`sai ma`llon). Occorre, infatti, fare i conti di volta in

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alta, che dovrà essere tenuta “libera” da merci di ogni tipo, e che il filosofo pensa immediatamente al di sotto dei templi e dei palazzi dei magistrati, e un’agora bassa, votata al commercio, che dovrà situarsi in una posizione meno centrale, più vicina ai margini della città e dunque più aperta all’afflusso di merci dall’esterno. 1 Si tratta di un’idea che aveva certo i suoi precedenti : lo stesso Aristotele fa riferimento all’ambiente tessalico 2 ; Senofonte ricorda, nella Ciropedia, l’esistenza, presso i Persiani, di “una piazza chiamata libera” (ejleuqevra ajgora; kaloumevnh) ; 3 ed esempi di agorai di uso esclusivamente commerciale erano presenti nelle città ioniche distrutte dai Persiani e ricostruite al principio del v secolo. 4 Quel che qui interessa maggiormente, tuttavia, è sottolineare il ruolo anticipatore di questa idea aristotelica rispetto a una più decisa tendenza che si riscontra nelle soluzioni urbanistiche delle città greche di età ellenistica, nelle quali la “diversificazione tra agora e agora commerciale” 5 sembra un dato acquisito che assume i caratteri della sistematicità e della regola. La piazza alta è, per Aristotele, il luogo riservato all’ejnscolavzein, cioè all’ “ozio”, la piazza bassa è invece il luogo degli ajnagkai`a, delle “attività necessarie”. 6 Nella ‘piazza alta’ si esce dunque dal mondo della dura necessità per entrare in quello di un nobile superfluo che è tipico, secondo Aristotele, delle città “che vivono nel benessere” (eujhmerouvsai) e che sono perciò scolastikwvterai. Esse possono preoccuparsi di realizzare un’idea di “bellezza” intesa come “buon ordine” non solo esteriore ma anche etico e politico (eujkosmiva), e possono inoltre dedicare risorse all’educazione di giovani e adulti. 7 Ebbene, è proprio nello spazio della agora “libera” che si realizza l’idea – forse una delle più care al filosofo – che apre il I libro della Politica (e che più volte torna nel corso dell’opera) : della città come luogo destinato non solo al “vivere” ma al “vivere bene” (1252b 29 s. : ginomevnh me;n tou` zh`n e{neken, ou\sa de; tou` eu\ zh`n). È in questa agora alta che, in buona sostanza, si consuma il superamento della concezione platonica della città come ajnagkaiotavth povli~, 8 necessaria e finalizzata al solo vivere. Certo, anche la città aristotelica ha la sua dose di necessità, in quanto essa è “per natura”, ma la differenza è nel tevlo~, nel suo “fine ultimo” che è il raggiungimento della della “felicità” (eujdaimoniva). E questa felicità, avverte Aristotele, è da concepirsi in un senso non relativo bensì assoluto (oujk ejx uJpoqevsew~ ajll jaJplw`~) :  













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volta con il “caso”, cioè con la natura e la conformazione dei luoghi nei quali sorge la città (Pol. 1331b 18-23). Evidente è la polemica con Platone e con la sua tendenza a costruire modelli di città perfette nell’organizzazione degli spazi ma di fatto irrealizzabili. Dal punto di vista urbanistico, il modello aristotelico rifugge il carattere della rigidità per potersi adattare a una realtà multiforme, come un abito che possa vestire persone diverse. Il prezzo da pagare è la rinuncia alla akribeia, alla “precisione”, ma si tratta di una rinuncia necessaria se si vuole evitare l’utopia. La polis, con i suoi spazi, appartiene, infatti, alle realtà percepibili e misurabili attraverso i sensi (cfr. supra, p. 112 s.) e Aristotele sa che rispetto a tali realtà ci si può esprimere soltanto “approssimativamente” (scedovn) e che “non bisogna pretendere la medesima esattezza (ajkrivbeia) nei ragionamenti e nelle cose percepibili con la sensazione” (Pol. 1328a 19-21). 1  Sul ruolo delle due agorai in Aristotele cfr. il recente studio di Nuzzo 2011, pp. 231-267. 2  Ibid. 1331a 32. 3 Xen. Cyr. 1, 2, 3. 4  Giuliano 1966, p. 131 s. 5  Ibid. Si tratta di un processo analogo a quello che nella civiltà tardo-medievale e umanistico-rinascimentale porta a distinguere (come accade anche nell’esempio urbinate) una piazza ‘nobile’, sulla quale si affacciano il Duomo e i palazzi simbolo del potere civile, dalla piazza ‘del mercato’ o ‘delle erbe’. 6 Arist. Pol. 1331b 11 s. Sul tema della schole nella città aristotelica cfr. Micalella 2008, in part. p. 31 ss. 7  Ibid. 1322b 37 ss. In ordine con la funzione educativa di questo nobile “ozio” è, in 1331a 36 s., l’auspicio di Aristotele di collocare i ginnasi degli adulti proprio nella agora alta, luogo destinato alla schole. 8  Plat. Resp. 369d.

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deve, cioè, basarsi sulla ricerca di ciò che è assolutamente bello e non di ciò che è necessario. 1 Essa deve inoltre appartenere a tutti i cittadini e non solo a una parte di essi, poiché solo così l’intera città potrà dirsi davvero felice : 2 evidente è il rovesciamento della prospettiva platonica in quest’idea di una felicità collettiva della polis che è subordinata alla felicità individuale dei suoi cittadini. Ancora una volta, Aristotele si dimostra più vicino a Omero che a Platone : l’insistenza sulle idee del “vivere bene”, dell’ “ozio” e della “felicità” trova infatti una sua anticipazione nella gioiosa atmosfera con la quale Omero apre la descrizione della città in pace dello scudo di Achille, descrivendone i canti, i balli e i cortei nuziali. Del resto, già nello scudo è possibile ricostruire l’abbozzo della dialettica (che è anche dialogica) tra il mondo degli anankaia e quello della schole. Non a caso ci fanno da guida quelli che unanimemente sono considerati i due momenti chiave della descrizione omerica : la ‘scena della giustizia’ e la danza finale. Il poeta si mostra, infatti, assai attento a far sì che, anche nella mente dei suoi uditori, si fissi un legame tra questi due momenti, e lo fa ricorrendo a simmetrie testuali e richiami linguistici di grande trasparenza. Per entrambe le scene evoca la stessa immagine del cerchio, forma geometrica della condivisione, che racchiude dentro di sé il due, forma numerica della divisione : c’è, ai vv. 504-508, il sacro cerchio dei giudici con i due talenti “in mezzo” da dare a chi “pronunci più dritta sentenza” ; e c’è, ai vv. 599-605, il cerchio disegnato dalla folla e dai giovani danzatori con i due acrobati “in mezzo” che si esibiscono. Dalla difficoltà e anche dalla necessità del nei`ko~ alla spensieratezza del corov~ abbiamo già anticipata la progressione che, almeno quattro secoli dopo, Aristotele indicherà come ragione stessa dell’esistenza della polis e come condizione per la realizzazione della felicità. Ad Aristotele sarà ormai possibile dare a questa progressione una dimensione spaziale concreta, rendendola come uno spostamento che avviene all’interno dei luoghi della città e che si fa vera e propria ascesa dal basso della ajgora; tw`n wjnivwn all’alto della ajgora; ejleuqevra : dallo zh`n all’eu\ zh`n, dal “vivere” al “vivere bene”.  







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1  Arist. Pol. 1332a 10 s.

2  Ibid. 1329a 23 s.

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forme dello spazio e forme della politica

Shipley 2005, G. Shipley, ‘Little Boxes on the Hillside : Greek Town Planning, Hippodamos, and Polis Ideology’, in M. H. Hansen (ed.), The Imaginary Polis. Symposium ( January 7-10 2004), Copenhagen 2005, pp. 335-403. Talamo 2006, C. Talamo, ‘Aristotele e Ippodamo’, in M. Faraguna - V. Vedaldi Iasbez (edd.), Duvnasqai didavskein. Studi in onore di Filippo Càssola per il suo ottantesimo compleanno, Trieste 2006, pp. 375-385. Vegetti 2006, M. Vegetti (ed.), Platone. La Repubblica, Milano 2006. Veneri 2007, A. Veneri, ‘Omero, Esiodo e lo spettacolo della giustizia’, Quad. Urb. n.s. 85 (114), 2007, pp. 15-19. Vernant 1978, J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Torino 19782 (ed. or. Mythe et pensée chez les Grecs. Études de psychologie historique, Paris 1965). Vetta 1989, M. Vetta (ed.), Aristofane. Le donne all’assemblea, trad. di D. Del Corno, Milano, 1989. Vidal-Naquet 1981, P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir. Formes de la pensée et formes de la société dans le monde grec, Paris 1981. Vilatte 1995, S. Vilatte, Espace et temps dans la cité aristotelicienne de la Politique, Paris 1995. Wycherley 1964, R. E. Wycherley, ‘Hippodamus and Rhodes’, Historia 13, 1964, pp. 135-139. Zimmermann 1834, J. P. I. Zimmermann, De Aristophanis et Platonis amicitia et simultate, Marburg 1834. Zuccante 1929, G. Zuccante, ‘Aristofane e Platone’, Rend. Ist. Lomb. 62, 1929, pp. 366-388.  

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GLI SPA ZI CITTA DINI

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LA CITTÀ PENSA NTE. LA R A PPR ESENTA ZIONE DELLA MENTE COLLETTI VA IN ERODOTO Marco Dor ati

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istory” – scrive D. Cohn in un importante saggio che si propone di individuare segnali testuali in grado di distinguere di per sé scrittura finzionale e storica – “is more often concerned with collective ‘mentalities’ than with individual minds”. 1 Nel sottolineare come una larga presenza di attori collettivi (città, popoli, eserciti ecc.) costituisca una caratteristica della scrittura storica, D. Cohn pone un’interessante distinzione tra ‘mente’ e ‘mentalità’ : la prima apparterrebbe agli individui, la seconda alle entità collettive. In altri termini, i gruppi possono avere una ‘mentalità’ ma non una mente in senso proprio ; solo per gli individui si potrà dunque parlare di attività mentale in senso stretto. Quest’ultimo punto merita di essere riconsiderato alla luce della crescente attenzione che la teoria letteraria ha riservato negli ultimi anni all’analisi della rappresentazione del pensiero nel racconto. 2 In questo quadro, l’immagine dominante del pensiero come testo prodotto nel chiuso della mente di un individuo è stata messa in discussione da più punti di vista. In primo luogo, si dice, in passato è stato posto un accento troppo forte sul carattere privato della mente, mentre in realtà essa è in larga parte pubblica in quanto accessibile attraverso il comportamento visibile : alla mente “inside the skull” si deve pertanto contrapporre, o quanto meno affiancare, la mente “beyond the skin”. 3 In secondo luogo, il pensiero non è solo individuale, ma anche collettivo e socialmente distribuito. Alla comune prospettiva internalista se ne dovrebbe di conseguenza sostituire una esternalista e funzionalista che tenga conto del fatto che, come afferma D. Dennett, “[what] makes something a mind ... is not what it is made of, but what it can do”. 4 In quest’ottica la mente collettiva non è solo una metafora ma costituisce, nonostante la mancanza di un supporto fisico unitario, una realtà concreta : dall’intramental thought degli individui è possibile distinguere l’intermental thought proprio di gruppi più o meno estesi – da una coppia a un’intera nazione. 5 In questo modo potremmo cogliere e apprezzare un insieme di fenomeni e relazioni che sfuggirebbero se ci limitassimo a concepire il pensiero come ‘testo’ formulato in una sorta di ‘teatro interiore’. “Fictional minds, like real minds, – scrive A. Palmer – form part of extended cognitive networks. We will never understand how individual minds work if we cut them off from the larger, collective units to which they belong”. 6 Muovendo da queste premesse, Palmer ha mostrato come la rappresentazione della mente collettiva abbia nel romanzo moderno un ruolo fondamentale, ma fino ad “

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1  Cohn 1999, p. 121. 2  Vd. in part. Palmer 2004 e 2010. 3  Secondo la formula adottata da Palmer (vd. in part. Palmer 2004, p. 157 e 2010, p. 42). 4  Citato in Palmer 2004, p. 88. 5  Palmer 2004, pp. 161-169 ; 218-230 ; 2010, pp. 40-46. Cfr. le osservazioni di Zunshine 2010, p. 166. 6  Palmer 2010, p. 26.  



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oggi sostanzialmente misconosciuto, e come una maggiore consapevolezza di questi meccanismi contribuisca a una migliore comprensione dei testi letterari. Queste premesse valgono anche, con le dovute cautele, per il racconto storico : se in quest’ultimo gli attori collettivi hanno un peso determinante, e se la rappresentazione del pensiero è a sua volta essenziale per la ricostruzione della causalità e della motivazione storica, il pensiero collettivo non potrà non essere rilevante per la comprensione della scrittura storiografica.  

