Leopardi e il mondo antico. Atti del V Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980)

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Leopardi e il mondo antico. Atti del V Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980)

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ISBN 88 222 30949

NOV 2 6 1986

CENTRO

NAZIONALE

DI STUDI RECANATI

LEOPARDIANI

Direttore

Umberto Bosco

Commissione

scientifica

Comitato direttivo

Emilio Bigi

Luigi Calamanti

Walter Binni

Franco Foschi

Sergio Biti

Aulo Greco

Ferdinando Foschi

Anna Leopardi

Antonio La Penna

Gaetano Mariani

Giuseppe Pacella Giorgio Petrocchi Mario Scotti

Sebastiano Timpanaro

Mariella Nebbioli, Segretaria

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https://archive.org/details/leopardieilmondo0000conv

Parole introduttive del direttore del Centro

Nel licenziare il precedente volume di questa serie di Atti di Convegni leopardiani (quello su « Leopardi e la letteratura italiana dal 200 al 600 », Firenze, Olschki 1978) pensavamo

di concludere con esso il ciclo inteso

a studiare i debiti del Leopardi verso i predecessori e quelli dei successori verso di lui. Pensavamo che un’altra grande sezione di questo tema, quella sut rapporti tra il Leopardi e il mondo antico, fosse stata già exarata convenientemente e che non convenisse insistervi. Era un errore, e lo correg-

gemmo porto. questo aspetti

dando a un successivo convegno come tema, appunto, quel rapIl presente volume ne raccoglie gli Atti; la ricchezza e la novità di volume — sia per quel che riguarda uno sguardo generale sui vari della conoscenza leopardiana del mondo antico, sia anche per i par-

ticolari — ci confermano che avevamo

torto prima e ragione poi.

Nel quadriennio trascorso dall’ultimo Convegno, il Centro leopardiano ha continuato per la sua tranquilla via, senza lasciarsi distogliere dai suoi compiti di studio sereno, che non trascura ma non si lascia abbacinare da ogni novità, per luccicante che sia. Nel quadriennio abbiamo avuti altri due seminari per giovani studiosi stranieri, diretti egregiamente da E. Bigi e A. Russi; altri ne seguiranno, sia pure a ritmo un po’ rallentato, come

i fondi a disposizione ci consentiranno. Un nuovo volume di scritti filologici del Leopardi è in corso di stampa. Nel quadriennio, però, il Centro ba registrato un grave lutto: la scomparsa del suo vice-direttore Pier Francesco Leopardi, che non per nulla nelle nostre precedenti parole introduttive chiamammo il nostro genius loci, per la sua diretta discendenza da Giacomo e da Ettore Leopardi, fondatore del Centro, e per la sua attività instancabile ed entusiasta. Al suo posto, nel Comitato direttivo, è stata chiamata la consorte di Pier Francesco, la contessa Anna Leopardi, che ha

fatto sua la causa leopardiana così pienamente da farci dimenticare che essa non è una Leopardi per sangue. Ella ci ha già dato molti sagaci e preziosi consigli. A Lei e agli altri membri del Comitato e della Commissione scientifica vada il ringraziamento del direttore che sta per celebrare il giubileo della sua direzione. A quei colleghi si deve se il Centro ha potuto in questo più che ventennio giovare serenamente agli studi leopardiani.

Leopardi e le lingue antiche*

Su Leopardi e la linguistica tentai una messa a punto in un discorso (tenuto il 29 giugno 1975 qui a Recanati) che veniva dopo pagine illuminanti di Sebastiano Timpanaro, ed anche il tema Leopardi e le lingue antiche è stato trattato, soprattutto per quanto riguarda il latino, dallo stesso Timpanaro in pagine magistrali, che ora figurano nel volume su La filologia di Giacomo Leopardi, la cui seconda edizione è del principio del 1978. Un esame esteso a tutti i passi riguardanti le lingue antiche consente, però, non solo di confermare le posizioni così ben documentate del Timpanaro, ma di aggiungere qualche osservazione non del tutto marginale. Lingue antiche non vuol dire soltanto latino e greco ed il linguista è sollecitato, nella sua curiosità, ad entrare in un universo di cultura che si

formò in un’incessante volontà di sapere ed in una penetrante capacità di discernere, pur in un ammasso non sistematico di informazioni raccolte in un luogo — la biblioteca paterna e libri di prestito locale certamente scarsi — cognizioni e notizie che condizioni obiettive non permettevano certo di approfondire. Le lingue impegnarono Leopardi prestissimo! e basterà pensare che nel 1813 egli aveva cominciato da solo lo studio del greco e, come risulta da notizie biografiche, apprese presto l’ebraico da alcuni ebrei giunti a Recanati da Ancona. Le lingue moderne le imparava, per così dire, nei ritagli di tempo, utilizzando perfino i momenti impiegati dalla carta su cui scriveva, per asciugarsi.

Il sentimento che aveva dell’antichità fu da lui espresso in più di un passo dello Zibaldone in cui si valutano gli antichi « più grandi, magnanimi e forti di noi » ° e si considera la Grecia e l’Italia « la patria e il luogo » e l’antichità « il tempo » del bello e dell’immaginazione * Le citazioni sono fatte dall’edizione di Flora, in attesa dell’edizione Pacella. 1 Si veda la traduzione del XLVI Salmo di Davide, fatta nel 1816, ad opera di Giacomo con la collaborazione del fratello Carlo in Un inedito di Giacomo e Carlo Leopardi, di ORNELLA Moroni nel « Giornale storico della letteratura italiana », vol. CLVI, 1979, pp. 420-432. 2 15 gennaio 1821, I 399.

3 12 aprile 1821, I 622.

11

Bisognerà distinguere, dunque, fra l’indeterminata aspirazione ad una antichità mitizzata e sognata come luogo ideale di creazione e di bellezza ed il reale atteggiamento di riflessione e di razionalizzazione che filologia e linguistica rigorosamente richiedevano. Né si potrà trascurare il legame che Leopardi vedeva indissolubile fra lingua e letteratura. Per lo stesso sanscrito, egli supponeva che la sua persistenza nei secoli e in luoghi molto ampi dell’India si debba alla ricchezza della letteratura * anche se altrove aveva detto che « Neanche la letteratura è cagione principale della universalità di una lingua » Ovviamente non si può pretendere da lui una conoscenza della natura fortemente artificiale del sanscrito ma la presenza di una letteratura fra le più ampie e varie di quante ne sorsero al mondo sicuramente influì sulla continuità delle parlate indoarie, benché la letteratura sanscrita avesse per secoli trasmissione esclusivamente orale. Strettamente connessa con pregiudizi romantici è, anche per il sanscrito, il giudizio di bellezza e poeticità attribuito ad una lingua: « La sascrita, riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e poe-

ticissima » in cui pregi della letteratura sono trasferiti, con tipico atteggiamento romantico, al mezzo linguistico. Anche in altri passi” Leopardi aveva parlato di qualità e pregi del sanscrito riferendosi ad un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena, 1791, 24 nov., p. 365, colonna I,

ed in questo accenno è da vedere come la sua ben nota curiosità si spingesse fino a trarre notizie linguistiche da periodici provinciali in cui, tuttavia, potessero apparire pagine o informazioni su soggetti a lui cari.

Jones è, come è noto, uno degli antesignani degli studi indologici ed è interessante che in una rivista che si pubblicava a Cesena alla fine del Settecento, si trovi un suo articolo. Ma l’informazione di Leopardi sul sanscrito si deve anche ad altre fonti, per esempio alla Encyclopédie méthodique, Grammaire et littérature, particolarmente il passo di M. Dow, agli « Annali di Scienze e lettere di Milano », 1811, gennaio V, n. 13 ed

alla Gramatica di Wilkins” Ma a Jones soprattutto egli deve l’acquisizione che dal sanscrito sono derivati o hanno avuto una comune origine il greco, il latino,” il gotico (e si aggiungeva, incongruamente, l’egiziano e l’etio-

4 5 6 7

29 aprile 5 maggio 12-13-14 11 aprile

1821, I 668-669. 1822, I 1455. settembre 1820, I 241. 1821, I 620-621 e 25 aprile 1821, I 660.

8 23 luglio 1823, II 222-223. 9 11 aprile 1821, I 620. 10 29 maggio-5 giugno 1821, I 758; 2-5 luglio 1821, I 856; 22 novembre

13-14 giugno 1823, II 90; 6 dicembre 1823, II 782. 12

1821, I 1314;

pico).! Il dilemma, come è noto, rimase fino a Bopp ma l’idea di una unità indoeuropea è presente a Leopardi che l’esprime nel modo più compiuto il 20 gennaio 1822 ! in un passo su cui si è giustamente fermato il Timpanaro e che citiamo qui perché si presta ad alcune ulteriori osservazioni: Nella lingua sascrita (di immensa antichità) troviamo parole, forme, declinazioni, coniugazioni ecc. o similissime, o al tutto eguali alle corrispondenti latine, massime se si abbia riguardo, come va fatto, alle sole lettere radicali. E notate che gran parte di questi nomi o verbi sono di prima necessità (come il verbo essere, la parola uomo, padre, madre ecc.) o rappresentano idee affatto primitive nelle lingue. E parecchie di tali voci sascrite si trovano anche corrispondere alle analoghe greche, ma effettivamente meno che alle latine e forse in minor numero. Che segno è questo dunque, se non che la lingua latina conserva assolutamente più numerosi e più chiari della greca i vestigii della remotissima antichità, della sua remotissima condizione, e forse della sua sorgente? Giacché le relazioni avute dal Lazio con l’India sono tanto antiche che si perdono nella caligine, e sono ignote alla storia. Aggiungete che tali parole ecc. essendo di prima necessità ed uso, dimostrano non una semplice né recente relazione avuta con quelle parti, ma un’antichissima derivazione o comunione di origine con quei popoli e quelle lingue. E le dette parole sono assolutamente proprie e primitive della lingua latina, non già forestiere né recenti, né ascitizie ecc. E nessuno le può credere o derivate dall’India mediante il più recente commercio avuto da’ romani con essa, quando la lingua latina era già formata, e quelle parole in uso continuo negli scrittori, monumenti ecc. che ancora rimangono, ed analoghe poi anche alle greche; o viceversa derivate in quel tempo dal Lazio nell’India, essendo esse di uso sì quotidiano e necessario, essendo la lingua indiana antichissima (che certo non aspettò sì bassi tempi a provvedersi di parole necessarie, quando essa era già da gran tempo più perfetta della latina) ... Né si può credere che tali parole venissero anticamente nel Lazio per mezzo della lingua greca.

In questo passo « una formulazione rali », riscontriamo zione dal sanscrito

oltre a trovare, per usare le parole del Timpanaro,” di quella che sarà la moderna teoria delle aree lateche si ha già il superamento del dilemma « derivao comunità d’origine » che tale teoria delle aree late-

rali rende possibile; non solo, ma vediamo affermata l’idea dell’arcaicità, per molti aspetti, del latino di fronte al greco (concetto già espresso ! con riferimento a fonti inglesi, il 29 maggio-5 giugno 1821 e ripetuto il 13 giugno 1823 5), acquisizione della linguistica recente; né è da trascurare la ll 12 13 14 15

Ibid. [ 1418-1419. P. 163. I 764-765. II 84,

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cura di escludere la possibilità di prestiti, principio basilare della comparazione. Si ha, insomma, una riflessione di grande portata rispetto alle osservazioni dell’affinità generale fra le lingue indoeuropee. Il famoso cin: quecentista Filippo Sassetti era noto ! al Leopardi dalla Storia della letteratura italiana di Tiraboschi che lo definiva « se non erro, il primo [che] diede notizia all’ Europa della lingua sascrita, e molto veridica e giusta; della qual lingua trattò poi diffusamente un altro nostro italiano, il P. Paolino da S. Bartolommeo, Biblioteca Italiana, n. 23, novembre 1817, p. 206 ».” Di quest’ultimo vi è anche notizia il 25 aprile 1821, quale sostenitore dell’affinità della lingua tedesca col sanscrito. Né manca! un accenno alle Lettere sull’India di Maria Graham, autrice di un Giornale del suo soggiorno nell’India in cui fa un confronto — da lui definito « curioso » — del sanscrito col latino, il persiano, il tedesco, l’inglese, il francese e l’italiano

e si parla di opere composte in sanscrito, con rinvio alla « Biblioteca Italiana », vol. IV, p. 358, nov. 1816, n. 11, Appendice, Parte italiana, ren-

dendo conto del « Giornale Enciclopedico di Napoli », n. V?. La cultissima lingua dell’India antica ? è considerata in un monumento letterario molto celebre, quando si fa un rinvio a D. Bertolotti che, nello

« Spettatore » di Milano (15 luglio 1817 quaderno 80 Parte straniera, p. 273) riferiva della traduzione del Megha Duta di Calidasa, Calcutta 1814.

La curiosità per il mondo indiano che aveva fatto dire a Federico Schlegel nel Dialogo sulla poesia pubblicato nell’« Athenaeum » (1800): « Nell’Oriente noi dobbiamo cercare ciò che è più altamente romantico: e quando potremo attingere alla fonte, l'apparenza di meridionale ardore che tanto ora ci attrae nella poesia spagnola, ci sembrerà forse a sua volta occidentale e modesta », trova il Leopardi in una posizione che si divide fra l’interesse per la posizione di quella lingua rispetto a quelle occidentali e la soglia letteraria di cui ebbe, come si è visto, conoscenza, anche se

non riuscì a varcarla. Il nome di Federico Schlegel non compare nello Zibaldone, mentre Augusto Guglielmo è citato in un passo in francese tratto da Madame de Staél in cui gli si fa un elogio come traduttore di poeti inglesi, italiani e spagnoli. Non vi è dubbio che tutta una cospicua parte di cultura moderna, specialmente tedesca, era preclusa a Leopardi che pure riesce, per altre vie, ad impadronirsi di aspetti molto recenti

16 23 luglio 1823, II 222-223. +

7 23 luglio 1823, II 223.

18 I 659. 9 22 aprile 1821, I 653. 20 18 aprile 1821, I 640.

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delle scienze umane. Sia qui indicata, incidentalmente, per gli studi tedeschi, una cetta sottovalutazione che si incentra negli accenni di sfuggita fatti a Kant, al cui proposito e a proposito di Leibniz, Leopardi dice:” « Ho detto che nessuna veramente strepitosa scoperta nelle materie astratte, e in qualsivoglia dottrina immateriale è uscita dalle scuole ecc. tede-

sche »; e, poco più avanti:

« Ma Cartesio, Galileo, Newton, Locke ecc.

hanno veramente mutato faccia alla filosofia ». Del resto, un atteggiamento contro la scienza tedesca nel suo insieme Leopardi espresse nel celebre passo dei Paralipomeni della Batracomiomachia I, st. 16-17 che, risalendo

al 1834, sembrano una ritrattazione anche di concetti che egli condivideva e che si spiegano solo con una ventata di sarcastico disprezzo per tutto (e la Palinodia può insegnare qualcosa) o di protesta per le esagerazioni di una cultura che stava diventando la più profonda del secolo: Ma un tedesco filologo, di quelli Che mostran che il legnaggio e l’idioma Tedesco e il greco un dì furon fratelli, Anzi un solo in principio, e che fu Roma Germanica città, con molti e belli

Ragionamenti e con un bel diploma Prova che lunga pezza era già valica Che fra’ topi vigea la legge salica. Che non provan sistemi e congetture E teorie dell’alemanna gente? Per lor, non tanto nelle cose oscure L’un dì tutto sappiam, l’altro niente, Ma nelle chiare ancor dubbi e paure E caligin si crea continuamente: Pur manifesto si conosce in tutto Che di seme tedesco il mondo è frutto.

Leopardi aveva, ad ogni modo, ragione quando* nota che l’orientalismo veniva dall’Inghilterra alla Francia sulla fine del Settecento e che dalla Francia passava al resto dell’Europa. Leopardi dà prova di conoscere la fondamentale vicenda del persiano valendosi della mediazione dello « Spettatore » di Milano, 15 ottobre 1816, in cui era riportato un articolo del « Monthly Magazine ». Si tratta di una storia linguistica divisa in due epoche molto nette, quella originaria e quella dell’influenza araba. Il poeta Firdusi e i suoi contem-

21 5-6 ottobre 1821, I 1180. 22 26 aprile 1821, I 662. 23 17 aprile 1821, I 639.

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poranei rappresentano la prima età, mentre il Dizionario di Richardson è privo dei nove decimi delle parole da essi usate in quanto rappresenta la fase moderna, arabizzata, della lingua. Certe osservazioni, come già si è visto, sono occasionali ma vi è da notare che Leopardi, raccogliendo, ovviamente di seconda mano, notizie da riviste e periodici, scelga proprio dei passi che mettono in rilievo questioni fondamentali, come è il caso dell’articolo nelle « Effemeridi letterarie » di Roma, t. II, pp. 58-70 (gennaio 1821), intitolato Del dialetto

Veneto: Lettera di un Viaggiatore oltramontano (inglese) al quale premette l’indicazione: « Sopra i dialetti della lingua latina ». In tale articolo, con riferimento alle iscrizioni raccolte dal Maffei, si sostiene che l’antica lingua dei popoli veneti traspare dal loro latino e si suppone che gli originari dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia siano una lontana ragione della varietà dei linguaggi che si parlano presentemente; e si fa esplicito riferimento all’assorbimento di caratteri indigeni nelle diverse zone in cui il latino si sovrappone. Si parla, perciò, della « patavinità o padovanismo » attribuito a Tito Livio e di certi veronismi di Catullo. Ma più che di queste alquanto nebulose particolarità (spesso le esemplificazioni sono meno felici dei principi generali) occorre notare che qui abbiamo, nell’assunto principale, l’affermazione del principio del sostrato etnico ” già del resto ampiamente presentato il 12-13 aprile 1821 * e il 24 aprile dello stesso anno.” In quest’ultimo passo è fatto un preciso cenno all’etrusco, all’osco, al volsco, lingue che non perirono quando ad esse si sovrappose il latino ma persistettero presso il volgo, tanto da far apparire il posteriore riferimento al Maffei non solo la derivazione da una fonte ma un punto da ampliare. Questo, della persistenza di elementi linguistici precedenti in lingue conquistatrici è un principio caro a Leopardi che in questo precedette Carlo Cattaneo e Graziadio Isaia Ascoli; ed è anche espresso il 6 settembre 1923,* riferendosi al pingue quiddam ... atque peregrinum attribuito da Cicerone (Pro Archia c. X) ai poeti di Cordova che egli intende come

« un latino che sentiva di spagnolismo ». Del resto sulla sovrapposizione di una lingua ad un’altra e sulle sue conseguenze, egli nota che il latino conquistò il celtico e di qui nacquero il francese e lo spagnolo ” mentre il greco non fu conquistato e con que24 3 dicembre 1822, II 22-23. 25 Si veda il mio Leopardi linguista, « Studi e Saggi linguistici », vol. XVI, 1976, p. 1. 26 I 624. ZI 656. II 414-415. è 12-13 aprile 1821, I 624 e vedi anche 29 aprile 1821, I 667.

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sto egli metteva in rilievo il valore del prestigio culturale rispetto alla forza delle armi o della politica.® Sull’etrusco Leopardi non poteva scostarsi dalle opinioni di un Lanzi per il quale l’etrusco sarebbe un misto di latino arcaico e greco arcaico.

Potrà apparire strano che la conoscenza dell’ebraico, testimoniata, per esempio, dalla notazione che i suffissi e gli affissi di quella lingua non hanno nulla a che fare coi composti non abbia ispirato a Leopardi nessuna particolare osservazione generale. Egli si limita a parlare della sua rozzezza e antichità,” della sua povertà, della sua ambiguità per i troppi significati di una stessa parola,* della mancanza di varietà di stili * ma non uscì da giudizi — tutto sommato — generici. Di ben maggior peso sono le sue notazioni sulla lingua cinese della quale, dopo aver notato che è « meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a causa della meravigliosa immutabilità di quel popolo »,” poi * sostiene che nei secoli deve essere cambiata, secondo il principio che è in lui radicato, della mutabilità dei sistemi linguistici.” Del resto, il suo ottimo orientamento sul valore degli ideogrammi che doveva ad una attenta lettura di varie fonti, l’aveva prima convinto della immutabilità da tutti sostenuta, poi un’attenta riflessione l’aveva indotto a cambiare parere. La lingua antica per eccellenza è, per Leopardi, la lingua greca, chiamata addirittura « onnipotente »! ricca di «facoltà produttrice », in quanto « in essa può dirsi che concepita appena un’idea per nuova ch’ella sia è già fatta la nuova parola che l’esprima »,% atta alla filosofia più di qualunque altra lingua.* Il greco è considerato nella sua continuità per 23 secoli * e si constata il suo continuo arricchimento in ogni epoca,” 30 31 32 33 34

11 maggio 1821, I 692. 29 maggio-5 giugno 1821, I 767. 18 marzo 1821, I 550. I 853. I 1235-1236.

35 I 719.

36 37 38 39

II 165-166. 29 maggio-30 giugno 1821, I 759-760. 17 giugno 1821, I 793-794. Vedi Leopardi linguista, p. 4.

4 14 aprile 1821, I 630-633;

41 42 43 44

16 maggio 1821, I 709.

2 dicembre 1821, I 1347. 2 settembre 1821, I 1049-1050. 9 ottobre 1821, I 1182; 10 settembre 1821, I 1201. 17 maggio 1823, II 49-50.

45 10 febbraio 1821, I 470.

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esemplificando tale osservazione in modo particolare con Platone che « abbonda ... di voci nuove e sue proprie, esatte e logiche ovvero ontologiche, che da niun altro si trovano adoperate, o che da’ suoi scritti furono tolte ».# Ovviamente, non si può parlare di greco senza tener presente le distinzioni dialettali. Per quanto, come ha notato il Timpanaro, i mezzi di studio della biblioteca paterna fossero scarsi per uno studioso della sua forza (ma, in fondo, Monaldo aveva pur amore per i libri se era riuscito a mettere insieme un patrimonio librario rilevante), Leopardi, sia pur con riferimento alla mediocre Introduzione alla lingua greca del Sisti, non solo elenca i dialetti greci ‘4 ma entra nella collocazione degli autori ed arriva fino alla demolizione del pregiudizio « che il dialetto ionico ... era l’antico dialetto attico ». E non si citerebbe questo passo se non fosse per rilevare che Leopardi esplicitamente esclude che un dialetto prevalga sugli altri per sé « perché a tutti i popoli e parti di essi è più bello degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello del dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ecc. » ed escludeva che l’attico avesse una preponderanza, al tempo di Omero, letteraria, commerciale o culturale.” In queste affermazioni è da vedere l’importanza che egli attribuiva al prestigio, ragione sicura della prevalenza di un dialetto su un altro, di una lingua su un’altra. Ma proprio il prestigio dovuto ad una grande letteratura spiega perché, anche dopo il prevalere dell’attico, c'è chi continua ad usare lo ionico « quasi in memoria della sua antica fama ».! La mescolanza dei dialetti nei tragici in cui si usò l’attico, eccetto che nelle parti liriche, è presente nell’acuta disamina leopardiana.® Ma, se si escludono i numerosi passi in cui il greco è visto in sé e per sé, nella sua pronuncia,” nell’uso del digamma eolico in Omero su cui si hanno osservazioni interessanti* e su singoli fatti grammaticali come i cosiddetti sopraddiminutivi,” le notazioni di Leopardi sono di solito fatte sulla base del confronto col latino o con lingue moderne con un metodo che potrebbe essere chiamato, se i termini non risalissero a tempi troppo vicini a noi, ora contra-

stivo ora tipologico. Esemplari, a questo riguardo, le osservazioni

del

4 22 agosto 1823, II 338. MO pacitsipp 12-15: 12-13 aprile 1821, I 625. &8 18 dicembre 1823, II 821. 5% 9 dicembre 1823, II 799; vedi anche 18 dicembre 1821, I 644,

51 20 aprile 1821, I 644 e vedi 26 luglio 1823, II 236. 52 26 luglio 1823, II 236.

53 Vedi TIMPANARO, op. cit., pp. 193-199. 5 12 agosto 1828, II 1163-1164, 55 18 gennaio 1824, II 848.

18

1823, II 821 e, prima, 20 aprile

20 maggio 1821,* in cui, con riferimento alle due lingue classiche, si dice che il greco ha una libertà che manca al latino perché si formò in tempi antichissimi mentre il latino si formò in tempi adulti e maturi; il greco non ebbe secolo d’oro perché tutta la sua storia è un secolo d’oro e non ebbe costrizioni di regole che in greco ci furono (ed anzi furono trasferite alla lingua latina 0, come dice Leopardi, « la grammatica essa già l’aveva in quella della lingua greca »)” ma non pesarono come, invece, pesarono

sul latino. Così, in un altro interessante passo del novembre

1820 * il

greco è considerato come, del resto, l’italiano, opera della natura, rispetto

al latino che fu opera dell’arte. Anzi, egli aggiunge, « ambedue queste lingue [il greco e l’italiano] si formarono prima della nascita, o almeno della formazione e definizione delle regole, e prima che gli scrittori fossero legati da’ precetti dell’arte ». Quello del confronto del greco col latino è un motivo ricorrente nello Zibaldone anche se, in qualche caso, quando si parla di varietà, proprietà, ricchezza, come il 13-14 agosto 1821,” Leopardi fa sorgere il sospetto che il soggettivismo prevalga sul rigore dell’indagine. Più aderente alla realtà è l'osservazione della particolarità del lessico e della sintassi di ogni autore greco, fino a concludere che la grecità in ciascun autore è più o meno diversa.® Ma dove Leopardi arriva completamente a persuadere è quando attribuisce la libertà del greco al fatto che la Grecia non aveva una capitale.! Tale situazione, che la Grecia condivideva con l’Italia, suggerisce un inevitabile richiamo a memorabili pagine dell’ Ascoli del Proemio, riferite ad una situazione analoga. Sull’universalità del greco, dedotta in particolare da un passo di Cicerone del Pro Archiaf Leopardi fa, secondo la sua abitudine, un richiamo al francese, anche se per l’una e per l’altra ricorre, come ragione, alla natura della lingua, osservazione buttata là quasi per caso, in mezzo ad ottime notazioni sulla diffusione di alcune lingue antiche e moderne. La lingua che, però, nella sua struttura, è più richiamata tipologicamente, è l’italiano. Fin dal 19 aprile 1821," Leopardi, riferendosi a Madame de Staël, che aveva notato la capacità dell’italiano, nella sua strut-

tura grammaticale, di imitare perfettamente i concetti greci, arrivava a 56 I 718.

57 4 agosto 1822, I 1541. 58 I 290 e si veda anche 12 maggio 1821, I 699. 59 I 987.

© 1 luglio 1823, II 139-141.

61 7 novembre 1821, I 1277-1278 e 19 novembre 1821, I 1305 e 1308. 62 12-13-14 settembre 820, I 239 e 31 maggio 1823, II 68. 6 I 641.

19

parlare della lingua greca come madre dell’italiana quanto ai modi, ma non quanto alle parole. È noto che Leopardi era perfettamente consapevole della derivazione dell’italiano dal latino volgare e perciò questa sua posizione va intesa come una metafora, giustificata, del resto, da certe analogie come l’infinito per l’imperativo, proprio sia del greco, sia, per l’imperativo negativo, dell'italiano,” dall’uso di gyot come in italiano si ha dice per « dicono », definita concordanza frappante ® anche se poi, per l'impossibilità di supporre un commercio fra volgare italiano e volgare greco antico e greco scritto, si attribuiscono queste particolarità all’uso rustico romano che ebbe rapporti col volgare greco. Il greco è anche lodato, come l’italiano, perché si presta a ogni sorta di stili e manifesta un carattere vario a seconda del soggetto trattato, come potrebbe essere la disparità della lingua della prosa e della lingua della poesia.” Questo concetto è approfondito in un passo in cui la lingua greca è vista « innanzi un aggregato di più lingue, che una lingua sola » esemplificandola nel Fedro di Platone nel quale si riscontrano « non dico tre stili ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra Socrate e Fedro, ... l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore. Perciocché Platone in queste orazioni adopra e vocaboli e frasi e costrutti notabilissimamente e visibilmente diversi da quelli che compongono la lingua ordinaria dei suoi Dialoghi, sebbene in questi egli tratta bene spesso le medesime o simili materie a quelle delle tre suddette orazioni, massime dell’ultima ».! Sul piano tipologico è interessante l’osservazione che gli autori greci si traducono in italiano e spagnolo meglio che in latino.“ Vi è poi tutta una serie di notazioni che riguardano la disponibilità del greco ad indicare cose nuove ® ed il greco come punto di riferimento di neologismi: Tutta l’Europa e tutte le colte lingue hanno riconosciuto la lingua greca per fonte comune alla quale attingere le parole necessarie per significare esattamente le nuove cose, per istabilire, formare ed uniformare le nuove nomenclature d’ogni genere, o perfezionarle e completarle ecc.

6 12 maggio 1823, II 44-45, 65 2 marzo 1823, II 38-39. 66 67 6 6

20

12-13-14 settembre 1820, I 243; 22 settembre 23 maggio 1823, II 59. 30 maggio 1822, I 1473. 15 giugno 1824, II 927.

1826, II 1030.

Segue poi il biasimo per chi in Italia non si uniforma a tale uso, se-

guito dal logico avvertimento:

Convengo che quando in luogo di una parole greca ch'è sempre straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o nuova o nuovamente applicata, che perfettamente esprima la nuova cosa, questa si debba preferire a quella (purché la greca o altra qualunque non sia universalmente prevalsa in modo che sia immedesimata coll’idea, e non si possa toglier quella senza distruggere o confondere o alterar questa; giacché in tal caso una diversa parola, per nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa ch’ella fosse, non esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso ecc. e fra tanto non saremmo intesi).

Come si vede, si tratta pur sempre di quel favore con cui Leopardi vedeva la formazione di un lessico europeo di cui parlò per primo trent’anni fa Giovanni Nencioni.” Il passo si conclude con un inno a « quella maravigliosa lingua che, benché morta da tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a denominare e significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto ciò che nasce o si scopre o nuovamente si osserva nel mondo »." Rientra, ovviamente, in questo quadro il prestito linguistico, trattato in più passi dello Zibaldone e spesso con riferimento al contemporaneo mutuare termini dal francese.? Attraverso il francese, l’italiano prende a prestito termini greci. Gli esempi dati sono despota, demagogo, anarchia, aristocrazia, democrazia, e con la sola terminazione greca, civismo e filo-

sofismo. « Essendo adottata da tutti gli scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco ... non c’è scienza, anzi neppure arte, mestiere, retto-

rica, grammatica ecc. che non sia piena di greco ».? Esempio particolare è dato dalla lingua della medicina, « avendo questa bellissima proprietà gran parte delle parole greche applicate alle scienze ecc. ch’elle son quasi perfette definizioni delle cose che significano; e questo a causa della precisione che riceve quella lingua dai composti ecc., qualità che nello stesso grado non si può, generalmente parlando, trovare in verun’altra lingua »." Questo per quanto riguarda le parole dotte. Quelle familiari e popolari in italiano, in francese e in spagnolo ebbero come tramite il latino volgare anche se direttamente non sono in esso attestate.” Leopardi non esita neppure a supporre come tramite le colonie greche 70 Vedi il mio Leopardi linguista cit. 71 5 ottobre 1821, I 1173-1174.

72 73 74 75

I 91. I 74. 29 luglio 1821, I 939. 7 ottobre 1823, II 555.

in Gallia, poi latinizzate, mostrando cosi quanta sensibilità egli avesse per le interferenze, che sono comparse assai più tardi nell’orizzonte della scienza linguistica. | È naturale che fosse ben presente alla sua osservazione l’arricchimento del vocabolario latino ad opera del greco, così visibile in Cicerone che « popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso e di non riuscire affettato perché la lingua greca era divulgatissima e familiare fra’ suoi, come appunto oggi la francese ... E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri ... tutta la coltura, tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma ... Quindi successe ... che la lingua latina ... abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta e da tutti intesa e usata ». Leopardi continua citando anche Orazio, Seneca, Frontone con osservazioni preziose sulla mobilità delle lingue (« Perché la lingua e na-

turalmente e ragionevolmente cammina sempre finch’è viva »), ribadendo che anche i contemporanei derivano dal greco parole necessarie, ignote alla stessa lingua greca antica.” Una bella osservazione è presentata il 26 giugno 1821” sull’influenza che il greco ebbe non solo sul latino ma sull’arabo con la filosofia e le scienze e con la diffusione della scienza araba in Europa. In qualche passo sentiamo come una suggestione che ci colpisce in modo particolare; per esempio, pensiamo all’osservazione sul bilinguismo di nazioni dell’Asia dopo la conquista di Alessandro Magno ”* o sull’universalità del greco testimoniata dal Nuovo Testamento, anche se è da riferire al periodo di maggior estensione del dominio romano nel mondo” o sulla corruzione del greco ad opera di un libro straniero introdotto in Grecia, cioè la Bibbia, con la conseguente azione degli ebraismi sui Padri della Chiesa.” C’è poi una notazione che riguarda l’attico che, riconosciuto da tutti come lingua preponderante greca, « era un misto non solo di ogni sorta di voci greche, ma anche prese da ogni sorta di barbari, mediante il commercio marittimo degli Ateniesi, e la cognizione ed uso di oggetti stranieri » secondo la testimonianza di Senofonte.®

76 8-14 marzo TI I 828.

1821, I 521 sgg.

78 14 settembre

1822, II 10.

7 30 aprile 1821, I 671. 80 27 maggio 1821, I 736; e vedi anche II 859-860. 81 16 marzo

22

1821, I 543.

17 giugno

1823, II 97 e 10 febbraio

1824,

Leopardi anche qui prende l’occasione di porre il suo discorso su un piano generale, citando il francese e « tutte le lingue antiche e moderne » per concludere con una sentenza da lui sottolineata: « quella lingua che non si accresce, mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade inevitabilmente, e a corto andare nella barbarie » ®

Completando il discorso sul latino, per quanto Leopardi avesse la più singolare ammirazione per il greco al quale i Latini dovevano arte e scienza ® mentre esso non cedette alla potenza di Roma," vediamo in lui una piena consapevolezza della storia di questa lingua, delle sue vicende e delle conseguenze che essa ebbe nello sviluppo delle civiltà occidentali. Cominciamo con una osservazione, sicuramente preziosa: i latini erano

SifAwttor perché parlavano anche il greco; perché nello scrivere citavano continuamente patole e passi greci; infine perché sappiamo di molte traduzioni fatte dal greco in latino.® Si tratta perciò di due universalità diverse, l’una, la greca, che si esprimeva in opere di fondamentale importanza; l’altra che, nella sua ricettività, si imponeva come un modello per

il futuro, tanto che Leopardi può dire che il latino, di fronte alle molte cose importate dalla Grecia, perdette o indebolì la « facoltà generativa » per assumere la « facoltà adottiva »,% e addirittura imbarbarì secondo un’osservazione di grande rilievo storico e sociale che studi posteriori non hanno potuto che confermare: Dopo che i costumi greci furono radicati in Roma; dopo che i romani andavano ad imparar le maniere del bel vivere in Grecia, come si va ora a Parigi; dopo che la moda, la bizzarria, l’ozio derivato dalla monarchia, l’influenza della letteratura greca ecc. ebbe grecizzati i costumi e la conversazione di Roma; dopo che le case de’ nobili eran piene di filosofi, di medici, di precettori, di domestici e uffiziali greci d’ogni sorta; dopo che la letteratura romana fu definitivamente modellata sulla greca, come la russa, la svedese, la inglese del secolo d’Anna sulla francese; dopo tutto ciò la lingua romana doveva necessariamente ... imbarbarire a forza di grecismo, sì quanto ai particolari; sì quanto all’indole ».!

Certamente il carattere fortemente letterario del latino è presente in Leopardi che lo oppone, per questo rispetto, al francese.® Arrivando a parlare di due lingue separate, la scritta e la parlata” la cui distanza di82 8 84 85 8 87

Ibid., p. 544. I 520, 29 aprile 1821, I 668. 29 aprile 1821, I 663. 8-14 marzo 1821, I 522. 18 agosto 1821, I 1000 e si veda anche 7 ottobre 1823, II 555.

88 21-24 marzo

1821, I 567 e 576.

89 Ibid., 571.

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ventò somma” e caratterizzando la lingua latina scritta come meno varia, più regolare, più ordinata della greca pur colta," ne mette in rilievo la poca libertà.” A proposito di questa mancanza di libertà, Leopardi a lungo riprende il concetto trovando una precisa ragione (del resto già sopra ricordata): il latino è la lingua di una sola città; infatti « dovunque la società e la lingua parlata esercita una forte e irresistibile influenza sulla lingua scritta e sulla letteratura ... quivi l’una e l’altra indispensabilmente acquistano un carattere di stretta uniformità e quindi di coartazione.” Roma era « il vero centro, la vera immagine e tipo della nazione e dell'impero, e da che questo e quella erano realmente contenuti in Roma, come la Francia in Parigi ... l’unica lingua latina, o dialetto riconosciuto,

letterato ecc. [era] il Romano, come in Francia il Parigino ».* Perciò, quando il latino si diffuse in tanti luoghi era diviso in dialetti per l’impossibilità di avere « conformità di favella ... se non fra piccolissimo numero di persone ».”

Dallo stato di coartazione del latino e del francese Leopardi” traeva come conseguenza che le lingue non libere si corrompono presto. A « corrompere » bisognerà dare il valore di « trasformarsi rapidamente ». Ma, molto più di questa osservazione, vale l’altra, ampiamente sviluppata, della presenza in latino di due lingue, poco fa notata: Che la lingua latina a’ suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l’una volgare, e l’altra nobile, usata da’ patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andres, loc. cit., p. 256, nota) che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris (Spettatore di Milano, quaderno 97, p. 242) è noto e certo senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone (Andres, loc. cit.) ... i soldati, i negozianti,

i viaggiatori, i governanti, le colonie ecc. diffondevano una lingua diversa dalla letterata.

Queste osservazioni in cui la componente sociale è posta alla base delle varietà linguistiche pare un cardine del pensiero leopardiano. Del

90 21-24 marzo 1821, I 576.

91 8.9 luglio 1821, I 877. 9 93 #4 95 % 7

24

30 ottobre 1821, I 1256. 7 novembre 1821, I 1276-1277. 18 novembre 1821, I 1305. 7 maggio 1821, I 685-686. 14 maggio 1821, I 705. 4 maggio 1821, I 680-681.

latino, per cosi dire, in gran parte sommerso che appare nei primi scrittori e poi riaffiora nel latino tardo e nelle lingue romanze, secondo una visione che sarà definitivamente assicurata alla ricerca moderna da Franz

Skutsch (Plautinisches und Romanisches, 1892) e da F. Marx (Ueber die Beziehungen des Altlateins zum Spätlatein, in « Neue Jahrbiicher f. das kl. Altertum », 1909, 435) Leopardi era pienamente consapevole. Di F. Marx vorrei citare il passo di cui teneva molto conto Einar Léfstedt nel suo famoso Philologischer Kommentar zur Peregrinatio Aetheriae:

Accanto alla lingua limata e rigorosamente regolata degli uomini che, all’altezza dei tempi, dettavano legge in letteratura, si sviluppa in innumerevoli e indeterminabili gradazioni dall’alto verso il basso la lingua del popolo, in cui si conserva e trasmette alle future generazioni un materiale linguistico sia arcaico sia completamente nuovo, non sfiorato dalle regole dei maestri di lingua.®

Se si confrontano le righe che abbiamo citato di Leopardi con queste del Marx, ci avvediamo dell’impressionante loro rassomiglianza. Non si tratta tanto dell’opinione, ampiamente espressa prima di Leopardi, sia pure in modi e formule diverse, da Dante, Leonardo Bruni, Gravina, Sci-

pione Maffei, Gaetano Marini, Sebastiano Ciampi, ma del principio della continuità del latino parlato sotto il maestoso fiume della lingua scritta, insomma, come si legge in Leopardi, « il trovare in essi [nei primi scrittori latini] buon numero di parole, modi, forme, che non si trovano negli

autori dell’aurea latinità, e che pure son passate o somigliano alle passate nella nostra lingua, derivata in gran parte ... dal volgare latino. E in genere si trova ne’ detti antichi latini gran conformità (anche in piccole minuzie e materialità, fino di ortografia) coll’italiano, e molto maggiore che ne’ seguenti latini scrittori ».-? Già verso il 1819 il Leopardi aveva per la prima volta affermato questo principio." La convinzione della continuità del latino parlato o volgare è così radicata in lui che egli chiama « favole assurdissime ... contrarie alla natura delle cose » l’opinione di chi crede che il latino volgare scomparisse per ricomparire come fatto di corruzione in tempi tardi.!" Anche qui, ancora una volta, si ribadiscono convincimenti che entreranno nella comune visione scientifica molto più tardi. Questa asserzione così decisa e definitiva, viene dopo una serie di considerazioni che svolgono il tema così posto: « Da che ci era un latino vol-

gare assai differente dallo scritto, è costante che l’italiano volgare derivato 98 Vedi Per una storia della ricerca linguistica, Napoli 1965, p. 338. 9 21-24 marzo

1821, I 575.

100 Vedi I 64 e cfr. TIMPANARO, op. cif., p. 54. 101 12 maggio 1821, I 694-695.

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dal latino, non pud esser derivato dallo scritto, ma da quello volgare e parlato ».!” Più tardi Leopardi "* arriverà a dire che « il ridurre a letteratura la lingua italiana ecc. fu in certo modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta l’altra letteratura del latino colto ». Anche quando espone fatti particolari (ovviamente non tutti accetta-

bili per la scienza moderna) !* giunge a conclusioni in linea di principio del tutto condivisibili. Si pensi all’affermazione che gli elementi comuni alle lingue neolatine si devono riferite ad un’origine comune, come l’uso degli articoli e dei segnacasi, l’uso dei verbi essere e avere, l’uso del verbo

finito con che (francese e spagnolo que) invece dell’infinito (e qui si richiama l’uso del greco 8), mentre ciò che è proprio di ciascuna lingua è attribuibile ad antiche lingue nazionali estinte poi dalla latina, in quanto il « volgare latino ... ebbe pur certo i suoi idiomi provinciali ». E qui viene in mente la posizione di H. F. Muller, l’autore di A Chronology of Vulgar Latin, 1929, secondo il quale la koiné preromanza del basso latino persiste fino all’epoca carolingia, non perché Leopardi la prefiguri ma perché è radicalmente opposto ad essa e semmai non senza ragione ne anticipa la critica fondamentale che nello Schrijnen, lo studioso che diede l’avvio alle indagini sul latino cristiano, così fu espressa nel 1934: Dal punto di vista della linguistica generale, l'apparizione delle lingue romanze mi sembra sia stata sbrigata un po’ frettolosamente da Muller che, penso, avrebbe dovuto tener conto degli elementi dialettali già esistenti e dell’influenza dei sostrati.!®

Ancora sulla continuità latino arcaico-lingue romanze, il 20 maggio 1823! si legge che i primi scrittori latini contengono un numero maggiore di voci conformi con l’italiano perché essi sono più vicini alla lingua popolare. Strettamente collegato con l’esistenza delle due lingue latine, la dotta e la popolare, è l'esemplare pagina che riguarda le due tradizioni di coppie di parole che hanno la loro origine nella stessa parola latina: La differenza tra le voci d’origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo, nelle nostre lingue significa una cosa; in un altro modo, un’altra, tutta differente, e si considera co-

102 E vedi anche 24 novembre 1823, II 748. 103 12 settembre 1821, I 1088.

14 Vedi 9 agosto 1821, I 977. 105 Vedi Per una storia della ricerca linguistica cit., pp. 442-443. 106 II 51.

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un'altra voce da tutti, salvo i pochissimi che s’intendono delle origini della ngua.

Leopardi prosegue offrendo l'esempio di causa latino che, col significato normale, è di origine letteraria e di cagione, sostenuta dai puristi perché causa è non usata o rara nel trecento, che è voce popolare da occasio, la quale, a sua volta, è rappresentata, come voce dotta, da occasione. Richiama poi il francese chose: cause e lo spagnolo cosa : causa. Le propaggini del latino, le lingue romanze, sono via via trattate da Leopardi in pagine illuminanti ma varrà qui la pena di fermarsi soprattutto sui cenni fatti alla lingua valacca di cui esplicitamente si dice !* che è « derivata dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano » e che ha parallelismi con l’italiano. Il riferimento alla « Biblioteca Italiana » tomo VII, p. 215, con recensione ad un’opera del Ciampi, mostra ancora una volta come il bagaglio culturale di Leopardi fosse spesso formato di notizie acquisite ma anche come egli sapesse formare le sue esperienze culturali. Un altro riferimento è fatto alla lingua valacca, derivata dalla lingua latina, che dà notizie dell’antico volgare latino « il qual volgare, come tutti gli altri, è il precipuo conservatore delle antichità di una lingua ».!” Ancora, con riferimento al Conte d’Hauterive (v. Wilkinson, Tableau de la

Moldavie et de la Valachie, tradotto dal de La Roquette) di cui si riporta un lungo passo in francese, si prende notizia dell’origine latina del moldavo. Insomma, quel « fiume [la lingua latina] corre e non ristagna ».!!! Dopo aver detto, come sopra si è visto, che il greco è la lingua di maggior durata, Leopardi, riflettendo sulla continuità del latino ! e conside-

rando le lingue romanze, è portato a dire che « la lingua latina ancor vive » e la considerazione delle lingue che sono la sua continuazione induce a scoprire molte caratteristiche della lingua latina antichissima che non sarebbero deducibili dagli scrittori latini, tanto che è da notare che « la lingua latina non ci è solamente nota per via della scrittura e letteratura ... ma eziandio per mezzo della viva favella, la quale è sempre influita dall’uso degli antichi parlatori, assai più che degli antichi scrittori ». Di qui l'utilità dei dialetti volgari per investigare le origini del latino.” Poi Leopardi esprime ciò che anni dopo Antoine Meillet e Giorgio 107 108 19 110 Il! 112 113

14 ottobte 1827, II 1128. 24 aprile 1821, I 656. 8-9 luglio 1821, I 876. 10-11 agosto 1828, II 1160 sgg. 17 aprile 1821, I 638. 8-9 luglio 1821, I 874-876. 9 ottobre 1823, II 565.

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Pasquali, per ricordare solo due nomi che mi sono cari, dissero ampiamente in più circostanze: noi possiamo conoscere quasi perfettamente (massime rispetto a qualunque altra

lingua) le vicende della lingua latina e delle sue parole, e condurre una storia della lingua e delle voci latine, (generalmente parlando) quasi perfetta, quasi completa, e senz’alcuna laguna, dai primi principii della sua letteratura fino al dì d’oggi, cioè per venti secoli interi. (Plauto morì nel 184 av. G.C.). Il che non si può dire di verun’altra lingua occidentale, fuot della greca, la cui notizia e storia è soggetta però alle difficoltà dette p. 1296.

Andando a vedere quella pagina, si trova che manca al greco la possibilità di uno studio comparativo sulla lingua greca parlata, oltre alla mancanza di possibilità di conoscere altrettanto bene il greco moderno e le sue origini e i suoi progressi « e generalmente la storia della lingua greca da un certo tempo in qua ».! Anche per il latino tralasceremo di insistere su particolari aspetti della sua grammatica come sui verbi continuativi (il tipo éractare), l’indipendenza originaria dei participi in -to dalla diatesi, i diminutivi divenuti positivi. Si tratta di notazioni cospicue che appartengono sia alla considerazione sincronica sia a quella diacronica (latino/lingue romanze e, in par-

ticolare, italiano). Per queste occorre ancora una volta rinviare al Timpanaro !° che giustamente si rammarica che Leopardi non abbia scritto la Dissertazione dell’antico volgare latino « che sarebbe riuscita più viva e concreta dell’altro progetto, il Parallelo delle cinque lingue; ma a noi viene il sospetto che anche in quest’opera riguardante il greco, il latino, l’italiano, il francese e lo spagnolo, Leopardi avrebbe scritto cose importanti. Quanto abbiamo esaminato e quanto potremmo dire ancora sulle lingue moderne giustifica tale supposizione. Del resto, annunziandola a Pietro Giordani il 13 luglio 1821 egli dice: Questa materia domanda tanta profondità di concetti quanta può capire nella mente umana, stante che la lingua e l’uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa.

Sia, perciò, concesso ad un linguista affermare che Leopardi linguista non è certo meno grande che come filologo e, per molti aspetti metodologici, forse lo supera. TRISTANO 114 I 876, 875. 165.Op..cit.; p.57 spe. 116 Epistolario, pp. 323-325.

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BOLELLI

Leopardi e Omero

Aprire questa relazione ricordando l’importanza che ha avuto Omero per L. può sembrare banale, ma rappresenta un dato di fatto, e richiamarlo qui è utile per rendere ragione delle delimitazioni che ho creduto opportuno dare alla presente esposizione. Parlare di Omero in L. può voler dire trattare di molte cose: dalle concezioni di poetica di L. medesimo e dall’evoluzione di questa nel tempo alla sua maniera concreta di far poesia, dalla sua formazione letteraria esercitatasi fin dai primi anni sulle letture dell’epica e sulle traduzioni dei classici, ai condizionamenti che la visione leopardiana dell’uomo e delle vicende umane ha esercitato sulla sua valutazione e interpretazione della poesia omerica; un po’ troppo, evidentemente, e non solo per i limiti delle mie competenze; ma, oltre tutto, per questi problemi esistono ottime ricerche di validissimi specialisti, alle quali io non avrei nulla o ben poco da aggiungere.! Per questi motivi ho pensato di dare come scopo alla presente ricerca l’esposizione delle idee di L. su Omero quali esse si manifestano, anche nel loro evolversi, nell’opera che principalmente e programmaticamente le contiene, cioè lo Zibaldone, omettendo, pertanto, di pren-

dere sistematicamente in esame le implicazioni di vario genere che il diverso atteggiarsi di queste idee comporta a seconda dei tempi e delle circostanze. Nonostante ciò sarà impossibile, di volta in volta, evitare di toc-

care o di presupporre le motivazioni ultime che condizionarono i modi leopardiani di intendere Omero, ma anche se ciò talora accadrà non avrà carattere sistematico.

Se anche nell’evolversi del pensiero leopardiano su Omero vogliamo seguire una periodizzazione, ci si accorge abbastanza facilmente che, an-

1 Su L. e la classicità bisogna sempre partire dal libro di S. TimpPanaRO, La filologia di Giacomo Leopardi, II ed., Bari 1977, che fornisce anche ampi ragguagli su tutta la bibliografia anteriore; per L. traduttore dei classici cfr. E. Bicr, La genesi del « Canto notturno » e altri studi su Leopardi, Palermo 1967, spec. cap. I; sulle prime suggestioni omeriche cfr. H.L. ScHEEL, Leopardi und die Antike, München 1959, cap. I; riguardo ai riflessi omerici sulla produzione poetica leopardiana cfr. G. LonarpI, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze 1969, passim.

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che in questo caso, è inevitabile rispettare alcune delle tappe della carriera intellettuale del Leopardi che la critica ha ormai riconosciuto da tempo come particolarmente significative: il periodo degli anni che va fino al 1823, poi dal ’23 al 1827 e infine quell’anno importante che fu il 1828.

Già nelle primissime pagine dello Zibaldone (4 sgg.) compare il nome di Omero come rappresentante di una maniera ingenua e naturale di far poesia che L. oppone a quella artificiosa e ricercata del suo tempo. In questi luoghi il poeta greco non appare considerato nelle sue peculiarità, ma ricorre accomunato genericamente con altri, come Dante, Petrarca, Ariosto, sotto la categoria degli ‘ antichi’ (p. 4; 9 fine e inizio 10). Siamo

al momento della preparazione del Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, infatti a metà circa di p. 15 leggiamo: « Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore, n. 91 le osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia moderna o romantica »; quindi il contesto di pensiero in cui si colloca questa valutazione di Omero è facilmente identificabile. Poco prima di questo passo relativo al di Breme, dalla metà di p. 14 in poi, compare un pensiero circa l’opposizione fra ragione e natura:

« La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione »; mentre poco dopo (p. 16 metà) si può leggere: « il poeta quanto più parla in persona propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita ... e ... il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare ed hanno imitata gli antichi ». Questi passi contengono già alcuni pensieri fondamentali che, variamente atteggiati, arricchiti ed elaborati, ed anche più organicamente collegati fra loro costituiranno altrettanti punti di riferimento per l’interpretazione leopardiana di Omero. Infatti in un pensiero di qualche anno dopo, del 5 settembre 1820 (p. 231) compaiono condensate sotto una formulazione generale e di carattere teorico le idee sul rapporto fra natura e ragione, sulla capacità di Omero e degli antichi di attingere la natura « qual ella è », cioè di ricevere da essa quelle emozioni e quei sentimenti di cui aveva parlato nel preparare la risposta a Lodovico di Breme: Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì, non solo in proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e varietà

dell’immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia dell’imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova sommamente al poeta

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l’erudizione, quando l’ignoranza delle cause, concede al poeta … l’attribuire gli effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia.

AI di là dell’indubbia difficoltà del dettato qui appare che, in connessione col problema del carattere enciclopedico della poesia di Omero e di Dante, si ribadisce la medesima caratterizzazione negativa della ragione di cui abbiamo visto sopra, ragione che qui appare indicata nei suoi contenuti dalla seconda serie di cognizioni, quella della filosofia, della matematica e delle cause; corrispondentemente la prima serie di cognizioni, rispettivamente quella materiale, della fisica e degli effetti, rappresenta una maniera di accostarsi alla natura che non avvilisca e mortifichi la fantasia. Ancora in questo anno 1820, in un pensiero dell’8 novembre (p. 308) compare per la prima volta, se non sbaglio, un’idea che sarà destinata anch’essa, come vedremo, ad aver grande importanza, quella per cui Omero, essendo stato il primo poeta, era al di là di ogni regolamentazione e normativa sia di genere letterario che linguistico e metrico:? Ometo che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d’esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, né che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi e originali come lui.

Negli anni 1820-1822 sono numerose nello Zibaldone le riflessioni in qualche modo collegate al pensiero fondamentale della primitività e dell’originalità di Omero, e a tale proposito vale la pena ricordare che proprio sulla base di questi criteri di valutazione, già qualche anno prima, aveva affrontato il problema della collocazione cronologica di Esiodo, facendolo anteriore ad Omero di almeno una generazione; si legge infatti nella presentazione alla traduzione della Titanomachia: A me avvenne di leggere Esiodo dopo Omero colla mente impregnata delle idee e de’ modi e della divinità di costui, e mi parve tanto più semplice, candido, naturale che o io piglio una balena, o certo Esiodo alla più trista fu de’ padri di Omero.

Questa idea, che torna di tanto in tanto in auge presso i filologi più tardi L. l’abbandonò definitivamente, molto probabilmente per influenza del Wolf, arrivando però all’eccesso opposto perché parve prendere in 2 Apparentemente isolato e difficile, almeno per me, pensiero del 22 luglio 1821 (p. 1367) per cui Omero non 3 Cfr. per es. il commento della Teogonia, a cura di su questa idea di L. cfr. TimPANARO, La filologia cit., p.

a spiegarsi nelle sue motivazioni, il fu il primo poeta greco. M.L. West, Oxford 1966, p. 46 sg.; 22.

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seria considerazione l’idea del Vico che il poeta d’Ascra fosse da collocare dopo i Pisistratidi: cfr. Zibaldone, p. 4392; ma di ciò vedremo oltre. Di grande interesse è un pensiero del 17 marzo 1821 (p. 802 sg.) in cui troviamo per la prima volta l’affermazione dell’inferiorità dell’Odissea rispetto all’Iliade, e la proposta conseguente di considerare i due poemi di autori diversi. Il complesso dell’argomentazione non è relativo ad Omero in particolare, ma si fonda sull’osservazione che, quando in un genere letterario ci sia stato un genio grande, non accade mai che dopo ne compaiano altri di pari grandezza. Siamo ancora, come si vede, nell’ambito di idee relative alla forza e alla freschezza originaria propria degli iniziatori, forza e freschezza che immancabilmente si oppongono alla fiacchezza e alla ripetitività degli epigoni, e viene molto a proposito il caso di Omero e dell’Iliade esemplare non solo in rapporto ad Apollonio Rodio, « epico dappoco », come lo definisce L., ma anche nei confronti dell'Odissea « imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare e dall’argomento di quella (scil. l’Iliade) con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere »; connessa appunto a questa valutazione compare l’idea che i due poemi siano di autori differenti. Tale proposta ‘ corizontica ”, così com'è, non sarà più ripresa da L., anche perché destinata a dissolversi nel complesso della ben più imponente e sovvertitrice concezione wolfiana, ma il giudizio negativo sull’Odissea, fondato sulla valutazione del personaggio di Odisseo, sarà destinato, come vedremo, a ricevere ben altro approfondimento e ad assumere ben altro ruolo nelle concezioni che sull’epica L. elaborerà negli anni seguenti. Infine, negli anni 1821 e 1822 si hanno gli accenni chiari ad un altro motivo anch’esso destinato ad un grande ruolo, non solo nell’evoluzione dell’interpretazione leopardiana di Omero, ma anche della poetica stessa del L. degli anni futuri, intendo l’elemento costituito dalla particolare sensibilità per la sofferenza e la sventura. Emilio Bigi * ha messo in luce come questo motivo del pensiero leopardiano — nonostanti certe anticipazioni che sono state rilevate soprattutto da Gilberto Lonardi — affiori nel triennio dal ’25 al ’27; ebbene, può essere di un certo interesse, in questo con-

testo, un pensiero del 24 maggio 1821 (p. 1083) nel quale ci appare già affrontato il tema della compassione e della misericordia in Omero a proposito dell’incontro di Achille e Priamo. Ed è tanto più interessante il pensiero in quanto L. identifica con una geniale invenzione poetica di Omero l’attribuzione di questo sentimento ad Achille, dal momento che l’epoca eroica non conosceva — come lo stesso Omero più volte testimonia — la pietà verso il nemico vinto. In connessione con questo brano due 4 Cfr. Bici, La genesi cit., pp. 95 sgg. 117 sgg.; assai importante LONARDI, Classicismo cit., p. 47 segg., che punta la sua attenzione su alcune pagine dello Zibaldone relative ad Omero.

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altri testi vanno ricordati: prima di tutto un passo del Discorso di un ita-

liano, pp. 934-935 Binni-Ghidetti, in cui il medesimo episodio dell’incontro fra Achille e Priamo è collocato in tutta una serie di passi omerici particolarmente ricchi di pathos per la presenza in essi dell’elemento della

sofferenza e del dolore; in secondo luogo un altro pensiero dello Zibaldone dell’11 giugno 1823 (p. 2759 sgg.) — in epoca quindi assai vicina a quei mesi dall’agosto del medesimo anno in poi, in cui Omero prenderà tanta parte delle riflessioni del L. — che dello stesso episodio presenta un’analisi più precisa: qui L. nota che in realtà l’eroe greco si piega alle preghiere del vecchio re non per compassione ma per il fatto che sa che tale è la volontà di Zeus (Il. 24, 560 sgg.); in tal modo i tratti di Achille implacabile restano inalterati; ma non è in questo, crediamo, che si esauriscono le motivazioni della mutata esegesi di Omero — quest’ultima, d’altronde, perfettamente fedele al testo — bensì nello sviluppo che le riflessioni leopardiane sul poeta greco si accingevano ad assumere, quando, come vedremo, L. cercherà di definire il ruolo dei due eroi dell’Iliade come caratteri opposti e in qualche modo complementari, e allora l’impla-

cabilità di Achille tornerà utile. Come

ultima

osservazione,

sempre

relativamente

a questa

anticipa-

zione del motivo della souffrance va notato un pensiero del 4 luglio 1822 (p. 2544

sg.) in cui ad Omero, primo poeta, è attribuito emblematica-

mente il tratto dell’infelicità: Della vita e condizione d’Omero ogni cosa è nascosta. E pure in questa universale ignoranza, una tradizione antichissima ed universale e perpetua si mantiene, e tutti, che tutto ignorano intorno a lui, questo solo n’affermano ed hanno per certo, che fosse povero e misero. Così la fama non ha voluto che si dubiti, né che resti nel puro termine di congettura, che il primo e sommo de’ poeti incontrasse la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato con l’esem-

pio dell’archegòs di questa infelice famiglia, che qualunque è d’animo veramente e fortemente poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di vivo sentimento, scriva, o no, in prosa o in vero) nasce infallibilmente destinato

all’infelicità.

Come si è già detto il periodo che va dal luglio in poi del 1823 vede uno straordinario arricchirsi delle riflessioni su Omero, un divenire, da parte di queste riflessioni, non solo più frequenti quanto più approfondite

e più organicamente collegate e sviluppate: molti problemi che erano stati già affrontati negli anni precedenti vengono qui ripresi e ricevono soluzioni più ampie e articolate. Ma c’è anche una novità, rappresentata

dalla sensibilità, nello Zibaldone testimoniata qui per la prima volta, per il problema della lingua di Omero e per il ruolo da lui svolto nella tradizione poetica della Grecità, come modello e fonte di linguaggio letterario. 33

Ma procediamo con ordine. Ulteriore approfondimento di un motivo già toccato, contiene il primo pensiero relativo ad Omero che si incontra nel luglio del ’23, incentrato sulla sua vigoria poetica (p. 2976 sgg.) che gli aveva permesso di comporre due lunghissime opere senza accusare mai il minimo calo di tono e senza che mai la forza della sua immaginazione venisse meno; ciò al contrario degli altri poeti epici, soprattutto Virgilio, che « nella seconda metà della sua Ereide riesce evidentemente languido e stanco e diverso da se medesimo » (p. 2978), mentre il poeta greco « da niuno attingendo, non avendo esemplari ... senz’altro né fonte, né soccorso, né modello, né sprone che se medesimo, la sua propria immaginativa e la natura ... non mostra mai né quanto all’invenzione né quanto allo stile il menomo languore o isterilimento, ma dura fino all’ultimo colla stessa freschezza, vivacità, efficacia, ricchezza, copia, impeto ... » (p. 2980 sg.); la ragione di ciò è che « par che la natura ancor vergine dalla poesia (siccome vergine dalle scienze e dalla filosofia ecc. che distruggono l'immaginazione e l’illusione ch’essa natura ispira) le somministrasse in quel tempo tanta copia d’immagini e sentimenti che non avesse quasi alcun fondo ... » (p. 2983). Siamo ancora, dunque, nell’ordine di idee della forza primigenia della poesia omerica, non ancora guastata e infiacchita dall’intervento della ragione, in perfetta coerenza con quanto abbiamo visto teorizzato fin dal 1820 (5 settembre, p. 231); qui, oltre alla maggior

ampiezza del discorso, come motivo di particolare interesse compare il preciso raffronto con Virgilio, anche questo destinato ad essere ampiamente ripreso nel futuro. Comunque, ancor più importante è l'ampio brano contenente una trattazione generale dell’epica datato al 5-11 agosto del ’23, che si estende per più di settanta pagine del manoscritto (3095-3167). Qui Omero ha larghissima parte e, sia pure in linea con le motivazioni generali già note, relative alla forza naturale della sua poesia, si affronta in maniera sistematica il problema della sua grandezza. Il punto dal quale muove qui L. è il medesimo utilizzato nel novembre 1820 (p. 307 sg.) in un brano che abbiamo già citato, per sostenere l’anteriorità di Omero alle regole grammaticali e prosodiche; qui un’analoga affermazione viene avanzata a proposito delle regole del poema epico. Omero, osserva L., in quanto primo poeta, a queste regole era anteriore, quindi le ignorava e quindi hanno sbagliato grossolanamente tutti coloro che hanno preteso, tali regole, di ricavarle da lui: dico ... che Omero, siccome non le conobbe (scil. le regole), così neanche le seguì, ma seguendo la natura, molto miglior maestra delle Poetiche e de’ Dottori di Scuola e delle teorie, s’allontanò effettivamente da esse regole (p. 3096).

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La prova principe che L. adduce per dimostrare l’ignoranza e la trascuratezza da parte di Omero di qualunque regola di poetica è che nel-

l’Iliade non c’è unità, un’idea questa che costituirà nella critica leopar-

diana su Omero un principio di grande fecondità. Nell’Iliade non c'è dun-

que unità perché due sono i centri di interesse, Achille ed Ettore, perfettamente antitetici; l’uno attira l’attenzione e l’interesse che sempre si concentrano su chi ha « la fortuna e il buon successo delle intraprese », per

di più è il rappresentante e il campione della nazione greca e a lui e alle sue gesta si accompagnava la partecipazione dei suoi compatrioti. Le ra-

gioni del fatto che Ettore rappresenti anch’esso un motivo di interesse è che « laddove la superiorità, laddove la virtù congiunta con la fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque caso, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Peroc-

ché l’uomo si compiace nel sentimento della compassione ... » (p. 3107). Ma c’è un elemento, nella considerazione che L. fa di Achille ed Ettore

come personaggi dell’Iliade, che balza agli occhi fin da queste prime pagine della trattazione del 1823, ed è che nonostante affermi che i motivi di interesse dell’Iliade siano appunto due, senza distinzione di importanza fra loro, di fatto però già fin dal momento in cui definisce nei loro costituenti questi centri di interesse, una graduatoria la stabilisce, e questa è inequivocabilmente a favore di Ettore. Infatti, come appare già dalle parole che abbiamo riportato sopra, le qualità di cui Omero adornava Achille, e cioè forza, eroismo, buon successo nelle imprese non sono suffi-

cienti a destare un interesse duraturo, ma l’eroe aveva bisogno, per conseguire ciò, come di un elemento addizionale, cioè il fatto che agli occhi dei Greci impersonava la loro causa nazionale e per questo il suo personaggio godeva di una simpatia speciale, originata, ci viene subito da osservare, fra l’altro, da un movente non strettamente poetico. Il personaggio di Ettore invece, con le sue qualità accompagnate da un destino infelice ha di per sé la capacità di attirare per sempre l’interesse del lettore. Le due conseguenze che derivano da questa disarmonica valutazione di Achille ed Ettore, le si possono scorgere abbastanza facilmente, e sono:

1. di fatto,

nell’analisi del L., il personaggio di Achille poteva aver pieno successo soltanto agli occhi dei Greci antichi; 2. il vero motivo di interesse grande e autentico dell’Iliade è Ettore; e L. queste conseguenze le trae ambedue in maniera esplicita; leggiamo infatti a p. 3110 fine: « Ed effettivamente oggidì i lettori della stessa Iliade, non essendo greci, o non s’interessano mai vivamente per li greci, i quali sanno già dover uscir vittoriosi, o presto lasciano d’interessarsene »; e alla p. 3113: « e come la vittoria riportata da Achille sopra l’invincibile Ettore, porta al colmo l’ammirazione per colui, così la sventura di Ettore mette il colmo alla sua amabilità e 29

volge l’amore in compassione ... molte sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte le fila del medesimo niente meno e del paro che alla vittoria di Achille e sempre unitamente: in essa il poema si chiude ». Ci si potrebbe fermare qui a considerare la leggera ma innegabile contraddizione che si coglie nelle parole di L., questo indubbiamente non del tutto riuscito tentativo di non deprimere troppo Achille in seguito all’esaltazione di Ettore, dal momento che, accanto ad espressione come « (la sven-

tura) di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte le fila del medesimo » è chiaro che crea ambiguità e imbarazzo quella che segue immediatamente « niente meno e del paro che alla vittoria di Achille, e sempre unitamente », ma non ce n’è bisogno: nelle pagine immediatamente seguenti (3115-3123;

cfr. anche 3137) L. esalta con calore eccezionale la

capacità di Omero di « inventare » il sentimento della compassione, come frutto delle sue qualità poetiche altissime, in un’epoca in cui questo sentimento verso i nemici non era conosciuto, non fa che confermare quanto sopra avevamo notato sulla predilezione di L. per Ettore e la sua sventura. Ad ulteriore riprova di ciò si può portare un’osservazione della p. 3143: Nell’Iliade oggidì l’interesse per Achille e per li greci, come ho detto, è poco o niuno, perché i suoi lettori non sono più greci. Nondimeno l’interesse nell’Iliade è vivissimo continuo e durevole eziandio dopo la lettura. Esso è per Ettore e per li troiani. I lettori di qualsivoglia nazione, dopo tanti secoli, dopo tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano, tutti efficacemente e continuamente s’interessano leggendo la Iliade. E tutti non per altri che per li troiani e per Ettore, cioè per la sventura; e questo interesse si riduce principalmente e come a suo capo alla compassione. Questa cioè è quel sentimento dominante e finale, che noi nella Iliade provando, chiamiamo interesse della medesima.

Crediamo che parole più chiare e inequivocabili non avrebbero potuto essere scritte: la teoria dei due centri di interesse, uno dei due essendo la sorte e le vicende di Achille, qui è dimenticata. Altrove però questo modulo interpretativo L. torna a integrarlo nella sua piena validità restituendo anche al personaggio di Achille tutti i tratti che lo facciano a pieno diritto l’altro centro di interesse; infatti in un pensiero di qualche mese dopo, del 6 ottobre (p. 3590 sgg.), dedicato anch'esso all’epica, possiamo leggere: Achille è interessantissimo perch’egli è amabilissimo. Ed è amabilissimo non solamente a causa del suo sovrano valor personale, ma eziandio per la stessa ferocia, per la stessa intolleranza, per la stessa suscettibilità, veemenza ed

impeto di carattere e di passioni, superbia, carattere e maniere disprezzanti … iracondo, incapace di sopportare un’ingiuria, soverchiatore ...

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e ancora, poco dopo: Pur quanto gli fu possibile, Omero non mancò di cercar di conciliare ad Achille, cogli altri affetti i più favorevoli, anche l’affetto dolcissimo della pietà, madre o mantice dell'amore. Ciò non solo coll’accidentale sventura della morte del suo amico Patroclo e con altre tali, ma col mostrare eziandio, come in lontananza, la finale sventura e l’infelice destino del bravo Achille, che per immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni ... tratto sublime ... che finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e interessante.

In questi luoghi vediamo ricorrere per la prima volta questo aggettivo ‘ amabile ’ riferito ad Achille, un aggettivo che abbiamo già trovato usato per Ettore e della applicabilità del quale ai vari personaggi L. farà, come vedremo, uno dei fondamenti della sua valutazione dell’epica. Prima perd non si può non notare una leggera aporia — apparentemente

non avvet-

tita — in cui L. conduce il suo pensiero nell’attribuire questo tratto dell’amabilità al personaggio di Achille, che viene con ciò ad essere avvicinato di parecchio a quello di Ettore; sempre in questo medesimo pensiero del 6 ottobre, ma alcune pagine prima (p. 3590 sg.) L. aveva rimproverato al Tasso di avere, nella Gerusalemme, creato, con i due personaggi di Goffredo e Rinaldo, un interesse doppio, ma non diverso: Da ciò segue che l’interesse è veramente doppio, come nell’Iliade, ma non, come in questa diverso. E perciò appunto, contro quello che a prima vista si potrebbe giudicare, l’uno interesse nuoce all’altro e l’indebolisce, voglio dire perché l’interesse è altro senza essere diverso ... Due interessi affatto diversi, e lontani l’uno dall’altro, possono non pregiudicarsi né indebolirsi l’un l’altro. E così accade ne’ due interessi d’Ettore e d'Achille, i quali cadono sopra due contrarie parti, la greca e la troiana, e l’uno nasce dalla sventura, l’altro dalla felicità. x

Con l’attribuzione del tratto dell’amabilità anche ad Achille a causa del suo triste destino non è chi non veda che alla serie degli elementi che diversificano i centri di interesse rappresentati dai due eroi nemici, viene ora a mancare quello del nascere l’uno dalla sventura, l’altro dalla felicità. È ben vero che — con un’oscillazione significativa — talora, come abbiamo visto, l’amabilità di Achille viene fatta consistere nei tratti, diciamo così, troppo ‘ umani ’ del suo carattere, ma neanche in questo modo le difficoltà si riesce ad eliminarle; in tal caso infatti i motivi dell’amabilità dell’eroe greco divengono troppo eterogenei rispetto a quelli dell’amabilità di Ettore, con quelli assolutamente incomparabili, e allora quella dialettica e quella tensione che nella teoria di L. dovevano crearsi fra i caratteri e i destini dei due personaggi vengono a perdere un qualunque terreno comune comunque necessario al loro realizzarsi. 37

È legittimo chiedersi il perché di queste difficoltà, di questa disarmonia nel pensiero di L.; perché insomma la necessità di attribuire anche ad

Achille il tratto dell’amabilità, che è poi l’esigenza dal soddisfacimento della quale proviene l’aporia. Noi crediamo che la risposta possa essere la seguente: una volta, diciamo così, ‘ scoperto’ questo carattere in Ettore e data l’importanza che esso veniva ad assumere nell’eroe troiano, il principio del doppio centro di interesse dell’Iliade imponeva di trovare un tratto analogo anche in Achille. Dell’altro problema, cioè l’oscillazione nel determinare la componente dell’amabilità di Achille, crediamo che la soluzione possa essere trovata nel fatto che due erano le sollecitazioni che agivano su L. a questo proposito, dal momento che l’amabilità di Achille non era, come quella di Ettore grazie alla sventura, caratterizzata imme-

diatamente in maniera così vistosa: di queste sollecitazioni una era costituita dal contenuto di un pensiero risalente al 3 gennaio 1821 (p. 470 sg.) nel quale, a proposito del rapporto fra grandezza e perfezione, si legge: Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi; ... tali che ce li dipingono gli antichi poeti ecc. tale era l’idea ch’essi avevano del carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ecc., tanto meno perfetti quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro poemi;

l’altra era costituita dalla consapevolezza dell’opportunità, appunto per la dottrina del duplice centro di interesse, di porre Achille in posizione coerentemente simmetrica a quella di Ettore, mettendo in luce, anche per l’eroe greco, la componente della sventura. Del resto la medesima oscillazione che abbiamo visto nella definizione dell’amabilità di Achille la riscontriamo anche in quei luoghi nei quali L. tenta una specie di definizione generale del concetto di amabilità. A p. 3604 si legge: (a rendere amabili) giova grandissimamente la sventura, la quale accresce a più doppi l’amabilità ove la trova, e rende spesse volte amabile chi non lo è, ancorché sia meritevole delle disgrazie; molto più quando e’ ne sia immeritevole, C#akp-296005:

la sventura

essendo

principalissima fonte di amabilità, e quasi perfezione

e

sommità di essa;

e ancora a p. 3614: Gli eroi dell’Iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli altri poemi epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono più materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi sono tutte spi-

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rituali, interiori, morali, proprie dell’animo, e che dall’animo solo hanno ad esser

concepite e valutate;

e infine a p. 3615: Or, siccome l’uomo in ogni tempo, malgrado qualsivoglia spiritualizzazione e qualunque alterazione della natura sono sempre mossi e dominati dalla materia assai più che dallo spirito, ne segue che i pregi materiali e gli Eroi, dirò così, materiali dell'Iliade, riescano e sien per sempre riuscire più amabili e quindi più interessanti degli Eroi spirituali e de’ pregi morali divisati negli altri poemi epici.

Come c’era da attendersi, data la sua importanza, il criterio dell’ama-

bilità trova applicazione anche nell’Odissez. Avevamo visto finora che quando L. considera Omero ha presente quasi esclusivamente l’Iliade; sull’Odissea avevamo incontrato nel marzo 1821 un pensiero in cui L. ne decretava la decisa inferiorità rispetto all’Iliade; i motivi di ciò in quel pensiero non erano ben precisati, si parlava di carattere imitativo del poema, del senso di languore e di noia che quello provoca, ma nulla di più; qui, conformemente all’impronta di tutto il nucleo di questi pensieri, per cui la valutazione dei poemi si identifica con quella dei personaggi, si afferma esplicitamente che Odisseo manca di quella dote indispensabile che è l’amabilità, e anzi si manifesta addirittura come odioso. Nella p. 3601 sg. si legge: Or dunque ... veggiamo nell’Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benché sventurato per quasi tutto il poema,

niente interessa;

ma ancor più significativo forse quanto si legge a p. 3615 sg.: Del resto par che Omero medesimo sacrificasse e fosse strascinato dalla crescente ragione e civiltà, quando avendo nell’Iliade modellato il perfetto guerriero con sì felice successo, volle poi nella vecchiezza (per quanto si dice dell’epoca dell’Odissea) modellare il perfetto politico; un guerriero giovane, un maturo e quasi vecchio politico; certo con poco felice riuscimento, e men felice di quello degli altri poeti che lui seguirono, i quali fecero i loro eroi poco amabili, dov’egli il fece poco meno che odievole.

E con ciò crediamo di aver esaminato gli elementi più importanti del pensiero leopardiano sull’epica omerica in questo gruppo di mesi dall’agosto all’ottobre del 1823. Fra tutti questi, quello più significativo è costituito senz'altro dall’elaborazione e, ancor più, dallo sforzo di applicare in maniera organica e coerente il criterio dell’amabilità, anche per le grosse 22

connessioni che tale applicazione di questo criterio dimostra di avere con una innegabilmente insorgente sensibilità leopardiana per la sofferenza e con lo speciale apprezzamento che il poeta dimostra di nutrire per gli eventi e i personaggi segnati dalla sventura e dal dolore. Basta leggere queste pagine per rendersi conto facilmente che la simpatia del L. è tutta per ‘ i Troiani e per Ettore, per la sventura e la sconfitta che a loro si accompagna; è una simpatia che, in ambito di valutazione artistica, si traduce nell’attribuzione agli sconfittti di un ruolo assolutamente preponderante nel contribuire alla validità dell’opera. Abbiamo visto anche i tentativi di L. di superare — ammesso che ne avesse consapevolezza — le aporie appena insorgenti riguardo all’originaria mancanza di amabilità di Achille, un’amabilità che solo in seguito e non senza qualche difficoltà e ambiguità gli viene riconosciuta, con la conseguenza però che il ruolo patetico dell’eroe greco viene ad essere omologo di quello di Ettore e ciò compromette la dottrina del doppio e diverso centro di interesse dell’Iliade. Può essere interessante notare, a riprova della persistenza di certe preferenze e inclinazioni del L., ancora un pensiero di qualche anno dopo, del 21 ottobre 1828 (p. 4413 sg.), quando si era ancor più allentata l’attenzione intesa a mantenere in un equilibrio il più bilanciato possibile la valutazione di Ettore ed Achille, dei Greci e dei Troiani: qui una osservazione del Constant * (riportata alla p. 4405 sg.) relativa al fatto che Omero in definitiva concentra tutte le simpatie e l’interesse su Ettore e i Troiani, tanto che si potrebbe pensare che egli avesse composto il suo poma con il preciso scopo di celebrare costoro e non i Greci, dà occasione a L. per un significativo parallelo con i Persiani di Eschilo: Chi dicesse che i Persiani d’Eschilo sono di un persiano, o composti nel senso e spirito persiano, perché l’interesse e la compassione quivi è tutta per i Persiani, direbbe bene nel senso de’ moderni, e pure avrebbe torto nel fatto. Essi sono di un greco, nazionale degli autori di quelle disgrazie ecc. ... e fatti per essere rappresentati ai greci. I Persiani, considerati in questo aspetto, sono

propriamente il pendant dell'Iliade (e il comento) e il rovescio della Miletou halosis di Frinico.

Dunque l’Iliade ha il suo corrispettivo nei Persiani, la tragedia dei nemici vinti dai Greci, e come contrapposto la Presa di Mileto, la tragedia patriottica per eccellenza. Insomma, quello che dicevamo all’inizio del pro-

fondo e costante coinvolgimento che la valutazione omerica di L. subisce da parte del suo mondo di idee, appare trovare qui un esempio fra i più significativi e convincenti: l’imparziale atteggiamento critico, l'impegno a o L’opera di B. ConsTANT, citazioni nello Zibaldone.

40

De la religion, 1824-1831, fu occasione di vari riferimenti

e

definire in un discorso coerente i fondamenti del valore poetico dei poemi omerici

urtano continuamente,

per rimanere

in definitiva

soccombenti,

con la partecipazione appassionata con cui il poeta guarda al destino degli uomini esemplato negli eroi dell’epos. Come abbiamo detto, in questo anno 1823, particolarmente nei mesi di luglio e di dicembre, ricorrono anche dei pensieri sulla lingua omerica, anche nei suoi rapporti con la lingua letteraria del resto della Grecità. Il punto da cui L. muove è la sua convinzione relativa alla non poeticità degli elementi dialettali; è da vedere quanto detto a p. 3011: « In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all’eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari d’Italia fanno molto mala riuscita »; pertanto il problema che egli si pone è quale valutazione dare della presenza delle varie componenti dialettali nella lingua di Omero. L. sembra non arrivare ad una soluzione decisa del problema e appare propendere per l’idea che Omero avrebbe desunto questi elementi dialettali non direttamente dalle lingue delle varie stirpi greche, ma da una lingua comune che li conteneva, come in una mescolanza originaria anteriore alla suddivisione dei vari dialetti da questa operatasi posteriormente. Da Omero gli altri poeti greci li avrebbero poi desunti, già rivestiti di dignità letteraria e liberi dall’impronta non poetica che li avrebbe invece segnati in caso di una loro origine dialettale diretta. Questo il 23 luglio 1823 (p. 3011 sgg.). Per quanto riguarda poi la preminenza dell’elemento ionico nella lingua di Omero, esamina il problema il 26 luglio (cfr. anche il pensiero del 9 dicembre, p. 3964 sgg.) e avanza l’ipotesi che, mancando al tempo di Omero una lingua veramente comune, questo compito lo assolvesse lo ionico al quale Omero avrebbe dato dunque dignità letteraria (p. 3964 sgg.). Queste differenti soluzioni del problema, questo oscillare dei termini del problema medesimo — una volta la mescolanza dei dialetti, una volta il prevalere dello ionico — danno la sensazione che in L. non ci sia stato un tentativo impegnato in proposito e che egli non andasse molto al di là di un assaggio della questione.

La ripresa dei pensieri su Omero la si ebbe con la seconda metà del 1828. I motivi occasionali di questa ripresa sono noti: si tratta del fatto che L. venne

a conoscenza,

o tramite gli estratti del Bulletin del Férus-

sac o direttamente, di alcune opere particolarmente stimolanti a questo proposito. Vedremo dopo di valutare con maggior precisione gli effetti 6 Su questo strumento di informazione che teneva il L. al corrente di quello che si pubblicava all’estero, cfr. TIMPANARO, La filologia cit., p. 156.

4l

che ebbe su L. l’impatto con quelle idee; per ora limitiamoci ai fatti. Il primo contatto fu con le tesi di K. E. Schubarth," autore di un volume Ideen

über Homer

(Breslau

1821), che sosteneva

essere

stato

Omero

troiano per il fatto di aver dipinto sotto una luce particolarmente favorevole Troia e i suoi difensori. Nella prima parte di un’annotazione datata 26-31 luglio 1828 (p. 4315 fine e sg.) L. ha buon gioco, rispondendo a questa tesi, nel richiamarsi alle sue posizioni precedentemente sostenute circa l’intento che Omero aveva volutamente perseguito nel concentrare sulla parte avversa ai Greci le simpatie del pubblico; si tratta di una breve risposta, contenuta in poche righe, ma formulata con grande sicurezza e in modo tale che lascia trasparire chiaramente la soddisfazione per l’occasione di poter confermare le sue idee esposte precedentemente e indipendentemente e grazie alle quali è in grado di dimostrare insussistente la difficoltà contro la quale lo studioso tedesco aveva urtato. Più lunga riflessione e una serie di risposte ben più articolate L. opponeva al libro dello scolaro di Wolf, W. Müller, Hozmzerische Vorschule (Lipsia 1824), per mezzo del quale avvenne il primo contatto di L. con la teorie appunto del Wolf su Omero (p. 4316 sgg.). La risposta di L. fu su alcuni punti positiva, su altri negativa; di quest'ultimi deve esserne messo in rilievo uno, quello relativo alla definizione di ‘lirici’ dei canti dai quali sarebbe poi sorto l’epos, poiché in un secondo momento L. questa definizione l’accettò. Qui l’obiezione che egli muoveva a tale proposito era perfettamente centrata e rivelava una precisa consapevolezza delle distinzioni antiche dei generi letterari; L. osservava: altra cosa è la lirica, cantata, altra cosa è l’epica, recitata, « le poesie narrative non avevano alcuna melodia, non erano cantate ma recitate, o al più cantate a recita-

tivo ... il verso epico (quasi parlativo) era la prosa di que’ tempi, ne’ quali non si componeva se non in versi, ... Non credo dunque — conclude L. — ben dette liriche le sue poesie sebben forse accompagnate da qualche strumento, come i recitativi de’ drammi ». Invece L. accoglieva senza riserve la sostanza di questa idea, cioè l’origine dell’epos da canti separati: « io ammetto assai volentieri che Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, né anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque circoscritta e determinata unità » (p. 4322), e ciò in fondo si può capire senza grandi difficoltà: in questa teoria del Wolf sull’origine dell’epos era facile vedere in qualche modo una conferma di ciò che L. aveva sempre pensato in proposito, essere cioè l’epos come genere nato indipendentemente dalla volontà di chi 7 Su Karl Ernest Schubarth cfr. TImPANARO,

42

La filologia cit., p. 157.

l’aveva creato, solo che L. aveva fermato la sua attenzione sulla mancanza

di qualunque poetica o complesso di regole seguiti da Omero; ora Wolf e Miiller si spingevano oltre negando all’origine l’esistenza della forma stessa del poema. Ma quella che delle tesi di Wolf-Miiller L. respingeva con fermezza era la soluzione data dai dotti tedeschi al problema della conservazione e della trasmissione dei poemi omerici, con tutte le relative connessioni,

prima fra tutte quella riguardante il modo in cui i poemi, sorti da singoli canti brevi e assolutamente indipendenti, avrebbero assunto la forma monumentale. E va detto subito che le obiezioni di L. a questo proposito, rivolte alla luce del buon senso e della consapevolezza di ciò che è probabile e di ciò che non lo è, coglievano perfettamente nel segno, dal momento che attaccavano quelli che obiettivamente erano i punti più deboli della tesi del Wolf. Ma procediamo con ordine. Miiller sottolineava con grande insistenza l’assoluta occasionalità delle circostanze nelle quali gli aedi si trovavano a improvvisare i loro canti, ma in questo modo, obiet-

tava L., non si riesce a immaginare nessun meccanismo possibile di conservazione, anche puramente mnemonica, di questo materiale poetico che superasse il breve tempo della recitazione. Ancora: questa genesi sotto forma di canti occasionati dalle più svariate circostanze, non riesce, ossetvava L., a dare ragione della indubitabile, anche se larga, unità che i poemi

omerici presentano. Infine: Müller, seguendo Wolf, attribuiva all’opera dei diascheuasti la trasformazione di questi canti separati e senza nessun legame fra loro nei poemi che ci sono pervenuti; essi avrebbero sistemato questi canti componendo anche parti che servissero da connessione fra quelli, avrebbero uniformato la lingua, la dizione, il metro, le idee e le

credenze fino a portare il tutto allo stato che conosciamo. L. accettò tale idea dell’intervento di questa non meglio precisabile categoria di rielaboratori del materiale poetico più antico (anche se avrebbe avuto buoni motivi per avanzare delle serie riserve su tutta la questione *), ma ne ridimensionò fortemente la portata dell’intervento sulla base di una accettabilissima osservazione: nei due poemi i brani che non hanno una loro autonomia narrativa — mentre hanno una precisa funzione in riferimento ad altri episodi — sono troppo estesi e numerosi per pensare che siano opera di semplici rielaboratori che li avrebbero composti e inseriti per creare dei 8 Vedremo

dopo l’evoluzione

delle idee di L. sui diascheuasti,

il cui ruolo nella storia

delle vicende del testo di Omero fu certamente ingrandito in maniera esagerata dal WoLF, Prolegomena ad Homerum XXXIV e XXXV, che pretese di identificarli con i collaboratori di

Pisistrato nel redigere il testo di Omero. In realtà, dal materiale raccolto da K. LEHRS, De Aristarchi studiis Homericis, III ed., Lipsia 1882, p. 329 sgg., si ricava che questo termine

presso i filologi alessandrini serviva a indicare genericamente autori, quasi sempre non identificati, di erronei o infelici interventi sul testo di Omero.

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legami fra i vari brani del materiale antico, e in tal caso — si può completare la parte del ragionamento lasciata sottintesa da L. — bisognerebbe smettere di considerarli diascheuasti per farne dei veri poeti. Queste obiezioni L. le accompagnava anche con un complesso di ipotesi sue sulla genesi dell’epos che ne spiegavano indubbiamente in maniera più verisimile la conservazione (p. 4322 sgg.), e cioè: Omero (è da notare che L. preferisce sempre usare il nome di Omero, anziché parlare di aedi o cantori, anche nei momenti di più decisa adesione alle idee del Wolf) Omero dunque avrà pur composto oralmente i suoi canti, non però alla maniera delle improvvisazioni indipendenti fra loro di cui parlava Wolf, bensì avrà avuto modo almeno di ricordare ciò che aveva composto,

sia perché avrà avuto lui stesso la tendenza a continuare il suo racconto dal punto in cui lo aveva lasciato la volta precedente, sia perché le persone avranno desiderato questo legame per curiosità di sapere come si erano svolti gli eventi, sia perché, infine, unitario era il complesso dei fatti che costituiva il tema dei suoi canti, « così — osservava L. — sarà spiegata plau-

sibilmente quella tal quale unità, quanto si voglia larga, ma sempre unità, che si trova ne’ suoi poemi, e massime nell’Odissea ». Come si vede, con quest’ultima obiezione, quella fondata sull’unità dei poemi, già L. dava forma a quello che indubbiamente costituisce il limite di ogni dottrina radicalmente pluralista sulla genesi dell’epos: la « quanto si voglia larga, ma sempre unità » che ha indotto o a scivolare su posizioni unitarie o a supporre la presenza, all’inizio o alla fine di questo processo genetico, di una forte personalità a cui questo carattere di unità potesse essere attribuito; quest’ultima posizione, fra le due, è senz’altro la più scevra di inconvenienti, ed è quella che L., come si vede, adottò. Nel suo caso, fra

l’altro, ciò significava poter evitare di sconfessare tutto quanto egli aveva sostenuto sulle qualità artistiche di Omero. Si ha la sensazione dunque, già fin da qui, di una accorta e misurata utilizzazione, da parte di L., delle idee con le quali veniva in contatto e che accoglieva sempre in modo da non compromettere le posizioni che aveva conquistato; del resto — osservava — ammessa la mia ipotesi riman sempre luogo a qualche degna lode dell’arte di Omero per l’effetto dell’insieme dell’Iliade, benché composta senza piano preliminare; l’effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni sul poema epico (p. 4327).

In pensiero datato al 21-22 agosto si ha la prima testimonianza di un contatto diretto con le « bellissime e acutissime osservazioni del Wolf » contenute nei Prolegomena ad Homerum

(p. 4343). Diciamo

subito che

a nostro parere non c’è dubbio che per L. questo contatto sia stato importante, che però abbia avuto la forza di mutare dal profondo le sue idee è forse da escludere, nonostante l’adesione dichiarata alle tesi del dotto te-

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desco.” Intanto si deve osservare che le prime riflessioni che L. registra dettategli dal libro del Wolf, quelle, appunto, datate 21-22 agosto, non affrontano nemmeno da lontano il problema della composizione anonima e collettiva dell’epica, quasi che il problema fosse stato già risolto, ma

quello dell’oralità della sua composizione e trasmissione, tesi alla quale,

nella sostanza, L. aveva già espresso la sua adesione in occasione della lettura degli estratti del libro del Miiller; qui quello che interessa in primo luogo a L. è il rapporto che veniva ad essere stabilito, sulla base delle idee del Wolf, fra uso della scrittura e produzione letteraria, e L. si ferma con compiacimento a considerare la ricchezza della produzione poetica anteriore all’uso della scrittura, mentre l’avvento di questa avrebbe coinciso con la comparsa delle opere in prosa; continuava così il vagheggiamento della freschezza, vigoria e spontaneità della più antica civiltà letteraria, qualità che apparirebbero coincidenti appunto con la mancanza di quel prodotto della civiltà che è la tecnologia scrittoria. Vivo è anche l’interesse che appare aver dettato le considerazioni relative al rapporto fra popolo e letteratura in questo periodo antescritturale della Grecità letteraria arcaica:

Noi ridiamo di quell’antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. Certo non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione; e la nazione veramente, il vero pubblico, il po-

polo, non ne sa assolutamente nulla. Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni (p. 4346); e

ancora:

così non sarebbe men paradosso e forse più vero il dire che la scrittura, celebrata per aver popolarizzata l’istruzione, è stata al contrario per una parte la causa del depopolarizzare la letteratura, la quale una volta non poteva vivere che presso il popolo, e di separar dal popolo i letterati, i quali già ne fecero necessariamente parte (p. 4347).

Come si vede, l’interesse e l’attenzione appaiono spostati da quelli che per Wolf erano i presupposti dell’oralità della letteratura, cioè la composizione collettiva e anonima, a quelle che invece ne erano le conseguenze,

cioè il rapporto diretto del letterato col popolo, la maniera di ‘ pubbli9 Su questo contatto con le idee del Wolf cfr. il giudizio di Timpanaro, (lio

La filologia

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care” l’opera letteraria,® con tutta un’accentuazione

nell’importanza di

alcune idee che, anche se non assenti in Wolf, presso il dotto tedesco non avevano però tanto rilievo. E infine, assai importanti, le considerazioni

sulla gloria: Omero — ancora si sottolinea il tratto dell’inconsapevolezza dell’antico poeta — che non conobbe che cosa essa fosse e non la ricercò, l’ha ottenuta piena, « e noi che la desideriamo, noi per effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tale desiderio non l’otterremo » (p. 4348). Pertanto, anche in questi primissimi pensieri ispirati a L. dalla lettura del libro del Wolf, come ci era già accaduto di notare sopra a proposito del contatto con il libro del Miiller, si riscontra un’attenta cernita dei

temi e degli spunti che, pur tali da allargare e arricchire prospettive e idee, non contrastino mai fondamentalmente le concezioni generali che il poeta nutriva sull’epica omerica. L’unica novità, l’unica vera concessione che L. sembra fare, almeno in un primo momento, al Wolf è quella relativa al riconoscimento dell’importanza del lavoro dei diascheuasti nella storia dell’epica, con il connesso e conseguente ridimensionamento dell’importanza di Omero come personalità poetica. Ma a ben guardare, anche in questo caso, si tratta più di un’apparenza che di un sostanziale mutamento di idee. In un pensiero datato 29 agosto — per altri versi molto importante, come vedremo — possiamo leggere (p. 4355): Del resto, o che Pisistrato, o che alcun altro per suo ordine, o che il suo figlio Ipparco, o che parecchi letterati di quel tempo, amici e aiutatori di questi due o dell’un d’essi ... fossero quei che raccolsero i versi omerici, li disposero in quell’ordine che ora hanno, e li dividessero nei due corpi dell’Iliade e dell'Odissea, ad essi forse si apparterrebbe tutta la lode dell’effetto che risulta dall’insieme di questi due corpi, e la creazione del poema epico, se non fosse manifesto che anche essi crearono il poema epico senza saperlo, e non ebbero altra intenzione che di porre quei canti in ordine, di classarli e dividerli secondo i loro argomenti,

il che significa, come ben si vede, accettare, sì, il ridimensionamento

del-

l’importanza di Omero, ma anche una salvaguardia della caratteristica dell’inconsapevolezza, che per L. costituiva un’idea fondamentale, per cui il trasferirla dal poeta ai diascheuasti permetteva di mantenere intatto il meccanismo della genesi dell’epos così come stava a cuore a L. Ma anche tale misurata e accorta adesione a questa idea non fu cosa duratura; si ha la sensazione che ben difficilmente L. avrebbe, diciamo così, accettato du-

revolmente questo drastico ridimensionamento dell’importanza di Omero,

care”

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10 Sull’importanza e il significato che ebbe per L. questa maniera degli aedi di ‘ pubblicol canto le loro composizioni, cfr. LoNARDI, Classicismo cit., p. 55 sg.

e ce lo dimostrano i successivi pensieri e le considerazioni fatte in seguito a proposito dei diascheuasti. Già poche righe dopo il brano che abbiamo citato, in cui l’adesione alle idee del Wolf registra una delle manifestazioni più marcate, sempre nella stessa pagina 4355, si avanzano dubbi sul fatto che i diascheuasti fossero i collaboratori di Pisistrato e gli esecutori del suo disegno di sistemazione dell’epica: Il Wolf crede che i diaskeuastaì, ch’egli interpreta exactores seu politores, travagliassero alla riduzione de’ canti omerici una cum Pisistrato vel paulo post. Non ne ha però alcuna prova: non si trovano menzionati che negli scoliasti; io li credo molto più recenti (perché così mi par naturale), benché molto anteriori, com’ei pur dice, ai critici alessandrini.

È interessante il fatto in sé che compaiano dubbi su questa evanescente categoria di rielaboratori, per attribuire ai quali tanta importanza e un ruolo così preciso effettivamente Wolf non aveva molte giustifica zioni, ma quello che è più importante è che questa osservazione di L. ha un potere dirompente del quale L. stesso non sembra rendersi conto: infatti, se i diascheuasti sono da porre posteriormente a Pisistrato e d’altronde a lui la tradizione attribuisce la sistemazione delle opere di Omero, ne viene che, o l’opera dei diascheuasti medesimi non può essere stata quella di sistemazione profonda del materiale lirico preesistente, cosa già avvenuta appunto al tempo del tiranno d’Atene, oppure bisogna credere che l’opera dei diascheuasti, più tarda, era indipendente dalla volontà di Pisistrato. Non pare, come si è detto, che L. fosse consapevole di tutto ciò, ma coerente lo era e, pur senza aperte dichiarazioni di dissenso dal Wolf, dimostrò di propendere per il primo dei due elementi dell’alternativa che si è detto, quello che prevedeva un ridimensionamento dell’opera dei diascheuasti sul testo di Omero. Infatti, in un pensiero del 22 settembre (p. 4388) si legge: Sorte simile ad Omero ebbe anche in ciò il nostro Dante, il quale fino dallo stesso sec. XIV ebbe forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de’ suoi codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca;

e in uno datato da Recanati al 12 gennaio 1829 (p. 4435): Non solo le poesie omeriche, ma molti altri scritti, e forse tutti quelli della più alta antichità, non solo poesie ma prose ancora, esistenti in oggi o perdute, ebbero probabilmente i loro diascheuasti, che ridussero la loro ortografia e dicitura a forma più moderna e meno rozza ed irregolare;

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e poco più sotto (p. 4437 sg.): Ma invero non ci sono giunti diaskeuasménoi in qualche modo tutti, si può dire, i libri antichi? non è provato che Cicerone, per esempio, non iscrisse con quella ortografia colla quale i suoi libri sono stampati?; .

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4

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come si vede in tutti questi passi non solo la portata dell’opera dei diascheuasti è fortemente ridimensionata e ridotta al processo di modernizzazione della grafia, alla traduzione di forme dialettali e alla ‘ limatura ? della Divina Commedia," ma è carico di conseguenze il fatto in sé di estendere il procedimento della diascheuasi a tutti gli autori antichi, per cui L. di fatto svuota il concetto di quel significato particolare che aveva in quanto applicato al solo Omero quando la parola designava quel fenomeno unico e irripetibile (se non forse per qualche analogia coi canti di Ossian) nella letteratura mondiale che Wolf aveva voluto indicare.

Sono dunque importanti, per giudicare l’atteggiamento di L. nei confronti di Wolf, soprattutto i silenzi, le idee lasciate cadere senza alcun commento, e le tacite modifiche apportate nell’approfondimento della riflessione. Qualche esplicita riserva, come abbiamo visto, però non manca,

e qui ne segnaliamo un’altra che coinvolge il Vico e il problema della collocazione cronologica di Esiodo di cui abbiamo già visto; si tratta di un pensiero del 25 settembre ’28 (p. 4391 sg.) relativo ai poeti che dopo Omero cominciarono a servirsi della scrittura, una riflessione alla quale,

per il riferimento esplicito, L. dovette essere indotto appunto da Vico. Il succo del ragionamento è dunque questo: all’inizio del VI secolo, cioè all’epoca dei Pisistratidi e della stesura scritta dei poemi omerici, si collocano molti altri poeti a proposito dei quali la tradizione non dice che avessero avuto una trasmissione e una conservazione

orale e che anche

Wolf considerava avessero scritto le loro poesie; però nemmeno di Esiodo la tradizione dice che i suoi versi fossero stati messi per iscritto in epoca posteriore, eppure Wolf pone « le poesie esiodee ... fra quelle che furono conservate lungamente per sola memoria », ed ecco il pensiero del Vico che L. riporta in proposito (libro III, p. 400 = 856 Nicolini): talché Esiodo, che lasciò opere di se scritte, poiché non abbiamo autorità che da’ rapsodi fosse stato, com’Omero, de’ Pisistratidi.

conservato

a memoria,

si dee porre dopo

Non c’è dubbio, come si vede, che, volendo essere coerenti con certe premesse, conclusioni del genere, per quanto in sé inaccettabili, erano ine-

1! Cfr. anche p. 4417 del 3 nov. ’28 e p. 4480 del 2 apr. ’29.

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vitabili, e L. coerentemente vi arrivava, anche se la sua osservazione resta senza seguito. Di ben altra risonanza, ma in tutt’altro campo, in quello della poetica,

alcune idee che L. formulò in questo stesso periodo sulla base del libro del Wolf. Si tratta della nota teoria che « solo primitivo e solo vero genere di poesia » è la lirica (p. 4359), contro l’epica e il dramma che propriamente non hanno diritto al nome di poesia. A questo proposito, fra l’altro, crediamo che si possa registrare l’unico vero e proprio mutamento di opinione intervenuto in L. rispetto alle considerazioni in lui provocate dal libro di Müller: si ricorderà che L. aveva espresso le sue perplessità a proposito della definizione come « canti lirici » delle composizioni poetiche che poi avrebbero costituito il materiale per mettere insieme i poemi epici; ora, in questa riconsiderazione generale della poesia e dei suoi generi, quelle esitazioni appaiono definitivamente cadute: si parla esplicitamente di « canti non ancora epici, ma lirici, de’ rapsodi » (p. 4359) e,

oltre che dalle dichiarazioni esplicite, ciò si evince facilmente anche da valutazioni espresse su generi poetici. Nel solito pensiero dell’agosto, non lungo, ma così denso di idee e di spunti interessanti, si legge (p. 4356): E infatti il poema epico è contro la natura della poesia: 1. no concepito e ordinato con tutta freddezza; 2. che può avere poesia un lavoro che domanda più e più anni d’esecuzione? la zialmente in un impeto. È anche contro natura assolutamente. l'immaginazione, la vena, gli spiriti poetici, durino, bastino, non sì lungo lavoro sopra un medesimo argomento;

domanda un piaa che fare colla poesia sta essenImpossibile che vengano meno in

subito di seguito appare la ripresa di un’idea espressa già ripetutamente nel passato (cfr. per es. p. 2978 sgg. e p. 3769 ambedue del 1823) relativa al calo di tono e alla perdita di vigoria nella seconda parte dell’Ezeide; là la motivazione di ciò consisteva tutt’al più nel fatto che Virgilio non possedeva la freschezza e la forza vergine del genio primitivo di Omero, qui, come si vede, le giustificazioni addotte hanno maggior consistenza teorica.

Dopo quella dell’epica ancor più drastica la condanna della poesia drammatica: Direi che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l’epica. Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica ... Il fingere di avere una passione, un carattere ch’ei non ha (cosa neces-

saria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; e

ancora:

L’estro del drammatico è finto, perch’ei dee fingere; un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che dal bisogno d’esprimere de’ sentimenti ch’egli prova veramente.

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Questo insieme di idee rappresenta un punto d’arrivo di notevole importanza nell’evoluzione della poetica leopardiana, e, si può ben aggiungere, anche di notevole vistosità ed effetto; è sulla base di una coerente applicazione di questi principî, per esempio, che L. giunge ad affermare in un pensiero del 3 novembre (p. 4417):

« La Divina Commedia

non è

che una lunga lirica, dov'è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti ». Ma anche se in questo caso pensiamo sia difficile negare che l’approdo a tali conclusioni rappresenti una svolta, nel senso soprattutto di uno sviluppo e di un affinamento di idee precedentemente formulate in maniera non così compiuta e non considerate in certe loro implicazioni, però, che tutto ciò equivalga ad un sovvertimento o ad una modificazione essenziale delle sue concezioni precedenti, a ben guardare, non può esser detto. Abbiamo visto infatti che l’accettazione dell’origine dell’epos da canti separati non faceva che fornire un armonico completamento, perfettamente logico, alla dottrina dell’inconsapevolezza di Omero; qui si può aggiungere un’altra considerazione: a ben guardare, la teoria dell'’Omero senza regole in quanto primo poeta e quindi anteriore a qualunque regolamentazione del genere epico, con la relativa conseguenza dell’errore in cui erano caduti coloro che tali regole avevano preteso di ricavare dall’antico poeta greco, non era del tutto soddisfacente: il fatto che Omero fosse stato l’iniziatore del genere non escludeva automaticamente che, per esempio, avesse stabilito lui stesso delle regole magari — ammettiamolo pure — senza saperlo e volerlo, e pertanto l’errore di chi tali regole aveva preteso ricavare non poteva consistere in questo fatto in sé, ma, eventualmente, nell’averle ricavate in maniera erronea. Ora, con l’accettazione della idea del Wolf dei canti lirici separati, alcune almeno di queste difficoltà apparivano definitivamente superate: Omero non aveva seguito né codificato regole riguardo all’epica perché, in definitiva, non era stato un epico.

Qual è dunque l’impressione generale che possiamo farci riguardo alle conseguenze che ebbe su L. questo contatto con le dottrine del Wolf? Se abbiamo visto giusto, l’adesione del poeta alle tesi del dotto tedesco fu molto più cauta e meditata di quanto certe espressioni ammirate presenti nello Zibaldone potrebbero far credere, e si ha la sensazione che il venire a conoscenza di quelle idee servisse a lui piuttosto per affinare le sue e svilupparle nelle potenzialità che già possedevano, piuttosto che per mutarle radicalmente. L., per esempio, non tornò più, di fatto, a temperare in qualche maniera le sue convinzioni sull’importanza avuta da Omero, come precisa personalità poetica, nella genesi dei poemi, si voglia pure que-

sta genesi identificarla con dei canti lirici; lungi dall’arrivare a conside12 Cfr. quanto è detto a p. 3095 fine e sg.

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rarlo uno dei tanti aedi, anche se il più famoso di tutti, non ebbe mai ri-

pensamenti su quanto aveva asserito riguardo al ruolo avuto da Omero nel determinare il carattere unitario dei poemi. Tutt’al più, come abbiamo visto, di certi problemi preferì non tornare più a discutere. E in maniera perfettamente coerente con questa prassi lo abbiamo visto comportarsi riguardo al problema dei diascheuasti, in quanto dopo le osservazioni del Miller non riaprì mai la discussione generale sulla definizione di diascheuasi, ma ne modificò il concetto nella pratica con una serie di esempi concreti. Di fatto possiamo dire che su Omero L. arrivò a farsi una sua precisa concezione, perfettamente congruente, fra l’altro, con le sue idee generali di poetica, e con queste connessa e integrata, ma proprio questa congruenza, connessione e integrazione condizionarono, a loro volta, ogni sostanziale evoluzione ed ogni possibile mutamento delle sue idee su Omero, e rappresentarono il limite oltre il quale non solo non gli era possibile, ma per lui forse non sarebbe stato nemmeno concepibile procedere. GRAZIANO

ARRIGHETTI

DI

Leopardi, Platone e la filosofia greca

Affrontare i rapporti che il Leopardi ebbe col pensiero greco vuol dire, io credo, affrontare un problema fatto più di ombre e penombre che di luce, visto il filtro personale attraverso cui egli faceva passare le sue letture. Relativamente al mondo antico e a quello greco in particolare, non si possono porre sullo stesso piano i suoi rapporti filologici e le sue conoscenze filosofiche; e, ancora, vorremo distinguere i diversi aspetti del do-

minio che ne ebbe come filologo di vaglia e come uomo di lettere: il discorso con quel mondo e coi suoi testi, che scaturisce palese dalla pagina filologica, si fa occasionale, frammentario nella pagina letteraria e le tracce che ne traspaiono nelle prose sono di più e più corpose che non nei canti, anzi dei « Canti » la perfetta fusione tra pensiero ed espressione, a tutto vantaggio dell’originalità leopardiana, il più delle volte non permette di andar oltre a presunzioni, a meno che ci si accontenti di dire — come è stato detto! — che « platonico è, nell’Infizito, il puro ritmo dell’immensità, quasi una metafisica y&pa». Ritengo, però, che a un impianto del genere non si possa dare il proprio assenso. La ricchezza delle sue curiosità, per gli anni recanatesi costrette nei limiti che gli consentiva la biblioteca paterna,” è dimostrata tra l’altro dagli indici delle letture leopardiane, quando ci sono:* quasi nate dal caso, quasi — si direbbe — dallo stender la mano negli scaffali del padre, all’inizio; quindi più coerenti, ma pur sempre esposte alle vicende del caso nei soggiorni romano e bolognese, durante i quali gli erano preziosi i testi che a casa non possedeva, spesso sotto la spinta dei lavori filologici cui dedicava le sue cure (penso sopra tutto a Roma). Io non credo, invece, che sia caso

1 Così V. CILENTO, Leopardi neoplatonico, in Trasposizioni dell’antico, Milano-Napoli 1961, p. 174. 2 Si veda il Catalogo della Biblioteca Leopardi in « Atti e Mem. Deput. patr. per le prov. d. Marche » 1899, tenendo presenti le brevi, ma

importanti considerazioni di G. Pacella e S. Timpanaro in Scritti filologici (1807-1832) (= Scritti di G.L. inediti e rari, VIII), Firenze 1969, p. 674. 3 Tali indici ha pubblicato integralmente G. Pacella in « GSLI », 143, 1966, pp. 557-577; a questa edizione mi rifaccio, ove li citi.

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che i veri indici di letture incomincino solo col soggiorno romano:* è quasi a fissare il ricordo di letture che in un eventuale ritorno a casa non avrebbero avuto la possibilità di esser ripetute, anche per la povertà di ampi settori del mercato librario italiano d’allora. Dicevo curiosità e intendevo parlare degli anni più giovanili: ben presto le curiosità, che certamente non si spensero, in gran parte s’organizzarono in interessi con scopi precisi, sia che essi siano stati raggiunti, sia che — come tante volte al Leopardi è successo — siano stati tralasciati cammin facendo. Ma anche l’erudizione raccolta nei primi anni non fu sterile per il poi, quando tutto quel sapere si convogliò in preparazione per l’indagine filologica e in fondamenti per una larga cultura. Forse, dal punto di vista filosofico, gli nocquero i primi studi manualistici, che configurarono in lui una ‘storia della filosofia’ (il termine è in sostanza anacronistico

per gli anni giovanili del Leopardi) falsa e che gli anni successivi falsarono d’altrettanto nel senso opposto. Se vogliamo uscire dallo scontato o da quanto è già stato considerato, sarà difficile dire qualche cosa di nuovo e di valido dopo lo splendido articolo di Sebastiano Timpanaro su 1! Leopardi e i filosofi antichi:° chi conosce l’uomo e il suo valore non avrà difficoltà a convenirne con me. Intanto un primo ostacolo da superare è il modo stesso in cui il Leopardi affronta i filosofi antichi, una volta giunto a una acuta capacità critica.’ Se intende esaminare il testo, lo fa con lo scrupolo e il distacco di un filologo di professione (un filologo lachmanniano, intendo dire, non un filologo antiquario romano d’allora) e in tutto il volume degli « Scritti filologici » direi che forse solo nelle « Carte supplementarie di Bologna » compare qualche eccezione alla regola (ma siamo ormai al 1825-1826), con alcune annotazioni che si collegano con lo « Zibaldone » e con i suoi interessi letterari e filosofici; del suo disinteresse assoluto per il contenuto di pensiero direi che abbiamo il più bel saggio nella recensione al Filone dell’Aucher, che è dell’inizio del 1823." Del resto questo rigore filologico spiega meglio come mai al momento della crisi e della reazione fosse più facile al Leopardi accostarsi produttivamente al pensiero antico attraverso la critica testuale, che non attraverso la speculazione filosofica; per giunta questo atteggiamento filologico, decisamente figlio dell’erudizione precedente, è a sua volta mezzo per il successivo lavoro di approfondimento

4 Sono le letture del II e III elenco Pacella. 5 S. Timpanaro, pp. 182-228.

Classicismo

e illuminismo

nell'Ottocento

italiano,

Pisa

1965,

19692,

6 Illuminanti sulla prima gioventù le pagine del Timpanaro (op. cit., pp. 182-189), riguardo agli anni dal 1810 al 1818. 7 G. LEOPARDI, op. cit., pp. 157-168.

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interpretativo: non perché permetta al Leopardi una corretta interpretazione ideologica degli autori antichi, ma perché gli evita molti dei pesanti fraintendimenti cui quei testi andavano soggetti non solo in Italia. Se invece è per notare il contenuto e il pensiero, per chiarirselo, per discuterlo, nello « Zibaldone » è possibile avere dei dati sufficientemente precisi di mano diretta dell’autore, che sono molto più rari negli scritti letterari. S’aggiunga un altro fatto: coerentemente con la generale valutazione che egli ebbe di tutto il mondo antico nel suo insieme, il Leopardi ebbe una stima particolarmente alta per i filosofi antichi rispetto ai moderni, dovuta alla considerazione che «i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare » * o anche alla conformità tra il suo giudizio che filosofia è la « facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e di generalizzare » e l’affermazione del Laerzio a proposito di questa capacità in Speusippo, che nel suo pensiero il Leopardi fa rimontare a Platone; ? ma nella filosofia antica non cercò un patrimonio di verità liberatorie da affiancare a una fede razionale e tanto meno un bagaglio metafisico, che egli rifiutava.” Almeno da un certo momento in poi, è vero che Platone gli serve da schermo per attaccare l’immortalità dell’anima cristiana e la stessa teoria delle idee è combattuta con asprezza e attaccata con ironia.! D’altra parte a me non pare che abbia gran significato la lettera al von Bunsen da Milano, che è stata definita « insincera » © e che io

mi limiterei a definite, per quel che ci interessa, « ufficiale »: giacché quando leggiamo « il più grande propugnatore dei fondamenti della morale religiosa che abbia avuto l’antichità, voglio dire il divino Platone, principe dell’eloquenza filosofica », il primo giudizio è convintissimo, il terzo sincerissimo e il secondo si limita a ricalcare il divinus Plato cicero8 Zibaldone, p. 2709 [II 55] del 21-5-1823 (le pagine tra parentesi quadre sono quelle dell’edizione Flora). 9 Zib., p. 1650 [I 1073] del 7-9-1821 e p. 334 [I 297] del 17-11-1820 (il passo di Diogene Laerzio è 4,2 anche per noi). 10 Si veda, su un piano generale, Zib., p. 1347 [I 907] del 20-7-1821. 11 Per l’asprezza v. Zib., p. 1622 [I 1057] del 3-9-1821: «torneremo per forza al sogno di Platone, che suppone le idee e gli archetipi delle cose, fuori di Dio, e indipendenti da esso » (la sottolineatura è del Leopardi); per il valore negativo del termine « sogni », in particolare riguardo a Platone, cfr. Lett. 325 F. (p. 518) del 5-3-1825 a Carlo Antici. Per l’itonia v. Zib., pp. 1712-1714 [I 1106] del 16-9-1821: « Il sistema di Platone ... non solo non è chimerico, bizzarro, capriccioso, arbitrario, fantastico, ma tale che fa meraviglia come un antico sia potuto

giungere all’ultimo fondo dell’astrazione. [...] Ora, trovate false e insussistenti le idee di Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta rovina interamente da se ». 12 L. Brasucci, Su una lettera « insincera » di Giacomo Leopardi, « GSLI », 142, 1965, x pp. 88-96. Insincera la lettera è senz'altro nella sua impostazione generale. 13 Lett. 346 (p. 550) del 3-8-1825.

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niano, che al rappresentante dello spiritualismo religioso prussiano doveva riuscire graditissimo. Quindi, se si vuole, cautela e non di più.

Tutto ciò non toglie che Alla sua donna contenga ai vv. 45-47: Se dell’eterne idee L’una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l’eterno senno esser vestita

un accenno alle idee iperuranie, che serve al poeta per dare un tocco in più alla perfetta ‘ idealità ’ della Donna. Dato che le grandi letture platoniche sono quelle dal gennaio al luglio 1823, in gran parte a Roma e quelle del luglio ormai a Recanati, non farà meraviglia che si trovino tracce platoniche nelle « Operette morali ». Direi che la testimonianza più matura dell’assimilazione di Platone, se pur non concettuale, almeno formale, è data dalla prima prosa delle « Operette », la Storia del genere umano, che apre l’attività del Leopardi nel 1824 (12.1-7.2). L’esperienza platonica più cosciente, quella che doveva sfociare (e non sfociò) in una traduzione di tutti i « Dialoghi », in com-

penso fermò l’attenzione filologica del Leopardi con vivacità d’interessi (e con sua viva soddisfazione ancora nel 1832 “): si tratta quindi di una lettura meditata e assimilante, che si concentra su un gruppo di sette dialoghi tra i dodici letti, tra cui importanti per il caso nostro il Protagora col mito di Prometeo e il Convito col mito di Eros; rientra in queste letture il Menesseno, da cui deriva con ogni probabilità la « maravigliosa eccellenza », la Üresoyh, del genere umano, mentre l’accenno all’Atlantide, già presente nel « Saggio sopra gli errori popolari degli antichi » con molta altra erudizione, è, come tutta quella erudizione, di seconda mano." Ma l’impianto di tutto il dialogo leopardiano ci fa sentire un’esperienza fresca di letture platoniche: lo sentiamo di più nelle linee generali, ma non mancano le mosse particolari. Mentre la lunghezza del testo è notevolmente superiore all’ampiezza usuale dei miti platonici, salvo forse per il mito di Er, alla chiusa della

Repubblica, che però il Leopardi non conosceva ancora per lettura diretta, è squisitamente platonico il coprire dei colori del mito una verità profonda, una verità che non potrebbe essere razionalmente comunicata o che, 14 Lett. 822 (p. 1041) del 21-6-1832 al De Sinner.

5 P. 812 e rispettivamente 237 D. Il Meresseno è uno dei dialoghi letti a Roma dopo il gennaio 1823 (II 31 P.) e compare citato nello Zibaldone a p. 2665 [II 31] al 2-2-1823. 16 Il mito dell’Atlantide è narrato da Platone nel Crizia, che non compare negli Elenchi delle letture, né è citato nello Zibaldone. Un ulteriore elemento platonico potrebbe essere Giove legislatore (p. 817), come compare anche nelle Leggi: ma non risulta una conoscenza diretta di quest'opera, perché l’unica citazione che ne ho trovato nello « Zibaldone » (p. 4397 [II 1215]) è trascritta dai Prologomena del Wolf.

