Paesaggi di Biagio Marin, tra prosa e poesia. Atti del Convegno (Udine, 3-4 ottobre 2012) 9788862276870, 9788862276887

Nell'occasione dell'anniversario della pubblicazione dei Fiuri de tapo, la prima raccolta di poesie di Biagio

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Paesaggi di Biagio Marin, tra prosa e poesia. Atti del Convegno (Udine, 3-4 ottobre 2012)
 9788862276870, 9788862276887

Table of contents :
SOMMARIO
Premessa
PROGRAMMA
PAROLA MIO SOLO RIFUGIO Edda Serra
«MIO FAVELÂ GRAISAN» : I FILI DELLA POETICA DI BIAGIO MARIN Giampaolo Borghello
« PAESAGGI DELL’ANIMA ». MARIN PROSATORE TRA GIORNALISMO E LETTERATURA Elvio Guagnini
RILEGGENDO BIAGIO MARIN Antonio Daniele
SULL’EPISTOLARIO MARIN-SERENI* Fabiana Savorgnan di Brazzà
« SIAMO TUTTI SOLI, E NOI IN MODO PARTICOLARE ». LETTERE DI BIAGIO MARIN A LUCIANO MORANDINI (1965-1985) Lisa Gasparotto
CARATTERI LINGUISTICI E ASPETTI METRICO-PROSODICI NEI ‘FIURI DE TAPO’ Michele Zambon
PAESAGGI DELLA MEMORIA IN ALCUNI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI DI BIAGIO MARIN Gianni Cimador
Gli scritti di Biagio Marin per il « Messaggero Veneto » (1947) Marzia Liberale
LA « GRANDE AVVENTURA » DI BIAGIO MARIN : FIRENZE 1911-1912 Pericle Camuffo
GRADO E IL PAESAGGIO DELLA LAGUNA ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN POETA : BIAGIO MARIN Franca Battigelli
APPUNTI SULLE METAFORE DI BIAGIO MARIN Sara Cerneaz
ALTRE OSSERVAZIONI SULLA RIMA DI BIAGIO MARIN Rodolfo Zucco
UNA CONFEDERAZIONE ADRIATICA Marco Giovanetti
MARIN (E SLATAPER), QUEL GUARDARE I LUOGHI FRA STORIA ED EMOZIONI. IL PUNTO DI VISTA ONTOLOGICO Fabio Russo
NICCOLÒ TOMMASEO E ALCUNE ‘RILETTURE’ MARINIANE, TRA POESIA E PROSA Roberto Norbedo
TRA POESIA E LINGUA. CONSIDERAZIONI DI UN LINGUISTA Vincenzo Orioles
INDICE DEI NOMI

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C E NTRO STU D I « BI AGI O M ARIN» · G RADO « S TU DI MAR I NI AN I » · N. 1 8 · S UPPLE M E NTO

PAESAG GI DI BI AGI O M AR IN, T RA PRO SA E PO ESIA att i de l convegno u n i v e r s i t à de gli stu d i d i u d ine 3 - 4 otto b r e 20 12 a c ur a di ro b e rto n o rb e do e rodolfo z ucco

PIS A · RO MA FABRIZ IO SERRA E DITO RE MMXIV

Il volume è realizzato con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Udine. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2014 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28 · I 56127 Pisa Tel. +39 050 542332 · Fax +39 050 574888 E-mail: [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48· I 00185 Roma Tel. +39 06 70493456 · Fax +39 06 70476605 E-mail: [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy i s s n 112 5 - 0 321 e - i s s n 1826- 9 559 i s b n 978- 88- 622 7- 6 8 7- 0 e - i s b n 978- 88- 62 2 7- 6 8 8 - 7

SOMMARIO Roberto Norbedo, Rodolfo Zucco, Premessa

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Programma del Convegno Edda Serra, Parola mio solo rifugio Giampaolo Borghello, « Mio favelâ graisan » : i fili della poetica di Biagio Marin Elvio Guagnini, « Paesaggi dell’anima ». Marin prosatore tra giornalismo e letteratura Antonio Daniele, Rileggendo Biagio Marin Fabiana Savorgnan di Brazzà, Sull’epistolario Marin-Sereni Lisa Gasparotto, « Siamo tutti soli, e noi in modo particolare ». Lettere di Biagio Marin a Luciano Morandini (1965-1985) Michele Zambon, Caratteri linguistici e aspetti metrico-prosodici nei ‘Fiuri de tapo’ Gianni Cimador, Paesaggi della memoria in alcuni scritti autobiografici di Biagio Marin Marzia Liberale, Gli scritti di Biagio Marin per il « Messaggero Veneto » (1947) Pericle Camuffo, La « grande avventura » di Biagio Marin : Firenze 1911-1912 Franca Battigelli, Grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di un poeta : Biagio Marin Sara Cerneaz, Appunti sulle metafore di Biagio Marin Rodolfo Zucco, Altre osservazioni sulla rima di Biagio Marin Marco Giovanetti, Una confederazione adriatica Fabio Russo, Marin (e Slataper), quel guardare i luoghi fra storia ed emozioni. Il punto di vista ontologico Roberto Norbedo, Niccolò Tommaseo e alcune ‘riletture’ mariniane, tra poesia e prosa Vincenzo Orioles, Tra poesia e lingua. Considerazioni di un linguista

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Indice dei nomi

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Premessa

N

ell’occasione dell’anniversario della pubblicazione dei Fiuri de tapo, la prima raccolta di poesie di Biagio Marin uscita a Gorizia nel 1912, si è voluto, d’intesa con il Centro di Studi “Biagio Marin”, dedicare al gradese un Convegno di Studi, tenuto a Udine il 3 e 4 ottobre 2012, che avesse come punto cardine il rapporto tra la produzione artistica dell’autore e l’ambiente in cui egli visse e operò. Gli Atti che qui si presentano danno conto degli interventi del Convegno e raccolgono i contributi di molti dei relatori ‒ giovani studiosi per buona parte, aprendosi inoltre, con l’animo di valorizzare la cultura del territorio in cui l’opera di Marin è radicata, a interventi liminari ai lavori. L’idea originaria alla base del simposio, come in parte documenta il programma, intendeva mettere in relazione e a contatto alcuni interventi dedicati alle diverse manifestazioni della ricca attività artistica e culturale di Marin con altri orientati ad approfondire il tema della sua riflessione sulla concreta realtà del tempo e dei luoghi in cui egli visse. Ciò anche con l’intento di sfumare e articolare, in linea con recenti tendenze di studio, l’immagine tradizionale e consolidata di Marin, che lo rappresenta, generalmente, come un poeta e un propugnatore di un linguaggio che non si compromette con la fisica materialità. Allora, con il voto di fermare l’attenzione sugli attraversamenti tra la dimensione artistica e l’ambito pratico, tra poesia e prosa, individuando ulteriori intrecci e momenti di condivisione, sono stati accostati contributi sulle peculiari caratteristiche della poesia dell’autore, dai valori metrici del suo ‘paesaggio sonoro’ al rilievo che assume in essa l’istanza metaletteraria, ad altri relativi all’opera in prosa, ancora in buona parte da studiare, la quale è per definizione più vicina alla sfera operativa, quella ‘del fare’, e alle manifestazioni fenomeniche. Questa ha ricevuto, da qualche tempo, crescente attenzione di critica e cure editoriali indirizzate agli scritti di natura diaristica ed epistolare, nonché a quelli legati al suo lavoro di pubblicista, di saggista e di promotore della cultura e del territorio. A tale riguardo nel corso del convegno è emersa più di qualche novità, documentata dagli Atti, con riferimento a testi epistolari e giornalistici non noti o poco conosciuti. Il paesaggio, nelle sue molteplici declinazioni, tra testo e contesto, tra storia, geografia, lingua, cultura e poesia, e le sue relazioni con l’opera e l’attività di Marin, sono stati il tema, appunto, che fa da collante dei contributi. Dal panorama bibliografico offerto da Edda Serra, che illustra con lo sguardo anche rivolto al territorio e al pubblico delle scuole alcuni svolgimenti e le novità degli studi mariniani, alla disamina di Giampaolo Borghello sulla poetica della poesia mariniana ; dalla rilettura di Antonio Daniele di una delle raccolte terminali, A sol calào dedicata al figlio Falco caduto in Slovenia durante la guerra, in cui Marin trasfigura e prefigura poeticamente l’esaurirsi della vita, alle significative novità sui rapporti epistolari di Marin con Vittorio Sereni e con Luciano Morandini, illustrate, rispettivamente, da Fabiana di Brazzà e Lisa Gasparotto, che hanno studiato lettere inedite ; dalle analisi di Sara Cerneaz, Michele Zambon e Rodolfo Zucco sui fondamenti linguistici, metrici e metaforici della poesia di Marin, allo studio di Franca Battigelli sui modi in cui lo scenario della laguna si riflette nelle liriche e nelle prose ; dal contributo di Pericle Camuffo sulla profonda influenza esercitata dall’ambiente fiorentino sulla formazione, sulla vita e sulle opere di Marin, a quello di Marzia Liberale riguardante, in anni critici per la storia della Venezia Giulia e di Gorizia, la collaborazione dell’autore con il « Messaggero Veneto »  









10 roberto norbedo · rodolfo zucco documentata sulla base di suoi articoli, la maggior parte ignoti agli studiosi ; dallo studio di Gianni Cimador, che mette in luce come la riflessione estetica e ontologica mariniana riceva configurazione dagli spazi e gli ambienti cari al poeta, a quello di Marco Giovanetti, che fa coincidere la meditazione di Marin sul periodo dell’adolescenza trascorso a Pisino, in Istria, con un momento fondativo di un suo nuovo modo di considerare storia, cultura e letteratura ; agli interventi, infine, di Fabio Russo e Roberto Norbedo su alcuni scritti mariniani di natura saggistica memorialistica e descrittiva intorno a luoghi frequentati dall’autore, alla loro storia e ai suoi rapporti con Scipio Slataper e Niccolò Tommaseo. In chiusura, alcune riflessioni di Vincenzo Orioles sul ruolo svolto dalla lingua poetica di Marin nell’autocoscienza linguistica dei parlanti gradese.  



Si ringraziano il Centro Internazionale sul Plurilinguismo (cip) e il Corso di Laurea in Scienze e Tecniche del Turismo Culturale dell’Università di Udine, nella persona del suo Direttore Simonetta Minguzzi, per la collaborazione e il sostegno dato allo svolgimento dei lavori del Convegno.

Roberto Norbedo · Rodolfo Zucco Dipartimento di Studi Umanistici Università degli Studi di Udine

PROGRAMMA PAESAGGI DI BIAGIO MARIN, TRA PROSA E POESIA 3-4 ottobre 2012 Università degli Studi di Udine Aula A (Sede di viale Ungheria 45, Udine) Mercoledì 3 ottobre 2012 ore 10.00 Apertura del Convegno e saluto delle Autorità 10.30 Inizio dei lavori Presiede Elvio Guagnini Edda Serra (Centro Studi Biagio Marin, Grado) Dai ‘Canti de l’isola’, l’antologia minima per la scuola Carla Marcato (Università degli Studi di Udine) Lingua di Grado e lingua di Marin Giampaolo Borghello (Università degli Studi di Udine) « Mio favelâ graisan » : i fili della poetica di Biagio Marin  





Discussione ore 15.00 Presiede Vincenzo Orioles Elvio Guagnini (Università degli Studi di Trieste) “Paesaggi dell’anima” in alcune pagine di Marin narratore e prosatore Antonio Daniele (Università degli Studi di Udine) Rileggendo Marin Fabiana di Brazzà (Università degli Studi di Udine) Sull’epistolario Marin-Sereni pausa caffè Lisa Gasparotto (Università degli Studi di Udine) Armoniche dissonanze. Lettere di Biagio Marin a Luciano Morandini Michele Zambon (Verona) La lingua nei ‘Fiuri de tapo’

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programma Gianni Cimador (Università degli Studi di Trieste) Paesaggi della memoria in alcuni scritti autobiografici di Biagio Marin Discussione Giovedì 4 ottobre 2012 ore 9.00 Presiede Edda Serra Fulvio Salimbeni (Università degli Studi di Udine) Biagio Marin storico di Gorizia Marzia Liberale (Cividale del Friuli) Gli scritti di Biagio Marin su Gorizia nel « Messaggero Veneto » (1947)  



Pericle Camuffo (Centro Studi Biagio Marin, Grado) Biagio Marin e Firenze, 1911-1912 : la grande avventura  

pausa caffè Franca Battigelli (Università degli Studi di Udine) Grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di un poeta Sara Cerneaz (Universität Zürich) Primi appunti sulle metafore di Biagio Marin Rodolfo Zucco (Università degli Studi di Udine) Il paesaggio sonoro : sguardi su ‘Dopo la longa istàe’  

Discussione ore 15.00 Presiede Claudio Griggio Marco Giovanetti (Grado) Reportages in prosa e in versi di Biagio Marin Fabio Russo (Università degli Studi di Trieste) Marin (e Slataper), quel guardare i luoghi fra storia ed emozioni Roberto Norbedo (Università degli Studi di Udine) Riletture novecentesche. Marin, Slataper e Tommaseo Discussione e chiusura del Convegno

PAROLA MIO SOLO RIFUGIO Edda Serra

P

arola, mio solo rifugio è l’incipit di uno dei Canti de l’isola 1970-1981, pubblicato per la prima volta a Capua nel contesto del Premio Casa Irta, nella splendida silloge Poesie, 1 in cui Biagio Marin affida al canto una confessione ed una attesa, non di consolazione immediata e di fuga dalla solitudine e dall’isolamento, ma luogo in cui si compie l’‘intimo viaggio’ che va dall’esperienza e dal vissuto al canto. È dichiarazione di poetica che conferma sul piano filosofico lo spessore dell’intellettuale impegnato a riflettere sulla vita e sul suo senso nella successione dei giorni. Marin non poteva tacere e non poteva fare a meno di scrivere. Per cui i suoi Diari ed i suoi canti vanno letti accostati : « La parola no dita lassa largo el svodo », è un mancare (« manco ») di vita, un vuoto, in quel processo incessante dell’essere che incarnandosi e oggettivandosi si rinnova e si rigenera senza fine, irripetibile e irrecuperabile, si fa realtà e storia. E la parola poetica che solo la ferma e salva, è a sua volta creativa : si rigenera in ogni lettore, lo rigenera. Per cui la parola densa dell’istanza esistenziale, è allo stesso tempo carica della tensione etico-morale-religiosa anche quando temi e situazioni testuali appaiono distanti. 1.















Parola, mio solo rifugio mia intima casa lontan da ogni spiasa de là d’ogni sielo de lugio. La strà che la porta drento al gno sogiorno, no’ l’ha asfalto o piere de scorta ne’ sielo co’ note e co’ zorno. Sensa sosta score l’eterno co’ l’ore e drento a quel rivo a volte me vivo. 2  

2. Per tale motivo oggi, dopo le diverse pubblicazioni in questi ultimi anni di pagine di prosa di Marin, e dopo le ricerche e lo studio di contesto, che gli hanno dato spessore diverso come uomo, cittadino e intellettuale, sento necessario il ritorno ai Canti de l’isola per riproporli alle nuove generazioni che hanno problemi, cultura, gusti e linguaggio diversi, e strumenti di divulgazione e di lettura nuovi. E penso ad una nuova divulgazione della sua opera poetica. Di fatto il lettore di oggi può ancora disporre dell’intera raccolta a stampa dei Canti de l’isola, edita e riedita dalla Lint a suo tempo promossa dalla Cassa di Risparmio di Trieste e continuata dalla Fondazione CRTrieste. Opera in tre volumi (1912-1969 ; 1970-1981 ; 1982-1985), senza traduzione, dotata di glossario, e di note introduttive della curatrice solo per il secondo e il terzo volume, raccoglie tutte le poesie in dialetto  



1   Biagio Marin, Poesie, Capua, L’Airone, 1972. La raccolta compare smembrata ne I canti de l’isola (1970-1981), in parte nella sezione di A sol calào (1974), e in parte con il titolo di Framinti (1972). 2   Idem, I canti de l’isola (1970-1981), Trieste, Lint, 1992 (I ed. 1981), p. 96.

14 edda serra edite, comprese quelle pubblicate postume di Rama de rosmarin e gli arricchimenti delle riedizioni, aggiungendo nell’ultimo volume un mannello di inediti scelti secondo valore estetico fra i testi residui scritti nei suoi ultimi anni, ovviamente senza esaurirli tutti. La cura del primo dei tre volumi è dello stesso autore, assistito dall’amico Stelio Crise, che per sua scelta non vi è nominato, il quale, nel consegnarmi lo schedario, ne ha sottolineato perentorio l’esclusività (« Non esistono altre poesie di Marin ! »). La cura del secondo e del terzo volume è della sottoscritta che ha seguito pur con qualche perplessità i criteri adottati per il primo volume, ma costretta a sua volta al rispetto filologico dei testi e a fare i conti con le diverse opportunità editoriali secondate dall’ autore. L’opera, dalla quale uno studioso non può prescindere, non è più disponibile presso l’editore, matrici comprese, ma è ampiamente diffusa nelle biblioteche, ed è reperibile sul mercato dell’antiquariato. È ricca di 3270 composizioni e documenta l’intero itinerario del poeta, il maturare dell’uomo e del suo linguaggio, in cui gli anni ’50 rappresentano una fase di svolta importante determinata da fatti di segno diverso : l’eco profonda della perdita in guerra del figlio Falco (1943), gli esiti del secondo conflitto mondiale con le sue drammatiche conseguenze per l’assetto della regione, lo stesso suo impegno politico e culturale a Trieste, il disagio della precarietà professionale sua, l’esilio parziale da Grado, e, direi importante, l’incontro con Pier Paolo Pasolini (1952) 1 e con Vanni Scheiwiller (1961) ; il graduale aprirsi di orizzonti editoriali nazionali, obiettivo non facile per un poeta in dialetto, prima a Roma, con l’editore Il Belli per Sénere colde (1953) e per L’estadela de San Martin (1958), poi a Venezia con Neri Pozza per El fogo del ponente (1959). Infine la disponibilità alla vita e l’affacciarsi di nuovi amori : L’anima mia xe solo un bel paese, percorso dai venti, dice in Sénere colde (1953), ed i primi premi significativi per la sua poesia ; in apertura quello intitolato a Barbarani (1952) è assegnato al volume dei Canti de l’isola (sic) edito a Udine (1951), sintesi momentanea della sua produzione. Sono cose note, che ripropongo per evidenziare la situazione editoriale odierna, cioè la disponibilità attuale delle opere per il lettore. Il lettore e lo studioso di oggi dispongono poi di uno strumento più agile ed accattivante, sul quale si può dire che oggi regge ancora sul mercato librario il nome di Marin, ed è l’antologia della Garzanti Poesie curata da Claudio Magris e dalla sottoscritta 2 edita nel 1981, riedita accresciuta di testi poetici di ultima produzione nel 1991 : ben 22 anni fa. La garzantina è antologia asciutta, essenziale, con un Marin ben ridotto, ma ben rappresentato, in cui risultano sacrificati senza grave danno per la divulgazione moltissime poesie dei Canti 1912-1969, ma anche molte delle successive, sacrificate sì con rimpianto. È evidente che criteri diversi di scelta potrebbero portare a qualche recupero. Di fatto Marin è leggibile dal lettore di oggi anche nella più piccola e meno diffusa antologia, interamente bilingue, e disponibile sul mercato, de L’isola/The island, a suo tempo preparata per la proposta al Premio Nobel, che ha traduzione di Gerald Parks, poeta di lingua inglese, nonché autore in italiano e professore di interpretazione della allora Scuola per traduttori ed interpreti dell’Università di Trieste. L’antologia edita  

   













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  Si veda Poesia dialettale del Novecento, a cura di Mario Dell’Arco, Pier Paolo Pasolini, Parma, Guanda, 1952. 2   Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris ed Edda Serra, con antologia della critica e nota bibliografica, Milano, Garzanti, 1991 (ristampa 1999). L’edizione del 1991 riprende completandola la precedente edizione del 1981.

parola mio solo rifugio 15 da Del Bianco a Udine (1982) e ristampata dallo stesso editore per il Centro Studi Biagio Marin nel 2005 è arricchita di nuovi testi. In questo quadro mentre il Centro Studi Biagio Marin auspica l’edizione nazionale delle poesie di Marin che implica una analisi attenta degli inediti e delle varianti, si annuncia di prossima uscita una nuova antologia di misura ridotta, breve, come breve era stata la fortunatissima Maistral d’istàe composta per il pubblico degli ospiti di Grado, 1 questa invece pensata come antologia minima per la scuola, Per le stràe solesàe, con il titolo tratto da una delle Cansone picole (1927), come parte dei Quaderni del cird editi dall’eut e diretti da Luciana Zuccheri, nell’ambito di un progetto interdisciplinare mirato alla formazione, aperto a tutte le discipline e a tutti i livelli di scolarità : le pubblicazioni si presentano come libri elettronici leggibili su tablet e smartphone, cioè sulla rete informatica ad accesso aperto, e, volendo, come libro a stampa. 2 Per le stràe solesàe è progetto di Tiziana Piras, ed è curato da Edda Serra che, accanto ad un saggio introduttivo, ha provveduto alla scelta degli itinerari e delle poesie, e al corredo di note necessarie. Piace il discorso del gruppo del cird di riportare sul campo l’esperienza della lettura degli autori, cioè di far vivere ai giovani in formazione l’esperienza dell’ambiente di riferimento in cui i testi hanno vita, per leggerli e ascoltarli. Si tratta di passeggiate con in mano i testi. Perché la poesia non si insegna, la si vive, e coinvolge perciò anima, intelletto, cuore, la persona tutta ; è esperienza senza la quale la persona non cresce. Piace perché si richiama al progetto formativo dell’educare con la poesia e l’arte. Lontano dall’interpretazione comune, di una educazione all’irrazionale con percorsi irrazionali o viceversa esclusivamente tecnici, fa leva invece sulla creatività insita in ogni persona, salvo poi la ‘verifica’ del percorso inverso, ed è questo il discorso di Marin. Quando al suo primo anno di insegnamento all’Istituto Magistrale di Gorizia Marin si presenta alle giovani scolare, dichiara di essere venuto a suonare il campanello, a svegliare coscienze e cuori ; con il risultato di provocare gravi perplessità nella benpensante borghesia goriziana rispettosa dell’ordine costituito e di una scuola statica : altro che scuola all’aperto lungo l’Isonzo, mancanza di programmi e di testi, libera lettura del Vangelo come testo di pedagogia, scolare indotte ad innamorarsi. Il dissidio di fondo era invece quello perenne tra potere istituzionalizzato o costituito da un lato, e creatività, problema continuamente ripreso da Marin nel suoi scritti. Perché attraverso i creativi passa la vita. Era il suo modo di fare scuola, che avrebbe ripreso a Trieste negli anni 1939-1942. Ma a proposito di scuola e di formazione le stesse parole risuonano in uno dei suoi articoli pubblicati a Gorizia in stretta relazione di tempo sui fogli politici dell’« Azione » e de « La Libertà » all’inizio degli anni Venti : sono fogli di battaglia, ma il tema è sviluppato organicamente in una dozzina di interventi, nella consapevolezza della valenza civile e politica del problema. C’è in questi interventi la coscienza vociana del problema in sé e del ruolo dell’intellettuale dibattuto a Firenze nel 1911, riecheggiando in particolare Giuseppe Prezzolini. 3  























1   Idem, Maistral d’istàe, a cura di Edda Serra, Grado, Edizioni della Laguna per l’Azienda di Promozione Turistica di Grado ed Aquileia, 2000. 2   Nell’ambito della letteratura italiana, sono già realizzati i volumi dedicati a Pier Antonio Quarantotti Gambini, Fulvio Tomizza, Tullio Kezich, con la cura rispettivamente di Daniela Picamus, Patrizia Vascotto, Paolo Quazzolo. 3   Idem, Scritti goriziani 1920-1925, cura e saggio di Pericle Camuffo, presentazione di Edda Serra, Quaderni del Centro Studi Biagio Marin, Pisa-Roma, Serra, 2012.

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edda serra Il tema è presente ripetutamente e a distanza di anni nei Diari, sempre connesso alla dimensione della creatività che permea il pensiero mariniano, nella consapevolezza di un insanabile dissidio fra potere e istituzioni da un lato, e creatività, che è della vita, dall’altro ; ma anche nel rifiuto della retorica. Annunciato già nelle pagine acerbe del Libro di Gesky che si chiude con il rifiuto della letteratura in nome della nuda Verità. 1  



3. La parola no dita lassa largo ’l svodo scandisce i momenti drammatici della vita del poeta : nella vecchiaia per la morte del nipote Guido, suicida, che non aveva saputo ascoltare, al quale lui, poeta, non aveva saputo dire la parola che salva : Sed tantum dic verbum, 2 ed era stato un dolore violento ; « ... e la morte la svola ». La parola non detta qui è segno di morte.  











Sed tantum dic verbum La parola che no’ xe stagia dita e no’ la t’ha salvào e cussì a la morte tu son ‘ndào per la strada più drita. Una parola sola te ’varave salvào la vita ; ma quela boca la xe stagia sita, e la morte la svola. 3  



Molti anni prima era stato sconvolto dalla morte in guerra – una guerra di aggressione – del figlio Falco a 24 anni, sottotenente di artiglieria italiano sul fronte balcanico (1943) : lo aveva educato troppo severamente perché fosse l’erede, l’incarnazione generosa di ideali e progetti ; da qui una serie di quaderni di diario, note e appunti personali sovrapposti e in parte ripetitivi, conservati nel Fondo manoscritti dell’Università di Pavia ; per arrivare infine, alla pubblicazione delle carte del figlio : lettere, carteggi, le sue prime prove letterarie. Esce così in due edizioni distinte La traccia sul mare di Falco Marin per la sua sopravvivenza nella memoria. 4 Per arrivare solo ora alla parola poetica : Sénere colde (1953) a dieci anni di distanza da quella morte, Tra sera e note (1968) a 25 anni di distanza, dove le parole di Falco e del padre in dialogo si scambiano e si fondono. 5 Sono dunque questi i percorsi di Marin, che inducono a riflettere sul senso della sua tanta attività di scrittura prima di arrivare alla poesia, che si esemplifica nella scrittura dei Diari i quali hanno con la duplice ambizione di chiarirsi a se stesso e di liberare l’anima dalle scorie, e di lasciare testimonianza della sua storia di uomo ; per cui i Diari sono prezioso documento da interpretare e studiare, e contestualizzare, da leggere con attenzione per il variare della motivazioni comunicative interne non esplicite. Del resto la scrittura di Marin è quella di un uomo che vive profondamente l’espe 















1   Idem, Il libro di Gesky, a cura di Edda Serra, Quaderni del Centro Studi Biagio Marin, Pisa-Roma, Serra, 2010, presentato nello stesso anno in un ampio convegno dedicato a Marin all’Istituto Italiano di 2   Idem, In memoria, Milano, Scheiwiller, 1978. Cultura a Vienna. 3   Ivi, p. 15 (la xe stagia = è stata; tu son ’ndào = sei andato; te ’varave salvào = ti avrebbe salvato). 4   Falco Marin, La traccia sul mare, Trieste, Artigrafiche Smolars per la Società per la storia del Risorgimento, 1950 ; Idem, La traccia sul mare. Diario e lettere (1936 -1943), a cura di Alfredo Vernier, Milano, Scheiwiller,1966. 5   Si veda : Biagio Marin, Sénere colde, Roma, Il Belli, 1953 ; Idem, Tra sera e note, Milano, Scheiwiller, 1968 ; Edda Serra, I due Marin 1939-1943, in Adriano Sansa et alii, La cultura istriana e fiumana del Novecento, « Resine. Quaderni liguri di cultura », numero doppio monografico, a. xxvi, vol. xcix-c, 2004, pp. 31-64.  











parola mio solo rifugio 17 rienza dei suoi giorni senza defilarsi mai, anzi compromettendosi, perché quella e non altra è la vita che si trova a vivere, a cui è chiamato a dare volto nell’ambito proprio : la vita nella sua complessità, imprevedibile, irrazionale, « distrusona », grande avventura. 1 E questo ci consente di capire meglio il suo impegno politico, in cui c’è ampia traccia anche nei quotidiani e nei fogli politici locali, ma anche nazionali, nei giorni della passione, specie in relazione al dramma della Venezia Giulia nel secondo dopoguerra ; e qui il registro espressivo è logicamente ben lontano da quello poetico, ma anche da quello del prosatore elegante e del memorialista o del saggista. Sono infatti strumenti di lotta per l’intellettuale impegnato che sente vocianamente il peso della responsabilità sociale e civile, e dibatte ed argomenta e risponde ; da posizioni fondamentalmente liberali. Le possibilità di ricerca in questo campo, pur avviata, è enorme. Ma anche in questo caso si tratta di parola che non poteva non essere detta.  











4. Il discorso finora fatto induce ad una breve rassegna nel contesto del convegno organizzato dall’Università di Udine (ottobre 2012), secondo richiesta, delle pubblicazioni più recenti che portano la firma di Marin e degli studiosi che le hanno curate criticamente, distinguendo l’impegno ed i programmi del Centro Studi Biagio Marin, da altre iniziative preziose, che pure contribuiscono a dare un volto più preciso dell’autore, ed erano da tempo attese. L’ordine delle citazioni è dettato dalla data delle pubblicazioni non dalla logica e dalla tempistica della ricerca avviata, riflettono comunque gli indirizzi della ricerca avviata dal Centro Studi Biagio Marin. È nota la funzione di « Studi Mariniani », periodico avviato nel 1991 per il centenario della nascita del poeta con le sue tre sezioni : di saggistica, di presentazione di documenti tra cui carteggi significativi, e di aggiornamento bibliografico ; la serie è completata da alcuni supplementi di contenuto monografico, esaustivi in se stessi, veri e propri volumi. Il periodico dunque fa il punto sulla ricerca intorno a Marin, ed ha anche l’ambizione di presentare agli studiosi delle attuali e delle prossime generazioni nuovi materiali per la riflessione storica sulla realtà culturale e linguistica della regione, oggi profondamente mutata. Accanto a « Studi Mariniani » ci sono i Quaderni del Centro Studi Biagio Marin, pubblicati dallo stesso editore secondo opportunità e necessità editoriali diverse. 2 Importante sul piano scientifico è la pubblicazione del carteggio di Marin con Gino Brazzoduro, Dialogo al confine. 3 Lo scambio epistolare mostra un Marin impegnato a novant’anni a chiarire le motivazioni del suo irredentismo mai rinnegato ad un ben più giovane amico ideologicamente schierato contro e attivo nella rivista bilingue « Most » ; e invita a guardare all’orizzonte del nutrito gruppo degli scrittori italiani di Fiume in dialogo fra loro e con Marin, tra i quali cito solo Paolo Santarcangeli. Altrettanto importante sul piano scientifico è la pubblicazione del Libro di Gesky. 4 È memoria privata, taccuino segreto, di cui gli eredi Marin hanno voluto la pubbli 























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  Biagio Marin, La granda aventura, a cura di Edda Serra, Padova, Panda, 1983.   Dei quattro volumi della serie uno è dedicato a Bianca Dorato, poetessa in dialetto piemontese, a cura di Anna De Simone, un altro è una pregevole antologia di 50 poeti in dialetto delle varie regioni d’Italia in onore di Marin, ricca di note, vera guida sul territorio, ancorché non esaustiva, curata da Anna De Simone, terzo è Il libro di Gesky, ultimo Scritti goriziani 1920-1923. 3   Idem, Gino Brazzoduro, Dialogo al confine, cura e saggio di Pericle Camuffo che vi premette note critiche, storiche e filologiche, presentazione di Edda Serra, Roma-Pisa, Serra, 2009 ; è volume allegato al n. 14 di « Studi Mariniani ». 4   Idem, Il libro di Gesky, a cura di Edda Serra con presentazione e note della stessa, Quaderni del Centro Studi Biagio Marin, Serra, 2010, con riproduzione del manoscritto, seguita dalla trascrizione. 2







18 edda serra cazione, il cui manoscritto è oggi di proprietà dell’Archivio dell’Università di Trieste. Importante in quanto prima prova di diario ancorché segreto dell’autore, ma anche testimonianza acerba delle velleità letterarie del giovane Marin che si commisura con i modelli della narrativa del tempo, confuso eppure determinato infine nel rifiuto della letteratura – e della retorica – e a censurarsi in nome della « nuda Verità ». Non facile da leggere, il libro annuncia comunque il problema della lettura dei suoi Diari, a mio parere non ancora adeguatamente affrontata e alla ‘letterarietà’ della sua scrittura. Dove e quale la finzione letteraria ? Viceversa il libro è prezioso anche perché contribuisce a dare volto a quello che è il mitico mondo di Villa Matilde a lungo presente nei Canti de l’isola : appartiene alla storia di Grado come alla biografia e alla poesia di Marin. Il quale nel Libro di Gesky lascia relativo spazio alle note biografiche vere e proprie, tutt’altro che compromesse nella finzione ‘letteraria’ ancorché poetica, e sui suoi movimenti, che lo vedono più volte a Grado, e altrove, benché il diario, avviato nel 1912 risulti appartenere alla fase viennese della sua biografia ; ci lascia inoltre qualche traccia del suo curriculum scolastico e qualche cenno alla sua temperamentalità. Poche cose preziose in quanto indicative di un momento della sua vita troppo poco documentata, quello della prima formazione, di cui si è parlato a lungo solo attraverso immagini di sintesi diventate araldiche. Il Libro di Gesky è comunque il primo scritto organico in prosa di un certo respiro, da collocare accanto ai Fiuri de tapo (1912), sua prima silloge poetica. 1 Decisamente importante è risultata la pubblicazione del Carteggio Prezzolini-Marin, 2 e non solo per la statura del personaggio Prezzolini di cui Marin è stato amico, ma per il richiamo alla realtà della Voce fiorentina del 1911, cui tutta la letteratura giuliana fa riferimento, da Slataper ai due Stuparich, a Guido Devescovi, ad Alberto Spaini, ma anche Umberto Saba ed Angelo Vivante con Virgilio Giotti più al margine. E mentre le voci di Saba e di Giotti si spegneranno nel 1957, quella di Stuparich nel 1961 lasciando lunga eredità alla città di Trieste, di fatto chiudendo il capitolo primo della letteratura giuliana, mentre sul piano sociopolitico e antropologico si consuma gradualmente la disgregazione non solo istituzionale-amministrativa del territorio, Marin trascina fino alla fine dei suoi giorni la lezione vociana, meglio, prezzoliniana, e sempre più identificato in essa. Non si tratta solo del ricordo celebrato nel lungo carteggio con l’amico, quanto piuttosto di continuità di esercizio della funzione civile dell’intellettuale vociano, fino alla nascita del movimento per Trieste promosso da Manlio Cecovini, quando la lettura critica del presente civile e sociale italiano lo induce per l’ultima volta alla parola pubblicamente pronunciata e scritta (1978). Poi risuonerà nel privato delle conversazioni e dei carteggi, e nel discorso pubblico tenuto a Trieste per la concessione della cittadinanza da parte della città. Ma siamo al 1985 e ogni istanza civile è più che mai fusa con quella religiosa. La lezione della « Voce » impronta con evidenza l’ultimo dei Quaderni del Centro Studi Biagio Marin, che raccoglie tutti gli interventi di Marin firmati o a lui attribuibili su due fogli politici di Gorizia pubblicati nel primo dopoguerra, « La Libertà » e « L’Azione » : Scritti goriziani 1920-1923, a cura di Pericle Camuffo, presentazione di Edda Serra. In ben tredici di questi articoli Marin affronta sistematicamente la problematica della scuola, che ha da essere formativa e creativa, ma anche prende posizione sui rapporti fra Stato italiano e minoranza slovena locale. E ricorda oggi  



























1   In proposito vanno ricordate di Marin le Lettere familiari 1908-1954, a cura di Elvio Guagnini, saggio di Renzo Sanson, Padova-Trieste, Simone Volpato Studio Bibliografico, 2010. 2   Idem, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, a cura di Pericle Camuffo, presentazione di Edda Serra, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011.

parola mio solo rifugio 19 alla città di Gorizia un momento intensamente vociano della sua storia culturale e civile, che fa capo sì all’‘azionista’ Marin, ma ha immediato riferimento, di presenze e di scritti, a Giuseppe Amendola, Piero Gobetti e allo stesso Prezzolini. Siamo negli anni che precedono l’avvento del Fascismo al potere. In questo contesto penso si debba vedere la stessa inchiesta avviata contro l’insegnamento di Marin, la sua vasta attività di animazione culturale, di formazione e di aggiornamento degli insegnanti, e le misurate tracce memoriali da lui lasciate nel volume dedicato alla città, Gorizia appunto (1940). 1  

5. Cito infine alcune pubblicazioni importanti che derivano da un ambito di ricerca autonomo, e documentano più da vicino il senso dello scrivere di Marin i suoi Diari : La pace lontana. Diari 1941-1950, e Vele in porto, Piccole note e frammenti di vita 27 agosto 1946-3 febbraio 1950 : ambedue curate da Ilenia Marin e pubblicate dalla Libreria Editrice Goriziana (leg) rispettivamente nel 2005 e nel 2012, hanno un saggio di postfazione di Elvio Guagnini, il secondo una nota di Gianni Cimador, e provengono dal Fondo Marin dell’Archivio dell’Università di Trieste. Ci danno il volto di Marin del secondo dopoguerra, che si misura con la realtà politica e sociale oggi non ancora adeguatamente storicizzata. I due libri andrebbero divulgati e conosciuti meglio, e ancora prima collocati entro un piano editoriale omogeneo di larga scala. Perché documento : non solo della vita e delle istanze del poeta, ma della storia di un’intera regione. Ancora una citazione va fatta, il volume curato da Marco Giovanetti Le due rive. Reportages adriatici in prosa e in versi, nelle edizioni Diàbasis, 2007, con presentazione di Elvio Guagnini, che rappresenta una ricca antologia di scritti in prosa e versi di Biagio Marin prodotti tra la fine degli anni quaranta e la fine degli anni sessanta, alcuni ben noti, nata entro la pluriennale ricerca dell’Università di Trieste sulla letteratura di viaggio. L’antologia, composta per l’occasione, rappresenta pur bene l’animo di Marin, aperto alla realtà adriatica di scambio e di dialogo, ad onta della conflittualità sperimentata nel corso del secolo, e convinto della dimensione europea della nostra cultura ; ne esce notevolmente attenuata la drammaticità della situazione che aveva portato l’autore alle Elegie istriane e agli scritti di battaglia civile degli stessi anni. Sempre del decennio da poco concluso è poi la ristampa nel 2004 di Gabbiano reale. Prose rare ed inedite, che aveva visto la luce per la leg nel 1991: splendida antologia di scritti di varie epoche e di impostazione diversa risalenti agli anni trenta-sessanta, di cui unificante è la soggettività dell’ autore: ha prefazione e nota di Elvio Guagnini che ne ha curato la scelta, e in appendice l’ aggiornamento bibliografico curato da Francesca Scarpa, mentre Pericle Camuffo rivedeva radicalmente la bibliografia della critica su Marin pubblicata in «Studi Mariniani», n. 11 (2005). La ristampa di Gabbiano reale risponde ad una felice intenzione divulgativa essendo inserita come n. 19 nella collana della Biblioteca del Piccolo, Trieste d’autore, curata dallo stesso Elvio Guagnini. Il volume dà ragione della misura del prosatore come narratore e come memorialista, come evocatore di situazioni e paesaggi, distanziandosi dalle prose a noi più note, di Grado, l’ isola d’ oro (1934) e Gorizia (1940, 1956). Del tutto nuova ed autonoma è invece la pubblicazione delle Lettere a Elena Lokar, a cura di Remo Faccani, Trieste, Mladika Editore, 2003. Le lettere di Marin sono precedute da una puntuale sezione di studi introduttivi in cui spiccano la Prefazione di  







1   La pubblicazione di Scritti Goriziani 1920-1923, e già prima quella del carteggio Marin-Prezzolini rappresentano anche il frutto di una collaborazione preziosa con i rispettivi archivi, quello della Biblioteca Statale Isontina e, in particolare, quello dell’ Archivio Prezzolini di Lugano, diretti rispettivamente da Marco Menato e da Diana Rüesch.

20 edda serra Remo Faccani e un ricordo intenso e critico di Alessio Lokar. La destinataria della corrispondenza (1963-1977) è la nipote di quella Mercedes Bianchi quattordicenne, di cui Marin ragazzo si era innamorato a Gorizia. Un ritratto di Mercedes c’è in Gorizia, a lei Marin accenna nel Libro di Gesky il giorno che sa che va sposa (1912); le lettere sono conseguenti alla morte di lei in terra lontana, e confermano l’idealizzazione di quel primo amore perdurante negli anni. Dal contributo di Alessio Lokar apprendiamo che Marin e Mercedes si erano incontrati anziani, ciascuno carico della lunga diversa esperienza personale. Ma l’intervento di Alessio Lokar che inquadra Marin secondo un’ottica nuova, interessa in quanto già avviato all’analisi dei rapporti del poeta con il mondo slavo, quello sloveno nel caso specifico: su tale ambito di ricerca aperto con la pubblicazione del già citato carteggio Brazzoduro – Marin, Dialogo al confine il csbm si propone di proseguire, avendo a cuore il superamento di ogni dissidio proprio dei costruttori di pace. In conclusione l’attività editoriale relativa a Marin prosatore risulta decisamente ricca, tanto più se si tengono presenti anche i Supplementi degli Studi Mariniani in cui sono presentati al pubblico degli studiosi nella loro schiettezza filologica parte dei documenti a firma del poeta di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia: Autoritratti e impegno civile (2007), e Paesaggi, storia e memoria (2008). Si tratta di prime redazioni di testi di vario genere e destinazione, prevalentemente giornalistici, elzeviri, di cui non risulta traccia nei repertori bibliografici esistenti, o risultano irraggiungibili, la cui mancanza lascerebbe incompleto il profilo del poeta. Ma se la quantità di pubblicazioni possono anche dirci la fortuna dell’ autore, a noi preme rilevare che le pagine in prosa, in particolare i Diari, costituiscono momento necessario dell’itinerarium mentis et cordis, cioè di quell’“intimo viaggio” che si fa “parola” e canto.

« MIO FAVELÂ GRAISAN » : I FILI DELLA POETICA DI BIAGIO MARIN  

Giampaolo Borghello Oh ! lásseme cantâ, son solo una sigala, e per duta l’istà canto solo co’ l’ala. Un monotono crìo che intrisa ’sielo blu, ma xe ’l recordo mio che se leva per tu. Biagio Marin  

L

’im magine dei fili tende a ricercare e porre in evidenza rimandi, collegamenti, riscontri, verifiche, ma anche tensioni e contraddizioni nell’elaborazione e nel dispiegamento della poetica di Biagio Marin. Al centro dell’attenzione si colloca necessariamente il volume di prose Parola e poesia, 1 amorosamente e strategicamente ‘montato’ da Elvio Guagnini, uno dei più autorevoli studiosi del poeta gradese. Credo sia opportuno individuare preliminarmente una serie di ‘tasselli’ che vanno a costituire di fatto il contesto determinante delle riflessioni di poetica di Marin. È importante sottolineare il vigoroso e qualificante nutrimento teoretico-filosofico della cultura e della poetica mariniana : si tratta di un riferimento che, in qualche modo, individua e isola l’esperienza del poeta rispetto al quadro del nostro Novecento letterario. La ricca e sottile cultura propriamente letteraria di Marin rimane implicita : essa investe, in sostanza, il momento pur decisivo della formazione ; ma lungo il complesso iter della riflessione di poetica del volume Parola e poesia, lungo un arco che dagli anni ’50 arriva alla fine degli anni ’70, colpisce la prevalenza dei riferimenti di natura filosofica. È dunque un problema di equilibrio interno. Anche dal punto di vista linguistico-stilistico la passione e l’urgenza teoretiche segnano il cammino complessivo di Parola e poesia. Le grandi domande esistenziali dello stesso poeta, lungo l’arco della sua intensa esperienza (da Fiuri de tapo del 1912 ad A sol càlao del 1974), investono, fatta salva la raffinata mediazione letteraria, questo orizzonte tipicamente speculativo. 2 Il background fondamentale della ricerca culturale e filosofica del poeta è certo costituito da un profondo sostrato neo-idealistico, crociano più che gentiliano. 3 Questo retroterra so 











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  Biagio Marin, Parola e poesia, con un’introduzione di Elvio Guagnini, Genova, Editrice Lanterna, 1984. 2   Il vivo interesse spiccatamente filosofico di Marin è riconfermato dall’illuminante carteggio tra il poeta e lo scrittore triestino Giorgio Voghera : cfr. Biagio Marin, Giorgio Voghera, Un dialogo, a cura di Elvio Guagnini, Trieste, Provincia di Trieste, 1982. 3   È opportuno peraltro ricordare che Marin, allievo di Giovanni Gentile, si era poi laureato in Filosofia all’Università di Roma nel 1918 ; cfr. anche Biagio Marin, Gabbiano reale, Gorizia, Editrice Goriziana, 1991, pp. 89-91. Sull’influenza della filosofia gentiliana sul poeta cfr. Edda Serra, Biagio Marin, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. 43 sgg. ; Anna De Simone, L’isola Marin, Torino, Liviana-Petrini, 1992, p. 81 sgg. e p. 90 sgg.  





22 giampaolo borghello prattutto crociano assume una precisa funzione di guida e bussola : gli stessi costanti rinvii alle formulazioni di Croce assumono nelle pagine di Parola e poesia il valore di una rassicurante conferma, non senza qualche coloritura dogmatica. Ferma resta invece, ad esempio, la drastica ripulsa di ogni forma di materialismo. Accanto alla presenza di questa intelaiatura filosofica dobbiamo segnalare il ricorrente riferimento a una tematica e a un linguaggio religiosi. Nonostante i continui rinvii e le costanti citazioni dai Vangeli e dai Padri della Chiesa, lo sguardo e la tensione del poeta di Grado vanno nella direzione di una religione sub specie aeternitatis, universale, quasi metaforica, respirata nel magico mondo marino e insulare di Grado ; l’afflato ideale può riunire dunque Platone, S. Agostino o Krishnamurti. La configurazione religiosa scorre lungo un piano parallelo a quello filosofico, anche se si tratta certamente di una ‘posizione’ più appartata, meno rilevante. In uno snodo-passaggio di viva rilevanza culturale ha scritto il poeta :  





Gesù stesso l’aveva pur detto a Nicodemo, e Gesù stesso, nel turbamento per la resistenza che lo fa soffrire, rivela la ragione profonda, mistica di essa, quando dice : « Niuno può venire a me se il Padre che mi ha mandato nol tragga ». E illustra questa sua intuizione della più profonda verità, con le parole della Bibbia : « Sta scritto nei profeti : ‘E saranno tutti ammaestrati da Dio. Ogni uomo dunque’ ». Egli aggiunge : « Chi ha udito il Padre ed ha imparato da lui, viene da me ». (Non dicevano gli antichi che poeta nascitur ? Non siamo anche qui sullo stesso piano ?). Passo questo decisivo alla comprensione non solamente del Vangelo, ma di tutta l’economia dello Spirito. Solo chi è stato iniziato dal Padre, chi viene alla vita per il tramite di questa misteriosa e ineffabile iniziazione, può intendere la parola del Figlio. Spogliate questo dramma dai modi di dire religiosi, e lo troverete confermato, tale e quale, nella sostanza delle dottrine moderne dell’arte. 1  

























In questo contesto una ardita e pur metaforica definizione di Marin come ‘poeta-filosofo’ riesce a identificare e a fotografare la particolare posizione dell’autore nel quadro dei percorsi culturali della poesia del Novecento, in lingua e in dialetto. Ha scritto efficacemente Claudio Magris : « La bruciante tensione del linguaggio, che abolisce ogni distinzione fra poesia e filosofia, mito e concetto, si protende ad afferrare con amore la vita dell’essere ». 2 L’approccio alla poetica di Marin (come emerge dal libro Parola e poesia) può avvenire costruttivamente tra i due opposti poli della definizione della qualità della prosa mariniana, proposta da Mario Fubini, e di una polemica e pur acuta notazione di Pier Vincenzo Mengaldo. Ha scritto Fubini :  









[…] avrei potuto citare molti altri passi di prosa italiana, da quel libro su Gorizia ma anche da quello su Grado e da quello su Slataper, poiché il Marin scrittore di prosa italiana, anzi dico subito Marin poeta in prosa italiana, non è fondamentalmente diverso dal Marin poeta in dialetto gradese. A me almeno quelle pagine di prosa hanno rivelato molto della natura poetica di Marin, « quidquid tentabam dicere versus erat » : non sono le sue, anche se ne hanno l’intento, pagine paesistiche o memorialistiche o critiche. Nel loro breve taglio i capitoli di quei libri sono veri e propri poemi in prosa. 3  







1

  Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 49.   Claudio Magris, Io sono un golfo, introduzione a Biagio Marin, Nel silenzio più teso, a cura di Edda Serra, Milano, Rizzoli, 1980, p. 14. Cfr. anche Luciana Borsetto, La poetica di Biagio Marin, « La Rassegna della letteratura italiana », 3, 1974, pp. 456-466. 3   Mario Fubini, Presentazione di Biagio Marin, « Settanta », 8, 1970, pp. 60-64 ; ora in Mario Fubini, Foscolo, Leopardi e altre pagine di critica e di gusto, a cura di Davide Conrieri, Piero Cudini, Riccardo Fubini, Mario Scotti, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992, t. ii, pp. 754-765 (la citazione è alle pp. 756-757). 2











‘ mio favelâ graisan ’ : i fili della poetica di biagio marin

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Ha scritto d’altro canto Pier Vincenzo Mengaldo :  

Storicamente la sua posizione è giusto a cavallo fra la poesia dialettale dei primi decenni del secolo, ancora dominata dai grandi dialettali metropolitani, e quella più recente che ha visto l’affacciarsi alla poesia (Guerra, Pierro, Pasolini stesso ecc.) di dialettali marginali di piccole comunità, con scarsa o nulla tradizione letteraria : anche se della peculiarità del suo mezzo Marin, legato all’estetica idealistica, si mostra poco cosciente […]. 1  



Ho parlato precedentemente di « due opposti poli » per definire e in qualche modo siglare le osservazioni di Fubini e di Mengaldo : si tratta di due posizioni eterogenee (nell’impianto, nelle finalità operative e nelle intenzioni) e apparentemente opposte. In realtà lo spazio, che questi due interventi aprono, costituisce un invitante e utile terreno per una aperta e attenta riconsiderazione proprio dei fili della poetica di Marin. 2 Ouverture musicale ma anche sofferta testimonianza di poetica è costituita dalla prima pagina del volume, Il mio linguaggio, essenziale Introduzione alla prima edizione de I canti de l’isola3 del 1951, in seguito non più ripresa nella seconda e più ampia edizione del 1970 (che presenta anche le poesie del periodo 1957-1969). 4 La prosa Il mio linguaggio, anche dal punto di vista della passione e dello stile, si lega molto strettamente alla poesia Mio favelâ graisan, simmetrica ouverture della sua opera poetica, anche rispetto alla scansione delle singole raccolte di poesia e dei grandi volumi complessivi. Al centro del testo in prosa (e anche della lirica) è la tesa e raccolta individuazione delle linee e del profilo del mondo poetico di Grado, della sua parlata, della sua gente povera e laboriosa, nella lucida e asciutta percezione che il momento dell’‘evocazione’ dell’isola è quasi paradossalmente quello dell’uscita dall’isolamento e dell’inizio della fine. Questo quadro limpido e sereno viene in qualche modo squarciato :  











Mondo umanamente povero, ma di vasti orizzonti di mare e di cielo, che, nell’infanzia, io vissi con violenza. Il suo possesso doveva significare possesso della parola per esprimerlo ; perciò il linguaggio della mia gente si fuse e si confuse per me con esso, in un’unica realtà. 5  



1   Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. 502. Cfr. anche Fernando Bandini, Osservazioni sull’ultima poesia dialettale, « I problemi di Ulisse. Poesia e non poesia », fasc. lxxi, 1972, pp. 127-135, in part. pp. 128-130 ; Franco Brevini, Le parole perdute, Torino, Einaudi, 1990, pp. 239-240 ; Anna De Simone, L’isola Marin, cit., pp. 220-221. 2   Elvio Guagnini, nella sua densa e illuminante Introduzione al volume Parola e poesia, ha voluto chiarire le ragioni storico-culturali e strategiche che lo hanno guidato nell’individuazione e nella scelta delle pagine mariniane da proporre. Il critico, chiarendo anche i nuclei tematici fondamentali del libro, ha proposto in modo lineare e convincente un piano di lettura del testo e delle sue parti. Ulteriori riscontri sulla dinamica interna del denso volume di Marin possono procedere lungo le coordinate e le prospettive individuate da Guagnini. 3   Biagio Marin, I canti de l’isola, Udine, Del Bianco, 1951. L’importanza del volume del 1951 appare, nello scorrere dei decenni, in vita e in morte del poeta, sempre più rilevante. Di fatto, come è stato più volte osservato, il libro costituisce una vera svolta nel riconoscimento del ruolo e della presenza di Marin nel quadro della poesia italiana del Novecento. Cfr Elvio Guagnini, Scritti critici su Biagio Marin : cronaca essenziale 1912-1972, in appendice a Biagio Marin, El vento de l’Eterno se fa teso, a cura di Edda Serra ed Elvio Guagnini, Milano, Scheiwiller, 1973, pp. 523 e sgg. ; Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, cit., pp. 503-505 ; Fabio Todeschini, Biagio Marin : poesia di una vita, « L’Approdo letterario », n. 30, 1965, pp. 59-64 (poi in Poesia e fortuna di Biagio Marin. Antologia della critica a cura di Edda Serra, Gorizia, Provincia di Gorizia, 1981, p. 91) ; Cesare Galimberti, Biagio Marin, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di Vittore Branca, Torino, utet, 1986², vol. iii, p. 79 ; Poeti dialettali del Novecento, a cura di Franco Brevini, Torino, Einaudi, 1987, pp. 111-116 ; Anna De Simone, L’isola Marin, cit., p. 174. 4   Biagio Marin, I canti de l’isola (1912-1969), Trieste, Lint, 1970. 5   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 15. Cfr. precedentemente Biagio Marin, I canti de l’isola, Udine, Del Bianco, 1951, p. 7.  

























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giampaolo borghello

Le istanze-dimensioni, passionalmente espresse, della « violenza » e del « possesso » marcano questo nuovo rapporto con la realtà, aprono l’orizzonte verso le concrete e autobiografiche pulsioni del fare poesia, nel corso del tempo. Con tesa e assoluta lucidità Biagio Marin trae le conseguenze di questa stretta e di questa scelta :  









Sapevo bene che cosa significasse rimanere in quei limiti – mondo piccolo di pescatori sperduti su un breve dosso di sabbia tra mare e laguna, isolato da secoli, – ma la mia interiore necessità, ma il mio amore, non mi permisero una scelta. Io sarei stato la voce della mia isola, di Grado, e nulla altro, anche a costo di non venir letto. E questo ho fatto : questi versi ne sono il documento. 1  



Nella lirica Mio favelâ graisan, intessuta di valore proemiale e delicatamente programmatico, il poeta lega la linea di tradizione familiare della parlata gradese alla nitida e serena evocazione del paesaggio lagunare (la palude, le onde, i gabbiani) 2 e del piccolo borgo di pescatori (le calli, i campielli, le barche). Il dolce idioma, appreso dalla bocca della nonna, si fa nei modi più delicati, messaggero e interprete degli eventi lieti e dolorosi dell’esistenza, lungo un iter sereno che, anche in una dimensione quotidiana, lo consacra a Dio. Il dittico prosa-poesia Il mio linguaggio - Mio favelâ graisan introduce, nel modo più dinamico, il motivo dell’ ‘insularità’. La scelta da parte del poeta di un titolo come I canti de l’isola sia per l’edizione udinese del 1951 che per quella triestina del 1970 assume il valore di una esplicitazione e di una consacrazione di una decisa linea poetica, anche nella prospettiva di un duplice e sereno bilancio. Ma questa scelta significativamente si ripeterà, nel segno di una fedeltà che è anche crescita, anche per la nuova edizione complessiva del 1981, quando Marin raccoglierà sotto lo stesso titolo tutte le raccolte che coprono l’arco 1970-1981. 3 Questa ricorrente scelta tematica e stilistica di Marin involve naturalmente le grandi e cicliche questioni critiche e metodologiche della ‘dimensione’ dell’opera del poeta, anche nella sua scansione quotidiana, nella poetica di un sempreverde ‘esercizio’ 4 e quello (parallelo) della nozione e dello strumento ‘antologia’. Ma la fedeltà al titolo e il richiamo affettivo e culturale alla dimensione dell’insularità implicano anche la ripetuta e sempre esplicitata adesione al grande quadro, antico e nuovo, della poesia in dialetto. La singolarità della posizione di Biagio Marin è sottolineata anche dalla particolare ‘presenza’ nel lungo percorso della lirica italiana del Novecento. Per ventura d’anagrafe e per fedeltà alla creazione poetica, il poeta gradese (come Umberto Saba) ha attraversato l’arco del Novecento. Marin sa bene quel che succede intorno (opere, autori, correnti, movimenti, riviste, polemiche) ma apparentemente si isola nel suo mondo, non si contamina con l’esterno, vive in modo personale, teso e appassionato  





1   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 15. Cfr. anche Biagio Marin, Discorso sulla poesia tenuto a Capodistria il 3 Febbraio 1968, in appendice a Biagio Marin, Tra sera e note, Milano, Scheiwiller, 1968, in part. pp. 114-115. 2   Ha scritto Claudio Magris : « La laguna è anche quiete, rallentamento, inerzia, pigro e disteso abbandono, silenzio in cui a poco a poco s’imparano a distinguere minime sfumature di rumore, ore che passano senza scopo e senza meta come le nuvole ; perciò è vita, non stritolata dalla morsa di dover fare, di aver già fatto e già vissuto – vita a piedi nudi, che sentono volentieri il caldo della pietra che scotta e l’umido dell’alga che marcisce al sole » (Claudio Magris, Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, p. 60). 3   Biagio Marin, I canti de l’isola (1970-1981), Trieste, Lint, 1981. 4   Marin ama ricordare spesso la felice espressione del poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez « Amor y poesia, cada día » ; cfr. ad es. Biagio Marin, El fogo del ponente, Venezia, Neri Pozza, 1959, p. 7. Cfr. inoltre Bruno Maier, La letteratura triestina del Novecento, Trieste, Lint, 1969, pp. 171 e 181.  













25 ‘ mio favelâ graisan ’ : i fili della poetica di biagio marin il rapporto stesso tra lirica in lingua e lirica in dialetto, nel lungo e tortuoso percorso del ventesimo secolo. Anche da questo punto di vista il volume Parola e poesia costituisce un efficace ‘spaccato’ della riflessione mariniana. Alla radice della nozione mariniana di poesia c’è il riconoscimento, deciso e passionale, della natura assolutamente spontanea, libera e istintiva della creazione poetica. Si tratta quasi di un riflesso ancestrale, un rimando istintivo alla spontanea vena di Marin e al suo ancoramento spirituale all’orizzonte e al paesaggio di Grado (tra sole, mare, nuvole, onde). In questa idea di poesia gioca naturalmente anche una suggestione metafisicoreligiosa nel riconoscimento della ‘divinità’ dell’ispirazione. Da questi radicatissimi ed esibiti presupposti muovono una martellante polemica contro ciò che, di volta in volta, si contrappone a questa natura spontanea, istintiva, naïve del fare poesia : si può trattare di ‘maniera’ (contrapposta a ‘stile’), di tecnica, di ornamenti retorici, di sostrato intellettuale, di ‘letteratura’ (crocianamente opposta a ‘poesia’). 1 Osserviamo queste due situazioni esemplari. A proposito del rapporto tra forma e materia scrive Marin :  







E il Vico ci ha parlato della natura essenziale fantastica della poesia, e dell’origine spontanea del linguaggio come creazione d’immagini onde poesia e linguaggio coincidono e storia della lingua e storia della poesia sono in realtà una sola cosa la negazione della distinzione classica tra forma e materia. Ripeto : « la negazione » della distinzione classica tra forma e materia. Questo fatto, della separazione tra forma e materia, doveva avere per conseguenza una grande confusione concettuale sulla poesia, intesa come una realtà diversa dell’arte, una materia grezza che spettava all’arte di nobilitare. Da qua uno stato d’animo di diffidenza che ancora perdura, per la letteratura dialettale considerata rozza o minore, esclusa dall’arte. 2  







E, a proposito del grande tema del rapporto tra spontaneità e coscienza nella poesia, scrive ancora Marin :  

Diceva il De Sanctis che il grande vero Dante dobbiamo cercarlo fuori della sua coscienza, nella ‘spontaneità dell’ispirazione’. « Quando il suo animo si commuove, Dante getta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche – prevalentemente latine, ma anche provenzali – e ubbidisce alla ispirazione ». Ecco una antitesi moderna alla posizione del De Sanctis : è una citazione di parole di Valéry fatta da Marcel Raymond nel suo libro Da Baudelaire al surrealismo : « Preferirei infinitamente scrivere in perfetta coscienza e in una lucidità integrale qualcosa di debole anziché partorire in trance e fuori di me stesso un bellissimo capolavoro ». Si tratta di un paradosso da non prendere sul serio. Dicevano gli antichi che « quando quoque dormitat Homerus » che significa che qualche volta anche i grandi scrivono sciocchezze. E aggiunge a commento il Raymond : « Procedimenti stilistici, figure, metafore (qualsiasi virtù miracolosa si abbia il diritto di attribuire ad essi) restano sempre se ricercati coscientemente, i processi appartenenti più all’ordine umano della retorica che all’ordine sovrumano della poesia ». La vera musa, il « deus in nobis » del poeta, è la fantasia, che è attività spontanea e non riflessa ed è essenzialmente organica, per cui le creazioni non hanno bisogno di aggiunte. Lo stesso Leopardi, pur educato nella tradizione formale dei classici, proclamava : « Il danno dell’età nostra è che la poesia si sia ridotta ad arte ». 3  

































Sono due pagine esemplari anche per la ricostruzione e l’analisi del metodo di Marin. Nell’allineamento, nella strategia e nella discussione stessa delle citazioni e dei rimandi, esiste, da parte del poeta gradese, un procedimento fortemente soggettivo, 1

  Cfr. ad es. Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 25 sgg.   Ivi, p. 24. Le sottolineature sono dello stesso Marin. 3   Ivi, pp. 28-29. Le sottolineature sono sempre dello stesso Marin. 2

26 giampaolo borghello quasi autobiografico, emotivo, nobilmente tendenzioso. L’afflato dialettico spinge a ricercare pezze d’appoggio o baluardi di difesa nello spazio e nel tempo, senza minute e ritardanti scansioni storicistiche. È di grande efficacia argomentativa ma anche stilistica il ricorrente procedimento di schieramento pro e contro, di triangolazione oppositiva, di precipua dinamica di scontro. Ubbidendo al fascino di questo stilemetodo di Marin si potrebbe quasi parlare arditamente di « tecnica del rampino ». 1 In serena lucidità è ben viva nel poeta gradese la convinzione del significato e dei limiti del proprio sforzo di lettura e di ricerca. In una conferenza sul tema Di alcuni caratteri della poesia, tenuta il 15 Febbraio 1950 al prestigioso Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, il poeta gradese affermava :  







Non penso di dire, di poter dire cose nuove, e perciò mie ; di mio non ci sarà che la sottolineatura e l’accostamento di parole altrui. Ma forse basterà questo, per enunciare il problema che questa sera vogliamo discutere. 2  



Nelle formulazioni mariniane, nell’impostazione, nella dinamica delle argomentazioni, nella scansione dei giudizi anche circoscritti, sono facilmente individuabili la piena contiguità e la sovrapposizione della poetica mariniana con l’estetica crociana. Ma non si tratta, io credo, di un’adesione acritica o fideistica, ma dello spontaneo accostarsi da parte del poeta di Grado a un mondo teorico che viene presentato, accettato e utilizzato in termini universalistici, sub specie aeternitatis : nella accesa e commossa scrittura mariniana sembra che le formulazioni di Benedetto Croce si levino spontaneamente e serenamente dalla laguna, dai canali, dai gabbiani, dalle onde, dal mondo poetico stesso dell’autore. Si tratta naturalmente di un gioco di angolazioni e di rifrazioni : ma il contesto e il sapore stesso dell’adesione mariniana assicurano il particolare spessore culturale e morale, in qualche modo anche storico, di questo ‘accostamento’. 3 È sintomatico tra l’altro che, nel riaffermare la distinzione/negazione del rapporto tra forma e materia, Marin colga l’occasione per ribadire la sua difesa/apologia della « letteratura dialettale ». Nel secondo brano citato Marin riproponeva alcune parole di Paul Valéry (attraverso la mediazione del saggio di Marcel Raymond). Nella dislocazione e nella rilettura dei testi e degli autori operata dal poeta gradese colpisce la drastica opposizione che si viene a creare nei fatti (più che nelle intenzioni) tra una linea De Sanctis-Croce (che Galvano Della Volpe avrebbe definito ‘romantico-idealistica’) e una presenza squisitamente novecentesca come quella di Paul Valéry (autore peraltro stimato e amato da Marin). Anche in questo caso la ‘scelta’ di Marin sembra quasi, pur allusivamente, ribadire la sua particolare ‘estraneità’ a un centrale percorso della lirica europea del Novecento. Sintetizza al meglio questa concezione antiletteraria della poesia e un particolare radicamento nell’universo e nei colori dell’isola la celebre lirica di Marin A me de l’arte :  











A me de l’arte no’ me ’nporta un corno, no’ stago a lussidâ le piere dure : me piase i nuòli in siel che i gira intorno portài da l’estro de le bave pure.  

1

  Cfr. Giambattista Marino, Lettera a Claudio Achillini del Gennaio 1620, in Giambattista Marino, Lettere, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966, p. 249. 2   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 53. 3   Lo stesso tipo di accostamento alle pagine crociane e gentiliane ritroviamo nel prezioso volume Biagio Marin, Giorgio Voghera, Un dialogo, a cura di Elvio Guagnini, cit.

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Me piase vilisâ sul mar co’ ’l vento, co’ vele in crose, opur a mesa nave ; se ’l caso vol, magari controvento, ma sempre navegâ su l’aque biave. Me amo ’l sol, quel coldo de l’istàe, la primavera mata incòra zerba, i omini de genio sensa etàe, la poesia che nasse comò l’erba. 1  



L’insofferenza mariniana per gli aspetti tecnici, mediati, riflessivi del fare poesia, per certi versi, rimanda alle canoniche distinzioni-opposizioni tra poesia e non poesia di netta derivazione crociana : ma il discorso sulla poetica di Marin non può ridursi a questo schema. C’è alla radice della sua insofferenza una nozione ‘spontaneistica’ di poesia che recupera e riconferma un diverso retroterra culturale e ideologico. È particolarmente significativo ed emblematico di una certa Stimmung il costante riferimento alla nozione di « stato di grazia ». 2 Da questo punto di vista, carica di valenze personali e autobiografiche è la ricorrente citazione del dialogo platonico Jone. Ha detto Marin :  









Ricordo ancora la profonda commozione con la quale, ancora giovane, lessi la pagina dello Jone platonico riguardante i poeti e la poesia. Dice dunque Socrate : il poeta è cosa leggera, alata, sacra ; e a niente egli è buono, se innanzi non è ispirato da Dio e non è in furore e non è la mente pellegrina da lui ; imperocché insino a tanto che alcuno ha le potenze sue, non può poetare e vaticinare… E però Iddio, togliendo loro la mente di loro si giova come di ministri : … acciocché noi, udendoli, ci avvediamo che non essi dicono così mirabili cose, i quali son fuori di mente, ma sì l’istesso Dio, il quale per la loro bocca parla a noi… 3  









Più avanti, sintetizzando e chiosando il pensiero platonico, il poeta di Grado afferma :  

Che cosa dice Platone ? 1) che non per arte, cioè non per una virtù acquisibile, il poeta poetizza, ma per virtù celestiale che lo muove ; 2) che il poeta è ministro e interprete di Dio ; 3) che la poesia non è prodotto umano, ma è cosa divina ; 4) che vi è una frattura insuperabile, tra l’opera della mente umana e lo stato d’ispirazione, che fa di un uomo un poeta. Anzi, che c’è antitesi, fra ‘mentalità’ e ‘poeticità’, fra ‘mente’ e ‘poesia’. 4  









La ribadita contrapposizione tra poesia e nucleo intellettuale, tra lirica ed elemento razionale, è in qualche modo solo l’anello terminale di un processo che riconosce ed esalta la divinità dell’ispirazione, il valore sacrale del fatto poetico. La funzione del poeta diventa conseguentemente quella di un mediatore, che sa trovare contenuti e accenti solo quando è ispirato dalla divinità, dall’ente supremo. Suggestivo e carat1   Biagio Marin, Dopo la longa istàe, Milano, Scheiwiller, 1965, p. 17 [ora in Biagio Marin, I canti de l’isola (1912-1969), cit., p. 682]. Cfr. anche Bruno Maier, La letteratura triestina del Novecento, cit., pp. 167169 e Luciana Borsetto, La poetica di Biagio Marin, cit., pp. 463-464. 2   Cfr. Anna De Simone, L’isola Marin, cit., p. 223 sgg. ; Luciana Borsetto, La poetica di Biagio Marin, cit, p. 457 ; Luciana Borsetto, L’ultimo Marin di ‘A sol calào’, « Il lettore di provincia », 25-26, 1976, in part. p. 49. 3   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 53. Le sottolineature sono dello stesso Marin. Sul ricordo della 4   Ivi, cit., p. 54. prima lettura dello Jone cfr. anche ivi, p. 46.  







28 giampaolo borghello terizzante è dunque il rinvio di Marin a queste formulazioni platoniche, sganciate da ogni riferimento limitante a una particolare religione rivelata, che si configurano quasi come ‘archetipi’ di una cultura. La poesia è quindi un dono selezionato e selezionante, non acquisibile attraverso lo sforzo umano. Il poeta è un sacerdote. Ancora una volta Marin piega a fine personale rinvii e citazioni, cercando conferme alla sua linea anche in partibus infidelium (Bacone, Leopardi, Théophile Gautier). Anche da questo tessuto di nozioni scaturiscono le idee di ‘genio’ e di ‘stato di grazia’. 1 Ha osservato Marin :  



Nessuna collettività può essere persona, afferma il Berdjaev. Le persone collettive sono pure illusioni. E infatti una collettività non può produrre valori originali, non può creare. D’altro canto abbiamo visto che la realtà della persona è condizionata dall’ispirazione, o come lo stesso Croce ha detto, dalla grazia. E sul valore di questa parola desunta dalla tradizione religiosa non vi può essere dubbio. La persona è creata da l’unione misteriosa tra l’uomo finito e lo Spirito infinito – o religiosamente parlando – tra l’uomo e Dio. In questa sintesi quindi consiste la grazia, questa sintesi condiziona l’avvento nella storia di ogni e qualsiasi valore. 2  

Con un raro riferimento alla contingenza storica (siamo all’inizio degli anni Cinquanta) il poeta di Grado dirà :  

Noi limitiamoci, in questi tempi calamitosi in cui ancora una volta si pretende di subordinare al mondo l’eterno, gli uomini della grazia agli uomini della potenza, a ricordare l’altissima dignità della poesia, sia essa poesia di immagini o poesia di concetti, e rivendichiamo nella nostra coscienza i suoi attributi di spiritualità, di creatività, di libertà, di realtà, di verità, di valore. 3  

Da questo cruciale passo si possono dipartire varie linee storico-ideologiche che percorrono l’intero volume Parola e poesia : innanzitutto le implicazioni e i risvolti del rapporto individuo-società. Animosamente contrario a ogni forma di egualitarismo, in ogni tipo di orizzonte politico, Biagio Marin concentra la sua attenzione e la sua partecipazione sulla dimensione libertaria e ‘liberante’ dell’individuo. Il poeta, nel suo ‘divino’ e libero procedere, rappresenta in modo esemplare l’individuo che si erge contro ogni tipo di conformismo e contro ogni tipo di subordinazione. La società, agli occhi di Marin, appare spesso nelle sue vesti di livellatrice e quasi di oppressore. Afferma il poeta :  



Se la legge della persona è la libertà creatrice, la legge fondamentale che regola il rapporto tra gli individui e la società umana, è, nella sua esteriorità, il conformismo e l’obbedienza a questa legge è la massima virtù degli uomini. Ecco qui nuovamente sorgere nella storia il cozzo tra la legge della creazione libera e quella che esige il conformismo, il rispetto ai valori stabiliti. 4  

E nella conferenza Di alcuni caratteri della poesia Marin proclama risolutamente e orgogliosamente :  

Lotta eterna e tragedia sempre incombente tra lo spirito creatore e ogni e qualsiasi società. Lo spirito crea, per l’umanità, ma non per le società, che hanno fini precisi e limitati, spesso 1   Sul problema della grazia cfr. Marin racconta se stesso in Biagio Marin, Le litanie de la Madòna, Vicenza, La Locusta,1981, pp. 43-50 e cfr. Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 96 (a proposito di Saba). 2   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 45. 3   Ivi, p. 60. La conferenza Di alcuni caratteri della poesia fu tenuta il 15 Febbraio 1950 al Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste. Sulla situazione e sull’atmosfera a Trieste in quegli anni cfr. Elio Apih, Trieste, Roma-Bari, Laterza, 1988 e Giampaolo Valdevit, Il dilemma Trieste, Gorizia, Editrice Goriziana, 4   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 45. 1999.

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miserabili. La poesia è costruzione del mondo dello spirito, fuori di ogni tempo, e i poeti, a differenza di tutti gli altri uomini, come i ‘santi’ vivono nel mondo, ma non sono del mondo, come ci ha giustamente detto recentemente il Padre Trappista Merton, un poeta americano. La vecchia antitesi cristiana tra mondo e ‘regno dei valori’ è sempre valida. E i valori, nessuna organizzazione al mondo è capace di crearli, nessuna : il valore è l’attributo esclusivo della persona individua. 1  



Nella sua passione antistoricistica e antideterministica Marin va ancora più in là :  

La società non vuol riconoscere a nessuno uno stato originario di dignità, e pretende di sottoporre il genio ai propri fini e alla propria disciplina. Perciò ha dato la cicuta a Socrate, ha crocifisso Gesù, ha bruciato vivo Giordano Bruno, e così farà sempre fino alla consumazione dei secoli. Ogni vero poeta è, perciò stesso che è poeta, un creatore e un innovatore. E talvolta un solo pensiero può far cadere un mondo. 2  

Anche alle radici della riflessione mariniana sul rapporto individuo-società c’è una considerazione ideologica e culturale di fondo, ripetuta in modo martellante nei punti chiave e negli snodi del libro Parola e poesia. Si tratta della drastica e drammatica contrapposizione tra eletti e reprobi, tra figli di Dio e figli del diavolo, tra i ‘vivi’ e i ‘morti’. La parola del poeta gradese suona aspra e forte, dura e sprezzante :  

Sì, siamo tutti umani, ma pare che alla spiritualità, che è la vera vita, arrivino pochi, e che le parole di Gesù : « quanto è stretta la porta e angusta la via che mena alla vita !, e pochi sono quelli che la trovano », siano sempre vere. E altre cose diceva Gesù, che con l’andare dei secoli si sono volute dimenticare ! Diceva per esempio : « a chi ha sarà dato e abbonderà, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che sembra che abbia ». Dove, come vedete, si ammette l’esistenza di creature, che hanno già in partenza, in sé la possibilità del crescimento, della vita ; agli altri tutto verrà tolto, perché nulla avevano. Questa è la massa damnationis di agostiniana memoria, questa è la massa degli ignavi che Dante incontra con ribrezzo nell’inferno. E di cui dice, che mai avrebbe creduto, « che tanta morte ne avesse disfatta ». E in modo esplicito Gesù questa massa aveva chiamato dei ‘morti’. Tremendo giudizio e tremenda testimonianza. Ma non è sola. Tutta la storia dell’umanità è piena di questi giudizi e di queste testimonianze. Non valgono nulla ? 3  

























Nel passo che segue Marin, pur mostrando di apprezzare lo sforzo di due millenni della Chiesa per colmare la frattura tra eletti e reprobi e l’intenso slancio di educazione di una nuova umanità, finisce col riconoscere l’inevitabilità sostanziale, storica e morale, di quella drammatica divisione e contrapposizione. 4 Nella riflessione del poeta di Grado l’antitesi tra eletti e reprobi, tra bruti e spiriti supremi 5 è una insuperabile costante, che pure assume di volta in volta nomi, volti, configurazioni, fenomenologie diverse. Ma l’antitesi assume sempre di più la curvatura e il carattere di una lucida e drammatica predestinazione. È sintomatico che il poeta colga con grande sensibilità dimensioni e drammaticità di questa antitesi e di questa frattura ricorrendo anche stilisticamente a parole come ‘tremare’, ‘tremendo’. Ma in sostanza antitesi e fratture sono riconosciute e accettate come una dolorosa fatalità. Non occorre aggiungere che il poeta e i poeti sono tra gli eletti, tra le anime spirituali. 6 Da questo riconoscimento e da questo costante stato d’animo nasce suggestiva 





1

  Ivi, p. 60. Le sottolineature sono sempre di Marin.   Ivi, pp. 59-60. Confesso di nutrire qualche dubbio ‘materialista’ su quest’ultima affermazione. 3 4 5   Ivi, pp. 58-59.   Cfr. ivi, p. 59.   Ivi, p. 74. 6   Cfr. anche Biagio Marin, Discorso sulla poesia tenuto a Capodistria il 3 Febbraio 1968, cit., p. 115 e p. 117. 2

30 giampaolo borghello mente in Marin quell’ansia inappagata di dialogo con gli altri uomini, quell’urgenza di porgere doni, di comunicare. Da questo punto di vista è sintomatico l’attacco del saggio mariniano La tragedia della parola :  

Già sul piano dei rapporti comuni tra gli uomini notiamo facilmente la difficoltà, per mezzo della parola, di raggiungere il nostro prossimo e di stabilire con lui quell’unità che pur vorremmo realizzare. Ad un certo punto del discorso, che da parte nostra può essere anche caldo e intelligente, ci accorgiamo che l’altro ci sta di fronte chiuso e impenetrabile. E più il nostro discorso è profondo e più difficile è che esso venga accolto. L’intenderci implica un consentire, un con-essere, che, quando si realizza ci sembra un vero e proprio miracolo, e allora in noi c’è gioia, perché sentiamo con tutti noi stessi, che ci siamo allargati, che siamo cresciuti, che ci siamo potenziati. 1  

Dalla ricorrente e bruciante difficoltà anche psicologica del dialogo e dall’assenza di quell’alto e liberatorio processo di « consustanziazione » nasce in Biagio Marin l’amara e opprimente fatalità della condizione di solitudine, di solitàe (per dirla in gradese). 2 Rileggiamo la fondamentale e celebre lirica Solitàe che chiude e dà il titolo all’essenziale antologia del 1961, amorosamente curata da Pier Paolo Pasolini :  







Solitàe, solitàe che nissun me soleva, solitàe sensa etàe se fa senpre più greva. No’ xe ponte che passa la bariera del fiume e l’aqua score massa violenta, duta spiume. Me digo mie parole : ma nessun le capisse che no’ sia le nuvisse più sole. Solitàe, solitàe xe passagia l’istàe che ha fiurìo dei gno canti e novenbre xe in pianti. El gno gran gera d’oro ma disperso l’ha ’l vento duto contento de robâme ’l tesoro. Cussì no’ xe cressùo sul campo un filo d’erba nel cuor che resta nùo e solitàe xe zerba. 3  



1   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 39. Ha osservato giustamente Elvio Guagnini : « La tragedia della parola […] tende soprattutto ad analizzare la necessità di una comunicazione poetica fondata sulla consustanzialità (quasi una fusione mistica tra il poeta e i suoi lettori) ma anche la tragedia della creatività individuale (e quindi della poesia) quasi sempre in antitesi con la società (che esige conformismo e rispetto dei valori stabiliti) e con il potere (che ha sempre in sospetto i creatori e ‘si scandalizza’ della poesia, cioè della libertà creativa) : sicché, spesso, il destino tragico dei poeti e degli ingegni in genere è la violenza perpetrata su di essi da parte dei potenti (una vicenda che spesso finisce con la ‘cicuta’, ricorda Marin) » (Elvio Guagnini, Introduzione a Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 10). 2   Sulla dimensione della solitudine cfr. anche Gli anni della crisi italiana in un carteggio di Arturo Carlo Jemolo col poeta Biagio Marin (1970-1981), a cura di Giuliano Torlontano, « Nuova Antologia », 4, 1989, pp. 5-34. 3   Biagio Marin, Solitàe, poesie scelte a cura di Pier Paolo Pasolini, Milano, Scheiwiller, 1961, pp.  