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Rappresentazione di eventi mentali dinamici Come per le menti individuali, anche per il pensiero collettivo è utile distinguere tra realtà psichiche differenti, anche se spesso accomunate dall’uso degli stessi verbi, e operare una prima fondamentale – anche se ovviamente non rigida – distinzione tra ‘stati’ ed ‘eventi’ mentali, tra disposizioni di fondo, permanenti o di lungo periodo da un lato, ed eventi puntuali e di carattere fondamentalmente dinamico dall’altro. Il carattere dinamico dell’accesso al pensiero è assicurato da due fattori : a) ancoraggio a un momento specifico : quanto più si restringe l’arco di tempo coperto dall’azione, tanto più la rappresentazione del pensiero tende a passare da un valore metaforico a uno letterale, e di conseguenza a muovere dalla sintesi in direzione della mimesi ; b) articolazione del pensiero : quanto più sarà articolato e dettagliato il corso di pensieri o il succedersi di emozioni rappresentato nel testo, tanto più forte sarà l’impressione di entrare nella testa di un personaggio per coglierne l’attività in quel preciso istante. Senza una compresenza minima dei due elementi, la rappresentazione del pensiero resta fondamentalmente metaforica. 1 Due esempi possono illustrare più concretamente questa progressione. Quando afferma che la causa vera del conflitto peloponnesiaco fu la ‘paura’ (fovbo~) degli Spartani di fronte alla crescita della potenza degli Ateniesi, Tucidide presenta la sintesi di un insieme di processi storici complessi, che nella rappresentazione diventano lo ‘stato’ mentale di un attore collettivo, in grado di generare un evento (la guerra). 2 Attraverso un processo che si potrebbe definire di ‘compressione’, questo complesso di eventi, impossibile da cogliere con un singolo sguardo nella sua dispersione – una pluralità di atti mentali individuali, discorsi privati, dichiarazioni pubbliche, confronti di opinioni ecc. –, è ridotto a una dimensione antropomorfica, nella quale Sparta diviene un quasi-personaggio che prova un timore analogo a quello che prova un individuo come Creso, il quale, spaventato dalla crescita della potenza di Ciro, giunge al pensiero (ejnevbhse ej~ frontivda) di bloccarla prima che sia troppo tardi. 3 Le forze in gioco e gli eventi che ne derivano sono reali, ma la rappresentazione del pensiero è fortemente metaforica : Tucidide non sta cercando di rappresentare mimeticamente un determinato corso di pensieri che una Sparta ‘corale’ avrebbe in un certo specifico momento ‘pensato’, ma la presenza di una disposizione generale che costituisce terreno fertile per la guerra.  















1  Per una trattazione più ampia e bibliografia rimando a Dorati, ‘Senofonte’. 2  Thuc. 1, 23, 6 ; cfr. anche fobouvmenoi in 1, 88. 3  Hdt. 1, 46, 1 : il parallelo è sottolineato da Immerwahr 1956, pp. 251-252 ; 255-256 (cfr. anche e[gkoton e[cein in 5, 59, 4, e 6, 133, 1 e Immerwahr 1956, p. 252). Per il concetto di ‘compressione’ vd. Fauconnier-Turner 2002, in part. pp. 312-325 e cfr. Dorati 2008, pp. 167-168 e n. 102.  





la rappresentazione della mente collettiva in erodoto

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In un passo per certi versi analogo (5, 90-91), Erodoto narra che dopo la cacciata dei Pisistratidi gli Spartani, resisi conto (maqovnte~) di una serie di elementi – venuti a conoscenza (puqovmenoi) degli intrighi degli Alcmeonidi, considerando una doppia sventura (sumforh;n ejpoieu`nto diplhvn) avere favorito questi sviluppi, incitati da alcuni oracoli sfavorevoli (ejnh`govn sfea~ oiJ crhsmoiv), vedendo che gli Ateniesi crescevano in potenza (tou;~ ∆Aqhnaivou~ w{rwn aujxomevnou~) e non erano per nulla disposti (oujdamw`~ eJtoivmou~ ejovnta~) a ubbidire loro, comprendendo (novw/ labovnte~) che il popolo attico sarebbe diventato pari a loro per importanza, mentre se fossero stati dominati da un tiranno sarebbero rimasti deboli e ubbidienti – presero contatto con Ippia. Il pensiero degli Spartani, che Macan definisce “machiavellico”, 1 è qui molto più articolato, comprende opinioni, atti di percezione virtuale, accesso alla mente altrui, proiezione di scenari futuri, ed è connesso a momenti ed eventi più circoscritti e definiti. Siamo senza dubbio ancora nel quadro di un pensiero sintetico e metaforico – anche Erodoto non vuole mostrarci un ‘coro’ di menti in azione –, ma è chiaro che si è già fatto un buon tratto di strada verso una rappresentazione dinamica. Nelle pagine che seguono si prenderanno in considerazione eventi mentali di carattere tendenzialmente dinamico, nei quali la mente collettiva assume un volto meno metaforico e più concreto, e ci si concentrerà, in particolare, sull’unità intermentale costituita dalla polis. È legittimo chiedersi se sia utile parlare di mente collettiva e atti mentali in rapporto a una città, e per più di un verso la risposta sembrerebbe affermativa, in un senso più letterale di quanto non appaia a prima vista. Siamo così abituati a parlare di un popolo, di una città, di un’assemblea, di un gruppo, come di soggetti individuali in grado di ‘volere’ e ‘pensare’, che non percepiamo più la complessità che si nasconde dietro a una realtà apparentemente tanto banale. Il punto è quindi se esista una mente collettiva della polis che non sia una semplice metafora o una sintesi a livello linguistico del narratore, ma un fenomeno concreto, dotato di dinamiche proprie e parte integrante del processo storico, che, come tale, è colto da un Erodoto che sente di doverne in qualche modo rendere conto. Il primo passo sul quale ci si soffermerà non riguarda direttamente la polis, ma fornisce un utile termine di confronto per quanto segue. All’inizio del libro 7 (8-13) Serse convoca un consiglio di notabili persiani, annuncia il proprio desiderio di fare una spedizione contro la Grecia e chiede l’opinione dei presenti. 2 Al discorso adulatorio di Mardonio segue il silenzio dei Persiani che non osano esprimere un parere contrario (7, 10 : siwpwvntwn … kai; ouj tolmwvntwn gnwvmhn ajpodeivknusqai ajntivhn th`/ prokeimevnh/). Più tardi Serse convoca un nuovo consiglio e annuncia di avere cambiato idea, i Persiani gioiscono, si prostrano davanti a lui e anche questa volta non dicono nulla (7, 13, 3 : kecarhkovte~ prosekuvneon). Erodoto non si limita alla generica affermazione che tra i Persiani prevale un’opinione contraria alla spedizione, ma rappresenta quello che sta accadendo in uno specifico istante dietro alla facciata silenziosa e deferente dei notabili ; non riporta il ‘testo’ dei loro pensieri, in forma diretta o indiretta, ma il lettore non ha difficoltà a capire cosa passa per la loro mente : disaccordo, paura, sollievo. Si conferma quanto

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1  Macan 1895, ad loc., p. 234. 2  Su questo episodio, oltre a Hohti 1974, pp. 21-23, vd. ora Pelling 2006, pp. 108-110 ; Baragwanath 2008, pp. 242-253 ; Löffler 2008, pp. 166-192 ; Stahl 2012, pp. 134-142. Sui consigli del Re più in generale vd. Ruberto 2007.  





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Palmer riscontra nel racconto finzionale : spesso terminiamo un romanzo con un’immagine molto nitida della mente dei personaggi, ma se cerchiamo di identificare e contare gli elementi testuali sui quali si basa tale impressione, scopriamo con sorpresa che essi sono in realtà assai scarsi, spesso solo una parola o due. 1 Nel nostro caso l’impressione che ricaviamo della mente dei Persiani poggia su ouj tolmwvntwn e kecarhkovte~, oltre che sull’eloquente silenzio, che, se confrontato con la raffica di consensi cortigiani di altri consigli, diviene un vero e proprio atto di dissenso : accuratamente preparato dall’attimo di sospensione che segue la conclusione del discorso di Serse (8 d 2 : tau`ta ei[pa~ ejpauveto), nel quale si inserisce opportunisticamente Mardonio, il silenzio si ripropone inesorabile al termine dell’intervento di quest’ultimo. 2 Attraverso segnali testuali minimi Erodoto riesce a dire in effetti molto sul funzionamento di un gruppo intermentale. Lette in termini di cooperazione e conflitto tra menti, queste poche parole presentano un’ulteriore ragione di interesse. Le menti dei Persiani sono connesse in una relazione dinamica che dipende dai rapporti di forza asimmetrici che dominano il consiglio autocratico. Debole di fronte a Serse nella dimensione della parola palese, la mente collettiva dei notabili è per altra via, attraverso la coesione e il silenzio, un’entità forte in grado da un lato di contrastare la mente individuale di Mardonio, dall’altro di rafforzare la confidenza di Artabano nel suo rapporto di parentela con il Re (7, 10, 1 : pivsuno~ ejwvn), aiutandolo a rompere la barriera del silenzio per parlare a nome di tutti. 3 Serse convoca il consiglio non solo per esprimere la sua volontà, ma anche per conoscere le opinioni dei Persiani. 4 Se questo era davvero il fine, siamo di fronte a un’opportunità mancata, perché il Re perde il potenziale apporto delle altre menti, che, correggendo la sua interpretazione tendenziosa del passato e la sua valutazione, altrettanto erronea, delle caratteristiche dei nemici, 5 potrebbero prevenire danni futuri. Anche se in seguito Serse si pente e si mostra più disponibile a seguire i consigli di Artabano, i limiti di un consiglio autocratico sono stati illustrati. Se nel contesto della polis le menti dei cittadini sono di norma unite nello sforzo comune di trovare una soluzione a un problema, in un concilio tirannico quelle dei sudditi sono unite nella comune necessità di nascondere i propri pensieri. Il passo esemplifica bene, pertanto, un problema tipico delle strutture di potere fortemente gerarchizzate : la difficoltà di ottenere consigli sinceri e disinteressati. 6  







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1  Palmer 2004, p. 176. 2  Vd. Belloni 2002, p. 25. Sulla funzione di background del silenzio in generale, vd. le osservazioni di Johnstone 2002, pp. 58-60. 3  Cfr. la dinamica analoga, in un contesto greco, nel silenzio dei Corinzi in 5, 92, 1 : la maggioranza disapprova (oujk ejnedevketo) il discorso degli Spartani in silenzio (hJsucivhn h\gon). In seguito Socle – il quale, senza bisogno di alcuna consultazione palese, conosce il sentimento dominante nella mente collettiva della quale è parte – si distacca da questo silenzio ‘corale’, esprimendo la disapprovazione generale di fronte alle manovre spartane (92 h 5). 4  Hdt. 7, 8, 1 : i{na gnwvma~ te puvqhtaiv sfewn kai; aujto;~ ejn pa`si ei[ph/ ta; qevlei. 5  Cfr. Baragwanath 2008, pp. 243 e 248 ; Grethlein 2011, pp. 104-110. 6  Cfr. Baragwanath 2008, p. 250. Cfr. il consiglio di 8, 67-69, convocato da Serse prima di Salamina per sondare la mente dei comandanti (8, 67, 1 : ejqevlwn … puqevsqai … ta;~ gnwvma~ … ; 67, 2 : ajpopeirwvmeno~), e nel quale solo Artemisia osa contrastare il desiderio del Re di combattere. Il passo fornisce un bell’esempio di mente collettiva in azione (8, 69, 1) : gli amici (eu[nooi) di Artemisia si disperano (sumforh;n ejpoieu`nto) al pensiero che la donna subisca l’ira di Serse (wJ~ kakovn ti peisomevnh~), perché aveva espresso parere sfavorevole alla battaglia ; coloro che le sono ostili (oiJ de; ajgeovmenoiv te kai; fqonevonte~ aujth`)/ a causa del particolare favore  















la rappresentazione della mente collettiva in erodoto

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Un altro aspetto che merita di essere sottolineato è che il passo mette in evidenza come i notabili abbiano una conoscenza della mente di Serse più accurata di quella che questi ha di se stesso. Il Re è in buona fede nel concedere libertà di parola ai suoi interlocutori, ma, oltre a non conoscere le regole del gioco democratico, non conosce il proprio carattere. C’è una chiara discrepanza tra due lati della mente del Re – pensiero ed emotività – che mina la pretesa natura democratica del consiglio. 1 Serse può immaginare se stesso come un uomo aperto alla cooperazione nel contesto di un’assemblea, ma la sua reale natura autocratica non tarda a venire alla luce. La sua reazione rabbiosa alle parole di Artabano mostra che i notabili avevano ragione, lasciando intuire quale sarebbe stata la loro sorte se solo avessero osato esprimere la propria opinione senza essere protetti, come Artabano, da un rapporto di parentela. 2 La possibilità di conoscere la mente di Serse meglio del Re stesso, e di conseguenza di anticiparne le mosse, consente ai notabili di salvare la testa. Erodoto rappresenta dunque l’azione storica come una realtà duplice, fatta sia di un lato visibile (azioni e parole), sia di un lato invisibile (i pensieri più o meno nascosti dei personaggi) : senza una qualche conoscenza di quest’ultimo, gli eventi – in questo caso il funzionamento di un’assemblea e i suoi esiti – non sarebbero pienamente comprensibili. Fatte queste premesse, è ora possibile considerare qualche esempio sul versante greco. In 7, 148-150 Erodoto spiega che gli Argivi, comprendendo (148, 2 : maqovnte~) che i Greci avrebbero tentato di coinvolgerli nella difesa contro i barbari, consultarono l’oracolo delfico sul da farsi. Quando gli Spartani si presentano e, rivolgendosi all’assemblea, chiedono il loro aiuto contro i Persiani, gli Argivi – pur avendo ricevuto un responso sfavorevole – rispondono di essere disponibili, ma solo a condizione di ottenere il comando di metà delle truppe e stipulare una pace trentennale con Sparta. Nel fare questo discorso, aggiunge Erodoto, gli Argivi, pur temendo (149, 1 : fobeomevnoisi) l’oracolo, speravano (spoudh;n e[cein) di ottenere una tregua, affinché i figli diventassero intanto adulti (i{na ... ajndrwqevwsi) ; se non avessero ottenuto una tregua (mh; de; spondevwn ejousevwn), temevano di cadere sotto il dominio spartano (ejpilevgesqai ... mh; to; loipo;n e[wsi Lakedaimonivwn uJphvkooi), qualora alla precedente disfatta di Sepia (cfr. 6, 76-83) si fosse aggiunta una sconfitta ad opera dei Persiani (h]n a[ra sfeva~ katalavbh/  

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che la donna gode presso il Re (a{te ejn prwvtoisi tetimhmevnh~), gioiscono (ejtevrponto) pensando alla sua rovina (wJ~ ajpoleomevnh~ aujth`~). Il testo presenta un complesso intreccio di disposizioni preesistenti che, attivandosi in un momento specifico, producono eventi psichici (emozioni, proiezione di scenari futuri). In questo caso un parere indipendente è presentato, ma il risultato è lo stesso, perché Serse, pur non adirandosi, non coglie la bontà del consiglio e decide di combattere perché – persistendo in un’errata rappresentazione della mente dei Greci – ritiene (8, 69, 2 : nomivzwn) che le precedenti sconfitte siano da imputare all’assenza del padrone dal campo di battaglia dove combattono i suoi schiavi. Pur sfuggendo agli stereotipi (cfr. Pelling 2006, p. 111 ; Bowie 2007, ad loc., pp. 159-160), Erodoto ribadisce la logica di fondo : un consiglio tirannico è minato alla base da un’asimmetria che ostacola il prevalere della risposta migliore, perché anche il parere migliore è subordinato al volere del Re. Cfr. Vignolo Munson 1988, pp. 96-97. Dopo Salamina Serse consulta nuovamente Artemisia (8, 101), ritenendo che essa sola abbia un’idea (noevousa) sul da farsi, ma allontana gli altri Persiani, disattivando così consapevolmente la dinamica del consiglio tirannico ; ma il risultato è che Serse si sente dire solo quel che già pensava (103 : tav per aujto;~ ejnovee), dal momento che Artemisia subito assume il ruolo di “consummate courtier” (Bowie 2007, ad 102, p. 191). 1  Per il ‘travestimento’ democratico del concilio persiano, vd. Belloni 2002 e Pelling 2006, p. 109. 2  Per il ruolo dell’emotività di Serse nel passo vd. in part. Baragwanath 2008, pp. 246-249.  