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nel caso del Leopardi, poteva correre il rischio, se colta, che lo scritto fosse

bloccato per via della censura.” Quindi all’apertura il grande quadro che risente della creazione del genere umano nel mito di Prof. 320 D e sgg.; alla chiusa con i due Amori (p. 823), l’accenno alle due metà amanti (p. 824),

le risonanze da Symp. 180 C e sgg. Ma nella sensibilità letteraria e stilistica del Leopardi, per noi avrà un suo risalto anche quell’iniziale « nar-

rasi », che ricalca i Aéÿero platonici all’inizio di più d’un mito. Ciò che però è significativo del modo di procedere del Leopardi e che può rendere meno lineare la ricostruzione dei modelli, delle fonti, come del pensiero, è la tecnica a incastro, con le descrizioni desunte da poeti

latini famigliari, come ovviamente l’Ovidio delle « Metamorfosi » per la creazione e il diluvio o, meno ovviamente, Catullo per gli dei che scendono in terra tra gli uomini,” mentre la poesia greca si limita a qualche tocco, carico però di valore allusivo per chi l’intenda, da Esiodo:” tutto ciò è come un gioco evocativo in un uomo che conosceva splendidamente

i modi per riprodurre in tono unitario uno stile altrui. In un tema che tanto si sarebbe prestato a riprese sostanziali, in una prosa così elaborata formalmente, per cui facile e gradevole sarebbe risultato il gioco di reminiscenze filosofiche, l’autore non passa oltre all’influsso formale e segue la sua via: se è il caso, i confronti sono più concreti con lo « Zibaldone » che direttamente con il mondo antico. Uno ne vorrei ricordare per il suo valore generale in relazione alla negatività della sapienza: è « comprovato da una tal tradizione [l'antica] ... che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice sia nato dal sapere e dal troppo conoscere »,! annotazione del tutto leopardiana e certo antitetica alla dottrina della copta dell’Aristotele giovane, ma altrettanto estranea all’antitesi epicurea ‘ civiltà : felicità’ e alle concezioni teofrastee, che il Leopardi aveva totalmente frainteso: ma, viceversa, parallela alle colpe del fantasma della Sapienza nell’Operetta morale. Su un secondo contatto penso di soffermarmi, perché ritengo che offra una spia interessante di come gl’interessi del Leopardi avessero ora a

17 Che è poi quello che temeva il Piatti nel 1834, se volle aggiunta, come ultima del dialogo, una nota destinata appunto a stornare i sospetti della censura. 18 Phaed. 107 D; 110 B; resp. 359 D.

19 I versi d'Ovidio che hanno dato immagini o spunti al Leopardi sono met. 1, 85-86; 69; 36-37; 43-44; in generale per il diluvio 260-383; 54-56; 101-105; 113 sgg.; 121; 149-150; anche la storia del genere umano leopardiano si divide in quattro età, seguendo la tradizione classica. Per Catullo, v. 64, 384-408 a p. 823. 20 «Il popolo de’ sogni » è Hes. Th. 212; Eros benefico è Th. 120 (ma v. anche 210); non è improbabile che nel « diffondere ... una moltitudine di morbi » (p. 815) ci sia reminiscenza di Pandora in OD 94-95. 21 Zib., pp. 2939-2940 [II 180-181] dell’11-7-1823.

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ora una profondità diversa e scavassero più o meno

a fondo, di prima

mano o accontentandosi d’una notizia d’accatto, a seconda del momentaneo filo conduttore del pensiero, anche in questo più stampo di poeta che di filosofo. Si tratta di uno dei temi che più dolorosamente e più a lungo fu oggetto di meditazione e che ebbe un luogo principe nello spirito del

poeta, quello che è meglio non essere nati e che il giorno della nascita è giorno di lutto. È tema che compare nel nostro dialogo (p. 814), come in una serie di annotazioni dello « Zibaldone »,7 ma in esso già presente almeno fin dal 1821 (« Non siamo dunque nati fuorché per sentire quale felicità sarebbe stata se non fossimo nati? » #) e che aveva le sue radici, come mostra la dolorosissima chiusa della lettera al fratello per il tentativo di fuga da Recanati nel luglio 1819, in piaghe lasciate dall’educazione materna: Era meglio (umanamente parlando) per loro e per me, ch'io non fossi nato, o fossi morto assai prima d’ora.*

Quanto ne fosse responsabile la madre, ce lo dice un famoso passo dello « Zibaldone » in data del 25 novembre 1820: « Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia » e quanto segue (pp. 353-354 [I 309-310]); ma questa del 1824 è la prima esplicita asserzione in un testo letterario, che avrà la sua consacrazione nei « canti », fino ai versi di Sopra un basso rilievo (26-27) dieci anni dopo: Mai non veder la luce era, credo, il miglior.

Ma veniamo alle annotazioni dello « Zibaldone »: la prima, dell’8 febbraio 1823, inizia: Parmi plusieurs de ces nations que les Grecs appellent barbares, le jour de la naissance d’un enfant est un jour de deuil pour sa famille (HeERODOT., l. V, c. 4;

QIRABSEX

I pa5.197Artbol" p.16):

e poco più avanti compare sul tema del triste destino dell’uomo altra bibliografia, cioè: Eurip., Fragm. Ctesiph., p. 476; AxrocH., ap. Plat., 1. III, p. 368; Cicero, Tuscul., 1. I, c. 48, t. II, p. 273. Même ouvrage, ch. 26, t. II, p. 3. 2 Zib., pp. 2671-72; 2673; 2674; 2675 [II 34-35; 36; 37] tra 8 e 25 febbraio del 1823. » Zib., p. 675 [I 487] del 18-2-1821; verrà ripreso per i Detti memorabili di Filippo Ottonieri cap. 2 p. 936. Già, se pur non così esplicitamente Zib., p. 365 [I 317] «al primo nell’ordine degli enti, è meglio il non essere che l’essere ». 24 Lett. 120 (p. 221) al fratello Carlo.

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La successiva annotazione è sullo stesso argomento: Le plus grand des malheurs est de naître, le plus grand des bonheurs, de mourir. (SoPHOCL., Oedip. Colon., v. 1289; BAccHYL. et alii, ap. Stob., serm. 96, Pp02

0551 CicrrosTasc IN

c 484t Il, p.273.

Tutta questa serie di citazioni merita d’essere riportata, appunto per intendere il modo in cui il Leopardi leggeva e raccoglieva cid che gli era più consono: i passi dello « Zibaldone » con le loro ‘ quotations’ provengono da un’opera che a buona ragione suscitò profondo interesse nel Leopardi, Le voyage du jeune Anacharsis en Grèce del Barthélemy, opera letta a Roma, che gli rivelò (con quanti mai abbagli!) l’esistenza d’un pessimismo greco. Ebbene, nessuno di questi passi, copiati ‘ currenti calamo ’, ha avuto

la ventura d’esser riscontrato di prima mano; il che non fa meraviglia a Roma, con un uomo che leggeva chiuso in casa, non reggendo in una pubblica biblioteca, che per giunta non aveva neppure le risorse dei libri paterni. Ma non risulta che nemmeno poi, a Recanati in occasione delle « Operette morali » o a Firenze in occasione del Dialogo di Tristano e di un amico; l’autore abbia fatto ricorso a un riscontro diretto, fuorché per Cicerone, passo, come vedremo, illuminante, che però nella nota delle « Operette » scompare come rinvio. In particolare, è certo che non fu mai riscontrato il riferimento all’Antbologia, naturalmente la celebre Arnthologia Graeca dello Stephanus, perché altrimenti nella nota della Storia del genere umano comparirebbe il nome di quell’autore dei celebri versi, colmi di pessimismo mediterraneo, Teognide: Il&vtov #

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Fra tutte le cose non essere nato è per i terrestri ottimo, né aver visto i

raggi del sole ardente, ma una volta nato lo è al più presto varcare le porte dell’Ade e giacere sotto un tumulo di molta terra (425-429).

A rigore, la citazione di Teognide non cade giusta: dovrebbe andare con la seconda parte dell’annotazione, o meglio ancora con l’annotazione successiva: all’usanza dei barbari di piangere il giorno della nascita Teo-

25 Nel dialogo ai nostri nomi sono fatti precedere quelli di Salomone e Omero (per Salo-

mone v. Ecci. 4,2); l’autore annota « Vedi Stobeo, sermone 96, pagina 527 e seguenti, sermone 119, pagina 601 e seguenti »: la prima citazione è ancora la nostra dal Barthélemy, la seconda è presa di peso dal commento del Fischer a Eschine socratico (v. anche oltre).

% Lo chiarirà il Leopardi stesso nella sua nota al dialogo.

DA

gnide né accenna, né allude, mentre essa in Erodoto e Strabone (appena citati) compare.

Si noti, i versi teognidei compaiono anche nelle « Vite dei filosofi» di Diogene Laerzio, che il Leopardi possedeva nella bella (bella anche per il Brunet!) edizione del Meibom con le note del Menage e che cita spesso nello « Zibaldone »: ma si trovano nel X libro, nella « Lettera a Menéceo » di Epicuro (10, 126). Ora, è un fatto che può suscitar meraviglia,

ma lo direi incontrovertibile, dell’opera del Laerzio, sia attraverso l’edizione citata, sia attraverso gli Opuscula dell’Orelli dopo il 1826,” le citazioni di passi dai libri VII-X sono, salvo forse una, derivate da fonti mediatrici e non provengono da letture dirette: e questo vale tanto per la prima lettura, anteriore al 1817-1818, quanto per la seconda, che è testi-

moniata dallo « Zibaldone » tra il luglio 1820 e il febbraio 1821; * quell’unico caso che farebbe eccezione è un passo dell’« Epistola ad Erodoto » d'Epicuro (D.L. 10,37 = Z:b., p. 4299

tato in modo

[II 1133]

difforme all’abitudine del Leopardi:

del 17-12-1827),

di

proviene forse dal-

l’Orelli? o, trattandosi di nota grammaticale, da un commento

ad altro

autore? Dall’Orelli direi di no, che il Leopardi a Pisa con sé non se l’era certo portato. Con tutto ciò, un unicum rimane un unicum.

Vorrei fermarmi a considerare le conseguenze che derivano per il tema in discussione da un’osservazione del genere. All’epoca del Leopardi mancavano le grandi raccolte di frammenti, gli « Epicurea » dell’Usener, gli « Stoicorum Veterum Fragmenta » del von Arnim e tanto più i « Vorsokratiker » del Diels e, per quanto preziosi, non li sostituivano i già citati Opuscula dell’Orelli, di cui il Leopardi fa così spesso tesoro — ma solo, come s’è detto, dal 1827 —, sia per i testi, sia per i commenti, recuperando

di qui una discreta messe di frammenti di filosofi presocratici” ma anche

27 L'acquisto degli Opuscula Graecorum veterum sententiosa et moralia graece et latine a cura dell’Orelli è della fine del 1826, cfr. Lett. 424 e 494F.; ma sicuramente una copia ne aveva avuta tra mano durante il soggiorno romano e un’altra durante quello bolognese; per il soggiorno romano v. Scritti filologici cit., pp. 479 (ter), 490, 510, 538, 542, per quello bolognese ibid., pp. 596, 598 (11 rinvii!), 617, 618. Tutte le citazioni dello « Zibaldone » vanno dal «5 del 1829 » (pp. 4430-4431 [II 1242]) in poi. Per Diogene Laerzio, l’opera dell’Orelli servì come semplice sostituto dell’edizione meibomiana, forse per alcuni più vivi interessi grammaticali che vi comparivano. 28 Così il passo su Pirrone a p. 427 [I 356] proviene dalle note al testo di Luciano, come indica la stessa genericità del rinvio (« 1. 9»); quello di 9,111 su ofos e ciXot a p. 4035 [II 866] viene dallo Scapula (qui pensare al passo chiave di Luciano, Lex. 3, è difficile perché

l’operetta sarà letta solo nel maggio 1824 e una citazione in Zib., p. 4095 [II 920] è ancora più tarda, 29-5-1824); quella su Senofane (9, 18) è citazione che proviene dal Wolf. Un caso interessante è 7, 57 a p. 43 [I 65-66] su Birvpt che « non significava nulla »: è l’unica traccia del VII libro e io credo che la parola provenga dall’indice del Laerzio, « BAitou, vox quae nihil significat » e di R il rinvio alle note del Casaubon e del Menage al passo citato. 2 Un calcolo, per quanto sia, si può fare solo attraverso gli scritti filologici, che danno

60

passi di filosofi tardi come Olimpiodoro, Filone alessandrino, Dione Crisostomo, le « Sentenze » di Sesto nella versione di Rufino.* Né tracce di letture solerti dello Stobeo io riesco a ritrovare finché il Leopardi non sia a Bologna o non possegga l’Orelli:® l’Antbologium poteva essere, se pur disordinato e asistematico, una fonte di notizie e materiali filosofici, ma questo sopra tutto nei primi due libri delle Eclogae, che il Leopardi non cita mai, salvo tre volte per motivi grammaticali.* Di fatto però la più ricca dossografia su stoici ed epicurei compare proprio nei libri VII e X di Diogene Laerzio: senza di che tutti i problemi della filosofia ellenistica non potevano essere visti e conosciuti altro che attraverso Cicerone, testimone certo autorevole, ma non esente da sospetti.’ Questa sua condizione nei confronti delle fonti può spiegare, a mio avviso, perché 4) della filosofia presocratica lo « Zibaldone » non ci dia altro — o quasi — che una serie di massime, di sententiae e mai materiale autenticamente

filosofico,

quale oggi possiamo trovare nei « Vorsokratiker »; b) della filosofia ellenistica compaia molto poco e quel poco spesso inesatto. Io non trovo facile spiegare questo arresto del Leopardi alla chiusa del VI libro: è un fatto che anche per quel che riguarda le citazioni dall’Orelli non compare alcun interesse per lo stoicismo e per l’epicureismo. Né io mi sentirei di dare gran peso alla notazione dello « Zibaldone » da Bologna:* « Concordanza delle antiche filosofie pratiche ... nella mia; per 17 citazioni fino ai socratici su un totale di 27; nello « Zibaldone », assommando le citazioni dall’Orelli con quelle dallo Stobeo, abbiamo altre 22 citazioni di presocratici. 30 Letture sistematiche non furono e quindi non compaiono negli Indici delle letture. 31 In questo diversamente da quanto pensa S. TIMPANARO, op. cit., p. 204, n. 44: la citazione di Zib., p. 4919 [II 851] su Archiloco è estremamente vaga; quella di p. 4116 [II 938] è tratta dall’edizione posseduta dal Leopardi, che conteneva la sola traduzione latina (v. il titolo Laus Vitae, contro tutti i titoli successivi, tutti in greco); la successiva citazione (p. 4140 [II 966]) è oramai da Milano e infatti si rifà (ed è la prima) al testo greco. Quanto alle citazioni dalle « Operette », la n. 37 al Parini, che cita la III Edizione del Gessner (« Tigur. 1559 »), dipende da appunti bolognesi (cfr. Scritti filologici, p. 715 sotto Stobeo); la n. 62 è al Dialogo di Tristano e di un amico e quindi bisogna scendere al 1832. 32 Si tratta di 16 citazioni bolognesi nello « Zibaldone », più 4 dall’Orelli; anche le citazioni datate 22-9-1825 da Milano compaiono già nelle « Carte supplementarie di Bologna »: a Milano, probabilmente, sono state semplicemente copiate. Nelle carte filologiche abbiamo tre citazioni bolognesi e 10 dall’Orelli. 33 Scritti filol. cit., pp. 41, 16; 561,98 e 598, 51.

34 Un esempio può essere quello della citazione di Crisippo che nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo (p. 842) diventa semplicemente un ‘bon mot’ (« Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi con le anime in vece di sale »), accentuando il tono che aveva in Cicerone, nat. deor. 2, 64,120 (il rinvio è del Leopardi) = SVF II 1154, il quale del resto in fin. 5,13, 38 trova ciò detto non inscite (cfr. Plin. nat. bist. 8,207: non inlepide), di fronte alla serietà delle fonti greche (qui Plutarco, Clemente Alessandrino, Porfirio, v. il commento del Pease 4d. /.). 35 Zib., p. 4190 [II 1018] del 1-8-1826.

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esempio della socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ecc. », in cui filosofia pratica vuol dire non contemplativa, cioè non metafisica, come la platonica, senza che l’arido

elenco di scuole abbia altro legame che questo. Né tanto meno alle parole « ufficiali » scritte (ancora una volta a lui) al Bunsen nel 1826: « la filosofia stoica, che io mi trovo avere abbracciato naturalmente, e che mi

riesce utilissima »; * oh pietosa menzogna!

e poi quale filosofia stoica?

quella del « Manuale » di Epitteto, che è stoica sì, ma con varie acque nel vino originario.

La filosofia greca, quella vera, per il Leopardi s’arresta con Teofrasto; che anzi egli rivendica i meriti di quest’ultimo, contro la tradizione scolastica che poneva per ultimo filosofo Aristotele: Laonde Teofrasto non ebbe giustizia dagli antichi incapaci di conoscere quella profondità di tristo e doloroso sentimento che lo faceva parlare ... Neanche ha ottenuto dai moderni quella stima che meritava.”

A ciò s’aggiunga il poco gusto per il frammento che non sia poesia o massima; io aggiungerei ancora, per un uomo che storico della filosofia non fu mai, la greve aridità che col libro VII pervade il testo di Diogene, non per colpa di lui (che del resto non è mai brillante), ma dello scolasticismo pesante delle nuove scuole. Di cosa in cosa, la citazione di Teognide ci ha portato lontano ed è ora di riprendere il ragionamento sul passo in discussione della Storia del genere umano; alle tre citazioni dello « Zibaldone » qui il Leopardi ne aggiunge altre due, di cui una assai pertinente da Pomponio Mela,* il quale, parlando dei Traci, osserva: alii (putant animam) emori quidem, sed id melius esse quam vivere. itaque lugentur apud quosdam puerperia natique deflentur, funera contra festa sunt et, veluti sacra, cantu lusuque celebrantur.

Altri ritengono sì che l’anima s’estingua, ma che questo sia meglio che vivere. Perciò presso certe genti loro viene pianto il giorno della nascita e si fa corrotto su coloro che sono nati, mentre invece il giorno della morte è giorno di festa e, come se si trattasse di solennità, viene celebrato con canti e giochi.

% Lett. 409 (p. 630) del 1-2-1826; sulla filosofia antica e la sua caratterizzazione è molto interessante Zid., p. 1018 [I 684], di vari anni prima (6-5-1821). 37 Zib., p. 317 [I 287] dell’11-11-1820. Circa alla posizione verso Aristotele, si veda S. TIMPANARO, op. cit., p. 186. 38 Mela 2,2: nella numerazione moderna per paragrafi, anziché capitoli, 2, 18.

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Non c’è chi non veda come il passo della Storia del genere umano cortisponda pienamente nel concetto: si ridussero gli uomini a tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli che lo serbarono, che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e mo-

rendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi coll’estinto.

Qui dunque il Nostro ha trovato, posteriormente alla lettura del Barthélemy, un testo ad hoc, probabilmente letto oppure cercato esplicitamente, questa volta di prima mano, come quel passo di Coricio che s’aggiunge nella nota dell’« Operetta morale », letto nel giugno dell’anno precedente nella « Bibliotheca Graeca » del Fabricius.” Viceversa, altre cita-

zioni dello « Zibaldone » erano di seconda mano e ne abbiamo le prove: per la citazione di Euripide siamo davanti a una grossa ‘ bevue ’, perché « EurIPID. fragm. Ctesiph., p. 476 » è un nonsenso, di cui non ha colpa il Leopardi, che trascriveva di peso dalla nota dell’Aracharsis; che non di Ctesifonte, ma di Cresfonte si trattasse, però, glielo avrebbe potuto dire il passo delle « Tusculane » (1, 48, 115), che porta esplicitamente scritto

Qua est sententia in Cresphonte usus Euripides e fa seguire la traduzione del frammento. Ma il confronto tra i testi ci dice che in occasione della stesura dell’operetta il Leopardi per questo luogo delle « Tusculane » (che ormai non cita più) ha fatto il suo bravo riscontro, traendo dalla tra-

duzione latina alcuni colori significativi che non comparivano nello scarno testo di Mela. Così « si congregavano » è coetus celebrantes e « congratulandosi con l’estinto » riprende hunc omni... laude et laetitia exsequi!® Quanto poi all’« Assioco » pseudoplatonico (per l’esattezza p. 368 A), il Leopardi non lo conosceva nel 1823, al punto di credere che Assioco sia l’autore; lo leggerà solo poi, a Bologna nel gennaio del 1825, sotto il nome di Eschine socratico, nell’edizione del Fischer (v. Indici IV P.) che

39 Choricius, Oratio funebris in Procopium Gazaeum (il titolo esatto è Choricii sophistae oratio in funere Procopii Gazaei magistri sui) in I.A. FaBRIcIUS, Bibliotheca Graeca, Amburgo 1718-1728, VIII 859: è quella che in seguito chiamerà « editio vetus », avendo saputo

della nuova edizione curata dal Harles. 40 Il frammento è TGF 449 N2. Ne trascrivo qui la traduzione (= Cic. fragm. poet. 37 Tr.): Nam nos decebat coetus celebrantis domum lugere, ubi esset aliquis in lucem editus, humanae vitae varia reputantis mala; at qui labores morte finisset gravis hunc omni amicos laude et laetitia exsequi.

che ne dà Cicerone

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citerà in « Carte supplementarie di Bologna » e testualmente nello « Zibaldone » in data « Bologna, 1825, 22 Novembre ».* Per il quadro del suicidio più d’un commento rinvia a Lucrezio; * di Lucrezio altri parlerà: mi limiterò a negare il rapporto, che, se non è cogente dal punto di vista formale, è da escludere nettamente nell’ambito dei concetti, perché non esiste nel Leopardi la mortis formido lucreziana. Un’altra delle « Operette morali » che risente notevolmente nell’impianto di uno scritto filosofico greco sono i Detti memorabili di Filippo Ottonieri; si è parlato dei « Memorabili » di Senofonte e certo sia per il titolo, sia per l’articolazione in capitoli la cosa sta bene, trattandosi di opera ben presente nel fare il quadro di Socrate, che a mio modo di vedere ha poco o nulla di platonico e moltissimo di senofonteo:* dato che i « Memorabili » furono letti nello stesso mese dell’operetta, non fa meraviglia che abbiano lasciato traccia nella mente dell’autore. Si è pensato alla « Vita di Demonatte » di Luciano, letta sette mesi prima, e non è impro-

babile che alcuni spunti ne provengano. Ma io vedo nell’Offonieri in maniera impressionante il modello di uno scritto di storia della filosofia, che il Leopardi aveva avuto assai di frequente tra mano, cioè quelle « Vite dei filosofi » del Laerzio, di cui già ci è occorso di parlare: penso sopra tutto all’alternarsi di passi dottrinali con vere e proprie chriae, quelle battute vivaci e acute che, nate nelle diatribe dei cinici, si erano diffuse nelle biografie ellenistiche di filosof.* In taluni casi si arriva a identità formali, come, per fare un esempio, quel

« Dimandato a che nascono gli uomini » (c. 2 p. 936) ovvero « rispondendo a uno che lo interrogò, qual fosse » ecc. (c. 2 p. 933), che è tale e quale a Mpommdelg ei xaxds 6 Idvatog 0 a Épwrndels mote tic uäAov &you&

di D.L.

6, 68 e 4, 48, entrambi passi citati in greco dal Leopardi nello « Zibaldone ».# Ma il forte stimolo (di fondo erudito) determinato

dal modello PSR Me

|

4 V. Scritti filol. cit., p. 637, 87 e Zib., p. 4154 [II 981]: « Eschine, dialogo III; Assioco, sezione VIII » (per noi 5, 367 A). 4 Lucr. 3,79 sgg.: mortis formidine vitae | percipit hbumanos odium lucisque videndae, | ut sibi consciscant

maerenti pectore letum.

43 In questo dissento in parte da S. TIMPANARO, op. cit., p. 215: penso alla visione così poco dialettica di Socrate. Forse l’elemento più schiettamente platonico dei cenni su Socrate è a p. 932 «il naso rincagnato e il viso da satiro », che riprende le parole d’Alcibiade nel Convito, 215 B. Ma non va dimenticato Sywp. 221 E, dove si presenta Socrate che parla di

XaxÉAG Tivàc xai oxurotéuous

xai Bupoodébac,

de’ calzolai, de’ legnaiuoli, de’ (Syrp. 215 AB) modernizzata in c'è anche qui il consueto gioco cielo » da Socrate, che è da Cic.

fabbri e degli altri simili ». O ‘ancora la storia del Sileno quella della « maschera » alla fine del c. 1 (p. 932). Del resto d’intarsi, quando si parla della filosofia « fatta scendere dal Tusc. 5,4,10; un cenno anche in Ac. 1,4.

che trovo analogo a p. 930 «le botteghe

# Questo debito verso il Laerzio è già accennato da S. TIMPANARO, op. cit., p. 207 e n. 51. 4 Zib., p. 660 [I 480] del 14-2-1821 e 303 [I 278] del 6-11-1820. Ma altri elementi

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learziano non poteva vincere l’insofferenza per uno schema, che avrebbe finito per essere monotono, come monotono è in effetti Diogene; direi che è addirittura spontaneo per il Leopardi ricorrere a formule meno imper-

sonali, ma estranee a un manuale di storia della filosofia; ricordo volontieri « Narrerò qualcuna delle sue sentenze » (c. 5, p. 944), che si può riscontrare con la « Vita di Demonatte », Bobdopar Sè va mapadtodar Tüv edotoywe

te dua xal

dorelws br’ adrod

XeAeyuévwyv, « Vorrei presentare

qualcuna delle sue battute azzeccate e argute » (cap. 12 in.), espressione che a sua volta si ritrova assai bene con c. 7 (p. 951) « Si ricordano anche

parecchi suoi motti e risposte argute », anche se il « si ricordano » mi pare

assai vicino agli &vapéperau del Laerzio.!* A variare le strutture della biografia filosofica, direi a tutelare la libertà dell’artista, s’inseriscono i modelli più profondi, come il Socrate dei « Memorabili » o anche una tripartizione (c. 4, p. 941) che — nella forma, non nella sostanza — va ravvici-

nata a un passo della Lettera 52 di Senaca (parr. 3-4) e può servire a mostrare (dato che io non penso che Seneca gli fosse così famigliare da essere assunto come modello) quanto il Leopardi avesse assorbito dei moduli stilistici del mondo filosofico antico. Del tutto diversa la situazione del Dialogo di Plotino e Porfirio, così lontana dal dialogo antico sia platonico, sia ciceroniano, sia anche — se pur meno — da quello lucianeo; è invece presente la volontà di essere fedele nelle grandi linee al pensiero antico, quantunque la polemica contro la dottrina platonica della sopravvivenza dell’anima, che rivela una volta di più la ben scarsa simpatia di Leopardi per Platone filosofo, pari alla sua ammirazione per lo scrittore, venga condotta in modi del tutto moderni. Qui i riferimenti platonici si fanno più palesi, onde dare evidenza alle repliche; così è per Phaed. 62 B, tradotto quasi alla lettera: « che all'uomo non sia lecito, in guisa di servo fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere (&v tivi ppoup& dice Platone) nella quale egli si ritrova per la volontà degli Dei » (p. 1003), considerazione che determina in Porfirio « lo scatto iniziale », come lo definisce bene il Timpanaro,” così aspro e dolente. Se qui fin la chiosa è fedele al testo,* più liberaformali possono

essere

paragonati, per es. « Diceva

che i diletti più veri»

(c. 2 p. 933)

all’inizio di pericopa con D.L. 4,50: #eye Sè robc èv &Sov paMoyv dv xordteodat. 4 Per es. 5,17: dvapéperar 3’ els adròv xal &mopSéyuarta (che potrebbero benissimo essere i « motti » leopardiani) x4AX tota tavti. Movenza moderna, estranea alla biografia antica, è anche la prima persona di c. 3, p. 940: «ho udito anche narrare »; ma può anche essere stata assunta da altre forme antiche: si veda come s’atteggia il fondo biografico nel De morte Peregrini di Luciano, che è in forma di lettera e quindi comporta la prima persona. 47 S. TIMPANARO, op. cit., p. 213. 48 Si veda come è stato reso esplicito il valore di &roddpdox («in guisa di servo fuggitivo ») e come

si ha più chiara evidenza dalla perifrasi che sostituisce il tabtne.

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mente è resa la notizia ricavata da Diogene Laerzio (3, 79-80 a p. 1003):

« So che egli si dice che Platone spargesse (—ëyxaramËac) negli scritti suoi quelle dottrine della vita avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per timore di pene e calamità future, si ritenessero nella vita dal fare ingiustizia (&réywvrar tv & Sxeudrov), e dalle altre male opere ». Già annotata fin dal novembre 1820,* questa interpretazione nata nell'Accademia scettica intendeva giustificare come mai Platone avesse ‘inventato’ una tale dottrina relativamente all’anima immortale e alle sue pene o premi. S’aggiunga l’accenno al Tartaro e ai tre giudici infernali (p. 1005) dal Fedone (113 D sgg.) e dal Gorgia (524 A).

Ma ciò che mi lascia perplesso polemica antiplatonica, in cui alle contrapposti gli effetti delle buone rie di strettissimi contatti col de Leopardi:

è come uno dei punti culminanti della minacce escatologiche dell’aldilà sono leggi (pp. 1004-1005), mostri una seabstinentia di Porfirio stesso. Dice il

Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura dei costumi e delle menti, conservano nella società degli uomini la giustizia e la mansuetudine; perocché gli animi dirozzati e rammorbiditi da un poco di civiltà, ed assuefatti a considerare alquanto le cose, e ad operare alcun poco l’intendimento; quasi di necessità e quasi sempre aborriscono dal por mano nelle persone e nel sangue dei compagni; e rare volte e con fatica s’inducono a correre quei pericoli che porta seco il contravvenire alle leggi.

D'altra parte si legge in Porfirio (abst. 1,7): Gli Epicurei, raccontando

estesamente

come

in una

lunga cronologia per

generazioni, dicono che gli antichi legislatori, per aver fatto attenzione alla comunità di vita degli uomini e ai loro rapporti reciproci, dichiararono empio l'omicidio e stabilirono pene non da poco — fors’anche perché è propria dell’uomo nei confronti dell’uomo una certa affinità naturale a causa dell’eguaglianza d’aspetto fisico e di anima — allo scopo di non uccidere tale vivente colla stessa facilità di un altro per cui l’uccisione è concessa. ... Quanti poi non avevano una sensibilità per capire la cosa, per timore della gravità della pena s’astenevano dall’uccidersi tra loro senza difficoltà.

Ma c’è di più: Porfirio parla di « affinità naturale » che lega uomo con

uomo ed è (o dovrebbe essere) d’impedimento all’omicidio: il greco ha quei Tivoc oixerbocwe; la oixetwor normalmente è, per usare le pa-

role del Leopardi qui (p. 1008), l’amore della « conservazione propria »

49 Zib., p. 339 [I 299-300]: se ne dà integralmente il testo greco, con alcune annotazioni dalla traduzione del Lipsius.

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che « la natura ci ha ingenerato »: Il termine è tecnicissimo dello stoicismo e poi si propaga anche per il campo neoplatonico: come ne ha notizia il Leopardi? Non da testi stoici, perché quei testi non insegnavano certo che « la natura vieta l’uccidersi », tutt’altro! Io credo che lo abbia attinto da qui e ne abbia recuperato il valore usuale (forse attraverso un lessico?)

rispetto all’uso insolito davanti cui ci troviamo e che del resto è sottolineato

dall’aggiunta

roïc

ävIpémoic

reds avdp@rovg.

Ammettiamo

che

tutto questo vada bene così. Ma come conosceva il Leopardi il de abstinentia di Porfirio? L’unica citazione del de abstinentia che compaia negli scritti leopardiani è nella « Storia dell’astronomia » (II 826 e n. 10), dove

l’opera è citata esplicitamente, a differenza del grosso delle fonti per cui si rinvia al Fabricius. Ci sono anche altri elementi che ci danno la chiara percezione della matura assimilazione di materiale della filosofia antica. Per esempio, due immagini che in un certo ambito filosofico greco e romano hanno avuto una grande fortuna, il porto e la tempesta (p. 1004): Tu sei cagione che si veggano gl’infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll’animo da quel solo rimedio e riposo loro.

Fermarci a cogliere la storia di Auñv e xbuata, di portus e tempestates non avrebbe ragione, né il tempo lo consentirebbe; ma la curiosità di sapere donde li abbia assunti, rimane. Tra gli esempi più famosi che paragonino la morte a un porto abbiamo un epigramma di Leonida di Taranto (AP 7, 472 bis), Cicerone nel de senectute (19, 71), Seneca nella Consolatio ad Polybium (9,6) o nelle « Lettere a Lucilio » (19, 1-2); io non stento a credere che, con l’interesse che nel 1821 aveva suscitato in lui la lettura

del Cato Maior, sia questo il suo spunto primo: ut quo propius ad mortem accedam, quasi terram videre videor aliquandoque in portum ex longa navigatione esse venturus.

Su materiale ciceroniano, in particolare delle « Tuscolane », è formato il quadro del saggio &ra%ñc (p. 1015), « Io so bene che non dee l’animo

del sapiente esser troppo molle ».® Eppure sia la concezione del Cato Muior, sia questa delle Tusculanae sono puramente greche: è che una gran parte del pensiero greco da Aristotele in poi è noto al Leopardi appunto attraverso una fonte latina, qual è Cicerone; del resto si tratta d’un sospetto che avevo avanzato già al principio della nostra conversazione. 50 Si veda per la « stabilità » Tusc. 4,31; ovvero per « le lacrime » Tusc. 2, 55-56.

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Problemi ne resterebbero ancora. Penso per esempio a Lucrezio, che per me rappresenta una fonte di pensiero epicureo. Lasciamo pur perdere la citazione nel « Saggio sopra gli errori popolari degli antichi », per cui non si può che accedere al parere del Timpanaro, che lo ritiene « conosciuto con tutta probabilità di seconda mano »:° la ventina di citazioni che compare nello « Zibaldone » rivela come unico interesse la lingua arcaizzante, al più qualche elemento poetico, nulla che riguardi il pensiero e sopra tutto, come ci aspetteremmo, il celebre e discusso pessimismo lucreziano. Anche la nota di V 9 P. (« Lucrezio, dove parla dello stabilimento della società, libro 5 ») è da intendersi, e senza le esitazioni dell’editore, come un appunto per una futura lettura: ha ogni apparenza della

notazione che si ricava da una citazione altrui,” sicché non si cita un’opera, e nemmeno un singolo libro, ma una sezione di esso. Che se, io credo, il

Leopardi avesse letto non dico tutto il poema, ma la seconda parte del V libro,” come là auspica, avremmo avuto senza dubbio alcuno una compartecipazione di Lucrezio alla creazione spirituale leopardiana; l’impressione che se ne ha è, per le citazioni che non dipendono dal Mai o dal Niebuhr,* che siamo di fronte a materiale lessicografico. Eppure c’era più d’un Lucrezio in casa Leopardi, oltre alle traduzioni del Marchetti. Perché ne rifiutò la lettura? Se un’ipotesi posso avanzare, è che Lucrezio è rimasto travolto insieme col suo maestro. Il pesante (e sgradevole) attacco di Cicerone all’epicureismo nel II libro de finibus coincideva con i giudizi delle letture filosofiche giovanili del Leopardi: non è da escludere, a mio avviso, che l’immagine di crasso edonismo che avvolge l’epicureismo in Cicerone come nella pamphlettistica cristiana abbia distolto il Leopardi da ogni desiderio di approfondire la conoscenza dell’epicureismo e degli epicurei greci e romani.

Caso diverso è quello di Democrito. A parte le solite citazioni del Saggio sugli errori popolari, un accenno non filosofico a Democrito compare in una lettera al Giordani del 1821, « non potresti di Erdclito convertirti in Democrito? », con allusione al Democritus ridens contrapposto all’Heraclitus lugens, venuti in auge con la tradizione umanistica, ma per cui noi possiamo risalire fino al I secolo a. C.; ® per il resto si parla genericamente 51 S. TIMPANARO, op. cit., p. 189. 32 In nessun altro caso degli Elenchi di letture compare un’opera di cui sia indicato non l’integralità o il libro, ma una sezione per il contenuto: una ragione di più per pensare a un programma di lettura. 53 Si tratta in sostanza dei versi dal 1100 alla fine del libro. # Dal Cicerone del Mai dipende Zib., p. 2655 [II 25] e dal Niebuhr, p. 4452 [II 1261]; una derivazione sicura da lessici è, per es., pp. 2306-2307 [I 1392 e 1393]. 55 Lett. 199 del 18-6-1821 (certo la lettura del Leopardi e della sua età era ‘ Eràclito ? e non il corretto ‘ Eraclìto ’). Le fonti antiche che portano l’antitesi Democrito-Eraclito trat-

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della lingua di Democrito, nozioncine derivate dal Fabricius. Un solo pensiero del 1829, dopo aver accostato cronologicamente Ippocrate e Demo-

crito, cita i Pensier: morali dagli Opuscula dell’Orelli: ma quando deve dare un giudizio, si fonda esclusivamente su Cicerone. Eppure il Leopardi ne sapeva di più: se su appunti per ulteriori « Operette morali » troviamo un titolo « Ippocrate e Democrito »,” a me pare chiaro che egli era al corrente dello scambio epistolare, naturalmente fittizio, tra i due,

che compariva al termine della sua vecchia edizione del Corpus Hippocraticum.* Ne troviamo conferma nel pensiero del 1829 appena citato, là dove il Leopardi scrive a proposito di Ippocrate « nei suoi scritti è citato Democrito »: ora, il nome di Democrito non compare mai in tutto il Corpus Hippocraticum, all’infuori delle epistole pseudoippocratee.” Questo Democrito, chiuso nella sua villa fuori Abdera, che ride follemente sulla vanità della vita umana, ma per profonda saggezza che solo Ippocrate capisce e ammira, è quello che ha dato origine alla considerazione su riso e pazzia nell’Elogio degli uccelli ® e dall’altra ha dettato l’osservazione che « misurando la singolarità di Gian Giacomo Rousseau, che parve singolarissima ai nostri avi, con quella di Democrito e dei primi filosofi cinici, ... oggi chiunque vivesse tanto diversamente da noi quanto vissero quei filosofi dai Greci del loro tempo, ... sarebbe escluso, per così dire, dalla specie umana ».! Un ultimo problema, o meglio l’ultimo che possiamo permetterci di mettere almeno a fuoco ora, è quello di quanto ron c'è. Può essere che si riveli, anche in cenni succinti, utile a cogliere i limiti degli interessi e

delle conoscenze del Nostro. Delle due vie che occorrerebbe battere in un'indagine negativa, cioè che cosa non compaia in toto e che cosa sia trascurato da opere note e altrimenti utilizzate, possiamo e dobbiamo ac-

tano tutte dell’ira e sono Sozione presso lo venale (10, 28-30, cfr. 34). 56 Zib., pp. 4436-4437 [II 1246-1247] mocrito è nel libro IX del Laerzio, uno di ST Dialoghi letterari: VIII: «Titoli

Stobeo (III 550, 7-9), Seneca (ir. 2, 10, 5) e Gio-

del 12 gennaio 1829. Non si dimentichi che Dequelli che il Leopardi avrebbe trascurato. di operette morali... Ippocrate e Democrito »

(I 701 58 Classis 59

F). È, per la precisione, l’edizione giuntina di Venezia del 1588 a cura del Mercuriale, IV, pp. 59-91. Ci sono alcune allusioni molto copette, di cui la meno implicita è quella all’inizio del De victu, in cui si fa cenno anonimamente a chi ha scritto sull'argomento in precedenza: sappiamo dal catalogo di Trasillo che anche Democrito aveva scritto un de victu e solo così possiamo cogliere l’allusione di Ippocrate. © Elogio degli uccelli, pp. 961-962. 61 Detti memorabili di Filippo Ottonieri, c. 1, p. 929; ma già Zib., p. 38 [I 57-58].

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contentarci della prima, anche se meno sottile e meno profittevole, perché assai più breve. Dicevo sopra che la filosofia presocratica è ridotta presso che a frammenti sentenziosi, salvo alcuni spunti dal Laerzio; all’altro estremo, che molto ridotta è la conoscenza della filosofia ellenistica, di cui per giunta tanto è naufragato. Non parlo della filosofia romana e tralascio esplicita-

mente i neoplatonici; per cui dopo gli anni giovanili non nutrì Ritengo qui utile mettere a confronto alcune concezioni comuni siero leopardiano ed ellenistico a metterne in luce l’autonomia, non l’opposizione. Da Platone in poi l’antichità conosce il problema dei fto: vita

amore. al penquando

contemplativa o vita attiva? Il Leopardi s’interessa a come concepire la vita, perché sente il problema legato con quello della felicità, per un breve giro d’anni, tra il 1821 e il 1823, ed è decisamente per l’azione: i suoi pensieri « da per tutto preferiscono l’attivo al contemplativo in mille modi », in base alla distinzione tra esistenza e vita; ® nel 1821 dirà che « l’attività

massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile » e nel 1822, attaccando la clausura, che «la vita consiste nell’azione ».* Ma quando nel

1823 citerà dei garanti dalle sue letture, non si tratterà di Cicerone o Plutarco, né d’Aristotele, di cui leggeva allora la « Politica », ma di Federico il Grande nelle sue lettere. Un altro grosso problema, dibattuto in questo e in quel senso, tanto da mettere le scuole l’una contro l’altra, è da Aristotele in poi quello della natura noverca. Tema che parrebbe squisitamente leopardiano e che in sé lo è certo, specie negli anni del pessimismo, fino a trovare la sua formulazione perfetta nella Girestra (123-125): ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna.

Ma l’originaria concezione finalistica della natura secondo le leggi della trascendenza divina, riproporzionate, ma non del tutto cancellate, si riassumono nel Dialogo della natura e di un Islandese, dove la natura dice « ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità » (p. 83): la natura ha una funzione cosmica e quindi può essere « madre benignissima del tutto, ... ma non degli individui », laddove l’antropo-

€ Su ciò già il TIMPANARO, op. cit., p. 211 sgg. 6 Zib., p. 3938 [II 775] e p. 3927

6 Zib., p. 649 [I 474]; 3937

[II 766].

[II 774-775];

2381

[I 1435].

6 Zib., p. 1530 [I 1006]; più o meno lo stesso a p. 4485-4486 [II 1293] dell’11-4-1829.

70

centrismo delle filosofie antiche contrappone le specie animali, difese fin già dal mito del Protagora dalle risorse naturali, per cui con loro la natura è madre, all’uomo indifeso, ma cui la natura ha dato la ragione: per molti antichi, quindi, solo apparentemente

#overca. Una volta che la natura è

divenuta in Leopardi nemica di uomini e animali, potrebbe accostarsi alla visione della natura noverca che troviamo in un altro pessimista, Lucrezio. Ma che non appaia traccia di tutto ciò in nessun’opera non ci farà meraviglia: gli autori che ci rivelano questa problematica, Lucrezio, Seneca, Plinio il Vecchio, Lattanzio, non godono di larga conoscenza presso il Leopardi; gli sarebbe occorso un altro Barthélemy che, raccolti i passi, risve-

gliasse la sua attenzione. Ci sono poi anche quelle che io direi le folgorazioni dell’ingegno, che si rivelano autonomamente, senza che se ne debba cercare l’origine nel mondo antico. Posso ricordarne due, una poetica e una strettamente filosofica, entrambe nel campo delle immagini. Nella Ginestra Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato (vv. 111-114)

ricorda di colpo un altro quadro analogo, quello di Epicuro che #ortalis tollere contra / est oculos ausus, qui contro alla superstizione (Lucr. 1, 66-67):

ma non sarà che proprio solo per questo tocco si debba creare un rapporto con Lucrezio. Nell’Offonieri (c. 2, p. 934) il paragone tra la vita e chi « si corica in un letto duro e disagiato » ha gli stessi colori dell’Homzericus Achilles di Seneca nel De tranquillitate animi (2,12). Ma anche esempi

come questi servono a una nostra conclusione: per la conoscenza della filosofia greca ellenistica, quella che il Leopardi chiamava « pratica », c’è da un lato l’ostacolo di una ristretta conoscenza, dall’altro il colpo d’ala di una forte personalità speculativa; non è nemmeno detto che se il Leopardi avesse avuto più larga conoscenza del pensiero ellenistico e romano ne avrebbe tratto volontieri frutto: l’unica volta che parla dei filosofi antichi del basso impero, mantenuti « come ingrediente di corte e di famiglia illustre », non è diverso dal giudizio sfavorevole che dà del tardo neoplatonismo. Le cose non cambiano affatto se diamo, per concludere, uno sguardo al problema principe della filosofia greca, quello della felicità, ed3aruovia: esso si presenta vivace anche nel Leopardi, per cui in sostanza la felicità è rappresentata dal piacere perfetto; il che è espresso nella forma più sintetica nel Dialogo di Torquato Tasso: 71

l’obbietto e l’intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere

(p. 877).

Ma la possibilità di questa coincidenza era stata esclusa fin dal 1821 % dalla constatazione che il piacere « deriva dall’indefinito » e quindi non sarà mai « pieno, perché l’indefinito non si possiede, anzi non è »: perciò « la felicità è impossibile a chi la desidera ». Sulle prime mosse della descrizione del piacere parrebbe di sentire qualche eco del yévos &retpov cui appartiene il piacere nel Filebo platonico, ma il negare la felicità è inconcepibile per il mondo greco; e poi Platone rifiuta il piacere come bene, il Leopardi no. Ma il « piacere al quale il vivente tende come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascun istante » è irrealizzabile perché è certo per l’uomo « di non passar giorno senza patimento »; crollano così anche i pochi elementi che potevano far pensare alla povéypovoc hJovh dei Cirenaici. E se poi « finché si fa conto de’ piaceri ... non si prova mai piacere alcuno », questa filosofia che pare edonistica nella terminologia, non lo è né in senso atistippeo, né tanto meno in senso epicureo; ®*

e allo stesso tempo l’indifferenza alle cose che predica (« Bisogna disprezzare i piaceri » ecc.), che sembra accostarsi alla &vertymota stoica, dista da quella di gran misura, perché non mira come fine alla virtù. È del 1826 un tentativo di definire la felicità: Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato.%

L’uomo cerca il suo « sommo bene »: « E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i filosofi sono d’accordo, antichi e moderni ... Che cos’è per conseguenza il sommo bene dell’uomo, il fine dell’uomo? Qui non v'è setta, non v'è filosofo, né tra gli antichi né tra i moderni, che non discordi dagli altri. ... Il fine dell’uomo, il sommo suo bene,

la sua felicità, non esistono ». L’unica conclusione è che « questo fine non esiste in natura e non può esistere per natura ».® Otto mesi dopo, nel novembre 1826, aggiungerà: Molto impropriamente la questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell’uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se me6 Zib., pp. 646-648 [I 472-473]. Sl Cibo pa25522]

Ie15221

6 Zib., p. 2528 [I 1512] e Dialogo di Federico Ruisch e delle sue mummie, pp. 926-927. 9 Zib., p .4192 [II 1020] del 30-8-1826 (Bologna); cfr. la ripresa in p. 4477 [II 1284] del 30-3-1829.

70 Zib., p. 4168-4169

72

[II 997-998]

dell’11-3-1826

(Bologna).

desimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto.”

Né molto cambia quando egli intenda attaccare il cristianesimo. Nel mondo antico l’eudaimonia è contemporaneamente il sommo bene e il fine ultimo in attesa di determinazione

(piacere, atarassia, apatia) e

non è concepibile come uno stato, una passività, ma come una conquista che impegna integralmente l’uomo fino al suo raggiungimento: può essere possibile a tutti raggiungerla nella forma dell’atarassia, può essere eccezionale realizzarla nella forma dell’apatia, ma nessuna scuola antica avrebbe mai ammesso che la felicità non esisteva, nemmeno gli scettici. La via del pensiero leopardiano si è costruita sulla dolorosa esperienza della sua vita e ancor più sulla dolorosa interpretazione di essa. Su un problema come questo, che è il più alto in ogni filosofia etica, i rintocchi della disperazione che suonano con insistenza dall’intimo non possono lasciar ascolto per voci dal di fuori, anzi determinano il rischio che quelle voci vengano malamente intese. ALBERTO

GRILLI

71 Zib., p. 4228 [II 1056] del 28-11-1826.

uo

Leopardi e Luciano

« ... forse e senza forse, nessun autore di quelle stanche età, almeno a giudicare dalle testimonianze dello Zibaldone, fu al Leopardi più caro e familiare di Luciano ». Così scriveva Giovanni Setti in un libro del 1906; !

l’affermazione è ancor oggi accettabile, il progresso degli studi ha, caso mai, reso ancora più evidente la famigliarità di Leopardi con Luciano. Più problematica, invece, la valutazione dell’influsso del modello lucianesco sulle Operette morali; influsso sicuro, ma non considerato da tutti i critici allo stesso modo. Il mio discorso si articolerà, perciò, in due momenti

principali: uno prevalentemente ricognitivo, volto a documentare la conoscenza di Luciano da parte di Leopardi, ed uno più specificamente critico, volto a valutare l’influenza di Luciano su Leopardi a livello creativo (leggi Operette morali). *

*

*

Fra tutti i componimenti di diverso genere elessi che sembrommi assai acconcio ad ammollir la materia scabrosa, e render ... gli argomenti più intelligibili e chiari. fatto uso del dialogo: frà gli antichi Platone, Plutarco, Fabio Quintiliano, Luciano Samosatense, S. Giustino

il dialogo, come quello per se stessa aspra, e Gravissimi scrittori han Marco Tullio Cicerone, filosofo e martire, S.

Gregorio Magno papa, e trà i moderni Addisson, Regnault, Fontenelle, Courcillon di Dangeau, Fenelon, Pluche, Algarotti, Roberti, Muzzarelli, ed altri molti

scrisser dialoghi. Mosso dall’autorità di tutti cotesti luminari delle scienze, preferii il dialogo ad ogni componimento di diverso genere.

È il noto passo del Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato « Analisi delle idee ad uso della gioventù » in cui Leopardi motiva la 1 G. SETTI, La Grecia letteraria nei pensieri di G. Leopardi, Livorno 1906, p. 245. 2 G. LeopARDI, Tutte le opere, a cura di W. BinnI ed E. GHmertI, Firenze 1976 (ristampa della I ed., 1969), vol. I, p. 574; d’ora in avanti questa edizione sarà citata con l’abbreviazione BINNI-GHIDETTI.

Ti)

scelta della forma dialogica per confutare l’opera del recanatese Mariano Gigli; il dialogo è del 1812. Hans Ludwig Scheel ha sottolineato l’importanza che ha la predilezione di Leopardi giovanissimo per il dialogo in vista dell’applicazione che questo genere letterario avrà nelle Operette morali, anche se, dice sempre Scheel, decisivo per la forma di quello scritto sarà l’incontro con Luciano. Il dato certo è, comunque, che nel 1812 Leopardi ricorda Luciano fra i grandissimi scrittori che han fatto uso del dialogo. Del 1813 è la Storia dell'astronomia; i testi di Luciano usati per quest’opera sono indicati dall’autore stesso: Icaromenippus, sive Hypernephelus, De Astrologia, Iudicium vocalium, De Syria Dea, Historiae verae libri III (?), Macrobü ed anche Scholia in Lucianum. La citazione più estesa è questa:

Luciano Samosatense, famoso scrittore del II secolo, piacevolmente deride la sete delle stelle, dicendo che il sole, come provvido padre di famiglia, attinge quasi con una secchia pendente da gran fune l’acqua marina, la quale con saggio otdine e discreta misura dà a bere alle sue stelle.

Il passo dell’Icaromenippo (par. 7) cui fa riferimento Leopardi ritorna tradotto nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi; l’Icaromenippo è un testo importante per Leopardi: darà lo spunto al Dizlogo della terra e della luna. Gli altri riferimenti a Luciano nella Storia dell'astronomia sono di pura erudizione. Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815 indica una conoscenza più approfondita di Luciano; nel Saggio compaiono infatti passi tradotti. Nella prefazione Leopardi scrive: « Ho tradotti fedelmente i passi degli scrittori greci che ho dovuto allegare »; * nel caso di Luciano Leopardi doveva avere come unico aiuto la traduzione latina del Benedictus che accompagna l’edizione di Amsterdam del 1687; è questo il testo che Leopardi citerà sempre nello Zibaldone; gli altri due testi lucianeschi posseduti dalla biblioteca di casa Leopardi non potevano servirgli granché; i Selecti dialogi, pubblicati a Roma nel 1591, sono una « nuda raccoltina », come scriveva il Setti e i Dialoghi de’ morti, tradotti da M. Pastoni (Milano 1813) sono la traduzione, non completa, di un’opera sola sull’ottantina del corpus lucianeum (XX dialoghi su XXII e censurati).

D'altra parte una traduzione italiana completa di Luciano non esisteva ancora: quella del Manzi uscirà nel 1819, incomplete sono le due prece3 H.L. ScHEEL, Leopardi und die Antike, Miinchen

4 BinNnI-GHIDETTI, I, p. 735. 5 BINNI-GHIDETTI,

I, p. 770.

6 SETTI, op. cit., p. 248, nota 2.

76

1959, p. 32.

denti, quella di Nicold da Lonigo, pubblicata nel 1525, e quella settecentesca di Spiridion Lusi, non presenti, comunque, nella biblioteca Leopardi. I passi citati nel Saggio sono quindi traduzioni originali di Leopardi; vale la pena di esaminarne qualcuno. Luciano nel suo Giove tragico introduce Momo a burlarsi dell’ambiguità degli Oracoli, e a rimproverare ad Apolline la oscurità delle sue risposte, « sì oblique ed intralciate, e d’ordinario avvedutamente composte in maniera sì equivoca, che gli uditori han bisogno per intenderle di un’altra Pizia ».

Qui sembra che Leopardi abbia seguito l’interpretazione latina del Benedictus che dice: « quanquam id non admodum in oraculis tuis observare soles, quae tu obliqua et intricata reddis, et in mediam intercapedinem tuto projicis plerumque, ut ad eorum expositionem auditores alio egeant Pythio ».f La spia dell’attenzione prestata al testo latino è in « obliqua et intricata »; infatti il testo greco (par. 28) dice Xotdg div xal ypip@Ône riferito ad Apollo, la versione latina dell’edizione di Amsterdam del 1743 rende, più fedelmente al greco, « obliquus et perplexus »; c’è poi un errore nella traduzione, Pizia non corrisponde al greco &XX0v ... Ilu®tov cioè un altro Apollo (Benedictus giustamente « alio ... Pythio »). Che sarebbe, dice Luciano, se rammentassi « il sonno che verso tutti drizza il volo, o il sogno che pernotta col sonno, e a lui serve d’interprete? Tutto ciò operano gli Dei per l’amore che portano all’uomo, tutto ciò donano essi a ciascuno onde possa come conviene menar la vita su questa terra ».

Anche in questo passo del Bis Accusatus (par. 1) sembra che Leopardi abbia tenuto presente la traduzione latina; la frase « insomnium quod cum somno pernoctat » è indicativa; ! c’è inoltre da notare che il testo da cui traduceva Leopardi è in questo punto diverso da quello delle edizioni attuali: c'è un éxéorow dativo, mentre oggi è preferito un nominativo (singolare o plurale), riferito quindi agli dei. Quando mai, o vecchi, finirete, diceva Luciano in uno dei suoi Dialoghi, di parlar di queste fole? Riserbatevi almeno a contarci in altro tempo queste mirabili e tremende avventure, in grazia di cotesti giovani, perché, senza che ce ne avvediamo, non abbiano a empirsi il capo di terrori e di portenti favolosi. Certo dobbiamo aver loro riguardo, né abbiamo a permettere che si avvezzino a udir questi prodigi, i quali li accompagnerebbono per tutta la loro vita, li tur7 BINNI-GHIDETTI,

I, p. 777. 8 LuciaNus, Opera ex versione Ioannis Benedicti, Amsterdam 9 Binni-GHIDETTI, I, p. 786. 10 LUCIANUS, ed. cit., II, p. 212.

1687, II, p. 143.

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berebbono, li renderebbono soggetti a temere d’ogni strepito, li caricherebbono di superstizioni di ogni sorta.!

Il passo del Philopseudes (par. 37) è tradotto con un certo impegno stilistico; i quattro condizionali che si trovano nella chiusa del periodo corrispondono a due futuri e a due participi del testo greco: l’effetto è quello di rendere più marcata l’intonazione e più coerente quindi al tono aggressivo di tutto il passo di Leopardi. Nel Saggio sono ricordate le seguenti opere di Luciano: Alexander, Bis Accusatus, Demonax, Dialogi Meretricii, Hermotimus, Icaromenippus, Pro Imaginibus, Mortuorum Dialogi, De morte Peregrini, (Philopatris), Philopseudes, Timon, Vera Historia, Zeus tragoedus. È una utilizzazione

davvero ampia della quale Leopardi dà una giustificazione all’inizio dell’opera: Luciano, che non fu un ateo, come molti credono, ma un filosofo capace di disprezzare i pregiudizi e un bello spirito voglioso di ridere a spese dei creduli suoi contemporanei, si fa beffe assai spesso delle superstiziose follie del paganesimo, e nei suoi Dialoghi introduce il sommo Giove a far la parte di un buffone, trattando gli altri dei collo stesso rispetto."

La giustificazione era necessaria:

Luciano era un autore sospetto, un

autore condannato all’indice. Sulla base di questo passo Vincenzo Di Benedetto ha creduto di poter identificare il « vero saggio » che « si rideva di tutti », di cui parla Leopardi sempre in questo testo, in Luciano.” La filosofia degli antichi era la scienza delle contese; le scuole pubbliche che essi aveano, erano le dannava ciò che Platone Zenone si scandolezzava Cinici, Epicurei, Scettici,

sedi della confusione e del disordine. Aristotele congli aveva insegnato. Socrate si ridea di Antistene, e di Epicuro. Pitagorici, Platonici, Peripatetici, Stoici, Cirenaici, Megarici, Eclettici, si accapigliavano, si faceano beffe gli uni degli altri, mentre qualche vero saggio si rideva di tutti.

L’identificazione è convincente, comunque Luciano nel Saggio non è soltanto un autore utilizzato per criticare gli errori degli antichi, secondo il programma di « opporre gli antichi agli antichi », ma è uno scrittore di cui Leopardi comincia a cogliere gli umori e a farli circolare dentro di sé,

11 BINNI-GHIDETTI, I, p. 799. 12 BINNI-GHIDETTI, I, pp. 775-776. 13 V. Dr BENEDETTO, Giacomo Leopardi e i filosofi antichi, « Critica storica », VI, 1967, pp. 289-320; per la nostra questione pp. 289-290. 14 BINNI-GHIDETTI, I, p. 807.

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certe trovate lucianesche piacciono davvero al recanatese; lo si nota in brani come questi: Più avveduto di Plinio sembra essere stato Luciano, il quale dice scherzando, avervi avuto al suo tempo chi credeva « che gli astri bevessero acqua, e che il sole mandando giù nel mare una secchia come per una fune attingesse vapori,

e questi distribuiti con saggio ordine dasse a bere alle sue stelle ».!5

o come quest’altro: ... Menippo sentì chiamarsi con voce donnesca dalla luna e ne udì varie lagnanze intorno alla soverchia curiosità dei filosofi che non le lasciavano un’ora di libertà e indagavano insolentemente tutti i fatti suoi. Converrebbe esser bene indiscreto per negar fede a un uomo d’onore come Menippo che ci racconta questa sua avventura.

L’episodio, come indica lo stesso Leopardi in una nota, è attinto dall’Icaromenippo; va sottolineato il commento di Leopardi: « converrebbe » ecc. che mostra appunto come lo scrittore sia entrato in sintonia con l’autore antico. Di Benedetto ha giustamente rilevato che già dal Saggio e proprio attraverso Luciano Leopardi incomincia a sviluppare la componente scettica del suo pensiero. È forse opportuno a questo punto prendere in esame il complesso dei giudizi che Leopardi dà di Luciano. Alcune importanti indicazioni si ricavano dagli appunti frontoniani, cioè dagli appunti preparatori della lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai che Pacella-Timpanaro hanno stabilito essere anteriori al 20 marzo 1818.” Eccone uno stralcio: Non si trova di gran lunga in Frontone quel pungente, quell’acutezza, quel sale e insomma quella forza dello spirito di Luciano ... Nondimeno Frontone ha certo che fare con Luciano non solo pel tempo ma per lo studio e amore degli antichi e della lingua e la continua energia e proprietà dell’espressione ...!* Secondo me non è dubbio che i greci avranno trovato differente il sapor dello stile degli Attici nati, e di quelli che aveano studiato quello stile: e a me stesso paragonando il purissimo e atticissimo Luciano Samosat. con Isocrate tanto studiato, parea di trovar molto più studio e ricercatezza di eleganza in quello, e non dubitava che ai greci quella sua eleganza e Atticismo (benché bello) non dovesse parere studiato e non punto spontaneo." ... Mi par che Longino e Lu15 BINNI-GHIDETTI,

16 17 Firenze LEO 19

I, p. 811. BINNI-GHIDETTI, I, p. 812. G. Lroparpi, Scritti filologici (1817-1832), 1969, p. 47. TMC ID 77 Op. cit., p. 80.

a cura

di G. PACELLA

e S. TIMPANARO,

79

ciano ec. stiano agli antichi greci come Senofonte Tucidide Erodoto Platone ec. come i cinquecentisti ai trecentisti ..° Luciano partecipa ancora ma solamente

tanto quanto basta per somigliare anche in questo a Frontone, di quel sofistico della sua età che appartiene all’imitazione ec. dei Classici e allo studio classico e in particolare degli artifizi rettorici e di quei luoghi comuni 4b exemplo a pari a simili e che so io che si vedono molto spesso usati p.e. in molte parlate ch'egli o mette in bocca ad altri o dice da sé: non parlo delle buffonesche nelle quali questi artifizi saranno usati per metterli in ridicolo. Altra somiglianza è quel frequente uso di similitudini o meglio del parlar figurato e metaforico che ad ambedue dà occasione di sfoggiar la loro ricchezza di lingua e la proprietà ed efficacia dei vocaboli ...! Maggiore ricchezza di lingua in chi l’ha studiata che in chi l’ha naturale. Luciano Isocrate.”

Questi giudizi trovano riscontri puntuali nello Zibaldone; in Zibaldone 1024 (9 maggio 1821) Leopardi sostiene che da Demostene in poi in Grecia non vi fu nessuno che in ordine alla lingua e allo stile uguagliasse gli ottimi antichi se non Arriano e che ad Arriano non può essere paragonato per questo nemmeno

« lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di

eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) »; è questo un pensiero ritornante: Luciano scrittore elegantissimo, ma di una eleganza che è frutto d’imitazione. Uno sviluppo particolare ha il giudizio su Luciano nel discorso comparativo fra latino e greco di Zibaldone 1495-1496 (13-14 agosto 1821): « ... la lingua di ciascun latino era più ricca che di ciascun scrittore greco. Eccetto gli scrittori greci più bassi, come Luciano, Longino ec. i quali sono ricchissimi, e tanto più quanto il loro stile è meno antico, perché i contemporanei, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo, sono più antichi di stile e meno ricchi di lingua », e nell’ambito dello stesso passo: « Luciano è assai più proprio d’Isocrate, tanto studioso della sua lingua ». Se ho capito bene Leopardi accosta i greci dell’epoca postclassica ai latini, per questa ragione fondamentalmente che «i latini venuti a tempi signoreggiati dall’arte, possedevano sempre pienamente e interamente la loro lingua », come scrive nello stesso passo dello Zibaldone. Anche nella comparazione fra letteratura latina e greca, sviluppata in Zibaldone 25902591

(30 luglio 1822), entra in gioco Luciano:

Corrotta già la letteratura latina, e sfruttata e indebolita, la greca sopravvive alla sua figlia ed alunna, e s’ella produce degli Aristidi, degli Erodi attici, ed altri tali retori di niun conto nello stile (non barbari però, e nella lingua puris-

2 Op. cit., p. 81. 21 Op. cit., p. 86. 2 Op. cit., pp. 88-89.

80

simi), ella pur s’arricchisce di un Arriano, d’un Plutarco, d’un Luciano, ec. che quantunque imitatori, pur sanno così bene scrivere e maneggiare lo stile e la lingua antica o moderna, che quasi in parte le rendono la facoltà creatrice.

Un ultimo breve passo (Zibaldone 2623, 9 settembre 1822): Di questi $tyAwrtor che scrivevano in lingua non loro, e pure scrivevano egre-

giamente, fu Luciano di Samosata (vedi le sue opere, dove fa cenno della sua lingua patria) e tali altri di que’ tempi...

Dirò subito che a acutezza straordinaria tante sul samosatense 1958) del Bompaire

me il giudizio di Leopardi su Luciano sembra di una e singolarmente attuale; la monografia più imporche è Lucien écrivain Imitation et création (Parigi arriva, sulla base di una dottrina straordinaria, a ri-

sultati singolarmente simili; il libro del Bompaire, come è noto, parte dal

presupposto che il problema della creazione, presa nel senso di « originalità », sia fuori posto se riferito agli antichi e studia, quindi, Luciano sulla

base di una ricostruzione della dottrina della mimesis, per arrivare a concludere; si conservant le concept contestable d’originalité, nous voulions définir celle de Lucien, nous dirions que son originalité consiste à imiter; en restant toujours

plus fidèle au modèle et en plus profonde sympathie avec lui, à la limite en retrouvant

son

esprit. La Mimésis,

loin d’étre une

charge, est la condition

méme de cette originalité. Disons encore que l’originalité relative de l’auteur est une forme supérieure de l’imitation.*

La consonanza con Zibaldone 2591, già citato, è davvero impressionante. Per quel che riguarda i contributi filologici su Luciano non occorre, ovviamente, far altro che richiamare quel che ha accertato Timpanaro di cui sono da vedere: La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955, p. 160 e nota (II ed. Bari 1977) e la già citata edizione degli Scritti filologici, curata insieme a Pacella, p. 563, aggiungendo qualche osservazione. Nel Bis Accusatus letto nell'agosto del 1824, Leopardi riconobbe un passo di Ippocrate, De Flat. I, opera letta nel dicembre del 1823; le edizioni odierne mettono il passo fra virgolette; per esempio quella del

Macleod, Oxford 1974, vol. II, p. 87. La correzione di punteggiatura di Navigium 1 che Leopardi faceva sull’edizione del Benedictus, c’era già nell'edizione di Amsterdam del 1743 (traduzione latina di Tiberius Hem-

sterhusius e Joannes Matthias Gesnerus, annotazioni dello stesso Hemsterhusius e di Ioannes

23 J. BompaIrE,

Fredericus

Lucien écrivain.

Reitzius);

la lettura in De domo

4

Imitation et création, Paris 1958, p. 742.

81

suo. yoùv è quella accettata adesso da Macleod ed. cit., tom. I, 1972, p. 29. Sulla interpretazione ué&rnv = gratis in Dialog. Char. e Menipp., dovremo tornare parlando della traduzione. La correzione in Atévuooc 6 ha osservato il Timpanaro che era già stata fatta; anche la correzione di punteggiatura in Pseudologista 13 era già stata proposta da Franciscus Gujetus. « Il Leopardi si servì di edizioni vecchie, scorrette, con note critiche insufficienti, e ... quindi più volte arrivò per conto suo in ritardo a congetture già fatte da altri, o a restituzioni di ciò che in realtà si leggeva nei codici ». Così il Timpanaro.* Nel caso di Luciano si serviva della edizione del Benedictus (Amsterdam 1687), mentre esisteva già quella molto più corretta di Hemsterhuys e Reitz (Amsterdam 1743) che abbiamo già ricordato; naturalmente questo non infirma la lucidità della lettura leopardiana che risulta anche nel caso di Luciano filologicamente attentissima. Restano da considerare le traduzioni; oltre ai passi tradotti nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, abbiamo due frammenti: dal Quomodo bistoria sit conscribenda e del 22° dialogo dei morti. Andrà anche ricordato che proprio esemplificando con Luciano, Leopardi svolge un’acutissima riflessione sul problema del tradurre; mi riferisco a Zibaldone 12 dove Leopardi si pone il problema della traduzione dei neologismi ed osserva che bisogna conservare l’effetto particolare suscitato dalla parola formata « a bella posta »; una traduzione esatta dal punto di vista semantico, può non esserlo a livello stilistico e ricettivo. L’esempio è tratto dal 16° dialogo dei morti che si svolge fra Ercole e Diogene; Leopardi sostiene che la parola &vtavdpov tradotta sostituto, come potrebbe suggerire la spiegazione succedaneus che si trova nei lessici, non arriva « per niente all’efficacia burlesca e satirica di quella nuova parola di Luciano che vuol dire: contrappersona, e colla sua novità ha una vaghezza e una forza particolare ... di deridere » e con grande correttezza sottolinea che gli occorrerebbe disporre di altri strumenti per avere la certezza che la voce sia solo di Luciano. La traduzione dell’inizio del trattatello sul modo di scrivere la storia « risale, secondo un’ipotesi dello Scarpa, al luglio 1818 o ai mesi immediatamente precedenti »; © in una lettera da Recanati del 27 luglio 1818 Leopardi, in risposta all’invito a collaborare alla Collana degli antichi storici greci volgarizzati il cui primo volume uscì nel 1819, prospettava all’editore Giambattista Sonzogno l’idea di tradurre in volgare il trattatello: le dirò che ho qualche intenzione di tradurre in volgare il trattatello di Luciano del Come vada scritta la storia, il quale dall’un canto mi pare che converrebbe

2 S. Timpanaro, La filologia di Giacomo 25 BINNI-GHIDETTI, I, p. 1448.

82

Leopardi, Firenze 1955, p. 160.

alla sua Collezione giovando a mettere in chiaro le opinioni dei greci intorno alla maniera di scrivere l’istoria, ma d’altro canto non vedo che si possa collocare fuorché avanti a tutto il resto nel primo tomo, ch’Ella forse avrà già pubblicato o starà per pubblicare; né io potrei mettere mano a questa traduzione prima dell’anno venturo.

Del trattatello Leopardi tradusse i primi due paragrafi e parte del terzo; il volgarizzamento è accompagnato da note; la prima dice: povwdetv qui non vuol dire come l’interprete, flebiliter canebant, ma ha il suo primo significato che io ho espresso nella versione italiana (si cantavano ciascheduno da se). Anche lo Scoliaste p. 45, lin. ult. malamente rende Spnvetv

L’interpretazione di Leopardi è giusta; già la traduzione, però, che accompagna l’edizione di Amsterdam del 1743 correggeva l’errore: « solitario cantu pronuntiabant » (vol. II, p. 2) è preciso. Anche la seconda nota fa un rilievo giusto: Quel morde xat oùtoc molto anche questo risponde a quell’altro toXò molto che sta sopra, come vede ogni cristiano, ma non il Grevio che leggendo oùtwg concia il periodo in maniera che non si capisce come possa camminare.®

L’argomentazione è analoga a quella svolta dal Reïtz” La terza nota pone un problema di traduzione: Qui Luciano ha un proverbio al quale non corrisponde nessuno de’ nostri ch'io sappia; e il proverbio è di quelli che renduti secondo che suonano, o restano insulsissimi o anche senza senso: ora parafrasato e dichiarato nessun proverbio è più proverbio, e per l’ordinario diventa una freddura. Sicch’io l’ho saltato di netto: e pure in questa traduzione ho proposto d’esser fedelissimo.

Per tanto mi riprenda chi crede.”

La radicale decisione di non tradurre mette in rilievo un tipo di difficoltà su cui la linguistica contemporanea ha insistito più volte; basti l’ovvio rimando a Jakobson di Aspetti linguistici della traduzione che sostiene l'impossibilità di tradurre la poesia, perché in essa regna il gioco di parole o paronomasia che dir si voglia. La frase non tradotta è appunto un proverbio fortemente marcato da un gioco di parole: ‘Qs obv &, 26 21 28 2 30

BINNI-GHIDETTI, I, pp. 1054-1055. BINNI-GHIDETTI, I, p. 455. Ibid. Lucranus, Opera, Amsterdam 1743, vol. II, nota pp. 1-2. BINNI-GHIDETTI, I, p. 455.

83

paoiv, vi rapaBareiv. La quarta nota è ancora una correzione dell’interpretazione latina del Benedictus: « &vaotàvtac Botepov vuol dir quello che io ho espresso nella versione italiana e non quello che va impicciando l’interprete latino ».! L'interprete latino aveva tradotto: « sequenti die mentibus eversi », Leopardi giustamente: « appresso levatasi (la gente) »; la traduzione giusta c’era già nell’edizione di Amsterdam del 1743: « et surgentes deinde ». L’ultima nota presuppone un testo che oggi non si accoglie più; la lezione che si accoglie sulla base dei codici è 6puÿ non rAnyi. Sulla base del testo che aveva davanti Leopardi pensava che con rAmYî Luciano alludesse « alla favola di Pallade che percossa la terra coll’asta, ne fece uscire un olivo ». Particolarmente importante la traduzione della parte iniziale del 22° dialogo dei morti che si svolge fra Caronte e Menippo; Ottavio Besomi ritiene che il testo sia da portare al 1819 « per la coincidenza con letture di Luciano fatte in questo periodo »,° ma l'argomento non è risolutivo; già il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi presuppone, come abx

biamo visto, letture di Luciano; l’elenco di letture cui fa riferimento Be-

somi non comprende i Dialoghi dei morti che sono invece indicati fra le letture del marzo 1824; anno cui appartiene anche la scheda di note a Luciano pubblicata per la prima volta da Pacella-Timpanaro in Scritti filologici (1969) in cui compare discusso proprio un passo del nostro dialogo. Flora e Binni-Ghidetti datano invece il testo tra primavera ed estate del 1818. La frase controversa è Many oùv Éon menheuxdc Tocodrov TAOÙY che Leopardi leggeva accompagnata dal punto interrogativo e tradotta dal Benedictus: « Num ergo te tam longo traiectu gratis transvexero? ». Leopardi traduce: « Dunque un tragitto di questa sorta l’avrai fatto a scrocco? » e difende l’interpretazione così in una nota: Il Grevio toglie l’interrogativo e spiega scioccamente, quasi che non valesse a Menippo quel viaggio perché non pagava: e intanto un momento dopo Caronte si burla di lui che gli propone di riportarlo indietro. Come dunque non avea da valere? rérnv qui vuol dire gratis, o vero indarno per Caronte non per Menippo, cioè gratis.

La stessa interpretazione si trova nella già citata scheda degli Scritti flologici. A me sembra che avesse ragione Tiberius Hemsterhusius, osser-

SAI bid. ® G. LeoPARDI, Operette morali, ed. critica a cura di O. BesomI, Milano 1979, p. XVIII; d’ora in poi l’edizione verrà citata con l’abbreviazione BESOMI. 33 BINNI-GHIDETTI, I, p. 1448.

84

vando ‘a difesa del Graevius: « renititur usus vocabuli certissimus ».# Si diceva dell’impottanza di questa traduzione; scrive il Besomi: L'esperimento di traduzione di uno dei Dialoghi dei morti di Luciano ... è da vedere proprio come esercizio di appropriazione di una tecnica del dialogo e della componente espressiva, in funzione comica, della lingua italiana.” ,

.

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.

DI

La Ricci-Battaglia nell’articolo Su! lessico delle « Operette morali », ha mostrato come il Dialogo di Ercole e Atlante sia stilisticamente vicino a questo volgarizzamento di Luciano.* Siamo arrivati al punto più delicato della nostra ricerca: la valutazione dell’influenza di Luciano nella elaborazione delle Operette morali.

II

Il testo fondamentale per conoscere la genesi delle Operette morali è un Disegno letterario sul quale ormai più volte è stata richiamata l’attenzione; recentissimamente da Ottavio Besomi nella introduzione alla già citata edizione critica delle Operette morali (Milano 1979). Il passo

va comunque riletto: Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni, e non tanto tra morti, giacché di Dialoghi de’ morti c'è molta abbondanza, quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali (come sento che n’abbia fatto il Monti imitatore di Luciano anche nel Dialogo della Bibl. Italiana, e in quelli, che inserisce nella sua opera della lingua); insomma piccole commedie, o Scene di Commedie (conforme diceva Luciano che i suoi erano un composto da lui per primo inventato,

della natura del Dialogo e della Commedia, e ciò nel trattatello pds rèveixévræ, Ilpoundedg et èv A6youc) le quali potrebbero servirmi per provar di dare all’Italia un saggio del suo vero linguaggio comico che tuttavia bisogna assolutamente creare, e in qualche modo anche della Satira ch'è, secondoch’io sento dire, nello stesso caso. Potrebbero anche adoperarsi delle invenzioni ridicole simili a quelle che adopera Luciano ne’ suoi opuscoli per deridere questo o quello, come nella Biwy rpào ec. E questi Dialoghi supplirebbero in certo modo a tutto ciò che manca nella Comica Italiana giacché ella non è povera d’intreccio d’invenzione di condotta ec., e in tutte queste parti ella sta bene; ma le manca affatto il particolare cioè lo stile e le bellezze parziali della satira fina e del sale

3 Lucianus,

Opera, I, Amsterdam

35 BESOMI, p. XVIII. 36 L'articolo è pubblicato è trattata a p. 289.

1743, p. 424, nota 48.

in « GSLI », 149, 1972, pp. 269-323,

la questione

specifica

85

e del ridicolo attico veramente e plautino e lucianesco, e la lingua al tempo stesso popolare e pura e conveniente ec. e tutto questo sarebbe supplito dai sopraddetti Dialoghi. Argomento di alcuni Dialoghi potrebbero essere alcuni fatti che si fingessero accaduti in mare sott’acqua, ponendo per interlocutori i pesci, e fingendo che abbiano in mare i loro regni e governi, e possessioni d’acqua ec., e facendo uso de’ naufragi, e delle tante cose che sono nel fondo del mare, o ci nascono, come il corallo ec., e immaginando prede di pesci, portate ai loro tribunali, siano prede di cose naufragate, come fatte da corsari, siano di altri pesci ec. ec., trovando in ciò materia da satireggiare.”

Per i Disegni letterari è stata generalmente accettata la datazione al 1819 proposta dal Leopardi.* Besomi ritiene che le argomentazioni proposte dal Levi lascino incerta la datazione fra il ’19 e il ’20. Comunque è questo il punto di partenza del processo che porterà alla nascita delle OpeLI

rette morali; questo processo è stato ricostruito dal Besomi con straordi-

naria acribia filologica e intelligenza critica fino al punto di chiarire anche le intenzioni non realizzate; fra queste intenzioni non realizzate ha un interesse particolare per il nostro argomento un « Tiresia »; Besomi fra i contenuti possibili dell’operetta non scritta ipotizza la Condizione di Tiresia cieco su cui si sviluppa un dialogo di Luciano, quello fra Menippo e Tiresia, che è preceduto nelle edizioni tradizionali di Luciano dal dialogo fra Diogene, Crate, Antistene, Un povero, dialogo, quest’ultimo,

a

cui fa allusione Leopardi nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza nel passo in cui parla del suicidio come conseguenza della cecità. Alla ricostruzione del Besomi si rinvia per non ripetere il già fatto, ma occorrono almeno ancora due citazioni per cogliere le intenzioni da cui nacquero le Operette. La prima è un passo di una lettera al Giordani del 6 agosto 1821: Quasi innumerabili generi di scrittura mancano o del tutto o quasi del tutto agl’Italiani, ma i principali, e più fruttuosi, anzi necessari, sono, secondo me, il filosofico, il drammatico, e il satirico. Molte e forse troppe cose ho disegnate nel primo e nell’ultimo: e di questo (trattato in prosa alla maniera di Luciano, e rivolto a soggetti molto più gravi che non sono le bazzecole grammaticali a cui lo adatta il Monti) disponeva di colorirne qualche saggio ben presto. Ma consi-

derando meglio le cose m’è paruto di aspettare. In ogni modo proveremo di combattere la negligenza degl’Italiani con armi di tre maniere, che sono le più gagliarde; ragione, affetti e riso.!

37 8 341 e, 39 4

86

BINNI-GHIDETTI, I, p. 368. G.A. Levi, Inizî romantici e inizî satirici del Leopardi, « GSLI », 98, 1929, pp. 321specificamente, pp. 321-324. BESOMI, p. XXXVIII e nota 2. BINNI-GHIDETTI, I, p. 1123.

La seconda citazione d’obbligo è un passo dello Zibaldone del 27 luglio 1821

(1393-1394):

A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagatelle, e sopra,

dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne’ miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi

della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società,

della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, potranno giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione, dell’eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento, benché oggi assai forti. Così a scuotere la mia povera patria e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia ne’ Trattati filosofici ch'io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando.

Il problema da affrontare è quanto di questo programma lucianeggiante sia stato realizzato nelle Operette. Dopo gli studi dell’epoca positivista che avevano indicato con precisione le fonti lucianee di alcune Operette, il problema era stato in qualche modo accantonato; basti citare quel che scriveva Fubini a proposito del primo dei testi da noi riportati: ma quel proposito (di scrivere dialoghi satirici alla maniera di Luciano) era rimasto poco più che una velleità letteraria, a cui appena dava una parvenza di contenuto il nome di Luciano, maestro riconosciuto in tal genere di scritture, che

il Leopardi, vicino per tanti rispetti ai romantici, ma imbevuto di precetti classicistici, giudicava mancasse, come tanti altri, all’Italia. Oltre all’ambizione puramente letteraria di essere il Luciano italiano, vi era allora nella sua mente forse soltanto l’intuizione vaga della possibilità di una considerazione comico-satirica di quei contrasti per i quali soffriva ...!

Ma un giudizio riduttivo è presente anche in uno studioso come Sebastiano Timpanaro che ha scritto: « Luciano — ispiratore, com’è noto,

4 G. LeopARpI,

Opere, a cura di M. FuBINI, Torino

1977, pp. 525-526.

87

delle meno felici tra le Operette morali ».‘ Adesso credo siano maturate le condizioni per un giudizio diverso. A livello di metodo si è affermato un diverso atteggiamento nei confronti di problemi come quelli delle fonti e dei generi letterari, ricuperati dopo la lunga stagione della condanna idealistica, anche se, ovviamente, non più affrontabili secondo il metodo

del vecchio positivismo. D’altra parte gli ultimi editori delle Operette morali danno indicazioni molto fertili per affrontare la questione in modo nuovo. Cesare Galimberti nel suo recente commento

alle Operette (1978)

ha richiamato a proposito del Dialogo di Ercole e Atlante quel che Bachtin ha scritto nel suo saggio su Dostoevskij sulla letteratura carnevalizzata e la menippea, offrendo così una nuova chiave di lettura.* Notiamo, per adesso, che mentre Bachtin proponendo la definizione di menippea per il romanzo di Dostoevskij, non si fonda su un collegamento immediato, nel caso delle Operette morali, ispirate a Luciano, il collegamento diventa addirittura ovvio. La ancor più recente introduzione di Ottavio Besomi alle Operette è una dimostrazione filologica, non un’ipotesi, dell’importanza di Luciano per la genesi di quelle prose. Il discorso procederà adesso con questa articolazione: 4) ricognizione analitica degli spunti lucianei nelle Operette; b) valutazione d’insieme del problema a livello di genere.

a) Dialogo d’Ercole e Atlante: la situazione lucianea è riconosciuta da tutti i commentatori, ovviamente; lo Zumbini * suggerisce due riscontri specifici col Caronte: lo spunto stesso del dialogo, cioè Ercole mandato da Giove a far riposare Atlante, prendendosi sulle spalle il mondo, la stessa vicenda è raccontata da Mercurio nel par. 4 del Caronte appunto; l’altro è il passo in cui Atlante esprime ad Ercole il timore che Giove li precipiti nel Po analogo a quello del Caronte « dove Mercurio teme non Giove gli faccia il giuoco che fece a Vulcano ». Nelle note al dialogo Luciano è ricordato due volte da Leopardi; a proposito di Epimenide il Timone, a proposito di Ermotimo l’elogio della mosca. Luciano compare poi anche nelle varianti alternative.“ Si è già ricordato che la Ricci-Battaglia ha dimostrato come questo dialogo traduca in atto anche a livello lessicale « l'emulazione di Luciano ». x

4 S. Trmpanaro, La fil. etc. cit., p. 158 della I ed.; il giudizio è mantenuto anche nella II ed. del 1977. 4 G. LEoPARDI, Operette morali, a cura di C. GALIMBERTI, d’ora in avanti l’ed. verrà citata con l’abbreviazione GALIMBERTI.

Napoli

1978, pp. 41-42;

4 B. ZumBinI, Studi sul Leopardi, vol. II, Firenze 1904, pp. 79-80; d’ora in avanti semplicemente ZUMBINI. 45 ZUMBINI, p. 79. 4 BesoMI, p. 48: Av. 96 e l’isola di Delo dalla Sicilia. Luciano Dial. d’Iride e Nettuno, principio.

88

Proposta di premi fatta dall Accademia dei Sillografi Un motivo specificamente lucianeo mi sembra il decreto dell’Accademia

di supplire ai premi «con quanto fu ritrovato nella sacchetta di Dio-

gene »; * Luciano

informa

sul contenuto

dialogo dei morti: due misure di lupini.

della sacchetta nell’undicesimo

Dialogo di un folletto e di uno gnomo

« L’Agnoli, scrive il Fubini,* ritiene che il Leopardi si sia ispirato per questo dialogo al Caronte di Luciano: quell’opera lucianesca non gli ha offerto però più che lo spunto iniziale ». (L’Agnoli è autore di un commento alle Operette morali pubblicato a Milano nel 1923). Sullo spunto direi che non ci sono dubbi; nel Caronte Mercurio chiede al nocchiero perché sia salito in terra e Caronte risponde che è stato mosso dalla curiosità di sapere quel che fanno gli uomini; nel dialogo di un folletto e di uno gnomo il folletto rivolge allo gnomo una domanda analoga, lo gnomo risponde d’esser stato spedito dal padre « a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini »; * lo Zumbini aveva parlato di « maniera lucianesca » a proposito delle « cagioni onde gli uomini erano venuti mancando »,° facendo particolarmente riferimento a quel passo del IV dialogo dei morti fra Mercurio e Caronte in cui Caronte spiega a Mercurio come muoiano gli uomini. In realtà tutta la situazione del dialogo è una situazione tipica della menippea con la supposizione dell’estinzione dell’umanità; è una situazione limite esemplare. Ma di questo oltre. Dialogo della terra e della luna Scrive il Fubini: Il dialogo della terra e della luna ci riporta al primitivo disegno leopardiano di scritti alla maniera di Luciano ed ha infatti il suo primo assunto, come avvertono i commentatori, nell’Icaromenippo di Luciano, citato nella giovanile Storia dell'astronomia e ricordato anche nel posteriore Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. « To sono stucca, o Menippo, dice in quello scritto lucianesco la Luna, di udire i filosofi che ne dicon tante e poi tante e non hanno altro pensiero che di impicciarsi dei fatti miei; chi sono io e quanto sia grande, e perché ora sono scema ed ora sono piena; chi dice che io sono abitata e chi

47 BesoMI, pp. 66-70. 4 G, LeoparpI, Opere, a cura di M. FUBINI cit., p. 626. 4 BESOMI, p. 74.

50 ZUMBINI,

p. 97.

89

che sono come uno specchio pendente sul mare, ed ogni sciocchezza che pensano l’appiccano a me ... » (trad. Settembrini). Ma più che in Luciano i precedenti di quest'opera sono da cercare nei due lavori giovanili, che tante notizie raccolgono intorno agli errori, alle credenze fallaci, alle fantasie degli uomini!

Il ragionamento sembra un poco contraddittorio, dato che, appunto nelle due opere giovanili, Luciano è così largamente presente. Molto diverso il giudizio del Galimberti che afferma: Lo spunto più profondo può essere venuto proprio dalle ultime parole citate dal testo di Luciano (si tratta ovviamente sempre dell’Icaromenippo), dove sembra di presentire le ironiche ipotesi formulate nel Canto notturno (vv. 61-78)

dal pastore Leopardi, tanto simile al Menippo del dialogo lucianeo per la sua disposizione sia litica sia satirica verso il mondo e gli uomini La scommessa

di Prometeo

La scommessa di Prometeo è una delle operette più ricche di spunti lucianeschi. DI

In questa prosa, mista di narrazione e di dialogo, scriveva il Della Giovanna,5 l’autore ha svolto a modo suo e adattato a’ suoi fini particolari alcuni

elementi che si riscontrano nei dialoghi di Luciano, il quale nell’Erzzotizzo dice che essendo sorta contesa tra Minerva, Nettuno e Vulcano, chi fosse più valente

nell’arte propria, Minerva disegnò una casa, Nettuno formò un cavallo e Vulcano fece l’uomo, e che Momo, scelto come arbitro, trovò imperfetta l’opera di Vulcano. Luciano inoltre nel Prometeo fa che il titano si difenda dalle accuse di Mercurio, che gli rimprovera d’aver formato gli uomini, quando non ce n’era necessità.

Il Galimberti ha così puntualizzato le indicazioni del Della Giovanna: Da rilevare, però, che in questo dialogo lucianeo (il Prometeo) Mercurio si dà infine per vinto e Prometeo esce dalla disputa implicitamente glorificato per l'eccellenza della sua opera; il significato del Prometeo si rivela perciò opposto a quello della Scommessa leopardiana. Quanto alla trovata del volo attraverso la Terra, vi si può riconoscere, piuttosto, lo sviluppo ulteriore di un motivo dell’Icaromenippo di Luciano stesso, non sfruttato nel precedente Dial. della Terra e della Luna.“

51 FUBINI, p. 648. 52 GALIMBERTI, p. 93. 9 G. LeoPARDI, Le prose morali, a cuta di I. DELLA GIOVANNA, Firenze 1895, ristampa 1957, con introd. di G. DE RoBERTIS, pp. 63-64; d’ora in avanti DELLA GIOVANNA. % GALIMBERTI, p. 109.

90

Io aggiungerei che la stessa mescolanza di narrazione e di dialogo da una parte e di mito e attualità dall’altra è proprio del genere. La scowmessa di Prometeo è davvero una menippea.

Dialogo di un fisico e di un metafisico « ... il saggio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò della vita, pigliò da Giove licenza di poter morire, e morì ».® Leopardi stesso indica la fonte; il XXVI Dialogo dei morti tra Menippo e Chirone Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie Galimberti ha visto in quest’operetta « l’esempio estremo » di quel procedimento della menippea che è l’osservazione da un punto di vista inconsueto e l’instaurarsi di un mondo alla rovescia” ed ha sottolineato dal punto di vista stilistico « il salto dal Coro al dialogo ».* Io vorrei suggerire una analogia con il Sorzzium s. Gallus di Luciano; « Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? » ” chiede Federico Ruysch, avendo udito il coro delle mummie. Da notare che Leopardi lesse il Somnium nel luglio del 1824 e scrisse il dialogo fra il 16 e il 23 agosto dello stesso anno. Detti memorabili di Filippo Ottonieri Fu lo Zumbini a indicare per questa operetta come modello il Demonatte di Luciano « la cui forma generale e la maniera quasi aneddotica del racconto sono le più vicine a quelle dell’Ottonieri ».? Il titolo stesso ci riconduce ad un tipo di biografia che « è la cornice per una raccolta di osservazioni e definizioni acute ».‘! La scelta leopardiana serve a mettere in rilievo le differenze che necessariamente intercorrono fra il comportamento di un uomo grande nel mondo antico e nel mondo moderno. Perciò tratti del Demonatte lucianeo ricompaiono rovesciati nell’Ottonieri, per esempio: « Non aveva l’ironia di Socrate, ma era pieno di grazie attiche nel conversare »; £ a questo tratto del Derzonatte

55 % 57 58 59 60 61 6

BESOMI, p. 140. BESOMI, p. 431. GALIMBERTI, p. 233. GALIMBERTI, p. 238. BESOMI, p. 241. ZUMBINI, p. 106, nota 2. ArnaLpo MomicLiano, Lo sviluppo della biografia greca, Torino Luciano,

I dialoghi e gli epigrammi

(trad. Settembrini),

Roma

corrisponde nel-

1974, p. 76. 1962, p. 478.

Si

l’Ottonieri: « E per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dissimulato ».% Il capitolo più influenzato dal Demonatte, ha osservato il Galimberti,” è l’ultimo che si apre con una frase: « Si ricordano anche parecchi suoi motti e risposte argute » 4 che sembra l’eco di questa del Derzonatte: « Voglio riferire alcuni dei suoi detti arguti e leggiadri » f e che prosegue con una serie di apoftegmi dell’Ottonieri, così come il testo di Luciano raccoglie una serie di apoftegmi di Demonatte. Luciano è ricordato nell’Operetta là dove è detto che l’imperatore Giuliano non è molto inferiore al Samosatense « nella diceria che s’intitola Misopogone », mentre lo è « in quella dei Cesari ». Leopardi aveva letto la Vita di Demonatte nel matzo del 1824 e scrisse l’Ozztorieri fra il 29 agosto e il 6 settembre. Elogio degli uccelli Fu lo Zumbini a proporre accanto alle fonti scientifiche, principal mente Buffon, Luciano: Anche qui gioverebbe fare qualche raffronto con le consuete fonti: per esempio con il lucianesco Encomio della mosca {...], che è una di quelle operette umoristiche in forma di discorso, a cui, nelle linee generali, si rassomiglia questo Elogio leopardiano.!

La indicazione dello Zumbini sembra avvalorata dai dati cronologici, risulta infatti che Leopardi lesse la Mosca nel settembre del 1824 e scrisse l’Elogio degli uccelli fra il 29 ottobre e il 5 novembre dello stesso anno. Di sicuro, però, in questo caso, l’influsso di Luciano si limita a fatti formali; le intenzioni dei due scritti, anche se difficili a cogliersi, sono molto

diverse.

Per l’elogio lucianesco

credo

sia fondata l’interpretazione

di

Bompaire: Il n’y a aucune intention polémique dans l’Éloge de la mouche qui est l’essai loyal de certaines moyens rhétoriques qui créent d’eux-mémes le burlesque.®

Il che implica una grande distanza dall’Elogio degli uccelli che nella recente interpretazione del Galimberti si configura come un « trattato di angelologia secolarizzata » e che, comunque, non è un esercizio retorico. 6 BESOMI, p. 258.

6 GALIMBERTI, p. 282. 6 BESOMI, p. 292. 6 Luciano, I dialoghi e gli epigrammi etc., p. 480. 67 ZUMBINI, p. 76, nota 2.

6 BOMPAIRE, p. 283. € GALIMBERTI, p. 300.

92

Cantico del gallo silvestre Un accostamento fra il Cantico del gallo silvestre e il Somnium di Luciano fu proposto dal Della Giovanna: Chi voglia farsi un’idea della differenza che intercede fra l’aut. e Luciano, scrittore assai familiare del nostro, confronti questo Cantico col dialogo lucianesco, il Sogno o il gallo, in cui il gallo sveglia Micillo e crede di fargli un piacere col prevenire il tempo quanto più può e dargli modo di lavorare maggiormente; ma la prosa di Leopardi intende a dimostrare verità universali, il dialogo di Luciano mira alla satira dei costumi del suo tempo; severa e poetica quella, leggiero e umoristico questo.”

La distanza fra i due testi indicata dal Della Giovanna è certamente grandissima ed è difficile arrivare alla certezza che Leopardi quando scriveva il Cantico avesse in qualche modo presente il Gallo lucianesco, anche se la cosa è possibile. L’unico punto di contatto fra i due testi è che in tutti e due i casi si ha un gallo provvisto di parola. Del Della Giovanna piuttosto, ma sia detto per inciso, correggerei l’affermazione relativa a Luciano; il dialogo non sembra proprio tendere alla satira dei costumi del tempo: il tema che vi si svolge è un tema topico del cinismo: la vanità dei beni del mondo per il conseguimento della felicità. Il Copernico. Dialogo

I riscontri con Luciano proposti per il Coperzico dallo Zumbini” sembrano convincenti; il primo è fra la seconda scena del dialogo leopardiano in cui Copernico esprime la sua meraviglia per il fatto che il sole sorge ancora e si ricorda della notte in cui Giove giacque colla moglie di Anfitrione e il 10° dialogo dei morti in cui Mercurio fa sapere al sole che non deve sorgere, appunto perché Giove ha bisogno di una lunga notte per stare con la moglie di Anfitrione. È il tema ben noto dell’Amphitruo plautino. Il modo e il contesto nei quali Leopardi lo tocca, fanno indubbiamente pensare più a Luciano che a Plauto. Il secondo riscontro è con l’Icaromenippo; Copernico che pensando al lungo viaggio da fare per raggiungere il sole, si preoccupa delle provviste, rimanda a Menippo che, salito sull’Olimpo, punta dritto al cielo con un poco di provviste. Infine lo Zumbini trova che l’affermazione del Sole: «io sono stanco di questo continuo andare attorno per fare lume a quattro animaluzzi, che vivono in

70 DELLA GIOVANNA, p. 203. 71 ZUMBINI, pp. 65-67.

93

su un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere » ? sia accostabile a quel che dice Menippo, sempre nell’Icaromenippo (par. 19), paragonando gli uomini alle formiche. b) Il richiamo di questi dati, per altro ampiamente noti, era necessario per riproporre sulla base della certezza filologica il quesito sul significato dell'influenza di Luciano sulle Operette morali. Per lungo tempo, come già si è accennato, sotto l’influsso dell’idealismo si è guardato con disprezzo al problema delle fonti, risolvendo su per giù in questi termini la questione:

una volta identificato un modello, lo si esorcizzava, se si

voleva dare un giudizio positivo, dicendo che, nonostante la presenza di un modello, l’artista era riuscito ad esprimere la sua personalità, nel caso contrario si diceva che aveva seguito passivamente il modello. Oggi che il riscatto delle poetiche è stato compiutamente attuato, riesce difficile pensare che un artista sia riuscito tale malgrado le sue fonti, cioè malgrado la sua cultura. Nel caso di Leopardi l'affermazione sfiorerebbe il comico, basta per un momento considerare che Leopardi ha scritto una poetica di più di quattromila pagine, cioè lo Zibaldone; Leopardi è uno dei poeti più consapevoli del suo fare artistico, e proprio per questo uno dei più grandi. Quindi i suoi riferimenti culturali vanno presi molto sul serio. Il problema si pone evidentemente in un altro momento, quando cioè si deve interpretare il significato di questi riferimenti. È qui che si pone la possibilità dell’errore, è qui che si corre il rischio ermeneutico. Per parte mia credo che anche in questo caso il metodo più fruttuoso sia quello di seguire le indicazioni della poetica di Leopardi. Nessuna pretesa, comunque, di esaurire il tema del rapporto Luciano-Leopardi, ma qualche ipotesi di lavoro minimamente garantita. La prima indicazione certa che dà Leopardi riferendosi a Luciano è quella di una scelta di genere: dialoghi e novelle lucianee. Sulla scorta di Bachtin e di Galimberti che, come abbiamo visto, ha ripreso Bachtin, pos-

siamo indicare il genere come menippea. Menippea vale ben più che mescolanza di prosa e versi, è sinonimo di letteratura carnevalizzata, di letteratura in cui regna una libertà particolare, ma è inutile ripetere Bachtin. Andrà piuttosto sottolineato il modo estremamente consapevole con cui Leopardi si accosta a Luciano; per quello che riguarda il Dialogo Leopardi cita il Prometheus es in verbis in cui il Samosatense illustra appunto la natura dei suoi dialoghi: « un composto da lui per primo inventato, della natura del Dialogo e della Commedia »,* per usare le parole di Leopardi. 72 BESOMI, p. 364. 73 BINNI-GHIDETTI, I, p. 368; anche le citazioni immediatamente seguenti vengono dallo stesso passo.

94

Il Prometheus è indubbiamente un testo di poetica, un testo quindi par-

ticolarmente importante per capire l’arte di Luciano. Accanto al Prometeo Leopardi cita la Vitarum auctio come esempio di « invenzioni ridicole » adoperate da « Luciano ne’ suoi opuscoli per deridere questo o quello » e così si completa il quadro della menippea che non dà solo spazio libero a contaminazioni di generi, costruire le situazioni; non « la lingua al tempo stesso sto programma sia stato in difficile negare. Se questo

ma consente anche la libertà più assoluta nel manca infine una precisa indicazione stilistica:

popolare e pura e conveniente ec. ». Che quebuona parte realizzato nelle Operette morali è è vero, l’identificazione dei singoli spunti lu-

cianei che abbiamo richiamato prima, assume un altro valore, non si tratta più di un elenco di minuzie filologiche e di fatti occasionali. Questi spunti

sono la spia di un fenomeno più complesso quale è appunto il collegarsi ad un genere tramite un autore che lo rappresenta in maniera significativa. Particolarmente indicativa risulta poi questa scelta, quando si tenga conto dell'importanza che aveva avuto il dialogo alla maniera di Luciano nel Settecento. Su questo argomento ha scritto cose importanti Galimberti nella comunicazione tenuta qui a Recanati in occasione del convegno su Leopardi e il Settecento, io vorrei richiamare l’attenzione su quel che ha scritto Andrea Calzolari * a proposito dell’uso del dialogo da parte di Diderot. Calzolari ha dato una spiegazione molto acuta; non si tratta nel caso di Diderot o non si tratta soltanto dell’uso del dialogo a fine pedagogico, conformemente ad una diffusa pratica illuministica, ma di una connessione profonda fra filosofia materialistica e dialogo. Il dialogo, il sogno e la follia — scrive Calzolari — sono [...] la copertura di un ordine concettuale rigoroso, sono le astuzie retoriche di cui si serve l’attorefilosofo che, manovrando con abilità i significanti ed i significati, anima questo gioco delle maschere, questo gran teatro di metafore che è la filosofia: l'ordine e il disordine si succedono in sequenza alternata scambiandosi i ruoli: l’ordine filosofico, significato dal disordine espositivo del dialogo e del sogno, significa il disordine del reale, cioè l’irriducibilità della materia all’ordine concettuale; il disordine, significato dall’ordine concettuale materialista, si fa significante in quanto diventa il modo di esposizione che maschera il sistema argomentativo.”

Non è qui, ovviamente, il caso di esaminare il rapporto che intercorre in Leopardi fra materialismo e uso del dialogo, ma certamente non è senza significato che Hegel condanni duramente l’uso del dialogo filosofico; Hegel, idealista, non può ammettere il dialogo, Leopardi, materialista, in-

74 Il teatro della teoria (Materialismo

e letteratura

in Diderot),

Parma

1977.

15 Op. cit., p. 88.

95

vece sì. La scelta di un genere non è dunque una operazione formale neutra, ma una scelta che comporta implicazioni profonde. Il primo significato del richiamo a Luciano è, dunque, la dichiarazione dell’opzione per un genere che attraverso i secoli aveva conservato una forte carica antidogmatica, una potenzialità di disordine che rompe gli schemi dei sistemi chiusi. Da questo punto di vista le Operette morali risultano essere né una pura prosa d’arte né l’esposizione di un sistema filosofico, ma « pensiero poetante », per usare il titolo del recentissimo saggio su Leopardi di Antonio Prete.

L’altra rilevante indicazione legata al nome di Luciano è connessa alla teoria del comico; su Il «riso » leopardiano e la scrittura delle Operette morali” ha scritto cose acute Neuro Bonifazi; basterà qui mettere in rilievo la funzione di Luciano in questo ambito. In un celebre passo dello Zibaldone (41) Leopardi afferma che: « c’è una differenza grandissima fra il ridicolo degli antichi comici greci e latini, di Luciano ec. e quello de’ moderni massimamente francesi » e che (il ridicolo) « de’ greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane aeriformi,

come quando Luciano nel Zebs ëAeyyéuevos paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore ». Il Bonifazi commenta: «il giuoco di parole nella similitudine di Luciano è più stabile, solido, sodo, ec., perché mette in relazione un elemento

comico

con uno tragico, e fa dello spirito su di una cosa grave », ricollegando così anche questo passo « alla teoria generale del ‘ riso leopardiano ’, rivolto a cose serie, gravi, tragiche ».” Dunque Luciano risulta essere uno degli autori esemplari del ridicolo di cui parla Leopardi che sono in verità pochi: per i greci Luciano, per i latini Plauto. Tra la teoria del ridicolo e la sua attuazione nelle Operette morali il Bonifazi ha trovato un collegamento nella diminuzione positiva; la sua « ipotesi è che le Operette morali siano una scrittura amplificata del meccanismo generativo della diminuzione positiva e della sua analisi »; © la verifica dell’ipotesi è poi condotta attraverso l’analisi di due operette (Dialogo d’Ercole e Atlante, Proposta fatta dall’Accademia dei Sillograf). Ora per noi è particolarmente interessante che parecchi « diminutivi positivati » (cioè diminutivi che hanno perduto il loro valore) siano ritrovati da Leopardi in Luciano. Eccone una rapida rassegna: ueplov per unp6c, Prometheus sive Caucasus e De Sacrificiis, Zibaldone, 4020, 21 gennaio 1824: Zvyypaupdrioy (in forma dubi-

76 Il contributo è pubblicato in Letteratura pegno, II, Roma

UO)

Gs

WI 0), Gi

96

1975, pp. 575-606.

DE E

e critica, Studi in onore

di Natalino

Sa-

tativa): « Vedi Luciano in principio dell’Erodoto, dove pare che sia positivato », Zibaldone, 4030, 15 febbraio 1824; xBérrov Luciano nel Dialogo di Doride e Teti dice prima è xBorév e poi indifferentemente parlando della medesima arca tò x1Botiov e poi di nuovo tv xiBwréy ed i) xfBwréc, e così anche nel Dialogo di un Tritone e delle Nereidi &v tf xBorTò parlando della stessa arca. Vedi i lessici ec. Ciò mostra che il significato di questo diminutivo e di questo positivo era conforme, o che anche in greco si usava elegantemente il diminutivo pel positivo o a piacere, o come catacresi o enallage ec., o comunque Luciano non usa qui il diminutivo se non per variare o per grazia ed eleganza semplicemente senz’altra cagione, e senz’alcuna diversità dal positivo che insieme adopera.

Zibaldone, 4047, 15 marzo

1824; rewtov in Riviviscentes; qui il discorso

ha uno sviluppo particolare: « Notisi in proposito di questo ed altri diminutivi positivati di Luciano, da me altrove segnalati, che Luciano usa il linguaggio in gran parte familiare » e Leopardi conclude che il luogo di Luciano aggiunge « una insigne prova circa la positivazione di molti diminutivi greci, in particolare nel dir poetico, o piuttosto antico o ionico ec. » Zibaldone, 4054-4055, 28 marzo 1824; gagavic positivato Luciano, Ver. Hist., 1. I, Zibaldone, 4074, 19 aprile 1824; xvbéAmn-xuverlov, xuveric (dog

Luciano, Lexiphanes, Zibaldone, 4095, 29 maggio 1824; « orbxn o orbrrnorunmeioy

o oturetov

Vedi Scapula e Luciano, Opera, Amsterdam

1687,

t. II, pp. 98, 99, più volte. (12 luglio 1824) », Zibaldone, 4111 (il testo di Luciano in questione è l’Asinus); «y6vu-yov&riov (vedi Luciano, Opera, 1687, II, 83)... (14 luglio 1824) », Zibaldone, dell’Asinus);

Kbg

o

xéiag

o uü&oc-xwtdiov

4112

o xbdov,

(si tratta ancora xwddproy

Luciano,

Gallus, Zibaldone, 4114, 24 luglio 1828; « ITwyovtov diminutivo positivato per r@ywv. Luciano, Opera, 1687, p. 263, t. II ...», Zibaldone,

4116,

14 agosto 1824 (il testo in questione è il Parasitus); è96wn-896vrov Leopardi rinvia a Luciano, Opera, 1687, t. II, p. 350 (si tratta del Philo-

pseudes) e aggiunge « notisi che Luciano è solito usare tali positivazioni (16 Settembre 1824) », Zibaldone, 4119; « Bœutwv per Bopéc in Luciano, Tragopodagr., p. 812, lin. 14, se non è sbaglio di fwytow per Bwpoîc, come pare ... che voglia il metro. (25 Dicembre, dì di Natale 1824), poiché non credo che ivi Bœuloic sia aggettivo ed èurbpors sostantivo » Zibaldone, 4123. I diminutivi positivati sono dunque colti da Leopardi, per quel che riguarda il greco, soprattutto in Luciano. Se l’ipotesi del Bonifazi è fondata, possiamo affermare che anche attraverso il meccanismo della diminuzione positivata Luciano agisce sulle Operette morali e, comunque, si sarà notato che i passi sopracitati dello Zibaldone sono tutti del 1824, l’anno delle Operette! 97

Una rapida conclusione: Leopardi non solo ebbe famigliare Luciano come forse nessun altro scrittore della tarda grecità, cosa già ben vista dal Setti, non solo ebbe Luciano come fonte per le Operefte morali, come aveva chiaramente indicato la critica positivista, ma da Luciano o meglio dalla idea che si fece di Luciano attraverso una frequentazione assidua dei suoi testi, mutuò, secondo me, lo strumento espressivo del pensiero materialistico che è alla base delle Operette morali. EMILIO

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MATTIOLI

Leopardi e la letteratura cristiana antica

1. Le nostre conoscenze dirette della formazione di Giacomo Leopardi e dei suoi studi di letteratura cristiana antica sono di epoca assai recente. Fino a pochi anni fa si conosceva l’esistenza delle opere patristiche del grande Recanatese, ma esse erano rimaste inedite fin dai tempi in cui erano state composte; il Timpanaro, che con il suo famoso saggio su La filologia di Giacomo Leopardi! aveva aperto la strada ad una rivalutazione, basata su inoppugnabili dati di fatto e sulla applicazione di un metodo critico che pochi posseggono, del Leopardi filologo, aveva potuto compiere, all’epoca della pubblicazione del suo volume (1955), solamente alcuni sondaggi sui Fragmenta Patrum Graecorum saeculi secundi, riservando un giudizio più completo al momento in cui gli inediti leopardiani sarebbero stati conosciuti per lettura diretta? Il volume curato dallo stesso Timpanaro e da Giuseppe Pacella, contenente gli Scritti filologici} potrebbe servirci, se vogliamo, a farci conoscere qualcosa della cultura patristica di Leopardi, perché comprende quelle mirabili Amrotazioni sopra la Cronica di Eusebio — dato che Eusebio è uno scrittore cristiano; ma lo

storico ecclesiastico è studiato dal Leopardi soprattutto dal punto di vista della critica testuale (quel lavoro costituisce, in effetti, uno dei migliori

prodotti della ‘ filologia formale’ del nostro autore), sì che da quel pur pregevole e acutissimo saggio non molta luce si ricava per quanto concerne le conoscenze patristiche del Recanatese. D’altro canto, le Annotazioni sopra la Cronica di Eusebio possono, momentaneamente,

essere da noi prese in considerazione

perché presen-

tano un aspetto emblematico della filologia leopardiana. Esse sono, come si è detto, un’opera più di filologo che di ‘ patrologo ’ (se possiamo usare 1 Cfr. S. Timpanaro,

La filologia di Giacomo

Leopardi,

I ed. Firenze

1955,

II ed.

Bari 1977. 2 Altri sondaggi fece, nel contesto dello stesso discorso critico, A. La Penna, recensendo

il volume di Timpanaro in « Atene e Roma », 1956, pp. 219-229, 221. 3 Cfr. G. Leoparpi, Scritti filologici (1817-1832), a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Scritti di Giacomo Leopardi inediti o rari, IX, Firenze 1969.

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il termine); ma la filologia è un metodo e non un contenuto, pet cui niente vieta (anzi, in molti casi, soprattutto in Italia, sarebbe assai desiderabile)

che un ‘ patrologo ’ sapesse servirsi anche del metodo filologico; e se tale metodo è oramai perfezionato, nel Leopardi del 1822-1823 quando il critico pubblicò le sue Annotazioni, si potrebbe pur sempre — crediamo — percorrere il cammino a ritroso, e ricostruire la faticosa formazione di tale metodo, non solo nello studio dei testi ‘ classici ’, ma anche nello studio dei testi patristici, che è l’oggetto del nostro lavoro.

Considerati sotto l’aspetto metodico, dunque, gli scritti patristici di Giacomo Leopardi costituiscono una stretta unità con gli scritti filologici: questo è l’assunto che intendiamo dimostrare in queste pagine. Considerati dal punto di vista del contenuto, essi richiedono uno studio riassuntivo, che è reso possibile solo da pochi anni, da quando, per iniziativa e con le spese del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, si è iniziata la pubblicazione degli inediti leopardiani, ivi compresi i testi patristici. In senso stretto, sono testi patristici lo studio su Fragmenta Patrum saeculi secundi e quello sugli Scriptores Historiae Ecclesiasticae; in realtà si può dire (e cercheremo di mostrarlo con alcune osservazioni puntuali) che le altre opere del Leopardi, scritte in quel torno di tempo (1814-1815 circa), sono ispirate dagli stessi motivi di pensiero; esse sono genuina espressione della mentalità del nostro autore, in quegli anni di formazione culturale e ideale, quando la sua adolescenza era sotto l’influsso della educazione paterna. Innanzitutto, qualche dato erudito e concreto. La Biblioteca Leopardi, arricchita, se non creata, da Monaldo e aperta al pubblico nel 1812, costituisce — per la parte, almeno, che sono in grado di giudicare, quella patristica — uno splendido esempio di biblioteca privata, creata da un dilettante, con le sue inevitabili lacune, ma anche con notevolissimi approfondimenti in certi settori specifici. Di essa parlerà con giustificato orgoglio il Leopardi stesso, scrivendo al Giordani pochi anni dopo quelli di cui ci stiamo interessando: … anzi le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia e due sole inferiori? Sulla porta ci sta scritto ch’ella è fatta anche per li cittadini e sarebbe aperta a tutti …

Ma la ricchezza della biblioteca paterna non era altro che una splendida eccezione nel grigiore di Recanati:

quante fatiche per arricchirla!

4 Noi pensiamo, dunque, che non vi sia uno iato tra gli scritti di carattere apertamente confessionale e i trattati patristici di quegli anni; e anche in seguito, al rifiuto di una mentalità si accompagna l’estinguersi degli interessi per l’antica letteratura cristiana. ° Sarebbe interessante una ricerca di carattere erudito sulle biblioteche private di Recanati, al fine di ricostruire l’ambiente delle letture del giovane Leopardi.

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Se si vuol leggere un libro che non si ha, se si vuol vederlo anche per un solo momento bisogna procacciarselo col suo denaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere né conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via. Qui niun altro fa venir libri, non si può torre in prestito, non si può andare

da un libraio, pigliare un libro, vedere quello che fa al caso e posarlo: sì che

la spesa non è divisa, ma è tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l'impresa di procacciarsi tutto è disperata ... (30 aprile 1817, n. 48 Moroncini).

Come è noto, in questa lettera il Leopardi si sfoga con il Giordani sulla mancanza di interessi culturali che dominava il chiuso e retrivo ambiente di Recanati, ma quanto abbiamo citato può servire al nostro assunto. Ora, se consideriamo nel suo complesso la sezione antica della Biblioteca Leopardi, oserei dire che la parte patristica è più ricca e più significativa della parte ‘classica’: merito, senza dubbio, degli sforzi di Monaldo Leopardi, da un lato, ma anche segno di una ristrettezza mentale e culturale nei confronti degli studi classici, dall’altro; si deve dire, tuttavia,

a parziale scusa di Monaldo, che questo disinteresse per i testi classici, questa conoscenza limitata e antiquata delle culture antiche corrispondente alle sue idee ben definite in un certo senso, era allora assai diffusa

in quasi tutta l’Italia, e in particolar modo tipica dello Stato pontificio. Si può dire, dunque, che le edizioni più importanti di testi cristiani antichi allora disponibili si trovino tutte nella Biblioteca Leopardi (e alcune di esse dovevano essere, io penso, assai costose anche a quell’epoca).

Vi sono presenti buona parte delle edizioni Maurine, greche e latine: nell’ambito patristico non ha luogo quella scissione tra studi di greco e studi di latino, a tutto detrimento del greco, che si può riscontrare, invece, per i testi classici nell'Italia del primo ottocento; anzi, considerata nel suo complesso, la patrologia greca del Leopardi è più ricca e più aggiornata di quella latina. Meno aggiornata, invece, la sezione destinata alla critica, ma

bisogna tenere presente che tali studi critici erano (i più significativi almeno) opera di studiosi protestanti o anglicani, i quali avevano creato, nel seicento e nel settecento, la filologia biblica e dato nuovo impulso alle ricerche patristiche. Probabilmente tali volumi erano difficilmente reperibili nello Stato Pontificio e a Recanati in particolare, ove lo stesso Monaldo si sarebbe peritato di dar loro un posto nella sua Biblioteca. Per concludere: si può ragionevolmente affermare che la biblioteca paterna era senza dubbio più ricca di testi cristiani che non di testi classici; se a questo fatto si aggiunge l’educazione strettamente religiosa che fu impartita al Leopardi in quegli anni, si può capire, almeno in parte, perché i suoi interessi per le ricerche filologiche ed erudite si siano indirizzati, negli anni della adolescenza, tra il 1813 e il 1815, soprattutto verso

101

la patristica latina e greca. Si pud anche dire che se il Leopardi, in quegli anni, ebbe notizie scarse e insufficienti della grecità classica, queste furono in gran parte di seconda mano: gli derivarono, cioè, soprattutto dalla letteratura greca cristiana, le cui opere più erudite gli procurarono la conoscenza (per frammentaria che fosse) di autori che altrimenti — in quegli anni — non avrebbe potuto leggere: frammenti di Sofocle, di Euripide, di Pindaro, di Menandro si incontrano negli scrittori cristiani più colti: Giustino, Clemente Alessandrino, Origene ed Eusebio. La prima delle opere erudite, per la composizione della quale il Leopardi si rivolge anche ai testi patristici è la Storia dell’Astronomia. Tutti gli studiosi sono concordi nel sottolineare la assoluta mancanza di originalità del giovane scrittore, che si riduce ad essere poco più che un inerte compilatore: la Storia dell'Astronomia è un’opera veramente illeggibile e, se ricerchiamo il metodo filologico che dovrebbe essere alla base della sezione dedicata alla storia della astronomia antica, esso non esiste. L’opera,

quindi, non è di nessuna utilità: è cosa nota, questa. Per quanto riguarda la massa di conoscenze dei dati forniti dall’antichità, si osserva solitamente

che l’erudizione di cui il Leopardi fa sfoggio a proposito della astronomia antica dovrebbe essere di seconda mano, derivata addirittura dalla Biblio-

theca Graeca e Latina del Fabricius, un testo enciclopedico di impiego corrente in quei primi lavori leopardiani. Non escluderei, tuttavia, che, almeno in parte, per certe citazioni lo scrittore potesse essersi servito del testo originale: ad esempio, spesso è citata la Praeparatio Evangelica di Eusebio, che era un testo particolarmente consultato dal Leopardi in quegli anni e che si trovava nella sua biblioteca nella vecchia edizione del Viger (Colonia 1688); altrettanto si può dire del lessico della Suda, delle

Vitae Philosophorum di Diogene Laerzio e di altri testi. Anche per gli studi moderni impiegati dal Leopardi, sarei incline a credere che il giovane compilatore non si sia servito solo della Bibliotheca del Fabricius: certi studi scientifici ed eruditi, citati nella Storia dell’Astronomia per la sezione antica, si trovano effettivamente nella biblioteca di Monaldo. Non escluderei, quindi, un uso diretto dell'Opera omnia del Meursius, dell’Uranologium del Petavius, e di qualche altro. Questo, per quel che ri-

guarda l’aspetto erudito del problema da noi affrontato; quanto al resto, l’opera in sé non presenta alcun contributo personale, perché non è altro (per la parte antica, almeno), che una serie di dossografie, e correremmo

anche noi il rischio di cadere nella pedanteria e di fare del lavoro inutile, se volessimo distinguere, tra le citazioni erudite, quelle che provengono da una lettura diretta e quelle che sono di seconda mano. Nello stesso anno 1814 il Leopardi iniziò la prima opera di contenuto specificamente patristico, i Fragmenta Patrum Graecorum saeculi secundi, et veterum auctorum de illis testimonia, terminata l’anno dopo, anno in 102

cui cade anche la composizione della più breve Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta. Composte nello stesso torno di tempo e con i medesimi intendimenti e metodi, sono rimaste inedite fino al 1976 e possono essere considerate ed esaminate congiuntamente

Innanzitutto, si può osservare che si tratta di due studi che potremmo

definire, con termine moderno, raccolte di ‘testimonianze e frammenti ’

(anche se il Leopardi non ha ancora ben chiara nella mente la distinzione

tra frammento autentico di un’opera antica e la testimonianza, per lo più una parafrasi, dell’opera stessa, compilata da auctores più tardi). In sé e per sé, questi studi rappresentano una relativa novità nei confronti della critica sei- e settecentesca, che era stata ricca di edizioni di testi, ma abbastanza povera di raccolte di questo genere. Il dedicarsi a questo particolare tipo di studi, che fu preceduto da spogli e raccolte di materiali e appunti che ancora in parte possediamo, rispondeva senza dubbio a una esigenza di erudizione che era tipica del Leopardi di quegli anni. Naturalmente, una raccolta di ‘ testimonianze e frammenti ’ non si esaurisce nella erudizione, che pure è necessaria; richiede, come ogni lavoro filologico, spirito critico e sensibilità storica, proprio perché lo studioso possa coordinare e interpretare la raccolta dei dati eruditi. D’altra parte, se teniamo presente che il Leopardi lavorava senza contatti con i dotti che si trovavano fuori di Recanati (e a Recanati dovevano trovarsi ben poche persone con cui parlare di storia e di metodo critico), diveniva quasi inevitabile che i lavori per lui possibili fossero quelli che si potevano attuare, con estrema acribia e puntiglio, nell’ambito della biblioteca paterna — ed erano lavori necessariamente di erudizione.” Forse fu proprio questo motivo (cioè la necessità di lavorare da solo, senza contatti con altri studiosi, sul

materiale bibliografico che aveva) che fece apparire chiara all’autore stesso l’insufficienza dei suoi lavori di quell’epoca. Si trattò, disse poi al De Sinner, di molta fatica spesa con pochi risultati raggiunti; ed è un giudizio, questo dello stesso Leopardi, su cui dovremo tornare.