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L’ansia inesausta e martellante di dialogo con gli altri uomini assume una coloritura di particolare amarezza ed esacerbazione nel sottolineare l’aspra e dolorosa incomprensione di cui il poeta si sente vittima predestinata da parte dei suoi conterranei, proprio da parte di coloro che rappresentano le radici esistenziali stesse della vita e delle scelte di Biagio Marin e che dovrebbero costituire il pubblico diretto e naturale delle liriche :  

Incomprensione Non possono amarmi. Che non frequento le loro bettole li offende, che la loro vita mi annoi li esaspera. Diffidano di me come fossi un astuto. Mi considerano maestro di tutte le malizie e i miei canti d’amore li considerano malizia suprema. Hanno fatto il vuoto attorno a me, un vuoto che nessun canto può superare. Ho buttato l’anima ai loro piedi ed essi si sono rivoltati e mi hanno calpestato con furore. Che così dovesse accadere lo sapevo fin da quando la nonna mi insegnò ad amare Gesù, e mi raccontò la sua passione e della scelta che aveva fatto il suo popolo tra Lui e Barabba. Lo riseppi via via, facendo nella mia mente giovinetta la tappa della nostra umanità. Lo sapevo, sì, ma pure come duole. Il mio cuore d’illuso non voleva arrendersi e si ribellava. Ma dev’essere proprio sempre così ? Non sono io della loro carne ? Non sono il loro fiore ? Non ho dato loro ogni mia dolcezza, ogni mia soavità ? Non ho voluto aprire i loro occhi alla gioia dei cieli distesi, perché fosse più lieve la loro pena ? Non ho loro insegnato i canti del mare, per lenire il loro dolore ? Non li ho amati con tutta l’anima mia, soffrendo la loro miseria e convertendola in canto ? Eppure, mio Dio, mi è stata fatta giustizia. La mia vanità è stata pestata : nel silenzio il dolore ha messo, tra le spine, qualche fiore. Dalla distanza mi è nata una nuova libertà d’amore. 1  

















La conclamata e reiterata fedeltà al dialetto gradese, contro tutto e contro tutti, (con il rischio concretissimo di non arrivare a un pubblico più largo o al limite il rischio di non essere letto), ritrova le sue ragioni storico-culturali di fondo e sviluppa le sue implicazioni più significative in molte pagine del volume Parola e poesia. Il poeta in dialetto, in quanto tale, nel Novecento si sente sempre implicitamente o esplicitamente chiamato in giudizio, messo sotto tiro. È sempre infatti in discussione il complesso e stratificato rapporto tra poesia in lingua e poesia in dialetto, nei lunghi percorsi del ventesimo secolo. E questo è naturalmente anche il caso di Biagio Marin. Anche da questo punto di vista dobbiamo 117-118 [ora in Biagio Marin, I canti de l’isola (1912-1969), cit., p. 574]. La poesia proposta da Pasolini faceva parte, al tempo, della raccolta ancora inedita Tra sera e note. In seguito il poeta di Grado, dando alle stampe nel 1968 la raccolta Tra sera e note (Milano, Scheiwiller, 1968), deliberatamente non ha ripreso Solitàe, solitàe, come tutti gli altri testi proposti nella sezione finale dell’antologia di Pasolini (sezione Da Tra sera e note, in Biagio Marin, Solitàe, cit., pp. 99-118). Anche la collocazione strategica della lirica nell’antologia sembrava infatti chiudere, in modo solenne, il discorso del testo e sul testo. 1   Biagio Marin, L’isola d’oro, Udine, Edizioni de « La Panarie », 1934, p. 220-221 ; (cfr. poi Biagio Marin, L’isola d’oro, Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1999, p. 165). Cfr. ora anche l’interessante carteggio tra Marin e Riccardo Maroni : Mario Allegri, « Sorrido e continuo a morire meglio che posso ». Biagio Marin in alcune lettere (1952-1982) a Riccardo Maroni, « Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati, s. viii, vol. iv, A, fasc. i, 2004, pp. 7-55.  













32 giampaolo borghello leggere l’appassionata difesa della poesia in dialetto presente nei due saggi Se la poesia possa dirsi dialettale 1 e Dialetti e lingua nazionale in Italia. 2 Nel primo caso il teso e perentorio rinvio all’identificazione crociana poesia = linguaggio e alla topica e radicale contrapposizione poesia – non poesia spinge Marin a mettere in discussione anche la celebre e costruttiva distinzione di Pietro Pancrazi tra ‘poesia dialettale’ e ‘poesia in dialetto’. 3 Passionalmente il poeta di Grado trascura il valore anche metodologico dell’impostazione di Pancrazi, che si è rivelata e si rivela una tappa essenziale nel progressivo riconoscimento culturale e critico della poesia in dialetto nel XX secolo. Marin non accetta nemmeno la pars construens del giudizio di Pancrazi. Scrive ancora il poeta di Grado :  







Se veramente in componimenti letterari si può trovare tutto ciò che si dice ‘folklore’ non vi troveremo la poesia, « per la contradizion che nol consente ». Dire dunque che la poesia dialettale è più folklore che poesia è un bisticcio senza senso, come chi dicesse che la poesia non è poesia. 4  





E Marin conclude il filo delle sue distinzioni e del suo ragionamento con la testamentaria (e crociana) sentenza : « In fin dei conti, uno solo è il problema : distinguere poesia da non poesia ». 5 Una accorata apologia della poesia dialettale ritroviamo anche nel lungo saggio Dialetti e lingua nazionale in Italia. 6 Siamo qui in presenza di un appassionato excursus sulla storia della questione della lingua e sul rapporto tra poesia in lingua e poesia in dialetto lungo l’arco dei secoli. Giustamente Elvio Guagnini, per siglare questo ‘viaggio’ mariniano, ha parlato di « andamento epico » ; 7 aggiungerei che nella riflessione mariniana emerge, anche in quest’occasione, la componente sacrale dell’atto poetico. Partecipiamo, in questo lungo excursus mariniano, a una corsa, inquieta e a tratti affannosa, dove contano, più che la meta (o le mete), i percorsi, le tappe, le atmosfere, gli stati d’animo. La lunga carrellata di Biagio Marin salda l’analisi culturale e sociale dello storico distacco tra intellettuali e popolo con il riconoscimento ‘spontaneistico’ del valore decisivo delle grandi personalità poetiche. 8 Si tratta di un rapporto originale e affascinante tra una matura riflessione storico-culturale sulla relazione tra parlanti, lingua e dialetto e il rinvio a un retroterra estetico di netta derivazione crociana. Anche qui naturalmente (come in altri saggi del poeta) non mancano forzature o  















   



1

  Biagio Marin, Parola e poesia, cit., pp. 17-21.   Ivi, pp. 23-28. Su questo ordine di problemi e sulla ‘posizione’ della poesia dialettale negli anni ’70 del Novecento cfr. Elvio Guagnini, Note novecentesche, Pordenone, Studio Tesi, 1979, pp. 169-172. 3   Ha scritto Marin : « Basterebbero poche parole crociane per rivelare il falso di tutta l’impostazione del Pancrazi “Fonte di poesia è sempre l’anima del poeta, e non mai le cose, né le parole, né i versi nati in altre anime” » (Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 18). 4   Ivi, p. 19. L’articolo di Pancrazi Giotti poeta triestino, apparso nel « Corriere della sera » del 22 Dicembre 1937, è stato poi ristampato in Pietro Pancrazi, Scrittori d’oggi, serie iv, Bari, Laterza, 1946, pp. 216223 ; cfr. ora anche Pietro Pancrazi, Ragguagli di Parnaso dal Carducci agli scrittori d’oggi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967, vol. iii, pp. 177-183. 5 6   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 20.   Ivi, pp. 23-38. 7   Elvio Guagnini, Introduzione a Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 9. 8   « E la letteratura riflessa dialettale è al pari di quella nella lingua che si vuole e giustamente e nobilmente rendere comune, è anche essa letteratura italiana e ha la stessa dignità dell’altra. Ed è pure significativo che proprio in pieno ’500 nel culmine del trionfo della letteratura illustre, la letteratura dialettale riflessa, con nuova coscienza della sua responsabilità letteraria – e solo ora letteratura dialettale – acquisti una importanza e una diffusione, quale prima non aveva avuto. Naturalmente l’importanza di una letteratura è sempre data dalla statura dei suoi poeti » (Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 35). 2

















33 ‘ mio favelâ graisan ’ : i fili della poetica di biagio marin citazioni un po’ capziose : ma il problema, come è ovvio, non è quello di misurare la congruenza delle ipotesi o delle letture di Marin con una possibile (o impossibile) verità. Il problema critico è quello di cogliere la direzionalità delle ricerche e delle analisi di Marin, la sua impostazione, il suo stato d’animo, le sue vive tensioni. È interessante osservare che la lunga analisi di Marin appare proficuamente focalizzata sul concetto di ‘letteratura dialettale riflessa’, nozione crociana carica di significativi e concreti sviluppi, anche sul piano metodologico. 1 Parimenti appare singolarmente preveggente il rinvio che il poeta di Grado fa, alla conclusione del suo saggio, a una circostanziata analisi di Mario Sansone sul rapporto che si sta venendo a creare (siamo nel 1975) tra dialetti e mezzi di comunicazione di massa. 2 Nella dinamica interna del volume Parola e poesia, così come è stato organizzato e strutturato da Elvio Guagnini, colpisce la spontanea e illuminante dialettica che si viene a creare tra il ‘blocco’ (composto dal lungo iter teorico e storico-culturale) e le due vive e dirette letture di Giotti e di Saba. È un caso suggestivo di verifica, di cauta sperimentazione e applicazione di un denso rovello teorico. Nel primo saggio, Biagio Marin, dopo un’attenta e affettuosa ricostruzione del rapporto tra biografia e opera (che ben focalizza la peculiarità della scelta di Giotti del dialetto triestino come « lingua della poesia », sulla scorta di alcune preziose indicazioni di Pancrazi e poi di Pasolini), delinea la scansione dei tre tempi dell’opera giottiana : anche la metrica rispecchia le tappe dell’iter poetico di Giotti. Marin coglie il nucleo centrale dell’opera del poeta triestino nei due complementari e concomitanti filoni dell’amore per la vita e per il mondo e nell’angoscia per il ricorrente pensiero della loro caducità. 3 L’analisi di Marin si configura come un lento, circostanziato e affettuoso viaggio attraverso l’opera giottiana, seguendo la scansione periodizzante proposta da Pier Paolo Pasolini. Indubbiamente nell’impostazione stessa e anche in alcune particolari sequenze Marin rilegge nell’opera di Giotti se stesso. Le forme della partecipazione mariniana sono peculiari e calzanti. Nel suo iter attraverso le liriche di Giotti, il poeta di Grado porta avanti ed esibisce con decisione un metodo di lettura diretta, per ‘assaggi’. A un certo punto del suo saggio Marin teorizzerà la distinzione (metodologicamente illuminante) tra « i poeti molto intellettuali » per i quali la guida del critico è quasi doverosa, « a volte iniziatica », e i poeti « semplicemente umani » (come lo stesso Giotti) per i quali « la diretta lettura del testo, la ripetuta, insistita lettura è forse la via migliore ». 4 Da parte di Marin è questa una considerazione di ordine sia teorico che praticoempirico, nella felice connessione di visione generale di ordine estetico e di accosta 

































1   Cfr. Benedetto Croce, La letteratura dialettale riflessa, la sua origine nel Seicento e il suo ufficio storico, « La Critica », fasc. 6, xxiv (1926), pp. 334-343 ; poi in Benedetto Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, Laterza, 1927, vol. i, pp. 222-234. Cfr. inoltre Mario Sansone, Relazioni fra la letteratura italiana e le letterature dialettali, in Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura italiana, iv, Letterature comparate, Milano, Marzorati, 1948, pp. 261-327 ; Letteratura e dialetto, a cura di Gian Luigi Beccaria, Bologna, Zanichelli, 1975 ; Letteratura italiana e culture regionali, a cura di Alfredo Stussi, Bologna, Zanichelli, 1979. 2   Cfr. Biagio Marin, Parola e poesia, cit., pp. 37-38. Per la citazione pascoliana cfr. Giovanni Pascoli, Un poeta di lingua morta (ora in Giovanni Pascoli, Prose, i, Pensieri di varia umanità, Milano, Mondadori, 19563, pp. 160-161). 3   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 82. Cfr. ad esempio le liriche di Giotti El pergoleto e La vita e la morte (Virgilio Giotti, Opere, a cura di Rinaldo Derossi, Elvio Guagnini, Bruno Maier, Trieste, Lint, 1986, p. 140 e pp. 151-152 ; Virgilio Giotti, Colori, a cura di Anna Modena, Torino, Einaudi, 1997, p. 179 e pp. 201-202). Cfr. Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 92. 4   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 91. Si potrebbe osservare maliziosamente che in realtà, dal nostro punto di vista, Giotti appartiene invece proprio alla prima categoria.  











34 giampaolo borghello mento psicologico, emotivo e ‘tattico’. Il poeta di Grado adegua perfettamente e con eleganza, anche nel ritmo della sua analisi, questo tipo di approccio alla forte e decisa periodizzazione proposta da Pasolini. 1 Marin segue con sottile e affettuosa partecipazione la dinamica dei versi di Giotti, i suoi calibrati ‘affondi’ tematici, il gioco dei particolari e del chiaroscuro, l’eccezionale ed efficacissima tavolozza cromatica. La pur simpatetica lettura di Marin non esclude la lucidità critica, la messa in discussione dei parametri, il confronto (pur elegante) con altri approcci di lettura. Dopo aver definito in modo assoluto e quasi testamentario i versi « casti e scarni » di El vin (da Caprizzi e canzonete) « cristallo puro di rocca », 2 Marin mette in discussione il rinvio (proposto da alcuni critici, che non nomina) alla nozione di ‘crepuscolarismo’ e di ‘decadentismo’. 3 Chiosa Marin : « Non nego la sapienza raffinata dell’artista, ma questi suoi sentimenti, questi suoi valori, vengono da assai lontano nel tempo, tanto sono antichi e primordiali ». 4 È qui sintomatico innanzitutto il fatto che il poeta di Grado proietti direttamente su Giotti la propria ‘autoimmagine’ di poeta « che viene da lontano », che non è ‘contaminato’ dalle tendenze e dalle correnti della fine dell’Ottocento e poi del Novecento. 5 È una lettura drastica e pur lucida che taglia alle radici ogni possibilità di cauta storicizzazione delle esperienze poetiche, contrapponendo implicitamente o esplicitamente una nozione atavica e primordiale di poesia a una immagine dotta, elaborata, ‘antispontaneistica’ di alcuni degli ‘ismi’ della cultura moderna. Ancora una volta dunque Biagio Marin parla di se stesso. 6 Queste precisazioni-chiose di Marin preludono significativamente all’impostazione del problema critico generale del rapporto tra continuità ed evoluzione nell’opera giottiana. La scansione dei giudizi e delle prese di posizione di Diego Valeri, di Alfonso Gatto e dello stesso Pancrazi  





























1   Sul metodo di Pasolini critico cfr. Lanfranco Caretti, Pasolini critico, « L’Approdo letterario », 11, 1960, pp. 113-115 ; Aldo Rossi, Passione e ideologia di Pasolini, « Paragone », 132, 1960, pp. 31-50 ; Gian Carlo Ferretti, Letteratura e ideologia, Roma, Editori Riuniti, 1974², p. 205 sgg. ; Fausto Curi, Ordine e disordine, Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 57-58 ; Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Savelli, 1966², ii, pp. 105-120 ; Sergio Pautasso, Le frontiere della critica, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 165-168 ; Per conoscere Pasolini, a cura di Franco Brevini, Milano, Mondadori, 1981, pp. 263-276 ; Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini, Milano, Mursia, 1982, pp. 181-200 ; Pier Vincenzo Mengaldo, Pasolini critico e la poesia italiana contemporanea, in Pier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, a cura di Guido Santato, Padova, cleup, 1983, p. 130 sgg. (poi in Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento, nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987, pp. 415-459) ; Cesare Segre, Prefazione a Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, Torino, Einaudi, 1985, pp. v-xxii ; Francesco Ferri, Linguaggio, passione e ideologia. Pier Paolo Pasolini tra Gramsci, Gadda e Contini, Roma, Progetti Museali, 1996 ; Cesare Segre, Vitalità, passione, ideologia, Introduzione a Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999 ; ‘Mimesis’. L’eredità di Auerbach. Atti del xxxv Convegno interuniversitario (Bressanone/Innsbruck, 5-8 Luglio 2007), a cura di Ivano Paccagnella ed Elisa Gregori, Padova, Esedra, 2009 ; Guido Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica, Roma, Carocci, 2012, in part. pp. 218-241. 2   Cfr. Virgilio Giotti, Opere, cit., p. 82 ; e cfr. anche Virgilio Giotti, Colori, a cura di Anna Modena, cit., pp. 79-80. 3 4   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 85 e p. 86.   Ivi, p. 86. 5   Su questo punto cfr. Bruno Maier, La letteratura triestina del Novecento, cit., p. 168. 6   Non occorre dire che la nozione metodologica ed euristica di ‘crepuscolarismo’ rappresenta un concreto strumento di approccio e di interpretazione dell’opera di Giotti : cfr., ad esempio, Giammaria Gasparini, Giotti e la critica, « Pagine istriane », 26-27, 1956, pp. 43-46 ; Pier Paolo Pasolini, La lingua della poesia, « Paragone » 90, 1957, pp. 66-77 (poi in Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, pp. 276-294) ; Bruno Maier, La letteratura triestina del Novecento, cit., pp. 133-148 ; Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, cit., pp. 295-298 ; Ernestina Pellegrini, Virgilio Giotti, in Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, a cura di Enrico Ghidetti e Giorgio Luti, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 369-371.  





















































35 ‘ mio favelâ graisan ’ : i fili della poetica di biagio marin consente di collocare strategicamente e di illuminare efficacemente, da diverse angolazioni e con opposte implicazioni, la questione critica. Ma ancora una volta non è un caso che la discussione possa essere, senza scarti, riferita egualmente anche alla poesia stessa del gradese. Ancora una volta dunque, nel senso più alto del termine, Marin parla (anche) di se stesso. La configurazione della sympátheia/fraternità si palesa con grande freschezza ed efficacia in questo passo che sancisce la curvatura diretta, partecipe e autobiografica della lettura di Marin :  



Un canto così spiegato e felice non l’ho sentito che a bordo del trabaccolo di mio padre, quando sotto i grandi maestrali di luglio si attraversava il golfo o si veleggiava, lungo l’Istria 1  

La poesia cui si riferisce Biagio Marin è Canzon de istà (dalla sezione Istà del volume Colori), 2 lirica nella quale, come osserva giustamente Anna Modena, « l’estate è […] identificata con la pienezza del vivere ». 3 Attraverso il delicato, felice e ‘strategico’ tocco autobiografico di Marin viene riconosciuto ed esaltato il trionfo della luce e dei colori del testo, nella pienezza e nella serenità di questa « estate della felicità », pur breve quanto « il riso di uno zampillo ». 4 La raccolta Sera di Giotti 5 « è tutta una grande musica, dedicata alla sua casa, alla sua famiglia, a quei figlioli spariti in guerra, a quella mamma, che implora dal vento » :  

























Vento, che te giràndoli le fòie, e i oci tristi le varda ; i mii fioi, dime dime, te li ga visti ? Vento, che te me rivi fredo adosso par sfese de porte e de finestre, vento del mio paese, vignù de là, ti dime dime che la su’ sorte, la sorte d’i mii fioi, no’ xe stada la morte. 6  





La lettura/proposta mariniana di due gioielli (come La casa e El paradiso) 7 sigla e con 

1

  Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 89.   La prima stesura del testo apparve « Solaria », 1, 1932, pp. 24-28 ; poi la poesia fu compresa nell’edizione Parenti del 1941 per essere in seguito ristampata nell’edizione 1943 di Colori della casa editrice Le Tre Venezie e nell’edizione definitiva di Colori (Ricciardi, Milano-Napoli, 1957) ; cfr. anche Virgilio Giotti, Colori, a cura di Anna Modena, cit., p. 163. 3   Virgilio Giotti, Colori, a cura di Anna Modena, cit., p. 163. Su Canzon de istà cfr. anche Bruno Maier, Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Milano, Mursia, 1972, pp. 169-170 ; Anna De Simone, Il ‘Paradiso’ di Virgilio Giotti, « Diverse lingue », 6, 1989, p. 40 sgg. 4   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 88. 5   Virgilio Giotti, Sera, Torino, De Silva, 1948. 6   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 92 ; cfr. Virgilio Giotti, Opere, cit., p. 184 (e anche Virgilio Giotti, Colori, a cura di Anna Modena, cit., pp. 254-256). 7   Cfr. Virgilio Giotti, Opere, cit., pp. 188-189 e pp. 187-188 ; e cfr. anche Virgilio Giotti, Colori, a cura di Anna Modena, cit., pp. 263-265 e pp. 260-262. Ha scritto Anna Modena, a proposito della lirica La casa : « La casa, mito e costante luogo di approdo, è oggetto di un processo di identificazione che, con gli anni, diventa sempre più totalizzante. Qui il soliloquio sul rapporto con la casa riporta indietro nel tempo, proietta il film degli anni belli, dà conforto e sicurezza, ringiovanisce. Diventa garanzia di affetti e di possessi : degli oggetti di casa, e del paesaggio che si vede dalle finestre, di cui il tempo e l’abitudine hanno come garantito la proprietà. | I confini tra realtà e sogno sono debolissimi, stanno nel squasi 2

























36 giampaolo borghello clude nel modo più calibrato l’intenso iter giottiano lungo il crinale (anche tematico) di un preciso rapporto tra passato e presente, « in un sogno fermo di felicità ». 1 Nella breve raccolta Versi (pubblicata nel 1953) 2 la pura e serena contemplazione delle cose raggiunge, per Marin, una leggerezza e una trasparenza supreme : « finalmente la morte è assolutamente superata ». 3 Conclude Biagio Marin, universalizzando i riferimenti e le situazioni : « La poesia ha trasfigurato tutto, tutto, prima, in mezzo e dopo, e ha trasumanato in canto puro, senza scorie, in canto immortale la vita di Giotti ». 4 È significativo che il poeta di Grado chiuda il suo lavoro circolarmente, ribadendo l’importanza cruciale del nesso biografia-opera, per arrivare a una attenta ricostruzione e a una lucida valutazione dei versi giottiani : con una analoga impostazione di fondo, come ricorderete, si apriva il saggio stesso. Anche nell’articolo su Saba Marin proietta se stesso : sembra interrogarsi e ascoltarsi. Pur in presenza di un’adesione di fondo e di una sympátheia, l’approccio e le tecniche di avvicinamento del poeta gradese sono diversi da quelli analizzati nel caso dei versi di Virgilio Giotti : nel caso di Saba, Marin imposta il suo discorso a livello di poetica, sul ruolo della poesia e sulla posizione del poeta nel mondo. Non c’è il trepido saggiare il proprio stato d’animo sui versi, sulle atmosfere, sui colori, come nel caso di Giotti. Al di là della differenza delle tematiche, io credo che una sorta di ‘muro’ sia rappresentato dalla scelta stessa dello strumento linguistico (la lingua, il dialetto). La scelta culturale ed esistenziale del dialetto triestino rappresentava un diretto e palpitante aggancio di Marin alle poesie di Giotti. Anche per Saba una sorta di problema/immagine preliminare è rappresentato dalla questione dell’isolamento. Marin si rende conto con grande lucidità che l’ingente problema per un verso ha una valenza universale, che riguarda la posizione del poeta in quanto tale nella società ; ma d’altra parte, in modo concreto e serrato, la questione tocca il rapporto del poeta con Trieste e i suoi ‘odiosamati’ abitanti. Non è un caso che il saggio di Biagio Marin parta dall’immagine e dal vivo e sofferto suono delle parole di Saba che mettono a nudo il dramma della sua scontrosità, della sua stessa timidezza che diventa fobia. Ma il poeta – osserva con viva e partecipe sofferenza Marin – ha bisogno di essere ascoltato e compreso :  

































Perché la ‘vox clamantis in deserto’ è già voce di Apocalisse, mentre il poeta è un amoroso che porta agli uomini la parola della consolazione, la parola liberatrice di tutte le tristezze della vita ed ha quindi bisogno di essere accolto ed ascoltato. 5  

vera che fa della casa anche una costruzione mentale, viva finché vivrà il poeta » (ivi, pp. 264-265). Ha osservato Mario Fubini : « Non la piazza solitaria dell’amico Bolaffio gli si apre ora dinanzi come rifugio e conforto, ma la casa del Paradiso (poteva Giotti rappresentarsi il paradiso altrimenti che come una casa, la sua casa ?), una casa popolata dai suoi familiari, e non già con l’aspetto ultimo che egli di loro ha conosciuto, e nemmeno, come si dice dei beati, in quello dei loro perfetti giorni, ma, o miracolo !, così come egli li ha amati nei diversi tempi, diversi e pur sempre parimenti e diversamente cari » (Mario Fubini, Saggi e ricordi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971, pp. 279-280). Notava Pasolini : « […] la casa dove tanta vita è trascorsa, invecchia, diviene ‘quella di un tempo’, sopravvissuta a se stessa, coi suoi oggetti che divengono atroci cimeli, asilo per una vita di cui si può ormai dire che non è più » (Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, cit., p. 290). 1   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 92. In una recensione del 1946 Biagio Marin aveva efficacemente notato : « Sera limpida, tutta cristallina, in cui le cose non pesano più, assunte dalla potenza della grazia poetica, a musica pura, a pura luce » (Biagio Marin, La ‘Sera’ di Virgilio Giotti, « L’Idea liberale », Trieste, 1 Agosto 1946, p. 2). 2   Virgilio Giotti, Versi, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1953. 3 4   Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 94.   Ivi, p. 94. 5   Ivi, pp. 95-96.  



























‘ mio favelâ graisan ’ : i fili della poetica di biagio marin  

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Qui naturalmente Marin descrive e contempla con lacerante sofferenza la propria stessa condizione : e le parole sembrano scandite lentamente, in modo quasi testamentario. Da questo spunto iniziale si apre un leit motiv del saggio su Saba che è rappresentato dalla continua e tesa ricerca, tra speranze, paure e delusioni, di un rapporto con gli abitanti di Trieste. Quasi un velo di masochismo spinge Saba a questa verifica, nello scorrere dei decenni e nel radicale mutamento delle situazioni. Le testimonianze epistolari, i ricordi d’infanzia trasfigurati in poesie, gli aneddoti di Storia e cronistoria del Canzoniere non possono che confermare crudelmente l’antica diagnosi : « nemo propheta in patria ». Esiste un processo (su cui Marin si sofferma attentamente) di riconoscimento nazionale del valore della poesia sabiana, nella prospettiva storica di una stretta integrazione tra l’Italia e la città di Trieste. 1 Ma tutto questo non basta. Su questa triestina vicenda si innesta la questione generale e universale dell’isolamento dei poeti, della loro solitudine. Lo sguardo ripercorre le strade dell’infanzia : Saba ‘nasce’ poeta. Da questa angolazione Marin si sofferma con particolare attenzione sui versi del periodo 1900-1907 (le Poesie dell’adolescenza e giovanili) e sull’Autobiografia del 1924. Lì ritroviamo le radici della sofferenza e della vocazione di Saba. Illuminante è questa citazione da La mia infanzia fu povera e beata (Autobiografia, 4) :  













Di risa irrefrenabili ai compagni, e a me di strano fervore argomento, quando alla scuola i versi recitavo ; tra fischi, cori, animaleschi lagni, ancor mi vedo in quella bolgia, e sento sola un’intima voce dirmi bravo.  

L’attenta e sofferta ricostruzione dell’originario dramma familiare di Saba costituisce poi il preludio di uno dei motivi dominanti del saggio : la capacità e la volontà del poeta triestino di trasformare l’affanno, l’angoscia e il dolore nella musica e nel colore dei versi. Questa è « la vittoria del poeta sul caos originario ». 2 Come ha commentato Marin : « La funzione del poeta è quella di benedire la vita intera. Soffrire sì, soffrirlo il male, ma poi… ». 3 La scansione del rapporto tra crescita della persona morale ed evoluzione della persona poetica consente a Biagio Marin di riprendere il discorso generale sul rapporto tra la figura del poeta e la società. Osserva Marin :  

















E che cosa significa essere un poeta ? Noi uomini normali viviamo in un’economia preordinata di schemi e di valori, che la tradizione lentamente, attraverso secoli e molte pene, ha giustapposti. Un tenace e vigile e geloso istinto di conservazione esige da tutti il rispetto della legge fondamentale di questa economia : il conformismo. Perciò la nostra vita è fatta soprattutto di imitazione e ripetizione di atti, gesti, parole che rendono meno difficile la coesistenza degli uomini. La società ideale, in questo senso, è quella militare, quella degli ordini religiosi, dove l’ubbidienza è la virtù fondamentale. Quando un giovane uomo arriva alla vita, è già  



1   Ha scritto Marin : « Che Saba era un poeta, su per giù tutti lo sappiamo. Non fosse altro, un giorno abbiamo letto sui giornali che l’Università di Roma lo aveva proclamato suo dottore, “considerato che l’opera di Umberto Saba – richiamandosi alla nostra più alta tradizione letteraria – suona viva e intensa nel quadro delle esperienze liriche contemporanee – e raggiunge i sommi vertici della poesia italiana – aprendo nuove vie all’espressione – e sposando per sempre col canto all’Italia – la città di Trieste”. Brevi ma sicure parole, quali sono necessarie quando si deve riconoscere un valore ad un uomo, e additarlo a tutta la Nazione » (Biagio Marin, Parola e poesia, cit., p. 96). 2 3   Ivi, p. 100.   Ivi, p. 104.  





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giampaolo borghello

‘prefabbricato’, o preparato come si dice, e sa quale è il suo dovere, che cosa ci si attende da lui. Ebbene il poeta non si lascia prefabbricare, il poeta non riconosce preesistenti giudizi di valore : il mondo suo deve tutto nascere in quella meravigliosa matrice che è la sua anima. Qualche volta vi ha compromesso tra il poeta e l’uomo sociale ; talaltra il compromesso non è possibile, e il poeta resta come un bambino ignudo esposto alle intemperie. Così è stato di Saba, così, sebbene in modo diverso, di Giotti. 1  





Nel momento in cui l’analisi mariniana dei versi sabiani si fa più serrata e diretta, si coglie certamente un sottile imbarazzo, una difficoltà. Marin è rapito dal fascino di molte poesie, ma non sempre riesce a rendersene ragione. Riemerge ancora un modulo di lettura sostanzialmente crociano, portato a una netta distinzione tra poesia e non poesia. Questo modulo si viene a sovrapporre alla forte esigenza, presente in Marin, di universalizzare i riferimenti, consentendo un definitivo e ‘marmoreo’ inserimento di Saba nelle tavole dei valori del Novecento poetico, contro ogni palese o nascosto tentativo di ridimensionamento. Particolarmente interessante è il riferimento al panorama letterario novecentesco : anche qui Marin, con abile eleganza, sottolinea l’isolamento ‘splendido’ di Saba rispetto ad altre tendenze ‘vincenti’ (Marin parla di « essenzialismo ungarettiano » e di « ermetismo montaliano »). 2 Rispetto a questo quadro in movimento e a questo gioco di valori e di riconoscimenti, Marin conclude il suo saggio appoggiandosi a due saldi punti di riferimento, le posizioni di Pietro Pancrazi e di Silvio Benco. Di Pancrazi Marin sottolinea l’intui­ zione della presenza nel poeta triestino dei « segni d’una poesia di vena, e insieme cosciente, volontaria, del tutto libera dalle varie poeticità convenzionali di oggi… ». 3 In un lontano giudizio del 1911 di Silvio Benco, Marin tende a sottolineare la particolare valenza ‘antiletteraria’ del verso sabiano (il « prosaicismo »), la matrice spontaneamente autobiografica, la ricerca di un nuovo equilibrio interno tra verso e prosa. Ed è sintomatico che la proposta ‘tattica’ congiunta delle due analisi di Pancrazi e di Silvio Benco metta in luce, pur indirettamente, la particolare posizione di Saba all’interno del quadro poetico del nostro Novecento. Ancora una volta dunque per Marin è in gioco il rapporto tra stile e tradizione. Se noi accostiamo all’ampio e organico volume Parola e poesia il Discorso sulla poesia, tenuto a Capodistria il 3 Febbraio 1968, 4 ci rendiamo conto che esiste una sostanziale consonanza tra queste due, pur diverse, testimonianze-chiave della poetica di Marin. Il Discorso, per le sue stesse caratteristiche, appare, nel suo tono, più lirico ed acceso : ma il ritmo delle argomentazioni e il filo dei giudizi rimane quello esaminato. Rispetto alle canoniche distinzioni tra poesia italiana e poesia dialettale Marin ripropone la classica griglia crociana, storica e teorica, di poesia e non poesia. Ma qui il tasto vibra con particolare tensione ed emozione :  



























Naturalmente calarsi in un linguaggio originale non è sempre facile, e la lingua comune nazionale facilita di molto l’accesso all’intelligenza della poesia. Ma non per questo la poesia scritta nei linguaggi difficili delle varie comunità è da considerarsi con ‘dispetto’. Perciò quando mi eliminano da un concorso di poesia, perché non ho scritto in ‘italiano’, il sangue mi va alla testa, perché il mio linguaggio è altrettanto italiano di quello di Ungaretti o di quello di Montale. 5  

Anche in quest’occasione dunque, pur nella piena consapevolezza del diaframma che si veniva creando con l’utilizzo del gradese, Marin ribadisce le ragioni esistenziali e 1

2 3   Ivi, p. 101.   Ivi, p. 108.   Ivi, p. 109.   Biagio Marin, Discorso sulla poesia tenuto a Capodistria il 3 Febbraio 1968, cit., pp. 107-117. 5   Ivi, pp. 114-115. 4

39 ‘ mio favelâ graisan ’ : i fili della poetica di biagio marin culturali di quella lontana scelta. Rispetto ai letterati italiani « tutti pregiudizialmente contrari alla letteratura dialettale » il poeta ribadisce di aver voluto seguire la sua Musa. Ma l’elemento discriminante rimane quello dell’ispirazione. Riprendendo le amate tracce delle parole evangeliche e di quelle di Platone, Marin circolarmente ritorna, alla fine del suo appassionato discorso, al « mistero dell’ispirazione » :  











Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche. Non mi illudono i benevoli giudizi dei contemporanei : sono solo atti di fede. Al tempo il vaglio e il giudizio. 1  



1   Ivi, p. 117. Non sfugge l’analogia di queste parole con le celebri osservazioni montaliane a proposito di Iride. Nelle note alla seconda edizione di Finisterre (Firenze, Barbera, 1945) Montale scriveva : « […] È una poesia che ho sognato e trascritto ; ne sono forse più il medium che l’autore » (Eugenio Montale, L’opera in versi, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980², p. 962). In seguito, in una nota all’edizione 1956 de La bufera, Montale confermava : « Iride è una poesia che ho sognato e poi tradotto da una lingua inesistente ; ne sono forse più il medium che l’autore. Altre poesie propriamente ‘oniriche’ non ho scritto » (ibidem). E infine, in un passo-chiave di Intenzioni (Intervista immaginaria) [1946], il poeta ligure osservava : « Ho sognato due volte e ritrascritto questa poesia : come potevo farla più chiara correggendola e interpretandola arbitrariamente io stesso ? Essa mi sembra la sola che meriti gli appunti di obscurisme mossimi di recente da Sinisgalli ; ma anche così non mi pare da buttarsi via » (Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, pp. 1483-1484). Cfr. anche Luciana Borsetto, La poetica di Biagio Marin, cit., p. 458.  



























« PAESAGGI DELL’ANIMA ». MARIN PROSATORE TRA GIORNALISMO E LETTERATURA  



Elvio Guagnini

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er rimanere nel tema del convegno – che riguarda il ‘paesaggio’ di (e in) Marin – e nell’àmbito dell’argomento che ho indicato per il programma, mi riferirò ad alcune scritture in prosa, dell’elzevirista, del narratore, del prosatore ‘d’arte’ in linea con quella tendenza primonovecentesca valutata e antologizzata particolarmente da Enrico Falqui (si ricordino, in particolare i Capitoli per una storia della nostra prosa d’arte del Novecento, Milano, Panorama, 1938). Farò riferimento ad alcune prose inserite nel volume Gabbiano reale (a cura di chi scrive, Gorizia, Editrice Goriziana, 1991, con una Bibliografia della critica su Biagio Marin. 1912-1991, a cura di Francesca Scarpa) al quale si riferiranno le pagine citate nel testo. E vorrei anche dire che ho utilizzato, nel titolo, un’espressione dello stesso Marin (« paesaggi dell’anima »), considerandola in confronto con un’altra, analoga ma diversa : quella dei « paesaggi della ragione » di cui ha parlato una grande storica dell’arte del nostro tempo, Anna Ottani Cavina, a proposito della pittura del Settecento razionalista e neoclassico (I paesaggi della ragione, Torino, Einaudi, 1994). Il tema del paesaggio ha richiamato, anche in questi ultimi tempi, l’attenzione di studiosi di diverse discipline, dai geografi agli antropologi, agli studiosi di urbanistica e architettura (si pensi al tema skyline), ai filosofi, agli studiosi della letteratura di viaggio, ai filosofi, agli archeologi, agli storici della letteratura e del cinema, agli ecologisti, ai naturalisti di varia specializzazione, ecc. Una bibliografia sull’argomento occuperebbe già lo spazio di una relazione. Posso limitarmi qui ad alcuni accenni a testi che possono risultare utili da tenere presenti a chi si accinga a ragionare sul problema del rapporto tra cultura, letteratura e paesaggio. Riflessioni importanti si trovano nella sintetica e complessa guida di Andrew Goudi & Heather Viles (Landscapes and Geomorphology. A Very Short Introduction, Oxford University Press, 2010) a proposito dell’idea del paesaggio come « palinsesto », ciò che giustificherebbe l’interesse di tanti tipi di specialisti intorno ad esso ma anche l’attenzione alla cosiddetta ‘geomorfologia culturale’ (« cultural geomorphology » : termine coniato da Ken Gregory) : nozione così definita per comprendere lo studio scientifico di aspetti svariati dell’impegno umano con il paesaggio e le reazioni culturali allo (e la percezione dello) stesso anche per migliorarne l’organizzazione, per comprenderne l’evoluzione, per studiarne il presente in rapporto con il passato e con il futuro, oltreché i rapporti tra paesaggi, arte e cultura. Un altro contributo che mi sembra importante è il volume, a cura e con introduzione di Angelo Turco (Paesaggio : pratiche, linguaggio, mondi, Reggio Emilia, Diabasis, 2002) dove, tra le altre considerazioni vi è quella di una « geo-grafia » – scrive Angelo Turco – come « scrittura delle passioni degli uomini, delle loro paure, delle loro aspirazioni e delle loro esaltazioni : essa è attiva partecipazione ai meccanismi di funzionamento e di riproduzione della società. Chi negherebbe che l’Olimpo è una montagna ? Ma, del pari, chi potrebbe ammettere che l’Olimpo è solo una montagna ? » (p. 26). O, anche quella, come ricorda Eugenio Turri, che, del guardare, si  





































42 elvio guagnini potrebbe « anche fare una storia e anche una semiologia, nel senso che i modi di guardare mutano nel tempo e con le società e sono legati all’interesse o meno di ricavare messaggi e indicazioni sul tempo e le società di cui sono la proiezione » ; così come l’uomo moderno cerca « di darsi un’identità attraverso il paesaggio » (p. 54). Nello stesso volume, è di rilevante interesse anche il contributo di Massimo Quaini, geografo del paesaggio (e geografi – con varie specializzazioni settoriali – sono anche gli altri studiosi citati finora), che, a proposito di Montale e Calvino e della Riviera di Levante, ricorda che « il camminare è come scrivere su un pavimento di citazioni » ; e che il « territorio, che ci piaccia o meno, è questo pavimento e percorrere uno spazio, camminare è qualcosa di più che calpestare il suolo : è già leggere l’ambiente, interpretare i luoghi, ascoltare le civiltà, raccogliere i segni, riattivare i miti » (p. 152). Ciò che accade di rilevare, per esempio, a proposito di certe ‘camminate’ di Marin, a qualcuna delle quali si farà riferimento. L’intreccio tra descrizione e racconto, le diverse forme di convivenza e di ruolo dell’una rispetto all’altro formano un argomento di grande rilievo del saggio di Philippe Hamon Cos’è una descrizione (« Poétique », 12, 1972 ; in traduzione italiana in Semiologia Lessico Leggibilità del testo narrativo, Parma, Pratiche, 1977) dove – in chiave semiologica – viene affrontato, tra i tanti altri, il tema della differenza fra testi in cui la descrizione rappresenta un « enunciato accessorio » rispetto al racconto e quelli dove la descrizione stessa ha un ruolo di molto maggiore rilievo, formando anche « un tutto autonomo » (p. 55). Un problema, questo, che aveva trovato largo spazio di discussione teorica anche in Genette e in Jakobson ; e al quale è necessario affiancare anche la considerazione – come ha ricordato Pierluigi Pellini nella sua sintetica e chiara presentazione dell’argomento La descrizione (Roma-Bari, Laterza, 1998) – della descrizione espressiva (contrapposta alla « codificazione rigida del topos classico ») generata in ambito romantico, « chiamata a dare voce ai sentimenti che un paesaggio reale (o un volto, o una cosa …) ispira al soggetto. Fra il punto di vista che filtra la descrizione e gli oggetti rappresentati – scrive Pellini – si instaura un legame strettissimo : il sentimento del personaggio, o del narratore, informa di sé il paesaggio ; reciprocamente, questo determina i moti dell’animo umano ». Anche una « descrizione poetica », che presenta parentele con « la poesia lirica ; la cui soggettività monologica (parla una sola voce, che esprime la sua visione del mondo) è tuttavia molto distante dall’oggettività spesso impersonale delle descrizioni » (pp. 33-34). Un altro grande tema che si ritrova in scritti di carattere anche teorico e metodico relativi a questioni che toccano da vicino (direttamente o indirettamente) il rapporto tra paesaggio e cultura è quello del punto di vista. Lo rappresenta – in sintesi – molto efficacemente Stefano Agosti (Arte visiva e teoria dell’enunciazione, Università degli Studi di Parma-Facoltà di Architettura e Monte Università Parma, 2012) parlando dei « due Soggetti di Sapere » (Osservatore e Informatore) nella cui « azione e reazione reciproche » sarebbe possibile « leggere (e ri-leggere) l’intera storia dell’Arte » (p. 16) ; e ricordando come talvolta il sapere del Soggetto può prevalere su quello dell’Oggetto (per esempio, nelle metaforizzazioni di Giacometti o nell’Impressionismo), mentre altre volte accade l’inverso, come – in modi differenti – nel Neo-classicismo, nel Naturalismo, nel Realismo (pp. 21-23). Su questa dualità soggettività-oggettività (come su quella libertà-necessità), aveva insistito del resto Michael Jakob (nell’importante e complesso volume su Paesaggio e letteratura, Firenze, Leo S. Olschki, 2005), richiamandosi alla stessa problematica che si pone nella storia dell’arte, mostrando peraltro come – oggi – la questione si ponga in modo complesso dal momento che, per esempio, i geografi si sono annessi anche  









































































marin prosatore tra giornalismo e letteratura 43 la prospettiva del soggetto ; sottolineando che esiste anche una questione di storicità del paesaggio, dal momento che esso appare come il risultato di uno sviluppo nel tempo e nello spazio, frutto di cultura, esperienza e scelte ; e rilevando che il fatto di ‘vedere’ il paesaggio in un certo modo è la conseguenza dell’affermarsi di categorie e di influssi culturali che rappresentano delle ottiche valutative particolari : « Facendo riferimento allo stato attuale della ricerca, il paesaggio sarebbe quindi non la natura determinata e misurata, né lo spazio terrestre nella sua attuazione concreta, totale o parziale, ma un ritaglio visuale costituito dall’uomo, vale a dire da soggetti sociali, anzi meglio dallo sguardo di questi soggetti da un determinato punto di vista ; un ritaglio delimitato, giudicato o percepito esteticamente, che si stacca dalla natura circostante e che tuttavia rappresenta una totalità. All’interno di questa cornice teorica viene privilegiata ora la natura, che “suscita” o “stimola” l’attenzione dell’osservatore per la propria fisionomia e struttura, o per le proprie particolarità (ciò che è stato anche descritto come il carattere di un paesaggio), oppure il soggetto, la cui immaginazione, il cui stato d’animo, o le cui idee fanno sì che la natura “si esprima” come paesaggio » (p. 14). Considerando, poi, anche la variabilità del rapporto tra soggetto sociale e soggetto individuale, esperienza culturale generale ed esperienza soggettiva e privata del paesaggio, natura e arte. Per ciò che riguarda, poi, i paesaggi letterari, Jakob ricorda come, non solo, per un loro definizione accettabile, sia necessario partire dai testi, ma anche come essi possano essere « descrizioni che occorrono in singoli punti di un’opera oppure sparse in un’opera » (p. 36) ; e sottolineando la differenza tra una rappresentazione « mimetica » e una rappresentazione « espressiva » del paesaggio (in quest’ultimo caso, quale si svela a un soggetto nel suo aspetto qualitativo). E ricordando pure come, nella cultura moderna, l’impressione, la soggettività, la tensione lirica, il punto di vista dell’io, riprendano il loro posto con forza, con tendenze alla convergenza, talvolta, di poesia e prosa, in una prospettiva che « richiede un elevato grado di “collaborazione” da parte del lettore » (p. 44). Nel tentativo di dare un senso a una totalità non sempre comprensibile del mondo, e quasi di « addomesticare la natura », il « libero soggetto moderno » (ricorda Jakob) procede a una « reinterpretazione della natura, ricorrendo ad immagini, a modelli visivi dai quali la nuova forma della natura risulta inevitabilmente connotata semanticamente o ideologizzata ». Sicché ne risultano dei « cliché culturali » che Gerhard Hard, citato da Jakob (pp. 31-32), così riassume (Der Totalcharakter der Landschaft, in Alexander von Humboldt. Eigene und neue Wertungen der Reisen, Arbeit und Gedankenwelt, Erkundl. Wissen Heft 23, Wiesbaden,1970, pp. 20-21) : « Il (vero) paesaggio è vasto ed armonioso, sereno, vivace, grandioso, vario e bello. Si tratta di un fenomeno principalmente estetico, più affine alla vista che non alla ragione, al cuore, all’anima, al sentimento ed ai suoi umori che non allo spirito e all’intelletto, più vicino al principio femminile che non al maschile. Il vero paesaggio è qualcosa di cresciuto, organico e vivente. Esso ci è più familiare di quanto non ci sia estraneo e tuttavia più lontano che vicino, più nostalgia che presenza, poiché ci eleva al di sopra della quotidianità e confina con la poesia. Però, benché ci indichi lo sconfinato, anzi l’infinito, il paesaggio materno offre pur sempre all’uomo dimora, calore, protezione. Il paesaggio è il luogo del passato, della storia, della cultura e della tradizione, della pace e della libertà, della felicità e dell’amore, della quiete dei campi, della solitudine e del riposo dalla fretta della vita quotidiana e dal rumore della città ; esso deve essere percorso e vissuto, ma nega il suo mistero al turista e al puro intelletto ». Così, attraverso la « riconquista estetica della natura », sottolinea Jakob, essa diventa « visibile all’uomo » e « corrisponde già a rappresentazioni conosciute ». Per una sintesi delle discussioni sul ruolo della prosa d’arte nella letteratura ita 

































































44 elvio guagnini liana del primo Novecento, va considerato, tra gli altri, il profilo di Monica Farnetti (Reportages. Letteratura e viaggio nel Novecento italiano, Milano, Guerini, 1994), sia per il debito della ‘prosa d’arte’ all’esperienza dell’« impressione » e dell’« immagine », sia per le critiche rivolte (da Pietro Pancrazi) a un « giornalismo tutto d’impressione o tavolozza » ridotto a « fatto personale », contro la prepotenza « del colore e della letteratura » (pp. 16-17).  



















Ma veniamo agli scritti di Marin prosatore. « Paesaggi dell’anima » non solo perché il paesaggio – in molti casi – è il riflesso dell’‘anima’ dello scrittore, diventa una sua proiezione, ma anche perché lo scrittore si trova a colloquiare con quella che ritiene l’anima delle cose, del paesaggio che ha di fronte. Si pensi, ad esempio, al Banco dei ‘trataùri’ (un’immagine che domina in una prosa raccolta in Gabbiano reale : quella del « banco », del dosso affiorato con fatica dal mare, di quelli che pescano con la « tratta », un particolare tipo di rete). Un paesaggio che offre visivamente il « mito » dell’anima dello scrittore (« il mito dell’anima mia », p. 27). Una narrazione della natura che vuole essere anche narrazione autobiografica (« Che fatica venir fuori dall’acqua, così irrequieta, così, a volte, furiosa e divorante », ibidem). Mito e metafora. Racconto di un mito, perché anche il mito ha una ‘sua’ diacronia (ciclo annuale, ciclo della natura). E dove la Natura, che appare con tutte le sue sofferenze, sembra costituire la metafora di una storia più ampia. Così come le conchiglie, che sono l’involucro calcareo, il residuo, uno scheletro dei molluschi, assumono quasi la funzione di paradigmi della vita e della bellezza quando l’animale che lì abitava è morto. Still life : la natura immobilizzata in una sua bellezza fuori dal tempo, in tutta la sua bellezza conquistata fuori dal tempo della vita reale. E il « banco dei ‘trataùri’ » diventa come un « grande cimitero » dove avviene la ricerca degli « scheletri meravigliosi » (p. 29). Quel dosso di sabbia che emerge dal mare diventa, per Marin, come una ‘patria ideale’ : la fine del travaglio della storia, un luogo lontano dalla sofferenza della vita, un luogo della ‘monotonia’ che rappresenta la fine della ‘polifonia’, del mondo mosso e travagliato. Un mondo che appartiene alla Natura fuori dalla Storia, regolato solo dal ritorno ciclico delle maree. Pagine di grande intensità dove il poeta e il prosatore si incontrano in una prosa d’arte di grande incisività, senza i difetti della forzatura ‘letteraria’ che spesso contrassegnano la prosa d’arte. Paesaggi dell’anima (non compreso in Gabbiano reale) è, del resto, il titolo generale di una prosa di Marin (in « Libertà », 29 giugno 1947) distinta in due parti indicate da altrettanti titoletti interni (Primavera e Notturno). Dove troviamo il paesaggio materiale, l’ambientazione, il raccordo tra il « crepuscolo piovoso » e la postura del personaggio (la « testa bassa, pesante ») e il « paesaggio dell’anima » (lo stato d’animo, la condizione interiore evocata da quel « paesaggio » e dal momento). E dove – a una sorta di racconto di un incontro d’amore (Primavera) nel quale si confrontano le necessità materiali della vita con i suoi bisogni anche economici e in cui convergono contraddizioni dell’atmosfera e dell’anima (il clima pesante e i germogli verdi ; la pioggia e il fango ma anche l’aria « leggera più dei pensieri » ; le luci, le ombre, i contrasti, le malinconie, le dolcezze e le amarezze di un amore) – fa riscontro un quadro di notte inquieta (Notturno) suscitatrice di desideri : desideri di fuga, di partenze, di immaginari viaggi « verso l’amore », di mete enigmatiche e di fantasie (« Dov’è [l’amore] ? Di là del golfo, di là della tenebra carezzevole, di là della luna, ma anche vicino […]. Di là della notte è certo l’amore. Ha forse gli occhi d’acqua o di velluto non sa s’abbia la bocca fiorita oppure soltanto in boccio sa solo che è nuova come la rotta della sua nave, come il vento che gliela porta, come la notte che il bompresso deflora ». Una sorta di eroti 

















































































marin prosatore tra giornalismo e letteratura 45 smo odeporico – con una sua suggestività – con appelli al cuore, al canto dei marinai, ai mari, ai porti, alla bellezza della navigazione. Ma anche con qualche richiamo autobiografico : « Così la vita è andata ; ed ora la rincorro invano dietro ai venti che non hanno strada, che non hanno mete. Oh ! Una creatura umana, in queste notti di giugno è dolce porto ! ». Un degno esempio di prosa poetica, di intreccio tra lirica e scrittura prosastica nella linea di una diffusa tradizione elzeviristica italiana. Il paesaggio è, del resto, il titolo di alcune pagine di Marin pubblicate in Gabbiano reale, originariamente comprese nel volume Istria e Quarnero italiani (Rassegna promossa dal cln dell’Istria curata da Baccio Ziliotto e Mario Mirabella Roberti e presentata da Giani Stuparich, Trieste-Perugia, Istituto Editoriale San Giusto, 1948). Pagine dove si parla della bellezza di questo territorio e della tragedia della sua perdita e dove si mescolano incantesimo, felicità e dolore. L’importanza di questo articolo, costituito da brevi paragrafi di grande intensità, è – per questo intervento – nell’incipit : « Parlare del volto della propria terra è come parlare del volto della propria madre e della bellezza della propria amata. Ogni terra ha una sua anima, ed è questa che illumina e modula gli aspetti varii eppur contenuti tutti nell’unità di una sola musica » (p.43). La prima frase ci mette di fronte alla disposizione d’animo di un poeta che colloquia con le proprie radici e con la bellezza, che rifiuta ogni distacco oggettivo e le cui sollecitazioni sono nel rapporto soggettivo, quasi interno, con l’oggetto della rappresentazione. La seconda frase ci mette di fronte a ciò che sta dentro il paesaggio (« anima ») e che dovrebbe valere a definire il fascio di componenti dell’unità che in quell’« anima » si ritrova. Quello di Marin non è un discorso descrittivo né fenomenologico. È, soprattutto, un discorso legato alla memoria (« Se penso all’Istria, rivedo le sere estive della mia infanzia … ») e, in particolare, alla memoria anche di anni lontani, che la pagina cerca di restituire nella sua complessità. Una complessità che comprende l’incidenza incrociata di sensi molteplici : la vista, ma anche l’udito, l’odorato. E le sensazioni derivanti dall’aria che scivola sulla pelle, dalle atmosfere che nascono da una somma di percezioni di genere diverso. È per questo che, d’intesa con Marin, la prima sezione di Gabbiano reale assunse – nel progetto del libro – il titolo di Paesaggi dell’anima. Diverse stagioni della vita dello scrittore sono contrassegnate da una produzione in prosa di varia intensità e tipologia di forme anche in ragione delle diverse occasioni di nascita e della destinazione di tali pagine : prove saggistiche, prose d’arte, pagine di memoria, racconti. Testi spesso ripresi, rielaborati, pubblicati in versioni diverse. Anche testi per trasmissioni radiofoniche. Una grande concentrazione di essi si registra tra anni Quaranta e anni Cinquanta con una propaggine anche negli anni Sessanta. Prose la cui andatura appare dettata dalle ragioni della comunicazione, dalla comunione comunicativa, dall’‘oratoria’ (in senso positivo) poetica. Prose nelle quali c’è una forte tensione centrale, di carattere lirico, che si articola – poi – in più e diversi registri. Prose di memoria, dove – spesso – la memoria sta dietro il racconto, anzi dietro il movimento del soggetto, dell’osservatore in movimento, o della sua memoria in movimento. Come, per esempio, nell’incipit di Arrivo antico a Grado, con il vapore, o in quello di Grado dove, dopo l’accenno al « rettifilo », si fa riferimento anche al mezzo di trasporto, l’automobile (« Dritta fila l’automobile lungo la riva Slataper … », p. 19), prima di attivare il processo memoriale intorno alla Grado di un tempo, il « mito lontano » per gli uomini di terra, il « regno delle fiabe » come lo definisce Marin. Così anche in Lussino : « Come sia stato io non lo so ; ancora oggi tutto mi sembra un sogno. So di esservi andato con un vapore del Lloyd […] e, infine l’attracco al molo di Lussino. C’era Pina mia moglie ad attendermi » (p. 57).  







   















































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elvio guagnini Il viaggio (in Arrivo antico a Grado), o la camminata di ricognizione, è occasione per la definizione di stati d’animo, di emozioni, di proiezione in una realtà straordinaria, a tratti atemporale : « Isola di divina bellezza […] l’ho appena intravista come in sogno » (Lussino, p. 61) ; « Era tutto un mondo di fiaba […] anche il ritmo dello stantuffo, finiva per intonarsi al sogno, al silenzio, a quell’aria di incantamento […]. Nessuno più ricordava la propria quotidianità » (Arrivo antico a Grado, pp. 16-17) ; « Grado era quella, laggiù al di là delle acque. Un suo poeta l’aveva detta “castelli in aria” » (Grado, p. 20). In Il banco dei ‘trataùri’, Marin evoca l’« incantesimo dell’isola di sabbia » (p. 28) ; in Il paesaggio, a proposito delle coste dell’Istria, Marin ricorda che ogni rada « aveva un suo incanto, un suo canto » (p. 44). Anche il termine « mito » ricorre frequentemente. In Grado, ad esempio, l’isola appare come un « mito lontano » per gli « uomini della terra » (pp. 19-20). L’angelo del campanile, che era come la « calamita dei nostri cuori », era diventato « il mito di Grado » (p.22). E, spesso, la rappresentazione del paesaggio si traduce in un viaggio, in una dimensione mitica. Queste prose di viaggio, reportages, descrizioni narrative del paesaggio propongono sempre – al centro – il personaggio che costituisce il punto centrale dell’osservazione (da ciò anche il carattere monologico, e non polifonico di questi testi). Un personaggio, il personaggio-poeta che, di fronte al paesaggio, spesso si riferisce alle condizioni dell’« anima ». Ed evoca l’« anima » come punto di riferimento dei propri paesaggi, « paesaggi dell’anima ». Sicché non è un caso che il termine « anima » ricorra così frequentemente in queste pagine : « Ritrovavi qualche cosa ch’era andato perduto, come la radice della tua stessa anima, che nella grande luce si era disciolta » (Arrivo antico a Grado, p. 17) ; « Alla bellezza della singola conchiglia devi fare l’occhio : ma prima ancora l’anima » (Il banco dei ‘trataùri’, p. 29) ; « allo spettacolo dei grandi spazi marini […] stupivano di meraviglia, e la grande luce li esaltava e la grande solitudine svegliava in loro l’anima sommersa » (Il Fortino, p. 40) ; « Lo spettacolo di lassù incantava la mia anima di bimbo sensibile » (ibidem) ; « Ogni terra ha una sua anima, ed è questa che illumina e modula gli aspetti varii eppur contenuti tutti nell’unità di una sola musica » (Il Paesaggio, p. 43) ; « Lo so, l’ho appena intravista […] : ma da allora mi è rimasta nell’anima come una musica eroica che non riesce a svanire » (Lussino, p. 61). Il controcanto di questa spiritualità (« anima ») del paesaggio è la fisicità : quell’elemento che, nelle stesse pagine, viene chiamato in causa ed è il sangue : « Il giorno era tutto un tripudio : terra rossa sopra la roccia viva, bianco azzurrina ; e su quel sangue appena rappreso, l’arioso, tenue verde degli ulivi » (Il paesaggio, p. 44) ; « Avevo sentito la sera nominare le valli vicine, la Val di Sole, la Valle d’oro […] e tutti questi nomi suonavano nel mio sangue con intonazioni di cembali » (Lussino, p. 58) ; « Dentro di me il sangue sonava come un grande organo nei cui foli soffiasse folle la bora o il grande libeccio » (ivi, p. 60) ; « L’onda musicale la senti nel sangue scorrere tepida come alito di fanciullo » (Acquarelli d’Istria, p. 55). Dal « sangue » alla « carne » : si definisce ulteriormente la componente fisica di alcuni elementi del paesaggio : « Di fronte alla infinita ricchezza di forme della terra, di fronte al calore della sua carne, quello splendore intenso […] abbagliava e sbalordiva » (Grado, p. 20) ; « Un promontorio impolpato di prati e campi di grano » (Il paesaggio, p. 46) ; il mare che si insinua nella terra, entra « nella sua carne viva, e la spolpa e ne mette a nudo le ossa » (ivi, p. 47) ; il campanile di San Lorenzo è « di pietra d’Istria, solida e bianca, ma con riflessi caldi di carne femminile » (Acquarelli d’Istria, p. 53). La fenomenologia del paesaggio marino si arricchisce di frequenti personificazio 











































































































































































marin prosatore tra giornalismo e letteratura 47 ni. È un paesaggio animato : « Che fatica venir fuori dall’acqua, così irrequieta, così, a volte, furiosa e divorante » (Il banco dei ‘trataùri’, p. 27) ; « E quel mare che urge da tutte le parti ridente, come un bimbo con gli occhi verdi, con gli occhi celesti, ti seduce nel gioco delle sue risa, e dei bacetti a schiocco contro le alghe, e delle sue lamentele piagnucolose, quando si sdraia sul dosso là dove appena appena affiora » (ivi, p. 28) ; « Salvore : il declino della costa ha la soavità di una gota di fanciulla » (Il paesaggio, p. 46) ; « Il mare da due lati dilaga grande la sua distesa, con le sue balconate, guarda sgomento, allora scendono a sciami le stelle per confortarlo » (ivi, p. 47) ; il Monte Carso, sopra la Val Rosandra, appare « camuso e ottuso » nell’« aspetto » (ibidem) ; la chiesetta di San Lorenzo di Daila appare « come una chioccia che abbia sotto l’ali i suoi pulcini » (Acquarelli d’Istria, p. 53). Largo spazio hanno anche le sensazioni musicali, la natura canora, il canto. Si pensi alle « melodiose nuvolette sopra i Carsi » (Grado, p. 19) ; o a certe esperienze di vita che, dice Marin, « non si descrivono : tutt’al più si possono cantare » (Grado, p. 24). O si ricordi, nel Banco dei ‘trataùri’, il « salmeggiare di montagne serene » (p. 30). Anche la casa, del resto, può avere degli « spazi … musicali » (Il fortino, p. 42). E certi tratti della costa istriana appaiono « quasi anticipazioni musicali del Quarnero » (Il paesaggio, p. 47). A proposito dell’Istria sotto il Monte Maggiore si parla della « grande musica dei colli che variamente si fonde con quella marina » (ivi, p. 49). Il paesaggio è, spesso, il riflesso non solo di uno stato d’animo ma pure di una esistenza. Come nel caso del già citato Banco dei ‘trataùri’ dove il dosso, il banco di sabbia che affiora viene considerato nella fatica di emergere dall’acqua, « così irrequieta », nel « dramma vivo di correnti marine e di venti », nel quale « il dosso si elevò, si ingrandì negli anni » (p. 28). Paesaggio metafora, che rappresenta anche – già si è visto – una « patria ideale » dello scrittore : « Dove la mia patria ideale ? Evidentemente su quel dosso, nato e cresciuto con me, per la magia delle correnti e dei venti, fatto di sabbie venute dalle montagne in giro, fra tanto tormento a trovare la loro pace » (p. 30). Ci sono i paesaggi-metafora e i luoghi-simbolo, come Il Fortino per la donna viennese trapiantata sull’isola, dove sorgerà la sua casa e dove, come a un’« arnia di poeti », la « gente straniera » veniva in cerca di riposo (p. 39 sgg.). Un paesaggio, dunque, che – spesso – si configura come travestimento o metaforizzazione dell’autobiografia, come strumento musicale suonato dal poeta secondo gli impulsi e i penchant del momento. Anche vissuto fisicamente con effetti sul corpo e sulle emozioni : « Eh ! Quel cielo così alto e vasto, con le montagne azzurre all’orizzonte, quei canali, quei fondali, quella lussuria delle piante acquatiche, quei voli e quei canti finivano per sfinirmi, per farmi un male che ad un certo momento mi pareva insopportabile e talvolta mi strappava le lacrime » (A levante dell’isola, p. 35). La percezione e la rappresentazione del paesaggio si accompagnano con sensazioni sempre presenti e sempre forti : « Camminavo come accecato e non ricordo nessun particolare vicino : perché l’anima mia era dispersa nel miracolo della grande luce serena » (Lussino, p. 59) ; « quando arrivai a Cigale ero sfinito per troppo bene avuto e pensavo che naturalmente, chi vedesse Dio dovrebbe morire » (ivi, p. 60).  



























































































































La geografia odeporica di queste prose mariniane non è molto vasta, anzi. Nessun esotismo. Grado, la laguna, il Friuli, il Goriziano, l’Istria, il Carnaro (o Quarnero), ritorni in Toscana e a Vienna. Una « patria ideale » come il dosso (l’isola dell’isola, si potrebbe dire : un microcosmo paradigmatico), geograficamente estesa al passato della memoria privata e familiare. Con confini fisici (e politici) segnati dalla guerra (come, per esempio, in val Rosandra e a Bottazzo) o dalle vicende della civiltà.  





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elvio guagnini Di fronte alla bellezza e alla grandezza della civiltà italiana, Marin prorompe, in Toscana : « Non è l’ottusità della barbarie che impedisce ai popoli nuovi di sentire sacra l’Italia e sacro il popolo che s’è sfinito in tanto operare per la gioia dell’umanità ? […] i barbari nulla sanno dei valori che il nostro popolo ha realizzati, anche se qualcuno di loro li ha venerati, ed è di ieri, che sono passati sulla terra sacra d’Italia rovinando empiamente, imbestialiti e furiosi di violenza, opere insigni » (Passeggiata in Toscana, p. 86). Il tempo della storia – o dell’uomo – gli sembra diverso da quello della natura. E i paesaggi valgono a sollevare riflessioni a partire dal confronto doloroso tra continuità della natura e dialettica drammatica della storia civile e privata. È quasi naturale che questa prosa, a tratti lirica, ricca di immagini che sono il riflesso di questa autobiografia poetica, debba esprimersi in pagine concentrate, spesso in serie di brevi capitoli, paragrafi, « quadri », « acquarelli », come lo scrittore li chiama talvolta anche per sottolineare la parentela visiva di questo genere di rappresentazione con suggestioni delle arti figurative. Sicché la misura dell’elzeviro, quando Marin la praticava, non era una adesione alla moda del tempo ma la naturale conseguenza della scrittura, di un modo di organizzare la rappresentazione di un percorso dove esterno e interno si rapprendevano in pagine dense e intense, suggestive e incisive. Pagine dove la descrizione era legata a un’organizzazione interiore imposta dalla percezione-scelta del paesaggio sentito come proprio, emblema di una propria condizione interiore.  















RILEGGENDO BIAGIO MARIN Antonio Daniele

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ono grato a Rodolfo Zucco per avermi in qualche misura forzato a tornare su Biagio Marin, suggerendomi un titolo così neutro (Rileggendo Biagio Marin) da impedirmi qualsiasi via di fuga e obbligandomi in certo modo a parlare ancora una volta di un poeta che mi è molto caro per una serie varia di ragioni : e non ultima quella di aver avuto da giovane una piccola corrispondenza con lui. Ma è certo che una rilettura totale della poesia di Marin non è cosa da assolvere in breve spazio di tempo, considerata la sua vasta produzione in prosa e in poesia. E anche limitandoci ai Canti dell’isola (ora fermati nei tre ponderosi volumi dell’edizione Lint di Trieste, curati da Edda Serra, 1991-1994), non ci sarebbe stato possibile pervenire a una considerazione complessiva meditata e rifinita di tutta l’opera poetica. Abbiamo così scelto, a gusto nostro, di ‘rileggere’, speriamo con qualche profondità se non proprio esaustività, una delle tante raccolte di Marin, anzi una delle sue estreme : A sol calao (Milano, Rusconi, 1974, con saggio introduttivo di Carlo Bo). Si tratta di uno dei suoi libri di poesia più complessi e articolati. Ma la poesia di Marin è un tutto fuso di materia unitaria che sgocciola giornalmente in forme liriche chiuse, cristallizzate, che hanno sempre la stessa conformazione come conchiglie della stessa specie, tutte uguali e tutte diverse, inanellate tra loro come in una collana all’infinito ravvoltolata su se stessa. E le fattezze di queste innumeri conchiglie sono quelle delle quartine, il nucleo metrico di partenza più consono a Marin, ma con una predilezione per le quartine a rime incrociate, meno per quelle a rime alternate e meno ancora per quelle a rima baciata, nei tradizionali metri dispari (dal quinario all’endecasillabo, liberamente mescolati), e con disposizione evidente per il settenario, metro principe della canzonetta tradizionale settecentesca ; pochissime sono le rime imperfette e i versi ipermetri o ipometri. Marin dunque adotta per la sua lirica un metro unitario costante, col quale poi veicola la sua poetica che è altrettanto quintessenziata e precisa, fatta di sostanze fisse, come eternate in una dimensione senza tempo (anche se non proprio senza storia), in una monotonia circolare che è, come nel Petrarca, aderenza assoluta a un modello e fedeltà ad alcuni temi che per la loro ripetitività alla fine si emblematizzano e assolutizzano, fino a farsi latori non di una vicenda individuale, ma quasi universale e cosmica (tenuto conto anche dell’afflato mistico-religioso che ha sempre informato le scritture liriche di Marin). Quanto al dialetto di Grado che sorregge il dettato poetico di Marin esso è funzionale, a mio parere, a un triplice effetto : 1) quello di esprimere una poetica di stampo popolare, che attinge però le sue istanze architettoniche-costruttive nella canzonetta mondana di stampo settecentesco e nel Lied romantico tedesco ; 2) di affermare artisticamente una condizione paesana e isolana come generalizzazione esistenziale di una dolorosa condizione umana tout court ; 3) di dare corpo d’arte, per la prima volta, a un linguaggio di separatezza e di solitudine, come spinto da una missione di redenzione ed elevazione dalla vita alla letteratura. Nessuno dei poeti dialettali veneti moderni (neanche i più grandi : né Giotti, né Noventa, né Zanzotto per la parte che gli compete) è riuscito a fare del suo dialetto un monumento così cospicuo, a innalzare una cattedrale così compiuta, in cui pietra  













50 antonio daniele dopo pietra si è giornalmente elaborata la costruzione perpetua della vicenda della vita e della morte, del reale e del pensato, del transeunte e dell’eterno. Chi legga di fila tutta l’opera poetica di Marin ha come la sensazione di un cantiere aperto a tutte le ore in cui il mastro sia sempre al lavoro per allargare, per edicole sovrapposte, quel suo monumento, senza tuttavia mai deviare dall’idea originaria dal primo disegno fioritogli nella mente. È per questa ragione che la poesia di Marin è un interminabile canto che si dispiega dal mattino alla notte, senza interruzione, secondo un tragitto prima ascendente e poi declinante che si rispecchia anche nei titoli delle sue raccolte : per cui con A sol calao siamo, per esempio, temporalmente tra sera e notte, in quel discrimine della vita nel quale, simbolicamente, il sole è tramontato ma la notte non è ancora calata.  

* Il volume A sol calao è dedicato al figlio Falco, morto in guerra in Slovenia nel 1943. La prima lirica, nel trentennale della morte, è dedicata a lui ; quelle immediatamente successive alla moglie ; più in là alcune altre sono dedicate, in morte, all’amica d’infanzia Maria. Si comincia dunque con una reintegrazione familiare, con una sorta di convocazione degli affetti più stringenti. E proprio intorno ad essi Marin disegna il suo tracciato esistenziale, a partire dalla seconda lirica a Pina, laddove la fioritura dei figli si allea con quella dei canti, la vita di casa si mescola con la creazione poetica (con un egocentrismo parificatorio che in Marin non teme rimprovero), che sfida la morte :  





Se tu t’ha fato figi al tenpo tovo, me filo versi sora antichi fusi, ma tanti e tuti ariusi, e in ogni primavera li rinovo. ’Ste fiuridure grande xe duta la gno sorte, la luse che se spande al de là de la morte. 1  

La meditazione sopra la propria poesia, il renderla essa stessa argomento di poesia è uno dei moduli più ricorrenti del fare mariniano, cosicché molto spesso la poesia si fa figura di se stessa e il dialetto diventa un metalinguaggio autocritico, poesia della poesia. A questo si deve aggiungere un perenne rito di abbassamento, di esibita professione di modestia, di conferma di istintiva ispirazione, cui per converso si allea spesso un disperato senso di frustrazione e di lamento per un ambito consenso universale di cui il poeta si è sentito (a torto o a ragione) sempre defraudato. In questa direzione l’orgoglio del creatore si scontra con l’umiltà consapevole del cantore nativo :  

Podé stâ siti, me lo sè : son povero, tapin : no hè studiao latin, né regola del tre. Son nato e son cressùo in mezo del palùo, de Grao, fra l’are e fra i canali, a fior d’una barena, co’ i corcali.  



1

  Biagio Marin, A sol calao, con un saggio introduttivo di Carlo Bo, Milano, Rizzoli, 1974, p. 47.

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[…] La dolse mia maniera no xe nata da carte, ma soltanto da l’arte che univa mar e tera. 1  

A volte però (più raramente) Marin può innescare, parlando della sua ispirazione, anche il registro dell’ironia (non certo del tipo scoppiettante palazzeschiano, né quella acidula montaliana), ma una più bonaria, alla mano che pare discendere più dalla veneta chiacchiera e battuta goldoniana che da certe sorridenti malinconie di primo Novecento :  

La musa mia ha i pìe lisieri cofà le bole de savon nel vento che le va in perdimento ne l’aria, vulintieri. Se pur la ciamo gnanche la se volta, se ’i canto rime storneli de le luse prime no la me scolta. Inutile la rabia per ramendo e fâ la vose grossa : co’ lisiera una mossa la sparisse ridendo. A volte me la coparavo: cô sento da lontan la so riàta : la musa mia xe bela e mata e su la pele l’ha un vestito biavo. 2  





Eppure la mite ironia di questo componimento ha anche la tenue vanità di certi compiacimenti sentimentali crepuscolari, in cui il poeta finge pavidità, rossore, scarsa intraprendenza. Viene qui simulato quel sentimento di incertezza e di soggezione, di autosvilimento e di abbassamento dell’egocentrismo lirico, che è tipico proprio del crepuscolarismo e di certa ironia epidermica e come edulcorata che gli era propria. Così pure si può dire di un altro componimento che inizia D’êsse dito poeta me vergogno, e che conclude con espressioni alla Corazzini (si pensi al reiterato grido Io non sono un poeta della Desolazione del povero poeta sentimentale), anche se non altrettanto piagnucolose :  

No son poeta : scrivo soltanto se cato el verso pronto, ne l’angolo più sconto. de l’anema in mareta. Quel che vien fora, lo sé più tardi, a versi za stanpai, e garghe volta, gnanche alora ; e leso i testi, vogi stralunai. 3  





Tale componimento è assai interessante perché rivela anche un’idea tipica di Marin : quella della inconsapevolezza dell’artista, della sua quasi estraneità al prodotto sul  

1

  Ivi, p. 244.

2

  Ivi, p. 104.

3

  Ivi, p. 230.

52 antonio daniele quale opera come in tranche, quasi non riconoscendolo come suo. La poesia per lui è il frutto di uno sconquasso interno, indeterminato e indeterminabile, di cui l’artista quasi nega la responsabilità. C’è un quid di Nietzsche soggiacente in queste teorie poetiche affioranti, e una quota di quell’irrazionalismo che forse ha sempre sfiorato la mente filosofica di Marin. Tutti sanno infatti della costante passione ideologica che ha attraversato la sua vita e la sua inclinazione per la speculazione pura : speculazione tanto più interessante e oppositiva rispetto alla saggezza di tipo popolare che caratterizza la sua poesia, fatta di una sentenziosità di tipo naturalistico, di un’osservazione primaria, immediata,‘incolta’, tale da piegare anche al realismo una lirica fondamentalmente volta all’esperienza sublimante, all’assolutizzazione del concetto. Il personale atto di modestia che campeggia in tutto il corpus poetico di Marin non va disgiunto dalla sua ossessione del misconoscimento, come si è detto, del suo merito : ossessione che ha travagliato anche i suoi ultimi lunghi anni, quando i segni della dimenticanza e della negligenza nei suoi confronti si erano del tutto invertiti e anzi mutati in un apprezzamento pieno della critica. Ma il ‘sentimento’ di essere stato trascurato s’era ormai sedimentato in lui, al punto che anche nella raccolta in esame c’è una lirica che mette il dito sulla piaga :  





Adesso moro : no i m’ha dao la gno parte per tante carte sonanti dei gno canti d’oro. Xe stao ’l gno torto vignî co vose strana da un’isola lontana co’ il so picolo porto. Senpre più avari i me lassa ’ndâ via, co’ i sintimenti amari per la sova busia. Povera monodia d’aqua che score i vol che sia la gno puisia, solo rumore. Lasso che i diga : me creo nei rusignoli, ne l’òrdole tra i nuòli, che sa cantâ sensa faìga. 1  





Con questa idea di isolamento senz’altro reale, ma in qualche misura poi alimentata da lui stesso, Marin ha convissuto tutta la vita, alla fine piegandola anche a cifra della propria esistenza, trasformando l’isola di Grado in recinto di separatezza, in sintesi ambientale della sorte umana : « Son isolan / e da senpre isolao / sul lìo de Grao / teraferma lontan ». 2 Ho avuto anch’io testimonianza diretta della diffidenza di Marin nei confronti della critica, a tal punto inveterata da farsi palese a un giovanotto come me alle prime armi e alla sua prima lettera a lui rivolta. Così infatti egli mi scriveva il 30 maggio 1977 : « Ho subito per tanti anni l’ostracismo e i giudizi senza impegno, che quando anche un galantuomo pensa di potermi confortare con un suo giudizio  











1

  Ivi, p. 257.

2

  Ivi, p. 310.

rileggendo biagio marin 53 schietto, non mi riesce di prenderlo sul serio. C’è in me un fondo di amaro e di dubbio che non riesco più a superare ». 1 Certo è che tradotta in poesia la diffidenza di Marin si tramuta in un lungo lamento, e si ammanta della solitudine e talora anche della rigidità dell’uomo, chiuso in un suo mondo a parte di divagazione e di canto. Ma la separatezza, l’ostracismo dei contemporanei divengono, per contrasto, elementi di forza e anche il poeta in dubbio di sé si fa forte delle proprie debolezze e incertezze, ritrova nella sua stessa fantasticheria poetica le ragioni vitali del suo esistere :  





Un bon da ninte, senpre inserto, xe ’ndao par tante strae e d’inverno e d’istae, par tere sconte e mar averto. […] L’ha dito sì a la fame, duta la vita travestìa in canson, ’i gera un bon bocon ; comò canto dei piti su le rame. 2  



Marin ha trasfuso tutta la sua vita in canto : un canto ininterrotto e senza bisogno di rispondenze o di echi, così assoluto da bastare a se stesso, trovando giustificazione e consolazione nello sfogo giornaliero come d’uccello sul ramo, in una appassionata, ininterrotta espressione quasi diaristica della propria vena melica. Nessuno come lui ha depositato sulla pagina bianca il quotidiano assillo dell’esistere, trasformandolo in sospiro, in gorgheggio, in verbo musicale, uniformandolo ai suoni per lui più naturali e prossimi, quelli del vento e del mare. Ne è derivato quell’impasto di monotonia e di eterna variazione che è tipico della sua poesia, e ha tutti i connotati del permanente e insieme, nella sua ossessiva insistenza, dell’eterno. A questo si aggiunga il suo lessico numerato e seletto (anche Pasolini lo diceva un petrarchista), le cui prime essenze sono quelle sostanziali degli elementi, del cielo e della terra, del sole e delle stelle, del mare e delle onde. Come un pittore dalla tavolozza dai colori rarefatti, egli ha schizzato la sua tela ininterrotta e senza cornice, con speditezza impressionistica, ma anche con ferrea determinazione di poetica : una poetica tutta istintiva e al limite dell’inespresso, difficilmente per lui qualificabile e razionalizzabile in termini obbiettivi. Perché è proprio dell’esperienza di Marin – anche questo è da dire – che le sue realizzazioni superano senza dubbio le sue teorizzazioni, che la sua poesia si invera di un sentimento sicuro, non certo di un altrettanta sicura coscienza del suo fare poesia. È per questa ragione che la lirica di Marin ha maggiormente del miracoloso : perché nasce quasi da un’incoscienza (o, meglio, scarsa coscienza) teorica e da una fanciullesca e del tutto ‘ingenua’ vena, avvicinandosi in questo a una sorta di primitivismo artistico che è proprio delle forme e anche delle sostanze (si osservi, ad es., la semplicità sintattica di talune liriche) : e in questo Marin del tutto naturalmente (e senza alcuna intenzionalità intellettualistica) associa visione colta ed emotività dialettale popolare, sgrammaticatura e intuizione lirica fulminante.  







* 1

  Antonio Daniele, Due lettere di Biagio Marin : quello che sentiva di sé, « Studi mariniani », xii, 9-10, 2   Biagio Marin, A sol calao, cit., p. 303. 2004, pp. 153-159 : 153.  