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ktl). 1 Nell’accostare al discorso palese degli Argivi la controparte del loro retropen 

siero, Erodoto produce un quadro dell’attività della loro mente collettiva che include disposizioni attuali (timore dell’oracolo) e scenari e sottoscenari alternativi, realizzatisi (la richiesta di aiuto) o più o meno destinati a realizzarsi in futuro (indipendenza o perdita dell’autonomia) : 2 un intreccio complesso che non è riformulazione in termini di intenzioni del loro discorso palese, incentrato sul comando dell’esercito. Erodoto presenta i pensieri degli Argivi come quel che essi hanno in mente mentre rivolgono parole di altro tenore agli ambasciatori : si tratta di pensieri già presenti nella loro mente collettiva. Naturalmente, questo ‘pensiero’ può essere considerato anche sintesi di dibattiti pregressi – non meno della ‘paura’ degli Spartani in Tucidide –, nei quali si sono fatte previsioni e si è decisa una linea politica. 3 Il punto, tuttavia, non è se e come Erodoto sia venuto a conoscenza di questi discorsi a porte più o meno chiuse, ma il fatto che rappresenti l’azione storica come una realtà duplice : da un lato quel che i personaggi dicono, dall’altro quel che pensano. Erodoto non scinde nella sua esposizione ‘fonti’ (dibattiti pregressi ecc.) e discorso pubblico, ma ricostruisce l’unità dell’azione rappresentando mimeticamente la compresenza delle sue due facce. Il carattere mimetico della rappresentazione è ancora più evidente nel racconto della battaglia di Maratona (6, 112). I Persiani, vedendo (oJrw`nte~) gli Ateniesi muovere all’attacco di corsa, considerano che sono in pochi (oJrw`nte~ aujtou;~ ejovnta~ ojlivgou~) e attaccano senza il supporto della cavalleria e degli arcieri, e li giudicano in preda a una follia che sarebbe risultata rovinosa (manivhn … ejpevferon kai; pavgcu ojleqrivhn). Queste, riassume Erodoto, erano le congetture che facevano i barbari (tau`ta … kateivkazon). Lo storico non intende offrirci la sintesi di un’opinione che circola verbalmente tra i Persiani, ma la fotografia di un evento psichico collettivo, collocato in un arco di tempo ben delimitato, consistente in una catena di atti mentali che partono da una percezione sensoriale per giungere alla proiezione di uno scenario possibile ma non realizzato (la disfatta degli Ateniesi) ; nel contempo, come in tanti altri passi delle Storie, l’accesso al pensiero dei Persiani contribuisce alla loro caratterizzazione, dimostrandone una volta di più – si pensi ai giudizi di Mardonio sull’oplitismo 4 – l’incapacità di comprendere la realtà greca, e contribuendo quindi a spiegarne la sconfitta.  







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Mente collettiva e mente individuale Se, seguendo Palmer, adottiamo una prospettiva funzionalista, possiamo constatare come Erodoto tratti le menti collettive come realtà concrete, anche se impalpabili, non dissimili dalle menti individuali, nella misura in cui sono attribuite loro le stesse funzioni. Mente collettiva e mente individuale non costituiscono del resto due realtà eterogenee e incommensurabili, alle quali solo per comodità si fa riferimento con gli stessi termini ; al contrario, sono entità tra le quali non esistono barriere insormon 

1  Su questa sezione vd. Vignolo Munson 2001, pp. 225-230. 2  Cfr. in generale Dorati 2013a. 3  L’intreccio è così complesso e ricco di dettagli che Erodoto sente la necessità di attribuirlo esplicitamente agli Argivi stessi (7, 148, 2 : levgousi), probabilmente un criterio di verisimiglianza rispetto al quale la mente collettiva funziona come quella individuale (cfr. la ‘norma’ di Leech e Short in Dorati 2013b, pp. 156-159). 4  Per il giudizio di Mardonio sull’oplitismo, vd. Moggi 1993. Sulla caratterizzazione, cfr. infra, pp. 140-142.  

la rappresentazione della mente collettiva in erodoto

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tabili e che interagiscono in continuità. 1 All’interno di tale prassi narrativa Erodoto sembra talvolta affrontare il tema del loro valore relativo, contrapponendo menti individuali e collettive : è pertanto lecito chiedersi se esse funzionino nello stesso modo, o in modo diverso, e se una singola testa funzioni meglio o peggio di molte teste messe assieme. La risposta non è univoca e ha, nel contesto delle Storie, una valenza anche politica. Nel celebre dialogo tra Serse e Demarato (7, 103-104), nel quale si ripropone il confronto tra sudditi e cittadini già adombrato nel consiglio persiano, lo spartano, illustrando il valore dei suoi concittadini, contrappone una logica fondata sul valore aggiunto dato dalla coesione del gruppo a quella puramente numerica di Serse. 2 Il valore degli Spartani non equivale alla semplice somma del valore dei singoli individui : singolarmente (104, 3 : kata; me;n e{na) non sono peggiori degli altri, ma presi assieme (aJleve~ dev) sono migliori di tutti : costituiscono una realtà incommensurabile non perché siano tali anche come individui, ma perché costituiscono una ‘mente’ diversa, nutrita di valori particolari (in primis, il timore – uJpodeimaivnousi – della legge). Quanto più Serse si inviluppa nei suoi conti, tanto più risulta evidente la sua incomprensione di quel che costituisce la reale forza degli Spartani, e dunque la sua incapacità di entrare nella loro mente : un’incomprensione foriera di disastri, come Serse imparerà a proprie spese. 3 La rappresentazione erodotea pone in questo caso al centro dell’attenzione una disposizione ‘statica’ ; la mente collettiva è tuttavia anche produttrice di riflessione – e quindi di eventi dinamici – in senso stretto. Erodoto conclude il racconto della visita di Aristagora ad Atene in cerca di sostegno alla rivolta ionica (5, 97) con la considerazione che è più facile ingannare molti uomini che uno solo (pollou;~ … h] e{na), dal momento che Aristagora, che non era stato capace di convincere il solo Cleomene, era invece riuscito a ingannare trentamila Ateniesi, utilizzando, per giunta, le stesse argomentazioni. La ragione del successo di Aristagora ad Atene, o del suo insuccesso a Sparta, non è da identificare in una maggiore intelligenza degli Spartani rispetto agli Ateniesi – lo storico non sostiene che Cleomene sia più astuto di ciascuno dei trentamila Ateniesi presi singolarmente o della loro somma complessiva –, ma ancora una volta nella diversa dinamica che investe la mente individuale e quella collettiva, poiché la riunione di trentamila menti produce un’entità nuova, dotata di logiche e dinamiche proprie : pur essendo gli Ateniesi, a detta di Erodoto, i più intelligenti, o i meno ingenui, tra i Greci (1, 60, 3), le loro menti, riunite in una collettività, diventano improvvisamente più vulnerabili di fronte alle astuzie di Aristagora di quanto non accada alla mente individuale di Cleomene. 4 Anche in questo caso la mente collettiva non è una semplice metafora : la persuasione (5, 97, 3 : ajnapeisqevnte~) degli Ateniesi non è il frutto di una circolazione di idee, ma di un evento psichico che si verifica simultaneamente nelle menti di tutti i presenti.  









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1  Vd. ad es.1, 27 ; 1, 99, 2 ; 1, 164, 2 ; 6, 48, 1 ; 6, 109. Cfr. anche la frase di Palmer 2010, p. 26 (supra, p. 129). 2  Cfr. Konstan 1987, pp. 65-66 ; Flower 2006, p. 285 ; Raaflaub 2012, p. 26. 3  Cfr. 7, 229-232, dove Erodoto, narrando la sorte dei superstiti delle Termopili, afferma che la colpa di Aristodemo non fu tanto l’essere sopravvissuto, quanto l’aver pensato diversamente (229, 1 : oujk ejqelh`sai oJmofronevein) rispetto ad Eurito, che decise di combattere nonostante la malattia : collocandosi al di fuori della mente collettiva degli Spartani, Aristodemo diviene oggetto di odio (229, 2 : mhni`sai) per quest’ultima. Cfr. Arist. Pol. 3, 11, 1281b. 4  Cfr. Sol. fr. 15, 5-6 Gent.-Pr. = 11 W. e Gray 1997, pp. 139-140.  

















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Questo passo non autorizza a concludere che la mente individuale valga in assoluto più di quella collettiva, poiché in altri casi i gruppi, anche se non necessariamente tanto estesi da includere un’intera polis, si dimostrano in grado di funzionare assai meglio. Questo meccanismo è esemplificato, in tutta la sua complessità, da alcuni racconti che vedono come protagonisti da un lato una collettività impegnata nell’interpretazione di un oracolo, dall’altro un singolo cittadino. Lungi dal qualificare mente individuale e mente collettiva come polo positivo e negativo, il racconto mostra al contrario come esse possano in alcuni casi lavorare meglio in sinergia. In 5, 79-80 Erodoto riferisce la discussione pubblica che ha luogo a Tebe quando gli inviati, tornati da Delfi, riportano un responso della Pizia che invita i Tebani a chiedere l’aiuto dei loro vicini, se desiderano vendicarsi degli Ateniesi. Convocata un’assemblea, i Tebani discutono collettivamente l’interpretazione dell’oracolo. La prima fase della discussione si conclude con l’intuizione della necessità di un’interpretazione non letterale dell’oracolo : i vicini non possono essere semplicemente i popoli confinanti. 1 Quando il dibattito sembra giunto su un binario morto, improvvisamente, mentre i Tebani ‘riflettono’ (toiau`ta ejpilegomevnwn), un tale comprende (maqwvn) il significato dell’oracolo e lo illustra all’assemblea, che accoglie l’interpretazione : i vicini sono gli Egineti. Lungi dal confermare che il singolo arriva dove non arriva il gruppo, il passo mette in evidenza “the role of the interpretative community” : 2 non abbiamo contrapposizione tra mente individuale e collettiva, ma, al contrario, la mente individuale che ottiene un risultato proprio in quanto parte integrante di quella collettiva, all’interno di uno sforzo comune. 3 Erodoto riconosce dunque alla mente collettiva un valore aggiunto, che le permette talvolta di compiere operazioni intellettuali che non sempre il singolo è in grado di compiere. Non siamo di fronte a un’attestazione ante litteram del moderno aforisma secondo il quale la maggioranza ha sempre torto, ma neppure al suo contrario : sebbene mostri in alcuni casi la collettività vittima degli inganni di una mente individuale, 4 e sia in linea di massima più incline a riconoscere negli eventi storici più l’impronta degli individui che quella delle grandi masse, Erodoto è lungi dal farne una regola ferrea. La polarità mente individuale /mente collettiva non è una pesatura di valori assoluti, ma una relazione complessa nella quale si possono di volta in volta individuare dinamiche differenti : 5 quando si pone come recipiente passivo, la mente collettiva può cadere facilmente vittima della retorica altrui al pari di quella individuale ; quando la collettività assume un ruolo attivo e lavora realmente come una mente unica può produrre risultati positivi, come e talvolta più di una mente individuale. 6  























1  Si noti come Erodoto riferisca questa conclusione non attraverso voci individuali, ma attraverso un discorso diretto ‘corale’ nel quale a parlare sono i Tebani nel loro insieme (ei\pan oiJ Qhbai`oi). 2  Irwin 2007, p. 49. 3  Cfr. anche 7, 142-144 (dove l’interpretazione corretta è individuata da non meglio specificati oiJ dev [142, 2] già prima dell’intervento di Temistocle, il cui decisivo contributo nasce quindi all’interno della dinamica di una discussione collettiva e non in opposizione ad essa) che illustra bene il profondo rapporto che in un quadro agonale sussiste tra retorica e divinazione – forme diverse di sfida intellettuale : vd. Manetti 1987, pp. 48-56 in part. p. 55. 4  Vd. ad es. 1, 60 ; 8, 109-110. 5  Come non è infallibile il singolo, così non lo è il gruppo : vd. ad es. 3, 58 ; 9, 33. 6  Cfr. anche 5, 78 (Vignolo Munson 1988, pp. 99-100 ; 2001, pp. 207-211), dove il comportamento visibile degli Ateniesi è spiegato attraverso una dinamica psichica : dominati dai tiranni gli Ateniesi non sono su 