6 Queste considerazioni tengono conto di un nostro precedente studio: Metodi e risultati degli scritti patristici di Giacomo Leopardi, « Maia », XXIII, 1971, pp. 303-320, al quale riman-

diamo per le osservazioni di carattere più puntuale e specifico (congetture ai testi, confronti stilistici ecc.). Quanto alla edizione dei testi, facciamo riferimento a quella da noi stessi curata per conto della medesima collezione del Centro Nazionale di Studi Leopardiani: Fragmenta Patrum Graecorum ... Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta, Firenze 1976. 7 Un riprova di quanto fosse culturalmente negativo l’isolamento in cui lavorava il Leopardi si ricava esaminando i suoi studi omerici (per i quali vedasi in questo volume la relazione di G. ArrIGHETTI, Leopardi e Omero, pp. 29-51): negli anni di Recanati, anteriormente alla conoscenza dell’opera di Wolf, le considerazioni leopardiane su Omero erano di tipo sostanzialmente retorico, mentre in quelle posteriori, allorquando il critico fu introdotto alla questione omerica, la discussione ha un’impronta di carattere storico. 8 Vedi oltre, p. 118.

103

Ma guardiamo ancora le due opere a cui abbiamo accennato. Siffatto tipo di lavoro, di raccolta erudita dei dati della tradizione, che costituisce il fondamento dei due trattati patristici, non era, del resto, una novità

per il Leopardi. Nello stesso anno 1814, lo studio su Porfirio (tuttora inedito) era stato impostato, in parte, in modo simile: l’analisi della biografia porfiriana di Plotino era stata preceduta da uno studio enciclopedico sulla biografia antica, e tale ricerca non era stata altro che una raccolta di testimonianze sui biografi antichi e sulle loro opere. In tale raccolta la massa dell’erudizione era stata schiacciante e aveva quasi completamente soffocato ogni motivo critico. Per quanto riguarda gli Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta,

che è lo studio meno ampio e meno significativo dei due, esso consta di 59 pagine manoscritte, conservate alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Il titolo dell’opera può in parte ingannare, perché si potrebbe credere di trovarsi di fronte ad uno studio sui più significativi scrittori di storia ecclesiastica, greci e latini. AI contrario, gli scrittori che sono presi in esame sono tutti personalità di terz'ordine: Filone Retore, Filippo Sidete, Esichio presbitero di Gerusalemme, Teodoreto, Giovanni Diacrinomeno ecc. ... Quale sarà stato

il motivo di questa scelta? Probabilmente il Leopardi si è risolto a studiare questi storici così insignificanti non perché trovasse in essi qualche spunto di particolare significato storico e contenutistico, ma per puro interesse erudito. Lo studio in questione consiste in una raccolta dei fragmenta, preceduta da una discussione sulle testimonianze antiche ad essi relative. Si potrebbe, cioè, pensare (come si diceva sopra) ad uno studio bipartito in testimonianze e frammenti, purché si tenga conto della riserva, a cui abbiamo accennato, che la distinzione tra testimonianza e frammento non

è mai chiara in queste prime opere leopardiane. La discussione che precede i Fragmenta è costruita sui dati forniti da quella grande opera erudita che costituisce la base di tutte le ricerche del Leopardi di quegli anni, la Bibliotheca Graeca di J. A. Fabricius. Il Leopardi ha raccolto le scarse notizie che su questi autori venivano date dal Fabricius in modo disorganico e ha cercato di sistemarle in un complesso meglio strutturato, aggiungendo ad esse quanto poteva trovare altrove: nei Monumenta Ecclesiae Graecae del Cotelier, nelle note ai Byzantinae Historiae Scriptores, pubblicati nella grande edizione di Venezia del 1729 (con note di Goar, Hody, Du cange ecc.), nella edizione di Giovanni Damasceno

del Le Quien. È,

questo, un procedimento tipico di questi primi trattati: sfruttare i dati che gli venivano procurati dalle opere a sua immediata disposizione, rielaborarli con una costruzione più sistematica e proporre, quando era possibile, una soluzione personale. Certo, il difetto di fondo era costituito

proprio dal fatto che difficilmente il Leopardi poteva trovare altrove quello 104

che non trovava a casa sua: l’esigenza di completezza bibliografica, che ai nostri giorni è particolarmente sentita, non poteva essere soddisfatta dal Leopardi; negli anni successivi, quando il nostro filologo affinerà il proprio spirito critico e comprenderà meglio la necessità di un’informazione completa dei dati relativi ad un determinato problema, egli avrà da lamentarsi delle condizioni in cui lavorava in quegli anni. Il valore metodologico di questo primo trattato patristico è ancora assai tenue. L'interesse del giovane critico è ancora rivolto a particolari biografici o, comunque, a dati di fatto di valore storico assai scarso. Ma questo atteggiamento, che ora noi confiniamo entro gli angusti confini della erudizione, allora non era tipico del solo Leopardi. L’interesse per le questioni minute, per i problemi prosopografici ed eidografici, aveva dominato il mondo degli eruditi italiani del sec. XVIII e perdurava ancora tenacemente negli anni della Restaurazione, non solo a Recanati e nelle ristrette cerchie delle Accademie marchigiane, ma anche in una città come Roma. Estraneo ai grandi movimenti ideologici e letterari dei suoi tempi, l’eco dei quali non poteva giungere che assai attenuata a Recanati e nella biblioteca di Monaldo, il giovane Leopardi (come del resto tutti gli eruditi italiani di quei decenni) vive ancora nell’atmosfera del secolo precedente,

della quale le opere patristiche (e le altre di quel periodo, come il Porfirio, la Storia dell’Astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi) rappresentano gli ultimi frutti. Scarso spirito critico, del resto, si osserva anche nell’appendice di poche pagine, che conclude l’opera. Essa comprende le Variae Lectiones, ma non costituisce, come potrebbe far credere il suo titolo, un apparato critico o un commento di critica testuale, ai quali la filologia tedesca e lo storicismo del sec. XIX ci hanno abituato, bensì una farrago, una congerie di

varianti manoscritte, registrate assai spesso senza una parola di commento o di giudizio personale. In questo modo i pochi contributi che il Leopardi qua e là propone, sono sommersi da un ammasso di annotazioni di nessun valore. La filologia formale, la capacità di una lettura attenta e puntuale, la dote di congetturare secondo un vigile criterio di razionalità, che caratterizzano gli studi filologici del Leopardi, non si sono ancora formate in questo lavoro giovanile. Il lavoro sui Fragmenta Patrum Graecorum, composto in un arco di tempo più lungo (tra il 1814 e il 1815), da un lato ripresenta alcune caratteristiche (anche alcuni difetti) del precedente,

dall’altro se ne distacca

fortemente, perché costituisce un netto progresso, pet maturità e approfondimento critico. L’impianto generale di quest'opera è, tutto sommato, simile a quello dell’opera sugli storici ecclesiastici: si basa su una bipartizione del materiale, diviso nella discussione erudita dei problemi, la quale precede, e 105

nei festimonia (purtroppo anche qui la differenza tra testimonianza e frammento non è tracciata con la chiarezza che sarebbe desiderabile). Queste

due parti, che si ripetono regolarmente per ognuno dei lemmi che corrispondono a un autore cristiano di cui il critico si occupa, sono seguite da un’appendice di Variae Lectiones, che è anch’essa una farrago, ove si trova raccolta un’inutile congerie di varianti manoscritte, ricavate di seconda mano dalle edizioni di volta in volta consultate, ravvivata qua e là da qual. che buona congettura. Ma, soprattutto, l’opera rivela un impegno e uno sforzo di maggior lena, non tanto se consideriamo

l’estensione (si tratta

di due quaderni di complessive 420 pagine circa, conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze), quanto nella visione generale e nell’organizzazione della materia, che mostrano, in quest'opera, maggiore maturità e più fine senso critico. Forse — se è lecito avanzare delle ipotesi in un problema così aleatorio — il Leopardi ebbe l’idea di raccogliere testimonianze e frammenti, corredati da una discussione erudita e critica, degli scrittori cri-

stiani greci del II secolo, in seguito alla lettura attenta della Historia Ecclesiastica di Eusebio, nella quale sono riportati in gran copia per merito del Valesius notizie e frammenti delle opere di quel periodo, oltre a notizie relative ad autori, come Atenagora, Clemente Alessandrino, Giustino,

Ireneo e Taziano, le cui opere ci sono per la massima parte conservate. Il Leopardi, quindi, concepì il piano di un lavoro critico che, partendo dalla Historia Ecclesiastica di Eusebio, potesse essere integrato con i dati fornitigli da altri autori antichi (che erano quelli che il Leopardi poteva trovare nella biblioteca paterna): e cioè le notizie ricavate dai vari eresiologhi, come Epifanio, Teodoreto e Predestinato, quelle fornite da altri scrittori cristiani antichi (Clemente

Alessandrino

e Origene)

e bizantini

(Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno) e altri ancora. Comunque sia, l’idea di quest'opera rivela, come si diceva sopra, un’ampiezza di intenti e una vastità di respiro che non era dato scorgere in quella, più angusta e ristretta, sugli Auctores Historiae Ecclestasticae.

Più vivo interesse per i problemi storici, dunque, e, soprattutto, maggiore sensibilità critica, che si rivela nel corso della discussione. Certe sezioni, certi passi (e la lettura diretta dell’opera stessa lo potrà mostrare più chiaramente) segnalano una condotta della discussione più vigile, un’attenzione più critica nei confronti delle singole questioni, un saper meglio definire i problemi, un dare ad essi un contorno più netto e preciso. Tali sezioni di maggior impegno critico rappresentano senza dubbio una parte quantitativamente meno

estesa rispetto a certe successioni ininterrotte e

monotone di testimonianze antiche, collegate tra di loro dai soliti nessi triti e insignificanti, e non da un concatenamento intrinseco che emergesse spontaneamente da un travaglio critico (serie lunghissime di testimonianze 106

sono collegate le une alle altre da nessi anonimi come: et paulo post; nec dissonat; eadem adfert ecc.). Vale a dire, l’interesse erudito è ancora predominante di fronte alla capacità di storicizzare dati e testimonianze. Tut-

tavia è notevole il maggiore sforzo organizzativo: i saggi critici che il Leopardi impiega non sono più esclusivamente l’enciclopedica Bibliotheca Graeca del Fabricius, ma anche altre due opere particolarmente rappresentative della acutezza della filologia secentesca, i Mémoires pour servir à l’Histoire Ecclesiastigue del Tillemont e lo Spicilegium Sanctorum Patrum et Haereticorum Saeculi post Christum natum I. II. et III. di Giovanni Ernesto Grabe, pubblicato a Oxford nel 1699, oltre ad altre minori.

Sorgeva, così, la necessità di confrontare opinioni contrastanti, espresse dai critici che avevano preceduto il Leopardi, e l’opportunità di non esporle più meccanicamente, l’una accanto all’altra, senza una parola di commento e di critica; la necessità di scegliere, in seguito ad un attento esame, l’ipotesi più conveniente, e di avanzare, quando era possibile (e questi casi si presentano più di una volta), anche ipotesi proprie. La ricerca erudita, poi, è stata incomparabilmente più ampia. La biblioteca paterna offriva al Leopardi, come si è detto sopra, le maggiori edizioni secentesche e settecentesche dei principali autori cristiani, soprattutto greci. Di esse, il Leopardi si servì a piene mani. In tal modo la raccolta dei Fragmenta Patrum Graecorum è risultata un’opera di buon livello erudito e mostra una informazione complessiva abbastanza ampia, soprattutto se riferita allo stato delle conoscenze che si avevano a quei tempi, e in particolare in Italia, ove non mi viene in mente che fosse stata pubblicata allora alcuna opera di rilievo nell’ambito dello studio dei testi cristiani antichi. La completezza, certo, è pressoché impossibile ad ottenersi in ricerche di tal fatta, e talvolta anche raccolte moderne

sono ca-

renti proprio in questo ambito. Ma le sezioni dedicate a Clemente Alessandrino,

a Ireneo,

a Giustino,

mostrano,

in mezzo

a tanta

zavorra

di

testimonianze, qualcosa di nuovo, che non si trova nelle edizioni moderne e, soprattutto, non si trovava nelle raccolte che il Leopardi aveva davanti a sé quando lavorava. Così le raccolte di testimonianze e frammenti di alcuni autori, le cui opere sono andate perdute, sono, nel complesso, pregevoli, come quella dei frammenti di Bardesane, e non sfigurano di fronte ai raffazzonamenti del Migne (ad esempio, la sezione dedicata a Dionigi di Corinto e a Egesippo). Certo, anche in quest'opera non mancano i limiti, intrinseci alla con-

dizione effettiva della biblioteca di cui il Leopardi si serviva. Pertanto troviamo

registrate le testimonianze

di certi autori, mentre

altri autori

mancano del tutto: questa stranezza non è dovuta ad una scelta meditata, ma semplicemente al fatto che certi autori non esistevano nella biblioteca paterna; tuttavia va osservato che, dove ha potuto, il Leopardi ha cercato

107

di procurarsi in qualche modo quello che non poteva leggere a casa sua, anche se non è facile dire dove egli ha potuto procurarsi quello che gli mancava. Un altro difetto è che non esiste un criterio preciso che regoli l’utilizzazione di una testimonianza:

che essa sia antica e di buona fonte,

o che sia recente e derivata da altre opere precedenti (come è il caso della maggior parte delle testimonianze di età bizantina, che sono attinte quasi tutte alla Historia Ecclesiastica di Eusebio), questo non costituisce un problema per il Leopardi, che le cita tutte indifferentemente, forse per il solo fatto che le trovava: un desiderio di completezza, quindi, più che il desiderio di presentare quello che fosse più criticamente accertabile. Ancora: certi autori sono conosciuti in modo molto imperfetto. Ad esempio, dello Pseudo Clemente il Leopardi conosce solo le Recognitiones tradotte da Rufino (e forse nemmeno per lettura diretta, nonostante il gran numero di testimonianze che riesce a citare), mentre ignora quasi del tutto le Homiliae. Un altro limite — anche se non infrequente neppure negli studi dei nostri giorni ... — è riscontrabile nelle citazioni di seconda mano, di opere, cioè, che il Leopardi non poté consultare personalmente, ma che cita in base a quanto dicono di esse gli studi che egli consultava in quel momento:

il Fabricius, il Tillemont,

il Grabe.

Ebbene

non

sempre

il

Leopardi segnala che tali citazioni sono, appunto, indirette, che derivano da altre opere e non sono il frutto di sue letture personali. Il testo dei due trattati è, come è noto, il latino; anche le testimo-

nianze greche sono regolarmente tradotte in latino, secondo l’uso dei trattati scientifici sei- e settecenteschi, al quale il Leopardi intendeva adeguatsi. La traduzione non è sempre elegante, talvolta è anche poco corretta: un segno della fretta con cui il Leopardi doveva lavorare, per compiere una così vasta mole di lavoro. Valutato nel suo complesso, però, lo stile latino di queste due opere patristiche è più corretto e più scorrevole di quello che si legge nel precedente trattato su Porfirio, ove si incontrano spesso e volentieri anche banali errori di grammatica;

ora, invece, tali errori sono evitati. Da notare

una cosa, però: di fronte ad un testo da tradurre, il Leopardi non è mai passivo, sa sempre reagire per cercare la traduzione migliore, 0, comunque, una traduzione diversa da quella già esistente. Vale a dire, nonostante che quasi sempre le edizioni da lui usate offrissero la traduzione latina accanto al testo greco, il Leopardi non ha mai scelto la strada più semplice, che era quella di ricopiare fedelmente la traduzione che l’occasione gli offriva — e tutti sanno quanto sia difficile, a meno che non si prescinda 4 priori dalle traduzioni già esistenti, tradurre un testo senza tener conto del lavoro di quelli che ci hanno preceduto. ? Un esempio di questo procedimento è illustrato in Metodi e risultati etc. cit., pp. 311-312.

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Queste osservazioni ci conducono, quindi, a un altro punto del no-

stro discorso: anche questi scritti patristici, nonostante l’interesse prevalentemente contenutistico che essi rivelano, e la mancanza quasi totale di ogni valore letterario, sono il frutto di un lavorio stilistico assiduo, che è attestato dalla gran copia di correzioni che il testo manoscritto presenta. Certamente, in gran parte tali correzioni non possono assurgere al valore di una variante stilistica: si tratta assai spesso di modifiche di scarso rilievo e di nessun significato. Altre, però, migliorano nettamente il testo e la dizione. Le une e le altre, quindi, sono la testimonianza di quella cura raffinata ed attenta che il Leopardi ha costantemente dedicato all’espressione, indipendentemente dalla riuscita poetica degli sforzi da lui compiuti.

Vengo leggendo e scrivacchiando stentatamente — scriveva il Leopardi al Giordani il 20 novembre 1820 (lettera n. 329 Moroncini) — e gli studi miei non cadono oramai sulle parole, ma sulle cose. Né mi pento di aver prima studiato di proposito a parlare, e dopo a pensare, contro quello che gli altri fanno; tanto che se adesso ho qualche cosa da dire, sappia come va detta, e non l’abbia da mettere in serbo, aspettando ch’io abbia imparato a poterla significare. Oltre che la facoltà della parola aiuta incredibilmente la facoltà del pensiero, e le spiana ed accorcia la strada.

Come tirocinio del Leopardi in vista di una compiuta ‘facoltà della parola’, strumento della ‘facoltà del pensiero ’, possono a buon diritto essere considerati anche questi scritti patristioi. 2.

Ma è lecito, forse, avanzare

anche altre considerazioni.

La cura

formale, che noi abbiamo riscontrato in questi trattati scientifici, ha forse un’origine più profonda, risponde a un’esigenza letteraria e critica che trova più ampia e più approfondita discussione negli anni successivi, nello Zibaldone. Intendiamo dire che la attenzione che il Leopardi dedica alla ricerca di una dizione precisa e corretta non in un’opera che abbia pretese formali, ma in un trattato scientifico vero e proprio, ci conduce in una direzione di ricerca che forse vale la pena esplorare. Ché il labor limae non sarebbe strano in un’opera destinata alla lettura di un pubblico colto ed esigente; appare meno consueto in un trattato di carattere tecnico, destinato ai dotti. Eppure il Leopardi era interessato (forse come nessun altro filologo in Italia, in quell’epoca) alla creazione di una prosa scientifica, la quale, sebbene non volesse essere prosa d’arte ex professo, aveva però una sua dignità letteraria e una sua precisa funzionalità. Scrivere un trattato scientifico non significa scrivere ‘ male ’, secondo il Leopardi, ove col termine ‘ male’ intendiamo dire scrivere in modo sommario, impreciso, facilone; oppure anche, oscuro e inesatto per un eccesso di orpelli, per una orna109

mentazione esteriore impiegata a sproposito. La prosa filologica, insomma, doveva corrispondere a quegli ideali costituenti una prosa scientifica, la quale era stata perfettamente attuata, in lingua italiana, da Galileo, in lingua latina, dal medico ed enciclopedista Celso. Il giudizio del Leopardi è, a questo proposito, nettissimo, come si può ricavare da alcuni passi dello Zibaldone. In un passo (p. 949) leggiamo: Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per esempio un’opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è bella,

e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perché ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi, prima di tutto perché ne manca onninamente, e perché ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perché è chiaro, preciso, perché ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di essere bello in tutto il rigore di questo termine, cioè di essere intieramente buono ... (16 aprile 1821).

Altrove (1312-1313), il Leopardi osserva che « l’eleganza delle parole, dei modi, delle forme, dello stile ... » spesso consiste nell’indeterminato ... o in qualcosa d’irregolare, cioè nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello scrivere didascalico o dottrinale. Non nego io già che questo non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l’eleganza non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E di questa associazione della precisione coll’eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra’ nostri, di Galileo. Soprattutto poi conviene allo scrivere didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di detti autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza, perch’è naturalezza ... (13 Luglio 1821).

In un altro passo (2728-2729), il Leopardi osserva che persino la let-

teratura greca, che pure per lui rappresenta il culmine dell’arte e dell’in-

gegno umano, quella in cui la poesia si è dispiegata raggiungendo i più grandi risultati sul piano artistico, non ha saputo dare il meglio di sé nella

prosa scientifica, ove gli scrittori greci furono tanto più lontani dall’eleganza quanto più furono esatti. L’eleganza, invece, c’è e moltissima in Celso, vero e forse unico modello fra gli antichi e i moderni del bello stile scientifico-esatto. Col quale si potrà forse mettere Ippocrate. I latini 10 Su questo giudizio del Leopardi vedasi quanto ha scritto, in questo stesso volume, E. PARATORE, Leopardi e la letteratura latina post-augustea.

110

ebbero pochi scrittori scientifici-esatti. E di questi, fuori di si possa chiamare elegante? Non certamente Plinio, il quale mar puro, si chiamerà così, perché anch’egli per noi fa testo Mela, Solino, Varrone, Vegezio, Columella ec. ... (28 maggio, Domini,

Celso, qual è che se si vorrà chiadi latinità. Lascio vigilia del Corpus

1823).

Non è forse azzardato concludere, quindi, che già negli anni della ado-

lescenza, il Leopardi metteva in pratica, con la cura formale che dedicava

al latino delle sue opere patristiche, quei principi, che forse allora vedeva solo confusamente, ma in seguito chiarirà a se stesso, di una prosa d’arte scientifica.

3. La cultura patristica ci appare dunque profondamente radicata nella formazione spirituale del giovane Leopardi nel periodo intorno al 1814-1815. Ne è una riprova un’opera composta in quello stesso periodo, sebbene non più in latino, e che mostra affinità singolari con i due trattati filologico-eruditi che abbiamo ora finito di esaminare: intendiamo dire il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Di quest’operetta leopardiana, che certo non si distingue per pregi intellettuali o letterari, la diversità esteriore nei confronti delle opere erudite era già stata colta dal Timpanaro, il quale osservava che essa ha il carattere di una opera di divulgazione, alla francese, illuministica; ! ma lo stesso Timpanaro osservava anche che, accanto a questa diversità esteriore, essa possedeva una carat-

teristica ben precisa, quella di essere ispirata da un illuminismo volto a sostenere e difendere la religione cattolica. Orbene, con questo atteggiamento di fedele devozione nei confronti della religione cattolica si accorda perfettamente l’ispirazione confessionale che emerge, qua e là, dal tessuto delle opere erudite:

la ‘iscrizione’ (se così si può dire) di Taziano nel-

l’“esecrando albo degli eresiarchi’ (p. 608 della nostra edizione); altrove (p. 190), affrontando il problema della canonizzazione di Clemente Ales-

sandrino, considerato santo dalla tradizione, ma la cui santità era stata ri-

fiutata dal cardinale Baroni, che lo aveva escluso dal Martyrologium Romanum — affrontando, dunque, questo problema e le discussioni che aveva suscitato siffatta decisione, dopo un lungo e minuzioso discorso, il Leopardi tronca nettamente ogni controversia, dichiarando che bisogna attenersi alla autorità della Romana aula e all'intervento chiarificatore, a questo proposito, di Benedetto XIV. Ma, soprattutto, l’impianto della discussione del Saggio è analogo a quello che si è incontrato nei due trattati latini; un’enunciazione di carattere generale, di solito assai ampia, confer-

mata dalle testimonianze antiche ordinatamente elencate l’una dopo l’altra, Il Cfr. op. cit., pp. 8-9.

111

con formule di connessione e di passaggio stereotipate, mentre le testimonianze stesse sono accompagnate da una discussione (che in questo caso, dato il carattere divulgativo dell’opera, rimane superficiale). Anzi,

a questo proposito ci sembra di poter dire che il Saggio si trova ad un livello notevolmente inferiore, rispetto ai Fragmenta Patrum Graecorum,

per capacità di sintesi storica e per spirito critico nei confronti dei problemi trattati. Inoltre, se l’erudizione di cui è infarcito il Saggio, appare, come vuole il titolo, attinta prevalentemente alle fonti dell’antichità classica, la cultura patristica, tuttavia, è presente, anche in misura notevole, in tutto il trattatello — anzi, costituisce l’impalcatura dottrinale del primo capitolo, ove il Leopardi passa in rassegna gli errori degli antichi relativi alla divinità. Gli autori classici che ivi compaiono (Menandro, Filemone,

Sofocle, Varrone ecc.) sono conosciuti quasi esclusivamente attraverso le testimonianze degli scrittori cristiani. Un altro filo della trama che unisce il Saggio ai Fragmenta Patrum Graecorum si può individuare in certi particolari eruditi, in certe citazioni che o sono impiegate esclusivamente in quelle due opere o compaiono in un contesto che è identico nelle due opere. Così nel Saggio (p. 335 ediz. Flora) sono citati Bardesane d’Edessa, lo Pseudo Clemente delle Recognitiones e Cesario in una discussione erudita, che si incontra anche

nei

Fragmenta (pp. 86-87 della nostra edizione). A p. 353 n. 1 è citato uno scrittore di assai oscura fama, Timoteo di Costantinopoli, autore dell’operetta De differentia eorum qui adcedunt ad purissimam nostram fidem, pubblicata dal Cotelier nei Monumenta Ecclesiae Graecae (tomo III, Parigi 1686); a p. 361 gli Analecta del Mabillon e lo studio del Pagi (i Critica agli Annales Ecclesiastici del Baronio); a p. 373 Beda e lo scoliaste Brideferto; a p. 391 la vita di Santa Edvige, pubblicata nel De probatis sanctorum vitis del Surius: orbene, questi testi, che oggi sono quasi del tutto dimenticati o di rarissima lettura, si incontrano più di una volta nei trattati patristici di quegli anni. 4. Intorno al 1815, dunque, il Leopardi si era presentato al pubblico colto e letterato con la qualifica, senza dubbio da lui espressamente ricercata, di scrittore cattolico, perfettamente a suo agio nel clima reazionario della Restaurazione: alle opere di carattere essoterico, se così le possiamo definire, rivolte ad un pubblico più vasto e di vario contenuto (il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, VOrazione agli Italiani in occasione

della liberazione

del Piceno),

si affiancano

opere

di carattere

esoterico, opere erudite e destinate alla lettura e alla discussione dei dotti: sono le opere sugli Auctores Historiae Ecclesiasticae e sui Fragmenta Patrum Graecorum. Questa formazione 112

culturale, che pareva oramai bene maturata

nel

giovane letterato, subisce, come è noto, un periodo di gravissima crisi nel corso degli anni successivi. Ma già alla fine del 1816, un Indice delle opere di G. Leopardi, composto dallo scrittore stesso (16 novembre), condannava come ‘ da bruciare senz’altro ’, il Porfirio, il De vitis et scriptis rbetorum quorundam (tuttora inedite e composte nel 1814) e le due opere patristi-

che che abbiamo considerato. Questa improvvisa e totale condanna è significativa, perché contrasta con un’altra opera, di poco più recente (18151816), che, invece, il Leopardi stesso classifica tra quelle ‘ da terminarsi ’, e cioè il Giulio Africano. Il Giulio Africano è considerato il trattato più significativo tra gli scritti filologici della prima attività del Leopardi, per il suo acume critico e per le doti di filologia formale che esso contiene.” Esso prelude alle successive opere filologiche, come il Frontone del Mai e il Dionigi di Alicarnasso, che sono di quegli anni stessi. Il Leopardi,

dunque, alla fine del 1816, è totalmente insoddisfatto della sua attività erudita degli anni precedenti e soprattutto è insoddisfatto anche del suo atteggiamento confessionale e codino, tanto è vero che rifiuta le opere patristiche, ma non il Giulio Africano: ne è una riprova il fatto che tra le opere ‘ pronte per la stampa ma riprovate dall’autore’ si trova il già nominato Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: non poteva dire ‘ da bruciarsi senz’altro ’, perché il manoscritto era già stato affidato allo Stella per la stampa. Comunque sia, l’attività filologica prosegue tenace e fruttuosa negli anni successivi, e giunge almeno fino al 1826; altrettanto non si può dire, invece, degli interessi patristici. Né le opere letterarie né quelle filologiche successive al 1815 rivelano alcun interesse per la cultura cristiana. È probabile, quindi, che le letture di testi patristici cessassero quasi completamente a partire, all’incirca, dal 1816: si può ben dire che un immenso patrimonio di erudizione e di cultura fu messo da parte improvvisamente e bruscamente. Nello Zibaldone l’interesse per i testi patristici manca quasi totalmente; soprattutto, non si incontra, in tutta l’opera, un solo riferimento a testi cristiani che sia ispirato a quegli stessi criteri confessionali, a quegli interessi per i contenuti, che erano stati caratteristici delle opere degli anni 1814-1815; le poche, rarissime citazioni, sono esclusivamente di carattere

stilistico e linguistico. Non ci prenderà molto tempo soffermarci su queste poche osservazioni. À p. 981 sgg. del manoscritto leopardiano si osserva come la lingua greca abbia sempre rifiutato di accogliere nel suo contesto parole latine, 12 Anche questo lavoro filologico attende tuttora una adeguata edizione; Antonio La Penna. 13 Cfr. S. TIMPANARO, op. cit., p. 12 sgg.

l’ha promessa

123

se non grecizzate, a differenza di quanto avveniva nel latino, nel quale i termini greci erano comunemente impiegati; una delle poche eccezioni è rappresentata da Didimo Alessandrino, il quale (De Trinitate I, 15) inserisce nel suo testo « due o tre parole latine barbaramente scritte in caratteri … ». La traduzione del passo così suona: «in latino l’infinito consta di due concetti: PLUSQUAMPERFECTUS, e significa ‘ piuccheperfetto ? ». Il passo attende ancora una adeguata interpretazione, come osserva l’editore più recente." Come si vede, è l’interesse linguistico che ha ispirato al Leopardi questa nota: l’interesse per le peculiarità di una lingua, per il carattere straordinario della lingua greca, in particolare, che è così frequentemente oggetto di riflessione nel corso dello Zibaldone. Così a p. 3421 si osserva che le « prose sacre e profane de’ posteriori sofisti e de’ padri greci » hanno un carattere fortemente poetico, al punto da superare lo stesso stile platonico. In questo particolare la prosa della tarda grecità (che, effettivamente, è fortemente caratterizzata da tratti retorici, nei quali si distingueva in particolar modo l’uso e l’abuso di termini poetici) può essere accostata — a giudizio del Leopardi — alla moderna prosa francese. « Ma per vero dire », conclude il Leopardi, « né quelle son prose, né le moderne francesi lo sono, ma sofistumi l’une e l’altre, quelle in ogni cosa, queste in quanto allo stile »: il Leopardi formula questo suo giudizio secondo il canone classicistico della decadenza della prosa greca nella tarda età imperiale, nella quale rientrano gli scrittori cristiani, e la accomuna alla sua svalutazione della letteratura francese in generale. La letteratura cristiana, sia greca sia latina, era già stata condannata in base a questi criteri puristici già in un passo precedente (pp. 1095-1096), ove la causa delle scadenti qualità dello stile di quegli scrittori era fatta derivare (con un giudizio che non possiamo certo accogliere) dall’influsso della Bibbia, il cui stile era considerato estraneo allo stile greco: Esaminiamo i padri greci da’ primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli ebraismi, dall’uso dello stilo profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta e barbara e spesso continua imitazione della scrittura, dal misticismo della Religion Cristiana. Corruttela che è comune anche agli scrittori cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri paesi, dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d’altro dialetto propagato fra’ giudei ec.; non erano giudei di stirpe ec. ec.... Le stesse cause di corruzione influirono pure sulla lingua e sullo stile de’ padri latini ...

14 Cfr. Diprmus

der BLINDE,

De

frinitate,

Jürgen Honscheid, Meisenheim am Glan 1975.

114

Buch

I, herausgegeben

und

übersetz

von

Qui, a parte il concetto di ‘decadenza’, il Leopardi vede solo una metà dei fatti: comprende bene che lo stile biblico ha avuto una profonda

influenza sulla formazione degli scrittori cristiani, e vede, alla radice di siffatto stile, l'influsso di certe forme linguistiche ebraiche; non vede, però,

che la formazione retorica degli scrittori cristiani non è diversa da quella degli scrittori non cristiani ad essi contemporanei, che egli considera, viceversa, indenni da siffatta corruttela. Alcune altre osservazioni (pp. 3695, 3752, 3894, 4165) sono dedicate

a Tertulliano; esse, però, non concernono l’aspetto letterario dell’opera dello scrittore africano, bensì solo alcuni aspetti lessicali del latino tardo e della loro prosecuzione nelle lingue romanze: un interesse che domina da un capo all’altro lo Zibaldone, come è ben noto. Sempre sul piano grammaticale sono da collocare alcune osservazioni riguardanti la prosa di S. Nilo. A p. 4463 il Leopardi osserva che nei Capita seu praeceptiones sententiosae n. 199 p. 346 Orelli, Nilo impiega l’espressione rotag ... molus invece di riwväc ... tvàg:

secondo il Leopardi

sarebbe un « italianismo », un’espressione un po’ imprecisa per indicare quello che il Leopardi dice molte altre volte, e cioè che l’italiano ha molte caratteristiche in comune con il greco, caratteristiche derivate verisimilmente attraverso il latino tardo. In questo caso, secondo il Leopardi, l’uso di rotag ... rotag equivarrebbe a quello dell’italiano quali... quali, ma è assai dubbio che si possa stabilire siffatto accostamento." In un altro passo di Nilo, citato da Giovanni Damasceno, Sacra Parallela II, 419 Lequien, il Leopardi osserva (ibid.) l’impiego del diminutivo capxiov per odpxa e lo riconnette all’uso, tipico della filosofia stoica, di cwudriov per cœua (cioè ‘il nostro povero corpicciolo ’, detto con il disprezzo intellettualistico dello stoico nei confronti della materia, o dell’asceta cristiano nei confronti del corpo, fomite del peccato); questo parallelo, che riguarda due culture totalmente differenti, è, comunque,

possibile, dato

l’influsso della filosofia stoica e cinica sul pensiero cristiano di carattere popolare; certo avrebbe dovuto essere meglio illustrato. A un interesse essenzialmente letterario (qualunque possa essere il giudizio che se ne può formulare sul piano artistico) è ispirato anche il volgarizzamento che ha per titolo: Martirio de’ Santi Padri del Monte Sinai e dell’eremo di Raitu composto da Ammonio Monaco. Volgarizzamento fatto nel buon secolo della nostra lingua non mai stampato. Si tratta di una traduzione, come il Leopardi stesso dichiara preliminarmente, da un’operetta greca, contenuta nel volume miscellaneo Illustrium Christi 15 Probabilmente questi esempi sono stati ricavati semplicemente dal lessico del Forcellini, invece che da una lettura diretta di Tertulliano. - Gerth; 16 Un tale significato non è ipotizzato dalle grammatiche scientifiche (Kühner Schwyzer).

lo

martyrum lecti Triumphi vetustis Graecorum monumentis consignati, edito

dal Combefis a Parigi nel 1660. È falso, invece, che si tratti di un volgarizzamento trecentesco, che il Leopardi avrebbe « tratto ... da un codice a penna in cartapecora, che si conserva nel monastero di Farfa ... di molto buona lettera, contenente, oltre a questa, parecchie altre leggende di Santi in lingua toscana, tutte divulgate, ma che in molte parti, se io non m'inganno, si potrebbero col riscontro del detto codice ridurre a miglior lettura che la stampata ». Si tratta di una traduzione, cominciata a Recanati il 29 ottobre 1822 e finita a Roma il 1 dicembre (come ricavo dalle note

dell’edizione del Flora, II, p. 1125) e pubblicata poi a Milano dallo Stella nel 1826. Lo stile è una bella ricostruzione dello stile dei trecentisti, che il Leopardi, come osserva più volte nello Zibaldone, considerava partico-

larmente adatto per la letteratura religiosa, probabilmente per la sua spontaneità e la mancanza di elaborazione letteraria che egli vedeva nell’italiano di quell’epoca, se paragonato al sommo stile italiano degli scrittori cinquecenteschi. Siamo, come si vede, ancora nell’ambito degli interessi letterari, e non contenutistici.

5. Quando il Leopardi compone il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, gli scritti patristici sono lontani ormai di quindici anni. Eppure è possibile, forse, ricollegare l’altissima lirica leopardiana ai Fragmenta Patrum Graecorum, a un passo di Clemente Alessandrino ivi citato per esteso. Ma andiamo per ordine. Nel Canto notturno si legge: « nasce l’uomo a fatica / ed è rischio di morte il nascimento ... ». I commentatori

moderni

citano, a rincalzo di

queste parole della lirica, un passo dello Zibaldone (pp. 68-69), o due passi al massimo (mi riferisco al commento di Fubini e Bigi, i quali citano, ol-

tre a quello di pp. 68-69, anche un passo di p. 2607). Ecco le due citazioni che ci interessano: Il nascere istesso dell’uomo ricolo della vita, come apparisce cagione di morte, non reggendo nel nascere. E nota ch’io credo molto minor numero

cioè il cominciamento della sua vita, èx un pedal gran numero di coloro per cui la nascita è al travaglio e ai disagi che il bambino prova che esaminando si troverà che fra le bestie un

proporzionatamente

perisce in questo pericolo, colpa pro-

babilmente della natura umana guasta e indebolita dall’incivilimento (pp. 68-69). Così tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocché i dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per essere più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene

che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, 116

emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perché dunque nasce l’uomo? e perché genera? per poi racconsolar quelli ch’ha generati del medesimo essere stati generati? (13 agosto 1822).

Le corrispondenze tra questo passo dello Zibaldone e il seguito del Canto notturno sono, soprattutto per quest’ultima parte del brano in prosa, veramente stringenti. Non diciamo niente di nuovo, se le sottolineiamo (già il riscontro si legge, come si è detto, nella edizione commentata di Fubini e Bigi). Si legge, dunque: « prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato. / Poi che crescendo viene, / l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi fargli core, / e consolarlo dell’umano stato: / altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole. / Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? ». Questi versi del Canzo notturno non sono altro, quindi, che la forma

lirica di una meditazione filosofica sulla vita umana, svoltasi in un pensiero dello Zibaldone; eppure, è lecito fare un altro passo a ritroso nel tempo, e rintracciare nei Fragmenta Patrum Graecorum (I, 80-81 = p. 137 della nostra edizione) una citazione che Niceta fece da Clemente Alessan-

drino, nella sua Catena in Iob, I, 21: ...Recte igitur infans caput e matris utero proferens, statim non risu, sed questibus incipit; flebili enim voce vitam quodammodo luget, a qua in exordio ipso lethalia munera accipit degustanda. Reapse ut in lucem prodiit, fasciis manus, pedesque devincitur; adligatusque vinculis ubere fruitur. O vitae primordium, prodromum interitus! Nuper infans est vitam ingressus, jamque mortuorum ad eum indumenta feruntur: natura enim eos, qui nascuntur, finis meminisse curat. Ideo natus puerulus queritur, velut ad matrem fletibus ejulantibus lamentatus; quid me in hanc vitam peperisti, mater, in qua vivendi quoque productio, progressio est ad interitum? quid me in tumultuosum saeculum introduxisti, cujus nato mihi primordia sunt fasciae? Quid me huic vitae dedisti, in qua ante senectutem malis teritur miseranda juventus, atque ut exitiosa fugienda senectus? Formidabile, o mater, est hujus vitae stadium, in quo meta currentium est obitus. Acerbum iter vitae facimus, ubi sepulcrum est diversorium; perniciosum vitae pelagus navigamus, quod piratam imminentem habet infernum. Solus inter omnes nudus nascitur homo, non arma ferens, non simul cum ipso natum indumentum; idque non quod caeteris animantibus inferior sit, sed ut nuditas, et ni [I 81] hil in mundum

se contulisse consideratio, curam

illi

pariat, cura autem sapientem hominem reddat, otium expellat, per inopiam artes inducat, artificiorum generet varietates. Qui enim nudus est, veluti stimulo, egestate compulsus, multa studet, ut imbres effugiat, frigus prudenter eludat, ictibus munimen opponat, terram colat, feras terreat, potentiora submittat. Madefactus, tectum extruxit, rigens indumenta excogitavit, vulneratus thoracem composuit, nudas manus sentibus in agricolatione cruentatus ipse sibi instru-

117

mentorum adjumenta paravit, cum nudus esca feris esset, ex metu venit, qua territantes exterruit ...

6.

artem in-

Sui suoi giovanili trattati patristici il Leopardi tornerà negli ultimi

anni della sua vita, come è noto. Scrivendo al De Sinner il 21 febbraio

1832 (lettera n. 1679 Moroncini), il Leopardi così diceva: Non ostante i lavori di Routh sopra i Frammenti degli antichi Padri e di Giulio Africano !” io credo che un parallelo fra i miei manoscritti sacri e le Religuiae non sarebbe senza qualche frutto. Per esempio, mi ricordo di un frammento di Giustino martire (ch’io credo però apocrifo) da me trovato in Teodoro Studita, il quale manca in tutte le edizioni di Giustino, e che sarei curioso di sapere se sia stato osservato da Routh.

Come si è osservato altrove, il frammento x

manca ancora nelle edi-

zioni più recenti di Giustino, e questo potrebbe essere considerato un pregevole contributo arrecato dal Leopardi agli studi sull’apologeta greco. In quel torno di tempo il de Sinner si stava interessando per una pubblicazione degli scritti filologici leopardiani del periodo giovanile, o almeno di una parte di essi, e così si era presentata al Leopardi l’occasione per riconsiderare quelle sue opere che quindici anni prima egli aveva condannato come « da bruciare senz’altro »: in vista di una pubblicazione, a parecchi anni dalla composizione dell’opera e in un periodo meno critico della sua evoluzione intellettuale, il Leopardi è in grado di giudicare con maggiore equilibrio quanto aveva prodotto in anni a lui così lontani per interessi e per convinzioni. Pochi mesi più tardi, infatti (da Firenze, il

21 giugno 1832:

n. 1725 Moroncini), dirà, sempre al De Sinner:

io temo che il Sig. Thilo ! si troverà deluso nella sua aspettativa circa i Fragmenta patrum et historicorum ecclesiasticorum. Credo che qualche supplemento all’opera di Routh se ne potrà cavare; ma in generale egli vi troverà una quantità di imperfezioni e di mancanze da una parte, provenienti dallo stato incompleto della libreria di mio padre, e dalla mia troppo giovane età di 16 in 17 anni; e dall’altra parte troppo poca novità relativamente alla mole del lavoro. Vi prego di comunicare al Sig. Thilo questo mio parere ...

È, forse, questo il miglior giudizio che possiamo dare anche noi, dopo aver letto l’opera, sulla attività patristica di Giacomo Leopardi. CLAUDIO

MORESCHINI

17 Trattasi delle Reliquiae Sacrae, pubblicate a Oxford nel 1814-1818. 18 Cfr. p. 486 della nostra edizione. 19 Sui contatti intercorsi tra il Leopardi, il de Sinner e il Thilo, vedi S. TIMPANARO, op. CUS

118

ORSI?

Leopardi e Lucrezio

Par quasi doveroso, a chi voglia prendere in esame il rapporto Lucrezio-Leopardi, fissare come punto di partenza, a modo di epigrafi, due passi carducciani, entrambi del 1898; il primo contenuto nell’ampio saggio Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi; il secondo a chiusa della prefazione allo Zibaldone primamente edito da Le Monnier sotto l’egida carducciana e col titolo poco leopardiano di Pensieri di varia filosofa e di bella letteratura;

entrambi

caratteristici della tendenza

di

Carducci ai trapassi e agli accostamenti rapidi, d’immaginoso rilievo e viva suggestione, spesso introdotti nel paziente tessuto del discorso storicoerudito. [...] li ultimi tre canti [della poesia lirica leopardiana], tutti d’un colore,

tutti d’un sentimento, tutti d’un metro vanno salendo di grado in grado alla Ginestra, che io finisco a credere la capitale opera di Giacomo. E non tanto per la poesia, che a certi tratti ha la matematica esattezza e la profonda intuizione di Dante e nell’insieme la dolce austerità e la serenità mesta e la vasta comprensione di Lucrezio, ma per il pensiero; al quale egli parlando un linguaggio più ardito e determinato che finora non fece, impone il vero e ultimo suggello della sua personalità. Quanto dolore in quegli occhi faticosi! quanta forza nella eccelsa fronte! quanta mansuetudine e mitezza nel gracile viso! È lui quale lo amiamo e veneriamo da quaranta e più anni: lui, più che cantor di Consalvo, il Job insieme e il Lucrezio del pensiero italiano?

Riferimento ai valori di pensiero che pur coinvolge e sottolinea caratteri di poesia, nel processo di una valutazione critica, nel primo caso; nel secondo caso, riferimento alla personalità e all’intelletto in connessione con l’immagine, come suggeriva il ritratto che di Leopardi aveva modellato Giulio Monteverde e come chiedeva la struttura oratoria, la perorazione del proemio. Ma se l’accostamento al personaggio biblico, a parte 1 G. Carpuccr, Opere, XVI, p. 353. Si cita dalla prima edizione delle Opere in 20 volumi.

2 Ip., Opere, XI, p. 42.

119

taluni particolari o generici rinvii al Libro di Giobbe, trova un solo esteso riscontro in una lezione settembriniana il nome ripetutamente pronunciato del poeta latino non doveva suonare insolito: pronunciato dalla massima autorità delle lettere italiane del tempo, rispondeva a una vera e propria congiuntura lucreziana nel nostro Paese. Lucrezio invero, con tutto ciò che il suo poema significava, o più o meno arbitrariamente era chiamato a significare, tra razionalismo e sensismo, tra materialismo e meccanicismo e determinismo biologico, conosceva, nell’ultimo trentennio dell'Ottocento, la sua più fortunata stagione dopo quella galileiano-gassendiana del Seicento: la alimentavano, ora separati ora commisti, un positivismo che incorporava con qualche equivoco e qualche ingenuità concetti evoluzionistico-darwiniani, un socialismo in espansione che pareva derivare dal mondo letterario atteggiamenti e accenti scapigliati, un anticlericalismo rinfocolatosi e allargatosi con e dopo Porta Pia fino a identificarsi con larga parte dell’Italia ufficiale; ma anche certi filoni di cultura tardo-romantica, tra naturalismo e spiritualismo laico con screziature positivistiche. Senza meraviglia, dunque, i più fertili studi sul mito e sul patrimonio letterario di Roma antica nella moderna cultura italiana * hanno riconosciuto nell’arduo autore del De rerum natura il solo poeta latino circondato, in quel torno di anni, da attenzioni e cure: dalla monografia (1870) dell’irrequieto Gaetano Trezza, « ribelle [...] per non rompere fede alle leggi eterne della natura e della storia » alla vigorosa versione (1880) di Mario Rapisardi, alla strenua fatica editoriale (1896-

1898) di Carlo Giussani. Né meraviglia che, al di là degli onesti e angusti lavori comparatistico-fontistici, dal vivaio carducciano-pascoliano sia uscito ai primi del nuovo secolo (1911), se pur esente da precise implicazioni politiche e religiose e semmai intriso di uno spiritualismo, tra etico ed estetico, forse più grafiano che pascoliano, un libro che è riassetto e sviluppo di una tesi di laurea discussa tre anni prima, nello Studio bolognese, col Pascoli: autore, un giovane ferrarese, tanto fine e appassionato quanto raccolto e schivo, laureatosi in filosofia a Pisa, prima che in lettere a Bo-

logna, con un lavoro sulla Deontologia di Bentham, Spartaco Borra; titolo, Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi (ma, più breve e tanto

più incisivo, Lucrezio in Leopardi era il titolo usato dal compiaciuto maestro).

3 Cfr. L. SETTEMBRINI, Torino 1927, p. 333.

Lezioni di letteratura italiana, introd. e note di V. Piccoli, III,

4 Cfr. P. Treves, L'idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli 1962 pp. 215-216.

5 Le parole del Trezza sono riportate da B. Croce, La letteratura della nuova Bari 19434, p. 397.

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Italia, I,

Questo libro chiaro e generoso, talora commosso ed alato fin quasi alla ridondanza, parte dalla definizione carducciana della premessa ai Pensieri,

ma vuole e riesce complessivamente ad aderire a un giudizio che l’autore ha incontrato nelle pagine del Giussani:

La epicurea comedia della natura quasi diventa in Lucrezio una tragedia. Egli che canta il meno pessimista fra tutti gli antichi sistemi filosofici, ben di rado sorride; quasi sempre austero, spesso iroso, ci ricorda talora il pessimismo leopardiano. Ma si avverta bene: è questione di temperamento, non di dottrina.‘

E fa questione di temperamento, non di dottrina, il Borra, su questo piano avvicinando o credendo di poter avvicinare tra loro Lucrezio e Leopardi: in verità non peritandosi di entrare, col suo entusiasmo candido che talora soverchia la prudenza metodica, nella categoria delle convergenze di stati d’animo provenienti dai contrasti interiori (e invertiti nei

due poeti) di ragione e sentimento, convergenze implicitamente e troppo facilmente percepite e individuate nelle parole poetiche; di entrare nella categoria dei parallelismi psicologici pure rischiosamente allargati in senso storico-ambientale, come appare da questo luogo che resta punto di riferimento in superficie dell’Introduzione: Il momento storico al quale appartengono [i due poeti] è come avvolto da una luce crepuscolare: un tramonto purpureo e un’alba grigia. Lasciando le imagini per ricorrere a espressioni più chiare e brevi per quanto non belle, tanto Lucrezio che Leopardi vivono in un periodo di crisi, il quale è ancora per Lucrezio nella sua prima fase distruttiva, è invece nella sua ultima risolutiva per Leopardi; l’una segna il principio della decadenza romana pur tra le magnificenze e le pompe nuovamente introdotte in Roma, l’altra lascia intravedere per le brume informi i primi e lontani albori del Risorgimento italiano.” 6 C. Grussani, Studi lucreziani, Torino 1896, p. XXIII. 7 S. Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi, seconda ed., Bologna 1934, p. 6. Tra i vecchi lavori che toccano il nostro argomento si vuol ricordare, per i suoi spatsi accenni, la copiosa silloge di M. Losacco, Indagini leopardiane, Lanciano 1937 (una diecina di studi composti in un quarantennio, i più considerevoli dei quali, Contributo alla storia del pessimismo leopardiano e Per gli antecedenti della « Ginestra», son datati 1896). Inoltre, come precedente del Borra e come curiosità bibliografica, G. CARGNELLI, Giacomo Leopardi novello Epicuro, con lettera del dott. D. Grasso, Palermo 1901: dove la lettera del Grasso, che stabilisce una serie di paralleli lucreziano-leopardiani in fatto di natura e di materia, nella sua molto discutibile sostanza critica si spinge ben al di là dei confini epistolari e risulta più interessante dello scialbo e manchevole libro del Cargnelli che le fa seguito. D’altra parte poco più di una curiosità bibliografica appare oggi il posteriore e ai suoi tempi fin troppo discusso R. Dust, L'amore leopardiano, con prefaz. di V. Cian, Bologna 1931: delle cui intemperanze e storture ha già fatto giustizia (facendo insieme giustizia dell’ignorato e parimenti fantasticante Cargnelli) il FuBINI con la recensione Giacomo Leopardi tra Elvezio ed Epicuro, « Leonardo », III, 11, 1932, pp. 481-487. Devo il reperimento del rarissimo volume Cargnelli-Grasso alla gentilezza di Anna Dolfi. Con ben diverso impianto metodico e diverso significato stilistico-poetico, certo a sua

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Nello svilupparsi della critica leopardiana, dopo il libro del Borra e fino ai nostri giorni, dalle vivaci appropriazioni classicistico-novecentiste e dalle ricche letture stilistico-formalistiche di primo dopoguerra alle recenti organiche operazioni ricostruttive di una storia poetica e umana, non

senza particolari implicazioni e prospettive di ordine politico-sociale, alle recentissime indagini fruttuosamente impegnate in un’analisi formale dei testi poetici mai disgiunta da una più acuita intelligenza dei significati, non mancano i ricorsi a Lucrezio, sporadici tuttavia e fugaci, e dove il nome del poeta latino pare per lo più assunto lontano dal Lucrezio « storico »: come metafora, come sigla o filtro definitorio di un aspetto o di un momento della poesia, della poetica e dell’umanità di Leopardi. Può esserne esempio, in un contesto di vivacità ed efficacia corsiva, questo spunto di recensione odierna: Il materialismo di Leopardi è la fisiologia del moralista, studioso dell’etologia umana, disilluso per professione. Ma, e qui scintilla il genio lucreziano, è anche la poetica dello scrittore, la fonte dell’ispirazione litica: perché quando la materia « pensa e sente» può avvenire la danza dei contrari, la materia stessa si sublima nella poesia del vero. Il materialismo di Leopardi è, per così dire, il repertorio fattuale della sua creatività mitico-letteraria, ecco perché pare perfino un’indiscrezione parlare della sua « filosofia ».3

Ed altro esempio può venire dalla densa e lucida ricerca di Luigi Blasucci, il quale nella poesia leopardiana distingue una fase « che si potrebbe chiamare “ simonidea ” [...], occupata soprattutto dalla meditazione sulla vicenda dell’uomo che dopo un’effimera fiammata (infanzia, prima gioventù) incomincia a invecchiare, colla caduta di tutte le illusioni e colla

prospettiva tetra della morte e di una tomba ignuda » (poesie del ’28-’30), ed una successiva (ma in una cronologia alquanto sfumata e frastagliata) che «si potrebbe chiamare “ lucreziana ” [...], caratterizzata essenzialmente dalla considerazione della fragilità del vivente rispetto alla minaccia delle forze esterne (malattie, cataclismi ecc.) » (poesie « napoletane » culminanti nella Girestra): e insiste sull’« orrore lucreziano della Ginestra»? Più evidente la determinazione storica del richiamo, anch’esso ri-

ferito all'ultimo Leopardi e al momento della Ginestra, di Walter Binni: sia nel suo alludere a un possibile ruolo attivo, e quindi storicamente ogvolta discutibile, si segnala infine il discorso sulla triade Lucrezio-Dante-Leopardi proposta da J. v. ScHLossER: cfr. Xenia. Saggi sulla storia dello stile e del linguaggio nell'arte figurativa tradotti da G. Federici Ajroldi, Bari 1938, pp. 70-75.

8 A. GIULIANI, Sorella Luna, io t'ho avvisato ... [sulla edizione delle Operette a cura di O. Besomi], « La Repubblica », 12 aprile 1980.

9 L. BLasucci, La posizione ideologica delle « Operette morali », in AA. VV. Critica e 1970, pp. 660 e 661, nota 40.

storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, I, Padova

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gettivo, di Lucrezio nella meditazione e creazione leopardiana (« Tutto il canto V del De rerum natura, con la poesia dell’ “ immenso spazio ”, del “ voto infinito ”, dové esser presente al Leopardi » ‘°), sia nel suo saldarsi alla tradizione letteraria italiana col chiamare in causa Alessandro Marchetti, il volgarizzatore in pastosi endecasillabi sciolti del De rerum natura nel secondo Seicento toscano e con risonanza in tutta Italia. Traduttore prestigioso e famoso, il Marchetti, dal Sei all’Ottocento,

nella storia e fortuna delle forme poetiche come nelle tormentate vicende del pensiero scientifico:!! ignorato però dagli studiosi di Leopardi, con questa eccezione del Binni che lungo l’itinerario leopardiano lo coglie all’altezza della Ginestra e nel settecentesco rilancio, promosso dalla sua traduzione, di «una lata base lucreziana, materialistica ed atea »; ! difficil-

mente ignorato da Leopardi, anzitutto nella sua dimensione letteraria, in quel classicismo di maturo Seicento e prima Arcadia, e con eredità accortamente coltivata del Cinquecento manieristico e dell’ultimo Tasso, che in giovinezza e particolarmente tra il 1818 e il ’19 il nostro poeta, tesaurizzando e vagliando il patrimonio letterario italiano insieme con alcuni settori di quelli greco-latini e nella complessa elaborazione di una propria poetica e poesia di ardito e nuovo classicismo, doveva avvicinare con l’attenzione che riservava a un Chiabrera e ancor più a un Testi,” e che l’avrebbe portato, se non a includere una diecina d’anni dopo il Marchetti nella Crestomazia poetica, ad annotare il suo nome intorno al ’19 al termine dell’abbozzo dell’idillio romanzesco Erminia con altri nomi di poeti antichi

e moderni e con titoli di opere, da Teocrito all’Azzinta, dalle tra-

gedie greche ad alcune tragedie alfieriane e alla Merope di Maffei, da Annibal Caro a Cornelio Bentivoglio, da Alamanni a Rucellai e al Baldi della Nautica.* Nucleo di testi da considerare con interesse, di letture ultimate, avviate o progettate (alcune forse, e pensiamo soprattutto alle tragedie greche, mai o in piccola parte compiute): ricco probabilmente di rapporti con la composizione dell’Erzzizia (ma anche della successiva Telesilla), certo significativo in questa fase del maturarsi poetico di Leopardi tra 10 W. BinnI, Leopardi e la poesia del secondo Settecento [1962], in La protesta di Leo1973, p. 232, nota 2. 11 Mi sia consentito rimandare al mio Lucrezio in Toscana. Studio su Alessandro Marchetti, Firenze 1966. 12 W. BINNI, op. cit., p. 232. 13 Cfr. M. Scotti, Leopardi e il Seicento, in AA. VV., Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento. Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976), Firenze 1978, pp. 339-385. 14 Cfr. Poesie e prose, I, p. 387. Cito dall’edizione di Le poesie e le prose, a cura di F. Flora, 2 voll., Milano 1940. Le altre citazioni di testi leopardiani si riferiscono con Z5b. pardi, Firenze

a Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2 voll, Milano 1937-1938 (e con numerazione che rimanda alle pp. dell’autografo); con Lettere a Le lettere, a cura di F. Flora, Milano 1949.

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prime canzoni e primi idilli. L’elenco di fatto par disegnare, fluida e slabbrata, una fascia di classicismo eloquente, ora teso ora effuso, con ampie

zone idillico-elegiache e patetiche, con escursioni nel favoloso e nel romanzesco; e dove in particolare il volgarizzamento marchettiano si colloca a suo agio tra poesia drammatico-narrativa e didascalico-descrittiva, proponendo la sua lezione letteraria e insieme un tramite sia pur labile e infedele alla conoscenza di Lucrezio, già molto parzialmente e forse solo di seconda mano saggiato nel testo latino, quattro o cinque anni prima, dal giovanissimo autore del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi® Ma dobbiamo infine ribadire che, al di là delle analogie tematico-sentimentali e delle caratterizzazioni metaforiche, del resto facilmente intercambiabili (così il Bignone, nel corso dei suoi poderosi lavori storici sulle

letterature e filosofie classiche, parla di « pessimismo leopardiano di Lucrezio »,! di visione lucreziana « troppo vasta ed intensa, perché il cuore non se ne senta a tratti quasi leopardianamente spaurito »,” e via dicendo), rapporti concreti tra Leopardi e Lucrezio, testimoniati da un evidente complesso di prelievi testuali o di tracce mnemoniche o di citazioni e commenti di valore non episodico e non esterno, non vengono registrati dalla critica contemporanea più attenta e precisa; al punto che gli studiosi del pensiero leopardiano, gli esperti della filologia leopardiana non esitano 15 Tre sono i testi del volgarizzamento marchettiano compresi nella biblioteca Leopardi (Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati, « Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province delle Marche », IV, 1899), un manoscritto e due stampe (Cor le osservazioni di Domenico Lazzarini, Londra 1765, tomi 2; Nel Parnasso, Venezia 1797, tomi 2, con la dicitura « proibito »). E tre sono le stampe del testo latino: Opera cum commentariis Joannis Baptistae Pii, Bononiae 1511; Libri VI a Dion. Lambino Monstroliensi ex auctoritate quinque codicum emendati cum commentariis etc. Apud Wecselium. Francofurti 1583; Ap. Ian Ianssonium. Amstelodami 1626. L’ipotetico ma molto probabile collegamento Leopardi-Marchetti-Lucrezio chiama alla mente un altro suggestivo e assai più dubbio collegamento, additato, con una finezza di esempi che diviene capziosa sottigliezza, da Pascoli nel pascolianamente morbido discorso del 1896 Il sabato: Leopardi-Lucrezio-Polignac autore dell’Anti-Lucretius. « Ma possiamo noi esser certi che il Leopardi conoscesse quel poema? Certo egli l’aveva nella biblioteca; e si può supporre facilmente che egli ammiratore di Lucrezio (che negli Errori popolari è citato spessissimo) dovesse sin da fanciullo, quando la mente è di cera, leggere l’Anti-Lucrezio. Il padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il contraveleno. Così questo, si può dire, lasciò nella sua anima più tracce di quello » (G. PASscOLI, Prose, con una premessa di A. Vicinelli, I, Milano 19563, p. 80). La biblioteca Leopardi contiene entrambe le versioni italiane del poema latino scritto in Francia dal cardinale Melchior de Polignac tra Sei e Settecento, incompiuto e uscito postumo nel 1742, l’anno della morte dell’autore: Awfi-Lucrezio, tradotto in verso sciolto italiano dal P. Francesco Maria Ricci, col testo a fronte, Verona 1767, tomi 3; Anti-Lucrezio, tradotto da Giampietro Bergamini in verso sciolto italiano, Verona 1752, tomi 2. £: E. BIGNONE, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, II, Firenze, Da ediz. accresciuta 1973, pp. 379-381 (appendice: Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro [1939]). 17 In., Storia della letteratura latina, II, Firenze 1945, pp. 188-189.

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a mettere in dubbio una conoscenza vera, cioè diretta e compiuta, di Lu-

crezio da parte di Leopardi. Basti ricordare quanto scrive Sebastiano Timpanaro, dopo aver osservato, in un Leopardi tutto nutrito di materialismo e sensismo e « filosofia epicurea settecentesca », scarsa « esigenza di risalire direttamente a Epicuro e a Lucrezio »: Nel caso di Lucrezio, all’interesse ideologico si sarebbe dovuta aggiungere una consonanza sentimentale e poetica: non possiamo leggere la Ginestra senza pensare al De rerum natura; non possiamo non ricordare che tra i più aspri negatori di ogni Provvidenza e accusatori della Natura c’è appunto Lucrezio (requaquam nobis divinitus esse paratam | naturam rerum: tanta stat praedita culpa!). Il tema « Lucrezio e Leopardi » fu svolto con appassionata enfasi da

Spartaco Borra. Ma altro è l’affinità spirituale, altro la lettura e la derivazione diretta: le citazioni da Lucrezio spesseggiano nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (dove è molto difticile individuare le poche citazioni di prima mano), poi cessano praticamente del tutto:

i riferimenti a Lucrezio nello Zi-

baldone consistono in notazioni lessicali attinte al Forcellini, o in menzioni troppo generiche per dimostrare una lettura diretta. Se negli ultimi anni, quando non annotava più niente nello Zibaldone e aveva cessato di elencare le proprie letture, il Leopardi abbia letto Lucrezio, è impossibile stabilire.!*

18 S. Timpanaro, Il Leopardi e i filosofi antichi, in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1965, pp. 222-223 (ma nelle Postille e aggiunte bibliografiche della 2° ediz. accresciuta 1969, a p. 419 leggiamo: «Che, almeno negli ultimi anni, il Leopardi abbia letto o riletto Lucrezio è molto probabile: certo i versi 111-114 della Girestra (‘ Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato ’) presentano, come già da tempo è stato osservato, una somiglianza che non può essere fortuita con Lucrezio I 66 sg. (primus Graius bomo mortalis tollere contra | est oculos ausus)»). Nella nota 86 di p. 223 (cui pure si riferisce la postilla del 1969) lo studioso ricorda poi di avere respinto (« Gnomon », 1960, p. 583) una presunta reminiscenza lucreziana (II, 148) nel v. 21 dell’Appressamento della morte, indicata da H.L. ScHeeL (Leopardi und die Antike. Die Jabre der Vorbereitung (1809-1818) in ibren Bedeutung für das Gesamtwerk, München 1959, pp. 147-148), e registra una nota dello Zibaldone, aggiunta in un secondo tempo a p. 4037, con esempio di Lucrezio (II, 9) non attinto dal Forcellini, e un appunto del 30 marzo 1830 in un elenco di dieci opere nelle carte napoletane (X, 12, 22: «Lucrezio, dove parla dello stabilimento della società, libro 5»), così concludendo in merito al problema della lettura diretta: «[...] sebbene i pochi indizi da noi enumerati accennino a una certa probabilità, rimane abbastanza forte l'argomento in contrario: se il Leopardi avesse letto un poeta-filosofo a lui così profondamente congeniale, come mai non ne sarebbe rimasta traccia in lunghi ed espliciti appunti e in precise allusioni? ». Lo riecheggia, e cita l’appunto delle carte napoletane, G. PACELLA, Elenchi di letture leopardiane, « Giornale storico della letteratura italiana », CXLIII, 1966, p. 557: «Siamo convinti [...] che la lettura diretta, per esempio, di Lucrezio [...], autore tanto congeniale al Leopardi, avrebbe lasciato nelle sue opere tracce e segni più profondi ». Si consideri anche, ora a proposito di un cospicuo particolare nell’ordine del pensiero, che al Maurer, il quale fa procedere la distinzione in Aspasia tra l’« amorosa idea » e la donna empirica dal concetto lucreziano dei simulacra (De rer. nat., IV), lo Spitzer risponde nettamente che quella distinzione «è platonica e non ha niente a che fare coi simulacra di Lucrezio », ove la genesi dell'amore viene descritto materialisticamente, come azione diretta dei simulacra sui sensi dell’uomo (L. SPITZER, L’« Aspasia » di Leopardi [1963], in Studi italiani,

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Avvicinandoci ora ai testi leopardiani, non possiamo non riconoscere. subito, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, la mancanza di continuità, di compattezza, e quindi la quasi completa occasionalità e casualità delle diciassette citazioni da Lucrezio nel tessuto ragionativo, dimostrativo, asseverativo, polemico di questa giovanile opera tenuta a battesimo dalla fede cattolica e dalla cultura illuministica e già di per sé oscillante tra idea-sentimento dell’antichità come fanciullezza del mondo e razionale-fideistico impegno al bando dell’errore e al trionfo del vero, non senza il dubbio « che gli uomini sempre curiosi, sempre inquieti, sempre avidi di scoperte, dopo avere immaginate, adottate e rigettate successivamente opinioni e sistemi, tornino ad abbracciare ciò che aveano rifiutato, e a calcare, senza avvedersene, le pedate impresse dai loro maggiori »,°

in un ciclico ritorno degli errori connaturati con l’essere dell’uomo e nella conseguente disgregazione della settecentesca idea d’illimitato progresso dell’umanità. Una sorte, questa delle citazioni lucreziane così disarticolate e variamente usate e presentate, pressoché comune, del resto, alle tante citazioni, dagli autori più illustri ai più rari dell’antichità, dai profeti della Bibbia ai « gentili » e ai Padri della Chiesa, che fan ressa e compongono gremiti mosaici in ogni pagina del Saggio: dove le voci delle diverse e contrastanti scuole e dottrine, dalle spiritualistiche alle materialistiche, le espressioni a cura di C. Scarpati, Milano 1976, pp. 288-289. Il riferimento è a K. MAURER, Giacomo Leopardis « Canti » und die Auflosung der lyrischen Genera, Frankfurt am Main 1957, p. 236). Né occorrerà qui allargare il discorso alla questione (e agli studi e ai commenti che la riguardano) della compresenza e sovrapposizione di elementi platonici e giudaico-cristiani nell’opera poetica (e in contesti ideologici fondamentalmente antitetici alle dottrine platoniche e cristiane) di Leopardi: un complesso rilevante in Aspasia (si veda almeno C. GALIMBERTI, Novo ciel, nova terra, in AA. VV., Studi in onore di Alberto Chiari, I, Brescia 1973, pp. 537-547), dove è trattato con agio di modi e accenti petrarcheschi, foscoliani, guidiani fusi in fantasia leopardiana, in un organismo poetico di complessiva stilizzazione anticheggiante e di forte tensione intellettuale. È ben vero che in un recentissimo studio Franco Brioschi dissente dallo Spitzer, respingendolo alla « tradizione interpretativa » di Aspasia, e si allinea col Maurer, dichiarando che il raffronto istituito da quest’ultimo «è, almeno intuitivamente, esatto », e che la teoria leopardiana, non platonica bensì sensistica, « presenta singolari analogie con la teoria stendhaliana della ‘cristallizzazione’ nonché, più in generale, con le analisi degli idéologues » (F. BrioscHI, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano 1980, p. 196). Osserviamo peraltro lo Spitzer intento a comprendere la poesia nella sua struttura, e nella sua compiutezza estetica, così diversamente dai molti interpreti italiani di formazione romantico-idealistica, e non avvertiamo la lettura spitzeriana compromessa da ciò che il Brioschi definisce « un presunto contrasto tra materialismo e platonismo » (ed è l’ovvio e indiscutibile dualismo ideologico-strutturale del componimento), né ci pare che il sensismo settecentesco sia tale da vietare e sostituire le tracce di un platonismo, qui con possibili implicazioni pitagoriche. Mentre resta assai incerta quella particolare derivazione lucreziana con tanta sicurezza indicata dal Maurer. 1? Poesie e prose, II, p. 332.

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delle diverse idee e ipotesi, interpretazioni e credenze, coltivate e trasmesse dai sapienti al popolo e viceversa, spiccano anzitutto nel loro prestarsi all’intelaiatura di una prosa serrata e insieme animata, ora pugnace

ed ora ironica e insieme divertita, con impennate inventive e momenti assorti, con similitudine e metafore miste a lapidarie definizioni e sentenze;

nel loro trovar posto in un immenso repertorio di figure e visioni, di chimere e mostri, di astri umanizzati e pensanti, di congegni e fabbriche assurde, tra quadri di natura riposata o tempestosa e lacerti di favola (le vaghe fantasie, i dilettosi errori, si è detto e si dirà; e non del tutto a torto,

quando, naturalmente, si eviti di dare eccessivo credito ai rapimenti fansorti, con similitudini e metafore miste a lapidarie definizioni e sentenze;

doli al tessuto riflessivo, al gelo ironico, agli svaghi immaginosi e umorosi dell’intelligenza, ai trasalimenti e turbamenti del pensiero). Non compare, Lucrezio, nei capi II (Degli Dei) e III (Degli oracoli),

dove, convenientemente ritagliato, poteva essere rivolto a pro della polemica leopardiana contro la superstizione e l’idolatria e i riti del paganesimo, mentre vi compare Virgilio con una per noi imprecisa citazione di Aen., XII, 817 (« Vana superstitio superis quae reddita divis! »), e proprio a siglare il capo II. È invece Lucrezio che fornisce la clausola finale al capo IV (Della magia) con un verso tanto vibrato quanto famoso (De rer. nat., II, 14: « O miseras hominum mentes, o pectora caeca! »), prototipo

dei tanti esempi di deprecazione e commiserazione dell’umana debolezza espressi dalla nostra tradizione poetica, e qui voce di conferma e quasi versione rovesciata dell’ultima frase del giovane scrittore nato in un’età di lumi e armato dalla cultura di quell’età e però, di fronte alla magia che « anche al presente gode del suo credito presso il volgo », già dubitoso della sicura e completa affermazione di quei lumi, già pensoso intorno alla fragilità dell’uomo in ogni momento della sua storia: « Quali follie! e dopo tanti secoli tuttora trionfanti della ragione e del buon senso! ».” Ancora incontriamo Lucrezio nel capo VIII (Dei terrori notturni) col passo (De rer. nat., IV, 577-594) sulle Ninfe e sui Fauni e sui capripedi Satiri e su Pan dal capo ferino e dalla pastorale fistula, di cui favoleggiano, non spaventate ma lusingate, le genti della campagna quando ascoltano voci giocose, dolci concenti (e sono soltanto echi e naturali rifrazioni sonore) che nottetempo vengono da selve o terre incolte; passo lungo e pur velocemente giocato da Leopardi, che se ne giova e insieme, lievemente cari candone e deviandone il senso, vuol sorriderne, nella trattazione demoli20 Ivi, pp. 256-257. I versi di Lucrezio sono sempre riportati con la grafia e la puntegtestuali, a parte quelli interni ad altre citazioni, si tiene presente l’edizione di A. Ernout (Paris 1920; dixième édition revue et corrigée 1959), di cui pure si adotta la numerazione dei versi. Ma si è parimenti consultata l’edizione di C. Bailey, Oxford 1947 (repr. 1963). giatura usate da Leopardi. Per altri riferimenti

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trice delle fole scaturite dalle tenebre della notte: «I Satiri in singolar modo, i Fauni e le Ninfe scherzose, erano oltre a ogni credere insolenti in tempo di notte, checché ne dica Lucrezio ».! E subito dopo Lucrezio ricompare col paragone (De rer. nat., VI, 35-38) tra «i timori, che bene spesso concepiscono gli uomini per cose vane e da nulla », e le « angustie che i fanciulli provano nelle tenebre »; ? riferito con parvenza di neutralità, ma qui con ovvia assunzione dell’antico poeta tra i savi che combatterono i pregiudizi e gli errori popolari. Altra presenza lucreziana nel copioso, variato capo IX (Del sole), dove i versi riportati (De rer. nat., V,

660-673) svolgono con dinamica ricchezza d'immagini il tema della sparizione e riapparizione del sole e dell’intervallo notturno, spiegati ora col transito del sole oltre la terra e col suo ritorno sopra la terra preceduto da un getto di raggi, ora (ed è questa la teoria epicurea) con la dissoluzione del sole esausto dalla corsa all’estremità del cielo, col serale appiattarsi di atomi ignei sulla linea dell’orizzonte, col loro mattutino riunirsi e costituirsi in nuova sfera solare, secondo un ordine temporale che ha riscontro nel succedersi regolare delle stagioni e dei fenomeni naturali; ed è seguìta, questa citazione così estesa, da un conciso commento leopardiano (« Convien confessare che la cosa non potea esser meglio dimostrata ») la cui sostanza ironica, che ora ascrive inesorabilmente Lucrezio e gli epicurei tra i sapienti fallaci dell’antichità, si svela appieno, dopo altri rimandi con analoghi esiti a Eraclito e Senofane, Giovenale e Ausonio, nella chiusa del

capitolo: « Così ciò che noi diremmo ora per giuoco ai fanciulli, fu creduto volgarmente e tenuto per fermo dagli antichi ».# Uguale animo, entro una folta rassegna di antiche opinioni e sentenze sul cibarsi e dissetarsi dei corpi celesti alle regioni e alle acque della terra (capo X: Degli astri), nella citazione di questi altri due luoghi: « Unde mare ingenui fontes, externaque longe / flumina suppeditant? unde aether sidera pascit? » (De rer. nat., I, 230-231)

e «Ignes

sive ipsi serpere

possunt

/ quo

cuiusque cibus vocat, atque invitat euntes, / flammea per coelum pascentes corpora passim » (De rer. nat., V, 523-525) E nello stesso ordine di

oggettività informativa e di razionale rifiuto, sfumato in impalpabile ironia e divertimento visivo, sono le quattro citazioni (De rer. nat., V, 534538, 539-549, 550-555, 556-563) che, susseguendosi là dove si tratta

delle figure e dei sostegni dati in antico alla terra (capo XII: Della terra), deducono la sospensione della terra nell’aria da intima unione tra terra e aria, simile a quella tra corpo e anima; così come una quinta citazione a 21 22 23 24

128

Ivi, Ivi, Ivi, Cfr.

p. 300. p. 303. pp. 313-314. ivi, p. 317.

distanza nello stesso capitolo, per la verità di un passo verso la sua fine mutilo e restaurato congetturalmente (De rer. nat., I, 1051-1069), che, negando l’esistenza di un centro in un universo infinito, nega altresì l’esistenza degli antipodi sulla sfera terrestre; ® e una sesta (De rer. nat., V, 204-205), che, nella partizione tra mondo abitato e mondo disabitato, attribuisce alla zona torrida e a quella glaciale la sottrazione di due terzi della terra al genere umano. Semplicemente accolti nel corredo informativo, tra molti luoghi di scrittori antichi che consentono agli errori popolari, si appuntano in realtà contro gli errori popolari i versi (De rer. nat., VI, 379-386) che compaiono nel capo XIII (Del tuono), lucidi di sdegno e sarcasmo verso l’arte divinatoria etrusca e poi romana” Non oltrepassano invece un interesse linguistico generalizzato due citazioni (De rer. nat., V, 1229-1230 e 236) esemplificanti nel capo XIV (Del vento e del tremuoto) che « la voce anima presso gli scrittori latini è spesse volte sinonima di vento ».* Infine, nel capo XVI (Dei Centauri, dei Ciclopi, degli Arimaspi, dei Cinocefali) e con le ultime due citazioni (De rer. nat., IV, 740-741; V, 878-898), che vigorosamente oppugnano l’esistenza e la

possibilità di esistenza dei Centauri, come di qualsivoglia essere di doppia natura e di membra eterogenee, respingendoli nel regno dei sogni e delle fantasie, delle stoltezze e delle follie, Lucrezio è associato a pieno diritto alla fervida e disagevole opera di stenebramento intrapresa dal solitario giovinetto di Recanati: « Lucrezio si è distinto per il coraggio col quale ha combattuta la opinione che li ammetteva [i Centauri], adottata universalmente nel suo secolo ».? Mentre in ciò che conserviamo dell’epistolario leopardiano il nome di Lucrezio si affaccia una sola volta, nel contesto e come supporto oratorio di una lettera acerbamente cerimoniosa del 15 aprile 1815 all’abate Francesco Cancellieri, che aveva elogiato Giacomo nella sua Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran memoria (e nella risposta traboccante di

emozione, di gratitudine e di umiltà doveva leggere: « Io mi anniento nel vedermi innanzi a quei grandi personaggi, che abbracciavano tutto lo scibile coll’estensione del loro sapere, e che la natura suol lasciare nel loro secolo senza competitore, in quella guisa che tolse Lucrezio dal mondo nel giorno, in cui Virgilio depose la pretesta, e Galilei nell’anno della nascita di Newton » *), lo Zibaldone lo usa non di rado, formandone un elenco 25 Cfr. ivi, pp. 350-351 e 358. 26 Cfr. ivi, p. 370.

27 Cfr. ivi, pp. 389-390. 28 Ivi, p. 399. 29 Ivi, p. 420.

30 Lettere, p. 8.

129

che da una data intorno al 1818 si spinge al febbraio ’29 e si addensa tra il ’21 e il ’23, ma sempre, a dar ragione al Timpanaro, in posizioni marginali o subito isolate e superate, sia esso parte di una argomentazione. rigidamente circoscritta alla grammatica e al lessico, sia punto di riferimento di osservazioni e illustrazioni distese, di respiro storico. Soltanto il primo di questi richiami a Lucrezio, che nei pensieri sulla sudditanza della letteratura latina a quella greca assume forma icasticamente definitoria, gode di una certa notorietà. Ma non tanto per una acutezza letteraria, sì piuttosto perché il riferimento a Lucrezio s’innesta su una complessiva negatività di giudizio storico, sull'esame di una realtà la quale nel suo insieme, e coinvolgendo Lucrezio come poeta-filosofo, smen-

tisce le premesse e le attese, quel primo richiamo merita di essere da noi considerato: Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta entrò nel Lazio e in Roma, che magnifico e immenso campo di soggetti se le aperse avanti agli occhi [....]! Eppure non ci fu epopea latina che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche, eccetto quella d’Ennio che dovette essere una misera cosa. La prima voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia. In somma l’imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla poesia latina, come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero principio, cioè nel cinquecento l’imitazione servile de’ greci e latini.

Così a questo passo, nel quale Lucrezio è assoggettato, nonché alla lezione greca, all’antitesi leopardiana tra poesia (antica e dunque immaginativa) e filosofia, si possono ricondurre i più consistenti luoghi successivi, e in ispecie quelli datati marzo 1821, che attirano Lucrezio entro l’interpretazione leopardiana dei rapporti tra lingue e letterature di Grecia e di Roma, scandita in questa successione tematica: somiglianza della natura originaria delle due lingue, disposte « alla onnipotenza di esprimer tutto facilmente »; persistenza di questa facoltà nella lingua greca; arresto e inaridimento, all’opposto, della lingua latina, causa la dittatura letteraria ciceroniana e il trapianto della cultura greca nel mondo romano: Non avendole dunque i latini [la letteratura, le arti, le scienze] né create né formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono né formarono, ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s’era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benché gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, [...] fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò il latino di 3 Zib., 54.

130

parole greche [...]. Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer

delle cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri.”

Quanto a una presenza lucreziana nei Canti, quasi tutti i commenta-

tori, anticipando o riprendendo le sparse indicazioni della varia saggistica, ci conducono al Canto notturno, ci riconducono alla Ginestra: e sogliono

mettere a confronto i vv. 39-44 del primo (« Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore / il prende a consolar dell’esser nato »; ma converrà estendere la citazione fino al v. 56 almeno: « Poi che crescendo viene, / l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre / con atti e con parole / studiasi fargli core, / e consolarlo del-

l'umano stato: / altro ufficio più grato / non si fa da parenti alla lor prole. / Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura, / perché da noi si dura? ») con De rer. nat., V, 222-227 (« Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis / navita, nudus humi iacet, infans, indigus omni / vitali auxilio, cum primum in luminis oras / nixibus ex alvo matris natura profudit, / vagituque locum lugubri complet, ut aecumst / cui tantum in vita restet transire malorum »; che potremmo essere tentati a prolungare fino al v. 234: « At variae crescunt pecudes armenta feraeque, / nec crepitacillis

opus est, nec cuiquam adhibendast / almae nutricis blanda atque infracta loquela, / nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli, / denique non armis opus est, non moenibus altis / qui sua tutentur, quando omnibus omnia large / tellus ipsa parit naturaque daedala rerum »); i vv. 111-114 della Girestra (« Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato ») con De rer. nat., I, 66-67 (« pri-

mum Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus, primusque

32 Ivi, 742-749. Cfr. 1056 e, sui grecismi affluiti negli scrittori latini tra cui Lucrezio, 2514 e 3192. Altre note riguardano il « sapore e modo tutto familiare » dei più antichi scrittori latini come, tra i poeti, Ennio, i tragici, Lucrezio (2841, e già 1808). Si aggiunga un passo del 15 dicembre 1826 sui generi della poesia (4236: « Il satirico è in parte lirico, se passionato, come l’archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che il linguaggio, il modo, e i gesti per dir così ec.»), e solo perché vi si è avventurato col suo convinto e risoluto tecnicismo il MAURER (op. cif., pp. 235-236): prima riconducendo quelle designazioni leopardiane dei generi poetici, leopardianamente sovrastati dalla lirica, ai nomi di Orazio epodico e di Lucrezio oltre che di Archiloco, poi e soprattutto vedendovi l’enunciazione dei nuovi modi (satirico e didattico, passionato e irato) della lirica leopardiana tra Aspasia e la Ginestra, quindi l'impulso determinante (e sempre categoricamente precisato) dei classici antichi (di quei classici antichi) all’ultimo Leopardi. Qui s’innesta, col discorso su Aspasia, il ricordato giudizio spitzeriano. Ma vedi anche, con le sue varie riserve e perplessità sul libro del Maurer, E. Bici, Il Leopardi e la dissoluzione dei generi lirici [1959], in La genesi del « Canto notturno » e altri studi su Leopardi, Palermo 1967, pp. 197-210.

15.1

obsistere contra»: religio).

e contra

si riferisce alla tetra superstizione,

gravis

Altro, naturalmente, è dire che questi versi leopardiani ci ricordano quelli lucreziani, altro che in essi vive una puntuale ripresa leopardiana da Lucrezio: abbastanza ovvia, e per nulla compromettente, la prima proposizione; non illegittima la seconda, e però priva di una dimostrazione ineccepibile, anche se i commentatori sono solleciti a corredare il luogo del Canto notturno, e taluno proprio per ribadirne con più vincoli testuali l’ispirazione a Lucrezio, di due appunti zibaldoniani certo molto appropriati se pur di molto anteriori, del ’19 (sul pericolo di vita insito nella stessa nascita dell’uomo; cui fa seguito il tema della maggiore sanità, e della relativa maggiore « fortuna » e « felicità », delle bestie) ® e del ’22 (sul bisogno che, dalla nascita alla prima gioventù, hanno i figli di essere consolati dai genitori; e con le finali interrogazioni: « perché dunque nasce l’uomo? e perché genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere stati generati? »).* Ma neppur l’intendere questa traccia lucreziana come semplice reminiscenza o come

esplicita ripetizione

può appagarci,

o aiutarci.

Siamo

semmai indotti a formulare in maniera un poco diversa e meglio precisata la divaricazione espressa dai commentatori nel comune rinvio a Lucrezio, e insomma a domandarci se questi avvicinamenti testuali di Leopardi a Lucrezio siano dovuti ad attrazione del poeta moderno nell’orbita mentale e speculativa dell’antico, con conseguente mimesi letteraria, ovvero a un momentaneo parallelismo di concetti, che l’antico aveva calato in quelle particolari forme e figure, e il moderno è mosso a rinnovare in tutt’altro sistema ideologico-stilistico, e con tutt’altro risultato nei particolari e nell’insieme della composizione. E davvero il guardar le cose con occhio più allargato e insieme più interno alla vita delle idee e alla natura dello stile, reca immediata consistenza alla seconda ipotesi, facendoci sentite profondo divario tra quell’antico e questo moderno. Divario tra il copioso e tumultuoso poetare di Lucrezio, la cui invettiva contro la natura matrigna e il cui lamento sull’infelicità umana non precludono, e non possono precludere, le vie della liberazione e della elevazione dell’uomo, e vanno pur sempre rapportati e conservati — nello stesso e negli altri libri del poema, e in quel viluppo che il Paratore ha definito « drammaticamente problematico » ® — con le illustrazioni ed esaltazioni dell’orgoglioso dogma epicureo insistente sul 33 Cfr. Zib., 68-69. 34 Ivi, 2607. 8 De rerum natura, locos praecipue notabiles collegit et illustravit H. Paratore, commentariolo instruxit H. Pizzani, Roma 1960, p. 382.

152

necessario prevalere della ragione risanatrice e sull’annesso biasimo dell’uomo padroneggiato dall’ignoranza e dalla follia; e il lamento sull’ineluttabile, incomprensibile destino umano di dolore e di morte lungo la linea colloquiante-monologante del Canto notturno, con quella proiezione del poeta nel pastore che, « estraneo ad ogni tradizione storica e ad ogni consorzio umano, sente con la schiettezza di un primitivo i dubbi e le

angosce più profonde degli uomini tutti»; * con quella comparazione — che avvicina e distingue — tra la vita della luna e la vita dell’uomo; con quel complessivo effetto, così acutamente studiato dal Galimberti, « d’incessante ritmo ciclico » e insieme « di assoluta staticità » ” in cui sono adombrati l’eterno e il nulla. Divario tra la superba immagine di Epicuro che irrompe nel proemio del De rerum natura scopritore e banditore del vero, portatore di pace agli uomini, e l’uomo leopardiano che, presa cognizione del male a lui e a tutti gli uomini destinato dalla natura, nobilmente osa porglisi a fronte e fissarlo prima di soccombere, in una poesia nata e guidata dall'immagine della ginestra, umile e solitaria nel tremendo paesaggio vulcanico, innocente e appagata della sua condizione, tenera e fragile e però meno debole e più saggia dell’« uomo storico » che non sa cre| dere al suo destino.* Né possono essere quietamente accettati altri riscontri, più di rado proposti, e su base che diremmo tematico-psicologica piuttosto che tematico-stilistica o tematico-verbale. Ad esempio, tra l’inno a Venere, che apre splendido e impetuoso il poema lucreziano, e nel quale il canone letterario dell’invocazione alla divinità ispiratrice e gratificante s’intreccia col simbolo della natura generatrice, e i primi versi, così diversamente

e in

così diverso contesto intonati, di quel « canto delle immaginazioni perdute e desiderate », di quel « rimpianto dell’antica primavera dell’anima » che è l’inno leopardiano Alla Primavera, o delle favole antiche? O tra De rer. nat., II, 1103-1104 (essendo soggetto la natura, che si autogoverna e governa liberamente e casualmente il mondo:

« [...] exercens telum

quod saepe nocentes / praeterit, exanimatque indignos inque merentes? ») e Bruto minore, 28-30 (nell’amara, disperata apostrofe di Bruto contro i « marmorei numi », contro Giove: « e quando / il tuon rapido spingi, / 36 Parole del FuBINI nel suo commento

ai Canti, Torino

1930, p. 110.

37 C. GALIMBERTI, Di un Leopardi « patrocinatore del circolo », « Sigma », 8, 1965, p. 29. 38 Nella ricca, e in questi ultimi tempi particolarmente arricchitasi, letteratura critica sulla Ginestra, ci piace segnalare ancora l’ottimo C. GALIMBERTI, Messaggio e forma nella « Ginestra », in AA.VV., Poetica e stile, a cura di L. Renzi, presentaz. di G. Folena, Padova 1976, pp. 45-73. 39 Le due definizioni citate sono del CALCATERRA nel suo commento ai Canti, Torino 1951, p. 63. E si veda R. M. Ruccieri, I due « inni filologici » del Leopardi, in Capitoli di storia linguistica e letteraria italiana, Roma 1971, pp. 151-160.

133

ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi? »; dove anzi il Timpanaro ha individuato « un tipico motivo lucanèo » pienamente inserito nella temperie « titanica » di tutta la canzone ‘). Più interessanti, allora, le minute rilevazioni di consonanze espressive

isolate, ridotte anche ad un solo o a una coppia di vocaboli. Si può così arrivare alla combinazione De rer. nat., II, 48 (« curae sequaces ») — Izzo ai Patriarchi, 66 (« le seguaci ambasce »; e « cure » aveva detto il poeta al v. 47); o al richiamo a De rer. nat., V, 931 (« Multaque per caelum so-

lis volventia lustra ») a proposito del « si volve » del Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch (1-4: « Sola nel mondo, eterna, a cui si volve / ogni creata cosa, / in te, morte, si posa / nostra ignuda natura »): latinismo per « si volge », che, commenta il Galimberti con la consueta finezza e con suggestivo corredo di esempi antichi (Cicerone, Orazio, Virgilio e appunto Lucrezio), « accentua l’idea di un movimento come di astri (qui intorno a un sole oscuro), [...] 0, in ogni modo, di esseri presi

nel giro del tempo, o di momenti del tempo stesso ».* Ma per le vie che partono dal frammento, dal singolo segnale si finisce facilmente, o ‘inevitabilmente, come già insegna l’ultimo caso, per approdare alle più larghe tavole delle frequenze e dei rapporti linguistico-letterari, ai più folti raggruppamenti di autori e di testi; e per smarrire il particolare rapporto Lucrezio-Leopardi nella grande esplorazione e frequentazione leopardiana dei classici, nella molteplicità e nelle coincidenze e sovrapposizioni delle sue scelte lessicali, dei suoi esperimenti semantici.

Dopo avere inseguito il nome di Lucrezio nelle pagine di Leopardi, e censito le più frequenti segnalazioni in merito a Lucrezio della critica leopardiana nell’arco di quasi un secolo, si vorrebbero saggiare i grandi temi del pensiero comuni a Lucrezio e a Leopardi, senza più il vincolo delle ipotesi di trasmissioni e acquisti d’idee e di forme. Dovremo di necessità contenere questo nostro sondaggio entro un breve giro di testimonianze e relative osservazioni, e lo faremo puntando sul grappolo dei temi « co4 S. Timpanaro,

Alcune

osservazioni

sul pensiero

del Leopardi

[1964],

in op. cit.,

pp. 149-150.

4 Operette morali, a cura di C. Galimberti, Napoli 1977, p. 234, nota 2. Si legga anche l’eccellente Introduzione alle pp. xxvi-xxviit. Sempre nel commento al Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie Lucrezio, con molti altri classici da Omero a Petrarca, è citato (De rer. nat., III, 910) in relazione alle battute sul sonno come fratello o parente (o come metafora) della morte. E, circa la raffigurazione degli accoppiamenti primitivi nella Storia del genere umano, non viene escluso un ricordo di Lucrezio (De rer. nat., V, 962-965) accanto ad uno di Orazio.

134

smici », che per vero chiederebbero ben altre proporzioni ed altro agio di esame. Nel disegno generale di un sistema abitato da materia e spazio, e regolato dalla legge « nulla nasce dal nulla, nulla ritorna al nulla », luoghi capitali del De rerum natura, e collegati logicamente tra loro, sono I, 958-

1051 (« Omne quod est igitur nulla regione viarum / finitumst; namque

extremum

debebat habere » ecc.) e II, 1048-1050

(« Principio nobis in

cunctas undique partis / et latere ex utroque supra supterque per omne / nulla est finis, uti docui » ecc.). Qui Lucrezio, sulla scorta forse dei pitagorici, sicuramente degli atomisti e di Epicuro, fonda la dimostrazione dell’infinità dell’universo sulla necessità della progressione illimitata, con o senza ostacoli (infinità cui attengono sia lo spazio sia la materia, che nell’infinità si alternano distinguendosi l’uno dall’altra); donde anche trae l’affermazione dell’esistenza, al di là del nostro mondo, di altri mondi, e

in numero infinito, come infiniti sono gli esseri viventi, le loro forme corporee, le loro specie. Tra libro I e libro II, con le ovvie ripercussioni per tutto il poema e cospicue propaggini nel libro V (la caducità del mondo), la concezione dello spazio e della materia si estende e articola nella dottrina degli atomi, primordia o semina rerum, corpora certa, i corpi minimi e indivisibili, dotati di solidità, gravità e forma varia, di movimento vorticoso e continuo, atti a incontrarsi e associarsi tra loro e a comporre, essi infiniti ed eterni, essi invisibili e insensibili, le strutture e le forme della materia evidente,

le sostanze e le parti cosmiche, gli individui e le specie, tutte le cose mutevoli, accidentali e periture. Perché nuovi esseri abbiano vita, ogni essere vivente, così come è nato, è destinato a morire, quando gli atomi che

lo compongono si dissoceranno per dare luogo ad altre combinazioni. « Sic rerum summa

novatur

/ semper, et inter se mortales mutua

vivunt. /

Augescunt aliae gentes, aliae minuuntur, / inque brevi spatio mutantur saecla animantum, / et quasi cursores vitai lampada tradunt » (De rer. nat., II, 75-79). E come ogni individuo, generazione e specie, così finirà

il mondo, ogni mondo. « Sic igitur magni quoque circum moenia mundi / expugnata dabunt labem putrisque ruinas » (De rer. nat., II, 1144-1145). E, del mondo, finirà ogni parte, la terra e il cielo e il mare. « Quippe etenim quorum partis et membra videmus / corpore nativo ac mortalibus esse figuris, / haec eadem ferme mortalia cernimus esse / et nativa simul. Quapropter maxima mundi / cum videam membra ac partis consumpta regigni, / scire licet caeli quoque item terraeque fuisse / principiale aliquod tempus, clademque futuram » (De rer. nat., V, 240-246). « Haud igitur leti praeclusa est ianua caelo, / nec soli terraeque, neque altis aequoris undis, / sed patet immani et vasto respectat hiatu » (De rer. nat., V, 2152215) 1

In un tale ordine di natura, la cui imperfezione (« tanta stat praedita culpa »: V, 199; cfr. II, 181) sta a dimostrare la mancanza di un primo

motore, di una creazione divina per il bene dei mortali, il posto del-. l’uomo, emergente tra il III e il V libro, viene lumeggiato da Concetto Marchesi con parole esemplari, che anche rilevano in Lucrezio, sul rapporto uomo-natura, la conferma e l’arricchimento della dottrina epicurea: La ragione è lo strumento di cui la natura ha provveduto l’uomo perché si difenda contro la natura stessa. Essa, madre e matrigna, ha creato nell’uomo la sua vittima o il suo trionfatore; lo ha messo in condizione di conseguire il bene supremo, la felicità, o di volere il contrario e precipitare nell’abisso di ogni miseria. L’uomo vuole, l’uomo è libero, è artefice del suo destino; e questa

libertà, che può pareggiarlo agli dèi, ne fa altresì la creatura maledetta del mondo. D'altra parte questo raggiungimento della felicità, della pace beata, che altro è se non il portentoso risultato di una incessante battaglia contro il dolore? *

Quasi un archetipo delle testimonianze leopardiane si presenta la memorabile, affascinante pagina dei Ricordi d'infanzia e di adolescenza che, nella zona idillica dell’I#finito e della Sera del dì di festa, s'impernia sulla connessione spazio-tempo e traccia una catena relativistica dell’universo procedente alla nozione del nulla: [...] mie considerazioni sulla pluralità dei mondi e il niente di noi e di que-

sta terra e sulla grandezza e la forza della natura che noi misuriamo coi torrenti ec. che sono un nulla in questo globo ch’è un nulla nel mondo e risvegliato da una voce chiamantemi a cena onde allora mi parve un niente la vita nostra e il tempo e i nomi celebri e tutta la storia ec., sulle fabbriche più grandi e mirabili che non fanno altro che inasprire la superficie di questo globetto asprezze che non si vedono da poco in su e da poco lontano ma da poco in su il nostro globo par liscio liscio ed ecco le grandi imprese degli uomini della cui forza ci maravigliamo in mirar quei massi ec. né può sollevarsi più su ec. [....].#

In zona ravvicinata si collocano non meno noti appunti zibaldoniani, come quelli del luglio ’20, sull’innata tendenza dell’uomo al piacere ossia 4 C. MARCHESI, Storia della letteratura latina, I, Milano-Messina 19638, p. 223. Sarebbe del tutto inopportuno, oltre che vano, soffermarsi in questa sede sui termini e i momenti fondamentali del dibattito interpretativo del nostro tempo intorno a Lucrezio (molto abbreviatamente, e quasi simbolicamente, fedeltà e infedeltà a Epicuro, « ottimismo » e « pessimismo »), sceverandoli da una letteratura critica quanto mai complessa e articolata. Ci basti menzionare, tra gli ultimi studi, il penetrante ed equilibratissimo G. Sasso, Il progresso e la morte. Saggi su Lucrezio, Bologna 1979, e, tra le molte benemerite pubblicazioni estere, M. BoLLAcK, La raison de Lucrèce. Constitution d’une poétique philosophique avec un essai d'interprétation de la critique lucrétienne, Paris 1978. Da quanto si vien dicendo dovrebbe apparire chiaro che sono considerate inaccettabili le interpretazioni « pessimistiche » estreme quali vengono svolte da L. PERELLI, Lucrezio poeta dell'angoscia, Firenze 1969. 43 Poesie e prose, I, p. 676.

136

alla felicità, che « porta con sé materialmente l’infinità », e sulla facoltà immaginativa esistente nell’uomo e fornitrice di speranza e illusioni: “ del 4 gennaio ’21, sull’« impressione di una specie d’infinità » che l’anima riceve « non vedendo i confini », e sulla effettiva sua confusione tra inde-

finito e infinito; * del 1° agosto ’21, che, richiamandosi apertamente all’idillio del ’19, evocano le sensazioni tra l’antico e « un tempo indeterminato », tra l’indefinito e il finito, rinnovando l’equazione di tempo e spazio: segni fra i tanti della lunga meditazione, ancora ai suoi inizi organici, sul doppio infinito, spaziale e temporale, e sul suo essere illusorio. Ma già c’interessa, nel grande cantiere-ripostiglio d’idee dello Zibaldone, un appunto della fine del 19, nel quale con l'impronta di una meditazione teologica compaiono gli esiti della scienza e della cultura moderna, e la fede in un disegno provvidenziale convive con l’attestazione della fine d’ogni metafisica antropocentrica: con l’attestazione che il sistema copernicano « rivela una pluralità di mondi, mostra l’uomo un essere non unico,

come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benché non ci appariscano intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima, scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini

del creato ec. ec. ». Un'altra pagina, del 12 agosto ’23, giudica la capacità dell’umano intelletto massimamente dimostrata quando l’uomo, « considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza ».È 4 Zib., 165-171. 45 Ivi, 472.

4 Ivi, 1429-1430. 41 Ivi, 84. 48 Ivi, 3171. Il tema della nullità dell’uomo, trattato nel ’24, in una cornice di astoricità assoluta e di pura, musicale invenzione, dal Dialogo di un folletto e di uno gnomo e dal

Dialogo della Terra e della Luna, sarà ripreso nel ’27, sotto specie di divertimento letterario in impianto teatrale, tra comicità apparente e umor malinconico, ma con le moderne scoperte astronomiche e la rivoluzione copernicana per soggetto, dal dialogo I! Copernico, dove Copernico, essendo imminente la caduta dell’antropocentrismo, dirà al Sole che lo ha convocato: « [...] voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica sola-

197

L’anno dopo, il Dialogo della Natura e di un Islandese metterà allo scoperto, da tempo preparatasi nella mente del poeta (e del resto anticipata da un distinguo zibaldoniano del 20 agosto ’21 tra vita del tutto, dei. generi e delle specie e vita degl’individui), l’immagine di una natura non materna, non provvida e benigna, anzi estranea e insensibile alle sue creature, ai singoli esseri viventi, e perciò stesso, nel suo inesausto, cieco e

sordo operare, nella sua onnipotente e sfuggente interezza, necessaria nemica dell’uomo: all’Islandese uscito dal consorzio umano per « vivere una vita oscura e tranquilla », e travagliato e perseguitato senza fine dal freddo polare e dal caldo tropicale e dall’incostanza dell’aria nei climi temperati, e dagl’incendi e dalle tempeste, dai terremoti e dalle eruzioni vulcaniche, dalle bestie selvatiche e dalle malattie; all’Islandese che prorompe in lamenti e accuse risponde, enorme sfinge dal volto « mezzo tra bello e terribile », la Natura: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.*

Trascorso un altro anno, nel ’25, il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco natrerà la fine del nostro mondo quale esempio della caducità delle cose materiali, che hanno fine come ebbero principio, nell’universale movimento e trasformazione della materia, che esiste ab aeterno ed è imperitura. Venuti meno i pianeti, la terra, il si formeranno di questa nuove creature, e nasceranno per le forze eterne della nuovo mondo. Ma le qualità di questo

sole e le stelle, ma non la materia loro, distinte in nuovi generi e muove specie,

materia nuovi ordini delle cose ed un e di quelli, siccome eziandio degl’innu-

mente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere ». E continuerà prospettando i grandi rivolgimenti nell’universo: «infinità di famiglie e di popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come funghi »; scoppiar fuori di «tante migliaia di altri mondi, in maniera che non ci sarà una minutissima stelluzza della via lattea che non abbia il suo » (Poesie e prose, I, pp. 997-999). 4 Poesie e prose, I, p. 887.

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merabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare.%

Esaminando la serie di negazioni osserva il Galimberti che «il contesto come segno della infinita sproporzione che Leopardi denomina in tanti modi:

punteggianti quest’ultimo periodo, induce a interpretarla [....] anche fra l’uomo e quell’ äyvworoc 9e6c qui come “ materia ” ».5! In altri

termini, l’operetta tutta dedicata all’universo, e al nostro

mondo

come

parte infima di esso, finisce per rimandare all’uomo, chiamato esplicitamente entro i confini della trattazione se non con una sommaria e impassibile espressione parentetica: « Questo mondo presente del quale gli uomini sono parte, cioè a dir l’una delle specie delle quali esso è composto » ecc.* E già il Fubini aveva notato assenza di commozione profonda dal Frammento nel suo complesso, quella commozione che in Leopardi soltanto l’« essere sensibile » poteva suscitare: « Soltanto la sua “ souffrance”, non la “ immensità del gran tutto ” lo interessava di per sé ».® E di fatto, dopo l’esercizio del pensiero così contrastato e doloroso tra il °19 e il ’23, scomparsi ormai dall’orizzonte leopardiano i residui di finalismo e provvidenzialismo cristiano, venuta meno la natura degli antichi e dei primitivi (e dell’età infantile) ed ogni possibilità di armonia tra l’uomo e le cose, l’interesse di Leopardi si aggira instancabile, con sempre più acuta angoscia, tra quei due poli: un tutto impenetrabile e immutabile, nelle sue eterne leggi di generazione e distruzione, e l’uomo, nato ad amare e a godere i beni della terra e destinato a cader vittima di quelle leggi, a conoscerle soltanto come male e come morte senza poterle comprendere mai. Seguendo il cammino leopardiano, s’incontreranno nel ’30 le interrogazioni senza risposta del pastore errante nell’immensità della notte e del deserto, in vista della luna e delle stelle: « Spesso quand’io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguitmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in ciel arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono? / Così meco ragiono: e della stanza / smisurata e superba, / e dell’innumerabile 50 Ivi, p. 977. Tra i pensieri zibaldoniani sulla materia, che sarà sempre materia anche quando scomposta fino all’indivisibile, oltre il quale « non troverete mica lo spirito ma il nulla », ricordiamo quello del 5 settembre ’21 (1635-1636): «Non v'è scala, gradazione, né progressione che dal materiale porti all’immateriale ». Da rapportare specialmente con Zib., 4206-4208 (26 settembre 1826), su spirito e materia come astrazioni. 51 Operette morali, a cura di C. Galimberti cit., p. 343, nota 31. 52 Poesie e prose, I, p. 974. 53 Operette morali, studio introduttivo

e commento

di M. Fubini, Torino

1966, p. 233.

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famiglia; / poi di tanto adoprar, di tanti moti / d’ogni celeste, ogni terrena cosa, / girando senza posa, / per tornar sempre là donde son mosse; / uso alcuno, alcun frutto / indovinar non so » (Canto notturno, 79-98);

nel ’36, la meditazione sulla nullità dell’uomo, e sul deserto della vita, nella contemplazione del deserto lavico, della distesa marina, dell’abisso celeste: « Sovente in queste rive, / che, desolate, a bruno, / veste il flutto

indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte; e su la mesta landa / in purissimo azzurro / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, / cui di lontan fa specchio / il mare, e tutto di scintille in giro / per lo véto seren brillare

il mondo. / E poi che gli occhi a quelle luci appunto, / ch’a lor sembrano un punto, / e sono immense, in guisa / che un punto a petto a lor son

terra e mare / veracemente; a cui / l’uomo non pur, ma questo / globo ove l’uomo è nulla, / sconosciuto è del tutto; e quando miro / quegli ancor più senz’alcun fin remoti / nodi quasi di stelle / ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo / e non la terra sol, ma tutte in uno, / del numero infinite e della mole, / con l’aureo sole insiem, le nostre stelle / o sono ignote, o così paion come / essi alla terra, un punto / di luce nebu-

losa; al pensier mio / che sembri allora, o prole / dell’uomo? » (La ginestra, 158-185).

Ma ritorniamo al già ricordato e notissimo passo zibaldoniano del 20 agosto ’21, il quale, con la pungente distinzione tra il tutto, i generi, le specie da un lato, gli individui dall’altro nel sistema della natura, di

quel sistema delinea lo svolgimento ciclico e in sé concluso tra vita e morte: La natura è madre benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e specie che in esso si contengono, ma non degl’individui. Questi servono sovente a loro spese al bene del genere, della specie, o del tutto, al quale serve pure talvolta con proprio danno la specie e il genere stesso. È già notato che la morte serve alla vita, e che l’ordine naturale, è un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangiamenti regolari e costanti quanto al tutto, ma non quanto alle parti, le quali accidentalmente servono agli stessi fini ora in un modo ora in un altro.*

Concetto che, mentre la natura volge sempre più dalla sua accezione benefica a quella malefica, si propaga e rifrange variamente nei vari scritti leopardiani, collegandoli l’un l’altro di un filo tenace e sempre più insistendo sulle fasi intermedie fra produzione e distruzione: l’invecchiamento, il deperimento, il patimento. Una pagina zibaldoniana del 5-6 aprile ’25, sulla vita dell'universo che « consiste ugualmente in produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti », e sulla vita dell’ani# Zib., 1530-1531.

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male in cui « occupa maggiore spazio la declinazione e consumazione ossia invecchiamento »;° contiene espliciti rimandi al Dialogo della Natura e di un Islandese e al Cantico del gallo silvestre Un altro e ben conosciuto pensiero, del 2 dicembre ’28, che per via di similitudine (il gioco capric-

cioso di un fanciullo) accentua l’aspetto imprevedibilmente e crudelmente mutevole dell’azione della natura,” raggiungerà intorno al ’33 l’abbozzo

dell'inno Ad Arimane (« Natura è come un bambino che disfa subito il fatto »), si tradurrà nel ’35 in una trentina di versi (154 sgg.) della Pali-

nodia, dove la similitudine del « gioco reo » scopre dietro i fanciulleschi edifici « di fogliolini e di fuscelli », presto atterrati, il volto dell’« empia 55 Ivi, 4130. Alcune pagine successive (4133-4134: 9 aprile 1825) confermano l’insensibilità della natura e l’infelicità dei viventi, negli individui e nelle specie. « La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l’ordine eterno del loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti souffrarts, una parte essenzialmente souffrante dello universo. Poiché essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all’ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poiché la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa loro necessità è un’imperfezione della natura, e dell’ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d’una menoma parte della natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata un’imperfezione. Almeno ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura universale nell’ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perché gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perché grande per valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, né fondato sopra basi indipendenti e assolute, né [...] corrispondente all’andamento del mondo, né al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, e tanto più sempre, quanto più sensibili. Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà e dignità nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose ». Cfr. anche Zib., 4169 (11 marzo 1826) e 4174-4177 (22 aprile 1826). E vedi del TimpanARO il saggio Natura, dèi e fato nel Leopardi, introdotto nella 2° ediz. cit. di Classicismo e illuminismo ecc., p. 402. 56 AI di là dei rimandi leopardiani, che riguardano specificamente passi sull’invecchiamento dell’uomo e degli animali, si rammenti, del Dig/ogo, quest’altra battuta della Natura: «Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento » (Poesie e prose, I, p. 888); del Cantico (non senza addentellati con altre rilevanti parti dello Zibaldone): «[...] l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte » (ivî, p. 969).

57 Cfr. Zib., 4421.

141

madre », che, « indefatigata », « affatica e stanca » «il fragil mortale, a perir fatto / irreparabilmente ». E così conosceremo la gelida, conclusiva sentenza dell’11 aprile 29 (« La natura, per necessità della legge di distruzione e niproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine » *), come, nel ’34°35, la desolata protesta, tra sarcasmo e passione, di Sopra un basso rilievo

antico sepolcrale (44 sgg.: « Madre temuta e pianta / dal nascer già dell’animal famiglia, / natura, illaudabil maraviglia, / che per uccider partorisci e nutri » ecc.).

Nell’itinerario poetico leopardiano, tra gli accenti accorati e quelli sarcastici, le aspre accuse e le taglienti sentenze, accanto agli effetti finali del rapporto uomo-natura si profila la ragion d’essere palese di quegli effetti. E’, sappiamo, la cecità e sordità, è l’indifferenza verso l’uomo, l’estraneità ai suoi desideri e al suo bene, alle sue opere e alla sua storia, che rende la natura una madre empia e crudele, una nemica temuta e implacabile; ed è

ciò che colora della massima crudezza quella nimicizia, che fornisce la misura tragica, la carica patetica di quel rapporto. « So che natura è sorda, / che miserar non sa. // Che non del ben sollecita / fu, ma dell’esser solo: / purché ci serbi al duolo, / or d’altro a lei non cal » (Il risorgimento, 119124). « Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre / di strappar dalle braccia / all'amico l’amico, / al fratello il fratello, / la prole al genitore, /

all’amante l’amore: e l’uno estinto, / l’altro in vita serbar? Come potesti / far necessario in noi / tanto dolor, che sopravviva amando / al mortale il mortal? Ma da natura / altro negli atti suoi / che nostro male o nostro ben si cura » (Sopra un basso rilievo, 98-109). « Così, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno / dopo gli avi i

nepoti, / sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star. Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto » (La ginestra, 289-296). Questa natura, che nell’esercizio stilistico e nella rappresentazione fantastica delle Operette si è per una volta personificata, prendendo le fattezze dell’immane erma vivente, sorta di idolo sconosciuto e pauroso, in

cui s'imbatte l’Islandese vagando fuori delle terre abitate, è quanto di più lontano si possa concepire da qualsivoglia idea di un rinnovato, e negativo, sistema teologico; e di più spersonalizzato, di più neutro, di più astratto: una entità che finisce per coincidere col nulla. 58 Ivi, 4485-4486. 142

Circa dieci anni dopo la comparsa del « busto grandissimo » nel remoto deserto subequatoriale del Dialogo della Natura e di un Islandese, affiorerà pure nell’opera leopardiana, indirettamente ricavato dalla cultura dell’antica Persia e posto a capo di un inno abbozzato le cui idee ed espressioni ritroveremo di volta in volta nei canti A se stesso e Sopra un basso

rilievo, nella Palinodia

« eterno / dator de’ hanno riconosciuto « nomi (« Fato, natura verso, che produce e

e nella Ginestra, un nome:

quello di Arimane,

mali e reggitor del moto ». L’essere che i primitivi sotto diverse forme », e il volgo chiama con diversi e Dio »), è sempre per Leopardi il sistema dell’unidistrugge, che genera per uccidere:” il vero, che si-

gnifica morte; il tutto, che si converte nel nulla.

Spentasi la « materna voce » della « santa natura », l’idea leopardiana dell’universo ha il suo normale risvolto e compimento nell’idea del non essere, in parallelismo e coincidenza

col circuito vita-morte, così come

trova una sua caratterizzazione letteraria in molteplicità espressiva e funzionale di modi negativi, nella poesia e nella prosa. Si pensi soltanto alla pagina sul sonno dei mortali nel Cantico del gallo silvestre, e a ciò che osserva il Galimberti sulle sue « paradossali figurazioni al negativo », in vivissime corrispondenze con versi della Vita solitaria e dell’Inno ai Patriarchi nonché con l’Infnito.! E si pensi poi alle molte altre note sullo spazio, sull’infinito, sul nulla (il nulla-principio delle cose, il falso infinito,

l’infinito-nulla) che percorrono lo Zibaldone a un dipresso dal ’21 al ’27, sanzionando e predicando la sola realtà del nulla. Basti qui leggerne due, di assoluta evidenza. In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v'è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. [...] Vale a dire che un

primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o, se esiste o esisté non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo.

Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune

parti di esso, in altre no, [...] e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma

59 Poesie e prose, I, p. 434. 6 È d’obbligo la citazione del libro di C. GALIMBERTI, Linguaggio del vero in Leopardi, Firenze 1959. 61 Operette morali, a cura di C. Galimberti cit., p. 324, nota 12.

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relativamente [...]. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e

di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre

x opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è

distrutto Iddio.® [...] l'infinito è un’idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppur per analogia, e possiam dire di essere a un’infinita distanza dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile [...]. Certo secondo le leggi dell’esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l’infinito cioè una

cosa senza limiti, non

può esistere

[...]. Pare che

solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla.®

Era inevitabile che il più grande poema filosofico-scientifico dell’antichità classica, rispecchiante un universo non ordinato e non governato dall’esterno, ma in se stesso animato e sviluppantesi secondo un perenne processo di trasformazione della materia, un perenne ricambio e compenso di vita e morte; che un tale poema, sublime e tragico, vivificante e tem-

pestoso, eroico e amaro, solcato da possenti flussi di esaltazione ma anche dal tormento assillante della conoscenza, da ombre cupe di malinconia meditativa; si proponesse all’attenzione di studiosi e lettori come un possibile termine di paragone con l’opera leopardiana. Ma infruttuoso, già si è visto,

e comunque di esito incerto e sempre

discutibile, par rivelarsi l'esame dei luoghi leopardiani tradizionalmente additati come « lucreziani », con sottintesa o espressa idea di fruizione testuale. Né più persuasive, anche quando suggestive, risultano altre comparazioni tentate dal Borra fuori d’ogni immaginabile rapporto diretto. Quella che ha come tema la noia: « ahi, ma nel petto, / nell’imo petto, grave, salda, immota / come colonna adamantina, siede / noia immortale » (AJ conte Carlo Pepoli, 69-72; e De rer. nat., III, 1053-1056:

« Si

possent homines, proinde ac sentire videntur / pondus inesse animo quod se gravitate fatiget, / e quibus id fiat causis quoque noscere, et unde / tanta mali tamquam moles in pectore constet [...] »). O quella che riguarda l’oscuro, indefinibile male insito nella natura: «il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera » (A se stesso, 14-15; e De rer. nat., V, 1233-1234: « res humanas vis abdita quaedam / opterit »). Ma il tae-

6 Zib., 1341-1342 (18 luglio 1821). 63 Ivi, 4178 (1-2 maggio 1826). Da rapportare a Zib., 4292 (20 settembre

144

1827).

dium vitae lucreziano è il corposo sentimento legato ai tempi di corruzione, alle società sazie di lusso e di piacere, contro cui energicamente si leva il poeta appellandosi alla conoscenza della natura, alla saggezza dell’uomo; la noia leopardiana è, nella sua più compiuta caratterizzazione, la « figlia della nullità » e la « madre del nulla »,# il « desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro », che «corre sempre e immediatamente »,

« come l’aria », a colmare gl’intervalli del piacere e del dispiacere: « passione » inseparabile dall’animo umanoS E la vis abdita di Lucrezio è « la natura stessa la cui vera essenza sfugge ai non saggi »; % il « brutto poter » di Leopardi è l’eternamente incomprensibile e inflessibile vero, che abbatte tutti i viventi sommandosi e confondendosi con « l’infinita vanità del tutto » (A se stesso, 16).