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La lingua che Marin si è forgiata è un unicum che ha il suo fondo nel dialetto di Grado, ma penso sarebbe assai difficile considerarla come documento indiscusso di una parlata, testimonianza pura di una comunità chiusa e screziata di molti tratti arcaici rispetto allo sviluppo evolutivo dei dialetti veneti contermini ai quali si apparenta. Si tratta in buona misura di una lingua ‘inventata’, d’autore, che enfatizza, come si sa, certi tratti fonetici arcaizzanti (vedi la metafonia), insiste – specie in rima – sulla desinenza in -ao del participio passato della prima coniugazione, conia astratti – piuttosto alieni nel dialetto – come le predilette biavitae (‘azzurrità’), vagasion (‘vagabondaggio’), lontanìa in alternanza con lontanansa ecc. E questo tuttavia senza alterare minimamente il senso di una dialettalità immediata, spontanea, che tollera, assai di rado e quasi casualmente, i minimi iperbati dal vago sentore letterario, i quali appena contrappuntano e movimentano la distesa fluidità senza intoppi del lirismo mariniano ; e anche senza perdere quel tratto di realismo suggestivo e pratico che determina e informa la scelta dialettale. Così scrive Montale, pur riferendosi alle prime raccolte del poeta : « Il dialetto vuol essere giustificato punto per punto da una precisa aderenza di significati e di riferimenti, e non deve perciò, né può, evitare l’episodio, il rilievo, il carattere. Il Marin ci riesce per lo più senza grettezza, e questo e già molto raro ; e ci riesce affinando la sua espressione, senza renderla per altro meno dialettale e sincera ». 1 In verità il miglior Marin è sempre quello più semplificato : quello che da una lingua ripetitiva e basica sa spremere le essenze più profonde, che restringendo il vocabolario sa ritrovare, come inavvertitamente, la via di una immediatezza prodigiosa. Ecco un esempio :  















Me ’speto senpre, ’speto incora, che fassa l’alba, che fassa aurora, e che vegna a dâme un baso, a ufrîme el so geranio in vaso, prima che ’l nuòlo incora rosso de l’ultima zornâ sia disparìo, sora del lìo, sora del dosso. Xe za l’ultima ora : la score calma e sita la porta via la luse de la vita, e me son qua che ’speto incora. 2  

Si tratta di un componimento di una consistenza quasi eterea, che riunisce in un solo soffio, vale a dire senza punto fermo tra loro, la prima e la seconda strofa (caso rarissimo in tutta la raccolta in questione) e mette in sequenza tre quartine di varia consistenza, fatte di tutti imparisillabi, dal quinario all’endecasillabo. La prima strofa è a coppie di rime baciate, le altre due sono a rime alternate. La lirichetta, nella sua esiguità, si configura però come una forma tradizionale, quella della ballata, con ripresa finale della rima iniziale. Ripresa non puramente fonica, ma anche semantica, essendoci anche circolarità concettuale tra il principio e la fine. È questo uno dei tanti casi in cui la povertà dei mezzi espressivi e l’iterazione provocano un risultato altissimo, degno della più nobile tradizione madrigalistica italiana, segnatamente del 1

  Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 2   Biagio Marin, A sol calao, cit., p. 114. 1996, p. 302.

rileggendo biagio marin 55 Tasso, prima ancora che dello spirito romantico dei Lieder di Lenau, di Heine e di Goethe. Lo stesso processo di ritorno ciclico, con chiusura quindi ballatistica e ripresa delle identiche parole-rima iniziali, si ha nel componimento di quattro strofe Xe ’rivao ’l to lamento, un canto di lontananza con uno strascico lamentoso. C’è dal punto di vista concettuale una situazione di presenza-assenza, di opposizione basica io-tu (con una figura femminile sullo sfondo), tipica della melica universale, veicolata da qualche legame anche per via di anadiplosi tra prima e seconda strofa (« … lontana, assente. // Cussì lontana / cussì assente anche tu… »), una collocazione temporale e ambientale di solitudine marina, in cui il poeta, per figura, si intende avvolto nella luce vespertina del declino. Sono pochi elementi, delineati con pochi tratti, e con una retorica povera e tuttavia efficacissima di antitesi e di ripetizioni. In questo sta la grandezza di Marin : una olimpica semplicità che è prima di tutto sicurezza :  







Xe ’rivao ’l to lamento : hè vardao verso oriente : la montagna nel vento lontana, assente. Cussì lontana cussì assente anche tu, in quel to mondo blu, on fior de gensiana. Me, solo mare : ola drio l’ola, dute uguale : un sole vesperale, senpre pronto a tramontare. Favela a volte el vento : xe ’rivagia a le fose la to picola vose, con un longo lamento. 1  











Del tutto similare è, come costruzione, anche un’altra lirichetta, il cui schema si potrebbe ritrovare facilmente pure altrove e in cui le rispondenze rimiche assecondano la comparazione del vecio (il poeta) e del talpon (il pioppo di casa), in una somiglianza stretta che ripropone quel dualismo simmetrico che abbiamo notato nel componimento precedente :  

Là fora del barcon el talpon no l’ha più fogia : e in casa el paron gnanche una vogia. I se sumigia : lontana la stagion de le fogie e canson e de l’erba luvigia. Rami nùi trema ne l’aria trasparente : l’ore del vecio score massa lente la morte ariva, ma co’ flema. 2  







1

  Ivi, p. 267.

2

  Ivi, p. 92.

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In questo caso l’assetto delle rime e delle consonanze tra prima e seconda strofa tesse un’unione stringente tra i comparati, imprime un andamento ritornante al ritmo, consente di preparare la chiusa divaricata sintatticamente, concettualmente stringente in un solo fascio l’albero spoglio e il vecchio poeta ormai nella stagione senza canti. * La divisione di A sol calao è stabilita in cinque sezioni. Ma faccio difficoltà a enucleare all’interno di esse una tematica progressiva o differenziante. E del resto tutta la poesia di Marin e in particolare i suoi ultimi volumi costituiscono un insieme pressoché indiviso (a parte le prime raccolte giovanili), per cui risulta complicato anche distinguere entro la maniera del poeta qualche traccia di scarto o di devianza dal suo fare consueto. Tuttavia, pur in una compattezza quasi marmorea del suo edificio lirico, è forse possibile ritrovare qualche segno di venatura, qualche traccia di progressione. Così, per esempio, nella prima e seconda sezione di A sol calao emergono i ricordi dei familiari e degli amici morti : oltre a Maria [Degrassi], compaiono anche figure come quella di Mario Dovier (a lui è destinata una serie di quattro componimenti), in vita compagno di voga e di canti ; dell’umile Meneghina [una compaesana], che ha lasciato dietro a sé una scia di bontà ; e di altri amici, variamente implicati nella loro interrelazione con Marin (Elena [Degrassi, una congiunta], Franca [la figlia di Tomizza], Elvio [certo Guagnini], cui si aggiunge, nella sezione quinta, anche Mateo [un semplice contadino, che viveva presso Monfalcone, sotto l’Hermada) e Didi [una cara amica, moglie del dottor Mario Smareglia]. 1 Sono questi semplici agganci con la vita e la realtà cotidiana e normale degli incontri che staccano la poesia di Marin dalla sua siderale, metafisica considerazione del mondo quasi sganciato da ogni contingenza che non sia l’incontro con il proprio spirito e la natura : una natura non leopardiana, amica, tutto sommato consolante anche nelle sue implicazioni tragiche. Sono questi incontri con l’uomo che detergono Marin del suo assoluto, non altero ma separato, insistere verso un’aspirazione di eternità. La terza sezione dà forza a una acuta presenza di Dio, mescolata a una ancor più viva e febbrile contemplazione della morte (intesa come preparazione al trapasso), che spinge verso un singolare trionfo dell’eternità :  











Cô me disfo del duto svolo nel cuor a Dio : za adesso, silensioso score el rio, nel mar de Dio, più muto : in quel silensio cage i suli che lo corona : el canto mio da tanto sona, par dîli l’amor mio co’ tanti svuli. In Elo no xe geri e no xe incùo, no fiorisse i roseri e Dio xe nùo. 2  







Spicca in questa sezione (per il suo carattere di sorpresa) la lirica A la memoria di Lorenzo Milani, una sorta di riparazione personale a dispetto delle avversità e oppo1

  Sono grato a Edda Serra per alcune di queste informazioni.   Biagio Marin, A sol calao, cit., p. 227.

2

rileggendo biagio marin 57 sizioni patite da quel prete coraggioso ; ed è questa forse l’unica tangenza del libro con l’attualità, il solo punto in cui esso, al di fuori della vicenda personale del poeta, s’incrocia con la storia. Non escludo che nel personaggio di don Milani Marin si sia in qualche misura identificato, per la sua vicenda personale di soggetto controcorrente, di incompreso e sostanzialmente anche emarginato :  



L’aqua fresca de fonte da rocia scaturìa, l’ha fato corentia calando zo dal monte. Dalongo i òmini ha provisto a fâ dighe de piera, a inpedì che la tera la fessa massa aquisto. Le dighe sbara, no le lassa passâ che una corente avara, verso la libertà. 1  

Nelle ultime due sezioni del libro la poesia sembra ancor più smaterializzarsi, il canto sembra farsi ancora più lieve, permanendo sullo sfondo sempre l’idea incombente della morte. Certe movenze si avvicinano ad alcune soluzioni goethiane, come nel caso del Lied Cô cala la sera, che si apparenta per concezione al noto Über allen Gipfeln / Ist Ruh’…, anche se con conclusione rovesciata :  

Cô cala sera el vento tase e xe la pase sora la tera. Ma duto’l zorno la bava inquieta move mareta e nuòli intorno. Leva tenpeste la vita, a ore ; dopo le feste la zogia more. 2  



Il componimento di tutti quinarî in questo caso (ma non è l’unico) pare quasi emblematico del ridursi sempre più all’essenziale del respiro di Marin, un tratto di ulteriore estenuazione ed evanescenza in quel tempo di incerta luce, a sole tramontato, in cui la notte è imminente. 1

  Ivi, p. 265.

2

  Ivi, p. 299.

SULL’EPISTOLARIO MARIN-SERENI* Fabiana Savorgnan di Brazzà

L

a mia relazione riguarda otto lettere di Biagio Marin 1 a Vittorio Sereni conservate nell’Archivio Privato Sereni, serie vi di Luino. Vanno dagli anni 1967 al 1981. Sono spedite da Trieste, da Grado e da Roma. Non abbiamo ancora rintracciato le responsive di Sereni a Marin. Al momento ancora infruttuose le indagini condotte nell’Archivio Marin di Grado e Trieste e, per le eventuali minute, nell’Archivio privato della famiglia Sereni. A questo manipolo di lettere aggiungo quelle scambiate tra Marin e Sereni, conservate nell’Archivio della Fondazione Mondadori di Milano, Direzione letteraria Vittorio Sereni e nella sezione Segreteria editoriale autori italiani (fascicolo Marin) : si tratta di ventuno lettere datate dal 1962 al 1964 e sette tra il 1968 e il 1972 ; notizie collaterali circa i rapporti tra Marin e Sereni si trovano nella corrispondenza tra Marin e l’editore Scheiwiller (Archivio Apice, Fondo Scheiwiller di Milano). 2 Le lettere conservate alla Fondazione Mondadori indicano che l’inizio dei rapporti tra Sereni e Marin risale al 1962, quando Sereni, allora direttore, 3 appare impegnato già nell’edizione di sue opere. 4 Le missive vanno viste nel contesto della grande delusione e scoramento del Poeta, che non vedeva affermarsi la sua poesia, e temeva che il dialetto ne fosse la causa. Questo motivo di insoddisfazione in Marin appare portato all’estremo, al punto che l’editore Vanni Scheiwiller, grande estimatore suo e della tradizione che egli rappresentava, 5 un’èlite ben caratterizzata, pubblicava le sue poesie e si faceva carico di sostenere il Poeta presso conoscenti e amici per l’assegnazione di Premi letterari. La costante delusione di Marin verso il mancato riconoscimento delle sue opere, ci sembra abbia contribuito a generare in Scheiwiller un sentimento di comprensione fraterna, diffondendo l’idea di un Marin “poeta incompreso”. La stima autentica di Scheiwiller, costante nel tempo, è testimoniata, come abbiamo detto, anche per l’impegno profuso nella sollecitazione di attenzione dei critici-giudici nei Premi. In occa 













* Ringrazio Roberto Norbedo per l’invito a partecipare a questo convegno e soprattutto Rodolfo Zucco che mi ha segnalato le lettere di Biagio Marin a Vittorio Sereni conservate nell’Archivio privato Sereni di Luino. Doverosi ringraziamenti vanno anche a Gioiella Marin e Alia Englen per avermi permesso di pubblicare le lettere di Biagio Marin ; alle figlie di Vittorio Sereni, Silvia e Giovanna per l’autorizzazione ad editare le lettere del padre ; a Barbara Colli dell’Archivio di Luino e a Tiziano Chiesa della Fondazione Mondadori di Milano che si sono prodigati per facilitarmi nello studio dei documenti. 1   Per le indicazioni bio-bibliografiche, si veda la voce curata da Elvio Guagnini in Nuovo Liruti. Dizionario Biografico dei Friulani. 3. L’età contemporanea, a cura di Cesare Scalon, Claudio Griggio, Giuseppe Bergamini, Udine, Forum, 2012, pp. 2122-2130 ; vedi anche Biagio Marin, Scritti goriziani 1920-1923, a cura di Pericle Camuffo, presentazione di Edda Serra, Pisa-Roma, Serra, 2012. 2   Cfr. ‘L’Editore ideale’. Scheiwiller, la cultura e gli scrittori del Friuli-Venezia Giulia, (Mostra documentaria 11 aprile-31 maggio 2001), « I Quaderni dell’Archivio », 7, 2001. 3   Per i rapporti tra Sereni e la Mondadori, vedi Lisa Gasparotto, Poeti leggono Poeti. Sereni ha trasformato « L’Usignolo », in Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, a cura di Ilaria Crotti, Enza Del Tedesco, Ricciarda Ricorda, Alberto Zava, ii, Pisa, ets, 2011, pp. 241-255. 4   Cfr. Centro apice, Fondo Scheiwiller, Università di Milano, fasc. Marin 4439, lettera di Vittorio Sereni a Scheiwiller, datata « Milano, 4 dicembre 1962 » ; lettera di Scheiwiller a Marin, datata « Milano, 2 maggio 1964 ». Sereni e Marin si incontreranno a Grado nel ’70 : cfr. lettera xxxi. 5   Ivi, b. 3319, lettera datata « 6.7.61 ».  





























60 fabiana savorgnan di brazzà sione del Premio Cittadella, 1 ad esempio, Scheiwiller scrisse una settantina di lettere in favore di Marin, in particolare insistette presso Diego Valeri, 2 in quanto presidente della Commissione. 3 Si prodiga presso Sereni affinché gli venga riconosciuto ora il Premio Firenze e Montefeltro, ora quello Spoleto, 4 ora il Viareggio ; in quella sede certo incappava in critici che tendevano a indebolirlo ; forse, tra di essi, Petronio, titolare della cattedra di Letteratura italiana all’Università di Trieste, Preside della Facoltà di Lettere e critico “laico-marxista” come lo definì Marin. Il giudizio negativo di Giuseppe Petronio si evince in una lettera di Marin a Scheiwiller dove il Poeta si lamenta perché Petronio si era opposto alla proposta dell’Università di conferire la laurea ad honorem in occasione del cinquantesimo dell’Università. 5 Delusione che si ritrova in una lettera a Scheiwiller del ’67 in occasione del Premio Viareggio, che Marin non vinse.6 Riconoscimenti che tardavano a venire, quando lui stesso confessa a Sereni l’8 giugno 1967 : « E come mi umilia il silenzio dopo il varo di un mio libro. Costa anima e sangue un libro di poesia. Lei lo sa ; e il silenzio che segue al suo varo, alla sua pubblicazione desta dubbi e angoscie, che sono quasi insopportabili ». 7 Il pregiudizio “antidialettale” lo perseguita e lo sfiora il sospetto che estimatori come Carlo Bo non fossero così risoluti nel sostenerlo. Scrivendo ancora a Sereni nel 1970, fa notare la scarsa attenzione non solo nei suoi confronti : « Nel ix volume, della Storia della letteratura italiana della Garzanti, Bo, il mio caro Bo, ha liquidato un gruppo di sei o sette tra i maggiori dialettali d’Italia, in sei o sette righe. E tra essi, un Giotti appena nominato. Un Noventa non meritava di più ? A me è stata regalata una frase : “È per noi uno dei maggiori poeti del 900”. E non una parola di giustificazione. Se Bo credesse veramente che io sono uno dei maggiori poeti del Novecento, avrebbe dovuto giustificare il suo atto di fede che non è ancora maturato a chiaro giudizio ». 8 Qualche anno dopo, in una lettera a Sereni, datata 9 novembre ‘70, si lamenta del ripetuto mancato riconoscimento : « Sono mortificato per non aver avuto il Viareggio, dove, per la terza volta sono stato discusso nella finale, e poi eliminato. Eppure, La vita xe fiama 9 non è pai [ ?], – mi scusi, io non ho diritto di giudizio. Ora non so se mai potrò arrivare, là dove pur un Giotti, un Noventa, tra i veneti, sono arrivati. E morire con il dubbio di essere dei falliti, è cosa dolorosa e molto mortificante. Vero è che poesie in dialetto non si vendono e che allora c’è da ringraziare Dio se, ciononostante si è avuto l’onore del Bagutta », 10 per ribadire nella lettera del 1970 : « Anche recentemente, Spagnoletti, in una sua recensione a “La vita xe fiama” ha scritto, che non può dare un giudizio, perché non si capisce. E si tratta di una antologia che raccoglie veramente il meglio degli ultimi anni. Con quelle premesse il libro non circola e io resto bloccato tra pochi amici lettori. Senonché è parere anche mio, di meritare più di  



















































1   Ibidem, comitato del Premio Cittadella (1961), composto da Carlo Bo, Carlo Betocchi, Aldo Camerino, Ugo Fasolo, Giuseppe Longo, Giuseppe Mesirca, Aldo Palazzeschi, Bino Rebellato, Diego Valeri. 2   Diego Valeri (Piove di Sacco, 1887 - Roma, 1976), scrittore, docente di lingua e letteratura francese all’Università di Padova. 3   Ad esempio, Palazzeschi scrive a Scheiwiller che si era rivolto a lui per l’appoggio a Marin al premio Cittadella : cfr. lettera datata « Venezia, 18 sett. 61 » (Centro apice, Fondo Scheiwiller, fasc. Marin 4.700, b. 4714). 4   Cfr. Centro apice, Fondo Scheiwiller, cit., lettera datata « 7.9.64 » e lettera del « 10.9.64 ». 5   Ivi, lettera di Marin a Scheiwiller, datata « Trieste 13. xii. 67 ». 6   Ivi, b. 3319, lettera di Scheiwiller a Marin, datata 26.7.67 ». Torna sulla delusione del Viareggio anche nella lettera a Scheiwiller del « 15.7.67 ». 7 8   Cfr. lettera xxii.   Cfr. lettera xxviii. 9   La vita xe fiama. Poesie 1963-1968, a cura e con nota bio-bibliografica di Claudio Magris, prefazione di 10   Cfr. lettera xxxi. Pier Paolo Pasolini, Torino, Einaudi, 1970.  























sull ’ epistolario marin-sereni 61 venti lettori. Di qua, non fregole di successo, ma bisogno di quella pubblicità che un premio come il Viareggio sempre comporta. […]. Prendo atto che tanti sono i concorrenti, e che tutti hanno i loro estimatori, ma non riesco a capire come importanti personalità delle lettere, non riescano a imporre o a persuadere gli altri alla semplice selezione dei valori. […]. Speravo anche che il Viareggio mi facilitasse la stampa di una nuova raccolta di versi, che vorrei veder stampati prima di morire ». 1 Delle questioni editoriali troviamo traccia in diverse lettere. Già nel 1962 Scheiwiller si era fatto promotore degli scritti di Marin (Elegie istriane, edito nel 1963), informandolo di aver sottoposto alcuni suoi lavori all’attenzione di Sereni, definito da Scheiwiller “poeta e uomo carissimo, adorabile e limpido”. 2 Eppure le perplessità di Sereni emergono in una sua lettera a Scheiwiller dello stesso anno, quando, ribadendo la stima per il Poeta, esprime i suoi dubbi circa la pubblicazione della raccolta di Nosse d’oro di Biagio Marin e circa l’opportunità, in generale, di dare alle stampe libri di poesia in dialetto. 3 Quattro anni dopo, nel 1968, Marin informa Prezzolini 4 che Sereni, responsabile della “Collana dello Specchio” non intende accogliere una sua raccolta di liriche perché in dialetto e l’8 dicembre 1968 ribadisce : « Avevo chiesto a Sereni se era possibile che Mondadori m’accogliesse nella collana dello Specchio. M’ha risposto secco di no, perché dialettale, perché commercialmente non valido » ; 5 tra il 1969 e il 1972, infatti, è in corso una lunga trattativa con Marin per una edizione delle opere, che si conclude negativamente, lasciando trasparire la freddezza della Casa editrice verso la poesia dialettale e un atteggiamento di generale pregiudizio. 6 Ne è testimonianza una lettera di Sereni a Sergio Polillo del 1969, che rivela, in ogni caso, la stima di Sereni verso il Poeta gradese. 7 La difficoltà di comunicazione con la cultura ufficiale emerge anche nella lettera a Sereni del 1972, spedita da Grado, in cui Marin rivendica la piena dignità della poesia dialettale, lui che si era dichiarato a Prezzolini : “alberello dialettale” : 8 « Le mie esigenze di fronte alla poesia sono troppo diverse. Lo so : c’è di mezzo il dialetto, uno scisma che solleva scandalo. Mi ha scritto una volta Prezzolini che in un incontro con Cecchi, 9 questi gli aveva detto che per lui, il maggior poeta del 900 italiano, era Salvatore Di Giacomo, ma che per l’amor di Dio non lo dicesse a nessuno. 10 Cesare Brandi nel suo saggio sulla poesia, ci ha bollati “famigerati”. 11  















   







   











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  Cfr. lettera xxxii.   Cfr. Centro apice, Fondo Scheiwiller, cit., lettera di Scheiwiller a Marin datata « 6. xii, ’61 ».   Ivi, lettera datata « Milano, 19.02.62 ». 4   Le lettere a Prezzolini (Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, a cura di Pericle Camuffo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011) testimoniano delle reiterate richieste di aiuto di Marin per editare sue raccolte poetiche ; a Prezzolini chiede di farsi intermediario presso l’editore Vallecchi. 5   Cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., pp. 210-211. 6   Cfr. Gian Carlo Ferretti, Poeta e di poeti funzionario, Milano, Fondazione Mondadori, 1999, pp. 156-157. 7   Cfr. Archivio Mondadori, lettera datata : « Direzione Letteraria, Sede, 3 marzo 1969 ». 8   Cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., p. xliii. 9   Felice Del Beccaro, Cecchi, Emilio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, 23, pp. 250-261. 10   Lettera di Pina e Biagio Marin a Prezzolini, datata « Grado, 16 dicembre 1973 » : « Ricordo sempre l’episodio da te narratomi in una tua lettera di quel discorso tra te e Cecchi a proposito della grandezza del Di Giacomo quale poeta. Tu gli avevi detto che lo consideravi il maggiore poeta del ’900 italiano. E lui s’era dichiarato d’accordo con te, ma ti aveva subito pregato di non dire a nessuno che così giudicava. Comunque sia, S. Di Giacomo ha sfondato : io no » (Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., p. 276). 11   Cfr. Cesare Brandi, Elicona ii . Celso o della Poesia, Torino, Einaudi, 1957, p. 253. 2 3





























62 fabiana savorgnan di brazzà Sono cose che io non capisco. Ma non accetto questi giudizi e non riconosco a nessuno il diritto di boicottare la poesia che fosse scritta in un altro volgare che non sia quello detto “italiano”. E trovo che non si dovrebbe confondere il problema utilitario della lingua d’uso comune, che riconosco importantissimo con quello della lingua della poesia. In questo mi sento crociano. E so che di fronte a opere come Via [delle] cento stelle la mia “poeticamente” vale di più, anche se mi si riduce al nulla ». 1 Ma nel saggio Brandi (Eftimio) non ridimensiona solo il dialetto, ma la lingua moderna. La poesia, che fa tutt’uno con la musica, si era realizzata solo nei versi greci e latini (la poesia greca in particolare nasceva dall’oralità e da Omero). Il dialetto con la sua calata, con le sue cadenze di origine accentuativa e tonica non aveva quel rapporto con l’armonia che era proprio della parola nella lirica classica e nella sua prosodia. La parola dialettale nella sua scomponibilità si adatta al teatro e al romanzo, alla caratterizzazione dei personaggi e alla loro “gradazione” (si pensi a Ruzante e a Goldoni). La parola nella lirica ha una unità di parola e musica che è esclusiva della poesia antica. Marin nel sostenere lo stretto rapporto tra cultura e vita, l’adesione piena al “piccolo nio”, al suo mondo gradese e al suo linguaggio, confutando la distinzione lingua-dialetto, propugnava, crocianamente, per questa via, un’idea di assolutezza della poesia, come ha visto bene Elvio Guagnini. 2 In tal modo Marin in Dialetti e lingua nazionale in Italia, 3 potè definire il gradese il “rudere di un antico dialetto quasi medievale”. Il gradese, per Marin, risale al Duecento e al Trecento (Dante compreso), prima che si avviasse la costruzione della lingua nazionale. 4 La distinzione fra “poesia dialettale” e “poesia in dialetto” si deve al Pancrazi, ma, afferma Bruno Maier riferendosi a Biagio Marin : « solo per asserire inequivocabilmente […] che quella del Marin è, sempre e soltanto, “poesia in dialetto”, cioè poesia che, come ogni vera poesia, si costruisce o si crea il proprio linguaggio, coincidente, nel nostro caso, con la parlata gradese, accolta e sentita dall’autore come una imprescindibile necessità espressiva, e divenuta tutt’uno, attraverso un felice processo di selezione e depuramento, con il mondo paesano evocato da lui, e con la sua medesima presenza e dimensione umana ». 5 Alla rivalutazione di Marin come poeta in dialetto contribuirono anche gli studi di Luciana Borsetto, Antonio Daniele, Piero Gibellini, e altri. Un merito particolare, tuttavia, va a Claudio Magris, estimatore della prima ora di Marin e a Pier Vincenzo Mengaldo, che lo inserisce nella sua Antologia dei Poeti italiani del Novecento, ravvisando la sua funzione di cerniera nelle espressioni poetiche della prima metà del Novecento, che tendono a proliferare nei maggiori centri cittadini e all’interno di tradizioni di letteratura dialettale antiche e robuste (Napoli, Roma, Milano, Torino, Genova, il Veneto ecc.). Sono parti del fenomeno di e vernacoli non cittadini – o non metropolitani – più o meno decentrati e privi di uno specifico retroterra letterario :  



















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  Cfr. lettera xxxv.   Cfr. Elvio Guagnini, Per Biagio Marin : testimonianza di una lettura, in Biagio Marin, El vento de l’Eterno se fa teso, a cura di Elvio Guagnini, Edda Serra, Grado, Comune di Grado, 1973, p. xviii. 3   Biagio Marin, Dialetti e lingua nazionale in Italia, « La Battana », x, 30-31, marzo 1973, pp. 11-24. 4   Cfr. lettera di Marin a Gino Brazzoduro, datata « Grado, 13 febbraio 1982 », in Gino Brazzoduro, Biagio Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985, a cura di Pericle Camuffo, Pisa-Roma, Serra, 2009, p. 172. L’insularità di Grado è stata una condizione di protezione linguistica. 5   Bruno Maier, La Poesia in dialetto gradese di Biagio Marin o « Il Canto » « Di una vita », in Scrittori triestini del Novecento, a cura di Oliviero Honoré Bianchi, Manlio Cecovini, Marcello Fraulini, Bruno Maier, Biagio Marin, Fabio Todeschini, Trieste, Lint, 1968, p.169. 2



















sull ’ epistolario marin-sereni 63 basti pensare al friulano occidentale di Pier Paolo Pasolini, al romagnolo di Tonino Guerra, al solighese di Andrea Zanzotto. 1 Un ulteriore livello e funzione del dialetto si interseca con un’altra importante componente, quella del Marin “civile”. 2 Marin si impegna molto nel riscattare la triestinità come italianità, a ricercare « la disciplina morale senza la quale una società civile non può vivere e prosperare ». 3 Nella lettera a Sereni del ’68 Marin dichiara perfetta adesione culturale per uno scrittore quale Quarantotti Gambini, citando un’intervista di Cibotto (e non una lettera), in cui lo scrittore sostiene la diversità tra triestini, giuliani e italiani : « Lei certamente conosce la dolorosa lettera che P. A. Quarantotti-Gambini mandò a “Fiera Letteraria”, pochi mesi prima della sua morte. 4 Si diceva umilmente “italiano sbagliato” per non aver potuto durante la sua vita, rimanere con l’ambiente degli altri italiani. E confessava il disagio suo, e, in realtà di tutti i giuliani per avere trovato i nostri connazionali troppo diversi da come noi ci si attendeva, cioè, troppo poco europei. Naturalmente nessuno ha preso atto di quella confessione. Perché ? Ma semplicemente perché non esiste una nazione italiana, e quindi una classe dirigente responsabile, che potesse prendere atto di quella dichiarazione, di quelle esigenze. E per i singoli italiani, cioè abitanti della Italia, certe nostre esigenze sono smanie da stranieri. Ci dicono “austriaci” e con ciò si liberano e di noi e delle nostre esigenze. E d’altra parte queste esigenze sono in noi sempre urgenti e non ci danno quiete ». 5 Marin, irredentista deluso, giudica gli italiani come un popolo incapace di coscienza civile e di dignità. Giudizio negativo, aspro sul popolo italiano, l’Italia è vista come una realtà morale che non esiste ; 6 non esiste una nazione italiana per la mancanza di un ambiente civile. 7  





















   



1   Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Introduzione, in Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. lxxi. 2   Cfr. Biagio Marin, Realtà amara e Coscienza nazionale, in L’altra questione di Trieste. Voci italiane della cultura civile giuliana 1943-1955, a cura di Patrick Karlsen, Stelio Spadaro, Gorizia, Editrice Goriziana, 2006, pp. 95-106. 3   Cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., p. 281, lettera a Prezzolini datata « Grado, 11 luglio 1974 ». 4   Cfr. l’intervista di Gian Antonio Cibotto a Pier Antonio Quarantotti Gambini : Quarantotti Gambini “Un italiano sbagliato”, « La Fiera Letteraria », 15 novembre 1964, pp. 1-2 ; vedi anche Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., p. 231, lettera di Marin a Prezzolini, datata « Grado, 12 luglio 1969 » : « Ho letto il tuo articolo sulla letteratura triestina. A te pare che non esista, e le tue osservazioni sono acute ; ciononpertanto io credo nella sua esistenza. L’osservazione di Pancrazi, essere gli scrittori triestini tutti, in qualche modo sensibili al problema morale, mi pare ancora valida, perfino in un Quarantotti-Gambini. Il quale, come forse sai, poco tempo prima di morire, ritenne opportuno pubblicare su Fiera letteraria, una sua lettera, nella quale in nome proprio, ma poi, per tutti gli scrittori giuliani dava voce al disagio suo e di tutti noi, di fronte alle diversità di tono di vita, tra noi medioeuropei, e comunque europei, e gli italiani delle altre regioni » ; nota Camuffo che in realtà non si trattava di una lettera ma di un’intervista di Gian Antonio Cibotto a Quarantotti Gambini. 5   Cfr. lettera xxiii ; vedi anche Quarantotti Gambini. L’onda del narratore, a cura di Marta Angela Agostina Moretto, Daniela Picamus, Comune di Trieste, 2010, p. 29 : « italiano quale sono, per sangue per lingua per educazione, devo constatare amaramente che vengo considerato, come centinaia di migliaia di miei conterranei altrettanto italiani di me, alla stregua di uno che non si sa più che cosa sia : uno che ha dinanzi a sé tre possibili cittadinanze, due con strascichi, complicazioni, incompatibilità, e una addirittura straniera. Come un uomo, insomma, che gli italiani reputano italiano, i triestini triestino e gli iugoslavi cittadino della federazione di Tito » ; cfr. anche Daniela Picamus, Pier Antonio Quarantotti Gambini. Lo scrittore e i suoi editori, Venezia, Marsilio, 2012, in particolare p. 71 ; su Quarantotti Gambini : Il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge, a cura di Daniela Picamus, Atti delle giornate di studio (Trieste, 15-16 aprile 2010), Pisa-Roma, Serra, 2011. 6   Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., p. xxxix. 7   Sull’irredentismo di Biagio Marin, vedi Renate Lunzer, Irredenti Redenti. Intellettuali giuliani del ’900, Trieste, Lint Editoriale, 2009, pp. 65-71.  









































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fabiana savorgnan di brazzà In quanto vociano Marin persegue una volontà di rispecchiamento alla realtà storica della nazione, e di aderenza dell’opera letteraria alla realtà dell’uomo. Il poeta triestino, scrive giustamente Maier : « è anzitutto uomo [...] e si colloca al polo opposto a quello del “letterato” tradizionale, retaggio del classicismo e dell’umanesimo ». 1 In questo senso Marin rientra nell’ambito di una letteratura triestina, cui appartengono, secondo Maier, scrittori quali Giotti, Michelstedter, Saba, Slataper, Carlo e Giani Stuparich, Svevo. In ogni caso, prosegue Maier, si tratta di scrittori difficilmente rientranti nel “filo d’oro” della tradizione letteraria italiana e si tratta di un’inserzione un po’ marginale, che vede rapporti con l’estero e con la cultura della Mitteleuropa. La questione dell’italianità è fortemente sentita da Marin. Anche nella lettera del gennaio 1968 a Sereni, la citazione del iv epigramma veneziano di Goethe, considerato un autore a lui caro, «l’uomo della divina misura», 2 l’uomo che per tante ragioni sente «più prossimo», quello più moderno, diviene emblematica. 3 Citando l’epigramma, Marin scrive a Sereni nel 1968 : « Lo conosce ? In ogni caso lo peschi e lo legga e capirà che cosa intendo dire. E sono passati un 160 anni e siamo sempre allo stesso punto. 4 Due anni or sono, in questo tempo, andai a fare visita a Jemolo. 5 Concordava con me nell’analisi della situazione. Ad un certo momento gli chiesi : e allora, se è così, che cosa possiamo sperare ? Mi rispose : io, da questo popolo non spero più nulla. Tremenda risposta : ma finalmente, avevo trovato un uomo capace di vedere e di sentire da europeo, da uomo intero ». 6 La traduzione dell’epigramma goethiano è suggerita da Marin a Sereni nella lettera del febbraio 1968, da Trieste, nella persona dell’amico Ervino Pocar, 7 assunto alla Mondadori nel 1934 in veste di traduttore ufficiale dal tedesco : « Siamo stati compagni di scuola – ricorda Marin – dalla II ginnasiale : ma amici siamo diventati a Vienna, all’Università. E da quel 1912 – il primo anno io ero a Firenze – siamo sempre stati fraternamente solidali ». 8 Il nome di Ervino Pocar ricorre spesso nelle lettere di Marin a Scheiwiller, e spesso in veste di lettore e revisore delle bozze degli scritti di Marin. 9 Più volte, nei carteggi, quell’epigramma così emblematico ricorre ripetutamen 















































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  Cfr. Bruno Maier, La Poesia in dialetto gradese di Biagio Marin, cit., p. 21.   Gino Brazzoduro, Biagio Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985, cit., p. 47, lettera di Marin datata « Grado, 4 dicembre 1978 ». 3   Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., pp. 172, 232. 4   Gli epigrammi, centotre in tutto, furono scritti per la maggior parte da Venezia (31 marzo-22 maggio 1790), mentre Goethe attendeva il ritorno da Roma della duchessa Anna Amalia di Weimar, altri furono composti nell’estate seguente (1791) durante il soggiorno in Slesia. Il malumore di Goethe si manifesta verso l’Italia del suo tempo, mentre resta l’ammirazione per l’Italia classica ; cfr. Wolfgang Goethe, Le Elegie, le epistole e gli epigrammi veneziani, a cura di Guido Manacorda, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 144-145. 5   Carlo Arturo Jemolo (Roma, 1891-1981), docente di diritto ecclesiastico e autore di saggi di argomento giuridico e dei rapporti Stato-Chiesa ; per i rapporti con Marin, cfr. Carlo Arturo Iemolo e Biagio Marin. Dialogo nella solitudine : carteggio inedito 1971-1979, a cura di Giuliano Torlontano, « Nuova Antologia », a. 126°, n. 4, 1991, pp. 264-287 ; Fulvio Salimbeni, Il carteggio Marin-Iemolo : l’impegno etico-politico e la dimensione religiosa di Biagio Marin nel carteggio con Arturo Carlo Iemolo, « Studi mariniani », a. II, n. 2, 1992, pp. 77-102 ; cfr. Gino Brazzoduro, Biagio Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985, cit., p. 167n. e 6   Cfr. lettera xxiv. ad indicem. 7   Ervino Pocar (1920-1981), germanista, amico d’infanzia di Marin ; cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., pp. 81 e n. e 368-369 ; vd. anche Anna Antonello, Ervino Pocar. Una vita fra le righe, in Protagonisti nell’ombra, a cura di Gian Carlo Ferretti, Milano, Unicopli, 2012, pp. 151-179. 8   Cfr. lettera xxiv. 9   Centro apice, Fondo Scheiwiller, cit., lettera di Marin a Scheiwiller, datata « Trieste, 29.iv.61 ». 2

































sull ’ epistolario marin-sereni 65 te. Forse era un modo per cercare una ragione più ampia per spiegare a sé la condizione di poeta non capito, escluso dai grandi circuiti della letteratura nazionale. Attestazioni di stima, il riconoscimento umano e intellettuale di amici e di letterati, non riuscirono a rimuovere questa sensazione profonda di sentirsi «un estraneo», «forse un defunto», di fronte a poeti quali Palazzeschi o scrittori come Tomizza, come lui stesso dichiara nella corrispondenza a Sereni. Al punto da farsene una ragione, se nell’ultima lettera a Sereni del 1981 confessa che le preoccupazioni per la stampa dei suoi versi si è ormai affievolita : « Per fortuna si muore distaccati da ogni contingenza anche dai nostri versi ». 2 L’impegno e la fiducia di Sereni tuttavia rimasero ferme e costanti nel tempo. Scriveva a Leonardo Mondadori nel 1981, sollecitandolo alla pubblicazione dell’opera del Poeta. 3 Sereni è ancora vivissimo in una lettera del 1982 di Marin a Scheiwiller dove gli riconosce l’amicizia profonda e la stima che lo aveva sempre sorretto, prodigandosi affinché le sue opere fossero edite. 4 Marin continuò a produrre versi fino a tarda età, riconoscendo, come gli era proprio, che La poesia è un dono, titolo dell’opuscolo pubblicato da Scheiwiller, estrema testimonianza di un sodalizio culturale e umano di rara intensità. 5  

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1   A Prezzolini Marin scriveva : « Diceva Goethe : „Wohl herrschet hier Leben und Weben, doch fehlt e san Ordung und Zucht”. Sì, vita e industria qui reggono, ma mancano ordine e disciplina » ; « Già Goethe, nel lontano 1790 nel iv epigramma veneziano, aveva scritto : “Deutsche Redlichkeit sushst du in allen Winkeln vergebens ; | Leben und Weben ist hier, aber nicht Ordnung und Zucht, | Jeder sorgt nur fur sich, mißtrauet dem andern, ist eitel, | Und die Meister des Staats sorgen nur wieder fur sich“. | Come vedi è detto tutto. E sono passati quasi due secoli e siamo sempre nelle stesse identiche condizioni, ci sarà mai un superamento ? Si può pensare che una rivoluzione comunista rivoluzionerebbe i caratteri ? » ; « Ti ho citato certamente altre volte i versi contenuti nel quarto degli epigrammi veneziani del Goethe ; ma te li cito ancora, perché sono tremendamente veri : “l’onestà tedesca in nessun angolo qui la trovi ; | Trovi vita e industria, ma non ordine e disciplina. Ognuno pensa solo a se stesso, diffida degli altri, è vano, | E i reggitori dello Stato pensano solo per sé”. | Due cento anni sono passati da allora, e siamo sempre allo stesso punto. E ne sono passati 600 da quando Dante definiva l’Italia “bordello” ; e nulla è mutato » ; cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., pp. 218, 281, 282. 2   Cfr. lettera xxxvi. 3   Cfr. Archivio Mondadori, lettera di Sereni a Leonardo Mondadori, datata « Segrate, 29 giugno 1981 ». 4   Centro apice, Fondo Scheiwiller, fasc. Marin 4439. 5   Biagio Marin, La poesia è un dono ; nove liriche in lingua gradese con una lettera dell’editore, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1966.  

















   



   

















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fabiana savorgnan di brazzà i. Biagio Marin a Vittorio Sereni* Trieste 26 XI ’62 [ma ’61] V. del Castagneto I

Illustre Sereni, Vanni Scheiwiller mi ha informato, autorizzato, come egli mi ha scritto, da Lei, che entro il ’64, la Mondadori pubblicherà un mio libro di versi, o l’ultima mia raccolta, ancora inedita, o un’antologia. La ringrazio innanzi a tutto della buona novella, che, come Lei può immaginare, mi è ragione di gioia. Può parere ridicolo, che un uomo già vecchio dia importanza a un fatto così mondano : ma Lei, che è poeta, può capire certe aspirazioni, senza bollarle di vanità. Si aggiunga che io sono rimasto per tutta la mia vita un periferico e un ignoto, ad onta che da giovinetto, nell’ambito vociano, abbia conosciuto personalmente molti uomini che dovevano dare il loro nome agli ultimi 50 anni delle nostre lettere. Fare della poesia “dialettale” poteva essere permesso a poeti della statura di Salvatore Di Giacomo, che poi avevano alle spalle una grande città come Napoli, a un Belli, a un Porta, ma il rappresentante d’un mondo minuscolo che pretendeva che gli altri facessero lo sforzo di decifrare il suo linguaggio, era a priori fuori di senno. Ed è verità che io me ne rendevo conto, e per quaranta anni mi accontentai di essere letto da non più di una ventina di persone. È stato dopo il premio Barbarani nel ’51, – in quell’anno compivo i miei 60 – che, per aver letto qua e là qualche giudizio favorevole, mi nacque la ambizione di essere preso sul serio dalla critica nazionale. E poiché questo non avveniva, ne ho sofferto. A trarmi di pena venne Pasolini con la sua antologia, 1 poi Vanni con la sua grande umanità, poi Bo con un suo discorso, che m’infuse nell’anima la pace : ed ecco ora viene Sereni, con la promessa di far stampare alla Mondadori un volume di mie poesie. Così la mia pace sarà perfetta e io potrò morire sereno. È una grande cosa questa serenità che mi è stata donata dalla generosità di questi uomini. Antologia, o l’ultima mia raccolta, “Da sera a notte”. 2 Tutte e due le possibilità sono molto suggestive. Comunque fin da ora mi permetto di suggerire, che a piè di pagina si stampi la traduzione in lingua aulica, delle poesie, come ha fatto Pighi, 3 nella sua piccola silloge stampata da Vanni, e intitolata : “12 poesie”. 4 Mi sono persuaso che la traduzione aiuta molto il lettore a intendere i miei versi e il mio linguaggio. Naturalmente, un preambolo critico di Giacomino De Benedetti, coronerebbe l’opera. È una sua vecchia promessa che così manterrebbe. Grazie dunque Sereni, per il Suo personale concorso nella realizzazione della mia ultima ambizione. Cordialmente La saluta e Le stringe forte la mano  













Biagio Marin * Le lettere nn. i, ii, iii, iv, v, vi, vii, viii, ix, x, xi, xii, xiii, xiv, xv, xvi, xvii, xviii, xix, xx, xxi, xxv, xxvi, xxvii, sono conservate nell’Archivio storico Arnoldo Mondadori Editore, Segreteria editoriale autori italiani, fasc. Marin ; le lettere nn. xxviii, xxix, xxxiii, xxxiv nell’Archivio storico Arnoldo Mondadori Editore, Direzione letteraria Vittorio Sereni, fasc. Marin ; le lettere nn. xxii, xxiii, xxiv, xxx, xxxi, xxxii, xxxv, xxxvi nell’Archivio di Luino. Le lettere sono originali e autografe e come tali le trascriviamo fedelmente, limitando gli interventi ad alcuni ammodernamenti ortografici, alla regolarizzazione degli accenti, secondo l’uso moderno (pressocché, perché, poiché). Le parole sottolineate negli originali le abbiamo rese in corsivo. 1   Poesia dialettale del Novecento, a cura di Pier Paolo Pasolini, Mario Dell’Arco, Parma, Guanda, 1952. 2   Probabilmente Marin si riferisce alla raccolta Tra sera e note (Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro) edita nel 1968. 3   Giovanni Battista Pighi (Verona, 1898-Bologna 1978), docente all’Università di Bologna. 4   Biagio Marin, 12 poesie, a cura di Giovanni Battista Pighi, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1962.  



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ii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 7 v ’62 Caro e illustre Sereni, ho ricevuto la bozza del contratto per la stampa dei miei versi, e ne La ringrazio. Prima di apporre la mia firma vorrei chiederLe se è possibile che io riceva oltre alle 6 copie già di rito, cento copie in omaggio, in compenso della mia rinuncia a ogni percentuale. Vorrei anche pregarLa di dirmi se il libro verrà stampato per la primavera del ’64, come Alberto Mondadori aveva promesso a Scheiwiller. 1 E anche La prego di dirmi se De Benedetti scriverà la prefazione, come era in progetto. Capisco di darLe noia, ma Lei abbia pazienza, capisca, e mi conceda venia. Le sarò grato di un Suo cortese riscontro. Biagio Marin [In alto, a penna nera] : Crovi : senza parlarmene [Sul lato sinistro, in alto, a penna rossa] : L’A.D. è d’accordo. R. C. [Sul lato sinistro, in alto, a penna nera] : non mi pare : usi facciamo gli omaggi. Trascrito d’ufficio stampa. Occorre avvertirlo (a mia firma)  











iii. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 4 dicembre 1962 Caro e illustre Marin, già qualche anno fa il comune amico Pocar si era vivamente interessato a suo favore in questa sede editoriale. Non se n’era fatto niente, nonostante la buona volontà, per una serie di ragioni che ora non sto a esporre e che comunque esulavano del tutto dalla stima e dall’affetto che la sua opera si era da tempo meritate. Ora, grazie anche alla comprensione di Alberto Mondadori il progetto ha preso un aspetto concreto. Non entro in particolari. Penso che la cosa più saggia sia di rimettersi a quello che lei, d’accordo con l’amico Scheiwiller, vorrà raccogliere, e mi auguro che Giacomo Debenedetti accetti la proposta di scrivere un cenno introduttivo. Scusi se non le scrivo più diffusamente. Il nostro lavoro deve, sempre più, fare i conti coi limiti inesorabili del tempo. Voglio solo dirle che siamo felicissimi di essere giunti a questo risultato e la saluto con devoto affetto. suo (Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Via Castagneto 1 | Trieste  

iv. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 6 xii 62 Illustre Sereni, Le devo grazie per le comunicazioni fattemi con la Sua del giorno 4 c.m. Le devo più grazie per le affettuose parole che ha voluto rivolgermi ; e infine anche per avermi voluto ricordare il precedente intervento di Ervino presso di Lei, anche se, lì per lì, infruttuoso.  

1

  Si riferisce a Il non tempo del mare, Milano, Mondadori, 1964, che uscirà con prefazione di Carlo Bo.

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Lei può capire quale difficile itinerario, e lento è stato il mio per arrivare a essere preso in qualche considerazione, e quindi può capire la mia gratitudine per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, mi hanno aiutato. Prezzolini allora ancora in America, Pasolini così diverso da me, Vanni Scheiwiller il santo, e ora Lei, e perfino Alberto Mondadori che io non conosco affatto. Grazie intanto a Lei, grazie di tutto cuore. Prenderò quanto prima contatto con Scheiwiller e ho ragione di credere che la mia antologia, risulterà un volume di poesia. Intanto io mi sono già messo al lavoro. La saluta affettuosamente Biagio Marin [In alto a sinistra a penna blu] : In pratica  

v. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 15 maggio 1963 Caro Marin, le sue “Poesie” saranno senz’altro stampate nell’aprile/maggio 1964. Scrivo a Debenedetti per la prefazione : la informerò della risposta. Quanto al contratto, la clausola dei diritti sarà modificata nel senso da lei desiderato. Cari saluti dal suo  

(Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Via Castagneto 1 | Trieste 1





vi. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 25 V 63 Caro Sereni, ho ricevuto la Sua gentilissima, ho ricevuto il contratto, che ho firmato e rispedito ; ora voglio solo ringraziarLa e mandarLe un caldo saluto. L’anno d’attesa passerà. Grazie ancora.  

Biagio Marin [In alto a penna rossa] : Marin [In alto a destra, sotto la data, a penna rossa e blu] : Ev. 3.6-63 | “ 10-6-63 [In basso, a penna nera] : CROVI : senza parlarmene. Debenedetti è stato interpellato ? Non credo perché io non ci ho pensato ! [In basso, a penna verde] : (Ha visto la velina della lettera a Deb. Bisognerà sollecitare fra qualche giorno).  













vii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Roma 14 genn. ’64 Caro Sereni, Le devo grazie della Sua del 6 gennaio. Spero che nel frattempo Lei sia riuscito a mettersi 1

  [corr. in penna blu, da] : Vicolo del Castagneto 3.  

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in contatto con Bo e a continuare per il termine di consegna del testo della prefazione alla mia antologia. Non Le nascondo che mi dispiace molto che Giacomino Debenedetti non abbia accettato di scriverla lui quella prefazione. Aveva più volte detto e scritto, che se gli fosse capitata l’occasione, mi avrebbe reso testimonianza. D’altra parte, gli anni sono passati, e lui, come del resto tutti, ora ha molto da fare, non ha più il tempo per occuparsi di un marginale. Lo capisco, ma mi duole. Vero è, che in fin dei conti, i versi, buoni o mediocri che siano, restano quello che sono. Si trattava piuttosto di una mia antica aspirazione nata quando lessi i saggi di Giacomino su Saba. 1 Ma allora era giovane e generoso. Spero dunque che entro il maggio prossimo il mio volume possa essere pubblicato. Le augura ogni bene e La saluta cordialmente  

Biagio Marin

viii. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 17 gennaio 1964 Caro Marin, la redazione le ha mandato le prime bozze della sua raccolta di poesie. Ho provveduto a far inviare intanto in composizione il testo della prefazione di Bo. Come titolo, mettiamo semplicemente Poesie o propone un’alternativa ? Mi faccia sapere qualcosa. Cari saluti dal suo  

(Vittorio Sereni) Ab extra : Biagio Marin | Vicolo del Castagneto 3 | Trieste  

[A sinistra a margine del foglio] : V.  

ix. Biagio Marin a Vittorio Sereni Roma 23 i ’64 Caro Sereni, ho ricevuto qui solo ieri sera la Sua gentilissima del 17 c.m. Grazie. Le bozze le ho ricevute qui, corrette e spedite a Pocàr, che a sua volta le ha riviste e già inoltrate 2 alla redazione. Avevo scritto a l’Hermite 3 di mandare a Bo copia delle bozze, perché potesse, eventualmente prendere notizia dei versi nuovi del volume. E ora veniamo al titolo. “Poesie” è certamente un titolo forse troppo pretenzioso e troppo semplice. Il frontespizio come si presenta attualmente, mi sembra misero, proprio perché il titolo è mortificato. Si potrebbe ritornare a “I canti de l’Isola”, che è il titolo del grosso volume uscito nel ’51. 4  





1   Si riferisce ai saggi comparsi sulla rivista « Primo tempo » (nn. 9-10), fondata a Torino e che ebbe vita 2   Nel testo : inoltrare. dal 1922 al 1923. 3   Si tratta di Stefano l’Hermite, fiorentino, redattore alla Mondadori ; cfr. Marino Moretti - Aldo Palazzeschi, Carteggio IV. 1963-1974, a cura di Laura Diafani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 81-82. 4   Biagio Marin, I Canti de l’Isola, Udine, Del Bianco, 1951 (nel 1952 la prima edizione ottenne il premio Barbarani) ; dell’opera uscirono altre edizioni, via via accresciute con l’inserimento di altre sillogi : nel ’70, ’81, ’94.  











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Si potrebbe assumere a titolo, un giudizio di Pasolini : “Nel non tempo del mare”. Sarebbe un titolo suggestivo. Ma allora forse bisognerebbe aggiungere il sottotitolo – versi gradesi –. Anche “Canti marini” potrebbe essere un titolo adeguato. Questa volta devo proprio pregare Lei di scegliere il titolo. Mi ha scritto Pocàr che entro il maggio il volume verrà pubblicato. Delle 100 copie che mi spettano vorrei che dieci mi fossero regalate in mezza pelle a mie spese. A chi posso rivolgermi perché questo avvenga ? Certamente voi avete una legatoria ; se possibile, La prego di dare gli ordini opportuni. La ringrazio di tutto e cordialmente La saluto. Io rientrerò a Trieste il giorno 31 del mese. Fino allora sono qui, ospite di una mia figliola. (presso Englen - Via d. Montagne Rocciose 35 - Roma (Eur)).  





Biagio Marin [In alto a penna nera] : CROVI : parliamone [Sul margine sinistro a penna nera, da « Delle 100 copie-ordini opportuni »] : è possibile ?  











x. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 28 gennaio 1964 Caro Marin, correggendo appena quello da lei proposto, direi che il titolo potrebbe essere : “Il non tempo del mare”. Dovrebbe naturalmente preparare una brevissima nota in cui segnalarne la derivazione dal giudizio di Pasolini cui fa riferimento. Non metterei sotto-titolo. Per le 10 copie da rilegare in mezza pelle, si metta in contatto con il Dott. Giorgio Marcolungo, cui ho già riferito il suo desiderio. Buon lavoro e cordiali saluti dal suo  

(Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo del Castagneto 3 | Trieste  

xi. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste, 31 genn. ’64 Caro Sereni, grazie della Sua gentile del 28 c.m. Il titolo dunque potrebbe essere : “Nel non-tempo del mare”. Preferirei quel “Nel” al semplice “Il”. La breve nota che Lei pensa opportuna a spiegazione del titolo, potrebbe essere : “Pier Paolo Pasolini, recensendo in “Il Popolo di Roma” del 10 agosto 1951, la raccolta mia di versi : “I canti de l’isola”, aveva scritto : “Marin ha ridato fuori del tempo la vicenda della sua isola, vicenda…che finisce con l’elidersi in un tempo indifferenziato, il non tempo del mare”. Da qua ho assunto il titolo di questa antologia”. Va bene così ? Grazie di tutto e tanti buoni saluti da  









Biagio Marin [In alto a penna nera] : CROVI : vogliamo parlarne ? [Sul lato sinistro e destro, evidenziato a penna rossa] : « “Pier Paolo Pasolini-questa antologia” »  











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xii. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 6 febbraio 1964 Caro Marin, io sarei perfettamente d’accordo circa il titolo se non trovassi d’effetto piuttosto antipatico l’accostamento nel - non, non facile da pronunziarsi. Ho il dovere di esprimerle questo dubbio ; e del resto l’espressione di Pasolini era appunto il non tempo del mare. La nota va bene così com’è questa, e la ringrazio. Scusi se insisto circa il titolo, ma naturalmente lo faccio per affettuosa collaborazione. Se lei invece non ha dubbi sul nel me lo dica, e provvederemo nel senso indicato. In attesa di una sua risposta, la saluto molto cordialmente  

suo (Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Via Castagneto 3 | Trieste  

[In alto alla lettera] : mandate copie a L’Hermite con copie nota  

xiii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 7 ii ’64 Caro Sereni, accetto senz’altro la Sua osservazione e quindi il titolo : “Il non tempo del mare”, 1 e La ringrazio della Sua amichevole collaborazione. Ora resto in attesa delle seconde bozze, nella speranza che Bo abbia ritoccato il suo testo. Gradisca i miei cordiali saluti  



Biagio Marin [A destra a penna nera] : a Crovi per L’Hermite  

xiv. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 13 febbraio 1964 Caro Marin, mando dunque in composizione la nota che spiega il titolo. Le seconde bozze saranno pronte tra pochi giorni. Non sarebbe meglio, per non perdere tempo, farle controllare da Pocar ? Bo ha lasciato pressocché inalterata la prefazione. Molti cordiali saluti dal suo  

(Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo del Castagneto 3 | Trieste  

[In alto alla lettera, a penna rossa] : inviata copia a Dott. L’Hermite  

1

  Sottolineato a penna rossa.

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fabiana savorgnan di brazzà xv. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 15 ii ’64

Caro Sereni, avrei desiderato la prefazione promessa di Giacomino, perché non potevo illudermi che Bo trovasse il tempo di rimaneggiare il suo discorso celebrativo. Purtroppo Giacomino, non ha risposto alla vostra sollecitazione e mandare quei versi nudi e crudi per il mondo, senza accompagnamento, mi stringeva il cuore. Del resto anche il discorso di Bo è pur sempre una prefazione di cui gli devo essere grato, anche se ormai è ripetuta. Quanto alle bozze, faccia come Lei pensa sia meglio. Del resto io sono già d’accordo con Pocàr, che solo in caso di necessità egli mandi a me le seconde bozze. Giudichi Lei, le può far mandare tranquillamente a Pocàr. Tante tante grazie per la Sua cordiale assistenza e tanti buoni saluti. Biagio Marin [In alto a destra] : CROVI : senza prender nota e parlarmene  



xvi. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 18 febbraio 1964 Caro Marin, per fare in modo che lei prenda visione delle leggerissime correzioni apportate da Bo alla sua nota, dirò al nostro capo redattore, Dott. L’Hermite, di mandarle una copia delle seconde bozze complete del volume, restando inteso che lei non dovrà restituirle corrette, in quanto, per il riscontro, ne trasmetteremo una seconda copia a Pocar. Cari saluto dal suo (Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo del Castagneto, 3 | Trieste  

[In alto a penna blu] : inviata copia a Dr. L’Hermite  

xvii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 24 iv ’64 Caro Sereni, penso che a quest’ora il mio volume sia già stampato o passato in legatoria. Desidererei sapere quando verrà pubblicato e quando la T.V. lo presenterà. Pareva tanto il tempo che dovevo aspettare per vedere questo volume, ed ecco ora sta per arrivare. Colgo l’occasione per chiederLe l’elenco delle persone alle quali la Mondadori manderà la copia di omaggio, per poter io poi, almeno parzialmente integrare con le mie copie personali. Speravo di incontrarLa a Firenze, ma nessuno ha saputo dirmi se c’era. Vero è che io, marginale, conosco poche persone. Si abbia intanto i miei cordiali saluti. Biagio Marin [In basso a penna nera] : 2ª decade maggio  

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xviii. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 14 maggio 1964 Caro Marin, l’uscita del libro è prevista per questa seconda decade di maggio. So che Forti 1 le ha scritto per l’invio degli omaggi e per la T. V. Per queste questioni può d’ora in poi tenere contatto con lui. A Firenze c’ero, ma mi sono fermato poche ore : lo spettacolo dei nostri colleghi non era molto allettante. Le faccio molti auguri e la saluto con la più viva cordialità. suo (Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo Castagneto 1 | Trieste  





xix. Biagio Marin a Vittorio Sereni 15. v. ’64 Caro Sereni, Le sono molto grato della Sua gentilissima di ieri. Lei certamente può capire e scusare l’impazienza con la quale attendo il volume. Lo “Specchio” sarà per un’altra volta ; se sarò giudicato degno di promozione. Intanto io continuerò a lavorare e a pubblicare. Voglia accettare il mio cordiale ringraziamento per quanto ha fatto per me e la mia poesia. Con affetto La saluta Biagio Marin  

[In alto a penna blu] : VR.C. [In alto a penna nera] : ISA : detto ancora  





xx. Vittorio Sereni a Biagio Marin Milano, 20 maggio 1964 Caro Marin, ormai sta per ricevere il volume, e io non avrei altro da aggiungere se non una piccola rettifica : la mancata inclusione nello Specchio non è una questione di mancata promozione. Si è presa questa strada perché la presenza di un testo dialettale di versi ci avrebbe messi in grave imbarazzo di fronte ad alcuni altri casi, avrebbe cioè costituito un precedente. È vero, il precedente c’è già ed è il caso di Noventa. Ma si trattava di un caso particolare, che poteva cioè contare su una sua tradizione critica che lo rendeva per sua stessa natura (e dichiarato programma) estraneo alla linea “dialettale”. 2 A parte tutto ciò, le faccio i più affettuosi auguri. suo (Vittorio Sereni)  



[Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo Castagneto 1 | Trieste  

1

  Si tratta di Marco Forti, critico letterario, collaboratore di Vittorio Sereni alla Mondadori ; cfr. www. 2   Le virgolette alte (“dialettale”) sono a penna verde. fondazionemondadori.it.  

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fabiana savorgnan di brazzà xxi. Biagio Marin a Vittorio Sereni Grado i° vi ’64

Caro Sereni, oggi qui a Grado, ho avuto nelle mani la prima copia di “Il nontempo del mare”. E per prima cosa, ho sentito il bisogno di dire grazie a due persone : a Vanni Scheiwiller e a Sereni. Devo alla loro buona volontà questo volume, che nella mia vita ha una grande importanza e un non piccolo significato. Perciò caro Sereni, di tutto cuore Le dico grazie, per quanto ha dato di Suo in questa occasione. Lei mi ha giustificato l’eccezione fatta per Noventa, a proposito della sua ammissione nella raccolta dello Specchio, dicendo che Noventa “poteva contare su una sua tradizione critica che lo rendeva per sua stessa natura (e dichiarato programma) estraneo alla linea dialettale”. 1 Ebbene, io mi auguro che venga anche per me il giorno, in cui potrò contare anche io su una tradizione critica, capace di attribuirmi l’estraneità alla linea dialettale. E spero che questo volume mi apporti nuovi giudizi oltre quelli di Bo, di Pasolini, di Caproni, di Camerino, e di altri. Certo io sono un marginale che è vissuto quasi isolato. Lei meglio di me sa quanto Noventa debba alla sua cordialità di uomo, alle sue tante amicizie, alla sua presenza in un centro come Milano. Io ho dovuto attendere, forse troppo, che si riconoscesse un qualche valore alla mia opera. Ma meglio tardi che mai. E del resto, abbiamo tempo. A Lei però oggi dico grazie di gran cuore e Le stringo forte la mano.  



Biagio Marin [In alto a destra a penna rossa] : VR.C. [In alto a destra a penna blu] : CROVI : in visione  





xxii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 8 vi 67 Caro Sereni, Le sono molto grato delle poche parole che ha voluto mandarmi. Dopo il varo di un mio libretto di versi, soffro sempre di una forte depressione morale, e di un penoso senso di vuoto. C’era, quando ero bimbo al mio paese, un costruttore di barche, che chiamavano “el Nin Proto”. Quando le costruiva si sentiva sereno e addirittura felice : ma già il varo lo turbava ; quando poi il trabaccolo era completamente allestito e salpava dal porto, lui lo andava a vedere, per controllarne il comportamento. E la barca a vele gonfie s’allontanava. Allora lui, ritornava allo squero col cuore rotto. Io questo lui l’ho ricordato nei miei “Canti dell’Isola”. 2 Come gli assomiglio ! E come mi umilia il silenzio dopo il varo di un mio libro. Costa anima e sangue un libro di poesia. Lei lo sa ; e il silenzio che segue al suo varo, alla sua pubblicazione desta dubbi ed angoscie, che sono quasi insopportabili. Ho mandato in giro tanti di questi miei volumetti. – (“El mar de l’Eterno”) ; 3 mi hanno det 









   

1

  Cfr. lettera precedente.   Biagio Marin, I Canti de l’Isola, cit. Si riferisce alla lirica El Nin Proto, p. 318. 3   Idem, El mar de l’Eterno, Milano, 1967. 2

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to una parola, Prezzolini, Fubini, e Sereni. Un grazie secco secco l’ho avuto da Quasimodo. Comunque è pur sempre un grazie. Così vivo in attesa, una stolta attesa che mi sfinisce. Lei, con poche parole, è stato generoso. Le dico grazie dal profondo. E la saluto cordialmente, affettuosamente 1



Biagio Marin

xxiii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Roma 9 i ’68 Caro Sereni, colgo l’occasione dell’arrivo del suo nuovo indirizzo per mandarle i miei augurali saluti per il nuovo anno. Sono qui ospite d’una mia figliola che insegna in una scuola media. Ed è vedova con due figlie. Vi rimarrò per tutto il mese ; ma non penso di visitare nessuno, persuaso come sono che la mia visita sarebbe per queste illustri persone, solo una “scocciatura”. 2 E io li capisco. Che cosa può dire a queste persone un provinciale che venga da una periferia così lontana, così estranea, come è Trieste ? Noi giuliani, almeno gli uomini della mia generazione, siamo ancora dei medioeuropei. 3 Abbiamo esigenze che qui sono assolutamente ignorate : esigenze di socialità, di moralità – e non nel senso spicciolo – di dignità, di rispetto della dignità altrui, che qui non si conoscono. Lei certamente conosce la dolorosa lettera che P. A. Quarantotti-Gambini mandò a « Fiera Letteraria », pochi mesi prima della sua morte. 4 Si diceva umilmente “italiano sbagliato” per non aver potuto durante la sua vita, rimanere con l’ambiente degli altri italiani, e confessava il disagio suo, e, in realtà di tutti i giuliani per avere trovato i nostri connazionali : troppo diversi da come noi ci si attendeva, cioè, troppo poco europei. Naturalmente nessuno ha preso atto di quella confessione. Perché ? Ma semplicemente perché non esiste una nazione italiana, e quindi una classe dirigente responsabile, che potesse prendere atto di quella dichiarazione, di quelle esigenze. E per i singoli italiani, cioè abitanti della Italia, certe nostre esigenze, sono smanie da stranieri. Ci dicono “austriaci” e con ciò si liberano e di noi e delle nostre esigenze. E d’altra parte queste esigenze sono in noi sempre urgenti e non ci danno quiete. Che posso andare a dire io a questi letterati, che non sia spiacevole ? Una volta ebbi l’ingenuità di dire il mio parere sui nostri universitari, dico sul corpo insegnante, a Nino Valeri, un uomo che io ho caro e che stimo. 5 Mi ha risposto : Beh, che vorrebbe fare ? – Solo mettere un po’ d’ordine. – Preferisco l’attuale anarchia al suo ordine. E ogni italiano, per ragioni di comodità, preferisce l’anarchia a qualsiasi ordine civile.. Per queste ragioni io non oso avvicinare nessuno. Tanto più che manco di ogni qualità mondana, e non so dire cattiverie e sorridere, e mi avviene spesso di alzare la voce senza che me ne avveda. Trieste è marginale rispetto a tutta l’Italia ; ma rispetto a Roma sono marginali anche Torino e Milano.. E nessuna potenza commerciale, e nessuna organizzazione industriale, qui possono imporre una qualche disciplina di vita civile corretta.  





























1   Cfr. lettera di Prezzolini a Marin del 4 giugno 1967 : Biagio Marin. Giuseppe Prezzolini. Carteggio 19131982, cit., p. 183. 2   Lo stesso sentimento di estraneità al mondo della poesia e alla cultura ufficiali lo manifestava a Prezzolini, in una lettera da Roma, datata « 22 gennaio 1968 » : cfr. ivi, p. 191. 3   Vedi lettera di Marin a Prezzolini, da Trieste, datata « 8 novembre 1962 », dove Marin afferma : « io, gradese, era anche un “irredento”, perché Grado era in Austria e precisamente nella provincia di Gori4   Vedi nota 35. zia » : cfr. Biagio Marin. Giuseppe Prezzolini. Carteggio 1913-1982, cit., p. 118. 5   Nino Valeri (1897-1978), storico, docente universitario a Catania, Trieste e Roma ; cfr. Biagio Marin. Giuseppe Prezzolini., cit., p. 167, n. 2.  





















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Qui è sempre valido, anzi, più che mai valido il iv epigramma veneziano di Goethe. Lo conosce ? In ogni caso lo peschi e lo legga e capirà che cosa intendo dire. E sono passati un 160 anni e siamo sempre allo stesso punto. Due anni or sono, in questo tempo, andai a fare visita a Jemolo. 1 Concordava con me nell’analisi della situazione. Ad un certo momento gli chiesi : e allora, se è così, che cosa possiamo sperare ? Mi rispose : io, da questo popolo non spero più nulla. Tremenda risposta : ma finalmente, avevo trovato un uomo, capace di vedere e di sentire da europeo, da uomo intero. Caro Sereni, io non ho mai avuto l’onore di conoscerla. Se mi sono permesso di scrivere queste cose, è perché Vanni 2 mi ha parlato tante volte di lei, come di uomo intero, di persona nobile. Voglio credere di non averla “scocciata” dando voce alla mia pena.  













Voglia gradire i miei cordiali saluti. Biagio Marin

xxiv. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste, 7. ii ’68 Caro Sereni, ho ricevuto questa sera, rimandatami da Roma, la Sua del giorno 4. Pensi come ha fatto presto. E ora La ringrazio di tutto cuore. Sabato insieme a Vanni sono stato a Capodistria a parlare ai maestri italiani della poesia. Poi ho letto loro qualche mio verso. Mi hanno fatto molta festa. Vanni manderà ora alle stampe un nuovo volumetto di miei versi, che vorrebbe fare uscire già entro il marzo. Ma a me la cosa sembra impossibile. Ciò che Lei mi dice di Pocàr 3 mi commuove profondamente. È davvero un santo uomo, e ineguagliabile. È delicato oltre ogni dire, al di là della sua intransigenza. Siamo stati compagni di scuola dalla II ginnasiale : ma amici siamo diventati a Vienna, all’Università. E da quel 1912 – il primo anno io ero a Firenze – siamo sempre stati fraternamente solidali. Sarò lieto se Lei lo consulterà e si farà tradurre da lui l’epigramma goethiano. Intanto però mi ci provo io :  





L’Italia è questa, che ho lasciata : ancora son polverose le vie e lo straniero viene imbrogliato, qualunque sia il modo in cui si presenta. L’onestà dei tedeschi invano la cerchi In ogni cantuccio. Qui palpita 4 la vita e l’operosità, ma manca l’ordine e la disciplina. Ognuno pensa solo a se stesso, diffida degli altri, è vano, e perfino i reggitori dello Stato, pensano solo a se stessi…  



È una traduzione alla buona di Dio, ma fedele e nella lettera e nello spirito. Grazie molte della Sua gentilissima lettera e tanti buoni saluti da Biagio Marin 1

  Vedi nota 43.   Si tratta dell’editore Vanni Scheiwiller. 3 4   Vedi nota 45.   Segue va canc. 2

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xxv. Biagio Marin a Vittorio Sereni Trieste 24 xi 68 Caro Sereni, vengo a lei con una domanda forse indiscreta, ma che sento il bisogno di farle : lei pensa che sia impossibile che la Mondadori pubblichi un volume di miei versi inediti nella collana dello Specchio ? Il precedente di Noventa, non potrebbe essere preso in considerazione, questa volta, in mio favore ? Non son degni i miei versi di venir messi alla pari con quelli di Noventa, e, perché no, anche con quelli di Valeri ? Fubini mi ha scritto una volta che, l’anno scorso nel 67 era stato in massima deciso di dare a Valeri il Feltrinelli, a me il Viareggio. Poi Contini s’è battuto per dare il Feltrinelli a Betocchi, e allora si decise di dare il Viareggio a Valeri, togliendolo a me. 1 Scrivo questo soltanto per dire che i miei versi erano considerati degni di quel premio, e allora penso che potrebbero essere considerati anche degni di entrare nella collana dello Specchio di Mondadori. Forse allora anche in sede dei premi mi si prenderebbe in maggior considerazione. Per ora – a parte il Bagutta, senza dotazione e perciò senza veri concorrenti – io non ho avuto che premi minori : il Cittadella, e uno d’Urbino. (non il Montefeltro !) 2 A Udine quest’anno, pur con una lusinghiera motivazione di Montale, mi hanno dato solo il premio regionale della cultura. La mia marginalità, la mia mancanza di rapporti personali, la mia radicale incapacità di fare la corte a chicchessia “mi mettono fuori gioco”. Non ho che Bo che veramente crede nella mia poesia e lo dice necti et orator.. Se lei potesse aiutarmi, in buona coscienza, lo faccia, come l’ha fatto per il “Non tempo del mare”. Cordialmente la saluta  















Biagio Marin

xxvi. Vittorio Sereni a biagio marin Milano, 28 novembre 1968 Caro Marin, capisco perfettamente quello che mi dice e non mi nascondo in alcun modo la legittimità del desiderio che mi ha esposto. Vorrei tuttavia sbarazzare il campo da un equivoco, quello che riguarda le nostre scelte in rapporto ai premi. Mi farebbe, o ci farebbe, torto se dovesse pensare che la pubblicazione di un libro può essere determinata dalla possibilità che quel libro vinca un premio anche importante. Mi pare che le dimensioni siano troppo diverse, soprattutto oggi. Le difficoltà d’inserimento di opere non in lingua avevano avuto un’eccezione per Noventa, dato un certo grado di notorietà che egli aveva raggiunto e anche perché il suo dialetto era considerato e risultava più accessibile che non quello di altri. Non era dunque, in assoluto, una questione di gerarchia o di scala di valori, ma – sotto questo aspetto – di opportunità editoriale. Le due cose non sempre coincidono, lo ripeterò fino alla noia.1 Tanto è vero che, per un motivo del tutto opposto, ci siamo astenuti sin qui dal pubblicare poeti francesi, che pure lo meritavano, col testo a fronte. Per quanto riguarda versi non in lingua siamo stati sin qui e siamo tuttora molto cauti per una considerazione che in qualche modo non può prescindere dalla rispondenza del pubblico. Questo è tutto sull’argomento. 1

  Carlo Betocchi, poeta, vinse il Premio Feltrinelli nel 1967 ; il Viareggio fu dato a Diego Valeri.   Marin vinse il Premio di Urbino nel 1964 e l’anno seguente il Bagutta.

2



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Consideri poi che noi non possiamo fare più di un certo numero di libri di poesia all’anno (ne facciamo già troppi da un punto di vista strettamente editoriale) e che una metà circa dei posti disponibili è occupata da scrittori stranieri. Ciò comporta attesa da parte degli autori e rinvii da parte nostra, nei quali non entrano per nulla valutazioni di merito. Tutto ciò è detto per convincerla che dal punto di vista del merito non esiste alcuna difficoltà per quanto la riguarda, ma che questa è purtroppo solo una prospettiva da tenere presente. Al momento attuale non posso dirle altro, e mi dispiacerebbe di doverle rispondere affermativamente come vorrei, per poi farla aspettare, come minimo, due o tre anni. La sua precedente pubblicazione nello Scrigno era stata fatta con piena convinzione e per cercare di riparare, con i mezzi a disposizione, a quella che pareva ed era obiettivamente un’ingiustizia. Se poi c’è qualche giudice di premio che bada alla collocazione dei libri anziché al loro valore intrinseco, direi che un simile punto di vista non fa onore a quel giudice. Spero di averle parlato in modo chiaro ed esauriente, ma sono apertissimo a continuare il discorso nei termini che lei vorrà. Creda al ricordo e all’alta stima del suo (Vittorio Sereni) (1) – Mi spiego : è un discorso che riguarda non lei in particolare, ma gli autori in genere e che mi capita di fare ogni giorno.  

[Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo Castagneto 3 | 34127 Trieste  

xxvi. biagio marin a Vittorio Sereni Trieste 4 xii ’68 Caro Sereni, per quanto possano essere amare per me le conclusioni che devo trarre dalla sua carissima del 28 novembre, non posso fare a meno di ringraziarla e di tutto cuore. Vede, lei certo capisce il desiderio che io posso avere, come del resto ogni altro autore, di venir letto. L’essere stampati da una grande casa, facilita la diffusione. Ora è umano che io desideri di uscire dai miei così strani e dolorosi limiti ambientali. È vero che il mio linguaggio è già per se stesso un grave impedimento alla diffusione della mia poesia. Forse io, sedotto da certi giudizi, lo sopravvaluto, e poi smanio. Mi dovrei vergognare, lo so, e molto ne soffro. Non ho mai curato nella mia vita il guadagno, e i premi letterari li ho considerati solo come occasione di diffusione maggiore dei miei versi. Ho, naturalmente, anche momenti di scoraggiamento e allora posso anche perdere quel ritegno che va rispettato. Ero venuto a lei in un momento di tristezza e di smania. Voglia scusare la mia indiscrezione e volermi lo stesso un poco di bene, di quel bene che l’aveva indotto a pubblicare “Il non tempo del mare” nello Scrigno. E grazie ancora di tutto, e molti affettuosi saluti, e anche, poiché ormai vi siamo vicini, il mio Buon Natale. Biagio Marin

xxviii. Biagio marin a Vittorio sereni Grado 16 i ’70 Caro Sereni, scrivo a Lei, per ringraziare tutti e tre i firmatari del biglietto rituale d’auguri della Mondadori.

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Tre belle firme, anche una sotto l’altra, nude. Grazie. A un uomo che vive isolato nella sua isola (disgrazie familiari mi vi hanno costretto) anche la parata di quei nomi è stata un saluto. Solo Paolini 1 conosco di persona. E di aver avuto occasione di conoscere personalmente Lei, assai mi dolgo. 2 A Lei devo se la Mondadori ha pubblicato la mia antologia “Il non tempo del mare”. E non lo dimentico mai. Speravo che la Mondadori avrebbe essa pubblicato quella specie di Opera omnia, con la quale la Cassa di Risparmio di Trieste intende di festeggiare il mio ottantesimo anno. Pareva che la cosa potesse andare : invece no. E non ho potuto capire il perché. È stato per me un no bruciante. Non ero degno di essere messo accanto a Barbarani ? Ora il volume, per quanto bene lo possano stampare a Trieste, è declassato. Comunque, non posso non essere grato a quel Consiglio di amministrazione, che intende così di onorarmi, ed effettivamente raccogliendo in un unico volume tanti libretti, mi rende un bel servizio.. Penso che Vanni le abbia detto, che Einaudi pubblica in aprile la mia terza antologia, la post- mondadoriana. E la pubblicano nei Supercoralli, 3 senza farmi questioni perché sono versi dialettali, ma pensando solo di pubblicare poesia. Il pregiudizio antidialettale continua a funzionare. Nel ix volume, della “St d lett it” della Garzanti, Bo, il mio caro Bo, ha liquidato un gruppo di sei o sette tra i maggiori dialettali d’Italia, in sei o sette righe. E tra essi, un Giotti appena nominato. Un Noventa non meritava di più ? A me è stata regalata una frase : “È per noi uno dei maggiori poeti del 900”. E non una parola di giustificazione. Se Bo credesse veramente che io sono “uno dei maggiori poeti del Novecento”, avrebbe dovuto giustificare il suo atto di fede, che non è ancora maturato a chiaro giudizio. Non le pare ? Cecchi, 4 che avrebbe dovuto scrivere lui quel capitolo, in presenza di Vanni, mi aveva detto : a lei e a Giotti dedicherò otto cartelle… Non abbiamo avuto neanche otto righe… Beh, abbiamo tempo, possiamo aspettare. Tante scalmane le abbiamo viste passare : vedremo chi sarà ancora presente tra un secolo, quando la nostra vanità non conterà più. Del resto, io, alla marginalità sono assuefatto da molto tempo, cioè da tutta la mia vita… Proprio per questo, a Lei sono molto grato, di avermi accolto tra i poeti della Mondadori, anche se non tra quelli di prima linea. Del resto il volume era bello e io me lo tengo sempre caro. Voglia usarmi la cortesia di ringraziare Forti e Paolini del loro saluto, che ricambio di cuore. A Lei, caro Sereni, gli auguri più buoni e il saluto affettuoso di  





















Biagio Marin [In alto a sinistra a penna blu] : A Forti : in visione  



xxix. Vittorio sereni a Biagio marin Milano, 23 gennaio 1970 Caro Marin, la ringrazio molto della lettera. Non credo proprio che la mancata edizione in comune tra la Cassa di Risparmio di Trieste 1

  Alcide Paolini.   Evidentemente i rapporti erano difficili e determinati da necessità editoriali. 3 4   Biagio Marin, La vita xe fiama, cit.   Emilio Cecchi. 2

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e la Mondadori sia dovuta a una considerazione inferiore rispetto a quella data tanti anni fa a Barbarani. La mancata conclusione dell’accordo esula completamente da questioni di merito ed è da attribuire a ragioni tecniche di cui del resto non sono al corrente. Mi fa invece piacere – e molto – quello che mi annunzia a proposito dell’edizione Einaudi. Qui si è fatto a suo tempo quello che si poteva entro limiti che sono a loro volta di ordine pratico e contro i quali è inevitabile che io stesso mi trovi a urtare nel lavoro quotidiano. Per il resto : capisco la sua amarezza, ma mi stupisce un po’ (mi perdoni) che lei si meravigli ancora di certe contraddizioni e incoerenze con cui tutti dobbiamo fare i conti ogni giorno e da cui sembra ormai segnata definitivamente la faccia del nostro tempo. Forti e Paolini la salutano e tutti le rinnoviamo gli auguri più affettuosi  

suo (Vittorio Sereni) [Ab extra] : Biagio Marin | Vicolo Castagneto 3 | 34127 Trieste  

xxx. Biagio Marin a Vittorio Sereni Grado 9 ii ’70 Caro Sereni ho avuto la Sua del 6 e ne la ringrazio di tutto cuore. Per me la sera in casa di Tomizza è stata una bella festa. E spero che si rinnovi quanto prima, a Grado. La mancanza o almeno la povertà, la rarità dei contatti è stata uno dei guai della mia vita. Ma ero sempre così povero, che il muovermi m’era impossibile. Di qua mi è venuto uno stato d’animo di mortificato, che non riesco a superare. Ho piacere che abbia ricevuto “El picolo nio” : 1 oggi o domani – sono solo in cerca d’uno svago – Le manderò due altri volumetti. Le sono molto grato della chiusa della Sua lettera che considero come un bacio sull’anima. Grazie anche alla Sua signora, 2 che cordialmente saluto, assieme a Lei.    



Biagio Marin

xxxi. Biagio Marin a Vittorio Sereni Grado, 9 ix ’70 Caro Sereni, grazie di essere venuto. Certo, il mio volume, ora ha una più modesta funzione, di quella che avrebbe potuto avere, se messo a fianco a quello di Barbarani, 3 o magari all’opera omnia di Salvatore Di Giacomo. Comunque io sono contento di averlo, e, per me costituisce un bel regalo. E spero che anche i miei amici lo gradiscano. Sono mortificato per non aver vinto il Viareggio, dove, per la terza volta sono stato discusso nella finale, e poi eliminato. 4 Eppure, La vita xe fiama 5 non è pai [ ?], – mi scusi, io non ho diritto di giudizio. Ora non so se mai potrò arrivare, là dove pur un Giotti, un Noventa, tra i veneti, sono arrivati. E morire con il dubbio di essere dei falliti, è cosa dolorosa e molto mortificante.  







1   Biagio Marin, El picolo nio, Udine, Lastretta, 1969 ; una copia l’aveva mandata anche a Prezzolini : Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., pp. 237-239. 2   Maria Luisa Bonfanti, sorella di Giosue Bonfanti. 3   Berto Barbarani, pseudonimo di Roberto Tiberio Barbarani (Verona, 3 dicembre 1872-Verona, 27 gennaio 1945), poeta dialettale veronese. 4   Marin vincerà il Viareggio nel 1974 : cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, a cura di Pericle Camuffo, cit., lettera a Prezzolini, datata « Grado, 11 luglio 1974 », p. 281. 5   Cfr. nota 5, p. 60.  