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La mente collettiva come fattore di identità Un ulteriore punto che merita di essere messo a fuoco è il rapporto tra mente collettiva e identità culturale. “Cultural facts – scrive Dan Sperber – are not mental facts but distributions of causally linked mental and public facts in a human population”. 1 Nel racconto, tuttavia, l’identità culturale può rivelarsi anche attraverso eventi mentali. Come nell’etnografia erodotea i gruppi etnici si presentano come unità compatte e indifferenziate, dove tutti portano tendenzialmente gli stessi indumenti, adottano lo stesso taglio di capelli, praticano gli stessi nomoi ecc., così gruppi e sottogruppi spesso sembrano pensare all’unisono e senza varianti. In molti casi il pensiero semplicemente fotografa quella che N. Luraghi ha definito “social surface” di una data idea ; 2 altri passi, tuttavia, segnalano qualcosa di diverso dalla semplice presenza di un’opinione condivisa o di un ‘pensiero medio’, vale a dire una vera e propria forza che cementa un gruppo non occasionale, ma che preesiste e in questo modo si identifica come realtà particolare. 3 Identità, in primo luogo, di genere. Quando, in un episodio della lunga contesa tra Atene ed Egina, un solo ateniese riesce a salvarsi e a tornare in città (5, 87), le donne non tollerano (deinovn ti poihsamevna~) che lui solo si sia salvato, lo circondano e lo uccidono a colpi di fibbia. Le donne agiscono in piena sintonia : non c’è, come in altri casi, 4 un ‘dibattito’ e questo significa che per la comprensione del passo Erodoto ritiene sufficienti gli elementi forniti – un’azione collettiva che riflette e traduce immediatamente in pratica un pensiero comune, alla base del quale è il sentimento di solidarietà che le donne provano e che rende intollerabile che una sola non diventi vedova. La presenza di una mente collettiva, pronta a prendere decisioni estreme, pone improvvisamente le donne in una luce minacciosa. Le donne non sono più solo tante menti separate e più o meno dipendenti dall’ordine maschile, ma possono insospettatamente unirsi e decidere in base a valori diversi e costituire un soggetto unitario e politico che rappresenta una minaccia potenziale. 5 Tale è la percezione degli uomini, i quali, considerando l’azione delle donne più terribile ancora della sconfitta (deinov- teron), creano una sorta di ‘tribunale’ di ‘genere’, nel quale cercano di escogitare una punizione adeguata alla gravità del delitto, ma che non riesce a produrre altro che un provvedimento, a sua volta di ‘genere’, non particolarmente terrificante : cambiare la foggia degli abiti. Più che sottolineare una volta di più la presenza di un noto fantasma dell’immaginario greco dietro a questo racconto eziologico, è utile sottolineare come le donne non condividano semplicemente la stessa opinione, ma agiscano come una mente unica : uomini e donne dimostrano di essere due sottogruppi  

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periori a nessuno (si ricordino gli Spartani che, presi individualmente, non sono peggiori degli altri : supra, p. 135). Il miracolo che il novmo~ produce a Sparta è compiuto ad Atene dalla ijshgorivh e porta a un intreccio di interesse personale e collettivo (Baragwanath 2008, pp. 196-197) : si tratti di combattere o di prendere decisioni, la mente unica, solidale anche nell’interesse personale, dà migliori risultati di una miriade di menti individuali che lavorano in funzione di quella del loro signore, della quale sono costantemente tese a prevenire in ogni modo i desideri o a temere le reazioni. 1  Cit. da Palmer 2004, p. 164. 2  Vd. Luraghi 2001, p. 159. 3  Vd. Palmer 2004, pp. 227-230. 4  Vd. ad es. diakeleusamevnh gunh; gunaikiv in 9, 5, 3 (cfr. infra, p. 138 n. 1). Cfr. anche 1, 1, 4 ; 3, 77, 3 ; 9, 22, 3. 5  Cfr. Dewald 1981, p. 98.  







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distinti, dotati di ‘menti’ separate, ognuna delle quali sente e decide secondo i propri criteri. Da questo e altri passi 1 emerge un’asimmetria istruttiva : Erodoto accede con maggiore facilità al pensiero maschile che a quello femminile. Vediamo gli uomini pensare e consultarsi sul da farsi, mentre delle donne non osserviamo direttamente l’attività mentale ma solo l’azione che ne è il prodotto. Detto altrimenti, la mente delle donne è vista dall’esterno, quella degli uomini dall’interno, e in questo modo si accresce l’impressione di una potenziale minaccia rappresentata da una mente imperscrutabile ed enigmatica che può concepire azioni terribili. Identità, inoltre, politica. Si è visto come i rapporti tra Ateniesi e Spartani siano rappresentati come disposizioni statiche sia in Erodoto che in Tucidide ; le stesse relazioni possono diventare anche oggetto di presentazioni dinamiche. Apprendendo che Alessandro di Macedonia ha portato ad Atene proposte di pace dei barbari, gli Spartani, racconta Erodoto, si ricordano (ajnamnhsqevnte~) di alcuni oracoli sfavorevoli, temono (e[deisan) una defezione ateniese, e decidono (sfi e[doxe) di inviare ambasciatori ad Atene. Questi arrivano ad Atene e si presentano all’assemblea insieme ad Alessandro. Gli Ateniesi avevano infatti temporeggiato sapendo (eu\ ejpistavmenoi) che gli Spartani sarebbero venuti a conoscenza di queste manovre e avrebbero subito mandato ambasciatori a loro volta (o{ti e[mellon Lakedaimovnioi peuvsasqai … pevmyein). Avevano agito in questo modo apposta (ejpivthde~), per mostrare (ejndeiknuvmenoi) agli Spartani la loro gnwvmh. Ascoltate le ragioni degli Spartani, gli Ateniesi congedano bruscamente Alessandro con una risposta negativa e si rivolgono agli Spartani : che gli Spartani abbiano avuto paura (dei`sai) è umano, ma è vergognoso che abbiano dubitato degli Ateniesi poiché conoscono (ejxepistavmenoi) il loro pensiero (frovnhma). Questo lungo passo (8, 141-144) offre uno straordinario intreccio di menti non solo individuali, ma anche collettive, presentando da un lato l’accesso del narratore alle menti collettive degli Ateniesi e degli Spartani, dall’altro la conoscenza che ciascuna città ha della mente dell’alleata e nel contempo – dal momento che alla capacità di formulare previsioni razionali sul comportamento altrui si affianca l’attesa che gli altri possano fare altrettanto – la consapevolezza del fatto che il proprio frovnhma è  



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1  In un passo (9, 5) speculare a 5, 87 (Macan 1895, ad 5, 88, p. 231), quando Licida sostiene una proposta di alleanza con Mardonio gli Ateniesi nel loro complesso (oi{ te ejk th`~ boulh`~ kai; oiJ e[xwqen) considerano intollerabile la sua azione (deino;n poihsavmenoi), lo circondano e lo lapidano ; venute a conoscenza dell’accaduto, le donne si esortano a vicenda (diakeleusamevnh gunh; gunaikiv) e lapidano a loro volta la moglie e i figli di Licida. Anche qui uomini e donne costituiscono due sottogruppi nella polis che agiscono autonomamente. Se è ‘normale’ che gli uomini uccidano Licida – nel senso che rientra nella dinamica politica, sia pure in una forma estrema –, ancora una volta l’azione femminile appare più inquietante (come nota ancora Macan, loc. cit., il linciaggio di Licida non suscita analoghi sentimenti di orrore), perché si appropria di una dimensione politica che non appartiene alle donne. Apparentemente le donne agiscono in solidarietà con gli uomini occupandosi per così dire del lato femminile di una questione ripartita secondo criteri di ‘genere’, ma ancora una volta rivelano di costituire un’allarmante polis nella polis quando da soggetto muto diventano soggetto autonomo e pensante in senso letterale (aujtokeleve~). In 6, 138 le donne ateniesi rapite dai Pelasgi rivelano una mente unitaria (non direttamente accessibile, ma facilmente ricostruibile a partire dalle azioni palesi dei figli che ne sono il prodotto) che mira a costituire un gruppo a sé nella speranza di avere il sopravvento in futuro. I Pelasgi se ne rendono conto (138, 3 : maqovnte~), si consultano, e mentre discutono (sfi bouleuomevnoisi) si insinua in loro un pensiero terribile (deinovn ti ejsevdune) : siamo di fronte non ad una semplice opinione diffusa, ma ad un evento mentale collettivo, grazie al quale la mente collettiva dei Pelasgi comprende il rischio futuro proprio perché opera come uno strumento che trascende gli individui : è dallo sforzo comune che nasce la risposta corretta, indipendentemente dal fatto che sia o – come in questo caso – non sia menzionato un portavoce del gruppo.  







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a sua volta accessibile agli altri. 1 Nel linguaggio del narratore come in quello della diplomazia le città sono rappresentate – e si autorappresentano – come entità autonome e individualizzate. 2 In 9, 54 Erodoto afferma che gli Ateniesi a Platea restano fermi nelle loro posizioni, conoscendo (ejpistavmenoi) il modo di pensare degli Spartani (ta; Lakedaimonivwn fronhvmata), i quali sono soliti pensare una cosa e dirne un’altra. 3 Sebbene non si possa parlare, ovviamente, di una mente (quella degli Ateniesi) che ‘legge’ in senso letterale il contenuto nascosto – ma di fatto perfettamente accessibile – di un’altra mente (quella degli Spartani), in una prospettiva funzionalista è possibile parlare di una rappresentazione (gli Spartani sono ambigui) che nel tempo è divenuta parte integrante della mente collettiva degli Ateniesi e, in un momento decisivo, influisce concretamente su scelte e decisioni che, senza conoscenza di questa parte invisibile del reale, non risulterebbero intellegibili. Un intreccio più complesso può essere osservato in 7, 206. Considerando da vicino questo passo, che non differisce da molti altri che illustrano piani e calcoli di personaggi storici collettivi, non abbiamo difficoltà a rilevare quanta attività mentale sia contenuta nell’apparente banalità di poche righe. Gli Spartani inviano Leonida alle Termopili in base a una precisa intenzione (i{na … strateuvwntai mhde; … mhdivswsi) che contiene due possibili scenari futuri di segno opposto : nel primo – del quale si vuole favorire la realizzazione – gli alleati combattono al fianco degli Spartani, nel secondo – da scongiurare – passano dalla parte dei Persiani. Ciascuno dipende a sua volta dalla realizzazione di un precedente scenario che esprime un atto di percezione e/o cognizione degli alleati : nel primo caso gli alleati vedono (oJrw`nte~) Leonida e i soldati, nel secondo vengono a sapere (h]n punqavnwntai) degli indugi degli Spartani. Alla prima segue una seconda serie di scenari, che illustrano una nuova fase del piano : il primo corrisponde all’intenzione di concludere le Carnee, il secondo propone una nuova intenzione (e[mellon), che consiste nel lasciare un presidio in città e accorrere in forze. Agli scenari proiettati dagli Spartani si affiancano quelli degli alleati, i quali, afferma Erodoto, avevano pensato (ejnevnwnto) le stesse cose : proposito di celebrare i giochi olimpici, calcolo ottimistico (dokevonte~) sulla durata della resistenza alle Termopili, e conseguente invio di un modesto contingente. 4 Se considerati dal punto di vista delle funzioni mentali che illustrano, questo passo e i precedenti presentano intrecci di notevole complessità. Se in 8, 141-144 e 9, 54 – oltre al narratore che entra nella mente collettiva degli Ateniesi per dirci cosa pensavano mentre attendevano lo sviluppo degli eventi – abbiamo anche gli Ateniesi che accedono alla mente degli Spartani per coglierne disposizioni di lungo periodo o decisioni più legate a specifiche circostanze, in 7, 206 vediamo gli Spartani entrare nella mente collettiva degli altri Greci, i quali a loro volta entrano in quella degli Spartani (secondo la supposizione di questi ultimi). Gli Spartani infatti non si limi 



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1  Vd. Harrison 2011, p. 66. 2  Cfr. 9, 7 b 1. Vd. anche 9, 46-48. 3  La frase wJ~ a[lla froneovntwn kai; a[lla legovntwn non costituisce un giudizio narratoriale, ma il punto di vista degli Ateniesi : vd. Flower-Marincola 2002, ad loc. p. 203. 4  Vd. anche 7, 150, 3 (cfr. supra, pp. 133-134) dove, oltre ad avere Erodoto che accede alla mente collettiva degli Argivi, abbiamo anche, all’interno della mente degli Argivi, una rappresentazione di quella degli Spartani, che consente loro di fare previsioni fondate sul comportamento degli altri Greci ; e 9, 7, dove abbiamo un’autorappresentazione degli Ateniesi che contiene una rappresentazione della mente degli Spartani.  