Mancano, in definitiva, veri termini di raccordo, di congruenza; e mancano, in questi e negli altri casi esaminati, perché mancano nel rapporto generale, tra sistema e sistema. Il mondo di Lucrezio è sostanzialmente un mondo di verità conquistate e dimostrate, di certezze fisiche, di entità corporee, ove una meditazione teologica s’immette e si misura e integra nella e con la dottrina materialistica: il cosmo, espanso in un infinito inequivoco, è costituito e garantito dall’assoluta reciprocità di materia e di spazio, dal turbinare e aggregarsi e disgiungersi senza posa degli atomi; nella struttura dell’uomo, vive un’anima mortale indissolubilmente unita al corpo; gli dèi sono nature tra le nature, esseri inattivi e improvvidi nei confronti dell’uomo, beati e isolati negli spazi intermondiali, in luoghi eterogenei a quelli abitati dagli uomini. E l’uomo epicureo-lucreziano può e deve combattere (0 fuggire) gli affanni della vita e il terrore della morte illuminando il suo cammino con la luce della ragione, e arrivando a contemplare impavido l’aperto vero, ad accettare il mondo, che è minima parte dell’universo e del quale egli è sì minima parte,” ma con la piena consapevolezza, comunicatagli da Epicuro, dell'infinito universale che lo comprende e ch'egli accoglie in sé: salito ai templi sereni incrollabilmente edificati dai savi, di lassù, simile a un dio, guarderà in basso l’umanità volgare, smarrita e sconvolta dall’ignoranza e dalle passioni. Il mondo di Leopardi, quale si è venuto principalmente definendo at64 Ivi, 1815 (30 settembre 1821). 65 Ivi, 3714-3715 (17 ottobre 1823). E cfr. il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in Poesie e prose, 1, pp. 878-879. 6 De rerum natura, comm. Paratore-Pizzani cit., p. 462, nota al v. 1233. 61 « Hisce tibi in rebus latest alteque videndum / et longe cunctas in partis dispiciendum, / ut reminiscaris summam rerum esse profundam, / et videas caelum summai totius unum / quam sit parvola pars et quam multesima constet, / nec tota pars homo terrai quota totius unus » (De rer. nat., VI, 647-652).

145 10

traverso le mutazioni e le correzioni del pensiero dalla giovinezza al tempo delle Operette, è un mondo che declina nell’ignoto e nel nulla. Il tempo e lo spazio non sono « altro che un'espressione di una nostra idea, relativa al modo di essere delle cose, e non già cose né enti, come parvero

stimare gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni ».* Gli uomini, « menomissima parte dell’universo » ® collocata in altra menomissima parte dell’universo, « in questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome » (La ginestra, 190-191), in quanto esseri viventi recano con loro

l’infelicità, attributo inevitabile e insormontabile come quello della loro piccolezza e finitezza, della loro nullità su scala universale. Possono fortemente sentire: sono incapaci di avanzare nella conoscenza. Conoscono l’accidentale e il transeunte e il relativo, percepiscono le parti del tutto che li circonda, e che li incalza, li opprime e infine li annienta: non intendono il tutto. Non sanno dunque spiegare la capitale contraddizione tra l’essere e l’infelicità, « l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale ».” Questo occulto potere della natura, che non perdona all’uomo ignaro di colpa; questo deserto assoluto della vita; questo spazio-nulla, questa immensità, che non è l’immensità-immaginazione, l’immensità-illusione, in

cui è dolce naufragare, ma l’« immensità d’un mare di morte, di assenza »; ”! tutto questo genera e fa prevalere nella poesia leopardiana sentimenti di pietà e di orrore. Ben altro dall’horror lucreziano, che nel suo più acuto ed esemplare esprimersi si presenta in endiadi con divina voluptas, sgomento e gaudio insieme: il tremore divino, il rapimento sublime che invade l’animo davanti allo spettacolo maestoso della natura, non più mascherato dai foschi templi acherontei, scoperto anzi in ogni sua parte grazie al genio di Epicuro. « His ibi me rebus quaedam divina voluptas / percipit atque horror, quod sic natura tua vi / tam manifesta patens ex omni parte retecta est » (De rer. nat., III, 28-30).

Vien fatto a questo punto di domandarsi perché elementi definiti nel6 Zib., 4181

(4 giugno 1826).

9 Lettere, p. 648 (lettera a Giampietro Vieusseux, 4 marzo 1826). 70 Zib., 4099 (3 giugno 1824). E cfr. 4128-4129 (5-6 aprile 1825). Con l’immaginaria estinzione dell’esistenza universale (« questo arcano mirabile e spaventoso ») si conclude il Cantico del gallo silvestre: « conclusione poetica, non filosofica », annota l’autore; ché « l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine » (Poesie e prose, I, pp. 971 e 1033). 7 G. UNGARETTI, Immagini del Leopardi e nostre [1943], in Vita d'un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano 1974, p. 441. Sulla tematica leopardiana dell’infinito (infinito-indefinito-nulla-immensità-assenza) vedi ora G. PiroDDA, Il significato dell'infinito nella storia di Leopardi, « Problemi », 4-5, 1967, pp. 166173; A. MARIANI, Sulla tematica leopardiana dell’infinito: dall’infinito-indefinito all’infinito-nulla, « Italianistica », V, 2, 1976, pp. 260-269; A. Dor1, La dialettica leopardiana e la tragedia dell'assenza, « Sigma », XI, 1, 1978, pp. 17-46; L. Brasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, « Strumenti critici », XII, 36-37, 1978, pp. 146-170. Inoltre, P. ZELLINI, Breve storia dell’infinito, Milano 1980, che studia ia categoria d’infinito dai Greci ad oggi (su Leopardi, pp. 26-27).

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l’uno e nell’altro caso materialismo e pessimismo, perché parallele inchie-

ste sul destino dell’uomo in una visione cosmocentrica, e comuni visioni

cosmiche e naturali («idue spettacoli naturali che più solenni e formidabili appaiono a Lucrezio e a Leopardi, un cielo tempestato di stelle e un

monte coronato di fiamme », come scrive il Borra ?), e impressioni di affi-

nità psicologiche e sentimentali, di consonanze gnoseologiche e poetiche, siano bastate, ai nostri giorni, a far passare per sicura una profonda congenialità, una stretta parentela spirituale tra Lucrezio e Leopardi. E se veramente debba far stupore l’incontrare nei testi leopardiani la traccia di Senofonte e Luciano, Teofrasto ed Epitteto, Hobbes e Bayle, Voltaire e Holbach, non di Epicuro e Lucrezio; l’avvertire nella poesia leopardiana la parola di Omero e Virgilio, Dante e Petrarca, Alfieri e Tasso, Orazio e Parini, e non, o non altrettanto attiva e feconda, la parola di Lucrezio. O se lo scarso e dubbio lucrezianismo leopardiano non riveli, piuttosto che conoscenza latamente difettosa dell’opera di Lucrezio, un generale

sentimento di estraneità, fors’anche divenuto di avversione, ad una siste-

mazione dell’universo che ‘inserisce e tutela l’uomo nella natura, aprendo un porto di salvezza, innalzando un nobile castello, allargando insomma — così come farà la cultura umanistica, la cultura precopernicana e pregalileiana nelle sue gradazioni meno trionfalistiche — la sfera di « un’umanità superiore e rasserenata »." È questa un’altra ipotesi, ma anche la nostra presente conclusione. Ci par dunque che Leopardi abbia aderito a suo modo, nel suo solitario meditare e sentire, a quella presunta e molto discussa « congiura del silenzio », la quale intorno a Lucrezio si sarebbe ordita nella stessa età cesariana ed augustea,” e protratta presso tutte le società adagiate su stabili ordinamenti politico-religiosi; e che comunque doveva essere interrotta a più riprese e ben di frequente, dal Rinascimento al tardo Ottocento, da chi salutava nell’antico poeta il precursore di rivoluzioni scientifiche in atto, di coevi rinnovamenti del pensiero nonché di tentate o sperate mutazioni di istituti e codici della vita politica e religiosa, ovvero il massimo campione dell’ammaestramento scientifico in versi.” 72 S. Borra, op. cît., p. 72. 73 B. Birat, Leopardi: la cultura e la società dei suoi tempi, in La posizione storica di Giacomo Leopardi [1976], Torino, 2° ediz. riveduta e aumentata 1978, pp. 208-209. 74 Cfr. A. TRAINA, Lucrezio e la « congiura del silenzio » [1972], in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, Bologna 1975 (rist. 1980), pp. 81-91. 75 Nella vastissima letteratura critica sulla fortuna di Lucrezio vedi ora, dopo il saggio cit. L. ALFonsI, L'avventura di Lucrezio nel mondo antico ... e oltre, in Entretiens Traina, del sur l'antiquité classique, tome XXIV, Vandoeuvres-Genève 1978, pp. 271-321: che ricostruisce la vicenda culturale di Lucrezio dal mondo antico classico e cristiano al Medioevo e all’età moderna sino alle «rinascite» del poeta latino nell’illuminismo e nell’Ottocento italiano (a sua volta parlando d’« impronta lucreziana della Ginestra leopardiana »).

147

Possiamo peraltro credere che talora a Leopardi, e primamente al Leopardi delle frenetiche letture giovanili, la parola di Lucrezio, liberata dall'originario suono, dalla nativa carica, ricostituita e rivissuta in tono minore, nel molle e pur sapiente eloquio del nostro classicismo barocco, arrivasse ad opera del suo coraggioso mediatore toscano, apprendista tenace e durevole alle scuole di Petrarca e Tasso, Caro e Chiabrera, arcade di primo rango, nelle sue remote ascendenze di gran lunga più vicino a

Virgilio che a Lucrezio. Non al Leopardi fiso ai luoghi della grande classicità letteraria in cui si celebra la perfetta identità di pensiero ed espressione, di pensiero e stile,” ma al Leopardi studioso e giudice benevolo di quei secentisti che hanno « dicitura competentemente poetica ed elegante », « sufficiente grandiosità ed anche qualche eloquenza », o che sono robusti nelle immagini, fecondi nell’invenzione, facili « come Pindaro a riscaldarsi infiammarsi sublimarsi anche per le cose tenui »,7 doveva arrivare quella parola; e doveva suonare così: « Vo passeggiando dell’aonie Dive / i luoghi senza strada, e da nessuno / mai più calcati. À me diletta e giova / gire a vergini fonti a inebriarmi / d’onde non tocche. A me diletta e giova / coglier novelli fiori, onde ghirlanda / peregrina ed illustre al crin m’intrecci, / di cui fin qui non adornàr le Muse / le tempie mai d’alcun poeta tosco ».* Non la voce di Lucrezio, e in ogni caso non una voce fraterna nelle indagini sul cosmo e sul destino umano; ma la voce affabile. del peritissimo artigianato poetico di tradizione italiana, alieno dai « luoghi senza strada » e dedito alle armoniose finzioni. MARIO

SACCENTI

76 Cfr. Zib., 1693-1694 (13 settembre 1821). E il saggio di M. A. RiconI, Leopardi l’estetizzazione dell’antico, « Paragone-Letteratura », XXVII, 320, pp. 70-103.

T1 Zib., 23-24. 18/D;ETITO LUCREZIO Caro Della natura delle cose. Libri sei tradotti da ALESSANDRO MarcHETTI, IV, 1-9. Cito dall’edizione londinese 1765 esistente nella biblioteca Leopardi.

148

e

Leopardi fra Virgilio e Orazio

1. La presenza di Virgilio e di Orazio, specialmente di Virgilio, in Leopardi incomincia dall’infanzia ed ha lunga durata, anzi continua per tutta la sua vita (anche se si attenua, mi sembra, dopo gli anni ’20); è

nello stesso tempo ampia e sottile: coglierla, quindi, interamente e valutarla adeguatamente è compito che io non m'’illudo di esaurire; e forse è inesauribile. Sarò pago se avrò fatto qualche passo avanti nel segnalarla e se ne avrò fatto sentire meglio l’importanza. I due poeti erano frequentatissimi nella cultura del tempo; il Settecento aveva accresciuto, com’è noto, il peso di Orazio; erano frequentatis-

simi anche nella scuola, ed è attraverso la scuola domestica patrizia che Leopardi cominciò a conoscerli: nei componimenti in versi e in prosa degli anni di scuola, pubblicati sistematicamente, con grande competenza e cura, da Maria Corti, la presenza di Virgilio e di Orazio è frequente ed evidente. Sarà utile leggere e interpretare la parte centrale del madrigale? che Leopardi premise ai componimenti presentati al « saggio » del 1810, cioè alla cerimonia di esami istituita da Monaldo:* Là d’Elicon sul monte Diletto amico all’Apollineo coro; Là d’Ippocrene al fonte, Per cui famoso è il Mantovan Cantore;

Per cui l’Argivo Vate ha eterno onore; Ed immortale or vive Il fervido Tebano, e il suo Seguace; Ascender volli audace, E le corde toccar di ardita cetra, Sedendo accanto d’Aganippe a l’acque.

1 a cura 2 3

«Entro dipinta gabbia ». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di G. Leopardi di Maria Corti, Milano 1972. Citerò con la sigla Edg. Edg, p. 337. Su questi esami cfr. M. Corti, Edg, p. 329.

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Il « Mantovan Cantore », Virgilio, viene per primo. L’« Argivo Vate » sarà Omero. Non è necessario pensare che Leopardi scegliesse Argo fra le varie città che si contendevano i natali del padre della poesia epica: « Argivo » potrebbe valere, genericamente, greco; ma si può obiettare che la corrispondenza con « Mantovan Cantore » funziona meglio se « Argivo » indica la città natale. Il « fervido Tebano » è Pindaro; ma chi è « il suo Seguace »? Credo che sia Orazio. Dei quattro poeti lo scolaro conosce direttamente solo i due latini: imparerà il greco nel 1813. I due poeti latini sono già presenti nelle Lafinae exercitationes variae del 1809, anche se questi componimenti sono in prosa. Echi di Virgilio sono evidenti, per es., in quello Ix mortem sodalis dilecti:* Sol nitidum tegit ferrugine caput proviene dal brano famoso dei prodigî che preannunciano l’uccisione di Cesare (Ge. I 467); virgiliane sono le ombre pallide

della notte (Nox ipsa pallentibus umbris: cfr. Ge. III 357; Aen. IV 26); la chiusa del componimento (iterurzque iterumque nequidquam voco) riecheggia le invocazioni disperate di Enea che cerca Creusa perduta (Aer. II 770). Analogamente frasi virgiliane sono trasportate quasi di peso nel lamento dei genitori di Gesù per la sua morte (Questus Iesu Parentum ob eius ammissionem):* avvertiamo l’eco del lamento di Niso che cerca disperatamente Eurialo (Nate, Nate, ubi es? cur nos non sequeris? qua te re-

gione requiramus? Cfr. Aen. IX 300 sg.) e, poco dopo, nella narrazione, echi del II libro dell’Eneide (Interea sol ruit oceano, et sidera apparentes

illos ad somnum invitant. Cfr. Aen. II 250; 8 sg.) Una delle esercitazioni consiste nel commento a due versi dell’Ars poetica di Orazio (412 sg.): Qui studet optatam cursu contingere metam

Multa tulit fecitque puer, sudavit et alsit.

I due versi chiudono un ammonimento che Leopardi tiene scolpito nell’animo in questi anni di scuola: li troviamo premessi come motto a ben cinque delle raccolte di componimenti del 1809 e 1810. Fra i componimenti presentati per il « saggio » del 1810, alcuni dei quali sono in latino, è notevole, ai fini della nostra indagine, il pezzo sulla Sennacherib exercitus cladis* Anche qui frasi virgiliane ricorrono con pochi ritocchi. Dal II dell’Ezeide

(250-252)

è preso il cadere della notte:

da, SZ) IS ren 1122 5 Edg, p. 434 sg. (in particolare Il. 20 sg., 23 sgg.). 6 Cfr. anche nel componimento Ictus adversi fati minime 1. 16 con Aer. I 94. IMEdgnp. 431 sp. STE GIO,

150

555) ge

lugendi sunt

(Edg, p. 430)

Vertitur interea coelum, et nox magna involvit umbra et terram et polum. Fusi per moenia civitatis

incolae anxium accipiunt somnum ...

Nei puerilia il notturno è un tema ricorrente, e la suggestione di Virgilio vi affiora anche altre volte: per es., quasi all’inizio della Descrizione di un incendio leggiamo: i stanchi corpi dormivano in tranquillo riposo:? un’eco, banale quanto si vuole, di un famoso notturno del IV dell’Eneide (522 sg.): placidum carpebant fessa soporem / corpora per terras. Ma nel pezzo sulla strage dell’esercito di Sennacherib volevo fermare l’attenzione su un altro punto. È il punto culminante del racconto, la descrizione della strage vera e propria:! Quis cladem illius noctis explicat fando? Corpora passim sternuntur, volat ubique mors; terror, confusio omnes animos replent; ubique desolatio, ubique procumbitur.

Il quadro atroce e funereo ricalca, anche nel ritmo sintattico, il quadro delle volta tratti latina

stragi nell’ultima notte di Troia (Aer. II 361-369). Non è la sola che lo scolaro Leopardi ricorre a Virgilio per attingerne colori foschi, macabri: un caso simile lo abbiamo visto poco fa nell’esercitazione In mortem sodalis dilecti. Credo che un’eco di Virgilio, anche musicale, sia nel lungo gemito del gufo che risuona in una canzone del Catone in Affrica:" In mesto suono lugubre Il gufo lamentoso Esprime il lungo gemito Da l’antro tenebroso.

Credo che Leopardi avesse nell’orecchio Aer. IV 463 sg.: solaque culminibus ferali carmine bubo saepe queri et longas in fletum ducere voces.

Virgilio ha suggerito anche l’effetto musicale ottenuto con le 4 accentate. Forse non sarebbe arrischiato parlare di una lettura di Virgilio con gusto « lucaneo »: non voglio dire influenzata dalla lettura di Lucano (ammesso che Leopardi lo conoscesse in quegli anni), ma guidata da una sen-

sibilità per l’orrido. Quanto tale sensibilità fosse alimentata nel giovane De fr CAL UIL ga 10 Edg, p. 354, Il. 25 sgg. 11 Edg, p. 252, 18-21.

151

Leopardi da filoni della poesia del Settecento, quanto essa sia forte e diffusa nei componimenti puerili, è ormai abbastanza noto." Nelle poesie in italiano del 1809 e 1810 la presenza di Virgilio è evidente in vari punti, anche se nel complesso non è fortissima (alcuni poeti del Settecento hanno influito di più). Dal I dell’Ezeide (33 sgg.) è preso il tema del sonetto La Tempesta della Flotta Troiana; * dal IV (173 sgg.) proviene lo spunto per il quadro della fama poco dopo l’inizio del Balaamo; * e tralascio immagini divenute banali, ma, tuttavia, attinte diret-

tamente da Virgilio, come di guerra il fulmine riferito a Scipione o la fulminea spada. Un paio di casi sono notevoli perché Leopardi vi conserva con una certa crudezza la parola latina: è un’audacia che si ritroverà nella traduzione del II dell’Ezeide e ancora nei Canti dei primi anni. Da un famoso verso di Virgilio (4er. VIII 596), che riecheggiava allusivamente Ennio, Leopardi prende l’aggettivo quadrupedante: Quand’ecco s’ode un rumorio confuso, E un calpestìo quadrupedante al suono Misto di liete evviva.!”

È conservata anche l’audacia della iunctura: calpestio quadrupedante conserva quadrupedante sonitu. Il nauticus clamor di Virgilio (Aen. III 128; V 141) resta, senza ritocchi, il nautico clamor."

In casi come questi la presenza di Virgilio si avverte a occhio nudo; vi sono casi che richiedono più attenzione, ma non sono meno certi. Per es., nel I canto de I Re Magi vediamo Tisifone che intossica del suo furore l’empio Erode:! Allor dal capo un de’ cerulei serpi Togliesi, e al petto suo destra lo scaglia; Ei tra le vesti striscia, e in esse ascoso

Lubrico serpeggiando alto furore Col viperino fiato a Erode inspira. 12 Fondamentale, com’è noto, lo studio di W. BInnI, Leopardi e la poesia del secondo Settecento, in AA. VV., Leopardi e il Settecento, Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1962), Firenze 1964, p. 77 sgg., ora in W. BinnI, La protesta di Leopardi, Firenze 1980 (3° ed., ia rist.), p. 169 sgg.; molto c’è anche nel comm. di Maria Corti, Edg. 13 Edg, p. 64. OZ ey 15 Edg, p. 46, 49 sg. (Canzonetta I): cfr. Aen. VI 842 sg. 16 Edg, p. 283, 32 (Le notti Puniche, Notte prima): cfr. Aen. IV 580; IX 442. 17 Edg, p. 190, 112 sgg. (I Re’ Magi, Canto I). 18 Edg, p. 286, 118 (Le Notti Puniche, Notte Prima). 19 Edg, p. 200, 43 sgg.

132

la scena segue abbastanza fedelmente quella famosa in cui Aletto intossica la regina Amata (Aer. VII 346 sgg.); e il senso di una forza occulta

orrida e repellente non è del tutto perduto nell’imitazione. Ci sono, ovviamente, casi incerti, in cui c'è da temere che l’accostamento sia un no-

stro gioco fallace: per es., nel sonetto La Morte il corteo di mali in cui compaiono « E Peste e Febre e la scarnata Tisi »,° richiama alla nostra memoria la folla di mali, analogamente personificati, che nel VI dell’Eneide (273 sgg.) hanno le loro tane davanti al vestibolo dell’Orco. Si può supporre anche suggestione di Orazio, Carm. I 3, 29-3321 Anche questi ultimi due raffronti sembrano confermare la lettura di Virgilio con gusto « lucaneo ». Si può aggiungere che alcuni testi di Virgilio sembrano più presenti degli altri: soprattutto il II libro dell’Ereide. La cosa va segnalata, anche se è opportuno non lasciarsi prendere dalla tentazione di scorgere presentimenti di interessi futuri: il II libro, come il IV, era una parte dell’Ezeide comunemente letta nelle scuole e comunemente apprezzata. Nei componimenti di questi anni in latino e in italiano gli echi oraziani sono più rari. Tuttavia una delle dissertazioni ‘in italiano, quella Sy/ quesito se sia più utile all'uomo la ricchezza o la povertà, si fa forte, come c’era da aspettarsi, di alcune citazioni delle odi di Orazio; ? uno dei testi qui citati, Carm. II 10, 9 sgg., è già presente in una delle esercitazioni latine, Ictus adversi fati minime lugendi sunt, là dove si ricorda che l’austro abbatte le alte querce, non solo gli umili virgulti, e che il fulmine colpisce le torri superbe piuttosto che le esili capanne.* È noto che una canzonetta sul ritorno della primavera prende l’avvio da una famosa ode di Orazio sullo stesso argomento; * e credo che la serie dei Blou, cioè dei

generi di vita, svolta nella prima ode di Orazio sia vagamente seguita in uno dei primi componimenti in italiano (Quarto la Buona Educazione sia da preferirsi ad ogni altro studio) Vedremo che il i6pos sarà utilizzato anche nei Canti. Se questi echi non sono molti, vanno però ricordate cose che tutti sanno: la traduzione della maggior parte delle odi del I e del II libro nel 1809, la traduzione in ottava rima dell'Arte poetica nel 1811. 20 Edg, p. 64, 9-12. 21 Sono un po’ meno incerto sull’ascendenza virgiliana della selva di dardi che s’addensano sullo scudo in una poesia del Catone in Africa (Edg, p. 250, 53-56): Gli alati dardi volano, / E sovra i scudi affoltansi, | Qual cupa selva orrifica | Di Marte infra l’orror: cfr. Aen. X 887, dove la silva dei dardi fittamente scagliati da Mezenzio è conficcata sullo scudo di Enea. 2 Edg, p. 393 sgg. 23 Edg, p. 430, Il. 7 sgg. 24 Edg, p. 49, 1 sgg.: cfr. Carm. I 4, 1 sgg. 2 Edg, p. 25 sg., Il. 25 sgg.

122

Il gusto e la diluizione arcadica nella traduzione delle odi, la poco felice giocosità bernesca e la prolissità nella traduzione dell’Arte sono caratteri già messi giustamente in luce: queste parti dei puerilia non hanno trovato estimatori e probabilmente non ne troveranno mai; ma sarebbe del tutto inutile insistere e infierire. Siccome è difficile trovare dettaglio che i filologi trascurino, mi soffermerò ad affrontare una piccola croce: per quanto piccolo, il problema andrebbe risolto. Nell’ode I 8 (7 nella numerazione del Leopardi) Orazio lamenta che il giovane Sibari, sedotto da Lidia, ha abbandonato certo punto (8-10):

gli sport virili in cui eccelleva;

domanda

a un

Cur timet flavum Tiberim tangere? cur olivum sanguine viperino cautius vitat ...?

Il giovane ha interrotto le sue nuotate nel Tevere, non si unge più di olio per la lotta. Leopardi traduce: Perché sempre paventa il Tebro biondo, E fugge d’affrontare L’Emol; che più d’altro veleno immondo Evita di toccare?

Maria Corti annota in apparato che « l’Emol » risponde al latino olivum:” sembra segnalare la difficoltà; meglio sarebbe stato dire francamente che la traduzione non si capisce. Io non sono sicuro di aver capito, ma, grazie a un suggerimento decisivo di un eccellente leopardista, l’amico Pacella, posso proporre un’interpretazione probabile. « L’Emol » è l’émulo,# il rivale, l'avversario nella lotta: Sibari, che ha rinunciato a questo sport, non

affronta più avversari. La maiuscola di Emol non fa difficoltà, perché in questi scritti Leopardi fa delle maiuscole un uso abbondante. Il testo di Orazio è interpretato giustamente: è chiaro che Orazio si riferisce alla lotta; ma la traduzione risulta incoerente e forzata (e non è questo l’unico caso), perché nel testo latino il veleno si contrappone all’olio, mentre nella traduzione il contrasto viene a mancare e l’accenno al veleno riesce incomprensibile. Pur frequentando Orazio, lo scolaro non ha imparato ancora ad usare la lima, strumento che per il poeta maturo sarà così importante (tutti ri% Edg, p. 95, Il. 9-12, 21M Eda, p. 497. 2 Per le forme «emol», « emolo », invece di « emulo », « emula », vedi il Dizionario della lingua italiana di Tommaseo e Bellini (ricorrono, per es., in scrittori del Cinquecento e del Seicento come Davanzati e Segneri).

154

cordano lo Scherzo, compreso nei Canti, che si riferisce, appunto, all’abbandono della lima nella poesia contemporanea). E, tuttavia, dalla lettura

dell’Ars gli è rimasto impresso profondamente il concetto che la mèta dell’arte non si raggiunge senza fatica e sudore, che la poesia richiede studio assiduo ed esercizio vigile: lo dimostrano i due versi dell’Ars usati

come motto, di cui ho parlato poco fa. Per altre raccolte dei puerilia, prende a motto versi dell’Ars o della quinta ecloga di Virgilio adatti ad esprimere la modestia di chi non si sente sempre sicuro nei suoi tentativi:? queste scelte non sono discordanti. Il concetto che la poesia non è improvvisazione, che la poesia si nutre di cultura e di fatica, resta sempre uno

dei fondamenti della poetica leopardiana. 2. I puerilia sono certamente utili per conoscere alcuni presupposti culturali della poesia di Leopardi, specialmente quelli da ricercare nella poesia del Settecento. Non mancano alcuni sprazzi di sensibilità che gettano qualche luce sulla poesia futura: per es., l'amore per i notturni, il gusto per paesaggi bucolici, un certo fascino della solitudine. Ma in complesso i puerilia non vanno sopravvalutati come precorrimento della poesia futura;

mi sembra,

del resto, che questo

errore

sia stato evitato.”

Soprattutto sono scarsi i germi del linguaggio poetico proprio del Leopardi."! La formazione del linguaggio poetico leopardiano incomincia, si può dire, dopo i primi contatti con la poesia greca, dalle traduzioni di poeti greci. Anche se alcune di queste traduzioni, quelle comprese negli Scherzi epigrammatici, risalgono al 1814,” l’inizio di cui parlo si colloca piuttosto nel 1815: è segnato, cioè, dalle traduzioni di Mosco e coincide, press’a poco, con la ben nota « conversione letteraria », sulla quale condivido le precisazioni e le riserve di Timpanaro.* Sulla via che s’apre dopo questa svolta, l’elaborazione poetica si accompagna con una continua riflessione sulla poesia, che si svolge in gran parte in polemica col romanticismo e che troverà una certa sistemazione nel Discorso di un italiano in29 Per la raccolta 10 il motto è Opere in longo fas est obrepere somnum (Ars, p. 360) (Edg, p. 207), per la raccolta 15 Non semper feriet quodcumque minabitur arcus (Ars, p. 350) (Edg, p. 327); Virgilio, Buc. 5, 36 sg. è usato per il motto alla raccolta 14 (Edg, p. 309). 30 L’analisi condotta da H. L. ScHeEL, Leopardi und die Antike, Die Jahre der Vorbereitung (1809-1818) in ibrer Bedeutung für das Gesamtwerk, München 1959 (« Münchener Romantische Arbeiten », 14), pp. 11-35, spec. 35, mi sembra generalmente accettabile. 31 Un legame fra i puerilia e le traduzioni epiche degli anni seguenti è nei composti epici del tipo « ombri-frondoso » (Balaam in Edg, p. 218, 152), « alto-rimbombo » ( ibid., p. 121, 47), « alto-fischiante » (ibid., p. 223, 89), « occhi-cilestra », « occhi-glauca » (nella trad. del I dell'Odissea) ecc. 32 Cfr. E. Bici, La genesi del « Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo 1967, p. 18, n. 10. 33 Cfr. S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Bari 1977?, p. 21.

192

torno alla poesia romantica del 1818. L’intreccio fra l’attività del poeta traduttore e la riflessione estetica è stato già analizzato in modo persuasivo, particolarmente in uno studio acuto e importante di Emilio Bigi:* ciò mi permette di procedere con rapidità, enucleando solo alcuni punti che è utile tener presenti nel cammino successivo. La poesia vera è imitazione della natura, e la natura s’identifica per Leopardi con la vita primitiva, semplice, incorrotta; la prima qualità della poesia è la naturalezza. Modelli di naturalezza, semplicità, grazia e potenza espressiva sono i poeti antichi, fra questi specialmente i poeti greci fino a Teocrito, Mosco, Callimaco, fra i poeti greci soprattutto Omero. Imitare i poeti antichi non significa imitare le loro opere (questo sarebbe servilismo da ripetitori, da copisti); non significa seguire regole codificate, perché con le regole non si fa poesia (anzi Leopardi insisterà sul concetto che le regole sono nate dopo la poesia, non prima): imitare i poeti antichi significa collocarsi rispetto alla natura e al proprio tempo così come essi facevano. Rifarsi all’imitazione della natura non significa negare l’arte; anzi l’arte è necessaria per conquistare l’imitazione diretta della natura,

per eliminare tutti gli elementi superflui che offuscano la naturalezza. Ma l’arte non è sopravvalutata: è necessaria, ma non basta: se essa non presuppone e non rende attiva la forza dell’ispirazione, la mèta della vera poesia non si raggiunge.

Persino davanti a Omero noi esitiamo a parlare di poesia primitiva; ma al tempo di Leopardi, e per lungo tempo dopo di lui, lo facevano un po’ tutti. Potrà parerci, invece, strano che Leopardi trovasse la naturalezza primitiva nei poeti che noi chiamiamo

alessandrini, Teocrito, Mo-

sco, persino Callimaco. Ma va tenuto conto del modo in cui venivano gustati e valutati i poeti bucolici greci nel Settecento, e non solo dagli arcadi; e il discorso vale anche per le anacreontee, frutti piuttosto insipidi di età tarda. Teocrito, del resto, fino alla seconda metà dell’Ottocento, veniva accostato più ai classici che agli alessandrini. Il paradosso si attenua anche per Callimaco, se si considera che in realtà la naturalezza di Leopardi coincide in parte con la concentrazione espressiva, l’eliminazione della gonfiezza, la riduzione della rappresentazione all’essenziale. Leopardi giudicava i poeti alessandrini non diversamente da Heyne, il commentatore di Virgilio: con la simzplicitas e il nitor gli alessandrini avevano scacciato il tuzzor dei tragici e si erano riaccostati a Omero: la loto reazione allo stile gonfio somigliava a quella degli Arcadi contro il seicentismo.

3 Op. cit., pp. 9-80; cfr. anche l’op. cit. di H.L. Scheel, pp. 78-135. 38 Nell’introduz. all’Eneide (vol. II, p. 4, del comm. a Virgilio, ed. di Lipsia 1800).

156

I poeti alessandrini, dunque, non venivano travolti dal « primitivismo classico » (il termine caratterizza abbastanza giustamente e felicemente la poetica leopardiana); i poeti latini, però, correvano il pericolo di essere travolti. Sulle oscillazioni che subisce anche in Leopardi la valutazione della poesia latina, mi soffermerò in seguito, utilizzando alcune note dello Zibaldone; ma il pericolo s’affaccia fin dall'inizio. Nel Discorso sopra Mosco (premesso alle traduzioni da questo poeta) Virgilio viene trattato sprezzantemente come poeta di nessuna originalità:*

Sì Teocrito che Mosco sono originali, giacché Mosco non è un copista come Virgilio ...

Si tratta di uno sbandamento momentaneo. Dal contesto pare che il riferimento vada alle Bucoliche, l’opera di Virgilio che Leopardi ha meno frequentato. Per Virgilio espressioni come questa non torneranno più in Leo-

pardi. Alla traduzione del II dell’Ezeide fu mosso non da sola ammirazione, ma da amore entusiastico, da bisogno irrefrenabile della fantasia e

del cuore, testimoniatoci, nella prefazione ardente e bellissima che non citerò perché che le conferme che troviamo in lettere a Fra Omero e Dante, Virgilio è ammirato

alla traduzione, in una pagina è molto nota; e note sono anGiordani dell’anno seguente.” come uno dei grandi imitatori della natura; * egli viene letto con lo stesso gusto, gli stessi interessi dei poeti greci, ma probabilmente con più amore, più partecipazione, e ciò si deve anche al pathos di Virgilio, pathos che è spesso pietà per le sventure e l’infelicità umana. La naturalezza è concentrazione espressiva. Per conservarla Leopardi si propone, sia per Omero sia per Virgilio, di rispettare la fedeltà al testo: conservarne le immagini, ma innanzi tutto non diluirlo e non tagliarlo. Per la fedeltà sente che gli giova molto l’uso dell’endecasillabo sciolto: la rima costringe a diluire ed è un ostacolo a una buona traduzione.”

Proprio all’inizio del II dell’Ezeide il traduttore riesce a concentrare più dell’originale: « Tutti ammutiro e s’affisaro »: in meno di un endecasillabo un esametro di Virgilio. Qui Leopardi si comporta come Davanzati con Tacito (Davanzati era un traduttore da lui ammirato). Questo pro-

blema egli si poneva in generale di fronte ai poeti antichi; ma Virgilio poneva anche altri problemi, che affascinavano e tormentavano il traduttore. 36 Le poesie e le prose, ed. Flora, I, p. 575. Citerò l’edizione con PP. 37 Lett. 37 del 21 marzo 1817 (I, p. 41 ed. Moroncini); 48 del 30 aprile 1817 (iid., p. 85). 38 Cfr., per es., lett. 54 del 30 maggio 1817, al Giordani (I, p. 100). 39 Cfr. la prefazione alle Iscrizioni greche trioepee (PP, I, p. 545), e Parere sul salterio ebraico (PP, II, p. 621), testi ambedue del 1816. La questione è toccata da H.L. SCHEEL, op. cit., p. 80, n. 5, che accenna anche alla scelta diversa per la Batracomiomachia.

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Bisognava rendere il pathos di Virgilio, bisognava conservarne la giusta altezza dello stile. Scrive Leopardi rivolgendosi al lettore, nella prefazione alla traduzione del II dell’Eneide:® Ma che la difficilissima cosa siami stata non intoppare nel gonfio e non cascare nel basso, ma tenermi sempre mai in quel divino mezzo che è il luogo di verità e di natura, e da che mai non si è dilungata la celeste anima di Virgilio; questo, io penso, comprenderai agevolmente.

L’abbassamento della dignità dello stile di Virgilio è la pecca più grave della traduzione del Caro, un poeta che egli non disprezza ‘affatto, ma su cui avanza riserve, con gusto finissimo, in più occasioni, a cominciare dalla prefazione alla Titanorzachia di Esiodo.“ Per Esiodo il Caro avrebbe potuto essere un buon traduttore; per tradurre Virgilio il Leopardi consiglia piuttosto di « studiare assaissimo il Parini ».* Gli si potrebbe rimproverare che neppure lui è stato impeccabile nel difendere la nobiltà dello stile: c'è qualche elemento lessicale che stride: per es., figliuoli, miserelli, manette, frotta, sbarbare* Forse ciascuno di questi casi è difendibile con

testi di poeti italiani, ma lo stridore resta. È innegabile, però, che la cura di elaborare uno stile nobile, adeguato all’originale, è stata in Leopardi fortissima, persino ossessiva:

è stata, infatti, raccolta una buona messe di

latinismi crudi, senza contare gli aulicismi di altra origine. Non m'intratterrd più a lungo su questa traduzione, che molti, e specialmente il Bigi, hanno illustrata e valutata adeguatamente. Indagini più sottili potranno trovare in questa traduzione e in altre non pochi elementi del linguaggio poetico dei Canti, in particolare delle canzoni dal 1818 al 1823, soprattutto nelle canzoni civili.® Io non mi propongo un tale compito, ma vorrei indicare con un esempio quali tramiti nascosti segua talvolta la storia del linguaggio poetico di Leopardi. Leggiamo l’esordio, tragicamente grandioso, del Bruto minore: Poi che divelta, nella traccia polve Giacque ruina immensa L’italica virtute ...

GOSD PTS D AGIT AP PATER! RPPSTS DS Gt 4 Cfr. PP, I, p. 625 (figliuoli, miserelli, manette); 634 (frotta); 642 (sbarba). Mi limito a citare la pagina, perché nell’ed. del Flora i versi non sono numerati. 4 Op. cit., p. 55 sgg.; per i latinismi cfr. p. 60 sg. 4 Un'indagine del genere èx stata condotta molto egregiamente da L. Blasucci, ottimo conoscitore dello stile leopardiano, nella comunicazione presentata a questo convegno.

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Leopardi in una « annotazione » a questo punto richiama, per una que-

stione di sintassi, l’esordio del III libro dell’Ereide:* Postquam res Asiae Priamique evertere gentem immeritam visum superis ceciditque superbum Ilium et omnis humo fumat Neptunia Troia ...

Certamente questo passo ha suggerito l’esordio del Bruto minore. Ma lì c’è l’immagine dell’evertere, non quella del divellere, che è cara al Leopardi (cfr. All’Italia, 121 sg. « Prima divelte, in mar precipitando, / Spente nell’imo strideran le stelle »). La traduzione data dal Leopardi è particolarmente scialba: Poi che parve agli dei sfar d’Asia il regno ...

(questa traduzione dei primi 21 versi del III libro dev’essere un abbozzo non limato). Ma la radice dell'immagine è, io credo, virgiliana. Leggiamo in un passo della traduzione del II dell’Ezeide:* allor nel foco Tutto vidi sommerso Ilio, e divelta La Nettunia città da l’imo fondo.

Nemmeno qui c’è l’immagine del divellere: il testo latino corrispondente (Ae. II 625) ha verti. Ma segue un confronto di Troia distrutta con un orno vetusto che, colpito a lungo, accanitamente, dagli agricolae, dopo lunga resistenza s’abbatte al suolo: traxit... avolsa ruinam (631). Ecco che, nel secondo termine della similitudine, compare l’immagine leopardiana: avolsa, che Leopardi traduce con divelta e che trasporta anche nel primo termine. Negli ultimi mesi del 1816 c’è una nuova svolta nell’attività letteraria del Leopardi, secondo me non meno importante, e, forse, più importante,

di quella, lenta e graduale, del 1815. La svolta è innanzi tutto nella vita: ammalatosi dopo anni di studio frenetico, Leopardi è convinto che la sua morte è imminente; e la convinzione durerà per alcuni anni. Presto verranno l’amicizia entusiasmante col Giordani e le infelicità d’amore. L’Appressamento della morte e le due elegie, anche se la seconda elegia fu scritta verso la fine del 1818, anche ammesso che la prima elegia sia stata stesa alcuni mesi dopo il dicembre 1817, sono i frutti più immediati di questa svolta. In queste poesie i colori di fondo vengono, come si sa, da + P. PIRICEP RAO0rS8: 41, PP pi.649; 48 PP, I, p. 642.

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Petrarca, Dante, per la cantica anche dalla poesia di visioni del Settecento; ma la presenza di Virgilio e di Orazio e, in generale, dei classici greci e latini è quasi nulla. Qualche eco è stata segnalata dallo Scheel.® La musica dolcissima dell’usignuolo nel primo canto dell’Appressamento della morte (11 sg. « E ’l mesto rosignol che sempre piagne / Diceva tra le frasche suo lamento ») ® è eco fugace di un famoso passo del IV delle Georgiche (511 sgg.) che Leopardi ebbe particolarmente caro: vale la pena di citare la presentazione entusiastica che di questo passo egli dà nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica Altro splendidissimo esempio di quella immortale naturalezza è Virgilio, nel qual poeta fu per certo una sensibilità così viva e bella quanto presentemente in pochissimi. De’ cui molti e divini luoghi sentimentali non posso fare ch’io non ricordi la favola d’Orfeo ch’è nel fine delle Georgiche, e di questa non reciti quella similitudine ...

Nel notturno all’inizio del canto è stata avvertita giustamente un’eco da Ovidio (2 sg. « queta / De’ cani era la voce e de la gente » da Trisé. I 3, 27 sg.): particolare notevole, perché gli echi ovidiani non sono molti, credo, in Leopardi. Mi chiedo se ciò che precede (« E queto il fumo sopra i tetti ») non prenda lo spunto, per contrasto, dal penultimo verso della

prima ecloga di Virgilio (villarum culmina fumant, che si riferisce alla sera)? Ma, lasciando stare accostamenti troppo incerti,” vorrei introdurne uno forse più convincente. Rileggiamo due terzine della prima elegia, quella accolta nei Canti sotto il titolo Il primo amore (43-48): Ed io timido e cheto ed inesperto, Ver lo balcone al buio protendea L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, La voce ad ascoltar, se ne dovea Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse; La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea.

4 Op. cit., p. 148. © PP, I, p. 342. Si PP, II, p. 526. 5 Forse (ma mi limito a un suggerimento

dubitativo) la chiusa della prima ecloga era

nella memoria del Leopardi anche quando scrisse I] sabato del villaggio: cfr. maioresque cadunt

altis de montibus umbrae con 17-19 «tornan l’ombre / Giù da’ colli e da’ tetti, / Al biancheggiar della recente luna »: da notare che prima aveva scritto « A la luce del vespro e de la luna » (pensava, cioè, alle ombre della sera).

53 Nel canto V della cantica l’addio alle Muse «O dolci studi, o care muse, addio » (PP, I, p. 364) riecheggia forse Catal. 5, 9 sgg. Ite hinc, Camenae, vos quoque ite iam, sane / dulces Camenae (nam, fatebimur verum, | dulces fuistis); nel canto II « Orrendo un gel mi sdrucciolò per l’ossa » deve forse la sua brutta immagine a qualche verso di Virgilio come, per es., Ge. III 457 ima dolor... lapsus ad ossa.

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Il ritmo sintattico, con la caratteristica epanalessi di v. 46 (La voce ...) nel v. 48, mi dà la certezza che Leopardi aveva nell’orecchio il commento lirico con cui Virgilio accompagna la disperazione di Cassandra nel II libro dell’Eneide (405 sg.):

ad caelum tendens ardentia lumina frustra,

lumina, nam teneras arcebant vincula palmas.

Anche Orazio è chiaramente l’ispiratore in un punto della cantica: là dove, nel canto V (38-51); Leopardi proclama la certezza della sua im-

mortalità. Già lo Scheel ha avvertito un’eco di Carm. III 30, in particolare dell’Omzzis non moriar (con quel che segue) nei vv. 48 sg.:5 non vedrò mia fama Tacer col corpo da la morta riva.

Credo che sia utile una precisazione. Un altro testo oraziano presente, più che Carm. IV 2 (l’ode su Pindaro), dove Orazio esprime (almeno esplicitamente) modestia, non orgoglio, è lo Schlussgedicht del 1I libro delle odi (II 20). Il canto di gloria di Leopardi ha qualche punta ingenua e barocca (42 sg.): A volo andrò battendo ala sicura. Son vate: i’ salgo e ’nver lo ciel m’avvento ...

L’ispirazione viene da una delle immagini meno felici di Orazio, quella di se stesso poeta trasformato alla morte in cigno: Non usitata nec tenui ferar

pinna biformis per liquidum aethere vates ...

(ma un po’ tutta l’ode è dietro il passo di Leopardi). Dopo i Puerilia (se comprendiamo fra questi la traduzione dell’Ars poetica) e prima dei Canti Leopardi si occupa poco di Orazio. Il « discorso » Della fama di Orazio presso gli antichi, del 1816, è tra i prodotti meno brillanti della sua attività di erudito. Lo scopo, dimostrare che la fama di Orazio fu scarsa nell’antichità, non è raggiunto, perché egli tiene conto solo delle fonti erudite, esplicite, non dell’influenza di Orazio sulla poesia di età imperiale (Ovidio, Persio ecc.). Poiché si tratta di cosa generalmente riconosciuta, sarebbe inutile insistere. Piuttosto il discorso conSI, I, e Sr 55 Op. cit., p. 152 nota 46.

161 11

tiene, verso la fine, riflessioni importanti, specialmente per la poetica leopardiana, sulla scarsa considerazione in cui comunemente la lirica è tenuta rispetto all’epica e, di nuovo, sul tradurre. Ciò nonostante, Orazio torna ad essere, almeno dagli inizi del 1817 in poi, un poeta che Leopardi legge spesso: ne è testimonianza una lettera al Giordani del 30 aprile di quelPanno:* E m'è pure avvenuto di trovarmi solo nel mio gabinetto colla mente placida e libera, in ora amicissima alle muse, pigliare in mano Cicerone, e leggendolo

sentire la mia mente far tali sforzi per sollevarsi, ed essere tormentato dalla lentezza e gravità di quella prosa per modo che volendo seguitare, non potei, e diedi di mano a Orazio.

Resta, comunque, vero che nella svolta attraverso cui incomincia il suo iter di poeta dell’infelicità propria e dell’infelicità universale, Leopardi ha per compagni Petrarca e Dante piuttosto che Virgilio e Orazio. In questi anni dal 1813 al 1818, decisivi nella formazione del poeta, direi, con una

certa semplificazione, che tre o quattro filoni di attività culturale si giustappongono: l’attività erudita e filologica; le traduzioni di poeti greci e latini riprese con orientamento nuovo nel 1815, a cui si possono accostare le imitazioni come l’Inzo a Nettuno, le Odae adespotae, e anche

l’idillio Le rimembranze, e con cui s’intreccia la riflessione sulla poetica; la linica personale che nasce negli ultimi mesi del 1816; più in ombra un filone di eloquenza civile testimoniato dall’Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno, ma presente soprattutto nella polemica contro il romanticismo. Naturalmente tra questi filoni ci sono contatti; ma la mia opinione è che essi restano, prima delle canzoni civili del 1818, sostanzialmente separati.

3. Dal 1818 o ’19 in poi il quadro dell’attività culturale di Leopardi diventa, mi sembra, più omogeneo. L’attività filologica resta autonoma, ma si rallenta molto.” Certo, nella poesia dal 1818 al 1821 si possono distinguere i filoni della poesia civile e degli idilli, ma i contatti e le convergenze sono tanti da rendere spesso incerti i confini. Nell’ambito di questa ricerca importa costatare che l’Areignung della poesia greca e latina si fonde ormai con quella della poesia italiana nell’elaborazione dei Canti; la presenza, in particolare, di Virgilio è inferiore, forse, solo a quella di Petrarca.

Sul piano dell’elaborazione stilistica i modi dell’ Aneignung continuano evidentemente l’esperienza poetica degli anni dal 1815 al 1817: la con56 Lett, 48 (I, p. 85). 5 Sulle ragioni cfr. S. TIMPANARO, op. cit., p. 49 sgg.

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tinuità appare specialmente nella concentrazione espressiva e nella scelta del lessico peregrino (per usare il termine del Leopardi). Ma ora è molto più forte (tanto più forte da far pensare a un salto di qualità) l’attenzione all’effetto espressivo delle iuncturae difficili (iuncturae fra nome e agget-

tivo, fra verbo e accusativo ecc.). Sia la scelta del lessico nobile sia il procedimento delle iuncturae ardite, insomma un po’ tutti gli ardimenti dello stile, sono interpretati da Leopardi in questi anni alla luce della sua poetica dell’indeterminato, una poetica originalissima che permea, com’è noto, gran parte della sua poesia. L'elaborazione di questa poetica si può seguire attraverso pagine dello Zibaldone, parecchie delle quali sono a loro volta permeate di una sottile liricità. Io mi limiterò a richiamarne alcune, che illuminano l’interpretazione leopardiana dello stile di Orazio e Virgilio. Il meglio sarà citare alcuni dei passi più importanti. Incominciamo da Orazio.

Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore, tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio, non sono bene spesso altro che un bell’uso di quel vago e in certo modo quanto alla costruzione, irragionevole, che tanto èx necessario al poeta (Zib. 61 = I, p. 91).*

Il caso da cui ha preso lo spunto è l’immagine della mano di bronzo (#anu ... aéna) nell’ode di Orazio alla Fortuna (Carm. I 35, 18 sg.). L’im-

magine sarà ripresa e accentuata nel Bruto minore 31 sg. « la ferrata / Necessità », dove il « peregrino » è accresciuto dall’uso di ferrato per ferreo, uso difeso dal Leopardi in una lunga e dottissima « annotazione ».”? Il passo citato dello Zibaldone verrà richiamato in un’altra nota, e verrà ripreso anche il riferimento

a Orazio

(Zib.

1312 = I, p. 885,

13 lu-

glio 1821): Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l’eleganza delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista nell’indeterminato.

Due note di pochi mesi dopo (3 e 4 novembre 1821) offrono un’interpretazione tutta leopardiana della concisione espressiva. Cito poche righe dalla prima (Zib. 2041 = I, p. 1269): La rapidità e la concisione dello stile, piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee, o così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee,

e fanno ondeggiar l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e 58 Cito, come si fa di solito, la pagina del manoscritto, ma aggiungo la corrispondenza con l’ed. del Flora. 59 PP, I, p. 168 sgg.

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sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni.

Ovidio è poeta fiacco proprio perché gli manca questa rapida simultaneità, perché presenta l’immagine gradatamente e dettagliatamente (lo Zibaldone ha su Ovidio altri giudizi negativi molto acuti ®). La forza e la bellezza dello stile rapido si ritrovano in Dante, Orazio, Tacito; Orazio

ottiene l’effetto o con la parola singola o con la costruzione o con l’inversione o con la traslazione di significato. Che Leopardi abbia in mente soprattutto Orazio, è confermato dall’altra nota, scritta il giorno seguente (Zib. 2049-2052 = I, pp. 1272 sg.). Qui Leopardi ammira lo stile di Orazio perché « tiene l’anima in continuo e vivissimo moto ed azione, col

trasportarla a ogni tratto, e spesso bruscamente, da un pensiero, da un’immagine, da un’idea, da una cosa ad un’altra, e talora assai lontana, e di-

versissima ». Questo moto continuo dà una sensazione di vigore che è anche sensazione di piacere: Leopardi la paragona a quella che si prova camminando rapidamente o nell’essere trasportati da veloci cavalli o in qualunque azione energica, e connette l’osservazione con la sua teoria del piacere. Per dimostrare la sua caratterizzazione dello stile di Orazio commenta la penultima strofa di Integer vitae (Carm. I 22), mettendo in rilievo la frequenza e la lunghezza (sottolineature dell’autore) « dei salti da

un luogo, da un’idea all’altra ». Bisogna aggiungere che, secondo Leopardi, Orazio s'impone all’ammirazione come stilista perché nella rapidità e nella concisione sa mantenere la giusta misura, senza cadere nell’oscurità, senza stancare.

Press’a poco lo stesso concetto opera nell’interpretazione di un’ardita iunctura di Virgilio, aridus fragor di Ge. I 357 sg., detto del rumore di rami secchi nella selva che si urtano fra loro (Zid. 2054 sg. = I, p. 1274 sg.); la nota segue di appena un giorno quella su Orazio citata poco fa.

Il fascino dell’espressione dipende per Leopardi dal fatto che l’immagine è solo accennata, solo accennata la connessione fra i due termini: questo procedimento «obbliga l’anima ad una continua azione, per supplire a ciò che il poeta non dice, per terminare ciò ch’egli solamente comincia, colorire ciò ch’egli accenna, scoprire quelle lontane relazioni, che il poeta appena indica ec. ». Nella lettura di Virgilio, però, il concetto dell’indeterminato opera 6 I felici giudizi di Leopardi su Ovidio sono stati valorizzati adeguatamente da E. ParaTORE, Il Leopardi e la letteratura latina postoraziana, in AA. VV. Il Leopardi e l’Ottocento. Atti del II Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 1-4 ottobre 1967), Firenze 1970, p. 498 sgg. Riflettendo su questi giudizi, mi sono convinto che anche come critico letterario, non solo come filologo, Leopardi merita considerazione molto maggiore di quella da me altre volte dichiarata.

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più profondamente. Il grande poeta latino è associato a Orazio come modello di eleganza: e la loro eleganza « consiste nel pellegrino dei modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel pellegrino delle metafore ec.» (Zib. 1323 = I, p. 892, 14 luglio 1821). Il « pellegrino », l’itregolarità controllata dalla misura, l’« indeterminato » costituiscono per Leopardi il fascino del famoso e difficile verso Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt (Aen. I 462) (Zib.

1337 = I, p. 900, 17 luglio 1821). Questo stesso passo dell’Ezeide è richiamato in una nota dedicata all’interpretazione dell’ablativo in Ge. I 44 et Zephyro putris se glaeba resolvit (Zib. 2288-2291 = I, p. 1384 sg. 26 dicembre 1821). Leopardi incomincia con un’osservazione generale sulla lingua latina, che presuppone, perd, soprattutto l’esperienza del linguaggio poetico: La lingua latina così esatta, così regolata e definita, ha nondimeno moltissime frasi ec. che per la stessa natura loro, e del linguaggio latino, sono di significato così vago, che a determinarlo, e renderlo preciso non basta qualsivoglia scienza di latino, e non avrebbe bastato l’esser nato latino, perocch’elle son vaghe per se medesime, e quella tal frase e la vaghezza della significazione sono per essenza loro inseparabili, né quella può sussistere senza questa.

Leggiamo anche il commento al passo delle Georgiche: Quest’è una frase regolarissima, e nondimeno regolarmente e grammaticalmente indefinita di significazione, perocché nessuno potrà dire se quel Zephyro significhi al zefiro, per lo zefiro, col zefiro ec.

Questa via presenta i suoi rischi, come possiamo vedere da recenti teorie sulle ambiguità stilistiche, che magari usano per Ometo o per Saffo un metro buono per Mallarmé; © ma la funzione dell’ablativo in Virgilio è talvolta così sfuggente che la riflessione del Leopardi non solo è spiegabile, ma può avere una sua validità; in ogni caso è finissima e importante per capire il suo stile. Per. es., egli usa lo stesso concetto, elaborato sull’esperienza dei classici latini, per difendere in una postilla l’uso della proposizione di nel v. 68 dell’Ultimzo canto di Saffo (« Ecco di tante /

Sperate palme e dilettosi errori, / Il Tartaro m’avanza »). Credo utile ci-

tare una parte della postilla:® 61 Non so se lo Zibaldone sia stato usato dai recenti teorici dell’ambiguità stilistica: Leopardi offrirebbe non poco materiale utile. L’ambiguità di cui è questione a questo punto, si può accostare, se non erro, all’ambiguità grammaticale di cui tratta W. EMpPSsoNn, Sette tipi di ambiguità. Indagine sulla funzione dell’ambiguità nel linguaggio poetico, Torino 1965 (prima ed. dell’originale inglese Londra 1930), p. 103 sgg. 6 PP, I, p. 448.

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Cosi il di viene a stare molto naturalmente per da o per o Che se la frase è ardita e rara, non per questo è oscura, ma il senso rissimo. E di queste tali espressioni incerte, e più incerte ancora di bonda la poesia latina, Virgilio, Orazio, che sono i più perfetti:

cosa simile. n’esce chiaquesta n’abanzi questi

due n’abbondano massimamente. E lo stesso incerto, e lontano, e ardito, e inusitato, e indefinito, e pellegrino di questa frase le conferisce quel vago che sarà sempre in sommo pregio appresso chiunque conosce la vera natura della poesia.

Credo che ancora lo stesso concetto operi in una noterella marginale apposta da Leopardi ai vv. 65 sg. di questo stesso canto (« Ogni più lieto / Giorno di nostra età primo s’invola »): « Primo dipende da età o spetta a s’invola? Domandatelo a Virgilio » (è ben noto che egli traduce Ge. III 66 sg. Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi / prima fugit). Nel commento di Fubini e Bigi è annotato: « Dunque primo va collegato con s’invola: i giorni più lieti sono i primi a fuggire ». Non sono certo che la nota del Leopardi sia stata bene interpretata: crederei piuttosto che Leopardi ritenga ambiguo, « indefinito » il legame sintattico di prima in Virgilio e che con l’ambiguità di Virgilio intenda giustificare la propria. La poetica dell’indeterminato investe non solo lo stile in se stesso, ma i rapporti dell'espressione con le sensazioni e i sentimenti. Una nota che si riferisce a questo tema, richiama un passo dell’'Ereide che probabilmente è stato il più caro alla fantasia e al cuore di Leopardi (Z:b. 19271930 = I, p. 1215 sg., 16 ottobre 1821). Cito l’inizio della nota: Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce o degli oggetti visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che spetta all’udito.

Il brano, anche per il suo valore poetico, andrebbe citato tutto, ma mi limiterò alle ultime righe, da cui si vede quale peso abbia avuto, nella formazione di questa sensibilità e in questa riflessione, il passo di Virgilio: Vedi in questo proposito Virgilio, Eneide, VII, v. 8 sgg. La notte o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare, i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata.

Il passo, dunque, è quello in cui Virgilio, poco dopo l’inizio del libro VII, evoca musicalmente l’assiduo canto di Circe, che nella notte lunare giunge,

6 Ho poi visto che l’interpretazione secondo me giusta della nota marginale già da G. A. Levi (comm.

ai Canti, Firenze

cfr. « Belfagor », 26, 1971, p. 247.

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fu scorta

1921, p. 111) ed è stata accolta da Timpanaro:

attraverso la distesa tranquilla delle acque, dalla reggia nascosta fra i sacri boschi. Leopardi ha avuto nell’orecchio questo canto di Circe fin dall’in-

fanzia: nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza ha annotato:*

Lettura di Virgilio e suoi effetti, notato quel passo del canto di Circe come pregno di fanciullesco mirabile e da me amato già da scolare, così notato quel far tornare Enea indietro nel secondo libro ...

Nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica egli cita lo stesso passo per dimostrare ai suoi avversari che i poeti antichi sono« sentimentali »: sono ben noti gli echi del canto di Circe nell’idillio La vita solitaria (63 sgg.) e nel canto A Silvia (7 sgg.; 20 sgg.); e sono note le vicende di un verso di quest’ultimo canto, il 22 « Che percorrea la faticosa tela »: dall’autografo conservato nelle carte napoletane risulta che Leopardi aveva scritto in un primo tempo percotea, scostandosi da Virgilio; poi si riaccostò al suo poeta (Aer. VII 14 arguta tenuis percurrens pectine telas), forse più per ragioni musicali che d’immagine Il fascino di Virgilio sul poeta dell’indefinito e dell’infinito è sottolineato da alcuni echi in passi che evocano la quiete della notte o spazi silenziosi o la solitudine. Sono echi già segnalati nei buoni commenti:® posso, quindi, limitarmi a pochi e rapidi accenni. La Vita solitaria 5 « Già tace ogni sentiero » prende lo spunto da Aer. IV 525 facet omnis ager, che è nel famoso notturno in cui si colloca un monologo di Didone. Il risorgimento 21 sg. « la tacita / Notte più sola e bruna » è un’altra eco virgiliana (4er. VI 268). Per un passo della canzone Alla Primavera 27 sg. « l’ardue selve (oggi romito / Nido de’ venti) » la radice virgiliana è indi-

cata da Leopardi stesso. Fino all’edizione napoletana (del 1835) la lezione era « romita / Stanza di venti », e il Leopardi citò a proposito Aer. II 23 nunc tantum sinus et statio male fida carinis, detto della deserta isola di Tenedo, un tempo famosa e ricca. E anche « la tacita selva » di Ultimo canto di Saffo 3 è virgiliana (Aen. VI 386; VII 505). Quando nell’elegia Il primo amore una terzina particolarmente musicale (31-33) esprime la sensazione che coglie il primo incerto mormorio del vento nella selva, mi chiedo se Leopardi non avesse nell’orecchio passi di Virgilio come questo di Aen. X 97 sgg.:

StEPPAIMpyT676: 6 Vedi, comunque, la nota al verso di Leopardi nel commento Robertis (Milano 1978). 6 Mi riferisco ai commenti di Straccali

ai Canti di G. e D. De

e Antognoni, di Fubini e Bigi (Torino 1969), di

G. e D. De Robertis. Ho tenuto presente soprattutto quello di Fubini e Bigi, abbastanza ricco di riferimenti ai classici latini.

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ceu flamina prima cum deprensa fremunt silvis et caeca volutant murmura venturos nautis prodentia ventos.”

Ma è probabile che la suggestione di Virgilio verso la poesia dell’indefinito vada molto più in là di quanto non sia documentabile col raffronto di loci similes. À prolungare l’effetto di certi aggettivi, specialmente significanti spazio, contribuisce molto in Leopardi l’erjambement, che forse nessun poeta ha usato con effetto lirico più potente di lui. Tralasciando i casi notissimi dell’idillio L'infinito, dove l’effetto è ulteriormente potenziato dalla lunghezza degli aggettivi, cito sporadicamente alcuni esempi: « Immenso / Tra fortuna e valor dissidio pose / Il corrotto costume » (Nelle nozze della sorella Paolina 17 sgg.); « agl’infiniti / Flutti commesso » (Ad Angelo Mai 80 sg.); « negl’infiniti / Campi del tutto » (AI conte Carlo Pepoli 82 sg.); « senza quella / Nova, sola, infinita / Fe-

licità » (Azzore e morte 37 sgg.); « odi lontano / Tintinnio di sognagli » (La quiete dopo la tempesta 22 sg.); « un lungo / Servaggio ed aspro » (Aspasia 87 sg.); «la vasta / Fuga de’ greggi » (Ultimo canto di Saffo 15 sg.); « d’alto / Fiume alla dubbia sponda » (Ultizzo canto di Saffo 16 sg.); « ond’alto / Par, come d’urna piena, / Traboccare il piacer » (Sopra il ritratto di una bella donna 9 sgg.). Mi rendo ben conto che quest’uso va collocato in una storia dell’endecasillabo italiano, specialmente dal Parini, o dal Tasso in poi; tuttavia, sia per la familiarità di Leopatdi coi testi di Virgilio sia per la diffusione di usi analoghi nel poeta latino, io sarei incline ad ammettere anche la suggestione diretta di Virgilio. Ecco qualche esempio virgiliano con ingens: Aen. I 99 sg. ingens | Sarpedon; Aen. II 325 sg. fuit Ilium et ingens | gloria Teucrorum; Aen. X 870 sg. Aestuat ingens | uno corde pudor (cfr. anche XII 666); Ge. I 380 sg. bibit ingens | arcus.®*i Qualche esempio con altus: Aen. IV 665 sg. it clamor ad alta | atria; VII 82 sg. lucosque sub alta | consulit Albunea; Aen. II 307 sg. stupet inscius alto / accipiens sonitum saxi de vertice pastor; Ge. I 486 sg. et altae / per noctem resonare lupis ululantibus

urbes.®

67 Cfr. anche Ge. I 359 nemorum increbrescere murmur (nello stesso passo dell’aridus fragor); Aen. XII 591 sg. &”Cfr. anche Ge. 11-65; III 2607 1V 210; Aew VII570:V (156; VIIZAL 68 bis Non sarà superfluo a questo punto ricordare che Leopardi sentiva come poeticissime «le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità, ec. ec.» (Zi0. 1825 =.I, p. 1164). © Cfr. anche Ge. II 14; III 93; 354; IV. 107; 376; 560; Aen. I 692; II 464; 635; IV 376; 444; 646; 691; VI 599; IX 30; 644; 699; X 246; XI 98; XII 140; 244; 357.

168

Altro procedimento stilistico da tener presente in questo contesto è l’uso del plurale poetico: spazi, silenzi, ozi ecc.: è probabile la suggestione del plurale poetico latino, di Virgilio in particolare. Un caso interessante ricorre in Aspasia 98 sg. « a’ tuoi superbi / Fastidi ». Nei commenti è giustamente indicata l’eco da Virgilio, Buc. 2, 15 superba ... fastidia. Segnalo ancora una predilezione lessicale di Leopardi strettamente legata alla sua poetica dell’infinito: compare in una nota dello Zibaldone del 20 agosto 1821 (1534 = I, p. 1008 sg.), opportunamente citato nel commento di Fubini e Bigi a La vita solitaria 45: Le parole irrevocabile, irremeabile o altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perché destano una idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime; e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta.

Qui il nome di Virgilio non è fatto, ma possiamo aggiungerlo con una certa fiducia. Irremeabilis è parola che non compare prima di Virgilio (Aen. V 591; VI 425); non è virgiliano irrevocabilis: usato dapprima da Lucrezio (I 468), è ripreso poi da Orazio (Epist. I 18, 71); e Leopardi

avrà pensato a Orazio. Ci aspetteremmo di trovare insieme irreparabilis, che è virgiliano (Ge. III 284; Aer. X 467).

Non vorrei finire queste pagine riguardanti le suggestioni di Virgilio sull’elaborazione del linguaggio poetico del Leopardi senza citare il passo dello Zibaldone che meglio manifesta l’entusiasmo del poeta moderno per lo stile virgiliano. In una nota del 17 ottobre 1823 egli cerca di fissare alcune caratteristiche e procedimenti del linguaggio « metaforico e figurato » che il poeta originale non può elaborare senza un’« immaginazione continuamente

fresca e operante » (Zid. 3717-3719 = II, pp. 610-612).

La riflessione non è senza rapporto con quella del 1821, già segnalata, sul moto rapido, energico che lo stile di Orazio e di Virgilio imprime all’animo. Qui l'esempio sommo è Virgilio: Tutte queste cose si richiedono in uno stile come quel di Virgilio (e più o meno negli altri: ma quel di Virgilio, in quanto stile, è precisamente il più poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poeticità) …

4.

Ma, se è ammirato come elaboratore di stile poetico, Virgilio non

è amato solo per questo. Leopardi sentiva in lui uno dei più grandi poeti che abbiano vissuto e cantato l’infelicità umana, se non l’infelicità cosmica.

È probabile che l’amore per il poeta dei vinti operasse già nella scelta del II libro dell’Ereide per la traduzione; ma, piuttosto che abbandonarmi a supposizioni, preferisco far parlare Leopardi e citare parte di una sua nota 169

sull’origine del sentimento

dell’infelicità (Zib. 232 =

I, p. 234

sg.

6 settembre 1820): L’origine del sentimento profondo dell’infelicità, ossia lo sviluppo di quella che si chiama sensibilità, ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle grandi e vive illusioni; e infatti l’espressione di questo sentimento comparve nel Lazio col mezzo di Virgilio, appunto nel tempo che le grandi e vive illusioni erano svanite pel privato romano che n’era vissuto sì lungo tempo, e la vita e le cose pubbliche avevano preso l'andamento dell’ordine e della monotonia.

Nota certo discutibile come riflessione storica (prima di Virgilio c'erano stati Catullo e Lucrezio), ma illuminante per capire che cosa il giovane Leopardi (siamo nel 1820) trova nel suo poeta. Piccole, ma preziose conferme troviamo in certi echi virgiliani che affiorano nei Canti, in parte già segnalati nei commenti. Prendiamo, per es., Il sogno. A un certo punto Leopardi ci dà un quadro delle emozioni che egli prova nell’abbracciare in sogno la donna amata (81 sgg.). Ci sono forse echi di Saffo e di Catullo,

ma una delle sensazioni è espressa con un’eco dell’espressionismo virgiliano: « nelle fauci stava / La voce » (85 sg.) da vox faucibus haesit. È

una formula che in Virgilio ricorre più di una volta, ma è probabile che Leopardi avesse in mente Aes. II 774, cioè il momento in cui l’ombra di Creusa appare ad Enea nella città distrutta: si ricorderà che questo è uno dei passi da cui è stato più colpito già da ragazzo, da « scolare ». L’ombra della donna prima di dileguare gli dice, fra l’altro, con elegiaca tristezza: « Or finalmente addio » (91):

è stato notato

felicemente che così Leo-

pardi aveva tradotto lamque vale di Aen. II 789: siamo ancora nell’episodio di Creusa, che è nello sfondo di quest’ultima parte del sogno. Leggiamo il celebre passo in cui Leopardi nell’Aspasia (28 sgg.), non senza una punta espressionistica, rievoca l’atroce sofferenza causata dalla prima ferita che la donna gl’inferse: Così nel fianco Non punto inerme a viva forza impresse Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto Ululando portai finché a quel giorno Si fu due volte ricondotto il sole.

Si cita, giustamente, un sonetto del Petrarca (Rime 209, 9 sgg.), dove il poeta d’amore paragona se stesso alla cerva ferita che fugge con la saetta nel fianco: E qual cerva, ferita di saetta col ferro avvelenato dentro al fianco fugge, e più duolsi quanto più s’affretta: tal io con quello stral nel lato manco ...

170

Ma andrebbe conservato, come nel commento di Straccali e Antognoni, il rinvio, suggerito dal Cesareo, a Aer. IV 68 sgg.: qui è Didone che, in una

lunga similitudine, è paragonata alla cerva ferita dal pastore che non sa ancora d’averla colpita: qualis coniecta cerva sagitta ...: forse « ululando » è suggerito dal furens di Virgilio (riferito a Didone, non alla cerva). Si capisce anche una delle ragioni per cui Leopardi ha tralasciato la similitudine: dopo i disinganni il suo fianco non era inerme come quello della cerva. A questi accostamenti certi mi sia concesso di aggiungerne qualche altro incerto (sottolineo i miei dubbi). Nell’idillio La vita solitaria Leopardi fa coincidere l’inizio della sua infelicità con la prima conoscenza dell'amore (52 sgg.): Ma non sì tosto, Amor, di te m’accorsi, e il viver mio

Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi Non altro convenia che il pianger sempre.

A me sembra (ma mi rendo conto della difficoltà di convincere gli altri)

che Leopardi qui amplifichi con pathos elegiaco un celebre verso dell’ottava ecloga di Virgilio (41): Ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error!

La sintassi del Leopardi è qui insolita: abbiamo, infatti, un caso di paraipotassi. Io sospetto che con questo procedimento sintattico, ben sostenibile con esempi italiani, specialmente della letteratura dei primi secoli, egli volesse ricalcare la sintassi virgiliana, dove il senso dei tre 4f è incerto e discusso:” egli interpretava il primo #4 come temporale e gli altri due, forse, come correlativi al primo, press’a poco nel senso di #77 (come faceva Christian Gottlob Heyne e come fa ora Timpanaro). Forse anche quando canta, nell’elegia Il primo amore (16-18), le sofferenze dopo l’inmamoramento, unite al piacere di vagheggiare nella solitudine notturna l’immagine ossessiva della donna amata, egli ricorre colla mente ad analoghi sentimenti di Didone, cantati da Virgilio all’inizio del libro IV (9 sgg., nel colloquio della regina con la sorella Anna, e soprattutto 80-83). Ma, tralasciando echi incerti, sarà qui il caso di rivendicare la presenza di Virgilio all’inizio dell’Ultimo canto di Saffo. La collocazione del suicidio all’alba (o poco prima dell’alba), l’invocazione del « nunzio del 70 Per l’interpretazione del verso virgiliano e la storia della sua interpretazione vedi ora l’ampio studio di S. Timpanaro, Contributi di filologia e di storia della lingua latina, Roma 1978, p. 219 sgg. Qui non è il caso di riprendere la questione (personalmente propendo per l’interpretazione tradizionale).

171

giorno », la disperazione e il rifiuto della luce e della vita mentre luce e vita stanno per riprendere il loto corso, sono elementi fondamentali che ci riportano al primo dei canti dell’ottava ecloga di Virgilio. À quell’ora la terra è ancora « rorida » (20) come nell’ecloga (15 cum ros in tenera

pecori gratissimus herba). Un’eco dal primo degli ossianici Canti di Selma, dove all’inizio viene invocata la stella del mattino, è probabile," ma le prime luci del giorno accendono l’entusiasmo del bardo e gl’infondono nuovo slancio: tutt’altra è la situazione. L’ecloga di Virgilio veniva richiamata, sia pure troppo rapidamente, da Giovanni Negri,” ma non compare, per quanto ne so, nei commenti. Leopardi aveva attinto anche per un’altra via il motivo del suicidio all’alba: nel Catone in Affrica un carme in terzine canta, appunto, il suicidio dell’eroe stoico e lo colloca, seguendo Plutarco, alle prime luci del giorno; * ma qui possiamo tralasciare questo tema interessante.” Che Leopardi si ricordasse dell’ecloga ottava in tema di suicidio,

è confermato da un’eco nel Bruto minore, trascurata, se non

erro, dai commentatori: 65 sg. « o da montano sasso / Dare al vento precipiti le membra » proviene anch’esso dal canto di Damone (Buc. 8, 59 sg.): praeceps aërii specula de montis in undas deferar ...

Ma torniamo all’Ultizzo canto di Saffo. Il canto è così radicato nell’esperienza e nella problematica di Leopardi che ogni ricerca di fonti dev'essere consapevole dei suoi limiti: enorme è la distanza tra l’infelicità del pastore abbandonato dalla sua donna e l’infelicità di chi si sente escluso, esi-

liato dalla bellezza del mondo: il canto ha un respiro cosmico da cui l’ecloga è lontana, anche se Virgilio non ne è lontano nelle opere successive: il poeta antico sentì lo smarrimento davanti al mistero dell’ingiustizia del mondo. Comunque la presenza di Virgilio ha contribuito in più punti alla dolcezza elegiaca del canto, che prevale sui toni disperati o le tinte fosche. Leopardi stesso in una nota marginale segnalò un’eco virgiliana nel v. 5 « Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato » (da Aer. IV 652). La fine e patetica iunctura dei vv. 25 sgg. « alle vezzose / Tue forme il core e le pupille invano / Supplichevole intendo » proviene da un passo del II libro dell’Ezeide (405), relativo a Cassandra, che abbiamo già visto presente nella prima elegia; ma probabilmente qui si aggiunge l’eco di 7! Cfr. C. MuscettA, L'ultimo canto di Saffo, « La Rassegna della lett. ital. », 63, s. VII, 1, 1959, p. 203 sg., ora in Leopardi. Schizzi, studi e letture, Roma 1976, p. 66 sgg., che rinvia alla bibliografia precedente. 72 L'Ultimo canto di Safo di Giacomo

Leopardi, Pavia 1895, p. 6.

73 Edg, p. 269. 7 Me ne occupo in un articolo Albe tragiche, di prossima pubblicazione.

172

un passo che raffigura Turno supplice e morente: Aem. XII 930 sg. Ille humilis supplex oculos dextramque precantem | protendens.® Di una suggestione molto significativa che viene dal suicidio di Didone, tratterò in seguito. Là dove Saffo rimpiange la sua fanciullezza svanita con gl’ « inganni » e i sogni, e la sua infelicità sembra più accostarsi a quella generale degli uomini (65 sgg. « Ogni più lieto / Giorno di nostra età primo s'invola ... »), Leopardi traduce, com’è noto, un passo di commento lirico delle Georgiche (III 66 sgg.), e mai, forse, un poeta ha tradotto con tanta felice intensità un altro poeta. Ma anche poco prima, là dove Saffo accompagna la sua rinunzia alla vita con un augurio di felicità all'uomo a lungo e invano amato (61 sg.: « Vivi felice, se felice in terra / Visse nato mor-

tal. Me non asperse ... »), risuona, con tono di calma e profonda elegia, l’eco, io credo, di un addio virgiliano, l’addio di Enea a Eleno e Andro-

maca (Aen. III 493 sg.): Vivite felices, quibus est fortuna peracta iam sua; nos alia ex aliis in fata vocamur

(si noteranno

le contrapposizioni

«tu »/« me », vos/nos).

Altri echi

meno significativi sono còlti nei commenti (ai vv. 16 sg., 28, 30), e forse

anche « superbi regni » al v. 23 è linguaggio virgiliano (cfr. Aer. VIII 481 sg. superbo/imperio; III 2 sg. superbum/Ilium): forse questo è il canto più impregnato del pathos elegiaco di cui è ricco il poeta epico latino. Il canto dell’infelicità si confonde facilmente in Virgilio col canto della pietà, della compassione. Come Leopardi abbia colto e interpretato questo sentimento in Virgilio, differenziandolo da Omero e accostandolo al cristianesimo, cercheremo di vedere rapidamente fra poco; qui mi limito a segnalare una nota, a sua volta ricca di pathos e di poesia, sulla

famosa similitudine del pianto disperato di Orfeo con quello dell’usignolo a cui sono stati strappati i figli (Ge. IV 511 sgg.: ricordiamo che un’eco di questo passo era nel I canto dell’ Appressamento della morte): Quell’usignuolo di cui dice Virgilio nell'episodio d’Orfeo, che accovacciato su d’un ramo, va piangendo tutta notte i suoi figli rapiti, e colla #iserabile sua canzone, esprime un dolore profondo, continuo, ed acerbissimo, senza moti di vendetta, senza cercare riparo al suo male, senza proccurar di ritrovare il per-

s 15 Il confronto con Aer. XII 930 sg. mi è stato suggerito da Alessandro Barchiesi. Il passo di Leopardi è notevole come esempio di elaborazione stilistica a partire da Virgilio. Il poeta latino elabora la iunctura ardita tendere oculos (lumina), ma attenua l’audacia con lo zeugma, cioè richiamando in ambedue i passi l’immagine propria (non metaforica) di partenza (tendere palmas, tendere dextram); il poeta moderno considera già comunemente accettabile, in base all’autorità di Virgilio, la iunctura « intendere le pupille » e la rende più ardita aggiungendo la iunctura « intendere il core ».

173

duto ec. è compassionevolissimo, a cagione di quell’impotenza ch’esprime, secondo quello che ho detto in altri pensieri.

La nota (Zib. 281 = I, p. 266) è del 1820; una nota precedente dello stesso anno (Zib. 211 = I, p. 219) si riferisce allo stesso passo. È utile citare anche questa: Ci commuove molto più una rondinella che vede strapparsi i suoi figli, e si travaglia impotentemente a difenderli, di quello che una tigre, o altra tal fiera nello stesso caso.

E aggiunge la citazione del passo delle Georgiche. Sarebbe utile citare anche la nota dello Zibaldone a cui qui Leopardi rimanda (196 = I, p. 207) e che tratta brevemente, ma incisivamente, della compassione verso i deboli; ma, ovviamente, non è mio compito seguire questo filone, di cui, del

resto, Umberto Bosco ha già rilevato l’importanza nella poesia e nella riflessione etica di Leopardi.” Si sa quanto la pietà sia presente nelle prime tre canzoni, in cui ricorrono echi virgiliani significativi. Significativa, per es., è l’eco virgiliana (Aes. II 495 sg.) segnalata nei vv. 22-23 della canzone All’Italia (« Mai non potrebbe il pianto / Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno »): la pietà per la patria che fu « donna » ed ora è « povera ancella », si riconosce nella pietà di Enea per la sua patria poco prima potente ed ora straziata. Ma sarei propenso a vedere, pur non avendone piena certezza, che già nella prima stanza il quadro dell’Italia fatta inerme dopo tanta potenza e gloria, con la fronte e il petto nudi, coperta di lividore e di sangue, l’apostrofe del poeta prima all’Italia e poi al mondo e al cielo siano in parte ispirati da un pezzo famoso del II libro dell’Ezeide (270 sgg.): quello in cui Ettore appare in sogno ad Enea (Ettore già carico delle spoglie dei nemici e di gloria, ora coperto di sangue e di polvere, deturpato nel volto e nel corpo) e in cui Enea si rivolge a lui chiedendo chi l’abbia così straziato. Virgilio non sa spiegare e giustificare la sofferenza degli uomini e degli animali, ma pensa che ci sia una giustizia divina misteriosa e non si ribella alla divinità; tuttavia i suoi eroi conoscono talvolta la disperazione lucida ed estrema ed esprimono la protesta vana contro la divinità e il destino: ci sono già in Virgilio alcuni germi di Lucano, che Lucano, del resto, ha sfruttati. Anche Leopardi in qualche caso sembra leggere Virgilio sollecitando il testo in una direzione che potremmo dire, tanto per intenderci, « lucanea » o « titanistica ».” La prova più notevole è una rifles76 Titanismo (n. ed. Roma

e pietà in Giacomo

Leopardi,

Firenze

1957,

cap.

II, spec.

p. 33

sgg.

1980).

© È chiaro che qui non intendo parlare di un’influenza diretta di Lucano; indipendentemente dalla questione qui toccata, la lettura e una certa presenza di Lucano in Leopardi sono

174

sione famosa dello Zibaldone del 3 dicembre 1821 (2217-2221 = I, pp. 1349-1351), importantissima per i rapporti fra disperazione e piacere, fra disperazione e noia. Quella riflessione prende lo spunto da un monologo di Didone prima del suicidio, precisamente da due versi (Aen. IV 659 sg.) che, come il Leopardi stesso indicò in una nota marginale, offrirono lo spunto ad un momento del monologo di Saffo (55 sg. « Morremo. Il velo indegno a terra sparto ... »). Il testo dello Zibaldone, citato nei commenti

all’Ultimo canto di Saffo, è ben noto, ma è qui necessario ricordarne lo svolgimento e citarne qualche punto. Secondo Leopardi Virgilio, conoscitore profondo dei cuori, « esperto delle passioni e delle sventure », volle esprimere in quel passo (« Moriemur inultae, | sed moriamur » ait. « Sic,

sic iuvat ire sub umbras ») « quel piacere che l’animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente,

intimamente,

e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell’esagerarli, anche, a se stesso ...

nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch’essi sono eccessivi, senza fine, senza

limiti, senza rimedio né impedimento né compenso né consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l’uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura ». Questa disperazione dà all’uomo, paradossalmente, una grande fiducia in se stesso: L’uomo in tali pensieri ammira, anzi stupisce di se stesso, riguardandosi ... come per assolutamente straordinario, straordinario o come costante in sì gran calamità, o semplicemente come capace di tanta sventura, di tanto dolore e tanto straordinariamente oppresso dal destino; o come abbastanza forte da poter pur vedere chiaramente pienamente vivamente e sentire profondamente tutta quanta la sua disgrazia. | certe o fortemente probabili: rimando alla trattazione ampia e convincente di S. TIMPANARO, Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980, pp. 42-53. Non tutte le prove addotte hanno lo stesso peso: per es., ne attribuirei poco al giudizio su Lucano come il più libero dei poeti latini (Zib. 463 = I, p. 377; 28 dicembre 1820); qui basterebbe presupporre notizie su Lucano, senza contatto diretto col testo di Lucano. Prove più efficaci mi sembrano l’eco di Lucano VII 567 sg. (piuttosto che di Aem. VIII 703) nel Catone in Africa, IX, 55-57, e soprattutto quella di Lucano VIII 835-837 in Sopra il monumento di Dante 23 sgg., già segnajata da O. Badke. In base al primo confronto il Timpanaro collocherebbe nel 1810 una prima lettura, almeno parziale, della Pharsalia. Forse altra eco di Lucano (VII 323 cognata in pectore)

è in Bruto minore 80 «cognati petti »; la iunctura è anche in Ovidio (Met. VI 498), e in Stazio (Theb. II 637), ma con Lucano c’è analogia di contesto (si tratta in ambedue della crudeltà delle guerre civili; una certa analogia, però, sussiste anche con Stazio). Timpanaro, a cui segnalai il parallelo, mi disse che gli era stato segnalato già da G. Velli, che si occupa della fortuna di Lucano.

to

Il piacere che sarebbe espresso da Virgilio, può far pensare al titanismo perché nasce dalla capacità dell’uomo di guardare la sventura, il destino senza veli, in tutta la sua crudeltà, in tutta la sua vastità, senza illusioni

di rimedi, senza bisogno di consolazioni: lucidità disperata che è presupposto essenziale della lotta senza quartiere e senza speranza contro la natura e il destino. È superfluo ricordare che con accento e pathos virgiliani è formulata nella canzone All’Italia (37 sgg.) la decisione eroica e disperata di combattere anche da solo per la patria abbandonata. A passi come questi Leopardi si riferirà più tardi, in una nota dello Zibaldone del 27 luglio 1821 (1393 sg. = I, p. 933 sg.), discorrendo delle diverse armi letterarie con cui scuotere l’Italia del tempo: ...a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato

le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch'io potrò scrivere ...

Alla fine della nota egli trascrive quei versi del II dell’Ezeide (431 sgg.) in cui Enea invoca le ceneri di Ilio a testimoniare che egli nessun pericolo evitò per morire insieme con la patria (Iliaci cineres et flamma extrema meorum …): la citazione deve riferirsi alle righe della nota che ho trascritte e ci riporta a Virgilio come a uno degli ispiratori della lotta disperata per la salvezza d’Italia. Mi pare che a tale modo di leggere Virgilio si possa ricondurre un’eco importante segnalata nel Bruto minore. Si è visto giustamente che là dove Bruto (25-30) accusa Giove come custode degli empi, perché il suo fulmine colpisce i giusti e i pii, Leopardi parafrasa poeticamente la protesta di Iarba contro Giove nel IV libro dell’Ereide (206-210): un pezzo epicureo, lucreziano del pio Virgilio. È evidente che lo stesso passo dell’Eneide è presente quando Leopardi riprende lo stesso motivo nella canzone Alla Primavera (81 sgg.): Ahi ahi, poscia che vote Son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono Per l’atre nubi e le montagne errando, Gliniqui petti e gl’innocenti a paro In freddo orror dissolve ...

Più vicina all’interpretazione del monologo di Didone sarebbe un’eco nella canzone Sopra il monumento di Dante che, se fosse certa, riuscirebbe molto significativa; ma io stesso sono incerto. Nel rivolgersi agli italiani caduti nella campagna di Russia Leopardi ricorre a un argomento consolatorio paradossale, che ben riflette la sua meditazione di quegli anni (164 sgg.): 176

questo vi conforti Che conforto nessuno Avrete in questa o nell’età futura.

Ci si può chiedere se egli non abbia qui mutato e ampliato una famosa disperata sentenza di Virgilio, quella con cui Enea, nel II libro (354), chiude il suo discorso ai compagni nell’esortarli all’ultima lotta: Una salus victis nullam sperare salutem.

Pur essendo profondo il mutamento, Leopardi avrebbe, però, conservato il paradosso, il concettismo: un concettismo non futile, anzi uno dei quei concettismi necessari per esprimere le contraddizioni, le assurdità della vita, come alcuni bellissimi di Seneca.”

Prima di lasciare il tema dell’ultima speranza dei vinti, conviene fare un salto all’indietro, fino alle sue prime apparizioni nell’opera di Leopardi. Una lettura della prima delle due tragedie dell’infanzia, La virtà indiana composta nel 1811,” mi ha convinto che l’Enea virgiliano disperato e deciso a morire insieme con la patria è già in quell’opera un modello importante. La tragedia è a lieto fine. Muhamed, imperatore del Mogol, è stato

ucciso in seguito a una congiura organizzata dal viceré traditore, Nizam, d’accordo coi nemici che invadono l’impero; alla fine Amet-schah, figlio dell’imperatore ucciso, riesce a vincere i nemici interni ed esterni; ma fin

quasi alla fine del secondo atto (la peggiorando e si fa disperata. Ecco dente Osnam nell’ora in cui, dopo nemici, tutto sembra perduto (atto

tragedia è in tre atti) la situazione va come parla Amet-schah al suo confil’invasione della capitale da parte dei II, sc. VI, p. 542):

Amico, andiamo, il grido è questo De l’esercito ostile; è giunta ormai L’ora estrema per noi, moriam da forti,

Scampo al perir non c’è, con fermo petto Il periglio s’affronti, il regno, il trono Con noi comune abbian la sorte, allato Ambi cadrem trafitti, altra salute Non resta a noi, che il non sperarne alcuna: Non più si tardi, andiamo.

78 Vedo che un qualche rapporto fra i due passi è stato indicato in commenti degli ultimi tempi (cfr. la nota di D. De Robertis). 79 Su questa tragedia ho consultato F. Gentili, « Nuova Antologia », 1° maggio 1926, pp. 13-27. È rimasta esclusa dall’ed. del Flora, ma compare in quella di Binni e Ghidetti, da cui citerò.

Dt

Il nuovo re parla con la disperazione e il coraggio di Enea (II, 348-354, il discorso che finisce con la famosa sentenza Una salus victis ecc.; ® cfr. anche 668-670 e, nel discorso di Panto, 324 sg. Venit summa dies ecc.). Ma le tracce del II dell’Ezeide si ritrovano sino alla fine dell’atto II. Nella

scena seguente Zarak, confidente del re ucciso Muhamed, cerca di dissuadere il giovane re e i suoi: Oh Dio, fermate, Dove il passo volgete? Ab tutto innonda L’orrore, il lutto, lo spavento, il sangue; Onor del nostro nome, il tutto cadde

Allo spirar d’avversa sorte, ovunque Scorre il barbaro acciaro, armati, ed arzzi Versa il campo nemico, empio, e ribelle E stragi wmesce, e vincitore insulta ®! Nizam crudele; per sua man trafitto, Giace là nel suo sangue ...

Un'altra eco di Aen. II 368 sg. Crudelis ubique | luctus ecc., un passo che Leopardi aveva già usato in composizioni scolastiche, e poi un’eco della risposta di Panto ad Enea (II 328 sgg.): Arduus armatos mediis in moenibus adstans fundit equus victorque Sinon incendia #iscet insultans.

Poco dopo, nell’ultima scena dell’atto II (p. 543), una svolta imprevista: il traditore Nizam nello scontro viene disarmato e fatto prigioniero; Amet-schah vede riapparire la speranza ed esorta con fiducia i suoi a continuare la guerra: voi seguite in tanto, Amici, i passi miei; mostra la sorte A noi men truce il volto, andiam, si corra Su le sue traccie ...

Qui Amet-schah riecheggia Corebo, imbaldanzito dopo il primo successo (Aen. II 387 sg.):

# L’eco della sentenza virgiliana fu già avvertita da F. Gentili, p. 20. 8! L’editore mette punto e virgola dopo insulta; ma èx chiaro che Nizam crudele (ancora vivo) è soggetto di insulta, mentre soggetto di giace è l’imperatore Muhamed, come indovina subito Amet-schah.

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O socii, quae prima inquit Fortuna salutis monstrat iter quaque ostendit se dextra, sequamur®

Tenendo conto di questi interessi, di questi modi di lettura, sui quali lo Zibaldone ci dà testimonianze preziose, gli echi da Virgilio sono meglio interpretabili; ma, ben inteso, niente può sostituire l’attenta esegesi puntuale. Le indagini degli studiosi di Leopardi su questo terreno non sono poche, e i frutti sono ragguardevoli: credo che ormai Leopardi sia uno dei nostri classici meglio commentati, almeno per quanto riguarda i Canti. Ma nel sondare la cultura e l’elaborazione stilistica del grande poeta è difficile arrivare alla fine. Alle suggestioni virgiliane già da me segnalate vorrei aggiungerne qualche altra: non per completare un catalogo, ma per dare qualche esempio. Incomincerò da un testo non commentato, anche se in parte studiato, la Telesilla. Reminiscenze dalle Bucoliche non riuscirebbero qui inattese, ma non saprei indicare gran che: forse l’inizio ricorda vagamente quello della quinta ecloga. Ma credo di poter segnalare una finissima eco dall’Ezeide. Nella scena dei cacciatori nel bosco * il secondo di essi cerca due piante a lui note: Stimo che sien colà dove ’1 sentiero Mette un barlume.

Lo spunto viene dall’Ezeide (IX 383): rara per occultos lucebat semita calles.

Il sentiero si apre nella selva attraverso cui fugge Eurialo: è superfluo ricordare che l’episodio di Eurialo e Niso era dei più letti; anche Leopardi lo amava particolarmente. Egli non si è lasciata sfuggire la finezza e l’ardimento della metafora. Può darsi (ma non vorrei essere accusato di pedanteria) che un’eco meno interessante dello stesso verso di Virgilio sia nell’idillio La sera del dì di festa (6): « Rara traluce la notturna lampa ».* Il « duro mio sopor » di un altro canto (I/ risorgimento 64) è anch’esso DI

82 Altri echi, anche se meno chiari, dall’Eneide, sono in una battuta di Nizam in atto I, sc. VI (p. 539). Nizam propone a Muhamed (anche se si tratta solo di un tranello) di compiere una sortita notturna per sorprendere i nemici nel sonno: «Di cheta notte oscura / AI tacito silenzio, all’ombra amica / N’andrem, se il brami, al campo, ivi tra il cupo, / Sopor

tranquillo e tra l’opaco orrore / Ogni difesa inutil fia [‘ sia’ nell’ed. Ghidetti, lezione errata] ...» Leopardi sembra avere in mente Aer. II 255 e IX 314 sgg. Egressi superant fossas noctisque per umbram | castra inimica petunt … Passim somno vinoque per berbam / corpora fusa vident ... STRPERIMpRA1O: 84 Per La vita solitaria ho visto che l’eco è segnalata, con sicurezza eccessiva, da G. LoNARDI, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze 1969, p. 25.

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virgiliano: i commenti rimandano a La vita solitaria 68 « ferreo sopor », e qui richiamiamo giustamente Aer. X 745 sg. ferreus ... somnus; ma nello stesso punto dell’Eneide c'è dura quies. Per non errare troppo dietro quisquilie, vorrei fermare di più l’attenzione su un passo dell’I#ro ai Patriarchi. Trascrivo alcuni versi del pezzo che rievoca lo sviluppo dell'umanità dopo il fratricidio, sviluppo che è decadenza morale e causa di maggiore infelicità (si riflette qui l’avversione del Leopardi per la vita urbana) (47-55): e primo

Il disperato pentimento i ciechi Mortali egro, anelante, aduna e stringe Ne’ consorti ricetti: onde negata L’improba mano al curvo aratro, e vili Fur gli agresti sudori; ozio le soglie Scellerate occupò; ne’ corpi inerti Domo il vigor natio, languide, ignave Giacquer le menti ...

Curiosa l’origine di questa raffigurazione del pentimento: « egro, anelante » è un prestito da Aer. X 837 aeger anbelans: qui si tratta di Mezenzio ferito. Per i « consorti ricetti » Leopardi stesso, in una nota mar-

ginale, indicò l’origine in Ge. IV 153 consortia tecta, che trova un’eco anche nella canzone Alla Primavera 48. Per « curvo aratro » nel commento di Straccali e Antognoni si rimanda a vari passi delle Georgiche (I 170; 494; II 189; 513); ma il rimando interessante è quello a Ge. I

494. Perché? Perché questo punto precede di poco il passo (505 sgg.) in cui Virgilio rievoca lo squallore delle campagne causato dalla furia delle guerre civili: quippe ubi fas versum atque nefas; tot bella per orbem, tam multae scelerum facies; non ullus aratro

dignus honos; squalent abductis arva colonis ...

Mi pare evidente che Leopardi ha utilizzato questo pezzo celebre.® Un’altra eco virgiliana è sparita nella rielaborazione: invece di « ne’ corpi

8&5 Forse questo stesso passo del I delle Georgiche trovò qualche La virtù indiana. All’inizio (p. 536) Muhamed, lamentando la miseria sconfitta, dice, fra l’altro: « Manca aratore al suol, guerriero al campo fine della tragedia, dopo la vittoria, Amet rovescia inconsapevolmente (atto III, sc. VI, p. 545): « al campo incolto / Ritorni l’arator, torni abbandonate ... ». Il pezzo sui prodigi connessi con la morte di Cesare i passo in questione) è citato nella chiusa del Diglogo di un folletto , D. 843).

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eco già nella tragedia del suo regno dopo la ...». Poco prima della il lamento del padre il guerriero / A l’armi (pezzo in cui si colloca e di uno gnomo (PP,

inerti / Domo il vigor natio, languide, ignave » Leopardi aveva scritto: « l’immonda eruppe / Fame de l’oro, e ne le tarde membra », dove è evidente la risonanza dell’auri sacra fames di Aen. III 57. Dopo il canto A Silvia le suggestioni di Virgilio si fanno più rare: non saprei dire se ciò s’inquadra in un diverso rapporto coi classici. Lasciamo da parte per un momento la Palinodia. Forse Le ricordanze 43 sg. « e intanto vola / Il caro tempo giovanil » è un’eco elegiaca e musicale non solo di Foscolo, ma anche di Virgilio (Ge. III 284): Sed fugit interea, fugit irreparabile tempus ... Ancora La ginestra (la « lenta ginestra ») ha fiori, tratti pittorici che vengono dalla grande arte di Virgilio (nei vv. 255, 255 sgg., 297); splendida è l’evocazione rapida, energica (21 sg.) di una bellissima similitudine del II dell’Ezeide

(471-475):

Dove s’annida e si contorce al sole La serpe...

Il caso dimostra bene come ormai il poeta moderno superasse l’antico nella forza della concentrazione. Io sono tentato anche di credere che il quadro del « villanello » che dal tetto della sua povera casa esplora ansioso il corso della lava dilagante (248 sgg.), debba qualche cosa a un’altra similitudine del II dell’Ezeide: quella (304 sgg.) in cui Enea, svegliato nella notte dal fragore della guerra e salito sul fastigio del tetto, paragona se stesso al pastore che dall’alto di una roccia guarda, con doloroso stupore, l'incendio o l’alluvione che devasta i suoi campi: stupet inscius alto accipiens sonitum saxi de vertice pastor.

Se così fosse, avremmo ancora una prova di come la pietà di Leopardi trovasse ispirazione nel poeta antico e la prova di una fedeltà non mai tramontata. 86 Segnalo in nota un’eco incerta e quasi irrilevante, che forse si presenta più di una volta nell’opera di Leopardi. Nella bellissima evocazione della primavera che è all’inizio dell’idillio Il passero solitario (la cui datazione è incerta, ma che sembra da collocarsi dopo l’edizione del 1831), un verso (8 « Odi greggi belar, muggire armenti ») riecheggia, anzi quasi riproduce, la traduzione dell’'Eneide del Caro (quasi un omaggio al tanto criticato traduttore): « udian greggi belar, muggire armenti » (VIII 553). Nel passo corrispondente di Virgilio (4er. VIII 360 sgg. passimque videbant / Romanoque foro et lautis mugire carinis) ci sono i buoi, non le pecore: probabilmente il Caro, e forse anche Leopardi, ha contaminato con Ge. III 554 sg. balatu pecorum et crebris mugitibus amnes | arentesque sonant ripae collesque supini. Benché il muggito dei buoi non sia un dettaglio molto peregrino, inclino a credere che in Leopardi la memoria letteraria aderisca anche all’esperienza più comune: «il muggito de’ buoi per le valli », che si presenta dapprima nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (PP, II, p. 491) poi nel Cantico del gallo silvestre (PP, I, p. 968 un « muggito di buoi per li prati »), si unisce probabilmente col ricordo di Ge. II 470 mugitusgue boum (caratteristico del paesaggio bucolico), III 554 sg., Aen. VIII 360 sg.

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Non dobbiamo dimenticare troppo che Leopardi, oltre ad essere il poeta della tensione eroica, è anche il poeta di una genuina vena giocosa, amaramente, talvolta sarcasticamente giocosa: una vena che non si è mai disseccata. L’elegante traduttore della Bafracomiomachia ha giocato con la parodia anche in seguito, e nel gioco della parodia Virgilio ha la sua parte. Alla Palinodia la quarta ecloga, com’è stato ben visto da lungo tempo, offre non solo singoli spunti, ma addirittura il filo dello svolgimento. Il poeta della profezia messianica non parlava al cuore di Leopardi come il poeta dei vinti. Il ricorso alla quarta ecloga ai fini della parodia sarcastica è una novità nei Canti, ma risale indietro nell’ifer dello

scrittore giocoso: nelle Operette morali, precisamente nella Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillograf, uno dei grandi artefici di progresso, l’inventore del robot a vapore, viene premiato con una medaglia il cui titolo è preso dalla quarta ecloga (8-9): quo ferrea primum | desinet ac toto surget gens aurea mundo.” Poiché la Batracomiomachia e i Paralipomeni sono per la loro stessa impostazione parodia dell’epica, ci aspetteremmo in quest’ultimo poema una notevole presenza di Virgilio; ma questa presenza, anche se c’è, ha, se non erro, poco rilievo: minore certamente che quella dell’Ariosto o del Tasso. Forse l’inizio, dove un’amplissima proposizione temporale (un’intera ottava!) è introdotta da poi che, richiama l’esordio del III dell’Eneide, che, come abbiamo visto, aveva suggerito l’esordio del Bruto

minore; ma nel poema l’affinità è tutt’altro che evidente. Le indicazioni dell’ora ricalcano giocosamente noti moduli epici, e anche l’Ereide torna alla mente, ma non ho notato allusioni precise a Virgilio. L'inizio del II canto « Più che mezze oramai l’ore notturne / Eran passate » può essere accostato, per es., a Aer. VI 535 sg. roseis Aurora quadrigis | iam medium aetherio cursu traiecerat axem (che si riferisce al giorno); già Orazio Sat. II 6, 100 sg. lamque tenebat | Nox caeli spatium, aveva parodiato formule del genere. Ma sarà più opportuno incominciare da citazioni e da allusioni certe. L’esordio del II dell’Ereide è richiamato esplicitamente per raffigurare Leccafondi che incomincia solennemente il racconto delle sue vicende in casa dell’ospite (VI 40, 1 sgg.). Un altro richiamo esplicito, ma molto generico, si ha a proposito dell’oltretomba (VII 51, 1 sgg.). Qualche allusione certa si può cogliere qua e là. Il viaggio notturno di Leccafondi ambasciatore, accompagnato dai suoi servi, è punteggiato da qualche allusione a Virgilio. Leggiamo innanzi tutto la descrizione del notturno (II 1, 5 sgg.):

#7 PP, I, p. 838. Buc. 4, 60 è citato nell’Elogio degli uccelli (PP, I, p. 962).

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le diurne Cure sopian da presso e da lontano Per boschi, per cespugli ed arboscelli Molte fere terrestri e molti uccelli.

Pur senza molte riprese verbali precise, Leopardi rimanda al famoso notturno del IV dell’Ereide, che introduce un monologo di Didone (522 Sgg.: cfr. specialmente placidum carpebant fessa soporem | corpora per terras silvaeque ... quierant ... pecudes pictaeque volucres, | quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis | rura tenent ...). La mezzanotte è già pas-

sata, ma in Virgilio l’ora non è molto diversa (524 cum medio volvuntur

sidera lapsu). Poco dopo, in II 5, 3 « Ivan per l’ombre della notte in-

fide » è evidente l’allusione a Aer. VI 268 Ibant obscuri sola sub nocte per umbram (viaggio di Enea e della Sibilla attraverso i regni di Dite). Il quadro dei colli della futura Roma, dove « Solitario pascea qualche destriero », il contrasto fra la solitudine quasi deserta di quel tempo remotissimo e la gloria dei tempi storici (VII 32, 1 sgg.), riflette, come si

sa, un quadro celebre dell’Ereide (VIII 360 sgg.). L’eroico Rubatocchi, alla fine della sua lotta disperata contro la massa dei nemici, non regge più « Lo scudo ove una selva orrida e fitta / D’aste e d’armi diverse era confitta »: sono convinto che il quadro e la metafora, come abbiamo visto a proposito di una poesia dell’infanzia, siano suggeriti da Enea in duello con Mezenzio (l’eroe si protegge dietro lo scudo coperto da una grande selva di dardi; cfr. Aer. X 887). Altrove la suggestione di Virgilio si limita a una scelta lessicale, a una metafora, ma l’indizio è certo o quasi. La

soglia dell’oltretomba dei topi è « inamabile » come la palude infernale di Virgilio (4er. VI 438). L’esule Leccafondi, tornato in patria, « con gli

orecchi avido bebbe / Le patrie voci »: la metafora proviene da Aer. IV 359 vocem ... his auribus hausi. Una più comune formula e metafora epica (anche se non solo epica) trova eco in V 28, 1 « Queste cose, cred’io,

tra se volgendo ... »: cfr. Aen. I 50 Talia fammato secum dea corde volutans (e anche IV 533; VI 185; X 159): in casi come questo il riferi-

mento, si capisce, va alla formula poetica in genere, più che a Virgilio. Ed ecco un caso in cui l’impronta virgiliana, anche per il gusto dei suoni vasti e cupi, risalta meglio: al grido di Miratondo, che annuncia ai topi fuggitivi l'assenza di granchi, «le marine / Caverne rimuggir con tutto il lido »: metafora e musica sono suggerite da Aer. III 674 curvis ... immugiit Aetna cavernis. 88 Forse un vago ricordo di Aer. VI 268 sgg. è in VII 7, 1 sgg. « Tacito discendeva in compagnia / Di molte larve i sotterranei fondi ... ». Il confronto è nel comm. ai Paralipomeni di E. Baldrini, Torino 1970, che, invece, non richiama il passo di Virgilio nella nota a II 5, 3.

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In ricerche di questo genere è molto difficile segnare il confine fra la certezza e la congettura più o meno vaga. « Importuno », detto di un nugolo di mosche (I 2, 7), sembra riecheggiare importunus riferito agli uccelli di malaugurio (Ge. I 470; I « latrati » delle onde (VII 40, sionistica di Virgilio (Aer. VII che accompagna la preghiera in

Aer. XII 864; cfr. Orazio, Sat. I 8, 6). 5) forse riecheggiano una metafora espres588 latrantibus undis). T1 dubbio doloroso III 13, 8 « Se pur ciò non indarno al ciel

si chiede » ricalca dubbi simili di eroi virgiliani: per es., di Priamo che invoca la punizione divina contro Pirro (Aes. II 536): si qua est caelo pietas quae talia curet. I vulcani emettono « di liquide pietre ignei torrenti » (VII 29, 5) come l’Etna che scaglia verso il cielo liquefacta ... saxa (Ge. III 576). L’alacre lavoro delle officine per fabbricare armi (V 30, 5

sgg.) trova qualche affinità in un momento analogo dell’Ereide (VII 632 sgg.); e lo stesso si potrà dire della tempesta che trascina via « cani pecore e buoi » al povero pastore (VI 28, 1 sgg.: cfr. Aer. II 305 sgg., dove, però, si tratta solo della devastazione dei campi); ma è ovvio che

in casi come questi ogni dubbio su un reale contatto è più che giustificabile.® Meno irrilevante sarebbe un altro suggerimento di Virgilio, se gli si potesse dare fondamento più solido che di una labile congettura. Guida di Leccafondi fino alla soglia dell’oltretomba dei topi è Dedalo, che Leopardi solo per giocoso scrupolo storico distingue da quello del mito greco. Ora Dedalo si trova sulla soglia, per così dire, del libro virgiliano dell’olx

tretomba:

è Dedalo, infatti, che, giunto a volo da Creta in Campania, ha

innalzato a Cuma, presso l’antro della Sibilla, un grande tempio ad Apollo (Aen. VI 14 sgg.). Il suggerimento a fare di Dedalo la guida per il viaggio verso l’oltretomba potrebbe esser venuto da questo inizio della rékya virgiliana. 5. Se dalle opere poetiche torniamo allo Zibaldone, vediamo che il giudizio su Virgilio, pur essendo largamente positivo, è complicato e non manca di ondeggiamenti e di riserve; talvolta riesce difficile anche trovare la coerenza. Una valutazione adeguata implicherebbe quasi una storia completa dell’estetica leopardiana; io mi limiterò a indicare alcuni orientamenti e alcuni problemi. Le riflessioni dello Zibaldone ci fanno avvertire spesso un pericolo a cui ho già accennato: il primitivismo, che è innanzi tutto culto di Omero, spinge verso una svalutazione della poesia latina come poesia troppo colta, # Segnalo in margine un’eco probabile da Ovidio: «il picchiar le palme e il petto » in segno di lutto (III 18, 3) riecheggia passi come Mes. II 584 plangere... pectora palmis; III 48 percussit pectora palmis; V 473; X 723.

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troppo lontana dalla freschezza dei sentimenti e della delle note dei primi anni dello Zibaldone (54 = I, p. riflette sull’influenza della poesia greca nel Lazio e in ritiene che quell’influenza abbia ucciso l’interesse per il rale nazionale:

fantasia. In una 81 sg.) Leopardi Roma: anche lui patrimonio cultu-

..con tanto immensa copia di fatti nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti greci, né io credo che si trovi indicata tragedia d’Ennio o d’Accio ec. d’argomento latino e non greco. Cosa tanto dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose nazionali, quanto ognuno può vedere.

Virgilio e Orazio schivarono più di altri questo indirizzo dannoso, ma lo schivarono solo in parte (Virgilio vi soggiacque nelle Bucoliche e nelle Georgiche). La lingua greca si formò in tempi antichissimi, vicini alla natura; persino i tempi di Platone « conservavano ancora assai di natura. A differenza della lingua latina formata in un tempo di piena adulta e matura, anzi corrotta civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi di Roma, nella sua decadenza morale, nel tempo ch’era già cominciata la servitù degli animi romani, nell’ultima epoca dell’antichità » (Zib. 1067 sg. = I, p. 718, 20 maggio 1821). « Fino i titoli delle loro opere i latini gli scrivevano bene spesso, non solo con parole, ma con elementi greci ancora ... » (Zib. 2165 = I, p. 1326): un segno che i Latini resistevano all’inonda-

zione greca ancora meno che gl’Italiani all’inondazione francese (l’avversione all’influenza agisce non poco in questi anni nelle riflessioni su questo tema).

Non bisogna credere che Leopardi, come certi romantici, identifichi imitazione con mancanza di originalità o inferiorità rispetto al modello. In una nota dei primi anni dello Zibaldone (143 = I, p. 161) egli mette in guardia contro questo pregiudizio: non è verosimile che, con tanti imitatori d’ingegno, come si ebbero, per es., nel Quattrocento e Cinquecento, l'imitazione non abbia mai eguagliato l’originale; ma, aggiunge, il pregiudizio è tenace, diffuso, e non c’è speranza di eliminarlo. Nel testo del Leopardi, però, l’aggressività contro il pregiudizio è meno forte di quanto non possa apparire da questa mia parafrasi. Comunque

una noticina pre-

cedente (Zib. 68 = I, p. 99) mi pare un buon esempio per dimostrare che Leopardi non soggiaceva facilmente al pregiudizio. Egli ammira « il gran giudizio e gusto e bella immaginazione dei greci » che raffigurarono Caronte come vecchio: « cosa che conviene sommamente alla ruvidezza e squallore di quel luogo » (cioè dell'inferno). Ma quell’immagine, nota in una parentesi, Virgilio rese « divinamente »: cruda deo viridisque senectus (Aen. VI 304).

Il giudizio su Virgilio è in gran parte connesso con la riflessione e discussione su Omero, riflessione che ha una parte di primo piano nell’este185

tica del Leopardi.” Omero resta per lui il poeta sovrano, perché il più vicino alla natura e l’imitatore incomparabile della natura. La riflessione più impegnativa sul padre della poesia epica è, se non erro, in una lunga nota dello Zibaldone del 5-11 agosto 1823 (3095-3168 = II, pp. 264299): un saggio paragonabile forse, per importanza, al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Bisognerebbe analizzarlo attentamente e collocarlo nella storia dell’interpretazione di Omero; ma qui bisogna accontentarsi di alcuni accenni più pertinenti al nostro problema. Leopardi polemizza fin dall’inizio con quelli che « riprendono nell’Iliade la poca unità, l'interesse principale che i lettori prendono per Ettore, il doppio Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli altri epici, particolarmente a Virgilio ». Questi censori partono da certe regole del poema epico; ma Omero è anteriore alle regole, che, anzi, furono cavate dai suoi poemi; egli seguì non le regole, ma la natura, « molto miglior maestra delle Poetiche e de’ Dottori di Scuola e delle teorie ». La mancanza di unità si deve al fatto che Omero, attraverso i due eroi principali, Ettore e Achille, volle destare interessi contrarii, ma ugualmente importanti. Achille è l’eroe del successo e del valore bellico spietato. Ma egli, lungi dal nutrire odio per il nemico vinto, nutri compassione, sentimento che è di tempi più colti e più civili. Nei poemi epici l’eroe di successo diventa regola; ma la mancanza del contrasto fra virtù e fortuna, cioè dell’altro elemento essenziale di Omero, raffreddava l’interesse. Perché l'interesse rimanesse, bisognava

che i lettori sentissero l’eroe fortunato come cosa propria: perciò i poemi epici di rilievo (Eneide, Lusiade, Enriade) furono poemi nazionali o (come

nel caso della Gerusalemme liberata) più che nazionali. « Ma l’interesse che nasce dalla virtù felice è ... sempre debole anche in un soggetto nazionale, e soffre moltissimi inconvenienti, massime in tempi così diversi da quelli di Omero, come sono i moderni, e come furono quei di Virgilio che in molte parti si rassomigliano ai presenti » (3132 = II, p. 282). Le condizioni dei tempi di Omero non sussistono più in tempi non primitivi. Per i moderni non sussiste più la stretta unione di fortuna e virtù: ... la virtù modernamente considerata è per sua stessa natura, non solo non conducente, ma pregiudizievole alla fortuna. Questo discorso ha massimamente luogo ne’ tempi più moderni in che l’idee morali, e per cagione del Cristiane: % Le vicende della critica omerica all’interno dell’opera del Leopardi sono state tracciate in modo chiaro e convincente da G. Arrighetti nella relazione tenuta al convegno; e il compito era tutt'altro che semplice. Scarsi e incerti i risultati del libro cit. di G. Lonardi; utile (ma non molto) per le sole traduzioni da Omero l’opuscolo di N. CARINI, G. Leopardi critico e traduttore di Omero, Assisi 1964. Del Carini non ho potuto leggere l’opuscolo, anteriore a quello su Omero, su Virgilio nell'opera filologica di G. Leopardi.

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simo e per altro, sono più raffinate, e sempre più tanto si raffinano quanto più divengono inutili, e tanto più si perfezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno segregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente le dette considerazioni sono anche applicabilissime ai tempi di Virgilio; e infatti la virtù di Enea è immensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di perfetto eroe, concepito e voluto esprimere da Virgilio fu diversissimo, e in buona parte contrario a quello di Omero (3135 = II, p. 283).

Inoltre « oggi l'amor patrio e nazionale è quasi nullo »; ma « anche nei romani al tempo di Virgilio esso era abbastanza raffreddato, perché quasi niun di loro considerasse più la sua patria come cosa individualmente sua propria » (3135 sg. = II, p. 283). Non c’era più amor di patria anche perché non c’era più libertà: Omero cantò ai greci liberi, e Virgilio ai Romani, dopo lunghissima e ferocissima libertà fatti sudditi, e di più pacificamente tiranneggiati, perché quello fu quasi il più pacifico tempo dell’imperio romano, e in ch’essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero del giogo. Delle nazioni moderne poi, nulla dirò ...

(Gib 08--al1p,0284)1

L’interesse per un eroe e un’impresa nazionale felice non può essere universale né può essere perpetuo. L’interesse più duraturo e più profondo dei lettori per l’Iliade è suscitato dall’ammirazione e dalla compassione per Ettore, a cui Omero dette un posto pari a quello di Achille; ma proprio in questo Omero non fu seguito dagli altri poeti epici, neppure da Virgilio. Turno non occupa se non pochissima parte dell’'Eneide, e riesce così poco interessante che certo la sua sventura e morte non ha mai tratto ad alcuno un sospiro (3141%=>I1%p:8286). Nell’Ereide l’interesse della compassione non v'è. Dico non v'è, come interesse finale. Quello che si concepisce per Didone, quello per Niso ed Eurialo sono interessi episodici che non ci accompagnano se non per piccola parte del poema, né hanno a che fare colla sostanza e collo scopo di esso, talmente che possono affatto risecarsi senza che la testura né il principale e finale effetto del poema per nulla se ne risentano o ne sieno cangiati (3144 = II, p. 287 sg.).

In parte l’interesse del lettore per Virgilio si mantiene perché egli finisce per trasferire « ne’ fortunati [eroi] troiani dell’Eneide quell’interesse ch'egli ha concepito per gli sfortunati e vinti troiani della Iliade » (3145 = II, p. 288). E qui Leopardi accentra in modo piuttosto pesante la dipendenza dell’Ezeide da Omero (3145 sg. = II, p. 288): Perocché egli è certissimo che l’Iliade oltre all’aver partorito l’Eneide, oltre all’averla nutrita e cresciuta, per dir così, del suo proprio latte ... la sostiene

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e l’aiuta anche oggidì, comunicandole parte del suo proprio interesse, riscaldandola del suo fuoco, e riverberandosi sulla Ereide e in essa influendo e derivandosi e quasi irrigandola gli affetti che la lettura e la notizia della Iliade ispirò. Laonde se la Eneide, quanto al suo principal soggetto ispira alcuno interesse, egli è pur da notare che grande e forse la massima parte di esso, non a lei propriamente appartiene, ma le vien di fuori, e l’è totalmente accidentale ed estrinseco, non interiore ed essenziale, né in essa nasce ma altrove ed anteriormente nacque. Il che non si deve confondere col proprio e nativo interesse dell’Eneide.

La forza di Omero è nell’immaginazione che oggi, e già al tempo di Virgilio, è sopita (3154 sg. = II, p. 293): Poco ai tempi d’Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore, moltissimo l’immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a’ tempi di Virgilio), l'immaginazione è generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita, estinta no

Oggi, «e proporzionatamente eziandio a’ tempi di Virgilio », è quasi estinto l’interesse pubblico, « se non in quei pochi che le cose pubbliche amministrano » (3158 = II, p. 295) (l'osservazione

si può accostare

a

quella sull’amor di patria). Per tutte queste ragioni, dopo ventisette secoli l’Iliade « c’interessa senza alcun paragone più che l’Eseide scritta in tempi tanto posteriori, e più conformi ai nostri...» (3162 sg. = II, p. 297). In conclusione, egli rovescia la posizione dei censori di Omero: 1’ Iliade sarà stata superata dai poemi epici posteriori « nei dettagli o nelle qualità secondarie », ma proprio « nell’insieme, nel totale del disegno, nell’idea, nello scopo e nell’effettivo risultato del tutto » supera qualunque poema cpicos(3165*ss=sL=p,e298459,)!

Alcune note dello Zibaldone anteriori a questo saggio ne preannunciano alcuni punti e talvolta li svolgono più ampiamente. In una delle primissime note (2 = I, p. 4 sg.) Leopardi afferma, con paradosso molto significativo, che il fine delle Belle arti non è il Bello, ma il Vero: quindi il suo compito è l'imitazione della natura coi suoi limiti e i suoi difetti:

perciò « Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che potea farlo, e così gli Dei ». Questo concetto importante è alla base delle svalutazioni dei protagonisti di poemi epici successivi, a cominciare da Enea. Coloro che imitano o contraffanno le cose reali, vi mettono qualche difetto per dare verosimiglianza e- credibilità: Così dunque loderemo sempre più l’Achille difettoso di Omero, che l’Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava l’illusione e la persuasione (289 = I, p. 271, 20 ottobre

188

1820).