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Vero è che poesie in dialetto non si vendono e che allora c’è da ringraziare Dio se, ciononostante si è avuto l’onore del Bagutta. 1 Se capitasse da queste parti, avrei molto caro salutarLa personalmente. Le stringe la mano  

Biagio Marin

xxxii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Roma 24 ix ’70 Caro Sereni, sono qua, per qualche settimana, ospite di una mia figliola, e qui ho ricevuto la sua del 17, di cui vivamente la ringrazio. La sberla di quel “mona” mi ha fatto ridere di gran cuore, e di avermela data. La ringrazio. Forse il mio caso non è identico a quello di Tomizza ; il mio problema è certamente diverso. Anche recentemente, Spagnoletti, in una sua recensione a “La vita xe fiama” ha scritto, che non può dare un giudizio, perché non si capisce. E si tratta di una antologia che raccoglie veramente il meglio degli ultimi anni. Con quelle premesse il libro non circola e io resto bloccato tra pochi amici lettori. Senonché è parere anche mio, di meritare più di venti lettori. Di qua, non fregole di successo, ma bisogno di quella pubblicità che un premio come il Viareggio sempre comporta. E poi c’è in me e penso anche in Fulvio, un certo semplicismo che non sappiamo superare : che il valore della opera debba imporsi. Prendo atto che tanti sono i concorrenti, e che tutti hanno i loro estimatori, ma non riesco a capire come importanti personalità delle lettere, non riescano a imporre o a persuadere gli altri alla semplice selezione dei valori. In questo merito probabilmente il suo : mona ! Speravo anche che il Viareggio mi facilitasse la stampa di una nuova raccolta di versi, che vorrei veder stampati prima di morire. Tutto qui, in realtà la mia “fregola” di gran cuore La ringrazia e saluta Marin.  







xxxiii. Biagio Marin a Vittorio Sereni Grado 6 i ’72 Caro Sereni, anche un piccolo saluto, rappresentato solo da una firma, può far piacere. Di esso, grazie a Lei e a Forte. 2 Forse, riesco ancora a pubblicare uno o addirittura due volumi di versi, prima di sparire. Lei dirà che è una bella disgrazia per chi li pubblicherà. Ma io, con la presunzione di chi non vorrebbe sparire, devo fare il mio possibile perché almeno parte dei miei inediti vengano stampati – almeno i versi. Delle prose, per il momento non se ne parla. E può ben essere che gli amici (Magris, Tomizza e qualche altro) abbiano ragione loro, che considerano le prose inadeguate rispetto al livello dei miei versi. Attendo Vanni Scheiwiller per vedere che cosa egli pensa si possa fare, visto che, in via di massima, egli mi ha detto di essere disposto di pubblicare lui una mia raccolta di liriche abbastanza ricca, della quale ha letto parecchi testi. Le scrivo queste cose, perché la Sua cordialità  

1   Lo vince nel 1965, alla 29° edizione. Si tratta di un premio prestigioso, che era stato assegnato precedentemente anche a Gambini, Gadda, Gatto ; Marin aveva vinto nel ’40 il premio Brabante, nel ’51 il Barbarani, nel ’64 il Montefeltro ; vd. « La Fiera Letteraria », domenica 24 gennaio 1965, articolo di Enrico 2   Intende Marco Forti. Falqui, pp. 3 e 10.  







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verso di me, mi porta a informarLa. Buon anno a Lei e a Forte, 1 a tutti e due i miei cordiali saluti.  

Biagio Marin

xxxiv. Vittorio sereni a Biagio marin Milano, 18 gennaio 1972 Caro Marin, grazie della lettera e delle notizie. Parlerò anch’io del suo progetto con Scheiwiller, visto che per ora non posso – come vorrei – dirle qualcosa di concreto o almeno di promettente in sede mondadoriana (siamo letteralmente assediati dagli impegni e ci tocca agire all’interno di un numero chiuso, voluto dall’editore). Non ho perso la speranza di rivederla a Trieste e magari a Grado. In primavera, chissà. Molti affettuosi saluti. Vittorio Sereni [Ab extra] : Biagio Marin | Via Mascherini | 34073 Grado  

xxxv. Biagio Marin a Vittorio Sereni Grado 30 xii 72 Caro Sereni, è arrivata la Sua lettera : una grata sorpresa per me, perché nessun letterato italiano mi reputa degno di una sua lettera, ormai sono un “emarginato”. Evidentemente io non ho titoli per appartenere a questo tempo, me ne sono persuaso da tempo. In questi giorni ho letto : “via cento stelle” 2 (ci stava Prezzolini una volta) 3 e ancora una volta ho dovuto persuadermi di essere un estraneo, forse un defunto. Le mie esigenze di fronte alla poesia sono troppo diverse. Lo so : c’è di mezzo il dialetto, uno scisma che solleva scandalo. Mi ha scritto una volta Prezzolini che in un incontro con Cecchi, questi gli aveva detto che per lui, il maggior poeta del 900 italiano, era Salvatore Di Giacomo, ma che per l’amor di Dio non lo dicesse a nessuno. 4 Cesare Brandi nel suo saggio sulla poesia, ci ha bollati “famigerati”. 5 Sono cose che io non capisco. Ma non accetto questi giudizi e non riconosco a nessuno il diritto di boicottare la poesia che fosse scritta in un altro volgare che non sia quello detto “italiano”. E trovo che non si dovrebbe confondere il problema utilitario della lingua d’uso comune, che riconosco importantissimo con quello della lingua della poesia. In questo mi sento crociano. E so che di fronte a opere come Via cento stelle la mia “poeticamente” vale di più, anche se mi si riduce al nulla. 6 Nel prossimo ’73 pubblicherò un grosso volume di inediti in gradese, e un volumetto di vecchi miei versi in italiano. 7 So benissimo che l’idea di far stampare 500 liriche in una sola volta, è da ignaro delle regole  

















1

  Ancora Marco Forti.   Aldo Palazzeschi, Via delle cento stelle, Milano, Mondadori, 1972. 3   Prezzolini abitava in via Centostelle a Firenze : cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 4   Cfr. nota 7, p. 61. 1913-1982, cit., p. 191. 5   Cesare Brandi, Elicona II. Celso o della Poesia, cit., p. 253. 6   Giampaolo Borghello, ‘Mio favelâ graisan’ : i fili della poetica di Biagio Marin, « Studi e problemi di critica testuale », 69, 2004, pp. 173-200. 7   Si riferisce alla raccolta El vento de l’Eterno se fa teso, cit ; cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., lettera da Grado, datata « 20 gennaio 1973 » a Prezzolini, p. 273. 2















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del gioco, e che mi espongo allo sprezzo, al ghignetto di quasi tutti i nostri letterati. Ma in me c’è una rivolta profonda per tutte le loro misure. Del resto, vivo tanto solo e lontano da ogni contatto, che sono proprio un alieno. Le mando il mio più caldo ringraziamento per essere venuto per il Suo augurio di buon anno, che ricambio, naturalmente, di tutto cuore. E mi perdoni se mi sono permesso di dare voce alla mia amarezza. Biagio Marin

xxxvi. Biagio Marin a Vittorio Sereni Grado, 2 dicembre 1981 Caro Sereni, le devo grazie e per la lettera del 4 novembre e per quella del 24. Devo scusarmi di non aver scritto subito il mio grazie per la lettera del 4 novembre. Ero un po’ turbato e me lo lasci dire mortificato, e volevo che lei ricevesse il mio volume della Garzanti 1 prima di scriverle. Lei ha trovato ora modo di dirmi molte cortesie, che mi rassicurano e mi mettono l’anima in pace. Perciò preparerò il mio celebre volume, che dovrebbe essere il mio volume di congedo con calma per l’83 o l’84 se pur sarò vivo. Vede, sono fatto così : è bastata l’affettuosa lettera del 24 per mettermi in pace e distaccarmi dall’inquieta presenza dei miei versi che mi parevano nati orfani. Ora, se avrò fiato curerò il volume ma senza essere inquieto per la loro eventuale stampa. Per fortuna si muore distaccati da ogni contingenza anche dai nostri versi. Voglia gradire il mio più profondo ringraziamento e il mio affettuoso saluto.  



Biagio Marin 1

  Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris, Edda Serra, Milano, Garzanti, 1981.

« SIAMO TUTTI SOLI, E NOI IN MODO PARTICOLARE ». LETTERE DI BIAGIO MARIN A LUCIANO MORANDINI (1965-1985)  



Lisa Gasparotto ti ho accolto sempre con affetto quasi elementare, con affetto quasi paterno. Biagio Marin

G

li anni Sessanta disegnano nella biografia di Biagio Marin il momento culminante del suo itinerario poetico e intellettuale : una seconda giovinezza che ha nella morte del figlio Falco 1 e nell’elaborazione di quel profondo lutto il punto di svolta, quasi trampolino di lancio verso una nuova stagione della vita e della poesia. Dall’uscita della raccolta I canti de l’isola, nel 1951, 2 Marin si afferma come poeta in dialetto : « la sua maturazione lo porta a superare i limiti dell’isola, pur continuando a cantarla », 3 in una parabola ascendente che non conosce flessioni. In quel torno di tempo arrivano anche i tanto attesi riconoscimenti, quasi a saldare un debito con un lungo periodo di silenzio per niente abulico e ozioso, segnato piuttosto dai fatti della vita. È del 1952 il premio Barbarani, grazie al quale anche la critica si accorge della sua poesia : Pier Paolo Pasolini lo sceglie per la sua antologia sulle voci dialettali del Novecento, e introduce Solitàe nel 1961 e La vita xe fiama (1963-1969) nel 1970 ; 4 Manlio Dazzi inserisce alcune sue poesie nell’antologia Il fiore della lirica veneziana del 1959 ; 5 Carlo Bo introduce Il non tempo del mare nel 1964 ; 6 sue poesie compaiono nelle riviste più importanti, tra le altre « L’approdo letterario », « Il Verri », « La fiera letteraria » ; escono numerose raccolte, tra cui Tristessa della sera (1957), L’estadela di San Martin (1958), El fogo del ponente (1959), Elegie istriane (1963), Dopo la longa istàe (1965), El mar de l’eterno (1967), Tra sera e note (1968), Quanto più moro (1969), El picolo nìo (1969, La  















   

   

   















1   Falco Marin muore il 25 luglio del 1943 in un combattimento sul fronte sloveno : la morte del figlio lascerà una traccia profonda sia in termini emotivi, nell’elaborazione di un lutto durata tutta la vita, sia in termini di eredità poetica : ricorrente è infatti nella poesia mariniana, com’è noto, il tema della morte, una ricorsività che Pasolini interpreta come tentativo da parte del poeta di esorcizzare attraverso la poesia la morte stessa. 2   Biagio Marin, I canti de l’isola, Udine, Del Bianco, 1951. 3   Edda Serra, Biagio Marin, Pordenone, Studio Tesi, 1992, p. 81. 4   Pier Paolo Pasolini, Poesia dialettale del Novecento, Parma, Guanda, 1952, (seconda edizione, con una prefazione di Giovanni Tesio, Torino, Einaudi, 1995), poi in Id.,, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960 (altre edizioni : con un saggio di Cesare Segre, Torino, Einaudi, 1985 ; con una prefazione di Alberto Asor Rosa, Milano, Garzanti, 1994), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con un saggio di Cesare Segre, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, 1999; Biagio Marin, Solitàe, poesie scelte a cura di Pier Paolo Pasolini, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1961 ; Id., La vita xe fiama (1963-1969), a cura di Claudio Magris, prefazione di Pier Paolo Pasolini, Torino, Einaudi, 1970. 5   Manlio Dazzi, Il fiore della lirica veneziana, Venezia, Neri Pozza, 1959. 6   Biagio Marin, Il non tempo del mare (1912-1962), prefazione di Carlo Bo, Milano, Mondadori, 1964.  









86 lisa gasparotto vose de le scusse (1969) e quindi la prima raccolta completa, I canti de l’isola (1912-1969), pubblicata nel 1970 in occasione dell’ottantesimo compleanno. 1 In questi anni si allarga anche il ventaglio delle amicizie, linfa vitale e unico possibile conforto alla solitudine intellettuale, forzata da un altro importante e non meno traumatico momento di passaggio : l’addio a Trieste e il rientro a Grado, nel 1969. E non è un caso che in questo periodo le corpose corrispondenze epistolari si facciano via via più intense diventando senz’altro il mezzo privilegiato, se non l’unico, per rapportarsi agli altri alla ricerca di quel dialogo intellettuale e umano sempre più raro e difficile. Moltissimi sono gli amici, intellettuali e poeti, con cui Marin dialoga fino agli ultimi giorni della sua lunga vita, come testimonia il nutrito corpus dei carteggi pubblicati (e di quelli ancora da pubblicare) : tra gli altri con Giorgio Voghera, Giuseppe Prezzolini, Carlo Arturo Jemolo, Gino Brazzoduro, Adriano Guerrini. Tra le numerose amicizie che trovano nello scambio epistolare feconda via di espressione, anche quella – ancora inedita – con il poeta udinese Luciano Morandini, di cui in questa sede si dà notizia. Il carteggio si compone di 63 unità, di cui 50 lettere e 13 cartoline postali, cronologicamente comprese tra il 1965 e il 1985, un arco di tempo particolarmente significativo nella biografia (poetica e intellettuale) di entrambi i poeti. 2 Nonostante la distanza (generazionale) e la diversità di idee e posizioni (ideologiche e letterarie), l’amicizia con Morandini si esprime in un dialogo profondo che il poeta di Grado ha saputo coltivare fino all’ultimo respiro. L’incontro tra i due poeti risale alla prima metà degli anni Sessanta : nasce un sodalizio epistolare poche volte interrotto e certamente alimentato dal desiderio di dialogo di Marin, di fronte alla cui ossessività Morandini sembra a volte ritrarsi, e non per sentimenti di distacco, ma forse più per il timore di un giudizio perentorio sul suo lavoro, come racconta nella sua autobiografia Promemoria friulano, dalla quale vale la pena di citare diffusamente :  











Conobbi il cantore di Grado collaborando alla rivista veneziana La città, un bimestrale a cura di Marcello Pirro, che teneva d’occhio gli eventi della poesia contemporanea e i suoi sviluppi, le nuove tendenze critiche, lo strutturalismo, ad esempio, e riproponeva all’attenzione correnti letterarie novecentesche o scrittori d’area triestina còlti in documenti inediti. Ci conoscemmo così. All’inizio fu difficile intenderci. Nella sua concezione, la poesia era ancorata alle melodie del “canto”. Nulla aveva a che fare con la storia, con gli “eventi”, diceva, tutto con l’eternità della mitica ispirazione e con la musica che la natura emana, soffio divino, essenziale ritmo d’ogni cosa, d’ogni essere, negazione d’ogni volgare contingenza. Ecco cos’era il poeta, quell’orecchio unico, e rarissimo nel tempo, capace di percepire il linguaggio che il dio gli suggerisce, di farlo proprio, a lui abbandonandosi. Marin aveva trovato Grado, isola natia, luogo di tutte le epifanie, il mondo intero e la lingua-dialetto in cui contenerlo ed esprimerlo. Trascorrevo ore con lui su quel balcone di fronte al mare, attento alle sue parole, al suo accendersi, a volte fino all’ira e all’improperio, contro il nostro tempo incapace d’ascolto, 1   Biagio Marin, Tristessa della sera, Verona, Riva, 1957 ; Idem, L’estadela di San Martin, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1958 ; Idem, El fogo del ponente, Venezia, Neri Pozza, 1959 ; Idem, Elegie istriane, Milano, Scheiwiller, 1965 ; Idem, Dopo la longa istàe, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1965 ; Idem, El mar de l’eterno, Milano, Scheiwiller, 1967 ; Idem, Tra sera e note, Milano, Scheiwiller, 1968 ; Idem, Quanto più moro, Milano, Quaderni dell’osservatore, 1969 ; Idem, El picolo nìo, Udine, La Stretta, 1969 ; Idem, La vose de le scusse, Milano, Scheiwiller, 1969 ; Idem, I canti de l’isola (1912-1969), Trieste, Cassa di Risparmio di Trieste, 1970. 2   Le lettere di Biagio Marin sono tutte depositate presso l’Archivio privato Luciano Morandini (d’ora in avanti indicato con la sigla alm), affidato alle cure della moglie, Luisa Gastaldo Morandini, che qui ringrazio insieme a Edda Serra, Gabriella Marin e Alia Enghen per avermi permesso di pubblicare in questa sede alcuni frammenti inediti di questo carteggio. Le lettere di Morandini a tutt’oggi risultano disperse.  



















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lontanissimo dalla poesia, retto dalla presunzione di una colpevole ignoranza. Marin aveva il volto di un patriarca e la parola assumeva spesso intonazione antica. Pensavo, all’inizio, ci fosse tra noi, pur amici, incolmabile frattura di idee. Il mio era solo pregiudizio. Me ne accorsi quando volle presentare a Gorizia una mia raccolta, “Epistola inevasa”. Conoscendo l’uomo, l’onestà intellettuale che l’obbligava a dire, anzi a “sparare” quanto pensava, temevo il peggio, né ebbi coraggio di chiedergli, prima della presentazione, quale fosse, approssimativamente il suo giudizio, per essere preparato a subirlo. Mi ingannavo. Marin non era il giudice unilaterale che pensavo. Egli sapeva calarsi nel mondo dell’altrui poesia e comprenderla. Non leggeva e mandava agli inferi secondo la propria misura. Anzi. Ascoltando l’analisi approfondita e lusinghiera della raccolta, vari aspetti d’essa presero persino più luce ai miei occhi. Lo scoprii, fra l’altro, sottile conoscitore della poesia in lingua friulana, con la quale mise a confronto l’“Epistola”, concludendo che “Due anime vivono oggi appassionatamente nello stesso popolo : una che si nutre del passato e l’altra che costruisce l’avvenire. Gli amici di “Risultive” fanno opera sacrosanta e meritano tutto l’amore della loro gente. I nuovi meritano la nostra attesa fiduciosa e il nostro plauso per il loro coraggio. Sono i pionieri e perciò devono costruirsi gli istrumenti di lavoro e fornire con le loro anime il nuovo materiale che è necessario al nuovo compito, alla nuova giornata...”. Conservo ancora gelosamente i fogli autografi del poeta di Grado. Non solo per i suoi giudizi sulla mia poesia, ma anche per ciò che dice sulla questione delle lingue e dei valori letterari in Friuli. 1  



In queste poche righe si trova condensata tutta la sostanza di uno scambio epistolare che attraversa varie fasi, in un’alternanza di allontanamenti e riavvicinamenti, tensioni e rinnovata comprensione, e che ha come centro inequivocabile la distanza. Il carteggio tratteggia insomma l’evoluzione di due esperienze che, pur nella diversità dei propri esiti poetici, riescono a condividere l’essenza profonda di una vita vissuta attraverso la poesia. Da un lato un Marin settantaquattrenne, ormai avviato verso la seconda stagione della vita ma, quasi per uno spietato gioco del destino, nel momento del massimo riconoscimento della sua opera, e, sempre più afflitto sul piano personale da un sentimento di solitudine malinconica, ancora alla ricerca del figlio perduto ; un Marin che va « costruendo anno per anno il suo mondo, nel quale sopravvivere », come si legge in una lettera del gennaio 1968, 2 e che inizia a ricevere il riconoscimento tanto atteso, come scrive all’amico nel maggio del 1969, vale a dire negli immediati dintorni della pubblicazione dei Canti de l’isola :  









c’è in moto anche un’iniziativa dell’Einaudi, che pubblicherà nella primavera del ’70 una mia antologia. E una rivista milanese pubblicherà un quaderno speciale dedicato interamente a una raccolta di miei versi. Come tu vedi, dopo tante difficoltà, è venuto il tempo del riconoscimento del valore della mia opera. 3  

Dall’altra parte Morandini, nel pieno fulgore della giovinezza e della scoperta, con tutto l’entusiasmo proprio dei trent’anni, che va costruendo il proprio percorso umano, intellettuale e poetico. Intenso è il suo impegno : pubblica Epistola inevasa nel 1969, Il linguaggio della tensione nel 1971 con un’introduzione di Andrea Zanzotto, Lo sguardo e la ragione, sempre con la prefazione di Zanzotto nel 1979, Sequenze elementari sempre nel 1979, Piazzale con figure nel 1983, Infrantume con la prefazione di Enrico Testa, nel 1986. 4 Nato nel 1928 a San Giorgio di Nogaro in provincia di Udine, Morandini  



1

  Luciano Morandini, Promemoria friulano, Udine, Campanotto, 1998.   Cartolina postale autografa. Timbro postale di partenza : Trieste, 08.01.1968. Inedita, alm.   Lettera autografa. Timbro postale di partenza : Grado, 08.05.1969. Inedita , alm. 4   Luciano Morandini, Epistola inevasa, Udine, La Stretta, 1969 ; Idem, Il linguaggio della tensione, in2 3







88 lisa gasparotto appartiene a quella generazione di poeti nati alla fine degli anni Venti, rimasti un po’ schiacciati tra terza generazione, linea lombarda e neoavanguardia : quella generazione insomma a cui Marin, perseverando nella « volontà di arrestare ed eternare col canto il flusso temporale », 1 con le parole di Mengaldo, guarda con distacco critico e una certa distanza di idee. La poesia di Morandini è segnata da pochi temi, costanti e ricorsivi : le vicende della guerra e del dopoguerra, l’amore, la terra della periferia friulana. Attraverso di essi scaturisce un discorso della poesia che si regge sulla riflessione sulle capacità di rappresentazione della lingua, preso congedo dai rituali ermetici della « parola levigata », 2 in un progressivo distacco dalle forme del mondo in cui la scrittura viene chiamata a far fronte a responsabilità etiche e a interrogarsi, non necessariamente in maniera autoriflessiva, sui propri principi, ma piuttosto su quanto le sfugge : « Il reale, fuori, / com’è ? ». 3 Una poesia che da un punto di vista formale approda al poemetto quando non anche alla rappresentazione drammatica, incrocia il neorealismo (pur con una sua autonomia e originalità) e arriva alla lezione delle neoavanguardie, una poesia, come scrive Zanzotto, « che avrebbe preteso, o sperato di porsi a servizio di un’immediata ripresa dell’umano in una società diversa e più giusta, anzi a costituirsi perfino a modello di questa ripresa ». 4 Dal mondo quasi astorico della sua poesia, Marin non esita a esprimere il proprio sentimento di lontananza rispetto agli esiti cui approda il lavoro poetico di Morandini, al contrario tutto così intriso e avvolto nella storia :  

































Caro Luciano, ho ricevuto ieri sera il volumetto con i tuoi versi. Li ho letti con attenzione e riletti. A volte mi sono sembrati troppo duri, pietrosi e di significato difficile da interpretare. Forse la mia sensibilità, e anche la mia intelligenza, sono ottuse e d’altra parte vive in me un’esigenza di musicalità che tu non appaghi. Pancrazi una volta aveva scritto che non c’è poesia dove non vi ha canto. D’altra parte anche il canto, oggi, ha diversa linea melodica della mia. 5  

Questa lettera, risalente al primo periodo della corrispondenza, rappresenta una sorta di stadio del margine nello scambio epistolare : Morandini si defila, non scrive, evita per qualche mese ogni tipo di contatto con il vecchio cantore di Grado ; prevale così un sentimento di distacco e ha origine un dissidio che si colmerà in un breve arco di tempo, soprattutto grazie alle insistenze di Marin che qualche mese più tardi non tarda a far sentire la propria voce al giovane amico :  





Caro Luciano, c’è qualcosa tra noi che mi pare impedisca la comunicazione, il dialogo. Non so cosa sia, ma finora non siamo riusciti a parlare. E tu, ho l’impressione, che neanche ci tenga e che eviti le occasioni. […] Ora, Luciano, io sono vecchio e, ad onta delle parvenze, da un giorno all’altro me ne poso andare. Tu mi devi stimare da poco se non cerchi un contatto più serio con me. […] Qualche parola suasiva a fratello più giovane credo di poterla dire. Invece mi si evita. Me troduzione di Andrea Zanzotto, Trieste, Asterisco, 1971 ; Idem, Lo sguardo e la ragione, con una introduzione di Andrea Zanzotto, Pordenone, Studio Tesi, 1979 ; Idem, Sequenze elementari, Udine, Aviani, 1979 ; Idem, Piazzale con figure, Venezia, Rebellato, 1983 ; Idem, Infrantume, con prefazione di Enrico Testa, Venezia, Edizioni del leone, 1986. 1   Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. 504. 2   Luciano Morandini, Lo sguardo e la ragione, cit., p. 35. 3   « A controllare i loro meccanismi / ci hanno ridotti / a finire nel giro dell’io. // Il reale, fuori, / com’è ? // Passiamo giornate impegnati, / tutto annotiamo sui libri puliti / i giornali ingrassiamo d’inchieste. // Viviamo sicuri e scontenti, / pagati, / con i gradi problemi del corpo », Luciano Morandi4   Andrea Zanzotto, Introduzione, ivi, p. x. ni, Arietta, ivi, p. 47. 5   Lettera autografa. Timbro postale di partenza Trieste, 24.04.1969. Inedita, alm.  













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ne viene dolore, ma non che mi si offenda. Forse io sono un poco troppo pesante. La colpa dunque deve essere precipuamente mia, se non riesco ad avere intorno una famiglia di consustanziali. Comunque sia, caro Luciano, ogni verità, come ogni poesia, si realizza nel dialogo. Perciò batto alla porta tua come a quella di tanti altri. 1  

Si scorge il sentimento di solitudine e di angoscia che caratterizzerà anche il periodo seguente : non a caso, infatti, il rimprovero di Marin nei confronti dei reiterati silenzi dell’amico è l’altro leitmotiv di questa corrispondenza : fin dalla prima lettera compare quello che diventerà un refrain nelle successive :  





Caro Luciano, ti vidi con mia grande sorpresa a Gorizia, dopo di che sparisti e non ti sei fatto più vivo. Pare proprio che Udine induca le persone alla dimenticanza di coloro che vivono al di là dello Iudrio. […] Vivo con una tua lettera potevi ben farti. 2  

La condizione di solitudine intellettuale che affligge entrambi, in modo particolare Marin, isolato nella sua Grado, è senz’altro uno degli argomenti che percorrono con maggior frequenza e insistenza le lettere di Marin, che già nel marzo del 1966 esterna, soprattutto in riferimento al proprio rapporto con Grado e con i gradesi, questo sentimento :  

Siamo tutti soli e noi in modo particolare. E non c’è poesia e non c’è attività culturale, né attività politica che valga a farci superare la tristezza della nostra solitudine. Che è tanto più dolorosa quanto più tendiamo a esprimerci alla comunione con gli altri. Che sono e restano altri, diversi, per noi irraggiungibili. Dalle poche battute del nostro discorso sabato a Udine al Contarena ho sentito in te uno stato di quasi disperazione. […] Ti ho sentito con un fiotto di intima tenerezza proprio mio fratello, il fratello più giovane. Sono venuto a Grado, nella mia Grado, dove non c’è un uomo che sia veramente mio prossimo, dove un gradese, maestro elementare ebbe a dirmi “lei per me non è niente”, ed ero assessore all’istruzione. E ho dovuto convincermi che non solo per lui ma per tutta la classe dirigente attuale del mio paese […] io sono semplicemente niente. […] Tutte le volte che vengo a Grado si rinnova questa mortificazione che mi offende. Intorno a me il deserto : è come se il paese fosse vuoto e popolato solo di fantasmi. […] I miei fratelli non li posso trovare tra loro, e ciò è per me fonte di sempre rinnovato dolore. 3  



Molteplici sono tuttavia le occasioni di straordinaria complicità e collaborazione : troviamo significativamente traccia, in una lettera del febbraio 1972, di dieci liriche che Marin invia a Morandini per la pubblicazione in una rivista locale chiedendogli di presentarle :  



Ti ho mandato ben dieci liriche al posto delle sei che mi avevi chiesto. Desidererei che tu me le facessi pubblicare tutte, accompagnate da una presentazione. Se non credi di farla tu, potresti pregare Guagnini o magari Giacomini o Sgorlon. 4  

Gli anni Settanta sono anni di riflessione e crisi intellettuale per Morandini : ha così origine un nuovo periodo di relativo silenzio e di allontanamento, con rapidi scambi per lo più augurali. Morandini è concentrato nel suo lavoro. Non a caso è del 1971 uno degli esiti forse più importanti della poesia di Morandini, Il linguaggio della tensione,ì in cui il poeta intende affrontare il problema del ruolo intellettuale e civile della poesia attraverso una riflessione metalinguistica sul potere di rappresentazione della realtà della parola, del linguaggio appunto. Non sorprende che un’intera sezione della rac 

1

  Lettera autografa. Timbro postale di partenza : Trieste, 29. 04.1966. Inedita, alm.   Lettera autografa. Timbro postale di partenza : Roma, 29.12.1965. Inedita, alm.   Lettera autografa. Timbro postale di partenza : Grado, 07.03.1966. Inedita, alm. 4   Lettera autografa. Timbro postale di partenza : Grado, 29.02. 1972. Inedita, alm. 2 3









90 lisa gasparotto colta, intitolata Leitmotiv onirico, in cui « subentra un riposo lievemente ironico verso il mondo e l’io poetante » ; 1 e in cui prevale il motivo della ricerca di una poesia capace di parlare ancora con sincerità all’uomo, sia dedicata « a Biagio Marin con affetto di figlio ». Nei versi di Premessa, componimento che apre la sezione, è presente un’accorata, intensa apostrofe al dedicatario, forse l’ultimo depositario di una poesia dal volto umano, che non ha perso il contatto autentico con le forme della vita :  



   







Un dio bellissimo muore tra i venti dell’immaginazione Dall’eremo di tutte le battaglie scopre il suo volto malandrino l’angelo simulatore Qualcuno batte alla porta l’amico scalzo a cavallo della stella più tarda a tramontare porta conchiglie una cesta di colore I passi si addensano nell’imbuto del porto tra vecchie storie di borghesi La notte alta dilata i pensieri se potessi porterei a spalle il dosso degli amori l’infelicità dei suoi ricordi un ricamo di dolori Amico lupo di mare tra generazioni stordite scoglio di poesia vorrei per noi la pietas di tutti i canzonieri. 2  

Un riferimento più esplicito alla poesia di Marin si legge anche nei versi di Conclusione, posta in chiusura della sezione, in cui paiono condensarsi le due ipostasi su cui si fonda la tematica dell’impegno di Morandini : la posizione dello scrittore di fronte alla realtà e l’indifferenza del mondo contemporaneo. In un susseguirsi di immagini di composta ma intesa vis figurativa, Morandini canta l’obnubilamento del volto umano, della sua più intima e autentica coscienza, nei fumi della società contemporanea (« Tra il velo dei fumi / nella rete dei fiumi / un volto d’uomo »), sulla cui disorganicità, dispersione e incoerenza domina con sicura determinazione il proposito del poeta, che sceglie di interpolare ai suoi versi quelli di Marin, prelevati dalla poesia L’amaro de la morte :  







ho preso per mano la conchiglia solare che mi conduca alla rissa mortale agli ultimi fermenti “La morte xe musica più forte che sfinisse le vite in bela fiama...” Dunque muore un uomo per... 3  

1

  Andrea Zanzotto, in Luciano Morandini, Il linguaggio della tensione, cit., p. iii.   Ivi, p. 12.   Ivi, p. 23. La poesia di Marin appartiene alla raccolta Canti de prima istàe (1951), ora in Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris e Edda Serra, Milano, Garzanti, 1999, p. 20. 2 3

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L’elogio alla poesia di Marin sembra rappresentare in poesia esattamente quanto che avveniva nel confronto epistolare tra i due poeti, una sorta di manifesto dell’impegno del giovane Morandini nella direzione di una poesia che, con chiarezza e semplicità, possa essere capace di attingere gli ultimi barlumi di vita che reggono la vita degli uomini, per far fronte alla disperazione di una « umanità in vacanza / senza attese o speranza ». 1 Marin riceverà la plaquette solo qualche anno più tardi, nel 1976, quando Morandini deciderà di superare quella sorta di timore che certamente non sempre favoriva il confronto. La gioia di Marin nel ricevere quel dono, oltre che intrisa di una commovente gratitudine, diventa foriera di un confronto sulle ragioni poetiche di entrambi che nemmeno la morte riuscì a spegnere :  







Mio caro Luciano, questa volta non mi è facile dirti il mio grazie, un grazie dico, che sia adeguato alla affettuosità del tuo dono di poesia. Già la tua dedica al « Leitmotiv onirico » mi ha profondamente turbato e quasi tolto la libertà del pur necessario distacco al giudizio. Come posso rispondere a quel tuo « a B.M. con affetto di figlio ? ». Tu non puoi neanche immaginare ciò che hai suscitato in me. Tu la conosci la voce di Falco ! Con lui ti sei ora identificato e io ne sono rimasto scosso fino in fondo. Poi ho letto e riletto e ancora letto ciò che ti ha scritto Zanzotto. Una pagina più alta, più bella non ti poteva essere donata. Gran signore Zanzotto ! Se avessi avuto il suo indirizzo lo avrei ringraziato per il dono magnifico che mi ha fatto con quella sua nitida prosa. Il dono, lo so, è stato fatto a te, ma subito dopo, o forse, già « contemporaneamente » a me. Io non avrei saputo neanche lontanamente dire ciò che egli ti dice con tanta intelligenza e urbanità. Quel suo giudizio sulla tua onestà è bello come un canto d’amore ; tanto più che egli chiaramente proclama della la validità della tua opera. E poi : « Morandini non bara con le parole, non si aspetta da essa un gran che, sa che esse ritornano a valere per la vita soltanto a prezzo di una caduta a picco nella non vita nel giro immobile e astratto di una lontananza che è molto meno della memoria ». Santo Dio, come ha detto bene ! Io non so queste cose così meravigliose. Io sono uno che crede nelle parole e aspetto da esse che incarnino la realtà della poesia, perché sempre vengono da un mondo più lontano di quello della memoria. C’è poi un richiamo per te : « quell’illusione doveva trovarsi ferocemente bruciata ». Non sono sicuro che in te così sia, se, come lo stesso Zanzotto scrive, « si riodono nel libro di Morandini cadenze di fedeltà Eluardiana... » ; se si riaffermano i temi convintamente fervidi, ma come impacciati, di quella poesia che volle essere con tutti e di tutti, sociale e reale terrestre ai primi tempi del dopoguerra... ». Forse Zanzotto ha detto qui a Luciano il più importante richiamo che gli potesse fare : l’esperienza letteraria di quella poesia, Luciano la deve superare. È un’esperienza storicamente già giudicata, « illusione bruciata ». E allora ? Si può superare un’« illusione bruciata » in modo diverso che con la conversione alle nostre radici, con il ritorno a noi stessi ? La baldoria delle guerre e delle distruzioni e delle rivoluzioni, non ha impedito la fioritura dei crochi e delle primule, dei miosotidi e dei papaveri, e sì, perfino delle rose. E il mio mare è qui fuor di finestra, ogni giorno novello, ogni giorno bambino, ogni aspetto del mondo gode del sole, che dà a tutte le cose la loro piena realtà. Sei arrivato all’estremo limite ; attento di non cadere nel vuoto. Bella la « Premessa » che è un canto d’amore e l’amore lo sostanzia : una « Liberazione » io non la riesco a tradurre a unica immagine, non la capisco. Ancora bella la « Conclusione ». [...] Certo : se rileggo « Conclusione » mi sento coinvolto nella tua disperazione : è solo detta, con forza, con incisività, con chiarezza, ma solo detta. [...]  





     





































































1

  Ivi, p. 26.

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lisa gasparotto

Vero è che io forse della poesia ho un’idea diversa dalla tua : ma io credo alla estemporaneità, all’eternità della poesia, che i tempi non possono condizionare. Tu hai creduto al tuo tempo ; e, da quello che mi par di capire, gli credi ancora. E non che io ignori le variazioni possibili e quelle reali della vita. Ma la vita non posso viverla che in me, in un’umanità che riconosco mia in Omero come in Eschilo, come in Sofocle, come in Saffo, e in Guido Cavalcanti e in Dante, e in Shakespeare e in Goethe, e in Hölderlin, su su fino a Baudelaire, e a Rilke, e a Pascoli. E per altri versi nei grandi russi, e in Ibsen e nei narratori scandinavi. Io non credo che la legge dell’incarnazione dello Spirito muti : i « tempi » sono solo un’astrazione intellettuale. Uno lo spirito una ed eterna la sua legge di incarnazione. Se così non fosse, non potremo avere nessuna intelligenza del diverso, del così detto passato, che può esistere solo come presente. E non possiamo capire l’animo degli altri popoli, la loro arte, il loro pensiero. La diversità dei linguaggi, può presentarci qualche difficoltà di comprensione : ma una volta constatata, già p in via di superamento. Nè con ciò intendo di negare la diversità immanente a ogni individuazione. Essa è la matrice della nostra ricchezza. Ma orni realtà, per quanto diversa dalla nostra è costruita con la legge unica, con la quale ogni realtà si è incarnata. E ora veniamo a noi : l’esperienza poetica ha una premessa : la persona del poeta. Il quale solo per spontanea maturazione della propria personalità contemporaneamente matura la poesia. Che pertanto non può essere punto di ricerche. Frutto di studio sarà il momento artigianale dell’arte ; ma la sintesi è un misterioso a priori della conoscenza. È inutile andare alla ricerca dell’« a priori ». Tu lo conosci quell’apriori della storia, della filosofia. È sempre lo stesso e condizione di ogni esperienza. E ciò che nei tuoi versi ha valore è l’espressione istintiva di te stesso. Sei ancora nuovo e pieno di fede nella tua anima, nel demone che dentro ti parla. Sei partito, stranamente, come me, da due esigenze parallele : la riflessione lirica e quella filosofica. La tua forte personalità morale ha voluto controllare e ridurre il sentimento. Se non stai attento arriverai all’aforisma invece che al canto. Vuoi questo ? Anche la poesia gnomica ha una alta funzione. Ma devi essere in chiaro con te stesso, dove vuoi parare. Grazie, Luciano del tuo affetto, che è ricambiato di tutto cuore. Anche Pina ti ringrazia. E come un figliolo ti abbracciamo e salutiamo. 1  



























Le lettere dell’ultimo decennio sono tutte segnate dal dialogo sulla poesia. Nel febbraio del 1974 sarà Marin a punzecchiare l’amico ribadendo come la loro distanza poetica consista di fatto in una solo apparente dissonanza :  

credi di essere da me notevolmente diverso ? Mi ricordo che una volta mi hai professato l’affetto filiale. […] E credi veramente che la tua spolverata ideologica ti diversifichi da me ? Che la tua realtà psichica sia tanto diversa dalla mia da rendere impossibile il dialogo ? […] Tutti e due viviamo a cavallo tra poesia e filosofia. Io sono nato prima di te, sono passato a volte, per altre strade. Ho fatto un cammino a volte diverso dal tuo, ma sempre con un’impostazione d’anima molto affine alla tua. Perciò ci siamo sempre incontrati e mai scontrati, anche quando avvertivamo dissonanze che si sperdevano in una sola armonia. […] L’arte, la poesia sono l’espressione suprema della libertà creativa. E non è lecito istrumentalizzarle senza perderle. 2  







Nelle lettere di questo periodo si esprime al massimo grado la tensione dialettica del maestro nei confronti di un Morandini distante anche materialmente :  

A volte io discuto con te i problemi connessi con la poesia, sempre facendo della discussione occasione di scambio. È vero che la mia cultura filosofica è idealistica con tendenza a una integrazione esistenzialista. So che il tuo sottofondo è marxista, a me estraneo. Forse qui è la ragione occulta della scissione tra noi. […] Lo so che il vostro tempo comporta l’allontanamento dei figli dai padri, ma il tempo degli uomini veri è l’eternità. 1

  Lettera autografa. Timbro postale di partenza : Grado, 12.06.1976. Inedita, alm.   Lettera autografa. Timbro postale : Grado, 23.11.1974. Inedita, alm.

2





lettere di biagio marin a luciano morandini (1965-1985)

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E poi ancora, qualche mese più tardi :  

Mi dici che hai molto pensato e che mi dirai ciò che hai acquisito. Spero ancora che tu non sia un diverso, un estraneo con il quale non potrei dialogare, e sarò felice se potrò, in grazia tua, allargare la mia comprensione e quasi rifare la coscienza riflessa che io ho sulla poesia.

In questa tensione nella ricerca di un confronto vivace e produttivo, Marin persevera fino all’ultima lettera, fino all’ultimo respiro potremmo quasi dire. Quell’ultima lettera restituisce l’immagine di un Marin sorpreso nel gesto ultimo di ringraziare Morandini con commozione, con la lucidità del “lupo di mare” che riesce a guardare al ventennio trascorso riuscendo a compierne quasi una sintesi, estremo saluto al figlio ritrovato :  

Caro Luciano, la Serra mi ha letto il discorso che in mio onore hai letto a Klagenfurt e che è pubblicato nel fascicolo di Intart. […] Il tuo discorso è stato per me una grande sorpresa perché è molto bello e non solo mi onora ma soprattutto ci onora. [...] Nella tua giovinezza io avevo avuto molta parte ; ma anche tu nella mia. Ti stimavo e ti volevo bene. Naturalmente come avviene in questi casa tu ti eri allontanato da me e risentito perché non avevo fatto di meno di riprovare la tua mala azione. Ed ecco che ora improvvisamente mi trovo davanti a una tua prosa che stilisticamente è un capolavoro ma che esprime tanto affetto e tanta fiducia e stima nella mia arte e nella mia vita. Di fronte a questa meraviglia, improvvisamente donatami, io sono veramente commosso che essa sia stata possibile e che mi abbia non solo rivelato un Morandini di prima qualità, ma anche uno stile da gran signore. [...] Questo discorso vale molto in sé per sé, ma per me è il ritorno di Luciano il giovanetto che io avevo accompagnato con il mio affetto, con i miei giudizi per tanti anni. Di più non posso dirti ; spero, quanto prima, di riabbracciarti e di scancellare con quell’abbraccio tutte le tristezze che ci avevano allontanati l’uno dall’altro. Con tutta l’anima ti ringrazia e ti abbraccia. Biagio Marin  



« Un gran vecchio. Un lupo di mare della poesia, ma senza divise e senza galloni », scriveva Luciano Morandini in quel suo lavoro, sottolineando come la poesia di Marin costituisca  



un esempio di « poesia della lunga pazienza », di poesia [...] senza gli scatti determinati da eclatanti, quanto effimere, scoperte, senza le spinte della moda. Essa è un esempio di continenza e di lontananza per quanto riguarda ogni specie di « potere », editoriale compreso, dal momento che la grande industria del settore l’ha scoperta tardi. Per ciò ancor più esemplare, poesia senza sospetti, da considerare e amare anche per le difficoltà della sua vicenda criticonazionale. Poesia che non deve niente a nessuno, avendo tutto conquistato nel primo atto del suo dispiegarsi, nel suo primo « cantare ». […] Leggere Biagio Marin, questo nostro poeta ultranovantenne, è sconvolgere le carte di ogni povero intellettualismo, d’ogni maniera e scuola, mettere pelle e cuore sulla vita, farsene riempire. Che altro può dare la poesia ? Solo questo : la certezza che nulla di veramente vissuto è piccolo o insignificante. 1  

















Morandini continuerà a mantenere vivo il dialogo con Marin attraverso la poesia : ne sono testimonianza Nomi e verbi in sogno, Gabbiano e Laguna incluse nella raccolta L’albero di Mantes del 1990, la poesia Dalla schiusa con tre versi di Marin, compresa nella raccolta Camminando Camminando del 2004, e la poesia Balcone dedicata a Marin in epigrafe, inclusa nella raccolta Lemmi in fila del 2006 e che qui si stralcia : 2  

   

1   Luciano Morandini, Biagio Marin. Poeta, « Intart. Internazionale d’arte », ottobre-novembre 1985, pp. 17-19. 2   Luciano Morandini, L’albero di Nantes, Udine, Campanotto, 1990, p. 34; p. 92; p. 94 ; Idem, Camminando, camminando, Udine, Campanotto, 2004, p. 23 ; Idem, Lemmi in fila, Udine, KappaVu, 2006, p. 46.  







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lisa gasparotto ricordando Biagio Marin è occhio spento ormai muto in faccia al mare tra spogli rami un’eco di parole ridisegna il profilo del vegliardo se ne va nel vento bianca ala di gabbiano

In questo carteggio – come certamente in altri dialoghi – mi sembra che Marin non sia solo uno dei due interlocutori, ma colui che racconta il dialogo stesso, che ne comprende le trame più riposte. Marin, in sostanza, è nel contempo una delle due voci e il coro che dall’alto le concilia e le fonde. E siamo sostanzialmente d’accordo con quanto suggerito da Magris, nella prefazione a Nel silenzio più teso, quando sottolinea come « la grandezza di Marin, della sua poesia, della sua persona, consista in questa eccezionale totalità, nella compresenza del dissidio (dell’ininterrotto dissidio che la coscienza individuale instaura nei confronti del mondo) e dell’armonia ». 1 L’affermazione di Magris, pur riferita alla poetica e al pensiero mariniani, mi pare possa venire accolta anche per descrivere questa corrispondenza, piccolo tassello dialettico di una vita tanto densa di esperienze e incontri. Un dialogo, quello tra Biagio Marin e Luciano Morandini, che segue il ritmo di una melodia a tratti dissonante, distante, tesa ma che a ben guardare è invece in armonia con le singole individualità e quindi con le rispettive scelte poetiche, che si incastrano in una sintesi del più esteso dialogo tra generazioni, restituendo un piccolo spaccato di storia letteraria, un dialogo che Marin ha cercato e intrapreso con perseveranza e immensa generosità per tutta la sua lunga vita.  



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  Claudio Magris, introduzione a Biagio Marin, Nel silenzio più teso, Milano, Rizzoli, 1980, p. 8.

CARATTERI LINGUISTICI E ASPETTI METRICO-PROSODICI NEI ‘FIURI DE TAPO’ Michele Zambon

F

iuri de tapo , la silloge che nel 1912 dava inizio alla prolifica attività poetica di Biagio Marin, è sempre stata considerata da critici e studiosi – e forse anche dal poeta stesso – un’opera acerba, priva dello spessore artistico delle raccolte successive. Non a caso Pier Vincenzo Mengaldo, nella sua antologia sui poeti novecenteschi, ove gli autori sono ordinati cronologicamente in base alla prima vera prova di un certo rilievo, inserisce Marin all’altezza della sua seconda raccolta, La girlanda de gno suore, edita nel 1922. 1 Ciononostante, già nei Fiuri de tapo, le caratteristiche della scrittura mariniana si intravedono chiaramente, sia nei temi trattati, sia nella lingua e nello stile adottati. E ciò tutto sommato non stupisce, tenuto conto che il cammino poetico intrapreso da Marin è sempre stato considerato da tutti – sostenitori e detrattori – un percorso unitario, il canto di chi ha costantemente espresso in versi l’identità di poesia e vita : forse una delle ragioni sottostante alla fortuna del poeta gradese sta proprio nell’unicità di una poesia sempre coerente con se stessa, riconoscibile fino all’ultima parola.  



* In questa silloge d’esordio non è ancora così spiccata la selettività tematica e lessicale derivante dalla necessità di rielaborare in continuazione il proprio cosmo, e bastano a dimostrarlo i numerosi vocaboli che si incontrano anche soltanto una o due volte nell’arco della raccolta. La mancanza « non solo di varianti ma anche di possibilità di varianti » 2 di cui parlava Pier Paolo Pasolini non trova riscontro se si conteggiano i lemmi della raccolta, quasi 900 nello spazio di appena 27 componimenti, spesso molto brevi. Ma ciò non significa che sia inappropriata l’impressione di selettività che la lingua poetica mariniana suscita in Pasolini e in tanti altri. Infatti, anche nei Fiuri de tapo, diverse voci lessicali sono presenti con una frequenza ben superiore che negli altri poeti dialettali o contemporanei, e sembrano fungere da collante tra componimenti che non seguono un ordine cronologico né logico rigido, e che piuttosto costituiscono un quadro impressionistico raffigurante il periodo giovanile vissuto dal poeta con gli amici gradesi. Insomma, non ha nulla di paradossale – come forse potrebbe sembrare – un lessico che è selettivo e al tempo stesso non troppo limitato. Il che sembra avvicinarsi a quanto scritto da Claudio Magris a proposito della « continuità – monotona eppur variata all’interno del suo timbro di fondo – di un canto indifferenziato ». 3 Tra i lemmi più utilizzati risultano i verbi « essere » e « avere » con funzione predicativa, i verbi « venire », « andare », « dire », « fare », « stare », « volere », « sapere », gli aggettivi  















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  Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. lxiv.   Pier Paolo Pasolini, in Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris, Edda Serra, Milano, Gar3   Claudio Magris, in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 487. zanti, 1981, p. 466. 2

96 michele zambon « bello », « grande », « buono », gli indefiniti « tutto » e « tanto ». La frequenza di questi vocaboli non stupisce, poiché rientrano fra i più comuni in una lingua, ed è già indicativa di una scrittura che si basa sulla semplicità senza vergognarsene. Ma l’essenzialità del linguaggio non pare qualcosa di costruito e programmatico, in quanto è la stessa essenzialità che caratterizza la vita della laguna e dei suoi abitanti che Marin sente il bisogno di cantare. Così il ricorso a termini dei più tradizionali in poesia – « cuore », « anima », l’immagine del fiore, il sogno, la morte – non vuole fare il verso a questa o a quell’altra poetica, ma è diretta conseguenza di un modo di percepire il mondo. È qui già in nuce la paziente capacità di ascoltare la realtà quotidiana, di immergersi in essa secondo una concezione panica e contemplativa. I temi e i vocaboli onnipresenti nella produzione mariniana, marca di riconoscimento della sua poetica, sono in parte già presenti, e al centro delle liriche è già il microcosmo gradese, spesso nella dimensione del ricordo : infatti la raccolta, nata come omaggio del poeta a due sposi e amici, 1 celebra un’epoca della vita ormai conclusa, il periodo della giovinezza ; inoltre, diverse poesie sono scritte in absentia, nei mesi in cui Marin risiede a Firenze per impegni universitari. Certo si tratta di una scrittura che frequentemente ricorre a oggetti, persone, situazioni della quotidianità, dove Grado non è ancora mito essenziale spogliato di ogni elemento realistico ; il taglio è spesso descrittivo, narrativo, talora bozzettistico, non ancora prevalentemente evocativo. Ma già si incontrano i capisaldi della poetica mariniana : il vitalismo degli elementi naturali, il senso di religiosità, il concetto di canto, l’importanza dei colori e della luce.  





































* Ispiratrice di vita e poesia si rivela fin da subito la natura in tutte le sue sfere, nell’acqua (e non potrebbe essere diversamente all’interno di una realtà marina e lagunare), nell’aria, nel fuoco del sole : fra i termini centrali dell’intera silloge, e non solo per quantità di occorrenze, risultano il « mar », il « sol », il « sielo », il vento che soffia sulle vele (con tutta una serie di altri vocaboli, sinonimi e iponimi, a essi legati). È vero che prevalentemente essi si incontrano come puri elementi paesaggistici, e che un valore simbolico è spesso secondario o assente. È vero anche che, dal punto di vista lessicale, alcuni vocaboli fondamentali nella poesia mariniana in toto non sono ancora utilizzati o coniati dal poeta : tanto per fare un esempio, l’azzurrità del cielo non è ancora « biavità », con tutti i referenti simbolici e metafisici che il termine veicola. Ma già è presente la concezione religiosa attribuita a una natura eterna e immutabile, dimostrazione dell’immanenza divina, dotata di caratteri panici e vitalistici, con la quale il poeta sente l’esigenza di relazionarsi in un rapporto simbiotico, al punto che talora vi attribuisce tratti umanizzanti percepibili anche nelle scelte lessicali : pensiamo a verbi come « rîe », « piânze » [= ridere, piangere] e simili, associati all’acqua, alle onde del mare, al sole che splende in cielo, ai fiori. Pasolini ha scritto che la selettività mariniana ha alla base la volontà di « fare di Grado il cosmo », di « dilatare il microcosmo gradese a macrocosmo che imiti, ‘per essenzialità’, il macrocosmo religioso ». Da ciò allora l’apparentemente contraddittoria « dilatazione attraverso riduzione. Quanto più immenso è il piccolo mondo dell’esistenza tanto più esso viene ridotto alle due tre cose sostanziali di cui consta ». 2  









































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  Questa prima raccolta di liriche che il poeta firma Marino Marin è un dono di nozze per gli amici Nicoletto (Leto) Olivotto e Lina Marchesini, sposi il 13 ottobre 1912, come si può leggere nelle prime pagine del volumetto di carta a mano, non rilegato, stampato nel 1912 in pochissime copie dallo Stabilimento Tipografico Seitz di Gorizia. 2   Pier Paolo Pasolini, in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 469.

caratteri linguistici e aspetti metrico-prosodici nei ‘ fiuri de tapo ’ 97 Dunque il linguaggio dei Fiuri de tapo può essere definito essenziale, sia perché è incentrato sull’essenza del microcosmo gradese, sia perché attinge a un lessico prevalentemente basico : non fanno eccezione i numerosi vocaboli appartenenti all’ambito marinaresco, lagunare, vegetale e animale, che a priva vista potrebbero apparire tecnicismi, ma che in realtà risultano assolutamente comuni nella Grado di inizio Novecento fondata sulla pesca e su qualche forma di artigianato. In altre parole, questo arricchimento lessicale non pare essere legato a una volontà per così dire enciclopedica, ma è la diretta conseguenza del mondo quotidiano che il poeta – e prima ancora l’essere umano – sceglie di cantare : un mondo basato su pochi elementi naturali dilatati e sempre più simbolicamente necessari. Infatti le decine e decine di voci legate al mondo della pesca e marino in genere, i nomi di fiori, di piante, di uccelli, spesso sono strettamente dialettali e tutt’altro che accademici. Ciò non significa che i termini più comuni vengano sistematicamente rimpiazzati da voci più specifiche, perché nei Fiuri de tapo i due livelli convivono, forse già a partire dal titolo, dove sono affiancate una voce assai comune (« fiuri ») e una (« tapo », cioè barena) tipicamente caratteristica dell’ambiente lagunare. Il sintagma, dal punto di vista semantico, denota una tipologia ben specifica di fiore acquatico (il « fior de tapo », caratterizzato da fiori violetti, e chiamato in italiano limonio, statice, o lavanda di mare), e insieme connota un mondo – e un linguaggio e una poetica – umile, che acutamente Pasolini ha messo in relazione alle Myricae pascoliane.  















* La tendenziale semplicità che caratterizza la lingua dei Fiuri de tapo non deriva esclusivamente dalle scelte lessicali, ma coinvolge anche le strutture sintattiche e metriche. Diversi aspetti rimandano ai modi dell’oralità : i periodi paratattici, con proposizioni isolate (spesso in forma nominale) o legate per lo più mediante coordinazione polisindetica ; costruzioni come l’anticipazione prolettica o la subordinazione introdotta dal « che » polivalente ; la frequenza dei deittici ; vari meccanismi iterativi quali l’epanalessi e l’anadiplosi. La sintassi paratattica si riscontra da un lato nelle poche proposizioni subordinate, per lo più relative e temporali, dall’altro nel grande utilizzo di congiunzioni – soprattutto la « e » polisindetica – spesso a inizio quartina. Già nella lirica d’apertura 1 si può notare la predilezione di Marin nell’utilizzare la congiunzione a inizio strofa, in situazioni dove un suo impiego non sembrerebbe sintatticamente necessario a instaurare un legame di continuità con quanto espresso in precedenza. Dopo aver esordito col ritornello di una canzone marinaresca nella prima quartina, racchiusa tra virgolette e dotata di autonomia semantica e strutturale al punto da apparire quasi isolata dal contesto, il poeta inizia la quartina successiva con « E ’ndeveno cussì le vele al vento » (v. 5). L’effetto è ancora più marcato nelle edizioni successive della raccolta, dove la lirica è privata del ritornello iniziale e l’esordio è affidato proprio al v. 5 : svanita la pur esile giustificazione sintattica, la scelta della congiunzione va interpretata diversamente, forse con la volontà di calare il ricordo della spensieratezza giovanile in una dimensione dinamica, in divenire, capace di superare i vincoli del tempo perpetuandosi nel presente. Significativa è anche la strofa conclusiva : « E l’aqua bromboleva drio ’l timon / E del piaçer la deventeva bianca / E fin la pena, la mandeva un son / Fin che la bava no la gera stanca » (vv. 13-16), per la compresenza di ben tre coordinate introdotte dalla congiunzione copulativa. Se da  





























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  Nell’edizione del 1912 il primo componimento della silloge è sprovvisto di titolo.

98 michele zambon un lato l’estrema linearità sintattica è chiaro segnale di un discorso che spesso procede secondo i modi del parlato, dall’altro è ipotizzabile che l’autore abbia ricercato in questo caso un particolare effetto espressivo per trasmettere la continuità e l’intensità degli aspetti rievocati ; effettivamente il procedimento polisindetico esprime qui l’idea di una successione intensa di eventi e sensazioni che nel presente si impongono come ricordi di una gioventù vissuta con pienezza, nella quale le escursioni in mare aperto potevano essere interminabili, almeno « fin che la bava [= la brezza] no la gera stanca ». L’iterazione e la ripresa lessicale e sintattica costituiscono indubbiamente uno degli aspetti salienti dei Fiuri de tapo, che contano innumerevoli ripetizioni di parole e sintagmi all’interno dello stesso verso, della stessa strofa o dello stesso componimento. Il campionario iterativo è costituito soprattutto da casi di epanalessi, anadiplosi, anafora, poliptoto e figura etimologica. L’epanalessi o geminatio, che consiste nel raddoppiare un’espressione, appare funzionale a diverse esigenze, non sempre riconducibili a un unico intento. Ad esempio, nella lirica De note, dove si contano tre occorrenze, 1 la ripetizione lessicale sembra funzionale a potenziare, a raddoppiare – in quantità e qualità – la portata del termine e del concetto che esso trasmette. Così il canto e il pianto diventano lunghi e continui, di ampia portata, e ampia appare la lontananza del mondo dei morti da quello dei vivi. Si può anche percepire una sfumatura affettiva trasmessa dal poeta nell’espressione « piangere tanto tanto ». Ma forse alla base della geminatio c’è ancora una volta l’influenza del registro colloquiale, come si avverte nel verso « Lustrè lustrè co l’agio i cadegnassi » (Le varvuole v. 13), all’interno di una lirica che per struttura ricorda un racconto orale di impronta didascalica, composto da un nucleo narrativo-descrittivo e da un monito conclusivo. Molto frequente nella raccolta è la figura retorica detta anadiplosi, cioè la ripetizione dell’ultima parte di un segmento nella prima parte di un segmento successivo ; e la frequenza aumenta esponenzialmente se tale figura viene intesa in senso lato, ovvero anche quando il primo termine non si trovi alla fine di un segmento, o il secondo termine non apra il segmento successivo. Si citano soltanto alcune occorrenze a titolo esemplificativo : « E questa povereta l’ha il cason. // Cason de cane seche in mezo ai tapi » (Ordole vv. 4-5), a cavallo tra due quartine ; « Cu sa che sogno d’oro la ’ncantai, / Un sogno che pel mar va sempre a velo » (Ceta dei Butighi vv. 10-11) ; « E resto comò un can senza paron / Un can tegnoso che se cassa via » (A Firense vv. 7-8) ; « Ma gera un’ilusion e l’he lassagia / Un’ilusion che dura una mantina » (Vista mai vv. 11-12). Già da questi pochi esempi si può notare che il poeta ama ricorrere a tale forma iterativa per completare e specificare quanto detto in precedenza, e che spesso il termine ripreso introduce una subordinata relativa.  









































* Dunque si è visto, in base alle caratteristiche riassunte finora, che la lingua dei Fiuri de tapo risulta tendenzialmente semplice e lineare ; d’altra parte, però, agiscono costantemente altri meccanismi – di natura lessicale, sintattica, retorica, fonica – miranti a controbilanciare e poeticizzare il materiale di base. Il più decisivo è l’alterazione della sequenza sintattica abituale mediante anastrofi e iperbati, ma non vanno sottovalutati meccanismi di altro tipo : espedienti retorici quali le anafore e la fitta rete di richiami  



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  « I vien cantando de lontan lontan » (v. 31) ; « E i canta i canta una canson de pianto » (v. 37) ; « E i pianze duti insieme tanto tanto » (v. 39).  















caratteri linguistici e aspetti metrico-prosodici nei ‘ fiuri de tapo ’ 99 e parallelismi che infondono al testo un certo rigore strutturale ; i giochi fonici (allitterazioni, rime e assonanze interne) ; il ricorso a vocaboli aulicizzanti. Tra le figure retoriche di ripetizione trova ampio impiego l’anafora, seconda solo alle già citate epanalessi e anadiplosi. In Te vogio ben essa diventa addirittura elemento portante della struttura sintattica e metrica. 1 Il titolo costituisce un refrain posto in testa a ogni periodo e strofa (nell’ultima quartina, costituita da due periodi, esso si trova a capo di entrambi i distici), e qui l’anafora dimostra tutta la sua efficacia nel determinare un parallelismo lessicale e sintattico fra i segmenti di testo coinvolti. La lirica è forse la più emblematica per cogliere il carattere vitalistico della natura mariniana, e allo stesso tempo può essere considerata uno dei componimenti più riusciti dell’intera silloge. La vivificazione della natura è già nel titolo e nella sua ripresa anaforica, con l’atto d’amore che coinvolge tutte le sfere del mondo naturale, aria, acqua, terra, fuoco, o meglio luce : troviamo infatti il vento, la « colma » [alta marea], il « lio » [lido], la luna e il sole. Prima ancora, il carattere vitalistico è nella vela, che trema di piacere al punto da sembrare viva. C’è poi un riferimento al continuo baciarsi di acqua e terra nel fenomeno delle maree, e una duplice associazione della natura con la divinità. E il fatto che il poeta esprima i propri sentimenti usando come termine di paragone gli elementi naturali che dominano il suo golfo, la dice lunga sia sulla scelta di una poesia basata appunto su pochi basici elementi naturali, sia sul carattere del panismo mariniano che di tali elementi farà simbolo e astrazione, per arrivare a far coincidere se stesso col mondo circostante mediante la contemplazione di esso. Per quanto riguarda l’alterazione della sequenza sintattica abituale, si contano numerose anastrofi e iperbati. Le motivazioni che stanno alla base di una determinata inversione appaiono diverse e talora concomitanti : volontà di alzare il livello stilistico a un enunciato di partenza basso e colloquiale sia dal punto di vista sintattico che lessicale ; esigenze metriche, prosodiche, rimiche ; esigenze stilistiche di altro tipo (quale può essere la scelta di evidenziare un particolare termine o concetto in una determinata posizione del verso o della strofa) ; presenza di strutture sintattiche tipiche della lingua parlata e colloquiale, come l’anacoluto e l’anticipazione prolettica. Ad esempio, nella lirica Ordole, si incontra una duplice inversione consecutiva ai vv. 7-8 : « In cuor i nasse le canson a ciapi / Co scota ’l sol e ’l sielo ze seren » ; la disposizione del v. 7 sembra rispondere a esigenze metriche e prosodiche (rendere endecasillabo il verso e mantenere un accento canonico in 4ª sede), mentre al v. 8 il chiasmo evita una monotona ripetizione della sequenza soggetto-predicato a distanza ravvicinata e, nel contempo, evidenzia lo stretto legame tra « sol » e « sielo » fondamentale nella poetica mariniana. Numerose inversioni si incontrano nel componimento dedicato all’amico Leto ; le più significative sono « La boca dolçe tanto e tanto bela » (v. 14) e « Co turbio ’l cuor, comò cô fa mareta » (v. 19) : al v. 14 dall’inversione del sintagma aggettivale « dol­ çe tanto » risulta una disposizione chiastica che amplifica la portata degli avverbi di quantità (« tanto e tanto ») entrambi riferibili sia a « dolçe » che a « bela » ; il v. 19 vede un’inversione tra sostantivo e aggettivo, piuttosto marcata per il fatto che l’anticipazione dell’aggettivo « turbio » si frappone fra le due componenti della preposizione articolata. Da questi ultimi esempi si nota che Marin, in questa lirica, tenta un generale innalzamento di tono, un innalzamento che inizia col verso iniziale « Leto “folle  











































































1   « Te vogio ben comò la vela al vento / Che trema de piaçer co la va a riva, / E co i la mola zo la fa un lamento / Che la par viva. // Te vogio ben, comò la colma al lio / Che tanti basi i dà, là su la spiasa / Che note e dì, de dopo che se Dio / Sempre i se basa. // Te vogio ben comò la luna e ’l sol / Al golfo nostro, imenso, cussì fondo / Te vogio ’l ben, che ’l Padre eterno ’l vol / A duto ’l mondo ».  



100 michele zambon 1 d’amor io ti seguia” » e che prosegue con diverse scelte lessicali : l’Istria denominata con l’epiteto « paese belo de i ulivi » ; le « ricordanse » di sapore leopardiano ; l’« oro » e il « seleste » per indicare rispettivamente il sole e il cielo ; una serie di altri termini di stampo letterario, fino al verso finale « turbio d’antichi sogni e disideri ».  































* Passando alle caratteristiche propriamente metriche, si registra che il verso nettamente dominante nei Fiuri de tapo è l’endecasillabo, per lo più aggregato in quartine. Talora Marin ricorre ad altre misure versali, quasi sempre imparisillabe : nell’ultima lirica della raccolta, In simisterio de Barga !, l’ultimo verso della quartina è un settenario ; in altri due componimenti (Te vogio ben e Saludo a Sior Bastian) il quarto verso è un quinario ; Luna è composta di soli novenari ad accentazione uniforme, anfi braca ; Dize Maria si distingue per un’alternanza regolare di decasillabi e novenari. In ogni caso l’autore rispetta in maniera pressoché rigorosa la misura versale adottata volta per volta : dunque, nell’osservanza della tradizione poetica, i vincoli metrici sono pienamente rispettati. Nel complesso della raccolta, si incontrano soltanto quattro versi che differiscono dalla misura regolare, cioè dall’endecasillabo : si tratta di due novenari e di due dodecasillabi. Un novenario si incontra prima in Ceta dei Butighi : « Lontan su Grao e se tu vighi » (v. 30), poi in Passa i canotieri : « E prunti, in men che no te digo » (v. 11). I dodecasillabi si incontrano in Nevega : « E verbi greghi fra brividi e sussiai » (v. 20) e nella lirica di chiusura, In simisterio de Barga ! : « D’aque e de piti ; l’istae no vol murî » (v. 14). Non è chiaro da cosa derivi l’irregolarità dei quattro versi citati, se da una precisa scelta dell’autore di non sacrificare i contenuti subordinando l’elemento linguistico a vincoli metrici, oppure invece da aspetti involontari quali sviste e imperizia metrica. Il fatto che i componimenti Passa i canotieri e In simisterio de Barga ! siano eliminati dalle edizioni successive della silloge certo non aiuta, mentre le correzioni attuate dal poeta negli altri due passi sembrano confermare la volontà di Marin di presentare – anche a distanza di anni – versi indubbiamente regolari, perfettamente adeguati allo schema metrico di riferimento. In Ceta dei Butighi, la correzione avviene già nel corso della revisione del 1951, dove l’autore sostituisce al « Grao » dell’iniziale novenario la locuzione « Gravo arioso », mutando il verso in endecasillabo. 2 In Nevega, invece, il poeta interverrà soltanto nel 1970, rimpiazzando con una virgola al v. 19 la congiunzione che nell’edizione del 1912 (e ancora in quella del 1951) apriva il v. 20 dodecasillabo. 3  































   





















* Da un punto di vista prosodico, ritmico, l’endecasillabo dei Fiuri de tapo presenta un carattere tendenzialmente ‘giambico’, con accenti sulle sedi pari. La percentuale di endecasillabi giambici sfiora il 70% : il fatto in sé non è strano, dal momento che la successione 2ª, 4ª, 6ª, 8ª e 10ª ha sempre funzionato, in tutta la tradizione poetica italiana, come modello-guida latente o ‘arcimodello’ dell’endecasillabo, pure in mancanza di alcuni dei suddetti accenti. 4  



1   Si tratta di una citazione da una romanza da salotto scritta da Francesco Paolo Tosti, intitolata Non t’amo più. 2   « Lontan su Gravo arioso e se tu vighi » (Ceta dei Butighi, v. 30, ed. 1951). 3   « e dopo tornaré a studiâ latin, / verbi greghi fra brividi e sussiài » (Nevega, vv. 19-20, ed. 1970). 4   Cfr. Aldo Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, Prosodia, Rima, Padova, Antenore, 1993, pp. 393-394.  







caratteri linguistici e aspetti metrico-prosodici nei ‘ fiuri de tapo ’ 101 Anche nei restanti endecasillabi, che presentano almeno un accento nelle sedi dispari, l’accento principale del verso si incontra sempre in 4ª o 6ª posizione, oltre che in 10ª ovviamente, secondo una convenzione della tradizione poetica italiana presente già prima del canone petrarchesco, e solo in parte messa in discussione nel Novecento. Dunque anche il giovane Marin si conforma a tale convenzione : nei Fiuri de tapo ogni endecasillabo presenta almeno un accento fondamentale in 4ª o 6ª sede, anche se una citazione merita il verso « Prima de durmî vegno a saludave » (Prime de ’ndâ a durmî ! v. 5), che presenta una configurazione 1ª5ª6ª (quindi con contraccento) dove l’accento dominante sembra essere in 6ª sede, ma la forza dell’accento di 5ª è tale che all’esecuzione il verso risulta assai simile a un doppio senario col primo emistichio tronco, e con accenti di 1ª e 5ª in entrambi gli emistichi. Prima di chiudere l’argomento metrica, vale la pena soffermarsi sulla lirica Dize Maria, 1 interessante perché presenta una strutturazione versale inconsueta nella raccolta e apparentemente irregolare, al punto che da alcuni è stata giudicata un insieme di endecasillabi, decasillabi e novenari con diverse ingenuità prosodiche. A ben guardare, invece, si può riconoscere che il componimento è costituito di quartine che alternano decasillabi e novenari : in fondo, lo schema metrico era già stato ampiamente utilizzato da Giovanni Pascoli, soprattutto in Myricae nella sezione Elegie. E sappiamo, da spie non solo metriche, ma anche lessicali e di altro genere, quale influsso abbia esercitato la poesia pascoliana su Marin, almeno a questa altezza. D’altra parte, considerati i Fiuri de tapo nella loro globalità, una lirica priva di strutturazione metrica risulterebbe fuori luogo. L’ipotesi di un’alternanza di decasillabi e novenari trova tendenzialmente riscontro nel profilo accentuale dei sedici versi della lirica : i decasillabi sono per lo più anapestici, con accenti di 3ª6ª9ª ; i novenari sono quasi tutti anfi brachi, con accenti di 2ª5ª8ª. Non è secondario il fatto che i due profili siano in realtà molto simili, poiché il decasillabo anapestico può essere considerato un novenario anfi braco con anacrusi, ovvero con l’aggiunta di una sillaba metrica atona in posizione iniziale : una sequenza assolutamente regolare di decasillabi e novenari avrebbe dunque un andamento ritmico costante, dove un ictus cadrebbe ogni tre sillabe metriche. A complicare la sequenza, però, intervengono alcuni versi eccezionali, non tanto nella misura, quanto nella prosodia. Al decasillabo anapestico si alternano due decasillabi di 2ª4ª6ª9ª : « Biazeto el fredo, el fredo cativo » (v. 1), « Ma ’l fredo el vien co lunghi suspiri » (v. 11) e un decasillabo di 1ª3ª6ª9ª : « Élo, élo che ’l ze comò Dio » (v. 15), comunque molto simile al profilo di un anapestico ; al novenario anfi braco si sostituisce in un caso un novenario di 3ª5ª8ª : « Anche ’l mar che ’l ze cussì grando » (v. 14). Ma potrebbero essere sufficienti, a dar ragione dello schema proposto, sia la precisa corrispondenza delle misure versali (infatti i decasillabi e i novenari sono tutti perfettamente regolari dal punto di vista metrico), sia la tendenziale omogeneità prosodica (con quattro eccezioni : ai vv. 1, 11, 14, 15, di cui quella al v. 15 trascurabile poiché presenta un accento secondario in 1ª sede che poco allontana il verso da tutti gli altri anapestici ‘puri’). Come spiegare allora le difformità accentuali ? L’ipotesi di ingenuità prosodiche pare improbabile benché non si possa escludere con certezza, anche tenuto conto che la lirica proviene da un Marin ancora acerbo, desideroso di  













































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  « Biazeto el fredo, el fredo cativo, / El cala da i munti lontani ; / Ogni sera ’l deventa più vivo, / E a l’alba ze un fredo da cani. // Su qui munti d’indola che ’l vien / Ha fato Biazeto nevera / I bianchiza sul fondo seren / E i ze duti rosa la sera. // He serao per defendeme i viri / M’he messa la magia de lana / Ma ’l fredo el vien co lunghi suspiri / Traverso le sfeze e la lana. // Anche ’l mar el me par ’ngrizignio / Anche ’l mar che ’l ze cussì grando / Élo, élo che ’l ze comò Dio / Adesso el canta tremando ».  





102 michele zambon sperimentare e mettersi alla prova ma dotato di un bagaglio tecnico ancora da affinare. Forse, le divergenze dal profilo accentuale dominante possono essere considerate come altrettanti tentativi di variatio volti a spezzare la monotonia di una sequenza ritmica uniforme, coerentemente con quanto accade nel complesso della silloge. * Per concludere, si accenna brevemente alle differenze – macroscopiche e microscopiche – che risultano confrontando i Fiuri de tapo del 1912 col testo poetico quale si presenta nelle due raccolte intitolate I canti de l’isola e pubblicate rispettivamente nel 1951 e nel 1970, nelle quali Marin raduna e rivede i testi delle liriche scritte fino a quel momento. Complessivamente, nel modus operandi di Marin si riscontrano delle tendenze generali in ciascuna delle due occasioni di revisione del testo iniziale. Nel ’51 l’autore espunge tre liriche complete (Passa i canotieri, A gno suore, In simisterio de Barga !, portando così la raccolta da 27 a 24 componimenti) ed elimina altre cinque quartine, revisiona in maniera pressoché definitiva la punteggiatura, infine compie una prima correzione grafico-fonetica. In vista dell’edizione del ’70 prosegue tale correzione, uniformando incertezze e contraddizioni rimaste nell’edizione intermedia, e lavorando su altri aspetti grafico-fonetici ancora non toccati nella revisione del ’51. Pochi ma sostanziali cambiamenti di parole o sintagmi nella titolazione o all’interno di un verso appaiono invece in entrambe le edizioni. Il lavoro correttorio attuato dal poeta negli anni – e certo non rivolto esclusivamente a questa prima silloge – si è dimostrato intenso e puntiglioso, e tuttavia non ha portato infine a un grado di coerenza assoluto, benché sia innegabile che già dalla raccolta del 1951 il testo dei Fiuri de tapo presenti scelte grafiche nettamente più omogenee rispetto alla versione del 1912, ricca di incertezze e incongruenze. Le modifiche apportate dall’autore e riscontrabili nei testi del ’51 e del ’70 derivano in parte dalla accresciuta e ormai solida esperienza di poeta dialettale : si pensi ad esempio all’uniformazione della sibilante sonora o della sibilante sorda, che nel testo originario comparivano ciascuna in due o più varianti grafiche a causa della difficoltà di mettere per iscritto un suono sempre e solo pronunciato oralmente. Alcune correzioni potrebbero essere conseguenti al variare delle consuetudini nel corso del tempo : ad esempio la consuetudine di iniziare ogni verso con la maiuscola, adottata nel testo del 1912, a metà Novecento è ormai superata, almeno in ambito italiano. Infine, alcune scelte grafiche regolarizzate nell’ultima edizione (come l’accentazione delle forme del participio passato in -ào, o quella del pronome soggetto mé) sembrano apparentemente incomprensibili, ma forse derivano dalla volontà di evitare dubbi interpretativi ai lettori poco avvezzi al gradese. È come se Marin avesse scelto di fornire utili strumenti (tra i quali il glossario posto in appendice alle raccolte) affinché la propria poesia potesse varcare i confini regionali e imporsi all’attenzione dei lettori di ambito nazionale, e forse anche internazionale. D’altronde, nell’introduzione a I canti de l’isola del 1951, il poeta aveva confessato di aver capito fin da subito che la lingua adottata sarebbe stata intesa a fatica persino dai suoi conterranei ; ciononostante, egli non ha saputo rinunciarvi, evidentemente mosso dall’amore incondizionato per la sua terra natia.  







PAESAGGI DELLA MEMORIA IN ALCUNI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI DI BIAGIO MARIN Gianni Cimador

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ella produzione diaristica di Biagio Marin, la scrittura autobiografica e il ricordo, oltre a essere l’occasione per « ricostruire l’esperienza », diventano anche momenti rivolti a « comprendere le relazioni tra la coscienza e la natura », 1 nei quali viene ricomposto il senso dei luoghi. Marin si può collocare nell’ottica di quello stretto legame che Lowenthal stabilisce tra gli spazi e i « paesaggi della memoria » 2 in cui si fissano dei significati ‘pensati’ che rappresentano un tentativo di sottrarre le esperienze e il passato all’azione corrosiva del tempo, a una tendenza alla dispersione contro la quale il poeta gradese oppone una ricerca di unitarietà e coerenza. 3 La centralità del paesaggio in Marin richiama quella della « veduta preoggettiva » di cui parla Merleau-Ponty, l’esperienza di una « conoscenza originaria » in cui la Lebenswelt emerge nel suo fungere essenziale e dove affiora l’ « unità primordiale di tutte le nostre esperienze all’orizzonte della nostra vita ». 4 Nello stesso tempo, la scoperta nello spazio esterno di una dimensione irriflessa e precategoriale dell’esperienza si riverbera anche sulla struttura del soggetto che acquista la forma di una « inerenza nel mondo », in cui viene meno ogni distinzione tra interiorità ed esteriorità, entrambe appartenenti alla stessa « carne ». 5 La propensione a vivere lo spazio come apertura all’Essere, come profondità vissuta che manifesta « l’esistenza in me di un’esteriorità che mi abita », 6 per cui i paesaggi diventano degli inscapes, 7 convive in Marin con la perenne consapevolezza, di segno  

















































1   Cfr. Maurice Merleau-Ponty, La struttura del comportamento (1942), trad. it. di Guido Davide Neri, prefazione di Alphonse De Waelhens, Milano, Bompiani, 1963, p. 5. Sul rapporto tra la letteratura e la concretezza delle esperienze e degli spazi si veda anche Yi - Fu Tuan, Literature and Geography : Implications for geographical Research, in David Ley, Marwyn S. Samuels (eds.), Humanistic Geography : Prospects and Problems, London, Croom Helm, 1978, pp. 195-196. 2   Cfr. soprattutto David Lowenthal, Past Time, present Place : Landscape and Memory, « The Geographical Review », lxv, 1975, pp. 1-36. 3   Si veda un passo dei diari di Biagio Marin, scritto in data 24 maggio 1946, ora in Biagio Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950, a cura e con una postfazione di Ilenia Marin e con uno studio di Elvio Guagnini, Gorizia, Editrice Goriziana, 2005, p. 272. 4   Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. it. di Andrea Bonomi, Milano, Bompiani, 2003, pp. 127-128, 22, 81 e 549. 5   Ivi, pp. 375, 455, 511. Per una prospettiva più generale si veda Jan Patočka, Il mondo naturale e la fenomenologia (1967), trad. it. di Alessandra Pantano, Milano, Mimesis, 2003. 6   Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 22. 7   Sul concetto di « paesaggio della mente » o « paesaggio interiore » si vedano in particolare John Kirtland Wright, Terrae Incognitae : tha Place of Imagination in Geography, « Annals of the Association of American Geographers », vol. 37 (1947), pp. 1-15 ; Douglas Porteous, Literature and humanistic Geography, « Area », xvii, 1985, pp. 117-122 ; Douglas Porteous, Inscape : Landscape of the Mind in the Canadian and Mexican Noves of Malcom Lowry, « The Canadian Geographer », xxx, 1986, pp. 123-131 ; Fabio Lando, Messaggi e creazioni letterarie : il paesaggio interiore, in Fatto e finzione. Geografia e letteratura, a cura di Fabio Lando, Milano, Etaslibri, 1993, pp. 241-252.  









































104 gianni cimador opposto, della propria esclusione dal mondo, documentata dalla scrittura autobiografica e dal senso di precarietà e inutilità che la accompagna, dal riconoscere di non vivere più « se non con gli occhi e un pensare leggero, incoerente ». 1 È soprattutto lo spazio urbano di Trieste a sottolineare e riflettere le ambivalenze interiori di Marin, una continua e irrisolta oscillazione tra le esperienze che il geografo Edward Relph definisce existenzial insideness ed existenzial outsideness, 2 ovvero tra un senso di appartenenza intimamente vissuto e una percezione di totale estraneità, presenti anche quando lo scrittore valuta con estrema lucidità il rapporto con Grado e la sua condizione di isolano. 3 Trieste è lo spazio di un’estraneità interiorizzata che trasfigura i dati oggettivi e li investe delle contraddizioni di Marin e di un conflitto tra Natur e Kultur, dal quale emerge il radicamento dello scrittore in un mondo arcaico, preistorico. La difficoltà a integrarsi nella realtà borghese, vissuta come vera e propria « topofobia », 4 enfatizza l’aspetto aggressivo degli ambienti e delle strutture in cui si traduce la violenza della realtà storica, percepita come memoria crudele e claustrofobica :  

















Questa mattina fa fresco : soli sette gradi alla mia finestra nel Vicolo del Castagneto. E borino. Ma anche oggi il cielo è terso, vetrigno. Solo che qui a Trieste le stagioni non hanno senso, se non negativo. D’inverno la bora ti tormenta ; d’estate il caldo arroventa le pietre e gli asfalti e ogni tempo in scirocco fa urlare le fogne. Questa città solo pietra io non posso amarla. Ad onta del suo mare è estranea alla mia anima. È bella solo vista da l’alto dei colli che la circondano ; ma quando ti inoltri nelle sue vie, sei perduto. Io amo le città dove la pietra è spiritualizzata e gli spazi sono musicati. Firenze mi piace, Roma mi piace, anche Ferrara – non parlo di Venezia – anche Vicenza, anche Verona. Milano non mi piace, Genova non mi piace, Trieste non mi piace. Sono nate da un altro spirito, cresciute in un altro spirito. Mi sono estranee e anche ostili. 5  







La pietra diventa la Stimmung del paesaggio urbano, 6 l’elemento che ne riassume i contenuti spirituali realizzando una unità visiva che rende percepibile l’esperienza come spazio vissuto : è in qualche modo la manifestazione del genius loci, 7 rispetto al quale si configura anche un « paesaggio etico » ; è un dato elementare, concreto e praticato, che conduce al cuore stesso del sensibile ed estrae il senso nascosto del luogo, un senso « patico » 8 che comunica al soggetto la contingenza stessa della sua esistenza.  

