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tano a pensare che gli alleati combatteranno al loro fianco, ma ipotizzano che lo faranno perché, vedendo Leonida, si sentiranno rassicurati riguardo alle loro buone intenzioni ; parallelamente gli Spartani ipotizzano che, se gli alleati medizzeranno, sarà perché, venendo a conoscenza dei loro indugi, trarranno conclusioni di segno opposto. I giudizi positivi o negativi sul comportamento degli Spartani non sono colti da Erodoto direttamente nelle menti dei suvmmacoi, ma sono scenari ipotetici proiettati dagli Spartani stessi, che immaginano cosa penseranno gli alleati del loro comportamento ; si tratta dunque di pensiero virtuale : non è colto un pensiero che ‘storicamente’ ha luogo in un dato giorno, ma un pensiero che potrebbe avere luogo, qualora si verificassero le condizioni immaginate dagli Spartani. Detto altrimenti, in un caso Erodoto accede alla mente degli Ateniesi che contiene una rappresentazione della mente degli Spartani ; nel secondo accede alla mente degli Spartani che contiene una rappresentazione della mente degli altri Greci, che a sua volta contiene una rappresentazione degli Spartani. Si tratta di quel che Palmer chiama “double cognitive narratives” : rappresentazioni di una mente contenute in un’altra mente, in questo caso collettiva. 1 Obiettivo primario di Erodoto non è mettere in primo piano tali complessi intrecci di pensieri e scenari reali o virtuali per un interesse autonomo : essi divengono importanti nella narrazione perché lo sono nella realtà. Il narratore rappresenta dunque l’interazione tra menti collettive come un elemento rilevante sia per la comprensione dell’azione storica, sia per la costruzione dell’identità. Palmer definisce quest’ultima “situated identity” : l’identità di un personaggio non è data solo dell’immagine che egli ha di se stesso, ma anche dall’immagine che altri hanno di lui, e da quel che egli pensa che gli altri pensino di lui – è in altri termini distribuita anche nelle menti di altre persone. 2 L’identità, in quest’ottica, non è una condizione statica, ma un reticolo di stati ed eventi mentali : l’identità degli Spartani – nel caso specifico, il ruolo che essi intendono avere nei confronti degli alleati – è data anche dall’immagine che le altre città hanno di Sparta – e di conseguenza da quel che gli Spartani pensano che le altre città pensino di Sparta.  





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Caratterizzazione dei personaggi collettivi Come nota Palmer, 3 non esistono descrizioni pure e neutrali della mente – collettiva non meno che individuale. Introducendo il lettore nell’area grigia della motivazione, la rappresentazione della mente contribuisce in modo decisivo alla caratterizzazione dei personaggi – collettivi non meno che individuali – come si è già visto attraverso l’accesso al pensiero dei Persiani a Maratona. Il tema sensibile del medismo costituisce un ulteriore esempio. Quando i messi dei Greci giungono a Corcira per chiedere aiuto contro l’invasore, i Corciresi rispondono positivamente, dichiarando di non potere tollerare una sottomissione della Grecia (7, 168, 1). Alle belle parole – sottolinea Erodoto – corrispondono tuttavia pensieri di altro genere (168, 2 : a[lla noevonte~). La flotta inviata è ormeggiata nelle acque di Pilo in attesa (karadokevonte~) di vedere quale piega avrebbe preso la guerra : i Corciresi non speravano (ajelptevonte~) che i Greci avrebbero vinto e  





1  Vd. Palmer 2010, p. 12 ; cfr. 2004, pp. 230-239 (dove si preferisce la definizione di “doubly embedded narratives”). 2  Cfr. Palmer 2004, pp. 168-169. 3  Vd. Palmer 2010, p. 142.  

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pensavano (dokevonte~) che avrebbero vinto i Persiani. Tale comportamento, aggiunge Erodoto, era tenuto di proposito (168, 3 : ejpivthde~), per potere dire al Re (i{na e[cwsi … levgein toiavde) di essere stati fin dal principio dalla sua parte. Con questo discorso virtuale, spiega Erodoto, i Corciresi speravano (h[lpizon) di ottenere una posizione di privilegio, mentre – mettendo in conto la possibilità di realizzazione dello scenario alternativo di una vittoria greca – si preparano anche una scusa per la mancata partecipazione alla battaglia di Salamina (i venti etesii) cui faranno in effetti ricorso in seguito con successo. Se il lato visibile degli eventi è chiaro – i Corciresi non partecipano alla lotta contro il nemico – l’accesso al pensiero ne modifica il senso : un conto è non partecipare alla resistenza per cause di forza maggiore, un altro è farlo opportunisticamente e di proposito (ejpivthde~). È compito del narratore entrare nella mente dei personaggi e indagare il vero contenuto dei loro pensieri e stabilire come si debba intendere il comportamento ondivago, più con l’intenzione di introdurci nella complessità delle motivazioni nascoste e invitarci a riflettere – se è corretta l’interpretazione di E. Baragwanath 1 – che per fornire facili certezze. Quel che vale per la neutralità vale a maggior ragione per il medismo aperto : altro è medizzare controvoglia, altro, come Erodoto afferma dei Tessali, è medizzare volentieri. Quando a Serse, che ancora indugia nella Grecia settentrionale, giungono le prime offerte di acqua e terra, i Greci si impegnano a punire al termine del conflitto tutti coloro che si sono arresi ai Persiani senza essere costretti (7, 132, 2 : mh; ajnangkasqevnte~). Già in questa occasione ufficiale dietro al fatto oggettivo del mondo visibile si delinea una più sfuggente controparte non facilmente riconoscibile. Stabilire chi abbia medizzato per costrizione e chi ‘volentieri’ diviene un compito di primaria importanza, ed è ovvio che il dibattito sulle responsabilità di Tessali, Tebani e Focesi si rifletta in Erodoto. 2 Il medismo forzato dei Tessali e dei Focesi rimanda anche all’accordo che gli Ateniesi – collocati fin da principio tra coloro che pensano correttamente e sono pronti a sacrificare interessi egoistici e ragioni di prestigio per il bene della Grecia – avrebbero potuto trovare con Serse, se il loro territorio fosse stato abbandonato dagli altri Greci nelle mani dei Persiani : uno scenario virtuale, più volte evocato dagli Ateniesi stessi come strumento di pressione, e sul quale lo storico stesso sente di dovere esprimere il proprio giudizio. 3 Non esiste solo un medismo reale, storico, che richiede valutazioni diverse a seconda delle circostanze e delle disposizioni interiori, ma anche un medismo virtuale, argomento tanto delicato da richiedere una valutazione : gli Ateniesi non hanno medizzato, ma – sembra dire Erodoto – sono stati a un passo dall’essere costretti a farlo : dalla loro azione è così rimossa anche l’ombra di un sia pu 

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1  Vd. Baragwanath 2008, p. 222. 2  I Tebani esteriormente ubbidiscono all’ordine di Leonida di inviare un contingente di soldati alle Termopili, ma i loro pensieri non si accordano con le azioni (7, 205, 3 : a[lla fronevonte~) ; partecipano alla difesa ma controvoglia (7, 222 : ajevkonte~ … ouj boulovmenoi), mentre i Tespiesi partecipano eJkovnte~. Cfr. anche 8, 34. I Tessali medizzano inizialmente uJpo; ajnagkaivh~ (7, 172, 1), ma poco dopo – sentendosi abbandonati dai Greci – medizzano con fervore (7, 174 : proquvmw~), così come ‘fortemente’ medizzano i Tebani (9, 40 : megavlw~), che combattono proquvmw~ a Platea : un avverbio dietro al quale si muove un intero mondo di intenzioni, calcoli, disposizioni. Per contro tra i medizzanti Erodoto distingue i Focesi, affermando (9, 17, 1) che, pur avendo medizzato anch’essi ‘fortemente’ (sfovdra), lo hanno fatto controvoglia e per necessità (oujk eJkovnte~ ajll j uJp j ajnagkaivh~). 3  Vd. 8, 3, 1 : ojrqa; noeu`nte~ ; cfr. anche 7, 145, 1. Vd. Dorati 2013a.  















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re solo potenziale medismo volontario. All’interno di un problema storico complesso, Erodoto, pur invitando il lettore a considerare le ragioni di tutti i protagonisti, 1 prende posizione, e comunque sia giunto a formarsi un’opinione veicola il suo giudizio principalmente attraverso la rappresentazione del pensiero. Il concetto di mente collettiva può pertanto offrire spunti di qualche interesse anche in rapporto al tema dell’identità nelle sue varie declinazioni, fornendo un inquadramento teorico ad un insieme di fenomeni apparentemente banali, ma che – non essendo ‘dati’ –, devono essere oggetto di ricostruzione da parte di uno storico che voglia rendere adeguatamente conto della realtà che narra. I passi analizzati mostrano nel complesso come le menti collettive costituiscano una realtà che merita di essere considerata con attenzione anche nel racconto storico. La normalità e l’apparente banalità di queste operazioni, delle quali, proprio perché parte integrante dei nostri sistemi cognitivi, non si è necessariamente consapevoli, non deve ingannare. Se partiamo da una prospettiva esternalista, e non valutiamo la rappresentazione della mente sul metro del pensiero diretto, possiamo apprezzare l’abilità di Erodoto nel rendere conto del ruolo che la mente collettiva gioca negli eventi. Sebbene non sia sempre possibile separare nettamente i casi nei quali il riferimento a un pensiero collettivo ha un valore metaforico da quelli nei quali lo stesso linguaggio cattura invece una realtà più complessa, il concetto di mente collettiva – sottolinea Palmer 2 – possiede “increased explanatory power”, rispetto all’idea di più menti individuali che cooperano in vista di un obiettivo comune, e aiuta a comprendere meglio una realtà effettiva che ha un peso reale nella dinamica storica ma tende a passare inosservato se non adeguatamente messo a fuoco.

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Bibliografia Baragwanath 2008 , E. Baragwanath, Motivation and Narrative in Herodotus, Oxford-New York 2008. Belloni 2002, L. Belloni, ‘Un’aposiopesi in Erodoto (Hdt. 7. 10. 1)’, Lexis 20, 2002, pp. 25-31. Bowie 2007, A. M. Bowie (ed.), Herodotus. Histories. Book viii, Cambridge 2007. Cohn 1999, D. Cohn, The Distinction of Fiction, Baltimore-London 1999. Dewald 1981, C. Dewald, ‘Women and Culture in Herodotus’ Histories’, in H. P. Foley (ed.), Reflections of Women in Antiquity, New York 1981, pp. 91-125. Dewald-Marincola 2006, C. Dewald - J. Marincola (edd.), The Cambridge Companion to Herodotus, Cambridge 2006. Dorati 2008, M. Dorati, ‘Considerazioni sulla focalizzazione e sul narratore onnisciente nel racconto storico’, Studi it. filol. class. s. iv 6, 2008, pp. 133-193. Dorati 2013a, M. Dorati, ‘Scenari virtuali, pensiero controfattuale e non-pensiero nelle Storie di Erodoto’, in K. Geus - E. Irwin - Th. Poiss (hrsgb.), Wege des Erzählens : Logos und Topos bei Herodot, Frankfurt a.M.-Berlin 2013, pp. 123-152. Dorati 2013b, M. Dorati, ‘Der Zugang zu den Gedanken von Personen in Herodots Historien’, in K. Geus - E. Irwin - Th. Poiss (hrsgb.), Wege des Erzählens : Logos und Topos bei Herodot, Frankfurt a.M.-Berlin 2013, pp. 153-185. Dorati, ‘Senofonte’, M. Dorati, ‘La rappresentazione del pensiero dei personaggi nella Ciropedia e nelle Elleniche di Senofonte’, in corso di pubblicazione in A. Gostoli - R. Velardi (con la collaborazione di M. Colantonio), Mythologeîn. Mito e forme di discorso nel mondo antico. Studi in onore di Giovanni Cerri, Pisa-Roma 2014.  



1  Cfr. Baragwanath 2008, pp. 223-231.

2  Palmer 2010, p. 43.

la rappresentazione della mente collettiva in erodoto

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GLI SPA ZI DELLA PER FOR M ANCE POETICA NELLA POLIS. IL CASO DELL’EPINICIO

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Liana Lomiento Anche quando un uomo che compie belle imprese, o Agesidàmo, senza canto scende nella dimora dell’Ade spirando vane ambizioni dà gioia breve alla sua fatica. Ma su te la soave voce della lira e l’aulo dolce spargono la grazia : nutrono ampia gloria le Pieridi figlie di Zeus. Pind. Ol. 10  

Voleva ricordare. Si è uomini per questo, senza memoria un uomo è un precipizio. Erri De Luca, E disse

L

1. Luoghi e occasioni della performance poetica nella città

a poesia orale”, scriveva Massimo Vetta introducendo il convegno I luoghi e la poesia nella Grecia antica tenutosi più di otto anni fa all’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara, “non esiste senza spazi specifici destinati all’ascolto, e la loro frequentazione costituisce per le comunità un aspetto essenziale della consapevolezza collettiva”. 1 Pensava, in particolare, a recite all’aperto di canti epici, ma la sua riflessione ben si addice anche agli altri tipi poetici che costellarono la vita pubblica e privata degli antichi : dagli inni religiosi in onore degli dèi, nella normalità dei casi, anche se non esclusivamente, intonati nei pressi di aree sacre o santuari urbani o extra-urbani, 2 ai canti eulogistici in onore degli uomini, 3 ai canti popolari e di lavoro che accompagnavano le quotidiane attività in spazi aperti, ai canti, ripresi dal passato o di nuova composizione, di tenore erotico o politico, che, nelle sale del palazzo aristocratico, allietavano il convito. 4 Per non parlare della poesia drammatica, il cui “











1  Vetta 2006, p. ix. 2  Se non già lo spazio teatrale stesso, che è comunque assai spesso proprio nei pressi di un’importante area sacra ; ulteriori riflessioni in questa direzione ancora in Lomiento 2010-11. Un caso esemplare è dato dai peani in onore di Apollo, sui possibili scenarii di esecuzione cf. Rutherford 2001, pp. 23-58. 3  Sui cui luoghi di esecuzione vedere ancora Lomiento 2010-11, pp. 294 ; 300, e poi infra, nn. 7-8. 4  A simposio poteva essere eseguito o rieseguito ogni genere poetico, anche l’epinicio. È il caso, per esempio, di Pind. Ol. 1, su cui vd. da ultimo Catenacci 2013, p. 10 e n. 2, con ulteriori indicazioni bibliografiche. È probabile che l’ode fosse cantata nell’ambito di una cerimonia conviviale allargata presso il palazzo del principe di Siracusa nel 476 a.C., alla quale il poeta era presente. Per la possibilità di una riesecuzione dell’ode a Olimpia cf. Athanassaki 2004 ; a una destinazione conviviale, sia pure di una convivialità piuttosto ampia, nel palazzo del principe, può forse essere attribuita anche la seconda Olimpica, cf. da ultimo Catenacci 2013 con ulteriori indicazioni bibliografiche. In generale sul fenomeno del riuso simposiale vd. l’ancora pienamente valido Vetta 1983.  