In una riflessione molto acuta distingue tra perfezione e grandezza: La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la sola natura è grande, e fonte di grandezza ... Un uomo perfetto non è mai grande. Un uomo grande non è mai perfetto. L’eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno); tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. x

Leopardi qui non fa il nome di Omero, ma è chiaro che pensa a lui. Proprio il contrario fanno Virgilio e Tasso, « tanto meno perfetti quanto più perfetti sono i loro eroi » (470 sg. = I, p. 381, 3 gennaio 1821). La svalutazione di Goffredo e, sia pure in misura meno grave, di Enea come eroi freddi è argomentata anche in un’ampia nota posteriore al saggio su Omero (3590-3616 = II, pp. 537-552); con la svalutazione di Enea con-

trasta l’entusiasmo per Didone (3607-3616 = II, pp. 547-552). Il concetto della contraddizione fra perfezione e natura porta qui anche a una certa freddezza verso l’Odissea, i cui eroi sono molto meno amabili di Achille (3616 = II, p. 552). Senza troppe argomentazioni l’odio per Enea e Goffredo torna nel LXXIV dei Pensieri. Qui si tratta dei grandi uomini, in particolare di capitani di eserciti (è richiamato il caso di Napoleone) e si nota che il loro fascino proviene in parte dai loro difetti: Anche una sorte di brutalità e di stravaganza piace non poco in questi tali, come alle donne negli amanti. Però Achille è perfettamente amabile: laddove la bontà di Enea e di Goffredo, e la saviezza di questi medesimi e di Ulisse, generano quasi odio.

Sulla compassione e misericordia in Omero, più precisamente su questo sentimento in Achille Leopardi aveva riflettuto in una nota del 24 maggio 1821 (1083 sg. = I, p. 728). Egli sottolinea che per Omero la crudeltà in guerra, l’abuso della vittoria sono virtù. Achille si piega « con grandissima difficoltà » alla misericordia verso Priamo. Noi troviamo assurda questa difficoltà (e in ciò Leopardi vede una prova a favore, non contro l’autenticità dell’episodio); ma per Omero essa era « nobile, naturale e necessaria ». E infine Leopardi fa notare la differenza di Omero da Virgilio, molto più vicino a noi. Riprende più ampiamente

questo tema

circa due anni dopo (Zib. 2759-2770 = II, pp. 79-84, 11 giugno 1823). Parte da una scena del X dell’Ezeide (521-536), in cui Enea uccide spie-

tatamente un nemico supplice perché la misericordia non ha più luogo dopo l’uccisione di Pallante. Dopo aver ricordato che la scena è ricalcata

91 PP, II, p. 46. 189

su una dell’Iliade (VI 37 sgg.)? fa notare che « siccome questa scena riesce naturalissima

e conveniente

in Omero,

così riesce forzatissima

e

fuor di luogo in Virgilio » (2761 = II, p. 80); e forzato riesce tutto il

comportamento di Enea nel X libro, dove fa « lo spietato e il terribile »: questo perché i concetti morali di Virgilio non sono più quelli di Omero. Sempre nella lunga syskrisis dei due poeti si colloca anche il famoso giudizio sulla fiacchezza della seconda metà dell’Ereide (Zib. 2976-2983 = II, pp. 199-203, 16-17 luglio 1823). Lo spirito e la vena di Omero, « l’uno tanto vivido, gagliardo, e fervido e l’altra così ricca e feconda in ciascheduna parte », non dimostrano mai stanchezza in tutto il corso di un lungo poema. Questo miracolo è concesso a Omero e ai tempi di Omero. Ma pur scrivendo un poema meno ampio di ciascuno dei due omerici, « Virgilio, il quale che cosa non ha tolto ad Omero?, nella seconda metà della sua Eneide riesce evidentemente languido e stanco, e diverso da se medesimo, se non nella invenzione certo però nell’esecuzione cioè nelle immagini, nella espansione e vivacità degli affetti e nello stile » (2978 = II, p. 201): gl’intenditori dello stile virgiliano se ne accorgono più degli altri: vedesi che l'immaginazione di Virgilio era per la lunga fatica illanguidita, raffreddata, e sfruttata; non rispondeva all’intenzione del poeta; non gli ubbidiva; egli poetava già per istituto e quasi debito, per arte e abitudine, arte e abitudine che in lui erano eccellentissime ...

Ma non bisogna confondere queste cose con l’impeto poetico. Se l’invenzione resta buona, è perché era stata « tutta concepita e disposta fin dal principio ». Virgilio non poteva reggere a lungo come Omero, perché Omero

era vicino alla « natura

ancor vergine » (2983 = II, p. 203):

E par che la natura ancor vergine dalla poesia ... le somministrasse in quel tempo tanta copia d’immagini e sentimenti che non avesse quasi alcun fondo, e a rispetto di cui sembri povera e scarsa quella che i più grandi poeti trassero poscia in qualunque tempo dalla natura già molto studiata e imitata.

Il lettore ricorre col pensiero alla canzone Alla Primavera o all’Inno ai Patriarchi. Pochi mesi dopo (25 ottobre 1823), ribadendo l’opinione che l’Iliade, se cede agli altri poemi in dettagli, li vince tutti nell’insieme e che suscita nel lettore un interesse sempre crescente dal principio alla fine, ribadisce pure che nell’Eneide l’interesse è « assolutamente retroLS

® Veramente Virgilio tiene presenti anche altre due scene simili: Iliade XXI 64 sgg.; X 378 sgg. Nel XIT si tratta proprio di Achille, che uccide Licaone rifiutando le profferte di riscatto del supplice: ci aspetteremmo che Leopardi richiamasse questo passo.

190

grado dal settimo libro in poi, e così nell’Odissea: errore e difetto sommo ed essenzialissimo e contrario ad ogni arte » (Zib. 3768 sg. = II, p. 640 sg.). Non sarà superfluo notare che nella prima nota dove viene svalutata

la seconda metà dell’Ezeide, viene accolta l’opinione, altrove, come ab-

biamo visto, non condivisa, che « l’imitatore è sempre più povero dell’imitato »; e, per le fonti di questa concezione e di questo gusto, è utile

ricordare che Leopardi cita l’Algarotti (2978 nota 1 = II, p. 201 nota 1).

L’entusiasmo per lo spirito non mai stanco di Omero, le riflessioni su Enea e su Turno spiegano abbastanza la svalutazione della seconda metà dell’Ezeide. Oggi discuterla non avrebbe molta utilità. A rigore, il giudizio non è errato; solo porta, e ha più volte portato, a una condanna sommaria, che getta via anche parti bellissime e importanti (per es., la tragedia di Mezenzio, alcuni momenti della stessa tragedia di Turno, e tanti altri punti), e ad una certa incomprensione degli ultimi sei libri, che può nuocere a quella di tutto il poema. Soprattutto va tenuto conto che Leopardi polemizzava contro un giudizio di Chateubriand, secondo cui, gli ultimi libri dell’Ereide costituivano la parte più bella dell’opera di Virgilio, il suo canto del cigno:” bella immagine, ma ingannevole: il giudizio di Leopardi era certamente più valido. Il genio di Omero è sempre ammirato senza riserva (almeno nell’Iliade),

ma non esaltato in quanto genio di un individuo: esso non avrebbe potuto nascere se non in tempi incorrotti, vicini alla natura donatrice di immaginazione possente. Ben altre aure respirò Virgilio. In una nota del 29 gennaio 1822 (2365 sg. = I, p. 1426) egli parte da due versi sulla morte di Marcello (Aer. VI 870 sg.) per notare (una delle tante acutissime osservazioni) che lì affiora una credenza nell’invidia degli déi da considerarsi in Virgilio come un residuo, una traccia di credenze primitive, ma che tali tracce sono in lui tenui: egli è « troppo dotto » e scrive in « tempo troppo spregiudicato, e filosofico,

e cominciato ad attristare dalla metafisica, che

produsse di lì a poco il Cristianesimo ». Un’espressione quasi cristiana egli scorge nei versi su Radamanto, che castigatgue auditque dolos subigitque fateri | quae quis apud superos, furto laetatus inani | distulit in seram commissa piacula mortem (Aen. VI 567 sgg.): il passo dimostra che anche i pagani avevano « chiara idea ed opinione della possibilità e necessità della penitenza, e dell’empietà e stoltezza di chi indugia a pentirsi e placar gli Dei sino alla morte » (2354 = I, p. 1419).

93 Sui rapporti con Chateaubriand un accenno in A. AMANTE, A proposito di alcuni luoghi virgiliani commentati nei « Pensieri » di Giacomo Leopardi, in AA. VV, Studi critici offerti da antichi discepoli a Carlo Pascal nel suo XXV anno d'insegnamento, Catania 1913, p. 33. Il famoso giudizio di Chateaubriand è nel Génie du christianisme (citato dallo stesso Leopardi) (Parigi 1868, p. 223).

191

Fortemente condizionato dalla poesia greca, Virgilio è perd, secondo Leopardi, il primo grande poeta epico presso i Latini. È difficile trovare, egli pensa, una letteratura che abbia avuto «in due diversi tempi ... due scrittori eccellenti e sommi in uno stesso genere ». Dopo la perfezione viene la decadenza; « quando il genere ha già avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza che è impossibile esser sommo »: dopo Omero anche la Grecia non ebbe che poeti epici di poco valore, come Apollonio Rodio; dopo Virgilio presso i Latini si ebbero solo infelici tentativi di epopea (801-804 = I, pp. 527-549, 17 marzo 1821).

Parecchi anni dopo, Leopardi, facendosi forte, tra l’altro, di idee di

Wolf sulla letteratura greca preomerica, elaborò nuove riflessioni di poetica che approdarono all’esaltazione del primato della lirica sugli altri generi, epico e drammatico. « Il poema epico è contro la natura della poesia », perché richiede « un piano concepito e ordinato con tutta freddezza » e poi un lungo lavoro, mentre « la poesia sta essenzialmente in un impeto » (4356 = II, p. 1181, 29 agosto

1828). Come

prova si adduce,

fra l’altro, la stanchezza della seconda metà dell’Ereide. Sotto stione del Niebuhr Leopardi collegò la nascita dell’epica alle leggende nazionali vive tra il popolo; ma le leggende furono dapprima in canti lirici, non ancora epici, come gl’inni (4359 = II, La prima poesia epica vitale si sviluppa in età meno

la suggeprimitive elaborate p. 1184).

primitiva, ma tut-

tavia « men che mezzana »: in questa si collocano i poemi omerici, i poemi romani sotto i re, i bardi. Ma in giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l’antico, per lo contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno più, non pur dell’eroiche, ma di sorta alcuna ... (4476 = II, p. 1283, 29 marzo

1829).

La lirica, la sola poesia vera, fiorisce nei tempi primitivi e torna nei tempi moderni; l’epica, che sta in mezzo, è vitale solo in una determinata fase,

che non è, però, quella dell’Ezeide o dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme liberata. Benché in queste riflessioni cada anche la teoria della poesia come imitazione, sia pure della natura, e il poeta diventi « creatore, inventore, non imitatore » (4358 = II, p. 1182 sg.), la valutazione di

Omero non ne soffre: la poesia omerica, infatti, la poesia rapsodica è ancora vicina agl’inni, quindi alla lirica; ma la svalutazione dell’epica virgiliana si accentua. Oltre il concetto dell’evoluzione del genere letterario, nella collocazione e valutazione di Virgilio opera, sia pure di rado, un’idea dello svi-

luppo della cultura latina corrente nel Settecento: l’abbiamo vista apparire nel saggio su Omero: la perdita della libertà politica segna l’inizio 192

della decadenza culturale. In Leopardi l’idea non ha tale diffusione ed efficacia da determinare la condanna della poesia di Virgilio, ma anche lui ripete, dopo Foscolo, la condanna dei poeti augustei come adulatori dei tiranni. In alcune riflessioni sugli scrittori di età imperiale, che, anche quando esaltano la libertà del passato, anche quando non sono servili verso il potere, non proclamano la libertà per il presente, mette Virgilio, Orazio, Ovidio fra gli adulatori dei tiranni presenti, « sebbene lodatori degli antichi repubblicani. Il più libero è Lucano » (463 = I, p. 376 sg, 28 dicembre 1820). Trattando, alcuni anni più tardi, della divinizzazione

degli imperatori, ricorda Augusto come un despota e « tutti gli uomini di quel secolo » come adulatori e vili (4077 = II, p. 906, 21 aprile 1824). Tuttavia nessuna di queste varie ragioni porta a esaltare la poesia come improvvisazione: il primitivismo di Leopardi resta sempre cosa diversa dallo spontaneismo: non c’è poesia senza arte, e Virgilio resta un poeta di arte perfetta. Basterà ricordare quel passo del dialogo Parini ovvero della gloria,* dove Parini si meraviglia che Virgilio, « esempio supremo di perfezione agli scrittori », si sia mantenuto nella sommità della gloria: infatti egli è ricco di pregi veri della poesia, che i lettori comunemente non sanno scoprire e gustare: dato il gusto grossolano del volgo, egli si sarebbe aspettato di vedere Lucano preferito a Virgilio. Come opera perfetta sopra le altre vengono riconosciute anche da Leopardi le Georgiche: il «poema più perfetto del più perfetto ed elegante poeta latino» (Zib. 2474 sg. = I, p. 1486, 14 giugno 1822). Per capire che cosa Leopardi intenda per eleganza della poesia è utile scorrere i casi in cui egli distingue il suo stile da quello di altri poeti. L’eleganza è concentrazione:

il contrario, come abbiamo visto, è, già nel Discorso di

un italiano intorno alla poesia romantica Ovidio. Una riflessione sullo stile di Dante incomincia con questa distinzione incisiva: « Ovidio descrive, Virgilio dipinge » (2523 = I, p. 1509, 29 giugno 1822). Ovidio vuol essere piacevole e finisce per annoiare con le sue continue descrizioni; le Metamorfosi « paiono scritte per chi si vuol divertire con poca spesa » (2599 sg. = I, p. 1544 sg.). L’eleganza di Virgilio, che è eleganza vera, usa un linguaggio peregrino: Leopardi torna a distinguerla più volte da

quella del suo traduttore Annibal Caro, che ama una certa familiarità del linguaggio (1808 = I, p. 1155, 30 settembre 1821).° Per capire meglio i concetti e i gusti operanti nella caratterizzazione e valutazione di Virgilio bisognerebbe ricercare le origini della poetica ed estetica leopardiana: compito vasto e difficile, quasi immane, che va al di HAPP TS p..895 sg. DIPPAIIpR521

% Sul Caro poeta e prosatore cfr. Zib. 2534-2536 = I, p. 1514 sg.

193

là di un’occasione come questa e per il quale io non avrei la competenza necessaria. Se posso esprimere un’opinione fondata su un’esperienza limitata, dirò che i problemi, le difficoltà, le soluzioni di Leopardi non presuppongono, in generale, il romanticismo, ma la cultura letteraria e filosofica del Settecento. Il primitivismo, la tendenza a svalutare la letteratura latina, il freno che questa tendenza trova nel gusto e nella tradizione, per cui i maggiori classici latini (Virgilio, Orazio, Tacito e qualche altro) vengono salvati, sono cose che conosco, per es., in Diderot.” L’Algarotti legge continuamente, gusta, ammira soprattutto Orazio e Virgilio, ma, sotto l’influenza della critica inglese, sentiamo crescere in lui il culto di Omero: già per lui Omero è poeta di tempi che non conoscono ancora la servità politica, che hanno lasciato dietro di sé la barbarie, ma non sono ancora corrotti dalla civiltà; # già in lui le punte di « primitivismo classico » sono evidenti, anche se non frequenti. La contraddizione fra primitivismo e gusto classicheggiante (o addirittura alessandrineggiante) è forte nel Foscolo, che Leopardi conosceva benissimo. Il termine di preromanticismo è anche secondo me più dannoso che utile: è ovvio che anche il romanticismo (movimento culturale, del resto, di grande varietà) ha assi-

milato e in certi casi sviluppato alcuni filoni culturali del Settecento. Alla formazione dell’estetica, della poetica, dei giudizi critici concorrono stimoli, variamente assimilati da Leopardi nella sua esperienza personale, provenienti da un’area che va da Montesquieu a M.me de Staél e a Chateaubriand, dall’Algarotti a Cesarotti e Foscolo e Monti; ? naturalmente in quest’area un posto di grande rilievo toccherà sempre a Rousseau; ma non tutto il « primitivismo » di Leopardi viene da Rousseau. Prima di avere individuato quegli stimoli con un lavoro filologico paziente sarà difficile fare molti passi avanti. A priori si può solo invitare a non cercare in fretta conclusioni schematiche allettanti: non bisogna eliminare con forzature le contraddizioni dell’estetica e della critica leopardiana. Il relativismo di Montesquieu, che pure Leopardi assimilò, avrebbe potuto correggere il suo culto eccessivo di Omero, ma non mi sembra che ciò si sia verificato. Uno hiatus bisognerà probabilmente constatare tra il filone delle riflessioni sull’epica, in cui il primitivismo classico porta a una certa svalutazione di Virgilio e un po’ di tutta la lingua e la cultura latina, e il fascino ineliminabile di Virgilio come poeta dell’indefinito, poeta dell’in7 Cfr. il mio studio, Tacito nella riflessione politica di Diderot, «Studi urbinati di storia, filosofia e lett. », 53, 1979, p. 137 segg. ® Cfr. Opere, ed. Venezia 1791, IX, p. 96 (in una lettera a G. Santarelli, 12 gennaio 1747). ® Per temi un po’ diversi da questo un buon avvio si trova in lavori degli ultimi decenni, per es. in quelli di Alberto Frattini: cfr. specialmente Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento, in AA. VV., Leopardi e il Settecento cit., pp. 253-282.

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felicità e della protesta contro l’ingiustizia del destino, come stilista perfetto: tra la diffidenza verso il poeta di tempi ormai non più vicini alla natura e l’amore per il poeta profondamente e sottilmente moderno. Ma nell’amore di Leopardi Virgilio non era solo tutto questo che ho cercato di ricavare dalla sua poesia e dalle sue riflessioni: nell'uomo Virgilio, come egli se lo raffigurava dalla biografia di Donato e dalla chiusa delle Georgiche, egli ritrovava un’anima simile alla sua, che gli faceva capire le proprie difficoltà di uscire dall’isolamento e la contraddizione della propria solitudine, nello stesso tempo prigione non voluta e rifugio contro il mondo. In alcune pagine bellissime dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri!® Virgilio, insieme con Rousseau, è collocato fra quelle persone rare « in cui la natura per soprabbondanza di forza, ha resistito all’arte del nostro presente vivere », più precisamente fra quelle in cui alla forza è congiunta una sorta di debolezza e di timidità, sicché la loro natura « combatte con se medesima ». Da ciò, secondo Leopardi, l’estrema lentezza nel parlare, che lo faceva apparire piuttosto rozzo; « per la stessa meravigliosa finezza dell’ingegno » era « poco atto a praticare cogli uomini »: il che si rifletteva anche nell’« artificio sottilissimo e faticosissimo del suo stile ». Nella chiusa delle Georgiche « si professa desideroso della vita oscura e solitaria »; ma lo fa in modo tale « che si può comprendere che egli vi è sforzato dalla sua natura, anzi che inclinato; e che l’ama più

come rimedio o rifugio, che come bene ». Non è né difficile né arbitrario scorgere in questo ritratto di Virgilio l’autoritratto di Leopardi: non è certo per caso che a questo scopo abbia scelto Virgilio, il poeta frequentato fin dall'infanzia e amato sempre di più attraverso le esperienze amare della vita.

6. Torniamo a Orazio. Come abbiamo visto da una lettera," Leopardi torna con piacere a leggere questo poeta nella prima metà del 1817: c’è una conferma in un passo dei Ricordi d’infanzia e di adolescenza: « lettura notturna di Cicerone e voglia di slanciarmi quindi presso Orazio »." L’ammirazione per lo stile è e rimarrà salda, ma da vari indizi sentiamo che il suo cuore non è conquistato da quella poesia. Una lettera al Giordani del 19 febbraio 1819 contiene un giudizio su Fulvio Testi: « il quale giudico che se fosse venuto in età meno barbara, e avesse avuto agio di coltivare l’ingegno suo più che non fece, sarebbe stato senza controversia il nostro Orazio, e forse più caldo e veemente e sublime del latino ».!* 100 101 102 103

PP, I, p. 941 sgg. Vedi sopra, p. 162. PP, I, p. 674. Lett. 161 (I, p. 233).

195

Non è arbitrario dedurne che Orazio non eccelle per calore, veemenza, sublimità: è una riserva sulla forza d’ispirazione del lirico latino. Una precisazione su questa riserva possiamo ricavare da una breve synkrisis fra Orazio e Petrarca svolta in una nota dello Zibaldone dei primi anni (ASE

pp)

Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più, e più dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico né antico né moderno se non nel Petrarca ... e Orazio quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca.

Ciò sembra indicare in Orazio una certa aridità umana.

La nota

se-

guente (23 = I, p. 34) riprende il tema della lettera citata poco fa, cioè

la valutazione del Testi, imitatore di Orazio. Testi non è Petrarca, e resta

inferiore al suo modello; ma i pregi di Orazio sono anche qui più dello stile che dell’ispirazione: Testi « non ha l’animatezza la scolpitezza, e la concisa nervosità e muscolosità ed energia e lo spirito del suo stile [dello stile di Orazio], né molta originalità e novità, né proprio sublimità di

concetti e d’invenzioni ». Non è detto che la « sublimità di concetti e d’invenzioni » si trovi in Orazio. Per la validità e la funzione dell’arte, quell’arte che è via per avvicinatsi alla natura, Orazio resta un punto di riferimento e un’autorità nella polemica contro i romantici. In una delle note più antiche dello Zibaldone, connessa con la polemica antiromantica e, quindi, col Discorso, il lavoro

di lima di Orazio è interpretato in questo modo e difeso contro le irrisioni del di Breme (20 sg. = I, p. 29): i nove anni d’Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre bestemmiano l’arte e predicano la natura, non s’accorgono che la minor arte è minor natura.

Sull’interpretazione dello stile di Orazio e di Virgilio alla luce della poetica dell’indeterminato non è necessario tornare; ma è necessario tornare su un paio di note dello Zihaldone da cui risulta chiara la valutazione che Leopardi dà di Orazio negli anni dei Canti (o già immediatamente prima): l’elaborazione dello stile suscita ammirazione e piacere, l’uomo e il poeta riscuotono poca stima o sono giudicati negativamente. Là dove Leopardi ricorda favorevolmente che Orazio, come Virgilio, pur nell’invasione di cultura greca, assume nella sua poesia temi nazionali, ne sottolinea però lo scarso valore « in quanto poeta » (Zib. 54 = I, p. 82): 196

Similmente Orazio uomo però di poco valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue odi derivate dal greco, prese parecchie volte a celebrare le gesta romane.

Il giudizio parentetico (« uomo però di poco valore in quanto poeta ») non è chiarissimo, ma vuol dire, se non erro, che gli manca la forza dell’ispirazione, impossibile senza ricchezza di passioni e di sentimenti. L’elogio dello stile di Orazio per la sua energia e rapidità, elogio che ho citato in parte, contiene un'importante limitazione (Zib. 2050 sg. = I, p. 1273, 4 novembre

1821):

E tale è il caso d’Orazio, il quale alla fine non èx poeta lirico che per lo stile. Ecco come lo stile anche separato dalle cose, possa pur essere una cosa, e grande; tanto che uno può essere poeta, non avendo altro di poetico che lo stile: e poeta vero e universale, e per ragioni intime, e qualità profondissime, ed elementari, e però universali dello spirito umano.

Il passo non è, almeno per me, di facile interpretazione; dirò, anzi, candidamente, che non ho eliminato da me ogni incertezza. Qual è il rapporto sintattico e logico fra il penultimo kolor (« tanto che uno può essere poeta ... ») e l’ultimo («e poeta vero e universale ... »)? L’ultimo continua e determina il precedente? In questo caso Orazio, che pure di poetico non ha che lo stile, è anche « poeta vero e universale ». Questa è, se

non etto, l’interpretazione corrente."* Il dubbio si insinua perché Leopardi, com'è noto," condusse una sua polemica contro coloro che nello stile riponevano tutto il pregio della poesia: basterà qui citare la conclusione di una famosa nota dello Zibaldone

(3388 sg. = II, p. 423, 9 settembre

1823): ... Chiunque

non

sa immaginare,

pensare,

sentire,

inventare,

non

può né

possedere un buono stile poetico, né tenerne l’arte, né eseguirlo, né giudicarlo nelle opere proprie né nelle altrui; ... l’arte e la facoltà e l’uso dell’immaginazione e dell’invenzione è tanto indispensabile allo stile poetico, quanto e forse ancor più ch’al ritrovamento, alla scelta, e alla disposizione della materia, alle sentenze e a tutte l’altre parti della poesia ec.

Riflessioni come questa indurrebbero a concludere che è impossibile separare il buon stile poetico da pensieri, immagini, sentimenti, e che è 14 Cfr. G. BANTERLE, Giudizi leopardiani su Orazio, « Atti e Mem. dell’Accad. di Agricoltura, Sc. e Lettere di Verona », s. VI, 19 (144), 1867-1868, p. 352; E. PARATORE, 1! Leopardi e la letteratura latina postoraziana cit., p. 504 sgg. (nota 10). Non mi pare che il problema sia stato messo bene a fuoco. 105 Per la concezione dello stile in Leopardi rimando soprattutto alla limpida e acuta trattazione di W. BinnI, La protesta di Leopardi cit., p. 91 sgg.

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impossibile, quindi, essere vero poeta per il solo stile. Perciò mi sono chiesto se non si possa affacciare un’altra interpretazione: l’ultimo kolon sarebbe col precedente in rapporto avversativo: Leopardi distinguerebbe due generi di poeti: i poeti che sono tali solo per lo stile e i poeti veri universali, che sono tali per ragioni più profonde: in questo caso Orazio rientrerebbe solo fra i primi. Ma questa interpretazione lascia ‘ancora meno tranquilli dell’altra. Il 5 novembre 1821, cioè il giorno seguente a quello in cui è stato scritto il passo in questione, Leopardi, in una nota

che già conosciamo in parte * e che, a proposito di Ge. I 357 sg., svolge sullo stile di Virgilio considerazioni molto simili a quelle sullo stile di Orazio, arriva a concludere (2056 sg. = I, p. 1275 sg.): Tali stili che ho detto bastare alle volte senz’altro a fare un poeta, sono

poi così difficili a distinguersi dalle cose, che non facilmente potrete dire, se il tal pezzo scritto in simile stile, sia poetico pel solo stile, o per le cose ancora. Del resto è evidente che detti stili domandano vivacità d’immaginazione ec. ec. nel poeta (e nel lettore ancora), e quindi disposizioni poetiche: e se vorremo sottilmente guardare, poche pochissime parti troveremo nelle più poetiche poesie, che detratte queste e simili qualità dello stile in cui sono

scritte, restino

ancora poetiche. L’immaginazione in gran parte non si diversifica dalla ragione, che pel solo stile, o modo, dicendo le stesse cose. Ma queste cose la ragione non le saprebbe né potrebbe mai dir così; e solo il poeta vero le esprime in tal modo.

Da un lato uno stile come quello di Orazio (anche se qui il nome di Orazio non è fatto) è difficilmente isolabile dalle cose, dall’altro è troppo in rapporto con immaginazione e pensiero, se è capace di imprimere ad essi un così vivido e piacevole movimento; e Leopardi, se condanna in altri momenti la sopravvalutazione dello stile, qui si preoccupa del pericolo che la funzione essenziale dello stile venga misconosciuta o sottovalutata. Nelle riflessioni di Leopardi sullo stile una coerenza di fondo si scorge: essa consiste, come è stato giustamente indicato da Binni,'” nella battaglia su due fronti, contro il contenutismo volgare-romantico e contro il formalismo volgare-classicistico; ma è probabile che si debbano ammettere, anche senza contare i mutamenti di posizione nel tempo, squilibri nella polemica: cioè che nel combattere la sottovalutazione dello stile egli si spinga talvolta verso il formalismo. Il fascino dell’elaborazione stilistica, specialmente per uno come lui che tanto la conosce per esperienza diretta, è tale che egli ripugna davanti all’idea di condannare uno stile potente come vuoto o come superfluo. Mi fermo a questa conclusione provvisoria, spe1% Vedi sopra, p. 163. 107 La protesta di Leopardi, p. 92.

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rando che una migliore collocazione del passo nelle riflessioni di Leopardi sullo stile riesca un giorno a eliminare ogni dubbio. Come nel caso di Virgilio, ma in misura più grave, alla svalutazione di Orazio spinge il concetto generale della cultura latina come priva, almeno da un certo punto in poi, di sviluppo autonomo rispetto a quella greca. In una ben nota, lunga riflessione sulla storia della lingua greca e della lingua latina dell’8-14 marzo 1821, che costituisce anch’essa un piccolo saggio (Zib. 735-783 = I, pp. 515-538), Leopardi lamenta che dopo Cicerone la lingua latina restasse affogata da quella greca (749 = I, p. 5209.) Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto ad un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata; e così la facoltà generativa della lingua latina rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva.

Analogamente a quanto ho accennato altrove, va tenuta presente l’avversione del Leopardi all’influenza del francese sull’italiano. È notevole il rilievo che in questa storia della lingua assume Cicerone, col quale lo sviluppo della lingua latina tocca il punto di maggiore altezza e solidità. Invece Orazio qui è presentato come uno che cede completamente alla moda ellenizzante (751 sg. = I, p. 522 sg.): Orazio già avea dato poco buon esempio. Uomo in ogna cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l’opposto del carattere romano, e nelle opere tanto seguace della sapienza fra’ cortigiani, quanto Federigo II tra i re. Non è meraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov’egli difende e ragiona su questo suo costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll’esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; anzi io non voglio contendere s’egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perché i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch’io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma poco tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec. per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant’oltre che la lingua latina impoveriva dall’un canto e dall’altro imbarbariva effettivamente per grecismo, come oggi l’italiana per francesismo.

Come si vede, lo stile di Orazio viene salvato; ma la qualifica di « basso ingegno » è una condanna drastica: Orazio manca di altezza d’ispirazione, di altezza e di vigore morale, una qualità che non si può certo trovare in un damerino alla moda. All’accoglienza di grecismi persino nei titoli delle 199

opere ho accennato sopra a proposito di Virgilio.® Ma quest’argomento non va lasciato senza notare che oltre due anni più tardi Leopardi prenderà un atteggiamento molto più equo sui rapporti fra cultura latina e cultura greca e fra cultura italiana e cultura francese: in questo contesto egli si richiama al precetto dell’Ars poetica (48-53) che permette, entro certi limiti, innovazioni di lingua attraverso prestiti dal greco, contro il rigorismo dei « nostri pedanti », cioè dei puristi (Zi. 3192 = II, p. 314, 18 agosto 1823). | di Orazio foscoliana, ascendenza e Anche della condanna, di sapore come adulatore « de’ tiranni presenti » si è detto già a proposito di Virgilio; © ma l’irrisione del poeta cortigiano torna in una pagina satirica delle Operette morali. In uno dei dialoghi più lucianeschi, il Diglogo d’Ercole e di Atlante, ad Atlante che gli raccomanda di tornare in cielo presso Giove, Ercole risponde: Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani.

Questo poeta va canticchiando

certe sue canzonette,

e fra l’altre

una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso.

Senza i giudizi precedenti si potrebbe credere a una semplice caricatura; ma non è così.

7. Questa volta dallo Zibaldone torniamo alla poesia. La presenza di Orazio lirico, letto alla luce della poetica del peregrino e dell’indeterminato, nei Canti dei primi anni, cioè dal 1818 al 1823, in particolare nelle canzoni civili, è illuminata abbastanza nei buoni commenti (i richiami, naturalmente, vanno più spesso alle liriche civili di Orazio). Per ora non saprei aggiungere che qualche dettaglio incerto e quasi irrilevante. Nell’idillio La sera del dì di festa, in alcuni versi sullo scorrere del tempo e delle cose (30 sgg. « Ecco è fuggito / Il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede »), c'è forse l’eco di una sentenza oraziana (Carm. II 18, 15 sg.): truditur dies die | novaeque pergunt interire lunae. Nell’Ultimo canto di Saffo 24 « addetta » è forse lessico oraziano (Epod. 17, 11; Epist. I 1, 14); così nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina 100 « Gli obbliviosi petti » (cfr. Carme. II 7, 21). Sarei un po’ meno incerto per un’im108 Vedi sopra, p. 185. 19 Vedi sopra, p. 193. 110 PP, I, p. 829.

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magine dell’idillio Alla luna: 4 « E tu pendevi allor su quella selva » forse prende lo spunto da imminente luna di Carm. I 4, 5 (ode famosa); non importa che l’immagine fosse tralasciata nella traduzione dell’infanzia. Sarà poi Carducci a trasportare in italiano non solo l’immagine, ma anche la parola. Più che perderci dietro a dettagli incerti, sarà utile valorizzare meglio alcune suggestioni già segnalate. Riflettendovi sopra, ci si accorge che la presenza di Orazio non si esaurisce tutta sul piano stilistico. Che Leopardi, pensando a una poesia parenetica civile, connessa con un programma di educazione patriottica dei giovani, si rivolgesse a Orazio, in particolare a Carm. III 2," parrà naturale; ma va ricordato che questo programma parte da una visione pessimistica della società contemporanea, dal dolore per la corruzione morale e civile del popolo italiano: un sentimento che trovava appigli in Orazio. Mi pare utile riferire una breve nota dello Zibaldone (723 = I, p. 509 sg., 7 matzo 1821), che commenta Carm. I 3, 29-33, dove Orazio evoca la terra invasa dai mali dopo il furto del fuoco da parte di Prometeo: Questo effetto, attribuendolo Orazio favolosamente alla violazione delle leggi degli Dei, ed alla temerità degli uomini verso il cielo, viene ad attribuirlo nel vero significato, alla violazione e corruzione delle leggi naturali e della natura; verissima cagione dell’incremento che l’imperio della morte ha guadagnato sopra gli uomini.

Questo stesso passo di Orazio, com’è stato scorto dai commentatori, ispira,

sempre nel contesto del tema della decadenza del genere umano, alcuni versi dell’Inno ai Patriarchi (11 sgg.): E se di vostro antico Error che l’uman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura offerse, Grido antico ragiona ...

Credo però, che anche i versi seguenti e irrequieto ingegno,

E demenza maggior l’offeso Olimpo N’armaro incontra ...

111 Il richiamo esplicito a quest’ode è stato segnalato nell’abbozzo Dell’educare la gioventù italiana, dove compaiono temi, frasi, immagini usati poi in alcune canzoni civili. All’immagine allegorica della Pena, zoppa, che tuttavia raggiunge il colpevole, immagine con cui l’ode si chiude, Leopardi allude, come indica lui stesso in nota, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (PP, I, p. 952).

201

seguano la traccia del carme oraziano (34 sgg.): Expertus vacuom Daedalus aéra pennis non homini datis: perrupit Acheronta Herculeus labor.

Nil mortalibus ardui est: caelum ipsum petimus stultitia neque per nostrum patimur scelus iracunda Iovem ponete fulmina.

Non sfuggirà l’eco di stultitia in « demenza ». Questa chiusa del carme si riaffaccia poco prima della fine dell’I##0 (110 sgg.): Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura!

Il moderno poeta russoviano si esprime talvolta con accenti e concetti presi dalla polemica oraziana contro il progresso. La profezia apocalittica dell’epodo 16 ha trovato in Orazio più risonanze che la profezia messianica dell’ecloga quarta di Virgilio: la visione della città invasa e distrutta dai barbari, delle rovine occupate dalle fiere (Epod. 16, 9 sgg.), già presente nell’abbozzo Dell’educare la gioventù italiana, tornerà nella canzone A un vincitore nel pallone 40 sgg. e in Bruto minore 4 sgg.! Non è casuale che anche «la ferrata / Necessità » nel Bruto minore

(31 sg.) sia

immagine suggerita da Orazio (Carm. I 35, 17 sgg.). Insomma

ci sono

spunti per farci porre Orazio fra gli auctores del pessimismo storico, che è pur sempre una radice importante del pessimismo leopardiano: non tra i primi auctores, ma neppure trascurabile. Le radici più importanti del pessimismo storico di Leopardi sono, naturalmente, come si vede dalle prime canzoni civili, nell’esperienza politica recente, dall’occupazione napoleonica alla restaurazione; ma è altret-

tanto noto che la formulazione trova appigli nella filosofia, storiografia, letteratura antica sulla decadenza del genere umano: lui stesso raccolse parecchio materiale nelle note al Dialogo del cavallo e del bue." Qui, in una brevissima disgressione, mi limito a segnalare due poeti latini che, oltre Orazio, Leopardi ha avuto presenti nelle riflessioni su questo tema. L’uno è Catullo, che alla fine del carme

64 (384 sgg.) delinea la deca-

112 Nei primi due passi è notevole anche l’eco da Carm. III 3, 40 sg., rapida evocazione di Troia distrutta. 113 PP, I, p. 1065 sgg. Si vedano anche le note di C. Galimberti a questo materiale nel suo egregio commento alle Operette morali (Napoli 1977, p. 486 sgg.).

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denza del genere umano: quando gli uomini erano pii, gli dei si aggiravano tra loro; da quando si sono macchiati di delitti di ogni sorta, gli dei disdegnano di frequentarli. È evidente, ed è stato già visto, che questo passo, già usato da Leopardi nel Saggio sugli errori popolari degli antichi, lo aiuta a plasmare qualche tratto della Storia del genere umano: Avevano usato gli Dei negli antichi tempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi governavano le cose umane, visitare alcuna volta le proprie fatture, scendendo ora l’uno ora l’altro in terra, e qui significando la loro presenza in diversi modi...

L’altro poeta è, ancora una volta, Virgilio. Quando Leopardi, sempre nella Storia del genere umano,"® scrive che Giove, « per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il bisogno e l’appetito di nuovi cibi e di nuove bevande ... », ha in mente, com'è stato già segnalato, Ge. I 121159, un passo famoso in cui Virgilio spiega con lo stesso concetto l’origine del lavoro e la fine dell’età aurea.! Nei primissimi anni dei Canti, come si sa, Leopardi pensò anche ad un filone di poesia diverso dalle canzoni civili e dagli idilli: episodi di cronaca che inducevano a riflettere sull’infelicità causata dalla natura e sulla corruzione della società. Nel marzo e nell’aprile 1819 da questo filone poetico nacquero due canzoni che non sono tra i frutti più felici di Leopardi poeta: Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo. Da un abbozzo sappiamo che egli aveva in mente una canzone dal titolo Il primo delitto, o la vergine guasta: egli voleva esprimere il desiderio di morte, il coraggio proveniente dal rimorso che provava una fanciulla in quello stato, e che pensava di prendere alcuni spunti da Carm. III 27 di Orazio, dove in quello stato si trova per un momento Europa violata dall’ignoto amante che poi si rivela per Giove.!” Quest’ode attirò parecchio l’interesse di Leopardi. L’aveva tenuta presente nella prefazione a Mosco ! e poi in una nota all’epillio su Europa; ! 114 PP, I, p. 823; si veda il comm. di C. Galimberti, p. 28 sgg. nota 112. Il passo del Saggio in PP, II, p. 282. 115 PP, I, p. 816, e il comm. del Galimberti, p. 15 sg. nota 60. 116 Naturalmente non mancano, sia nella descrizione dell’età aurea sia in quella della decadenza, tratti suggeriti da Ovidio. Lo stato di natura rievocato nell’Inno ai Patriarchi (92 sgg.) non è in tutto simile all’età aurea descritta nella quarta ecloga di Virgilio: Leopardi, com’è stato già notato, polemizza, questa volta senza sarcasmo, col poeta antico. Invece cita e

segue Virgilio (Ge. III 370 SVI = IN II 117 PP, I, p. 380. USER PAT 571: NP PA D 592 nota,2,

sgg.) per

caratterizzare

la vita

primitiva

degli

Sciti

(Z:b.

203

ma l’interesse che si ricava dall’abbozzo della canzone riaffiora in un abbozzo della Telesilla: Leopardi pensava di utilizzare alcuni spunti dell’ode per una scena della sua tragedia. Evidentemente egli vi trovava più pathos di quanto non ne sentiamo noi; ma è notevole che l’interesse qui non andava tanto allo stile quanto al dramma del monologo: dunque Orazio gli si rivelava talvolta per un poeta tutt’altro che arido. L'incontro sul terreno del pathos non avvenne, e non fu certo per caso. Può darsi (ma si tratta solo di incerta congettura) che un quadro di quell’ode faccia sentire la sua suggestione in un punto della canzone Ad Angelo Mai. Nella nota all'Europa di Mosco egli cita i vv. 31 sg.: nocte sublustri nihil astra praeter vidit et undas. Forse un’eco è arrivata nel v. 76 della canzone:

Ma tua vita era allor fra gli astri e il mare, ...

Ma veniamo a tracce più importanti:

Orazio s’incontra più volte sul

cammino che porta Leopardi alle meditazioni sulla noia e a riflessioni psicologiche affini. Cominciamo dalle riflessioni liriche sulla vita che chiudono la canzone A un vincitore nel pallone: Beato allor che il piede Spinto al varco leteo, più grata siede.

Il concetto, si sa, ritorna poi nel canto La quiete dopo la tempesta. I commentatori hanno notato giustamente lo spunto oraziano (Epist. I 4, 7). In una

riflessione affine conservata

nello Zibaldone

(299 = I, p. 276,

23 ottobre 1820) Leopardi nota che « l’imminenza del male accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi

famosa tra loro, e provata da me ... ». Il testo di Orazio non è precisato, ma si tratterà, piuttosto che del verso dell’epistola, di passi come Carm. I 7, 31 sg. (nunc vino pellite curas:

| cras ingens iterabimus aequor). At-

tenzione molto maggiore merita La vita solitaria, anzi quella parte dell’idillio che, come tutti riconoscono, è uno dei culmini della lirica leopardiana (23-28). Leggiamo i primi versi di questo pezzo (25): Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne

COSPP AT D 422;

204

piante incoronato.

Segue il brano sull’epiphéreia del nulla nell’ora del meriggio: epiphäneia che va letta in contrapposizione con l’epiphéneia della divinità in quella stessa ora secondo le credenze degli antichi, che Leopardi conosceva bene fin dal tempo del Saggio sugli errori popolari (capo VII).!! Nella meditazione lirica di Leopardi il Nulla prende il posto della divinità; 2 e non è inutile notare che il Nulla leopardiano, se talvolta appare in immagine come il vuoto, qualche altra volta ha caratteri quasi eleatici, cioè si assimila in qualche modo al suo contrario, all’Essere (« immoto

siede »):!®

il che non mi sembra procedimento proprio di una teologia mistica. Per i versi citati i commenti danno indicazioni utilissime. Il lago solitario, incoronato da piante taciturne, era immagine fissatasi in lui da tempo, forse un’immagine ossessiva: la troviamo nel canto IV dell’Appressazzento della morte (70 sg.): « su queto lago / cinto di piante in ermo loco ». Ma prezioso è anche il richiamo di un testo di Orazio, Carm. III 29, 23 sg.; in realtà va richiamata e citata tutta la strofa (21-24): iam pastor umbras cum grege languido rivomque fessus quaerit et horridi dumeta Silvani caretque ripa vagis taciturna ventis.

Va citata tutta la strofa perché anche in Orazio la quiete della riva, perfetta e quasi terribile, si colloca in un meriggio estivo, canicolare. Il paesaggio dell’Appressamento era idillico, luminosamente idillico; sulla via dal paesaggio idillico al paesaggio dell’epiphaneia del nulla troviamo Orario.!* E Orazio incontriamo ancora dietro la raffigurazione della noia che Leopardi dà nell’epistola a Carlo Pepoli: la smania dei viaggi non libera l’uomo dalla « negra cura », che siede sulla prua della nave, e in ogni parte 121 PP, II, pp. 280-290.

e 122 Credo che questo concetto si possa mantenere anche senza dedurre troppe conseguenze (per parte mia credo poco al Leopardi cristiano eretico o gnostico); non è il caso di discutere qui la nota tesi di A. Tilgher sulle esperienze leopardiane del « numinoso », tesi, comunque, degna di attenzione (La filosofia di Leopardi, Roma 1940, p. 149 sgg.). Sul rapporto fra l’ora meridiana e la rivelazione delle divinità i testi di Leopardi, come si sa, sono molti: cfr. Tilgher, p. 156, e C. Galimberti, comm. alle Operette morali, p. 29, nota 112. 123 Ad Angelo Mai 74 sg.; cfr. Zib. 85 (= I, p. 112): «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla ». Certamente altri testi si potrebbero citare. 124 La caratterizzazione del paesaggio (per lo più paesaggio silenzioso o orrido) attraverso la negazione, con l’anafora del #07, risale anch’essa ai classici. Richiamo a caso qualche passo. Uno che Leopardi potrebbe avere avuto in mente, è la descrizione della spelonca del sonno: Met. XI 597 sgg. Non vigil ales ibi cristati cantibus oris | evocat Auroram … non fera, non pecudes, non moti flamine rami... Alcuni casi noti sono nelle tragedie di Seneca (Oedipus 37 sgg., 154 sgg.; Hercules furens 658 sgg.). Ciò vale, si capisce, anche per il bellissimo passo parallelo nel Cantico del gallo silvestre (PP, I, p. 968).

205

‘ del mondo egli ritrova la tristezza e, anche se qui non è nominata, la noia. I testi oraziani (Carm. II 16; Epist. I 11) sono ben noti. Qui siamo sulla

via maestra della meditazione leopardiana. Si potrà discutere se il profondo disagio psicologico di Orazio si configuri clinicamente nello stesso modo della noia di Leopardi: è argomento per psicologi e psichiatri; certo è che Leopardi ha trovato nel poeta antico quella smaniosa insoddisfazione di tutto che porta all’annullamento di ogni valore e piacere e al torpore completo dell’animo. Già una volta, riflettendo su « un certo torpore dell’animo e del corpo » diverso dalla noia, ma posto su un terreno psicologico affine, torpore piacevole che consiste nella dimenticanza, nella quiete totale dalle passioni, egli si era richiamato a Orazio (Zib. 1779 = I, p. 1141, 24 settembre 1821): « Le lodi che dà Orazio all’ubriachezza versano per lo più sulla dimenticanza, e quindi sul torpore ch’ella cagiona ».® E una riflessione di Filippo Ottonieri sulla generale infelicità umana, in ogni condizione, prende lo spunto dall’inizio della prima satira di Orazio, cioè dalla questione « come avvenga che nessuno è contento del proprio stato ». 126 Soprattutto per lo stile, ma anche per il resto, l’Orazio di gran lunga più presente a Leopardi è l’Orazio lirico. Sull’Orazio del serzzo (Satire ed x

Epistole) va tuttavia ritenuta, dallo Zibaldone dei primi anni (41 sg. = I,

pp. 62-64), una fine riflessione sulla comicità antica e moderna. La comicità antica, che Leopardi mostra chiaramente di preferire, è « sostanziosa »,

fatta di cose, situazioni, immagini, similitudini, racconti; quella dei moderni è fatta di parole e si riduce a un’ombra inconsistente. Il bersaglio

pare soprattutto lo spirito alla francese. Orazio, che dice male di Plauto, sta un po’ in mezzo: infatti le Satire e l’Epistole d’Orazio non sono di così solido ridicolo come l’antico comico greco e latino, ma né anche di gran lunga, così sottile come il moderno.!””

Non credo che questa nota ci sia particolarmente utile per capire l’uso del serzzo oraziano da parte di Leopardi, comprensibile in una tradizione letteraria italiana che contava secoli. Certo anche in questo Leopardi, pur senza eccellere, ha un tatto elegante che si dimostra nelle sfumature dell’ironia, ora piegato verso il sarcasmo ora verso una dolente amarezza. L’uso, comunque, è raro e si riduce all’epistola A Carlo Pepoli e alla Pali125 Sul vino e l’ubbriachezza una raccolta di passi leopardiani nel comm. di C. Galimberti alle Operette morali, p. 169 sg., nota 69; qualcuno potrebbe essere qui richiamato. 064 AL p2934; ta Nel seguito di questa nota l’Orazio che sale « per la finestra a fine d’evitare i complimenti alle porte », non è il poeta, bensì un personaggio della commedia Le cerimonie di Scipione Maffei, atto III sc. VI (cfr. Opere drammatiche e poesie varie, Bari 1928, pi 122,55):

206

nodia; e nel secondo caso la presenza di Orazio non è molto rilevante. L’epistola a Pepoli può essere riletta con frutto. Tra gli echi già rilevati quella che ci riporta all’ode dell’otium (II 16) è un caso curioso di manipolazione: l’otium di Orazio è la tranquillità dell'animo che non si acquista né colle ricchezze né con la potenza, ma contentandosi del poco (vivitur parvo bene); ozio per Leopardi è ogni attività umana perché vana, perché incapace di raggiungere il suo scopo, la felicità. È manipolazione molto sottile. La presenza di Orazio è nell’epistola di un’ampiezza non ben valutata. Per tutta una parte dello svolgimento, da 63 alla fine, il filo è dato dalla prima ode di Orazio. Come in quell’ode, Leopardi dà una serie di Bto., cioè di generi di vita. I commenti rinviano piuttosto a Ge. II 503512, dove ricorre lo stesso #épos: riferimento non inutile, ma, credo, meno pertinente. Orazio ai vari fior contrappone la propria vita di poeta con un 7e all’inizio del verso (Carm. I 1, 29). Leopardi, adattando lo

schema all’occasione, lo complica un po’: ai fto elencati (63-99) è contrapposta la vita del Pepoli con un fe all’inizio di verso (100); ma poi,

alla vita di prima e a quella del Pepoli, contrappone la propria (121). L’Orazio qui usato è ancora l’Orazio lirico, ma in questo caso piuttosto vicino al serzzo. ‘ Giacché mi son trovato a interpretare lo svolgimento di questa epistola, colgo l’occasione per richiamare un testo che dà il filo dello svolgimento alla parte finale, quella riguardante Leopardi stesso (da 121 alla fine), la parte più lirica e più vicina, per riconoscimento generale, alla grande lirica leopardiana. Il poeta è giovane, ma si sente già alla fine della giovinezza (121-126). Quando la giovinezza, gl’inganni, gli affetti saranno finiti (127-136), egli si dedicherà ad altri studi (137-140).

Questi studi

saranno, anche se Leopardi non usa il termine, di filosofia: la ricerca dell’acerbo vero; e qui il poeta dà, con una serie di proposizioni interrogative indirette, un elenco dei temi della ricerca filosofica: a che prodotta, A che d’affanni e di miserie carca L’umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura...

Così fino a v. 149. L’epistola si chiude col quadro in cui il poeta raffigura se stesso intento alla ricerca del vero, « che conosciuto, ancor che tristo, /

Ha suoi diletti ... », e incurante di consenso e di gloria, giacché della gloria ha compreso la vanità (150-158).

Ora lo svolgimento fin qui seguito a partire dal v. 121 corrisponde abbastanza bene a quello di buona parte di un’elegia di Properzio (III 5): parlo dello svolgimento, del filo dell’argomentazione, non del contenuto. Properzio è ancora giovane e la vita che ha scelto, è occupata nell’amare, 207

nel banchettare, nel cantare d’amore (19-22); ma, quando arriverà la vecchiaia e gli amori saranno finiti, si dedicherà alla filosofia, che è qui vista come scienza della matura (21-23): Atque ubi iam Venerem gravis interceperit aetas, sparserit et nigras alba senecta comas, tum mihi naturae libeat perdiscere mores ...

E qui segue, con una lunga serie di interrogative indirette, l’elenco dei temi della ricerca filosofica (26 sgg.): . quis deus hanc mundi temperet arte domum, qua venit exoriens, qua deficit, unde coactis cornibus in plenum menstrua luna redit, unde solo superant venti ...

E continua così per un bel pezzo (26-46); invece è breve la conclusione: questa sarà la fine della sua vita; coloro a cui piace la guerra, ci vadano (47-48): egli non aspira né a ricchezze né a gloria.

Che la coincidenza non sia né inconsistente né casuale, mi pare fuori di dubbio; anche la formulazione di uno dei temi data da Leopardi (147 sg. « Con quali ordini e leggi a che si volva / Questo arcano universo ... ») ricalca un punto di Properzio (25 sg. tum mibi naturae libeat perdiscere mores, | quis deus banc mundi temperet arte domum). Un elenco, molto

più breve, di temi di scienza della natura, formulati con interrogative indirette, e collocati in un contesto un po’ simile, c’è anche nelle Georgiche (II 477-482); Properzio gareggia con Virgilio,"* e, ovviamente, Leopardi conosceva il passo delle Georgiche; ma il resto dell’argomentazione, basato sul contrasto fra la vita della giovinezza e quella della vecchiaia, c’è in Properzio, non in Virgilio. La cosa è sorprendente, perché Properzio non è poeta familiare a Leopardi. Nelle prose abbiamo alcune citazioni (poco più di una decina); più della metà sono nel Saggio sugli errori popolari degli antichi: queste saranno di seconda mano;

altre (due nello Zibaldone) sono esplicitamente

di seconda mano; si può sospettare lo stesso negli altri casi. Alle citazioni segnalate negli indici ne va aggiunta un’altra, non elencata perché data da Leopardi senza il nome dell’autore: nella premessa alla traduzione della Titanomachia!?

è citato, senza

nome

d’autore, un verso

di Properzio

VERI S1234): Posteritate suum crescere sentit opus. 128 Per il confronto vedi A. LA PENNA, « Maia », 4, 1951, p. 51 sg. LORD AD 550. 130 sensit il testo di Properzio, ma Leopardi ha adattato il tempo al suo contesto.

208

Anche qui citazione di seconda mano? Può darsi, ma può darsi anche di no. Il testo di Properzio esisteva nella biblioteca di casa Leopardi, sia pure in una vecchia edizione

(Amsterdam

1619, insieme

con Catullo e

Tibullo); d’altra parte non era certo un autore sconosciuto al tempo di Leopardi, anzi era comunemente noto fra persone di cultura umanistica.

Per prudenza preferirei lasciare la questione aperta: può darsi che lo schema properziano fosse stato già seguito da un poeta italiano; ma, finché un tale testo non si trova, bisognerà pensare che per una volta Leopardi abbia composto avendo nella memoria un’elegia di Properzio. A una specie di aemulatio o di contrapposizione, come nel caso di Properzio di fronte a Virgilio o Lucrezio, non penserei: Leopardi si contrapponeva alle filosofie spiritualistiche contemporanee. Si può dire solo che l’argomentazione di Properzio gli offriva un filo comodo di svolgimento. Torniamo a Orazio. Dopo l’epistola A Carlo Pepoli, dopo la ripresa della poesia leopardiana la sua presenza è molto rara nell’opera di Leopardi. In un paio di casi egli fa la parodia di passi oraziani. Un caso è noto:

nella Palinodia (244 sg.), fingendosi convertito, allude (credo che

qui si possa usare il termine da « arte allusiva ») all’ode di Orazio detta della conversione (Carzz. I 34, 3 sg.). Un altro caso mi pare meno noto. Le « anguste fronti » di Aspasia (53) sono una distorsione sarcastica di

Carm. I 33, 5 insignem tenui fronte Lycorida: ‘atroce sarcasmo, perché in Orazio la tenue fronte è segno di grazia femminile. Forse, però, il poeta che aveva cantato la fugacità della giovinezza e della vita, non era del tutto dimenticato. Tutti ricordano l’ultima stanza del canto I] trazzonto della luna, che ripresenta, per l’ultima volta, e con liricità altissima, il

contrasto fra le vicende naturali che ritornano, compiendo infinite volte il loro ciclo, e la giovinezza, unica luce della vita, che è irripetibile. Se sosti-

tuiamo alla giovinezza la vita, il tema è, come tutti sanno, quello di Car. IV 7, culmine della lirica di Orazio, l’ode più leopardiana da lui scritta. Il tema era comune nell’antichità:!" Leopardi lo conosceva dall’inizio del lamento funebre di Mosco per Bione, da lui tradotto; e amava particolarmente quel passo, che citò come esempio di « celeste naturalezza » nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica; ** ma il tramonto della luna, più che ai fiori di Mosco morti e destinati a rinascere, fa pensare alle vicende cosmiche dell’ode oraziana, soprattutto a damna tamen celeres reparant caelestia lunae. Leopardi aveva ripreso audacemente l’immagine e l’espressione dei caelestia damna all’inizio della canzone Alla Pri-

131 Passi biblici sono richiamati dal Galimberti nella nota introduttiva al Cantico del gallo silvestre (comm. cit., p. 329 sg.). Nel cantico (PP, I, p. 970 sg.) l'universo subisce, sia pure molto più lentamente, la stessa sorte dell’uomo.

132 PP, II, p. 525 sg.

209

14

mavera; in un canto più recente, Sopra il ritratto di una bella donna (52), aveva richiamato un altro punto famoso dell’ode, pulvis et umbra sumus (16). L'incontro con Orazio nella chiusa del canto supremo mi pare

probabile e di grande significato.!* In una nota dello Zibaldone (4303 = II, p. 1138) Leopardi cita un passo di D’Alembert, tratto dall’Eloge de M. Jean Bernoulli: vi si dice, fra l’altro: « quand on a lu et relu une page de Virgile ou de Bossuet, il y reste encore cent choses à voir ». Di Bossuet non saprei dire; ma per

Virgilio è certamente vero; e non è meno vero per Leopardi. Ho voluto citare alla fine queste parole di D’Alembert per ricordare a tutti, ma in-

nanzi tutto a me stesso, che da una rilettura attenta si può ricavare qualche frutto, ma che nessuna rilettura può pretendere di aver visto tutto: nessuna rilettura è definitiva: « il y reste encore cent choses à voir ».!* ANTONIO

LA PENNA

133 Reminiscenze, allusioni a Orazio non mancano nelle Operette morali; vedi il comm. accurato del Galimberti, p. 50, nota 28 (l’allusione va al celebre non omnis moriar di Carm. III 30); p. 57, nota 12; p. 168, nota 66; p. 304, nota 23. Credo che un’allusione a Orazio, Carm. IV 3, 22 quod monstror digito praetereuntium, ricorra nell’operetta Il Parini ovvero della gloria (PP, I, p. 913): « quell’esser mostrato a dito », detto dell’uomo che ha conseguito la fama. La chiusa dello stesso opuscolo (PP, I, p. 921 « Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande ... ») può essere accostata a Carm. I 7, 25 sg. Quo nos cumque feret … fortuna, | ibimus, ma si tratta di réroc diffuso. Nei Paralipomeni è citato un passo dell’Ars (29 sg.), ma gli echi oraziani sono rarissimi: III 34, 4 «ciel maligno » da Carm. I 22, 19 sg. malus... Iuppiter (Iuppiter sta per « cielo »: abbiamo visto che il passo è commentato nello Zibaldone; il confronto già nei commenti); I 3, 7 sg. «in fervide, volanti / Rote » da Carm. I, 1, 4 sg. fervidis ... rotis (naturalmente qualche cosa può essermi sfuggito).

14 Avverto alla fine (ma avrei dovuto farlo all’inizio) che non mi sono occupato delle

note filologiche su Virgilio e Orazio:

210

Leopardi filologo è stato già degnamente studiato.

Leopardi e la letteratura latina post-augustea

La mia relazione va ricondotta a quella consimile del II Convegno internazionale, intitolata I} Leopardi e la letteratura latina postoraziana. Dopo essere stata pubblicata negli Atti del Convegno essa è stata ristampata nel volume Moderni e contemporanei (pp. 7-29). Naturalmente anche lì mi sono diffuso su molti aspetti della critica leopardiana relativa agli scrittori dell’età imperiale, specie sull’esaltazione di Tacito — in cui si scorge eccezionalmente il confluire dell’accresciuta profondità « filosofica », solita a ravvisarsi in molti storici e pensatori della latinità postaugustea, con la sicurezza e lo splendore dello stile, che invece negli altri viene a mancare -, sulla constatazione che p. es. Seneca e Lucano approfondiscono l’introspezione sull’umana natura ma la sciupano con le esorbitanti libertà espres-

sive, sull’affermazione che la storia dell'Impero va ricercata presso gli autori greci, perché dopo Tacito non si può parlare effettivamente di storiografia latina, e a parte sul fenomeno del frontonismo. La parte di quella comunicazione cui non ci rifaremo è l’essenziale parte conclusiva in cui ho analizzato il giudizio leopardiano su Ovidio, che ci è apparso di stupefacente precisione e modernità, tale che lo si sarebbe potuto ritenere dettato da un De Sanctis o da un Croce, e tale da poterci far parlare di un’estetica leopardiana armonicamente costituita anche nelle sue premesse teoriche. Limitandoci alla letteratura latina posteriore all’età augustea non potremo trovare un’uguale felicità e acutezza di prospettiva critica, soprattutto perché in quell’ambito storico-letterario il Leopardi non s’è preoccupato mai di fare l’analisi di un poeta. Le sue curiosità vanno tutte alla letteratura storica, scientifica, grammaticale e di pensiero. Chi non si soffermi sui luoghi esprimenti un giudizio, ma trascorra su quelli numerosissimi in cui son discusse particolari questioni erudite vede affollarsi le citazioni di Velleio, Columella, Cornelio Celso, Vegezio, Festo, Plinio il vecchio, Quintiliano, Floro, Suetonio, Gellio, Frontone, e naturalmente

Servio. E la preoccupazione erudita sembra condizionare il contatto con questa tarda letteratura, ribadendo l’ambiguità spesso notata della coscienza estetica del Leopardi, tributaria delle varie componenti dell’eredità settecentesca, da quella arcadica a quella illuministica, su entrambe 211

le quali agirebbe poi, creando singolari sovrastrutture, la coscienza di un grande e significativo poeta che vive in pieno e in primo piano la grande avventura spirituale del primo Ottocento. Ne consegue che difficilmente sostenibile ne risulta la tesi di S. Timpanaro ! che vede fout court nel Leopardi l'erede dell’intellettualismo illuminista; proprio le reazioni alla letteratura latina d’età imperiale ci costringono a ravvisare la presenza di una forte componente di purismo neoclassico, che spesso si rivela addirittura residuo d’Arcadia Per fare ordine sull'argomento, va assodato anzitutto che, se frequentissime sono le citazioni di passi d’autore (ma specie prosatori) per questioni erudite, molto rari — e tutti limitati a prosatori — sono i luoghi in cui prende corpo un giudizio. Salvo il caso di Lucano (di cui per giunta, come vedremo, si ritiene che il Leopardi avesse solo una cognizione indiretta), tutti i numerosi poeti epici dell’età sono quasi ignorati: Silio Italico, Stazio e Claudiano hanno l’onore di qualche citazione solo per l’uso di un vocabolo o di un’espressione; di Valerio Flacco si tace del tutto. Al massimo è da notare che a p. 4387 dello Zibaldone Claudiano è definito « strepitosissimo »; il che conferma il fastidio che doveva suscitare nel Leopardi quella decadente letteratura di magniloquenti gonfiezze. A paragone troppo pesava per lui il modello virgiliano, accolto senza discussione secondo il reverente omaggio dell’opinione corrente. Resta l’enigma di Lucano. Il Timpanaro * aveva affermato: « il Leopardi aveva Lucano nella sua biblioteca, ma probabilmente non lo lesse mai: gli accenni nello Zibaldone son tutti generici, il pochissimo che è citato nelle postille alle Canzoni ... pare di seconda mano ». Poi ha attenuato * la sua affermazione trovandola « troppo recisa ». Nella precedente relazione? gli ho obiettato che « sembra difficile poter ammettere questa opinione di fronte a Zibaldone, p. 463, ove si legge, in data 28 dicembre 1820: ‘non si poté più né lodare né insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente o al moderno: quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come pompeiano nella sua storia e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito ec. Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria.

Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio, non discorro. Adulatori per lo l La filologia di Giacomo

Leopardi, Firenze

1955; Classicismo

e illuminismo

cento italiano, Pisa 1965. 2 Cfr. le mie obiezioni al Timpanaro in Moderni e contemporanei cit., p. 13.

3 La filologia, p. 158 n. 1. 4 Classicismo cit., p. 150 n. 39. 5 Cfr. op. cit., pp. 15-16.

212

nell’Otto-

più de’ tiranni presenti, sebben lodatori degli antichi repubblicani. Il più libero è Lucano ’. Qui sembra innegabile dover avvertire l’eco di una lettura diretta, di un’esperienza personale. E sul piano dello stile quest’impressione sembra confermata da Zibaldone pp. 3372-3373 (6 settembre 1823), in cui si prende le mosse dal c. 10 della Pro Archia di Cicerone, che

ironizza sui poeti cordovesi pingue quiddam sonantibus atque peregrinum, per finire col ricordare “i Seneca e Lucano, l’esempio dello stile de’ quali può (quanto allo stile) servire purtroppo di copioso commento alle parole di Cicerone, che, s’io non m’inganno, della lingua non meno che dello stile si debbono intendere ’ ». È vero che di Lucano, a differenza da tanti

altri autori, non si cita alcun passo nelle questioni erudite; ma questo non mi sembra argomento cogente. Ma che il Leopardi abbia o non abbia letto attentamente Lucano, queste pagine ci rivelano l’altro aspetto inatteso del suo pensiero rispetto alla letteratura latina d’età imperiale, quello che rinnega la componente arcadica della sua formazione e non so neppure quanto possa accordarsi con l’eredità illuminista. Già nella precedente comunicazione ho affermato che per me segno di profondità è riuscir a cogliere lo strabiliante fermento di rivoluzionaria innovazione che s’espande da quello che ho definito il decadentismo ante litteram della letteratura latina del primo Impero, specie d’età neroniana. A uno spirito come quello del Leopardi esso non poteva sfuggire, con buona pace dei pregiudizi arcadici e neoclassici che tanto pesavano su lui. Ma egli lo vide solo sotto forma di penetrazione nel profondo della filosofia morale, in maniera che quegli autori finivano secondo lui per superare anche i troppo astratti e sistematici Platone e Aristotele nell’approfondire la visione filosofica della vita. Ecco quindi in Zibaldone p. 274 ricordata « la profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito »; e a p. 1849: « Chi si distinse in essa (filosofia) fra tutti gli scrittori latini per ciò che spetta alla profondità? gli spagnuoli Seneca, Lucano ». Il poeta della Pharsalia che come tale — e lo abbiamo già visto — è quotato ad astrale distanza dalla perfezione virgiliana, prende la sua rivalsa come « filosofo ». Si annida qui la strana contraddizione del metodo critico del Leopardi, che arriva addirittura a far carico agli scrittori ch’egli addita come innovatori della « filosofia » di aver corrotto la virgiliana e oraziana perfezione dell’eloquio poetico per averlo dovuto piegare a esprimere idee di sconvolgente novità. Mi sia consentito citare un altro passo della mia precedente comunicazione:® il luogo in cui si cita il giudizio di Cicerone sui Cordovesi « ci dà la prova suprema dell’atteggiamento inconciliabil-

6 Op. cit., pp. 16-18.

213

mente quintilianeo e frontoniano del Leopardi di fronte a Seneca come scrittore. Abbiamo già visto ch’egli, posto nella necessità di render d’altro canto giustizia alla profondità di Seneca come moralista e pensatore, arrivi a motivare la decadenza formale che la letteratura latina subì ad opera del Cordovese col fatto ch’essa fu da lui costretta ad ospitare motivi e modi di più moderno e complesso contenuto ideologico, che — secondo la poetica ancora arcadica e neoclassica del Leopardi — apparivano estranei, anzi dannosi, al bel mondo di forme, immagini e favole di cui si nutriva la ‘ bella letteratura’. E proprio quella pagina del 1 maggio 1822 (Zibaldone, p. 2410) termina col paragone fra gli antichi filosofi e Plutarco, incapace, proprio per la sua profondità, d’esser modello di lingua e di stile, ‘essendo però stato forse più filosofo di tutti i filosofi greci, molti de’ quali sono esempi di perfettissimo scrivere. Ma non erano così sottili come Plutarco, siccome Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello scrivere e quegli perfettissimo ’. Il 21 luglio 1823, a p. 3004, si rincara la dose citando un’espressione di Seneca tragico come corrispondente ad un uso dei nostri secentisti ‘ preso indubitatamente ... dagli spagnuoli ... E Seneca appunto è spagnuolo ’ ». Il Leopardi che, per affermare l’eccellenza di Orazio, pur da lui giudicato « uomo ... di poco valore in quanto poeta », aveva dovuto procedere alla scoperta del concetto di stile (ch'io ho additato come definitiva conquista estetica) e arrivare così all’affermazione (p. 2050) che Orazio « non è poeta lirico che per lo stile »,

è rimasto così prigioniero di questa duplicità bracciare la secolare tradizione che scorgeva gilio i vertici, fino al punto di addossare al successivi la responsabilità delle loro vere o Non per niente proprio in nome

di metodo, costretto ad abin Cicerone, Orazio e Virnuovo contenuto dei poeti presunte deficienze formali.

di quei principî egli aveva condannato

Ovidio, cioè proprio il poeta cui si possono far risalire le radicali innovazioni del primo secolo d. C. Se a proposito dei poeti epici — con la necessaria estensione a Seneca —

abbiamo potuto penetrare in un carattere costitutivo della critica leopardiana, molto più a digiuno ci troviamo a rimanere se consideriamo il comportamento del Leopardi di fronte agli altri poeti dell’età. À parte la svista (p. 1016) di considerare Calpurnio Siculo un contemporaneo di Neme-

siano e di ascriverlo quindi al terzo secolo (che origina dalle condizioni testuali di quegli autori prima del definitivo studio dello Haupt), Aviano è ricordato di passaggio per la favola del lupo e del bimbo che non voleva dormire, di Fedro si loda (p. 1029) la latinità, avvicinandolo per il gusto del linguaggio volgare al celebratissimo Cornelio Celso (p. 3062). Ma colpisce la trascuranza cui è condannata una categoria notevole dei poeti d’età imperiale, quella dei poeti satirici e giocosi: Persio è citato solo due volte e Marziale cinque volte esclusivamente per uso di vocaboli o 214

espressioni, senza che mai se ne profili un giudizio, di Giovenale — ed è cosa che sbalordisce — non si fa mai parola. E se dalla poesia passiamo alla prosa narrativa che doveva interessare un erede del Settecento (il secolo in cui per l’età moderna s’era verificato il medesimo fenomeno del rasso-

damento di una prosa narrativa che s’era verificato per l’antico in età imperiale) troviamo che Apuleio, il contemporaneo e conterraneo del celebrato Frontone, è ricordato solo per usi linguistici e solo per questo e solo quattro volte è ricordato Petronio, con l’aggiunta che s’accoglie (p. 991) la teoria che ne rivendicava l’origine marsigliese, secondo la tendenza del poeta a sottolineare la frequenza dell’origine degli scrittori d’età imperiale dalle varie provincie. Colpisce nell’autore delle Operette morali la sordità verso un tipo di prosa narrativa che sembra avergli suggerito atteggiamenti ed espedienti tecnici. Non possiamo ripiegare se non sulla constatazione che per il Leopardi il tipo supremo di poesia era la lirica, cioè proprio il tipo di cui la letteratura latina d’età imperiale era sprovvista. Questo può spiegare la sua indifferenza al riguardo, come anche l'ennesima manifestazione in proposito della predilezione per la poesia greca, per Anacreonte o le anacreontee, o per quelle forme come l’ecloga che all’autore dei grandi idilli apparivano inscindibili dalla lirica, a partire da quell'amore per Mosco che si rivelò sin dai primi anni col saggio di versione. Del resto, se risaliamo ai grandi lirici latini delle età precedenti, ci accorgiamo p. es. che anche di Catullo vien fatta menzione solo per questioni grammaticali. Ci corre l’obbligo pertanto di ripiegare sulla prosa. E qui ci si para davanti anzitutto il caso tipico di Frontone. Va da sè che l’eccezionale valutazione che ne dette il Leopardi è stata ricondotta alla scoperta dei frammenti fattane allora dal card. Angelo Mai. Ma ciò che non si può negare è che l’atteggiamento frontoniano è stato rettamente inquadrato dal Leopardi come vertice di quel programmatico rigetto delle novità senecane, neroniane affermatosi in età flavia, specie con Quintiliano, in nome

di un ritorno alla classicità ciceroniana. Basti pensare che in età giovanile egli compose il Discorso sopra la vita e le opere di Frontone, l’unico scritto suo specificamente dedicato a un autore di quest’età, nel quale, citando Sidonio Apollinare, egli attribuì i difetti di Frontone non a lui, ma ai « freddi

imitatori di Frontone », che appunto Sidonio chiamava « Frontoniani ». In questo il Leopardi si palesa seguace del più rigoroso neoclassicismo, che gli ribadiva nello spirito l'adorazione di Cicerone, Orazio, Virgilio e in parte Livio, gli unici scrittori latini da lui ritenuti sommi ed esclusivamente in

nome della preminenza dello stile secondo i dogmi fissati da secoli di educazione retorica: onde p. es. il tentativo giovanile di versione del I. II dell’Eneide. Se Gellio è criticato (p. 789) perché avverso a nuove voci, cioè almeno teoricamente contrario a quel contatto col linguaggio volgare che 219

Bs

il Leopardi giudicava positivo, in compenso Plinio il vecchio è giudicato (p. 2729) impuro, con buona pace di quelli che lo vogliono ritenere modello di linguaggio scientifico. Ma significativa oltre ogni dire è la p. 2478 ove, pur constatando che « l’eloquenza romana era già spirata a tempo di Quintiliano », si afferma d’altro canto che il retore spagnolo « forse in quanto al modo di fare se n’intendeva più di Cicerone ». Questo ci garantisce che in partenza il Leopardi non aveva bisogno della scoperta di Frontone per schierarsi dalla parte del ciceronianismo e in genere del passatismo reazionario d’età flavia e antoniniana che lo portava alla condanna della più moderna letteratura imperiale in nome dello stile. Ciò che abbiamo già visto tralucere della sua avversione allo stile di Seneca non aveva bisogno di ispirarsi ai frizzi di Frontone contro il Cordovese, ma prendeva le mosse dalla requisitoria dell’Institutio quintilianea. Lo confermano — in un quadro molto più completo degli atteggiamenti critici del poeta anche riguardo alla letteratura moderna — passi del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: lì dove si rimprovera ai moderni scrittori l’abuso dell’orrifico, il « dipingere in luoghi deserti e nascosti e favorevoli all’assassinio, quarti di masnadieri, frementi grondanti marciosi, pendenti da alberi insanguinati, braccia gambe con parti di schiena e di ventre orlate di strambelli; ... mostrare uomini scelleratissimi, disperati urlanti, che si sbalzassero giù da rupi alte quant'è un’occhiata, notare lo schiacciamento del cranio e lo sprazzo delle cervella e lo spaccamento e lo sfracellamento di tutto il corpo, e le interiora tutte nudate e sparpagliate, e ogni cosa affogata in un pantano di sangue nero e gorgogliante », avvertiamo che il Leopardi ha implicitamente connesso gli eccessi dell’odierna poesia romantica a quelli del predecadentismo innovatore d’età neroniana e ha tenuto d’occhio il Seneca dell’Hercules furens, delle Troades e del Thyestes. Se dunque a pp. 753-754 si rileva a carico di Frontone che egli « volendo riformare il troppo libertinaggio e castigare la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran parte de’ nostri, nell’eccesso contrario », sì che « Frontone, in luogo di purificare la lingua, la volle antiquare »/ bisogna tener presente che subito dopo (pp. 756-757) è soggiunto: « Bisogna però ch'io renda giustizia a Frontone, perché, se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione, giudizio e discernimento ... di quello che facciano molti degli odierni italiani (è evi-

dente l’allusione all’abate Cesari) ... Frontone del resto non fu niente povero d’ingegno ». E poco più su s’era detto esplicitamente: « Il qual Frontone, come apparisce ora dalle reliquie de’ suoi scritti ultimamente sco-

7 Il Timpanaro (La filologia cit., pp. 68-69) ne ricava che «l’entusiasmo di un tempo per Frontone appare attenuato, anche se non spento del tutto ». Quanto osserviamo nel testo mi sembra debba condurci a rettificare quest’opinione.

216

perte, merita un posto distinto fra i restauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua latina. Nel quai pregio egli, forse o senza forse, cred’io, è l’ultimo di tempo che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza ». Ritorna la tendenza dello scritto giovanile a scagionare Frontone, addossandone i difetti ai seguaci. Né si possono trascurare le finora poco considerate pp. 2167-2170 in cui ci si pone il problema perché Marco Aurelio, pur essendo stato allievo di Frontone, al momento di scrivere un’opera filosofica, avesse scelto di scriverla in greco e non in latino. A parte l’ineluttabile superiorità d’esperienza degli scrittori greci di filosofia su cui torneremo e che avrebbe conquistato l’imperatore, il Leopardi non manca di notare che Frontone, sviscerando al suo alunno i danni che allo scrivere latino di filosofia aveva arrecato lo stile di Seneca, doveva averlo disposto a scrivere in greco. In linea con questo quintilianismo e frontonianismo è l’inattesa, marcata esaltazione di Cornelio Celso. Tanti altri autori scientifici sono addotti nelle pagine dello Zibaldone per problemi di carattere linguistico. Ma Plinio, Mela, Vegezio, Columella sono trovati inesatti, e sola eccezione è

vista in Celso; e solo per Celso si fa l’eccezione di esaltarne esplicitamente lo stile per la sua assoluta mancanza di abbellimenti retorici e per la sua vicinanza al linguaggio volgare. Ancora una volta il Leopardi s’aggira da tecnico in una casistica che rimonta al sistema dell’antica retorica. Si analizzano a lungo locuzioni di Celso che sanno d’italiano, pur riconoscendo ch’egli attingeva anche dal greco, concludendo (p. 1938) che « nell’elegantissimo Celso » ci sono « molti modi ed usi similissimi all’indole italiana »,

in quanto egli è modello di scrittura semplice che s’avvicina « al genio futuro della lingua italiana » (p. 861). Grandeggia il giudizio di p. 949: « Per qual ragione è bello il Traftato di Celso, ch’è un trattato di medicina? Forse perché ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi, prima di tutto, perché ne manca onninamente e perché ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere; poi perché è chiaro, preciso, perché ha una lingua e uno stile puro ». E si giunge al sorprendente paragone di p. 1313: « di questa associazione della precisione coll’eleganza è splendido esempio lo stile di Celso e, fra’ nostri, di Galileo ».

A parte l’elogio di Tacito, un terzo esempio di prosatore celebrato ci fa tornare nell’ambito degli storici: è quello di Floro. Sempre facendo predominare il criterio retorico dello stile, mai portato a quella teoretica nitidezza che contraddistingue il giudizio su Orazio, si fanno, a p. 489 sgg., lunghe analisi di passi di Floro. Ma già a p. 526 si era formulato questo giudizio: « Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo nell’invenzione, nell’immaginazione,

evidenza, fecondità, come

Livio, ma

nella

sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà quanto nella maniera, nello stile e nella volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di gravità, no217

biltà, posatezza ed ancora castigatezza, insomma tanto sapor di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non forse, ma dico forse, in qualcuno de’ nostri cinquecentisti ». Ove si sorprende l’assidua contrapposizione di uno stile castigato a quello di Seneca; e per conseguenza ci meravigliamo poi dell’accostamento all’asianesimo cinquecentista, che ci porta a concludere che per vari aspetti il Leopardi era legato alla retorica che dal Bembo aveva imperversato fino al Tiraboschi, con tutte le contraddizioni derivanti dalle fortune e dalle mode volta a volta affermatesi. Del resto, in rapporto specifico con la letteratura latina, l’adorazione di Virgilio concordava a stento con quella del sovrabbondante Cicerone. Non ci resta che tornare, forti delle altre constatazioni ora fatte, alla

esaltazione di Tacito. Ma anche lì la prospettiva si volge all’originalità del pensiero, alla « filosofia » che vi s’afferma, quasi ad avvertire che sul fondamentale piano dello stile non siamo all’altezza degli scrittori delle età ciceroniana ed augustea; a p. 2043 si parla de « la bellezza ... quanto al pensiero ... dello stile di Tacito ». A p. 1353 v'è un giudizio in cui sembra finalmente liberarsi in pieno la capacità ottocentesca del Leopardi di scovare un fecondo impulso moderno nell’innovatrice letteratura imperiale, sia pure isolandolo in Tacito: « Quanto è distante Tacito da Livio? Appena un secolo ... Quanto progresso potevano aver fatto le cognizioni universali ec., e lo spirito umano generalmente, in sì poco tempo? Eppure qual differenza di profondità! Anzi si può dire che Livio è il tipo del genere storico antico, Tacito del moderno ». A p. 752, proprio lì dove si è intrattenuto sul purismo frontoniano, il Leopardi non ha esitato a scrivere: « La lingua latina fu, per poco spazio, restituita, se non all’antica indole,

certo a uno splendore somigliante all’antico (insieme colla letteratura parimenti corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra’ quali Tacito ». Ma in realtà la capacità di superare ogni remora della vecchia retorica e di apprezzare in pieno la forza innovatrice il Leopardi l’ha palesata a proposito di un autore moderno, il Racine (da buon illuminista egli ammirava i tragici del siècle d’or francese), quando, a p. 78, afferma:

« Quindi non condanno punto, anzi lodo, per esempio, Racine,

che, avendo scelto soggetti antichi, che colla loro natura non erano incompatibili coi sentimenti moderni e d’altronde erano per la loro bellezza tragicità forza ec. preferibili ad altri soggetti de’ giorni più bassi, gli ha trattati alla moderna ». E poi le pp. 2409-2410 ci riserbano questa sorpresa: « il tempo d’Arriano fu quello di Adriano e degli Antonini, nel qual tempo la letteratura latina, con tutto che fosse tanto meno lontana della greca dal suo secolo d’oro, non ha opera nessuna che si possa di gran lunga paragonare a queste d’Arriano ne’ suddetti pregi, come anche in quelli 218

d’una ordinata e ben architettata narrazione, e altre tali virtù dello scriver

di storie. Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezione della lingua non si potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano; forse neanche nelle doti di storico appartenenti al bello letterario, sebben egli l’avanza di molto in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel che mantiene la lingua è la bella letteratura, non la filosofia né le altre scienze, che piuttosto contribuiscono a corromperla, come fece lo stile di Seneca ». In conclusione,

come per Seneca e per Lucano, così anche per Tacito si finisce per concludere che la novità della « filosofia » ha introdotto scompensi espressivi che sono andati a danno della perfezione formale, unico criterio su cui riposa l’eccellenza di un autore. Ma pur pregiando la maggiore profondità che i più alti autori latini d’età imperiale avevano manifestata nelle opere storiche e filosofiche, il Leopardi, incomparabile studioso della tarda grecità, aveva troppa esperienza dell’inesauribile copia di apporti che si potevano trarre dagli autori greci d’età imperiale rispetto alla cui ricchezza le pur notevoli impennate ravvisabili a Roma in Seneca e Tacito rappresentavano sempre l’eccezione. Abbiamo già visto che Plutarco è stato ricordato da lui come equivalente di Seneca e di Tacito nell’essere stato forse più filosofo di tutti i filosofi greci e proprio per questo incapace d’esser modello di lingua e di stile. La Grecia letteraria non aveva quindi nulla da invidiare a Roma per il progresso nella « filosofia »; ma in più aveva una tradizione che la faceva la vera sede di tutti questi urti e di tutte queste conciliazioni fra stile e profondità di pensiero, con la conseguenza ch’essa persisteva ad essere la maestra di ogni storica e filosofica Weltanschauung. A p. 1849 v'è al riguardo la considerazione che fa luce su tutto: « Donde venne la filosofia tra’ latini? dalla Grecia. Chi si distinse in essa fra tutti gli scrittori latini per ciò che spetta alla profondità? gli spagnuoli Seneca, Lucano, possiamo anche dir Quintiliano ecc. E nella teologia? gli affricani Tertulliano, S. Agostino ecc. Nella teologia e filosofia insieme? Arnobio affricano e Lattanzio (credo) parimenti. Fra i greci quante sottigliezze, quante astrazioni, quante sette, quan-

te dispute, quanti scritti acutissimi in della Chiesa fino agli ultimi secoli della cristiana sia tutta greca ». I latini lodati rabili casi isolati di fronte alla congerie

materie teologiche dal principio Grecia! Si può dir che la teologia finiscono quindi per apparire midei greci ove, accanto ai casi di

novità che va a scapito dello stile, come in Plutarco, ve ne sono infiniti, come quello già citato di Arriano, in cui si perpetua la tradizione che fa della letteratura greca il modello supremo. Questo per il pensiero filosofico e teologico anche applicato alla politica e alla storia. Ma per la vera e propria storiografia — nonostante la splendida eccezione di Tacito — le cose per il Leopardi si mettono anche PACI

peggio. Ci siamo già cominciati ad accorgere (e basta il giudizio su Floro) che della storiografia latina d’età imperiale egli s’è occupato con attenzione. Dello stesso Velleio, nonostante l’accusa di servilismo (p. 460), tiene di-

ligente conto dei ritratti (p. 475) e non trascura neanche i giudizi letterari (cfr. pp. 745 e 2590). Ma in confronto di Valerio Massimo si ricorda una sola volta per un uso linguistico; e anche Suetonio è citato solo per questioni grammaticali. Su Ammiano Marcellino spesseggiano i giudizi negativi quanto a stile: egli è inferiore ai greci per qualità di prosa (p. 2698) e attinge non dal linguaggio familiare, ma (cosa che è ben differente) dal volgo (p. 2882). Ma a p. 2732 v'è la dura sentenza che colpisce in pieno la letteratura nella sua integrità: dopo Tacito «la storia latina restò in mano dei greci »; senza i greci « la storia del nostro impero da Vespasiano in poi sarebbe quasi cieca, non avendo altri scrittori latini che quei miserabili delle Vite degli Augusti, piene di errori di fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per non dir di Orosio e d’altri tali più miserabili ancora ». Ritornava il supremo ellenista, la cui intima personalità culturale sembrava tutta sagomata dalla civiltà di lingua greca dei secoli che vanno da Socrate in poi, il traduttore di Senofonte, di Isocrate, di Teofrasto, del ma-

nuale di Epitteto, fino a Gemisto Pletone, per non parlare di Mosco e delle versioni da Simonide e da Eupili, l’autore che nelle Operette morali s'è ispirato talvolta alla tecnica di Luciano e ha fatto dialogare Plotino e Porfirio, l’autore che definiva la Grecia « nostra amica, madre, nelle scienze ed arti e lettere maestra », « madre della grazia e sua introduttrice nella vita ». A non parlare del tentativo giovanile di versione del 1. II dell’Eneide, è da considerare la sua riluttanza alle versioni dal latino; il Get-

to* ha richiamato giustamente l’attenzione sopra una sua lettera al Brighenti del 18 marzo 1825, ov’è detto: « Vi dico liberamente che a tradurre dal latino io sono poco inclinato, e non mi risolverei se non per l’una delle due cause, o buon guadagno o molta amicizia ». Per una letteratura il cui unico vero vertice era da lui visto in Virgilio (e forse più come il litico delle Ecloghe e delle Georgiche, il cantore del tema anche per lui fondamentale della natura), perché Cicerone e Orazio erano soltanto maestri di

stile, egli non era disposto a esercitare indulgenze, anche se la poneva tradizionalmente accanto alla letteratura greca come maestra per i moderni; quindi per la fase dell’età imperiale, in cui mancava la poesia lirica, in cui molto era concesso alla forma surrettizia della poesia satirica e giocosa, in cui la storiografia doveva limitarsi quasi soltanto all’eccezione di Tacito,

8 Saggi leopardiani, Messina 19772, p. 84.

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le novità di pensie! o di Seneca e di Lucano erano ae

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con le abnormità stilistiche e gli orrori, si potevano salvare solo una

figura di storico minore come Floro (e sempre per ragioni di stile), un trattatista di Rn e la restauratrice posizione critica di Quintiliano e Frontone, depositaria dell’effimero felice gusto che aveva dato alle lettere latine un momento di splendore.

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COMUNICAZIONI

Leopardi e gli eroi antichi

Nella Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morire il Leopardi fornisce le indicazioni sulle fonti classiche (Cassio Dione e Floro) dell’abiura della virtù che Bruto avrebbe compiuto prima di uccidersi. Ma il passo più significativo della prosa del marzo 1822 è la difesa che delle parole di Bruto, che dichiara la virtù una nuda parola, e non una cosa, compie il Leopardi contro i detrattori dell’eroe antico: Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico della detta sentenza, dànno a vedere l’una delle due cose: o che non abbiano mai praticato familiarmente colla virtù, o che non abbiano esperienza degl’infortuni, il che, fuori del primo caso, non pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono e meno sentono la natura infelicissima delle cose umane, o si maravigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero professate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a dimostrare che Bruto non fosse mai quell’uomo santo e magnanimo che fu riputato vivendo, e conchiudono che morendo si smascherasse, argomentano a rovescio: e se credono che quelle parole gli venissero dall’animo, e che Bruto dicendo questo, ripudiasse effettivamente la virtù, veggano come si possa lasciare quello che non s'è mai tenuto, e disgiungersi da quello che s’è avuto sempre discosto. Se non l'hanno per sincere, ma pensano che fossero dette con arte e per ostentazione: primieramente che modo è questo di argomentare dalle parole ai fatti, e nel medesimo tempo levar via le parole come vane e fallaci? volere che i fatti mentano perché si stima che i detti non suonino allo stesso modo, e negare a questi ogni autorità, dandoli per finti? Di noi ci hanno a persuadere che un uomo sopraffatto da una calamità eccessiva e irreparabile; disanimato e sdegnato della vita e della fortuna; uscito di tutti i desideri e di tutti gl’inganni delle speranze; risoluto di preoccupare il destino mortale e di punirsi della propria infelicità; nell’ora medesima che esso sta per dividersi eternamente dagli uomini, s’affatichi di correr dietro al fantasma della gloria e vada studiando e componendo le parole e i concetti per ingannare i circostanti e farsi avere in pregio da quelli che egli si dispone a fuggire, e in quella terra che se gli rappresenta per odiosissima e dispregevole.

Il Bruto Minore precede, quanto a stesura, di pochi mesi la Comparazione: onde la difesa della sentenza di Bruto sul punto di uccidersi intorno 249 15

he

alla vanità anche della virtù è, anzitutto, una difesa della celebrazione che ne è fatta nella canzone leopardiana. Bruto, in ogni caso, appare, nelle pagine leopardiane, sempre nel momento della disfatta, della fine dell’illusione da lui coltivata di resuscitare le antiche virtù di Roma, ormai ca-

dute dopo la dissoluzione della repubblica, non in quello del tirannicidio. Il cenno che alla morte di Cesare è contenuto nello Zibaldone intende mostrare come essa non fosse ormai che un'illusione di rinnovamento e di ritorno all’antica virtù di Roma: Vedete che cosa avvenne ai Romani quando s’introdusse fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalissimo che le antiche idee si risvegliassero ne’ Romani, fa pietà il vederli così torpidi, così indifferenti, ... così marmorei verso le cose pubbliche. E Cicerone nelle Filippiche, il cui grande scopo era di render utile la morte di Cesare, vedete se predica la ragione e la filosofia, o non piuttosto le pure illusioni e quelle gran vanità che aveano creata e conservata la grandezza romana (p. 161).

Bruto non è neppure nominato nella considerazione sul fallimento che il tirannicidio fu perché « putridi » erano ormai i nipoti di Romolo, incapaci di credere ancora alle illusioni e vanità che avevano fatto grande Roma, perché tali illusioni e vanità non avevano resistito all’analisi razionale della filosofia, che aveva ormai conquistato Roma. La morte di Cesare non divenne « utile » neppure per le parole di Cicerone. Il Leopardi ribadisce il concetto in un’altra pagina dello Zibaldone, nella quale è, però, anche una citazione di Bruto: Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre Orazioni sue politiche: sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente, sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria, meglio la morte che il servizio; che vergogna è questa? Antonio, un tiranno, di questa razza, ancora vive ec. E intanto Antonio, che sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto, che fosse dichiarato nemico della patria: calcolavano, cercavano ec. quello che in altri tempi senza un istante di delibera-

zione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno, non c’erano più le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria,

la gloria, il vantaggio degli altri dei posteri ec., eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere, non più ardore, non impeto, non grandezza d’animo, l’esempio de’ maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi: così perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d'’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia, e poco dopo con tanto più filosofia, libri, scienza esperienza storia, erano barbari (pp. 22-23).

226

Il gesto di Bruto appare come il frutto di un avanzo di fede nelle illusioni che sono gloria, libertà, il ricordo e l’esempio degli avi, nel senso leopardiano del termine illusione, che indica tutte quelle forme e idee irrazionali, necessarie alla felicità sia degli uomini, sia degli stati. Bruto,

nella canzone che gli si intitola, ha appunto verificato che la rinascita delle illusioni antiche è, ormai, impossibile e che il tentativo di scuotere i Romani, malati di razionalismo e di filosofia, con il tirannicidio è fallito. Trae,

da questa consapevolezza, le necessarie conseguenze: e non soltanto si uccide, ma proclama, appunto, la fine delle grandi illusioni della vita e della politica e l’inevitabile caduta del mondo nella barbarie (quella « barbarie dei tempi di mezzo » che in un’altra pagina dello Zibaldone (162) il Leopardi definisce « dannosissima e funestissima », in quanto « non era una rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono »). Ma la « servitù presente », « universale e durevole » (come è detto sempre nello Zibaldone),

ben diversa dalla libertà antica, è pure il frutto della pretesa della rivoluzione francese di « ridur tutto alla pura ragione e pretendere per la prima volta ab orbe condito di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente lagrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile a riuscire anche in questi tempi matematici, perché dirittamente contraria alla natura dell’uomo e del mondo » (p. 160). Coloro che hanno

fatto la rivoluzione francese non vedevano che l’imperio della pura ragione è quello del dispotismo per mille capi, ma eccone sommariamente uno. La pura ragione dissipa le illusioni, e conduce per mano l’egoismo. L’egoismo, spoglio di illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù ec. e divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono gl’individui. Divide et impera. Questa divisione della moltitudine, massimamente di questa natura e prodotta da questa cagione, è piuttosto gemella che madre della servitù. Qual altra è la cagione sostanziale della universale e durevole servitù presente a differenza de’ tempi antichi? -(p. 161).

In una lettera al Giordani del 26 aprile 1819 il Leopardi si assimila a Bruto nell’uguale esecrazione della virtù in un tempo di degradazione e di decadenza e di servitù: questa medesima virtù quante volte io sono quasi strascinato di malissimo grado a bastemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand’io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor suo.

L’identificazione del giovane Leopardi con Bruto nel momento della condanna della virtù come vana parola, della coscienza della vanità dell’azione, della visione di un futuro « putrido », della scelta conseguente 227

della morte e del rifiuto della memoria presso i posteri e del valore d’esempio del tirannicidio, una volta che se ne è verificata l’inutilità effettiva a far risorgere i valori ormai abbandonati perché visti come illusioni e vanità dallo spirito razionalistico, filosofico, geometrizzante dei contemporanei, può, allora, essere anche un discorso intorno a una situazione storica

omologa, e anche come una presentazione del particolare rapporto che, a proposito di Bruto, e con il classicismo contemporaneo Leopardi instaura con il mondo classico. Non è possibile non tenere conto dello spazio che il personaggio storico di Bruto, visto non nel momento della disfatta e della disperazione, ma in quello eroico del tirannicidio, occupa nella mitologia classicistica della rivoluzione francese. Gli intellettuali (« mezzi filosofi », come dice Leopardi, dal momento

che, se fossero stati filosofi in-

teri nessuna rivoluzione sarebbe potuta compiersi, ma tesi a una filosofia totale, a un razionalismo assoluto, quindi destinati al fallimento) che hanno fatto la rivoluzione si propongono come i veri eredi di Bruto: incompreso e vinto ai suoi tempi, ma ora rinnovato come modello di azione efficace contro la tirannia (e non si dimentichi che, ad Arras, Robespierre

scriveva tragedie classicistiche, significativamente). La lezione di Bruto cadde nel vuoto, fra contemporanei che, come scrive il Leopardi, discutevano come e quando condannare il tiranno Antonio invece di agire, e che, in ogni caso, avevano da tempo rinunciato, per egoismo, a quei valori che il Leopardi chiama illusioni e vanità, ma soltanto in rapporto con il giudizio razionalistico, nemico della natura e, di conseguenza,

della felicità

privata e pubblica, e che avevano retto i tempo positivi e liberi e gloriosi della repubblica romana: ma ora ha trovato i veri, autentici eredi, che ne hanno ripreso l’azione, specchiandosi, in più, nella sua lucidità di intellet-

tuale in lotta contro il tiranno per i principî di libertà e di dignità umana. Ma la risposta dei fatti al classicistico culto dell’antico eroe della rivolta contro la tirannia è quella che il Leopardi verifica ora, a restaurazione compiuta: la ribellione antitirannica si è risolta, in forza dell’eccesso di ragione e di filosofia, in una nuova tirannia, gemella di quella dell’ancien regime. Non resta, allora, per Leopardi, che riproporre il personaggio di Bruto, il simbolo classicistico di una rivoluzione che si era fondata su una mitologia, su un’iconografia, su una recitazione di modelli classici: ma con l’esperienza storica del dopo, cioè della nuova sconfitta della rivolta antitirannica, risoltasi nella fondazione di una nuova tirannia e nella ripresa di forza della filosofia e della ragione contro la natura che, all’inizio, la rivoluzione pareva aver resuscitato, almeno in parte, di fronte all’assoluta

barbarie dell’innaturalità del regime monarchico pardi osserva in un’altra pagina dello Zibaldone:

assoluto, come

il Leo-

Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato fu veramente l’epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d’Europa, di quella corruzione e 228

barbarie che succede inevitabilmente alla civiltà ... E tuttavia la detta epoca si stimava allora e, per esser freschissima, si stima anche oggi civilissima e tutt'altro che barbara. Quantunque il tempo presente, che si stima l’apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto e si possa considerare come l’epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perché derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch'è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; e osservate che, malgrado l’insufficienza de’ mezzi per l’una parte e per l’altra la contrarietà ch’essi hanno colla natura, tuttavia la rivoluzione francese ... e il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in

moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole e passeggera per natura sua, perché la mezza filosofia tende natu-

ralmente a crescere e a divenire perfetta filosofia, ch’è fonte di barbarie. Applicate a questa osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti, pettinature d’uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in Italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (pp. 1077-1078).

Bruto ha visto di nuovo sconfitta la virtù (quella che Robespierre aveva pure incarnato, presentandosi come l’incorruttibile: e anch’egli era morto nel momento stesso in cui verificava l’inutilità della virtù e dell’azione di fronte al ricomporsi degli interessi e degli egoismi; e allora parlare di Bruto vinto significa anche parlare di coloro che hanno fatto la rivoluzione francese e hanno la loro disfatta nel preannuncio di una nuova tirannide « vergognosissima » (non meno di quella di Antonio ai tempi di Bruto). Leopardi dichiara di identificarsi con Bruto in punto di morte, mentre esecra la virtù, proprio perché la sua esperienza è quella di un’altra disfatta della virtù, di un altro fallimento del tentativo di far risorgere le antiche illusioni di gloria, patria, valore, libertà, dignità. Allora il Bruto

della canzone leopardiana non può che capovolgere il Bruto della rivoluzione, e benché la statua lo tramandi visivamente come modello ed eroe di fronte al popolo, di lui non ha da rimanere nulla, perché ogni memoria e simulacro non potrebbe che essere fuori luogo e assurdo presso i « putridi nepoti ». La statua di Bruto poteva sembrare necessaria anni prima, nel pieno della diffusione e dell’azione giacobina, così necessaria da consigliare la municipalità di Milano di ribattezzare con il nome di Bruto nientemeno che la statua di un tiranno, di quelli, per di più, resi particolarmente noti da una tragedia alfieriana fra le più celebri, come Filippo IT, secondo quanto racconta con molta ironia anticlassicistica e antistoricistica il Manzoni, e anche con una sostanziale condanna del personaggio stesso di Bruto come eroe.

229

Il gesto di Bruto, che leva il pugnale contro il tiranno, è sottilmente e indirettamente condannato lungo il romanzo manzoniano tutte le volte che se ne ripropone l’immagine: nel borghese Lodovico che uccide il prepotente e insultante aristocratico, in Renzo che mette la mano sul coltello dichiarando che « infine c’è giustizia a questo mondo ». È l’immagine di un classicismo vittorioso nella storia, attuato esattamente nei fatti e nelle

azioni, quella che desta Bruto dal sonno dei secoli e lo ripropone come esempio e modello: e ad essa (cioè alla rivoluzione francese come distruzione radicale e violenta dell’ingiustizia dell’ancien regime), fa riferimento

il Manzoni per negare ogni valore e ogni accettabilità dal punto di vista dell’etica e della religione, ma anche dal punto di vista di una letteratura che si propone come la rappresentazione non dei grandi e dei potenti della storia nelle loro gesta sempre colme di dolore e di morte per la gente comune, ma di quest’ultima come alternativa, appunto, a quella storia di eroi e di oppressori e anche di colpevoli di violenza e delitti, diventati proprio per questi illustri, famosi, celebrati. Il Leopardi parte da un’analoga verifica del fallimento del modello di Bruto come esempio consacrato dall’autorità della classicità e da tutta una lunga tradizione storico-letteraria e da una cultura anche scolastica tutta fondata sull’esemplarità di nomi e di gesta del tempo dei Greci e dei Romani. Ma la rappresentazione leopardiana del fallimento del gesto di Bruto è molto più radicale di quella, pur così netta, del Manzoni, anche perché si congiunge con un giudizio di totale contraddizione nei riguardi del classicismo del periodo giacobino e napoleonico, quello che, in Italia, si incarna esemplarmente nell’opera foscoliana. Bruto conclude il suo discorso al nulla e agli dei con il rifiuto del futuro, della storia, della memoria: « Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi / regi, o la terra indegna, / e non la notte moribondo appello; / non te, dell’atra morte ultimo raggio, / conscia futura età. Sdegnoso avello / placàr singulti, ornàr parole e doni / di vil caterva? In peggio / precipitano i tempi; e mal s’affida / a putridi nepoti / l’onor d’egregie menti e la suprema / de’ miseri vendetta. A me dintorno / le penne il bruno augello avido roti; / prema la fera, e il nembo / tratti l’ignota spoglia; / e l’aura

il nome e la memoria accoglia ». Sembra una risposta radicalmente oppositiva al classicismo dei Sepolcri foscoliani: con risonanze verbali significative, come veri richiami e punti di riferimento, come l’aggettivo « egregie ». Ciò che chiede Bruto in punto di morte è proprio ciò che depreca il Foscolo per il Parini: che il corpo del poeta giaccia confuso con quello di infiniti altri morti, senza un segno o un cippo che lo ricordi, fra l’orrore degli uccelli notturni e il frugare della « derelitta cagna ». Al contrario, Bruto chiede che il « bruno augello » e « la fera » cancellino, insieme con il dantesco « nembo », ogni traccia della sua spoglia. E chiede che scompaia, con il suo cadavere, anche la sua memoria: quella memoria che il 230

Foscolo celebra come il significato dell’esistenza stessa dei sepolcri, utili a ricordare il passato migliore, a perpetuarlo, a farne esempio per le età fu-

ture, soprattutto a costituire il deposito prezioso a cui la poesia attinge per eternare gli eroi, in ogni luogo e per tutti i tempi, finché il sole risplenderà sulle sciagure umane. Il Bruto leopardiano respinge la consolazione della « conscia età », cioè della giustizia dei posteri (quella che perfino il cristiano conte di Carmagnola non rifiutava, accanto alla chiamata di Dio a testimone della propria innocenza). Il Foscolo immagina Omero che placa le afflitte alme col canto: lo stesso verbo adopera Bruto, ma per dichiarare che nessun pianto o canto futuro potrà consolare e placare la disperazione di chi ha visto fino in fondo l’inarrestabile decadenza e degradazione dei tempi: « In peggio / precipitano i tempi ». « Parole » dice Bruto: cioè, appunto, il « canto » dei poeti, di coloro che il Foscolo vede come i consacratori eterni delle memorie eroiche e sublimi degli uomini grandi e dei fatti egregi, come coloro che dalle tombe sanno, interrogandole, ricavare

ciò che è stato

eroicamente

compiuto,

come

testimonia

Omero e, nell’età contemporanea, il Foscolo stesso, che propone se stesso come nuova incarnazione di Omero nel momento in cui contempla le tombe di Santa Croce e ne ascolta gli auspici e la verità e subito leva l’inno. Anche il nome Bruto vuole che l’« aura » si porti via: altro che il « sasso » a cui, anzi, il Foscolo vorrebbe ancorato appunto il nome di chi ebbe meritata fama. Di fronte sono, appunto, due diverse concezioni del classicismo, e anche due concezioni opposte dell’eroe tragico. Se carattere comune di ogni classicismo è l’idea di una perfezione raggiunta una volta per tutte, nei tempi antichi, dalla quale è discesa una sempre più marcata decadenza, a cui è possibile porte rimedio soltanto con il tentativo di recuperare le origini o, almeno, di farne rivivere i valori e le forme attraverso la ripresa e l’imitazione, proprio su questo secondo punto insiste il Foscolo, vedendo nella memoria consacrata dalla continuità e dall’immortalità della poesia il filo che garantisce un rapporto sempre rinnovabile con l’antichità e con la classicità, onde questa non è mai morta, ma, anzi, rivive ogni volta che la poesia la fa rinascere dall’oblio, pet quanto negativi siano i tempi, il dotto, il ricco ed il patrizio vulgo occupi palazzi e regge già morto pur essendo ancora in vita, e tutto appaia vano e inutile

ogni azione nella degradazione dei tempi. Il fatto è che la decadenza dei tempi è, per il Foscolo, un dato rigorosamente storico, nel senso di una precisa sequenza di eventi: Napoleone, la rivoluzione tradita, Campoformio, il regno d’Italia del Beauharnais. Ma l’inno è sempre possibile (e le Grazie stanno a dimostrarlo, oltre che i Sepolcri). Anche se la storia è fallita, non fallisce i suoi compiti la poesia: l’Alfieni foscoliano ha sul volto « il pallor della morte e la speranza ». C'è sempre un'alternativa da offrire alle delusioni e alle sconfitte nella storia, ed è la forza metastorica della 201

poesia, dalla quale è possibile attendersi anche gli auspici per i tempi migliori, onde il modello classico è anche una sorta di pedagogia del futuro. Per il Leopardi, al contrario, la decadenza dei tempi è irreversibile, e il tentativo fatto dalla rivoluzione francese, con il simbolo di Bruto come

distruttore di tirannide e di barbarie, di riportare l’uomo a una condizione più naturale, è fallito per effetto della pretesa di far trionfare la ragione e la filosofia. La rivoluzione è mancata e Jacopo Ortis non fa altro che meditare sulle illusioni perdute e su una storia che si è rivelata come fatta di tradimenti, di lotte intestine, di adulazioni, di viltà. Ma il Foscolo liquida con Jacopo l’eroe tragico della storia contemporanea e del fallimento delle idee della rivoluzione francese nella nuova tirannia napoleonica. Dopo, c’è la voce della poesia che oltrepassa i tempi amati consacrando la memoria dei fatti egregi e degli uomini illustri anche dei tempi contemporanei. Il futuro è sempre possibile dove le memorie eroiche siano accolte e imitate, anzi compito del poeta è proporre tali memorie all’imitazione dei posteri (e qui sta il classicismo del Foscolo: il modello supremo della classicità vale soprattutto come perfezione da imitare). Ma la virtù di Bruto non ha portato a nulla: ha portato alla tirannia di Antonio che è peggiore di quella di Cesare, e poi, via via, alle invasioni barbariche e alla decadenza sempre più rovinosa, mentre la virtù del nuovo Bruto Robespierre ha ugualmente condotto a nuove tirannie. Bruto può veramente dichiarare inutile ogni tentativo di restaurare e la libertà e le illusioni antiche: la propria autentica virtù si rivela proprio in questa lucida consapevolezza dell’irreversibilità della decadenza dei tempi, perché non è, questa, frutto contingente di specifici eventi storici, ma di una vicenda di mutamento di civiltà che è aldilà dei singoli fatti, perché investe il rapporto fondamentale fra l’uomo e la natura. In questa prospettiva, come il Leopardi dice in Alla primavera o delle favole antiche o nell’Inno ai Patriarchi o nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, la poesia non può proprio resuscitare nessuna illusione, nessuna favola antica, una volta che la ragione e la filosofia e l’arido vero hanno distrutto quel rapporto con la natura da cui nacque la grande, unica poesia degli antichi. Bruto rifiuta le parole dei posteri, anche perché, insieme con le illusioni che furono il fondamento dell’« italica virtute », sono cadute anche quelle della poesia (che, infatti, è diventata poesia di favole mediocri e superstiziose nei tempi moderni, come il Leopardi oppone al di Breme nel Discorso, e rifiutando le favole antiche, rifiuta anche quella verità della natura che è in quelle favole). La poesia dei « putridi nepoti » non può avere per Bruto nessun fascino: essa è non meno di loro « putrida », se è vero che « più de’ carmi, il computar s’ascolta », per un inarrestabile dominio della ra-

gione, della pretesa di geometrizzare la società e la vita, dell’economicità

come supremo valore. Il vero tirannicidio, in realtà, non c’è stato, aveva

232

già affermato il Leopardi nella canzone Ad Angelo Mai, parlando dell’Alfieri: « Da te fino a quest'ora uom non è sorto, / o sventurato ingegno, /

pari all’italo nome, altro ch’un solo, / solo di sua codarda etate indegno / Allobrogo feroce, a cui dal polo / maschia virtù, non già da questa mia / stanca ed arida terra, / venne nel petto: onde privato, inerme, / (memorando ardimento) in su la scena / mosse guerra a’ tiranni: almen si dia / questa misera guerra / e questo vano campo all’ire inferme / del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena / scese, e nullo il seguì, ché l’ozio e il

brutto / silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto ». La tragedia antitirannica dell’Alfieri è il vano campo di una misera guerra contro i tiranni, quale è quella che si combatte sulla scena. Non di più è possibile in un tempo di ozio e di silenzio (dell’azione ma anche della poesia). La tragedia alfieriana è il surrogato della vera ribellione contro la tirannia della ragione sulla natura: sulla scena e non nella realtà avviene la guerra antitirannica. Si rivela qui la diversità della concezione del tragico che ha il Leopardi rispetto all’Alfieri e all’alfieriano Foscolo: l’eroe tragico del Leopardi è Bruto, che rifiuta non un evento o una situazione della storia o un’istituzione o il « tiranno » come simbolo di ciò che la storia ha di negativo, ma la continuità stessa della storia, il futuro, in quanto degradazione sempre più grave e senza rimedio. Jacopo si uccide, disperato della comprensione

della vicenda ciclica di oppressione e di sfruttamento che è la storia, ma per testimoniare così la propria incontaminatezza sia nei riguardi di una società di adulatori dei potenti, di servi, di vili, di mediocri, sia nei riguardi di un ideale di virtù che egli vive così totalmente da scegliere di rinunciare all'amore di Teresa, ormai moglie di Odoardo, per non venir meno ai principî morali che la passione, per quanto viva e autentica, non può sospendere. Il classicismo leopardiano è infinitamente più esclusivo di quello foscoliano e, in genere, di quello contemporaneo, anche nei rap-

porti con l’idea del tragico. La felicità naturale dei tempi antichi è davvero perduta per sempre, e allora l’eroe, consapevole di questa condizione di perdita irrimediabile in cui si trova a vivere, non può che proporsi come eroe della negazione totale di una vita che non è più vita fuori del contatto con la natura, di una virtù che non ha più alcuna risonanza obiettiva e storica fra i contemporanei, ma anche della divinità e dell’intera storia successiva in quanto non storia, luogo della degradazione, della viltà, di « ire inferme » che soltanto sulla scena hanno campo,

senza incidere in

quella realtà in cui, invece, Bruto ha agito con il tirannicidio, non rappresentato, ma effettivamente compiuto (e allora Bruto, contro il Foscolo, proclama di voler cancellato il proprio nome, di respingere la durata della memoria della propria esistenza, pure esemplare per il reale esercizio della virtù e per aver agito in perfetta coerenza con essa, di non volere né sepol-

cro né parole dai « putridi nepoti », né da essi « vendetta », ovvero, in 252

altre parole, respinge ogni utilizzazione di sé come futuro simbolo di rivoluzione, dal momento che anche questa non può ricostituire ciò che è perduto, cioè la felicità antica frutto di illusioni e di favole). Il tragico del Bruto Minore leopardiano inaugura la negazione assoluta: non arriverà, dopo la strage, nessun Fortebraccio, Dio non ascolta né il Conte di Carmagnola né Adelchi in punto di morte, per sopravvenire, in una dimensione escatologica, a rimettere le cose a posto, sia pure fuori della storia, in sé impraticabile, né il rivendicatore alfieriano della libertà contro il tiranno può, pur morendo, prospettare l’esemplarità futura della propria ribellione, presso posteri altrettanto audaci e più fortunati. Prima ancora che Bruto incominci a parlare, tutto è già deciso, nella storia dell’umanità, la virtù romana è morta, la natura perduta, i Goti di Alarico già

stanno abbattendo le gloriose mura di Roma:

« Poi che divelta, nella tra-

cia polve / giacque ruina immensa / l’italica virtute, onde alle valli / d’Esperia verde, e al tiberino lido, / il calpestio de’ barbari cavalli / pre-

para il fato, e dalle selve ignude / cui l’Orsa algida preme, / a spezzar le romane inclite mura / chiama i gotici brandi ... ». La presentazione di Bruto che pronuncia la sua ultima allocuzione è incentrata sull’avverbio « invan »: « Sudato, e molle di fraterno sangue, / Bruto per l’atra notte in erma sede, / fermo già di morir, gl’inesorandi / numi e l’averno accusa, / e di feroci note / invan la sonnolenta aura percote ». Gli eroi tragici pronunciano le ultime parole prima della morte per i posteri (e anche per Dio), onde rimettere le cose a posto e proclamare la propria verità, testimoniando nel momento supremo la propria purezza, la propria eroicità, al di là del destino e delle forze ostili: ma Bruto, invece, parla alla « sonnolenta aura », all’atra notte, al nulla, cosciente che il suo è un

discorso inutile, che nessuno ascolta e deve ascoltare, se si conclude con il rifiuto del nome e della memoria (e della storia a venire). L’eroe tragico

parla « invano »: sapendo, anzi volendo che l’orazione sia invano, cioè inascoltata. La scena del tragico leopardiano è vuota: « in erma sede » si trova Bruto, e non ha spettatori neppure ideali, proiettati nel futuro. Il « vano campo » della scena è senza spettatori, ma perché non siamo di fronte alla guerra (alla « misera guerra ») mossa nel teatro ai tiranni, ma

a qualcosa di fondamentalmente diverso e infinitamente più significativo, che segue a quella guerra, quando se ne è visto il fallimento; ed è la dichiarazione di totale rifiuto della speranza storica, del futuro, ma anche di

sé, della propria immagine, tanto è vero che l’orazione si conclude con questo rinnegamento della virtù, pur esercitata e perseguita con la legge di vita. Né, del resto, il discorso può essere indirizzato alla divinità: « mar-

morei » sono i « numi », e invano si pronunciano le parole che si indirizzano loro, che non ascoltano gli uomini né degli uomini si curano se non per imporre loro assurdi e innaturali divieti, quale è quello del suicidio: « Di 234

colpa ignare e de’ lor proprii danni / le fortunate belve / serena adduce al non previsto passo / la tarda età. Ma se spezzar la fronte / ne’ rudi tronchi, o da montano sasso / dare al vento precipiti le membra / lor suadesse affanno; / al misero desio nulla contesa / legge arcana farebbe / o tenebroso ingegno. À voi, fra quante / stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte, / figli di Prometeo, la vita increbbe; / a voi le morte ripe, / se il fato ignavo pende, / soli, o miseri, a voi Giove contende ». Il discorso di Bruto è una sequenza di interrogazioni e di sentenze come queste: che non comunicano nulla, e non hanno, di conseguenza, nessuna necessità di avere spettatori o ascolta-

tori, sono nozioni e verità assolute, irrelate, definitive, e valgono al di là

dell’ascolto o della conoscenza che se ne possa avere. Il tragico esce fuori della scena, diviene un fatto assoluto, una testimonianza incisa come verità vana non meno di quanto sia, per Bruto, della virtù, e il compito del poeta tragico può essere soltanto quello di registrare dichiarazioni e sentenze al di fuori di ogni comunicazione, di ogni rapporto con il pubblico e anche con la funzione esemplare che l’eroe tragico ebbe e non ha più dal momento in cui ha respinto da sé nome, fama, appello ai posteri. Tutto ciò che Bruto dichiara non è un’eredità:

è una verità che non consola, non

sprona, non libera, non ammonisce, non è indirizzata ai posteri, in quanto questi, per essere « putridi », non soltanto non sono degni di nessuna orazione, ma neppure potrebbero comprendere e accogliere il senso delle sentenze di Bruto. Il quale, di conseguenza, parla per sé solo. La denuncia della legge innaturale che vieta agli uomini il suicidio, mentre agli animali è concesso finire volontariamente la vita se è loro divenuta insopportabile, cioè, in realtà, nell’ambito della natura l’uccidersi si dà normalmente, rien-

tra sia in un argomentare tipicamente settecentesco (perfino sadiano), che ricava la definizione di naturalità del comportamento dall’osservazione se questo è o no riscontrabile in natura, sia, più specificamente, nella base storico-ideale dell’orazione di Bruto come affermazione che il rapporto nor-

male dell’uomo con la natura è ormai perduto, perdute le illusioni e le favole antiche, quindi inevitabilmente rivolto al peggio il mondo, degradazione e decadenza la storia. Il mondo antico si chiude nella disperazione di Bruto: la cui orazione è, allora, anche il più alto e definitivo omaggio mai recato alla classicità. È l’esaltazione di un mondo di perfezione naturale e politica che è ormai perduto: ma ciò che la caratterizza è il fatto che non è detta per nessuno, soltanto per se stessa, per il fatto che è la verità, e basta.