1   Si tratta di una osservazione scritta in data 9 luglio 1959 e tratta dal quaderno 12 (FM 12, secondo la segnatura dell’elenco di consistenza, che verrà usata anche qui d’ora in avanti) del corpus di diari e lettere di Biagio Marin (« Fondo Marin ») conservati presso l’archivio della sezione italianistica del Dipartimento di Studi Umanistici (disu) dell’Università degli studi di Trieste. 2   Cfr. Edward Relph, Place and Placelessness, London, Pion, 1976, pp. 49-55. 3   Si veda al riguardo un passo dai diari di Biagio Marin, scritto in data 11 dicembre 1947, ora in Biagio Marin, Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita (27 agosto 1946 - 3 febbraio 1950), a cura e con una prefazione di Ilenia Marin e con una postfazione di Elvio Guagnini, Gorizia, Editrice Goriziana, 2012, pp. 130-131. 4   Cfr. Douglas Porteous, Deathscape : Malcom Lowry’s topophobic View of the City, « The Canadian Geographer », xxxi, 1987, pp. 34-43. 5   È un passo dai diari di Biagio Marin, scritto in data 20 ottobre 1947, ora in Biagio Marin, Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita, cit., p. 119. 6   Cfr. Georg Simmel, Filosofia del paesaggio (1913), in Saggi sul paesaggio, a cura di Monica Sassatelli, trad. it. di Monica Sassatelli e Lucio Perucchi, Roma, Armando, 2006, pp. 55-56. 7   Cfr. Christian Norberg - Schulz, Genius loci. Paesaggio ambiente architettura (1976), trad. it. di Anna Maria Norberg - Schulz, Milano, Electa, 1979. 8   Cfr. Henri Maldiney, Lo svelamento della dimensione estetica nella fenomenologia di Erwin Straus, in Erwin Straus, Henri Maldiney, L’estetico e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, a cura di Andrea Pinotti, Milano, Mimesis, 2005, in part. p. 116.  









alcuni scritti autobiografici di biagio marin 105 Anche Marin rappresenta la città nell’ottica di quel « naturalismo empirico, pragmatico » che Ernestina Pellegrini individua in tutta una tradizione di scrittori triestini che mettono in rilievo « un paesaggio considerato sotto il profilo delle caratteristiche fisico-ambientali, tangibile nella sua concretezza, tanto da far impallidire qualsiasi impennata estetizzante » : si tratta di un « paesaggio antropologico » asindetico, proiezione dell’ambivalenza affettiva e di tutte le mancanze esistenziali. 1 A un’intensificazione dell’esistenza corrisponde una fusione di soggettività, percezione e realtà esterna, tale da produrre « una individualità irripetibile fondata sull’Erlebnis ». 2 Similmente alla ricerca sabiana del distacco da terra e del « cantuccio » protetto come punto di vista privilegiato, 3 anche in Marin la « topofobia » si converte in « topofilia » 4 quando il paesaggio diventa controllabile attraverso lo sguardo e la rappresentazione panoramica, 5 nel momento in cui si colgono un equilibrio e una sintesi fra la realtà umana e quella naturale, fra visione parziale e visione totalizzante, raggiunta attraverso la trasformazione dei dati interiori in dati spaziali e attraverso il superamento del senso di precarietà esistenziale e delle contraddizioni ideologiche sul piano della contemplazione estetica : 6  







































   

I gradesi mi ripudiano e, dolorosamente, io mi sento un esiliato, un senza terra dove riposare, un senza focolare dove riscaldarmi. E ho tanta stanchezza di me. Trieste mi è rifugio, ma non è posto da riposo. Trieste con me è stata cara e lo è tuttora, ma ci sono troppi edifici e troppi asfalti per la mia anima rimasta primitiva. Io ho profondo bisogno di spegnermi in pace contemplando i cieli e la terra verdeggiante e ascoltando il canto degli uccelli. Ho desiderio di riposo, di grandi sonni che permettono poi ore di limpido pensiero, di animo melodioso. Perciò vorrei una casa al margine di una cittadina di campagna, possibilmente su un colle per poter godere della lontananza. 7  

Il godimento dell’occhio che domina le lontananze è l’espressione di un ritorno all’unità di sé, in cui si traduce la consapevolezza che « è possibile essere pienamente consci del nostro attaccamento al luogo solamente quando l’abbiamo lasciato e possiamo vederlo come un’unità indissolubile da distante ». 8 È perciò significativa l’immagine del colle, di ascendenza leopardiana e carducciana oltre che sabiana, 9 che pro 







1   Cfr. Ernestina Pellegrini, Le città interiori in scrittori triestini di ieri e di oggi, Bergamo, Moretti & Vitali, 1995, pp. 18-20. Al riguardo si veda anche Stelio Mattioni, Storia di Umberto Saba, Milano, Camunia, 1989, in part. p. 19. Sul motivo della città-prigione è interessante anche Francesco Muzzioli, Il tema della prigione nell’opera di Umberto Saba, in Umberto Saba. Trieste e la cultura mitteleuropea (Atti del Convegno di Roma, 29 e 30 marzo 1984), a cura di Rosita Tordi Castria, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1986, in part. pp. 83-89. Sul rapporto tra Saba e Trieste si possono vedere inoltre Bruno Maier, Umberto Saba e Trieste (1983), in Dimensione Trieste. Nuovi saggi sulla letteratura triestina, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1987, pp. 169-191, e Giordano Castellani, Trieste nella poesia di Saba : da ‘Trieste e una donna’ a ‘Coi miei occhi’, in Umberto Saba. Trieste e la cultura mitteleuropea, cit., pp. 49-62. 2   Cfr. Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo (1981), trad. it. di Bruno Argenton, a cura di Remo Bodei, Milano, Il Mulino, 1984, p. 277. Si veda Biagio Marin, FM 19, 12 aprile 1966 (Trieste). 3   Al riguardo si veda in particolare Claudio Milanini, Lo sguardo di Saba, in Il punto su : Saba, a cura di Elvio Guagnini, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 229-234. 4   Sui due concetti si veda inoltre Fabio Lando, Messaggi e creazioni letterarie : il paesaggio interiore, cit., pp. 248-250. 5   Cfr. Yi - Fu Tuan, Topophilia. A Study of environmental Perception, Attitudes, and Values, Englewood Cliffs, Prentice - Hall, 1974, pp. 132-133. 6   Cfr. Rosario Assunto, Il paesaggio come oggetto estetico e la relazione dell’uomo con la natura, « Il Verri », a. xiii, vol. 29, 1968, p. 17. 7   Biagio Marin, FM 10, 19 agosto 1958 (Trieste). 8   Cfr. Yi - Fu Tuan, Topophilia. A Study of environmental Perception, Attitudes, and Values, cit., p. 118. 9   Sulla ricorrenza di questo motivo negli autori triestini si vedano Elvio Guagnini, Ritratti e autoritratti della città in formazione nella letteratura triestina tra Otto e primo Novecento, in Minerva nel regno di  









106 gianni cimador blematizza la definizione della posizione dello sguardo nello spazio e la fa coincidere con la conquista di una « distanza amorosa », 1 con il raggiungimento di un equilibrio interiore e porta in superficie l’esigenza inconscia di una « cornice-limite » 2 che contenga le tensioni centrifughe e distruttive. 3 A suggestioni sabiane 4 rinvia anche la presenza, quasi ossessiva, del cielo, non solo come immagine dell’infinito contrapposta a uno spazio claustrofobico, ma anche come elemento incorporeo che sottolinea l’atto percettivo in se stesso, sempre in funzione di una interiorizzazione della realtà esterna, di una existential insideness. La perenne tensione tra interiorità ed estraneità alimentata da Trieste, in cui si esprimono l’isolamento di Marin e il senso di emarginazione nell’ambiente urbano leggibile anche come emblema ideologico e culturale, 5 si risolve in un istinto di fuga verso una dimensione mitica, contrapposta a quella storica, verso una esistenza reale extrasoggettiva dove si proietta il sogno di una cancellazione della presenza umana, sostituita spesso da simboli di evasione come voli di uccelli e prue, slanci di vele o altezze ineffabili. In questa ricerca della propria consistenza perennemente proiettata in un altrove che equivale a ‘perdersi’ per Maldiney si definiscono il senso autentico del paesaggio e una dimensione ontologica profondamente legata al soggetto e caratterizzata da una coesistenza del qui e dell’altrove, del visibile e dell’invisibile, che ne determina l’apertura sensibile e situata nel mondo stesso. 6 Il « richiamo del largo » 7 si concretizza nello spazio marino che richiama una dimensione simbiotica, simile a quella della memoria, dove spazio e tempo sono fusi, incorporati : è l’elemento che sia a Trieste sia all’interno del microcosmo gradese consente a Marin di aprirsi a nuovi orizzonti e mettersi in comunicazione con la complessità del mondo esterno. L’altrove perduto che insiste ai margini dei paesaggi mariniani e che determina l’esperienza di una continua precarietà vissuta come « povera inquietudine della sorgente », 8 coincide con la totalità rappresentata dal paesaggio mitico dell’infanzia nella  

































Mercurio. Contributi a una storia della cultura giuliana, Trieste, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 2001, pp. 69-92, e Id., Trieste “con gli occhi di Saba”. A proposito dell’ “io” e del “tu” nel Canzoniere, « Le forme e la Storia. Rivista di filologia moderna », n. s., xi, 1998, 1-2, pp. 183-200. Sulle immagini del colle e del monte come « paesaggi primi » si faccia riferimento anche a Giorgio Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, Novara, Interlinea, 1999, pp. 87-147. 1   Cfr. Roland Barthes, All’uscita del cinema (1975), in Idem, Il brusio della lingua. Saggi critici iv (1984), trad. it. di Bruno Bellotto, Torino, Einaudi, 1988, p. 359. 2   Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura (1987), trad. it. di Daniela Orati, Venezia, Marsilio, 1991, p. 76. 3   Joachim Ritter, Paesaggio. La funzione dell’estetico nell’età moderna, in Soggettività (1974), a cura di Tonino Griffero, Genova, Marietti, 1997, p. 119. 4   Si veda al riguardo in particolare Umberto Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori, 1988, pp. 114-115 e p. 149, e inoltre Elvio Guagnini, Saba e Trieste : il cielo (e le radici) del Poeta, in Renzo S. Crivelli, Elvio Guagnini, Umberto Saba. Itinerari triestini, Trieste, MGS Press, 2007, pp. 13-65. 5   Cfr. Denis E. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico (1984), a cura di Clara Copeta, Milano, Unicopli, 1990, p. 22. Sulla città come « testo » e stratificazione di linguaggi da decifrare si veda anche Michel Butor, La ville comme texte, in Œuvres completes, iii : Répertoire 2, Paris, Éditions de la Différance, 2006, pp. 567-574. 6   Cfr. Henri Maldiney, Lo svelamento della dimensione estetica, cit., p. 116. 7   Cfr. Éric Dardel, L’uomo e la Terra. Natura della realtà geografica (1952), a cura di Clara Copeta, Milano, Unicopli, 1986, p. 27. 8   Cfr. Charles Péguy, Nota congiunta su Cartesio e sulla filosofia cartesiana (1914), in Cartesio e Bergson (1914), a cura di Angelo Prontera e Mario Petrone, Lecce, Milella, 1977, p. 253.  















alcuni scritti autobiografici di biagio marin 107 stagione della « grande estate » lagunare : nell’immagine del « mar de l’eterno », metafora del pensiero che va al di là di tutti gli enti singoli, culmina la tensione a trasformare la propria esclusione in immagine, a liberarsi da un corpo che rappresenta sempre quella dimensione contingente, di cui Marin avverte i limiti. Si tratta, a tutti gli effetti, di una esperienza della trascendenza divina che lo scrittore vive « soprattutto come immanenza nel mio spirito, come realtà operante e continuamente creatrice della mia coscienza […] Questo mistero […] io lo vivo in uno stato amoroso e anche commosso ». 1 La dimensione astorica della laguna gradese esprime un grado zero del paesaggio in cui il concetto si afferma in termini pittorici e trasforma la res extensa in puro spirito, dissolvendo il pensiero stesso in una felicità piena che si traduce nell’impulso a ridursi a pura luce : come nota Edda Serra, « non c’è distanza più tra mondo rappresentato e mondo vissuto. L’autore non distingue più l’isola della propria esperienza di coscienza e di pensiero. L’isola, riassommando i valori del passato, si è ‘ridotta’ a solo linguaggio di coscienza e di memoria ». 2 La sabbia, il sole, il mare evocano anche nei diari i processi naturali primordiali che continuano a ripetere se stessi, la dimensione metarazionale della coscienza e dell’eternità che in essa si riflette. L’esplorazione della propria identità avviene attraverso parametri spaziali, che si sostituiscono a quelli temporali e storici. 3 Anche la casa luminosa di Grado a contatto con il mare diventa spazio dell’intimità e della concentrazione, riproponendo l’oscillazione di Marin tra un essere homeinsider e home-outsider, 4 tra bisogno di radicamento e di comprensione e necessità di fuga in un esterno aperto, liberante, che investe lo scrittore e viene comunque filtrato attraverso una percezione inquadrata :  





























Ora sono qui nel silenzio luminoso del mio salotto. Se alzo lo sguardo, vedo, oltre i vetri della terrazza, il mare che oggi è di un bel verde che s’ingialla sui dossi e si imbianca delle risa delle piccole onde che sui dossi s’infrangono. C’è il gioco e l’atmosfera dell’eternità qui, che subito mi prende e mi incanta. Quanti anni da giovinetto, da giovane uomo ho sospirato questa possibilità di sedere in casa mia, e di poter, solo alzando gli occhi, vedere il mare. Ma quando ho avuto la bella abitazione con il mare fuor di finestra, ho dovuto lasciare il paese cacciato dal livore degli uomini. Nessuno ha tollerato la mia tutela, il mio giudizio, il mio modo di essere che non poteva adattarsi alla loro misura, riconoscere per validi i loro limiti, i loro costumi. 5  

La prossimità rispetto all’essenza del paesaggio gradese passa anche attraverso l’avvertimento della sua demonicità, dal momento che il paesaggio non si rispecchia nella dimensione storica, ma in quella mitica e in quella nascosta del divino, presenza censurata dall’uomo e dal razionalismo occidentale :  

Un colore unito, puro : un tappeto regale, senza macchie. Mi è parso che la dea del luogo si rivelasse così, in tutta la sua casta bellezza, nella sua melodia tenue, quasi monotona, ma nel contempo profonda come quella dei salmi medievali. Quel verde della gramigna su quello  

1   Cfr. la lettera di Biagio Marin a Carlo Arturo Jemolo del 3 settembre 1978 (Grado), ora in Carlo Arturo Jemolo e Biagio Marin, La crisi della società italiana nelle lettere fra Jemolo e Marin, 1970-1981 : conclusioni di un carteggio, 1978-1981, « Nuova Antologia », cxxvi, 1990, 1, p. 267. Sulla particolare religiosità di Marin si veda Pericle Camuffo, Tra esistenza e trascendenza : Biagio Marin e Karl Jaspers, « Studi Mariniani », a. VII, n. 6, 1998, pp. 67-84. 2   Cfr. Edda Serra, Biagio Marin : il profilo del poeta, i momenti del prosatore, « Studi Mariniani », a. III, n. 3, 1993, p. 9. 3   Cfr. al riguardo Gaston Bachelard, La poetica dello spazio (1957), trad. it. di Ettore Catalano, Bari, Dedalo, 1975, p. 21. 4   Cfr. Douglas Porteous, Literature and Humanistic Geography, « Area », xvii, 1985, p. 122. 5   Biagio Marin, FM 12, 26 maggio 1962 (Grado).  





















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sfondo monotono, era miracoloso. L’area che avevo sotto gli occhi, non era certamente molto grande ; ma pareva infinita. […] La dea rideva felice della mia meraviglia, dondolando le ariste, e anche distendendosi nella morbidità di quella sabbia purissima. […] Era una melodia, era un quadro tutto essenzialità. Ho pensato che così dovrebbe essere la mia poesia, così povera di elementi ma così suggestiva di mistero rivelato. 1  



Come le poesie, anche le descrizioni diaristiche fissano l’attimo nella sua estaticità e immediatezza, vogliono attingere l’assoluto dal basso, evocano immagini icastiche per rappresentare l’eternità dell’Essere al di là del divenire, ovvero una pienezza di esperienza e di pensiero : emerge la stessa esigenza di « rendere nitido e cristallino un mondo che altrimenti si dissolverebbe per impossibilità di riuscire a metterlo a fuoco ». 2 Quando Marin afferma che « per me i paesaggi del deserto sono la cosa più bella del mondo. Più bella ancora delle montagne, almeno come potenza spirituale », 3 individua nella sabbia la dimensione mentale di un vuoto estatico e una formatività che enuclea il flusso sensoriale dell’immaginazione ; si tratta di un’immagine poetica che, come l’onda, « ci riporta all’origine dell’essere parlante » e « diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o in altri termini essa è, al tempo stesso, un divenire espressivo del nostro essere ». 4 Il colore giallo della sabbia e delle conchiglie assume il ruolo di ‘gradiente’, ovvero del « fattore elementare di ogni paesaggio inerente al suo dispiegarsi in gradualità strutturate nello spazio, più o meno sottili ma sempre essenziali sia a parte objecti che a parte subjecti » : 5 è la tonalità generale che unifica i colori e stabilisce un’armonia tra materia e idea, trasformandosi così nella manifestazione visibile di un fenomeno originario nella sua purezza creativa, che precede la distinzione di soggetto e oggetto e rivela la struttura stessa del pensiero. In un’intuizione sensibile che si sottrae alle catene discorsive dell’intelletto e che predispone, nell’istante, l’incontro ‘patetico’ con la totalità, si verifica la coincidenza dell’universale e del particolare, effetto di una conoscenza originaria che si realizza nella natura e lascia vedere in sé il tutto, catturando la pienezza nell’effimero :  





























   



Due ore sul dosso, di vero paradiso terrestre. C’era una bassa marea come mai in questa stagione avevo veduta : grandi banchi di sabbia emergevano morbidi, puri. Camminarvi sopra era una gioia. Accanto a me la Rondine così parca di parole, dal piede leggero, dall’andare armonioso. Come sempre ero io che tentavo di dar voce al senso di bene che mi dava quel camminare scalzo sui dossi e lei semplicemente ascoltava. Il mondo emerso dall’acque era semplicemente biblico. Ogni tanto affiorava una conchiglia. Immoti, gli stormi dei gabbiani, sui dossi più lontani. Lì era la pace assoluta : un tappeto di rena fine, appena emerso, e acqua marina sfinita di bene. Sono ritornato a casa con tanta musica nell’anima, tanta leggerezza nel cuore e nel sangue. Non sentivo il peso della carne invecchiata : mi pareva di essere un bimbo felice. 6  







La registrazione dell’istante non è un semplice momento evanescente, ma articola una vera e propria epistemologia basata sulla « intelligenza del paesaggio » come « stile cognitivo ». 7  



1







  Id., FM 12, 28 luglio 1962 (Grado).   Cfr. Yi - Fu Tuan, Literature, Experience and Environmental Knowing, in Environmental Knowing. Theories, Research and Methods, eds. G. T. Moore, R. G. Golledge, Stroudsburg Pennsylvania, Dowden, Hutchinson and Ross, p. 268. 3   Cfr. Biagio Marin, A levante dell’isola, in Gabbiano Reale, cit., p. 48. 4   Cfr. Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, cit., p. 13. 5   Cfr. Giorgio Bertone, Lo sguardo escluso, cit., p. 53. 6   Biagio Marin, FM 18, 29 luglio 1964 (Grado). Al riguardo si veda anche Erwin Straus, Paesaggio e Geografia, in Erwin Straus, Henri Maldiney, L’estetico e l’estetica, cit., p. 75. 7   Cfr. Jean - Marc Besse, La fisionomia del paesaggio. Da Alexander von Humboldt a Paul Vidal de La 2

alcuni scritti autobiografici di biagio marin 109 Ogni esperienza del mondo inizia e avviene in mezzo al mondo, senza un punto di vista dominante, ma in una sorta di affettività e di emozione ‘prima’ che costituisce la tonalità originaria e fondamentale della nostra relazione con il mondo, basata sullo stupore come « fonte di una richiesta di senso che può essere ricordo, ma anche malinconia che non prende forma determinata al livello di un senso raffigurabile proprio perché è l’evento stesso che apre alla domanda sul senso e non dà risposta » : 1  



   

Ora andrò con Vanni sui grandi dossi dell’oro. Pina è un poco gelosa di questo mio andare devoto sui dossi, ma se sapesse che cosa veramente vivo quando sono là, non lo sarebbe. La mia realtà più profonda ha in essi, nella loro sostanza, nella loro vita, il suo simbolo. Così è il nascimento della mia anima. Là ritrovo la mia radice, la mia infanzia, piena di estasi. Pina, che pur mi vuol tanto bene, non mi ha ancora veramente scoperto. Io stesso ho pudore della mia realtà, e non ho mai osato confessarmela, e affermarla. Non ho fatto che scrivere versi, dai quali solo qua e là traspare. 2  

Elementi come il dosso, la conchiglia, la bolla, il mare, il sole o l’ onda assumono la valenza di « ecosimboli », di « prese del paesaggio » ; 3 hanno un potere ipnotico ed evocano l’intrecciarsi di dimensioni diverse dell’Essere, la presenza di segrete corrispondenze tra il visibile e l’invisibile : attivano una « realtà – avvenimento », 4 un movimento che attraversa, e rivelano il vincolo emotivo che lega l’individuo al paesaggio di radicamento. 5 Nel dosso e nella conchiglia si manifesta l’essere carne della forma, 6 una « sintesi rivelatrice » che porta a una improvvisa illuminazione sul senso delle cose, 7 analoga a quella suscitata dal « punto sensibile » nella riflessione di Charles Péguy (che Marin conosce 8), ovvero il luogo o un suo elemento che ‘tocca’, ‘ferisce’ e ‘rapisce’, il punto di raggiungimento della compiuta sensibilità, dove si esplicano il significato, la profondità del pensiero. 9 In Marin, come in Péguy, troviamo una concezione kairologica del paesaggio che diventa così passaggio incompiuto della vita, che si apre dal punto sensibile del presente e dell’apparire delle cose nell’istante. Questa dimensione preriflessiva fa della realtà geografica prima di tutto un mondo di senso, ma anche un mondo sensibile come potrebbe apparire in Merleau – Ponty. 10 Quando si impongono le suggestioni di « un cielo turchino da farti male al cuore », 11 in cui si esprime la sensazione di un annullamento della percezione fisica delle distan 









   

































Blache, in Vedere la Terra. Sei saggi sul paesaggio e la geografia (2000), a cura di Piero Zanini, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. 92. 1   Cfr. Maddalena Mazzocut-Mis, Voyeurismo tattile. Un’estetica dei valori tattili e visivi, Genova, Il Melangolo, 2002, p. 163. Sul motivo dello stupore si vedano anche Silvano Petrosino, Lo stupore, Novara, Interlinea, 1997, e Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore (1981), trad. it. di Alberto Bramati, Milano, Bruno Mondadori, 2002. 2   Biagio Marin, FM 18, 27 agosto 1964 (Grado). 3   Cfr. Augustin Berque, Come parlare di paesaggio ?, in Estetica e Paesaggio, a cura di Paolo D’Angelo, 4   Cfr. Éric Dardel, L’uomo e la Terra, cit., p. 16. Bologna, Il Mulino, 2009, p. 172. 5   Cfr. Armand Frémont, La regione uno spazio per vivere (1976), a cura di Marica Milanesi, prefazione di Massimo Quaini, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 99. 6   Cfr. Maurice Merleau - Ponty, La struttura del comportamento, cit., p. 340. 7   Cfr. Biagio Marin, FM 19, 17 agosto 1965 (Grado). 8   Si veda il riferimento in un passo dei diari del 5 agosto 1949, ora in Biagio Marin, Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita, cit., p. 323. 9   Cfr. Jean - Marc Besse, Nelle pieghe del mondo. Paesaggio e filosofia secondo Péguy, in Vedere la Terra. Sei saggi sul paesaggio e la geografia, cit., pp. 122-123. 10   Cfr. Maurice Merleau - Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., pp. 291-292. 11   Cfr. Biagio Marin, Grado. L’isola d’oro (1934), Grado, Comune di Grado, 1955, p. 176.  

110 gianni cimador ze, non si può non pensare al « paesaggio – corpo » di cui parla Porteous, 1 che indica il profondo legame tra l’interiorità e il territorio, mediato attraverso la relazione analogica tra il corpo e il mondo : nella reversibilità di soggetto e oggetto rappresentata dal complesso della percezione, viene cancellata la dualità di res cogitans e res extensa e la percezione corporea del paesaggio, come punto di vista sul mondo, corrisponde a una husserliana « visione originariamente offerente ». 2 Il corpo diventa il « nodo dell’essenza e dell’esistenza », 3 cioè l’incrocio dove le idee prendono forma sensibile, il « centro di prospettiva » in relazione al quale avviene la costituzione fenomenologica dell’oggetto e si rivela la dimensione della Lebenswelt, la vita precategoriale delle cose prima e al di là di ogni sapere presunto e già costruito su di esse. È questa circolarità tra l’organismo e il suo ambiente circostante che permette di concepire i due termini come una totalità, umanizzando così progressivamente la natura e trasformando l’esperienza primordiale in mondo dello spirito :  

























Io sono il figlio della laguna gradese, la coscienza e la voce delle acque basse specchianti le nubi e i firmamenti e vele che passano per i canali silenziose. Anzi, che passavano, perché ormai le vele sono state sostituite dai motori. Sotto quello specchio terso ci sta solitamente il fango marcio dei fondali e rare volte un fondo sabbioso. Così è la mia anima : acqua senza profondità, che tutta la sua gloria ha dal cielo, e sotto la quale ci sta il fango. Acqua torbida spesso, ma per la sua pigrizia, distesa a specchio. 4  



Lo stupore dello sguardo di fronte alle cose, che fa del mondo uno spettacolo, coincide con la « sospensione » dell’Epoché, ovvero con lo sporgersi su un ‘fuori’ della coscienza, su un’esteriorità che mette in discussione la nostra appartenenza ingenua al mondo per mostrarci « lo scaturire immotivato del mondo » 5 e ci conduce a pensare « una specie di debolezza interna » 6 che travaglia l’ esistenza del soggetto incarnato, fondando quindi l’idea di verità su una contingenza ontologica radicale. 7 Nonostante questa necessità di negare la vita stessa per ricongiungersi all’ Eterno, Marin non può evitare il rapporto ‘teorico’ con il tempo, che trasforma il presente in spazio fissato sotto lo sguardo e lo fa sparire come durata piena di vita, ribadendo ancora una volta la consapevolezza di una esclusione irrimediabile. Nella dimensione della memoria autobiografica, iscritta in uno spazio separato, si realizza tuttavia un avvolgimento reciproco della scrittura e dell’esistenza, che è propriamente l’esperienza ermeneutica della costituzione del senso, nella quale anche ciò che è trascendente diventa un momento della vita :  



















La vita non si riduce a un punto, non al hic et nunc, la vita è azione continua, trapasso, metamorfosi continua, processo. E in ogni momento di esso vi ha l’attesa del successivo, il quale trascende rispetto al precedente. Presenza e trascendenza sono sempre attuali. Essere e divenire sono vivi nel presente : la trascendenza è solo virtuale nel processo del divenire. Il tempo assorbe in sé ogni vita possibile, ogni possibile realtà. Di là della possibilità è il nulla. E eterno si identifica col nulla, ma è il nulla a generare la vita, almeno idealmente, a dare origine, moto  

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  Cfr. Douglas Porteous, Bodyscape : the Body - Landscape Metaphor, « The Canadian Geographer », xxx, 1986, pp. 2-12. 2   Cfr. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, i (1913), a cura di Enrico Filippini, Torino, Einaudi, 1965, p. 165. 3   Cfr. Maurice Merleau - Ponty, Fenomenologia della Percezione, cit., p. 203. 4   È un passo dei diari scritto in data 24 gennaio 1950, ora in Biagio Marin, Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita, cit., pp. 359-360. 5   Cfr. Maurice Merleau - Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 23. 6   Ivi, p. 21. 7   Biagio Marin, FM 12, 23 giugno 1962 (Grado).  





alcuni scritti autobiografici di biagio marin

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al tempo è l’eterno. Il quale deve negare la propria eternità se vuole passare all’esistenza, a una qualche concreta realtà, destinata a finire, a mutare continuamente nel tempo. 1  

Il vivo presente, che è il punto di sensibilità del mondo, « non è ciò che è storico per un sottilissimo spessore. È ciò che non è storico affatto » : 2 non è il presente così come viene rappresentato, il tempo morto della storia, della registrazione o della retrospezione, chiuso all’irruzione di tutta quanta la novità che costituisce appunto l’essere proprio del tempo. Il tempo di Marin, come quello di Péguy, si presenta come una successione di presenti e di attualità, di avvenimenti senza compimento, è fluire fungente della vita, mutamento in cui si cercano delle forme stabili : è il tempo come si esplicita nel paesaggio lagunare, caratterizzato dallo slancio, dalla creazione continua delle origini. Lo sguardo del passato si rovescia così continuamente verso il futuro, si inserisce in una durata così come la concepirebbe Bergson il quale vide « che il presente non era l’estremo limite del passato dalla parte del recente, ma l’estremo limite del futuro dalla parte della presenza » : 3 il presente è un punto di vita e di fecondità, da dove partono tutte le strade, è il vuoto delle possibilità che si dispiegano. L’ autobiografia diventa così filosofia che si attesta costantemente nell’incontro del tempo dell’anima e del tempo del mondo. In conformità alla « humilitas pascoliana » di cui parla Brevini, 4 la felicità dei paesaggi marini va cercata nelle piccole cose, nel respiro segreto dell’Eterno che tutto unifica, nelle voci delle conchiglie che evocano suggestive sponde e affondano in un passato mitico, dando il senso della profondità dell’Essere. 5 Lo spazio fisico e i suoi « punti sensibili » aprono al di là dello sguardo uno sfondo che è nello stesso reale e immaginario, e che provoca una successione di rêveries della materia : la materialità terrestre non è chiusa in se stessa, nella semplice indifferenza di una pura fattualità, ma la eccede e si rivela carica di potenzialità, manifestando molteplici direzioni di senso. Anche a Gorizia, al di là del sentimento del pittoresco prodotto da una tensione persistente alla trasposizione pittorica della natura colta nella sua materialità plastica, Marin scopre nel paesaggio e nella visibilità che esso dispiega la « profondità intima » del suo essere, un orizzonte che si apre :  



   







   





















Ieri sono stato con Pina a Gorizia. Ho scritto Gorizia e dovrei dire in paradiso. […] Che colori ! Vivi, vibranti con voci fonde, con un tatto di velluto, con una saporosità che riempiva la bocca d’aromi come vini stagionati. I tanti alberi tra le case, i monti in fondo alle strade, e ovunque verde nuovo commovente, e ovunque cielo estivo che permeava le pietre. […] io guardavo senza poter saziarmi : accanto a me Carmela melodiosamente parlava della vita passata e ne rievocava la bellezza era la sua voce liquida e piena d’incanto […]. Ed ora ecco la vita era solo ricordo, limpido e melodico, ma ricordo, ed io ero solo una canna vuota dentro la quale Mela modulava la sua pacata cristallina tristezza […]. Ora la nuova primavera mi guardava trionfale nell’anima, mentre la donna che la vita aveva piegata e crocifissa, e che mi aveva amato fin dalla sua pubertà, evocava la lontananza del nostro passato. Come sempre io sono stato uno stordito. 6  





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  Id., FM 19, 8 novembre 1966 (Grado).   Cfr. Charles Péguy, Nota congiunta su Cartesio e sulla filosofia cartesiana, cit., p. 208. 3   Ivi, p. 242. 4   Cfr. Franco Brevini, Una scheda per Marin, « Studi Mariniani », a. I, n. 1, 1991, p. 14. 5   Cfr. Biagio Marin, Elogio delle conchiglie, Milano, Scheiwiller, 1965, pp. 25-27. 6   È un passo dei diari scritto in data 14 aprile 1947, ora in Biagio Marin, Vele in porto. Piccole note e frammenti di vita, cit., pp. 62-63. 2





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La città rivive in una dimensione acronica, mentale più che fisica, siglata dalla lontania che è « il luogo del sentimento piuttosto che del senso, il luogo dell’anima e del desiderio, l’altrove della passione e della nostalgia ». 1 Lo stato d’animo del poeta si rivela qui grazie a rappresentazioni di un paesaggio idilliaco, paradisiaco, la cui gaiezza viene evocata attraverso artifici letterari quali ricorrenti metafore musicali, pregnanti presentazioni di caroselli di colori e di un paesaggio olfattivo esplicitamente narrato. 2 C’è un coinvolgimento non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo e fisico, una percezione in grado di risvegliare emozioni passate o rimosse :  









In breve spazio, una infinita gioia di forme, come una lunga collana di canti melodiosi che sgorghino da una gola amorosa […]. A dirne il nome, mi si riempiono gli occhi del suo color celeste, il sangue di frescura, l’anima di ricordi e di visioni. E tra le mani mi spuntano i tenui gambi dei bucaneve che – bimbo – coglievo lungo le sue rive ; e alle nari torna il profumo fresco dei suoi ciclami. 3  



Gorizia richiama l’idea hofmannsthaliana di ‘paesaggio – armonia’, 4 nella quale la natura viene vissuta come ricerca continua di un equilibrio interiore, di liberazione dalle contraddizioni esistenziali, di cui è traccia la sua pensosa visualità, carica di significati simbolici ed emotivi e accentuata dall’insistenza sui particolari e sulla loro densità sensibile. Si rinnova lo sguardo innocente ed estatico di un bambino e del suo abbandono al mondo, lo stesso di certi risvegli nel convitto di Via Ponte Isonzo, raccontati sempre in Gorizia. La città mutilata e pervasi dall’impulso a estraniarsi da se stesso e a dissolversi nello spazio. 5 La tendenza marcatamente coloristica della scrittura mariniana, oltre a rientrare nella linea veneta della « tenerezza panica » individuata da Isnenghi, 6 non si riduce a un mero impressionismo geografico ma intende ristabilire la struttura di una Erlebnis, di uno spazio vissuto, e suggerisce, come nella visione primaverile del Ternova, una « contemplazione in cui anche l’uomo si fa natura », 7 annullandosi nel ritmo stesso delle stagioni e nella loro ciclicità astorica :  

















È sempre azzurro, ma è anche celeste, è oltremare e cobaltino, ma la rorida farinosità delle susine, le glauche dune del mare. Poi s’immalinconisce di viola, si ingentilisce di tonalità rosa, così da sembrare in fiore, e quando l’aria è assai trasparente, ti svela, pudico, i suoi pallidi verdi e talvolta la malachite d’una macchia di alberi. Io lo amo, l’altipiano, lo amo nella maestà della sua massa celeste, che si eleva dal fondo verde e fresco delle vallate dell’Isonzo e del Vipacco così possente e così amorosamente proteso alla luce ; lo amo nei suoi episodi, nei suoi anfratti pieni di prati brevi e di fioriture violente, nei suoi botri freschi in cui suonano le acque e i primi bucanevi scampanellano accanto al riso delle primule d’oro ; lo amo negli sproni e nelle sue terrazze e nei seni profondi dove si nasconde un campicello di grano o di cavoli glauchi e una piccola casa dimentica di ogni cosa che non siano le stagioni. 8  





1   Cfr. Luciana Borsetto, « La gno parola sona ». In margine alla lingua poetica di Biagio Marin, « Studi Mariniani », a. i, n. 1, 1991, p. 26. 2   Sulla metafora del « paesaggio olfattivo » si veda soprattutto Douglas Porteous, Smellscape, « Progress in Human Geography », ix, 1985, pp. 357-378. 3   Biagio Marin, Gorizia. La città mutilata (1940), Gorizia, Comune di Gorizia, 1956, p. 15. 4   Cfr. Hugo von Hofmannsthal, Viaggio estivo (1904), in Opere, vol. iv (Viaggi e saggi), a cura di Leone Traverso, Firenze, Vallecchi, 1958, pp. 142-147. 5   Cfr. Biagio Marin, Gorizia. La città mutilata, cit., p. 23. 6   Cfr. Mario Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, p. 276. 7   Cfr. Franco Brevini, Una scheda per Marin, cit., p. 13. 8   Biagio Marin, Gorizia. La città mutilata, cit., p. 23.  















alcuni scritti autobiografici di biagio marin

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La sensibilità paesaggistica di Marin rimanda a quanto Straus afferma in relazione alla pittura di paesaggio, che non rappresenta ciò che vediamo ma « rende visibile l’invisibile, però come un che di lontano » : 1 si tratta di una appropriazione che trasforma la visione in « un varco aperto verso il cuore dell’Essere » 2 e che ha come effetto anche « il fatto di rendere invisibile l’operazione che l’ha resa possibile ». 3 Il paesaggio, mondo dell’occhio dove la natura « si presenta esteticamente nello sguardo di chi la contempla con sensibilità e partecipazione », 4 riconcilia così le facoltà separate dalla scienza, ricongiungendo la contemplazione e il godimento. Marin non cerca di rivelare tanto il senso nascosto dei luoghi, ma cerca di cogliere come, a contatto con i luoghi, i significati ‘prendano’ e diventino esistenziali : è un fenomeno di emersione, di apparizione originaria del senso, che riconfigura anche la dimensione estetica, nei termini di una percezione « sensibile alla struttura che collega ». 5 Pensarsi nel paesaggio significa per lo scrittore pensare lo spazio interno, dare luogo a una ontologia dell’intimità. 6 Il rapporto autentico con il paesaggio presuppone quindi, come direbbe Ritter, un « uscire dentro il paesaggio », 7 un andare fuori dalla sfera dell’agire storico per incontrare una natura libera e incontaminata :  



   





































E io guardavo estatico tutta quella pace, quella bellezza armoniosa, ch’era il volto della mia terra. Non l’avevo mai vista così bella, così melodiosa. E pensavo con infinita dolcezza che ora l’avrei potuta amare, giorno per giorno, tutta la mia vita, e che di ora in ora avrei seguito le modulazioni del suo canto, le variazioni del suo motivo, le fughe della sua parola. Mia era tutta quella terra, con le sue infinite possibilità di gioia, pur che io fossi capace di amarla, e avessi aperto gli occhi alla sua luce. E nulla importava che io diventassi uomo o bestia : sarebbe sempre bastato fermare lo sguardo su quell’ascesa di toni e di luminosità, su quell’incielarsi di terra e di pietre, su quel semplice stendersi al sole, per varcare ogni abisso, abbattere ogni separazione e tuffarsi nel cuore di Dio. 8  



La natura diventa paesaggio solo per colui che la attraversa per partecipare ‘fuori’, mediante il piacere della libera contemplazione, alla natura stessa, ossia a quella totalità che in essa ha la sua sede ed è presente in quanto tale, come invisibile che struttura e dà senso al visibile. 1   Cfr. Erwin Straus, Paesaggio e geografia, in Idem, Henri Maldiney, Lo svelamento della dimensione estetica, cit., p. 75. 2   Cfr. Maurice Merleau Ponty, Il visibile e l’invisibile (1964), a cura di Andrea Bonomi, Milano, Bompiani, 1969, p. 136. 3   Cfr. Michel de Certeau, L’invention du quotidien. I. Arts de Faire (1980), Paris, Gallimard, 1990, p. 147. Sulla capacità della pittura di cogliere l’invisibile e la sensazione che lo percepisce si veda anche Maurice Merleau - Ponty, L’occhio e lo spirito (1960), a cura di Giovanni Invitto, Lecce, Milella, 1971. 4   Cfr. Joachim Ritter, Paesaggio. La funzione dell’estetico nella società moderna, cit., p. 119. 5   Cfr. Gregory Bateson, Mente e Natura : un’unità necessaria (1979), trad. it. di Giuseppe Longo, Milano, Adelphi, 1984, p. 23. 6   Si veda la lettera di Biagio Marin a Giorgio Voghera del 18 dicembre 1979, ora in Biagio Marin, Giorgio Voghera, Un dialogo, cit., p. 135. 7   Cfr. Joachim Ritter, Paesaggio. La funzione dell’estetico nella società moderna, cit., p. 120. 8   Biagio Marin, Gorizia. La città mutilata, cit., p. 159.  

Gli scritti di Biagio Marin per il « Messaggero Veneto » (1947)  



Marzia Liberale

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acollaborazione di Biagio Marin con il « Messaggero Veneto », nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, è un aspetto dell’attività politica e culturale del poeta e intellettuale gradese sul quale da qualche tempo si è orientata l’attenzione della critica, 1 inquadradandosi in un impegno di pubblicista più ampio che lo vide impegnato, presso diverse testate giornalistiche, con una forte attenzione verso i problemi che hanno investito le terre dell’estremo settentrione orientale d’Italia. 2 Lo spoglio di alcune annate del periodico udinese ha fatto emergere diversi scritti attribuibili a Biagio Marin, 3 molti dei quali non sono stati oggetto di attenzione da parte della critica mariniana, mentre altri hanno goduto solo di brevi, anche se significativi, cenni. 4 Nel presente contributo ci si limiterà a dare ragguaglio del materiale individuato attraverso una sintetica descrizione, mentre sarà dedicato più spazio alla questione del rapporto di uno degli articoli mariniani emersi dallo spoglio e la monografia di Biagio Marin su Gorizia, e le sue successive edizioni. 5 Dei ventuno articoli rintracciati durante la ricerca, eccetto i quattro già noti alla comunità scientifica, 6 la maggioranza risulta, a quanto ci è stato possibile verificare, non conosciuta dagli studiosi di Marin, non figurando nelle raccolte di riferimento di prose mariniane. 7 Qui sotto si fa seguire, in ordine cronologico di apparizione, i titoli  

















1   Si legga Fulvio Salimbeni, secondo cui gli « interventi giornalistici sul “Messaggero Veneto” [...] il cui ruolo negli anni del dopoguerra è ancora tutto da studiare », testimoniano l’attività di riflessione politicoculturale di Marin, « tra 1948 e 1954 in particolare », sul « problema del confine orientale » (Fulvio Salimbeni, L’impegno civile di Biagio Marin, in Biagio Marin, in Autoritratti e impegno civile. Scritti rari e inediti dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi mariniani », supplemento al vol. xi, 2007, pp. 35-43 : 36). 2   Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia : dagli interventi giornalistici alle Elegie istriane, « Studi mariniani », a. ii, vol. 2, 1992, pp. 51-76. 3   Lo spoglio delle annate del quotidiano è stato avviato nell’ambito del lavoro di tesi di laurea triennale conseguita presso l’Università degli Studi di Udine nell’anno accademico 2010-2011, sotto la guida di Roberto Norbedo, grazie anche alle indicazioni e alla consulenza scientifica di Edda Serra, Presidente del Centro di Studi “Biagio Marin” e del suo Segretario Pericle Camuffo. I risultati raggiunti costituiscono i frutti iniziali e provvisori di un’indagine che, anche attraverso lo strumento delle tesi di laurea, sarà razionalizzata ed estesa agli anni successivi. Tale spoglio è stato per ora effettuato sulla base delle copie del quotidiano possedute dalla Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi” di Udine, in cui l’annata del 1945 è andata completamente perduta, l’anno 1946 è posseduto solo relativamente al mese di maggio e seguenti. Per questo si è deciso di partire dall’annata del 1947, che risulta completa, e su questa svolgere il lavoro. 4   Si veda, ad esempio, il saggio di Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia, cit., p. 51 sgg. 5   Biagio Marin, Gorizia, Venezia, Le Tre Venezie, 1940, successivamente ristampata nel 1941 ; la terza edizione : Idem, Gorizia, la città mutilata, Gorizia, Comune di Gorizia, 1956. 6   Si veda sotto, con riferimento a Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia, cit., p. 51 sgg. 7   Biagio Marin, Gabbiano reale, a cura di Elvio Guagnini, Gorizia, Editrice goriziana, 1991 ; Idem, L’isola d’oro, Gorizia, Edizioni della Laguna, 1999 (a questa edizione segue Idem, L’isola/The Island, a cura di Edda Serra, Udine, Del Bianco, 2005) ; Idem, Autoritratti e impegno civile. Scritti rari e inediti dell’Archivio Marin, cit. ; Idem, Paesaggi, storia e memoria. Pagine rare e inedite dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi mariniani », supplemento al vol. xii, 2008.  





































116 marzia liberale degli scritti rinvenuti nello spoglio, ciascuno accompagnato da una breve illustrazione, con sintesi ed estratti dei contenuti : - Nella scia di un esodo-Di che hanno paura ?, 24 gennaio 1947, p. 2. (sezione « Messaggero Triestino »). Marin si riferisce all’esodo, dopo il conflitto mondiale, di gran parte degli abitanti della città di Pola e dell’Istria in genere (« nostra gente »), denunciando che venga « bollata come ‘borghese’ solo perché non è disposta ad accettare la schiavitù » tentando invece di salvaguardare la propria cultura originaria lasciando quei luoghi, poi passati all’amministrazione jugoslava. « Piuttosto che vivere sulla propria terra da schiavi, preferiscono andarsene », scrive Marin, e « per questo meritano il rispetto di tutti gli uomini, nemici compresi ». A questo riguardo, un protagonista e testimone dell’esodo da Pola avrebbe scritto : « È l’autunno del 1946 la stagione dei febbrili preparativi, sia psicologici che organizzativi. Ogni famiglia valuta cosa portarsi via e contemporaneamente si domanda cosa sarà possibile spedire, si chiede dove andrà, quale sarà il suo futuro ». 1 - Fuori di equivoco, 21 febbraio 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Goriziano »). L’autore illustra il significato che per lui ha la parola ‘democrazia’, termine che riguarda l’intero popolo, che include tutta la nazione, articolata pure in ceti, ma unita nel voler essere Italia. Critica, quindi, l’interpretazione ‘di parte’ che identifica nel ‘popolo’ « solamente la classe operaia, anzi, più propriamente, il proletariato industriale » ; e continua : « ‘Lor signori’ per ‘democrazia’ intendono la ‘dittatura’ che essi esercitano rendendo tutto il popolo schiavo delle loro utopie ». - Incomprensione burocratica, 18 marzo 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). Marin discute l’episodio relativo alla proibizione da parte dell’Alleanza Italiana di affiggere il Manifesto dell’Unione nazionale della Libertà, in cui si affermava che Trieste era territorio libero italiano, con il pretesto che esso sarebbe stato provocatorio soprattutto nei confronti delle « spurie minoranze non italiane », ribadendo che « il carattere italiano di Trieste però, l’italianità delle città istriane nessuno l’hanno potuto contestare ». - Lega e partiti, martedì 22 luglio 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). L’autore espone un riepilogo che riguarda la vita politica di quegli anni. La formazione della Lega Nazionale ‒ associazione fondata nel 1891 con il fine istituzionale di diffondere la cultura italiana in Istria e Dalmazia ‒ che si oppone fortemente ai partiti e a cui partecipano persone attaccate al passato o che hanno motivi di rancore legati al clima di violenza che si instaurò nelle aree del confine orientale nell’immediato dopoguerra, non svolge più in modo sufficiente e adeguato la sua funzione di rappresentanza : « Questa massa offesa […] è tutto un risentimento contro i partiti […] che a suo parere non hanno saputo e non hanno potuto difenderla ». E continua : « Si pensò che lo spirito di disciplina nazionale sarebbe bastato a neutralizzare il logico ed inevitabile risentimento », ma ciò, secondo il parere di Marin, non avvenne. - I veri termini della collaborazione, venerdì 8 agosto 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). 2 Marin, dando un’altra incandescente testimonianza del clima teso di quegli anni, descrive la situazione di disagio provata da italiani e slavi che si contendevano lo stesso territorio ma, secondo il proprio punto di vista di allora, « con diritti diversi », ricordando il fatto che « gli slavi con l’aiuto degli anglosassoni, in un momento di crisi dello stato italiano, sono riusciti a strappare la Giulia e Trieste a  























































































1   Corrado Belci, Quei giorni di Pola, prefazione di Arrigo Levi, Gorizia, Editrice Goriziana, 2007, p. 108. 2   L’articolo è citato in Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia, cit., p. 51 sgg.

gli scritti di biagio marin per il « messaggero veneto » (1947) 117 l’Italia, senza fare i conti con questa, e senza chiedere a noi, il nostro parere, in nome del semplice diritto di conquista ». « Ogni nazione », secondo Marin, « se la risolve secondo il proprio genio e le proprie possibilità e le contingenze della propria storia », senza l’intromissione di forze esterne. - Due volte disertore, venerdì 15 agosto 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). « I giornali hanno pubblicato la storiella di un onesto lavoratore reduce dalla Jugoslavia. È fuggito e gli hanno sparato addosso. Se l’è cavata ma non lo meritava » : così inizia uno dei rari articoli di cronaca emersi da questa ricerca. Narra la vicenda di un disertore dell’allora esercito italiano che decise di combattere per la Jugoslavia, secondo Marin, per puro opportunismo, sperando di trovar là fortuna, per poi successivamente ritornare in Italia. - Questa è Gorizia, domenica 17 agosto 1947, p 3 (sezione « Pagina di Cultura »). 1 - L’ora amara, domenica 14 settembre 1947, p. 1. 2 Definendo l’Italia, « Madre povera in questo momento, ma la più ricca di nobiltà di tutte le madri di Europa », Marin denuncia che ancora una volta si è trovata tra i vinti e che popolo italiano non ha mai avuto vera consapevolezza del problema così sentito dalle genti che vivevano a ridosso del confine orientale : « Ma quello che più ci ha offeso è stata l’incoscienza in troppi nostri fratelli delle altre regioni d’Italia, della nostra tragedia. Che se è nostra, è tragedia di tutta Italia ». - La mostra Fantoni alla casa rossa di Gorizia, domenica 14 settembre 1947, p. 3 (sezione « Pagina di Cultura »). Il contributo rappresenta un esempio dell’attività di recensore di Biagio Marin, riguardo ad un evento artistico nel territorio goriziano, a cui l’autore fu sempre molto legato affettivamente. Il protagonista dell’esposizione è il pittore Antonio, detto Tonci, Fantoni, di cui Marin fa un aperto elogio, esprimendo la sua più profonda stima ed adesione : sia per quanto riguarda gli oggetti e i temi rappresentati, sia per la realizzazione pittorica dei quadri, che definisce « finestre aperte su un creato di gioia, di pura spiritualità » ; e ancora : « ogni quadro di Fantoni era una lode al Signore : una preghiera cantata, una invocazione ». - Necessità dell’ora, sabato 20 settembre 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). 3 L’autore riporta le parole di Giovanni Paladin che auspica un tempestivo intervento nella creazione di un’organizzazione politica che raggruppi tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, permettendo di restituire la Venezia-Giulia ai Giuliani. Conscio dell’utopia di tale realizzazione, Marin esprime l’auspicio che venga perseguita una chiara politica nazionale ispirata da un clima di collaborazione dei partiti per raggiungere un obiettivo comune : « Il nostro compito – dice Marin – è circoscritto pur essendo difficile : conservare italiana l’anima nostra e con essa Trieste ». - Pianto di esuli sul ponte di Grado, domenica 21 settembre 1947, p. 1. Marin riepiloga una giornata del settembre 1947 in cui un reparto di soldati italiani rientra dopo quattro anni di assenza ; contemporaneamente si presenta sullo stesso ponte di Grado una colonna di esuli istriani che accoglie i militi : insieme formano, scrive l’autore, « un piccolo plotone d’un esercito vinto ». - Festoso ritorno di Grado all’Italia, martedì 23 settembre 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Goriziano » e « Messaggero Triestino »). La cittadina lagunare festeggia il ritorno all’Italia. In questa occasione l’autore ricorda che gli esuli istriani vanno accolti senza riserve, in quanto « ospiti doppiamente sacri : e perché sono più infelici dei nostri fra 



























































































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  Vedi sotto.   Cfr. Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia, cit., p. 51 sgg. 3   Ibidem. 2

118 marzia liberale telli, i più provati, e perché sono istriani – infatti, ricorda – Grado, ha avuto con l’Istria rapporti di vita, di affetti, di commistione di sangue, secolari ». - Arrivare alla sorgente, domenica 28 settembre 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). Marin esprime la sua più totale adesione all’« azione delle missioni paoline », nuovo movimento creato da alcuni intellettuali cattolici, religiosi e laici, « che tende a ridestare tra i cattolici stessi e nella sfera di coloro che per ignoranza hanno abbandonato la vita cristiana, una fiammata di fede, o per lo meno di suscitare una seria riflessione sui valori della tradizione cattolica ». La Chiesa in vista della possibilità « di un sia pure temporale trionfo del comunismo e della tendenza materialista che lo accompagna », infatti, ha deciso di avvalersi dell’aiuto di persone laiche per avviare una vasta e profonda opera di promozione dei valori religiosi. Questo allargamento della « chiesa docente » tuttavia, sostiene Marin, deve portare alla creazione di un movimento fondato unicamente sull’azione religiosa e non di natura intellettualistica. - Qui si deve essere soltanto italiani, venerdì 3 ottobre 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). Marin tenta qui di ristabilire un equilibrio perduto ormai da tempo, a causa – egli sostiene – di « un odio insano […] verso l’Italia, contro tutto ciò che fosse italiano ». Questa avversione era stata inculcata anche nella mente degli italiani che vivevano al confine che così si rivoltavano contro la propria gente e la propria tradizione culturale. Nello stesso anno essi « chiedono umilmente di poter inserirsi con il tricolore italiano », e Marin a proposito sostiene l’idea che « per lo Stato italiano […] dovrebbe nascere però il problema del ricupero, almeno parziale, di questa gente ». Perché ciò avvenga si deve attuare, prima di tutto, un riordinamento dell’amministrazione locale, che deve attivarsi per risolvere i problemi politici, in modo tale che non sia « permesso che di essere italiani ». - Passeggiata ai confini, 30 ottobre 1947, p. 3 (sezione « Pagina di Cultura »). Si tratta dei confini italo-jugoslavi attorno alla città di Gorizia, su cui l’autore trascrive le riflessioni in lui suscitate durante una passeggiata mattutina. - Redipuglia, domenica 9 novembre 1947, p. 3 (sezione « Pagina di Cultura »). Consiste di uno scritto commemorativo dei caduti che seguì la visita all’ossario di Redipuglia, « ritmato versante del Carso che scende con i suoi centotrentacinquemila morti alla piana friulana ». Guardando questo monumento Marin riflette sugli eventi che hanno sconvolto le sorti italiane, esprimendo consapevolezza e rammarico per la mancanza di una coscienza nazionale diffusa. - Il nostro dovere, venerdì 14 novembre 1947, p. 2 (sezione « Messaggero Triestino »). Marin avvalora l’importanza ed il carattere quasi sacrale della lotta per difendere l’identità culturale italiana nelle aree di confine, il cui scopo dovrebbe essere « una nuova unità, una maggiore libertà per tutti », esprimendo un ideale di combattiva militanza : « Bisogna educare la nostra gente a vivere guardando il pericolo negli occhi ». - La tecnica del colpo di Stato nella rivoluzione d’ottobre, giovedì 27 novembre 1947, p. 3 (sezione « Pagina di Cultura »). Partendo da un articolo dello scrittore tedesco Leopold Schwarzschlid, risalente allo stesso 1947, giudicato « notevole per chiarezza e forza di sintesi », Marin riassume lo svolgimento della rivoluzione bolscevica del 1917. - Nel xxxii anniversario del sacrificio - Scipio Slataper e il confine orientale, mercoledì 3 dicembre 1947, p. 1. L’autore espone la storia dei confini orientali, ricordando l’anniversario del sacrificio dell’amico Scipio Slataper, « giovane poeta di Trieste [che] cadde sotto i reticolati austriaci, lassù sul Calvario, di fronte a Gorizia ». Viene sostenuta con vigore l’idea che l’Italia debba garantirsi il possesso dei confini naturali, in quanto  















































































gli scritti di biagio marin per il « messaggero veneto » (1947) 119 « Trento e Trieste non significano soltanto il compimento dell’unità italiana, ma sono il dovere del nostro onore e la necessità della nostra difesa ». 1 - Oberdan, sabato 20 dicembre 1947, p. 1. 2 Il contributo è dedicato a Guglielmo Oberdan, ricordato dalla targa commemorativa in bronzo presso la « Caserma Grande » di Trieste, luogo in cui lo stesso venne impiccato il 20 dicembre del 1882. « Il sacrificio di Guglielmo Oberdan – afferma Marin – e più che il sacrificio, l’atto volontario, avevano acceso a oriente dell’Italia, proprio qui a Trieste, sul limite della barbarie, la grande fiamma che nella triste prealba della nostra vita di quegli anni, servì al nostro popolo, come richiamo verso il suo tragico dovere, quello cioè di dare alla Patria, ancora in formazione, i suoi naturali confini ». - Natale, mercoledì 24 dicembre 1947, p. 3 (sezione « Pagina di Cultura »). In occasione delle feste natalizie l’autore ricorda le terre istriane per le quali perdura la lotta politica, che sembra eterna, spegnendo l’animo di ogni cristiano che ha perso la speranza : « ora i focolari sono spenti, le chiese solitarie e il nemico profana la terra. Quando in tutte le città, in tutti i villaggi d’Italia si accenderanno i lumi della festa, si intoneranno i canti dell’esultanza, su l’Istria domineranno le tenebre e i cuori saranno stretti nell’estremo cordoglio ».  





























Dato ragguaglio degli scritti mariniani emersi, molti dei quali costituiscono una viva e commossa testimonianza del legame di Biagio Marin con le terre istriane, teatro negli anni della prima giovinezza di esperienze che lasciarono un segno tenace nella propria vita e nella produzione letteraria e poetica, 3 si è scelto di concentrare l’attenzione sull’articolo che riguarda la città di Gorizia : Questa è Gorizia. Dal confronto con le altre prose mariniane raccolte e pubblicate si è potuto appurare che il testo del contributo confluì, con modifiche, nella raccolta di prose di natura memorialistica e descrittiva su Gorizia all’altezza della terza edizione, risalente al 1956, andando a costituirne l’ultimo capitolo, intitolato Postludio. 4 Le prime due edizioni infatti, del 1940 e 1941, erano prive di questo ultimo capitolo, inserito invece nella nuova edizione voluta dal Comune della Gorizia in occasione della celebrazione del xl anniversario della cosiddetta ‘liberazione’ della città. La collazione delle tre edizioni rivela inoltre che, in aggiunta al Postludio, Marin arricchì l’edizione del 1956 anche di altro materiale, nel quadro, come ebbe lui stesso a dichiarare, di un preciso disegno redazionale : « Vi ho aggiunto qualche pagina che, dopo la tragedia del 1945, era necessaria ». 5 Le integrazioni si concentrano a partire dal terzo capitolo, per un totale di nove brevi sezioni di prosa, di natura descrittiva e rievocativa, che vengono inserite all’altezza dei seguenti luoghi :  















1   Si veda la monografia dello stesso Slataper, le cui posizioni sul tema Marin sembra riprendere : Scipio Slataper, Confini orientali, prefazione di Elvio Guagnini, Trieste, Dedolibri, 1986. 2   Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia, cit., p. 51 sgg. 3   Come ricorda Edda Serra, dopo aver frequentato a Gorizia il « ginnasio di lingua tedesca », Marin si trasferì a Parenzo e quindi a Pisino d’Istria, « dove completò gli studi ginnasiali in italiano ottenendo la maturità nel 1911 » (cfr. Marin, Biagio, a cura di Edda Serra, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2008, pp. 367-371. Su quegli anni si veda anche il commosso ricordo del periodo trascorso a Pisino consegnato al suo articolo Tempi di Pisino (ai miei compagni istriani), pubblicato sul « Messaggero Veneto » domenica 15 aprile 1951 (e raccolto da Camilla Marchesan nella sua tesi di laurea : Camilla Marchesan, La prima giovinezza di Biagio Marin in alcuni scritti epistolari e giornalistici ignoti e rari, relatore Roberto Norbedo, Università degli Studi di Udine, Corso di Laurea in Lettere, a.a. 2011-2012, p. 65). Risalgono, invece, al 1963 le Elegie istriane, poesie in cui Marin assunse come « tema di fondo » proprio « l’esodo istriano », cfr. Marin Biagio a cura di Elvio Guagnini, in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, 3, L’età contemporanea, a cura di Cesare Scalon, Claudio Griggio e Giuseppe Bergamini, Udine, Forum, 2011, pp. 2122-2130. 4 5   Biagio Marin, Gorizia, la città mutilata, cit., p. 201.   Ibidem.  























120 marzia liberale - Ancora un canto al Ternova, nel terzo capitolo, intitolato I monti e i colli, pp. 86-88 ; - nel quarto, Intermezzo, vengono introdotti due ultimi racconti, L’onda del Carso e Nuvola sospesa, che occupano le pp. 105-108 ; - nel capitolo Creature nostre nuovo è sempre l’ultimo componimento, La voce della tomba muta, pp. 124-128 ; - nel capitolo Gli amici vengono inseriti Segalla e La signorina Furlani alle pp. 150-154 ; - infine nel nono ed ultimo capito, La città umana, vengono aggiunti ben tre nuovi elaborati : L’ora dei lupi, Uno dei massacrati ed Epilogo secondo : ombra sotto il sole, alle pp. 186-200.  











Marin, con buona evidenza, nel fare riferimento alla « tragedia del 1945 » si riferisce agli eventi di cui fu protagonista Gorizia, e l’area ad essa immediatamente circostante, successivamente al primo maggio 1945 e durante i circa quaranta giorni nei quali tutta la Venezia Giulia rimase sotto il controllo delle truppe partigiane jugoslave del maresciallo Tito. 1 Ciò appunto determinò l’instaurazione di un confine che divise la città in due parti, rispettivamente destinate ad essere inglobate negli stati jugoslavo e italiano, dando poi seguito, anche nei racconti dei testimoni all’evento della cosiddetta e controversa « “duplice liberazione” » di Gorizia, a una « serie di “versioni contrastanti” ». 2 Lo studio della terza edizione della raccolta di scritti su Gorizia di Marin e del suo formarsi a partire di contributi sul « Messaggero Veneto » di precedenti, allora, sembra poter in futuro costituire un utile contributo alla riflessione su quelle tormentate vicende, rappresentando anche una testimonianza su un problema più generale, che ha coinvolto profondamente le popolazioni delle aree ai confini orientali dell’Adriatico nel Novecento, e intorno al quale la sensibilità generale e gli studi storiografici sono ancora alla ricerca di maturare una interpretazione condivisa. 3 Qui di seguito ci si limita, in attesa di poter avviare una valutazione d’insieme, 4 a pubblicare esclusivamente la sezione finale, carica del pathos che dettavano le circostanze cui si è poco sopra accennato, dell’articolo Questa è Gorizia del 1947, la quale è stata rifiutata nella  























1   Per una visione d’insieme degli eventi storici che fecero da contorno a quei fatti si veda Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, 1866-2006, Bologna, Il mulino, 2007 ; entrano invece nel dettaglio delle vicende belliche che si svolsero negli anni finali della guerra nel cosiddetto Litorale Adriatico, zona che comprendeva anche l’area del goriziano : Marco Pirina, Annamaria D’Antonio, Adriatisches kustenland 1943-1945 (zona di operazioni litorale adriatico), San Michele al Tagliamento, Centro Studi Ricerche Storiche, 1992, e Girolamo G. Corbanese, Aldo Mansutti, Zona di operazioni del Litorale adriatico. Udine-Gorizia-Trieste-Fiume-Pola-Lubiana. Settembre 1943-Maggio 1945. I protagonisti. Con introduzione sui principali avvenimenti dal 1919 all’agosto 1943, Udine, Aviani&Aviani, 2009. Assai importante, ora, per i dati documentari sulla situazione a Gorizia in questo periodo: Franco Miccoli, Carabinieri a Gorizia (19421945). Memorie degli anni bui, Introduzione di Roberto Spazzali, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2013. 2   Alessandro Cattunar, La liberazione di Gorizia : 1 maggio 1945. Identità di confine e memorie divise : le video interviste ai testimoni, « Storicamente », 5 (2009), www.storicamente.org/05_studi_ricerche/cattunar.html ; si veda anche Lucio Fabi, Storia di Gorizia, Padova, Il Poligrafo, 1991, pp. 186 e 190. 3   Si vedano al proposito, almeno, lo studio di Raoul Pupo, II confine scomparso. Saggi sulla storia dell’Adriatico orientale nel Novecento, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2007 ; e per una documentazione più ampia : Un’epoca senza rispetto. Antologia sulla questione adriatica tra ’800 e ’900, a cura di Fulvio Pappucia, con la collaborazione di Franco Cecotti, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2010, e Franco Cecotti, in collaborazione con Dragan Umek, Il tempo dei confini. Atlante storico dell’Adriatico nord-orientale nel contesto europeo e mediterraneo 1748-2008, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2010. 4   Già Camilla Marchesan, infatti, ha potuto appurare come un altro l’articolo pubblicato sul « Messaggero Veneto » (Ombra sotto il sole, 29 luglio 1950) sia confluito nella stessa opera monografica, con titolo Secondo epilogo : ombra sotto il sole (Biagio Marin, Gorizia, la città mutilata, cit., pp. 192-200 ; cfr. Camilla Marchesan, La prima giovinezza di Biagio Marin in alcuni scritti epistolari ignoti e rari, cit., p. 65).  

























gli scritti di biagio marin per il « messaggero veneto » (1947) 121 monografia del 1956, che ha offerto così al largo pubblico un testo più povero rispetto a quello accolto nel quotidiano.  



Questa è Gorizia (« Messaggero Veneto », 1947)*  



[...] E badate, ogni rialzo è pieno di suggestioni ; infiniti sono i motivi che questa terra maliosa vi suggerisce a ogni passo, in un musicare continuo. Bella e incantata è la nostra terra, posta ai limiti di confluenza non solo dei fiumi ma anche dei popoli. E tutti la bramano per la sua splendida carnalità e anche per la sua anima solare e silenziosa. Così nuovamente si erano accese le cupidigie dei germani che approfittando della guerra civile tra noi e delle rovina dello stato, se ne erano impossessati ; ma non meno violenta si scatenò la brama degli slavi che, fugati i germani con l’aiuto degli anglosassoni, pensavano di impadronirsene. Allora vedemmo scendere dai colli furiosi di libidini i nostri meteci, gli slavi ; la nostra gente disarmata e indifesa venne aggredita da bande armate di mitra e di odio, e molti furono uccisi e altri portati via come armenti al macello. Lontana da noi era la Patria e solo i morti negli ossari ci erano rimasti fedeli. Con essi soffrimmo la tremenda agonia della quarantena titina ; l’oltraggio, lo scempio delle vite delle nostre creature e dei morti, la beffa delle villane barbare, che furiose ‒ nei modi della loro gente ‒ si battevano le natiche nude a dispregio. Eravamo un brenciolo di carne dolente preda alla mala bestia. Sorridenti e incoscienti guardavano al dramma gli anglosassoni presenti, senza neanche sospettare il nostro martirio. Ma noi lo sostenemmo, ma noi con lo spavento nell’anima non mollammo un momento, e presto reagimmo col grido « Italia » alla violenza abbietta degli slavi impazziti. La città rimarrà in Italia, ma intorno intorno tutto ci è stato strappato come se si potesse separare la città dai sobborghi, i suoi colli, i suoi monti, i suoi fiumi, le sue strade dalla sua vita umana e operosa. Come se un’unità vivente da duemila anni, l’Italia, potesse venir scissa e ridotta per la vita informe di quattro meteci. Gorizia è oggi più che mai santa e martire della sua funzione spirituale ai limiti d’Italia, nell’incontro delle razze e dei popoli. Abbiamo presente l’Istria sacrificata e gli istriani raminghi, il tempo di Augusto e l’Arena, 1 in attesa dell’estrema profanazione ; abbiamo presente il dramma di Trieste, avulsa alla Patria comune, insidiata dalla violenza, dalla corruzione dei barbari, dalla stanchezza dei nostri : ma la mutilazione della nostra terra è tutt’uno con l’immane tragedia della Giulia, e il dolore sarà reso più vivo ogni dì, per dover sbattere, camminando per le vie della nostra città, nell’offesa della rete nemica, che ci esclude da casa nostra. Il croato di là della rete ci deriderà tutti i giorni e noi dovremo vivere forse decenni in attesa della nostra sicurezza e della nostra pace. Vanno in tutte le città italiane gli uomini sereni delle loro opere quotidiane ; dimentichi vivono i loro amori, le loro gioie, i loro riposi. Solo per noi non è possibile serenità alcuna, né mai abbandono. Dovremo vivere in trincea tutta la vita, sempre vigili, all’erta. Vigileranno con noi i morti della grande guerra dell’unità italiana, i caduti del Podgora, di Oslavia, del Sabotino, del Santo, del Gabriele, dei Rafutti, del San Marco, delle colline di Sober, via via fino alla chiusura dell’anello fatale, al San Michele. L’ossario di Oslavia è più che mai bianco e muto, ma più che mai le sue ossa fremono per ansia di resurrezione.  



















* Nell’edizione si sono adeguati agli usi correnti il sistema di interpunzione e quello degli accenti del testo dell’articolo uscito sul periodico. 1   Si riferisce all’Arena di Pola, città attualmente in Croazia, un imponente anfiteatro realizzato sotto gli imperatori romani Claudio, Vespasiano e Tito, che è stato completato attorno all’80 d.C.

LA « GRANDE AVVENTURA » DI BIAGIO MARIN : FIRENZE 1911-1912  





Pericle Camuffo

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iagio Marin arriva a Firenze nel settembre del 1911 per frequentare i corsi presso la Facoltà di Lettere dell’Istituto di Studi Superiori, approfittando della possibilità di trascorrere un anno di studio all’estero come previsto dai piani di studio dell’Università di Vienna a cui era iscritto. Qui, viene da subito in contatto con il gruppo di giuliani e triestini che da qualche anno si erano spostati a Firenze per compiervi gli studi universitari come alternativa alle università austriache di Graz, Vienna o Innsbruck, dove si sarebbero sentiti isolati e avrebbero avvertito « acutamente la nostalgia della loro cultura nazionale che spesso devono ancora conquistare e di cui non vogliono perdere quel poco che posseggono. […]. Venire in Toscana, vivere a Firenze, studiare a San Marco significa cercare la conferma del loro essere italiani ». 1 Firenze, inoltre, rappresenta un « un centro dissolutore di certa cultura tradizionale », luogo in cui « sta nascendo la cultura militante », e dove « al concetto di letterato viene sostituendosi quello di intellettuale ». A Firenze questi giovani triestini « trovano il luogo privilegiato dove cultura, ambiente e nazione coincidono e sono, o sembrano essere tutt’uno con la vita. […]. Dunque a Firenze, per rinsanguare l’asfittico cuore della cultura nazionale di Trieste ». 2 Ma se tutto questo è sicuramente vero per Carlo e Giani Stuparich, Alberto Spaini, Ferdinando Pasini, Angelo Vivante che giungono a Firenze con una certa consapevolezza critica e vedono la possibilità di far maturare le proprie idee, di ‘sprovincializzarsi’ all’interno del gruppo vociano, ed è in special modo vero per Scipio Slataper, che arriva a Firenze nel 1908 con già « al suo attivo una decina di articoletti piuttosto acerbi » e, di fronte ai primi numeri de « La Voce », capisce subito la novità della rivista e cerca di inserirvisi e di usarla come mezzo e palcoscenico delle sue idee, come confessa a Marcello Loewy il 14 agosto 1908 al quale scrive : « A Firenze voglio farmi conoscere per l’Italia : espandere la mia anima che è troppo grande per rinchiudersi in se stessa », 3 non è vero, almeno non del tutto, per Marin che vi arriva, invece, con « anima candida di provinciale » :  















































Da un villaggio di duemila anime a Firenze era un bel salto, e i miei amici triestini, Slataper, Stuparich e Spaini, erano tutti di alta levatura. Io non ero niente […]. Ero la mascotte del gruppo e tutti mi volevano bene, mi trattavano come fossi qualcuno e invece non ero nessuno. […]. Tu capisci che io ero un provinciale e dal punto di vista culturale un selvaggio ; […]. Arrivato a Firenze andai a presentarmi al professore Guido Mazzoni. Mi presentai parlando gradese, e quello era esterrefatto, io allora gli dissi : « Mi sono accorto che il mio italiano di Grado è molto povero, tanto da essere ridicolo, di fronte al vostro modo di discutere, e quindi, mi difendo parlando in dialetto ». 4  









1   Marino Raicich, Premessa, in Intellettuali di frontiera. Triestini e Firenze (1900-1950), Catalogo della mostra, Firenze 18 marzo-22 aprile 1983, a cura di Marco Marchi, Firenze, Comune di Firenze, 1983, p. 11. 2   Elio Apih, Tavola rotonda, in Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), Atti del convegno, Firenze 18-20 marzo 1983, a cura di Roberto Pertici, Firenze, Olschki, 1985, pp. 391-395. 3   Scipio Slataper, Epistolario, Milano, Mondadori, 1950, p. 35. 4   Cit. in Francesca Scarpa, La “granda aventura” di Biagio Marin, Tesi di Laurea in Lettere, Università di Venezia, a.a. 1983-1984, Appendice, pp. 20-25.

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pericle camuffo

Il « grande salto » scaraventa il giovane Marin in un universo sconosciuto che in qualche modo lo spaventa : si sente isolato, lontano da casa e dagli affetti, culturalmente un « selvaggio », costretto a difendersi parlando il suo dialetto, quasi per ritagliarsi uno spazio protetto in cui muoversi con sicurezza, consapevole di essere « niente », « nessuno ». In questo senso, alcune liriche di Fiuri de tapo, 1 scritte proprio in quei primi mesi di permanenza nella città toscana, contengono tutta la tensione disperata della sua solitudine. In Nadal el vien, 2 per esempio, annuncia alle amiche il suo imminente ritorno a Grado e dice loro di salutare il « paluo », i « casuni », le « batele », i « refuli », il golfo spezzato solo dalla leggerezza delle vele, riuscendo a costruire attorno a sé, con i pochi elementi dello scarno paesaggio gradese, un muro di nostalgia e di consuetudine emotiva che lo salva ; anche in A gno suore 3 i sentimenti che prevalgono sono quelli del ritorno al « fogo grando », al calore della famiglia e della casa che ricompaiono in Nevega, 4 dove si rivolge alla nonna a cui confessa di avere « un gropo in gola, / una vogia de pianze amaramente », e neanche « un can che te consola » e di essere « solo, in mezo a tanta zente ». Ma la lirica dove tutto questo si condensa e diventa lacerante è A Firense :  





























































Rina, se tu savissi co vilio Che son, co massa solo e disperao Anema e cuor el fredo m’ha ‘nvirio Me moro suore, el sol m’ha bandonao. […] Che me ne ‘mporta de Firense bela. Dei so palassi e le so bele ciese E de la lengua bela che i favela Fra i munti virdi de sto bel paese, Se gnanche un can, te varda un giosso in viso Per dite almeno almeno, fate in banda Se mai parola bona o bon suriso vien confortate l’amaressa granda. Oh Rina mia, sognà per tanti ani, la vita fra la zente fiurintina per dopo mastigà sti disingani che bruta roba marizosa Rina ! […] Rina son tanto solo e disperao E questo ze ‘l prinzipio del gno ano El fredo mane e pie ‘l m’ha ‘ngelao I sogni l’ha massai el disingano ! 5  

   

Ecco allora che l’entrata nel gruppo dei vociani rappresenta per Marin un evento fondamentale che segna l’uscita dall’isolamento. Con questo incontro Marin in qualche modo trova una nuova « famiglia » che sostituisce quella che ha lasciato a Grado, e la casa di Prezzolini diviene, oltre che luogo di incontro e di dibattito, anche un rifugio dove trovare il fuoco acceso, dei volti amici e un’accoglienza ospitale. Ed è per  

1



  Biagio Marin, Fiuri de tapo, Gorizia, Seitz, 1912. 3   Ivi, pp. 23-24.   Ivi, pp. 25-26. 4 5   Ivi, pp. 32-33.   Ivi, pp. 31-32. 2

la « grande avventura » di biagio marin : firenze 1911-1912 125 questo che Marin, prima che alle idee, si avvicina e si affeziona agli uomini, a ciò che rappresentano a livello umano più che intellettuale, e in loro, in quanto « famiglia », cerca affetto, protezione, amore, una « parola bona o un bon suriso », qualcuno che lo accompagni, che lo educhi, che lo conforti. In questo senso, il suo ‘vocianesimo’ è inizialmente solo una questione di fascino da lui provato nei confronti dei personaggi che agivano all’interno e attorno a « La Voce », più che un fatto di condivisione di idee e progetti che semmai agiscono in lui in maniera mediata, attraverso gli amici, piuttosto che in modo diretto, propositivo. Marin è un giovane ragazzo che ha in sé ancora gli orizzonti culturali e ambientali della sua isola d’origine, un giovane che ascolta più che parlare, che segue più che precedere, ed è per questo che i suoi ricordi di quell’anno fiorentino sono legati più alle persone che ai dibattiti culturali, politici e letterari che si svolgevano sulle pagine della rivista. Marin ha per loro una « devozione religiosa », tutti gli appaiono bellissimi e nobili : Piero Jahier è « un bellissimo uomo » ; Giovanni Amendola « alto di figura e bellissimo » ; Prezzolini, con il padre che « era stato prefetto del Regno » e la madre proveniente « da una delle più antiche e nobili famiglie senesi » era « in tutti i sensi un nobile ». 1 Anche per quanto riguarda Slataper, Marin all’inizio « non bad[a] ai suoi scritti », ma gode « della sua presenza, della sua parola calda e viva, di ogni suo gesto », e ciò che lo colpisce è il fatto che gli si presenti come « un giovane uomo alto, forte, dai grandi baffi biondi, spioventi lungo le labbra, e una capigliatura più bionda ancora e così ariosa che pareva dovesse volar via, e gli cingeva la testa come una aureola di luce ». 2 Non a tutti i vociani però Marin riserva quella « devozione religiosa » a cui ho appena accennato, o riesce ad instaurare dei rapporti di amicizia, di collaborazione o quantomeno di reciproco rispetto. Sono note, infatti, le sue riserve su De Robertis, che considera pedante ed antipatico, su Soffici, con il quale si scontra più volte, 3 ma soprattutto, in quanto non dimentica di parlarne appena ne ha occasione, su Papini perché « troppo consapevole del suo sapere, della sua intuizione di essere uno scrittore di valore » 4 e perché si divertiva a prendere in giro i triestini arrivati a Firenze per i loro difetti di pronuncia o di grammatica, canzonatura alla quale Marin si sottraeva rivolgendosi a lui in dialetto gradese. Di Papini, l’8 gennaio 1954, Marin annota sul  











































































1   Enrico Lombardi, Lettere di Biagio Marin a Giuseppe Prezzolini (1913-1923), Tesi di Laurea in Letteratura Italiana, Università di Pavia, a.a. 1984-1985, pp. 279-281. 2   Biagio Marin, I delfini di Scipio Slataper, Milano, Scheiwiller, 1965, p. 40. 3   Uno di questi scontri è raccontato nella lettera a Gino Brazzoduro del 4 febbraio 1980 : « Poco tempo prima che scoppiasse la guerra, ci incontrammo in casa del Prezzolini a Firenze in via Centostelle. Andando a quell’appuntamento io per istrada avevo incontrato una squadra di militari armati che camminava rumorosamente sul marciapiedi mangiando castagne e facendo baccano. […]. Naturalmente arrivato in casa di Prezzolini raccontai con grande scandalo l’episodio e dissi che con quei soldati non si sarebbe potuto fare la guerra. […]. Era presente Ardengo Soffici, che mi venne addosso, dicendomi che ero un austriaco anti italiano. Io gli risposi : “E ti te son un mona”. Soffici voleva darmele. Ma dietro di lui c’era Scipio : lo prese per le spalle e lo buttò contro il muro di destra dicendogli : “Se lo tocchi ti butto dalla finestra” » (ora in Gino Brazzoduro, Biagio Marin, Dialogo al confine. Scelta di lettere 1978-1985, a cura di Pericle Camuffo, Pisa-Roma, Serra, 2009, pp. 94-95). Agli scontri con Soffici Marin fa riferimento anche in questa nota di diario ancora inedita del 21 agosto 1964 : « Ieri l’altro è morto a Forte dei Marmi Ardengo Soffici, scrittore del Giornale di bordo e pittore. L’ho conosciuto personalmente nei miei giovani anni, prima del 1915 e con lui ho avuto due scontri personali. Stimava la mia poesia, ma da molti anni, da mezzo secolo circa – lo incontrai a Udine nel 1916 al caffè Porta – non l’ho più cercato, sebbene lo stimassi e come scrittore e come pittore ». 4   Enrico Lombardi, Lettere di Biagio Marin a Giuseppe Prezzolini (1913 - 1982), cit., p. 281.  

