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luogo specifico era, già da età tardo-arcaica, ben circoscritto dalla struttura teatrale, di fatto – come ormai si riconosce – una struttura polifunzionale, il cui significato civico, già di per sé evidente, appare ulteriormente enfatizzato dal fatto di poter essa ospitare anche pubbliche assemblee. 1 “La città”, per ripetere ancora le parole di Massimo Vetta, “diviene accumulo denso di luoghi per la poesia, contiguità di sale private e spazi aperti con patrimoni esclusivi e momenti di eco all’interno di una tradizione comune”, uno sfondo che accoglie “grandi spianate di raduno rituale panellenico” e “aree sacre” che addensano “miriadi di corali e recite in forma agonale”. 2 Considerata la molteplicità delle forme poetiche e dei loro luoghi specifici, in questa sede ci si concentrerà sulla poesia encomiastica, poesia per eccellenza occasionale e cittadina, e su quella particolare specie di poesia encomiastica che è l’ode per la vittoria degli atleti ai giochi panellenici.  

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2. Riflessioni critiche sulle occasioni e (quindi) i luoghi di esecuzione dell ’ epinicio Da ricerche specifiche che si sono moltiplicate soprattutto nell’ultimo decennio, emerge con crescente chiarezza che le occasioni festive, civiche e religiose, che potevano configurarsi come sfondo e occasione comunitaria e politica per la celebrazione dell’epinicio erano innumerevoli. 3 Pur trattandosi primariamente di poesia destinata alla celebrazione degli uomini, 4 l’epinicio, di norma commissionato da privati (solitamente appartenenti alla élite aristocratica o a casate regali), non diversamente dagl’inni in onore degli dèi, appare spesso legato al culto e alla ritualità e, con essi, ai valori fondamentali della polis. Al di là del dato palese per cui l’ode per la vittoria non manca mai di includere ampie sezioni dedicate alla divinità, sia essa il dio tutelare dei giochi o la divinità poliade o anche una figura divina legata in qualche forma alla vicenda familiare del vincitore, 5 la sua stretta relazione con il sacro risulta particolarmente evidente nei casi, più numerosi di quanto non si immagini, nei quali il canto deve assumersi eseguito in concomitanza con cerimonie religiose, in uno spazio comunitario di volta in volta da individuare. 6 In casi del genere la lode finiva col coinvolgere, insieme alla famiglia del committente, l’intera cittadinanza e dunque un pubblico percepito come comunità, che ritrovava nelle virtù e nei miti proposti a titolo emblematico un momento di affermazione della propria identità. Da uno sguardo d’insieme in questa direzione, affiora un quadro piuttosto suggestivo. Tra i casi annoverabi 







1  Lo spazio teatrale era deputato ad accogliere gli spettacoli drammatici, ma anche – possiamo presumere – gli agoni poetici (rapsodici e musicali, vedi da ultimo alcune indicazioni in Lomiento 2010-11, p. 294, con bibliografia). Sul teatro come spazio polifunzionale cf. da ultimo Todisco 2002 e Bosher 2012. 2  Vetta 2006, p. x. 3  Loscalzo 2003, pp. 96-106 ; Athanassaki 2004 ; Currie 2004 ; Carey 2007 ; Stamatopoulou 2007 ; Lomiento 2010-11 ; ma riflessioni su questo aspetto si trovano già in Bernardini 1983, p. 70 s. e, più sistematicamente, in Krummen 1990. 4  Così Platone, in Resp. 10, 607a, in contrapposizione alla poesia per gli dèi (hymnoi), definisce gli enkomia canti in onore degli uomini. 5  Così, ad esempio, il racconto su Castore e Polluce nella Nemea 10, perché i due gemelli furono ospitati da un antenato del vincitore, l’argivo Teeo ; o il lungo racconto degli Argonauti in occasione della vittoria di Arcesilao re di Cirene, per via del suo antenato Batto, che partì per la Libia da Tera/Calliste, l’isola fondata dai discendenti dell’argonauta Eufemo (cf. Gentili 2006, p. 104 s.). 6  Ma non di rado coincidente con lo spazio del santuario, del teatro o della piazza. Sul carattere tutt’altro che “secolare” del canto epinicio cf. Currie 2005, p. 18 e n. 91.  













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li, non pochi, in verità, risalta quello dell’Ol. 14, nominalmente un epinicio dedicato ad Asòpico, un giovane di Orcòmeno che si era aggiudicato la corona olimpica nella corsa dello stadio, ma di fatto – nella forma e nei contenuti – un vero e proprio inno alle Cariti, le dèe tutelari della città. “Numerosi epinici – riflette Lucia Athanassaki in uno studio del 2004 – offrono indicazioni deittiche che rinviano al luogo possibile, o ai luoghi possibili, della loro performance. Le indicazioni contenute in tal senso nell’Ol. 14 – prosegue – suggeriscono che l’ode fosse composta per essere eseguita nel santuario delle Cariti a Orcòmeno, e che il cantore s’indirizzi a un destinatario esclusivamente divino”. 1 In questa precisa situazione, come io stessa ho avuto modo di osservare in un lavoro recente, più che pensare a una celebrazione organizzata in onore di divinità locali con l’occasione offerta dalla vittoria panellenica di Asòpico, può ipotizzarsi – anche se non dimostrarsi in modo certo – la prospettiva opposta, e cioè che fosse proprio la ricorrenza festiva in onore delle Cariti a prestarsi da sfondo per ulteriori celebrazioni ; nel caso specifico, per la commemorazione della vittoria a Olimpia di Asòpico nella categoria dei paides. L’idea è, in sostanza, che, almeno in qualche caso, era il contesto cultuale e liturgico di una cerimonia cittadina a ospitare al proprio interno, accanto alle celebrazioni di rito, anche l’esecuzione dell’epinicio per la vittoria atletica. In questo modo, la festa si sarebbe arricchita di una componente spettacolare di sicuro effetto e, d’altra parte, al vincitore e alla sua famiglia si sarebbe offerta un’occasione autenticamente “politica” con la certezza della notorietà di fronte all’intera cittadinanza. 2 Resta che, data l’inadeguatezza delle testimonianze relative ai luoghi specifici dell’esecuzione degli epinici, per questo aspetto non possiamo che speculare sulla base delle indicazioni presenti nei testi stessi delle odi e, eventualmente, delle notizie tramandate dai commenti antichi. 3

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3. Una rassegna sui luoghi e le occasioni della performance degli epinici di Pindaro A partire da questi fondamenti, sarà utile soffermarsi a riflettere sull’occasione e sui luoghi possibili di esecuzione di alcuni epinici pindarici. In più d’un caso, il luogo della performance si può ricavare senza eccessiva difficoltà, e non di rado appare evidente che la celebrazione si svolse in concomitanza con cerimonie collettive di interesse più vasto rispetto all’occasione della vittoria sportiva, legata a un’unica famiglia e, di solito, a un solo suo componente. 4 Per limitarci agli esempi più sicuri, e come tali già individuati dalla critica, possiamo menzionare la terza Olimpica, che celebra l’Emmenide Terone di Agrigento per la vittoria con il carro equestre, quella stessa celebrata anche nella seconda Olimpica. Dal titolo che introduce l’ode nei manoscritti  

1  Athanassaki 2004, p. 317 n. 1. Sulla performance dell’ Ol. 14 cf. già Lomiento 1998, con bibliografia. 2  Cf. Lomiento 2010-11, pp. 298-300. 3  Cf. su questo punto quanto osserva Cannatà Fera 2001, p. 163, a proposito delle Nem. 2 e 10 “Le due Nemee forniscono un esempio di come siano complessi i dati testuali da valutare per ricostruire l’occasione e l’esecuzione di un’ode ; e sono anche prova di come, a questo scopo, gli scolî, malgrado non siano certo stati trascurati, offrano ancora materiale utile all’impostazione, se non alla soluzione, dei problemi”. Vd. anche Loscalzo 2010-11, spec. p. 309. 4  Su questa eventualità insiste da ultimo anche Loscalzo 2010-11, p. 327 e n. 59, con ulteriore rassegna dossografica. In rari casi l’ode epinicia poteva celebrare più componenti di un unico clan, vd. ad es. il caso dell’Ol. 13.  

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e dal commento antico siamo informati che l’epinicio fu eseguito in occasione delle feste Teossenie, un pubblico e solenne banchetto nel corso del quale gli dèi erano invitati alle mense degli uomini. 1 Come è stato osservato, la presenza di Elena nell’ode non avrebbe senso nell’ambito di un’invocazione ai Dioscuri come patroni dei giochi olimpici, mentre risulta perfettamente consona a un contesto teossenico, se si considera che Castore e Polluce, il cui culto era vivo ad Agrigento, erano ospiti, al pari della sorella Elena, nella munifica festa conviviale. 2 Un caso abbastanza probabile è dato anche dall’Ol. 5 in onore di Psaumis di Camarina, vincitore con il carro tirato dalle mule. La celebrazione della città di Psaumis in termini di “sede risorta” (nevoiko~ e{dra) assume toni di grande solennità in un’ode pur molto breve. Tale magnificenza sembra essere particolarmente adatta alla temperie tirannica, ippocrateo-geloniana, al principio del v sec. a.C., quando tra Camarina e Gela, la nuova metropoli, allora in piena espansione militare, si strinse un legame ufficiale e duraturo. Al medesimo clima di propaganda tirannica si addice anche l’enfasi posta sul pantheon cittadino, se accanto alle divinità epicoriche, vale a dire Camarina, la ninfa eponima, e l’Ippari, il dio fluviale, vi appaiono celebrate divinità che sottolineano il vincolo della recente colonia con l’area cultuale geloa, ovvero rodio-cretese : Atena quale dea poliade, il cui sacro recinto è svettante nel punto più alto dell’acropoli, e che si deve identificare con la rodia Atena Lindia, venerata a Gela e ad Agrigento, e Zeus Soter, che è qui invocato non solo in rapporto a Olimpia, la sede dei giochi, dove risiede sul colle di Crono, ma anche in rapporto alla dimora cretese, nella celebre grotta dell’Ida connessa con i natali stessi del dio. Sebbene un culto di Zeus a Camarina risulti, al momento, documentato solo da Pindaro in quest’ode, il tenore referenziale, al v. 19, dell’espressione “a te supplice vengo cantando al suono degli auli di Lidia” (iJkevta~ sevqen e[rcomai Ludivoi~ ajpuvwn ejn aujloi`~) suggerisce la presenza di un’area sacra al dio. Non vi sono indicazioni esplicite ma, date queste premesse, non è da escludere che il canto commemorativo della vittoria di Psaumis fosse eseguito nello scenario di una festività civica, forse proprio nei pressi dell’altare di Zeus Soter. 3 Possiamo ancora ricordare la sesta Olimpica, in onore del siracusano Agesia, vincitore anch’egli con il carro tirato dalle mule. La prima esecuzione dell’ode ebbe luogo, a quanto pare, a Stinfàlo, in Arcadia, in occasione della festa civica dedicata a Era Partenia (cf. v. 88/89). 4 Anche l’esecu 

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1  Fränkel (1961, pp. 394-397), seguito, tra gli altri, da Snell-Maehler 1987, p. 11, propose di espungere dal titolo eij~ qeoxevnia, considerando la notizia un puro autoschediasma. All’indicazione antica mostrano invece di credere Bernardini 1983, p. 70 s. ; Krummen 1990, pp. 217-266 ; Carey 2007, p. 201 e n. 8 ; Ferrari 1998, p. 102 ; da ultimo Catenacci 2013. 2  Bernardini 1983, pp. 70-71 ; Ferrari 1998, p. 102, che rinvia a Eur. Hel. 1668 s., dove i Dioscuri dicono alla sorella : “parteciperai con noi a libagioni e a feste ospitali allestite da uomini”. R. Kannicht a questo stesso proposito fa riferimento ai rilievi spartani ornati da stele con liste dei partecipanti alle Teossenie, sui quali i gemelli sono accompagnati da una figura femminile, che è molto probabilmente da identificarsi con Elena. 3  Sul testo e l’interpretazione dell’ode rinvio a Lomiento 2013, con riferimenti alla bibliografia precedente ; vd. anche Lomiento 2006 ; sul culto poliadico di Atena cf. da ultimo Pisani 2008, pp. 159-160 e n. 379. Sul culto di Zeus Soter in Sicilia nel v secolo a.C. cf. Manganaro 1996 (con ulteriore bibliografia) e 2003. 4  Per questa occasione Pindaro compose (forse su commissione dei parenti di Stinfalo) l’ode celebrativa che egli inviò in forma scritta (v. 91) tramite Enea, il corodidascalo che doveva curare la preparazione e l’esecuzione dell’ode da parte del coro (v. 87 ss.). L’uditorio non era né quello siracusano del vincitore né quello olimpico del luogo della vittoria (che pure aveva rapporti più stretti con gli Iamidi, gli antenati paterni), ma quello degli antenati materni, che con le tradizioni familiari del vincitore avevano un rapporto mediato ; cf. da ultimo Giannini 2013.  

