In questi termini, non di imitazione si può parlare per la poesia moderna nei confronti di quella classica: Bruto, che è un personaggio dell’antica Roma, non si propone affatto come eroe imitabile né, quindi, propone il suo discorso come un’orazione composta secondo il modello classico. Anche in questo senso strettamente letterario il Bruto Minore è 235

un testo perfettamente chiuso sulla sua assolutezza concettuale e gnomica. Si comprende a questo punto come il tragico leopardiano espresso da Bruto giunga al suo acme col rifiuto, insieme con la storia che verrà dopo, anche della metastoria, cioè della religione. Se non hanno più da esserci illusioni, tutte cadute di fronte alla ragione e ‘alla filosofia, allora tocca proprio a Bruto morente, che ha verificato la vanità della virtù, anche della sua virtù, dichiarare, facendo l’ultimo passo sul cammino del giudizio razionalista della realtà del mondo, illusione anche la religione. Bruto non intende affatto levarsi contro gli dei in una sorta di ribellione titanica:

intende negarli, respingerli fuori di una dichiarazione della vera condizione dell’uomo, rivelarne l’inconsistenza di fronte all’analisi della ragione: « À voi, marmorei numi / (se numi avete in Flegetonte albergo / o su le nubi), a voi ludibrio e scherno / è la prole infelice / a cui templi chiedeste, e fro-

dolenta / legge al mortale insulta. / Dunque tanto i celesti odii commove / la terrena pietà? dunque degli empi / siedi, Giove, a tutela? e quando esulta / per l’aere il nembo, e quando / il tuon rapido spingi, / ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi? ». Ne La primavera la fine delle favole antiche fa sì che la natura sia lo spazio dell’indagine e della conoscenza della scienza, e più non possano avervi luogo gli dei: e il discorso è condotto con lo stesso esempio del tuono e del fulmine: « Ahi ahi, poscia che vote / son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono / per l’atre nubi e le montagne errando, / gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro / in freddo orror dissolve ... ». Anche per Bruto, che ironicamente dice di non sapere se gli dei abitino il cielo o gli abissi sotterranei, sono vuote le stanze degli dei, e non ha più senso, cancellata anche l’estrema illusione della virtù, con-

servare quella degli dei. In questo senso Bruto non si rivolta contro gli dei, semplicemente li nega. La lotta del « prode » non è contro la storia, contro gli dei, contro i nemici, ma contro la stessa condizione umana, e in questa prospettiva è una lotta assoluta, solitaria, e il suicidio non riguarda nessun altro che il « prode » stesso:

« Guerra mortale, eterna, o

fato indegno, / teco il prode guerreggia, / di cedere inesperto; e la tiranna / tua destra, allor che vincitrice il grava, / indomito scrollando si pompeggia, / quando nell’alto lato / l’amaro ferro intride, / e maligno alle nere ombre sorride ». La scelta della morte è una sorta di euforica letizia per il prode colpito da un’infelicità troppo grande. Ma ancora una volta è una manifestazione di sublimità e di grandezza che si chiude interamente in sé, senza correlazione con nessun spettatore, senza nessuna volontà che possa porsi come esempio per altri, tanto è vero che egli sorride alle nere ombre, cioè al nulla, in quell’assoluta solitudine in cui tutto si svolge ormai nella rappresentazione leopardiana del personaggio tragico. Non agli dei che non esistono sorride Bruto, ma al nulla: quel nulla che è anche costituito dalla natura, dal paesaggio, dagli animali, del tutto in236

differenti al mutare della storia del mondo (e anche il « villanello » sem-

bra in qualche modo implicato in tale indifferenza della natura alle vicende della storia, che gli passano sopra: ma è un discorso esattamente opposto a quello del Manzoni, che nell’antistoria e nell’antitragedia che è il romanzo della gente meccanica e comune propone l’alternativa autentica e radicale a tutti i Bruto della storia, che pretendono di mutare le sorti del mondo: il « villanello » è di quelli che si consolano vedendo che « necessari » sono i « danni » e i dolori dell’esistenza; e gli animi « plebei » non possono giungere al livello supremo di coraggio, di lucidità, di comprensione a cui giunge Bruto, e non interessano, di conseguenza, l’ambito tragico in cui Bruto si muove, con le sue sentenze assolute): « E tu dal mar cui nostro sangue irriga, / candida luna, sorgi, / e l’inquieta notte

e la funesta / all’ausonio valor campagna esplori. / Cognati petti il vincitor calpesta, / fremono i poggi, dalle somme vette / Roma antica ruina; / tu sì placida sei? Tu la nascente / lavinia prole, e gli anni / lieti vedesti,

e i memorandi allori; / e tu su l’alpe l’immutato raggio / tacita verserai quando ne’ danni / del servo italo nome, / sotto barbaro piede / rintronerà quella solinga sede. / Ecco tra nudi sassi o in verde ramo / e la fera e l’augello, del consueto obblio gravido il petto, / l’alta ruina ignora e le mutate / sorti del mondo: e come prima il tetto / rosseggerà del villanello industre, / al mattutino canto / quel desterà le valli, e per le balze /

quella l’inferma plebe / agiterà delle minori belve. / Oh casi! oh gener vano! abbietta parte / siam delle cose; e non le tinte glebe, / non gli ululati spechi / turbò nostra sciagura, / né scolorò le stelle umana

cura ».

Non essendoci più rispondenza fra le vicende umane e quelle della natura al punto del discrimine a cui la vicenda dell’uomo è giunta e che il Leopardi identifica con la morte di Bruto (e, a raffronto, si pensi sempre a Alla primavera), luna, stelle, uccelli, belve, lo stesso villanello in quanto vivente ancora nello stato di natura, non sono più coinvolti nelle vicende

degli uomini, nei fatti della storia, che un tempo, invece, erano stati sentiti come solidalmente accompagnati dalle manifestazioni della natura (le stelle che non più si scolorano sono quelle che, un tempo, invece, gli uomini credevano di veder mutare colore quando qualche grande evento accadeva: e l’impallidire delle stelle è, appunto, uno dei fenomeni tramandati come concomitanti rispetto alla morte di Cesare: quella morte del tiranno che ora Bruto riconosce vana). La chiave della parte dell’orazione di Bruto diretta alla negazione della religione è nell’ultima stanza della canzone, in apertura: « Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi / regi, o la terra indegna, / e non la notte moribondo

appello;

/ non te, dell’atra

morte ultimo raggio, / conscia futura età ». L’orazione, come non ha come ascoltatori i posteri, che sono « putridi », quindi indegni, ma anche incapaci di capire (e il Leopardi, infatti, tanto si preoccupa di difendere 237

Bruto dalle accuse che gli sono mosse o di non essere vero cultore della virtù o di aver finto come sulla scena, come un attore di una tragedia scritta, e non del momento supremo, reale, di uno spirito superiore: e si rivedano la Comparazione insieme con i passi citati dello Zibaldone, che

vogliono indicare anche i dati di tale ormai verificata indegnità dei posteri), così non ha neppure come destinatari gli dei, che non esistono, quasi che Bruto se la prenda col cielo o con l’inferno per la sconfitta, la rovina delle illusioni di mutare il mondo, là dove il mondo muta sì sorti,

ma nella direzione opposta della degradazione, non in quella, da lui tentata, del risarcimento e del ritorno all’antica virtù. Il nucleo del personaggio tragico, che è Bruto, non è il suicidio, ma l’uccidersi davanti al vuoto, al nulla, all’indifferenza della natura, non più ormai solidale con l’uomo: è il rifiuto della religione, di ogni religione dell'Olimpo o di Cocito o della storia o della gloria o del nome o della virtù. Eroe classico, della tradidizione classica, ha in sé piuttosto, ormai, segni apocalittici: di totale fine dei valori, che coincide con la conclusione conseguente e necessaria della storia umana come storia significativa, e non quadro e spazio di decadenza. Poiché, contro il classicismo contemporaneo, il mondo classico, per il Leopardi, non è un sogno, un modello, un esempio di equilibrio e di bellezza da imitare, una nostalgia e un rimpianto, ecco che il Bruto Minore, coerentemente, non ha nulla di classicistico, al di là delle fonti, del resto

denunciate dal Leopardi stesso, e che non sono molto più che un’occasione o uno spunto, anche alquanto remoto. Al contrario, l’eroe senza futuro, di fronte al vuoto del cielo e della storia, se parte dall’idea, che è di ogni classicismo, della perfezione datasi una volta per tutte e non più ripetibile (in assoluto, per il Leopardi), tuttavia approda a una proclamazione di negazioni assolute, sull’orlo di una fine dei tempi e dei valori che non è una previsione storica o parastorica di tipo apocalittico (e sarebbe pure un bel caso, in un periodo di ottimismo del progresso scientifico e tecnologico), ma l’evento assoluto, che rifiuta spettatori e destinatari del messaggio, e ammette soltanto formulazioni assolute, irrelate, definitive, l’evento ideale, la coincidenza di fine di Bruto in quanto personaggio della storia e in quanto personaggio degno, non coinvolto, per propria capacità di esserne fuori, nella degradazione della storia (e in questo senso, allora, opera l’identificazione del Leopardi stesso con Bruto). L’orazione di Bruto consacra la non esemplarità dell’eroe tragico leopardiano, che è anche la sua condizione di ultimo eroe, di eroe che chiude i conti. I conti di Bruto sembrarono riaperti in senso eroico (e anche come riavvicinamento alla natura)

con la classicistica rivoluzione francese, popolata da reincarnazioni di eroi greci e romani. A restaurazione consolidata, Bruto appare non più sulla scena della storia e neppure su quella tanto più « inferma » del teatro, ma di fronte al nulla che ha scelto come il proprio spazio, l’unico degno della 238

propria virtù, per dichiarare solo per sé, per l’ultimo dovere compiuto in omaggio alla propria virtù, il rifiuto delle ultime illusioni, che sono la religione e i sepolcri e i posteri, e il risarcimento della propria disfatta a opera dei posteri stessi e anche la pretesa che la virtù possa mutare le sorti di un mondo irresistibilmente degradato. L’ira di Bruto non è davvero inferma. GIORGIO

BARBERI

SQUAROTTI

222

Leopardi et l'Histoire Antique

Le tissu dans lequel l'Histoire est taillée est fait de temps et de durée. Il est toujours éclairant — et c’est même indispensable — pour comprendre un auteur d'étudier et de définir sa conception du temps. La sensibilité à l'Histoire varie bien souvent selon les individus et certains y sont même tout-à-fait indifférents. Ce n’est pas le cas de Leopardi et la lecture des Canti suffit pour qu’on s’en convainque; même si un peu d’attention permet de constater qu’au cours des années l’intérêt porté par Leopardi à l'Histoire a pu changer d'intensité ou de signification. Avant d’en venir cependant à l'examen des Canti — où nous pensons que le sens de la préoccupation historique prend ses véritables dimensions — il nous paraît nécessaire d’enquêter sommairement sur la culture historique de l’auteur et de voir, ailleurs que dans le chef d’oeuvre poétique, dans les premières oeuvres comme dans les dernières, dans les traductions comme dans le Zibaldone, quelle place peut occuper l'Histoire. C’est alors seulement qu’on pourra avancer une interprétation sur ce que

représentent ou symbolisent, comment sont ressenties par la sensibilité du poète, ces « morte stagioni » qu’il considère dans l’Infinito.

Les lectures historiques de Leopardi ont été nombreuses et particulièrement celles concernant l’Antiquité; encore qu’il ait eu de l’intérét pour

l’époque plus récente. Dans la bibliothèque des Leopardi on trouve les grands historiens anciens et de nombreux autres moins importants; on trouve aussi des livres « modernes » portant sur l'Histoire ancienne. Nous ne dresserons naturellement pas ici un catalogue des oeuvres historiques qui en font partie. Il suffit de parcourir cursivement l’index du Zibaldone pour constater l’étendue des lectures de Leopardi en ce domaine. Ce qui frappe, quand on se reporte aux annotations de Leopardi, cependant, c’est qu’il semble surtout s’attacher à la langue des historiens plutôt qu’à leur spécificité et, d’autre part, qu’il cherche le plus souvent à retirer une signification ou un enseignement oraux des faits historiques. Peut-être 241 16

plus que l'événement en soi l’intéressent les protagonistes, les héros. Enfin il passe en revue peuples et civilisations et en tire les éléments d’une comparaison entre les Anciens

et les Modernes

qui, on s’en doute, ne

tourne pas souvent à l’avantage de ces derniers. Citons, sans vouloir être complet, les noms qui se retrouvent sous la plume de Leopardi: Aulu-Gelle, Cicéron, Cornelius Nepos, Diodore de Sicile, Diogène Laerce, Dion Cassius, Denys d’Halicarnasse, Herodote, Pausanias, Pline, Plutarque, Polybe, Procope, Properce, Quintilien, Salluste, Sidoine Apollinaire, Strabon, Suétone, Tacite, Tertullien, Tite-Live,

Thucydide, Vitruve, Xénophon ...: on en passe et on en oublie. Il faudrait d’ailleurs ajouter à cette liste d’autres ouvrages et d’autres auteurs qui ont leurs parties historiques ou qui présentent des figures de personnages historiques et/ou héroïques: comme la Bible ou les oeuvres de poètes tels Homère, Ovide, Virgile, etc. … ou d’orateurs comme

Cicéron:

ici encore

la liste est très incomplète. De toute manière, à voir cette simple énumération d’ouvrages parcourus, il est évident que Leopardi disposait d’une très vaste information sur l’Histoire ancienne; et l’intérêt précède l’information; sans parler des ouvrages « modernes » sur le sujet dont nous ne nous occuperons pas ici. Il ne saurait être question d’un examen exhaustif de tout ce qui est noté dans le Zibaldone à propos des historiens, grands et moins grands. Cependant nous relèverons quelques remarques qui nous ont permis d'établir, comme il est dit plus haut, l'intérêt à la fois philo-

logique et moral que trouve dans les textes historiques notre auteur. A propos d’Hérodote, Leopardi insiste à plusieurs reprises sur cette idée que l’historien grec, le « père de l’Histoire », « scrisse la sua storia per leggerla al popolo ».! L’origine de l’histoire serait donc populaire (analogue au cas d’Homère « cantato alla nazione »; ? l’historien recueille les applaudissements publics; et, constate Leopardi, ce n’aurait pu étre le cas de Guichardin, par exemple, non plus déjà que celui de Tacite ou de TiteLive? Leopardi fait appel à l’historien moderne Wesseling, toujours à propos de cette question de la lecture publique qui manifestement l’a frappé.' On sait combien Leopardi avait de nostalgie envers cette participation populaire à l’oeuvre des poètes antiques: un tel succès était la véritable gloire; et voici qu’on le trouve attribué non plus seulement à la poésie mais aussi à l'Histoire. Il est vrai que l’Histoire ancienne, grecque surtout, encombrée de héros et de dieux, a en soi du poétique et du mythique. Et Leopardi relève que, en grec, le mot « écrivain » a été syno-

1 2 3 4 242

V. V. V. V.

Zib., Zib., Zib., Zib.,

p. p. p. p.

145. 812. 849-850. 4400-4402.

nyme du mot «historien »: l’Histoire, dit-il, a peut-être fait l’objet des premières proses écrites par les Grecs; ou alors il devait s’agir de formes mixtes où l’histoire entrait par force, en proportion plus ou moins grande‘ Comme on peut le voir par ces réflexions, l’Histoire revêt pour Leopardi, en son origine, cette force et cet éclat qui viennent de la participation collective, disparue pour ce qui concerne la production littéraire postérieure: phénomène particulièrement précoce d’ailleurs, puisque dès les Latins il se serait avéré.

Par ailleurs ne manquent pas, à propos du style d’Hérodote, les habituelles remarques philologiques; qui ne concernent pas notre propos. Thucydide est lui aussi l’objet de remarques sur le style: Leopardi observe que Xénophon l’a imité. Mais surtout il relève une fameuse formule, qu’on trouve dans l’oraison funèbre de Périclès, et qui sera reprise

par Lucien, Pline, Saint Jérôme ...: « L'’ignoranza fa l’uomo pronto, la considerazione ritenuto ». C’est une sentence de portée générale; on y découvre le Leopardi intéressé par la morale. Et ces considérations morales aboutissent, dans l’Antiquité, parfois, à des prises de position « antiscientifiques », comme lorsque Denys d’Halicarnasse « biasima Tucidide per aver preso un argomento di storia che conteneva le sventure della sua patria ...» tandis qu’il loue Hérodote d’avoir fait le contraire! On voit s'interroger la pensée de Leopardi, prise entre l’attirance pour le poétique dans l'Histoire et celle pour la méthode scientifique qu’il a voulu suivre et conforter en écrivant la Storia dell’ Astronomia ou le Saggio sugli errori popolari. Xénophon est l’objet de nombreuses références (Leopardi l’a même partiellement traduit *). Notre auteur ne considère d’ailleurs pas Xénophon comme un véritable historien: « non è una storia ma un Diario o Giornale si può dire, e per la massima parte militare di quella spedizione. [...]

Chi si vuol fare maraviglia di Senofonte, perché non se la fa di Cesare? » — pas plus chez l’un que chez l’autre on ne trouve de véritable histoire, «ma commentari ». Mais ceci n’est pas une condamnation. En effet l’oeuvre de Xénophon, si elle n’est pas à proprement parler historique, n’en est pas moins « singolarmente preziosa »; car elle nous donne « la vera idea de’ costumi, pensieri, natura degli antichi [...], come le lettere di Cicerone [...] sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi ». 5 V. Zib., p. 4400-4404. 6 V. Zib., p. 469-470 et 595-596. 1 V. Zib., p. 4309. 8 Il s’agit du texte «Frammento di una traduzione in volgare dell’impresa di Ciro, descritta da Senofonte », recueilli dans: LeoPARDI, Tutte le opere, I, Firenze 1969, p. 465.

9 Zib., p. 466-469.

243

Ces réflexions sont importantes car elles nous font clairement comprendre que l'intérêt de Leopardi pour l'Histoire est, dirons-nous, global: il s’agit pour lui de comprendre et de reconstituer le monde antique et les civilisations disparues; on y voit même cette curiosité d’ethnologue qui fera de Leopardi un lecteur de Voyages: fruit direct d’une telle lecture sera, comme on sait, Il canto notturno. On est loin des simples chronologies et des exercices de mémoire:

l'Histoire de Leopardi n’est pas une

Histoire « événementielle », c’est une Histoire sentimentale.

Quand il passe au Latin Tacite, Leopardi garde ses préoccupations philologiques, mais il sait se rendre compte que pour un historien les qualités de style non seulement ne sont pas tout mais encore sont secondaires par rapport à d’autres: Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezione della lingua non si potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle doti di storico appartenenti al bello letterario, sebben egli l’avanza di molto in quelle che spettano alla filosofia, politica, ...!°

Avec les Romains on voit donc apparaître cette incidence politique de l’Histoire qui va maintenant de soi pour nous: l’Histoire devient désormais une affaire dite sérieuse et Machiavel commentant Tite-Live est pour beaucoup dans le triomphe de cette conception politique de l’Histoire. Tite-Live précisément est pour Leopardi « il poeta della storia, poeta vero e grande », « e nondimeno è il modello splendidissimo della più perfetta prosa »:! on remarquera toujours l’intérét pour le style des auteurs. Mais Leopardi loue Tite-Live surtout pour ce que nous avons vu être sa conception de l’écriture de l’Histoire: c’est, dit-il, « fra gli storici » celui qui a su «costringere l’immaginazion de’ lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e contemporanei de’ personaggi del poeta ».° En somme Tite-Live est un parfait historien parce qu’il sait animer ses « personnages »; qu’il a de l’histoire une conception dramatique, pour ne pas dire cinématographique. On retrouve d’ailleurs significativement, cette exigence de vie recréée — de la part de Leopardi — à l’égard des traducteurs: une bonne traduction sera celle capable de faire éprouver au lecteur en une autre langue les sentiments éprouvés par les lecteurs contemporains de l’original et de méme langue que lui; et comme il s’agit pour Leopardi de traduire des textes anciens le traducteur, comme

10 Zib., p. 2409-2410. UeZibs p. 471. LA Zi CES 705

244

l'historien, doit nous rendre contemporain des anciens.® S’agissant de Salluste, Leopardi rappelle la formule « Igitur initio reges » (dont il donne la référence) et commente: le premier pouvoir fut « assoluto ».!* Avec les Latins: la politique. Mais Leopardi n’est pas vraiment intéressé par la politique, en bon sentimental; malgré les efforts peu convaincants qu’on fait, influencés par la mode de notre temps, pour nous convaincre du contraire; et c’est le côté moraliste de Salluste qui attire son attention. C’est ainsi qu'il cite le « ingenium nemo sine corpore exercebat » et l’on comprend la résonance que présente cette affirmation pour lui dont le corps est à l’époque (il écrit cela le 4 février 1821) définitivement ruiné. De même le poète relève: Volendo andar sempre crescendo, Sallustio, mette prima le ricchezze, poi l’onore, poi la gloria, poi la libertà, e finalmente la patria, come la somma e la

più cara di tutte le cose. Oggidì, volendo esortare un’armata in simili circostanze, ed usare

quella figura si disporrebbero

le parole a rovescio

[...] (mettendo)

finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s'ha per nulla ...5

C’est Leopardi moraliste qui écrit; celui qui comparera aux vertueux et heureux Anciens les Modernes énervés et souffreteux.

Il aurait été sans doute utile de procéder à de plus amples investigations à propos de la part de l'Histoire et des historiens dans le Zibaldone mais les limites d’un article ne le permettent pas. Malgré le côté sommaire de notre incursion, il nous semble que l'information et l'intérêt historiques de Leopardi sont démontrés; comme aussi le fait qu’il trouve dans l'Histoire un lieu pour imaginer, ou un refuge pour imaginer; une raison

pour se désoler, en songeant à la caducité des choses; l’occasion de comparaisons avec le temps présent capables de conforter son pessimisme et la référence à une morale et à des valeurs capables d’alimenter sa nostalgie d’un optimisme. Ainsi Leopardi, dans le Zibaldone, médite sur l’amour de la patrie, l’héroïsme, la République, le Temps moderne, l’Utopie, la Politique, la Barbarie ... Pour ce qui concerne les Etats et les civilisations disparues il prend en considération Athènes, Babylone, Carthage, les Perses

(on les

13 Voir à ce propos notre étude « Leopardi et la traduction », qui se trouve en avantpropos à la traduction française des Canti, Avignon 1980.

14 Zib., p. 598. 15 Zib., p. 606-607. 245

retrouvera dans All’Italia), les Siciliens, les Carthaginois, les Hébreux, l’Egype, les Etrusques, les Gaulois, les Numides, Marseille, les Orientaux et l’Asie, le Péloponnèse, les Scythes, Syracuse et Sparte, etc. ... Une vaste enquête non synthétisée dont nous n’avons pas cité toutes les rubriques.

En ce qui concerne les héros, les grands hommes ou les personnages fameux, nous pouvons ouvrir une autre liste qui demeurera tout aussi incomplète mais qui témoignera de cette nostalgie de l’action et de l’occasion d’agir qu'était celle de celui qui écrivit: « l’homme n’est pas fait pour écrire; il est fait pour agir ». Voici ces héros, qui, n’étant pas tous des modèles de vertu, peuvent être considérés parfois comme des swrhommes; ce qui justifierait un rapprochement entre l’enquête léopardienne et les conclusions nietszchéen: Achille, rus, Commode, (cas particulier), pion, Sémiramis,

Hannibal, Marc-Antoine, Auguste, Caligula, Caïn, CyDarius, Denys, Domitien, Enée, Jugurtha, Marc-Aurèle Massinissa, Patrocle, Périclès, Pompée, Porsenna, Saül, SciSésostris, Thésée, Ulysse, etc. … la liste n’est pas com-

plète qui cependant mêle l’historique au mythique, l’Europe à l’Asie et à l'Afrique; et qui se continue (hors de notre sujet), par la transition de Constantin, jusqu’à Charlemagne et Napoléon. César, héros régatif et historien incomplet, est pourtant bien souvent présent dans les Puerili, objet d’exécration et de mépris. Leopardi, fort peu héros lui-même (il a hérité la prudence de son père qui se vante de ce trait de son caractère) en a la nostalgie. Puis la chose n’est pas si simple car, si l’on en croit les témoignages des familiers, repris par les biographes, Leopardi pré-adolescent, Filsero, était le héros vainqueur et quand on jouait à la guerre il était César et Carlo devait se contenter d’être Pompée;

mais Leopardi,

écrivant, s’identifie toujours

aux

héros succombant, comme c’est le cas pour nombre de pièces des Puerili et pour la tragédie Pompeo in Egitto. Par préoccupation morale; car, quand il peut imaginer plus librement, en dehors des rigueurs établies de notre Histoire gréco-romaine, dans la tragédie La virtà indiana, il est heureux de pouvoir entrer dans la peau d’un jeune prince vainqueur. Mais aussi le père (image de Monaldo) — inefficace de ce jeune prince, succombe et celui-ci peut, sans faute, en relever le sceptre. Avec les Anciens ce n’était pas possible: l'Histoire est écrite. On ne peut que déplorer leurs erreurs (l'impérialisme romain, par exemple, assimilé à l'impérialisme français contemporain, nettement condamné dans l’Orazione in occasione della liberazione del Piceno) et s’identifier aux héros malheureux, victimes de leur

vertu — en une simplification manichéiste évidente (songeons à Pompée) — comme ce Brutus que nous n’avons pas inclus dans notre liste mais qui des Puerili, passera aux Canti pour devenir, dans la fameuse lettre à de Sinner, le symbole même de la fidélité du poète à soi-même. 246

Encore une fois nous n’avons pas ici le loisir d’examiner l’attitude de Leopardi face aux héros; nous aurons cependant l’occasion d’en toucher quelque chose quand nous étudierons sa production juvénile et sa tragédie de Pompeo in Egitto. Auparavant, voyons ce qu’il nous dit de l'Histoire dans le Zibaldone.

Ce sont des vues générales; mais il y règne principalement, quand il s’agit d'appliquer aux événements modernes, un scepticisme qui ne surprendra pas de la part de l’auteur des Paralipomeni. Le 11 juin 1820 — se référant à Montesquieu — il écrit: ... ora che il potere è ridotto in pochissimi, si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi (Leopardi pense — il faudrait nuancer — que dans les républiques antiques tout était manifeste au peuple), e il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte [...]. Dal che si può vedere quanto sia scemata l’utilità della storia.

Cette remarque est toujours d’actualité; car elle concerne l’accès à l’information. On sait d’ailleurs que le XVIIIème a été un siècle de diplomatie secrète; mais celle-ci n’a-t-elle jamais existé dans l’Antiquité? En tout cas elle n’a pas cessé d’être pratiquée; et il est vrai que l’information serait un instrument dont on ne peut calculer précisément la puissance. Retenons que l’Histoire moderne manquerait d’intérêt parce qu’elle est « occulte ». Leopardi revient (c’est lui qui l’indique) sur la question et ajoute, le 2 mars 1821: … si vede in fatti, chi conosce un tantino la storia de’ regni, come i massimi

avvenimenti sieno spesso derivati da piccolissimi affettacci di quel re, di quel ministro ec., da menome

circostanze, da una passioncella [...] (Leopardi établit

toute une liste) [...]. Quindi si può vedere, quanto la storia oggidì sia oscura e difficile allo scrittore, e come spesso debba riuscire în gran parte falsa, e quindi inutile ai lettori [...]. E così oggi gli scrittori di aneddoti e bazzecole di corte, sono più benemeriti forse della storia che i sommi storici e scrittori delle massime cose.!”

Tout cela est d’un grand intérét. Encore une fois il y a les innombrables chroniques du temps: type Chroniques de l'oeil de boeuf. Mais il y a en plus l’adhésion à la conception du « nez de Cléopatre » de Pascal; la 16 Zib., p. 120. C’est nous qui soulignons comme, en général, par la suite. 17 Zib., p. 709-710.

247

conviction que l'Histoire dépend des hommes — lesquels, dégénérés, laissent la place à la petite Histoire plutôt qu’à la grande (observons comme on est loin ici de la conception marxiste du «sens» de l’Histoire); et enfin un scepticisme — que je qualifierai d’anarchiste — à l’égard de la science historique qu’on retrouve singulièrement de nos jours exprimé par Leonardo Sciascia dans son Consiglio d’Egitto; par Sciascia qui — curieux hasard — fait du sentiment la condition nécessaire de la « révolution »; ce

qui est le cas, implicitement, pour Leopardi. L'Histoire est un monde romanesque,

pour ne pas dire irréel (il est

vrai qu’elle dépend des passions); il y a comme un subtil décalage produit par le fait que ce qui devrait dépendre de la raison dépend en fait du sentiment ou mieux de l’humeur. On croit, dit Leopardi « ... straordinario nel mondo quello appunto ch’è ordinario, e viceversa, straordinari i casi delle storie, e ordinari i casi de’ romanzi ».* C’est toujours ce même scepticisme devant l’invraisemblable de l’Histoire. Mais qu’en est-il de l’Histoire antique; car tout ceci a trait à l’Histoire moderne? L’Histoire grecque, latine et hébreue (et Leopardi fait référence à Chateaubriand) sont, nous

dit-il, pour nous les plus « intéressantes »; d’un intérêt qui ne peut être atteint par aucune autre histoire « ... anche più importante per noi, come le storie nazionali ».. Le suddette tre sono le più interessanti (c’est l’auteur qui souligne ici), perché sono le più sofe (id.); perché sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorché di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti storici veramente propri d’epopea, di tragedia, ec. e all’interesse dei detti

argomenti,

wassime

nella

poesia,

non

si può

supplire

in verun

LOHÉON Ces affirmations sont importantes. Elles sont d’abord assez (ou bientôt

seront) inactuelles: car elles ne tiennent pas compte des nationalismes (dont Leopardi est pourtant bien conscient; parlant de la Grèce et méditant d’écrire sur Pascal Paoli ou sur le général Kosciuszko); elles témoignent donc d’un certain apolitisme historique (que confirmeront, encore,

les Paralipomeni). Elles réaffirment que la patrie des hommes « cultivés et civilisés » est l’Antiquité et que l’intérêt de Leopardi pour l'Histoire est avant tout esthétique, poétique, s’adressant à ce qui est un lieu-refuge pour imaginer, comme on l’a dit plus haut. Il ne s’agit pas d’un intérêt inérinsèque, mais du fait que dans la familière Histoire ancienne nous retrouvons notre enfance. S’ébauche ainsi l’équation enfance = Histoire an18 Zib., p. 1903. 19 Zib., p. 2646-2647.

248

cienne. Or l'Histoire comme l’enfance sont perdues et ne se retrouverons

plus sinon par l'imagination et le souvenir. On voit qu’en conséquence tout ce qui touche à l'Histoire de l’Antiquité reçoit une très puissante charge émotionnelle; tandis qu’en réaction tout ce qui concerne l'Histoire moderne est coloré de prosaïsme et de scepticisme. Leopardi a écrit cela en 1822. En 1826, à Bologne, a-t-il évolué? Peut-être car il déclare: « Spessissimo la storia d’una nazione s’è appropriata i fatti, veri o finti, narrati dagli storici di un’altra » (et il fait référence

à Suétone).® Puis il

donne pour exemples la pomme de Guillaume Tell et le massacre des Innocents. Le scepticisme s’étend de l’histoire moderne à l’Histoire ancienne qui verse décidément dans le mythe et la poésie, patrimoine commun et seule vérité idéale de l’humain, par opposition à ces réalités désanchantantes que Leopardi appelle « il vero ». Leopardi se persuade de plus en plus de l’ambiguïté du concept d’Histoire et de l’ambiguîté de la science historique; comment peut-on parler de science à propos de l’histoire de faits «veri o finti» dont l’existence dépend des humeurs humaines? Il y a là une confusion dont Leopardi cherche l’origine dans l’étymologie. Il trouve le point de départ de sa réflexion dans la dénomination erronée d’« Histoire naturelle ». Aristote,

créateur de cette appellation, ... la chiamò istoria, perché questo nome

in greco viene da istor (cono-

scente, intendente dotto), verbale fatto dal verbo iséwi (scio) e vale conoscenza, [...] rotizia della natura [....]. E istoria equivale in certo modo in greco a filosofia, e spesso si prende per questa. [...] ma noi [...] annettiamo tutt’altra idea al nome istoria [...]. Nondimeno [...] abbiamo adottato tal quale [...] il nome

di questa scienza (il che) produce in tutti un’idea equivoca che mescola le nozioni di storia a quella di scienza.”

Et Leopardi ajoute: on dira donc « storici della natura », mais personne n’aura l’idée d’appeler Galilée « storico degli astri »; il y a là « confusione e imprecisione di idea ». Ce qu'il faut observer tout d’abord dans cette importante remarque c’est que Leopardi récuse l’idée que l'Histoire puisse être une science: c’est une « equivoca »; puis qu'il distingue deux conceptions tout-à-fait différentes de l’histoire: celle qu’en avaient les Anciens, pour qui elle était connaissance et philosophie (morale) et celle que nous en avons qui est avant tout politique; et c’est ainsi que nous en revenons

aux Romains,

pour voir confirmé le soupçon conçu qu’en fait la véritable Histoire an-

20 Zib., p. 4193. 2 Zib., p. 4215-4216.

249

cienne est l'Histoire grecque et qu'avec l'entrée (à Rome) de la politique en histoire nous sommes déjà dans l’histoire moderne: Leopardi fait état

d’une lettre de Vérus à Fronton. Le premier prie celui-ci d’écrire l’histoire de ses hauts-faits durant la guerre des Parthes et Leopardi commente:

Mi par proprio di leggere una lettera di qualche moderno scrittore a un giornalista sopra qualche sua opera. Lo stesso amor proprio [...] ... [...J in verità quella lettera (vedi anche quella di Cicerone a Lucceio) ci mostra quanto dobbiamo fidarci di storie, anche contemporanee. Ma che differenza tra gli antichi e i moderni ancor qui! Questi raccomandano: 1. delle operuccie 2. a un giornalista, 3. per un articolo; quelli 1. de’ fatti militari o civili, 2. a uomini famosi, 3. per una storia, ec. ec.

Ce texte date du 21 juin 1828 et confirme par sa date ce que nous disions de l’intérét durable de Leopardi pour l’Histoire, dans le Zibaldone. Que doit-on en retenir? L’Histoire, à l’époque moderne, a dégénéré en journalisme: on connaît de reste le mépris qui anime l’auteur de la Palinodie envers les « gazettes ». L'Histoire ancienne ne peut plus échapper à la nature humaine qui entache d’incertitude tout ce qui nous est transmis. Entre Anciens et Modernes l'opposition radicale de moralité se nuance: tous sont des hommes et les faiblesses n’ont pas changé, étant permanentes. Cependant, sur le plan d’un esthétisme zdéal les Anciens demeurent supérieurs car ils s’attachent à leur gloire et oeuvrent pour elle et pour le bien public. Remarquons en passant que les exemples donnés sont romains: les Grecs échappent à la contamination. Mais le résultat le plus clair de tout cela est que le scepticisme à l'égard de l'Histoire, fausse science, fondée sur des faits non vérifiés et invérifiables, puisqu'ils dépendent d’auto-témoignages et de témoignages humains, est renforcé: il ne faut pas « se fier » à l’histoire, même « contemporaine ». C’est une attitude de méfiance définitive qu’on pourrait presque qualifier de paranoïde. L'Histoire léopardienne, au terme de son évolution, demeure, semble-til, sentimentale: c’est celle des déclins.

Près de vingt ans avant la dernière remarque que nous avons commentée, qui date de 1828, rappelons-le, Leopardi qui fait ses premières armes de versificateur choisit avec prédilection ses sujets dans l'Histoire. Un thème revient avec insistance, comme obsessivement, celui de la mort 2 Zib., p. 4308.

250

du héros. Hector, héros vaincu à qui va la sympathie: dès 1809 donc (Leopardi a onze ans) ses prédilections vont à celui qui succombe à un échec pragmatique se doublant, en avers de médaille, d’une victoire morale. Victoire sentimentale manifestée par l'émotion ressentie par le spectateur:

celui qui émeut autrui est le vrai vainqueur; pour Leopardi, déjà, le premier dénominateur commun de l'humanité est l’affectivité; ce qu’on retrouvera plus tard aussi bien dans le Dialogo di Plotino e Porfirio que dans la « canzone » Sopra un basso rilievo ..., bien des années après. Si cela n’entre pas directement dans notre sujet, il vaut sans doute la peine cependant de faire remarquer que Leopardi (dont le principal sujet historique dans les Puerili est la mort des héros ou des personnages marquants) consacre un sonnet à la #orf tout court: on peut donc parler dès cette époque d’une obsession de la mort ou d’une pré-obsession; on sait l’ampleur que prendra le phénomène jusqu’à dominer définitivement après 1819 la psyché de l’auteur.” Parmi les morts de héros, après Hector, nous avons la mort du Christ (plus héros malheureux que personnage historique: et même archétype de qui meurt victime de sa vertu et de l’envie d'autrui), celles de Samson et de Saül: on s’aperçoit que ces trois dernières morts préparent la problématique du suicide; car chacun des trois héros sait ce qui l’attend et va au devant d’une mort que, dans une certaine mesure, il recherche « pour que tout s’accomplisse ». Dans le cas de Samson et de Saül la mort est très évidemment conçue comme le rachat d’un péché commis; pardonné, pour Samson, en échange de la mort acceptée; pour Saül, il ne semble pas y avoir de miséricorde et son geste de désespoir paraît comme une préfiguration du désespoir de Judas. Leopardi trouve dans l'événement, selon la tendance dont nous avons parlé plus haut, une leçon de morale; le dernier vers de la mort de Saül est celui-ci: Punite son dal ciel le offese e l’onte.

Après les morts des héros, celles des personnages historiques. Nous découvrons successivement (rappelons que toutes ces pièces datent des années 1809-1810) la Morte di Catone, In Caesaris sepulchrum, In mortem

Pompeii (d’où sans doute l’idée de la prochaine tragédie de Pompeo in Egitto), La morte di Cesare, autant de variations sur le même thème fu-

nèbre, étroitement lié à celui de la Liberté publique et de la vertu ro-

maine. On peut supposer que ne sont pas sans rapports avec ces préoccupations du jeune Leopardi les imprécations qu’il a dû entendre chez lui

contre le tyran Napoléon et contre les envahisseurs français. C’est en tout

23 Voir notre étude Leopardi: Lettres, Avignon 1975.

la crise de 1819, « Annales

universitaires », Faculté des

251

cas ce que peut faire penser le choix du sujet de La libertà latina difesa sulle mura del Campidoglio contre les « Galli nemici ». Pour en revenir à la mort de Caton, le sujet en est plus patriotique que chrétien et il s’agit encore de suicide mais de ce suicide politique à l’antique qui est manifestation de vertu et de grandeur et qui sera la première signification du suicide de Brutus avant que Leopardi n’y joigne une intention métaphysique ou ontologique. Pour l’instant le suicide de Caton est une manifestation d’amour pour la patrie: Dunque ... si muora, ed alla tua ruina (de Rome) Quella si unisca di Catone, e vedasi Spirar con me la libertà latina.

La mort de César est le de César est et l'Histoire

César est comme le pendant négatif de la mort de Caton. tyran et autant la mort de Caton est déplorable autant celle un sujet d’allégresse publique; cependant elle n’a rien résolu ne se laisse pas infléchir par le geste libérateur des meurtriers: Ecco morto il gran Duce, ecco i pugnali; Ma resta ancor la Libertade avvinta: E di Cocito su la nera foce Freme, presago de’ futuri mali Di Bruto la sdegnosa ombra feroce.

Remarquons en passant la belle force évocatrice de ces vers où apparaît celui qui deviendra l’emblème de notre poète: ce sont sans doute les plus beaux des Puerili. César est le fossoyeur de la liberté romaine; c’est un conquérant: on sait que Leopardi n’aime pas les conquérants; encore une fois la condamnation de César doit aussi être celle de Napoléon. Symbolisant la tyrannie, César est le personnage historique le plus présent dans les Puerili. Outre les pièces déjà citées, nous trouvons encore Caesar ad Rubiconem, Cesare vincitore — où l’on voit un César « empio », coupable d’un « fatal delitto » et détesté par le peuple —; ce qu’on retrouve dans Caesarem tyrannum fuisse rationibus probatur où il est affirmé: « Caesarem populus execravit » et dont la phrase finale est la suivante: « Tyrannus fuit ergo Caesar; tyrannum omnes agnoscant; romanae libertatis ruinae causa in Caesare clare videbitur ». Comme on le voit, la préoccupation de Leopardi est avant tout zzorale et lui fait considérer la réalité historique selon une vision manichéiste sans nuances. Cet amour de la liberté nous le retrouvons dans le poème déjà mentionné: La libertà latina difesa sulle mura del Campidoglio, qui est un prétexte à description poétique mais qui déjà

annonce le récit de la bataille dans All’Italia. C'est une pièce de vers qui 252

a ses mérites. Le ton en est héroïque et farouche; il suffit d’en citer la conclusion où le vae victis change significativement de destinataires: La vittoriosa Libertà Latina (remarquer les majuscules) Guata gli estinti corpi e fiera in volto Preme le fredde salme, e a’ vinti insulta.

Le moins qu’on puisse dire est que ce ne sont point là des sentiments idylliques! Trois personnages historiques (ou quatre) sont encore évoqués dans les Puerili, Scipion, Agrippine (s’adressant à Néron) et Clélia. Ce sont trois leçons de morale. Dans Scipione che parte da Roma, nous voyons le héros, victime de l’ingratitude bien connue des républiques, partant pour l’exil; c’est le thème de la solitude héroïque. Dans la prosopopée Agrippina a Nerone nous voyons une Agrippine vertueuse reprochant ses crimes à Néron et le menagant prophétiquement de la vengeance du ciel. La réalité historique n’est certainement pas bien observée mais la morale est sauve et ce texte témoigne, comme la mort de Saiil, d’une sorte de confiance en une justice immanente, confirmée par le témoignage des événements historiques. Enfin dans Clelia che passa il Tevere, c’est une leçon de grandeur morale individuelle qui nous est donnée, toute « romaine » comme on disait naguère. Clelia est le pendant féminin de Caton. C’est une de ces femmes fortes dont le souvenir vivra encore dans la « canzone » Nelle nozze della sorella Paolina, plus de dix ans plus tard. Leçon d’héroisme, telle qu’on peut en découvrir en lisant l’Histoire, pour apprendre à mourir: … un morir nobile più assai mi giova Che star tra vincoli d’umil ostaggio.

L’Histoire est donc une école, non pas de Politique comme chez Machiavel, mais de grandeur d’âme, de perfectionnement et de libération individuelles.

Classée dans les Puerili encore se trouve la tragédie Pompeo in Egitto, qui aurait pu tout aussi bien s’appeler La morte di Pompeo, et que Leopardi composa en 1812. Leopardi présente l’« argomento » de la pièce,

montrant qu'il s’est informé. Il donne des références: le De bello civili de César et l’Histoire romaine de Rollin. Puis, tout tranquillement, il change

faits, événements et caractères. Comment ce manque de scrupule ingénu? J'y vois deux raisons: la première est qu’il avait besoin d’héroisme pour 232

pouvoir s'identifier (tendance constante de Leopardi) à ses personnages; la seconde qu’il se trouvait justifié par l'exemple de Monaldo (que Leopardi lui-même nous dit vouloir imiter) qui en avant-propos à sa tragédie. de Montezuma cite des sources très précises qu’il ne suit pas du tout! de méme l’absence de personnages féminins qui est assez remarquable dans la pièce (pensons aux ressources dramatiques du personnage de l’épouse de Pompée dont Corneille a si bien su tirer partie) doit encore être une imitation d’un parti-pris de Monaldo qui se vante d’avoir pu écrire aussi bien comédie que tragédie sans femmes. Quoi qu’il en soit le choix du sujet est intéressant car on y retrouve cet anti-césarisme si précoce et si durable. Il faut dire d’ailleurs que le personnage de César sera plus nuancé: exigences — et révélations — de la psychologie dramatique. En outre apparaissent à côté des héros noirs et blancs qui s'opposent, mais qui restent dans la grandeur, les traîtres mus par un machiavélisme le plus souvent caricatural. L'absence totale et délibérée de respect envers l'Histoire m’apparaît suggestif; tout se passe comme si Leopardi trouvait tout naturel de faire subir à l'Histoire le traitement qu’on fait subir au Mythe, pour le faire servir à la démonstration qu’on entend donner. L'Histoire est prétexte à morale, encore une fois, selon la tendance que nous avons décelée chez Leopardi de considérer l'Histoire comme incertaine et peu fiable; sans compter l'espèce de surdité politique de Leopardi qui tici est évidente (c'est aussi une question d’Âge évidemment); mais la préoccupation politique est patente dans les sources alléguées par Leopardi lui-même. Cependant parmi les mobiles des personnages le politique n’apparaît jamais. Tout se borne de la part de Leopardi à un total et instinctif antimachiavélisme. Le personnage de Pompée est totalement antihistorique; sa mort ne correspondra pas non plus à la réalité des faits. Pompée est un personnage « titanique » que rien ne peut abattre; ce n’est plus le fugitif pourchassé, découragé et aux abois de l'Histoire. C’est un bouillant guerrier, aussi bouillant et brouillon qu’Achille, et qui a oublié toute son expérience de stratège: il mourra en combattant: en fait Leopardi avait besoin de pouvoir s’y identifier: d’où ce rajeunissement psychologique extraordinaire du personnage. Pompée est le héros tout blanc, victime du Destin, et non un ambitieux vaincu par la Fortune et le génie de son adversaire. Pompée, sans fautes et sans faiblesses: ... Pompeo Non sa che sia timor; se vinto ei cede, Colpa del Fato è sol, non di viltade. (AC

254

PASc 02)

Il est intéressant de voir apparaître si tôt ce qui demeurera jusqu’à La Ginestra Vattitude constante de Leopardi lui-même, imputant tout échec, supporté avec grandeur d’àme, au Destin mauvais, et jamais à lui-même. Mais c’est dans le personnage de Ptolémée que Leopardi trouve le mieux à s’identifier. Le jeune roi ressemble beaucoup pour le caractère au protagoniste de la première tragédie — La virtù indiana —, le jeune prince Ahmet-Schah. Mais il n’est pas plus historique que Pompée. Pour commencer Leopardi l’a vieilli: il le reconnaît lui-même. Ptolémée n’avait pas quinze ans lors de l’événement: « Questa circostanza, per maggior comodità dell’intreccio, si è preterita nella presente Tragedia ».* Par ailleurs Ptolémée fut un personnage falot et pas du tout le héros uniquement mû par le sentiment de la reconnaissance et de l’honneur qu’on nous présente ici et qui est tout prêt — sans leur demander leur avis — à ensevelir ses sujets sous les ruines de leur ville afin d’être fidèle à lui-même. Aucun sens de la responsabilité — pour ne pas dire de la réalité — politique. Il s’oppose à ses conseillers comme l’héroisme s’oppose à la prudence. Il est vrai que lesdits conseillers sont peints de bien sombres couleurs. Il n’en reste pas moins que Ptolémée est un écervelé, comme Pompée d’ailleurs. Mais voyons le portrait que nous en donne Leopardi: ... non ignora Che sia virtude, Tolomeo ...

(1,3) Sa décision est prise de soutenir coûte que coûte Pompée: ... Si pugni, e cada Vinto l’Egitto, e che perciò? si serbi La data fé, de’ benefici suoi Questa a Pompeo mercé si renda [....] ... isensi sono

Questi di Tolomeo ...

(1369);

Quand Théodote défend la paix (ce qui est la position-même adoptée par Leopardi dans son Orazione in occasione della liberazione del Piceno), Ptolémée rétorque: Si pugnerà, vinca Alessandria o cada Vittima infausta del roman tiranno Sol me vedrà la turba ostile al suo Insano empio furor far fronte immoto, Me sol pugnar, me sol cadere estinto ... (17) 24 V. LEOPARDI,

ed. cit., vol. I, p. 558.

255

On aura reconnu les accents de All’Italia. À noter l’égoisme héroïque de Ptolémée qui voit bien Alexandrie ensevelie sous ses ruines mais qui considère que la mort des autres ne compte pas et qu’il sera « seul » à mourir! Il est vrai que le peuple tout entier est lâche (jugement qui rappelle celui

porté plus tard sur les Italiens « oziosi »). Par ailleurs les sentiments de Ptolémée, ce qui est plutôt curieux pour un monarque divin oriental, sont républicains. En attendant Ptolémée ne se rendra pas: Cedi, o Prence, al destino ...

(II, 3)

lui conseille Fulvio, ambassadeur de César. Paroles malencontreuses:

c’est

justement ce que le « titanisme » de Ptolémée ne consent pas. Il s’agit d’une question de principe; les tyrans doivent disparaître: ... tranquillo il mondo Fia solo allor che d’equitade i dritti Rispettati saran ...

(1165):

Ces mots sont les lointains avant-coureurs de La ginestra. En attendant: ... immoto

Tolomeo

resterà ...

On voit que s’opposent les principes à l’efficacité de la politique. Les traîtres savent « simuler et dissimuler »: « Celare è d’uopo » dit Théodote. Quant à l’autre conseiller, Achilla, qui, comme tout traître qui se respecte,

est un ambitieux qui médite de s’emparer du trône, il est porteur d’une ambiguïté fort bien formulée par l’auteur. Achilla, seul, se propose de livrer Pompée et de s’assurer le trône: Già tutto all’Egizian pace promette; Tutto tranquilla libertade a questa Città regale assicurar vegg’io ... (TG).

En bonne pratique politique, on ne saurait lui donner tort et il est bien évident que si le choix leur en était offert les Egyptiens préfèreraient la paix et la prospérité sous Achilla à la mort, sous les pierres de leurs murailles, avec Ptolémée. Cependant la question demeure au niveau des rapports entre morale et politique. Habilement Leopardi fait reprendre par Ptolémée les mots-mêmes employés par Achilla mais dans un sens diamétralement opposé: 256

È questo, Achilla, il dì, che pace a Roma .E libertà, che al vinto Eroe guerriero E gloria ridonar deve e trionfo

(II, 7).

L’ambiguité que recouvrent les mots est heureusement mise en lumière par cette trouvaille de l’auteur. Quant à Ptolémée, il demeure

ferme dans

son propos: ... Cada il tiranno O liberi moriam …

Encore un coup: étranges paroles dans la bouche d’un monarque absolu; lequel ajoute: A morir vado o delle schiere avverse A trionfar …

(III, 3)

Il est certain que cette pièce est schématique et théorique; mais elle est d’autant plus simple: c’est « ou bien ... ou bien ... ». Le Destin (la Fortune) s’acharne contre la Vertu: cette idée est promise à la pérennité chez Leopardi et se retrouve dans le premier « pensiero »; avec cette aggravation — d’ailleurs implicite dans cette tragédie (cf. le comportement des traîtres) — que les hommes conspirent avec le Destin pour abattre l’homme de bien. Teofane explique le succès de César: In ciel è scritto; al Dittator romano

Il Campidoglio ceda e il mondo intero. Egli sicuro nel favor del fato Ogni periglio sprezza ...

(CILSD

Chez le Leopardi de quatorze ans demeurent assurément inconscientes les implications de cette phrase où il est dit — et l’issue du conflit confirmera la vérité de la chose — que le ciel et le destin et les institutions (la société) protègent et favorisent les scélérats. Aux vertueux il ne reste que la mort et de laisser un grand exemple. Pompée meurt au combat et Ptolémée qui y disparaîtra lui aussi déclare avant d’aller au devant de la mort: … No, Tolomeo Mentir non sa, viva in Egitto io lascio La fede, la virtù... (11107).

257 17

Bientôt la vertu mourra avec Brutus et l’exemple sera vain; illusion moins durable que le cadavre du héros que bêtes et intempéries confondront à la poussière sans mémoire de la Terre.

Nous avons vu comment l’abord de l'Histoire par le très jeune Leopardi se fait selon une perspective de morale sentimentale plutôt pessimiste. Chacun se sera rendu compte qu’il y a là en germe une attitude qui sera celle de toutes les Canzoni patriottiche, depuis l'enthousiasme d’abnégation de Al’Italia, jusqu’au désenchantement aride et définitif de Bruto minore.

Il sera intéressant de voir ce qu’il en est du Leopardi pré-poétique des Essais. Disons aussitôt qu’on en retire une idée bien différente. Tout se passe comme si le Leopardi qui dans les Puerili laisse transparaître inconsciemment ses tendances profondes au pessimisme, dans les Essais cherchait consciemment ou du moins avec volontarisme de bâtir un optimisme scientifico-historique. Tentons d’éclairer notre affirmation. Il faut voir tout d’abord que la succession des compositions est la suivante:

en premier (1813) la Storia dell’ Astronomia

(« quasi divina scien-

za »), ensuite le Saggio sugli errori popolari degli antichi (1814), puis en 1815, l’Orazione in occasione della liberazione del Piceno, l'oeuvre la plus « réactionnaire » de Leopardi. Ce sont trois oeuvres à caractère historique; ce qui ne peut nous laisser indifférents. Avec la Storia dell’Astronomia, Leopardi fait oeuvre d’historien. Ses lectures préliminaires sont infinies et d’ordre proprement historiques. D'autre part il y exprime un véritable culte du progrès, ce qui est un sûr indice d’optimisme. En effet le temps de composition des oeuvres cidessus mentionnées, est celui dont il a écrit: La somma

felicità possibile dell’uomo

in questo mondo,

è quando

egli

vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avve-

nire molto migliore [...]. Questo divino stato l’ho provato io di sedici e diciassette anni [...], trovandomi

quietamente

occupato negli studi [...]. E non

lo proverò mai più, perché questa tale speranza che sola può render l’uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di quella tale età o almeno, esperienza (Z:b., p. 76).

Retenons que Leopardi, quand il écrivait les oeuvres mentionnées, était heureux. L’Astronomie, nous dit-il, est la plus « sublime », la plus « noble », la plus évoluée des sciences; elle est « poco meno che divina »; elle est comme une preuve de l’existence de Dieu. En plus elle est poétique. Dans 258

la présentation qu’en fait Leopardi il y a une sorte d'histoire des mythes et de l’esprit religieux; comme lorsqu'il parle du soleil et de la lune. C’est alors qu’intervient une digression sous forme d’hommage à la Religion assimilée à la Raison: Catherine de Sienne ne parle pas autrement dans le Dialogo. Cette histoire de l’Astronomie est une histoire émerveillée, mais lucide, du progrès. L’astronomie est la science des lumières. La science est une source de bienfaits pour l’Humanité. La science est l’ennemi de la superstition et l’alliée de la Religion. Leopardi en arrive à la conception d’un héroïsme scientifique, qui continue, pour l’époque moderne, l’héroïsme guerrier des premières compositions. Il est intéressant de voir s’établir cette équivalence entre le savant et le héros; qui est sans doute à l’origine des années de travail « matto e disperatissimo ». Voici ce qu’écrit Leopardi: « La più interessante intrapresa di Eratostene fu quella di misurare la circonferenza della terra. L’uomo non può non riconoscere in essa un ardire gerzeroso, un ingegno sublime, e delle difficoltà a prima vista insormontabili ».? Aïnsi, à ce moment-là, le monde ne devient pas plus petit parce qu'il se voit défini sur le papier; la science est un instrument miraculeux de libération de l’homme en extension: « Volò l’ingegno attraverso de’ precipizi, dei mari, dei monti, e poté l’uomo misurare il mondo, senza togliersi dal suo gabinetto ». On voit quelle compensation inespérée Leopardi apergoit dans la science. Copernic, seul con-

tre tous, est une autre figure de héros.* Le héros scientifique semble acquérir une supériorité sur le héros guerrier: il est dyramique dans la connaissance. Ainsi l’Astronomie (la science) possède une grande valeur morale: préoccupation permanente de Leopardi. L'auteur procède un peu plus loin ? à un éloge inattendu sous la plume de l’auteur futur de la Palinodia (qui porte donc bien son nom) des explorations, de la science et de la presse, et même du commerce: « Così i popoli escono dalla loro oscurità [...] si comunicano

scambievolmente

i prodotti delle loro terre, ed

i frutti delle loro fatiche. La società acquista un nuovo vigore, e questi beni sì grandi sono frutto della osservazione di una stella ».* Par dessus le marché Leopardi fait référence à la Bible pour prôner ces voyages bénéfiques! on comprend le changement d’opinion. Pour Leopardi composant la Storia dell'Astronomia, « le scienze han bisogno dell’uomo, e l’uomo ha bisogno delle scienze ».? S’ensuit un éloge lyrique du soleil ? qui dans 25 Ibid., p. 640. C’est nous 26 Ibid., p. 672. 27 Ibid., p. 692. 28 Ibid., p. 739. CIT RA Jr EE

qui soulignons, comme

généralement.

30 Ibid., p. 732.

259

les Canti sera supplanté par la lune. Un tel éloge est celui d’un monde qu’éclaire de plus en plus la lumière d’une religion et d’un Dieu de raison. L'Histoire — où d’aucuns ont vu la Providence en acte — est alors pour Leopardi celle du progrès humain à la cause duquel il est héroïque de consacrer sa vie. La méme position se retrouve dans le Saggio sugli errori popolari. La science délivre de la superstition et de la crainte et Leopardi voit pour elle un avenir illimité. Elle est une école d’audace et de courage; elle est une terre vierge et sans confins. Il est curieux de voir Leopardi traiter avec froideur et mépris des « fables antiques » à la valeur symbolique et poétique desquelles il semble demeurer à cette époque parfaitement indifférent. Il fait preuve d'esprit scientifique et refuse, sans examen, les autorités et la tradition. Il distingue entre la Religion pure et la religion corrompue qui est superstition. Le Leopardi pré-poétique demeure tout-à-fait insensible à la poésie de la légende du phénix; à propos de quoi il ironise pesamment. L'ouvrage — qui mériterait un examen plus détaillé — se termine par un hommage fervent à la Religion, qui est une sorte de prière: Religione amabilissima! è pur dolce poter terminare col parlare di te cid che si è cominciato per fare qualche bene a quelli che tu benefichi tutto giorno [...] Comparendo

nella notte dell’ignoranza, tu hai fulminato l’errore; tu hai

assicurata alla ragione (exactement le contraire e l’errore non vivrà mai inseguito dal pastore, e

e alla verità una sede che non perderanno giammai de ce qui est dit dans La ginestra). Tu vivrai sempre, teco [...]. L'errore fuggirà come il lupo della montagna la tua mano ci condurrà alla salvezza.

Comme on a pu le voir, la religion se trouve à cette époque en équation avec la science et avec l’Histoire; car l’histoire se présente alors à Leopardi comme avant tout histoire des progrès de l’homme, c’est-à-dire, histoire des sciences. On assiste à l’avatar inattendu de l’héroïsme scientifique. En France, bientôt après, on parlera de la compensation romantique à l’action par l’écriture et la poésie. Leopardi, qui y arrivera quand il deviendra poète, avant de devenir « philosophe » est passé par cette phase de l’historien; car il est historien dans tout ce qu’il aborde alors et même la philologie — histoire de la critique. L’Orazione in occasione della liberazione del Piceno *? marque le point culminant de cette adhésion de la part de Leopardi à un monde dominé par la Raison divine, en chemin vers un progrès providentiel, émergeant

31 Ibid., p. 868. 32 Ibid., p. 869. 260

peu à peu des brumes de l’ignorance, éclairé par les lumières toujours plus vives de la connaissance, de l’Histoire et de la science; un monde opti-

miste; en progrès de connaissance mais en totale immobilité sociale et politique. C’est le moment, semble-t-il, du triomphe de Monaldo pédagogue; et pourtant … Giacomo n’a-t-il pas été choisir, comme occasion de ses élans d’enthousiasme, l’histoire éminemment mobile de l’Astronomie?

Alors que Monaldo appelait de ces voeux celui qui, remettant Galilée à sa place, rendrait à la Terre son éminente dignité d’immobilité. Il n'empêche que Monaldo a dû lire avec exaltation le curieux morceau de prose, qui veut être enflammé, qu'est cette Orazione.

L’intention de Leopardi est déjà (comme pour le Simonide de AI’Italia) d’être le porte-parole ou l’interprète ou même le prophète et la conscience morale de la collectivité. Il rêve de cette haute position de guide moral; rêve dans lequel entre une part notable de noble paranoia: Gli antichi, écrit-il, soleano dare alla loro patria dei consigli (il ne me semble pas, cependant que ce fût la coutume d’un éphèbe de dix-sept ans), o felicitarla di qualche successo [...] col mezzo di arringhe. [...]. Volli imitarli [...] spero di trovare

negl’italiani degli ateniesi e dei veri successori

dei ro-

mani.

En dehors de son emphase, cette déclaration nous éclaire sur ce que Leopardi recherche dans l’Histoire; c’est-à-dire des exemples de grandeur d’àme et ces leçons de magnanimité dont nous avons déjà abondamment parlé; le tout dans une direction nietzschéenne de l’exaltation individuelle. Cependant Leopardi entre immédiatement en contradiction avec lui-méme. Il semble manquer totalement de sens historique lorsqu’il parle de l’intérêt qu’aurait l’Italie à rester divisée: il y va de sa tranquillité, de ce qu'il appelle la paix. Il recommande la prudence (vertu non seulement cardinale mais même théologale selon Monaldo): l’héroïsme, c’était pour hier. On sait que les contradictions, en psychologie, ne sont qu’apparentes. En fait Leopardi qui s’est déplacé sur l’héroïsme du savant (de l’historien, de l’érudit) aspire à cette tranquillité de l’occupation dont il nous a parlé en attendant avec certitude et confiance un avenir meilleur: ce qui est exactement la pensée implicite des idéologies progressistes capitalistes au XIXème, socialistes au XXème — étrangement immobilistes du point de vue social et politique; tandis que les progrès de la science (ou de la technique?) poursuivent leur chemin prometteur et anesthésiant. Quid d’un éventuel progrès moral et culturel? Pour l'instant, dans son optimisme passager, Leopardi préfère la paix (la tranquillité) à l’indépendance: ce qui est en contradiction flagrante avec ce qui sera exprimé dans les deux premières Canzoni patriottiche. Entretemps il y aura eu la conversion poétique et la rencontre avec Giordani. Ce qui compte avant tout, c'est la « felicità ». 261

Ce sont les enseignements de Monaldo: relisons l’Autobiografia de ce dernier. En fait, on voit resurgir une des tendances profondes de Giacomo: sentimental, il veut être aimé. Or la France est exécrée, par la faute de sa

politique impérialiste. Il faut donc choisir une politique inverse. Et c’est ainsi qu’on assiste à cette condamnation de l'impérialisme — et donc de la grandeur — de Rome: Sì, noi fummo grandi una volta [...]. Tutto si sottomise al nostro impero [...]. Fummo per questo felici? [...]. Terribili a tutto il mondo, noi eravamo,

ciò che ora è la Francia, l’oggetto della esecrazione di tutti i popoli [...] Ci basti. Ebbimo ancor noi il nome di tiranni, fummo ancor noi tinti di sangue. [...] Italiani! rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido. [...]. Una nazione non deve esitare nella scelta della sua vera felicità.*

Voici donc un Leopardi combattant de la paix qui invite pour ce programme — historiquement de démission; méme si on peut idéologiquement le considérer comme humaniste — ses concitoyens à « risvegliare il (loro) entusiasmo »! Cependant, quelques paragraphes plus loin, on trouve un passage décrivant et réprouvant les spoliations exercées par la France au détriment des trésors artistiques de l’Italie; * qui est directement à l’origine de ce qu’on lit à ce sujet dans les Canzoni. La France est longuement condamnée et Leopardi, fort de son auto-critique, réitère: « Noi fummo un tempo più di loro (les Français) potenti, ma non esitiamo a confessare che fummo dei tiranni ».® C’est une chose qu’il ne dira plus dans les Canti. Leopardi, à ce moment-charnière de son évolution, n’en est pas à une

contradiction près. Après avoir rappelé que l’Europe toute entière, en vertu du principe de l’équilibre et du sfatu-quo défendra la « liberté » italienne, il se met à exhorter ses compatriotes à combattre: Lanciamoci con ardore in mezzo alle falangi nemiche, combattiamo per la pace e la felicità (encore) della patria [...]. Benché governati da capi diversi, noi siamo animati da uno stesso entusiasmo; una è la causa che abbiamo a difendere. [...]. Noi verremo fra voi (Frangais) colla spada alla mano, noi combat-

teremo finché non avremo assicurato una pace solida alla nostra patria, e coll’abbandonarvi ricupereremo quella valore e quello dell’Europa ci avranno

33 Ibid., p. 873. 34 Ibid., p. 874. 35 Ibid., p. 874.

36 Ibid., p. 875. 262

un riposo stabile alle nostre famiglie, poi vi abbandoneremo per sempre. Solo felicità che ci avete tolta e che il nostro ridonata.*

Ces accents martiaux pour assurer la somnolence italienne sont extrémement paradoxaux. Il est vrai que Leopardi changera bientôt d’avis mais jamais fondamentalement cependant; que ce soit par optimisme, comme alors; ou par pessimisme, comme plus tard; persuadé que tout mouvement est nuisible, jamais il ne quittera la conviction que le malheur de l’homme vient d’avoir voulu « changer de place ».

La parenthèse optimiste ne durera guère; bientôt Leopardi, craignant pour sa vie, deviendra poète: en 1816, il écrira l’Apressamento della morte, et seul l’amour pourra faire revenir en lui quelque espérance: la croyance au progrès humain dynamique est bien morte; et même dans La ginestra je ne vois pas qu'il y ait autre chose qu’un programme de défense passive. L’Oraison sur laquelle nous nous sommes attardé avait un prétexte contemporain, mais, comme

on a pu voir, on passait vite aux

comparaisons avec l’antiquité. D’autres oeuvres de la même époque attestent le goût de Leopardi — alors — pour l'Histoire, sous diverses formes. Les Notizie storiche e geografiche sulla città e chiesa arcivescovile di Damiata sont avant tout une dissertation historique.” Le Discorso della fama di Orazio presso gli antichi présente un intérêt majeur: c’est un bel exemple de « mise au point » de la question. Il s’agit d’une Histoire de la critique et Leopardi y apporte le sens solide de l’histoire qu’on a remarqué.* Plus intéressant encore est le Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone.* Tout le début est plein de références historiques supposant d’abondantes lectures. Leopardi apporte à la critique des sources une méthode historique très au point; de nombreuses notes sont d’information historique.“ Et toujours l’histoire est étudiée pour servir à formuler des remarques morales. Une annotation me paraît particulièrement significative, car nous retrouverons les mêmes sentiments exprimés par Leopardi au moment de sa fugue manquée de 1819:* Frontone fu uomo dabbene. La sua eloquenza fu somma, e fu un nulla rispetto alla sua probità. Io ricordo qui con piacere quella bella massima di La Rochefoucald:

« Nessuno merita di esser lodato come buono, se non ha forza bastante

37 Ibid., p. 883. Ce texte date de 1816. 38 Ibid., p. 890. Date de la fin de 1816 et fut publié en décembre de cette même année dans le « Spettatore italiano ». 39 Ibid., p. 896. Toujours de 1816. 4 V. par exemple p. 902, n. 1. #MCf notre arf ci, n. 23.

263

per esser tristo ». Frontone poté esser malvagio, e fu onestissimo [...]. Frontone scelse la virtù con piena cognizione, e la esercitò sempre senza pentirsi mal della sua scelta.*?

Puis Leopardi énumère les qualités de Fronton qui aimait les personnes « tendres, de bon coeur »; il savait que la vertu est rare; et qu’en général la nature humaine est mauvaise et ne change pas au cours des siècles. Il fut philosophe; incapable de flatter; parlant sans détours; fier et sincère.* Qui ne voit que Leopardi reconnaît en Fronton son semblable; et que dans ces qualités il voit comme le reflet au miroir des siennes propres? Ainsi se produit à nouveau le phénomène d'identification: «To confesso che non solo ammiro, ma 40

ancora sinceramente il #i0 Frontone ».“ Com-

ment mieux dire que l’intérét de Leopardi est affectif plus que scientifique? Ainsi toujours l’Histoire est cette réserve où il puise pour y retrouver compagnons, exemples, situations qui puissent servir à le faire se sentir moins isolé: Leopardi cherche dans l'Histoire des images de lui-même, héroïques, et des situations qu’il peut s’imaginer vivre; alors qu’il est inclus réellement dans un monde minuscule et figé. En lui vivant l'espoir, comme il nous l’a dit, d’un « avenir bien meilleur », il s’exerce par l’ima-

gination historique à entrer dans une vie publique, satisfait d’avoir le temps et la quiétude pour s’y préparer. On sait l’immense désillusion qui sera la sienne quand il devra se rendre compte qu’il n’aura jamais d’autre vie que cachée, que #on-bhistorique.

Un dernier témoignage de l'intérêt historique de Leopardi, nous le trouvons dans son activité de traducteur. Sans parler des traductions de l'Odyssée, de l’Enéide, du Livre de Job, qui concernent les héros plus que les personnages historiques (mais nous avons vu qu’il est difficile de séparer complètement les deux choses), nous avons les Frammenti di una traduzione in volgare dell’impresa di Ciro descritta da Senofonte, déja signalés, et celle des Frammenti de Denys d’Halicarnasse. Encore en 1826 Leopardi traduira un Discours funèbre de Pléthon; mais cela nous éloigne de l’Histoire ancienne.

4 V. LEOPARDI, ed. cit., vol. I, p. 903. 43 Ibid. 4 Ibid. 45 Voir à ce propos notre étude: Leopardi et la traduction (cf. n. 13) et la référence au remarquable article de Emilio Bigi: Leopardi traduttore dei classici.

264

*

*

*

C'est dans les Canti que la sensibilité historique de Leopardi se dévoilera le plus clairement. C’est là que nous découvrirons mieux ce que signifie pour lui l’Histoire, comment il la ressent, quelle valeur symbolique il y attache et à quels sentiments profonds elle peut servir de support. Il est tout-à-fait remarquable de voir que l'Histoire, surtout ancienne, qui est un élément toujours présent dans les Canzoni, disparaît presque totalement dans les Idilli; pour reparaître, sous une forme différente, dans la « nuova lirica ». On la retrouve en effet également dans les Paralipomeni que nous examinerons, pour d’évidentes raisons de chronologie et de similitude de pensée, en méme temps que La ginestra. Auparavant faisons remarquer que l’intérét actif (ne parlons pas ici des quelques remarques du Zibaldone) de Leopardi pour l’Histoire, composition de traités ou traductions, semble s’évanouir, à peu près complètement, pendant

la période du silence poétique, jusqu’au réveil affectif du printemps de Pise. De là à voir corroboré ce que nous pensons de l'Histoire, un temps liée à un optimisme en sursis et volontariste ... Les Canzoni sont dominées par l’obsession de la décadence de Rome (et accessoirement

d’autres civilisations). La grandeur romaine

se trouve

en opposition avec l’asservissement et la veulerie du temps présent. Dans All’Italia il est curieux de voir comme l'évocation de Rome déchue est allégorique et abstraite; tandis que celle de la bataille des Thermopyles est descriptive. Il est vrai que le personnage important est Simonide-Leopardi: le « vates ». L'Histoire est évoquée pour y trouver les exemples destinés à secouer hors de leur « ferreo sopor » les Italiens avilis. On retrouve la même idée dans la « canzone » à Dante. L'Histoire a une valeur exemplaire; on voit encore la différence fondamentale que nous avons déjà relevée entre la conception machiavélienne qui dans l’histoire trouve l’enseignement d’un savoir-faire politique, et celle de Leopardi qui y voit le règne des illusions vivantes et une école d’amour de la patrie et d’héroisme gratuit. On remarquera le vocabulaire qui veut fouetter: « scherno, vergogna, sdegnare, obbrobrio, basso loco, scorno, orrore, ancella, schiava » etc., aussi bien dans la première que dans la seconde « canzone ». Par contraste avec les temps antiques, dans les temps modernes, « tempi perversi », les Italiens meurent en mercenaires loin de leur patrie. La Canzone ad Angelo Mai marque, on le sait, et Leopardi l’a dit lui-même, une grande évolution pour ne pas dire une cassure par rapport au programme assez ingénu des deux premières « canzoni ». Si nous trouvons la même condamnation du « secol morto », la méme constatation que la vertu a fui l’Italie, que les contemporains sont indignes et vils et méprisables, on passe — et c’est important — de l’évocation des guerriers (Simonide n’étant 265

que leur chantre, jaloux d’ailleurs de leur mort glorieuse) à celle des grands écrivains #odernes et non plus antiques. On fait encore allusion a Athènes et à Rome mais c’est pour leur gloire littéraire. Leopardi a renoncé à l'idéal héroïque guerrier; de l'idéal héroïque savant peut-être reste-t-il l'évocation de Christophe Colomb; en tout cas la seule gloire possible actuellement pour l’Italie est la gloire artistique et l’on aboutit à l’exaltation d’un heroïsme artistique qui n’est pas sans valeur civique (Dante, Pétrarque, Alfieri). La référence à l'Antiquité est maintenue mais pour les lettres: « … risveglia i morti / Poi che dormono i vivi ». L’art reste encore un refuge et l’asile des illusions; ou du moins il le restait, car: « ... or

che resta? or poi che il verde / è spogliato alle cose? ». Dans les trois dernières Canzoni patriottiche le ton devient de plus en plus amer et désespéré. Dans la « canzone » à Paolina, le désespoir est encore romainement,

stoîquement contrôlé. Certes on y trouve toujours

la condamnation du siècle, le mépris des contemporains. Il y a le rappel historique de la matrone romaine et la comparaison implicite, à défaveur des modernes, des femmes antiques et des actuelles. Mais dans ce siècle quel choix se propose à la future mère? d’avoir des enfants veules ou malheureux. Il vaut mieux les choisir malheureux et dignes. L’Antiquité sert toujours d'exemple mais cette fois pour un comportement qui passe insensiblement du domaine civique au domaine de la morale personnelle. Leopardi se raidit (la débâcle émotionnelle n’est pas loin en arrière — 1819 —, l’insensibilité non plus, devant lui): il fait référence aux cités

guerrières, mais surtout stoiques, Rome et Sparte. Athènes a disparu. Songeons à la belle image du jeune guerrier spartiate rapporté mort, sut son bouclier, à sa jeune femme éplorée. Du domaine public la mort passe au domaine privé, affectif. De Rome, Leopardi évoque la figure de Virginia, hypostase de la zz0rt jeune, mais aussi femme forte et héroïque, mais désespérée. Ce n’est plus l’héroïsme sans penser du Ptolémée de Pompeo in Egitto ou des jeunes Spartiates aux Thermopyles: c’est déjà l’héroïsme pour soi et sans issue du titanisme. La « canzone » au Vincitore, cette fois encore, cherche un exemple dans l’Antiquité: et ce n’est plus un exemple directement moral, c’est un exemple physique. Il faudra attendre A Silvia pour qu’à nouveau, et avec quelle discrétion, Leopardi soupire sur la ruine de son corps (même si par ailleurs il a pu s’en confier et s’en plaindre). Cette fois, c’est l'éducation sportive des Anciens qui est proposée en exemple comme prologue obligé à la valeur guerrière; on pourrait, méchamment, imaginer qu’on ait pris au mot Leopardi et qu’on lui ait donné des armes: il serait tombé bien vite. Leopardi, après les Grecs, se souvient peut-être de la « casa giocosa »

de Vittorino da Feltre. Que de nostalgie dans l’image des « atleti ignudi »

et de leur force et de leur beauté corporelles. Allié au nouveau thème se 266

retrouve l’habituel de la décadence de Rome;

comme

si — et d’ailleurs

c'est vrai — la force physique du citoyen était garante de la permanence de la cité: « Tempo forse verrà ch’alle ruine / delle italiche moli / insultino gli armenti ...» etc. Thème qu’on retrouvera dans Bruto minore, mais aussi, bien plus tard, dans la Ginestra. Une évolution cependant commence à se manifester: dans l’Histoire Leopardi ne semble plus trouver des exemples pour hier vivre mais seulement pour hier mourir; ce n’est plus la gloire qu’on ambitionne d’obtenir; c’est la dignité à maintenir: « Nostra vita a che val? solo a spregiarla: / beata allor che ne’ perigli avvolta, / se stessa obblia ... ». On connaît ce thème qu’on retrouve ailleurs; mais quelle profondeur de désenchantement! Leopardi ne croit plus à la gloire, à l'honneur, à l’amour de la patrie: tous ces mots sont vidés de leur sens; dans l’action on ne trouve plus une raison de vivre mais une occasion de ne pas se laisser mourir. Le divertissement a remplacé l’enthousiasme. Bruto minore marque l’étape finale et logique de cette évolution: le suicide désespéré. Après Bruto minore, et comme lui par un suicide (le sien: affectif), Leopardi va s'évader pour longtemps de l'Histoire qui, elle aussi, l’aura déçu, n’ayant su lui apporter une règle de vie. Désormais PHistoire ne sera plus une réserve d’exemples: le dernier, c’est Brutus et

Brutus se suicide. Le thème de la décadence de Rome est toujours présent mais il se nuance subtilement; car la décadence n’est plus seulement la conséquence de l’aveulissement des citoyens; c’est aussi la décadencemême qui devient la cause du renoncement à la vertu. Au manichéisme de naguère se substitue l’idée bouleversante de l’interdépendance, en forme de cercle vicieux — et non de dynamique dialectique — des facteurs. Le héros se désavoue. Il va jusqu’à maudire la patrie devenue indigne en un mouvement imprécatoire; il appelle les Barbares à la détruire. « Stolta virtù »: le cri profanateur détruit l’idole du soi, celle de la patrie, et celle de la divinité, Si un seul élément fondamental vient à céder, tout l’édifice s'écroule et la ruine de Rome (et des civilisations) c’est la vérité détruisant

le mensonge. Rome toute entière n’est qu’une illusion: la vérité c’est sa destruction et son héritage évanoui que hantent les bêtes sauvages. Nous sommes

les « schiavi di morte »; soumis au « destino » et à la « neces-

sità ». L'Histoire n’est plus la Providence en acte, mais un théâtre sans substance. L’espérance est morte; seules les « belve » sont « fortunate ». Brutus meurt, pour rien, dans une guerre civile; mais cela encore est iné-

vitable: c’est la loi de l’espèce et toute vie en société est une guerre civile (on reconnaît Rousseau).

« Roma

antica ruina » et ce n’est la faute de

personne; sinon de notre condition sur laquelle enfin nous ouvrons les yeux. Quand l’homme déchoit de sa suprême dignité d’être doté de librearbitre pour reconnaître qu’il est le jouet du Destin et de ses illusions, 267

tout précipite avec lui; à commencer par les civilisations qui ne sont jamais que les projections matérielles de son aveuglement et de ses illusions. Quand nous avons compris que: « abbietta parte / siam delle cose ... » il ne reste qu’à souhaiter le moment où: « sotto barbaro piede / rintronerà questa solinga sede ». L’ultime leçon, l’ultime exemple de l’Histoire consacrent la vérité aveuglante du désespoir. On comprend la frénésie de la conclusion de Bruto minore, qui souhaite que son corps disparaisse et que même: « ... l'aura il nome e la memoria accoglia »; autrement dit, Brutus demande que l'Histoire, cette chronique illusoire de notre aveugle vanité, l’oublie: homme transubstantié par la vérité, il n’y a plus de place. Bruto minore est bien le tournant révolutionnaire, marquant dans les Canti la consommation de l’inversion des valeurs et de cette conversion au mal dont Leopardi (caractère semblable à celui de Fronton) nous me-

naçait. Cependant après l’ébranlement terrible de cette révélation Leopardi va chercher un refuge, hors de l'Histoire. Dans le paradis mythique de la mythologie « vivante », dans la non-histoire, dans le temps immuable, au milieu de toutes ces fables antiques condamnées jadis au nom de

la science et de la Religion. L'Histoire a révélé son vrai visage: derrière son masque de grandeur, elle cache une tête de mort. Dans la Primavera Leopardi songe nostalgiquement à un monde sans Histoire. Mais ce n’est qu'un rêve et il le sait fort bien. Une étape plus logique le fait essayer de reconstituer une Histoire mythique de l'Humanité, dans l’Inno ai Patriarchi (comme il le fera en prose dans la première « operetta morale », Storia del genere umano). Il semble chercher le carrefour où la race hu-

maine s’est trompée de chemin. Et c’est la condamnation des villes, fondées par Caïn; c’est d’elles que naissent les guerres, devenues soudain insensées aux yeux de Leopardi déssillés; ces guerres, naguère chantées comme occasion de mort glorieuse et enviable. A présent Leopardi exalte la civilisation nomade et pastorale, et plus encore le jardin qu’était la terre « senza gente ». Au temps mythique des patriarches, l’amour pouvait exister; témoin le patient Jacob. De nos jours seul peut exister le bonheur négatif des sauvages californiens qui n’ont ni demeures, ni outils, ni armes, ni même de langage: cet autre et insidieux instrument de mort. L'Histoire a disparu et avec elle le bruit et les paroles. Plus d’éloquence, le silence. Celui-ci va peu à peu s’instaurer dans les Canti et dans la vie du poète. Dans L’ultimo canto di Saffo, il n’y a plus d’Histoire; cette affaire d’howmes. C'est une femme (à laquelle s’identifie comme d’habitude Leopardi) qui parle de sa souffrance sentimentale. Leopardi se replie sur lui-méme. Il revit le Primo amore; il se décrit — et ce processus de lent désintérét — dans le Passero solitario (et avec d’autant plus de lucidité s’il a été composé tardivement). Dans L'infinito passe un vague — et immense —

268

écho de l’Histoire, devenue lointaine et « morte»: seule réalité, peutêtre, la « saison » « presente / e viva, e il suon di lei ... »? Même pas: seuls demeurent enviables la submersion et le naufrage, après l’effroi d’avoir vu la vérité de notre néant, dans l’immensité tiède et stupéfaite de la non-vie. Un dernier sursaut violent et pathétique et qui a déconcerté bien des commentateurs se trouve dans La sera del dì di festa. Que viennent faire là, s’est-on demandé, Rome et les « peuples antiques »? Citons ce passage: ...Or dov'è il suono Di que’ popoli antichi? or dov'è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona.

On aura remarqué la dominante sonore de ces vers; et même l’intensité de ces fanfares ressuscitées; en opposition au silence abandonné du moment présent. Le passé faisait du bruit, était vivant, habité d’illusions et

de gloires: mais l'Histoire est morte: « se ne porta il tempo / ogni umano accidente ». Comment Leopardi arrive-t-il à cette méditation? Dans un état d’extréme agitation émotionnelle; il a une crise de larmes, pour ne pas dire de nerfs: ... Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo ...

Et ce n’est pas une exagération poétique; mais bien la transcription en termes conventionnels de la plus violente des crises de désespoir: ... fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia ...

Comment

ne pas voir — à présent que nous avons suivi dans toute son

évolution la relation entre Leopardi et l’Histoire — la signification intime et toute personnelle de ce gouffre insondable qu’est la découverte affective de la vanité de l’Histoire, décor de carton-pâte comme dans les films à péplum? Et pourtant Leopardi y avait ambitionné un grand rôle ... Quelle hauteur de chute! Leopardi était à lui seul, au moment de l’optimisme, toute l’Histoire, avec ses monuments, ses foules et ses héros: il était dans

l'Histoire et il était l'Histoire. Et maintenant ses possessions infinies dans 269

l’espace et le temps bruyants et vivants de l’Humain, arrachées, réduites en

poudre, ont fait place aux silences « surhumains » de l'infini spatial et temporel du Cosmos où rien ne respire, où tout est glacé et pour qui la vie sur la terre n’est qu’une minime erreur dans la solennelle révolution d’un Univers qui n’a pas à choisir son chemin ni à bâtir des civilisations de sable sur ce qui n’est qu’un grain de sable. Jusqu’à la « nuova lirica » l'Histoire disparaît des Canti: c’est un endroit trop douloureux.

Avec Alla luna on passe de la mémoire collective de l'Histoire à la mémoire

individuelle du souvenir;

lequel, en ce premier moment

(cela

changera à l’époque des Ricordanze) est doux et consolateur. Il sogno est encore un souvenir. Puis c’est La vita solitaria, et la retraite est définitive et totale. Leopardi se retire hors de l’histoire et hors du souvenir: il renonce à toute vie publique ou privée. Il ne lui importe plus rien que de ne pas souffrir; et pour cela de se rendre insensible, indifférent, silencieux et immobile. S’établit le silence poétique. Celui de l’agir et du sentir. Consalvo (ne considérons pas sa date, mais sa place), c’est toujours Leopardi se préoccupant de lui-méme; mais la sensibilité est ressuscitée. Alla sua donna, c’est encore Leopardi se préoccupant de lui-même, mais détaché et dans l’expectative théorique d’une rencontre impossible. L’Epître a Pepoli est une poésie de circonstance: y règne le thème de l'ennui et de l’inutilité de toute action et même (aggravation) de toute activité: attendons la mort: l'Histoire n’a pas de sens: on sait déjà qu’elle n’existe pas. Avec le Risorgimento paraît une grande nouveauté: la sensibilité de nouveau est vivante: Leopardi, en vrai convalescent, ne s’intéresse toujours

qu’à lui; mais au monde aussi dans la mesure où il lui fait du bien et n’exige rien de lui. Et voici que revient le souvenir. Oh, il a changé de qualificatif: il n’est plus doux, il est « acerbo ». Mais, c’est quand même la résurrection de la mémoire individuelle. Et nous avons A Silvia et Le Ricordanze: Leopardi, tel un amnésique guéri, récupère et réintègre son histoire personnelle: il se penche sur son passé; comme, adolescent, il se penchait sur le passé de ses ancêtres romains et sur le passé de l’humanité. Avec le Canto notturno, la Quiete dopo la tempesta et le Sabato del villaggio, voici que, restant dans l’intemporel théorique et général, Leopardi recommence à s’intéresser à autrui: la pitié gagne du terrain: le sort commun, le malheur, des hommes l’émeut. Tout demeure négatif: les bêtes ont un sort enviable; les non-existants davantage; le bonheur n’est que négatif; l'illusion est notre seule ressource et elle n’existe que pour la jeunesse. Puis c’est le Pensiero dominante et l’espoir d’aimer et d’être aimé. La position théorique ne change pas: elle ne peut plus changer. Mais 270

l'Amour peut créer de puissantes illusions; l’Amour est capable de vaincre

le « vero ». Amzore e morte est encore une aventure individuelle, étendue,

bien sûr, à la valeur de présent catégorique. Et l’on retombe: A se stesso: programme de pessimisme méprisant et nihiliste: plus rien n’existe. Aspasia est un poème de libération, mais en vue de quelle future action? On semble retourner à La vita solitaria: le poète ne se propose que de pouvoir « sourire » en « regardant » le monde, « neghittoso, immobile giacendo ». L'Histoire semble définitivement oubliée. Les deux Canzoni sepolcrali * sont de nouveau des chants à soi-même, apaisés; cependant on voit que la sensibilité, malgré A se stesso, n’est pas morte;

au contraire, elle s'étend à autrui; et Leopardi constate, sans se

l'expliquer, que la beauté est une réalité qui, par l'illusion de l’amour, incite l’homme au dépassement de soi. Ce qui revient à dire que la Beauté prend, comme mobile déterminant, la place qui une fois était celle de l’Histoire. C’est alors que nous voyons resurgir cette dernière. Elle a changé. Leopardi la regarde cette fois d’un oeil sans passion. Il ne s’agit plus de l’Histoire ancienne, mais de l’Histoire éternelle,

dans la Palinodia. C’est un phénomène répétitif; puisque — scepticisme de Leopardi déjà relevé — elle est l’effet des passions permanentes des humains. Il en sera toujours comme il en a été: Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti Il debole, cultor de’ ricchi e servo

Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun

reggimento, o presso o lungi

Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo E la face del dì non vengon meno.

On voit qu’il s’agit d’un sentiment personnel et qu’on retrouve ici le premier « pensiero ». Plus intéressant le fait de ne croire à aucune amélioration possible par un changement politique. L'Histoire est donc non plus en marche, selon un progrès, providentiel ou autre, mais elle tourne en rond et à vide; comme un disque rayé qui éternellement répète la même phrase. La Nature est condamnée. Or la nature est immobile (on verra 4 Voir notre étude: Leopardi: des «Canzoni rifiutate » aux « Annales universitaires », Faculté des Lettres, Avignon 1977.

«Canzoni

sepolcrali »,

21:

une légère modification de cela dans la Girestra). Et la Nature (qui a remplacé la Providence, sans la bienfaisance) se manifeste à l’Homme sous forme d’Histoire. L’identité Histoire/Nature aboutit à la conclusion

de l’inutilité d’agir. Tout comme il était sacrilège envers la Providence de vouloir s’opposer à ses desseins sociaux (en secondant cependant le progrès scientifique proposé par la Religion), de méme il devient sacrilège de s’opposer à l’éterzel retour de cette nature qui détruit toujours pour remettre tout en jeu. Dans cette logique pessimiste, le progrès, jadis, dans la perspective optimiste, encouragé, se trouve définitivement condamné. Le progrès technique n’est pas niable: mais est-il un véritable progrès? Certainement pas, car il ne rend pas l’homme véritablement heureux. Etonnante encore une fois cette rencontre d’analyse entre un théoricien de l’athéisme (tel que se veut alors Leopardi) et les paroles récentes du Sou-

verain Pontife. Leopardi serait-il un chrétien à l’envers? Il nous reste à relire le Tramonto della luna et la Ginestra. Le monde cosmique du Tramonto est celui de l’Infinito. L'homme y est aussi seul mais ne se blottit plus derrière sa haie. Cette méditation de mort se situe hors de l'Histoire et même de la conscience des vanités; si l’homme doit

vieillir et mourir, comment les civilisations pourraient-elles ne pas en faire autant, puisqu'elles sont l’oeuvre de l’homme? Cela est si évident qu’il demeure sous-entendu. Dans la Ginestra retourne l'Histoire; mais elle était de nouveau présente également dans les Paralipomeni et nous examinerons d’abord ce texte.

L’occasion de celui-ci se trouve dans l’Histoire contemporaine à Leopardi. Cependant il y a gros à parier que, vu ses positions, à l’époque, à l'égard de l'Histoire et vu sa tendance constante à généraliser, on y trouvera autre chose à côté du scepticisme satirique qui juge l’agitation des politiques (de n’importe quel camp) du temps. Et en effet on voit, avec un certain étonnement reparaître, dès le premier chant, les souvenirs glorieux. Les octaves 23, 24 et 25 y sont consacrées. Les hauts lieux de l'Histoire romaine sont évoqués et la gloire militaire et les héros: le Trasimène, Zama, Carthage; la grandeur de Rome, comme dans All’Italia, nous est à nouveau présentée. Le souvenir de tant de gloire peut encore

provoquer la haine (laissons de côté l’aspect paranoide de ces impressions; mais retenons l’aspect affectif de cette souffrance toujours à vif): ... questo avvien perché quantunque

doma,

Serva, lacera segga in isventura,

Ancor per forza italian si noma Quanto ha più grande la mortal natura; Ancor la gloria dell'eterna Roma Risplende sì, che tutte l’altre oscura; 212

E la stampa d’Italia, invan superba Con noi l’Europa, in ogni parte serba. Né Roma pur, ma col mental suo lume Italia inerme, e con la sua dottrina, Vinse poi la barbarie, e in bel costume Un'altra volta ritornò regina; E del goffo stranier, ch’oggi presume Lei dispregiar, come la sorte inchina, Rise gran tempo, ed infelici esigli L’altre sedi parer vide a’ suoi figli.

Il n’y a plus d’Athènes: il n’y a plus que Rome et l’Italie: AUl’Iralia et Angelo Mai. Même, dit Leopardi (et cela sonne très « fasciste »): Se fosse Italia ancor per poco sciolta, Regina torneria la terza volta. (Chant I, 27 à 29).

Ce sursaut d’orgueil patriotique, et méme nationaliste, est intéressant parce qu’il est inattendu. Est-ce là ce livre « terrible »? Mais les Italiens ne reçurent jamais plus d’éloges de Leopardi! Il est vrai qu’il exclut les contemporains immédiats; mais non ceux à venir. Bien sûr le généreux et ingénu comte Leccafondi est l’anti-Leopardi; à moins qu'il ne soit le Leopardi d’avant la vérité? Car le poète le trouve manifestement sympathique. En tout cas, au Chant III, de nouveau on évoque les grandeurs passées: Pompéi (qu’on retrouvera dans la Ginestra) les héros: Timoléon, Doria, Washington, Egmont, Orange, héros de l’indépendance et de l’action uzile pour la patrie (ce qui n’est pas le cas de l’agitation brouillonne de Naples). En revoyant les gloires anciennes, en relisant l’Histoire, Leopardi recherche à nouveau des leçons; mais ce ne sont plus des leçons de morale à fin d’exaltation de soi: ce sont des leçons

d’humilité (comme dans la Ginestra encore). Leopardi esquisse un panorama d’histoire d’Europe sur fond de grandeur romaine nostalgique. Par instants on retrouve, semble-t-il, le propos du Saggio sugli errori, cette fois il s’agit des erreurs des moderni. Leopardi, à côté du temps, « au-dessus de la mêlée », poursuit, au nom et du haut de ses certitudes, éducation

des hommes. La mort de Rubatocchi est celle d’un héros. Il n’y a pas de sarcasme. C’est Brutus qui meurt et Leopardi rend hommage à la vertu dans un solennel et émouvant appel: Ahi ma dove sei tu (bella virtù)? sognata o finta Sempre? vera nessun giammai ti vide?

273 18

O fosti già coi topi a un tempo estinta,

Né più fra noi la tua beltà sorride? Ah se d’allor non fosti invan dipinta, Né con Teseo peristi o con Alcide, Certo d’allora in qua fu ciascun giorno Più raro il tuo sorriso e meno adorno (Chant V, 48).

Leopardi revient à ses premières amours, dans la nostalgie. La rencontre du topo Leccafondi et de l’homme Dedalo me semble être celle de Leopardi avec celui qu’il fut. Dedalo est l’homme des livres: il s’est intéressé à la science, à l’histoire et aux langues et il en est résulté un esprit antireligieux. Il emmènera Leccafondi dans un prodigieux voyage (de sciencefiction) dans l’espace et le temps terrestre qui tient de l’archéologie aérienne. On passe en revue toutes les civilisations disparues: il ne s’agit plus seulement de Rome; on remonte bien avant. Voici les noms cités: Troie, Argos, Mycènes, Sparte, Messène, Athènes, l’Inde, la Chine, Babel, l'Egypte; après avoir survolé une Italie non encore habitée on remonte, au-delà de l'Histoire jusqu’à la Préhistoire et l’ère des dinosaures. Le but de ce voyage est l’île des morts (parodie de la montagne du Purgatoire dantesque). La rencontre avec les ancêtres des « topi» est l’occasion d’une déclaration ouverte d’athéisme: l’homme est un animal comme les autres; il a sa place avec eux dans les enfers où se retrouvent toutes les espèces; et quelques croyances de sauvages n’y changeront rien. L’irréligion semble bien naître chez Leopardi d’un scepticisme historique. La fréquentation de l'Histoire qui, vingt ans plus tôt, aboutissait à un enthousiaste éloge de la Religion, aboutit maintenant à sa négation. Voilà les conclusions des Paralipomeni. Il en est une autre qui vient de ce même scepticisme historique, c’est la condamnation de l’ambition et du progressisme politiques (Leopardi est un chrétien à l'envers; il cherche à présent l'humilité); la politique est un péché contre l’humilité, témoin le cadavre momifié de « Federico secondo imperatore » qui: In Palermo

(giace) da secent’anni

Senza naso né labbra, e di colore Quale il tempo può far con lunghi danni, Ma col brando alla cinta e incoronato,

E con l’imago della terra allato (Chant VIII, 19).

Frédéric était un despote éclairé, progressiste: on peut penser à d’autres mausolées orgueilleux et à ce qu’ils durèrent; de nos jours moins encore que jadis.

274

On a pu voir qu'entre les deux oeuvres contemporaines, Paralipomeni et Ginestra, existent de nombreuses similitudes. Dans la Ginestra également on assiste au retour de l'Histoire, comme à un retour à des thèmes

antérieurs de jeunesse. Mais dialectiquement, dirais-je, la démarche est inversée. La méditation du poète part de la contemplation des ruines réelles et non pas de la considération d’une décadence morale actuelle qui fait remonter à l'évocation de ruines abstraites. En outre, par rapport à la précarité des civilisations, voici que Leopardi s’avise d’un nouveau fait. La « ginestra », c’est évidemment Leopardi; mais c’est aussi l'Homme en général: eh bien, le fait nouveau, c’est que Leopardi s’est rendu compte que les civilisations, grandioses, monumentales, exaltantes, ont beau disparaître, l’homme survit, dure et demeure; comme les fourmis, une fois dé-

truite la fourmilière; comme le pauvre laboureur qui surveille les grondements du volcan et qui est, lui aussi, un symbole de l’humanité;

un

symbole qui pour une fois, souveauté de capitale importance, n’est pas Leopardi-s’identifiant. On assiste donc à la naissance chez le poète d’une nouvelle confiance en l’homme. N'oublions pas cependant que l’homme est alors devenu pour Leopardi irresponsable, en tant que victime innocente qui subit ce à quoi il ne peut opposer que sa non-résignation. Chez Leopardi existe la nostalgie des temps sans histoire: Âge d’or, temps pastoraux, vie primitive ... La méfiance à l’égard de l’Histoire perdure: si l’on pouvait arrêter l’Histoire! C’est la signification de cette vie pacifique qu’il préconise dans ce camp retranché où l'Humanité doit repousser les assauts de la Nature. Etrange solution d’immobilisme, de socialisme de guerre, toujours fondamentalement désespérée: c’est la solution, étendue à la collectivité, que proposait Plotin à Porphyre: se consoler mutuellement, s’aider à vivre et attendre la mort: c’est toujours une solution affective. Le thème de la chute des civilisations, illustré par les ruines de Pompei, dans le contexte de la Ginestra, change de coloration; ce n’est plus la grandeur, c’est la familiarité; ce n’est plus l’ambition et la gloire, c’est la sécurité et le bonheur de vivre, ce n’est plus le héros, c’est l’homme affectif qui succombe à Pompéi; l’histoire s’humanise; mais en s’emplissant de souffrances concrètes non consenties, non revendiquées, humbles et injustifiées: il faudrait arrêter l'Histoire ...

Nous voici au terme de ce rapide coup d’oeil sur les variations de Leopardi en face de l'Histoire. On a vu comme, toujours intéressé par elle, après en avoir fait un moyen d’épanouissement et d’exaltation héroique de soi; y avoir vu Dieu et la Religion en acte; il l’a en quelque sorte mise entre parenthèses quand sa sensibilité demeurait comme morte. Puis, peu à peu, on voit Leopardi reconsidérer l’Histoire: il n’annule pas sa conBID

damnation: elle est définitive, mais il sauve le côté esthétique et grand de l’action humaine que l'Histoire recèle; tout en souhaitant pour lui-même et pour les temps futurs pouvoir l’arrêter. Puis Leopardi meurt. Il me semble évident qu’il ne se serait pas, lui, arrêté. L’utopie d’une Histoire arrêtée, d’une mort devenue vivante, aurait heurté son sens de la logique. La solution était ailleurs; probablement vers ce qui a toujours été la direction intime de Leopardi: les arts, le sentiment et les sens. Non plus une Histoire arrétée, mais une Histoire qui change de direction: c’est ce que, de nos jours encore, recherche la partie vivante de l’humanité, celle qui tend à refuser les idéologies et les politiques. GEORGES

276

BARTHOUIL

Pietro Tenerani, ispiratore del Leopardi

Nellottobre, secondo altri nel settembre del 1831, Giacomo Leopardi,

in compagnia dell’amico Ranieri, parte da Firenze per Roma, dove si tratterrà fino al marzo dell’anno successivo. Poco dopo il suo attivo, visita lo studio dello scultore carrarese Pietro Tenerani « bravo ed amabile », come lo definisce in una lettera a Carlotta Lenzoni (29 ottobre 1831; v. Epistolario, a cura di F. Moroncini e G. Ferretti, Firenze 1934-1941) proponendosi di rivederlo « spesso » e dando notizia di « un’altra Psiche ch'egli sta lavorando, e che mi è parsa bellissima, come

anche un bassorilievo

per la sepoltura di una giovane, pieno di dolore e di costanza sublime ». Carlotta Lenzoni, che del Tenerani era ammiratrice almeno fin dal felicissimo successo della Psiche abbandonata (1819), del quale marmo aveva

acquistato una replica, tuttora conservata nel palazzo Lenzoni di Firenze, dovette informare subito dell’incontro Pietro Giordani, autore, nel 1826,

di un ragionamento su quella celebrata scultura, e amicissimo sia della Lenzoni, cui il ragionamento si rivolgeva infatti come a intenditrice squisita, sia del Tenerani. A quest’ultimo scrive il Giordani, il 15 novembre, da Parma dove si trovava ormai esule da un anno: Ho ben gusto ch’ella abbia conosciuto Leopardi, uomo raro e sublime: quando lo vegga gli dica pur sempre ch’io l’amo e lo riverisco di cuore. Oh perché non ha altra salute e altra fortuna quel vero ornamento d’Italia! Ne abbiamo pochi e sfortunati (v. documenti in appendice ai tre libri di O. RAGGI, Della vita e delle opere di P. T., del suo tempo ecc., Firenze 1880). 1 Riportiamo dal volume del Raggi le pp. 111-113 relative al monumento Severini: « A mezzo l’anno 1823 [il Tenerani] aveva terminato i modelli del Fauno e della Psiche svenuta, e nel successivo mise mano al primo suo bassorilievo pel monumento che certo avvocato Giuseppe Severini, romano, voleva innalzare alla memoria di una giovane sua figliuola, Clelia, e collocarlo a sinistra dell’atrio di San Lorenzo in Lucina. Sarebbe stato il primo lavoro che il Tenerani avrebbe collocato in Roma, alla qual cosa molto agognava come quella che solleticava il suo amor proprio. Già lo aveva portato bene avanti nel marmo e lo avrebbe presto condotto a termine, se il committente non lo avesse trascurato dapprima e poi non fosse morto senza lasciarne la cura agli eredi, essendo così fatti gli uomini che nel presente dolore per la perdita de’ loro cari si accendono nel desiderio di volerne eternare la memoria, ma col

rl

Quel bassorilievo « pieno di dolore e di costanza sublime » resterà impresso nella memoria del Leopardi, ispirandogli a Napoli, tra il 1834 e l’inizio del 1835, una delle ultime canzoni: Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accom-

miatandosi dai suoi.

tempo questo fuoco si rammorza e spesso ed ingratamente non vi pensano più, e chi è morto è morto. Per la noncuranza del padre il monumento a Clelia Severini fu trasandato ed il bassorilievo, incompiuto nel marmo, è rimasto e si vede fra tutte le opere in gesso del Tenerani. [Già conservate nella Gipsoteca omonima, edificata — con ricordo del Braccio Nuovo in Vaticano — dal figlio del Tenerani, architetto Carlo, nel proprio palazzo di via Nazionale, oggi ordinate nei depositi dei Musei Comunali di palazzo Braschi]. È composto di tre figure di naturale grandezza: nel mezzo, tra i due genitori seduti, la figliuola alta della persona, in piè ritta, con lunga veste e sopravi un lungo e largo velo che di sopra al capo le scende fino ai piedi. Si mostra quasi di faccia in atto come di congedarsi ed avviarsi lontana, intanto che colla destra mano è per coprirsi intieramente di quel velo che simboleggia il velo della eternità. È serena in volto, tranquilla, fidente nel suo avvenire, e presa colla sinistra mano la destra del padre che affettuosamente gliela stringe, sta in atto come di rassicurarlo della propria sorte. Egli vedesi qua seduto col capo inchinato quasi a nascondere il pianto che gli scende da un profondo, rassegnato e non ismanioso dolore; coll’altra mano stringe un bastone che ha fra le ginocchia. Veste un giubbetto con lunghe maniche, ma anche a lui ricuopre la persona un mantello che bellamente gli si piega e raccoglie in parte sul sasso ove si siede. Non tale è il dolore della madre come di donna, che, pur essa seduta dall’opposto lato, piange, e colle mani strette e sollevate si dispera e scongiura la figlia che non l’abbandoni; tutta disadorna, le spalle ed il braccio nudo, i capelli disciolti, è una pietà a vederla come si distrugga in lacrime per quell’ultimo addio. Né tralascerò di osservare quel cagnolino levriero già caro alla defunta, simbolo di fedeltà, rizzato sulle due zampe di dietro e appoggiando le altre due al fianco della sua giovane padrona, che la osserva con una certa affettuosa intelligenza come mostrano i cani, e allungando verso lei il muso pare che anch’egli voglia rattenerla. Accanto al capo della figura di mezzo si legge filia, mater sopra quello della madre, e pater presso del padre a quella maniera che vedesi in antichi bassorilievi inciso in lettere quello che esprimono in figura. Qui è poco nudo, se ne togli le braccia e le spalle della trangosciata madre, ma per contrario molto panneggiamento, e già vedi quello studio e quella cura speciale che il Tenerani metteva in questa parte della scultura come usavano i Greci, e nella quale egli venne poi sommo, da vincere molti antichi e moderni. Ma, a dir vero, noi siamo ancora nel concetto e nelle forme antiche dei bassorilievi sepolcrali, e a chi lo vede sembra questa un’opera piuttosto pagana che cristiana. Non so quale ne sarebbe stata l’architettura e l’ornato, ché non vedo bozzetto a rappresentarmi l’intiero monumento, ma dal bassorilievo figurato io non potrei distinguere se la Clelia del Severini morisse nella fede di Cristo o in quella di Giove. Ella è morta, abbandona i genitori come ogni figlio che muoia innanzi di loto, e va a nascondersi nella eternità. Concetto che si rinviene eziandio sopra i più antichi monumenti funerarii come, per esempio, su le urne di Maratona, di cui si veggono parecchi nel Louvre, nei quali sono scolpite semplicemente scene di addio tra amici o congiunti che, essendo per separarsi su la terra, si dìnno per l’ultima volta la mano ». Ancora una memoria del bassorilievo del Tenerani nel passo seguente di un racconto di Ferruccio Ulivi (E le ceneri al vento, Milano 1977) ambientato nella Recanati degli anni di Leopardi: ae Tornai a fissare, pensoso, il marmo sepolcrale. Si vedeva effigiata una bella giovine nell’atto di salutare qualcuno, l’una mano che andava indietro verso il richiamo dei viventi, l’altra che accennava a una meta invisibile. Sulla faccia mezzo voltata, la guancia riportava l’ombra che cadeva dai capelli. L'occhio mirava in basso. Il marmo non dava altre spiegazioni. Tutto era finito: davvero. Il gioco illusivo d’amore, come lo stesso amore: tutto ingoiato dalla stessa sorte ».

278

Si sa bene come la poesia possa trovare materia nell’occasione di per sé più trascurabile, ma il rilievo del Tenerani è bello; e Corrado Maltese (v. Storia dell’arte Italiana | 1785-1943, Torino 1960) ha ragione di ticordarlo — unico, come credo, dei nostri storiografi — e di elogiarlo per quella « ricerca di un ideale cromatismo a toni uniti e giustapposti » che lo colloca nel piccolo numero delle maggiori prove del nostro purismo, « all’unisono col Bartolini ». Seppure un parallelo tra la canzone leopardiana e questa scultura non ha possibilità di essere posto, non parrà azzardato scorgere nel rilievo del Tenerani — di un classicismo vago, non archeologico, anzi improntato da un lirismo elegiaco sincero, oggettivato nella fluenza musicale delle linee, che lentamente si innalzano e ricadono, e nella luminosità dolce, diffusa,

oltre che nella contenuta eloquenza psicologica dei personaggi, secondo una maniera già incline ad accogliere la lezione della scultura quattrocentesca, fiorentina e romana

— un sentimento

dell’antico, che sconfinando

dall’entusiasmo neoclassico per il periodo aureo della Grecia e per l’ellenismo (divulgati quasi soltanto attraverso le repliche romane, spesso mediocri) guadagna una posizione di « poetica » assai vicina a quello che il Leopardi tante volte afferma e chiarisce nelle prose. Un sentimento dell’antico che forse giustifica anche il titolo della canzone, dove il bassorilievo ispiratore è detto « antico » non credo per accrescergli dignità o mistero con l’assegnarlo a un tempo remoto, ma per riconoscergli, quantunque moderno, le doti di semplicità, di verità schietta, insieme umana

e artistica, di primitivismo,

di candore, che il Leopardi

riteneva appannaggio dell’immaginazione nelle antiche età, creatrici spontanee di miti, la cui ingenuità e le cui illusioni (analoghe a quelle dei fanciulli) sarebbe di qualche sollievo recuperare, benché immutabilmente crudele rimanga il destino prescrittoci dalla natura. L’antico non è per il Leopardi un cànone di bellezza da imitare (ricorda in proposito i suoi sarcasmi contro la cerchia dei letterati romani, perduti nelle pedanterie dell’archeologismo) ma un modello di costume da vivere: un vigore di energie morali che non avrebbe senso, che nemmeno potrebbe esistere, ove fosse pertinenza di una minoranza soltanto, invece d’essere la forza creativa dell’umanità intera, la libera attività della

fantasia. Questo — è vero — egli dirà nello Zibaldone che è il modo proprio dell’artista di veder le cose: una visione disinteressata, teorica, individuale, non mai imitativa, dove l'immaginazione è la regina di tutte le altre facoltà (reine des facultés, la chiamerà poi Baudelaire); ma

è altresì il modo ideale di vita cui tutti gli uomini dovrebbero tendere come a un pur limitato e illusorio spazio dell’esistenza, personale e collettiva, entro l’unica verità « funesta e miserabile » delle cose, « tutte vane e senza sostanza », quali appaiono al filosofo e realmente sono (Zib., p. 103). 279

Né il Leopardi, malgrado la crisi e la mutazione dei pensieri, fatti poi sempre più sconsolati e tetri, pose mai altro dissidio tra l’antico e il moderno, che non fosse fondato sui valori dell’esistenza travolti — per gli individui come per i popoli — dall’eccesso della ragione, dell’incivilimento, del progresso materiale. Così la reviviscenza dei miti classici poté innalzarsi, ancora nello Zibaldone (pp. 63-64), all’elegia: Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi! quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani, credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec.! E così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli.

Non il solo contenuto dell’opera del Tenerani dovette impressionare il Leopardi, ossia il commiato della giovane morta dai suoi, ché oltretutto difficilmente si supporrebbe come egli non avesse conosciuto altri consimili e davvero antichi monumenti. Gran parte della materia di quella canzone abbondava d’altronde negli scrittori classici, studiati già nei teneri anni, e via via col tempo approfonditi e accresciuti di autori e di testi. Il pessimismo antico, che turbava profondamente l’animo dei greci nel VII, VI e V secolo, nel periodo del massimo

splendore delle arti,

sulla cui pretestuosa interpretazione nostra è basato il falso idolo della olimpica serenità classica, divenuta un luogo comune che anche oggi accade di ascoltare autorevolmente ripetuto, echeggia subito nella canzone del Leopardi. Senti nel fondo farci compagnia le due « nere » divinità di Mimnermo, che ottenebrano la vita dell’uomo e lo trascinano sotterra nel regno buio dell’Ade: l’iter tenebricosum di Catullo, illuc unde negant redire quemquam: ... Il loco / A cui movi, è sotterra: | Ivi fia d’ogni tempo il tuo sog-

giorno. Ritorna il grido disperato di Teognide: Mai non veder la luce / Era, credo, il miglior, che ricalca il famoso frammento « di tutte le cose,

non esser nati è per i terrestri la migliore », quindi passato nell’Edipo a Colono di Sofocle (1225 e sgg.), in Bacchilide (160 e sgg.), in Euripide (fr. 287).

Ma nello stringato giudizio estetico del Leopardi sul bassorilievo del Tenerani, « pieno di dolore e di costanza sublime », par di dovere intendere la prima, improvvisa e tenace ragione del canto. Dolore e costanza: l’uno che pervade l’intera figurazione del Tenerani, ma trattenuto seppure più esplicito nella madre (quasi una Niobe) l’altra che non sostanzia meno 280

la forma, per rapprendersi nell’immagine centrale, astata e solenne, della giovane: Asciutto il ciglio ed animosa in atto, / Ma pur mesta sei tu. Grata

la via | O dispiacevol sia, tristo il ricetto | A cui movi, o giocondo, | Da quel tuo grave aspetto / Mal s’indovina. Si ricava l’impressione che l’opera del Tenerani sia stata, per il poeta, qualcosa di più che uno spunto visivo; che la memoria dell’immagine, rimanendogli viva a distanza di tre o quattro anni, lo conducesse a recuperare sul filo primario della rimembranza quell’angoscioso, insistente domandarsi, già del Leopardi fanciullo: è partito per sempre — per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua

avrà più niente di comune colla mia vita (v. il passo famoso dello Zibaldone, p. 645). Anche la « costanza », dal latino constare (fermarsi), che fa parte di

quel giudizio espresso con tanta brevità, ritorna nella canzone, col participio costanti sopravvivente al tremito della pietà: ... invade / D’alta pietade ai più costanti il petto. Per ragioni forse meno occasionali e superficiali di quanto si potrebbe in un primo momento supporre, a uno degli ultimi canti, secondo me ritenuti a torto ripetitivi di « motivi leopardiani che ebbero già limpido canto » (F. Flora, Storia della Letteratura Italiana, Milano

1940) si col

lega in un rapporto di pensieri e di sentimenti la scultura del Tenerani, la cui traduzione nel marmo, per sopraggiunte vicende lasciata dall’artista incompiuta dopo il 1824 (e come mi par di capire dal confronto col perfettissimo gesso originale di palazzo Braschi, completata da altri) si vede oggi murata nell’atrio di San Lorenzo in Lucina a Roma, per volontà recente dei discendenti di Clelia Severini, la fanciulla romana col suo fato acerbo Musa indiretta. FORTUNATO

BELLONZI

281

#3

Una fonte linguistica (e un modello psicologico) per 1 Canti: la traduzione del secondo libro dell'Eneide.

Sul posto che occupa la versione giovanile del secondo libro dell’ Ereide nella ‘carriera’ del Leopardi traduttore ha scritto pagine limpide e persuasive Emilio Bigi, che ha giustamente corretto il giudizio negativo del De Sanctis sulla eccessiva fedeltà del traduttore al testo latino, conside-

rando quella fedeltà non come servile goffaggine, ma come il frutto di una scelta cosciente, ossia di una volontà di aderenza assoluta alla parola dell’originale (secondo la proclamazione contenuta nel proemio della versione °), nella persuasione di rendere in tal modo quella verità poetica di natura, ritenuta propria degli antichi e teorizzata nella contemporanea Lettera ai compilatori della « Biblioteca italiana » in risposta a quella della Staél ai medesimi. All’interno di questa particolare ottica storico-poetica Virgilio e Omero, del quale L. aveva tradotto pochi mesi avanti il primo libro dell’Odissea, facevano praticamente blocco, unificati all’insegna dell’antico. Vero è che rispetto alla ‘ fedeltà ’ della traduzione omerica, legata a criteri rigidamente letterali, quella della traduzione virgiliana si presenta con caratteri più duttili e più suscettibili di interventi attivi da parte del traduttore,

riguardato

ormai

espressamente

poeta-traduttore

come

(« so

ben dirti avere io conosciuto per prova che senza esser poeta non si può tradurre un vero poeta, e meno Virgilio,

e meno

il secondo Libro della

Eneide » *): e il Bigi non ha trascurato di rilevare il senso di quegli interventi in un’accentuazione di elementi patetici e ‘indefiniti, oltre che nell’uso di aspri e solenni arcaismi (con un ulteriore incremento di tali ele-

1 E. Bici, I/ Leopardi traduttore dei classici (1814-1817), « Giornale storico della letteratura italiana », CXLI, 1964; ora in La genesi del « Canto notturno » e altri studi sul Leo-

pardi, Palermo 1967. Non modifica sostanzialmente la valutazione del Bigi il lavoro di L. STEFANI, La traduzione leopardiana del secondo libro dell’« Eneide », « Studi e problemi di critica testuale », X (aprile 1975) e XI (ottobre 1975), che fornisce anche un'edizione critica del testo leopardiano

2 «E

(di cui mi sono servito per le citazioni). sì ho tenuto sempre dietro al testo a motto a motto

di che posso giudicare co’ miei due occhi, non pp. 152-153). 3 L. STEFANI, art. cit., X, p. 152.

temo

paragone)»

(perché, quanto

(L. STEFANI,

alla fedeltà art. cit., X,

283

menti nella revisione del 17), che conferiscono alla versione virgiliana,

nei confronti di quella omerica, una sua relativa originalità letteraria. Ora il discorso che vorrei qui svolgere non riguarda propriamente l'originalità della traduzione in se stessa, quanto la sua importanza agli effetti del costituirsi del linguaggio poetico dei Canti, e in particolare delle prossime canzoni. In questo senso l’esperienza della versione dell’Emeide, oltre che segnare un capitolo fondamentale nella poetica del L. traduttore, rappresenta un momento decisivo nella formazione del linguaggio poetico leopardiano. Non si tratta solo, genericamente, di quelle ricordate accentuazioni del testo virgiliano nella direzione del patetico e dell’indefinito (dimensioni che saranno presenti al poeta dei Cazzi); e nemmeno

si tratta

soltanto (benché anche questo mi sembri elemento decisivo per la genesi del discorso poetico leopardiano) di quella ricchezza di artifici ritmici, anch’essa debitamente sottolineata dal Bigi, consistente in un uso estremamente fitto di enjambements e di spezzature interne del verso, su cui certo dovette esercitare qualche suggestione la traduzione alfieriana tenuta presente da L. assieme a quelle del Caro e del Bondi, oltre all’articolo foscoliano su Caro ed Alferi traduttori di Virgilio * L’impottanza degli aspetti fin qui accennati della traduzione leopardiana agli effetti dello stile dei Canti non era sfuggita del resto alla sensibilità di un lettore come Giuseppe De Robertis che in un articolo del 1942 intitolato Inizio del Leopardi aveva già posto l’accento sulla giovanile versione virgiliana, notandovi « il primo acquisto d’un tono poetico alto, d’una cert’aria grande,

d’una versificazione complessa, d’un fatto di stile, insomma, già maturo » 5 Tuttavia il valore anticipativo di quella versione non consiste soltanto, come ho detto, in una generica atmosfera stilistica, ma in una serie di precise e numericamente imponenti (assai più che in qualsiasi altra versione leopardiana di questo periodo) soluzioni espressive che il traduttore dell’Eneide propone al futuro poeta delle canzoni, ma non solo a quello. In questo senso risultano più stimolanti, dello stesso De Robertis, alcune indicazioni che seguono immediatamente alle parole sopra riportate, lì dove egli accenna a « particolarità di scrittura che fanno pensare non solo alla canzone All’Italia, e a quella Sopra il monumento di Dante, e all’altra Ad Angelo Mai e al Bruto Minore, ma, persino, a una parte descrittiva della

Ginestra, per una furiosa potenza di parole ».f Sono indicazioni a mio parere assai acute, ma che meritano una verifica sui testi. Ora qui è doveroso ricordare che nel suo commento ai Canti? lo stesso De Robertis aveva + Gir. BICI, Op: cit, D: 96. 5 G. DE Rogertis, Saggio sul Leopardi, Firenze 1944, p. 224. 6 G. DE ROBERTIS, op. cit., p. 225. 7 G. LeoPARpI, Canti, con l’interpretazione di G. De RoBERTIS, Firenze

284

1927.

fornito l’indicazione di alcuni precisi riscontri con la versione giovanile dell’Ereide (non solo, dunque, col testo virgiliano, richiamato in qualche caso già dai commentatori ottocenteschi): ma il numero di quei riscontri non superava di molto le dita di una mano (due di essi, inoltre, erano già presenti nel commento dello Straccali *). Questo numero era destinato ad aumentare di qualche unità ad opera di Hans Ludwig Scheel nel suo lavoro Leopardi und die Antike, apparso nel 1959 L’insieme dei riscontri presenti nel De Robertis e nello Scheel è stato poi utilizzato dai più recenti commenti di Fubini-Bigi ! e di Domenico De Robertis,! ai quali si deve anche qualche sporadica aggiunta. Ma nel complesso si è ancora lontani dalla reale consistenza del fenomeno: una serie ben più nutrita di riscontri è ricavabile infatti da una lettura sistematica della versione virgiliana, tale da poter fornire a un nuovo annotatore dei Canti una cospicua messe di materiali testuali, assai utili per una ricerca genetica del linguaggio poetico leopardiano, ricerca condotta finora con più attenzione alla tradizione letteraria che non alla storia interna di quel linguaggio (fanno lodevole eccezione in questo senso i ricordati commenti Giuseppe-Domenico De Robertis e Fubini-Bigi). Tanto per corredare di un esempio minimo un rilievo del genere, restando all’interno del nostro argomento, noterò che quando per il verso « ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido » (Nelle nozze della sorella Paolina, 4) i commentatori citano a proposito di « ermo lido » un precedente del Tasso (Rizze, II, 83) o dell’AL fieri (son. Solo fra i mesti, 5), essi dimenticano che l’espressione era già

apparsa nella traduzione virgiliana (« I Greci / qua giunti, s’appiattar ne l’ermo lido », 33), proprio in clausola di verso come nella canzone; e che semmai il rapporto con la tradizione dovrebbe qui chiamare in causa la versione di Annibal Caro, dove peraltro quel sintagma appare invertito nei suoi termini e diluito in una dittologia sinonimica («lito ermo e deserto »).