126 pericle camuffo suo diario un ritratto spigoloso e risentito nel quale ribadisce la sua disistima per lo scrittore fiorentino :  

Si fa in questi giorni un certo rumore intorno a un recente libro di Papini che riguarda il Diavolo e che pare contenga proposizioni non ortodosse. Il libro non l’ho letto. Da molto tempo Papini non mi interessa ; ad onta della sua fama, che a mio parere è immeritata. Che gli italiani se lo covino, posso capirlo, ma che all’estero lo si stimi, davvero non lo capisco. Il giornale romano “Il Tempo” nel suo numero di domenica 3 gennaio pubblica una lunga articolessa dal titolo : “Papini ha pietà del diavolo” in cui tra l’altro si scrive : “Egli (Papini) non è soltanto con Shakespeare e Omero, uno degli autori più diffusi di ogni età …”. Pare incredibile ! Se vi ha un uomo vano e senza sostanza, vivo simbolo della menzogna e della retorica italiane, questo è Papini. Per conto mio l’unico suo libro che a suo tempo lessi con piacere, fu “Cento pagine di poesia”. Già “L’uomo finito” mi dispiacque per quanto di plebeo conteneva e di falso titanismo. Papini è vissuto letterariamente sempre di scandali, anche quando scrisse la “Vita di Cristo”. Mai uno scrittore di grandi pretese come lui è stato così povero di vita propria, di vita spirituale. Di lui non ho mai letto una parola che non fosse in qualche modo reazione da opere altrui e polemica. L’ho profondamente antipatico e lo considero espressione del più odioso plebeismo d’Italia, che è quello acido dei toscani. È triste che la Chiesa riconosca in lui uno dei suoi grandi campioni nel campo delle lettere. ; e non meno triste che egli sia valutato uno dei massimi scrittori moderni d’Italia. In lui si può misurare il valore degli italiani. Papini io l’ho conosciuto da giovane a Firenze tra i vociani. Non l’ho mai potuto amare. Io volevo bene a Scipio Slataper, a Prezzolini, ad Amendola, a Jahier ; a Papini, a Soffici no. Di Soffici mi piaceva molto il modo di scrivere ; di Papini, solo “Cento pagine di poesia” mi sono veramente piaciute. Le sue celebri “stroncature” le disprezzavo. E poi tutta quella intellettualità sua, così spuria, contrabbandata nell’arte, mi offendeva. Per il “Crepuscolo dei filosofi ” lo avrei fatto impiccare perché reo di empietà. Forse il mio giudizio non esaurisce né lo scrittore né l’uomo, ma così io l’ho visto e giudicato. La sua conversione ! Mi ripugna il solo pensarla. […]. E vi ha un documento letterario di lui, intitolato “Italia”, tutto una menzogna da cima a fondo. Basterebbe questo per rivelare la sua intima essenza. Lo so, la nostra letteratura non può dare di più e di meglio, perché siamo un popolo senza spiritualità ad onta della presenza tra noi di santa romana Chiesa. 1  

















E come lo colpiscono le persone, lo colpisce anche la città, allo stesso livello emotivo, viscerale, irriflesso : Marin gira per le strade di Firenze quasi inebetito dalla bellezza e dalla novità che lo accolgono, e invece di leggere e studiare va a « fare all’amore con le statue di Michelangelo » con tale partecipazione e violenza che la sera gli veniva addirittura la febbre :  







Firenze ha rappresentato innanzitutto l’incontro con l’arte italiana, o meglio, con l’arte in generale. E anche qui, vede, io ero e sono tutt’oggi uomo persuasivamente ignorante, perché io non studiavo storia dell’arte, ma andavo a far l’amore per esempio con i Prigioni di Michelangelo alla Galleria Moderna per giornate intere […] facevo all’amore le dico, e mi veniva la febbre fino a 38. 2  

Se questa disposizione sentimentale non lascia inizialmente spazio per una riflessione critica immediata di quanto compare sulle pagine de « La Voce », anche se, come scrive ad Enrico Lombardi il 19 febbraio 1980, « di tutti leggev[a] allora gli articoli e i libri che pubblicavano », 3 il fatto di essere entrato nel gruppo attraverso la porta principale, quella cioè della casa di Prezzolini ma soprattutto quella del suo affetto  







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  Pagina inedita dai diari di Marin, conservati presso il Fondo Marin dell’Università di Trieste.   Enrico Lombardi, Lettere di Biagio Marin a Giuseppe Prezzolini (1913-1923), cit., pp. 275-276.   Lettera inedita. Il carteggio tra Enrico Lombardi e Biagio Marin è conservato presso l’Archivio Marin della Biblioteca Civica di Grado. 2 3

la « grande avventura » di biagio marin : firenze 1911-1912 127 e della sua considerazione, significa però per Marin l’avvicinamento graduale ad un certo modo di lavorare, di fare cultura, ma segna specialmente il primo contatto con scrittori, poeti, e filosofi, alcuni dei quali diventeranno poi punti fondamentali della sua costruzione intellettuale :  







A poco a poco venni accettato da loro come mascotte. Io non ho scritto niente, ma Prezzolini mi faceva spesso leggere quando faceva degli studi. Ad esempio lui pubblicò un fascicolo molto importante sulla Dalmazia, ebbene … si era fatto venire i rapporti dei Provveditori veneti delle singole città perché voleva sapere la verità … Quindi a me “La Voce” ha dato molto […].”La Voce” era il contatto con il fior fiore della letteratura moderna francese in quanto Soffici tornato da Parigi, leggeva al Caffè delle Giubbe Rosse Rimbaud, di cui nessun italiano aveva mai letto nulla. Poi attraverso Scipio Slataper e gli altri giuliani che studiavano a Praga si tenevano rapporti con la letteratura tedesca e si conosceva inoltre la situazione dei Cechi. Io già allora attraverso Slataper avevo cominciato a leggere Ibsen e quando andai a Vienna me ne comprai cinque volumi. L’importanza de “La Voce”, dunque, è stata la possibilità di una grande dilatazione della mia cultura, quindi ho cominciato a scrivere seriamente contemporaneamente all’ambiente vociano. 1  

I riferimenti attribuibili generalmente all’ambiente vociano o alla frequentazione di chi in quell’ambiente stava crescendo sono, in Marin, ampi ed evidenti e riguardano sia l’« esigenza di un nuovo costume civile, di una mentalità più severa, di uno spirito individuale più fattivo e pratico », 2 l’eticità della vita intellettuale in vista di un nuovo umanesimo in cui la cultura non sia separata dalla vita, sia alcune scelte estetiche, di scrittura, come la tendenza all’inesausto scavo interiore ereditata principalmente da Slataper, che nelle indicazioni ai Giovani intelligenti d’Italia consigliava di scrivere « per far chiaro dentro di noi », 3 l’esigenza di crearsi un linguaggio nuovo, proprio, lontano dall’artificio delle lingue costruite sui dizionari – il gradese usato da Marin potrebbe esserne un buon esempio –, ma soprattutto l’autobiografismo che Prezzolini considerava il carattere più proprio dei vociani in quanto rappresentava in forma letteraria il culto della verità ad ogni costo che animava tutto il gruppo fiorentino, e nella cui forma egli aveva esordito nel 1903 con La vita intima 4 facendo della narrazione in prima persona sintesi e punto d’incontro tra vita e letteratura. In questo senso, tutto vociano è l’attacco del primo diario di Marin, Il libro di Gesky, 5 scritto tra Vienna, Gorizia e Grado tra il gennaio del 1913 e il marzo dell’anno successivo, in cui il giovane autore afferma che quello che si accinge a scrivere sarà il libro « dell’anima », un libro in cui la sua anima verrà « denudata ». Marin rimane invece del tutto distante dal frammentismo teorizzato ne « La Voce » letteraria di De Robertis che, non continuando quella di Prezzolini, mutandone orientamento e significato, non accende più il suo interesse. Al di là però degli « articoli e i libri » dei vociani che leggeva e conosceva, l’eredità culturale che porta a casa dopo il suo anno fiorentino, Marin la deve soprattutto alla sua amicizia con Prezzolini, di cui ne è testimonianza il loro carteggio recentemente pubblicato e le molte pagine di diario che il poeta gradese gli dedica. 6 Al direttore de « La Voce » va presumibilmente fatta risalire la “scoperta” di Mei 





































1   Francesca Scarpa, La “granda aventura” di Biagio Marin, cit., pp. 26-26 (intervista rilasciata da Marin il 4 novembre 1983). 2   Emilio Gentile, « La Voce » e l’età giolittiana, Milano, 1972, p. 35. 3   Scipio Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, « La Voce », Firenze, a. I, n. 37, p. 149. 4   Giuseppe Prezzolini, La vita intima, Firenze, Giovanni Spinelli e C., 1903. 5   Biagio Marin, Il libro di Gesky, a cura di Edda Serra, Pisa-Roma, Serra, 2010. 6   Idem, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913 - 1982, a cura di Pericle Camuffo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011.  







128 pericle camuffo ster Eckhart, autore che Marin avrà molto caro per tutta la vita – « il mio uomo » lo chiamerà in alcune pagine dei suoi diari – e che rappresentò l’elemento decisivo per il suo distacco dalla mistica cristiana. In questo senso, va precisato che quando Marin afferma di aver « scoperto » Eckhart a Vienna tra il 1912 e il 1914, non si riferisce ad un primo incontro casuale con il suo pensiero, bensì ad un suo approfondimento, che nel caso specifico passa attraverso la lettura appassionata dei Discorsi del mistico tedesco, questo sì, volume trovato per caso in una libreria della capitale dell’Impero. Ma i primi contatti con Eckhart avvengono con molta probabilità proprio all’interno dell’ambiente vociano dove la mistica, e quella tedesca in particolare, era argomento non nuovo, discusso ed affrontato già negli anni del « Leonardo », passato attraverso l’esperienza di « Prose », dove Prezzolini pubblica Vita e leggenda di G. van Hooghens, 1 e approdato al volume prezzoliniano Studi e capricci sui mistici tedeschi, 2 uscito nel 1912, ma che raccoglie testi pubblicati tra il 1905 e il 1907, in cui un capitolo è proprio dedicato ad Eckhart. Marin, quando lascia Firenze per Vienna, è quasi certamente a conoscenza di tutto questo, per esperienza diretta, di lettura, anche se episodica e superficiale, o semplicemente per averne sentito parlare. Certo conosceva il volume di Prezzolini che infatti compare nel catalogo del Fondo Biagio Marin conservato presso la biblioteca di Grado. Purtroppo tale copia risulta ad oggi fisicamente mancante, e questo impedisce un controllo su luogo e data di possesso e di lettura, che Marin era solito appuntare sui suoi volumi, riferimenti che permetterebbero di collocarlo esattamente all’interno del suo percorso intellettuale ed esistenziale, ed un’analisi delle sottolineature, delle note e delle postille autografe che restituirebbero il tono e il sentimento di tale lettura. Ciò non toglie, comunque, che questa lettura sia avvenuta, se non proprio a Firenze quantomeno a Vienna verso la fine del 1912, magari suggerita dallo stesso Prezzolini con il quale era rimasto in contatto, almeno da quanto si desume dalla sua Testimonianza, 3 fin dal rientro all’Università austriaca, e che abbia definitivamente indirizzato Marin verso la sua “scoperta”. Anche per quanto riguarda Nietzsche, altra scoperta viennese di Marin, come è accaduto per Eckhart, siamo in realtà di fronte ad una riscoperta o quantomeno ad un approfondimento. Certo la lettura dello Zarathustra avvenuta « d’un fiato » durante i suoi primi giorni di permanenza a Vienna avrà sicuramente affascinato il giovane gradese, ma la consuetudine con il pensiero nietzschiano, o almeno con una parte di esso, ha radice all’interno dell’ambiente vociano dove Nietzsche era autore caro a molti collaboratori della rivista frequentati da Marin : da Papini a Boine ad Amendola. 4 Ma ancora prima dell’inizio dell’avventura vociana, Nietzsche era stato per Prezzolini, accanto ai pragmatisti americani, a Bergson ed ai mistici medievali, punto di riferimento negli anni del « Leonardo ». All’interno de La coltura italiana, nell’edizione del 1906 scritta assieme a Papini, 5 è in azione e chiaramente identificabile tutto il lavoro nietzschiano sulla gerarchia, sull’uomo d’eccezione opposto al mediocre, dell’indipendente e del forte opposti al gregge, di concetti quali risveglio, rinascita e la necessità che questi movimenti siano guidati da « spiriti liberi », da uomini estranei  







































1   Giuseppe Prezzolini, Vita e leggenda di G. van Hooghens, « Prose. Rivista d’arte e d’idee », 1, dicembre 1906-gennaio 1907. 2   Idem, Studi e capricci sui mistici tedeschi, Firenze, Casa Editrice Italiana, 1912. 3   Biagio Marin, Testimonianza, in Giuseppe Prezzolini : ricordi, saggi e testimonianze, a cura di Margherita Marchione, Prato, Cassa di Risparmi e Depositi, 1983, pp. 145-149. 4   Sul frontespizio di Le origini della tragedia, Bari, Laterza, 1907, presente nella sua biblioteca privata, Marin appunta : « Firenze. xii ‘11 ». 5   Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, La coltura italiana, Firenze, Lumachi, 1906.  











la « grande avventura » di biagio marin : firenze 1911-1912 129 alla tradizione, capaci di individuare e di percorrere senza sconti e titubanze le linee per l’uscita dall’inerzia e dalla vigliaccheria intellettuale. E, per quanto riguarda Prezzolini, l’influenza nietzschiana è forse addirittura precedente al suo lavoro con Papini appena ricordato, visto che il suo libro d’esordio, La vita intima del 1903, è costruito come « una raccolta di pensieri », 1 che si rifà chiaramente alla scrittura aforistica del filosofo tedesco dalla quale, successivamente, qualcuno ha fatto risalire la poetica del frammentismo cara a molti scrittori vociani. Ecco allora che l’apprezzamento che Marin riserva all’aforistica nietzschiana 2 può essere fatto risalire, senza azzardare troppo, al contatto ed alla frequentazione, durante il suo anno fiorentino, non solo del gruppo dei vociani che stavano riflettendo ed orientandosi verso lo stile di scrittura e di pensiero di Nietzsche, ma direttamente a Prezzolini che aveva iniziato a dialogare con il pensiero e con la scrittura di Nietzsche già da qualche anno. Ed ancora a questo suo anno fiorentino ed alla sua vicinanza a Prezzolini, va collocato l’incontro di Marin con quelli che diventeranno i suoi due « maestri » più spesso dichiarati ed ai quali si rivolgerà con maggiore frequenza : Croce e Gentile. È nota infatti la completa adesione di Prezzolini alla filosofia dello spirito del filosofo napoletano e l’attenzione di quest’ultimo per il giovane scrittore del Linguaggio come causa d’errore. Henrì Bergson, 3 testo che recensisce sulla sua « Critica » e che non solo inizia un carteggio ampio ed interessante 4 ma segna il principio di un’amicizia, di un confronto e di una collaborazione che lasceranno un segno indelebile sulla programmazione e sulla conduzione della prima « Voce », debito che Prezzolini riconosce senza riserve :  

































Ma devo al Croce l’ordine delle cose umane, la fede nel mondo storico, la conquista dell’umanità di me stesso ; la vita morale, il dovere dello sforzo, il bisogno d’una disciplina, la visione dell’umile giornata come missione, il senso dell’eroico quotidiano prosaico : l’equilibrio (sperato, desiderato, atteso – che verrà – almeno nella morte) ; il trovarmi uomo fra uomini, partecipe d’una sacra funzione, personaggio di una storia sacra ; il valore del pensiero e dell’arte, della vita pratica ; il valore dell’uomo di genio (ma anche il valore dell’imbecille), il valore del santo (e il valore del farabutto) ; la riduzione totale, assoluta, senza residuo, di Dio nell’Uomo ; l’accettazione della realtà, non criticabile, ma su cui costruire […]. Questa è la nostra fortuna : di avere il Croce […]. Io sono un crociano […]. Sono un crociano, volevo dire, dell’Etica e non dell’Estetica, come il più dei crociani. E forse, ancor meglio, non sono crociano di questa o quella dottrina, ma dello spirito del Croce che tutte le organizza, le anima e che per me è meraviglioso riudire nelle sue note e nelle sue lettere, tutt’uno col suo sistema. 5  

















Marin non può non essere stato influenzato e quasi investito dal fervente crocianesimo prezzoliniano, anche se quando arriva a Firenze, nell’autunno del 1911, l’attenzione di Prezzolini si stava già spostando, o si era già spostata, verso la filosofia di Gentile. Anche se Marin, contrariamente a Prezzolini, sarà più crociano dell’Estetica che dell’Etica, deve comunque lo stimolo alla conoscenza e alla frequentazione, che durerà molto più a lungo di quella prezzoliniana, della filosofia di Croce proprio all’amico e direttore de « La Voce ».  



1

  Giuseppe Prezzolini, Il meglio, Milano, Longanesi, 1971, p. 39.   Il 27 dicembre 1967, appunta sul suo diario : « Evidentemente a me garba il modo aforistico di Nietzsche che butta là le sue affermazioni come atti di sicura fede, più che l’andare a zonzo sempre tra il sì e il no in cerca della sospensione metodologica ». Nota inedita. 3   Giuseppe Prezzolini, Linguaggio come causa d’errore. Henrì Bergson, « Biblioteca del Leonardo », n. 2, Firenze, Tipografia Spinelli, 1904. 4   Benedetto Croce, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1904-1945, a cura di Emma Giammattei, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1990. 5   Giuseppe Prezzolini, Io devo …, « La Voce », a. iv, n. 7, 25 febbraio 1912, Firenze, p. 756. 2















130 pericle camuffo Allo stesso modo di Croce, anche Gentile ‘entra’ in Marin grazie alla mediazione di Prezzolini il quale, superate le iniziali perplessità nei confronti del filosofo siciliano, nel 1907, recensendo Scuola e filosofia, « riconobbe l’importanza del contributo gentiliano agli studi pedagogici » e venne colpito dalla « definizione della pedagogia come scienza della formazione dello spirito e quindi come disciplina squisitamente filosofica ». 1 Al di là del numero non certo impressionante di articoli che Gentile scrisse su « La Voce », la sua influenza va considerata anche attraverso l’assidua partecipazione alla rivista « dei suoi allievi più conosciuti : Giuseppe Lombardo Radice, Vito Fazio Allmayer, Ernesto Codignola », 2 e dall’interesse che « La Voce » dedicò alla pedagogia ed al tema della riforma della scuola. È comunque nel passaggio, alla fine del 1912, dall’idealismo crociano a quello militante di derivazione gentiliana che Prezzolini matura e rende operativa la conoscenza e la meditazione sulla filosofia di Gentile che vorrebbe « riuscisse realmente a trasformare la vita dell’uomo moderno ». 3 È proprio a questo idealismo che Marin dice di « far propaganda » nella lettera che scrive a Prezzolini 11 gennaio 1923 : « Mi son messo a far propaganda delle nostre idee. Idealismo militante, come diceva Lei una volta ». 4 Idealismo che agisce e si concretizza durante gli anni in cui Marin insegna a Gorizia. 5 Qui, infatti, dal 1919 al 1923, nel suo modo di essere insegnante, Marin ha in mente non solo l’idealismo attuale di Gentile e le tesi del suo Sommario di pedagogia, 6 ma anche, e forse in maniera ancora più viva, l’elaborazione prezzoliniana di queste teorie dove l’idealismo insegna a « non catalogare, non chiudere alcuna via, serbarsi elastici per tutte le impronte e mantener l’epidermide sensibile al bacio d’un figlio e alla carezza di una foglia, l’orecchio aperto al grido d’un profeta e al verso d’un artista ». 7 Marin insegna ai propri scolari i parametri dell’ « educazione idealistica » tracciati da Prezzolini in un articolo del 1913, l’abitudine, cioè, a « mantenersi in uno stato di perpetua instabilità », a « non fermarsi alle apparenze esterne », a « rompere le inferriate ed eludere le più folte siepi », a « ritornar vergini ogni giorno cancellando il velo che l’abitudine paziente depone ad ogni tramonto sulle azioni quotidiane », 8 perché solo da questo processo di continua riscrittura di se stessi è possibile approdare ad una condizione di libertà che, a sua volta, va riconquistata sempre e di nuovo, pena la ricaduta all’interno di una schematizzazione del reale e di se stessi che non consente nessuna vera attività critica e creativa, ma soltanto una pigra ripetizione Nel cammino che lo ha portato a formarsi come educatore ed insegnante, Marin incontra prima Prezzolini che Gentile. Ma più esattamente, potremmo dire che Marin incontra Gentile attraverso Prezzolini, non solo fisicamente, quando glielo presenta all’Università di Roma nel 1918, bensì nel modo in cui Prezzolini traduce nell’ « idealismo militante » la valenza critica dell’attualismo gentiliano, anche se probabilmente la esagera o quantomeno la isola dal resto della filosofia di Gentile, traduzione che impressiona, affascina e coinvolge Marin a tal punto che, durante la sua breve carriera scolastica, è a questa che fa « propaganda » prima che alle indicazioni della pedagogia neoidealistica di Gentile. Con questo non si intende certo cancellare il debito di Marin nei confronti di Gentile e della sua filosofia, cosa che  



















































































1   Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1908 - 1940, a cura di Alessandra Tarquini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. ix-xvi. 2 3   Ivi, p. xxii.   Ivi, p. xlvii. 4   Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, cit., p. 41. 5   Si veda a riguardo Biagio Marin, Scritti goriziani 1920-1923, a cura di Pericle Camuffo, Pisa-Roma, Serra, 2012. 6   Giovanni Gentile, Sommario di pedagogia generale, Bari, Laterza, 1913-1914. 7   Giuseppe Prezzolini, Educazione idealistica, « La Voce », a. v, n. 35, 28 agosto 1913, Firenze, pp. 11458   Ibidem. 1146.  



la « grande avventura » di biagio marin : firenze 1911-1912 131 Marin d’altronde non ha mai nascosto, ma solo chiarire il ruolo di Prezzolini nella formazione di questo debito, il fatto cioè che se Marin può essere definito per molti versi gentiliano, va chiarito che, almeno inizialmente, lo è in modo « prezzoliniano », cioè in riferimento alla lettura che Prezzolini fa del pensiero di Gentile e che trova la sua realizzazione più produttiva nella formulazione di un nuovo idealismo. È ipotizzabile che Prezzolini abbia giocato un ruolo importante anche nel muovere l’iniziale interesse di Marin per Bergson. Il filosofo francese, come è noto, è stato per Prezzolini un punto di riferimento ed argomento di interesse fin dal 1902 quando, a Parigi, ne studiava i testi nella solitudine delle biblioteche rifiutandosi, però, di seguirne le lezioni al Collège de France per evitare di « perdere sotto il peso d’una improvvisa antipatia fisica, tutta la devozione e il rispetto » che il suo nome, « allora semi ignoto », gli ispirava ma che, a distanza di dieci anni, lo ricordava nell’articolo Io devo… con appassionato riconoscimento e senza nasconderne il debito :  



















Bergson, o Bergson, o amore dei miei vent’anni, o nome ripetuto come un talismano nelle dispute lungo il Mugnone e su per il vialone dei Colli,tra nebbioline e soffi di vento gettato allegramente in faccia all’avversario, o luce dello spirito e prima consolazione d’una vita abbuiata ; quante ebbrezze di verità e di dominio, quanti sorrisi d’uomo solitario e felice, ti debbo ; quanti travagli ho superato, con la tua guida. 1  





Marin ricorda raramente Bergson, non lo indica tra gli autori a cui si riferisce con maggiore frequenza, tuttavia è presente, seppur in filigrana, all’interno della sua visione del mondo e dello spirito e ne occupa una posizione di primo piano – ancora tutta di ricostruire e valutare con precisione – con l’idea di un io inteso come unità in continuo divenire, con la difesa della creatività e la critica al determinismo positivista, con il concetto di durata quale caratteristica fondamentale della coscienza. Non è un caso, allora, che Bergson sia l’unico filosofo a cui Marin dedica un ampio articolo, uscito in due parti sul settimanale goriziano « L’Azione » nell’agosto del 1922 con lo pseudonimo di Dino Maran, in cui riflette, anche se con intenzione più divulgativa che critica, su L’evoluzione creatrice in quanto la ritiene « l’opera sua più varia ed originale » dalla quale è possibile « ricavare tutto il pensiero del nostro filosofo », il quale, a suo avviso, è l’unico « che abbia trattato del problema metafisico, con robustezza di concetti, originalità di forma e genialità di conclusioni » ; 2 e non è un caso, ancora, che proprio questo testo, presente nella sua biblioteca privata, sia ampiamente sottolineato e postillato. Un anno, dunque, quello che Marin trascorre a Firenze tra il 1911 e il 1912, in cui viene attraversato da numerosi volti, parole, idee e sentimenti che lo inebriano, lo affliggono, lo costringono a ripensare se stesso e gli altri e che lasceranno, tutti, una traccia di luce, alle volte anche minima, che Marin continuerà a seguire e dalla quale continuerà ad essere illuminato fino alla fine dei suoi giorni. Tra questi volti non va dimenticato quello di chi gli vivrà accanto per 64 anni, quella Giuseppina Marini incontrata nel febbraio 1912 proprio attraverso il gruppo dei vociani nella ormai nota gita al lago Scaffaiolo. È facile capire, allora, perché quel breve cumulo di giorni verrà continuamente rinarrato da Marin in una sorta di ritualità presentificante che lo riporta in vita, che lo rende sempre e di nuovo pulsante e germinatore di vecchie e nuove emozioni, e perché il poeta ne parli, sempre, come la sua « grande avventura ».  

















   



1

  Giuseppe Prezzolini, Io devo …, cit., p. 757.   Dino Maran, Filosofi contemporanei : Henri Bergson, « L’Azione », Gorizia, 11 e 18 agosto 1922.

2







GRADO E IL PAESAGGIO DELLA LAGUNA ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN POETA : BIAGIO MARIN  

Franca Battigelli 1. Introduzione

I

l presente contributo si colloca nell’ambito disciplinare della Geografia umanistica, vale a dire di quella branca della geografia che si propone di arricchire la conoscenza del territorio e delle sue dinamiche attraverso lo studio della percezione e della rappresentazione di chi di tale territorio è o è stato fruitore, di chi con esso si relaziona, di un insider. In tale approccio mediato, l’entità oggettiva dello ‘spazio geografico’ è da leggersi piuttosto come ‘luogo’, come ‘spazio vissuto’ personale, che scaturisce da un rapporto affettivo di « topophilia » 1 e del quale il paesaggio è insieme immagine - un ‘ritaglio visuale’, 2 e rappresentazione soggettiva, tra il materiale e il simbolico, che racchiude ‘storia e significato’. 3 E quando l’insider è un poeta, il paesaggio trova nella poesia forma ed espressione ; ma anche, all’inverso, per un lettore esterno e segnatamente per il geografo, la forma letteraria può divenire fonte integrativa per acquisire una diversa e più profonda conoscenza di luoghi e di paesaggi, da indagare nel doppio senso di come essi sono (secondo un approccio cognitivo e oggettivo) e come vengono percepiti e rappresentati dallo scrittore (in un’ottica esperienziale e soggettiva). Il geografo può allora proporsi come una sorta di mediatore intellettuale tra letteratura e ricerca, capace di trasporre la rappresentazione artistica sul piano scientifico e da essa ricavare informazioni sui luoghi e sull’esperienza umana in quei luoghi. Da tale angolatura, all’intersezione fra letteratura e geografia, ci apprestiamo dunque a ragionare sul paesaggio di Grado e della laguna attraverso gli occhi del poeta Biagio Marin.  











2. I paesaggi di Biagio Marin Il paesaggio occupa una parte centrale nelle prose e nei versi di Marin, in misura di molto maggiore rispetto allo spazio dedicato agli uomini : espressione tanto di un profondo legame del poeta con i luoghi, quanto forse di una sua estraniazione, di una certa sua difficoltà di relazione sociale nel piccolo mondo gradese. Come sempre per i poeti, quello di Marin è un paesaggio fortemente personalizzato. Sempre precisa è, indubbiamente, la percezione della sua fisicità, delle sue componenti materiali, il mare, la laguna, il borgo ; ma si tratta nel contempo di un paesaggio trasfigurato, vestito di emozioni e di stati d’animo, di significati e valori.  



1   Nella sintetica definizione di Tuan « Topophilia is the affective bond between people and place or setting », Yi-Fu Tuan, Topophilia. A study of environmental perception, attitudes and values, Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1974, p. 2. 2   Michael Jakob, Paesaggio e letteratura, Firenze, Olschki, 2005. 3   Yi-Fu Tuan, Topophilia. A study of environmental perception, attitudes and values, cit. Cfr. anche Maria De Fanis, Geografie letterarie. Il senso del luogo nell’alto Adriatico, Roma, Meltemi, 2001.  



134 franca battigelli Attributi fisici, intellettuali, emotivi e simbolici si intrecciano, così, e si sovrappongono nella resa letteraria. Sarebbe dunque improprio cercare nella produzione mariniana un landscape oggettivo, una mera intenzionalità descrittiva, fenomenologica ; per essere, invece, un inscape privato – il ‘volto della propria terra’ –, la sua rappresentazione è sempre selettiva e relazionale. Selettiva nel modo di trascegliere di volta in volta pochi e ripetuti iconemi del paesaggio reale – il mondo mariniano, notava già Pasolini, viene creato per sottrazione, riducendolo ai segni essenziali –, e relazionale perché prende forma in rapporto al mondo interiore, ai sentimenti e alle emozioni del poeta. I seguenti esempi possono chiarire tale modalità di rappresentazione paesaggistica. La lirica Paese mio. 1  



Paese mio, picolo nìo e covo de corcali, pusào lisiero sora un dosso biondo, per tu de canti ne faravo un mondo e mai no’ finiravo de cantâli.

La strofa d’inizio, con il richiamo ai gabbiani e al dosso lagunare (che sono gli iconemi selezionati), è apparentemente descrittiva, ma già introduce un sentire personale, che trova espressione stilistica nell’aggettivazione (‘mio’, ‘piccolo nido’, ‘leggero’, ‘biondo’). La seconda strofa marca il passaggio deciso, attraverso la metafora dei canti, al sentimento interiore - il ricordo della (‘mia’) nonna - per concludersi con una ripresa dell’immagine paesaggistica, ora connotata con un elemento aggiuntivo, i rosmarini. Per tu ’sti canti a siò che i te ’ncorona comò un svolo de nuòli matutini e un solo su la fossa de gno nona duta coverta d’alti rosmarini.

Il secondo esempio è L’ora granda :  

Xe ferme l’aque che le par speciera : drento le ha ‘l siel co’ garghe nuvoleta : là sui àrzini alti fa l’erbeta che ‘l silenzio valisa a so maniera. 2  





Anche qui un inizio descrittivo di un mondo tutto natura, che fa a meno dell’uomo, nella calma immobile e nel silenzio del meriggio estivo. Lo sguardo si allarga poi dalla laguna verso l’infinito, verso un mare che sembra quasi animato. Lontan, de là de le marine e i dossi un respirà del mar solene e largo ; un svolo a l’orizonte, a mar, de ciossi e più lontan un bastimento cargo.  

Ma nella strofa conclusiva, al centro della scena è il poeta stesso, trasfigurato in una sorta di identificazione panica con la natura, che viene anche espressa dalla ripresa, in 1   Paese mio, in Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris, Edda Serra, Milano, Garzanti, 1981, p. 17 (in origine nella raccolta Cansoni picole, 1927). 2   L’ora granda, in Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, p. 509 (Sènere colde, 1953).

grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di marin 135 quest’ultima strofa, dell’immagine dello specchio del verso iniziale (‘speciera’ dell’acqua), in tal modo chiudendo il giro armonico della lirica. E me son l’aqua che fa specio terso e l’òrdola che canta ‘l sovo ben, e me son l’aria e son el canto perso che fa tremà fin l’erba sul teren.

3. Macrotemi paesaggistici Si diceva che sono pochi, tutto sommato, gli iconemi territoriali presenti nelle pagine di Marin. Ma amplissimo, proprio a motivo della ricordata relazione oggettivo/ soggettivo, è il ventaglio delle sfumature e dei particolari con cui vengono di volta in volta rappresentati i paesaggi, « un mondo circoscritto e nello stesso tempo infinito » come ebbe a definirlo Carlo Bo. 1 Per questo non è certo possibile trattare in modo compiuto del paesaggio mariniano nello spazio, anch’esso circoscritto, del presente contributo ; ci limiteremo pertanto - facendo anche noi ampio esercizio di selezione - ad una incursione poco più che esemplificativa intorno ai tre principali nuclei tematici ricorrenti nella produzione mariniana, riconducibili ad altrettanti macroelementi paesaggistici : la laguna, il mare, il borgo.  









3. 1. Il paesaggio della laguna Al tempo del poeta, l’ingresso in laguna, per chi proveniva dall’entroterra, avveniva in barca o in vaporetto, scendendo da Aquileia lungo la Natissa, oppure prendendo il traghetto per Grado all’uscita della stazioncina ferroviaria di Belvedere (il servizio fu attivo dal 1910 al 1935, con una decina di corse al giorno nelle stagioni di punta). Così racconta il poeta, nel 1955, l’« arrivo antico a Grado » attraverso la Natissa, in una prosa che all’efficacia descrittiva unisce un senso di intimità (qui anche espressa dall’aggettivazione appartenente al campo semantico del ‘piccolo’).  



Aquileia aveva un minuscolo porto fluviale, su una roggia anch’essa piccola, un ruscello addormentato di pianura, che, nato, non so dove, tra i campi, andava, dopo breve sogno di cieli e specchiamento di verzura varia, a perdersi nella laguna di Grado : era la Natissa. Ebbene, tra le case d’Aquileia, arrivava da Grado prima, una semplice barca lagunare, a forza di remi, e con l’aiuto del vento [...]. Poi venne un vaporino che risaliva il fiume ansimando e fioriva le verdi solitudini della Bassa estrema col suo pennacchio nero di fumo. 2  



Un altro passo, ancora stralciato dalla prosa poetica dell’Isola d’oro (che Magris ‒ ingenerosamente, a nostro parere ‒ etichetta come « fiacca e liricheggiante »), 3 descrive paesaggio ed emozioni dell’ingresso in laguna : è un paesaggio partecipe, che accompagna il viaggiatore, lo saluta, gli ispira pace e serenità, una sorta di natura umanizzata, con la quale l’anima si identifica, in una risposta empatica.  







Chi venga dalla terraferma e scenda con i fiumi e le grandi strade dalle Prealpi o dalle aeree cortine dei colli, e s’accompagni con le limpide rogge giù per le pianure della Furlania verso le solitudini di Aquileia, e infine anche queste sorpassi, arriverà con esse al mare, là dove la terra s’affonda con infinita dolcezza. Prima di giungere, ancora tra i campi di grano e i profumati vigneti, senti le prime folate salmastre del mare. Un gruppo di pini marittimi ti viene incontro 1   In Biagio Marin, Nel silenzio più teso, a cura di Edda Serra, Introduzione di Claudio Magris, Milano, Rizzoli, 1980, p. 33. 2   Arrivo antico a Grado, in Biagio Marin, Grado. L’Isola d’oro, Comune di Grado, 1955, pp. 207-208. 3   Claudio Magris, Io sono un golfo, in Biagio Marin, Nel silenzio più teso, cit., p. 10.

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e sbandiera nel vento l’ondosa chioma a saluto [...]. Poi, ecco, si spalanca un grande occhio celeste, e tu rimani con l’anima aperta, e sorridi come in sogno all’incantesimo [...]. Pace e silenzio si dilatano con lo zufolo lieve del maestrale [...]. Lontana è ogni realtà : non monti, non città, non case. Ogni materialità s’è attenuata ; domina soltanto la luce. L’anima ingombra di passioni a poco a poco si libera, poi s’apre ; vi entra fiottando la luce […]. 1  







E all’ingresso in laguna, qui sostituendosi con scarsa modestia al poeta, il geografo non può fare a meno di richiamare i caratteri naturali dell’ambiente lagunare, con una presunzione di scienza che pure aiuta a meglio comprendere la versione della poesia. Semplificando, la laguna deve la sua genesi e il suo mantenimento ad una complessa interazione fra i due principali elementi fisici in gioco ‒ terra e acqua ‒ e a processi naturali che operano in questi ambienti di transizione con segno opposto, in un equilibrio dinamico e fragile. Lungo l’alto Adriatico, la sedimentazione di materiale terrigeno trasportato dai corsi d’acqua contribuisce ad alimentare e mantenere, con una azione di costruzione, un cordone litoraneo di isole, « i lidi che dall’Isonzo si susseguono fino al Po, come collana d’ambra bionda al collo verde-glauco del mare ». 2 Tale processo di costruzione (apportatore dell’elemento terra) è contrastato dall’azione demolitrice ad opera dei movimenti marini : correnti e maree (che in alto Adriatico possono raggiungere l’inusuale ampiezza di un metro), le quali, insieme a fenomeni di subsidenza del terreno, mantengono aperte le bocche litoranee (i Porti) ; attraverso questi le acque marine entrano in laguna, favorendo il ricambio idrico e il mantenimento di un ecosistema anfi bio. L’azione delle maree, inoltre, combinata con il moto ondoso interno, interviene a ridistribuire nella laguna i sedimenti terrigeni, contribuendo a modellare (congiuntamente all’azione dell’uomo) la variegata morfologia che anima il composito paesaggio lagunare : dossi, isole, barene, velme (Fig. 1).  









Fig. 1. Il paesaggio della laguna, da ripresa aerea.

Ed ecco la ben più suggestiva descrizione del poeta. I limpidi corsi d’acqua che sboccano in laguna :  

1

  Idem, Grado. L’Isola d’oro, cit., pp. 16-17 (La Laguna).   Idem, Grado. L’Isola d’oro, cit., p. 225 (Il fortino della signora Emma).

2

grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di marin 137 Quasi sognando la rogia la fluisse lenta, a speciâ sieli intenta, verso il mar grando. […] E l’aqua va, la trae el destin, e trasognagia e silensiosa, verso la fosa che a la so vita ciara mete fin. 1 Fluiscono le rogge verso il mare, lentamente, e lo specchio delle acque è così terso da indurre i salici piangenti a rimirarvisi continuamente. 2  



I dossi :  

Spaccano il sole e il gelo le rocce dei monti, le sgretolano, le frantumano ; poi l’acqua le macina e le sgrana e le trasporta al mare con le grandi montane di primavera. Quando arrivano, non sono che sabbia. La sabbia entra nel gioco delle correnti marine e delle maree, fin che lo scorrere si attarda, e in qualche specchio di mare si acqueta e può calare a fondo. A poco a poco in quell’ansa tranquilla il mare depone il suo carico di tristezza, e un bel dì, con la bassa marea, si scorge un sottile dosso di rena. In un paio d’anni emerge dal mare e s’allarga e s’arricchisce di sabbie asciutte e di gabbiani che vengono a fargli festa […]. 3  



E poi, la genesi e l’evoluzione di un banco sabbioso, anche questo rappresentato ‒ con un registro tenero e drammatico insieme ‒ come un organismo che cresce faticosamente, al cui sviluppo contribuiscono, contrastandolo o favorendolo, i diversi elementi naturali. Il Banco dei Trataùri (così chiamato dal nome dei pescatori che usavano la rete denominata ‘tratta’) è un segmento del Banco d’Orio, un cordone sabbioso di recente formazione, depositatosi, quale seconda linea litoranea verso mare, in seguito alla costruzione dei moli di difesa delle bocche di porto. A ponente dell’isola di Grado, dunque, questo banco io l’ho visto nascere e crescere negli anni [...]. Era di sabbia purissima, breve l’area asciutta. Poi vi crebbe qualche pianta d’eringio spinoso, qualche ciuffo di gramigna, che furono pretesto di fermo alla sabbia che la bora o lo scirocco facevano camminare e disperdevano in mare. Che fatica venir fuori dall’acqua, così irrequieta, così, a volte, furiosa e divorante. Le correntie di ogni giorno, portavano la sabbia in quelle specie d’angolo morto e là la deponevano : la maretta del borino, quella dello scirocco debole, la spingevano ad alzarsi. Ed ecco il dosso affiorava, e già i primi gabbiani, nelle notti brevi dell’estate venivano su quella prima sabbia emersa, a dormire. Poi in autunno i grandi sciroccali, le libecciate sommergevano il dosso con le loro ondate irose o ridenti, tutte bianche di spuma. E pareva che il dosso non dovesse più riapparire. Ma il vento calava con lui e con lui il corso dell’onde si placava, e a l’ora della bassa marea, il dosso era là, tutto bagnato e umiliato, ma pur fuori d’acqua [...]. Le alghe, che il mare di scirocco trascinava con sé e buttava, grondanti e splendenti di verdi vari, sul dosso, facevano grumo. La sabbia si serrava loro addosso, ed ecco uno sbarramento per il vento, era noto. Così la sabbia poteva alzarsi, resistere al vento, che voleva riportarla via e sperderla nei fondali. Così, in un dramma vivo di correnti marine e di venti, il dosso si elevò, si ingrandì negli anni, diventando il ‘banchetto’. 4  



Le isole e i casoni :  

1

  Quasi sognando, in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 287 (A sol calao, 1974). 3   Aquileia, in Biagio Marin, Grado. L’Isola d’oro, cit., p. 44.   I dossi, ivi, p. 21.   Biagio Marin, Gabbiano reale, a cura di Elvio Guagnini, Gorizia, Editrice Goriziana, 1991, pp. 27-28 (Il Banco dei ‘Trataùri’). 2

4

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Qua e là, lungo il canale […] sorgevano minuscole isole, su cui ingrigivano capanne di paglia. Le porte nere, erano come occhi fissi che riguardavano. Un cespuglio di tamerice, verde e ariosa, pareva voler rinfrescare l’arsura della paglia secca, bruciata. 1  

In questo brano la descrizione si interiorizza attraverso l’uso dei colori : il grigio e nero delle capanne viene illuminato dal verde leggero della vegetazione ; ancora una volta è la natura che suggerisce freschezza e pace. Il tema della vegetazione ha un rilievo particolare. Vi è in Marin l’intero catalogo delle specie tipiche della laguna : lo spigo marino (i ‘fiuri de tapo’), i cardi dai fiori d’oro, l’eringio spinoso, le stellarie, i ciuffi di gramigna, e l’umile tamerice (Tamarix gallica, le humiles miricae virgiliane), che in questa lirica viene resa grigia immagine della scialba condizione umana :  







I t’ha piantào dei àrzini a difesa nel palù desolào là che la vita pesa. E tu nel griso de la crèa t’ha messo le radise, anch’ele grise, a fior d’ogni marea. Sensa color el fior, comò povera zente che no’ val proprio gnente, massa lisiero el bon odor […]. 2  

A proposito del grigio, almeno un cenno va fatto alle connotazioni di colore utilizzate nella rappresentazione mariniana della laguna. Il paesaggio, che è colto dal poe­ ta prevalentemente nella stagione estiva, è sempre vestito di luce e colori, in realtà pochi colori, non più di cinque o sei, fra i quali dominano la ‘biavitae’ (l’azzurrità) e il bianco. Ma, nella produzione poetica più tarda, insieme ai drammi familiari e alle infermità personali emergono paesaggi autunnali, di colore metaforicamente grigio, cui può associarsi, in una endiadi colori/suoni, il silenzio. Griso xe ’l mar e griso xe ‘l palùo, co’ riflessi de perla trasparinti se stende sora l’acque gran silinsi, sito xe il sielo e svodo e nùo. 3  

L’infinita dinamica terra/acqua dell’ambiente lagunare, di cui s’è detto, può portare, se l’equilibrio si rompe, al prevalere devastante dell’elemento liquido : i lidi così si spezzano, le isole si erodono. È successo anche a Grado, in età asburgica, e Marin, sensibile cantore di memorie dell’isola, lo ricorda in una delle sue prose, che per il geo­grafo viene ad assumere il valore di preziosa testimonianza di storia del territorio.  

Una volta l’isola era breve. Una mareggiata l’aveva rotta in due parti e le acque della laguna s’erano create un alveo di deflusso verso la rotta : il ‘Canale dei Moreri’. Alla nuova isola diedero il nome ‘La Rotta’. Ma poiché quel canale e quella foce insidiavano la vita stessa del povero lido su cui sorgeva Grado, l’Austria sbarrò con un argine potente il canale, l’argine detto ‘dei  

1

  Idem, Grado. L’Isola d’oro, cit., p. 209 (Arrivo antico a Grado).   Tamariso, in Idem, Poesie, cit., p. 351 (E tu virdisi, 1977). 3   Griso xe ‘l mar, ivi, p. 244 (El vento dell’eterno se fa teso, 1973). 2

grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di marin 139 Moreri’, e tra l’argine e il mare si costituì una sacca argillosa e sabbiosa [...]. Dalle Ville Bianchi verso levante andava solitario e umile un arginello, bordato di salse e quasi grigie tamerici, [...] impastato con lotte di argilla andava umile verso il potente argine dei Moreri, che era rivestito di pietra ed era sempre solitario. 1  

Dal seguito del brano mariniano si intravvede poi la successiva fase di trasformazione del territorio, che si colloca cronologicamente negli anni Cinquanta (questo testo è stato pubblicato la prima volta nel 1961), preludio dell’odierno sviluppo turistico. Ora l’arginello è diventata una bella strada asfaltata. Dove gabbiani e aironi e allodole facevano all’amore, da tempo hanno costruito il cimitero ; il ‘canale dei Moreri’ ha trovato un nuovo corso, e la Rotta attende la costruzione di alberghi e ville.  

3. 2. Il mare nel paesaggio È un mare sonoro : « il rantolo della risacca », « ascoltare le onde, che parlano col vento ». È un mare senza confini : « mare che non ha strade ». È un mare senza tempo, costante e immutabile presenza : « E l’acqua viene e l’acqua va, dall’eternità verso l’eternità, ogni sei ore, d’inverno, d’estate, sempre ». 2 Ed è un mare che quasi si umanizza quando accarezza e fa crescere i dossi sabbiosi :  

























Quanti moti armoniosi di piccole onde ci sono voluti ; quanto abbandono del mare grande, che attorno al dosso s’è fatto proprio bambino con gli occhi chiari e i sorrisi tenui, per non sconvolgere le sabbie e portarle via. E che canzoni dolci ha cantato prima d’addormentarsi la sera […]. 3  



Ma, nella malinconia dell’età avanzata e nel triste ricordo del figlio morto, il mare si trasforma per il poeta in Un mar deserto sensa vele e rumuri de lontani vapuri su l’urizonte inserto. 4 Sielo negro su tu, el mar lontan assente, e l’ole fresche e lente no’ le te smove più. 5  



3. 3. Il borgo di Grado Sull’isola maggiore del lido si situa il borgo di Grado, circondato dalle acque e collegato all’entroterra con la sola strada-ponte translagunare da Belvedere, costruita nel 1936. Un dosso di rena, un lido stretto e falcato sul vertice di un delta, che un fiume di una volta ha dimenticato ; quattro case corrose, strette a ridosso di due chiese, intervallate da poche calli, da quattro campielli odoranti di pesce fresco e di salamoia ; una vecchia razza di pescatori inebetiti da molti secoli di fame e di isolamento : così era il paese. Ma sull’isola splendeva un cielo alto e gli orizzonti intorno erano quasi infiniti. 6  







1

  A levante dell’isola, in Idem, Gabbiano reale, cit., pp. 33 sgg. 3   Anfora, in Biagio Marin, Grado. L’Isola d’oro, cit., p. 35.   I dossi, ivi, p. 21. 4   Un mar deserto, in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 371 (Nel silenzio più teso, 1980). 5   Barca de la gno vita, ivi, p. 372. 6   Grado, in Biagio Marin, Grado. L’Isola d’oro, cit., p. 13. 2

140

franca battigelli

L’isola è breve, la cittadina un po’ vecchia. Ma la circonda l’acqua in due modi : con l’ondare del mare aperto sotto il vento, con il fluire e urgere delle maree nella laguna […]. Dighe e canali la difendono e insieme la fasciano tutta in giro. 1  



La diga più amata dai gradesi (e oggi dai turisti) è quella foranea, che « sempre cingendo in un abbraccio protettore il paese, ti porta fino a tramontana » e rende possibile passeggiate « che ti isolano fra cielo e mare e ti fanno simile alle barche, ai gabbiani che ti volano incontro ». Dei canali, il più lungo penetra a fondo nel cuore del paese, certo a servizio delle barche e dei pescherecci, ma, anche, quasi finalizzato a che « le case che non guardano a mare possano consolarsi in uno specchio d’acqua ». Quanto all’abitato, si distende in un abbraccio di case intorno alle due antiche chiese (« attorno ad esse si è serrata la città vecchia, amorosamente ») : case modeste ma funzionali ‒ muri possenti di pietra a vista (Fig. 2) ‒ in un dedalo di viuzze, di campi e campielli che rimandano, qui come in tante cittadine del litorale istriano, al modello urbanistico veneziano.  

















Fig. 2. Una casa tradizionale nel centro storico di Grado.

E serrati fra le case, gli orti, piccoli giardini destinati tanto alle colture domestiche quanto al godimento di un personale rapporto con la natura ; orti colorati e quasi sonori, come quello « musicato di cicorie e di insalate e dalle risa rosse dei pomodoro » ; orti conclusi come fonte di serenità, sicurezza e conforto.  







1   Idem, Paesaggi, storia e memoria. Pagine rare e inedite dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi Mariniani », supplemento al vol. xii, 2008, p. 196.  



grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di marin 141 Oh, l’orto l’orto vogio serào tra i muri coi dì siguri e calmi comò l’ogio. [...] Vardâ crêsse i radici i bisi rissulini drento i brevi cunfini che i cuori fa felissi. 1  

Spesso, dentro l’orto vi è un piccolo pozzo per l’acqua :  

La gera fresca l’aqua del to posso nei zurni grandi de l’arsura, el fêva festa el to geranio rosso ne l’orto tovo, in meso a la verdura. 2  

A differenza dei pozzi pubblici del modello veneziano, questi sono sempre pozzi privati (nella quartina, un ‘tuo’ replicato tre volte …), quasi a significare l’atteggiamento centripeto, polarizzato sulla famiglia e poco incline alla socializzazione degli abitanti gradesi al tempo di Marin. Come il mare e la laguna, anche l’antico borgo sull’isola è ricco di colori e di suoni. Colori della natura :  

Dio, che all’isola non ha dato l’oro delle foglie né il rosso dei pampani settembrini, le ha donato in quest’epoca la festa delle nubi. 3  

Suoni dell’abitato :  

Cadono giù dal campanile le ore, e sembrano cristalli o metalli che si infrangono sulle pietre del selciato. Il vento le attenua o le rinforza, le dilata tra le calli, le porta, per invisibili fori, nelle case, e pare distenda lo spazio. 4  

Suoni degli abitanti :  

Una canson de fémena se stende comò caressa colda sul paese ; el gran silensio fa le maravegie per quela vose drìo de bianche tende. El vespro setenbrin el gera casto : fra le case incantàe da la so luse se sentiva ’na machina de cûse sbusinâ a mosca drento el sielo vasto. 5  





4. Le mutazioni del paesaggio È ancora una Grado sostanzialmente pre-moderna quella cantata dal poeta, quantomeno nel nucleo urbano originario. Ma già con la fine degli anni Cinquanta prende avvio quello sviluppo turistico di massa che apporterà radicali cambiamenti ‒ una vera e propria mutazione ‒ nell’isola, nella laguna, nel paesaggio. 1

  Oh, l’orto, in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 36 (Tristessa de la sera, 1957).   La gera fresca l’aqua del to posso, ivi, p. 100 (El mar de l’eterno, 1967). 3   Settembre sull’isola, in Biagio Marin, Grado. L’Isola d’oro, cit., p. 50. 4   Calli e campielli, ivi, p. 61. 5   Una cansòn de fémena in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 27 (Minudagia,1951). 2

142 franca battigelli La prima grande trasformazione della modernità l’aveva introdotta, negli anni Trenta, la bonifica del Fossalòn. Quella depressione della conca lagunare compresa fra Bocca Primero e l’Isonzato era luogo di praterie anfi bie e di barene, popolato da uccelli migratori e frequentato solo per ragioni di caccia e di pesca. Bene descrive Marin come si presentava questo ambiente, solitario e desolato, e ricco di un’avifauna che viene menzionata con precisione. Tra tera ferma verde e la marina solo un campo de groi, ma imenso, vasto ; e lame d’aqua salsa e bavarina che a duti i masurini ’i gera pasto. Solitudine za desolassion sora quii prai deserti : solo garghe cason longo un canal o sui paludi verti. […] Svoleva in sielo i bugulini a ciapi l’anere pesante, i masurini le sgarze se caleva in meso ai tapi la zogia se stendeva nei matini. 1  





Su quasi 2500 ettari di tale specchio lagunare venne praticato in quegli anni un poderoso intervento di bonifica, cui seguì un piano di messa a coltura e di appoderamento che accolse, fra il 1957 e il 1958, numerose famiglie di profughi dall’Istria ‘azzurra’. Già agli inizi degli anni Sessanta l’ex palude del Fossalon si era in tal modo trasformata nel più esteso comprensorio agricolo del comune di Grado. Marin così la descrive, ricordando in particolare, con la simpatia di chi l’Istria ha conosciuto, gli agricoltori istriani che, nel nuovo ambiente, conservano negli occhi l’immagine delle perdute città marinare. Adesso quela vita xe passagia dai sabiuni de geri cresse el gran vigniti ciari ne dà ’l vin furlan e mede alte colze fien e pagia. Zente de l’Istria azura xe vignua da tere abandonae su la culina a cultivâne site pan e l’ua ; drento i so vogi le sitae a marina. Case bianche xe sorte da la tera alburi virdi el vento za consola e l’omo l’orto sovo el se lavora ne l’odor de le rose cô fa sera. 2  



Ma è stato soprattutto il turismo il principale fattore di trasformazione dell’isola. Va ricordato che già nell’ultimo quarto dell’Ottocento la Grado asburgica iniziava a proporsi, con alcuni alberghi e attrezzature di spiaggia, come località termale e di villeggiatura per l’aristocrazia viennese ; dal 1873, ospitava anche l’Ospizio marino per la cura dei bambini linfatici. L’inizio ufficiale del turismo è datato al 1892, quando Grado venne iscritta nell’elenco delle località termali dell’Impero, divenendo in breve una frequentata stazione balneare e di cura. Alla vigilia della Grande Guerra, quando  

1

  El Fossalon de Grao, in Biagio Marin, El picolo nio, s.l., La Stretta, 1969, p. 37.   Ibidem.

2

grado e il paesaggio della laguna attraverso gli occhi di marin 143 « gli uomini della terraferma s’erano invogliati del mare », venendo « dalle loro città della pianura, da quelle sui colli, da luoghi tramontani », i posti letto erano già un migliaio, e gli arrivi annuali di ‘villeggianti’ intorno a 17.000. E con l’annessione al Regno d’Italia, nel periodo interbellico, la cittadina si incrementa di alcuni alberghi e di eleganti ville. Biagio Marin, che pure in qualità di direttore dell’Azienda Termale dal 1923 al 1937 si era adoperato per la modernizzazione e lo sviluppo dell’isola (è sotto la sua direzione, ad esempio, che sorgerà il Parco delle Rose), percepisce la crescente presenza di turisti come un fattore di trasformazione e di perdita di identità ‒ materiale e culturale ‒ per il ‘picolo nio’ :  









Attorno a quel nucleo [delle due chiese antiche] ora hanno costruito con mattoni del Friuli, con pietra bianca d’Orsera, un nuovo paese pretenzioso di malte e di colori. E anche la gente è mutata : tra le calli strette e nei brevi campielli gli uomini nuovi ingombrano assai […]. Le vecchie case cadenti stanno a guardare in silenzio ; qualche volta, con i battenti chiusi e un’ombra su in alto, che viene dalla gronda e pare segni una ruga di malinconia, sembrano afflitte. La vita di ieri è passata e s’attende il piccone demolitore per nuovo spazio. 1  





I turisti, i ‘forastieri’, sono visti da Marin come un corpo estraneo ‒ « gli uomini delle terre lontane », che parlavano altri linguaggi ed « erano vestiti in strane fogge ; venivano sull’isola, in cerca del sole […], della rena calda e dorata […], del mare » ‒ 2 e vengono percepiti con un disagio e una malcelata insofferenza, di cui si fa portavoce la spiaggia. Alla fine della stagione, la spiaggia,  











ingombra di troppa carne sudata durante tre mesi, si allevia, e par quasi che riposi, così nuda e sola, come una creatura viva […]. Liberata dalle baracche e dai trespoli, si dilata e si distende, e declina verso l’orlo dell’acqua con letizia. 3  

Ma ormai, con l’arrivo sempre più intenso di forastieri, sui dossi biondi avanza l’urbanizzazione, come avviene nel nuovo quartiere di San Vito :  

Fin geri gera ’l mar sui dossi biundi : comò un sogno xe sorta la contrada ; sora el sabiòn che nessun bada, le case xe fiurie coi vani fundi. 4  





Mezzo secolo dopo – nel concludere – non possiamo che augurarci che il paesaggio della laguna e di Grado, così mirabilmente cantato, venga conservato nei suoi valori ambientali e culturali che ne fanno un sistema unico e irriproducibile, in modo che possa continuare, anche in futuro, ad essere percepito, contemplato e fruito ancora con la guida e le suggestioni della poesia di Biagio Marin. 1

  Calli e campielli, in Biagio Marin, Grado. L’Isola d’oro, cit., pp. 59 e 62. 4   Arrivo antico a Grado, ivi, p. 210.   Settembre sull’isola, ivi, p. 48. 4   San Vio, in Biagio Marin, El picolo nio, cit., p. 33.

2

APPUNTI SULLE METAFORE DI BIAGIO MARIN Sara Cerneaz I gabbiani, ad esempio, non fanno parte della nostra vita (io credo di vedere i gabbiani una volta all’anno) e tuttavia centinaia di poesie sono dedicate ai gabbiani. Valerio Magrelli E quel nuòlo, maistral, che tu tu porti via quel’ala de corcal i xe la gno angunìa.

Biagio Marin

Premessa

N

on conosco poeta nostro contemporaneo in cui sia così diffusa, ramificata, portante, e tanto originale e ardita, questa modalità stilistica così tipica del pensiero poetico moderno ». 1 Le parole sono di Mengaldo, e la modalità stilistica a cui egli fa riferimento è quella del metaforismo. È una dichiarazione che mi pare giustifichi senz’altro una lettura dei versi del poeta gradese attraverso la prospettiva della metafora : prospettiva parziale ma, come spero di dimostrare, capace di farci vedere in profondità. La ricerca si è concentrata sulla prima sezione dell’antologia Poesie curata da Edda Serra e Claudio Magris per Garzanti nel 1999, la quale raccoglie per campioni la produzione da Fiuri di tapo – il cui centenario della pubblicazione qui ricordiamo – fino a La vosse de le scusse, del 1969. La scelta di questo specimen è stata abbastanza casuale, data la profonda coerenza dell’opera mariniana. Se è vero che l’impegno poetico di Marin si estende su un arco temporale inaudito (è infatti uno tra gli scrittori in versi più prolifici), è incontrovertibile la fedeltà della sua poetica, priva di evoluzioni forti, sostanziali. Pasolini afferma : « tutte le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia » ; 2 e Antonio Daniele : « per nessun poeta come per Marin anche la più piccola parte può essere rappresentativa del tutto ». 3 La ricerca è consistita nell’esaustiva opera di schedatura delle metafore, che ha comportato un vaglio stilistico e una valutazione semantica dei due termini, comparato e comparante, che la metafora (secondo varie modalità) unisce. Ne è emersa quindi una sorta di mappatura dell’immaginario metaforico, dove si è potuto distinguere che cosa suscita un’intenzione metaforica nel poeta (dunque il punto d’avvio del processo «













   











1   Pier Vincenzo Mengaldo, Marin come lirico, in Idem, La tradizione del Novecento. Quarta serie, Milano, Bollati Boringhieri, pp. 47-52, a p. 50. 2   Pier Paolo Pasolini, saggio introduttivo a Biagio Marin, La vita xe fiama, Torino, Einaudi, 1970, ora in Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris e Edda Serra, Milano, Garzanti, 1999, pp. 464-470, a p. 464. 3   Antonio Daniele, Forme e sostanze dell’ultimo Marin, in Il dialetto come lingua della poesia. Atti del Convegno internazionale, Trieste 28-29 settembre 2005, a cura di Fulvio Senardi, Trieste, Tipografia Adriatica, 2007, pp. 33-47, a p. 33.

146 sara cerneaz traslativo), il repertorio al quale Marin si rivolge per sviluppare questa intenzione e il catalogo tipologico al quale egli si rifà per dar forma a questa dinamica. Si tratta in definitiva della disarticolazione (o dissezione) della metafora nella poesia di Marin. 1  

1. 1. 1. Dall’analisi dei quasi 400 loci metaforici esaminati si evince un gusto stilistico per lo più piano, denotativo, dove A e B – come chiamerò comparato e comparante – trovano aperta dichiarazione. È infatti consistente il numero di copule, secondo il tipo A è B :  

La vita xe fiama che brusa (« La vita xe fiama che brusa », p. 84) ; 2 Preghiera xe tremor davanti a un viso ciaro e xe l’amor per un radicio amaro (« Preghiera xe consentimento », p. 48).  





   



Forma simile alla copula, ma che in realtà, rispetto a quella, ipostatizza il divenire dell’avvicendamento tra A e B, è quella che si può definire metafora processuale. Quindi non più A è B, bensì A si fa / diventa B :  

E le parole e i gesti e i tovi vardi xe deventài cristali che no’ cresse (I ani passài xe za diese, p. 29).

Sempre a margine della copula mi pare degna di nota quella che si potrebbe denominare metafora ottatativo/desiderativa, in cui il rapporto tra A e B non è fattivo, come nel caso copulativo, ma sperato, bramato, invocato. Si potrebbe parlare di una sorta di copula in potenza : 3    

Fa de me vela tesa, fame son de canpana (« Maistral d’istàe », p. 68).  



Vi è poi un tipo a cavallo tra la copula e l’apposizione, che si potrebbe chiamare forma copulativa implicita. Il verbo essere non è esplicitato, ma agisce mentalmente : « Duto ’l mondo vangelo » (p. 85), « Duta la vita un urlo de dolor » (p. 103). In entrambi i casi trascritti si intravedono ragioni di tipo metrico rispetto alla taciuta espressione del verbo essere : il ‘xe’ sarebbe stato di troppo per la formulazione del settenario e dell’endecasillabo tanto cari a Marin. Esteso è anche l’impiego della similitudine. Nella gran parte dei casi la realizzazione avviene attraverso il tradizionale come (A come B), e la mediazione può essere aggettivale :  













1   Sulla metafora in Marin si confronti anche Fabio Russo, Metafore del quotidiano e del continuo nella scrittura di Marin, in Il dialetto come lingua della poesia, cit., pp. 139-149. 2   I versi si danno sempre dall’edizione Biagio Marin, Poesie, cit., con richiamo al titolo (se presente) o al primo verso (fra caporali) e alla pagina di comparizione. 3   Margherita Quaglino nel suo saggio sulle metafore di Caproni parla di una poesia « scandita dal poliptoto della copula come in un progressivo accertamento delle corrispondenze » : definizione che mi sembra perfetta anche per Marin. Cfr. Margherita Quaglino, L’« immagine significante » : metafore di Giorgio Caproni, in Nove Novecento. Studi sul linguaggio poetico, a cura di Marinella Pregliasco, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 215-254, a p. 225.  











appunti sulle metafore di biagio marin

147

Ma le povere parole xe lisiere comò bole de savon, comò note de canson (Preanbolo, p. 82) ;  

oppure – ed è modalità più frequente – la mediazione è verbale :  

Signor, son stanco de fiurî comò un agasso, son stanco de cantâ comò sigala (« Signor, son stanco de fiurî comò un agasso », p. 96).  



La similitudine mariniana ha anche declinazioni diverse : oltre al come il poeta usa ad esempio anche. Penso alla bellissima I ani passai xe za diese, di cui riporto un estratto :  



I fiumi de ’sto tenpo più no’ score, i fiuri no’ se sfogia e no’ fa istàe e fin i vinti i tase in dute l’ore, ne le so vastitàe. Anche tu senpre fermo in te la cassa, fermo sul siolo co’ la bala in fronte, i vogi verti che più no’ se abassa, che varda in maravegia l’orisonte. (I ani passài xe za diese, p. 29).

L’immobilità della natura è la stessa di Falco, morto : « anche » apre la quartina e instaura il rapporto analogico. Ma altre ancora sono le forme della mediazione. Il cussì –  





Tra i lavri sovi el rîe oferto in tentassion ; cussì rîe le restìe dei dossi sul sabion (« Tu lo vol ? », p. 187) – ,  







o espressioni verbali come me sento – Me crèo in Tu, no’ crèo in me, Paron : me sento cana svoda a la to boca (« Me crèo in Tu, no’ crèo in me, Paron », p. 21) –  





e par :  

Par che ’i manchi ’l respiro dal spavento ai àlburi, a le piere, al siel in alto : do vogi verti, acaressài dal vento (La morte, p. 30).  

Vi sono poi testi descrivibili come una catena di similitudini, come questo che trascrivo :  

Te vogio ben comò la vela al vento che trema de piasser cô la va a riva, e cô i la mola zo, la fa un lamento che la par viva. Te vogio ben comò la colma al lío che tanti basi ’i dà, là su la spiasa ;  

148

sara cerneaz che note e dì, de dopo che xe Dio, senpre i se basa. Te vogio ben, comò la luna e ’l sol al golfo nostro, imenso, cussí fondo ; te vogio ’l ben, che ’l Padre eterno ’l vol a duto ’l mondo (« Te vogio ben comò la vela al vento », p. 13).  





1. 2. Fin qui ho presentato i tipi analogici di quello che potremmo definire un trobar leu, dove A e B, secondo varie declinazioni, si incontrano esplicitati. Essi rappresentano la scelta più frequente ; tuttavia esistono anche forme meno apertamente denotative : un esempio è quello delle metafore propriamente dette, nella loro funzione di sostituzione. Il rapporto sostitutivo tra A e B può essere mediato da un uso verbale non ordinario. Magris parla di « accostamenti verbali temerari nel loro apparente rispetto della tradizione » ; 1 quindi ad esempio la vita ‘si beve’ e le rime ‘si seminano’ :  







   



Me t’hè bevùa, mia vita in calo, vin d’oro fresco e trasparente (« Me t’hè bevùa, mia vita in calo », p. 86) ; Me, m’hè nudrío de pan de quel che tera esprime dopo ’l lavor uman che sémena le rime (« Me, m’hè nudrío de pan », p. 97).  









Marin inoltre crea dei rapporti sostitutivi tra A e B attraverso l’uso, che sembra diretto dall’intento metaforico, dell’aggettivazione possessiva :  

bevo sogni noveli a la to fonte (Cussì bela tu geri, ii, p. 43).

Il ‘tu’ di cui parla Marin è una ‘fonte’, e il medium di questa identificazione è l’aggettivo possessivo. (Interpretazione alternativa è quella di pensare a questa forma come a una sorta di copula realizzata, dove “tu xe ’na fonte” diviene “la to fonte”.) Accanto all’impiego di mediazioni verbali o aggettivali vi sono i molti casi sostitutivi diretti, in cui il comparato A viene semplicemente sostituito, senza nessuna intermediazione logico-sintattica, cosicché nel testo non resta che B. Rispetto alla difficoltà di interpretazione posta da tale forma, occorrono due precisazioni. In primo luogo (e di questo mi sono resa conto soprattutto di fronte alla necessità di scegliere gli esempi che testimoniassero questo procedimento) è da notare che nella maggior parte dei casi la sostituzione diretta risulta correlata, a livello testuale, con un metaforismo piano (quindi con similitudini, copule ecc.). Si prenda la poesia che segue :  

Mio Dio, me son un to suriso, sparisso in un balen : ne l’orto un fior de biso drento ’l sielo seren. No’ duro che un momento  

1

  Claudio Magris, Io sono un golfo, in Biagio Marin, Nel silenzio più teso, Milano, Rizzoli, 1980, pp. 5-24, a p. 16.

appunti sulle metafore di biagio marin

149

in un canto de luse : passo co’ ’l vento che a perdission conduse. Un lanpo solo, ma, santo Dio, co pien ! L’Eterno in cuor me vien co’ duto ’l mondo in svolo (« Mio Dio, me son un to suriso », p. 106).  







Vediamo agire nella prima quartina una copula : « me son un to suriso » ; a seguire una forma implicita : « ne l’orto un fior de biso », su cui ancora agisce la copula precedente. Arriviamo così all’ultima quartina, dove il poeta si definisce come « un lampo solo ». La copula iniziale ormai è lontana : formalmente quest’ultima analogia è una metafora di sostituzione diretta. Tuttavia, se la riflessione si estende dallo specifico locus metaforico al testo nel suo insieme, il concetto di sostituzione senza medium – e la connessa criticità – si relativizza. Si veda anche quest’esempio :  





















Cana seca d’autuno el mal t’ha consumào, sora ’l to viso smunto el vogio fato bruno. Nuvoleta de fumo ne l’aria sospesa, de sénere un grumo i ha benedío là in ciesa. La sinisa sparìa più ninte xe restào su l’isola de Grào de gno suore Maria (Girlanda per Maria, xix, p. 184).

Il viso della sorella Maria, il cui riferimento è esplicitato solo nell’ultimo verso, è sostituito senza medium dall’immagine della « cana seca » e della « nuvoleta de fumo ». In questo caso è il macrotesto a intervenire come supporto alla comprensione : i versi fanno infatti parte di una sezione (Girlanda per Maria) che guida ermeneuticamente il lettore. Infine : la sfera dei riferimenti di Marin è così compatta – come vedremo confermato dall’analisi semantica – che anche laddove la scelta stilistica richiede di prassi un maggiore sforzo ermeneutico la fedeltà di Marin a sé stesso interviene come ponte sull’oscurità. Lo spazio bianco che il lettore deve riempire per la comprensione risulta già parzialmente colmato.  











1. 3. Si possono individuare altre caratteristiche formali del metaforismo mariniano. Ad esempio, risponde al gusto del poeta uno spostamento in avanti, entro il testo, dell’incontro metaforico. Ciò significa che l’accostamento tra comparato e comparante trova collocazione successiva allo sviluppo dell’immagine metaforica stessa. L’esplicitazione metaforica acquisisce dunque un valore anaforico/retrospettivo. Si vedano questi versi :  

Signor, hè amào ’l to mondo, ma ’l mondo no’ xe ninte sensa Tu,

150

sara cerneaz el siel xe alto mundi, el xe profondo, ma sensa ’l sol no’ l’esiste più. Me piase vêghe i munti solesài, el gran sui canpi che s’ha fato zalo, le barche in mar che le vilisa a lài, de l’ole soto ’l sol l’eterno balo. Dresse d’oro de màmole novele, cavili nigri de le moracione, ne l’aria de l’aprile le cansone dei merli nigri per le sove osele ; xe solo note de la sinfonia che xe la vita Tova, nostro Ben ; ma sensa d’ele no’ se fa magía, no’ se assende le stele, nel seren (« Signor, hè amào ’l to mondo », p. 105).  







Solo nell’ultima strofa vi è l’esplicitazione della metafora : gli elementi della natura, del creato mariniano come note della sinfonia di Dio. E questa metafora agisce anaforicamente sui versi precedenti. A ben vedere, il gioco di Marin è ancor più fine : l’elencazione che parte dalla seconda quartina (« i munti solesài, / el gran sui canpi che s’ha fato zalo, / le barche in mar […] ») sembra proseguire senza soluzione di continuità nella terza, fino ad arrivare all’esplicitazione metaforica : « xe solo note ». Questo in prima battuta, perché poi ci si accorge che nella terza quartina compaiono « le cansone », e si capisce che queste non possono essere relate al verbum videndi che apre l’elenco (« Me piase veghe »). Le note della sinfonia sono solo quelle che Marin elenca a partire dalla terza quartina. Un’altra scelta formale molto cara a Marin è l’antropomorfizzazione, come vedremo confermato dall’analisi semantica. Essa perlopiù si realizza per il tramite della sostituzione verbale. Quindi : « […] ’na fontana / […] ciàcola alegra » (p. 71) ; « el sol se riposa (ivi). Anche in questo caso, come per le forme piane già analizzate, mi pare che siamo di fronte a una forma che non destabilizza troppo il lettore, se non altro per la natura tradizionale del procedimento retorico. Infine la caratteristica che più parla del metaforismo di Marin, e che può sembrare paradossale : la scelta di un livello metaforico zero. Non parlo di a-metaforicità, posto che si parla di poesia (Lorenzo Renzi interrogandosi sulla poesia poco metaforica degli anni Sessanta e Settanta fa sue le parole del poeta rumeno Sorescu : « quando una poesia non ha metafore, “tutta la poesia è una metafora” »). 1 Non è infatti allo specifico luogo metaforico che bisogna limitare la ricerca del metaforismo in poesia, per considerare invece la poesia stessa, che risulta complessivamente, e ineluttabilmente, forma di traslazione. Ma se ciò è vero in generale, per Marin è ancor più vero. Parlavo di paradosso : quella che infatti potrebbe essere interpretata come la categoria meno interessante, risulta forse essere la più densa di significato, tanto da condurre a un’ipotesi di ipermetaforismo. Ma su questo aspetto tornerò una volta affrontata l’analisi dei riferimenti di Marin, che ci spiegheranno meglio la poetica che giustifica questa affermazione ai limiti dell’ossimoro.  











































1   Lorenzo Renzi, La prosa nella poesia dei poeti degli anni sessanta (testi di Cataffi, Giudici e Erba), in Idem, Come leggere la poesia. Con esercitazioni su poeti italiani del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 149-161, a p. 151.

appunti sulle metafore di biagio marin

151

2. Per la valutazione semantica del metaforismo di Marin ho rintracciato delle aree di significato per comparato e comparante, così da delineare che cosa faccia scattare in Marin l’intento metaforico e a che cosa il poeta si rivolga per sostenere questo intento. La distinzione tra comparato e comparante si è presto rilevata superflua : quelle che ho chiamato aree di significato sono infatti pressoché le medesime per le due parti. In sintesi, ciò che viene comparato con ricorrenza sono i quattro elementi empedoclei ; vi è inoltre una fortissima presenza dell’io, a fronte di una parca presenza di figure dell’alterità (che si declina sostanzialmente in un tu femminile e in quello del figlio Falco) ; un continuo riferimento al canto e alla poesia ; infine, una attenzione mai paga per l’immaginario cristiano-cattolico e per assoluti come la vita, la morte, la bellezza e il tempo. Per il comparante Marin rivolge lo sguardo, ancora, agli elementi della natura ; vi è poi la presenza di una prepotente alterità (risposta alla frequente antropomorfizzazione a cui vanno incontro i comparati) ; di nuovo il canto e la poesia; il riferimento alla religiosità e ai molti concetti astratti. È chiara la costanza, il carattere conchiuso e litanico (per usare il termine pasoliniano) 1 dei riferimenti mariniani. Si evidenzia dunque una struttura a specchio dove lo stesso elemento semantico suscita in Marin un’intenzione metaforica e insieme è riferimento di sviluppo analogico. Mi sembra interessante soffermarmi su qualche breve caso che dimostri come lo stesso elemento risulti al comparato e al comparante. Ho scelto i quattro elementi empedoclei, che sono l’esempio più forte di questa modalità :  















comparato

comparante

TERRA Par che’i manchi ’l respiro dal spavento ai àlburi, a le piere, al siel in alto (La morte, p. 30) tu geri bona piera, la casa de doman. (« Carne, carne tu geri », p. 169) el silensio sul viso d’ogni fior. (« Su tu, fata de sol », p. 101) Signor, son stanco di fiurî comò un agasso (« Signor, son stanco di fiurî comò un agasso », p. 96)  

comparato

Tipologia stilistica Antropomorfizzazione per sostituzione verbale

tu/ pietra

copula

fiori/ essere umano io/fiore

Costruzione genitivale/ preposizionale Sostituzione verbale

A/B vento/ essere umano

Tipologia stilistica Antropomorfizzazione per sostituzione verbale





comparante

A/B pietra/ essere umano







comparato

ARIA l’ultima bava lisiera lo basa (« Sol otobrin nel mar lento se cala », p. 108)  



1   Cfr. Pier Paolo Pasolini, saggio introduttivo a Biagio Marin, La vita xe fiama, Torino, Einaudi, 1970, ora in Biagio Marin, Poesie, cit., p. 466 : « Dopo un poco l’impressione di monotonia, diventa ossessiva, e presenta i caratteri, dilatati, dell’anafora e della litania ».  





152 comparante

sara cerneaz ARIA Te vogio ben comò la vela al vento (« Te vogio ben comò la vela al vento », p. 13)

A/B essere umano /vento

Tipologia stilistica Similitudine con come

ACQUA e restíe dute in festa, dute spiume riose, che le vien da lontan, le gno fresche morose. (« Mio favelâ graisan », p. 9) Una canson de fémena se stende comò caressa colda sul paese ; […] Inprovisa quel’onda l’ha somerso duto ’l paese ne la nostalgia (« Una canson de fémena se stende », p. 27) bevo sogni noveli a la to fonte (Cussí bela tu geri, p. 43) e l’aqua sogna sielo a no’ finî (« Me son el specio terso d’un fondào », p. 45)

A/B onde/donne

Tipologia stilistica Antropomorfizzazione per apposizione

canzone/ onda

Sostituzione diretta

sogni/ acqua

Sostituzione verbale

acqua/ essere umano

Antropomorfizzazione per sostituzione verbale

FUOCO la fiama s’infiora e s’inala (« La vita xe fiama che brusa », p. 84) La vita, la bela regina, xe un rogo che fiama e che fuma (« La vita xe fiama che brusa », p. 84)

A/B fuoco/ fiore

Tipologia stilistica Sostituzione verbale

vita/ fuoco

Copula



comparato





comparante







comparante comparato





comparato





comparante







3. 3. 1. Gli esempi rivelano quanto l’universo mariniano sia perfettamente concluso in sé stesso, coeso. Tra comparato e comparante – come tra microcosmo e macrocosmo – non vi è soluzione di continuità. Mi piace qui ricordare un’affermazione di Edda Serra che ben esprime l’unità, la totalità della poesia di Marin. Dice : « Ogni luogo è luogo dell’universo. Se Marin canta la donna, canta Dio. E viceversa ». 1 Questa caratteristica di perfetta conclusione trova puntuale corrispondenza nelle scelte stilistiche. Da un lato le scelte piane parlano di quella immediatezza che c’è tra lo sguardo del poeta e la realtà guardata ; dall’altro, anche nello stile meno diretto, l’immediatezza è garantita dalla coesione dei riferimenti, capace di sanare lo iato. Alla luce dei dati formali-stilistici e semantici presentati è possibile, a questo punto, tentare una definizione del metaforismo di Marin. Antonio Daniele parla di « simbolismo », ma anche di « dispotico pensiero allegori 











1





  Edda Serra, prefazione a Biagio Marin, La vose de la sera, Milano, Garzanti, 1985, ora in Biagio Marin, Poesie, cit., pp. 492-497, a p. 494.

appunti sulle metafore di biagio marin 153 2 co » ; Pier Paolo Pasolini di « simboli » e « petrarchismo ». Ho scelto allora di rifarmmi a un’opposizione concettuale proposta da Guido Guglielmi in uno studio montaliano, 3 opposizione che mi è parsa in grado di offrire dei principi di valutazione pragmatici per la distinzione fra simbolismo e allegorismo. Due i parametri a cui fa riferimento : il rapporto tra A e B e la fruizione da parte del lettore di tale forma. In relazione al primo parametro la differenza è che  

1

   















nel modo simbolico vige il principio (metaforico) della disgiunzione : (o/o). L’immagine figura in luogo della cosa […]. Invece del senso historialis e prosastico abbiamo il senso metaforico e poetico. L’un senso esclude l’altro. Nel modo allegorico vige al contrario il principio (metonimico) della congiunzione : (e/e). C’è sia il senso historialis che quello allegorico […]. I due sensi non si elidono. 4  





Se ragioniamo strettamente in questi termini mi pare che tutta l’analisi stilistico-semantica presentata dimostri l’interezza, la coesione dell’universo semantico e la reciprocità di comparato e comparante. Un principio congiuntivo come quello allegorico sembra dunque il più rispondente. Per quanto riguarda il secondo parametro, riassumendo il pensiero di Guglielmi si può affermare che la fruizione nel simbolismo è basata su un atto intuitivo, nell’allegorismo invece su un’operazione di tipo intellettuale, logico-razionale. Anche in questo caso ritengo il riferimento all’allegoria più idoneo. Come nella Commedia dantesca la chiave di significazione dell’allegoria era la cultura di un evo, conclusa in un sistema perfetto e universale di rispondenze, così la coerenza dei riferimenti semantici della poesia in Marin ci permette di parlare di un ‘sistema’ : il poeta, infatti, costruisce la propria enciclopedia ; e lo fa attraverso una scelta di selezione e rarefazione/dissolvimento che conducono a quell’ipotesi di petrarchismo che da Pasolini percorre pressoché tutta la critica. Allegorismo e petrarchismo : questi dunque i poli attorno ai quali ci si dovrebbe muovere, nel tentativo di dare una definizione del metaforismo di Marin.  