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zione della nona Olimpica per il lottatore di Opunte Efarmosto connette la celebrazione del successo atletico con una ricorrenza rituale legata al nome di Aiace d’Oileo, il nume tutelare della città, che a Opunte aveva un altare, e al quale era dedicato un culto specifico. 1 All’eroe, l’atleta vincitore, come risulta dal testo stesso del canto (vv. 111-112), consegnò sull’altare la corona olimpica durante la grande festa nei pressi del suo heroon. Fu un atto di devoto omaggio non solo nei riguardi di Aiace, ma anche della comunità tutta presso la quale egli era oggetto di venerazione. 2 Una situazione non diversa possiamo figurarci anche per l’Ol. 12, nella quale è cantata la vittoria nella corsa lunga dell’imerese Ergòtele. S’è ragionevolmente ipotizzato che l’ode fosse intonata nel santuario extra-urbano delle Ninfe presso le terme, che rappresentavano un elemento fondamentale dell’identità civica e politica, oltre che religiosa, di Imera. Il canto si chiude proprio con la menzione “dei caldi bagni delle Ninfe” (v. 20), probabilmente facendo esplicito riferimento allo hic et nunc della celebrazione. 3 Anche la prima Pitica, per Ierone tiranno di Siracusa, sarebbe stata eseguita a Etna nel corso di una solenne cerimonia pubblica che, insieme ai successi militari e agonali di Ierone, celebrava la recente fondazione della città e la reggenza. 4 Nell’ode, l’encomio di Ierone è parso trascendere l’occasione specifica della vittoria agonale, per assolvere la più articolata funzione di consacrare la fondazione di Etna, collocandola nella più ampia prospettiva della fondazione di Siracusa quale potenza di primo piano nel mondo greco grazie alle imprese militari di Ierone e dei Dinomenidi. Tuttavia, non è stata fatta alcuna ipotesi sul luogo della polis che avrebbe potuto eventualmente ospitare la festa. La quinta Pitica, per Arcesilao re di Cirene, fu quasi certamente eseguita alle feste Carnee (v. 80), destinata a una performance pubblica da parte di un coro di giovani, in un luogo preciso della città, accanto al giardino di Afrodite, nell’area sacra ad Apollo. In essa sono celebrati Arcesilao, re di Cirene, e la gloria dei Battiadi e dei loro affini. 5 È stato osservato che i casi più eclatanti di performance degli epinici in coincidenza con festività civiche fossero quelli di odi commissionate da autocrati (i Dinomenidi, gli Emmenidi, i dinasti di Cirene). 6 Ma, come si è veduto, non si trattava solo di casi del genere. Oltre alle odi già ricordate, per Psaumis, per Agesia, per Efarmosto, per Ergotele, dobbiamo aggiungere il caso della Pitica undecima che, composta per il giovane Trasideo di Tebe, campione nella corsa, fu con ogni verisimiglianza eseguita in occasione dei Daphnephoria celebrati presso il santuario di Apollo Ismenio. 7 Ancora, la Nemea 10 per l’argivo Teeo fu – secondo una verisimile ipotesi ripresa di recente da Maria Cannatà Fera – eseguita durante una festa in onore di Era, che si svolgeva in  



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1  Sulla figura di Aiace Oileo e sul suo culto a Opunte, cf. Bernardini 1983, pp. 152-154 ; sull’occasione della festa opunzia che dette spazio alla celebrazione di Efarmosto cf. da ultimo Giannini 2013. 2  Cf. ancora Bernardini 1983, p. 152 s. e, più in dettaglio, Giannini 2013, pp. 223 e 553 ss. 3  Catenacci 2005 e 2013. 4  Vd. Cingano 2006, p. 9. 5  Gentili 2006, p. 160 ss. Vd. da ultimo Currie 2005, p. 226 e n. 3, con riferimenti bibliografici ; cf. anche ibid. p. 227 e n. 8 6  Carey 2007, p. 201 ; già Krummen 1990, pp. 98-151 ; 217-266. Stomatopoulou 2007 arguisce che la decima Pitica per Ippoclea, in quanto commissionata dalla potente famiglia degli Alevadi, fosse anche inserita da essi nella cornice di una celebrazione civica. 7  Cf. Krummen 1990, p. 275 ; Bernardini 2006, p. 286 ss. ; cf. anche 1989 ; più esitante Carey 2007, p. 202 : “Pythian xi 1-6 advertises itself as performed at the Ismenion at Thebes, though it does not make clear whether the context was a recurrent festival or a special occasion, that is, whether we are witnessing the harnessing of a state event or simply the use of a civic sanctuary”.  















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un santuario a una certa distanza dalla città. 1 Per gli Argivi la concomitanza delle feste Heraia e della celebrazione del concittadino per i successi atletici conseguiti negli agoni panellenici di Delfi, Corinto e Nemea sarebbe potuto risultare un elemento di forte richiamo e certamente un vanto per la l’intera comunità.  

4. Il caso della decima olimpica Agli esempi elencati sin qui, credo si possa aggiungere quello della decima Olimpica, per il ragazzo di Locri Epizefirii Agesidamo, figlio di Archestrato, vincitore nel 476 a.C. – come diremmo oggi – nella boxe. 2 Al medesimo giovane, e a celebrare la medesima occasione, Pindaro dedicò anche la brevissima Ol. 11. Assai più lunga e complessa la struttura dell’Ol. 10, che il poeta consegnò – com’egli stesso deplora proprio al principio del canto – con un certo ritardo, forse di un paio d’anni, come s’è ipotizzato, al punto da meritare il biasimo del suo committente. 3 Riguardo al luogo dell’esecuzione mancano informazioni esplicite, ma per consenso quasi unanime si pensa che essa fosse eseguita nella città stessa del vincitore. La porzione centrale dell’ode è dedicata al tema dell’istituzione dei giochi olimpici a opera di Eracle che, dopo avere sconfitto i Molioni, ne fece offerta al padre Zeus presso l’antichissima tomba di Pelope. Sono evocati la fondazione dell’altare nel bosco sacro, sull’altura che Eracle stesso denominò “colle di Crono”, e la prima celebrazione dei giochi con i canti che in seguito, al chiarore della luna, furono intonati a onorare i vincitori delle origini (vv. 27-76/77). 4 Festeggiando l’agone attuale, quello nel quale Agesidamo s’è aggiudicato la vittoria, il poeta commemora quel remoto momento primordiale (ajrcai`~ de; protevrai~, v. 78/80). La verità di tale rievocazione, afferma Pindaro con solennità, è garantita dal Tempo, testimone nei secoli delle gare di Olimpia (vv. 52/5355/56). 5 Sono quindi elencate le sei specialità giocate in quei primi agoni, e persino i nomi di ciascun vincitore (vv. 60/61-72). L’idea, e l’auspicio, è che anche di Agesidamo, del suo agone vittorioso, si conservi memoria immortale attraverso il canto. La centralità della figura di Zeus, dal quale il poeta prende le mosse (v. 28 s. “E le norme di Zeus m’invitano a cantare l’eletto agone che Eracle fondò”) 6 è ribadita nella chiusa del canto, che torna implicitamente a Zeus con la menzione del mito di Ganimede, la cui bellezza colpì il Padre degli dèi (v. 102 ss.) :

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1  Cf. Cannatà Fera 2001, p. 159 e n. 40 ; cf. anche A. Puech, Pindare iii. Néméennes, Paris 1967, pp. 129-132. Della Nem. 1, per Cromio di Siracusa vincitore coi cavalli, sappiamo dal commento antico (Schol. 7b) che fu eseguita nel corso delle feste in onore di Zeus Etneo, cf. Currie 2005, pp. 17-18, che suppone la medesima occasione come cornice rituale per la celebrazione della Pyth. 1 ; cf. Braswell 1992, p. 37 ; sulla possibile esecuzione della Nem. 8 presso lo heroon di Eaco cf. ancora Carey 2007, p. 202. Da includere in questo novero è anche, probabilmente, la Isthm. 4, secondo molti eseguita a Tebe in occasione degli Herakleia, cf. da ultimo Currie 2005, p. 18 n. 87 ; Olivieri 2011, p. 114 n. 156, con ulteriore dossografia. Ne dubita Carey 2007, p. 201 s. Altri casi possibili sono elencati da Krummen 1990, p. 275. 2  Vi fa riferimento in maniera assai rapida il solo Loscalzo 2010-11, p. 317 s. Ma l’idea è forse già implicitamente suggerita da Boeckh 1821, p. 199 ; cf. anche Dissen 1847, p. 148. 3  Perché, di fatto, impegnato a comporre altri epinici (le Ol. 1 ; 2 ; 3) per incarico dei potenti tiranni di Siracusa e Agrigento, vincitori a Olimpia nella medesima occasione (476 a.C.). Sulla questione del rapporto tra i due componimenti e del luogo d’esecuzione dell’Ol. 11 rinvio a Lomiento 2013. 4  Proprio in considerazione del mito di fondazione dei giochi di Olimpia, che costituisce il centro tematico dell’ode, Hubbard 2004, p. 78 è propenso a credere che l’esecuzione avesse luogo a Olimpia con quattro anni di ritardo. 5  All’istituzione dei giochi da parte di Eracle si fa riferimento anche nelle Ol. 3 e 6. 6  La traduzione, qui e altrove, dell’Ol. 10, è di Gentili 2013.  













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E lodo l’amabile figlio di Archestrato che ho visto quel giorno vincere presso l’altare olimpio con la forza delle mani, bello d’aspetto, nella temperie dell’età fiorente : fu lei che un tempo stornò dalla morte impudente Ganimede con l’aiuto di Cipride. 1  



Sulla figura e gli attributi di Zeus il canto si concentra nella quarta strofe epodica. È un passaggio intenso, che restituisce ai sensi, alla vista, all’udito, il momento nel quale, dopo gli agoni, si levarono, nel corso del convito, i canti encomiastici, ancestrali epinici. Così nella versione proposta da Bruno Gentili (vv. 76/77-84) :

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E tutto il sacro recinto risonava nei lieti conviti di canti intonati all’encomio. E seguendo gli antichi principii anche ora come tributo eponimo della superba vittoria noi canteremo il tuono e il dardo di fuoco nella mano di Zeus altisonante, folgore ardente che è propria del sommo potere ; s’accompagnerà con gli auli la lussureggiante melodia dei canti.  

La divinità tutelare dei giochi è al centro, anche fisico, della strofe ; suoi inequivocabili e vistosi attributi sono il tuono e il dardo di fuoco, la folgore ardente. Sono attributi propri di Zeus, 2 sebbene il tipo fidiaco dello Zeus di Olimpia, che è successivo di circa un quarantennio alla decima Olimpica, non li includa. 3 Ma va sottolineato che Pindaro stesso li tratta, in questo canto, con singolare insistenza. 4 A tale proposito,  







1  Il mito del ratto di Ganimede a opera di Zeus per via della bellezza del giovane si trova già narrato in Il. 20, 230-235. È interessante che agalmata di Ganimede e Zeus, verisimilmente risalenti al v sec. a.C., siano visti ancora da Pausania tra le offerte sull’Altis (5, 24, 5). 2  Zeus Fulminatore è un tipo molto arcaico, che gradualmente scompare in età classica. Per quanto riguarda Olimpia, Cook 1965, p. 740 s. menziona la statua vista da Pausania 5, 22, 5, offerta dai Metapontini a opera di Arìstono di Egina, che alcuni datano, sulla base dello stesso Pausania, al 458 a.C. Ancora per Olimpia c’è da considerare la (rara) monetazione con l’immagine di Zeus Fulminante, riferita ai periodi 471/452 a.C. e 452/432 a.C. e a quanto pare posta dalla legenda (OLUMPIKON) in esplicita relazione con gli agoni di Olimpia (Cook 1965, p. 741). Regge, secondo alcuni (tra i quali, da ultimo, Bourke 2011, p. 20), il fulmine con la sinistra lo Zeus stante al centro del frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia, la cui costruzione, iniziata nel 472 a.C., si protrasse per circa quindici anni, fino al 456 a.C. Il canto di Pindaro è dunque di qualche anno precedente. Ho molto discusso su questo e sugli altri aspetti archeologici relativi al culto di Zeus a Olimpia con l’amica e collega Maria Elisa Micheli, alla quale desidero esprimere la mia gratitudine. 3  La celebre statua di Zeus Olimpio seduto in trono fu creata da Fidia negli anni ’30 del v secolo a.C. Essa si trova dettagliatamente descritta da Paus. 5, 10, 2-11, 2. Portava nella destra una Vittoria e nella sinistra lo scettro, sul quale era posata l’aquila. Per la celebre scultura rinvio senz’altro al recente volume di Bourke 2011 con ampia bibliografia di riferimento. 4  Prescindendo dal passo in questione, il tuono (bronthv) di Zeus è menzionato ancora in Ol. 4, 1, dove il dio è definito “altissimo auriga del tuono” ; in Pyth. 4, 23 e 197 ; cf. anche fr. inc. 144, 1 Maehl. La folgore (keraunov~) ricorre più spesso, in Ol. 8, 3 nell’epiteto, di origine epica, ajrgikevrauno~ ; Ol. 13, 77 e Pyth. 4, 194 nell’epiteto, attestato solo in Pindaro, ejgceikevrauno~ ; Pyth. 1, 5, per cui cf. il commento di Cingano 2006, p. 330, il quale ricorda che all’epoca della fondazione di Etna risalgono una dramma e un tetradramma etnei raffiguranti Zeus sul trono che regge in mano la folgore, con l’altra lo scettro su cui è posata l’aquila ; in Pyth. 3, 58 ; 6, 24 ; 8, 17 ; Nem. 9, 24 ; 10, 8 ; 10, 71 ; Isthm. 8, 34 ; vi sono ancora 4 occorrenze nei frammenti (frr.  