La nostra rassegna potrebbe comunque prendere le mosse da unità ancora minori, ossia da singoli elementi lessicali espressivamente notevoli, tali cioè da non potersi considerare delle pacifiche assunzioni dalla media poetica del tempo. Spiccano in questo ordine di elementi alcuni forti lati8 I Canti di G. LeoPARDI

commentati

da A. STRACCALI, Firenze 1892 (ristampato nel a quanto mi risulta, è stato il primo a far ricorso alla versione dell’Eeide per l’esegesi dei Canti. 9 München 1969, pp. 98-100. Si veda la recensione di S. TIMPANARO, « Gnomon », XXXII, 1960. 10 G. LeoPARDI, Canti, con introduzione e commento di Mario FUBINI, ediz. rifatta con la collaborazione di E. Bici, Torino 1964 (2° ediz. nuovamente riveduta e accresciuta, To1957 con presentazione di E. Bicr). Lo Straccali,

rino 1971).

11 G. Leoparpi, Canti, a cura di G. e D. DE RoBERTIS, Milano 1978.

285

nismi direttamente suggeriti dal testo virgiliano: tali il sostantivo « polo » nel significato di ‘cielo’ (v. 349), per cui si veda Ad Angelo Mai 155, A un vincitore 59, Inno ai Patriarchi 64; il sostantivo « clade » (v. 496), per cui si veda A un vincitore 50. Ma anche latinismi meno forti come l'aggettivo « nefando » (vv. 118, 222, 234, 727), già segnalato dallo

Scheel, per cui si veda Sopra il monumento

114, Ad Angelo Mai 140,

Nelle nozze 28, Inno ai Patriarchi 41, Ultimo canto 37, Alla sua donna 42;

o l’aggettivo « conscio » (v. 370), per cui si veda Sopra il monumento 155, Bruto Minore

110, Alla Primavera 40, Le ricordanze

114, Consalvo

14,

così tipici dell’uso poetico leopardiano, debbono alla traduzione giovanile il loro primo collaudo. Non direttamente suggerito dal testo latino ! è l’aggettivo « miserando » (vv. 5, 304, 993, 1037), per cui si veda Sopra

il monumento 110, Ad Angelo Mai 138, Il primo amore 19. Al di fuori dei latinismi si possono indicare vocaboli carichi di espressività come il verbo

« avvampare » (vv. 450, 804), anch’esso

segnalato dallo

Scheel,

per cui si veda Nelle nozze 99, Canto notturno 26; e il participio « divelto » (vv. 756, 842, 850), per cui si veda All’Italia 121, Bruto Minore 1.

La lista potrebbe arricchirsi di qualche altra voce, ma è bene non inoltrarsi in un terreno insicuro, dove la maggior guida resta pur sempre (a parte le concordanze leopardiane) ! la sensibilità linguistica del ricercatore. Meno opinabile diventa già il discorso quando si passi a piccole aggregazioni verbali nell’ordine dei sintagmi, tipo appunto « ermo lido ». Ora di tali espressioni, destinate a riprodursi nel tessuto linguistico dei Canti, è piuttosto ricca la traduzione dell’Ezeide: e pressoché tutte (l’osservazione vale anche per i riscontri più ampi che avrò modo di indicare in séguito) già presenti nella prima redazione della versione, composta sullo scorcio dell’estate del 1816 e apparsa a Milano nel 1817 coi tipi del Pirotta (su una copia di questa stampa il L., com’è noto, introdusse le sue correzioni a mano: essa costituisce il testo definitivo, riprodotto nelle moderne edizioni delle opere). Do qui un elenco di tali espressioni con l’equivalente latino fra parentesi e col rispettivo riscontro nel testo dei Canti. Indicherò con P le lezioni della prima redazione a stampa; segnalerò inoltre il nome degli studiosi che mi risulta abbiano registrato per la prima volta qualcuno di quei riscontri. La rassegna include anche l’inizio di traduzione del terzo libro (28 versi e mezzo), risalente anch’esso probabilmente al 1816. 2 Ma presente altrove in Virgilio:

Aer., VI, 882.

13 Quelle dei Canti, dei Paralipomeni, delle Poesie a cura di L. Lovera e C. Corti, in appendice a G. varie, Traduzioni poetiche e Versi puerili, a cura di C. quelle dei soli Canti, ma incluse le varianti manoscritte Firenze 1969.

286

varie e delle Traduzioni poetiche sono LeoparpI, Canti, Paralipomeni, Poesie MuscETTA e G. Savoca, Torino 1968; e a stampa, sono a cura di A. BUFANO,

« ermo lido », 33 (« deserto ... litore », 24) = « ermo lido », Nelle nozze 4 « guerra immensa », 275 (« magno ... bello », 193) = «immensa guerra », Sopra il monumento 142 « O patria mia », 336 (« O patria », 241) = «O patria mia », All’Italia 1: segnalato da Arnaldo Di Benedetto !* « suon d’armi », 340 (« sonitum ... arma dedere », 243) = « suon d’armi », All’Italia 41 « cheta luna », 354 (« tacitae ... lunae », 255) = « queta ... la luna », Sera del dì di festa 2-3 « cava ombra », 495 (« cava... umbra », 360) = «cave nebbie », Bruto Minore 16, dove l’aggettivo ha il significato di ‘ vuoto ’, ‘ inconsistente ’: segnalato dallo Scheel « sparte le chiome », 548 (« passis ... crinibus », 403-4) = « sparte le chiome », All’Italia 14: segnalato da Fubini-Bigi « fischian le selve », P 568 (« stridunt silvae », 418) = le fischianti selve », Sopra il monumento 155 (così in R 18 e B 24) « l’achivo acciar », 587 (« tela ... Danaum », 432-3) = «itali acciari », All’Italia 53; « greco acciaro », A un vincitore 22 « la sciria gioventù », 648 (« Scyria pubes », 477) = « l’itala gioventude », All’Italia 52 « il patrio tetto », 763 (« domus », 563) = «il patrio tetto », Ricordanze 17, Sopra un basso rilievo 4: ma l’espressione era già nel Pompeo in Egitto, II, 2, 12, nell’Idillio II di Mosco, 175, e nella traduzione del primo dell’Odissea, 22 e 113; riscontri già notati da Giuseppe e Domenico De Robertis « egro corpo », 769 (« corpora ... aegra », 565-6) = « egri corpi », Sopra il monumento 145 « in rimota parte », 770 (« secreta in sede », 568) = « in... rimota parte », Passero solitario 37 « molle di sangue », 789 (« sudarit sanguine », 582) = « molle ... del sangue », All’Italia 132-3; « molle di ... sangue », Bruto Minore 10 « immoto e saldo », 876 (« fixus », 650) = « salda, immota », A/ Pepoli 70 « del ... sangue ... tinto », 893-4 (« de sanguine », 662) = « tinti del ... san-

gue », All’Italia 114-5; e cfr. anche « tinger di sangue », 682 (« sanguine foedantem », 502) = « nel... sangue la man tinge », A/ Pepoli, 89-90 « il giorno estremo », 903 (« lux ultima », 668)

=

«il giorno estremo »,

Sopra un basso rilievo 86 « la santa fiamma », 924-5 (« sanctos ... ignis », 686) = Nelle nozze 39-40 «le somme

vette », 936,

mae ... Idae », 801)

=

1074

la santa fiamma »,

(« summa ... culmina », 695;

«[dal]le somme

vette », Bruto Minore

« iugis sum-

81:

segnalato

da Giuseppe De Robertis « Esiglio lungo », 1046 Inno ai Patriarchi 84

(« Longa ... exsilia », 780)

=

«lunghi

14 A. Dr BENEDETTO, «In sul calar del sole» (e qualcos'altro), « Giornale letteratura italiana », XCVI, 1979, p. 122, n. 3.

esigli »,

storico della :

287

« queste piagge », 1058 («his … oris», 788) = « queste piagge », Vita solitaria 93, Ginestra 37 «erme terre », III 5 (« desertas ... terras », III 4) = « erma terra », Vita solitaria 63

A un livello ulteriore di autonomia sono da registrare alcune brevi frasi sintatticamente compiute: « Il grido / così ragiona », 23-4 (« Ea fama vagatur », 17) = « grido antico ragiona », Inno ai Patriarchi 14: segnalato da Fubini-Bigi « Ardo di sdegno », 779 (« Exarsere ignes animo », 575) = «ardo... di sdegno », Aspasia 95-6 « ad atterrarlo intenti », 846 (« instant/eruere », 627-8) = « ad atterrarlo è volto », Palinodia 158 « Armi, qua l’armi », 902 (« Arma, viri, ferte arma », 668) = « L’armi, qua l’armi », Al’Italia 37: il riscontro col latino fu già segnalato dai commenti ottocenteschi, col testo della versione da Giuseppe De Robertis «come non so », 995 (« Incertum », 740) = « Come, non so», Azzore e morte 32 «Or finalmente addio », 1059 (« Iamque vale, 789) = « Or finalmente

addio », Il sogno 91: segnalato dallo Straccali

Un altro notevole gruppo di riprese è costituito da frasi più ampie e sintatticamente articolate, con la conservazione più o meno evidente di n

elementi sintattico-metrici: « spezzar da’ brandi Achei l’iliache mura », 252 (« Argolicis exscindi Pergama telis », 177) = «a spezzar le romane inclite mura / chiama i gotici brandi », Bruto Minore 8-9: il luogo virgiliano è richiamato in una nota marginale dallo stesso L. « da la somma cima / Ilio a terra precipita », 401-2 (« ruit alto a culmine Troia », 290) = « dalle somme vette / Roma antica ruina », Bruto Minore 81-2; e abbiamo visto che il sintagma « somme vette » è presente ai vv. 936 e 1074 della traduzione, mentre il « ruina » può trovare un suo corrispettivo in un altro

passo di essa: « e dirovina / Troia dal sommo », 816-7 (con valore però transitivo: « sternitque a culmine Troiam », 603); il riscontro col latino è già presente

nei commenti ottocenteschi, quello con la versione fu segnalato da Giuseppe De Robertis « al fiammeggiar de’ tetti / riluce la sigea vasta marina », 429-30 (« Sigea igni freta lata relucent », 312) = « [il corso / del temuto bollor, che si riversa

/ dall’inesausto grembo / su l’arenoso dorso], a cui riluce / di Capri la marina », Ginestra 252-6:! segnalato dallo Straccali

5 In entrambi i casi si tratta di un incendio che si riflette nello specchio del mare. La fonte stilistica diventa dunque dirimente nel dubbio espresso da D. DE RoBERTIS circa il passo della Ginestra, se cioè «a cui» debba intendersi ‘al cui bagliore? (spiegazione tradizionale

288

« mi s’offerse al guardo / l’alma mia genitrice ... / ... palese Diva », 798800 (« mihi se ... videndam / obtulit ... / alma parens, confessa deam », 589-91) = « non palese al guardo / la faretrata Diva », Alla Primavera 34-5 « veggo il luccicar de l’armi », 986 (« aera micantia cerno », 734) = «Io veggio ... luccicar di spade », All’Italia 45-7: segnalato dallo Scheel « E seguo e cerco per la buia notte / con gli occhi intenti ... », 1012-3 (« sequor per noctem et lumine lustro », 754) = « alla deserta notte / con gli occhi intenti il viator seguendo ... », Alla Primavera 44-5 « stette [P sté] / ne le fauci la voce », 1039-40 (« vox faucibus haesit », 774) = « nelle fauci stava / la voce », I] sogno 85-6: segnalato dallo Straccali « Senza voler de’ Numi / questo già non t’avvien », 1043-4 (« Non haec sine numine divom / eveniunt », 777-8) = « Certo senza de’ Numi alto consiglio / non è ...», Ad Angelo Mai 16-7: il riscontro col testo latino è già nei commenti ottocenteschi; quello con la versione nel recente commento di Lucio Felici !9

Talvolta le immagini possono subire una rielaborazione più radicale; ma la persistenza di alcuni elementi lessicali denuncia un contatto col testo della versione: =

« di sanguigna polve / lordo », 377-8 (« aterque cruento / pulvere », 272-3) «dall’immonda / polve tergea della sanguigna caccia ... », Alla Primavera

36-7 «e sassi miri / svelti da sassi, e fluttuante [P ondeggiante] un fumo / misto di polve », 822-4 (« avolsaque saxis / saxa vides mixtoque undantem pulvere fumum », 608-9) = «Io veggio, o parmi, / un fluttuar di fanti e di cavalli, / e fumo e polve », Al’Italia 45-7 « e tutti intorno i luoghi / mandan sulfureo fumo », 940-1 (« et late circum loca sulpure fumant », 698) = «e ne fumavan l’erbe intorno intorno », Frawmento XXXVII 16; ma per la prima parte della frase cfr. anche Ginestra 288: « e i lochi intorno intorno » « silenzio pur l’alma spaura », 1015 (« [Horror ubique] animo, simul ipsa silentia terrent », 755) = «silenzi... ove per poco / il cor non si spaura », L'infinito 6-9

Più generico può rivelarsi il rapporto nel caso di alcune espressioniformule; ma si tenga presente che esse hanno nella versione virgiliana il loro primo collaudo: « divine fasce, ond’ebbi cinto / vittima il capo », 223-4 (« vittaeque deum, quas hostia gessi », 156) = « A noi le fasce / cinse il fastidio », Ad Angelo Mai

73-4

e confermata dal luogo virgiliano e dalla sua traduzione) oppure ‘di fronte al quale’, per cui riluce «indicherebbe il quieto splendore notturno dei luoghi non minacciati dalla lava » (nota ad L.). 16 G., LeoPARDI, Canti, a cura di L. Fezicr, Roma 1976.

289 19

«E chi narrar la clade, o il duol, le morti / di quella notte adeguar può col pianto? », 496-7 (« Quis cladem illius noctis, quis funera fando vi explicet aut possit lacrimis aequare labores? », 361-2) = «mai non potrebbe il pianto si adeguarsi al tuo danno ed allo scorno », All’Italia, 22-3: segnalato da FubiniBigi : « [come se] rapido torrente / trabocca giù d’una montagna », 420-1 (« [veluti cum] rapidus montano flumine torrens ... », 305) = « [simile al metro] / di torrente che d’alto in giù trabocchi », Frammento XXXIX 53-4 « In testimonio or voi, / ceneri d’Ilio, e te n’appello, estrema / fiamma de’

miei », 584-6 (« Iliaci cineres et flamma extrema meorum, / testor ... », 431-2) = « Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi / regi ... / e non la notte moribondo appello », Bruto Minore 106-8 « Tali volgendo / pensieri in mente », 795-6 (« Talia iactabam », 588) = « mille nell’alma ... / pensieri si volgean », Primo amore 30-1

Dalla genericità delle formule alla puntualità di alcune caratteristiche espressioni in erjambement: « tanta / malvagità », 150-1 (« scelerum tantorum », 106) = «arcana / malvagità », Ad Arimane 1-2 « per l’ime / ossa », 170-1 (« per ima... / ossa», 120-1) = « nell’ime / selve », Alla Primavera 50-1 « da gl’inaccessi / di Pallade sacrari », 546-7 [P « da l’arcano ricovero di Palla »] («a templo … adytisque Minervae », 104) = « agl’inaccessi / regni del mar », Inno ai Patriarchi 67-8

«la vasta / reggia », 662-3 (« tectis ... ingentibus », 489) = «la vasta / fuga », Ultimo canto 15-6 « stupendo / prodigio », P_917-8 (« mirabile monstrum », 680) = « stupendo / poter », Ad Angelo Mai 103-4 «la santa / fiamma », 924-5 (« sanctos ... ignis», 686) = «la santa / fiamma », Nelle nozze 39-40: già elencato tra i sintagmi

Ma anche al di là di vere e proprie coincidenze lessicali o di immagini, il testo della versione virgiliana può agire con la suggestione di alcuni movimenti sintattici. Una precisa coscienza di tale tipo di derivazioni mostrava di averla lo stesso L. allorché nelle sue annotazioni alle canzoni giustificava il passaggio dal perfetto al presente nell’esordio del Bruto Minore (« Poi che divelta, nella tracia polve / giacque ruina immensa / l’italica virtute, onde alle valli / d’Esperia verde, e al tiberino lido, / il calpestio de’ barbari cavalli / prepara il fato ... », 1-6) con alcuni esempi virgiliani, il primo dei quali era dato dall’inizio del terzo libro (« Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem / immeritam visum Superis, ceciditque superbum / Ilium et omnis humo fumat neptunia Troia; / diversa exsilia et desertas quaerere terras / auguriis agimur Divum », 1-5), da lui 290

stesso tradotto anni prima con la conservazione del fenomeno sintattico (« Poi che parve a gli Dei sfar d’Asia il regno / e ’1 di Priamo immeritevol sangue, / caduto Ilio superbo e da l’arena / la Nettunia città tutta fu-

mante, / a cercar vari esigli ed erme terre / ne traggon gli auguri », 1-6). La suggestione, come può vedersi, si estendeva al di là del puro cambio dei tempi, sino a investire l’intero giro del periodo (e, almeno per le immagini iniziali di distruzione e rovina, la stessa sfera dei significati). Per quanto riguarda la traduzione del secondo libro, ecco alcuni casi di ricalchi sintattici:

« Era il tempo che a’ miseri mortali / comincia il primo sonno ... / quando nel sonno a gli occhi miei presente / il mestissimo Ettorre esser mi parve », 371-5 (« Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris / incipit ... / in somnis ecce ante oculos maestissimus Hector / visus adesse mihi », 268-71) = « Era il mattino, e tra le chiuse imposte / per lo balcone insinuava il sole / nella mia cieca stanza il primo albore; / quando in sul tempo che più leve il sonno / e più soave le pupille adombra, / stettemi allato e riguardommi in viso / il simulacro di colei ... », Il sogno 1-7; il ricalco è fondato sulla designazione dell’ora introdotta dal verbo « Era » e sul successivo uso del « quando » con valore di stacco narrativo: il cosiddetto cum inversum, per cui si veda la nota di Domenico De Robertis, al quale si deve la segnalazione del riscontro « Già gli altri a sacco / metton l’arsa città, Troia n’è in preda; / voi l’alte navi or dismontaste? », 509-11 (« alii rapiunt incensa feruntque / Pergama; vos celsis nunc primum a navibus itis? », 374-5) = « Cognati petti il vincitor calpesta, / fremono i poggi, dalle somme vette / Roma antica ruina; / tu sì placida sei? », Bruto Minore 80-3: pur nella diversità della situazione, si tratta in entrambi i casi di una allocuzione-rampogna, in cui il pronome di seconda persona (voi; tu) che introduce l’interrogativa è adoperato con valore fortemente oppositivo nei confronti di enti in terza persona (gli altri, Troia; il vincitor, i poggi, Roma antica) « invano al cielo / gli ardenti lumi sollevando, i lumi, / ché non potea, da vincoli distrette / le delicate mani », 548-51 («ad caelum tendens ardentia lumina frustra, / lumina, nam teneras arcebant vincula palmas », 405-6) = « al buio protendea / l’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, // la voce ad ascoltar, se ne dovea / di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse; / la voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea », Primo amore 44-8: ricalco segnalato da Antonio La Penna!” e fondato sulla figura dell’epanalessi (i lumi... i lumi; la voce... la voce), impiegata ad esprimere una situazione di impedimento e di limitazione

Non riconducibile propriamente a un fenomeno di ricalco sintattico, ma semmai di ricalco di una figura verbale, con effetto nel nostro caso assai vicino all’ossimoro (Domenico De Robertis parla in proposito di una 17 Mi riferisco al testo della relazione « Leopardi tra Virgilio e Orazio », pubblicato in questo stesso volume (pp. 149-210).

291

« opposizione per adnominatio ») è la paradossale formula di consolazione enunciata dal poeta nei confronti dei soldati italiani caduti in Russia: «e questo vi conforti / che conforto nessuno / avrete in questa ‘0 nell'età futura » (Sopra il monumento 164-166), che sembra arieggiare la massima pronunciata da Enea nella disperata esortazione ai suoi compagni: « Sola che resti / salute ai vinti è disperar salute », 485-486 (« Una salus victis nullam sperare salutem », 354). A un primo computo statistico dei riscontri segnalati s'impone immediatamente una constatazione: essi investono in larga prevalenza il primo L., intendo quello delle canzoni e degli « idilli », rispetto al L. che va dall’epistola AI conte Carlo Pepoli sino alla Ginestra; per quel che può valere in questi casi una precisazione numerica, diciamo che il rapporto dei riscontri, complessivamente presi, è di 69 a 16. Un’altra constatazione altrettanto evidente è che all’interno del primo L. la bilancia pende nettamente in favore delle canzoni rispetto agli « idilli » (anche se si sommino a questi Il primo amore e i Frammenti XXXVII e XXXIX):

il rapporto è

di 57 a 12. Una terza constatazione riguarda la distribuzione delle riprese all’interno delle stesse canzoni: qui la parte del leone, per numero e qualità, la fanno All’Italia (12 riprese) e il Bruto Minore (11 riprese); seguono Sopra il monumento di Dante (7 riprese), Ad Angelo Mai (6 riprese), Nelle nozze della sorella Paolina, Alla Primavera e l’Inno ai Patriarchi (5 riprese), A un vincitore nel pallone (3 riprese), Ultimo canto

di Saffo (2 riprese). Tra gli « idilli » il più rappresentato è I/ sogno, con 3 riprese abbastanza cospicue: esse si spiegano con la particolare situazione narrativa del componimento, a cui forniscono materiali la rappresentazione del sogno di Ettore e quella dell’apparizione di Creusa. Tra le liriche dell ‘ altro’ L. spicca La ginestra con 3 significative riprese descrittive. Restano così comprovate da questi rilievi, compreso l’ultimo, le indicazioni del ‘lettore’ Giuseppe De Robertis ricordate all’inizio.

Il discorso ha riguardato fin qui il rapporto tra la versione dell’Ereide e i Canti, non direttamente tra questi e il testo virgiliano. I due aspetti, anche se tra loro strettissimamente connessi, è bene siano tenuti ancora distinti. Questa distinzione ci permette intanto di rilevare due ordini diversi di riprese dal secondo libro dell’Ezeide. Il primo ordine è caratterizzato, come s'è visto, dalla presenza mediatrice della traduzione nella fruizione del testo latino. Ne deriva per l’annotatore dei Canti l’opportunità, in tutti questi casi, di citare il passo tradotto accanto al, se non proprio in sostituzione del, testo latino. Così, ad esempio, per la famosa espressione « L’armi, qua l’armi » di Al’Ifalia, non basta che il commentatore chiami direttamente in causa il virgiliano « Arma, viri, ferte arma », 292

ma occorre che egli registri anche la particolare resa della traduzione leo-

pardiana, « Armi, qua l’armi », quasi identica al testo della canzone, nei

confronti di tante altre possibili rese (il Caro ad esempio traduceva:

« Mano a l’arme! / Chi mi dà l’armi? »; e l’Alferi: « L’armi, su, l’armi a me si rechin »). Altro esempio: per il passo del Bruto Minore « a spezzar le romane inclite mura / chiama i gotici brandi » non basta ricordare che il L. richiama in una nota marginale Virgilio, Aen., II, 177: «nec posse Argolicis exscindi Pergama telis », ma occorre rifarsi anche e più precisamente alla versione giovanile: « spezzar da’ brandi Achei l’Iliache mura ». Ciò che era sufficiente per L. (il quale non poteva certo esibire a se stesso la sua traduzione), non lo è più per il suo annotatore. Al limite,

ossia nei casi di più radicale trasformazione dell’originale, più che di una mediazione occorre parlare di una suggestione autonoma della versione. Questo si verifica innanzitutto, come abbiamo visto, nell’àämbito delle singole parole: l’aggettivo « miserando », ad esempio, occorrente per quattro volte nella versione, corrisponde rispettivamente ai latini « lamentabilis » (v. 4), « miser » (vv. 215 e 738), « infelix » (v. 772); ma anche

per quel che riguarda alcuni sintagmi:

tali «il patrio tetto » rispetto al

latino « domus », « molle di sangue » rispetto a « sudarit ... sanguine », « immoto e saldo » rispetto a « fixus », « come non so » rispetto a « incertum ». Nell’àmbito degli stessi ricalchi sintattici, il riscontro fra i vv. 1-7 del Sogno e i vv. 371-375 della versione non è estensibile al testo latino. Ma il rapporto tra L. poeta e il secondo libro dell’'Ereide non passa tutto attraverso la traduzione giovanile: alcune proposte dell’originale diventeranno infatti operanti nella mente di L. solo in tempi posteriori alla traduzione. Di qui un secondo ordine di riprese, che prescinde più o meno chiaramente dal testo della versione. Così nel passo testé citato del Bruto Minore l’espressione « romane inclite mura » risponde direttamente al virgiliano « incluta bello / moenia Dardanidum » (vv. 241-242), reso più anodinamente nella traduzione giovanile con « troiche mura / famose in armi » (vv. 337-338). Per il « procomberò » di Al’Ifalia 38 lo stesso poeta in una nota marginale indica il passo di Aer., II, 424-426: « primusque Coroebus ... procumbit »; ma intanto il verbo era stato reso altrimenti nella traduzione, direi aggirato con una inversione di costrutto: « Primier ... Peneleo prosterne / Corebo » (vv. 576-578). Meno

evidente

ma forse più significativo è il caso dell'immagine « tacitae per amica silentia lunae », 255, resa dal traduttore con « a l’amico / silenzio mosse de la cheta luna », 353-354, e destinata invece nella sua forma originale a esercitare sottili suggestioni sulla futura poesia leopardiana: non solo

per l’aggettivo che qualifica la luna (« tacita » la chiamerà L. in Bruto Minore 87 e nell’epistola A] Pepoli 132), ma soprattutto per l’uso del plu293

rale moltiplicativo-indeterminativo « silentia », eluso dal traduttore! e così caro invece al futuro poeta (si ricordino i « sovrumani silenzi » dell’Infinito 5-6 e i « silenzi del loco » della Vita solitaria 38), anche associato, come in Virgilio, a situazioni notturne, suscitatrici di sensazioni infi-

nite-indefinite (« lamentai co’ silenzi e con la notte / il fuggitivo spirto », Ricordanze 116-117; « Sola i silenzi l’una e l’altra fonte / rompea da presso, e da lontano il grillo », Paralipomeni II, 2, 6-7; ecc.). In realtà, a

parte l’aggettivo « cheta », anticipatore del « queta » della Sera del dì di festa (ma lì in funzione predicativa, e comunque non di diretta derivazione virgiliana), non si può dire in generale che i suggerimenti « idillici » del testo latino passino attraverso la traduzione giovanile. Siamo così ricondotti al discorso sull’ottica ‘ tendenziosa’ del traduttore, pur nella proclamata intenzione di una fedeltà assoluta alla parola dell’originale. Ho già accennato alle accentuazioni nel senso del patetico e dell’indefinito rilevate dal Bigi. Per restare nell’area dei riscontri coi Canti, si sarà notato il di più affettivo che caratterizza l’espressione « O patria mia », che diverrà non a caso l’incipit della prima canzone, rispetto al semplice «O patria» del testo virgiliano; oppure l’intensificazione solenne-indefinita implicita nell’espressione « guerra immensa » rispetto al « magno ... bello » dell’originale. Quello che è necessario qui specificare è che tali accentuazioni cooperano a una resa ‘ alta’ del dettato, conforme all’idea di uno stile virgiliano consistente in «un dire sempre grande, sempre magnifico, sempre segnalatamente nobile, sempre superiore a quello del comune degli uomini », com’è definito nel proemio alla versione della Tifanomachia di Esiodo (1817), dove si censura la « sem-

plicità » e la « famigliarità » della traduzione del Caro. È così che si giustifica anche la presenza, ugualmente notata dal Bigi, di quegli arditi latinismi e di quegli aspri arcaismi che, pur se in parte autorizzati dalla stessa patina arcaizzante del testo latino e più in generale da quello che il La Penna chiama « espressionismo virgiliano »/° contribuiscono all’intonazione uniformemente alta e solenne della versione, non certo propizia alla resa di sottili suggestioni evocative.” 18 Analoga elusione si sarà notata per « simul ipsa silentia terrent » (v. 755), reso con « silenzio pur l’alma spaura » (v. 1015), laddove nell’Infinito si dirà di « sovrumani/silenzi … ove per poco / il cor non si spaura » (vv. 5-8). 1 19 G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. BINNI con la collaborazione di E. GHETTI, I, Firenze 1969, p. 446. 20 À. LA PENNA, Virgilio e la crisi del mondo antico, introduzione a VIRGILIO, Tutte le opere, Firenze 1966, p. LxxxIx. VI > Su questa intonazione costantemente alta della versione leopardiana ha giustamente insistito L. STEFANI, arf. cit., specialmente a p. 131.

294

Ora non è un caso che questa idea dello stile virgiliano sia stata soprattutto suggerita e insieme sia stata collaudata dalla traduzione del secondo libro dell’Eyeide. È giunto dunque il momento di interrogarci sulla scelta di un simile oggetto poetico per l’esperimento del traduttore: ossia sulle ragioni della predilezione del traduttore per il testo tradotto. Di una tale predilezione (durata, si noti, per parecchi anni, se in una lista di dise-

gni letterari databile probabilmente nel 1826 il L. si proponeva tra l’altro di fornire un commento

estetico del secondo libro dell’Eneide ?) il

proemio al lettore ci offre un attestato molto eloquente: Ma perché ora mio intendimento è parlarti di me, e non del Caro, né di

alcun altro, dirotti per quale occasione io mi sia fatto a tradurre il secondo Libro della Eneide. Sappi dunque a ciò non altri avermi mosso che il tristo consigliere di Virgilio. Perciocché letta la Eneide (sì come sempre soglio, letta qual cosa è, o mi pare veramente bella), io andava del continuo spasimando, e cercan-

do maniera di far mie, ove si potesse in alcuna guisa, quelle divine bellezze; né mai ebbi pace infinché non ebbi patteggiato con me medesimo, e non mi fui avventato al secondo Libro del sommo poeta, il quale più degli altri mi avea tocco, sì che in leggerlo, senza avvedermene, lo recitava, cangiando tuono quando si convenia, e infocandomi e forse talvolta mandando fuori alcuna lagrima. Messomi all’impresa, so ben dirti avere io conosciuto per prova che senza esser poeta non si può tradurre un vero poeta, e meno Virgilio, e meno il secondo Libro della Eneide, caldo tutto quasi ad un modo dal principio al fine ...#

L’osservazione sul « calore » del articolo foscoliano su Caro ed Alfieri sia stata sperimentata in proprio dal mente da tutto ciò che precede nella

secondo libro era già nel ricordato traduttori di Virgilio; * ma che essa traduttore-poeta è dimostrato ampiapagina citata. Se la base del metodo

narrativo di Virgilio consiste, secondo la nitida definizione del La Penna, in una « narrazione riportata al punto di vista del personaggio in azione

e liricamente commentata dall’autore »,* questa ‘definizione si attaglia a fortiori al secondo libro, dove la voce dell’autore finisce con l’essere assunta dal personaggio narrante, che è anche il protagonista dell’azione narrata: ne consegue un forte incremento di quei moduli di intervento diretto nella narrazione, che fanno del secondo libro (e in minor misura del

terzo: non a caso L. intraprese la traduzione anche di quest’ultimo) un testo abbastanza caratterizzato rispetto al resto del poema. È lì che L. rav2 G. LeoPARDI, Tutte le opere cit., I, p. 371. 23 In L. STEFANI, art. cit., X, p. 152. 24 U. FoscoLo, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-11), a cura di E. SANTINI, vol. VII dell’Ediz. Naz., Firenze 1933, p. 437. L’articolo fu steso in realtà da Michele Leoni su indicazioni del Foscolo. 25 A. LA PENNA, op. cit., p. LI.

295

visa un modello di ‘ voce ’, un esemplare di protagonismo poetico (eroico, elegiaco, riflessivo), quale egli coltiverà poi nelle canzoni, ma anche nelle elegie e persino in qualche momento più ‘ gesticolante” degli « idilli ».

Assai preziosa è in questo senso la confessione del proemio al lettore, là dove l’autore parla di una vera e propria recitazione del testo virgiliano: « in leggerlo, senza avvedermene, lo recitava, cangiando tuono quando si convenia, e infocandomi e forse talvolta mandando fuori alcuna lagrima ». La presenza di uno sfondo eroico-guerresco su cui si staglia quella voce protagonistica può spiegare la particolare suggestione esercitata dal testo virgiliano sulle due canzoni ‘ guerriere’, All’Italia e Bruto Minore, col ricco travaso di frammenti della narrazione epica (mediata per lo più dalla traduzione giovanile) nella trama lirica dei testi leopardiani. È così che prendono naturalmente posto nella canzone All’Italia sintagmi come « suon d’armi », « tinto di sangue », « molle di sangue »; esclamazioni

come « O patria mia », « Armi, qua l’armi »; per non parlare del « procomberò », direttamente recuperato dal testo latino; e dall’altra parte immagini più sviluppate della traduzione giovanile, come « veggo il luccicar de l’armi / e degli scudi », e « e sassi miri / svelti da sassi, e fluttuante un fumo / misto di polve », possono alimentare, debitamente rielaborate, interi contesti descrittivi della canzone: « Io veggio, o parmi, / un fluttuar di fanti e di cavalli, / e fumo e polve, e luccicar di spade / come tra nebbia lampi ». La stessa personificazione dell’Italia spogliata e tremante nella sua profanata regalità sembra trovare uno stimolo figurativo nella rappresentazione della vergine Cassandra strascinata dai guerrieri nemici; e questo non solo per il particolare delle « chiome sparte », ma per altri elementi diffusi nell’intero contesto, incominciando dagli « ardenti lumi » (« ardentia lumina ») che non possono non ricordarci i « tremebondi lumi » dell’Italia nella canzone: Ecco Cassandra la vergin Priamea da gl’inaccessi di Pallade sacrari strascinata era, sparte le chiome, e invano al cielo gli ardenti lumi sollevando, i lumi, ché non potea, da vincoli distrette le delicate mani (vv. 545-551).

Anche il Bruto Minore è folto di richiami al testo virgiliano, con (ma an-

che talvolta senza) la mediazione della versione giovanile: a partire dal suo amplissimo attacco sintattico, « Poi che divelta, nella tracia polve / giacque ruina immensa / l’italica virtute ... », che sembra ricalcare, come si è visto, l’attacco del terzo libro dell’Ereide, ma a cui pure non sono 296

estranee suggestioni verbali presenti nella versione del secondo libro: « e ?

vasto tronco / in su la riva giacesi, dal busto / divelto un capo, e senza nome un corpo » (vv. 754-756); « allor nel foco / tutto vidi sommerso Ilio, e divelta / la Nettunia città da l’imo fondo » (vv. 841-843). Nel sé-

guito dello stesso periodo trova posto la ripresa di un’intera immagine

epica: « a spezzar le romane inclite mura / chiama i gotici brandi », che ricalca il v. 252 della versione, « spezzar da’ brandi Achei l’iliache mura »

(e abbiamo visto che « inclite mura » è a sua volta espressione virgiliana del medesimo libro); e inoltre i sintagmi « molle di sangue », comune alla prima canzone, e « atra notte », derivato direttamente dal testo virgiliano (« nox atra », 360, reso invece nella traduzione con « nera notte », 495).

I richiami virgiliani della canzone culminano in un’altra immagine epica: « dalle somme vette / Roma antica ruina », nella quale sembra assumere un significato assoluto, apocalittico (la fine del mondo antico) l’immagine grandiosa di Troia rovinante nell’allocuzione di Ettore apparso in sogno a Enea: « da la somma cima / Ilio a terra precipita » (e abbiamo visto che il sintagma « somme vette » è ugualmente presente nella versione leopardiana; mentre a sua volta la frase « Roma antica ruina » sembra riecheggiare l’« Urbs antiqua ruit » di un altro luogo del testo virgiliano, VA.63):

Proprio intravedere qualità del ‘voce’, ma

la rassegna di queste suggestioni epiche ci ha una più profonda suggestione, collegabile con personaggio protagonista. Ritorniamo così al nella misura in cui questa voce si identifica

‘ carattere’ e con una situazione. Enea combattente

fatto tuttavia la particolare discorso sulla ormai con un

senza speranza nel-

l’ultima notte di Troia, che cerca eroicamente la morte nella persuasione della vanità di una causa ormai abbandonata dagli Dei, è forse per L. il primo e più efficace modello di eroe disperato e consapevole: un personaggio destinato a incarnarsi variamente e con diverse gradazioni nella sua poesia (come ci ha insegnato Umberto

Bosco, che ha individuato in

quell’atteggiamento i tratti del « titanismo » *), ma più direttamente nelle canzoni, prime fra tutte appunto All’Italia e Bruto Minore. È in questo

contesto ideologico e psicologico che acquistano un particolare significato alcune riprese di esclamazioni o di massime solenni e disperate del personaggio Enea; rileggiamole nei rispettivi contesti della traduzione giovanile, dove l’accentuazione degli elementi eroico-patetici del testo latino

2% U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Roma 19802. senti in proposito le giuste precisazioni del Binni sul « tanto più lucido che connota questo atteggiamento leopardiano rispetto ai vari esemplari tico europeo (W. BinnI, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, p. 246,

Ma si tengano precontrollo razionale » del titanismo romann. 2).

297

rivela l’appassionata adesione del poeta-traduttore al dramma sonaggio:” O patria mia, Troia, di numi albergo! O troiche mura famose in armi!

del per-

(vv. 336-338)

in mezzo a l’armi ruiniamo e moriam, sola che resti

salute ai vinti è disperar salute (vv. 484-486) In testimonio of voi,

ceneri d’Ilio, e te n’appello estrema fiamma de’ miei, quando mia patria cadde, non a l’achivo acciar, non mi sottrassi a verun rischio, e s’era fermo in cielo ch’io vi morissi, il meritai con l’opra (vv. 584-589)

Armi, qua l’armi. Vinti a morte n’appella il giorno estremo

(vv. 902-903).

La situazione senso esemplare tima notte della implicazioni del

di Enea nell’ultima notte di Troia diventa ‘in questo della condizione stessa del poeta in una metaforica ulpatria 0, procedendo ideologicamente verso le estreme suo pessimismo patriottico, della condizione del poeta

nella « sera delle umane cose » (Nelle nozze della sorella Paolina, 20). L’identificazione non è solo, come può sembrare, una suggestiva illazione

del critico, ma un’ammissione dello stesso poeta. In una pagina dello Zibaldone datata il 27 luglio 1821, tracciando a se stesso un programma di composizioni comico-satiriche, L. finiva con l’inquadrarle nell’intero contesto della sua produzione letteraria, riguardata nella sua funzione patriottico-civile, come una serie di « armi » di diversa qualità, ma tutte dirette a combattere la decadenza della sua patria e del suo secolo: Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella 21 Un implicito accenno a questa adesione del poeta al personaggio virgiliano è in W. Binni, La protesta di Leopardi cit., p. 26 e n. 1: dopo aver ricordato come nella versione del secondo dell’Eyeide la tensione espressiva si riveli « nei modi di accentuazione del testo tradotto dei toni più eroici e patetici », il Binni si richiama alle « parole di disperata volontà di lotta e di sacrificio che anticipano il celebre passo della canzone All’Italia: ‘ Armi, qua l’armi / vinti a morte n’appella il giorno estremo...’ ».

298

lirica, e in quelle prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia ne’ Trattati filosofici ch'io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando (P. 1394).

Ma la pagina non si arresta alla enunciazione di questi propositi: troppo progredita è nel poeta la coscienza di una irreversibilità del processo di decadenza dei tempi. Ed ecco allora, a suggello di quella pagina, la citazione dell’apostrofe di Enea alle ceneri d’Ilio e all’estrema fiamma dei suoi, in cui è proclamata la generosità disperata del gesto eroico nella coscienza della sua inutilità operativa; citazione da me ripottata più sopra nella traduzione leopardiana, e ora invece nello Zibaldone restituita alla lingua dell’originale: Iliaci cineres et flamma extrema meorum, testor, in occasu vestro, nec tela nec ullas vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent, ut caderem, meruisse manu. (Wire Aer Kurt

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299

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Leopardi e le antichità napoletane

À Napoli l’antico non era come a Roma, gettito superbo di marmi e orgoglioso disquisire in cima ai dotti pensieri, che si isteriliva nel compiacimento: Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto cid è straniero in Roma, e pare un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa.!

A Napoli le antichità erano come plasmate con la natura nel profilo del paesaggio, o che fosse paesaggio di caverna e di budello, come ad Ercolano e nella cripta del varco obbligato per Pozzuoli, o che fosse reintegrazione — al cospetto e a dispetto del vulcano disfacitore — dello scheletro di Pompei esumata nella cintura degli abitati vivi. Anche gli incarboniti papiri, per l’irripetibile essenza, eran parte colorita e non scambiabile della Napoli antiquaria diversamente da ogni altra città d’Italia e di Grecia e dell’Occidente tutto, prendente, di volta in volta, risalto dalla pietra disseminata, dall’incetta del coccio, dalla sonante moneta fornita da tesoretti e ripostigli. Le antichità a Napoli si dispongono nel circolo corrente della vita, così che l’abbondanza si stempera nella coesione col resto e non provoca moti di sazietà e di ripulsa. Anzi, affacciarsi sul mondo intorno e accoglierne aspetti e iridescenze nel fluire della propria invenzione significa, inevitabilmente, farvi entrare anche le sopravvivenze dell’antico non separabili né trascurabili ma incidenti nella raffigurazione di insieme. E non è cal. colo decorativo quello che ne suggerisce il riferimento, bensì ispirazione avvolgente che trova nel richiamo all’antico un’occasione rastremata e propizia. Se non erro, vedo emergere come tre significazioni o indirizzi di cui 1 Lettera al conte Monaldo del 9 Decembre 1822: cfr. G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, I, Firenze 1969, p. 1133 sg. È questa l’edizione che si è

tenuta presente nella stesura dello scritto e ad essa rinviano anche le note che seguono.

301

le antichità napoletane furono animate dal Leopardi negli ultimi anni, che coincisero col suo soggiorno. Il primo è quello dell’essenza civile che per l’Italia e gli Italiani rappresentano le scaglie dell’antico come reliquie bastevoli a dilatare nella mente la misura d’un lontano passato in tutta luce. Riferirvisi è lo stesso che sentirsi fieri di discendere da cotal popolo come il Romano, che ebbe in pugno le sorti del mondo o di sentirsi indignati se i contemporanei appaiono tiepidi verso la presenza o la resurrezione di quei segni: uno spartiacque netto separa i degni dagli indegni, ricevendo i secondi dai primi biasimo e sprone. È un sentimento, nel complesso, già provato e comunicato nel tempo giovanile attraverso il saluto sotteso all’Ifalo ardito e l’apostrofe al secolo di fango, affinché si ravvedesse o vergognasse. All’esperienza delle antichità napoletane si deve, particolarmente, se quel moto ispirato con tale calore e poi sopito si scuota ora e si riaccenda. Certo se un suol germanico o britanno queste ruine nostre ricoprisse,

di faci a visitar l’antico danno più non bisogneria ch’uom si servisse, e d’ogni spesa in onta e d’ogni affanno Pompei, ch’ad ugual sorte il fato addisse, all’aspetto del Sol tornata ancora tutta, e non pur sì poca parte fora. Vergogna sempiterna e vitupero,

d’Italia non dirò, ma di chi prezza disonesto tesor più che il mistero dell’aurea antichità porre in chiarezza, e riscossa di terra allo straniero, mostrare ancor l’italica grandezza. Lor sia data dal ciel giusta mercede,

se pur ciò non indarno al ciel si chiede

Chi sa che le viscere d’Ercolano raggiunte dai pozzi del Settecento si

raggiungono ancora, dove sia possibile farlo, nell’avvolgimento delle tenebre, potrebbe ritenere nel giusto l’apostrofe del poeta. Ma occorrerà distinguer meglio. Proprio allora, nel 1828, una nuova stagione si era aperta per Ercolano col primo tentativo di scavo all’aperto: « A” due del corrente (gennaio), giorno memorabile pel nostro paese, per l’archeologia e

per le arti, ebbe principio la grande impresa che restituirà all’esistenza ed al giorno la leggiadra Ercolano ». È l’avvio del giornale di scavo, che sarà ? Paralipomeni della Batracomiomachia,

302

III, 12-13 (ed. cit., I, p. 261).

raccolto e pubblicato dopo molt’anni da quel Michele Ruggiero} il quale, prima anche di divenire archeologo e di coprire posti di responsabilità governativa,* avrebbe legato il proprio nome di giovane architetto alla gloria del Leopardi, delineando, su ordinazione del Ranieri, il semplice monumentino di San Vitale destinato a custodire le spoglie del poeta Vero è che l’impegno cominciò presto a deflettere e l’assistenza di Carlo Bonucci, diarista ufficiale,

a mancare;

con questo impoverimento delle ener-

gie, già avvertibile intorno al 1832, che condurrà nel ’37 alla sospensione degli scavi, potrebbe collegarsi l’indignazione del Leopardi. Ma a Pompei si scavava e la città era al centro dell’attenzione. Più esattamente, proprio per il fatto che la città soffiava come nessun altro luogo sul fuoco della cultura antiquaria, gli scavi sembravano progredire con lentezza; si era instaurata una sorta di relazione inversa fra il ritmo del

disseppellimento e l’ardore di visitatori e cultori. Il poeta si inserisce e giustifica in questa luce, così come il fatto che, in quel torno, furono proprio due inglesi un loro disegno per dissotterrare la città con metodo

giudizio severo del può essere notevole che misero innanzi preciso e sollecito.

I Signori Brown e Cole Architetti e Pittori Inglesi — scriveva al marchese Ruffo il console britannico a Napoli il 30 agosto del 1832 — m'hanno richiesto di procurar loro una udienza di V.E. per parteciparle un nuovo metodo di scavamenti in Pompei, progetto di utilità singolare. Prego dunque V.E. di accordar loro la detta grazia al giorno ed alle ore che le saranno convenevoli.

Segue, dopo cinque giorni, la supplica al Ruffo medesimo dei due estensori del progetto, la quale fa trapelar fra le righe quel senso di disagio e di insoddisfazione che l’ottava leopardiana dispiega nel confronto fra tale ricchezza e l’impari sforzo perseguito nel ricuperarla:

3 Storia degli Scavi Ercolanesi, Napoli 1885. 4 Cfr. Enciclopedia Italiana, XXX, p. 227 (E. Magaldi). 5 « Compiuti ... verso l’ospite adorato, tutti i più sacri doveri del sodalizio; edificatogli, secondo la modesta possibilità nostra, il sepolcro, architetto Michele Ruggiero, ora nostro onorandissimo collega; volgemmo, inspiratrice sempre Paolina, ogni nostra cura nello edificargli un assai più grande monumento, i due primi volumi di Lemonnier »: cfr. A. RANIERI, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, ristampa dell’ediz. del 1920, Napoli 1965, p. 67. 6 Cfr., oltre all’opera del Ruggiero (nota 3) anche A. MarurI, Vita d’archeologo, Napoli s.d. (ma è il 1959), pp. 105-114.

7 Il dotto amico Alfonso Silvestri e la sua figliuola, dottoressa Annamaria, mi sono stati prodighi di collaborazione nel rintracciare con me e per me le carte conservate nell'Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi siglato ASN), in mezzo alle quali ho trascelto i passi che riporto a vantaggio di questo scritto. Per un primo orientamento oggi lo studioso può disporre di uno strumento assai utile: Archivio di Stato di Napoli. Fonti documentarie per la storia degli scavi di Pompei Ercolano e Stabia, a cura degli Archivisti Napoletani, Napoli 1979. Il passo citato nel testo è in: ASN, Ministero dell’Interno, II inv., fs. 2147.

303

I qui sottoscritti hanno osservato con pena nell’attual stato di Pompei una specie di discredito sul gusto di curiosità ed intreprese del secolo. Da ciò sono stati guidati a considerare quali e quanti potessero essere gli ostacoli per

dissotterrare una volta tante preziose reliquie dell’antichità. Sono ormai scorsi ottant'anni da che ebbero luogo i primi scavi ed ancora più secoli passeranno prima che il mondo potrà profittare delle scoverte tuttavia a fare. Su tale osservazione si sono indotti a sperare che S.M. (Dio guardi) voglia annuire ad un progetto che offre un più rigoroso sistema di lavoro di quello che si pratica attualmente a meno che qualche insormontabile difficoltà non venga ad opporsi al compimento di una sì grande opera, che oltre al lustro che da al governo, ne aumenta immensamente le ricchezze. Quale potrebbe essere un tale progetto i sottoscritti non credono necessario di qui spiegare, riserbandosi di farlo in seguito. La sola quistione che per ora hanno a sottomettere a V.E. è di sapere se il governo sia disposto a concorrere in un piano, che ha per oggetto il completo e sollecito scavo di Pompei. Gli esponenti scaveranno Pompei per lo governo delle Due Sicilie fra un dato e non lungo tempo, ma una ricompensa si dovrà alla loro opera. È bene indifferente per loro di prenderla sia in una parte degli oggetti scavati sia nella valuta di tali oggetti per quanto potrà essere tra le parti convenuto.

Non sono in condizione di informare in che cosa consistesse il progetto elaborato da William Cole, architetto del Conte di Chester, e da John Brown con tale fiducia di successo. Certo è che non fu messo mai in atto, sì che, dopo circa centocinquant’anni che ci separano da quel tempo, Pompei conserva ancora alcuni ritagli di regioni non esplorate e la coltre delle ceneri e dei lapilli ancora preme lembi di abitazioni e strade.

Non deve però essere tralasciato il fatto che il gran mosaico della battaglia di Alessandro, che unitamente al lungo fregio dei riti dionisiaci scoperto nel 1909 rimane la più insigne opera d’arte restituita dalla città vesu-

viana, tornò alla luce, essendo la massima figura in vista dell’archeologia napoletana Francesco Maria Avellino, esattamente nel 1831 due anni prima che il Leopardi toccasse il suolo di Napoli. Il ricordo dell’Avellino, ch’era segretario perpetuo dell’Accademia Ercolanese," stringe il richiamo all’ottava che segue le due precedenti, più anche di esse sottesa nella polemica contro questa che, accanto all’Acca-

8 Cfr. nota precedente.

? Cfr. A. MarurI, Gli studi pompeiani nel II centenario degli scavi, quaderno n. 9 dell’Accad. Naz. dei Lincei (Roma 1948), p. 15. Per la vita e l’opera di Francesco Maria Avellino cfr. Dizionario biografico degli Italiani, 4 (Roma 1962), pp. 652-655 (P. Treves). 10 Era l’Avellino in tale carica dalla fine del 1832: «Tornata de’ 10 gennaio 1833 … Si è annunziato all’Accademia che S.M. con Real decreto de’ 9 del caduto dicembre si è degnata affidare al Cav. Avellino la vacante carica di Segretario perpetuo dell’Accademia Ercolanese » (ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo 19).

304

demia di Belle Arti e all’altra delle Scienze, completava la triade degli istituti accademici napoletani, di cui rappresentava l’organismo più in auge: E mercé s’abbia non di riso e d’ira, di ch’ebbe sempre assai, ma d’altri danni

l’ipocrita canaglia, onde sospira l’Europa tutta invan tanti e tanti anni i papiri ove cauta ella delira, scacciando ognun, su i mercenari scanni; razza a cagion di cui mi dorrebb’anco se boia e forche ci venisser manco.!

Il crescendo è compiuto. L'insieme è spoglio di quel travestimento ironico che solleva l’acerbità dell'animo, ingentilisce l’arte e conquista il lettore. Le tre ottave culminano

nell’invettiva

acre, fors’anche

sgradita e,

massime, non giusta del tutto. I verbali dell’Accademia, lungi dal confermare l’inerzia denunciata dal Leopardi, rivelano un chiaro procedere di interessi e di intraprese, fra relazioni su nuovi sistemi da introdurre nell’interpretazione dei papiri, lettura e studio dei medesimi, conseguenti revisioni e successive edizioni, e ciò in mezzo ad abbonamenti a periodici anche stranieri e a presentazione di uomini e libri, in seno ai quali spicca il Canina. Prendendo per estremi il decennio dal 1823 al 1833, troviamo che il quadro da sé si delinea vivo e articolato: nel ’23 lo Scotti aveva già interpretato un libro di Filodemo sulla Rettorica, sopra un altro papiro di Filodemo lavorava il Genovesi e sul medesimo autore anche il Parascandolo, mentre Iavarone veniva interpretando un volume contenente il libro ventottesimo di Epicuro sulla Natura.* L’anno 1833 s’apre, nella seduta del 10 gennaio, con la dichiarazione che il « Direttore della Stamperia reale presente alla tornata ha detto ch’egli tra altri pochi giorni rimetterà a ciascuno de’ Soci ordinari il volume ultimamente impresso de’ papiri ercolanesi, di cui S.M. si è degnata far dono a’ medesimi ».* Nel luglio veniva data in esame all’Accademia l’illustrazione di trentaquattro frammenti di papiri fatta dal Quaranta e il 3 settembre l’Avellino, a nome del Consiglio dei Seniori, riferiva che il parere del medesimo era che il lavoro del Quaranta intorno a quei frammenti del libro di Filodemo

1 Paralipomeni, III, 14 (ed. cit., I, p. 261). 12 Tornata degli 8 di marzo 1833: «... Il Sig. Cav. Canina dotto architetto Romano è stato presentato all’Accademia, alla quale ha offerto in dono il suo libro intitolato Topografia di Roma antica accompagnato da una tavola incisa. L'Accademia per mezzo del suo Presidente ha espressi i suoi ringraziamenti » (ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo19). 13 ASN, Ministero dell’Interno, II inv., fs. 2035, fascicolo 1. 14 ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo 19.

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mcpl edoefelas potesse mandarsi alle stampe.* È anche più interessante notare come non mancasse di levarsi qualche autorevole voce in difesa dei dotti napoletani contro le imprecisioni e leggerezze dei filologi d'oltralpe che si erano occupati dei papiri d’Ercolano. Nella tornata del 10 gennaio del 1834 l’Avellino, dichiarando che l'Accademia aveva ricevuto in dono

un esemplare dell’opera di Christian Petersen sopra un frammento da questo attribuito a Fedro Epicureo, precisava che il frammento sin dal 1810 si trovava già pubblicato a Londra in un’opera del Drummond e che altro esso non era che quello appena studiato e illustrato dal Cavalier Quaranta sotto la corretta denominazione di Filodemo. Considerando così che i lavori degli interpreti italiani apparivano « prevenuti » da pubblicazioni straniere, l’Avellino concludeva ch’era necessario averle sott’occhi per l’avvenire, « onde istruire i filologi Europei delle inesattezze che in tali pubblicazioni par che si trovino in non piccolo numero » ma anche — ammetteva — « per profittare di ciò che le medesime aver possono di buono e di pregevole ».* Al voto concretamente formulato dallo studioso per l’acquisto in Germania e in Inghilterra delle opere relative ai papiri ercolanesi, Monsignor Rosini, presidente dell’Accademia, aggiungeva la disposizione di comunicare all’Avellino « le carte ed annotazioni esistenti nell’officina de’ papiri, e che contengono l’elenco di questi e gli altri opportuni ragguagli », affinché il segretario perpetuo potesse attingere le vere notizie del loro discoprimento, del loro numero, delle opere contenute e tenere pronti quei dati per le ulteriori discussioni e gli esami avvenire.” Dalla qualcosa è lecito desumere una volontà di discernimento e di scrupolo che chiameremmo oggi scientifici. Errava, dunque, il Leopardi? Forse soltanto esagerava. L’aver configurato gli antichi tesori, e quindi anche i papiri, in una dimensione di civile importanza per la nazione, faceva a lui sentire, anche per questo aspetto, inadeguata l’applicazione di coloro a cui erano affidati, attraverso l’apposito concesso, lo studio e l’edizione. Né eran tali certamente quei filologi da reggere il confronto col « filologo ammirato fuori d’Italia », dal quale, oltre all’inferiore acume, li distanziava anche la più ristretta preparazione di base: nella seduta del 21 novembre del 1833 si faceva osservare ch’erano stati ordinati in Germania giornali filologici e archeologici per l’anno successivo, ma che, essendo il tedesco generalmente poco cono-

di ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo 19. Per orientatsi in mezzo al prezioso reportorio lo studioso dispone di un libro ottimo e aggiornato: Catalogo dei Papiri Ercolanesi, sotto la direzione di M. Gigante, Napoli 1979. 16 ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo 19. 17 Cfr. nota precedente.

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sciuto, si era deciso, su proposta dell’Abate Iannelli, di chiedere l’autorizzazione per l’acquisto anche di due giornali francesi.!8 Non vi erano robustezza e solerzia che bastassero per compensare la

disciplina della tiepida considerazione in cui era tenuta in Italia: guardandola pel prisma della propria dedizione e dei meriti del Mai, prossimo a divenir cardinale, Leopardi scriveva al De Sinner il 3 ottobre del ’35: | Da me so bene che non aspettate nuove di filologia, perché qual filologia in Italia? E vero che Mai è sul punto di vestire la porpora, e Mezzofanti gli verrà appresso, ma essi ne sono debitori al gesuitismo, e non alla filologia.!

Cosa grave nella considerazione di chi, circa sedici anni prima, aveva

salutato nel dotto lombardo, dimenticando nell'ombra l’uomo di Chiesa, il solitario e avventurato scopritore dei larghi lembi del De Republica. L’« ipocrita canaglia » di cui però il poeta gratifica gli Accademici d’Ercolano è epiteto ingiurioso, che può trovare una più pertinente spiegazione in quell’atmosfera di biasimo che si veniva formando intorno alle idee del Leopardi, il quale si risentirà in personas nella satira dei Nuovi credenti. Ipocrita altro non è che l’essere in mala fede, e quindi il mostrare di professare ciò che non si professa, di credere in quello in cui non si crede. Ma eran poi tali gli intellettuali di Napoli o tali apparivano al poeta? La poesia — scriveva Saverio Baldacchini, contro il quale si sarebbe affilato uno dei tre strali della satira ? — con la melanconia e col dolore si congiunge; ma questo non dee in essa tralignar mai nella disperazione, ch’è propriamente la bestemmia della parte ferina e materiale dell’uomo: il qual grido vo’ sperar che mai non si oda suonare in questa nostra Italia ...?!

La serenità e la fede, al cui vertice tutti ponevano il Manzoni, respingevano nell’ombra la dolente umanità del Leopardi. A questa inclinazione per sé stesso tendeva il temperamento meridionale, costruttivo e ottimi-

18 ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1008, fascicolo 8. 19 Lettera al De Sinner del 3 Ottobre 1835 (ed. cit., I, p. 1408 sg.). 20 L’identificazione col personaggio ritratto nei vv. 31-48 dei Nuovi credenti, proposta, sulla base di quanto gli era « riuscito di raccogliere dalla tradizione », da Oreste Antognoni (G. LeoParDI, I Canti, commentati da A. Straccali, 3° ed. corretta e accresciuta da O. Antognoni, Firenze, molte tirature), è generalmente accettata: cfr., per tutte, l’ediz. cit., p. CXLVIII e p. 1443. Sul colore napoletano del componimento è sempre da ricordare B. Croce, Comzzento storico a un carme satirico di Giacomo Leopardi, in Aneddoti di varia letteratura, Napoli 1942, pp. 102-113.

21 Dallo scritto Del fine immediato d'ogni poesia: cfr. G. SAVARESE, Saggio sui « Paralipomeni » di Giacomo Leopardi, Firenze 1967, p. 54. Per la vita e l’opera di Francesco Saverio Baldacchini cfr. Dizionario biografico degli Italiani, 5 (Roma 1963), pp. 434-436 (M. Quattrucci).

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sta; in questa inclinazione pareva concorrere la natura stessa del golfo, in

cui Stazio aveva additato a meraviglia la ripresa della vita dalle ceneri della catastrofe vesuviana. Dello scrupolo in sé e della cura con cui gli Accademici tutelavano I antichità per favorirne lo studio corretto è nota interessante anche la seguente del novembre del ’34, che unitamente ad altre discorda dall’accusa di poltroneria di cui il Leopardi bollava quei dotti:

… nel tempo dell’Immortal Carlo III; ed in quelli del reame dell’Augusto Ferdinando IV anteriore alle invasioni straniere il sistema era, che tutti i dipinti Pompejani ed Ercolanesi si distaccassero e si trasportassero nel real museo, il quale sistema la Commissione ardentemente desidera vedere ristabilito. Osserva inoltre la Commissione che pubblicandosi sotto i nostri occhi con rimarchevoli inesattezze questi dipinti, se si lasciassero anche deperire gli originali, si toglierebbe ogni mezzo a studii più maturi e dotti di verificarli, e renderli correttamente noti agli eruditi, e mille torti giudizii ed errori si propagherebbero nell’archeologia. Sicura cosa è poi e comprovata da una lagrimevole esperienza che i dipinti che si lasciano in Pompei, a malgrado di tutte le diligenze che vi si usano, prontamente vanno alla loro distruzione, sì per le esalazioni dell’umidità delle mura, o altre efflorescenze, da cui è imposibile il preservarli, sì per le ingiurie atmosferiche, cui più o meno vanno tutti soggetti, e sì finalmente pel danno che reca loro sovente la mano barbara degli uomini. Premesso ciò, la commissione è di avviso che debbano subito distaccarsi, e trasportarsi nel real

museo.

Interessa meno il nostro discorso il fatto che l’ablazione dovesse essere giudicata un giorno un metodo insano per essere sostituita, ministro il Baccelli, dalla conservazione sul luogo col non disgiunto criterio ricostruttivo degli alzati e dei tetti, che tiene il campo anche oggi. In relazione agli intendimenti di allora conta il pensiero di non vedere svanire alla luce quei dipinti che diciannove secoli di tenebre avevano preservato nel colore e nel calcolo d’arte stabiliti da pittori che ebbero un’identità e forse un grido quando Pompei era viva. Non sappiamo se e fino a qual segno il Leopardi fosse informato delle intraprese dell’Accademia, ma della lettura e delle disquisizioni sui papiri dové avere notizia che bastasse a giustificare l’accusa di prudente delirio che lanciò a quei dotti nell’ottava; né del resto gli intellettuali di Napoli facevano miglior conto di lui. Nicola Corcia, nativo di Laviano nell’alta valle del Sele, non ancora autore della vasta Storia delle due Sicilie 8 ma 2 ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo 19. 23 Sarebbe stata pubblicata a Napoli in quattro volumi dal 1843 al ’52 col titolo esteso di Storia delle due Sicilie dall’antichità più remota al 1789: opera attardata, almeno per la parte antica, sui criteri del regionalismo settecentesco per accumulo di materia antiquaria e

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già in evidenza nelcircolo di Napoli a segno da essere il terzo ed ultimo dei tre che il poeta prese di mira nei Nuovi credenti « si compiaceva di ripetere » che non aveva potuto ottenere da lui risposte soddisfacenti su interpretazioni di passi greci.® Come che fosse, l’eco dell’Accademia si allungava fievole rispetto al calore in cui il Leopardi sollevava, come studioso e come italiano, quei beni. E qualche particolare poteva anche dargli ragione: appare poco conveniente alla posizione d’un accademico napoletano del tempo, il fatto che passasse circa un anno prima che quel consesso si decidesse a rimettere piede a Pompei; si legge in un verbale della primavera del ’34: Essendo scorso quasi un anno da che l’accademia non si è recata a visitare le escavazioni pompeiane, si è determinato farsi la domanda a S.E. il Ministro degli Affari Interni, perché questa visita abbia luogo nel prossimo mese di maggio colla solita spesa di ducati ventisei.

Rimane, nel complesso, l’impressione d’una attività che, calcolata sul ritmo medio delle cose, scérse edificante e varia.” La discordanza con lo spirito del Leopardi fu nell’intensità, che questi, sconfinatamente prospettando innanzi a sé come faceva d’ogni fine agognato, immaginava altissima rispetto alla prosa del procedere quotidiano, in cui anche l’Accademia d’Ercolano trovava la sua collocazione e il suo svolgimento. Per converso fruivano gli altri di quel mediocre beneficio di guardare il mondo con simpatica accettazione, che non genera grandezze ma fa vivere in armonia. « Ah, pera — protestava il Baldacchini, aggiustando l’avvio sulla fortuna del Parini e del Foscolo — / chi le dottrine generose e il culto / d’Amor, che solo di prodigi è fonte, / sovvertir cerca, e ... come si debba disperar ne insegna ... ».# Tanto più sale in risalto la tensione morale che stringe le antichità napoletane nel trinomio Ercolano Pompei papiri, quanto più il Leopardi aveva apertamente ammesso di non sentirsi versato nell’archeologia per sé stessa e aveva significato che la politica, la statistica, le scienze storiche in genere — con le quali fa cumulo evidente l’archeologia — sono aride e scarsezza di vaglio critico. Nel terzo volume l’autore dedica anche una pagina al suo paese, soggiungendo (p. 91): « Avventurato se più di una pagina avessi potuto spendere per la mia terra natale ... ». 24 Secondo l’indicazione di Oreste Antognoni (cfr. nota 16), generalmente accolta. 25 Così appunto l’Antognoni (cfr. nota 16) a p. 289 dell’ed. citata dei Canti. 26 ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1015, fascicolo 19: tornata dell’8 aprile. 27 Per una visione più ampia nel tempo si possono, ad esempio, consultare con profitto le carte relative agli anni 1817 e 1818 (ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1016 (per il 1818) e fs. 1017 (per il 1817 e ’18). 28 Nel canto Claudio Vannini o l'artista: cfr. G. SAVARESE, Saggio etc. cit., p. 57.

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inutili, in quanto la società, prima che da popoli, è formata da individui,

la cui prima aspirazione è la felicità, verso la quale la letteratura, essendo cagione di diletto, ha il vantaggio conseguente d’apparire più utile:” « Archeologia non fu mai né il mio studio né il mio genio ».®* Ma Ercolano, i papiri, Pompei non erano

sorgenti di curiosità antiquarie, bensì

fatti globali di civiltà: è cosa questa che si viene ripetendo nel nostro secolo àlacre di ricerche, ogni qualvolta il discorso cada su quei tre riferimenti di presenza antica, preservati nella loro interezza. Un uomo come il Leopardi che, schermendosi di non poter dare un parere sulle Dissertazioni del Visconti, aveva candidamente

dichiarato

di essere

nell’archeo-

logia come nella numismatica « poco meno che idiota »;” senti che diversamente da altrove le antichità napoletane non si identificavano con le riserve frammentarie e le strettoie dotte: profondo era il respiro e organico il corpo in cui esse prendevano forma, in guisa che, rispetto alla luce che ne sarebbe discesa e più anche al prestigio in cui innalzavano la nazione, stimò sonnacchioso l’impegno e pigra la lena. In antitesi con l’orizzonte costruttivo in cui è contenuta questa visione si profila un secondo indirizzo per il quale la contemplazione dell’antico

si risolve nella sconsolata filosofia della condizione umana. Tale è la contemplazione di « un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partite accommiatandosi dai suoi »: è un titolo, e pare una didascalia per pianezza e precisione. Il canto fu composto, per prevalente consenso, a Napoli,” quando Saverio Starita era ormai per apparire nella vita del poeta, chiudendo in più ricco libro i suoi Canti. Non possiedo elementi per tentare un’identificazione del rilievo, ma ho avuto sempre l’impressione al solo ripercorrere quel titolo di vedere sullo sfondo una di quelle composte scene di commiato, modellate in nitide forme e soffuse di dolce mestizia che compaiono sulle stele attiche dell’età classica.* Non si potrebbe però escludere il richiamo a qualche lastra di

29 Lettera al Giordani del 24 Luglio 1828 (ed. cit., I, p. 1320 sg.). 30 Lettera a Giuseppe Melchiotri del 24 Giugno 1822 (ed. cit., I, p. 1128). 31 Cfr. nota precedente. 3 Cfr. U. Bosco, Sulla datazione di alcuni « Canti » leopardiani, in Studi varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori 1963, pp. 620-623 (cfr. pure ed. cit., I > p. CXLVIII). Il canto oltre tutto segue nell’edizione dello Starita Aspasia, che fu scritto a Napoli: « La chiusa di Aspasia (‘ Il mar la terra e il ciel miro e sorrido ’) ci dice con certezza che quel canto non può essere stato scritto che a Napoli: dunque, poiché sappiamo da un altro passo che fu composto in primavera, nella primavera del ’34 o del ’35» (cfr. U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Firenze 1957, p. 82). 3 Le linee dello scritto mi impediscono di condividere le conclusioni recenti d’una studiosa, che assegna il canto al periodo del 1831 e ’32 nella temperie delle esperienze fiorentine e romane e, interpretando l’aggettivo artico del titolo nel senso di eseguito all'antica per la

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sarcofago del tardo Impero o anche ad uno di quei rilievi che spesso rivestirono, in età romana, i lati dei monumenti funerari ad ara. Fu questa una corrente d’arte che discese dal gusto plebeo ed italico, al quale l’archeologia deve il più dimostrativo e vario repertorio di scene della vita quotidiana. La realtà del distacco ispira, ad esempio, le raffigurazioni frontali d’un sarcofago tardo di Ravello; * un pater familias, che intraprende

il gran viaggio appare sopra un’urna di Furore.® L’area campana è fertile di tale disposizione illustrativa. Il Leopardi poté imbattersi nel rilievo che lo ispirò in seno al Real Museo Borbonico, ch’era sulla strada obbligata tra l’abitazione del Vico Pero, numero 2, e il centro cittadino: non più che trecento metri, a valle del Museo, è quel Palazzo Bagnara nella piazza del Mercatello (ora Piazza Dante), dove in mezzo al circolo degli scolari del

Puoti apparve un giorno, atteso, il Leopardi.* Le sue uscite per le vie di Napoli, pure da solo, e finanche a tarda ora, avvenivano.” Non è poi mancato chi ha voluto identificare il « Lucerniere » d’un’ottava dei Paralipomeni (I, 40) con la statua di Ferdinando primo, creata dallo scalpello del Canova, la quale dominava da qualche decen-

suggestione esercitata da un passo dello Zibaldone, ritiene di potere identificare il rilievo che offrì lo spunto al componimento in quello del sepolcro romano per Clelia Severini, modellato dal Tenerani: cfr. ANNA VERGELLI, Genesi e linguaggio delle sepolcrali leopardiane, Roma 197//Mpp 821231 Nel rilievo neoclassico, come la studiosa dichiara, compaiono elementi come il velo, un cane, che paiono estranei alla purezza delle linee in cui il Leopardi mostra di avere fissato l’osservazione; a base della quale è da vedere pertanto un più essenziale monumento. E antico, naturalmente; ché parmi eccessivo gravare d’un senso, che l’attributo non dimostra di possedere, la lettura della parola. Una ricerca più pertinente, pur riconoscendone il significato marginale in relazione a un poeta come Leopardi che rarefà il reale nell’impalpabilità del simbolo, riterrei che possa partire dalla compulsazione dell’opera del Conze (Die attischen Grabreliefs, voll. 10, Berlin 1890-1922), che, anche per la particolarità dell'indagine, non si è avuto modo di consultare nella preparazione di questo scritto. 34 In Inscriptiones Italiae, I, 1 (Salernum), ad n. 156.

35 V. Bracco, Le urne romane della Costa d’Amalf, Amalfi-Salerno 1977, n. 12 (pp. 58-60). 36 Secorido la famosa pagina del De Sanctis (La Giovinezza, cap. XI). 37 È noto l’episodio, riferito da Ranieri (Sette anni etc. cit., p. 43) secondo il quale l’ospite gli venne un giorno innanzi « con un piccolo bastone », dicendogli: — Io vado fuori a bastonar qualcuno —. Ma, quella volta, uscirono insieme « e non si ragionò più del bastone ». Ma è il Ranieri medesimo che ricorda (p. 38) come il Leopardi, « quando stava manco male », andasse fuori solo, « per sottrarsi alla temperanza di un gelato o due ». « Ed una fra le sere — racconta Ranieri — che l’andavo a riprendere al Caffè al canto di Taverna Penta, a Toledo, allora delle due Sicilie, ora d’Italia, l'eccesso era stato tale, che ne trovai raccolto dall’un de’ lati un capannello beffardo, e, caldo e giovane, ne fui in pericolo d’una sfida ». Una volta, alle due di notte, assetato di sorbetti, il Leopardi era ancora in istrada (cfr. F. Lo Parco, I! gelato uno e trino di Giacomo Leopardi, « Il Giornale d’Italia » dell’8 agosto 1910). 38 Cfr. l’ed. cit., I, p. 1439. Sulla statua: L’opera completa del Canova, a cura di G. Pavanello, Milano 1976, p. 109.

Dili

nio lo scalone del Museo,” così come alla volta affrescata della grande sala centrale potrebbe richiamare l’accenno alla pittura che segue, nell’ottava, la citazione della statua. Nelle guide compulsate non ho trovato però traccia di un simile rilievo, che il Leopardi poté anche osservare in qualche raccolta privata e perfino in qualche chiesa, come in una chiesa, benché non si sappia quale, dové essere collocato quel monumento funebre di stampo probabilmente neoclassico che gli ispirò il canto successivo Sopra il ritratto di una bella donna: era questa, con l’arca o l’urna in basso e il medaglione in alto, una classe di monumenti affermata perfino in provincia sin dal primo Settecento, secondo un disegnare barocco sfrondato e armonioso che prelude alla temperie neoclassica." La materia è soltanto un’occasione e l’antico in sé, così pure il moderno, non forniscono che uno spunto, indipendentemente dalla loro essenza di tempo e di stile: non più che il soggetto, una scena d’addio nel caso del rilievo antico, fa insorgere una volta di più nel petto del poeta l’apostrofe contro la natura, che « per uccider » genera e nutre. Più vasta ala acquista la visione nella Ginestra, dove lo spettacolo di Pompei, che « torna al celeste raggio ... come sepolto / scheletro, cui di terra / avarizia o pietà rende all’aperto » mostra gli effetti del funesto potere della na‘tura non più in ordine allo stame del singolo ma alle fiorenti aiuole delle collettività civili. Vero è che, rispetto all’indeterminatezza del rilievo che ha destato l’ispirazione del canto precedente, Pompei ha oltre che in sé anche nella poesia i contorni di un riferimento storico preciso; ma ciascun vede come la discoperta città vesuviana possa risolversi in un simbolo delle eversioni per l’uomo esiziali che si contano in qualsiasi epoca e sotto ogni cielo. Dilatandosi così il pensiero verso linee d’ordine universale,

39 Ne fu rimossa nel 1860 e collocata in una sala interna del pianterreno (la terza sala, detta di Giove). Oggi è fuori dal Museo, ma nell’edificio medesimo, nel vestibolo da cui si sale agli Uffici della Soprintendenza. 40 Non figura certamente nell’elenco delle opere oggi esposte, in cui trovo un buon numero di rilievi ma d’altro soggetto: cfr. Branca TEoLATO Marurr, Museo Nazionale, Napoli, « Conoscere i grandi musei » (Novara 1971), Catalogo delle opere, p. 8 sg. # Potrei richiamare, nella chiesa che fu dei Francescani Riformati in Caggiano, nell'estrema provincia di Salerno, il lucido monumento alla diciassettenne marchesa Emanuela Vitilio, rapita di parto nel 1718; ancora oggi poco noto, ha suggerito al mio spirito, e non da ora, non so che accostamento ideale, per la dipartita precoce e per la beltà del sembiante, con la proposizione svolta dal poeta nel suo canto. Secondo lo scritto prima citato (ANNA VERGELLI, Genesi etc., p. 25), il sepolcro che il Leopardi ebbe presente, avendone forse visto « qualche prova », fu quello per Margherita Canton, anch’esso del Tenerani; cosa più plausibile codesta rispetto alla forzata ipotesi che a un’opera del Tenerani attribuisce l’ispirazione del canto precedente (cfr. nota 29), non fosse il fatto che rinvia il pensiero egualmente al periodo fiorentino e romano, mentre par certo _ si è detto — che anche questa poesia fu composta in Napoli, dove non credo difettino siffatti monumenti.

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l’antichità non può rimanere immobilmente conclusa in sé, principio e fine dell’osservazione, come invece s’è visto nell’ambito della direzione precedente. Cinquant’anni or sono un promettente archeologo in un piccolo libro considerava che la vita a Pompei quale a noi appare, sereni spettatori di una lontana catastrofe, sembra rianimarsi in un circolo fluido e corrente, ma non è che una parvenza, sotto la quale batte e risorge il ricordo del dramma immane: Anche quando Pompei ride — egli scriveva —, se uno ne fissa il volto, avrà l'illusione di veder disegnare quel riso sul volto di un cieco; e il riso del cieco desta tutta la pietà del veggente, perché è inseparabile dalla vista paurosa e soggiogante di due occhiaie vuote e profonde, che attraggono per forza, come due abissi che nessun ponte può superare.

Ecco: potremmo cogliere nel trascolorare dei due aspetti, in questa ambivalenza del fenomeno, la coesistenza in una sola e stretta combina-

zione dei due termini che abbiamo separatamente colto e distinto in singoli momenti e luoghi del Leopardi: da una parte l’esaltazione dell’« aurea antichità » con la connessa ansia del suo ricupero; dall’altra la visione dell’antichità come morte od occasione per ristabilirne il primato. Non compose il poeta i due aspetti, mancandogliene l’opportunità, in quella sintesi dialettica in cui il giovane archeologo del nostro secolo li accostò; non li compose in maniera esplicita, rappresentata, risolta nel fatto poetico, ma la distinzione individuata dei due momenti è un agevole spiraglio per intuire che nel suo spirito poté anche albergare questa opposizione. Una considerazione non mi pare secondaria: ai tempi del Leopardi la vista di Pompei inclinava più facilmente il pensiero verso la morte, e il senso illusorio della vita vi era assai meno percepito di oggi: il distacco delle pitture e l’asportazione di ogni bene mobile impinguavano, promiscua incetta d’antico, il Museo;

sul luogo i muri infranti si increstavano

d’erba e gli impluvi, senza il loro cielo, abbandonavano il proprio alveo di marmo ai rovesci incontrollati delle nubi. L’allineamento delle tombe fuori dalla Porta d’Ercolano incideva nel pensiero se commisurato alla minima parte della città rivelata tra le mura; il teatro grande, accanto alla

distesa della terra premente interi quartieri, più anche ricordava che nella cavea i pompeiani erano stati sorpresi dal primo fragore del vulcano; scheletri solitari e scheletri abbracciati nella comune

convulsione, offerti alla

vista di gentiluomini in cilindro e di dame con le mani fermate a mezz'aria dallo stupore su stampe e disegni, scandivano le pause della visita e allungavano il richiamo di Pompei in seno a una società sensibile al sepolcrale. 4 E. Magapi, Pompei e il suo dolore, Napoli 1930, p. 44 sg.

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La vena funerea è venuta diluendosi col mutare dei gusti lungo una città che progresso di scavi, affinamento nei ricuperi e zelo nella conserva-

zione ricostruiscono, ormai da circa un secolo, sotto gli occhi dei vivi, co-

lando anche nel gesso le sembianze degli abitanti fulminati. Per conse-

guenza, l’impressione immediata è oggi a Pompei quella d’una società petrificata in un attimo della sua storia, in guisa analoga a una pittura o a una fotografia che fissano senza limiti un momento determinato. Il pensiero della morte rampolla, ma in un secondo tempo, emergendo come da un piano sottostante all'apparenza viva. Il richiamo all’elemento sepolcrale sul principio d’un atteggiamento allora ricorrente estende il discorso alla terza significazione di cui si colorano, ad avviso di chi scrive, le antichità napoletane nello spirito del Leopardi: la disponibilità al pittoresco. Presso un poeta che fu sensibilissimo, e con quale chiarezza e profondità di accenti, al paesaggio, l’antico si levava anche come connotazione paesistica: in particolar modo a Napoli e contorni, per quella particolare intonazione avvertita all’inizio, per la più palpabile aderenza dell’antico alla natura e quasi per quell’incorporarsi in essa secondo cui le rovine si dispongono in quei luoghi. Introdotta l’apparizione di Pompei che, ischeletrita, torna all’aperto, il poeta, secondo quel periodare lungo ed arioso, dallo slancio quasi sinfonico, che è della Ginestra, prospetta le due vedute, diurna la prima, not-

turna l’altra; s’aggira in quella il visitatore stupito, svolazza in questa lo sgradevole chirottero, ma nell’una e nell’altra domina, sempre sospettata, la vetta che fu fatale diciannove secoli innanzi alla città: il pennacchio, che fuma contro l’azzurro agli occhi del pellegrino, riverbera di notte le sue fiamme tra le mura svuotate dell’alito dei vivi. Ha la veduta al sole come suo centro il Foro, la piazza grande, che è la prima a rianimarsi entro le linee dissepolte, a segno che anche oggi, dopo la rivelazione di altri interi quartieri, rimane questo il luogo di convergenza dell’onda affluente e diffluente che invade e lascia Pompei. È al centro della visione notturna l’appartato e intricato quartiere dei teatri, coi fili di ragno dei suoi vicoli prossimi, coi muri che fanno groppo, con l’ombra lunga che si distende. Ma non precediamo oltre il fluire in grande sintesi del canto: E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell’orror della secreta notte Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte

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Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per voti palagi atra s’aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l’ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Non so se sia stata finora avvertita l’esattezza dei particolati, che riflette un’esperienza diretta, a cielo chiaro, ma agevolmente estesa, nel se-

condo dei due periodi, al cuor della notte. Il Ranieri scrive infatti che dalla villa Ferrigni conduceva spesso in carrozza l’ospite alle due Torri (dell'Annunziata e del Greco), nonché

a Pompei“

Era venuto

alla luce

appunto in quei decenni — dal 1813 al ’28 — il Foro con la maggior parte dei suoi edifici pubblici, e tronchi vide il Leopardi i colonnati che noi vediamo parzialmente rialzati sui due lati lunghi di questa piazza, topograficamente eccentrica, ma vitalmente centrale nel perimetro cittadino. I ferzpli, i teatri non sono amplificazioni poetiche, come potrebbe apparire, in relazione a una città non grande, soprattutto il secondo riferimento. Si imponeva già tra le scoperte il Capitolio o Tempio di Giove in fondo a un lato breve del Foro, che un rilievo del larario di Lucio Cecilio Gio-

condo rappresenta fortemente inclinato per esprimere con semplice accorgimento il danno sofferto dal massimo edificio religioso nel terremoto che precedé di meno che vent’anni l’eruzione; era tornato alla luce sin dal secondo Settecento il Tempio d’Iside con le sue pitture inerenti al rito che, dopo accrescimenti smisurati di notizie e scoperte d’ogni genere, sono ancora l’illustrazione più dimostrativa ed eloquente di quella religione: aveva questa ripreso afre in Pompei, dopo il terremoto del ’62, con la ricostruzione del tempio, e quindi col suo rivestimento pittorico, effettuata a spese di un ragazzo di appena sei anni, Numerio Popidio Celsino, il quale s’ebbe l'onore del decurionato gratuito, e naturalmente simbolico, per il gesto munifico che i genitori avevano affidato al suo nome. La regione dei teatri, di cui il tempio fa parte, era stata fra le prime a interessare gli scavi borbonici, così che furono presto rivelati tanto il grande teatro con la

cavea adagiata alla greca nel grembo d’un breve declivio naturale, quanto il piccolo teatro coperto, il « theatrum tectum » nominato dall’epigrafe* che ne ricorda la costruzione avvenuta poco oltre l’età sillana, all’inizio della fortuna romana

della città, elevata di fresco a colonia.” Le « rotte

43 4 45 4

La Ginestra, vv. 274-288. Cfr. A. RANIERI, Sette anni etc. cit., p. 46. Per l’iscrizione: CIL, X, 846 (= ILS, 6367). CIL, X, 844 (= ILS, 5636). 47 Per la deduzione della colonia e la popolazione di Pompei dal periodo sillano in poi

AMO

case » raffigurano, come più visibilmente non si potrebbe, l’aspetto che

assumevano, una volta liberate dalla coltre eruttiva e piccolo reperto, le abitazioni. Gli elenchi degli oggetti testata alla « Direzione del Museo Reale Borbonico » natamente sul corso di quegli anni: « Verbale de’ 30 rinvenuti nella Casa di Meleagro frà l’ammasso delle

spogliate d’ogni più stesi sulla carta ins’allungano intermiSettembre. Oggetti terre nella stanza a

sinistra l’ingresso, cioè di Oro, Una moneta di Nerone; Bronzo, N° 3 stri-

gile, N° 3 pezzetti di guarnizione, Un lucchetto di serratura ... ». Ho letto a caso da un foglio del 1829.# Dopo il risucchio spaziava la lucertola o il ramarro, che scompativa tra le crepe al passo del forestiero che varcava la soglia abbandonata. Del secondo periodo tutti avvertono la suggestiva somiglianza d’atmosfera coi due passi di somma bravura tecnica e di compiaciuta adesione al gusto notturno con cui il Foscolo spiana la veduta dei cimiteri abbandonati e quella dei pugnanti ridesti sul campo di Maratona. Ma nell’esempio di Pompei la visione partecipa della trasfigurazione assai meno di quanto potrebbe credersi, perché corrisponde a un preciso costume di visitare quelle rovine di notte, del quale il Leopardi era probabilmente informato. Per il solo luglio del 1833 trovo tre permessi ottenuti dal Generale Balzani, dal Principino di Santaseverina, dal Cavaliere Cockburn per osservare Pompei « al chiarore della luna », da soli o, come nel caso del Principe, « in compagnia di alcune famiglie inglesi ». Né eran tutti altolocati coloro che accedevano a quel privilegio, ma anche comuni cittadini, che s’avvalevano di qualche mediazione influente: nell’agosto di quell’anno, accanto al Conte Lebzeltern, ministro plenipotenziario dell’Imperatore d’Austria, che chiede per la Contessa Lavall, sua suocera, il permesso di

visitare Pompei in carrozza, compare un signor Reale che, su richiesta del Duca di San Teodoro, desidera anch’egli osservare Pompei « al chiarore della luna ».* Naturalmente, nel contesto della Girestra, la veduta notturna, per l’es-

senza stessa della notte che attira il pensiero al sonno eterno, cospira con lo spettacolo in sé della morta città nell’acuire la dimostrazione degli effetti a cui soggiace la prole umana sotto l’impero dell’ostile natura. La grandezza è qui. Per i più la visita si esauriva nella labilità d’un’esperienza, ispirata dalla curiosità o dal capriccio: il Serracapriola viene a pranzare entro Pompei nell’ottobre del ’32, Maria Carmela Cito dei Marchesi di cfr. P. CASTRÉN, Roma 1975.

Ordo

populusque

Pompeianus.

Polity

and

Society

#8 ASN, Ministero dell’Interno, II inv., fs. 2097. # ASN, Ministero dell’Interno, I inv., fs. 1001, fascicolo 6. 50 Cfr. nota precedente.

316

in Roman

Pompeii,

Torrecuso vuol percorrerla a cavallo, e come lei il signor Visconte, mentre alla figlia della Signora Montefiore, nata Rotschild, si accorda la licenza di girarvi sull’asino.! L’esperienza del Leopardi, favorita dal soggiorno in villa e rimeditata a petto del vulcano nella nitida semplicità della dimora, che un portichetto di ricordo neoclassico avrebbe un giorno abbracciato falsandone l’aspetto tese l’ala nel canto dell’universale compatimento. Il soggiorno napoletano non fu la premessa assoluta dell’attenzione per Pompei nello spirito e nell’opera del Leopardi; la cornice dello spettacolo archeologico e naturale, dominato dallo « sterminator Vesevo », acuì l’osservazione, e con questa la riflessione si allargò verso l’inerme precarietà a cui l’uomo è esposto nel mondo. Ma l’attenzione per sé stessa doveva essere presente anche prima nel suo spirito di contemporaneo informato e di dotto lettore; ne è segno una nota dello Zibaldone, che, nel 1828, trascrive dal francese del Bulletin universel des sciences del Ferussac la descrizione d’una scoperta avvenuta a Pompei. La casa delle pitture, c'est ainsi qu’on nomme

une maison découverte

à

Pompéi à cause des fresques qu’elle offre, les plus belles et les mieux conservées de toutes celles qu’on a trouvées jusqu’en ce moment. Le 12 février 1825, on commença à débarrasser l’entrée de cette maison. On trouva sous la porte un fragment de mosaïque d’un travail médiocre. Il représente un grand chien, la chaîne au cou, dans la position de défendre l’entrée de la maison. Au bas se trouvent les mots suivants: CAVE CANEM.*

La Casa delle Pitture, coi suoi vani eccezionalmente conservati, aveva colpito il Leopardi, curioso lettore della resurrezione di Pompei, che conquistava l'Europa. Ma perché dal particolare passi al generale, dalla pagina antiquaria al respiro che governa l’insieme, dovrà conoscere il poeta coi suoi occhi quei luoghi e farne quell’esperienza che lo ricongiungerà al suo antico lamento contro Colei che di tutti è madre ed è matrigna. Altra via prende il pittoresco quando ci guida a visitar Topaia. Un budello s’attraversa per raggiungerla, che s’inviscera sotterra similmente alla Crypta Neapolitana per Puteoli. O se a Napoli presso, ove la tomba pon di Virgilio un’amorosa fede, vedeste il varco che del tuon rimbomba spesso che dal Vesuvio intorno fiede, 51 Cfr. nota 45. 52 Fu il conte di Ruvo, nelle cui mani la villa Ferrigni era finita per lascito nel 1907, che l’anno successivo vi aggiunse il porticato « pseudoclassico »: cfr. I. OrIGO, Leopardi, Milano 1974, p. 446, nota 3. 53 Cfr. l’ediz. citata, II, p. 1177.

317

colà dove all’entrar subito piomba notte in sul capo al passegger che vede quasi un punto lontan d’un lume incerto l’altra bocca onde poi riede all’aperto.*

La visione, qui, non è come nella Ginestra, spunto nel reale per intonare la dolorosità del canto, ma pezza d’appoggio, similitudine per discorrere liberamente nel fantastico: una sorta di verifica nella realtà per legarvi in qualche modo la materia inventiva; qualcosa di analogo a certe stampe piranesiane che attingono e avvolgono d’una luce spiritata gli elementi visti. Il moto scorre così antitetico rispetto al canto mentovato: lì il vero particolare coi suoi materiali contorni guida e stringe il pensiero in termini di verità universale, scaglia di cristallo contemplando la quale si vaglia e giudica la natura della sfera; qui invece è il vero un incitamento a seguitare nelle piste dell'immaginario, secondo una libertà, per questo aspetto, ariostesca.® Quella cripta, finché i tempi moderni apriranno una dopo l’altra due gallerie perforando la medesima collina, era ancora ai tempi del Leopardi, per chi volesse evitare il lento aggiramento dell’altura, l’unica via spedita di terraferma che collegasse Napoli e il Vesuvio con la regione Flegrea; percorso da pedoni e da carriaggi in tutte le ore del giorno e nella notte ai margini della città più vociante d’Italia e, per secoli dopo Parigi, più popolosa d’Europa, in seno a un territorio che è ancora il più densamente abitato della Penisola, il traforo s’era trovato ad essere una delle più pratiche e vantaggiose eredità lasciate dai Romani sull’arco del golfo.* Questo budello, lungo poco più di settecento metri, largo in cifra tonda tre ed alto poco più di cinque, tagliato nella massa tufacea di Posillipo dall’architetto d’Augusto Cocceio, avrebbe servito i napoletani di tutte le età e di tutte le dinastie; e, nel momento in cui ne aggiustava al fuoco della sua immaginazione il richiamo, non immaginava il poeta che un giorno non lontano vi sarebbe passato, in un’estate colerosa e di notte, anche il suo corpo esamine verso il riposo, non ancora estremo, di Fuorigrotta.

Se la Crypta è il corridoio per accedere a Topaia, Ercolano riflette di questa la condizione profondamente sotterranea. Altro segno del reale, 5 Paralipomeni, III, 4 (ed. cit., I, p. 260). 5 Per le relazioni tra lo spirito inventivo e l’ottava del poemetto con la tradizione cavalleresca e l’Ariosto in particolare è utile il capitolo di A. BRILLI, Satira e mito nei Paralipomeni leopardiani, Urbino 1968, pp. 34-70. % Su quest’opera, oltre alle guida consuete, piace qui ricordare una pagina di Maiuri, bellissima com’eran le sue: A. MaruRI, Saggi di varia antichità, Venezia 1954, p. 128. Ma cfr. ora anche A. MarINIELLO, La Grotta vecchia di Napoli, « Mondo Archeologico », genn. 1977, pp. 40-46. Per le vedute del monumento, fra Sette e Ottocento, si rinvia a Civiltà del 700 a Napoli, I, Firenze 1979 (rist. 1980), pp. 426-427 e pp. 430-431.

318

introdotto, in similitudine, lungo il discorrimento fantastico per colorire

d’esperienza acquisita i luoghi dell’invenzione: D’Ercolano così sotto Resina, Che d’ignobili case e di taverne

Copre la nobilissima ruina, Al tremolar di pallide lucerne Scende a veder la gente pellegrina Le membra afflitte e pur di fama eterne, Magioni e scene e templi e colonnati Allo splendor del giorno ancor negati.”

È la città che a Resina fa « da sgabello » secondo l’espressione con cui il poeta vi alluderà nella Girestra; e, se è vero che dal 1927 anche Ercolano è divenuta progressivamente una realtà dispiegata alla luce,® è anche vero che i maggiori edifici in cui si imbatté il Settecento rimangono invescati nella massa del torrente di fango petrificato che seppellì l’abitato. Non sfugge l’esattezza con cui il cantore nel polisindeto di un sol verso ha addensato le cose investite dallo scavo talpiforme dei cunicoli che prese lena in fondo ai pozzi: « magioni e scene e templi e colonnati ». Potrebbe sembrare un luogo ricorrente come quello che unisce gli elementi di spicco d’uno scavo in area classica, ma non è. Ecco, con le case, citate le scene, ossia coi suoi tesori di statue e la cavea, la scena del teatro, innalzato in

Ercolano alla romana come plesso edilizio autonomo e coerente diversamente che a Pompei; i ferzpli, ed è vero che il piccone di quei cavamonti ne toccò più d’uno; i colonnati, con certa allusione, in quanto sviluppo o fuga di colonne, al lungo impianto della Villa dei Papiri. L’antico non è che un ritaglio della realtà. Vano sarebbe chiedere all’opera d’un poeta che dalle reliquie del passato trasse un certo numero d’occasioni, un bene più organico ed ampio. Massime da un poeta che lesse così addentro nella condizione di tutti, rarefacendo la densità delle linee fisiche. Pure, è l’antico un aspetto che, a suo modo, è entrato nell’opera

del Leopardi; e non più che nei limiti in cui divenne parte del suo mondo, è parso non inopportuno richiamarne l’evidenza e la varietà dei piani. VITTORIO 57 Paralipomeni,

BRACCO

III, 11 (ed. cit., I, p. 261).

58 Sulla ripresa degli scavi ad Ercolano, ancora un rinvio a Maiuri, che ne fu l’artefice: A. Maturi, Vita d’archeologo cit., pp. 119-121. I meriti dello studioso e il rilievo della sua prosa sapida indussero uno scrittore meridionale a domandarsi se sarebbe egli piaciuto al Leopardi: riscontrato il paesaggio di morte della Ginestra e concluso che il poeta distruggeva là dove l’archeologo costruiva, avvertì finalmente

nelle ottave dei Paralipomeni, pervase dall’ansia di resurrezione delle città sepolte, il punto in cui il grande poeta e il grande archeologo potevano idealmente incontrarsi: cfr. B. LuCREZI, 14 uomini per un uomo, Napoli-Firenze 1968, pp. 221-233.

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Leopardi e gli errori popolari degli antichi

È nota la vicenda editoriale del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Composto nel 1815 in due o tre mesi, tra maggio e luglio, « doveva stamparsi a Roma » (ci assicura, non so in base a quale testimonianza,

il Viani), ma la stampa non fu eseguita; onde il Leopardi « ne mandò copia di netto carattere, corretta di mano propria in più luoghi, e di propria mano scrittevi le parole greche » all’editore Stella, ma anche a Milano, come a Roma (s’ignora « per qual cagione »), « non se ne mandò ad esecuzione il disegno ». L’implicito rifiuto degli editori ci induce a ritenere che il Saggio non doveva rispondere a richieste di mercato e ad esigenze di lettura del pubblico. Questo fin dal tempo della sua composizione, nonostante che il giovane autore, nell’inviare il manoscritto

sforzasse blico del mobilità Leopardi

di attribuire alla sua opera una novità di tempo non poteva essere percepita e di trattazione, che apparentemente non riconobbe in séguito, considerandola un

allo Stella, si

argomento che dal pubfacesse intravedere una c’era come lo stesso « cumulo di materiali »

i P. VIANI, A Giovan-Battista Niccolini, nella prima edizione del Saggio leopardiano, che cito alla nota 8. 2 Ecco quanto ne scrisse il Leopardi, come è riportato da P. Viani nella introduzione sopra citata (pp. vir-vini): « Questo Saggio filosofico e critico sopra una materia non ancor tocca dagli scrittori è destinato a far conoscere gli errori popolari degli antichi, la loro grande affinità con quelli dei moderni, e l’utilità che si può ritrarre dall’esempio delle età passate. Cogli autori Greci e Latini alla meno si parla dei pregiudizi communi ai Greci, ai Romani, ed anche degli Ebrei; e si passa con ordine dai Teologici ai Metafisici, e da questi agli Astronomici, ai Geografici, e a quelli appartenenti alla Meteorologia, alla Storia naturale dell’uomo, alla Zoologia. Si scherza sopra gli errori popolari più curiosi e ridicoli intorno alla Magia, ai Sogni, allo Sternuto; alle Apparizioni degli spiriti sul meriggio, ai Terrori notturni, alla natura del Sole, all’anima e al cibo degli Astri, all’Astrologia, all’Ecclissi, alle Comete, alla grandezza della terra abitata, al tuono, al vento, al tremuoto, ai Pigmei, ai Cinocefali, e ad altri mostri semiumani; alla lunghissima vita e risorgimento della Fenice, alla vista della Lince; e filosoficamente se ne esaminano la origine ed i progressi. Dagli antichi si passa ad ogni tratto ai moderni; si additano le sorgenti dei nostri errori popolari, e le cause che li fomentano; si parla del progresso delle scienze e della loro influenza sopra il volgo. L’opera è divisa in diecinove capitoli tutti forniti di note giustificative, coi testi originali dei passi latini citati in italiano nel contesto ». 3 Vedi lettera al Giordani del 5 dicembre 1817 (ediz. Flora, n. 56, p. 110): «Il Luglio passato, la lettura de’ trecentisti m’invogliò di scrivere un trattato del quale anni sono avea

Dal 21

da elaborare e che, però, non elaborò nella forma filologica in cui l’aveva progettata, perché quella materia nella sua essenza filosofica e poetica do-

veva lievitare in altre forme della produzione leopardiana. Sta di fatto che il Leopardi non si distaccò mai da quella sua opera giovanile, né smise mai del tutto l’idea di darla alle stampe, come prova l’altalena delle sue richieste e non-richieste di restituzione del manoscritto all’editore Stella il quale non si risolse mai di pubblicarla. E riluttante alla pubblicazione di essa, almeno nella sua forma originaria, fu in prevalenza e in definitiva lo

stesso Leopardi come dichiarò per lettera al De Sinner in data 17 febbraio 1831: « Pour ce qui est de l’Essai sur les erreurs populaires, je consentirais à le vendre même pour le nom, c’est-à-dire à ce qu’il fût publié sous le nom d’un autre; car, croyez-moi, sans le réfondre entièrement, il est

impossible de le rendre un ouvrage capable de nous faire honneur »; *e ribadì allo stesso De Sinner nel maggio ’31, propendendo — mi pare di capire — addirittura per la vendita del manoscritto: « Nonostante l’indulgenza colla quale voi giudicate del Saggio su gli errori popolari, io sinceramente persisto a credere che il venderlo tal quale è in anima e in corpo, cioè anche per il nome, sia il migliore, e forse il solo uso che possa farsene. E se ciò si potesse presentemente far con profitto, io ve ne pregherei. V’assicuro ch’io sono intimamente convinto che da quel libro non possa venirne onore alcuno; e però la questione è di trarne la maggior somma possibile di danaro ».° preparati e ordinati e abbandonati i materiali. Ne scrissi il principio e poi lo lasciai per miglior lettera allo stesso Giordani del 29 dic. 1817 (ediz. Flora, n. 59, p. 118): « Il trattato cominciato e poi piantato era degli errori popolari degli antichi, intorno ai quali ho un tomo di materiali accozzati qualche anno fa: ma questo è poco o nulla, perché quasi mi dovrà essere più difficile lo scegliere che non fu l’accumulare. Del trattato proprio non ho scritto altro che poche poche carte ». 4 Lettera del 27 dic. 1816 da Recanati: «Quando non abbia a farne più uso potrà insieme farmi riavere i Mss. della traduzione di Frontone, e del Saggio sopra gli Errori popolari degli antichi » (ediz. Flora, n. 19, p. 33). Lettera del 4 febbr. 1826 da Bologna: « Ella forse si ricorderà che io le mandai una volta il ms. di una mia opera giovanile intitolata Saggio sugli errori popolari degli antichi. Se le piacesse ora di rimandarmelo (salvo sempre che ella non ci abbia veruna difficoltà), forse potrei farne qualche uso. Quanto più sollecito fosse il mezzo che ella usasse a spedirmelo, tanto più tenuto le ne sarei » (ediz. Flora, n. 410, p. 632). Ma non lo riebbe, forse perché andato smarrito. Leopardi se ne rammaricò nella lettera del 17 febbr. 1830 da Recanati, raccomandando all’Editore che i manoscritti dell’ Epitteto e dell’Isocrate, mandatigli fin dal 1826, « (che sono unici) in nessun caso potessero andare smarriti, come andò quello del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi » (ediz. Flora, n. 698. p. 934). Ma, ritrovato (suppongo) che fu, il 2 sett. dello stesso anno da Firenze gli diceva di trattenersi « ancora il ms. degli Errori popolari, lavoro troppo giovanile, perché io possa farne uso » (ediz. Flora, n. 724, p. 948). 5 Ediz. Flora, n. 740, p. 960. a Lettere, ediz. Flora, n. 748, p. 966; vedi anche le lettere del 1832 (24 maggio e 31 luglio): «Io potrò ad un vostro avviso mandar costì alcune poche e brevi note da me prese tempo ». E la successiva

322

Sporadico e frammentario era, di fatto, l’interesse del pubblico colto negli anni trenta, in Italia come in genere in Europa, per una problematica già risolta ai vertici con l’illuminismo. Rimaneva la curiosità di base per le tradizioni anomale, esotiche e suggestive, tra le quali trovavano posto le testimonianze antiche e moderne del Saggio leopardiano, del quale, infatti, quasi tutto il capitolo XV che tratta di Pigmei e Giganti fu inserito nel vol. di J. Berger de Xivrey, Traditions Tératologiques (1836). Né maggiore favore il Saggio poteva incontrare e incontrò di fatto dopo la sua pubblicazione postuma, avvenuta nel 1846 a cura di Prospero Viani," che lo presentò come esempio dell’ampiezza e precocità di erudizione e d’ingegno del Leopardi, i cui alti meriti erano ormai monopolizzati dalla produzione poetica. Per il fine pratico e pubblico, che il Saggio dichiarava di perseguire, ch’era quello di combattere l’errore in nome della ragione e della fede, esso risultava a metà Ottocento ancora più fuori tempo: era di fatto in ritardo rispetto alla battaglia settecentesca contro l’errore, in anticipo rispetto alla ripresa scientifica di quella problematica da parte dell’antropologia inglese, che invase e influenzò tutta l’Europa intellettuale della seconda metà del secolo. Motivi circostanziati questi, che valgono per italianisti, anzi leopardisti, e antropologi della letteratura, a cui il Saggio interessa 0 può interessare per stimoli divergenti e/o convergenti. Per il pubblico non specialistico di ieri e di oggi si aggiungano motivi generali che valgono per il 1815 e il 1980 e che sono costituiti dai caratteri dell’opera: ressa di citazioni classiche, mancanza di una spiegazione popolare, che non sia quella strettamente filologica dell’errore, e di una giustificazione logica e laica della supremazia della ragione, genericità dei riferimenti al mondo moderno, tenuta tutta libresca della trattazione.

La notata impersonalità della trattazione, attribuita alla giovane età dell’autore, è una pseudo-giustificazione biografica contraddetta dall’anch’essa giovanile e rivelatasi tanto qualificante produzione filologica, a cui pure il Saggio appartiene forse non marginalmente. Essa ha pesato, comunque, notevolmente, insieme con la non sintonia con i tempi e con il

più tardi, relative ad altri errori più curiosi e meno conosciuti » (n. 816, p. 1033); « Manderò ancora i supplementi ... quando saranno copiati » (n. 829, p. 1051). 7 Ce ne informa così il Flora: « Buona parte del capitolo XV (Pigmei e Giganti) fu pubblicata nel vol. di Jules Berger de Xivrey, Traditions Tératologiques, Paris, à l’Imprimerie Royale 1836, pp. 102-108. L’esemplare posseduto dalla Nazionale di Napoli (L.P. 2032) reca la dedica manoscritta: A Monsieur le Comte Leopardi hommage dû par l’auteur» (Poesie e prose, ediz. Flora, p. 1127, nota). 8 Di Giacomo Leoparpi volume quarto: Saggio sopra gli errori popolari degli antichi; pubblicato per cura di Prospero Viani, Firenze 1846. Ho presente la « quarta impressione »

del 1855.

325

presunto carattere arcaizzante e francesizzante della lingua adoperata,’ sui giudizi dei critici. Tali giudizi sono in maggioranza negativi sull’opera i complessiva. listica romantico-naziona Il primo attacco venne sferrato dalla critica del De Sanctis.!° Confrontandolo per la data di composizione agli Inni manzoniani, sullo sfondo del napoleonismo di Waterloo e del provvidenzialismo della Santa Alleanza (che sono — notiamo noi — referenti diversa-

mente valutabili da Milano e da Recanati), egli giudicò il Saggio « opera morta ».

A rivalutarlo è certamente valso il fruttuoso prelievo che la critica idealistica (Flora, Russo, De Robertis, Figurelli) !! ha fatto di brani, motivi e immagini che preludono alla produzione poetica leopardiana per una corrispondenza che tocca talvolta l’identità nella rappresentazione lirica e persino (ciò che conta anche antropologicamente) nella semantica delle

parole e nella funzione dei costrutti. Senonché l’aver considerato quei ricorsi tematici e persino formali come anticipazioni poetiche e solo come tali (si sa quanto sia fallace il concetto stesso di anticipazione) e l’aver selezionato in ragione del loro valore anticipativo alcune parti dell’opera (che è un’altra illegittima operazione metodica della critica idealistica) ha concorso, io credo, a far leggere e giudicare il Saggio solo in funzione del ‘dopo’ e per di più del solo ‘ dopo” poetico, predominante in Leopardi e privilegiato dai critici.!! Laddove, a mio avviso, il Saggio ha una sua or9 Contro tale giudizio d’impurità linguistica, espresso dal De Sanctis e dal Moroncini e condiviso da molti critici, F. Figurelli (nel saggio che cito nella nota 11), pur riconoscendo l’esistenza di taluni francesismi, rivendica all’ Autore del Saggio il « pieno possesso della tradizione umanistica e delle fondamentali qualità letterarie della nostra lingua ».

10 F. De Sanctis, La letteratura nel secolo XIX, III, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, 2° ed., Bari 1961, pp. 18-28. Vedi anche il volume Leopardi del De Sanctis, a cura di C. Muscetta e KR. Perna, Torino 1960, « che riunisce tutti gli scritti desanctisiani d’argomento leopardiano ». 1! EF, Fora e L. Nicastro, Storia della letteratura italiana, XII, pp. 141-142; G. LeoPARDI, I canti, a cura di L. Russo, Firenze 1945, pp. Saggio sul Leopardi, 3° ed., con due studi aggiunti, Firenze 1952, pp. Il Saggio sopra gli errori popolari del Leopardi, « Annali dell’Istituto e Lettere ‘S. Chiara’ di Napoli », n. 6, s.a.

2° ed., Milano 1924, 2-4; G. DE RoBERTIS, 33-48; F. FIGURELLI, Superiore di Scienze

2 È merito di G. Crocioni, Il Leopardi e le tradizioni popolari, Milano 1948, pp. 129-160, l’aver rivendicato la importanza « varia e molteplice » del Saggio con un’ampia illustrazione del suo contenuto. Il Crocioni, oltre a rilevare l’influenza del Saggio nelle opere successive in poesia e in prosa del Leopardi, accennò pure al suo allineamento alle tendenze del pensiero europeo di ricerca degli errori popolari. È, tuttavia, finora sfuggito a tutti gli studiosi del Saggio e del Leopardi il contributo di analisi, in buona parte originale e comunque interessantissimo per il suo tempo, dato da D. Ciàmpoli col saggio L'estetica della tradizione nel

Leopardi, Il critico successivi scartabile,

324

nei suoi Nuovi studi letterari e bibliografici, Rocca San abruzzese ritrova un raccordo specifico dell'elemento scritti leopardiani (pp. 395-396), avanzando l’audace che « il materiale nuovo [...] adoperato [nelle prose]

Casciano 1900, pp. 379-398. tradizionale tra il Saggio e supposizione non del tutto facesse parte del ‘Trattato

ganicità e autonomia che gli vanno restituite e d’altra tica e problematica hanno una presenza continuativa e anticipatoria, in quanto in nessun momento conclusa) del pensiero poetante di Leopardi," che va recuperata

parte la sua temadeterminante (non nello svolgimento anche come chiave

interpretativa della poesia. Questa mi pare la via più conveniente

da

battere. Tale proiezione in avanti non è affatto interdetta, anzi si sviluppa proprio dal carattere ‘ fiduciosamente razionalistico ’ della religiosità giova-

nile del Leopardi, testimoniata dalle Dissertazioni filosofiche dell’11-12, che ha ben precisata S. Timpanaro. Questi ha altresì puntualizzato che il Saggio « rappresenta il risultato ultimo e, a suo modo, perfetto di quel tipo di divulgazione illuministico-cattolico verso cui [...] il Leopardi era stato orientato inizialmente dai libri della biblioteca paterna (s’ntende che, in certi passi già notati dagli studiosi, il Leopardi è fin da ora scrittore ben più originale ed efficace dei suoi modelli) »." Coerente con la posizione assunta (nell’atmosfera familiare) dal giovanissimo Leopardi nei riguardi del cristianesimo è la prospettiva, indicata da Binni, che scopre nel Saggio un impegno civile e morale di propagazione del vero: È in tale prospettiva di progressivo, anche se complicato ed incerto sviluppo intellettuale, che vanno soprattutto letti i due trattati, fra ’13 e ’15, la Storia dell’astronomia e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che si alimen-

tano insieme del crescente impegno erudito e filologico, portato avanti — sulla base dei libri offertigli dalla biblioteca paterna e di una cultura che, attraverso questi, si viene lentamente sprovincializzando e arricchendo — con una chiara vocazione di eccezionale lucidità intellettuale e capace poi di sorreggere un’autentica attività di vero e grande filologo, ma intanto soprattutto sottesa da un forte bisogno di chiarimento e di intervento culturale, di battaglia per la verità e per la sua divulgazione.”

Non v’è dubbio che un serio proposito divulgativo, sottolineato anche da Achille Tartaro nella Letteratura laterziana,'" emerga nel Cap. I, che sugli Ebrei’, ch’egli intendeva scrivere e poi smesse servendosene così in più degna e mirabile maniera ». Sul Saggio leopardiano il Ciàmpoli aveva già fatto acute osservazioni in uno studio precedente su La natura nelle opere di G. Leopardi, Aci Reale 1889, ripubbl. nei suoi Studi letterari, Catania 1891, pp. 1-73. 13 Si attaglia bene a tale raccordo il titolo e il filo conduttore del recente saggio leopardiano di A. PRETE, Il pensiero poetante, Milano 1980. 14 S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa 1965, p. 188. 15 W. BinnI, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, pp. 19-20. 16 A. TartARO, Giacomo Leopardi, nella « Letteratura italiana - Storia e testi », vol. VII, t. I, Il primo Ottocento. L’età napoleonica e il Risorgimento, Bari 1977, cap. VII, pp. 643840: 656-660.

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dà l’Idea dell’opera. È poi esplicito nel Capo IX Del Sole un certo impegno sociale, orientato pedagogicamente, allorché Leopardi denuncia « la sproporzione immensa che passava tra il numero dei filosofi e quello della classe ignorante ».” Tale impegno non va, però, sopravvalutato, come mezzo di dare giustificazione sociale e concretezza a un’operazione che, nei limiti obiettivi della condizione recanatese, rischiava di risolversi in un esercizio filolo-

gico fine a se stesso.® Perché si tratta di un impegno proprio di tutto il riformismo illuministico, per cui l’intervento leopardiano si allinea, anche dove se ne dichiara distaccato, al collezionismo finalizzato degli errori volgari, che fu intenso specialmente in Inghilterra e in Francia, mirante, nell’intento generale e comune di raccoglitori e scrittori in proprio, a rimuovere pregiudizi e credenze, che ostacolassero il cammino del progresso, illuministicamente identificato col trionfo della ragione. Di questa grossa operazione culturale si conoscono soltanto alcuni campioni a livello teorico. Sono poco conosciuti i trattati pratici che scendevano nei settori più vulnerabili della vita quotidiana a correggere credenze, abitudini e comportamenti della gente comune. Fra questi trattati va ricordato, per la sua contemporaneità col Saggio del Leopardi, quello del filologo francese Anthelme Richerand, Erreurs populaires relatives à la médecine (1810 e in

17 Il passo merita di essere ricordato: « Quando tutta la classe illuminata unanimemente matcia sotto gli stessi stendardi, la forza unita di un esempio generale può influire qualche poco sopra le menti del volgo: ma quando le opinioni, non già momentaneamente, ma sempre e senza speranza di conciliazione, erano divise; quando Talete, Aristotele, Zenone, Epicuro, regnavano quasi nello stesso tempo sopra un piccolo numero di seguaci, quale influenza poteano esercitare delle forze piccole e separate sopra la gran massa del volgo, ovvero, perché dovea questo lasciarsi persuadere piuttosto da Aristotele che da Platone, piuttosto da Zenone che da Epicuro? Se a ciò si aggiunga la sproporzione immensa che passava tra il numero dei filosofi e quello della classe ignorante, perché in un tempo in cui si mancava della stampa, e di tanti altri mezzi di facilitazione e d’incoraggiamento per le scienze, pochissimi si applicavano allo studio; si vedrà che tra il sapere ed il volgo non potea quasi avervi veruna relazione. Quindi ciò che forma l’oggetto della fisica, siccome anche ciò che appartiene alle altre scienze, era intieramente abbandonato alla discrezione del popolo, senza che questo potesse sperare di ricever socorso dai filosofi » (ediz. Flora, pp. 306-307). 18 Che è un eccesso che rischia di sopravanzare anche un giudizio così acuto com’è questo di A. Tartaro (1977, pp. 659-660): «Lo scrupolo del divulgatore, nella duplice prospettiva dell’erudizione settecentesca e della più vivace saggistica di tipo illuministico, tra Fontenelle e Voltaire, compresi alcuni dei maggiori esemplari italiani (Algarotti, Bettinelli), è il sintomo di una coscienza culturale già sufficientemente matura per scoprire, prima o poi, i limiti oggettivi della condizione recanatese: il rischio in particolare di esaurirsi in un ambito poveramente accademico e provinciale. Il modello del ‘letterato cristiano’ e il sentimento che gli si collega di un’impegnativa missione di verità operano in questo senso positivamente. Predisponendo il giovane ad assegnare ai propri interessi una più alta giustificazione sociale lo sensibilizzano al problema della propria identità intellettuale inducendolo presto a valutare il pericolo che a Recanati, in una realtà subalterna, tagliata fuori dalla cultura contemporanea, quegli interessi s’insteriliscano in un esercizio privo d’ogni significato ».

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edizione riveduta 1812).° Ma si ignorano i raccordi fra teoria e pratica, perché la storia della cultura è stata a torto intesa sempre come storia esclusiva delle verità dei pochi e delle ragioni degli eletti; si è trascurata la storia degli errori, che sono dialetticamente anch'essi verità, verità delle masse; e si è di conseguenza trascurata la lotta all’errore come storia continuativa, di reazioni e rivoluzioni sociali e culturali. Epperò dal non molto che si conosce si può dedurre che l’obiettivo preminente dei raccoglitori e cacciatori di errori in periodo illuministico, sul fronte della Ragione e della Chiesa, o sui due fronti congiunti, fu quello di mutare le abitudini mentali del popolo, ossia del volgo, senza considerare, tanto meno pensare di rimuovere, le condizioni sociali che contribuivano a mantenere vive quelle abitudini. Un limite, ovviamente, scopribile 4 posteriori, non imputabile ad essi, ma determinato dalle idee del tempo, che tuttavia non ci consente di poter dare eccessivo spessore sociale, di misura moderna, al loro impegno e a quello, pur cospicuo se storicisticamente misurato, del Leopardi. Piuttosto è forse da dare maggiore spicco all'impegno politico che Leopardi dimostra come intellettuale, opponendosi a una certa restaurazione di idee e di costumi che si andava profilando già nel Regno Italico. Ché, se con referenti di politica estera, come Waterloo e Santa Alleanza, De Sanctis poteva giudicare negativamente il Saggio come « opera morta »

rispetto agli Inni manzoniani, vi sono referenti di politica interna, come l’impresa dell’Accadémie céltique, iniziata nel 1811, di ricognizione della cultura popolare nei dipartimenti della Francia e dell’Italia napoleonica, che fanno emergere la vitalità, in altro senso eroica, del Saggio, come ten-

tativo critico di frenare l’irrompenza dell’errore, che, in conseguenza di quell’operazione prefettizia, andava sedimentandosi tra le fila della media borghesia impiegatizia, con un effetto conservativo contrario all’intento democratico con cui l’impresa era stata ideata. L’operetta del Placucci, nata testualmente dalle carte dell’inchiesta, su Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna (1818)? è un esempio visibilissimo di ambiguità ideologica. Da qui l’opportunità di storicizzare il Saggio, considerandolo ed esaminandolo autonomamente rispetto alla successiva produzione leopardiana, con agganci esterni (però utilizzabili anche all’interno della poesia leopardiana) alla contro-storia dell'errore e alla storia degl’interventi intellettuali contro di essa. I due agganci, esterni e interni alla produzione di Leopardi, potreb19 Cfr. N.Z. Davis, Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento. Traduzione di S. Lombardini, Milano

1980, p. 339.

20 M. Pracucci, Usi e pregiudizi de’ contadini della Romagna, AA.VV.,

Romagna

tradizionale.

Usi e costumi,

credenze

Forlì 1818; ripubbl. in

e pregiudizi,

a cura

di P. Toschi,

prefazione di A. Spallicci, Bologna 1952, pp. 45-169.