3. 2. Torno allora alla poesia di livello metaforico zero di cui già parlavo, che mi sembra la forma maggiormente capace di parlare dell’unità, della totalità della poesia di Marin. Leggiamo Mantina a Sitanova :  

El vin teran nei goti, odor de pesse rosto e de mantina, 1   « Poeta analogico e comparativo, Marin non ha mai paura di principiare da forme assertive come Son un batelo, Mondo xe senpre minudagia, Semo fassine […]. Tale modalità gli permette di sviluppare la prima intuizione come per progressive concrezioni, quasi variando sul tema, articolando un simbolismo immediato e senza giri di parole. È in questa schiettezza di esordi che si apprezza il grande, dispotico pensiero allegorico di Marin relativamente alla sua materia : un dominio assoluto del concetto fondato sin dall’inizio su un unico, generale concetto » : Antonio Daniele, Forme e sostanze dell’ultimo Marin, cit., p. 45. 2   « B. M. è un poeta petrarchesco, non dantesco. […] Quanto ai pochi oggetti che B. M. nomina essi non hanno nessun rapporto con gli oggetti che si vedono a Grado. Sono talmente metaforizzati e visti poeticamente – simbolo onirico integrato in tradizioni letterarie plurisecolari – che hanno perduto ogni riferimento con la realtà pratica. […] La selettività – che abbiamo chiamato petrarchesca – del linguaggio di B.M. è dunque in funzione di un ambizioso ingrandimento : fare di Grado il cosmo. E infatti (ecco la contraddizione come scoppio pirotecnico finale) il pertrarchismo di B. M. è sostanzialmente e storicamente romantico : esso allarga in campo semantico ciò che restringe in campo lessicale » : Pier Paolo Pasolini, saggio introduttivo a Biagio Marin, La vita xe fiama, cit., pp. 468-469. 3   Guido Guglielmi, Montale, « Arsenio », e la linea allegorico-dantesca, in Montale e il canone poetico del Novecento, a cura di Maria Antonietta Grignani e Romano Luperini, Bari, Laterza, 1998, pp. 369-380. 4   Ivi, p. 379.  





















154

sara cerneaz e pùo, la bava levantina d’un taneco sui flochi. Mar blu fin l’orisonte duro, e solo intorno ai moli garghe s-cioco de l’aqua ; in alto un svolo puro de nuvolete a fioco. Pan fresco e rosto d’oradele e ciàcole lisiere sul teran, e più lontan del taneco le vele (p. 62).  

Sembra non esserci metaforismo in senso stretto : non si distingue infatti un comparato e un comparante. Come interpretare allora questi versi ? Lausberg parlerebbe di una forma di tota allegoria, che è quella forma di allegoria per cui non c’è quel « segnale rivelatore del pensiero », 1 di esplicitazione di una (qualsiasi) forma di metaforismo. Presumibilmente, se questo segnale esistesse, suonerebbe come « La vita xe… » (oppure, ottativamente, come « Sarebbe bello che la vita fosse… »). Il segnale non c’è, ma si intuisce, e si capisce allora che tutto il testo è metafora : da qui l’ipotesi di ipermetaforismo. Mantina a Sitanova rappresenta perfettamente l’esempio in cui addirittura A e B non esistono più, o meglio, sono superflui come categorie di indagine. Nelle poesie di livello metaforico zero i versi di Marin parlano di un reale che è assoluto e di un assoluto che è reale. Di fatto sono due sono i processi che avvengono. Da un lato una rarefazione di ogni oggetto : Grado non è più Grado, ma, spogliata d’ogni elemento realistico, diviene – con le parole di Magris – il « luogo della tensione all’assoluto ». 2 Dall’altro i concetti più astratti, che abbiamo visto essere molti tra i comparati, vanno incontro, soprattutto attraverso l’antropomorfizzazione, a un puntuale passaggio al sensibile. Citavo in epigrafe le parole di Valerio Magrelli, il quale in occasione di un dialogo con alcuni studenti parlava della presenza di certi elementi costanti nella cattiva poesia, elementi che per lui rappresentano « il segnale di un guasto, salvo eccezioni ». 3 I gabbiani per Magrelli rappresentano proprio quel « tic o riflesso condizionato » a cui si ricorre « quando si vuole essere poetici ». Salvo eccezioni, appunto : se per il poeta romano il gabbiano di fatto « non fa parte della nostra vita », in Marin è addirittura – reale che si fa assoluto – la sua « angunìa ». Una « miracolosa sintesi di astrazione e sensualità » : 4 questa la definizione – perfetta – di Magris per la poesia di Biagio Marin. Aprivo questo intervento con le parole di Mengaldo, e anche in conclusione vorrei tornare a una sua riflessione, che mi pare possa sigillare il percorso. Dice : « mi piace ricordare che uno dei tramiti più tipici dell’analogia mariniana è il bacio, il baciare ». 5 La figura del bacio è infatti immagine ricorrente. Le onde sono basi :  























































   











Te vogio ben comò la colma al lìo che tanti basi ’i dà, là su la spiasa ;  

1   Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, traduzione di Lea Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1969, p. 234. 2   Claudio Magris, Io sono un golfo, cit., p. 10. 3   Valerio Magrelli, L’enigmista e l’invasato, in Seminario sulla poesia, a cura di Franco Nasi e Lucio Vetri, Ravenna, Essegi, 1991, pp. 121-146, a p. 129 (dalla stessa pagina i tre virgolettati che seguono). 4   Claudio Magris, Io sono un golfo, cit., p. 11. 5   Pier Vincenzo Mengaldo, Marin come lirico, cit., p. 51.

appunti sulle metafore di biagio marin

155

che note e dì, de dopo che xe Dio, senpre i se basa (« Te vogio ben comò la vela al vento », p. 13) ;  





anche il canto del poeta, paragonato al « crìo » estivo delle cicale,  



Xe solo ’l baso mio su la to boca d’oro ; fin che me moro ’sto baso asseta, Dio ! (Lásseme cantâ, p. 92).  



Le dolci gocce di pioggia in cui sono trasfigurate le parole della sorella Maria, si trasformano ancora in tanti « basi a piculi stiochi » :  





Co fresco e dolse el ciacolèo de la to piuvisina sora i crochi, basi a piculi stiochi sul virdisâ novelo del canèo (Girlanda per Maria, xvi, p. 182).

Ma oltre al bacio Marin impiega altre figure, con strategia affine. La carezza, ad esempio, in cui egli trasfigura il canto (« Una canson de fémena se stende / comò caressa colda sul paese », p. 27) ; l’onda (« caressa al cuor el respirâ de l’ola », p. 75) ; la brezza (« ’na caressa d’un réfolo de bava », p. 139) ; il silenzio (« El silensio setenbrin / el xe solo una caressa », p. 165). Marin inoltre ricorre all’immagine del desiderio per spiegare l’eterno movimento delle onde sulla spiaggia :  























Scoltevo quel to tâse, quel êsseme lontana, co’ la vogia più vana che porta l’óle su le nostre spiase (Girlanda per Maria, xi, p. 180).

Questi tramiti parlano di un avvicendamento sensuale, che mi pare si avvicini in maniera privilegiata all’universo e al metaforismo mariniano : dove non esistono parti, ma, come abbiamo visto, solo profonda e intima unità.  

ALTRE OSSERVAZIONI SULLA RIMA DI BIAGIO MARIN Rodolfo Zucco Dentro la bocca ha tutte le vocali il bambino che canta... Alfonso Gatto

1.

H

o già dato alle stampe, con il titolo Prime osservazioni sulla rima di Biagio Marin, il testo del mio intervento al convegno di cui il volume presente raccoglie gli atti ; 1 ma voglio approfittare di questa occasione editoriale per riprendere e approfondire alcuni dei rilievi che lì anticipavo come conclusione, ricordando innanzitutto come quelle e queste Osservazioni si basino su un corpus molto ristretto rispetto all’intera opera in versi di Marin : la sola raccolta Dopo la longa istàe (d’ora in po i anche DLI), del 1965, 2 come si legge alle pp. 677-827 del primo volume de I canti de l’isola.3 Di queste 148 poesie, che nell’insieme fanno contare 2335 versi, ho schedato e classificato tutti i segmenti terminali di verso, con lo scopo di arrivare a definire per via computistico-statistica quale sia, nella poesia del Nostro, il paesaggio sonoro (questo il titolo che compare nel programma del convegno), o – con il termine usato da Pound – la melopea : quella proprietà del linguaggio poetico della quale egli dice che « può essere apprezzata da uno straniero dall’orecchio sensibile, anche se egli ignori la lingua in cui la poesia è scritta. È praticamente impossibile trasferirla o tradurla da una lingua a un’altra, tranne forse per puro miracolo, e mezzo verso alla volta ». 4 La ricerca ha preso di mira il punto fonicamente più sensibile dell’organismo testuale : « il segmento che inizia con l’ultima vocale tonica – scrivevo nel primo saggio –, istituzionalmente offerto alla replicazione nella forma della rima ». Si è trattato innanzitutto di distribuire le 2335 uscite nelle sette classi individuabili sulla base della composizione in vocali e consonanti del segmento rimico : le classi delle tronche vocaliche (v), delle tronche consonantiche (vc), degli iati (vv), delle piane monoconsonantiche (vcv), delle piane con nesso biconsonantico (vccv), delle piane con nesso triconsonantico (vcccv) e delle uscite sdrucciole (vc(c)vcv). Un sonettino come L’ora del mezudì (p. 754) esemplifica cinque classi su sette : la prima al v. 1, la terza al v. 10, la quarta ai vv. 3, 4, 12, 14, la quinta ai vv. 2, 5, 6, 8, 9, 11, 13, la settima al v. 7 :    



























L’ora del mezudì in un riflesso verde, gera in casa sospesa, nel silensio de cesa. Scoltevo sito ’l vento vignî da mar più fresco, 1

  « Stilistica e metrica italiana », 13, 2013, pp. 237-263.   Biagio Marin, Dopo la longa istàe, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1965. 3   Biagio Marin, I canti de l’isola (1912-1969), Trieste, Cassa di Risparmio di Trieste, 1970. A questa edizione faranno riferimento tutte le indicazioni di pagina. 4   Ezra Pound, Come bisogna leggere, in Idem, Opere scelte, a cura di Mary de Rachelwiltz, introduzione di Aldo Tagliaferri, Milano, Mondadori, 19733, pp. 919-957 : 934-935 (cfr. Stefano La Via, Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carocci, 2006, pp. 28-30).  



2



158

rodolfo zucco e spassisâ invisibile co’ passo lesto o lento. Ma duto in un momento s’ha presentào l’istàe riòsa de contento. Che rîe, e che biancura, che festa in quel momento co’ ’l sangue za in frescura.

Mancano dunque solo uscite della ricca classe seconda (la rima pudor : amor è alla pagina successiva) e della ridottissima classe sesta (DLI ha solo mestra, in rima imperfetta entro una serie in esta a p. 732, e bluastra : lastra a p. 777, nella poesia trascritta per intero poco più avanti). Trasversalmente a questa prima classificazione, ho ripartito le uscite di verso prima sulla base della loro vocale tonica, poi su quella data dalla loro sottoclasse consonantica. Per le uscite monoconsonantiche applico il termine sottoclasse alle coppie che si formano astraendo dal tratto sordo/sonoro, e uso il termine gruppo per gli insiemi formati dalle uscite accomunate da una certa consonante. Abbiamo dunque la sottoclasse delle occlusive alveolari (gruppi /t/ e /d/ : ato, ude), delle occlusive velari (gruppi /k/ e /g/ : aca, ugo), delle affricate postalveolari (gruppi /tʃ/ e /dƺ/ : icio, uge), delle fricative labiodentali (gruppi /f/ e /v/ : afa, ave), delle fricative alveolari (gruppi /s/ e /z/ : usse, iso). Non è attestata in DLI la sottoclasse delle occlusive bilabiali. Ho riunito in altre due sottoclassi le due liquide (gruppi /l/ e /r/ : ala, ora) e le tre nasali (gruppi /n/, /m/, /ɲ/ : ana, ama, agno). Entro la classe delle uscite piane biconsonantiche, cinque sottoclassi sono determinate dalla prima consonante della coppia : /nx/, /rx/, /sx/, /lx/, /gx/, in ordine di frequenza, dove la x sta per una generica consonante (diversa, ovviamente, giacché nel gravisano non esistono le consonanti geminate, da quella che determina la sottoclasse). In ognuna di queste sottoclassi i gruppi corrispondono alle concrete combinazioni consonantiche : nella prima sottoclasse, per esempio, i gruppi – ancora in ordine di frequenza – sono /nt/, /nd/, /nk/, /ng/, /ns/, /nz/, /nb/, /np/.  





















2. Il lettore interessato potrà giudicare a quali risultati abbia condotto la mia indagine. Qui vorrei riprendere il discorso dove l’ho lasciato, vale a dire sull’enunciazione – lì appena esemplificata sulla poesia Comò i sórbuli – di cinque princìpi compositivi riguardanti la formazione di tre elementi formali di livello diverso : la coppia rimica, la sequenza, il testo. A questi aggiungevo « un sesto principio, quello che stabilendo la probabilità di riprese rimiche o para-rimiche tra testi a contatto o prossimi individua una funzione coesiva entro il macrotesto ». Non mi dilungherò, rinviando ulteriormente questa parte del discorso, sui due princìpi che toccano la coppia rimica. Il primo – « data una certa parola in uscita di verso, la parola che con essa forma la coppia rimica vi corrisponderà con una ripresa di suoni più larga di quella prevista dalla rima sufficiente » – porterà alla messa in rilievo di quale parte abbia nella poesia di Marin quella che manualisticamente diciamo rima ricca, e di come tale ridondanza fonica possa estendersi a segmenti terminali più lunghi, fino a interessare l’intera superficie versale. La quartina che apre Una colonba bianca (p. 788) può ben rappresentare la situazione-limite di questa tendenza :  











Una colonba bianca gera in svolo d’amor, sul fâ de primavera ; la s’ha calào sul siolo vissin d’un falco da l’ala sparviera.  

altre osservazioni sulla rima di biagio marin

159

I versi dispari si concludono sulla coppia paronomastica (e semanticamente antinomica) svolo : siolo, ma entro gli stessi si può rilevare come colonba e bianca anticipino il materiale fonico di calào. Parallelamente, ai versi pari è innanzitutto percettibile la ricchezza della rima primavera : sparviera ; ma arretrando si incontra, sempre sotto accento di 4a, il nesso /fa/ di fâ e falco, in entrambi i versi preceduto da /u/ atona e contiguo a /l/ : sul fâ : d’un falco. Il secondo principio, quello per cui « data una certa parola in uscita di verso, la parola che con essa forma la coppia rimica apparterrà a una diversa categoria grammaticale » si basa sulla preferenza per le rime asincategorematiche. Qui sarebbero decisivi i dati statistici, ma la linea di tendenza può essere indicata anche da un esempio. Ecco El ben che te vogio (p. 777) –  













El ben che te vogio no’ posso più dîlo più d’oro de l’ogio, del canto d’un grilo in note agostana cô piove le stele nei cuor a le mámole bele. Son sol setenbrin che ’l mondo l’incanta co’ ’l sovo tepor e la luse più spanta, che l’intra nei cuor e là ’l porta la pase, quando ’l mar sui dossi za tase. El sielo xe duto una fiama bluastra, silensio che l’áneme brusa ; el mar una lastra de fogo : el gno cuor l’ha oferto a la musa –,  



dove tre coppie rimiche associano un nome a un verbo (dîlo 1 : grilo 2, pase 7 : tase 8, brusa 10 : musa 12), due un nome a un aggettivo (stele 3 : bele 4, bluastra 9 : lastra 11), una accosta un verbo a un participio usato come aggettivo (incanta 5 : spanta 6). È chiaro il rapporto oppositivo tra i due princìpi : se al livello dei suoni agisce in Marin una « pulsione omologante », a quello dei significati vi si contrappone una « pulsione distintiva ». Vediamo sotto questo aspetto la prima quartina di O sol, o sol che tu tramunti (p. 795) :  























O sol, o sol che tu tramunti tu mandi in fiame duto ’l gno palù, un baso coldo tu tu mandi ai munti prima che vegna la gran note blu.

La rima ai versi dispari stringe un verbo a un nome : divergenza a cui si oppone il rapporto di inclusività rafforzato dalla coincidenza della vocale atona che precede (tramunti : ai munti) e, retrocedendo, dall’assonanza tra l’iterato sol e coldo (nome e aggettivo), entrambi sotto ictus di 4a. Ai versi pari rimano invece un nome e un aggettivo : stretti però a livello fonico dalla /l/ su cui poggia il segmento rimico e da una /o/ preceduta da consonante nasale in entrambi i sintagmi in uscita di verso (’l gno palù : la gran note blu). È un esercizio che il lettore appena avvertito potrà replicare e integrare ad apertura di pagina (non solo, è chiaro, entro DLI).  







3. Sosterò un po’ più a lungo sui due princìpi che toccano le sequenze, su quello che riguarda il singolo testo e infine su quello che pare agire al livello del macrotesto, nel tentativo di dimostrare che si può ben dire per Marin ciò che Zanzotto scrive di Metastasio in un passo che mi piace assumere come altra ideale epigrafe per questo lavoro :  

160 rodolfo zucco « Nell’universo poetico-musicale di Metastasio, le vocali si attraggono l’una con l’altra. Aveva la certa sensazione dell’opportunità dell’uso di determinate vocali (e di determinate consonanti) a dispetto di altre ». 1 Ma devo prima chiarire che ho usato il termine sequenza per l’unità che Andrea Afribo definisce la « successione consecutiva di due serie rimiche all’interno di un blocco metrico unitario ». 2 In Marin la forma di sequenza più tipica è la combinazione di due coppie rimiche entro una quartina ; ma ho considerato sequenze, nell’analisi di cui sto per dar conto, anche gli allacciamenti rimici in una serie di altre situazioni strofiche : le due serie di tre e due rime entro le strofe pentastiche (a p. 694, per esempio, considero sequenza la congiunzione delle due rime nello schema abaab dell’ultima strofa), le due rime che legano i versi dal secondo al quinto delle strofe pentastiche con verso iniziale anaforico (come in Maria, indola xe la nostra zoventù, a p. 712, e in Un’aqua che score, a p. 720) o immediatamente iterativo del titolo (così in Tu me disivi, a p. 714), le due rime che congiungono in serie ternarie i versi della sirma dei sonetti. Le sequenze si diranno perfette quando sono perfette le due rime che le compongono, imperfette quando in una o in entrambe le coppie non si dà rima perfetta ma assonanza. In questa analisi converrà accostare concettualmente – come già proponevo – le uscite di verso ai « termini sonori » secondo la concezione di Leonard B. Meyer : « Un suono o gruppo di suoni (simultanei, in successione oppure le due cose insieme) che rimandino [a] o implichino un conseguente più o meno probabile, o che inducano l’ascoltatore ad attenderlo, rappresentano un gesto musicale o “termine sonoro” all’interno di un dato sistema stilistico ». 3 Prescindendo dalla concreta successione temporale, si potranno pensare le due rime implicate nella sequenza come rapportate reciprocamente entro un sistema probabilistico che fa dell’una il conseguente dell’altra. Scrivevo dunque che « data una certa coppia rimica, l’altra coppia della sequenza apparterrà a una diversa classe », aggiungendo che il principio vale in particolare per le rime tronche (prime due classi), per le rime in iato (terza classe) e per le piane biconsonantiche (quinta classe), sfruttate per il loro portato distintivo in relazione alla maggioritaria classe delle piane monoconsonantiche. Sulle tronche, per cominciare. In tutto DLI, la combinazione di due rime tronche si dà solo nella prima delle tre quartine di Un favo de miel (p. 769) : « Un favo de miel / per l’áve de tante stagion / profumo disperso pel siel, / eco de lontana canson ». Un po’ più frequente la combinazione di una rima tronca con una rima in iato, di cui conto dodici esemplari. Le combinazioni restanti sono 118 e si distribuiscono in 114 sequenze, giacché quattro di esse (a-agio, a-ento, en-ogo, i-oro) contano ognuna due esemplari. Quanto alla distribuzione della coppia di tronche entro la quartina, valutiamola sul corpus dato dalle 142 quartine in cui una rima tronca svolga un ruolo prosodicamente oppositivo, assumendo come condizione minima quella per cui almeno uno dei due versi restanti non sia un verso tronco. Conto, con le 135 rime tronche perfette, anche sette imperfette, tutte ovviamente della seconda classe ; in cinque si ha oscillazione tra /l/ e /r/ (al/ar, ol/or), in due tra /r/ e /n/ (ol/on). Ebbene, la collocazione prevedibilmente maggioritaria, con 55 casi, è nei versi pari. Seguono due moduli distributivi in cui una tronca occupa una delle due posizioni pari : quello con la coppia dislocata nei versi esterni conta 41 casi, l’altro  









































1   Andrea Zanzotto, Viaggio musicale. Conversazioni, a cura di Paolo Cattelan, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 76-77. 2   Andrea Afribo, Sequenze e sistemi di rime dal secondo Duecento ai ‘Fragmenta’, in Idem, Petrarca e petrarchismo. Capitoli di lingua, stile e metrica, Roma, Carocci, 2009, pp. 119-57 : 120. 3   Leonard B. Meyer, Emozione e significato nella musica, Bologna, Il Mulino, 1992 [ed. or. : Leonard B. Meyer, Emotion and Meaning in Music, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1956], p. 77.  



altre osservazioni sulla rima di biagio marin 161 che la riunisce nei versi centrali 26. Ad essi si possono affiancare i soli tre casi in cui, data la più rara costruzione della quartina per accostamento di due coppie di rimanti contigui (aabb), la rima tronca occupa una delle due posizioni (in due casi la prima, in uno la seconda). La dissociazione totale della coppia di rimanti tronchi dalle sedi pari della quartina si ha così nei 17 casi residui : un numero fortemente minoritario, certo, ma che mi sembra ugualmente notevole per il profilo ritmico anomalo di queste quartine nell’ambito di una tradizione metrica, quella italiana, che tende a destinare la rima tronca ai versi pari delle strofe tetrastiche e ai due versi conclusivi di emistrofa nei tetrastici geminati (e nelle strofe geminate in genere). 1 Un paio di esempi :  





E cô se verze un fior senpre un profumo fresco va per l’aria che consola ogni cuor e la stagion più freda e solitaria (Un profumo fresco, p. 726, vv. 1-4) ; Ognidun deve bâte la so strà co’ ánema serena siguro de ’rivâ a la stagion so piena (La so strà, p. 815, vv. 1-4).  

La stessa tradizione in riferimento alla quale è possibile apprezzare il carattere innovativo della collocazione delle tronche nelle sedi dispari sembra condizionare l’uso che Marin fa delle sole due uscite sdrucciole. Svincolata dall’obbligo di un impiego a coppie, la sdrucciola ha la sua sede preferenziale nel penultimo verso della strofa, quale che sia la lunghezza di questa. 2 Le sdrucciole di DLI rispondono assai bene a questa preferenza. Il caso più notevole è quello della quarta quartina de El grilo (p. 764), dove la sdrucciola, irrelata, è al terzo verso di un tetrastico di quinari aperto da un’uscita piana irrelata anch’essa, con tronche nelle sedi pari : « Duti i rumuri / de la sità / no’ i ’riva a spândese / gnanche fin qua ». Ma assai significativa è anche l’organizzazione della seconda quartina del sonettino di settenari L’ora del mezudì (trascritto sopra), dove la sdrucciola invisibile è al terzo verso. In questa prospettiva di lettura si potranno considerare senz’altro metricamente sdrucciole flauta e aria in quarta posizione entro le prime due strofe pentastiche di Oh, svode stràe (p. 694 ; la poesia è trascritta interamente nella sez. 4), e forse anche sangue al terzo verso della quartina di apertura di Credème a me (p. 723 : « Credème a me : l’istàe / no’ la finisse mai / se la portè nel sangue / co’ duti i siel stelài »). 3 La stessa funzione oppositiva attribuibile alle rime tronche appartiene anche a quelle in iato, che non si uniscono in sequenza in più di quattro casi : creào : ’ndorào / Dio : desìo (p. 707, quarta quartina), prào : musicào / ùa : mùa (p. 776, quinta quartina), manincunia : ’ligria / stràe : desolàe (p. 810, seconda quartina), Dio : nìo / buo : incùo (p. 824, terza quartina). Si noterà che in tutte queste sequenze – ao-io, ao-ua, ae-ia, io-uo – Marin ha cura di compensare l’omologazione data dall’assenza di consonanti con l’accostamento di vocali opposte l’una all’altra entro il trapezio vocalico : /a/ e /i/ nel primo e nel terzo caso, /a/ e /u/ nel secondo, /i/ e /u/ nel quarto. È in azione, cioè, il principio su cui si tornerà nella sezione successiva, ma che si può  







































1   Cfr. Rodolfo Zucco, Istituti metrici del Settecento. L’ode e la canzonetta, Genova, Name, 2001, pp. 197217 (in part. le pp. 210-211) e 133-145. 2   Cfr. Rodolfo Zucco, Istituti metrici del Settecento, cit., p. 75. 3  Cfr., per l’uso di flauto, aria e sangue come sdrucciole in fine verso, Aldo Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993, rispettivamente alle pp. 264, 282-284, 286-287, e Manuela Manfredini, « N’ha un po’ di colpa il Carducci ». Sulla dieresi nella poesia italiana di fine Ottocento, « Stilistica e metrica italiana », 8, 2008, pp. 219-252.  







162 rodolfo zucco osservare, intanto, esaminando le dodici sequenze che accostano una rima in iato a una tronca. In sei casi – ao-ol, ao-an, ia-an, ia-en, ie-al, uo-er – la rima tronca ha uscita consonantica (appartiene cioè alla seconda classe) ; in cinque – ae-i, ia-a, ia-u, io-a, ua-a – ha uscita vocalica, ma vocale fonicamente opposta ; soltanto un’isolata sequenza ia-i è priva dell’uno o dell’altro elemento fonico distintivo. Le sequenze, perfette e imperfette (una sola), in cui si accostano una rima in iato e una rima piana sono sessantotto : numero che comprende sei sequenze raggruppate da due delle sole tre combinazioni che in DLI hanno una triplice occorrenza : ae-ura e ento-ia (rispettivamente alle pp. 806, 809, 811 – significativamente ravvicinate –, e alle pp. 710, 785, 822). Nella distribuzione, anche le rime in iato subiscono l’attrazione per la sede finale di quartina già riscontrata per le tronche. Le coppie sono collocate ventuno volte nei versi esterni, diciannove nei versi pari, una nella coppia di chiusa entro lo schema aabb ; quindici le coppie posizionate nei versi centrali, dodici quelle ai versi dispari. Solo quindici sequenze – quattordici delle quali perfette – combinano due rime biconsonantiche. Qui la tendenza emergente è quella all’abbinamento di rime che si distinguano almeno nel primo elemento consonantico. La combinazione più frequente prevede l’opposizione /nx/-/rx/ (anda-erna, ando-ersi, anti-ermo, entoorto, inti-orte, onte-orto, ognuna rappresentata da un unico esemplare, e l’imperfetta enso/ensio-orte). L’opposizione /nx/-/sx/ ha tre esemplari (anca-esta, ando-esta, esta-ondo), /nx/-/lx/ ne ha due (alto-inti, alto-ondo), /nx/-/xr/ è rappresentata dalla sola egro-ento. Si sarà notato che prevale, nelle coppie elencate, la tendenza alla differenziazione della vocale tonica (che è la stessa solo in onte-orto e egro-ento, questa seconda assonante anche all’atona). È ciò che caratterizza anche la sola sequenza in cui si ha la replicazione del nesso consonantico : anti-inti, dove l’identità estesa alla vocale atona serve a esaltare l’opposizione fonica delle toniche /a/ e /i/. Delle due quartine con la sequenza anti-inti (la terza di Me t’hè bevùa, a p. 749, e la quarta di Mia tera, colda e negra, a p. 776) è particolarmente interessante la prima, che costituisce l’acme di un gioco sulla consonanza finalizzato alla messa in luce della variazione vocalica tramite la ripetizione in uscita di verso del nesso /nt/ : trasparente 2 : continuamente 3, tramunti 6 : punti 8, canti 9 : tanti 11 (a dar seguito a canto, all’interno del v. 7), firmaminti 10 : sintimi nti 12 (anticipata da vinti e proseguita da linti, rispettivamente entro i vv. 7 e 15). Ma si legga senz’altro la poesia :  























Me t’hè bevùa, mia vita in calo, vin d’oro fresco e trasparente, e in sbornia son vissùo continuamente beato del to balo. Festa del sangue coldo e rosso, de luse d’albe e de tramunti, de vinti larghi in canto sul mar rosso cô gera forti i punti. E m’hè ’nbriagào de sogni e canti, de stele a nuòli e a firmaminti, e i basi su le boche xe stài tanti che i brusa i sintiminti. Ma incòra hè se’ de tu, mia bela, e tu son fresca a la gno boca, e bevo a sorsi linti o a garganela la parte che me toca. 1  

1

  Lo stesso gioco caratterizza le tre quartine centrali (su cinque) di Amor a la vita, viltà (p. 778), dove la

altre osservazioni sulla rima di biagio marin

163

4. Il percorso seguito fin qui, compresi i rilievi su Me t’hè bevùa, ci ha già portato a evocare quella pulsione distintiva che nel mio primo saggio enunciavo nella forma di questo principio : « Data una certa coppia rimica, l’altra coppia della sequenza avrà una diversa vocale tonica e/o apparterrà a una diversa sottoclasse consonantica. Detto altrimenti, Marin evita la costruzione di sequenze con coppie tra loro assonanti o consonanti ». La prima affermazione, quella che tocca la scelta delle vocali, può essere utilmente sostanziata, ora, dalla valutazione di una tabella in cui si riassumano tutte le combinazioni vocaliche delle sequenze perfette e imperfette :  







/a/ 27 72 51 67 38

/a/ /e/ (/ɛ/) /i/ /o/ (/ɔ/) /u/

/i/ 51 45 9 37 10

/e/ (/ɛ/) 72 18 45 74 21

/u/ 38 21 10 27 2

/o/ (/ɔ/) 67 74 37 25 27

In ordine di frequenza – usando per comodità i soli grafemi /e/ e /o/ e mettendo fra parentesi il numero delle occorrenze – abbiamo : 1) /e/-/o/ (74) ; 2) /a/-/e/ (72) ; 3) /a/-/o/ (67) ; 4) /a/-/i/ (51) ; 5 /e/-/i/ (45) ; 6) /a/-/u/ (38) ; 7) /i/-/o/ (37) ; 8) /a/-/a/ (27) ; 9) /o/-/u/ (27) ; 10) /o/-/o/ (25) ; 11) /e/-/u/ (21) ; 12) /e/-/e/ (18) ; 13) /i/-/u/ (10) ; 14) /i/-/i/ (9) ; 15) /u/-/u/ (2). Lascio al lettore ogni considerazione puntuale, limitandomi a registrare tre fatti : che la più frequente delle sequenze omovocaliche (quella su /a/) occupa solo l’ottava posizione (con le stesse ventisette occorrenze di /o/-/u/) ; che per ogni vocale la combinazione omovocalica è sempre quella con frequenza minore ; che hanno posizioni significativamente alte le combinazioni di vocali opposte entro il trapezio vocalico (/e/-/o/ è al primo posto, /a/-/i/ al quarto, /a/-/u/ al sesto). Registrate, per questa via, le tendenze attrattive che governano l’« universo poetico-musicale » (Zanzotto) di Marin per ciò che concerne le vocali, è chiaro che un interesse particolare è suscitato proprio da quei luoghi in cui il poeta compie scelte – in questa prospettiva – eccezionali. Ci si potrà interrogare, intendo dire, sulle implicazioni anche semantiche di una quartina in /i/ come la quarta di Sens’ánema tu son (p. 773) – « Che aurore sul to viso, / che foghi la pupila ; / in quel to paradiso / xe stele a mila a mila » – o su quelle della quartina in /u/ che apre O sol, o sol che tu tramunti, trascritta sopra. Non seguirò questa strada, per mostrare invece come la pulsione distintiva che regola le combinazioni vocaliche entro la sequenza agisca nell’organismo superiore dato da una singola poesia come spinta all’esecuzione, in fine verso, dell’intero repertorio vocalico. Sono ventinove le poesie di DLI in cui nello spazio di quattro quartine Marin usa in fine verso tutte le cinque vocali (il numero sale a trentacinque guardando anche alle poesie di cinque quartine). 1 Ecco, per esempio, Oh, svode stràe (p. 694), la cui lettura dovrebbe rilevare il movimento dalla vocale di massima apertura a quella anteriore di massima chiusura nella prima strofa (dove con la coppia passo : basso è solidale, nella tonica /a/, l’irrelata flauta),  

















































seconda quartina ha la rima ente (splendente : dente, ai versi dispari), la terza anti (canti : pianti, ai versi dispari), la quarta inti (muminti : strinti, ai versi esterni, con dinti a duplicare la ripresa entro il quarto verso). 1   Marin si innesta, con queste scelte, in una tradizione di ascendenza sei-settecentesca, per la quale cfr. Rodolfo Zucco, Per le ‘Anacreontiche ad Irene’ di Jacopo Vittorelli, « Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti », clxvii, 2008-2009, Classe di scienze morali, lettere ed arti, pp. 125-174 : 143.  











164 rodolfo zucco quello tra la stessa /a/ e la vocale posteriore di massima chiusura nella seconda (dove aria si stringe per la /a/ alla coppia fontane : nane, per la /r/ a trasfigura : frescura), tra le vocali mediane posteriore e anteriore nella terza :  





Oh, svode stràe de note e de mantina quando nissun al vento intriga el passo, e le stele favela in tono basso, e i merli flauta in te la prima luse selestina. Dute le case, i álburi e fontane in quel silensio blu se trasfigura ; i respira più grandi la frescura dei sogni d’aria, comò creature in cuna fra le nane. Púo se verze una lanta e varda fora ’na mare vecia drìo l’ultima stela, verso levante se ’npissa e s’indora la nova aurora ; ’desso ogni strà xe una fresca putela.  



« Dentro la bocca ha tutte le vocali / il bambino che canta »... Sono poesie come Oh, svode stràe che mi hanno riportato i versi di Alfonso Gatto in epigrafe, ma anche, come negli stessi versi iniziali de Il 4 è rosso, quei versi, distici o strofe in cui l’esecuzione del repertorio vocalico si svolge nella catena fonica orizzontale. Non servirà commento a una rilettura ad alta voce della prima quartina di Tante le stràe (p. 718) –  



Tante le stràe che porta in meso al bosco comò sirpinti grisi e silensiusi in serca de più intimi refugi cô ’l sol el cala in un ponente fosco –

o della terza di La tera (p. 725) :  

E mile fiuri i árzini costèla e i rusignoli in alto e i merli scunti tra le rubinie, canta la novela del sol che brusa alto sora i munti.

Pulsioni distintive analoghe a quelle registrate per le vocali valgono anche per le consonanti, come si potrà vedere dalla tabella che segue, costruita senza tener conto delle sequenze imperfette. Essa risponde a una semplice domanda : data una rima piana monoconsonantica o tronca consonantica (l’elenco dei gruppi è nella prima colonna a sinistra), quali sono le sottoclassi e i gruppi consonantici (l’elenco è nella prima riga orizzontale) con le quali essa si trova unita in sequenza ?  



/r/ /l/ /n/ /m/ /ɲ/ /s/ /z/

/r/ /rx/ /xr/ 6 3 1 18 6 – 12 2 – 2 1 – 2 – – 5 2 – 9 6 1

/l/ 18 6 13 6 2 2 10

/lx/ /n//nx/ /m/ /ɲ/ – 12 22 2 2 – 13 17 6 2 2 4 11 6 – 2 6 1 1 – – – 1 – – – 4 2 – – – 3 7 3 1

/s/ /sx/ /z/ /t/ 5 5 9 8 2 2 10 5 4 3 3 4 – 2 3 1 – – 1 1 1 – 1 4 1 2 1 7

/d/ 1 1 1 – – – 1

/v/ 6 2 9 3 – 1 3

/k/ /g/ /dƺ/ 5 1 1 1 2 4 2 2 4 – – 4 – – – – – 1 1 – 1

altre osservazioni sulla rima di biagio marin /t/ /d/ /v/ /k/ /g/ /dƺ/

/r/ /rx/ /xr/ 8 2 – 1 – – 6 2 – 5 – – 1 1 – 1 – –

/l/ 5 1 2 1 2 4

/lx/ /n//nx/ /m/ /ɲ/ 2 4 9 1 1 – 1 1 – – – 9 3 3 – – 2 2 – – – 2 1 – – – 4 2 4 –

/s/ /sx/ /z/ /t/ 4 – 7 1 – – 1 – 1 2 3 2 – – 1 1 – – – – 1 – 1 2

/d/ – – – – – –

/v/ 2 – – 1 1 –

165 /k/ /g/ /dƺ/ 1 – 2 – – – 1 1 – – 1 – 1 – – – – –

Si constaterà, per cominciare, che Marin tende a evitare le sequenze omoconsonantiche. Le sequenze che estendono ai quattro versi la sola vibrante o la sola laterale non contano più di sei occorrenze ciascuna ; le sequenze in /n/ sono quattro ; non c’è più che una sequenza in /m/, /d/, /s/, /z/, /t/ ; non sono attestate sequenze in /ɲ/, /d/, /v/, /k/, /g/, /dƺ/. La stessa riluttanza si riscontra guardando alle combinazioni di sequenze che contemplino rime con la stessa consonante semplice e implicata : /r/-/rx/ ha tre occorrenze, /r/-/xr/ ne ha una, /l/-/lx/ e /s/-/sx/ non ne hanno alcuna. Fa eccezione /n/-/nx/, che con le sue undici occorrenze è la sesta combinazione in ordine di frequenza (in nove casi il gruppo è /nt/, in due /nd/). Se ora si guarda alle scelte combinatorie preferite, si vedrà che la più frequente è /r/-/nx/, che conta ventidue occorrenze ; seguono /r/-/l/ con diciotto, /l/-/nx/ con diciassette, /l/-/n/ con tredici, /r/-/n/ con dodici : il lettore curioso vedrà poi da sé. Come per le vocali, il quadro generale servirà anche per mettere meglio a fuoco i luoghi in cui Marin lavora su eccezionali consonanze : « Quel che ’ndeva sercando scusse / longo le spiase e sora i dossi, / e che l’ameva ’l mar e i fossi / de l’aqua e púo le mamolusse » (seconda quartina di Cu sa se tu recordi incòra, a p. 745), « Epur in alto là in sima / dei piopi le fogie le trema / e l’ansia de prima / in sielo l’ha verto una gema » (seconda quartina de La sera xe queta, a p. 742), « Tu passi lisiera / un sofio ne l’aria / triste e solitaria / cô fa za la sera » (seconda quartina di Te speto da tanto, a p. 822), esemplarmente.  

























5. « Data una certa sequenza – scrivevo –, almeno una delle due coppie che la formano sarà ripresa come replicazione della stessa rima [...], oppure come assonanza o consonanza entro una diversa sequenza dello stesso testo. In altre parole, mentre entro la sequenza prevale una pulsione distintiva, nella combinazione di sequenze agisce una pulsione omologante ». E facevo riferimento, nelle righe omesse, all’uso di Marin di ricorrere a un certo segmento rimico oltre la coppia, fino alla serie di sette elementi. Le poesie in cui un segmento rimico si presenta tre o più volte entro la stessa poesia – esclusi dal computo i sette impieghi di una serie trimembre entro la stessa strofa – sono cinquantuno : vale a dire più di un terzo del totale. In quattro di queste poesie la stessa serie rimica si ripresenta in tutte le strofe : sono Dono (p. 710), dove la rima ento è ai versi esterni delle tre quartine, Cussì zerba e crùa (p. 772), dove la rima ua è ai versi dispari della prima quartina e ai versi centrali della seconda, Signor, son pronto (p. 823), con la rima ura in conclusione delle quattro quartine (e anche in apertura della seconda), e il sonetto La morte, che ha la stessa ura come rima A nello schema ABBA ACAC ADA DAD. Un altro sottoinsieme di rilievo è quello dato dalle poesie in cui il ritorno di rime coinvolge la strofa conclusiva : esso comprende le quattro poesie appena elencate e Son goloso de more de spinada (p. 687), Su l’ultime rame (p. 695), Montagne, montagne pesanti (p. 728), La róndene ha portào (p. 732), Tre suore (p. 734), Via gera ’l rusignol (p. 751) e L’hè sintìo, l’hè sintìo (p. 792) : in quattro delle quali (le prime due, la quinta e la settima) tra le strofe coinvolte sono la prima e l’ultima, cosicché la poesia  











166 rodolfo zucco assume una configurazione circolare (senz’altro ballatistica la forma della poesia a p. 823 : abac cddc effc ghhc). La rilevanza numerica e la funzione strutturale di queste serie rimiche interstrofiche induce a conferire un preciso valore stilistico anche alle relazioni tra sequenze costituite da più deboli assonanze e consonanze. Qui non sono in grado di supportare le mie sparse annotazioni a margine con più probanti dati statistici. Per indirizzare il lettore a una sua personale perlustrazione mi limito a trascrivere, come allegato alle mie osservazioni su Comò i sórbuli nel saggio di « Stilistica e metrica italiana », i miei appunti su Che spina in cuor (p. 787) :  







Che spina in cuor quela vosussa, che la dise ’l gno nome ne la note, e me la sento ne le fibre ignote le più lontane e nel rumor de scussa. Biaseto, le me dise comò gno mare morta e gno sorela, e quel supio de vose me fa vela, la me despianta da la gno radise. Ma indola posso andâ co’ i ani che me grava su le spale, vecio manincunìo e sensa ale, per ’ndâ dal tenpo ne l’eternità ? Che pol più dîme quel ‘Biaseto’ propio a la fin dei tanti zurni, quando la vita no’ ha più riturni e devo fâme bon e queto queto ?  



Osservato di passata il completo giro vocalico compiuto dalle otto coppie rimiche (con suggestiva distribuzione : vocali posteriori nella prima quartina, anteriori nella seconda, /a/ omotimbrica nella terza ; ripresa nella quarta, circolarmente, della /e/ della seconda e della /u/ della prima) noto come due rime della prima e della seconda quartina – ote e ela – generino due rime rispettivamente della quarta e della terza strofa conservando l’elemento consonantico e invertendo l’ordine di tonica e atona : eto e ale. Il disegno dell’insieme è dunque chiastico, con circolarità tratteggiata sia dalla consonanza su /t/ sia dall’assonanza su /u/. Anche il suggello per mezzo di sensibili assonanze e consonanze tra rime della prima e dell’ultima strofa è tutt’altro che infrequente : si veda alle pp. 691 (usa > uma), 704 (osco/osto > osso), 735 (ese > esa, con ripresa lessicale vanese > vanesa), 781 (uri > eri), 788 (olo > ala, con l’imperfetta el/elo nella seconda delle tre strofe), 799 (eto > eta), 810 (era > ela e iso > usi), 814 (ura > era), 820 (era > ora).  







6. Il sesto dei princìpi compositivi in azione entro Dopo la longa istàe individua una tendenza a sviluppare serie rimiche oltre la coppia, una proliferazione non arginata dai confini del singolo testo. È un’intera famiglia di rimanti che – come le parole di una poesia di Giudici, « anime a una riva d’Acheronte / Per misterioso transito ammucchiate » 1 – chiede di essere accolta. Per essa il poeta cerca e trova spazio entro un continuum versale che ha una natura organica autonoma, indifferente alla segmentazione in gruppi di strofe titolate e isolate sulla pagina. In qualche caso l’insistenza  





1   La poesia è I versi, che leggo in Giovanni Giudici, I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, con un saggio introduttivo di Carlo Ossola, cronologia a cura di Carlo Di Alesio, Milano, Mondadori, 2000, pp. 854-855.

altre osservazioni sulla rima di biagio marin 167 è di un singolo binomio fonico-semantico, che il poeta può ospitare immutato in testi contigui. Questa lettura presuppone che l’ordinamento delle poesie di DLI sia almeno approssimativamente cronologico. In caso contrario, bisognerebbe pensare che alcune di quelle famiglie siano state riunite a posteriori, nel momento dell’assemblaggio in libro delle singole poesie. La prima ipotesi mi pare più suggestiva, ma non sono in condizione, al momento, di escludere la seconda. Consideriamo allora i dati di fatto. Non è raro che Marin usi la stessa rima in tre poesie contigue : doràe (participio aggettivato) : zornàe è a p. 809 ; la pagina successiva aggiunge stràe : desolàe, quella successiva ancora istàe : trasognàe : pietàe (e se si ha sottomano il fascicolo con la lista completa, come è il caso di chi scrive, salta all’occhio ciò che alla lettura può essere sfuggito : la presenza di basàe : istàe a p. 806). O si vada alle pp. 724-726, dove si susseguono odor : color, amor : splendor, fior : cuor. L’insistenza su una rima non implica necessariamente la variazione sistematica dei rimanti, anzi può comportare l’elezione di un certo rimante a centro di attrazione per il gruppo. Si considerino altre trafile su tre pagine (che è divisione, lo ripeto, dalla quale sarebbe opportuno, in questa prospettiva, prescindere). La rima era alle pp. 820-822 ha al suo centro sera, cui si accostano, nell’ordine, siera (‘aspetto’) e, due volte, lisiera ; quella in esta alle pp. 732734 si incardina su festa : dapprima in serie con sesta (‘cesta’), selesta e mestra, poi con tenpesta, infine con resta. La serie in ola alle pp. 741-743 insiste su parola, in rima successivamente con consola, òla, svola. Diverso il caso che si presenta alle pp. 740-742 : la coppia sielo : velo (nome) compare nelle due pagine liminari, quella centrale aggiunge bastardelo : belo. Si fa strada così l’ipotesi che Marin ami lavorare su gruppi di trecinque parole-rima, ipotesi che si rafforza nella considerazione delle trafile seguenti, elencate per numero crescente di parole-rima. Serie di tre : omo : domo (‘duomo’) / omo : pomo (pp. 691-692, con omo : pomo già a p. 686) ; sguasso : passo (nome) / passo (nome) : basso (pp. 693-694) ; viuliti : striti / viuliti : miti (pp. 767-768) ; rusignolo : siolo / brolo : rusignolo (pp. 820-821) ; vita : sita / drita : vita (pp. 826-827) ; serie di quattro : primavera : tera / mièra (‘migliaia’) : sera (pp. 684-685) ; musa : pusa (‘posa’) / brusa : fusa (« fa le f. ») (pp. 690-691) ; camina : mantina / scorladina : fantulina (pp. 726-727) ; valisa (‘accarezza’) : inparadisa / sinisa : grisa (pp. 730-731) ; ora (nome) : fora (‘fuori’) / incòra : afiora (pp. 744-745) ; dura (verbo) : paura / arsura : sigura (pp. 766-767) ; Dio : mio / adio : sfinìo (pp. 778-779) ; ciara : amara / cara : rara (pp. 790-791) ; primavera : sera / brusera (‘solleone, afa’) : piera (pp. 793-794) ; stretura : arsura / frescura : dura (verbo) (pp. 793-794) ; salpâ : istà / va : se sfa (pp. 807-808) ; pinsier : roser / cantier : madier (pp. 815-816) ; serie di cinque : sento : vento / vento : stento (agg.) : frumento : firmamento (pp. 717-718) ; contento : momento : convento / vento : lamento (pp. 734-735). 1 Ma ho già accennato a come convenga, còlta una ripresa rimica su poesie contigue, tener d’occhio porzioni di testo più estese. La rima può essere anticipata di qualche pagina : via (avv.) : melodia (p. 783) > vanìa (part.) : restìa / unbrìa : matìa (pp. 785-786) ; fiurìo : Dio (p. 775) > Dio : mio / adio : sfinìo (pp. 778-779) ; frescura : pura (p. 734) > paura : sigura / aventura : verdura (736-737) ; o può essere ripresa qualche pagina dopo : fioca : stioca / boca : stioca (pp. 710-711) > boca : roca (p. 713) ; brame : lame / litàne : catrame (pp. 680681) > loretane : canpane, fiame : fogiame (p. 683) ; note (‘notte’) : vilote / note (‘notte’) : lote lote (‘lente lente’) (pp. 713-714) > rote (‘direzioni’) : note (‘notte’) (p. 716). Ed ecco qualche caso di famiglia dispersa su due o tre pagine vicine ma non contigue : solitàe : istaè (p. 791) > libertàe : istàe (p. 794) > stràe : istàe (p. 796) ; rame (‘rami’) : brame (p. 733)  



























































































































































































































1









  È una rima, ento, che offre numerose riprese : si veda anche alle pp. 704-705, 728-729, 747-748, 788789.  

168 rodolfo zucco > saludâme : rame (il metallo) (p. 736) ; pase : persuase (participio aggettivato) (p. 726) > spiase : tase (p. 729) ; gensianele : stele (p. 789) > vele : stele (p. 791) > osele : stele (p. 793) ; sielo : melo (p. 701) > orteselo : cardelo (p. 703) > sielo : velo (p. 707) ; sentieri : roseri (p. 763) > piteri : pinsieri (p. 766) ; distese : turchese (p. 801) > vanese : sariese (p. 803) ; fogo : logo (p. 738) > fogo : zuogo (p. 740). È una situazione che induce a mettere in discussione due concetti che ho adoperato nel mio saggio di « Stilistica e metrica italiana », laddove per alcune terminazioni di verso riscontravo la « mancanza di corrispondenza rimica » all’interno della poesia di appartenenza o « la corrispondenza strutturale con un altro segmento di diversa vocale tonica entro l’organismo strofico di appartenenza ». Nell’un caso e nell’altro non si dà la rima vera e propria, né i surrogati della rima imperfetta e dell’assonanza. Tuttavia, un segmento terminale che si trova in una delle due situazioni descritte può essere letto come rima d’attesa in relazione a una coppia rimica della poesia successiva : è, per esempio, la situazione di istàe (p. 754) in relazione a istàe : eternitàe (p. 755), di badâli (p. 724) in relazione a vignali : mali (p. 725), di mezudì (p. 754) in relazione a fiurî : dì (p. 755). In un paio di casi – benché non in pagine contigue – si dà il rapporto inverso, per cui l’uscita irrelata si fa leggere come rima d’eco di una serie già incontrata : così cassa (p. 692) si riallaccia a passa : lassa (p. 690), vela (p. 823) a stela : ela (p. 820). Ed è notevole il rapporto rimico tra due terminazioni entrambe irrelate nella poesia di appartenenza : basâ (p. 734) : spetâ (p. 735). Ma ecco che la serie appena citata passa : lassa : cassa delle pp. 690-692 continua con l’altra, già citata anch’essa, in asso alle pp. 693-694. Converrà superare, proseguendo in questa lettura di Dopo la longa istàe, non solo i confini tra poesia e poesia, ma anche quelli tra serie rimiche fonicamente contigue ? Vedo, per fare un solo altro esempio, che alle pp. 776-778 la rima incanta : spanta di El ben che te vogio, trascritta nella sez. 2, fa da ponte tra lanpisanti : canti (Mia tera, colda e negra) e canti : pianti (Amor a la vita, viltà)... Non posso, qui, che sospendere su questo aggetto un discorso da riprendere alla prima occasione.  



















































































UNA CONFEDERAZIONE ADRIATICA Marco Giovanetti

E

ra una bella giornata di settembre del 1908 quando Biagio Marin, assieme al compagno di scuola Umberto, furono portati dal padre di quest’ultimo, il fabbro Michele Cuzzi, alla Scuola Reale Superiore di Pisino. I due ragazzi, che frequentavano il severissimo Staatsgymnasium di Gorizia, erano stati bocciati in quinta classe in latino e greco. Proprio per recuperare quelle materie, Umberto Cuzzi, aveva proposto a Marin di passare alla scuola di Pisino che, a differenza del ginnasio in lingua tedesca di Gorizia, era scuola italiana. Lasciamo per un attimo i ragazzi mentre viaggiano verso la nuova scuola per chiarire un punto. Molte volte si è detto che proprio l’arrivo a Pisino segna il primo incontro di Marin con l’Istria e il mondo slavo, ma il poeta aveva scoperto l’Istria molto prima, ancora bambino. Il padre gestiva l’osteria Tre corone a Grado, e teneva un magazzino di vino istriano che vendeva all’ingrosso, del quale si riforniva personalmente recandosi in Istria con il trabaccolo e portando molte volte con sé il figlio Biagio. Le suggestioni di quei viaggi dell’infanzia saranno così ricche che il Marin adulto dedicherà a quei ricordi, nel 1963, la silloge Elegie istriane e scriverà, dal 1948 in poi, molti articoli su vari giornali tra cui « Il Piccolo », « Messagero Veneto », « Giornale dell’Istria », « Voce Giuliana », solo per citarne alcuni. Dalla lettura di questi articoli risulta come Marin sia stato, fin da giovane, difensore dell’italianità della Venezia Giulia. Il suo patriottismo, che emerge con chiarezza anche nei giudizi sulla Grande Guerra o sul fascismo, aiuta a mettere in luce la sua formazione mazziniana e slataperiana. Da tutta una serie di articoli emerge la volontà di costruirsi una coscienza nazionale. Negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale Marin orienta il suo impegno contro il nazionalismo slavo, mentre negli anni 1958-60 si nota il superamento delle tensioni contingenti in una serie di articoli che preannunciano le Elegie istriane e costituiscono il tentativo di transustanziare il temporale nell’eterno. Da questo percorso emerge il dissidio, sempre presente in Marin, tra due forze opposte, ma per certi versi complementari : la passione che lo porta a rimpiangere i tempi passati nei quali l’italianità delle terre giuliane era realtà, e di conseguenza esce la difesa impavida delle proprie ragioni, la protesta vibrante e l’invettiva contro tutti e tutto. L’altra forza è quella della ragione che lo porta ad una maggiore autocritica, ad una serena ricerca della verità al di là degli interessi di parte e comunque nella considerazione dei problemi degli altri e non solo dei propri diritti. Ma ora ritorniamo a quella giornata settembrina del 1908, ai due ragazzi accompagnati a Pisino. Il landò entra a Pisino e si ferma davanti all’Aquila nera, una trattoria. I viaggiatori non sono lì per mangiare ma per incontrare il primo strano personaggio : Igniazio Cherbetz, che abita sopra l’osteria. Il signor Igniazio Cherbetz è « un gentiluomo alto e magro, un po’ dinoccolato, stempiato, con baffi castani sopra una bocca larga, illuminata da grandi denti radi », 1 ma, soprattutto, ha delle bellissime mani, mani da pianista. Un personaggio dall’aria romantica, definito il genius loci e il padre putativo di tutti gli scolari che venivano da fuori Pisino. Infatti, Igniazio Cherbetz era  























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  Biagio Marin, Immagini e ricordi di Pisino, « Voce Giuliana », 16 ottobre 1959.  



170 marco giovanetti realmente l’amico, il consigliere e il protettore di tutti gli studenti del ginnasio, senza fare distinzione di ceto o di provenienza. Inoltre, era il cuore della Società Operaia e il segretario dell’amministrazione del borgo italiano, amministrazione separata da quella comunale che era in mano agli slavi. Sì, perché la scuola italiana di Pisino viveva in mezzo a enormi difficoltà : sorvegliata a vista dal Governo che cercava ogni pretesto valido per chiuderla, osteggiata dai croati che la consideravano un ostacolo alle loro aspirazioni nazionali, con la conseguente impossibilità d’integrazione tra studenti di diverse etnie. Ma ritorniamo al motivo del viaggio : la scuola. Nel 1900 avviene un fatto importante nella vita del poeta : la partenza per Gorizia. A questo punto noi sappiamo che Marin aveva già cominciato a scrivere versi, prima in lingua italiana e poi, su invito dell’amica Maria Degrassi, i primi versi in dialetto. Ora, per la prima volta il poeta lascia il suo picolo nìo, e si dirige nella terraferma per frequentare il corso preparatorio (lui che a Grado aveva frequentato solamente le prime tre classi dell’elementare) per essere ammesso al ginnasio di lingua tedesca, lo Staatgymnasium. L’arrivo a Gorizia è folgorante. Gorizia offre a Marin tutto quello che non può offrirgli Grado : lunghi viali alberati, carrozze, fiori, vita sociale. Ma se da un lato il rapporto con la natura, con la città, l’assimilazione di un paesaggio molto diverso da Grado, è vivo e perfetto, dall’altro lato il rapporto con la scuola, per Marin studente, risulta duro e frustrante. Il poeta prende subito le distanze da una scuola dove non si faceva altro che tradurre e imparare a memoria vocaboli e verbi greci, latini, italiani, tedeschi, dove restava poco spazio all’individualità. In questo ambiente scolastico, il poeta viene a contatto con la letteratura tedesca, e soprattutto con autori come Goethe, Novalis, Heine, Lenau, poeti che Marin e i suoi compagni di scuola sono costretti a imparare a memoria. Scopre anche i poeti italiani : in terza il Carducci di Davanti San Guido, poi il Pascoli di La mia sera. A Gorizia Marin conosce i primi fervori politici, la fede mazziniana, partecipa agli incontri del Circolo della Cultura, prende parte all’esperienza del settimanale « La Libertà ». In questa Gorizia, divisa, come dice Marin, in tre popoli : tedeschi, italiani e sloveni, il poeta conosce persone importanti per la sua formazione e storia futura : Ervino Pocar, Emilio Mulitsch, Nino Paternolli, Isaia Ascoli e molti altri. Fra questi fondamentale fu il fugace incontro con Carlo Michelstaedter. Fondamentale soprattutto per la riflessione e l’assidua lettura che, di Michelstaedter, Marin farà negli anni seguenti al 1919, quando saranno i versi, la poesia del filosofo goriziano più che i suoi scritti filosofici, a renderglielo « caro e sacro », 1 influenzando la sua concezione dell’esistenza. Ma negli anni del ginnasio Marin non comprende l’inquietudine e il senso di nausea per la vita che uscivano dalle pagine di Michelstaedter, perché ancora lontano dallo spirito del goriziano, travolto com’è dalla « ricca vita dei sensi ». 2 Sostanzialmente, possiamo affermare che la figura del filosofo goriziano non influisce, in questo periodo, sui versi e sul pensiero del poeta gradese. Ma già da questo primo periodo di lontananza Marin avverte quella nostalgia per l’isola che lo accompagnerà in tutti i suoi spostamenti. Questo sentimento si fa più vivo quando ritrova a Gorizia i suoi amici gradesi Vigilio Degrassi e Bepi Marchesini :  































Eravamo ragazzi insieme, quasi coetanei con Vigilio : insieme eravamo andati agli studi a Gorizia, e, ad un certo momento, ci si era trovati a pensione presso la stessa famiglia, una  

1

  Idem, Ricordo di Carlo Michelstaedter, « Inediti triestini », xxxii, 1956.   Idem, Ricordo di Carlo Michelstaedter, « Studi goriziani », xxxii, 1962.

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una confederazione adriatica

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famiglia di gradesi trasferitasi a Gorizia, i Tarlai. […] Con noi era anche Bepi Marchesini. […] I nostri rapporti erano di consanguinei, solo perché eravamo gradesi : Isolani, in terraferma ci sentivamo una sola carne, un solo spirito ; e durante il nostro tempo libero, d’altro non si discorreva che di Grado. 1  





E questa nostalgia sarà uno dei temi dominanti in Fiuri de tapo, soprattutto nelle liriche scritte da Firenze. Viene respinto agli esami e sarà costretto a passare tre anni all’istituto di Pisino. Dal rumore di una città come Gorizia il poeta passa ai silenzi dell’Istria. Vive in un borgo, quello di Pisino, abitato da duemila anime, milleduecento croati e ottocento italiani. Qui il poeta percepisce « la suggestione di quei grandi silenzi, di quelle grandi lontananze che non si misuravano a chilometri, ma a secoli di età », 2 avverte la dimensione nostalgica di Grado e degli anni passati tra gente amata ; riflette e delinea i temi della sua poesia. Nella scuola Marin entrò con entusiasmo. Ancora vivo era il ricordo dello Staats­ gymnasium di Gorizia :  









un edificio da convento gesuitico del ’700 : un’atmosfera così austera da rasentare la durezza ; un corpo insegnante costituito prevalentemente da tedeschi e slavi e qualche raro italiano. Lingua d’insegnamento, la tedesca fin dalla prima classe, e tedesco era lo spirito che quell’insegnamento governava. Enorme la distanza tra gli scolari e gli insegnanti. 3  





È chiara la sorpresa di ritrovarsi ora in un edificio nuovo, luminoso, con corridoi larghi, aule ampie, palestra enorme : il buio opprimente del ginnasio goriziano spazzato via dalla luce della scuola di Pisino. E non solo l’edificio, con il suo orto botanico e il suo anfiteatro, garantivano questo ritorno alla luce, ma anche il corpo insegnanti, composto prevalentemente da giovani cordiali e aperti, una sorta di fratelli maggiori che parlavano italiano. Certo, tutto non poteva essere idilliaco, e il direttore dell’Istituto, il trentino Pio Della Piccola, lo mise subito in chiaro nel suo discorso d’inizio anno : era proibito allontanarsi dal paesino, proibito fumare, proibito frequentare locali pubblici, proibito uscire la sera, il regolamento fissava come limite alle uscite il suono dell’Ave Maria e, come ricorda sarcasticamente lo stesso Marin, « l’Ave Maria suonava che s’era ancora a scuola ». 4 Questi divieti misero subito in difficoltà il carattere ribelle del giovane Biagio, incline a trasgredire alle proibizioni. Appena cominciata la scuola fu subito richiamato per aver commemorato il venti settembre seduto sulle spalle del tarchiato compagno di studi chersino Piero Duncovich. Il viaggio diventa spunto per considerazioni storiche e sociali.  









Una sera a Capodistria, per assistere a uno spettacolo di Goldoni organizzato dal console italiano, diventa occasione per ripercorrere la storia della città, per rivendicare, ancora una volta, un millennio di storia veneziana, di italianità, per celebrare il commediografo veneziano in una città dal nome Koper appartenente alla Repubblica Slovena. Ma la vista degli slavi diventa occasione per una riflessione più profonda della storia e dei rapporti tra i popoli, e, soprattutto, dell’arte vera conciliatrice tra le genti, arte come celebrazione della libertà per i popoli.

Nel 1963 Marin indica nel Cristianesimo ciò che può effettivamente affratellare Italiani e Slavi e dimostra quanto fosse lontano all’epoca il suo animo da ideologie nazionalistiche. 1

  Idem, Variazioni gradesi, « Iniziativa isontina », ix, 1967.   Idem, Amore di terra lontana [inedito datato 16 aprile 1983], cit. in Anna De Simone, L’isola Marin. Biografia di un poeta, Padova, Liviana, 1992, p. 22. 3   Idem, Il ginnasio di Pisino, « Giornale dell’Istria », 15 aprile 1951. 4   Idem, Immagini e ricordi di Pisino, cit.  



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marco giovanetti

Gli slavi vivevano commisti con noi, erano cristiani cattolici come noi, e quindi, per l’esigenza religiosa, nostri fratelli : ma cionondimeno, tra noi si era aperto un abisso invalicabile. L’unità cristiana soltanto avrebbe potuto colmarlo […]. Ebbene, proporre esigenze universalistiche, nel momento in cui si celebrava l’avvento delle nazioni, la formazione delle coscienze nazionali, può apparire mancanza di senso storico, e io me ne rendo conto. Ma resta vero, prima e dopo, che di fronte all’esorbitanza del principio nazionale, che facilmente degenera in nazionalistico, vale a dire, in idolatria, vale in eterno l’esigenza di ciò che ci accomuna con tutti gli altri uomini. 1  



Del resto, Biagio Marin, si dimostra sempre convinto della possibilità di comunità fra genti di diversa lingua e cultura come scrive in questa lettera a Mirko Deanovic :  

Io ero e sono italiano : ma l’esperienza di una coesistenza con gli slavi, sotto gli auspici d’una legge che ci era imposta dall’alto, e la reale possibilità di quella convivenza sono rimaste in me vive. Abbiamo detto tutti e due in questi giorni : siamo dei « Mitteleuropäer » : io italiano e tu croato, ma pur tutti e due con l’abito di una civiltà che rendeva possibile la nostra convivenza. Che era sempre drammatica, ma comunque possibile. E incontrandoci, noi relitti d’un mondo già tramontato, noi che pur abbiamo combattuto per abbatterli, ci siamo riconosciuti nell’intonazione che ci è venuta dall’essere vissuti in quell’ambito. E sono passati gli anni, i decenni, mezzo secolo dal 1918, e noi siamo stati contenti di trovare in noi un ponte che ci congiungeva, una realtà ancora viva di meditazione. E vedi, la diversità nazionale, che è pur grave ostacolo, e direi quasi assoluto, non ha impedito che noi ci sentissimo concittadini in un mondo di valori che non nega la nostra persona nazionale, ma può assortirla e quasi transustanziarla in una superiore realtà comune. 2  











Queste riflessioni lo porteranno ad augurarsi la nascita di una federazione adriatica, con una riflessione precisa sulle due sponde dell’Adriatico, sulla necessità della ricerca di una loro unità, di un affratellamento delle stirpi, sul valore della cultura in questo processo. Si pensi alle parole di Marin in un articolo del 1968 su « Il Piccolo » intitolato Ritorno a Rovigno :  





Ci divide la dolorosa perdita per noi, delle città istriane, quelle a mare ; ma già ci unisce lo scambio vivace delle merci, di certi importanti interessi, e la necessità degli scambi culturali, che soli possono avviarci a un europeismo comune. L’internazionalità predicateci per più di un secolo dai socialisti premetteva le nozioni : ora le nazioni si sono raccolte e formate ; ed è ormai l’ora di quei rispettosi e liberi rapporti, che costituiscono la dignità di tutti. 3  







Del resto, come aveva detto in precedenza, si può fare « solo poesia dell’Istria ». 4  

1





  Idem, Due piccole voci d’Istria, « Voce Giuliana », 16 febbraio 1963.   Lettera del 30 ottobre 1972 di Marin a Mirko Deanovic, a Zagabria, pubblicata in Mladen Machiedo, Problemi di interpretazione e di traduzione della poesia di Biagio Marin, « Studi Mariniani », a. v, 4-5, 1996, pp. 49-67 : 64. 3   Biagio Marin, Ritorno a Rovigno, « Il Piccolo », 7 agosto 1968. 4   Idem, Nostalgia d’Istria, « Voce Giuliana », 1 agosto 1958.  



2















MARIN (E SLATAPER), QUEL GUARDARE I LUOGHI FRA STORIA ED EMOZIONI. IL PUNTO DI VISTA ONTOLOGICO Fabio Russo 1.

M

i riaggancio a quanto avevo osservato tempo fa all’Ateneo Veneto sul modo di guardare di Marin, che rientrava nel tema più ampio del Convegno allora su Marin e Venezia (la sua ‘veneticità’, notavo), un guardare a luoghi e paesaggi precisi che si rivelano paesaggi dell’anima (un guardare « sonoro » volendo prendere l’espressione a Rodolfo Zucco detta qui, e direi io ‘infervorato’). Due termini, lo Sguardo e l’Anima, di ben ampio spessore semantico, l’uno che non può trascurare l’idea attiva in Rainer Maria Rilke di Storia del paesaggio e di Worpswede quale « storia della pittura di paesaggio » fra uomo e natura, l’altro che può trarre qualche indicazione dal pur diverso significato presente nel Sei-Settecento in Antonio Conti con quelle funzioni dell’anima-mente sugli oggetti, i fantasmi, le cose rivissute prospettate secondo il suo Trattato dell’anima umana. Sono paesaggi dell’anima, anche se con una propria oggettività reale e storica, sentiti con la loro anima, e con quella di Marin, delineati in verso, lo struggente giro d’occhio trasvolante e puntuale in Elegie istriane, ma ancor più tratteggiati in prosa, le pagine trepide di Gabbiano reale, la documentazione meticolosa insistita di Paesaggi. Storia e Memoria, quella umanamente mossa pur sempre severa di Autoritratti e impegno civile, frutto non meno di tale guardare. Per questo egli li osserva intensamente, e soffre o gioisce con loro, nella dinamica poi della memoria che (o quando) fa il gioco della storia, e integra come una sorta di collegamento, complice il pensiero volto a immaginare, situazioni storiche fra loro distanti. Non diversamente certi scorci emotivi in verso, non pochi, che mostrano inquadrature bozzettistiche a prima vista, quasi piccole scene aderenti al vero (la barca, il borgo), che non sono bozzetti né scene realistiche descrittive, bensì squarci balenanti o segni simbolici mai pacifici, come la bellissima espressione « le stele le lanpisa », voce di un’intermittenza dell’anima, espressione impareggiabile di un’increspatura dell’esistere e nell’esistere stesso, nostro come delle Cose. Drammatico Marin, anche quando sembra distendersi con il canto in un’armonia frutto della sua oralità diremmo scritta, che si scrive man mano che si canta e si ricanta, un’armonia creata persino a forza, per l’impeto irriducibile dell’accento di lui Marin in grado di dare un’organicità di toni monodicamente variati come in una ‘fuga’ musicale protratta senza posa (un gioco del riprendersi di un motivo continuamente elaborato, secondo un meccanismo tecnico che può avvicinarsi a Petrarca), di ritmi creativi aperti all’esultanza d’amore per la vita, per il suo Dio, per quel « sufio » che lo fa « svolâ » fra i cherubini come Meister Eckhart, emblematicamente raffigurato nei versi del componimento omonimo. Ed è un trasformarsi estatico che, nel continuo muoversi dei momenti e delle cose riprese dai sensi, si fissa nel culmine assoluto dell’Istante o dell’Onda, quello della Morte (soglia dell’Eterno), questo quanto quelle alius et idem, l’Attimo del Canto stesso, ‘continuo’ come la Vita imperativa non con 



















174 fabio russo tingente. Indifferenziata nel suo intrinseco valore, necessariamente molteplice nel suo manifestarsi (come l’Essere nell’Esistere, che perde di contingenza quando attratto dal Divino, quando nobilitato in quel cielo dei cherubini o nel comportamento eroico di Falco che non ‘subisce’ la morte). Vita autentica in quanto immaginata, « la vita xe imaginagia », e vista come un ‘volto’. Non la vita, le cose, ma la loro ‘immagine’, il loro ‘volto’ appunto (filtra inavvertito un fremito di intellettualismo in lui ?, lontano dalla razionalità intellettualistica). Ma, fuori dal tono artistico, la drammaticità scissa permane e resiste senza compensazione, senza un conforto edificante di comportamento più degno. Presenti in filigrana a un immediato giro di ricognizione critica le posizioni di Claudio Magris su un Marin che ha scritto troppo, di Marziano Guglielminetti su Marin « questo straordinario maestro dell’insistenza e della ripetizione », 1 di Massimo Cacciari sulla forte tensione interiore di Marin cadenzata in musicalità, « E la musica è misura, gli infiniti possibili della Misura » (nello spirito del da lui citato verso « La misura governi la zornada »), è « maschera » come l’« autentica poesia dialettale », e « Faticoso lavoro da fabbri » la sua poesia, « antica poesia, Provenza dello spirito », « ricca di molteplici echi, poesia coltissima », 2 una poesia avvertita ora, secondo le sue dirette parole sentite in sintonia con lui all’Ateneo Veneto, come qualcosa « che non può fermarsi » nel suo « narrare continuo ». Narrare ‘continuo’ concomitante con il continuum di uno specifico guardare e quindi scrivere, teso a disporsi oltre il quotidiano proprio nel canto, quale voce dell’Eterno, palpito che ci fa sentire Dio, o mettere in contatto con Lui. Un tipo e modo di guardare individuabile da caratteristici procedimenti metaforici, cui mi richiamo tacitamente per essermene occupato in altra volta. 3 Questo continuum ha l’aria di valere come il tratto preminente di Marin poeta, ma pure saggista storico, sociale, politico, etico, e in primis pensatore sempre e unitario, in quanto animato anche in tale ambito da spirito creativo, la virtù e il dramma dei ‘creativi’. Il continuum non prolisso ripetitivo dunque, ma opposto al ‘quotidiano’ o al contingente, anzi ‘essenziale’ nei segnali senza fine dell’Attimo privo di estensione temporale e dell’Onda lungi dall’apparire frammentata e dispersa, nelle approssimazioni simboliche dell’Essere, dell’Assoluto (Attimo e Onda oggetto di due miei contributi).  



















































2. Egli scruta i paesaggi ‘feriti’ di Grado, ossia danneggiati dai lavori di urbanizzazione per cui Grado non è più quella di un tempo, il disagio di Gorizia « mutilata » perché la terra sconvolta « ha pure un’anima », 4 l’inquietudine di e per una Trieste forse non più capace di attirare e amalgamare le genti, lo stato ambientale di certi luoghi fiutati attraverso quel mirino storico-sociale e psicologico, proprio quel suo guardare a Carlotta del Belgio in un ambiente quale paesaggio segreto di delusioni. Un guardare mai disteso, anche quando aperto sull’ampiezza del Golfo di Trieste verso la pianura friulana e più in là verso Venezia e oltre. Questo guardare si lega allo spirito analizzatore dei suoi profili socio-politici in una linea di complementarietà di soggetti (Autori 









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  Marziano Guglielminetti, Misticismo e poesia, in Poesia e fortuna di Biagio Marin, a cura di Edda Serra, Gorizia, Provincia di Gorizia, 1982, pp. 200-204. 2   Massimo Cacciari, La misura di Marin, in Leggere Poesia : Biagio Marin (il contributo si può ora leggere anche raccolto in Biagio Marin, Poesie, a cura di Claudio Magris ed Edda Serra, Milano, Garzanti, 1991, pp. 498-505). 3   Fabio Russo, Metafore del quotidiano e del continuo nella scrittura di Marin, in Il dialetto come lingua della poesia. Atti del Convegno internazionale, Trieste 28-29 settembre 2005, a cura di Fulvio Senardi, Trieste, Adriatica, 2007, pp. 139-149. 4   Biagio Marin, Gorizia, Venezia, Le Tre Venezie, 1940, p. 4 (poi Gorizia la città mutilata, Gorizia, Comune di Gorizia, 1956).  

il punto di vista ontologico 175 tratti e impegno civile, molte lettere come la corrispondenza con Giorgio Voghera, con Arturo Carlo Jemolo, con altri ancora). Ma i paesaggi sono pure ripetuti in momenti diversi, fra poesia e prosa, fra opera e opera, fra canto e cronaca sullo stesso motivo, Grado, Trieste, Gorizia, e Pisino guardata in modo retrospettivo, con passaggi dunque di una sorta di intercambiabilità (come per Pirandello in misura maggiore rileva Giovanni Macchia). I suoi paesaggi !, frutto di tanto amorosa riflessione, emblematici specie per il modo di procedere di lui dalla ‘circostanza’ specifica del momento alla storia più generale, lungo tali circostanze da intendere nella loro ‘anima’ (Rilke parlerebbe di « esperienze »), quelli di Grado, di Gorizia, di Trieste. Valga per tutti questo luogo caro colto anche per frasi sentenziose, da lui intensamente guardato, carezzato, nel saggio Gorizia (1957) :  







Anche quando vengono, gli uomini portano i propri occhi, che non sempre possono vedere : portano cuori che non sempre si aprono. E l’anima della nostra terra, come di tutte le terre degli uomini, è il frutto di un lungo itinerario di pena e d’amore. Gorizia […] s’è formata nel medio Evo intorno a un castello posto su un colle capace di sorvegliare le strade che salivano le vallate dell’Isonzo e del Vipacco […]. Era sul bivio dove la vallata dell’Isonzo s’incontra con quella del Vipacco. A lei da secoli scendevano quei valligiani. E la città viveva di quel piccolo commercio. Oggi [dopo la seconda Guerra Mondiale] le strade sono tutte sbarrate. 1  



Notazioni ricorrenti in tempi diversi si susseguono, e sempre batte la lingua dove il dente duole, lo spazio psicologico-esistenziale di una cultura necessaria all’anima nei simboli propri di Venezia, e per questi dell’unità ambientale veneta, di quella ‘veneticità’ complessiva, dei Veneti di Terraferma e di Isole lagunari sparse. Questo è non meno un leit-motiv di metodo osservativo, quel suo procedere storico-rievocante per fasi analitiche in successione, spesso lunga ma pure improvvisa breve, intercalatasi in un discorso diverso più generale (Trieste, quando egli parla di Grado o di Aquileia). E fa la storia dei luoghi, racconta la vicenda di Grado una volta, come si è modificata, le traversie che ha incontrato, Grado com’era un tempo e Arrivare a Grado e Il banco dei trataûri, dando particolari con ampio respiro in Gabbiano reale, 2 e ancora cronache e quadri ambientali pregevoli, Grado sul golfo di Trieste e Grado e Itinerario aquileiese, ricorrenti in Paesaggi, Storia e Memoria. 3 Non solo Grado, ma altri luoghi mirati, fra cui Trieste :  





Se tu la guardi dall’alto del Belvedere dell’Obelisco, sul ciglio dell’Altipiano, ti vedi come è tutta aperta verso il mare, tutta protesa al mare : e di là del golfo è Venezia, e con Venezia l’Italia ; e di là di tutto, l’Adriatico è il Mediterraneo, che ha un suo genio che è stato espresso in modo eminente e per molti secoli ancora dall’ellenismo e dalla romanità, e dopo, dal Rinascimento italiano. Sono ancora i popoli latini la realtà umana del Mediterraneo. Perciò Trieste è latina, italiana, mediterranea. 4  





Questo suo guardare così, ampio disteso (intenso scisso quello di Saba), si ritrova pure con precise puntualizzazioni sempre ‘ariose’ nelle agili Strade e Rive di Trieste, come lo scorcio domestico e insieme storico, frutto di sguardo a distanza, su Slataper e la sua famiglia che lo aveva ospitato per un breve periodo nella propria casa allora di via Fabio Severo presso l’Università, che gli offre lo spunto per ricordare le lontane battaglie a favore dell’Università italiana a Trieste e il suo discusso incontro con il 1

  Idem, Paesaggi, storia e memoria. Pagine rare e inedite dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi mariniani », supplemento al vol. xii, Pisa-Roma, Serra, 2008, pp. 157-159. 2   Idem, Gabbiano reale, a cura di Elvio Guagnini, Gorizia, Editrice Goriziana, 1991, pp. 19-31. 3 4   Idem, Paesaggi, storia e memoria, cit., pp. 194-196, 202-212.   Ivi, pp. 219-220.  



176 fabio russo Rettore dell’Università di Vienna. E vive d’altra parte nei saggi L’agonia degli italiani (1948)123-125, Il ritorno di un eroe [Giuliano Slataper] (1948), Trieste e Giosuè Carducci (1957), La marginalità di Trieste (1970) appartenenti a Autoritratti e impegno civile. 1 E poi Grado, di nuovo e più volte ripresa, scorciata, studiata. Si direbbe carezzata, come in questo breve quadro : l’ambiente suggestivo, « Terra bellissima e varia è la regione del Friuli e quella di Trieste, alle porte orientali d’Italia », 2 lo scenario delle Alpi, gli altipiani del Carso e del Ternova « e sopra di essi la cavalcata delle Alpi Giulie », ancora per quinte degradanti « Fulvo come un vecchio leone, il Carso scende verso la pianura […] e verso il mare », indi l’arrivo da Aquileia a Grado, che compare all’improvviso oltre il sipario di due boschetti di pini a ombrello, e « i tuoi occhi s’incantano alla meraviglia dello spettacolo : il mare ! Ma non il mare aperto che vedrai vuoto […] : questa è solo la laguna, con gli specchi delle sue acque calme […] ». Allora, un’altra volta per fasi, Grado proprio, la sua storia accennata appena o delineata a tratti (un po’ come quando Pratolini ama inserire nelle sue narrazioni di romanzo la storia di Firenze), « Al principio del secolo era solo una piccola borgata di pescatori », il viaggio per arrivarci senza una strada, nell’isolamento fra i meandri navigabili della laguna, e arrivati l’ampia vista intorno, « bello era il mondo che si vedeva in giro », la pianura del Friuli, la « serenità maestosa » delle Alpi, e a oriente il Carso con il sangue dei suoi caduti, e finalmente Trieste, « in fondo al suo golfo, arrampicata sui suoi promontori, sotto il gran ciglione del Carso. Nel sole meridiano, era tutta rosea, scintillante da mille finestre ». Ma non basta, riprende lo sguardo perlustratore, secondo un ordine anche di orientazione geografica, però intimamente animato. Ecco, « Verso mezzodì, da l’alto del Monte Nevoso, dai Vena, dai Caldiera, dal Monte Maggiore, calava melodiosamente in mare l’Istria. Si accorgevano a occhio nudo e Capodistria e Isola e Pirano e la lanterna di Salvore. E poi mare aperto da mezzodì a ponente […], e lontano […] le Dolomiti ». 3 E di nuovo, insistita, a più riprese, la storia di Grado attraverso nuclei diremmo di un lungo processo formativo, di cui l’ampio passo seguente è appena uno (e non esaurisce con gli altri citati qui il ricco quadro di Grado) :  



















































La piccola cittadina è inondata di luce, che le viene dai grandi specchi e del mare aperto e della laguna. In questa gloria di luce, stentava una piccola gente, relitto dimenticato di un grande dramma storico. Nei primi secoli dell’età nostra, Grado, non era che uno scalo (“gradus” lo dicevano i romani) di merci, uno dei tre porti esterni di Aquileia. Forse era anche stazione della flotta di guerra romana. L’isola era certamente molto più estesa verso il mare. Ancora pochi anni or sono si rinvennero a due metri di profondità, cippi e monumenti funerari romani. Al fenomeno del bradisismo si deve l’abbassamento continuo del suolo, e dove ora si stendono i grandi fondali lagunari, al tempo dei romani c’erano campagne lussureggianti e sorgevano ville. Quando il duca longobardo Lupo, intorno al 660 assale Grado, vi arriva, come ha scritto Paolo Diacono, “per stratam” e con dei cavalli. E Paolo Diacono ci racconta che sull’isola c’erano boschi dove i signori d’Aquileia venivano alla caccia di cervi. Lentamente la terra s’è abbassata, il mare l’ha invasa e solo alcune isole formate da sabbie glaciali, sono rimaste emerse. Così anche il lido di Grado venne ridotto a tale stato, e l’Austria verso la fine dell’800 dovette costruire una diga, perché il mare non finisse di spazzare via gli ultimi miserandi resti di quella che era stata una grande città, ricca di chiese e di santuari. 4  

Storia, vicende alterne di popolazioni quanto di territorio fisico e di appartenenza 1

  Idem, Autoritratti e impegno civile. Scritti rari e inediti dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi mariniani », supplemento al vol. xi, Pisa-Roma, Serra, 2007, pp. 123-125, 137-139, 199-203, 229-231. 2   Idem, Paesaggi, storia e memoria, cit., p. 202. 3 4   Ivi, pp. 202-203.   Ivi, p. 203.  



il punto di vista ontologico 177 giurisdizionale ecclesiastica. L’informazione si colora di commento, nel suo modo di guardare pensoso :  

Quando i popoli germanici calarono dai paesi orientali, l’Impero romano era sfinito e una nuova storia incominciava per tutte le nostre terre. Nel 452, Attila prende facilmente Aquileia. In quell’occasione, molti suoi cittadini si rifugiano a Grado, e tra essi, almeno provvisoriamente, il Vescovo che, nello sfacelo dello Stato, esercita una grande influenza sui cittadini. Ma Aquileia non era stata completamente distrutta, e molti degli esuli ritornarono nelle loro case, tanto più che Attila non si ferma e continua con il suo esercito la sua marcia verso il sud. Ma, quando nel 568 calarono i Longobardi, e sulla terra conquistata, s’insediarono, il Vescovo d’Aquileia Paolino si rifugia a Grado, trasportandovi le reliquie dei Santi e i tesori della Chiesa.