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può rivelarsi utile considerare la situazione dei culti locali, la cui cornice avrebbe eventualmente potuto ospitare, come nei casi in precedenza elencati, l’ode per Agesidamo. L’attività di culto a Locri Epizefirii si può documentare in relazione a varie divinità, già a partire dal vii secolo a.C. 1 Nel caso specifico, il culto di Zeus che, per usare le parole di Mario Torelli, era “destinato a diventare nella seconda metà del iv sec. il simbolo poliadico della nuova democrazia con l’archivio sacro e le serie monetali ornate della sua testa”, 2 è per noi rintracciabile in almeno due distinte aree della città antica, in Casa Marafioti, dove sono stati individuati i resti di un tempio, datati al vi sec. a.C., che, a seguito del rinvenimento di una teca contenente 39 tabelle bronzee (datate queste al iv sec. a.C.), è da molti identificato con il tempio di Zeus Olimpio, e in Contrada Parapezza, oltre le mura orientali, dal lato mare, in seguito al rinvenimento di una stipe votiva contenente ex-voto databili a partire dalla fine del v sec. a.C. 3 Quest’ultimo ritrovamento pare particolarmente suggestivo in rapporto ai versi pindarici in questione, poiché gli ex-voto conservati nella stipe consistono in grande misura di statuine fittili raffiguranti Zeus nell’atto di scagliare il fulmine, con il braccio destro sollevato a sostenere la folgore, e il braccio sinistro che regge l’aquila, teso a bilanciare il gesto dell’altro braccio. 4 Volto e busto sono sempre in posizione frontale. 5 In tutti i fittili è ripetuto lo schema-base con colonna, altare e oinochoe. Va aggiunto che la folgore di Zeus e il tema dello Zeus Saettante compaiono abbondantemente, negli anni successivi, anche nella monetazione locrese. 6 Tra la fine del v sec. a.C. e l’inizio del iv sec. a.C. questo tema doveva aver conquistato una notevole popolarità a giudicare dai ca. 2000 frammenti raccolti sino ad ora sia nell’area sacra sia, in minor misura, nell’abitato. 7 In genere – riflette Marcella Barra Bagnasco che ha dedicato molta attenzione a questo materiale – lo stimolo alla creazione di nuove forme di ex-voto fittili trova le sue radici nell’avvento di nuove forme di culto, oppure in trasformazioni di culti precedenti. La produzione dei fittili con Zeus iniziò a Locri, a parere della studiosa, sulla scia di nuove forme di religiosità incentrate sulla figura  



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52d, 43 ; 52i, 73 ; 70b, 15 ; fr. inc. 146, 1 Maehl.). Il rilievo particolare dell’Ol. 10 risiede nel riferimento insistente ed esplicito al dettaglio del fulmine nella mano di Zeus in rapporto alla sede di Olimpia (e forse anche, come vedremo, alla sede di Locri Epizefirii, patria di Agesidamo). In quanto tale, la testimonianza pindarica andrebbe in qualche modo riconsiderata accanto ai dati materiali a nostra disposizione (per i dati relativi a Olimpia, vd. supra, n. 33 ; per i dati su Locri, vd. infra). 1  Sono ben documentabili i culti di Afrodite, Persefone, Zeus ; cf. Torelli 1976. Su Zeus Olimpio e il tempio di Casa Marafioti : Østby 1978 ; Rubinich 1996, pp. 63-68 ; Lippolis-Livadiotti-Rocca 2007, p. 788 ; de Angelo Laky 2011. Per il culto di Afrodite vd. ancora Schindler 2007. Sul culto di Demetra/Persefone vd. Milanesio Macrì 2010 ; Cardosa 2010. 2  Torelli 1976, p. 181 e cf. Gullini 1976, p. 409 ss. 3  In Casa Marafioti sono i resti di quello che fu un suo probabile tempio (cf. supra, n. 1 per i riferimenti bibliografici) ; d’altra parte in Contrada Parapezza la stipe che è stata rinvenuta ha conservato numerose statuine fittili databili dalla fine del v sec. a.C., che sono forse pertinenti al culto prestato presso un altro suo tempio, non lontano da quello, purtroppo anonimo, di Marasà. Cf. ancora Torelli 1976, p. 181 ; Barra Bagnasco 1997 e, da ultimo, Barra Bagnasco 2009, pp. 187-200. 4  L’altezza delle statuette varia dai 10/15 cm. ai 35/40 cm. 5  Cf. Barra Bagnasco 2009, p. 188. 6  Pozzi Polini 1976. 7  I frammenti risultano reperiti in parte in zone di abitato, in parte in una stipe votiva messa in luce nel 1963 all’esterno del lato mare delle mura, a circa 20 mt. dalla torre orientale, nelle vicinanze della strada che portava alla necropoli di Parapezza Lucifero ; dalla stipe, in particolare, provengono 1400 frammenti ; cf. Barra Bagnasco 1997, p. 214 ss.  



























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del padre degli dèi. 1 È possibile che i coroplasti, nelle terrecotte con Zeus Saettante, avessero voluto concentrare tutti gli elementi di un culto all’aperto, caratterizzato da una statua accanto a un altare su cui venivano praticate forme di libagione, ricordate dalle oinochoai, quelle oinochoai che, oltre a comparire in tutte le terrecotte di Zeus Saettante, vennero deposte in gran numero, in forma miniaturizzata, nella stipe. 2 D’altra parte, forme di culto caratterizzate da statue o altari isolati, innalzati all’aperto, non sono un fatto insolito nel mondo greco. Lo stesso culto di Zeus a Olimpia fu, come anche Pindaro ricorda, ai primordi proprio di questo genere. 3 L’area di culto si può supporre collocata non troppo distante dalla stipe e comunque immediatamente all’esterno delle mura, nelle vicinanze della strada che portava alla necropoli di Parapezza-Lucifero. 4 Tornando al canto in onore di Agesidamo, e allo spazio civico destinato alla sua performance, l’ipotesi che si può, a questo punto, con prudenza formulare è che l’epinicio, evidentemente incentrato sulla divinità tutelare dei giochi d’Olimpia, potesse essere eseguito in Locri presso un’area consacrata a Zeus, forse proprio allo Zeus Saettante, in concomitanza con una ricorrenza di culto a lui dedicata. Se così fosse, Pindaro, genialmente, avrebbe creato attraverso il canto come un effetto di riecheggiamento, col celebrare a un tempo lo Zeus dei giochi olimpici e il locale Zeus con la folgore e, del pari, con l’attualizzare, dopo averlo evocato, l’encomio originario cantato a Olimpia in onore dei primi vincitori presso l’area consacrata a Zeus attraverso l’encomio presente, intonato per Agesidamo a Locri nel recinto sacro a Zeus. Il verso “e seguendo gli antichi principi anche ora canteremo il tuono e il dardo …” (v. 78/80) ne ricaverebbe un deciso incremento di significazione. E similmente, “la lussureggiante melodia dei canti” al suono dell’aulo (v. 84) starebbe riferendosi, a un tempo, alla festa presente, e a quella antichissima. 5 A fronte di questa rappresentazione dei fatti, diviene per noi più comprensibile cogliere la forza effettiva della promessa di gloria che ogni ode epinicia contiene. 6 Una gloria tanto più diffusa nello spazio e longeva nel tempo, quanto più condivisa era la celebrazione cerimoniale destinata a ospitare la prima esecuzione. Senza considerare poi che il canto avrebbe potuto essere periodicamente rieseguito a ogni nuovo ricorrere della festa. 7 Sebbene con qualche esitazione, Carey si mostra riluttante a credere che una città potesse, nella generalità dei casi, sobbarcarsi gli oneri di un festeggiamento pubblico per una vittoria privata. 8 Certo, ogni generalizzazione è a rischio  





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1  Notevole è, in proposito, il ripetersi dello schema di base con colonna, altare o oinochoe. Barra Bagnasco ipotizza un culto di Zeus Herkeios e Meilikios, divinità benevola e protettrice, con valenze purificatrici e ctonie, che ben si adatterebbero alla vicinanza con il Thesmophorion e la necropoli. 2  Barra Bagnasco 1997, p. 224 e n. 51 ; 2009, p. 199. 3  Barra Bagnasco 1997, p. 224 cita la statua di Zeus Polieus accanto a un altare nell’Acropoli di Atene (Paus. 1, 24, 4) o l’altare di Zeus ricordato ancora da Pausania (1, 37, 4) sulla strada di Eleusi. 4  Barra Bagnasco 2009, p. 200, data il fenomeno, in sintonia con i reperti materiali acquisiti dagli scavi, alla fine del v sec. a.C. 5  S’intende che, se questa ipotesi coglie nel segno, la testimonianza pindarica, rispetto all’evidenza materiale, confermerebbe la presenza, già negli anni ’70 del v sec. a.C., del culto Zeus Fulminante a Locri Epizefirii. Su questo punto ho potuto riflettere direttamente con la prof. Marcella Barra Bagnasco, che qui desidero vivamente ringraziare. 6  Per tutti basti menzionare l’incipit della quinta Nemea, come pure l’explicit del terzo epinicio di Bacchilide. 7  Tale l’ipotesi molto opportunamente argomentata da Currie 2004. 8  Ove si escludano i casi che coinvolgono direttamente tiranni o monarchi (i primi cittadini) : Carey  



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d’inesattezza. E, di fatto, non tutti gli epinici devono essere pensati come eseguiti nel corso di una festa cittadina. Tuttavia, la perplessità dovrebbe cadere ove si rifletta sul fatto che l’inquadramento di un canto epinicio, specie quando composto da maestri eccellenti come Pindaro, nella cornice di una festività religiosa, se da una parte avrebbe recato un indubbio vantaggio per la fama individuale, avrebbe avuto, dall’altra, una risonanza di assai più vasta scala rispetto a quella ottenibile da una celebrazione privata, finendo col trascendere l’interesse del singolo, per coinvolgere l’intera comunità. 1 Incorporare nella celebrazione civica e rituale in onore di una divinità anche la commemorazione di un successo conseguito da uno solo dei concittadini, oltre ad arricchire l’intero quadro delle celebrazioni, non avrebbe potuto che conferire lustro alla comunità stessa e incrementare l’orgoglio collettivo. 2 Diventando parte di un programma festivo, un canto poteva legittimamente aspettarsi di divenire immortale. La sopravvivenza di tale prestigiosa conquista presso le generazioni future sarebbe stata a carico delle riesecuzioni successive, legate a loro volta alle solenni ricorrenze rituali proprie di ciascuna città. 3  

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A SPASSO PER ATENE TR A LE ROV INE DI A R ISTOFA NE Luigi Br av i

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A

più riprese gli studiosi hanno toccato il delicato problema del grado di verisimiglianza con il quale Aristofane ha parlato dei luoghi della propria città, in considerazione del fatto che le sue commedie propongono agli spettatori una quotidianità cittadina, all’interno di uno degli spazi pubblici della povli~ – il teatro – e tenuto conto della consistente manipolazione della realtà connaturale al genere comico, ai suoi scopi e mezzi espressivi. In seno a questo interesse negli studi su Aristofane è constatabile nel tempo una specializzazione via via maggiore passando, solo per fare pochi noti esempi, da alcune osservazioni di natura quasi esclusivamente antiquaria nella prima utile rassegna di Charles T. Murphy del 1964, 1 sino alla rilettura drammaturgico-poetica di Suzanne Saïd 2 e alla replica di Franca Perusino 3 sul caso specifico della Lisistrata. Si indaga in sostanza in che misura l’evocazione di luoghi specifici della città intenda illustrare una realtà topografica o rinviare a concetti e situazioni che pertengono piuttosto al confronto ideologico e al dibattito tra le parti politiche. Un punto di partenza è la considerazione, per ovvia che sia, che le commedie di Aristofane sono per buona parte ambientate ad Atene, parlano della città, sono messe in scena nel teatro di Dioniso ed hanno un pubblico ateniese, in percentuale maggiore alle Lenee, minore alle Dionisie urbane per la presenza di qualche straniero. Ne consegue inevitabilmente che esso costituisca il principale riferimento spaziale sia asetticamente inteso, sia caricato di significati. Sembra tuttavia necessario considerare nel dettaglio, caso per caso, la funzione dello spazio ateniese in ciascuna commedia, senza essere troppo spinti dal desiderio di trovare significati più o meno nascosti o di attribuire particolare pregnanza ai riferimenti che si trovano, considerando anche la possibilità che essi siano presenti nel loro semplice valore facciale. L’attenzione riservata ai frammenti delle commedie di Aristofane in questo dibattito interpretativo, per ovvie ragioni, è stata estremamente sacrificata. Pur essendosi conservato un ampio numero di frammenti, questi in bassa proporzione hanno un’estensione tale da permettere discorsi sufficientemente documentati, di rado si riesce a ricostruire lo sviluppo della trama dell’azione. In quest’atmosfera rarefatta, tra i 976 frammenti, quelli che parlano di spazi della città si riducono ad una manciata. Questo è il senso e la premessa alla passeggiata per Atene attraverso le rovine di Aristofane.  





Gewrgoiv

fr. 113 K.-A. ejn ajgora/` d’ au\ plavtanon eu\ diafuteuvsomen pianteremo per bene un platano nell’agora. 1  Murphy 1964.

2  Saïd 1997.

3  Perusino 2006.

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luigi bravi

Il frammento appartenente alla commedia intitolata Gewrgoiv, i Contadini, si conserva unicamente in quel che resta del Manuale di Efestione, 1 per la presenza del peone iv (+++< ) nell’incipit del tetrametro cretico, in luogo del più frequente peone i (