E commenta proprio il Marin, quasi una colonna sonora, di seguito qui, fuori campo (ma sommessa, ben dentro il quadro), col fatto che Paolino Naturalmente restava sempre “episcopus Sanctae aquilejensis ecclesiae”, e alla sua giurisdizione non intendeva rinunciare. Nascerà di qui la grande diatriba tra Aquileja longobarda e Grado veneto-romana, tra i Veneti marittimi, che ancora dipendono da Bisanzio, e, direttamente dall’Esarcato di Ravenna, e il nuovo Stato dei Longobardi. E la questione della legittima sede dell’episcopato, che col tempo sarà chiamato patriarcato, arrovella gli uni e gli altri. Ne nasce la divisione (die Spaltung) del patriarcato per cui da un certo momento avremo due patriarchi : quello d’Aquileia e quello di Grado, e, tutti e due, riconosciuti legittimi dai Papi di Roma.  

Su quest’onda tumultuosa e procellosa della storia (per usare un’espressione di Gaetano Trombatore), della storia qui considerata, s’inserisce pure l’animo/sguardo bilanciato scisso di un Marin, che in Venezia vede il caput della ‘veneticità’ certo, ma tributario di Grado già caput della sua ‘graisanità’, e a detrimento di questo, complice Aquileia polo perdente e non più ragione di vita per cui l’antica Grao era il gradus di Aquileia, quando poi s’intrecciano conflittualmente cultura latina e cultura longobarda in contrasto su piano religioso e politico. Allora guarda e spiega anche da un lato psicologico (non solo suo) il mutare complicato delle vicende Solo nel 1420 Venezia porrà fine alla signoria temporale dei Patriarchi aquileiesi e, poco dopo il 1451, anche il patriarcato di Grado sarà soppresso per dare luogo a quello veneziano. Comunque a Grado nel 571 viene eletto vescovo il greco Elia, grande organizzatore, costruttore, e ricostruttore dei monumenti paleo-cristiani, che onorano Grado. Va notato che Elia sulle iscrizioni musive che si trovano nel Duomo di Grado, si dice “episcopus sanctae aquilejensis ecclesiae”. E intanto “episcopus” e non patriarca, e della chiesa aquileiese e non gradese. Grado egli stesso l’aveva battezzata “Nova Aquileja” e già questo nome è indicativo. Elia, come i suoi immediati predecessori, era scismatico : si vuole che egli avesse fatto approvare, in un sinodo, da tutti i suoi suffraganei, il trasporto della sede vescovile da Aquileia a Grado, e che la Santa Sede abbia sancito quella trasposizione. Questo fatto, naturalmente doveva irritare i Longobardi, che fecero eleggere ad Aquileia un vescovo, anche questo scismatico. Più tardi, l’uno e l’altro dovevano ritornare in seno alla chiesa romana. Ma quante devastazioni e quanti incendi costò a Grado questo dissidio. Una lotta di secoli. 1  



E soffre intimamente, ma in modo razionale obiettivo, per questo excursus che ci dà, fatto di dolori, lotte nelle quali egli ‘guarda’ tutto il travaglio dell’anima di Grado, sentita sua propria. Grado già ‘domina’, che vede subentrare per la ‘figlia’ il primato, quello stato di caput tenuto un tempo, diremmo il suo « grido » (quello di Cimabue ceduto a Giotto). Allora la ferma diagnosi su una situazione ormai inevitabile, una fortuna fattasi ‘oscura’, di cui darsi una ragione, lui l’anima di Grado :  





1

  Ivi, p. 204.

178

fabio russo

Ma Grado era troppo marginale, non solo per Ravenna, ma anche per Venezia : la città fu lentamente abbandonata da tutti i più ricchi, e decadde e s’impoverì : il mare poté rompere gli argini e ingoiare viva via buona parte dell’isola […]. Il patriarca stesso, dagli, dagli, finì per rifugiarsi a Venezia, da dove non doveva più ritornare. La grande avventura, la modesta funzione di Grado durante i primi secoli della formazione dello Stato Veneziano, era ormai da tanto finita.  



Oscurata Grado, nello stesso casato suo dei Gradenigo, la famiglia antica trasferitasi poi a Venezia, che si potrebbe intendere come la ‘nuova Grado’, questa già chiamata la « Nova Aquileja » dal vescovo Elia. E proprio nel trasferirsi della sua classe dirigente a Venezia il suo dissanguarsi, quasi una beffa. Lunga vicenda, se allora il patriarca Fortunato, « un triestino amico e partigiano di Carlo Magno », nel IX secolo già, scriveva nel testamento che il mare tempestoso lambiva i corpi di 42 martiri sepolti nella chiesa di Sant’Agata, per cui aveva provveduto ad alzare le fondamenta, mentre di quest’opera di consolidamento come della stessa chiesa non rimane più traccia. « Che cosa dunque è rimasto ? », ribadisce tenace lui, passando alla disamina del materiale documentario architettonico quanto epigrafico della grande Sant’Eufemia, della piccola Santa Maria delle Grazie, del Battistero. « Questi tre monumenti paleo-cristiani costituiscono il titolo di nobiltà di Grado e sono sufficienti a provare la sua funzione e la sua dignità tra lo sfacelo dell’ordine romano e l’avvento dello Stato Veneziano. Grado rimase di fronte al Friuli germanico, sempre latina. La sua posizione geografica doveva votarla alla rovina ». 1 Le sfortune della storia, i vincenti e coloro che emergono di meno, come tutti i perdenti (Manzoni, e le ingiustizie, le sopraffazioni della storia, in particolare nel conflitto Franchi-Longobardi su suolo italico). Questa storicizzazione lunga e insistita, a variate riprese, dai modi meticolosi mai pedanti o eccessivi, ha una sua peculiare limpidezza, un respiro che abbiamo visto ‘arioso’ dove alita quella Grazia che stiamo avvertendo anche in tali passi indicativi. Mostra, lunga o breve che sia, lo slancio creativo di Marin, dell’artista che dirige il suo singolare sguardo alla realtà della Storia, alla vicenda spesso misteriosa dell’uomo nel suo assetto politico e sociale. I passi esaminati, nonostante l’ampiezza estesa del procedere analitico espositivo, sono sempre il guardare di lui, e qui contano come tali, fuori da un aspetto di organicità d’impianto sua e di sintesi rappresentativa da parte nostra del suo pensiero. Così siffatto sguardo, il protagonista qui della nostra angolatura di indagine, continua ad essere attivo anche quando smette, magari in apparenza, di indirizzarsi in senso storico, e si volge piuttosto al lato recente di Grado, aperta al turismo e ai bagni. Non manca di rivelare sempre la sua identità e coerenza. Si veda l’attento giro di osservazione, parte del quadro storico ora modificato :  





















Bagni d’aria, di sole, di acqua marina, una ricca possibilità di rigenerare gli organismi e anche le anime. E’ incredibile la lontananza che nasce negli animi delle persone, che qui convengono da tutta l’Europa, tra il presente solare e la vita dalla quale provengono. Si spogliano non solo degli abiti, ma di tutti i crucci della vita cittadina. […] : nuoto in piscina e in mare, la voga, la vela, lo sci acquatico, i motoscafi che solcano il golfo, e in poco tempo lo possono attraversare, e arrivare a Pirano, a Isola, a Capodistria, che sono ora in Jugoslavia [Ex], o a Trieste, la città fascinosa musicata sui suoi colli, con Muggia, la cittadina veneta da un lato, e Miramare, il Castello di Massimiliano d’Austria e Imperatore avventuroso del Messico, da l’altra. E ai fianchi del lido gradese altri lidi, anche ampi e boschivi : e alle spalle la laguna con le sue tante isole, solcata da canali e canaletti. A oriente di Grado, il Santuario di Barbana […]. 2  





1

  Ivi, p. 207.

2

  Ivi, pp. 207-208.

il punto di vista ontologico

179

Motivi che ci sembra di avere già sentito, sì, ma variati, non identici. Visti con gli occhi di un pensiero dal respiro creativo che fissa i luoghi, Trieste « la città fascinosa musicata sui suoi colli », Gorizia « la bellissima », il Carso « fulvo come un vecchio leone », poi « la serenità maestosa » delle Alpi, e li personifica di un loro movimento come in un vasto quadro gli altipiani del Carso e del Ternova « e sopra di essi la cavalcata delle Alpi Giulie », o ancora l’animarsi per quinte degradanti per cui « il Carso scende verso la pianura […] e verso il mare », ancora « da l’alto del Monte Nevoso, dai Vena, dai Caldiera, dal Monte Maggiore, calava melodiosamente in mare l’Istria », analogamente l’immagine di Trieste « in fondo al suo golfo, arrampicata sui suoi promontori ». Con questi occhi è visto il luogo suggestivo di Miramare, con il Castello sfortunato per Massimiliano e Carlotta, costruito invano come nido d’amore, e trapunto di memorie inquiete, tragiche. Ed è finemente colto, in altro scritto, il fondo psicologico di Carlotta del Belgio, il suo dramma segreto, in sé, il triste ménage politico di lei, e nella presa di coscienza degli Altri, in Marin ‘altro’ da lei e in noi a nostra volta compartecipi di tale intimo dissidio, tale da dare lui una paradigmatica presa di coscienza al luogo in un’increspatura di esistenza trafitta. 1 Di un luogo, o personaggio, visto dunque in movimento, mostra i primordi di cui non è rimasto nulla o solo qualche traccia da capire in una fisionomia cambiata. Da intendere in una storia ‘continua’, quelle storie di Grado prospettate da angoli visuali diversi in Gabbiano reale, da angolature continue ricorrenti in Paesaggi, Storia e Memoria. Questo continuum di ripercorrimento appassionato mostra la ricerca delle origini, delle radici nascoste, quel frutto che dànno ora, visibile al modo del ‘fenomeno’ attuale, che ha però la sua ragione nel ‘germe lontano’. Vita in tormento ancor più per il maestro ed emblema Slataper, con il suo Carso nell’iniziale aprirsi simile a un grido (è più di una tranquilla suggestiva ipotesi al condizionale), nello svolgersi vicino alla preghiera che sanguina, nell’interrogativo pressante, come è possibile vivere se uno accanto muore ?, nel puntare sullo scontro poi di vita tra natura e città, quello Slataper fatto oggetto di appassionata riflessione di Marin in I Delfini di Scipio Slataper, scritti per i cinquant’anni dalla morte di lui ; 2 e ricordo gli studi di Ilvano Caliaro, il Convegno slataperiano di Udine, 3 ora nel nostro qui in corso la puntuale analisi in parte contermine con la mia di Roberto Norbedo. Sulla falsariga di Scipio il Marin celebrando il Maestro misura se stesso e le fasi di un vivere semplice/difficile teso verso la consistenza alta dell’azione, sempre drammatica e tragica. Ma nel suo farsi, al tempo stesso entusiasmante in una luce di sublime, se penso di lui a quella spinta di iniziativa insita nell’uomo e vista come in un’eco di riprese modulate, quasi nel senso di quel variare tematico e tonale secondo Benjamin. Così il recente lavoro di tesi che ho seguito a Trieste di Marco Narduzzi, Tradurre il sublime, trattato su un piano letterario-filosofico e di sperimentazione musicale. 4 Ma nel suo farsi, tale vivere teso, avvincente pure come il tema della Morte presente in qualche particolare autore, versato proprio sul momento dell’esaltazione sopra lo sconforto, come fa vedere Giaime Pintòr su Rilke. Così il mio più lontano contributo Il lessico politico nel rapporto di Leopardi col mondo antico. La Morte, la Gloria, con richiami a Marin  



































   





1

  Ivi, pp. 161-193.   Milano, Vanni Scheiwiller (All’insegna del Pesce d’Oro), 1965. 3   Tenuto il 23 e 24 febbraio 2012, i cui atti sono ora in corso di stampa (Per « Il mio Carso » di Scipio Slataper, a cura di Ilvano Caliaro, Roberto Norbedo, Pisa, ets, 2013). 4   Relatori Fabio Russo e Luciano Rocchi, Università di Trieste, Scuola Superiore di Lingue Moderne, a.a. 2010-2011. 2





180 fabio russo 1 e a Slataper. Un tema ben coinvolgente, non necessariamente ‘triste’, ‘mortificante’. 2 E valga per Marin l’idea ‘gloriosa’ e ‘sublime’ di morte riguardo il figlio Falco, che si ripercuote anche in una pagina dei Diari, non essere questa un morire bensì un passare nell’Eterno. Ma pure valgano di lui altri motivi e affermazioni di vita : solo il canto ferma le ore, il canto muove le pietre e la « marea dei morti », poi lo spazio sul mare dell’Isola aore all’Infinito, l’insularità del « dosso di rena in gran biondura » e il grandioso raccolto « silenzio di Dio », di forza ontologica, la gioia trepida per « la Domenica senza tramonto », la fermezza di dire « me no vogio murî, / me vogio esse eterno ». Affermazioni di vita, la vita oltre la morte, quale persino la ‘debole’ capacità lui di raggiungere la sua « Pinòla in senere », che lo chiama, lo chiama invano, lui non la riesce a incontrare, ed è la morte che (lo) attira più della vita, terrena, come la vita autentica ; persino quel lamento ricorrente « la vita è lontana », « lontana è la vita », un leit-motiv in affiancamento complementare all’analogo, per un grave periodo storico, « la patria è lontana », « lontana è la patria ». Da ciò che conta, da ciò che è autentico, si è sempre lontani, inadeguati. E proprio il vitalismo muove lo sguardo di Slataper sulla realtà ambientale e storica, ma anzitutto dell’esistere dell’uomo. Alla suggestiva figura di Scipio guarda estasiato il più giovane Marin, nell’appassionata rievocazione del suo incontro con lui, raccolta più tardi in I delfini di Scipio Slataper, su Scipio appena giunto nel dicembre 1911 dal suo impegno di lettore di italiano a Berlino (era pure negli anni di poco successivi al Kolonial-Institut di Amburgo), alto, biondo con una capigliatura che gli « nimbava » il volto e due occhi luminosi, una figura da maestro, ma solo di pochi anni maggiore, in grado di esercitare un forte richiamo sul ‘paesano’ Biagio « ignorante e nuovo come un pisello appena in tega » 3 (a sua volta, su Slataper e « la nostra lotta nazionale » il breve saggio del ’52). 4  































































3. Si combinano nel guardare di Marin all’ambiente fisico una precisione di accento realistico imperativo, ma dal tratto a volte come oracolare profetico (complementare l’oralità già ricordata, più volte messa in evidenza da Edda Serra), e in questo un senso di dramma che insidia e vanifica la positività di quello stesso guardare, qui notato sin dall’inizio. Ma è un guardare, anche questo, a suo modo positivo per la condizione dello spirito creativo o creatore, per lui la « tragedia della parola », inscindibile da uno  



1   Si veda Lingue tecniche del greco e del latino, Atti del iii Seminario internazionale sulla letteratura scientifica e tecnica greca e latina, a cura di Sergio Sconocchia e Lucio Toneatto, Bologna, Pàtron Editore, 2000. 2   Così l’idea della Morte e dell’Annullamento in Leopardi e Rilke (si veda Fabio Russo, Prospettiva di un rapporto fra Leopardi e Rilke, Trieste, Umana, 1973), così l’affermazione riguardo Leopardi e Novalis « i due amici della morte » (Leonello Vincenti, Vittorio Alfieri e lo Sturm und Drang, Firenze, Olschki, 1966). Inoltre, si veda di Manuel Iribarren, I grandi davanti alla Morte, Alba, Edizioni Paoline, 1962. 3   « E un giorno arrivò da Berlino Slataper. Fu Giani Stuparich a condurmelo nella “Trattoria degli Studenti” in via dei Servi. Era un locale buio e Scipio lo riempì con la sua grande persona e la luce che gli nimbava la testa. Chi sa come fu : in una risata ci riconoscemmo ! Per me Scipio fu ragione d’incanto. Troppo era bello e biondo e tutto riso nel volto chiaro, negli occhi celeste-verdi luminosissimi. Era venuto a Firenze da Berlino per assumere la direzione della Voce, la battagliera rivista fiorentina, in assenza di Prezzolini […]. Io che venivo da Grado, dalla mia isola sperduta tra Isonzo e Tagliamento, ed era ignorante e nuovo come un pisello appena in tega, in su le prime guardavo a lui, così dotto e importante, come a persona molto alta e lontana. Poi vissi, stordito come ero, accanto alla sua ricca persona, nell’atmosfera della sua solarità senza ben rendermi conto di lui, amandolo per istinto profondo, per la sua ricca cordialità, per la sua alta sapienza, per il suo impeto di guerriero e di credente », in Biagio Marin, I Delfini di Scipio Slataper, cit., pp. 39-40 (Il mio Carso). 4   Idem, La nostra lotta nazionale secondo Scipio Slataper, in Idem, Autoritratti e impegno civile, cit., pp. 148-151.  











il punto di vista ontologico 181 spirito caldo di Amore. La calda passione per la vita è il Canto che muove le pietre e viene a compensare, allora sì, sul piano artistico, la miseria del vivere umano involgarito da poca « lontanìa » e dal tempo (dal Tempo, nell’idea di Petrarca). Un vivere quando non rischiarato dalla Grazia (con la ‘G’ maiuscola, Saba). Inteso invece da un punto di osservazione (il suo) non ‘sentimentale’, severo anzi e intensamente dinamico lungo i momenti anche emozionali del suo pensiero anticonformista, che si aprono sul piano della prosa in spazi raccolti di intensa poesia (per esempio certa intimità d’ambiente e di famiglia nei Diari, spesso duramente di indirizzo politico-sociale). Questi ‘momenti’ e ‘spazi’ di singolare intensità si fissano così nelle prose e certo nei versi, ma vengono dal suo punto di vista ontologico di taglio irrazionale, mai già preconcetto e predeterminato (e saccente), bensì tale che si fa e si roda cammin facendo, nel canto, e giunge per tale dinamica a siffatti esiti speculativi, appunto dal suo guardare unitario anche quando rivolto a diversificati ambiti dell’attività umana, dal suo guardare di investigatore ‘curioso’ tra i fenomeni, ma teso sempre oltre, l’« oltro », all’Attimo e all’Essenza, al Noumeno in qualche modo, essendo la sua poesia sfaccettata di baleni che sono il respiro del suo senso noumenico, ossia di Dio. E da tale angolo di sguardo e di osservazione non possono prescindere le pagine cosiddette storiche (comprese quelle nella stessa area letteraria). Storiche per la materia, per grado di accostamento analitico al problema, non per metodo asettico fondato sul e insieme disciplinato (limitato) dal documento, non per quel bisogno di immaginare situazioni consimili magari a distanza, e da qui confrontare e capire di più. Altrimenti non si spiegherebbe il suo apporto storico, di lui non storico di professione, eppure tale da darci un contributo particolare. Non si spiegherebbe senza il suo colpo d’ala portato dall’immaginazione intensa (magari un poco sviante e ingannevole per un occhio piuttosto rigido di lettore, finalizzato a valutazioni unilaterali) a sintonizzarsi con i segreti dell’Uomo e di Dio : l’episodio del Rettore a Vienna, su cui si è anche di recente discusso, e la figura di Meister Eckhart che «svolava tra i cherubini». Questo sguardo creativo, che si arricchisce di quello ‘maestro’ e trainante di Scipio Slataper, largo di inventiva concreta profonda nelle apprensioni di occhio ‘divise’ fra il Curso veritiero e la Città turbolenta, si affianca non meno, in un’aria di famiglia, all’altro ‘fraterno’ di Giani Stuparich che pure dirige il suo sguardo a distanza di tempo e di luoghi su Trieste, su Lussino, e sul Carso, e su Monte Cengio con l’Altipiano di Asiago, e su Firenze con i suoi colli intorno. Da qui l’impressione, aggirandosi lui in Istria o sull’Altipiano carsico, « anche il Carso vicino […], oh, perché non mi ricorderebbe Monte Morello ? », l’impressione di sentirsi certe volte in Toscana, l’illusione di andare verso Settignano, di richiamarsi al Monte Secchieta dal Taiano o a Pratomagno da altri rilievi alle spalle di Trieste. Di sentire, incomparabile Giani, « per merito della sua creazione [in quelle serate fiorentine con Slataper], nascere il Carso dalla Toscana ». 1 Un vedere carico di legami e significati, di esperienze, lui così appassionato della natura (insieme con Guido Devescovi) in una più ricca umanità (a sua volta, su Stuparich il saggio del ‘61). 2 Pensiero di sostanza speculativo-teologica e storico-morale, volto (questo proprio, accanto a quello di espressione senza fine nella ‘lingua della sua poesia’) a un taglio, pur nella forma diffusa, metaforico e simbolico quale senso sintetico essenziale di esistenza, di volta in volta, di componimento in componimento, mosso da forte coscienza di sé, nonché mitico quale esperienza ‘abbreviata’ dell’esistere, secondo  























1   Idem, Trieste nei miei ricordi, Milano, Garzanti 1948, pp. 31-2 (cap. iii Romanticismo e « Il Notiziario della iii Armata »). 2   Idem, Umanità e opera letteraria di Giani Stuparich, in ID., Paesaggi, storia e memoria, cit., pp. 103-117.  



182 fabio russo quanto sostiene in generale Hermann Broch nei capitoli L’eredità mitica della poesia e Lo stile dell’età mitica, in Poesia e conoscenza. 1 Nella loro diversità strutturale dalle poesie, anche le prose lasciano alla fine questo senso di essenzialità emblematica scandita, ribadita, e perciò modulata sullo stesso tasto della coscienza morale nei confronti di Dio, come del singolo nel suo esistere, come ancora dei rapporti sociali, compreso l’essere più maturi per l’Europa (ribadito tanto nei Diari). Quest’uomo aveva non solo fame di Dio, ma pure di conoscenza, nel Canto, nell’Amore per la vita. Se vogliamo, fame di conoscere Dio, solo in una disposizione, di canto d’amore. Riducendo ancora, fame di cantare Dio. Tutto ciò è avvertibile come spirito che muove, ancora una volta, il suo guardare alla storia dei luoghi a lui cari, lui non storico di professione, eppur ricco di fermenti analitici attenti, precisi, con una umanità profonda proprio verso i non facili rapporti etnico-sociali. Ed è credibile in tal senso, nella misura in cui è dato credere a un poeta, al poeta che va al di là del documento fermo o del dato oggettivo in sé e sa interpretare una situazione in avanti. Con il lungo sguardo che vede oltre le cose, oltre il muro che ci immiserisce.  

1   i, Pref. di Hannah Arendt, trad. di Saverio Vertone, Milano, Lerici, 1965 (ed. originale Dichten und Erkennen, 1955).

NICCOLÒ TOMMASEO E ALCUNE ‘RILETTURE’ MARINIANE, TRA POESIA E PROSA Roberto Norbedo

L

ostudio della fortuna di Niccolò Tommaseo presso gli scrittori italiani del Novecento acquisisce, in relazione alla figura di Biagio Marin, ulteriori materiali, che si aggiungono alle testimonianze dell’interesse che l’opera del dalmata suscitò, in varia misura, in autori come Carducci, D’Annunzio, Pirandello, Rebora e Pasolini : 1 essi si inseriscono nel quadro dell’attenzione dimostrata nei confronti del dalmata da diversi degli intellettuali che ruotavano attorno alla rivista fiorentina « La Voce ». 2 Tra le pagine di critica letteraria emerse tra le prose mariniane, 3 diffuse negli ultimi anni dopo esser rimaste a lungo inedite o pubblicate in sedi editoriali ora difficili da individuare, vi è un breve saggio di Marin : conservato in un manoscritto firmato e intitolato dal gradese a Niccolò Tommaseo, è ‒ secondo l’editore ‒ « privo di data », 4 e riporta una breve ma entusiastica illustrazione di alcune scritture poetiche del dalmata. Nello scritto, dopo una presentazione biografica, viene instaurato un parallelo tra il « carattere » del Tommaseo, « complesso e difficile », e la natura ‘preziosa’ della sua poesia, non « di facile lettura, né di facile scoperta », riprendendo, per certi versi, il giudizio di Cesare De Lollis, il quale già nel 1912 definì il dalmata un poeta « che sente tutta la misteriosa gioia della poesia difficile ». 5 La rassegna di alcuni passi liri   



































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  Si considerino alcuni rapidi riferimenti a titolo solamente esemplificativo, rispettivamente : Mario Puppo, Tommaseo prosatore, seconda edizione riveduta e ampliata, Roma, Edizioni Studium, 1975, pp. 160-164 (per l’influsso della prosa del Tommaseo sul Carducci) ; William Spaggiari, Carducci e Tommaseo, in Niccolò Tommaseo tra modelli antichi e forme moderne, a cura di Gino Ruozzi, Bologna, Gedit, 2004, pp. 239-271 ; Željko Đurić, D’Annunzio (poeta) lettore di Tommaseo, in Project Rastko. E-library of Serbian Culture (http ://www.rastko.rs/rastko-it/umetnost/knjizevnost/studije/zdjuric-dannunziotommaseo_it.html) ; Alfredo Barbina, Taccuino pirandelliano, « Ariel », 2003, 1, pp. 153-164 (Tommaseo nel “guardaroba” pirandelliano, pp. 153-164) ; Ciro Riccio, Fonti ottocentesche di Clemente Rebora, Casoria (Na), Loffredo, 2008, pp. 171-187 (La « passione del mondo » : Tommaseo in Rebora) ; Luciano Morbiato, Il canto popolare “immobile” : un tributo di Pasolini a Tommaseo, in Niccolò Tommaseo : popolo e nazioni. Italiani corsi, greci, illirici, a cura di Francesco Bruni, Roma-Padova, Antenore, 2004, i, pp. 343-356. 2   Si veda Giovanni Papini, per esempio, che introdusse l’edizione dell’opera del Tommaseo Sul numero con un proprio saggio (Niccolò Tommaseo, Sul numero, opera inedita preceduta da un saggio di Giovanni Papini sul Tommaseo scrittore, Firenze, Sansoni, 1954), ma che già nel 1911, in una lettera a Soffici, elogiava la qualità della prosa epistolare tommaseano (cfr. Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Carteggio, ii, 1909-1915. Da “La Voce” a “Lacerba”, a cura di Mario Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1999, pp. 231-232). 3   Per alcuni cenni sull’attività di Marin in veste di critico letterario si veda Pericle Camuffo, Biagio Marin lettore e critico, in Biagio Marin, Paesaggi, storia e memoria. Pagine rare e inedite dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi Mariniani », supplemento al vol. xii, Pisa-Roma, Serra, 2008, pp. 11-21. 4   Il testo è curato dalla Valentinuzzi, che annota : « Si tratta di articolo presumibilmente non pubblicato, assente nella bibliografia ufficiale corrente », ivi, pp. 151-153 : 153 ; le citazioni mariniane che seguono, salvo diversa indicazione, sono da qui tratte. 5   Cesare De Lollis, Un pensoso della Forma : Niccolò Tommaseo, in Idem, Scrittori d’Italia, a cura di Gianfranco Contini e Vittorio Santoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, pp. 415-424 : 415 (i ed. « La Cultura »,  

















































184 roberto norbedo ci e dalla prosa poetica del Tommaseo che segue è ispirata dall’intento di illustrare « l’intonazione fondamentale della sua poesia », quella di un autore « che fonde in sé la più squisita sensibilità capace di tradursi in raffinate immagini, e un profondo senso religioso della vita ». Seppur non indicate, non è difficile individuare le fonti da cui provengono i passi trascelti da Marin. Essi rimandano ad alcune delle realizzazioni più significative della produzione poetica del Tommaseo. Dalla lirica I sogni, del 1851, la quale ‒ anticipando il « tema della comunicazione degli spiriti, degli angeli, che avrà larga parte nella poesia del Tommaseo » ‒ 1 introduce alla serie delle liriche ‘cosmiche’ composte, in particolare, tra il 1851 e il 1855, nelle quali ‒ è stato scritto ‒ « la poesia è di qualità altissima, rara nel nostro ottocento » ; 2 a Il nuov’anno e Il mattino, che lo stesso Marin elogia come esempi di poesia religiosa dotata di « un calore, un’ala che non si trovano negli Inni Sacri del Manzoni » ; a Espiazione, dedicata all’amico Alessandro Poerio, poesia « d’importanza fondamentale », si è affermato, « per capire la ‘condizione’ spirituale del Tommaseo ». 3 Non tralasciando lo scritto memorialistico-descrittivo Addio a Corfù, di fronte al quale a Marin « manca il respiro, tanto alto è il volo e il gaudio ». Proprio con riferimento al breve passo, col definirlo « tutta una lirica in prosa », Marin coglie una delle caratteristiche del Tommaseo prosatore, nei luoghi in cui si avvicina ai moduli della prosa d’arte. Infatti, quando il suo sguardo passa dal paesaggio esterno ai moti interiori, Tommaseo ‒ è stato scritto ‒ innalza la ‘qualità letteraria’ della propria scrittura e il suo « frammento descrittivo » diventa « come una piccola lirica in prosa », al quale risulta « benissimo adeguato un tono alto, un linguaggio prezioso, colorito e musicale ». 4 Per la datazione del reperto, il tenore celebrativo dei giudizi estetici di Marin viene in soccorso alla filologia. Tali incondizionati elogi dissuonano, infatti, con la confessione che fece Marin, nel novembre 1965, a Giuseppe Prezzolini, affermando di non essere, par di capire, in sintonia con l’opera e la figura del Tommaseo. 5 Prezzolini aveva in precedenza inviato, per via epistolare, le sue congratulazioni per i Delfini di Scipio Slataper (Milano 1965), la raccolta di scritti dedicata da Marin nel corso di cinquant’anni alla figura dell’amico Slataper, che era allora in corso di stampa e di cui era venuto a conoscenza grazie all’editore Scheiwiller. 6 I rallegramenti e gli apprezzamenti erano accompagnati da un’osservazione : nei saggi non erano stati approfonditi « certi problemi, per es. quella certa vicinanza di S.[lataper] con Tommaseo di cui si parlò, mi pare ». In risposta Marin, addebitando l’omissione a involontaria trascuratezza, 7 rivelava anche l’esistenza ‒ sembrerebbe ‒ di non precisati motivi di discordanza : « pur avendo letto parecchie cose del Tommaseo, con lui non mi sono incontrato ».  

















   

























































1912). Ma si veda la precisazione di Gino Tellini, per il quale la « tormentosità della forma » che rilevò il De Lollis nulla abbia a che fare con la ricerca « del difficile e del peregrino », ma sia piuttosto la sofferta « conflittualtà d’una scrittura intrisa di succhi eterogenei e stridenti », Gino Tellini, Tommaseo narratore e poeta, in Niccolò Tommaseo e Firenze, Atti del Convegno di studi, Firenze, 12-13 febbraio 1999, a cura di Roberta Turchi e Alessandro Volpi, Firenze, Olschki, 2000, pp. 113-132 : 115. 1   Niccolò Tommaseo, Opere, a cura di Aldo Borlenghi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, p. 108n. 2   Mario Puppo, Poetica e poesia di Niccolò Tommaseo, Roma, Bonacci, 1979, p. 37 (i ed. 1968). 3   Ivi, p. 12. 4   Idem, Tommaseo prosatore, Roma, Studium, 1975, pp. 126-127. 5   Cfr. Biagio Marin, Giuseppe Prezzolini, Carteggio 1913-1982, a cura di Pericle Camuffo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 162-163. 6   « Caro Marin, ebbi da Scheiwiller le pagine dove hai raccolto i tuoi scritti su Slataper – e son le migliori che abbia letto sul soggetto », ivi, p. 162 (10 novembre 1965). 7   « […] il problema del suo accostamento allo Slataper non m’è passato per la mente », ivi, p. 163.  





















niccolò tommaseo e alcune ‘ riletture ’ mariniane 185 Proprio tale ammissione suggerisce che lo scritto che Marin dedicò alle poesie del Tommaseo sia da datare a un momento posteriore a quella corrispondenza, quando Marin, avendo forse approfondito la frequentazione con la sua opera, trovò più motivi di ‘incontro’, in particolare sul versante della poesia. Al riguardo, giova ancora la corrispondenza con Prezzolini. In una lettera del luglio 1969 si ritorna, quattro anni più tardi, al tema della vicinanza di Slataper a Tommaseo : « Hai ragione tu ‒ scrive Marin a Prezzolini ‒ quando accosti Scipio piuttosto al Tommaseo che allo Svevo ». 1 Probabilmente, allora, quei quattro anni avevano dato modo a Marin di rileggere la figura e l’opera del Tommaseo, alle quali appunto a questa data riconosce un ruolo centrale ed esemplare : « il Tommaseo rivela un carattere, in cui un poco tutti noi ci riconosciamo, e proprio nelle sue scritture ». Sarebbe, a questo punto, doveroso chiedersi cosa avesse tenuto ‘distante’ Marin dal dalmata negli anni precedenti. Ma soprattutto quali fossero per lui, nel luglio 1969, mentre scriveva a Prezzolini, le ragioni che lo avevano portato ad identificarsi nel Tommaseo e nel complesso delle sue « scritture » ; nonché la reale portata di tale corrispondenza (« tutti noi »). Tuttavia, crediamo sia giusto porsi tali questioni solo dopo che il tema dei rapporti tra Marin e Tommaseo sia arricchito di ulteriori informazioni, nel quadro più generale della fortuna delle opere di quest’ultimo, cui con questa minima tessera si vuole contribuire. Sempre nella direzione ora illustrata, si crede di dover spendere ancora qualche parola sulle circostanze della pubblicazione dei Delfini di Scipio Slataper. Si è già altrove rilevato che la raccolta uscì, appunto per i tipi Scheiwiller, riportando sulla copertina la riproduzione fotografica di alcuni versi autografi di Scipio Slataper dedicati a Niccolò Tommaseo (Tommaseo, come ti sento !), non altrimenti noti. 2 Il ritratto del Tommaseo che emerge dal breve componimento esprime l’altissima considerazione provata da Slataper per il dalmata, innalzato a ineludibile riferimento esemplare (« tu, nostro padre, nostro orgoglio, nostro genio »). 3 Il fatto che tali sentimenti sembrino ritrovarsi nelle parole, già riportate, che Marin indirizzò a Prezzolini nel 1969, secondo cui « il Tommaseo rivela un carattere, in cui un poco tutti noi ci riconosciamo », ci sembra possa rafforzare l’interpretazione sopra avviata. Al di là delle imprescindibili verifiche che esigono tali suggerimenti, qui si vuole prima sciogliere una apparente contraddizione. La presenza, infatti, della riproduzione dei versi Tommaseo, come ti sento ! sulla copertina del volume dei Delfini, impressi « il 3 dicembre 1965 », può apparire incongrua rispetto alla dichiarazione riguardante lo stesso Tommaseo fatta da Marin a Prezzolini il 10 novembre, solo pochi giorni prima : « il problema del suo accostamento allo Slataper non m’è passato per la mente ». La potenziale contraddizione forse si spiega con la circostanza, come si è potuto appurare, che non tutte le copie dei Delfini, pubblicati in una tiratura di 2200 esemplari, riportano sulla prima copertina la riproduzione dei versi slataperiani. 4 Si può allora  



















































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  Ivi, p. 231 (12 luglio 1969).   Per il testo dei versi slataperiani vedi, di chi scrive, Per l’edizione critica, il commento e l’interpretazione del ‘Mio Carso’, in Per ‘Il mio Carso’ di Scipio Slataper, Atti del Seminario della Società Italiana per la Modernità Letteraria (mod), Udine 23-24 febbraio 2012, a cura di Ilvano Caliaro, Roberto Norbedo, Pisa, ets, 3   Ibidem. in c. d. s. 4   La consultazione di alcuni esemplari numerati dell’edizione reperiti nelle Biblioteca Civica di Trieste e nella Biblioteca Statale Isontina ha portato a constatare che la riproduzione dell’autografo slataperiano è presente sia sulla prima copertina (con didascalia a Icop.v : « In copertina : Manoscritto di Scipio Slataper ») che a p. [214] in copie con numerazione più ‘alta’ (nn. 1830, 1484), mentre nel primo migliaio circa di copie uscite dal torchio la riproduzione sparisce dalla copertina ritrovandosi solo in fondo al testo a p. 214 (nn. 980, 656, 106, 80), anche senza didascalia. Resta aperta la possibilità che i primissimi esemplari 2









186 roberto norbedo pensare che, a tiratura forse già iniziata, Marin, o chi per lui, abbia voluto cercar di rimediare alla mancanza riscontrata da Prezzolini, individuando, attraverso sollecita ricerca, l’autografo slataperiano ed inserendone la riproduzione nel prodotto editoriale, senza troppi scrupoli filologici ed esegetici. Secondo la ricostruzione, ipotetica, qui proposta, Marin avrebbe svolto un approfondimento sull’opera del Tommaseo solo dopo la pubblicazione di I delfini di Scipio Slataper del dicembre 1965, che lo avrebbe poi portato alla stesura del saggio Niccolò Tommaseo e a formarsi il giudizio espresso a Prezzolini nel luglio 1969, in seguito, appunto, a una riconsiderazione globale e a nuove e più profonde ragioni di sintonia, ancora da indagare nei loro risvolti. Interessante sarebbe esaminare se tale sintonia, a questa altezza cronologica, potesse investire oltre che il versante poetico anche quello della riflessione politica dell’attività culturale del Tommaseo, e in quale misura Marin fosse arrivato a far sua l’« idea pacifica e plurale della “nazione” » 1 che aveva ispirato il dalmata, fondata sul sentimento della « fratellanza tra i popoli » europei e confermata dalla « comune fede cristiana ». 2 Soprattutto considerando che con la pubblicazione nel 1963 delle Elegie istriane Marin sembrava aver ormai già quasi sancito una sorta di attenuazione dell’atteggiamento di acre contrapposizione in chiave nazionalistica da lui assunto negli anni precedenti, in special modo nella propria attività di pubblicista e nel contesto delle concorrenti rivendicazioni di Italia e Yugoslavia sulla Venezia Giulia. 3 Come sembra bene compediare e illustrare Cololtri (‘Quegli altri’), 4 poesia intitolata agli istriani di etnia slava, che rievoca il periodo della primissima giovinezza trascorso a Pisino d’Istria. 5 Nei versi, al sentimento di fratellanza, fondato sulla consuetudine e sulle comuni radici cristiane, è opposto un senso di separazione e distacco, che sembra tuttavia essere rappresentato come contingente e circoscritto al divario linguistico (« Solo diverso el sovo favelâ, / quela so lengua gera a noltri muro ») : 6  

























   

I gera frêli nostri su la tera, i gera frȇli nostri su l’altar, insieme a noltri i navigheva ’l mar da l’alba fin a sera. 7  

numerati non riportassero la riproduzione dell’autografo. Nessuna notizia in merito si è individuata in Edizioni di Giovanni e Vanni Scheiwiller 1925-1978, a cura di Giacomo D’Orsi e Roberto Barzetti, con uno scritto di Ezra Pound (1937), Milano, Scheiwiller, 1978, né in Sergia Adamo et alii,“L’editore ideale”. Scheiwiller, la cultura e gli scrittori del Friuli-Venezia Giulia, Trieste, Archivio e Centro di Documentazione della Cultura Regionale, 2001. 1   Francesco Bruni, Tommaseo “quinque linguarum”, in Niccolò Tommaseo : popolo e nazioni. Italiani, Corsi, Greci, Illirici, Atti del Convegno internazionale di Studi nel bicentenario della nascita di Niccolò Tommaseo, Venezia, 23-25 gennaio 2003, I, a cura di Francesco Bruni, Roma-Padova, Antenore, 2004, p. 36. 2   Arduino Agnelli, Il destino dei popoli slavi nella prospettiva europea di Niccolo Tommaseo, in Niccolo Tommaseo e Firenze, cit., pp. 85-110 : 104. 3   Cfr. Giovanni Talami, Biagio Marin e la Venezia Giulia : dagli interventi giornalistici alle Elegie istriane, « Studi Mariniani », a. II, vol. 2, 1992, pp. 51-76 ; e si legga, al proposito, quello che scrive Giovanetti nel suo contributo accolto in questi atti, per il quale in Marin « negli anni 1958-60 si nota il superamento delle tensioni contingenti in una serie di articoli che preannunciano le Elegie istriane e costituiscono il tentativo di transustanziare il temporale nell’eterno » (cfr. qui sopra, p. 179). 4   Biagio Marin, Elegie Istriane, Milano, Scheiwiller, 1963, p. 52. 5   Sul quale si veda anche la testimonianza Tempi di Pisino (ai miei compagni istriani), pubblicata sul « Messaggero Veneto » nell’aprile 1951 e ora raccolta da Camilla Marchesan nella sua tesi di laurea : La prima giovinezza di Biagio Marin in alcuni scritti epistolari e giornalistici ignoti e rari, relatore Roberto Norbedo, Università degli Studi di Udine, Corso di Laurea in Lettere, a.a. 2011-2012, p. 65. 6   ‘La sola cosa diversa era il loro modo di parlare / quella loro lingua era per noi un muro’, Biagio Marin, Elegie Istriane, cit., p. 52 (nostra la traduzione). 7   ‘Erano nostri fratelli sulla terra / erano nostri fratelli sull’altare, / navigavano il mare insieme a noi / dall’alba fino alla sera’, ibidem.  





















niccolò tommaseo e alcune ‘ riletture ’ mariniane

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Tale parziale ‘rilettura’ delle proprie idee, maturata a partire, probabilmente, dalla fine degli anni ’50, e che forse potrebbe aver contribuito ad avvicinare Marin ai sentimenti di fratellanza del Tommaseo, è preceduta da un periodo, lo si è detto, in cui le tensioni della storia e della politica lo avevano portato ad interventi fortemente impegnati e polemici. E precisamente in questo quadro si colloca uno scritto di Marin del maggio 1952, intitolato La nostra lotta nazionale secondo Scipio Slataper, 1 il quale esprime bene quella che è stata definita la « centralità slataperiana » nel « discorso politico » dell’intellettuale e poeta gradese : 2 in particolare con riferimento all’« idea di Italianità e Patria, nell’accezione mazziniana », immediatamente riferita al « modello di Scipio Slataper », 3 e al senso del dovere e al forte esercizio di volontà con cui questi perseguiva il proprio ideale di impegno civile. 4 Tuttavia, per meglio precisare il ruolo che ebbe l’opera di Slataper in Marin ci sembra utile approfondire l’esame di tale scritto, alla base del quale vi è una rilettura per certi versi selettiva di un precedente testo slataperiano, svolta in un contesto storico del tutto mutato. Gli eventi degli anni immediatamente precedenti il 1952, infatti, erano stati segnati da un infuocato clima politico, all’interno di « serie di capitoli, conclusi solamente nel 1976 con il Trattato italo-jugoslavo di Osimo » : 5 a partire dalla Conferenza di Londra del settembre 1945, essi avevano scandito i tentativi di definire il confine tra l’Italia e la Yugoslavia nella Venezia Giulia, nella quale in una prima fase fu creato il Territorio Libero di Trieste (t.l.t.), sotto l’amministrazione delle forze armate anglo-americane e comprendente l’immediato circondario della città e l’Istria ; 6 il 9 maggio 1952, dopo che nel mese di marzo nella città di Trieste si erano verificati una serie di tumulti di piazza, 7 si firmò, ancora a Londra, un accordo tra Yugoslavia e Italia per un ulteriore passo verso la spartizione del t.l.t., ,mentre a Trieste nelle elezioni comunali previste per il 25 maggio si contrapponevano i partiti sostenitori della politica yugoslava e gli indipendentisti ai partiti filo-italiani. 8 Lo scritto di Marin, « probabilmente concepito dopo gli incidenti di piazza del marzo 1952 », 9 a ridosso delle elezioni comunali di Trieste del 25 maggio, risentì pesantemente di quelle forti tensioni. Arrivando alla lettura selettiva, un confronto puntuale rivela che Marin realizzò una serie di prelievi da un noto saggio di Slataper : L’avvenire nazionale e politico di  









   

















   

   













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  Biagio Marin, La nostra lotta nazionale secondo Scipio Slataper, in Idem, Autoritratti e impegno civile. Scritti rari e inediti dell’Archivio Marin della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, a cura di Edda Serra, con la collaborazione di Pericle Camuffo e Isabella Valentinuzzi, « Studi Mariniani », supplemento al vol. xi, Pisa-Roma, Serra, 2007, pp. 148-151. 2   Fulvio Salimbeni, L’impegno civile di Biagio Marin, ivi, pp. 35-43 : 35 e 40. 3   Roberto Spazzali, La profezia civile di Biagio Marin, ivi, pp. 45-62 : 58. 4   Come lo stesso Marin affermò scrivendo il 17 maggio 1916 a Giuseppe Prezzolini : « Io odio in me stesso [...] questa poca coscienza del dovere, questa femminea stomachevole amoralità in cui son vissuto tutta la vita. Scipio aveva ragione. Oh !, lui era il migliore », Biagio Marin - Giuseppe Prezzolini, Carteggio. 1913-1982, cit., p. 20. 5   Corrado Belci, Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975), prefazione di Giulio Andreotti, Brescia, Morcelliana, 1989, p. 15. 6   Per un’ampia e documentata illustrazione del tema, fino alla soluzione individuata dal Memorandum di Londra nel 1954, con la istituzione di una linea di confine definita « provvisoria », vedi Diego De Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, i-ii, Trieste, Lint, 1981, ii, pp. 992, e 1021 ; riguardo al t.l.t., cfr. ivi, i, pp. 481-484, 557-891, e ii, pp. 39-162. 7 8   Ivi, ii, pp. 163-191.   Ivi, p. 227. 9   Roberto Spazzali, La profezia civile di Biagio Marin, cit., pp. 53-55.  





















188 roberto norbedo Trieste, pubblicato nel giugno del 1912 sulla « Voce ». 1 Qui Slataper, esprimendo una visione problematica, individuava il « compito storico » che avrebbe dovuto svolgere la città di Trieste, per la sua collocazione geografica e la natura composita della sua cultura, di essere « crogiolo e propagatore di civiltà, di tre civiltà », in una prospettiva di sintesi di « germanesimo », « slavismo » e « italianità ». 2 Un esame sommario mette in luce come la selezione dei prelievi dal testo di Slataper sia funzionale al tenace sostegno ai valori nazionali, cui Marin, nella contingenza elettorale del maggio 1952, era appunto orientato, affermando che « i triestini sono chiamati a testimoniare della loro italianità e della loro volontà di confondersi con tutti gli altri italiani, nell’ambito dello Stato nazionale », soprattutto considerato che « l’Istria è già nelle mani degli Slavi ». 3 Così Marin, appianando la complessità dello scritto slataperiano, isola, preleva e accosta, nel suo testo, quelle affermazioni che, nel descrivere il rapporto tra le diverse nazionalità nelle zone del confine, ne sottolineavano le differenze (« “Non è vero che tutti socialmente si valga lo stesso [...]. Perché c’è gerarchia di valori sociali [...]. C’è differenza nella storia” »), 4 con il fine di far emergere la superiorità della cultura italiana (« “Noi italiani di Trieste siamo più colti degli sloveni. Le stesse idee per cui essi si sono conquistati il diritto di vita propria sono della nostra cultura” »). 5 Pur riconoscendo ai due popoli, d’altra parte, un comune ma diverso livello di umanità, 6 nel rivisitare il testo slataperiano Marin si discosta dall’ideale di sintesi nella pluralità che aveva guidato il Tommaseo in molta parte della sua elaborazione politica e culturale, e che ispirò Scipio Slataper, fino ad un certo punto del proprio percorso intellettuale e umano. 7 Quello stesso ideale, come è stato scritto, di ‘apertura’ a una « realtà adriatica di scambio e di dialogo », cui pure lo stesso Marin si sarebbe in altre occasioni avvicinato, « ad onta della conflittualità sperimentata nel corso del secolo, e convinto della dimensione europea della nostra cultura ». 8  





























































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  Scipio Slataper, Scritti politici, Milano, Mondadori, 1954, pp. 133-168.   Ivi, p. 168 ; e cfr. anche le note di Elvio Guagnini in Idem, Lettere triestine. Col seguito di altri scritti vociani di polemica su Trieste, Postfazione di Elvio Guagnini, Trieste, Dedolibri, 1988, pp. 115-116. 3   Biagio Marin, La nostra lotta nazionale secondo Scipio Slataper, in Idem, Autoritratti e impegno civile, cit., pp. 148 e 151. 4 5   Ivi, p. 149.   Ivi, p. 151. 6   « La loro storia è stata diversa dalla nostra e ha plasmato una diversa umanità. Con che non si nega certamente la immanenza in loro di valori universali, a tutti comuni », ivi, p. 149. 7   Dopo il giugno 1912, infatti, Slataper orientò la sua produzione verso una progressiva chiusura in senso nazionalistico : si leggano, ad esempio, le note di Elvio Guagnini in Scipio Slataper, Lettere triestine, cit., pp. 115-116. 8   Per citare, in questo stesso volume di Atti, le parole di Edda Serra (p. 19) ; e si leggano anche, ivi, le osservazioni di Marco Giovanetti sulla « federazione adriatica » (p. 172). 2















TRA POESIA E LINGUA. CONSIDERAZIONI DI UN LINGUISTA Vincenzo Orioles

G

rado, cittadina lagunare che un istmo separa dall’entroterra aquileiese, vanta una sua speciale fisionomia linguisticamente irriducibile agli schemi interpretativi dell’area friulana in cui è amministrativamente incorporata ; la parlata di Grado si caratterizza infatti, insieme con il dialetto di Marano, per la sua spiccata impronta dialettale veneta mantenuta quasi a dispetto della prossimità con la terraferma di espressione compattamente friulana (a ridosso di Grado e Marano ci sono infatti rispettivamente Aquileia e Carlino che sono centri friulanofoni). Si tratta, come è noto, di un centro venetofono che si colloca tra le parlate praticate oltre i confini dell’area propriamente veneta come risultato della forza di espansione propria di un tipo linguistico sorretto dalla plurisecolare egemonia veneziana. Naturalmente il veneto irradiato in Friuli Venezia Giulia assume diverse configurazioni : si va dal tipo ‘coloniale’, ossia paracadutato come modello espressivo di maggior prestigio, alle varietà di adstrato che interferiscono con il friulano nelle aree di contiguità territoriale, fino alle cosiddette varietà venete di antico insediamento tra le quali si tende a collocare il graesan (gravisano, gradese). Sono da considerare tali da una parte le parlate di Grado e Marano Lagunare e dall’altra il cosiddetto bisiacco, che nel loro insieme differiscono dagli altri dialetti veneti praticati in Friuli in quanto non sono il risultato di pura e semplice emulazione del veneziano ma costituiscono probabilmente la diretta continuazione della tarda latinità locale, ossia di quella « particolare ‘facies’ neolatina, sorta dal volgare parlato nell’agro di Aquileia, da cui si svilupparono, vicini, ma autonomi, il gradese nell’isola, il friulano in terraferma » (Frau 1984, p. 189). In ogni caso l’etichetta metalinguistica utilizzata per identificare le varietà gradese (e maranese) è quella di ‘veneto lagunare’ sia per l’ambito geografico sia per la connessione storica con l’insieme degli analoghi centri che si distribuiscono lungo tutto l’arco costiero alto-adriatico fino a Chioggia. Ma in questa sede non è mia intenzione ricostruire le vicende della riflessione linguistica sul gravisano o gradese né tanto meno ritornare sulla sua specifica collocazione dialettologica nell’ambito delle parlate venete. A partire dall’intervento pionieristico di Graziadio Isaia Ascoli (1898) ad oggi non sono del resto mancati gli studi e le indagini : da Alberto Zamboni (1974) a Manlio Cortelazzo (1978), da Giovanni Frau (1984, pp. 189-196) a Flavia Ursini (1988 ; 2002) fino a Carla Marcato (2002 ; 2005). Mi interessa piuttosto sottolineare come, dal punto di vista dello status sociolinguistico, le varietà venete di antico insediamento, ed il gradese in particolare, si configurano nel loro insieme come vere e proprie alterità linguistiche che, sia per il fatto di divergere in modo significativo dalla compagine linguistica circostante sia in virtù della forte consapevolezza identitaria dei propri locutori, sono funzionalmente parificabili ad un gruppo minoritario. L’etichetta metalinguistica corrente per definire questa speciale grandezza idiomatica è quella di eteroglossia interna invalsa a partire da Telmon 1992 in avanti : per approfondimenti su questo costrutto basti qui il rimando a Orioles 2003a, 2003b, Orioles-Toso 2005, ove si troverà ampio materiale documentario e illustrazione di casi di studio.  















190 vincenzo orioles Da questi presupposti discende la chiave di lettura che vorrei proporre dell’opera di Biagio Marin : da una parte la poesia come codice espressivo di una alterità poco nota come tale alla opinione pubblica colta ; dall’altra la lingua poetica come antidoto alla regressione linguistica, come saldo contrappunto a quel processo di « annacquamento della parlata gradese » già notato da Manlio Cortelazzo e che, ancora nel 1978, agiva « non solo per effetto della lunga azione della koinè veneto-giuliana, ma soprattutto per il prepotente influsso dell’italiano comune, e per la sua profonda penetrazione nel tessuto dialettale, maggiormente attivata dalle condizioni economico-sociali dell’isola, passata in maniera rapida e quasi violenta, da un tipo di società povera, dedita prevalentemente alla modesta pesca lagunare e costiera, ad una industrializzazione turistica a fisionomia nazionale e internazionale con tutte le implicazioni linguistiche, oltre che sociali, che questa trasformazione comporta » (Cortelazzo 1978, p. v). E chi meglio di uno scrittore o di un poeta può assolvere alla funzione di ‘portabandiera’ di una lingua che altrimenti sarebbe a rischio di obsolescenza ? Egli infatti incarna e rende manifesta la versatilità, la potenzialità creativa di un idioma ‘altro’, la sua attitudine a ricoprire un ampio spettro di bisogni comunicativi in misura non inferiore a quella di una lingua nazionale. Grazie a scrittori e poeti, può attuarsi il felice paradosso secondo cui la varietà vernacolare, scartata dal circuito della comunicazione ordinaria, viene assunta come lingua della creazione poetica e letteraria, come registro elettivo del piano memoriale. Può essere poi tentato un inquadramento critico nel contesto della sperimentazione neodialettale : pur riluttanti a imbrigliare un’originale prova poetica in uno schema critico in parte estraneo all’itinerario culturale e letterario di Biagio Marin, non possiamo non invocare la cosiddetta neodialettalità per rendere conto di scelte espressive che accostano i testi del poeta gradese alle linee di tendenza che movimentano il panorama poetico nazionale del secondo dopoguerra. È stato detto che la pratica dialettale, espulsa dai grandi centri urbani, si è rifugiata nelle varietà più chiuse e periferiche quali isole di estrema resistenza di un’autenticità linguistica recuperata in nome dei « bisogni di identità e di memoria diffusi nelle società post-industriali » (Brevini 1987, p. xii) ; è noto in effetti che « mentre le più importanti e più fitte espressioni di poesia in dialetto della prima metà del Novecento tendono a nascere nei maggiori centri cittadini e all’interno di tradizioni di letteratura dialettale antiche e robuste (Napoli, Roma, Milano, Torino, Genova, il Veneto ecc.), nei tentativi più interessanti di questo dopoguerra si assiste di norma all’emergenza di vernacoli non cittadini – o non metropolitani – più o meno fortemente decentrati e privi di uno specifico retroterra letterario » (Mengaldo 1978, p. lxxi).  

























Vorrei concludere questo mio intervento richiamando un passaggio della lettera che il 29 gennaio 1953 Pier Paolo Pasolini indirizzava a Luigi Ciceri, così esprimendosi a proposito del friulano :  

Che cosa si può fare perché una lingua così bella come il friulano non muoia ? E io ti rispondo senza esitare : bisogna fare della poesia. Come un uomo vive oltre la sua morte temporale nelle sue buone opere, così una lingua vive oltre la sua morte temporale nelle sue buone poesie (Pasolini, Lettere. 1940-1954, p. 541).  



Commutando le felici considerazioni pasoliniane dal friulano al gradese, è proprio questa l’angolazione dalla quale suggerisco di guardare alla dimensione espressiva di Biagio Marin, a proposito dei cui versi vorrei anche accennare alla suggestiva distinzione, a suo tempo fatta valere da Hugo Schuchardt, tra ‘lingua del cuore’ e ‘lin-

tra poesia e lingua. considerazioni di un linguista 191 gua del pane’ (Slawo-deutsches und Slawo-italienisches, p. 35). Non si è lontani dal vero quando si afferma che l’approssimarsi alla ‘lingua del cuore’ da parte di una figura come quella di Biagio Marin renda un prezioso servizio alla comunità e alla sua ‘lealtà linguistica’ ; contribuendo sicuramente ad alimentare o a rafforzare l’autocoscienza linguistica dei suoi parlanti, sostenendone l’idea che il proprio idioma costituisca un inestimabile valore.  

Riferimenti bibliografici Ascoli 1898 = G. I. Ascoli, Di un dialetto veneto, importante e ignorato. Lettera a un compagno di studi (Monte Generoso, agosto 1897), « Archivio Glottologico Italiano » 14 (1898), pp. 325335, anche in G. I. Ascoli, Scritti scelti di linguistica italiana e friulana, a cura di C. Marcato e F. Vicario, Udine, sff, 2007, pp. 257-267. Brevini 1987 = Poeti dialettali del Novecento, a cura di F. Brevini, Torino, Einaudi, 1987. Cortelazzo 1978 = M. Cortelazzo, Il dialetto di Grado. Risultati di un’inchiesta, vol. i, Pisa, Pacini, 1978. Frau 1984 = G. Frau, I dialetti del Friuli. Pisa, Pacini (“Profilo dei dialetti italiani” 6), 1984. Marcato 2002 = C. Marcato, Il Veneto, in M. Cortelazzo, C. Marcato, N. De Blasi, Gianrenzo P. Clivio, I dialetti italiani, Storia Struttura Uso, Torino, Utet, 2002, pp. 296-328. Marcato 2005 = C. Marcato, La venetofonia in Friuli Venezia Giulia, in Orioles-Toso 2005, pp. 509-515. Mengaldo 1978 = P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978. Pasolini, Lettere. 1940-1954 = Pier Paolo Pasolini, Lettere. 1940-1954, Con una cronologia della vita e delle opere, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1986. Orioles 2003a = V. Orioles, Le minoranze linguistiche. Profili sociolinguistici e quadro dei documenti di tutela, Roma, Il Calamo, 2003. Orioles 2003b = La legislazione nazionale sulle minoranze linguistiche. Problemi, applicazioni prospettive. In ricordo di Giuseppe Francescato, Atti del Convegno, Udine 30 novembre-1 dicembre 2001, a cura di V. Orioles, (= « Plurilinguismo. Contatti di lingue e culture » 9, 2002), Udine, Forum, 2003. Orioles - Toso 2005 = Le eteroglossie interne. Aspetti e problemi, a cura di V. Orioles, F. Toso, numero tematico di « Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata », 34/3 (2005). Schuchardt 1884 = H. Schuchardt, Dem Herrn Franz von Miklosich zum 20. November 1883, in Slawo-deutsches und slawo-italienisches, Graz, Leuschner u. Lubensky, 1884. Telmon 1992 = T. Telmon, Le minoranze linguistiche, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992. Ursini 1988 = F. Ursini, Varietà venete in Friuli-Venezia Giulia, in Lexikon der Romanistischen Linguistik, hrsg. von Günter Holtus, Michael Metzeltin, Christian Schmitt, Band iv, Italienisch, Korsisch, Sardisch, Tübingen, Niemeyer, 1988, pp. 538-550. Zamboni 1974 = A. Zamboni, Veneto, Pisa, Pacini (“Profilo dei dialetti italiani” 5), 1974.  











INDICE DEI NOMI

Adamo, Sergia, 186.

Afribo, Andrea, 160. Agnelli, Arduino, 186. Agostino, Aurelio, santo, 22. Alighieri, Dante, 25, 29, 62, 65, 92. Allegri, Mario, 31. Amendola, Giovanni, 125, 126, 128. Amendola, Giuseppe, 19. Andreotti, Giulio, 187. Anna Amalia, duchessa di Weimar, vd. Brunswick-Wolfenbüttel, Anna Amalia. Antonello, Anna, 64. Apih, Elio, 28, 123. Argenton, Bruno, 105. Ascoli, Graziadio Isaia, 170, 189, 191. Asor Rosa, Alberto, 34, 84. Assunto, Rosario, 105. Attila, re degli Unni, 177. Aumont, Jacques, 106.

Bachelard, Gaston, 107, 108.

Bacone, Francesco, 28. Bandini, Fernando, 23. Barabba, personaggio dei Vangeli, 31. Barbarani, Berto, pseudonimo di Roberto Tiberio Barbarani, 14, 79, 80. Barbina, Alfredo, 183. Barthes, Roland, 106. Barzetti, Roberto, 186. Bateson, Gregory, 113. Battigelli, Franca, 9, 12, 136, 140. Baudelaire, Charles, 25, 92. Beccaria, Gian Luigi, 33. Belci, Corrado, 116, 187. Bellotto, Bruno, 106. Benco, Silvio, 38 Beolco, Angelo, 62. Berdjaev, Nikolaj Aleksandrovič, 28. Bergamini, Giuseppe, 59, 119. Bergson, Henri, 106, 111, 128, 131. Berque, Augustin, 109. Bertone, Giorgio, 106, 108. Besse, Jean-Marc, 108, 109. Betocchi, Carlo, 60, 77. Bettarini, Rosanna, 39. Blumenberg, Hans, 105. Bo, Carlo, 49, 50, 60, 66, 67, 69, 71, 72, 74, 77, 79, 85, 135. Bodei, Remo, 105.

Boine, Giovanni, 128. Bolaffio, Vittorio, 36. Bonfanti, Giosue, 80. Bonfanti, Maria Luisa, 80. Bonomi, Andrea, 103, 113. Borghello, Gianpaolo, 9, 11, 82. Borlenghi, Aldo, 184. Borsetto, Luciana, 22, 27, 39, 62, 112. Bramati, Alberto, 109. Branca, Vittore, 23. Brandi, Cesare, 61, 62, 82. Brazzoduro, Gino, 17, 62, 64, 86, 125. Brevini, Franco, 23, 34, 111, 112, 190, 191. Broch, Hermann, 182. Bruni, Francesco, 183, 186. Bruno, Giordano, 29. Brunswick-Wolfenbüttel, Anna Amalia, 64. Buonarroti, Michelangelo, 126. Butor, Michel, 106.

C

acciari, Massimo, 174. Caliaro, Ilvano, 179, 185. Calvino, Italo, 42. Camerino, Aldo, 60, 74. Camuffo, Pericle, 9, 12, 15, 17, 18, 59, 61-63, 80, 106, 115, 124, 128, 130, 140, 175, 176, 183, 184, 187. Caproni, Giorgio, 74, 146. Carducci, Giosue, 105, 170, 183. Caretti, Lanfranco, 34. Carlo Magno, imperatore romano, 178. Carlotta Maria Amalia, imperatrice del Messico, 174, 179. Castellani, Giordano, 105. Catalano, Ettore, 107. Cattaruzza, Marina, 120. Cattelan, Paolo, 160. Cattunar, Alessandro, 120. Cavalcanti, Guido, 92. Cecchi, Emilio, 61, 79, 82. Cecotti, Franco, 120. Cecovini, Manlio, 18, 62. Cerneaz, Sara, 9, 12. Certeau, Michel de, 113. Cherbetz, Igniazio, 169. Chiarini, Paolo, Chiesa, Tiziano, 59. Cibotto, Gian Antonio, 63. Ciceri, Luigi, 190.

194

indice dei nomi

Cimabue, 177. Cimador, Gianni, 10, 12, 19. Claudio, v. Tiberio Claudio Nerone Germanico. Clivio Gianrenzo P., 191. Codignola, Ernesto, 130. Colli, Barbara, 59. Copeta, Clara, 106. Conrieri, Davide, 22. Conti, Antonio, 173. Contini, Gianfranco, 39, 77, 183. Corazzini, Sergio, 51. Corbanese, Girolamo, 120. Cortelazzo, Manlio, 189-191. Cosgrove, Denis E., 106. Crivelli, Renzo S., 106. Croce, Benedetto, 21, 22, 25, 26, 28, 32, 33, 38, 62, 82, 129, 130. Crotti, Ilaria, 59. Crovi, Raffaele, 67, 68, 70-72, 74. Cudini, Piero, 22 Curi, Fausto, 34. Cuzzi, Michele, 169. Cuzzi, Umberto, 169.

D

’Angelo, Paolo, 109. Daniele, Antonio, 9, 11, 53, 62, 145, 152, 153. D’Annunzio, Gabriele, 183. D’Antonio, Annamaria, 120. Dardel, Éric, 106, 109. Dazzi, Manlio, 85. Deanovic, Mirko, 172. Debenedetti, Giacomo, 67-69. De Blasi Nicola, 191. De Castro, Diego, 187. De Fanis, Maria, 133. Degrassi, Elena, 56. Degrassi, Maria, 56, 170. Degrassi, Vigilio, 170. De Laude, Silvia, 85. Del Beccaro, Felice, 61. Della Piccola, Pio, 171. Dell’Arco, Mario, 14, 66. Della Volpe, Galvano, 26. De Lollis, Cesare, 183, 184. Del Tedesco, Enza, 59. De Robertis, Giuseppe, 125, 127. Derossi, Rinaldo, 33. De Sanctis, Francesco, 25, 26. De Simone, Anna, 17, 21, 23, 27, 35, 171. Devescovi, Guido, 18, 181. de Waelhens, Alphonse, 103. Di Alesio, Carlo, 166. di Brazzà, Fabiana, 9, 11.

Didi, moglie di Mario Smareglia, 56. Di Giacomo, Salvatore, 61, 66, 80, 82. Dorato, Bianca, 17. D’Orsi, Giacomo, 186. Dovier, Mario, 56. Duncovich, Piero, 171. Đurić, Željko, 183. Eluard, Paul, 91. Eckhart di Hochheim (Meister Eckhart), 128, 173, 181. Elia, patriarca di Aquileia, 177, 178. Englen, Alia, 59. Eschilo, 92.

F

abi, Lucio, 120. Falqui, Enrico, 41, 81. Fantoni, Antonio (Tonci), 117. Fasolo, Ugo, 60. Fazio-Allmayer, Vito, 130. Ferretti, Gian Carlo, 34, 61, 64. Ferri, Francesco, 34. Filippini, Enrico, 110. Forti, Marco, 73, 79, 80-82. Frau, Giovanni, 189, 191. Fraulini, Marcello, 62. Frémont, Armand, 109. Fubini, Mario, 22, 23, 36, 75, 77. Fubini, Riccardo, 22.

G

adda, Carlo Emilio, 81. Galimberti, Cesare, 23. Gasparini, G., 34. Gasparotto, Lisa, 9, 11, 59. Gastaldo Morandini, Luisa, 86. Gatto, Alfonso, 34, 81, 157, 164. Gautier, Théophile, 28. Gentile, Emilio, 127. Gentile, Giovanni, 21, 26, 129-131. Gesù, 22, 29, 31. Ghidetti, Enrico, 34. Giacomino, vd. Debenedetti, Giacomo. Giacomini, Amedeo, 89. Giammattei, Emma, 129. Gibellini, Pietro, 62. Giotti, Virgilio, 18, 32-36, 38, 49, 60, 64, 79, 80. Giotto di Bondone, 177. Giovanetti, Marco, 10, 12, 19, 186, 188. Giudici, Giovanni, 166. Gobetti, Piero, 19. Goethe, Johann Wolfgang, 55, 64, 65, 76, 92, 170. Goldoni, Carlo, 62, 171. Golledge, Reginald G., 108. Gregori, Elisa, 34. Griffero, Tonin0o, 106.

indice dei nomi Griggio, Claudio, 12, 59, 119. Grignani, Maria Antonietta, 153. Guagnini, Elvio, 11, 18, 19, 21, 23, 30, 32, 33, 56, 59, 62, 89, 103-106, 115, 119, 137, 175, 188. Guerra, Tonino, 23, 63. Guerrini, Adriano, 86. Guglielmi, Guido, 153. Guglielminetti, Marziano, 26, 174. Guido, nipote di Biagio Marin, vedi Serena, Guido.

Heine, Heinrich, 55, 170.

Hersch, Jeanne, 109. Hofmannsthal, Hugo von, 112. Hölderlin, 92. Holtus Günter, 191. Honoré Bianchi, Oliviero, 62. Husserl, Edmund, 110.

Ibsen, Henrik, 92, 127.

Invitto, Giovanni, 113. Iribarren, Manuel, 180. Isnenghi, Mario, 112.

Jahier, Piero, 125, 126.

Jakob, Michael, 42, 43, 133. Jemolo, Carlo Arturo, 64, 76, 86, 107, 175. Jiménez, Juan Ramón, 24.

Karlsen, Patrick, 63.

Kezich, Fulvio, 15. Krishnamurti, Jiddu, 22.

L

anaro, Silvio, 112. Lando, Fabio, 103, 105. Lausberg, Heinrich, 154. La Via, Stefano, 157. Lenau, Nikolaus, 55, 170. Leopardi, Giacomo, 25, 28, 56, 100, 105, 180. Ley, David, 103. L’Hermite, Stefano, 69, 71, 72. Liberale, Marzia, 9, 12. Loewy, Marcello, 123. Lombardi, Enrico, 125, 126. Lombardo Radice, Giuseppe, 130. Longo, Giuseppe, 60, 113. Lowenthal, David, 103. Lunzer, Renate, 63. Luperini, Romano, 153. Lupo, duca del Friuli, 176. Luti, Giorgio, 34.

M

acchia, Giovanni, 157. Magrelli, Valerio, 145, 154.

195

Magris, Claudio, 14, 22, 24, 60, 62, 81, 83, 85, 90, 94, 95, 134, 135, 145, 148, 154, 174. Maier, Bruno, 24, 27, 33-35, 62, 64, 105. Maldiney, Henri, 104, 106, 198, 113. Manacorda, Guido, 64. Manfredini, Manuela, 161. Mansutti, Aldo, 120. Manzoni, Alessandro, 178, 184. Maran, Dino, 131. Marcato, Carla, 11, 189, 191. Marchesan, Camilla, 119, 120, 186. Marchesini, Bepi, 170, 171. Marchesini, Lina, 96. Marchi, Marco, 123. Marchione, Margherita, 128. Marcolungo, Giorgio, 70. Marin, Falco, 9, 14, 16, 50, 85, 91, 147, 151, 174, 180. Marin, Gioiella, 59. Marin, Ilenia, 19, 103, 104. Marini, Giuseppina (Pina), 45, 50, 61, 92, 109, 111, 132. Marino, Giambattista, 26. Maroni, Riccardo, 31. Massimiliano Ferdinando Giuseppe d’Asburgo, arciduca d’Austria e imperatore del Messico, 178, 179. Mateo, contadino, 56. Mattioni, Stelio, 105. Mazzini, Giuseppe, 169, 170, 187. Mazzocut-Mis, Maddalena, 109. Mazzoni, Guido, 123. Menato, Marco, 19. Meneghina, compaesana di Marin, 56. Mengaldo, Pier Vincenzo, 22, 23, 34, 62, 63, 88, 95, 134, 145, 154, 190, 191. Menichetti, Aldo, 100, 161. Merleau-Ponty, Maurice, 103, 109, 110, 113. Merton, Thomas, 29. Mesirca, Giuseppe, 60. Metastasio, Pietro, 159, 160. Metzeltin Michael, 191. Meyer, Leonard B., 160. Michelstedter, Carlo, 64, 170. Milanesi, Marica, 109. Milani, Lorenzo, 56, 57. Milanini, Claudio, 105. Minguzzi, Simonetta, 10. Modena, Anna, 33-35. Mondadori, Alberto, 67, 68. Mondadori, Leonardo, 65. Montale, Eugenio, 38, 39, 42, 54, 77, 153. Moore, Gary T., 108. Morandini, Luciano, 9, 85-94.

196

indice dei nomi

Morbiato Luciano, 183. Moretti, Marino, 69. Moretto, Marta Angela Agostina, 63. Mulitsch, Emilio, 170. Muzzioli, Francesco, 105.

O

Pierro, Albino, 23. Pighi, Giovanni Battista, 66. Pinotti, Andrea, 104. Pintor, Giaime, 179. Pirandello, Luigi, 175, 183. Piras, Tiziana, 15. Pirina, Marco, 120. Pirro, Marcello, 86. Platone, 22, 27, 28, 39. Pocar, Ervino, 64, 67, 69-72, 76, 170. Poerio, Alessandro, 184. Polillo, Sergio, 61. Porteous, Douglas, 103, 104, 107, 110, 112. Pound, Ezra, 157, 186. Pratolini, Vasco, 176. Pregliasco, Marinella, 146. Prezzolini, Giuseppe, 15, 18, 19, 61, 63-65, 68, 75, 80, 82, 86, 124-131, 180, 184-187. Prontera, Angelo, 106. Pupo, Raoul, 120. Puppo, Mario, 183, 184.

Paccagnella, Ivano, 34.

uaglino, Margherita, 146. Quaini, Massimo, 42, 109. Quarantotti Gambini, Pier Antonio, 15, 63, 75. Quasimodo, Salvatore, 75. Quazzolo, Paolo, 15.

N

aldini, Nico, 85, 191. Narduzzi, Marco, 179. Nasi, Franco, 154. Neri, Guido Davide, 103. Nicodemo, personaggio dei Vangeli (Gv 3, 1-21), 22. Nietzsche, Friedrich, 52, 128, 129. Norbedo, Roberto, 12, 59, 115, 119, 179, 185, 186. Norberg-Schulz, Anna Maria, 104. Norberg-Schulz, Christian, 104. Novalis, 170, 180. Noventa, Giacomo, 49, 60, 73, 74, 77, 79, 80. berdan, Guglielmo, 119. Olivotto, Nicoletto, 96. Omero, 62, 92, 126. Orati, Daniela, 106. Orioles, Vincenzo, 11, 189, 191. Ossola, Carlo, 166. Paladin, Giovanni, 117. Palazzeschi, Aldo, 51, 60, 65, 69, 82. Pancrazi, Pietro, 32-34, 38, 44, 62, 63, 88. Pantano, Alessandra, 103. Paolini, Alcide, 79, 80. Paolino I, patriarca di Aquileia, 177. Paolo Diacono, 176. Papini, Giovanni, 125-129, 183. Pappucia, Fulvio, 120. Parks, Gerald, 14. Pascoli, Giovanni, 34, 92, 97, 101, 111, 170. Pasolini, Pier Paolo, 14, 23, 30, 31, 33, 34, 36, 53, 60, 63, 66, 68, 70, 71, 74, 85, 95-97, 134, 145, 151, 153, 183, 190, 191. Paternolli, Nino, 170. Patočka, Jan, 103. Pautasso, Sergio, 34. Péguy, Charles, 106, 109, 111. Pellegrini, Ernestina, 34, 105. Pertici, Roberto, 123. Perucchi, Lucio, 104. Petrarca, Francesco, 49, 53, 101, 153, 173, 181. Petrone, Mario, 106. Petronio, Giuseppe, 60. Petrosino, Silvano, 109. Picamus, Daniela, 15, 63.

Q

R

achelwiltz, Mary de, 157. Raymond, Marcel, 25, 26. Rebellato, Bino, 60. Rebora, Clemente, 183. Relph, Edward, 104. Renzi, Lorenzo, 150. Riccio, Ciro, 183. Richter, Mario, 183. Ricorda, Ricciarda, 59. Rilke, Rainer Maria, 92, 173, 175, 179, 180. Rimbaud, Arthur, 127. Rinaldi, Rinaldo, 34. Ritter, Joachim, 106, 113. Ritter Santini, Lea, 154. Rocchi, Luciano, 179. Rossi, Aldo, 34. Rüesch, Diana, 19. Russo, Fabio, 10, 12, 146, 174, 179, 180. Ruzante, vd. Beolco, Angelo.

Saba, Umberto, 18, 24, 28, 33, 36-38, 64, 69, 105, 106, 175, 181. Saffo, 92. Salimbeni, Fulvio, 12, 64, 115, 187. Samuels, Marwyn S., 103.

indice dei nomi Sansa, Adriano, 16. Sanson, Renzo, 18. Sansone, Mario, 33. Santarcangeli, Paolo, 17. Santato, Guido, 34. Santoli, Vittorio, 183. Sassatelli, Monica, 104. Scalon, Cesare, 59, 119. Scarpa, Francesca, 41, 123, 127. Scheiwiller, Vanni, 14, 59, 60, 64-68, 74, 76, 81, 82, 86, 184. Schmitt Christian, 191. Schuchardt, Hugo, 191. Scotti, Mario, 22. Segre, Cesare, 34, 85. Senardi, Fulvio, 145, 174. Serena, Guido, 16. Sereni, Giovanna, 59. Sereni, Silvia, 59. Sereni, Vittorio, 9, 59-83. Serra, Edda, 9, 11, 12, 14-18, 21-23, 49, 56, 59, 62, 63, 83, 85, 86, 90, 93, 95, 107, 115, 119, 127, 130, 134, 135, 140, 145, 152, 174-176, 180, 183, 187, 188. Sgorlon, Carlo, 89. Shakespeare, William, 92, 126. Simmel, Georg, 104. Sinisgalli, Leonardo, 39. Siti, Walter, 85 Slataper, Giuliano, 176. Slataper, Scipio, 10, 18, 22, 64, 118, 119, 123, 125127, 160, 173-182, 184-188. Smareglia, Mario, 56. Socrate, 27, 29. Soffici, Ardengo, 125, 127, 183. Sofocle, 92. Sorescu, Marin, 150. Spadaro, Stelio, 63. Spaini, Alberto, 18, 123. Spagnoletti, Giacinto, 60, 81. Spazzali, Roberto, 187. Stara, Arrigo, 106. Straus, Erwin, 104, 108, 113. Stuparich, Carlo, 18. Stuparich, Giani, 18, 45, 64, 123, 180, 181. Stussi, Alfredo, 33. Schwarzschlid, Leopold, 118. Svevo, Italo, 64, 185.

T

agliaferri, Aldo, 157. Talami, Giovanni, 115-117, 119, 186. Tarquini, Alessandra, 130 Tasso, Torquato, 55. Tellini, Gino, 184.

197

Telmon, Tullio, 189, 191. Tesio, Giovanni, 85. Testa, Enrico, 87, 88. Tiberio Claudio Nerone Germanico (Claudio), imperatore romano, 121. Tito, Josip Broz, 63, 120. Tito Flavio Vespasiano (Tito), imperatore romano, 121. Todeschini, Fabio, 23, 62. Tomizza, Franca, 56. Tomizza, Fulvio, 15, 65, 80, 81. Tommaseo, Niccolò, 10, 183-188. Tordi Castria, Rosita, 105. Torlontano, Giuliano, 30, 64. Toso, Fiorenzo, 189, 191. Tosti, Francesco Paolo, 100. Traverso, Leone, 112. Trombatore, Gaetano, 177. Tuan, Yi-Fu, 103, 105, 108, 133. Turchi, Roberta, 184.

Umek, Dragan, 120.

Ungaretti, Giuseppe, 38. Ursini, Flavia, 189, 191.

Valdevit, Giampaolo, 28.

Valentinuzzi, Isabella, 115, 140, 175, 176, 183, 187. Valeri, Diego, 34, 60, 77. Valeri, Nino, 75. Valéry, Paul, 25, 26. Vallecchi, editore, 61. Vascotto Patrizia, 15. Vernier, Alfredo, 16 Vespasiano Tito Flavio (Vespasiano), imperatore romano, 121. Vetri, Lucio, 154. Vicario, Federico, 191. Vico, Giambattista, 25. Vivante, Angelo, 18, 23. Voghera, Giorgio, 21, 26, 86, 113, 175. Volpi, Alessandro, 184.

Wright, John Kirtland, 103. Zambon, Michele, 9, 11.

Zamboni, Alberto, 189, 191. Zampa, Giorgio, 39, 54. Zanini, Piero, 109. Zanzotto, Andrea, 49, 63, 87, 88, 90, 91, 159, 160, 163. Zava, Alberto, 59. Zuccheri, Luciana, 15. Zucco, Rodolfo, 9, 12, 49, 59, 161, 163, 166, 173.

co mp osto in ca r atte re dante monotype dalla fa b rizio se rr a e ditore, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i po g r a fia di ag na n o, agnano pisano (pisa). * Maggio 2014 (c z 2 · f g 1 3)