921

bero sembrare indipendenti, sono invece tangenti, se si pensa al peso che ha avuto l’errore nella storia della cultura illuministica che è alla base della formazione leopardiana' tanto che l’interesse del poeta per quel tema non si concluse — com’è noto — con la stesura del Saggio. Egli stesso lo considerò sùbito dopo come ammasso di materiale da utilizzare per un rifacimento, a cui si accinse forse fin dal 1817,” cominciando « a scrivere,

con istile più nobile e lingua più pura » (è una nota del Moroncini alla lettera del 29 dicembre di quell’anno al Giordani) alcune carte trovate fra gli autografi napoletani e pubblicate dal Moroncini stesso.? Precisò un punto fondamentale dell’« Idea dell’opera » — la qualifica degli errori come « popolari », ossia « volgari », e l'appartenenza di essi agli « antichi » — in un passo del 31 marzo 1829, inserito nello Zid. (ediz. Flora, II, p. 1285)

sotto il titolo proprio di Errori popolari degli antichi, a cui seguono una proposizione rousseauiana e una nota omerica ed erodotiana, additata dal Moroncini in Zib. II, pp. 1285-1286, riguardante l’invidia degli Dei: entrambe anch’esse del 31 marzo ’29, destinate sicuramente al Saggio da rifare o almeno da ampliare, secondo un progetto più valido forse metodicamente ma meno fertile filosoficamente (e quindi poeticamente per Leopardi), che sei giorni dopo Leopardi fissò sulla carta sotto lo stesso titolo di Errori popolari degli antichi: Parlerò di questi errori leggermente, come storico, senza entrare a filosofare sopra ciascuno di essi e sopra la materia a cui appartengono; cosa che mi mene-

rebbe in infinito, e vorrebbe non un Trattatello, ma un gran Trattato. In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo (Zib. Ii deli 21 La presenza della cultura illuministica nella formazione di Leopardi è un dato acquisito dalla critica sia di orientamento idealistico sia di tendenza umanistica. Cfr. M. SANSONE, Leo-

pardi e la filosofia del Settecento, « Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani » (Recanati 13-16 settembre 1962): Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, pp. 133-172. E ancora: S. TIMPANARO, Classicismo e illuminismo cit. 22 Vedi lettere al Giordani del 5 e 29 dicembre 1817 (ediz. Flora, n. 56, p. 110, n. 59, p. 118), già citate e riportate nei passi che c’interessano nella nota 3. 3 F. MorocinI, Due capitoli inediti del Leopardi su « Gli errori popolari degli antichi », « Pegaso », nov. 1932, pp. 513-527. Nell’ediz. Flora di Tutte le opere di G. L., II, pp. 457-466, col titolo Principio di un rifacimento del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Si veda anche G.A. Levi, Di una redazione del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi iniziato nel Luglio 1817, « Giorn. stor. d. letter. ital. », XVI, 1928, pp. 238-240, che « considera la favoletta di Aviano (Zib., I, 3) [...] come un principio di rifacimento » (G. CROCIONI, Op. cit., p. 132). È da vedere anche L. PAsTINE, Leopardiana: I rifacimenti del Saggio, «Il libro italiano », V, 1941, n. 10, pp. 813-818, il quale ritiene la favola di Aviano « primo tentativo di rifacimento del Saggio » e riferisce che il Leopardi si fece mandare dal fratello Carlo i due manoscritti del Saggio rimasti a Recanati; riconosce inoltre che il Saggio « ebbe funzione assai importante nello svolgimento e, direi quasi, nell’economia dell’opera leopardiana ... nel suo duplice aspetto, filosofico e poetico ». Cfr. G. CROCIONI, op. cit., p. 113, nota 5.

328

Chiudendo così l’annotazione: istruire, solo vorrei dilettare ».

«To non presumo con questo libro

Ma ciò rimase allo stato di intenzione. Ed è forse meglio che l’inten-

zione non sia stata messa in atto. Né poteva esserlo. Contattando epistolarmente nel ’30 il De Sinner,* Leopardi mise da parte il proposito di un rifacimento, promettendo soltanto, in caso di pubblicazione dell’opera, alcuni « supplementi » relativi « ad altri errori più curiosi e meno conosciuti », già da lui annotati: oltre ai « supplementi » citati, ve ne sono forse altri da annoverare, sparsi nello Zibaldone, come quello, segnalato dal Crocioni,® sulla gelosia degli Dei dichiarata da Omero, che è datato il 14 ottobre 1828 (Zib. II, p. 1224).

Una tale continuità d’interesse per il Saggio fa cadere la tesi del valore meramente anticipatorio della materia in esso trattata rispetto alla produzione del poeta. Ne consegue che, più che i collegamenti lirici anticipatori fra il Saggio, le Operette morali e gli Idilli, contano i nessi profondi che agiscono sotto traccia e che sono costituiti da stimoli di pensiero provenienti dal Saggio o, meglio, dai temi inclusi e includibili nel Saggio, che hanno a loro volta costituito nuclei primari del pensiero poetante di Leopardi (adotto ancora una volta il felicissimo titolo del libro del Prete).

Essi hanno operato per quasi l’intero corso della produzione leopardiana, abbracciando nell’antico come era inteso da Leopardi anche il primitivo (il primitivo, non il barbaro) e negli errori popolari gli errori primitivi, vichianamente disponibili al mito e alla fantasia e destinati leopardianamente a verificarsi col sopravvento della ragione. Un esempio tra i più calzanti è quello, che ho altrove analizzato,” dei versi finali del Canto notturno (« Forse s’avess’io l’ale » ecc.), che esprimono il folle desiderio (o istinto?) del pastore errante (Leopardi stesso) di essere altro da sé, illudendosi di

raggiungere la felicità che, nel momento (vichiano) della ragione, si rivelerà inesistente per ogni essere vivente, animale o uomo, perché « [...] dentro covile o cuna / è funesto a chi nasce il dì natale ». Indagando rapporti di questo tipo, il Saggio si pone, rispetto alla successiva produzione leopardiana, come primo momento dell’incontro-scontro fra antichità e modernità, fra errore e ragione, che in Leopardi restano due poli in perenne attrito, dal quale si sprigiona ed è alimentata la poesia. In particolare, per la dicotomia errore-ragione, il successivo sviluppo poetico del pensiero leopardiano potrebbe sembrare che tenda a un capovolgimento romantico di quel rapporto oppositivo, con la rivendicazione o il recupero dell’errore sulla ragione; invece esso si consolida in un nesso 24 Vedi lettere citate sopra nel testo e nelle note 5 e 6. 25 Cfr. G. CrocionI, op. cit., p. 132. 26 Cfr. G. B. Bronzini, Canto notturno del Leopardi: 133-136 (in corso di pubblicazione).

ISS

più dialettico, il cui perno è fondato sulla ragione. La ragione esprime la denuncia della condizione reale del vivere, l’errore è il tentativo di protesta e di rottura di quella condizione. E l’errore, si chiami illusione o altro, è innucleato vichianamente nel mito. E rimane elemento necessario,

inevitabile, persistente, e si genera anche nella fase di predominio della ragione.

Il travaglio poetico che s’impernia sulla presenza attiva dell’errore nel corso esistenziale dell’uomo si svolge parallelo alla battaglia, pur essa continuativa, che Leopardi conduce sul piano filosofico per ristabilire dialetticamente la necessità dell’errore e l’utilità del suo superamento. L’errore stimola l’azione della ragione, volta alla cognizione del certo attraverso un perenne sforzo di liberarsi dall’errore. L’errore si pone, pertanto, come

momento

fondamentale

per il progresso

della scienza, che

non è tanto conquista del vero quanto distruzione del falso. Tra i passi più esplicativi di questo principio, teorico e pratico, che confermano la prospettiva del Saggio, sono quelli contenuti nello Zibaldone II, pp. 5457 e datati il 21 maggio 1823, dove è detto: È pur doloroso che i filosofi e le persone che cercano di essere utili o all’umanità o alle nazioni, sieno obbligate a spendere nel distruggere un errore o nello spiantare un abuso quel tempo che avrebbono potuto dispensare nell’insegnare o propagare una nuova verità, o nell’introdurre o divulgare una buona usanza. E veramente a prima vista può parer poco degno di un grande intelletto, e poco utile, o se non altro, di seconda o terza classe nell’ordine de’ libri utili, un libro, tutta la cui utilità si riduca a distruggere uno o più errori. (Tali sono per esempio i due Trattati di Perticari, e tutta la Proposta di Monti). Ma se guarderemo più sottilmente, troveremo che i progressi dello spirito umano, e di ciascuno individuo in particolare, consistono la più parte nell’avvedersi de’ suoi

errori passati. E le grandi scoperte per lo più non sono altro che scoperte di grandi errori, i quali se non fossero stati, né quelle (che si chiamano, scoperte di grandi verità) avrebbero avuto luogo, né i filosofi che le fecero avrebbero alcuna fama. Così dico delle grandi utilità recate ai costumi, alle usanze ecc. Non sono, per lo più, altro se non correzioni di grandi abusi. Lo spirito umano è tutto pieno di errori; la vita umana di male usanze. La maggiore e la principal parte delle utilità che si possono recare agli uomini, consiste nel disingannarli e nel correggerli, piuttosto che nell’insegnare, e nel bene accostumare, benché quelle operazioni bene spesso, anzi ordinariamente, ricevano il nome di queste. La maggior parte de’ libri, chiamati universalmente utili, antichi o moderni, non lo sono e non lo furono, se non perché distrussero o distruggono errori, gastigarono o gastigano abusi. In somma la loro utilità non consiste per lo più nel porre, ma nel togliere, o dagl’intelletti o dalla vita. Grandissima parte de’ nostri errori scoperti o da scoprirsi sono o furono così naturali, così universali, così segreti,

così propri del comune modo di vedere, che a scoprirli si richiedeva o si richiede un’altissima sapienza, una somma finezza e acutezza d’ingegno, una vastissima dottrina, insomma un gran genio.

330

La modernità di questo rapporto mata dai filosofi che Leopardi chiama « principale scoperta » è « la falsità » dal quale nasceva una « infinita catena

dialettico errore-ragione è conferin causa. Il primo è Locke, la cui del principio « delle idee innate », di errori »:

Grandissima parte dei quali ancor vive, e negli stessi filosofi, ancorché il principio sia distrutto. Ma le conseguenze di questa distruzione, sono ancora pochissimo conosciute (rispetto alla loro ampiezza e molteplicità), e i grandi pro-

gressi che dee fare lo spirito umano in seguito e in virtù di questa distruzione,

non debbono consistere essi medesimi in altro che in seguitare a distruggere.

L’altro filosofo moderno è Cartesio, il quale « fu grande » perché « distrusse gli errori de’ peripatetici », onde « lo spirito umano deve una gran parte de’ suoi progressi moderni al disinganno proccuratogli da Cartesio ». Insommala sua opera di distruzione fu più utile del suo « sistema positivo ». E poi Newton, « il cui sistema positivo, che già vacilla anche nelle scuole, non ha potuto mai essere per i veri e profondi filosofi altro che un'ipotesi, e wna favola, come Platone chiamava il suo sistema delle idee ». In ciò, anzi, consiste per Leopardi la superiorità dell’obiettivo dei filosofi moderni rispetto agl’antichi: perché i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare:

laddove la filo-

sofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare.

[...] E

questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perché la debolezza del nostro intelletto c'impedisce di trovare il vero positivo, ma perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio.

E in ciò consiste conseguentemente la superiorità del metodo dei moderni, basati sull’osservazione e l’esperienza, rispetto al metodo degli antichi, che « seguivano la speculazione, l'immaginazione e il raziocinio »: i moderni, infatti, « quanto più osservano tanto più errori scuoprono negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri del po-

polo, de’ filosofi, o di ambedue ». Dove viene riconfermato il criterio assunto nel Saggio del ’15. E si dice di più, ma sempre in linea con esso: Così lo osservazione e delle false o naturale o

spirito umano fa progressi: e tutte le scoperte fondate sulla nuda delle cose, non fanno quasi altro che convincerci de’ nostri errori opinioni da noi prese e formate e create col nostro proprio raziocinio coltivato e (come si dice) istruito. Pi üoltre di questo non si va. Ogni

passo della sapienza moderna svelle un errore; non pianta niuna verità (se non Sal

che tali tutto giorno si chiamano le proposizioni, i dogmi, i sistemi in sostanza negativi).

Di qui il recupero rousseauiano della semplicità, come dote pre-sapienziale ed ora propria dei fanciulli e dei selvaggi, per « ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei [sapienza] nascimento »:

Dunque se l’uomo non avesse errato, sarebbe già sapientissimo, e giunto a quella meta a cui la filosofia moderna cammina con tanto sudore e difficoltà. Ma chi non ragiona, non erra. Dunque chi non ragiona, o per dirlo alla francese, non pensa, è sapientissimo. Dunque sapientissimi furono gli uomini prima della nascita della sapienza, e del raziocinio sulle cose: e sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California, che non conosce il pensare. (21 Maggio 1823).

Nel successivo passo del 22 maggio 1823 (Z:b. II, pp. 57-58) si ribadisce sul piano strettamente filosofico la dialetticità dell’errore come elemento contrario e momento negativo di quella che Leopardi considera una delle maggiori scoperte della filosofia moderna, cioè che « tutte le idee dell’uomo procedono dai sensi », il cui valore è dato proprio dall’aver rimosso l’errore esistito delle idee innate. Dalle suddette prove di una continuità intrecciata di pensiero e poesia sul duplice e anche questo intrecciato rapporto errore-ragione, antichimoderni (traducibile, stando a quanto Leopardi teorizzò nel ’23, nell’equa-

zione ‘ errore: antichi = ragione : moderni ’) a me pare più che legittimo partire dal Saggio e dal travaglio elaborativo di esso per ricostruire il rapporto leopardiano con la scienza, come è stato già parzialmente prospettato di recente da A. Frattini e da altri?” E comunque è indubbio che il Saggio riceve dalle successive meditazioni, nonché dalle opere in versi e in prosa del Leopardi, una lunghezza d’onda che investe l’intero campo del suo pensiero e della sua poesia. Ritornando, quindi, al Saggio, ci spieghiamo ora meglio, in base alla suddetta distinzione di metodo speculativo usato dai filosofi antichi e dai moderni, il presupposto che errori siano esclusivamente quelli degli antichi, mentre quelli dei moderni ne costituirebbero propaggini o, in termini etno-demologici, persistenze o sopravvivenze. Senonché dipende proprio da tale ottica astorica, che l’antropologia settecentesca gli propose, se 27 Cfr. A. FRATTINI, Letteratura e scienza in Leopardi, in AA. VV. Letteratura e scienza nella storia della cultura italiana. Atti del IX Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (Palermo Messina Catania 21-25 aprile 1976), Palermo 1978, pp. 663-675. Si vedano anche negli stessi Atti le Note per un'analisi del rapporto tra Leopardi e la scienza di G. Corsinovi (pp. 655-662) e le Note sul valore della scienza in Leopardi di A. SoLe (pp. 676-699).

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Leopardi riesce in certo grado vincente nella battaglia che conduce fideisticamente contro gli errori primitivi nel mondo antico, sarà del tutto perdente nella battaglia che condurrà scetticamente contro gli errori partoriti dalla ragione nel mondo moderno.* La notata impersonalità della trattazione di una materia così lievitante è più di superficie che di fondo. Il confronto, che vi è svolto a livello filologico tra antichi e moderni e nell’interno di ciascuna delle due categorie storiche di autori tra propugnatori dell’errore e sostenitori della ragione (« Opponendo così gli antichi agli antichi, mi sono servito forse di un mezzo più valevole a convincere molte persone di tutti gli argomenti che avrei potuto addurre », dalla Prefazione), per se stesso non può essere asettico, benché sia anch’esso un metodo adottato e collaudato nella storia critica degli errori. Così ne scrive Fontenelle a proposito di oracoli: All’autorità di coloro, che non li credevano, basta opporre l’autorità di quelli, che li credevano. Queste due autorità non sono di un peso uguale. La testimonianza di coloro, che credono una cosa di fatto già ricevuta, non ha punto di forza per darle peso; ma la testimonianza di quelli, che non la credono; ha della forza per distruggerla. Coloro che credono possono ignorare i motivi di non credere, ma non può stare che coloro i quali non credono non sappiano le ragioni di credere. Avviene tutto il contrario, quando una cosa comincia a stabilirsi. La testimonianza di coloro che la credono è per se stessa più forte testimonianza di coloro che non la credono; perché i primi naturalmente l’hanno esaminata ed i secondi possono essersi dispensati dall’esaminarla. Io non pretendo dire che nell’uno e nell’altro caso queste autorità siano decisive; dico solamente che non badando alle ragioni, sulle quali i due partiti si fondano, ora l’uno di essi deve prevalere, ora l’altro. La ragione generale di ciò è che per lasciare un’opinione comune o per riceverne una nuova, bisogna fare qualche uso della ragione, o buona, o cattiva; ma non v’è bisogno di

28 Dice bene Galimberti: « Giunto, dopo la breve fase cattolico-illuminata testimoniata dagli Errori popolari, a costituirsi un provvisorio sistema, fondato sulla identificazione della Natura con la totalità indifferenziata e sul rifiuto della ragione, che ha spezzato nell’uomo il senso di quella totalità, Leopardi non vi si acquieta oltre il 1823-24. Da questo momento in avanti non si opera nella sua mente alcun rovesciamento di posizioni, bensì l’arma della ragione è da lui impiegata — si è visto — a distruggere errori antichi e nuovi, anche quelli partoriti dal predominio della ragione stessa e che hanno preso corpo soprattutto negli istituti sociali. Di qui un rifiuto, ugualmente violento, delle condizioni imposte dalla natura e di quelle imposte dalla società (ricondotte, queste medesime, a premesse naturali), di qui la derisione, ugualmente aspra, di teleologie fondate su principi religiosi o sulla fiducia nell’uomo (per eccellenza, nell’uomo sociale); quindi la negazione di qualsiasi paradiso finale raggiungibile per grazia divina o per merito dell’agire umano. Ma la non estinta speranza, semmai, di una pace non soltanto individuale quando si sia allargata dai pochi singoli illuminati al ‘volgo”, la coscienza che solo dalla rinuncia a sperare in sorti migliori, solo dal riconoscimento della nullità dei progetti umani si può sperare il raggiungimento di tale stato » (G. LEOPARDI, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Napoli 1977, pp. XXVIII-XXIX).

D

farne alcuno, per rigettare una nuova opinione, o per abbracciarne una di già comune

Il confronto è sulla via del dialogo. Esso si prefigura come costante strutturale che Leopardi sceglie, fin da questo trattato, per essere più direttamente partecipe del dramma sotteso al confronto o dialogo. Riuscirà ad esserlo scopertamente nelle opere più creative, come le Operette morali e gl’Idilli. Altrettanto utile è, anche per la suddetta funzione interna, ma non solo per essa, agganciare il Saggio specificamente alla storia degli errori popolari, che comporta anche la storia della loro critica. È una storia cominciata in seno allo stesso mondo classico, come provano, fra l’altro, le

stesse testimonianze addotte dal Leopardi, parte delle quali sono testimonianze di scrittori e soprattutto poeti che hanno creduto o fatto credere nell’errore, parte di chi vi si è opposto. È una storia che si è identificata con lo scontro fra il rostro e l’alieno, coinvolgendo in età moderna, dopo le scoperte geografiche, la coscienza della civiltà europea e raggiungendo il momento di più alta tensione intellettuale nell’illuminismo. E da una postazione illuministica, ma con una sottesa istanza vichiana, Leopardi mira anch’egli a una storia degli errori popolari e della loro critica, come operazione indispensabile per « distruggere almeno in parte questi nemici della ragione », per cui, sempre nella Prefazione, dichiara

che « una Storia pertanto degli errori popolari, quale da taluno si è in effetto intrapresa, può essere di grande utilità ». E per storia degli errori popolari precisa d’intendere quella dei pregiudizi, che sono gli errori del volgo. Il popolo è qui il volgo, inteso come classe sociale, comprendente « la massima parte del genere umano », con tratti distintivi e rilevabili in diverse sfere: per la sua limitatezza intellettiva esso « è incapace di comprendere la falsità di ciò che gli viene insinuato, e di valutare le prove che la dimostrano », per il peso della tradizione; « tenace dei suoi antichi costumi, esso lo è altresì delle sue antiche opinioni »; « servo per nascita, esso lo è similmente per elezione ». Gli errori del volgo sono comuni anche alle altre classi della società, ma « diconsi popolari, perché regnano in singolar modo nel popolo ». E, poiché ciò è dovuto ad ignoranza, ecco che per volgo Leopardi nello stesso Saggio, al termine della rassegna critica degli errori, intenderà un livello di cultura: « La credulità popolare non ha rimedi. Essa durerà fino a che il volgo sarà ignorante, vale a dire, fino a che sarà volgo ».* 2 BERNARD LE Bovier DE FONTENELLE, Histoire storia degli oracoli, Napoli 1841, cap. VIII, p. 53.

des oracles

(1687);

in trad. ital. La

30 Dalla « Ricapitolazione » del Saggio che cito dalla ediz. Flora de Le poesie e le prose di G. Leopardi, II, Milano 1940, 3° ed. 1949, pp. 450-456: p. 453.

334

Solo degli errori del volgo, d’altronde, si pud fare storia, essendo credenze di diffusione universale, mentre gli errori individuali degli antichi sapienti sono si superiori di numero,

anzi infiniti (come Leopardi scrive

nel ’15 [Cap. I] e ribadisce nel ’29 [Zib. II, p. 1285]), ma, « non essendo stati universali, almeno in qualche nazione, non possono porsi nel numero dei pregiudizi » e non hanno fatto storia. Quindi: « Una storia completa di essi non si avrà forse mai, ed è anche verisimilmente impossi-

bile l’averla ».? La specificità ‘ popolare ’ degli errori non è, dunque, riduttiva, ma rivela una concezione della storia di ordine antropologico in cui la cultura della « massima parte del genere umano », che è il volgo, acquista maggior peso di quella degli individui falsificatori. E questo processo è da considerare sin dall’origine, che per Leopardi è il mondo antico, nel quale confluisce — come Leopardi intuisce e l’antropologia inglese dell’Ottocento dichiarerà — gran parte del mondo primitivo. In questa prospettiva le testimonianze degli antichi acquistano un valore speciale, sia storicamente in quanto eredi di un passato protostorico o preistorico sia culturalmente in quanto espressioni di cultura popolare. Quest’ultimo valore Leopardi riconosce solo alle testimonianze dei poeti,

per i quali va tenuto conto che: È facile distinguere quando questi scrivono a norma delle opinioni dei filosofi, o seguono un sentimento particolare. D’ordinario essi parlano il linguaggio più communemente inteso, che è quello del popolo. Quindi possono riguardarsi come interpreti dei sentimenti del volgo: [...].*

Questa funzione riconosciuta ai poeti antichi, le cui favole risultano per essa testimonianze storiche, è di matrice vichiana e conferisce singolarità al Saggio leopardiano rispetto ai vari scrittori settecenteschi che avevano trattato degli errori popolari e che pur furono presenti al Leopardi, ma che non si può dire che questi abbia imitati proprio perché, rivisitando gli antichi, i poeti antichi, egli ritiene di fare cosa nuova. In questo senso è da leggere e da intendere la sua dichiarazione: Scrivendo sopra gli errori popolari degli antichi, non ho creduto far cosa già fatta. Chi mi opponesse Joubert, Browne, Feijoò, Denesle, Lequinio, mostrerebbe di non aver vedute le loro opere, o di non aver letta la mia.*

31 G, LeoparpI, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, 2° ed., Milano

1945.

32 Dalla « Idea dell’opera » (p. 224). 33 Dal Cap. I, p. 225. 34 Dalla « Prefazione » (p. 219).

395)

E però, non disconoscendo i loro meriti, egli ha tutti i titoli per ribadire la diversità del suo progetto rispetto a quello di quanti, con un giudizio superficiale, possono essere ritenuti suoi predecessori: Non credo però di mostrarmi indiscreto verso gli autori che prima di me hanno trattato degli errori popolari, se dico che non ho profittato in conto alcuno delle loro fatiche, che non ho fatto alcun uso delle loro opere, che non le ho nemmeno aperte, che il piano, che ciascuno di essi ha preso ad eseguire, è affatto diverso da quello che io mi sono formato, e che finalmente, volendo scrivere dei pregiudizi popolari degli antichi, pochissimo giovamento avrei potuto trarre dalle opere di chi non ebbe quasi in vista che quelli dei moderni.®

Il che non riduce i debiti che Leopardi ha verso questi trattatisti moderni degli errori. Tali debiti sono, anzi, più rilevanti di quanto si creda," tanto più che per qualcuno di questi autori, come per il Fontenelle,” sono state rilevate corrispondenze tematiche e formali anche nelle Operette morali, che sono peraltro, a mio avviso, le più legate al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Qui c’interessa (rispettando il tema del Convegno) di mettere a fuoco il rapporto primario con gli antichi, che è il nuovo asse portante del Saggio, nettamente dichiarato dall’autore: Uno degli oggetti che si sono proposti alcuni tra quelli che hanno scritto degli errori popolari, è stato quello di confutarli. Scrivendo in un secolo illuminato ho creduto quasi inutile farlo. Nondimeno, poiché molti degli errori communi una volta agli antichi non sono ancora distrutti, ho stimato bene di far parola di tratto in tratto anche di quegli scrittori antichi, che hanno condannata qualche falsa opinione, adottata generalmente nel loro secolo. Opponendo così gli antichi agli antichi, mi sono servito forse di un mezzo più valevole a convincere molte persone di tutti gli argomenti che avrei potuto addurre.*

L’opposizione degli antichi (filosofi) agli antichi risponde, in generale, alle predilezioni per gli spiritualisti (Pitagora, Platone, Cicerone, Seneca); ma non mancano riconoscimenti a materialisti come Democrito ed Epi-

curo.” Comunque non è questo il luogo e momento per approfondire il

35 Dalla « Prefazione » (p. 219).

% Di quanto e come Leopardi abbia preso da S. Maffei ci ha mostrato in modo egregio ed esaustivo C. GALIMBERTI, Scipione Maffei, Ippolito Pindemonte, Giacomo Leopardi e la magia, « Rassegna della letteratura italiana », LIX, 1955, pp. 460-473. 37 Cfr. C. GALIMBERTI, Fontenelle, Leopardi e il dialogo alla maniera di Luciano, in AA.VV., Leopardi e il Settecento. Atti del I Convegno Intern. cit., pp. 283-293. 33 Dalla « Prefazione » (p. 220). # Cfr. S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo cit., p. 189; V. Di BENEDETTO, Giacomo Leopardi e i filosofi antichi, « Critica storica », VI, 1967, pp. 289-320: 289-290.

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problema delle scelte, che, peraltro, non mi paiono tanto determinate dall’orientamento filosofico del Leopardi quanto da un bisogno erudito di

documentazione filologica.

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Al rapporto con gli antichi è subordinato e conseguente quello con i moderni, in quanto l’antico e moderno sono per Leopardi due mondi in comunicazione diretta e in continuo dialogo tra loro. Tuttavia l’obiettivo leopardiano solo di riflesso cade sui moderni. Esso è fissato direttamente sugli antichi: Mio intendimento fu di presentare un quadro delle false idee popolati degli antichi, e di descrivere colla possibile esattezza qualcuno dei loro errori volgari intorno all’Ente Supremo, agli esseri subalterni e alle scienze naturali.!

Il mondo antico comprende implicitamente il mondo primitivo, di cui assorbe gli errori, li traduce poeticamente e li istituzionalizza in forme di vita e di religione. Nel mondo moderno, ove sopravvivono, quegli errori hanno perduto la loro forza poetica, ma la riacquistano allorché sono posti in uno scontro drammatico con la ragione, come avviene in tutta l’opera poetica di Leopardi. Ma con quale ragione? La ragione è nemica della natura, non già quella ragione primitiva di cui si serve l’uomo nello stato naturale, e di cui partecipano gli altri animali, parimente liberi, e perciò necessariamente capaci di conoscere. Questa l’ha posta nell’uomo la stessa natura, e nella natura non si trovano contraddizioni. Nemico della natura è quell’uso della ragione che non è naturale, quell’uso eccessivo ch’è proprio solamente dell’uomo, e dell’uomo corrotto: nemico della natura, perciò appunto che non è naturale, né proprio dell’uomo primitivo.‘

Ecco perché il Mondo, nel Dialogo col galantuomo, si sente col capo stravolto, alla maniera degl’indovini nell’inferno dantesco, da quando ha lasciato « la bottega e i cibi della natura per quelli della ragione ». E più in generale è ravvisabile nel corso dell’azione del pensiero leopardiano il recupero del nesso primitivo natura-cultura, errore-ragione, e quindi l’uso di una ragione così riabilitata per combattere non più gli errori degli antichi, che si dimostrano sempre più falsi errori (errori in quanto visti dall’alto), ma gli errori « partoriti dal predominio della ragione stessa e che hanno preso corpo soprattutto negli istituti sociali ».f° 40 Dalla « Idea dell’opera » (p. 225).

41 Zib. cit., I, p. 324 (3 dic. 1820). Non meno importante è il passo di Zib. I, p. 353 (18 dic. 1820) dove Leopardi distingue « gli errori ispirati dalla natura, e perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità », propri delle religioni antiche, e gli errori « fabbricati dall'uomo » in fase di incivilimento che, all'opposto, conducono all’infelicità, « allontanando

maggiormente l’uomo dalla natura ». 4 Così C. GaLIMBERTI in G. LEOPARDI, Operette morali cit., p. XXVIII.

337 22

Il legame tra mondo antico e mondo moderno è dato quindi proprio dal primitivo, che è all’origine degli errori e che si trasmette dall’uno all’altro, talvolta con la connivenza dei saggi, a danno della società, ma fer| tilmente per la poesia. Il mondo primitivo costituirà l’angolo di vertice del triangolo, di cui gli angoli di base sono costituiti dal mondo antico e dal mondo moderno, entro il quale triangolo si svolgeranno le più compiute e scientifiche comparazioni dell’antropologia ottocentesca, che rimane ancorata in gran parte alla concezione illuministica. E nell’opera del Tylor, fondatore della scuola antropologica inglese, ritornano tutti i temi della problematica illuministica dell’errore, trattati da Leopardi e dagli altri citati e non citati autori moderni che precedono e seguono il Leopardi, con un ampliamento notevole di documentazione etnografica, classica e moderna e con una più scientifica correzione di tiro per quanto riguarda l’idea di progresso, concepita in modo troppo rettilineo dal Leopardi, anche se alla fine del capo X Degli astri scrive: « Gli errori, come le comete, risorgono. Il progresso è illusorio ». Laddove il Tylor preciserà e riterrà di dimostrare che in generale, il corso della civiltà, pur essendo sempre una marcia in avanti, è segnato da progressioni e retrocessioni che si alternano in maniera ordinata; tuttavia nella somma di queste azioni il progresso ha sempre prevalso sul regresso. Cosicché, collocato tra il prima e il dopo di una storia etnologica degli errori dell’umanità, il Saggio leopardiano può acquistare un rilievo nuovo, sul piano politico-culturale, come intervento progressista, compiuto sotto il manto di un’ancora rigida e convenzionale osservanza cattolica, su un problema che si è costantemente presentato in termini culturalmente differenziati e che fa storia a sé. Un problema che ha segnato in età moderna la crisi della coscienza europea#* e che già al tempo di Leopardi e della composizione del Saggio era avvertito dall’Europa con coscienza extraeuropea. In questo senso intenderei a posteriori la rottura che Leopardi, autore del Saggio, compie con l’àmbito tradizionale di una cultura accademica e aristocratica che condannava senz’appello l’errore in nome dei dogmi della ragione e della fede. Per questa via una lettura antropologica del mondo antico, quale viene riproiettato da Leopardi fra ottica illuministica e apologia religiosa, ci consente di immettere il Saggio sulla via di una tale storia di liberazione dall’errore conquistata attraverso la conoscenza della sua genesi e la sua stessa storica valutazione per la funzione o meglio le diverse funzioni che esso 4 Cfr. W. Binni, La protesta cit., p. 21. 4 Cfr. F. Chasop, Storia dell’idea d'Europa, a cura di E. Sestan e A. Saitta, Bari 1970.

338

ha avuto nel mondo primitivo, classico e moderno. E ci permette altresì di rilevare il mutamento di significati di certi ‘errori’ tematici ricorrenti in tempi e forme diversi nella poesia di Leopardi. Tutti i capitoli del Saggio offrono spunti interessanti per una tale lettura antropologica. A cominciare dal II Degli Dei (il primo dà l’Idea dell’opera), dove le testimonianze classiche della tesi monoteistica risultano per così dire schiaccianti contro l’idolatria politeistica e (« Convien confessare però che non pochi tra i poeti e i sapienti del paganesimo riconobbero manifestamente la unità del sovrano Essere, e il suo supremo dominio ») sono determinanti per la dichiarazione conclusiva che: Men comuni dunque che non si crede furono gli errori della idolatria, e le assurdità più grossolane del paganesimo, lasciate dai sapienti in eredità, per lungo tempo inalienabile, alla plebe, vittima del pregiudizio e schiava della tradizione dei suoi maggiori.

Dette testimonianze, al di là della loro connessione storica con quella che è l’origine dell’idea dell’Essere Supremo « secondo la fede, per la dottrina tradizionale della rivelazione », e « secondo la ragione, per il deismo razionalistico dei secoli XVIII e XIX », si pongono sulla via della scienza per quella che sarà considerata « la più grande scoperta del secolo XX » (Koppers), « cioè la scoperta del così detto « monoteismo primordiale » ossia degli esseri supremi presso i popoli più primitivi » con il quale è correlato il monoteismo sostenuto da « non pochi tra i poeti e i sapienti del paganesimo ». Alla furberia della classe sacerdotale, sulla scorta di Van-Dale * e Fon-

tenelle” citati più volte, Leopardi attribuisce la fede che il volgo prestò nell’antichità agli oracoli: La credulità fu sempre una qualità inseparabile dal volgo. Egli è per questo, che dopo avere ciecamente ammesse le sorprendenti follie del paganesimo, la plebe si lasciò imporre dalla furberia dei sacerdoti, e prestò fede agli oracoli. Ogni errore presso gli antichi diveniva ereditario.

In verità questa è la tesi propria del Van-Dale, a cui si riferisce pure Fontenelle. E non v'è dubbio che la storia (ossia la favola) degli oracoli del Fontenelle è soprattutto tenuta presente da Leopardi in questo capi45 Cfr. F. PertAzzONI, L'onniscienza di Dio, Torino 1955, p. 41. 4 Van-DAaLE, De oraculis ethicorum dissertationes duae, Amsterdam tradotta in inglese nel 1699. 47 Histoire des oracles cit.

1683.

L’opera fu

239

tolo, che ci dà solo uno spicchio dell’ampia trattazione dello scrittore francese. Rispetto alla quale Leopardi non offre né può offrire materiale nuovo, salvo un riferimento etnografico a proposito dei serpenti mansueti dell’Oracolo di Esculapio nel Ponto. Il riferimento è preso dalla dissertazione di Giovanni Lami sopra i serpenti sacri. Ma Leopardi ricorda anche la descrizione, fatta dall’abate Bonnaterre, « del serpente detto delle Dame,

che gl’Indiani prendono in mano e accarezzano, e che le Malaboresi cercano di riscaldare, servendosene anche per rinfrescarsi nel tempo dei grandi calori ». La persistenza della credenza negli oracoli nel mondo medievale e moderno, più che da questa tradizione classica, discende dalla stessa tradi-

zione della patrologia cristiana, che attribuisce le risposte oracolari a virtù diabolica, essendo stato « per lunghissimo tempo [...] riguardato il demonio come causa di tutto ciò che appariva mirabile, e di cui non si conoscea la vera cagione ». Fra le credenze medievali di questo tipo, « abominazioni indegne della ragione » e della religione, Leopardi fa rientrare quella sul Purgatorio di S. Patrizio, già menzionata dal Fontenelle, che è in realtà un rito di espiazione e di iniziazione, che ha poco a che fare con gli oracoli se non per il luogo sacro che esso, come ogni oracolo, significava: Si è veduto, nel secolo duodecimo e nei seguenti, rinnuovato in Irlanda l’antro di Trofonio sotto il nome di Purgatorio di S. Patrizio, il quale era una piccola caverna situata nel mezzo di un’isoletta che trovasi nel lago di Derg in Irlanda, ove fu pure un Monistero detto Reglis o Ragles. In quell’antro si faceva entrare il penitente, che per otto giorni continui non si era cibato, di ventiquattro in ventiquattr'ore, che di poco pane con acqua, e dovea passare il nono giorno senza alimento di sorta alcuna. La porta della caverna si chiudeva a chiavi, né si riapriva che dopo ventiquattr'ore. È facile immaginarsi che il penitente sortìa dalla spelonca colla mente ingombrata dalla idea di visioni orribili, colla quale si avea avuta cura di prevenirlo prima di riporlo nell’antro. Se gli diceva però che la pena intera delle sue colpe eragli totalmente rimessa. La Chiesa, che non ha mai approvata veruna superstizione, condannò ancor questa, ed Alessandro VI ordinò che il luogo fosse distrutto. Così potesse ella annientare la superstizione negli animi, come ne sterminerà sempre gli oggetti conosciuti.

Leopardi qui condanna la credenza in sé, senza rilevare l’apporto religioso nonché letterario, che essa ha dato, sviluppandosi, attraverso la elaborazione del cisterciense Enrico di Seaultry, in una delle più diffuse leggende escatologiche dell'Europa medievale del nord, che, se non può ritenersi fonte vera e propria della Divina Commedia, fu certo nota a Dante, giacché circolava al suo tempo anche in Italia. Della magia (capo IV) Leopardi tratta con estrema consapevolezza 340

della importanza dell’argomento e della difficoltà di dare una risposta netta e decisa sulla esistenza o meno, nel mondo antico come nel mondo moderno, di un’arte propriamente magica come è stata da sempre definita. Il numero e l’autorità degli autori moderni, citati da Leopardi, da Del Rio a Le Brun, a Tartarotti, Maffei, che hanno discusso il problema, senza risolverlo, sta a dimostrare che esso continuerà a essere discusso senza poter essere mai risolto definitivamente. Quasi non volendo, Leopardi intuisce che la risposta al problema dipende dalla posizione soggettiva di chi e per il fine con cui questi si pone il quesito. Anche la spiegazione ch’egli dà della nascita e dello sviluppo della fede popolare nell’arte magica è adeguata al pensiero del poeta e si congiunge con la teoria della genesi delle illusioni e degli effetti meravigliosi ch’esse producono: Ogni arcano — egli scrive — è una sorgente d'’illusioni; e un effetto maraviglioso ne fa immaginare mille altri assai più sorprendenti. Se a ciò si aggiunga il terrore che ispiravano i magi colle loro notturne e spaventose operazioni, si x

vedrà che il popolo, stupefatto e inorridito, dovea quasi necessariamente attribuire all’arte magica una virtù illimitata.

L’arte magica riconosciuta dagli antichi consisteva nell’esercitare un potere pressoché assoluto sulla luna e sulle stelle, nell’evocare gli Dei e soprattutto i mani e le anime dei defunti (necromanzia),

servendosi del

latte, dell’acqua e di erbe varie e costringendoli spesso con canti « a patlare e a predire le cose future », infine nell’incantare i serpenti col suono. Di tali operazioni le più provette erano considerate le maghe della Tessaglia, a tal punto « che si diede alla magia il nome di arte tessala ». Contro le testimonianze dei poeti che accreditarono tali credenze (Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibullo, Lucano, Seneca) stanno le derisioni di altri autori (come Giovenale e Marziale), la secca condanna di Cicerone (il quale dice

che « possono magi, le follie del volgo nate torno al vero

porsi in un fascio gli errori dei poeti, i portenti oprati dai degli Egiziani, che sono dello stesso genere, e le opinioni dalla ignoranza e dalla incertezza in cui questo si trova in». Nettamente contrari alla opinione volgare, che faceva

riguardare la magia come un’arte reale, furono Plinio, Sparziano, Plutarco

e altri. Degli scrittori cristiani c’è chi attribuì « gli effetti pretesi dell’arte magica al demonio » e « chi ha riguardata quest’arte come affatto inutile e ingannatrice ». Le ragioni dei saggi non sono, però, valse ad annientare la credenza nelle arti magiche presso il volgo, dove: V’ha chi si spaccia dotato della virtù di guarire con parole e con segni; si pretende conoscere gli stregoni e le streghe; se ne teme la presenza e lo sdegno; i loro influssi sono nocivi, il loro tocco è pernicioso, i loro sguardi sono micidiali.

341

Tutte cose che Leopardi giudica illuministicamente un

verso

di Lucrezio

(O #iseras

hominum

mentes,

follie, citando

o pectora

caeca!):

« Quali follie! e dopo tanti secoli tuttora trionfanti della ragione e del buon senso! ». Il capitolo Dei sogni (il quinto) è uno dei più ampi del Saggio, et pour cause. È notorio che il sogno ha avuto un posto centrale nella elaborazione religiosa del pensiero antico, per cui è stato oggetto di particolare studio da parte di scrittori e filosofi, che ne distinsero i tipi (cinque, secondo Ma-

crobio:

sonno,

visione,

oracolo,

sogno,

fantasma),

i tempi,

favorevoli

o contrari (ora e stagione, per cui quelli dell’alba sono più veritieri e quelli d'autunno sono secondo Plutarco da rigettare), i modi di attesa o di richiesta (lustrazioni, riti d’incubatio, astinenze).

Anche per i sogni la confutazione più realistica nel mondo antico fu fatta da Cicerone (De Divinat. Lib. II) e Leopardi la riferisce a conclusione del capitolo: Io domando per qual cagione Dio, se per un tratto della sua provvidenza vuole avvertirci con queste visioni, non lo fa piuttosto mentre vegliamo, che mentre dormiamo. Poiché, qualunque sia la causa che ci fa credere nel sonno di vedere, di udire, di operare, sia essa esterna, sia interna, poteva avere il suo effetto, anche nel tempo della nostra vigilia ... E certamente, se la beneficenza divina vo-

lesse darci dei consigli, sarebbe più degno di essa il darceli più chiari mentre vegliamo, che più oscuri mentre sogniamo.

Ma il punto che più ci interessa del capitolo leopardiano è quello iniziale, che riguarda e così giustifica la formazione, nell’uomo primitivo, del

pregiudizio, che fu forse il « più commune fra gli antichi », « di riguardare i sogni come forieri di qualche avvenimento »: In quel tempo d’incertezza e di timore, l’uomo oppresso dall’ignoranza, sempre inquieto sulla sua sorte, citcondato da pericoli, in mezzo a una natura che non conosceva, ansioso di esaminar tutto, e incapace per la molteplicità degli oggetti di soddisfarsi, atterrito dal ruggire delle belve e dal quieto muoversi delle frondi nella foresta; verso la sera agitato dal timore che gl’infondeva il sopraggiungere delle tenebre, sentia nondimeno entro di sé una forza sconosciuta, che lo invitava al riposo. Egli cerca di secondarla col coricarsi. Dopo breve tempo una calma secreta l’investe, egli obblia tutto, e non vede più nulla. Appoco appoco le immagini dei suoi timori diurni cominciano a suscitarsi. Oggetti confusi e tristi si adunano nella sua mente. Verso il mattino egli vede un sogno che l’atterrisce. Il vento, che spira leggermente sulla sua faccia, lo risveglia tutto ad un tratto. Destato di rimbalzo, egli sorge con uno spesso palpito, meravigliato di trovarsi steso sul suolo, e attonito in veder già il sole sorgere ad una gran distanza dal luogo in cui lo avea veduto coricarsi. Una belva, che passando senza esser vista fa crepitare le foglie secche nel bosco, lo richiama alle sue inquietudini. Tremando egli fugge

342

lontano da quel luogo, e s’avvanza taciturno e sospettoso, fermandosi ad ogni passo, e guardandosi intorno. In quello stato egli si risovviene del suo sogno e delle agitazioni che ha provate durante la notte. Turbato di nuovo e intimorito, se in quel momento, ricordandosi dell'Ente Supremo, egli attribuisce il suo sogno ad una causa soprannaturale, se lo riguarda come nunzio del fututo, egli che sa solo confusamente che il futuro non può esser preveduto, è degno certamente d’ogni scusa. La sua mente non è capace d’immaginare spiegazione più esatta di una cosa che ha tutta l’apparenza di un prodigio. Qualche volta Dio si è compiaciuto di scuoprire a taluno l’avvenire col mezzo di sogni. Si credé che egli volesse farlo sempre, e il sogno divenne una cosa divina e il patrimonio degli auguri famelici e degl’interpreti.

Anche qui, per quest’ultimo passaggio, il ricalco browniano è evidente, ma è pure evidente il diverso binario su cui Leopardi vuol immettere il tema, facendo cadere il ricordo del rito pagano dell’incubatio. Tra gli sforzi compiuti da Satanasso per ingannare gli uomini Brown annovera « l’illusione de’ sogni, e la rivelazione delle cose future nel tempo del sonno ». E rammenta una tipica forma pagana di ricezione del sogno attraverso il rito dell’incubatio: « Con questo per l’addietro » Satanasso « persuadeva al Popolo credulo di coricarsi alla porta del suo Tempio sopra le pelli delle vittime sagrificate, finché avesse meditate le sue risposte, le quali sempre andavano a terminarsi a cose, delle quali egli stesso poteva proccurare, o per lo meno antivedere il compimento ».* Quindi — ecco il passo del Brown propriamente ricalcato da Leopardi —: « Ha piaciuto alle volte all’Altissimo il manifestarsi di cotesta maniera, ma le sue operazioni erano molto diverse. Perché le rivelazioni celesti sono comunicate per via di nuove impressioni, o dalla illuminazione immediata dell’anima: lo spirito seduttore per lo contrario non comunica le sue, se non agitando gli umori, o formando delle parole, che per la combinazione delle cose presenti possono ricevere il senso, che conviene a’ suoi perniciosi disegni ». Nel passo leopardiano, comunque, è ritratto nel suo svolgersi, con una gradualità che si avverte leggendo, il processo di formazione del sogno

come si presume, attraverso il metodo etnologico comparativo-regressivo, che fosse concepito nel mondo cronologicamente primitivo, come è ancora press’a poco concepito tra le popolazioni attuali d’interesse etnologico e nel mondo contadino: una concezione che dall’antico primitivo e classico è rimbalzata nel medioevo, emergendo in tutta la sua carica reli48 T. Brown, Saggio sopra gli errori popolareschi ovvero Esame di molte opinioni ricevute come vere, che sono false o dubbiose. Opera scritta in inglese da Tommaso Brown cavaliere e

dottore in medicina. Tradotta in francese da un Anonimo, e trasportata in italiano da Selvaggio

Canturani, 2 tomi, Venezia 1737, I, capo X, pp. 78-79.

343

giosa ed esistenziale. Non a caso la situazione del pellegrino Dante, al momento di varcare la soglia dell’Inferno, riproduce la situazione dell’uomo primitivo, ben delineata da Leopardi. Del resto il sogno nel medioevo fu assunto anche come segno di predizione divina (il sogno presagio della donna incinta nel Sogno di Maria del 1281 e il sogno della madre di S. Domenico nella Legenda aurea) con la cristianizzazione di un motivo classico che riemerse con la sua originaria veste pagana nel Rinascimento.

Il riferimento del Leopardi al modo in cui nasce e si sviluppa il sogno nell'uomo primitivo è fatto più d’immaginazione che di scienza, benché trovi supporto nell’antropologia settecentesca sul « buon selvaggio », ma non va oltre (l’antropologia dell’ ’800 costruirà col Tylor la teoria dell’anima-sogno), perché quel riferimento è subordinato alla proposizione iniziale che « non v’ebbe forse pregiudizio più comune fra gli antichi di quello di riguardare i sogni come forieri di qualche avvenimento ». E però se tale pregiudizio può giustificarsi nello stato di timore esistenziale in cui si trovava l’uomo primitivo, nella natura e senza cultura (che è, d’altra parte, un errato concetto di marca rousseauiana), non si giustifica in un

grado di civiltà avanzata, quale si ebbe in epoca classica, che pur l’accolse largamente nella poesia, nella teoria e nella pratica. Della concezione primitiva ritratta da Leopardi si ritrovano numerose e forti tracce nel mondo contadino, mentre l’uso cabalistico d’interpretare i sogni si è mantenuto vivo e in certi luoghi e tempi è addirittura cresciuto a livello di sottoproletariato e di borghesia, più che di proletariato, a fini privati e pubblici di sfruttamento di una tradizione storica che ha avuto una sua ragione sociale, oltre e forse più che metafisica e trascendentale, per perpetuarsi ininterrottamente senza notevoli variazioni d’intensità e differenze di regole. Una delle regole che si è trasmessa con costante continuità dal passato al presente e che si conserva con maggiore uniformità nelle varie località, perlomeno del mondo neolatino, è quella della interpretazione dei sogni, con una corrispondenza, talvolta ambivalente, dei significati dati agli elementi del sogno. Alcune indicazioni di Astrampsico, riportate da Leopardi, sono ancora attuali: Il camminare sui carboni presagisce un danno cagionato dai nemici. Colui che tiene in mano un’Ape vedrà svanire le sue speranze. Il muoversi tardamente rende i viaggi calamitosi. Se ti vedrai sollevato di mente, sappi che ti conviene abitare una terra straniera. La vista degli astri è eccellente per gli uomini. Se camminerai sopra dei vasi di terra, pensa a schivare i danni che ti preparano i nemici. La vista dei buoi minaccia una cattiva avventura. Il mangiar uve indica una vicina inondazione di pioggia. I tuoni uditi nel sonno sono i discorsi degli Angeli. Il mangiar fichi denota le vane cicalate. Il latte è indizio di placidi costumi. Il latte

344

sventa le trame degl’inimici. Se ridi nel sonno, sei di costumi difficili. Se ti vedi vecchio, attendi degli onori. Se siedi nudo, temi di perdere i tuoi beni. Un cattivo odore è segno di qualche molestia.

Tra i segni fausti e infausti più usati nel mondo antico fu quello dello starnuto, in quanto manifestazione diretta della parte più nobile del corpo, sede dell’intelletto. Ciò è dipeso dalla preminenza che l’organizzazione verticistica e monocratica della società, sin da quando si è costituita col primo formarsi delle classi nelle mura della città e con l’emarginazione della classe contadina extramurale, riconobbe a chi fosse più in alto di tutti. In parallelismo interagente uguale preminenza si riconobbe alla parte del corpo umano collocata più in alto e fornita di anima razionale: il capo. (Da qui il significato traslato assunto dal termine). Ogni gesto o atto del capo, organo del corpo umano o dominatore di un gruppo sociale, non può non avere un significato proiettato nel futuro. Questa spiegazione antropologica, che mi sembra possibile in linea generale, trova sostegno nella considerazione e adorazione di cui fu oggetto il capo nell’antichità primitiva e classica. Valga per tutte la testimonianza di Ateneo, addotta da Leopardi: « Che il capo fosse riputato sacro, apparisce dal costume di giurare per esso e di adorare pur come sacri gli sternuti che provengono dal capo ».* E il fatto che gli starnuti delle persone altolocate (re e capi in genere) abbiano meritato un particolare rilievo con-

ferma la nostra tesi. La sacralità del capo, del resto, è attestata presso le popolazioni d’interesse etnologico e nelle attuali culture contadine. Secondo il Tylor, che nella sua Primitive

Culture

(1871) ci ha dato un’ampia documentazione

degli usi e delle credenze riguardanti lo starnuto nel mondo primitivo e classico, il buon augurio o malaugurio desunto dallo starnuto, a seconda della direzione (a destra o a sinistra) e dell’ora in cui venivano fatti (fau-

sti, come riferisce Aristotele e Leopardi ricorda, « gli sternuti fatti dal mezzodì sino alla mezzanotte vegnente », infausti « quelli che occorrea di fare dalla mezzanotte sino al seguente mezzogiorno »), risale all’antica concezione, « propria dello stato selvaggio, sull’entrata e uscita di spiriti, considerati benigni o maligni ». Tale concezione sarebbe stata riplasmata dalla religione pagana, che avrebbe divinizzato lo starnuto, adorando in esso e per esso il Nume che risiede nel capo. Ciò conferma l’universalità della credenza e toglie ogni valore, per Tylor, come già per Leopardi, all'opinione comune, avanzata fra gli altri anche dall’erudito urbinate Polidoro Vergili (sec. XVI), che l’augurio di salute che si esprime a chi star-

nutisce si sia originato da una pestilenza. 49 Saggio, p. 272.

345

Su questo punto la fonte di cui si servi Tylor è la stessa di quella citata da Leopardi: la Historia de la Florida di Garcilaso de la Vega. Ma c’è qui pure da rilevare l’impiego di una di quelle fonti erudite settecentesche che sono state più usate da Leopardi, nonostante le sue dichiarazioni preliminari. Il capitolo Dello Starnuto del Saggio sopra gli errori popolareschi di T. Brown (1737) s’inizia:* Credesi per l’ordinario, che l’uso di salutare coloro, che starnutano, tragga l’origine da una malattia epidemica, nella quale si starnutava persino alla estinzione della vita. Pare, che ’1 Sigonio abbia dato luogo a cotesta opinione col riferire nella sua Storia d’Italia, che sotto il Pontificato di Gregorio Magno, vi fu una peste, che faceva morire tutti coloro a’ quali succedeva lo starnuto. Ma questo nulla prova, l’uso del quale si tratta essendo molto più antico.

Le testimonianze classiche riferite da Tylor sono tutte, tranne una (il beneaugurante starnuto di Telemaco in Odissea XVII, 541), già conte-

nute e più largamente riportate nel Saggio leopardiano, tuto costituire un prezioso repertorio per il Tylor, se conosciuto. Tra gli autori citati da Tylor c’è, però, anche doxia epidemica), a cui attinse più da vicino Leopardi: comunanza delle fonti classiche relative allo starnuto.

che avrebbe poquesti lo avesse Brown (Pseudoquesto spiega la

Tutto brilla nella natura all’istante del meriggio. L’agricoltore, che prende cibo e riposo; i buoi sdraiati e coperti d’insetti volanti, che, flagellandosi con le code per cacciarli, chinano di tratto in tratto il muso, sopra cui risplendono interrottamente spesse stille di sudore, e abboccano negligentemente e con pausa il cibo sparso innanzi ad essi; il gregge assetato, che col capo basso si affolla, e si rannicchia sotto l’ombra; la lucerta, che corre timida a rimbucarsi, strisciando rapidamente e per intervalli lungo una siepe; la cicala, che riempie l’aria di uno stridore continuo e monotono; la zanzara, che passa ronzando vicino all’orecchio; l’ape, che vola incerta, e si ferma su di un fiore, e parte, e torna al luogo donde è partita; tutto è bello, tutto è delicato e toccante.

Questo passo, meritamente

privilegiato dai critici estetici, è ritenuto

una delle maggiori perle poetiche anticipatrici dei primi idilli leopardiani. In effetti non è un’anticipazione d’idillio, perché è già un idillio, in sé compiuto e perfetto, anche se manca il dialogo o confronto con lo stato del poeta. Ma non è da questo punto di vista estetico che noi vogliamo qui considerarlo, bensì da un punto di vista antropologico. Gli elementi descritti che compongono il quadro concotrono insieme a rendere lo stato di pausa

50 T. Brown, op. cit., II, capo IX, p. 41.

346

del lavoro umano e animale e la sensazione di paura che ogni minimo essere avverte nell’ora del meriggio, tenuta dagli antichi per sacra e terribile, in quanto tempo di passaggio e quindi di crisi esistenziale, favorevole alle apparizioni di spiriti e fantasmi. Il timore di tali apparizioni prese il nome proprio dal dio Pane, Essere di cui gli antichi « non conoscevano la figura, e del di cui potere aveano una spaventosa idea ». Ne temevano la comparsa gli agricoltori, perché raccontavasi che gli agricoltori ai quali Pane era qualche volta apparso «erano stati sorpresi da una morte improvvisa ». Il riferimento iniziale del Leopardi allo stato di riposo dell’agricoltore in questa ora ha, dunque, una ragione antropologica. Il timor panico si estese a tutti gli spiriti che si credeva potessero comparire nel meriggio, chiamati appunto ueonBpidlovies e meridiantes. La credenza è remotissima. Pare che -rimonti — dice Leopardi — al tempo di Adamo, poiché se ne trovano tracce nella Bibbia. In realtà dalla sua rilevazione nelle culture contadine più arcaiche si può risalire certamente ad epoca pre-classica. Sta di fatto che, contrariamente a quanto pensava Leopardi (« Noi abbiamo a rallegrarci che di un pregiudizio una volta sì comune e di cui si trovano vestigi nei libri più antichi, rimanga ora appena la rimembranza, essendo esso totalmente cancellato dalla mente dei popoli »), questa credenza è più diffusa di quanto egli credesse ed è tuttora abbastanza viva nelle campagne biellesi e in Sardegna,” dove il meriggio fa parte del tipo di ora feriada (ora infausta), in cui è possibile imbattersi con le anime dei trapassati e subirne la reazione che si manifesta con incidenti anche mortali. L’altro tempo, anzi il tempo ancora più temuto, in cui spiriti e ombre dei morti comparivano sulla terra « turbando il riposo dei viventi », era naturalmente la notte. I terrori notturni, di cui si discorre nel capo VIII, furono personificati dagli antichi nelle loro lamie e nei loro lemuri, fauni, satiri e silvani; sono riemersi nelle nostre befane e nei numerosi altri no-

stri spauracchi, che vengono

soprattutto inculcati nella mente

dei fan-

ciulli, che perciò crescono timorosi, deboli e infelici, con grave danno della

società. La denuncia del Leopardi della cattiva educazione che si somministra ai fanciulli ha un tono di protesta, che rivela una posizione vitalmente anticonformistica. L'analisi che sulla base delle testimonianze classiche Leopardi fa dei vari tipi di spiriti che furono oggetto di terrore per gli antichi è molto interessante e rimane pressoché unica nella storia della critica degli errori popolari, anche a livello etnologico. Si Cfr. V. Mayor

Faccio,

L’insidia

del meriggio:

il Biellese

nelle

sue

Bo-

tradizioni,

logna 1953. 52 Cfr. P. MORETTI, « Ora feriada e ora mala », « Lares », XXI, 1955, 1-2, pp. 61-64.

347

La notte, secondo Properzio, pone in temporanea libertà le ombre, che vagano sulla terra e quindi ritornano con la luce del giorno alle loro sedi sotterranee. Così è, per esempio, dei Lemuri, che sono anime dei de-

funti, chiamati notturni da Orazio. Loro affini sono i Mani, che occupavano un posto intermedio, secondo Platone, tra le larve che hanno demeritato (Lemuri) e le larve che hanno ben meritato (Lari).

Seguono nella lista delle ombre che incutono terrore le lamie o striges, che non si sapeva se fossero persone o animali. Da esse sarebbe venuto il nome di streghe, soggette e capaci appunto di trasformarsi in animali delle più strane specie.

I luoghi più pericolosi per tali terrori notturni sono i trivi. La letteratura agiografica conosce soprattutto i demoni del deserto, che tentano santi ed eremiti. Vari sono i mezzi, che gli antichi usavano, per evitare o rendere innocue le ombre notturne. Uno è quello del tozzo di pane (apomagdalia) che ciascuno, come riferisce Ateneo, « portava seco a causa dei terrori notturni che avean luogo nei trivii »; ed era, come osserva Erasmo, pre-

cauzione molto opportuna « a causa dei cani che infestavano le strade ». Glincubi della notte sono comunissimi nel mondo primitivo, come mostrerà Tylor con una larga esemplificazione delle idee dei popoli da lui detti ‘ selvaggi’ sugli spiriti nocivi « che si affollano particolarmente nel buio ». (Vedi soprattutto il cap. XV della Primitive Culture).

Interessante è l’uso di mezzi liberatori simili al comportamento degli stessi spiriti notturni. Questi o tacciono come

urbrae silentes, o urlano

alla maniera di Ecate, a cui per acquietarla si davano per cena cani molto teneri. I negri della Costa d’Oro « di quando in quando agitano bastoni e torce per allontanare gli spiriti maligni delle loro città; precipitandosi fuori e percuotendo l’aria con urla frenetiche, essi allontanano i demoni nei boschi e poi vanno a casa e dormono più facilmente e, per un po’ di tempo, godono di una salute più florida. Quando nasceva un piccino in un’orda calmucca, i vicini solevano precipitarsi fuori gridando e brandendo bastoni intorno alle tende, per allontanare gli spiriti nocivi che potevano danneggiare madre e figlio. Sostenendo nella moderna Europa un’idea chiaramente collegata a questa, durante la Pentecoste i Boemi e i Tirolesi nella notte di Valpurga cacciano le streghe, invisibili e immaginarie, fuori della casa e della stalla ».* Dagli errori metafisici, giudicati « seri e deplorevoli », in quanto cagionavano danni reali e gravissimi, Leopardi passa ad esaminare gli errori fisici, che furono « di poco nocumento » e appaiono « del tutto curiosi e

53 E.B. TyLOR, op. cit., cap. XV (cito dalla mia traduzione

348

inedita).

ridicoli », si che « noi possiamo sollazzarci con essi senza rimorso a spese dei nostri antenati ». Leopardi ne dà conto dal capo IX in poi, cominciando a trattare del

sole e proseguendo nei capitoli successivi (il X e lXI) Degli astri, Dell'astrologia, delle ecclissi, delle comete:

materia già indagata da vari au-

tori a lui precedenti e a lui in gran parte presenti, come Van-Dale, Selden,

Buddeo, Fourmont e altri che cita. Questi autori « hanno mostrato che

l’astrolatria, ossia culto degli astri, ha avuta un’origine rimotissima, ed è stata commune alle nazioni, quasi altrettanto che il politeismo. Egli è evidente che oggetto primario di questo culto fu il sole, ciò che apparisce ancora dai trattati che Lubberto e Nettelbladt hanno scritti sopra questa materia ».

Anche qui l’esemplificazione delle credenze sul sole addotta da Leopardi prende inizio da Adamo, secondo la storia teologica. Non tiene egli conto delle culture dei popoli d’interesse etnologico, nelle quali la personificazione del sole, della luna e delle stelle occupa un posto primario.* La documentazione del Tylor integra abbondantemente il vuoto lasciato da Leopardi sul mondo primitivo. Ma, d’altra parte, la documentazione testuale di Leopardi dà a quella etnologica del Tylor un apporto di grande rilievo. L’errore più vistoso delle false idee che gli antichi ebbero degli astri fu il carattere divinatorio attribuito all’astrologia, dal momento che dai movimenti ed effetti terrestri degli astri si dedusse « che tra il cielo e la terra v’avea una relazione manifesta, e che la parte inferiore del mondo dipendea manifestamente dalla superiore ».® Gli astrologi di piazza ne profittarono, dandosi a riempire gli almanacchi delle più balzane predizioni, che propinavano con vile profitto al volgo. Gli almanacchi divennero i maggiori veicoli degli errori astrologici. Contro questi vili mezzi di infiltrazione di errori a scopo di guadagno si leva lo sdegno di Leopardi, ispirato a illuminato e illuministico consiglio: [...] duolmi di veder tollerata e propagata sempre più la costumanza di render gli almanacchi l’alimento annuale dei pregiudizi e il baluardo in qualche modo dell’errore, onde nel secolo illuminato acquista maggior credito, e fa maggior guadagno chi sa meglio ingannare con predizioni e con frodi.

E, concludendo il capo XI Dell’astrologia, delle ecclissi, delle comete, rinnova il suo sdegno contro il vile commercio degli almanacchi: Quante vestigia delle superstizioni che gli antichi aveano intorno agli astri rimangono ancora in un secolo che si chiama illuminato, e che lo è infatti quanto 54 Cfr. E. B. TyLoR, op. cit., cap. VIII. 55 Saggio, p. 334.

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alla classe istruita! Quanti folli, che calcolano la quantità dei prodotti della terra, la qualità delle stagioni e l’esito persino dei grandi avvenimenti politici, sopra le predizioni di un almanacco! Quanti vili, che si danno il nome di astrologi, che hanno per patrimonio l'ignoranza commune, e che in un tempo di luce contribuiscono grandemente a mantenere le tenebre nelle menti volgari, spargendo di ridicoli presagi i loro miserabili almanacchi, avendo cura d’indicare diligentemente tutte le lunazioni, profittando, per fare un sordido guadagno, dei pregiudizi che ogni uomo illuminato dovrebbe cercar di distruggere, e non arrossendo di pubblicare colle stampe cose affatto chimeriche e pazze, colla sola mira di gabbare il volgo e di trarne danaio! Quante osservazioni sopra il crescere e il calar della luna si fanno assiduamente, e si faranno forse sempre dagli agricoltori, osservazioni che M. de la Quintinié e M. Normand, peritissimi agronomi, dopo mille esperienze fatte colla possibile esattezza, e M. Rohault similmente dopo venticinque anni di costante ispezione, hanno trovato essere affatto vane ed inutili! Non sembra egli che i pregiudizi siano immortali? o che gli uomini desiderino che essi lo siano?

Rispetto alle credenze astrologiche del mondo antico, la pratica degli almanacchi rappresenta una degenerazione sviluppatasi nel mondo moderno. Del quale è triste sapere che ciò che si legge o si ode « non equivale alla somma presso che incalcolabile delle stravaganti idee popolari » che ancora vi circolano, come Leopardi dichiara di rilevare da un « piccolo scritto », ove aveva trovata « raccolta ed esposta scherzosamente parte delle infinite superstizioni, che tengono tuttora robustamente incatenate le menti del volgo »:* uno scritterello che Leopardi oppone alla comunicazione scientifica tenuta dal Biot il 6 gennaio 1881 ai membri della classe fisica e matematica dell’Istituto di Francia sopra l’influenza delle scienze sui pregiudizi popolari. Non si sa, né forse è facile sapere, quale sia il « piccolo scritto » a cui si riferisce qui il Leopardi. È probabile, come ritiene Crocioni;” che sia o proprio il testo della relazione del Dipartimento del Musone sull’inchiesta napoleonica del 1811-1812, ovvero — sempre secondo il Crocioni — qualche scritto conseguente al suddetto testo ufficiale, come il trattatello di Giovanni Battarra, Delle costumanze,

vane

osservanze

e superstizioni

dei contadini di Romagna (pubblicato nel 1778 e ristampato nell’ ’82), che risponderebbe al carattere di esposizione ‘ scherzosa’ e ‘ parziale ? « delle infinite superstizioni », con cui Leopardi lo designa. Certo è che nella Pratica agraria del Battarra, come in altri scritti di agronomia popolare, antichi e moderni, risalendo a quelli di Varrone e Columella, si trovano numerose e varie superstizioni che pongono in relazione il lavoro contadino con le fasi lunari e informano sulle credenze re56 Saggio, p. 305. 57 G. CROCIONI, op. cit., pp. 17 e 159.

350

lative al rapporto della vita della natura e dei contadini con i fenomeni astrologici. Ma le considerazioni leopardiane contro le superstizioni del mondo moderno occupano pur sempre un posto minore nella economia del Saggio e rappresentano, dal punto di vista ideclogico, una difesa di ufficio, che Leopardi, intellettuale tutto ancora del Settecento, compie in nome della ragione contro il persistere o sopravvivere e imperversare degli errori. Questi, d’altronde, ricollocati nell’antichità e nei contesti poetici degli autori che li accolsero — e che li accolsero generalmente proprio come errori, perché come tali virtualmente poetici —, riacquistano tutta la loro forza poetica, prospettando la funzione di base etnologica, emergente dalle testimonianze classiche, che il mondo astrale avrà nella stessa poesia di Leopardi e in molta poesia e letteratura moderna, dove, nella produzione più significativa — s'intende —, la luna e le stelle non sono — come comunemente si crede — referenti di sentimentalismo romantico, ma hanno una

valenza etno-antropologica, che proviene dalla cultura dello scrittore e della sua epoca, ovvero del gruppo e del singolo: lungo quest’asse pensiero antico, primitivo e classico, lievitano, con uguale potenza ma in di-

versa forma, nella poesia di un Leopardi e nella prosa di un Pavese. È un discorso di troppo vasta proiezione per poterlo qui svolgere. Mi limito a segnalare qualcuno di questi profili etno-antropologici che fanno perseverare il poeta negli errori degli antichi al di là della loro condanna formale. Il tema della realtà che appare capovolta quando è vista dall’alto, dall’alto di una ragione denaturata, e che proprio nella sua proiezione rovesciata rivela o prefigura il vero ha la sua nascita nel mondo degli errori degli antichi e troverà eco nel coro di morti nello studio di Federico Ruysch e si svilupperà nel relativo dialogo tra lui e le sue mummie nella forma tragico-comica che più si addice a una anormale rappresentazione di morte e di vita, che ha tutti i segni di una irruzione carnevalesca dei morti, che a mezzanotte cantano come i galli, nel mondo dei vivi. La paura dei morti, l’incubo dei vampiri ne sono componenti essenziali. L’animazione degli astri è un altro grande errore da riportare alla sua motivazione etnologica, intravista da Leopardi: Era ben naturale che gli astri si riputassero bisognosi di cibo e di bevanda, dacché essi in realtà altro non sono che terribili animali, i quali si muovono di loro posta, e camminano con le loro gambe. [...] Frattanto vediamo avvanzarsi il ceto venerabile dei nostri antichi maestri, che sulla loro parola ci fanno certi aver gli astri un’anima pensante e intelligente, la qual regola tutti i loro moti, e fa che questi corrispondano esattamente e perpetuamente alle leggi universali della natura. 58 Saggio, pp. 323-324.

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L’animazione degli astri è consacrata negli idilli, dove è altresì riconosciuta la loro onniscienza, senza della quale il Canto notturno, ad esemx

pio,” e gli altri dialoghi con la luna e le stelle non avrebbero quella pregnanza di pensiero che hanno. i La luna che ‘ va contemplando i deserti ’, che è ‘ vaga di mirar queste valli’ ha una ragione etnologica che le permette di vedere, e non solo di vedere il presente ma anche il futuro, onde la sua preveggenza. E c’è di più. La luna col suo occhio (tanto che « nella regione centrale dell’isola di Flores è concepita come Materica, cioè ‘ Occhio grande ’ ») ® può scrutare nell’intimo e nel profondo del cuore e della mente umana. Perciò essa, pensosa, intende il viver terreno con il suo patire e sospirare, il morire degli uomini e il perire dalla terra; perciò comprende il perché delle cose, perciò sa il fine del tempo. Tutto questo non è che la proiezione poetica di un pensiero mitico, di cui si hanno numerose prove di vitalità etnologica. «I Pigmei di Gabun », ad esempio, « hanno la nozione di uno spirito che di quando in quando si trasferisce nella luna ad osservare quel che fanno gli uomini, scrutando i cuori e penetrando i pensieri più reconditi, per poi riferirne all’Essere supremo. Nell’Indonesia e nella Penisola di Malacca si trova l’idea di una Vecchia nella luna, che tutto sa, conosce

“ cuore e reni ” di ciascuno, e nessuno può sfuggirle ».!! Anche il sole, anzi molto più che la luna, è concepito « come onniveggente-onnisciente, sia come occhio, sia come figura personale ».% E non manca, anche per il sole, la conferma nella letteratura classica: Apuleio, MÉLANIE 22

Persino gli almanacchi, condannati nel Saggio (l.c.) come falsi strumenti divinatori, utilizzati dai maghi a danno dei creduloni, ritornano nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1832) come simboli del tempo futuro, atteso illusoriamente migliore del passato. L’attesa, la speranza, l’illusione del nuovo, alimentate dal consapevole ignoto del futuro (« [Vorrei] Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come

non si sa dell’anno nuovo ») rappresentano l’errore. Gli almanacchi tualizzano queste sensazioni ad ogni grande cominciamento annuale:

ri-

Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.

9 Cito quest’esempio struttura del Canto, di cui stor. d. lett. ital. », CLVI, 6 R. PETTAZZONI, op. 61 R. PETTAZZONI, op. 6 R. PETTAZZONI, op.

292

per la maggiore cognizione che ho della base di pensiero e della mi sono occupato in un articolo su I Kirghisi e Leopardi, « Giorn. 1979, pp. 124-134. cit., p. 15. cit., p. 15. cit., p. 16.

Senonché tali sensazioni si frantumano nel dispiegarsi del vero, allorché il futuro si fa presente. L’antropomorfismo con cui gli antichi immaginarono la terra, di cui Leopardi fornisce nel capo XII puntuali testimonianze greche e latine, filosofiche oltre che poetiche, ha le sue radici nella dimensione etnologica dell’antichità. Dal parallelismo con il corpo umano discende il termine simbolico di umbilico per designare e denominare il centro della terra. Tale denominazione fu adoperata anche dai Padri della Chiesa ed ebbe corso nella letteratura religiosa del medioevo, anche a quel livello di pensiero e di stile, dotto e popolare insieme, letterario e volgare, che è il livello della Divina Commedia: « sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l’umbilico in giuso tutti quanti » (Inf. XXXI 31-33). Che è la posizione dei giganti nel nono cerchio, segnata non a caso dal centro fisico e simbolico del loro corpo immerso (da quel punto) nel pozzo infernale. Con l’animazione degli elementi celesti è connessa la tradizione proveniente dagli antichi di riguardare il tuono e il fulmine come segni soprannaturali. Così Leopardi spiega la genesi preistorica di tale considerazione: Era naturale che i primi uomini, atterriti dalla folgore, e vedendola accompagnata da uno strepito maestoso e da un imponente apparato di tutto il cielo, la credessero cosa soprannaturale e derivata immediatamente dall’Essere supremo. L’agricoltore primitivo fuggendo per una vasta campagna, mentre la pioggia sopraggiunta improvvisamente, strepita sopra le messi e rovescia con un rombo cupo

sopra la sua testa; mentre il tuono, che sembra essersi innoltrato verso di lui scoppia più distintamente e gli rumoreggia d’intorno; mentre il lampo, assalendolo con una luce trista e repentina, l’obbliga di tratto in tratto a batter le palpebre; rompendo col petto la corrente di un vento romoroso che gli agita impetuosamente le vesti, e gli spinge in faccia larghe onde di acqua, vede di lontano nella foresta una quercia tocca dal fulmine. Da quel momento egli riguarda quell’albero come sacro, concepisce per esso una venerazione mista di orrore, e non ardisce più avvicinarsi al luogo ove il fulmine è caduto. Il tuono e la folgore furono annoverati fra gli attributi della Divinità e fra gl’indizi più manifesti del suo supremo potere.®

Da qui alla divinizzazione degli stessi fenomeni il passo è breve. Nelle religioni politeistiche il Dio-Tuono occupa una posizione simile a quella del Dio della pioggia, talvolta coincidente con essa.* Presso i Mandan dell America del Nord e i Dacota il tuono è immaginato anche come es63 Saggio, p. 384. 6 E, B, TyLoR, op. cit., cap. XVI.

353 23

sere alato, un terribile uccello dalle ali battenti e dagli occhi fiammeggianti.$ Non altro che il mito dell’uccello-tuono può dare un significato culturale alla immagine leopardiana del pastore asiatico, allorché pensa: Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono etrar di giogo in giogo,

L’opinione che tuoni e fulmini siano presagi e indizi del futuro è anch'essa antica, come constata Leopardi che riassume l’episodio dell’Iliade (VII, 476 sgg.) in cui Omero ne dà testimonianza: [...] l’armata greca di sera sta banchettando. Si fa festa, e si beve con allegria. Improvvisamente si ascolta un tuono. L’augurio è creduto infausto. Una mano agghiacciata stringe tutti i cuori. La gioia cessa, e al riso succede la serietà taciturna e la gravità pensierosa. Si fanno libazioni a Giove, e si prega questo

Nume ad allontanare dall’esercito greco la sventura minacciata dal tuono. I fulmini o i tuoni, veduti o uditi mentre il cielo compariva sereno, teneansi in singolar modo per misteriosi e terribili. Forte tuonasti, o Giove, eppure il cielo È stellato tuttor, nube non veggo: Certo a qualche mortal vuoi dare un segno: dice, presso Omero, una fantesca, che di notte sta macinando sola il formento, perché le sue compagne, dopo aver macinato per lungo tempo, stanche si sono

poste a dormire.” Tuoni e fulmini incutevano, perciò, timore, ma favorivano

anche la

crescita di certi prodotti, come tartufi e perle. Dai tuoni e da altri effetti naturali gli antichi traevano pronostici meteorologici, che sono stati trasmessi attraverso proverbi e modi di dire validi per l’agricoltura. Uno dei testi classici è il De Natura Rerum di Beda, che al cap. 36 dice: Il sole sparso di macchie nel suo nascere o coperto di nuvole, presagisce un giorno piovoso. Se apparisce rosso annunzia un giorno sereno, tempestoso se pallido; se sembra concavo, in guisa che splendendo nel mezzo mandi i suoi raggi

verso mezzogiorno e tramontana, presagisce una tempesta umida e ventosa:

se

SRE B'UTYLOR 0p; 678, Cap: ANT. 6 Rinvio alla interpretazione antropologica che ho data di questi versi nell’articolo citato nella nota 59. 67 Saggio, p. 388.

354

tramonta pallido tra nubi nere, il vento di tramontana. Il cielo rosso verso sera annunzia un giorno sereno, e tempestoso se rosseggia nella mattina. Il baleno da tramontana, il tuono da levante minacciano tempesta e un vento impetuoso di mezzogiorno. La luna, se nel quarto suo giorno è di colore simile all’oro, annunzia vento; se ha macchie nere nella estremità del corno, un mese piovoso nel principio; se nel mezzo, un plenilunio sereno. Quando l’acqua scintilla di notte presso ai remi dei naviganti, è imminente la tempesta. Quando i delfini saltano frequentemente sopra le onde, il vento è vicino a soffiare da quella parte verso la quale essi vanno, e da quella in cui le nubi squarciate lasciano vedere il sereno.

Ironico sembra essere — à la page con l'ironia illuministica — il secco commento conclusivo del Leopardi: Verità incontrastabili e ben degne di ricevere tuttora omaggi ed applausi da moltissime menti con profitto incalcolabile dell’agricoltura.

L’animismo primitivo coinvolse anche i venti e i terremoti, considerati come « cose soprannaturali » e riguardati come divinità. Sta di fatto che nell’antichità classica l’anima-vento è riconosciuta anche linguisticamente, come fa notare Leopardi nel capo XIV: rnvebua « vale al tempo stesso spirito e vento » e la voce anima « presso gli scrittori latini è spesse volte sinonima di vento ». Invero, le cose non stanno proprio così, ma all’incontrario. Alla base della relazione semantica agì presso greci e latini un rapporto filosofico, spiegato dal Vico (Dell’antichissima sapienza italica, V, 1): [...] in latino si chiamava anima anche l’aria, ch'è come dire la più mobile di

tutte le cose; [...]. Da ciò è dato congetturare che gli antichi filosofi italici prendessero a fondamento il moto dell’aria per definire l’animus e l’anizza.

L’animazione del vento, quindi, omologabile all’animazione degli altri elementi e fenomeni naturali, precede la formazione del nesso semantico,

da cui può essere stata rafforzata presso il volgo con una inversione di funzione (dall’anima al vento), che dà l’errore.

Le testimonianze dei poeti latini e degli scrittori cristiani, riportate da Leopardi, dànno rispettivamente credito e discredito a talune diffuse credenze volgari di vasta diffusione etno-demologica” (i venti messaggeri, i venti come destrieri, i venti che ingravidano le cavalle), che dal mondo

antico si sono trasmesse al mondo moderno e si ritrovano a livello popolare nelle tradizioni contadine a livello letterario sotto forma di metafore

68 Saggio, pp. 397-398. 6 Saggio, p. 398. 70 Cfr, E. B. TyLOR, op. cit., cap. IX.

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nella produzione d’ispirazione contadina e come sensazioni e concezioni culturali nella produzione d’ideologia contadina. I terremoti, ancora più dei venti e dei tuoni, si prestavano a essere riguardati come « cose soprannaturali ». Al timore che il terremoto produceva col suo terribile effetto (« quello che fendeva i monti e ne diroccava le cime, che apriva abissi spaventevoli sotto ai piedi degli uomini, che facea scomparire in un istante le messi e gli armenti, rovesciando, inghiottendo e cangiando quasi ad un tratto la faccia delle cose »), « andava unito presso gli antichi quello ancora più grande, che è cagionato dall’idea di un Essere superiore e onnipotente, irritato e in atto di punire »." La scienza naturale degli antichi, non meno dell’astrologia, pullulò di miti. Miti prodotti da istinti di perversione ed esagerazione furono le storie favolose di pigmei e giganti, riferite da Leopardi nel capo XV attraverso le testimonianze classiche. Queste si possono riallacciare alle testimonianze provenienti dal mondo primitivo, che l’antropologia ha raccolte intorno alle maggiori deformazioni delle razze umane, ponendo agli antipodi popoli immaginari costituiti interamente da uomini straordinariamente piccoli o grandi. Fu proprio all’inizio dell'Ottocento che le storie relative a questi popoli furono giudicate leggendarie e passarono con Grimm, Nilsson e altri nel mondo ideale della mitologia. Tuttavia nell’antropologia posteriore si sostenne che le leggende sui pigmei e giganti siano talvolta dei miti filosofici, creati per giustificare il ritrovamento di reperti di misura corrispondente. Tylor ricorda, per esempio, « alcune grosse mandibole e dei grandi denti ritrovati nello scavo del promontorio di Plymouth, che furono attribuiti al gigante Gogmagog, il quale in tempi remoti combatté proprio in quel luogo contro Corineus l’eroe eponimo della Cornovaglia ».? Anche Leopardi, citando relazioni accademiche del Settecento relative a scavi paletnologici, ne ricorda in particolare una del 1764 in cui si dava notizia che in una fossa sepolcrale del monastero di Wreta fu trovato « uno scheletro di figura evidentemente umana con cranio e braccia, e di lunghezza e grandezza meravigliosa »; le cosce di questo scheletro erano « lunghe 23 pollici; l’osso della gamba, dal ginocchio sino alla curvatura del piede, 18 pollici; il piccolo cavicchio 15, e 10 le ossa delle coste, che erano alte sei pollici dal bacino delle ossa delle cosce ». Da un’altra memoria degli Atti dell’Accademia di Svezia « si argomenta di provare che

questo fatto non è il solo che mostri aver talvolta esistito qualche uomo di statura assai maggiore della ordinaria ». Onde è lecito dubitare, secondo Leopardi, « se gli antichi abbiano errato o no » nell’ammettere l’esistenza 71 Saggio, p. 405. 2 Cfr BsB_ly£0r, op cit; cap.

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dei giganti, « benché sia certo che se i giganti non sono una chimera, mol-

tissime ridicole idee che gli antichi aveano intorno ad essi, erano, come la

favola dei pigmei, purissime fole ».? Senonché, anche per quanto riguarda i pigmei, l’antropologia dell’ottocento sosterrà col Tylor che « le loro leggende sono curiosamente associate ai perenni monumenti delle razze estinte, le pietre tombali e i dol-

men. Di conseguenza, negli Stati Uniti, la serie di rozze lastre funerarie, lunghe solo due o tre piedi, si collegano alla credenza di una razza di pigmei che vi sarebbero stati sepolti ».* Certo è che le testimonianze classiche hanno su questo argomento un carattere favoloso. Ne discorse Vico nel cap. III della Scienza Nuova: Del diluvio universale e de’ giganti. Degli scrittori greci Strabone fu colui che, come fa notate Leopardi, « osò mostrarsi poco persuaso della esistenza dei Pigmei ».* Degli Etiopi dice (Geogr. lib. 17) che « le loro gregge consistono in piccole pecore, in capre, in buoi e in cani ancor piccoli »; e che « gli stessi abitanti sono pur piccoli ma forti e guerrieri ». Soggiunge: « Forse la loro naturale piccolezza dié occasione d’immaginare e di fingere un popolo di Pigmei; poiché cotesto popolo non fu veduto da verun uomo degno di fede »." Centauri, ciclopi, arimaspi, cinocefali dovettero

avere

un’origine mi-

tica. L’associazione fra natura umana e natura animale è alla base di molti miti e favole, in quanto scaturisce dalla convivenza e convergenza economica di uomini e animali. L’uomo-cavallo (ippocentauro) o l’uomo asino (onocentauro) non ha nulla di terrificante. E invece con ottica illumini-

stica esso appartiene alla schiera dei mostri, che « esisterono nella mente degli antichi », a cui parve conveniente — così dice Leopardi — « associare alla natura umana quella dei bruti, unir questa e quella in un solo essere vivente, e immaginare alcuni mostri, il corpo dei quali somigliasse perfettamente allo spirito della maggior parte degli uomini ». « Il volgo fu persuaso della esistenza di questi mostri, e moltissimi dotti furono in ciò di sentimento conforme a quello del volgo ». Leopardi esamina quindi il diverso grado di credito ch’ebbe ciascuna specie di mostri. Quanto ai centauri, la favola intorno ad essi sarebbe sorta, secondo molti antichi dotti, dall’« abilità che aveano i Tessali nel domare i cavalli » e dal « lor costume di combattere a cavallo »; cosa che « era ben

naturale, e si sa che gli Americani in simil guisa presero i cavalieri spagnuoli per mostri biformi ». Fu così che «la favola popolò appunto di 73 74 15 76

Saggio, Cfr. E. Saggio, Saggio,

pp. 415-416. B. TyLOR, op. cit., cap. X. p. 413. pp. 413-414.

357

Centauri il monte Pelio, che è nella Tessaglia ». Tuttavia « il numero dei saggi, derisori di questa favola, contrabbilanciò almeno quello dei dotti che la sostenevano ». Altri mostri « ingiuriosi alla natura umana », immaginati dagli antichi, furono i Ciclopi « che si crederono, come ognun sa, uomaccioni altissimi,

forniti di un sol occhio situato in mezzo alla fronte ». E — aggiunge Leopardi — « non solo i poeti, ma anche autori gravi e storici accreditati considerarono i Ciclopi come gli antichi abitatori della Sicilia, dal che apparisce che questi mostri non furono solamente esseri poetici, ma costituirono l'oggetto di un vero error popolare ». « Simili ai Ciclopi nella idea degli antichi erano gli Arimaspi, sorta di Sciti, che supponevansi non avere più di un occhio ». Ne parlarono Plinio, Plutarco, Erodoto. Secondo Eustazio,

che non a caso Leopardi cita per ultimo, per dargli e fargli dare ragione, « gli Arimaspi erano abilissimi nel trar d’arco, e per porlo nella giusta direzione, soleano chiudere uno degli occhi, ciò che poté dare origine alla favola che li fingea forniti di un sol occhio ». Anche la favola dei cinocefali è nata dall’ingrandimento della reale constatazione che vi sono in Africa, in più gran numero in Etiopia, scimmie con la testa di cane. La immaginazione di mostri semiumani, che gli antichi derivarono dalle relazioni ambiziose e ampollose dei viaggiatori, non fu un fenomeno esclusivamente antico. Essa ebbe — come si sa — una stagione floridissima nel medioevo:

altra ne fu la formazione, la funzione e la finalità. Ma essa

non rientra nel quadro leopardiano degli errori popolati, che congiunge impossibilmente e non storicamente il presente col passato, senza verificarne la continuità o fissare periodi intermedi. Innumerevoli sono gli scrittori antichi che, « soccombendo alla forza della prevenzione e assoggettandosi all'impero dell’autorità, adottarono l’idea chimerica che ammetteva la durata lunghissima della vita e la risurrezione periodica di un uccello unico e pellegrino »: la fenice. Epperò Leopardi ci dà nel capo XVII un repertorio tra i più ricchi e pressoché completo delle testimonianze antiche dell’idea della fenice, che si è rivelata or non è molto come una favola, oggetto di scherno da parte dei dotti. Il capitolo Della fenice del Brown (t. I, capo XII), va riproposto tra i libri eruditi più serviti al Leopardi. Esso riassume alcune testimonianze classiche che Leopardi riproporrà nei passi originali e più analiticamente contesta l’errore: Poiché dunque non vi è testimonio di vista, che dice come cosa certa l’esistenza della Fenicia; poiché gli Autori, e spezialmente coloro, che più hanno esaminato, la negano, o ne parlano diversamente; poiché non si può far fondamento sopra quanto ne hanno detto i Poeti, gli Oratori, e i Facitori di Emblemi; poiché i Testi Sacri ben intesi non le sono favorevoli; in fine poiché la maniera, onde x

358

si suppone, che si riproduca, la sua unità e la sua lunghezza di vita non possono aggiustarsi né colla ragione, né colla sperienza, crediamo, che cotesta tradizione intera debba essere rigettata come tradizione assolutamente favolosa.”

Ma è proprio questo tipo di contestazione analitica che al Leopardi meno interessa. Semifavolosa è risultata, invece, la lince degli antichi, perché la scienza

naturale ha trovato davvero animali forniti di vista singolare, come il lupo cerviero, « quadrupede di figura molto simile a quella del gatto, che ha una pelle macchiata, ed abita principalmente nei paesi freddi, come nella Moscovia, nella Siberia, nella Lituania, nelle parti settentrionali della Ger-

mania e nel Canadà, ove essi sono più piccoli e più bianchi che in Europa ». E alla specie di animale immaginata dagli antichi sono stati ricollegati alcuni casi singolari di esseri umani, descritti nel sec. XVIII sulla base di racconti più o meno immaginari. Quanto agli antichi, la semifavola della lince produsse il suo personaggio, Linceo, il valente argonauta « che vedea sotterra le miniere, e facea altre prove da non credere ». O questi creò la favola? Il problema che è fenomenologico, non è risolto nel Saggio. È già tanto, per l’antropologia della fiaba antica, che Leopardi se lo sia posto. Si è voluto fare una lettura patticolareggiata del Saggio per mostrare la sua consistenza e l’apporto cospicuo ch’esso dà all’antropologia scientifica, a prescindere dalla stessa dichiarata ragione dell’opera, conforme alla diffusa moda illuministica e al dovuto omaggio alla Chiesa. Questo è espresso, anzi proclamato, in tono troppo laudativo e celebrativo per essere sincero, nella Ricapitolazione (capo XIX), a cui non darei tanto peso e rilievo. La vera importanza del Saggio è nel suo corpo centrale, ossia

7 T. Brown, op. cit., I, pp. 290-291. 78 Ben vide il Ciàmpoli nel 1889, allorché, rilevata la presenza del fato in tutta l’opera leopardiana, scriveva: « Se ne trova traccia profonda, sebbene all’osservatore superficiale non paia, negli stessi ‘Errori popolari degli antichi’, ove con tanto paganesimo inneggia alla Religione. Quell ‘hominum sator, atque Deorum° quel ‘Naturae genitor, quae mundum continet omnem … quell’immenso ‘unde nil majus generatur ipso, nec viget quicquam simile, aut secundum’, è il fato che pervade ogni cosa, e che egli sente come tale e che non di meno chiama Dio, sforzandosi di estendere il Cristianesimo nella universalità del tempo. L’istessa mole affannosa di citazioni e di sentenze, onde cerca di provar la sua tesi, prova invece che in quella fede è un principio di dubbio, e in quella creduta verità è un principio d’errore; prova anche, quel che più monta, qualmente egli tra le aberrazioni umane vuol veder chiaro sin dall’adolescenza, e che da quella ricerca faticosa, fatta con preconcetto, uscirà in breve più luce che non si pensi. Quand’egli sarà maturo, si potrà volentieri fra gli antichi di cui giovinetto condannava gli errori, perché, come tutti sanno, la fatalità è antica quanto l’uomo » (D. CràmpoLi, La natura nelle opere di G. Leopardi cit., pp. 17-18).

359

nella materia trattata e nel modo filologico in cui essa è trattata, ben diversa dal modo in cui la materia era stata filosoficamente o pseudofilosoficamente trattata dagli studiosi che lo avevano preceduto. Leopardi è sostanzialmente nel vero quando afferma, all’inizio del Saggio, di non averli imitati. La filologia di Leopardi è in sé stessa filosofica: la poesia nasce da questo nesso costante, che parole e immagini significano. GIOVANNI

360

BATTISTA

BRONZINI

Socrate e Leopardi

Nonostante il giudizio leopatdiano che la filosofia socratica « gioverà pur sempre agli uomini più dell’odierna », non si può dire né che Leopardi sia un convinto sostenitore della dottrina di Socrate, né che egli abbia studiato e meditato a fondo quella filosofia che egli apprezzava perché « compatibile con la letteratura e la poesia ».! Sappiamo bene che per questa medesima ragione Leopardi ammirò grandemente Platone, persuaso com’era che nessun grande filosofo può esser tale senza essere anche artista, e viceversa. Anzi, scrivendo

a Roma

allo zio Carlo Antici, egli

preannunziava il disegno di un’antologia platonica, sceverata però dalle eterne disquisizioni dialettiche, £#soffribili — come riteneva — ai nostri giorni. L’accostamento Socrate-Leopardi, tra due filosofi cioè così distanti nel tempo e così diversi per indole, temperamento e cultura, resta certo del tutto esteriore, nel senso che, appunto, manca ogni premessa teorica che possa fungere da giustificazione, e manca altresì, da parte di Leopardi, un’accurata attenzione alla questione socratica e, in genere, alla dottrina

dell’antico filosofo. Probabilmente non ha presente la testimonianza aristotelica (Metaph. À 6, 987 b; M 4, 1078 b) sulla quale oggi si discute

con largo impegno critico per stabilire se davvero Socrate possa essere considerato lo scopritore dell’universale, della definizione, del procedi mento induttivo e, in breve, il fondatore (lui e non il più maturo Platone

e meglio poi Aristotele) della logica occidentale. Del resto è facile congetturare che quand’anche fosse a conoscenza del problema ora indicato, Leopardi lo avrebbe superato ritenendolo indifferente ai suoi più autentici interessi. Egli conosce Socrate, dunque, solo attraverso Diogene Laerzio, i Memorabili di Senofonte e qualche dialogo di Platone. Delle antiche fonti riporta talvolta delle citazioni, saltuariamente ed estrosamente, secondo lo stile dello Zibaldone. Per lui Socrate, anche se non alla maniera

atistofanesca, quindi senza sospetto di giudizio spregevole, è un sofista:

1 Zib. I, 1359-1360, p. 913 2 volumi, Milano 19677).

(cito dall’ed.

FLora,

G. LeopArDI,

Zibaldone

di pensieri,

361

Socrate stesso, l’amico del vero, il bello e casto parlatore, l’odiatore de’ calamistri e de’ fuchi e d’ogni ornamento ascitizio e d’ogni affettazione, che altro

era ne’ suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi? * .

.

.

.

.

.

na

2

Anche se non esplicitamente citato, la notizia è probabilmente attinta dal Laerzio, che infatti riferisce che Socrate « fu anche abile nell’arte retorica, come dice pure Idomeneo; ma anche, secondo la testimonianza di

Senofonte} i Trenta gli impedirono d’insegnare l’arte della parola. Favorino nella Storia varia attesta che Socrate fu il primo, insieme con il suo discepolo Eschine, a insegnare retorica: la notizia è confermata da Idomeneo ». Questo giudizio, che in qualche modo potremmo dire estetico più che di carattere speculativo (come tanti altri, del resto, presenti nello Zibaldone) non impedisce, quindi, di apprezzare, sia pure a livello di poche cognizioni, una filosofia alla quale Leopardi riconosceva il merito di avere aperto nuovi orizzonti, di là dagli obiettivi della filosofia naturalistica, ancorata a costruzioni e valutazioni lontane dalla vita, ed infeconde, quindi, per gli autentici fini dell’uomo. Nonostante la breve speranza riposta nei libri di Anassagora — il fisicissimo, ma anche il filosofo-Intelletto — Socrate infatti se ne distaccò ben presto — come testimonia il Fedone platonico — e non considerò mai argomento del suo insegnamento oggetti attinenti alla filosofia della natura. Anzi, nell’Apologia (19 d) egli stesso afferma che della scienza della natura, se scienza è, egli non capisce né molto, né poco. Il giudizio è ripreso con ampiezza da Senofonte, nei Memorabili (I, 1, 11 sgg.): Socrate non discuteva sulla natura dell’universo, come la maggior parte degli altri, indagando in che modo esista quel che i dotti chiamano coszzo e per quali necessità accadano i vari fenomeni celesti: quanti si mettevano in tali ricerche li definiva insipienti ... E si meravigliava che alla loro mente non balzasse manifesta l’impossibilità di risolvere tali questioni, poiché anche quelli che erano orgogliosi di trattarle non si accordavano mai l’uno con l’altro, ma erano tra loro molto simili a gente che vagheggia.

La scienza che interessa Socrate è l’etica, cioè la scienza che si occupa dell’uomo e dei suoi problemi vitali: questo, finalmente, è il punto d’incontro Socrate-Leopardi. Ma poche considerazioni preliminari bastano a garantire che tra l’uno e l’altro non è possibile, almeno riferendosi al contenuto delle loro dottrine, ritrovare alcun punto di contatto speculativo. Fuori dalla generica assunzione dell’etica come aspetto veramente fondante ed essenziale della filosofia, non sarà infatti possibile riconoscere 2 Zib. II, 3474-3475, p. 469. 0828318

SEM

362

alcun punto di convergenza se non, forse, nel comune rifiuto di ogni superstizione: ciò che del resto è evidente e si spiega tenendo conto del

materialismo leopardiano. L’accostamento, allora, se una giustificazione teorica deve avere, assume il carattere di un ideale incontro-scontro da

cui non altro può risultare se non l’interesse di Leopardi per la cultura

greca, la sua eccezionale capacità di critica e, infine e innanzi tutto, la sua

autentica vena speculativa. Prima d’ogni altro il problema

dell’anima, che costituisce

oggi la

grande svolta critica negli studi socratici, che fanno capo, all’inizio del no-

stro secolo, a due insigni maestri della scuola scozzese di St. Andrews, John Burnet ed Alfred Eduard Taylor. Nell’angolo di questa prospettiva, recentemente valorizzata ed approfondita dal Reale;' la psyché, di cui Socrate fa il fulcro della sua dottrina, ha una dimensione personalistica che corrisponde appunto alla personalità morale ed intellettuale dell’individuo, al suo centro di pensiero e di volontà, libero da ogni condizionamento fisico o fisiologico. Manca, certo, la dimensione metafisica ed onto-

logica che sarà conquista di Platone, per cui l’anima, come sostanza si contrappone o almeno si distingue dal corpo; ma c’è tuttavia, in Socrate, una prospettiva in cui l’anima si colloca con una somma di valori, di scelte, di possibilità, che acquistano frutto con un’adeguata paideia e restano in ogni caso estranee e indipendenti dal corpo, che va domato e mantenuto in uno stato di soggezione. Ben diversamente Leopardi, che da materialista non ha alcuna difficoltà a riconoscere che l’anima non solo sia spesso influenzata dal corpo ma anche abbia come

unica mira la felicità, tutta

terrena e sensibile, che, appunto, è tutt'uno col piacere. L’uomo dunque, leopardianamente, non è la sua anima, con i valori spiritualistici che essa, come anima, può concepire e indicare, ma, se vogliamo, è il suo corpo, la sua materialità efficiente, che lo porta, per necessità d’istinto, alla ricerca del godimento e del piacere. Se ancora occorrerà insegnare agli uomini di conoscere e curare se stessi, ciò significherà smaliziarli sugli orrori dei morbi, della vecchiezza e della morte, per approfondire il fine ultimo della natura umana corporea, che è infallibilmente la ricerca del piacere. Ma, intanto, non è possibile, per Leopardi, che l’uomo realizzi il piacere a cui è naturalmente avviato, direi destinato: di qui il riconoscimento dello scacco della vita umana e la visione di un profondo e radicale pessimismo. C'è poi, tra Leopardi e Socrate, un motivo che apparentemente sem4 G. REALE, Storia della filosofia antica, I, Milano 1976, p. 296 sgg. Cfr. anche F. SARRI, Socrate e la genesi storica dell'idea occidentale di anima, Roma 1975.

5 Zib. I, 1719, p. 1110. 6 Zib. I, 181-182, pp. 195-196.

363

bra creare concordia — ed è quello, come dicevamo, dell’interesse reciproco per l’etica, considerata anche da Leopardi l’unica parte feconda della filosofia — e che invece rivela la più assoluta e radicale opposizione: l’etica è scienza del bene, ma qual è il bene per l’uomo? Per Socrate il bene s’identifica col sapere, con la medesima scienza, così che, a parte i dialoghi giovanili di Platone che spesso rinnovano l’equazione sapere-virtù, anche Aristotele (Er. Nic. H, 2, 1145 b) testimonia che Socrate « pensava in-

fatti che nessuno possa agire consciamente contro ciò che è meglio, bensì possa farlo soltanto per ignoranza ». Per Leopardi, invece, il sapere è stimolo di negatività e di dolore, perché distrugge le benefiche e naturali illusioni, unica possibile fonte di felicità umana. La virtù, sia considerata

in se stessa che nel suo complesso, come insieme appunto di virtù varie, è per Socrate conoscenza, sicché il suo opposto, il vizio, non è altro che ignoranza. x Il valore supremo per gli uomini è, dunque, la conoscenza, giacché è appunto la conoscenza che fa essere l’anima come dev'essere e perciò realizza l’uomo che nell’anima ha la sua essenza.

Per Leopardi — come vedremo di qui a poco — non ha senso il binomio sapienza-virtù, anzi esso viene rivoluzionato fino al punto che la sapienza acquista una carica del tutto negativa, perché distrugge l’umana felicità, unica vera ed autentica aspirazione dell’uomo. L’uomo, quindi, non nasce alla virtù, come crede Socrate, e in essa, una volta conquistata, ritrova anche la felicità; nasce, invece, col preciso

istinto di godere, e la scienza non collabora affatto a raggiungere il piacere, anzi, smascherando il vero, respinge l’uomo nel disinganno e nel dolore. D’altra parte la scienza neppure può giovare alla virtù, che per Leopardi, come vedremo, ha un significato sociale e vale come correttivo del naturale egoismo di ciascuno. Ora, a proposito di questo problema, leggiamo quanto riferisce Diogene Laerzio. Socrate « diceva che uno solo è il bene, la scienza, e uno

solo il male, l’ignoranza »f La testimonianza trova riscontro nell’Ippia maggiore: « La sapienza è di tutte la cosa più bella, l’ignoranza la più brutta ». Leopardi commenta: Oggidì possiamo dire tutto l’opposto, e questa considerazione può servire

a definire la differenza che passa tra l’antica e la moderna sapienza.! 7 G. REALE, op. cit., p. 312. 8 Droc. LAERT. II, 31, trad. M. GIGANTE. 9 Hipp. ma. 296 a. Cfr. anche Euthyd. 281 ce. ZIO AME

364

Nello Zibaldone e nel cap. VI dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, dove il concetto è ripetuto, non troviamo altri elementi che suffraghino ed aiutino a comprendere il pensiero leopardiano in proposito, ma da molte altre osservazioni si può fare ampia luce sulla questione. In un altro punto dello Zibaldone, riprendendo Diog. Laert. II 32, dove la fonte antica riferisce che Socrate « nulla sapeva eccetto che nulla sapeva », Leopardi riprende il detto in latino, quasi a ricordare l’universalità di questa sentenza, Hoc unum scio, me nibil scire, e così commenta: « questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la mèta, la perfezione della sapienza ».! Dunque, sembrerebbe di dover concludere che Leopardi consente perfettamente con la prospettiva socratica. Senonché, mentre il so di non sapere per Socrate ha valore metodologico e serve ad aprire alla scienza orizzonti nuovi, liberi da presupposti ed opinioni fallaci, non credo che Leopardi, nonostante l’orrore settecentesco e razionalistico — come osserva il Luporini — per ogni forma di superstizione, avesse come unico obiettivo quello di liberare la scienza da false credenze o opinioni vulgate, per procedere criticamente alla costruzione della verità. Il so di non sapere socratico era una sconfessione del sapere qual era

stato esercitato dai Fisici, che nel delirante tentativo di raggiungere le segrete leggi del cosmo, avevano trascurato l’uomo ed i suoi limiti; era ancora un atteggiamento polemico nei confronti dei Sofisti, che imprudentemente si proclamavano maestri in ogni branca, capaci, anzi, di migliorare gli scolari fin dal primo giorno delle loro lezioni; era, infine, un’ac-

cusa ai poeti, che al più procedevano per intuito o disposizione naturale, senza fondare sul logos i loro precetti. Diverso è il punto di vista di Leopardi: la scienza è colpevole non tanto degli errori in cui può inciampare e che via via essa può smascherare e correggere attraverso nuove intuizioni e nuovi esperimenti: è colpevole, anzi, di denudare il vero, ed in

questo senso è proprio la sua positività che è posta sotto accusa e che ne rivela l’implicito danno. Il sapere allontana l’uomo dallo stato naturale, rallenta l’attività dell’intelletto a determinarsi, quindi riduce la vitalità e la forza dell’operare. Chi sa, dubita, e nel dubbio spegne ogni iniziativa, mancandogli la certezza di scegliere e scegliere bene: L’uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente e dubbiamente si determina, quanto più sa. Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il sapere. E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll’ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll’ignoranza che col sapere."

11 Zib. I, 449, p. 368. 12 Zib. I, 450, p. 369.

365

L’ignoranza di cui parla Leopardi, ovviamente, non è assoluta, ma solo equivale a quello stato naturale dell’uomo che stimola l’attività e, malgrado gli errori, rende possibile la vita. Non è, quindi, « la negazione di ogni credenza, o determinazione dell’intelletto, che in natura non si dà ». Ogni uomo non può vivere senza un atto elettivo della sua volontà. Ora, perché la volontà si determini in un senso o nell’altro, è necessario che l’uomo abbia delle credenze in base alle quali distinguere le cose buone dalle cattive, ovvero quelle che gli convergono da quelle che sono indifferenti o nocive. Queste credenze, non cognizioni, devono essere, appunto,

solo convenienti alla natura umana, senza presumere di essere oggettivamente ed universalmente vere, non solo perché tutto è relativo, anche il bene ed il male morale, ma soprattutto perché « la verità assoluta, e per

così dire il tipo della verità, è indifferente per l’uomo ». La differenza tra credenza e cognizione consiste nei rispettivi oggetti che ciascuna ha per sé: l’una ha per oggetto una proposizione credibile, quindi rapportata di volta in volta ai vari individui e ai vari momenti della vita, ed è quindi quel che importa tenere per vivere, già che « il credere non è altro che tirare una conseguenza »; l’altra, la cognizione, ha

per oggetto la verità, che è indifferente all'uomo, e quindi forse anche inutile e dannosa. Rispetto alle cognizioni le credenze sono privilegiate da Leopardi, perché egli ritiene che esse siano ingenite, primitive e naturali e che in effetti corrispondano a quel che si chiama istinto o anche idea innata. Ma « idee precisamente

innate non

esistono in alcun vivente

e

sono un sogno delle antiche scuole ».! Innata è solo la disposizione a determinarsi, in seguito a un’esperienza, una credenza, un giudizio: per que-

sta via Leopardi salva anche la libertà individuale, perché le credenze « non fanno altro che determinare la volontà ».” Questa prospettiva, come si vede, contrasta non tanto con la dottrina socratica, che infatti mirò a costruire la verità con le sole risorse umane,

senza alcun ricorso metafisico, quanto con la dottrina platonica, che dell’innatismo fece il fondamento per la risoluzione dei massimi problemi filosofici, dall’immortalità dell'anima alla costruzione dell’uomo virtuoso e felice. Non è chi non veda che esistono, certo, momenti di fondamentale

frattura tra la prospettiva leopardiana e quella platonica, che pure Leo-

13 « Non v'è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo » (Zib. I, 452, p. 370). 14 Zib. I, 1624, p. 1058.

15 Zib. I, 381, p. 328. 16 Zib. I, 442, p. 364. 17 Zib. I, 438-439, pp. 362-363.

18 Cfr. il mio studio, Momenti 1977, cap. V, p. 174 sgg.

366

del pensiero greco nella problematica leopardiana, Lecce

pardi ammirò non poco e la vivifica, così vicino, ragione in passione; ma posta visione del bene, nel X della Nicomachea,

per l’interna coerenza e per il pathos che l’anima per certi aspetti, al suo impegno di convertire la la questione dell’innatismo, di là anche dalla opche per Platone, come poi anche per Aristotele consiste nella suprema virtù della contemplazione,

e per Leopardi, invece, nel piacere sensibile e concretamente esperito, re-

sta indubbiamente essenziale. L’argomento

vittorioso, ultimo

e decisivo

sia contro

l’innatismo

che

contro la scienza che peraltro esso soltanto garantisce, Leopardi lo ricava, con argomentazione storica originale ma non imprevedibile, data la sua cultura religiosa, dai testi della Scrittura: soltanto dopo il peccato Adamo acquistò la scienza del bene e del male. L’albero della scienza del bene e del male prova quindi sia l’infondatezza dell’innatismo, una volta che l’uomo se non avesse trasgredito il comando divino, non avrebbe avuto scienza, almeno nel senso etico del termine; sia la negatività della scienza medesima, che all’uomo era stata preclusa per la bontà del suo creatore. Dio, che voleva l’uomo felice e lo aveva creato per il paradiso terrestre, gli aveva perciò impedito di sapere: giacché qualunque cosa si voglia intendere per l’albero della scienza del bene e del male, è certo che il solo comando che Dio diede all'uomo dopo averlo posto in paradiso voluptatis (Genesi, c. II, v. 8, 15, 23, 24) (s’intende voluttà e felicità terrena, contro quello che si vuol sostenere che all'uomo, non sia destinata naturalmente se non se una felicità spirituale e d’un’altra vita), fu De ligno autem scientiae boni et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris (Genesi, II, 17). Non è questo un interdir chiara-

mente all’uomo il sapere? un voler porre soprattutte le altre cose (giacché questo fu il solo comando o divieto) un ostacolo agl’incrementi della ragione, come quella che Dio conosceva essere per sua natura e dover essere la distruttrice della felicità, e vera perfezione di quella tal creatura, tal quale egli l’aveva fatta, e in quanto era così fatta? ... In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s’egli avrebbe saputo contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione, in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda la felicità umana: fu appunto il vedere s’egli avrebbe saputo conservarsi quella felicità che gli era destinata, e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione e del sapere.”

Se dunque fu colpa, e anzi peccato di superbia, utilizzare la ragione anziché l’istinto, per raggiungere cognizioni che erano naturalmente vie-

19 Zib. I, 395-396, pp. 337-338.

367

tate, l’uomo non ha, per salvarsi, che ripercorrere un cammino all’indietro e vivere il più possibile naturalmente: ciò che è, dopo tutto, ancora possi-

bile, perché la natura è grande e la ragione piccola, e ancorché sopraffatta, i la natura riprende vigore e non mai si spegne del tutto. Del resto, ad andare al fondo del problema,

l’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente coll’immaginazione, non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude l’infinito.®

Si profila dunque l’ideale di un’ignoranza parziale — quasi di una dotta ignoranza, come osserva il Bigongiari — la quale può sussistere anche nell’uomo alterato dalla ragione e, anzi, può ... servire di stabile fondamento a un maggiore o minor numero di credenze naturali; dunque tener l’uomo più o meno vicino allo stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice ... S’intende però un’ignoranza la quale serva di fondamento alle credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono primitivi e derivano da corruzione dell’uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura,

e perciò convenienti

all'uomo,

e conducenti

alla felicità;

altro

quelli fabbricati dall’uomo ... Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma all’infelicità ... Quindi è che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura, una certa mezzana ignoranza, mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi, consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori artificiali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perché tanto più vicini alla natura, e alla felicità naturale.

Naturalmente — e sarebbe superfluo notarlo — con tali discorsi Leopardi non esclude né rinnega il valore della cultura, anzi, tanto più l’uomo conosce e sa, tanto meglio capisce e si persuade della necessità di non inaridirsi nella conquista del vero, ma di tornare alla natura, con una predi-

sposizione, che nei moderni è critica e negli antichi era naturale, a vivere poeticamente, cioè badando alle benefiche illusioni che la scienza, come tale, vorrebbe respingere ed annullare. La negatività della scienza, dunque, ha come risvolto un significato positivo, non però nel senso socratico di apprendere a privilegiare il logos, bensì nel senso di lasciare alla scienza 2 Zib. I, 384, p. 330. 21 Zib. I, 420-421, pp. 352-353. 368

medesima il compito di indicare, per la felicità dell’uomo, la via del sentire che è, appunto, interiorità di sentimenti ed emozioni, intimo contatto con la natura. Un ultimo punto, forse il fondamentale, che separa irrimediabilmente la prospettiva socratica da quella leopardiana riguarda il concetto di virtù. Per Socrate, come abbiamo visto, virtù è sapere e quindi il sapiente, appunto in quanto al riparo dall’ignoranza, non commetterà mai il male e sarà necessariamente virtuoso. Virtù, quindi, come equilibrio ed armonia dell'anima, secondo

la tesi che Platone esporrà nel Gorgia, decretando

l'inevitabile e necessaria infelicità di Archelao. Per Leopardi, invece, l’uomo non è affatto incline a salvaguardare i beni dell’anima, che del

resto non si distingue dalla corporeità, ma è anzi naturalmente proteso a cercare il piacere, cioè il suo utile: utile o amor proprio e virtù, cioè il momento reale e quello ideale della prospettiva umana, solo eccezionalmente possono coincidere e coesistere, solo cioè « quando una straordinaria qualità di carattere, di educazione ecc. ve li porti ».? Nella normalità dei casi, invece, la virtù del singolo non solo è negativa per chi even-

tualmente la professi e l’attui, ma è sempre eccezionale, perché facilmente sopraffatta dal dirompente egoismo. Che cos’è, dunque, la virtù? Leopardi lo dice chiaramente: La virtù non è altro, in somma, che l’applicazione e ordinazione dell’amor proprio (solo mobile possibile delle azioni e desideri dell’uomo e del vivente) al bene altrui, considerato quanto più si possa come altrui, perché in ultima analisi, l’uomo non lo cerca o desidera, né lo può cercare o desiderare se non come

bene proprio. Ora se questo bene altrui, è il bene assolutamente di tutti, non confondendosi questo mai col ben proprio, l’uomo non lo può cercare.*

Per Leopardi il principio attivo di ogni affermazione e soddisfazione della persona umana è l’amor proprio, inteso come un interesse che ha l’uomo di far emergere la propria persona, con le sue naturali ed essenziali aspirazioni, creandole il maggior benessere possibile, senza tuttavia

degenerare nell’egoismo, che è pure una specie dell’amor proprio. L’egoismo è quando l’uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se stesso, non operare che per se stesso immediatamente, rigettando l’operare per altrui con intenzione lontana e non ben distinta dall’operante, ma reale, saldissima e continua, d’indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, il che l'amor proprio può ben fare e fa.

2 UA IO 23 Zib. I, 893, p. 596. 24 Zib. II, 3291-3292, p. 369 sgg.

369 24

Questo fare dell’amor proprio è spesso, dunque, una degenerazione nell’egoismo, che è appunto una specie di esso, e un rinnegamento della virtù. Ne deriva che la persona umana, benché certo incline al suo godimento, non può avere un significato individualistico, perché, ristretto al

singolo, l’interesse attivo diventa egoismo e fors’anche delinquenza, ed è in tal caso assolutamente riprovevole. Il valore positivo si ritrova, allora,

al polo opposto, che è l’universalità degli uomini, intendendosi in tal caso l’amor proprio riversato sulla totalità degli stessi uomini. In questo momento Leopardi non giunge ancora al supremo ideale della concordia universale, della social catena che, nella Ginestra, stringerà e affratellerà tutta

un’umanità solidale nel dolore: «la sua formidabile esperienza di vita e di poesia, non in una misura pacificatrice e rasserenante, ma in un’aper-

tura inquietante e sollecitante che supera, nel suo tempo e a livello europeo, ogni altra soluzione poetico-morale » È non era ancora compiuta e risolta. Per ora egli osserva che, superato l’egoismo, o non ancora attratto

nelle sue inestricabili maglie, se l’uomo si orientasse verso il tutto dell’umanità, cadrebbe in una visione astratta del valore etico e perderebbe qualsiasi valore concreto, storicamente determinato, da dare alla vita. Bisogna allora, a questo punto, trovare una via intermedia tra il singolo e il tutto, e tale via trova un appagamento positivo nel concetto di Patria, il quale realizza una visione universale dello spirito, ma non lo disperde in astratta totalità. Uscendo dall’egoismo, o opportunamente sottraendosi alla degenerazione dell’amor proprio, prima ancora di conquistare l’amore per la Patria, che è di per sé odio dello straniero e del nemico, l’uomo può imbattersi in altre associazioni particolari e settoriali, le quali sembrano superare la visione egoistica della vita, ma in realtà la ribadiscono e confermano, essendo la setta, il partito, o comunque il piccolo gruppo, un impoverimento e una deviazione della personalità. Leopardi è chiaro a questo punto: « L’anima dei partiti è l’odio »,° perché all’interno di essi si crede di essere disinteressati e puri, ma in realtà si covano inimicizie e,

appunto, odio, verso gli altri partiti, che lasciano l’uomo ristretto ancora egoisticamente al particolare; senza dire che, per tali inimicizie, rinnegano il fondamentale concetto di Patria. La virtù, quindi, non è mai asociale, ma sempre ha bisogno della società in cui attuarsi e rinsanguarsi, ed è perciò sempre virtà eroica, che si contrappone sia al modello socratico di una virtù che ha un senso esemplare anche se singolarmente espressa, sia ai modelli più tardi, del Cini-

25 W. BinnI, La protesta di Leopardi, Firenze 19742, p. 166.

26 Zib. I, 1606, p. 1048.

370

smo, per esempio, che restringe il mondo all’individuo. Proprio mentre si proclamano cittadini del mondo, i Cinici perdono il concetto intermedio di Patria e, con esso, ogni possibilità di virtù. L’amor proprio, in altri termini, in quanto stimolo naturale è buono in se stesso, come tutto ciò che appunto deriva dalla natura, nella quale a giudizio di Leopardi non vi è contraddizione, ma moralmente esso è indifferente: per diventar buono anche moralmente, cioè nel consorzio degli uomini, è necessario che si sia costituita la società, dove appunto l’uomo può esprimere il suo eroismo o il suo egoismo. Che la virtù dell’uomo consista nel superamento dell’egoismo individualistico e nella marcia verso l’universale è cosa profondamente vera e

torna certo ad onore di Leopardi l’averla sostenuta. C’è però il concetto intermedio di Patria che sta tra il singolo e l’universale e che dev'essere criticamente vagliato e definito, perché la Patria non è un concetto univoco ed assoluto, ma tale che varia e si estende secondo la storia, che a

sua volta è relativa allo spazio e al tempo. La Patria che nel Medioevo feudale era il castello, nel periodo comunale fu la città, e, via via, dopo quell’epoca, si è estesa alle singole nazionalità e oggi cerca di guadagnare una visione continentale, per es. europeistica, dei limiti spirituali dell’uomo. Né può negarsi che il concetto cristiano dell’ecumenismo, in cui s’invera, spiritualisticamente parlando, il principio socratico dell’uomo nella sua generica accezione, sia anch’esso un valore altamente positivo in cui si pensa che l’umanità tutta possa affratellarsi in una visione veramente umana e anzi divina della vita. Il dissenso Socrate-Leopardi — come abbiamo visto — tocca punti veramente essenziali delle rispettive dottrine: i concetti di anima, scienza,

virtù, sono di volta in volta commisurati a indicazioni e suggerimenti che prevedono vie diverse per la costruzione della felicità dell’uomo, una volta posta nell’interiorità della coscienza singola, un’altra rapportata alla soddisfazione di un comando di natura. Ecco però che, anche tenendo conto dell’ambiguità del concetto leopardiano di Patria e della genericità del concetto socratico di umanità, c'è tra i due filosofi una nota che in

qualche modo li accomuna e che non può essere trascurata: valore etico, la spiritualità nelle sue dimensioni

la virtà, il

essenzialmente

umane,

non si ritrova né nel singolo come fine a se stesso, né nel fufto come meta peraltro irraggiungibile. Virtù e valore sono sulla via dell’universalità, ma prima che la mente del singolo si anneghi nell’universalità assoluta. E il pregnante significato dell’uziversale medio che qui si afferma e il cui precedente storico moderno è da trovarsi in Francesco Bacone, che redarguiva il filosofo a non volare incautamente

subito verso il tutto, concetto

alla

fine sfasato e forse insignificante. 211

La medietà dell’universale costituisce anche per un pensatore contemporaneo — Giorgio Lucàks — l’essenza del valore etico positivo, che egli chiama particolare e che è una tappa intermedia tra il singolo ed il tutto. Tanto valga a riconfermare — se pure ce ne sia bisogno — la grandezza e coerenza filosofica di Giacomo Leopardi, geniale interprete e più volte precorritore di molti aspetti del persiero moderno. MIRELLA

272

CARBONARA

NADDEI

La querelle «antico-moderno» nella canzone leopardiana Alla primavera

Il nucleo concettuale e sentimentale della canzone Alla primavera (gennaio 1822) va ricercato nella lettera al Giordani del 6 marzo

1820:!

Sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo.

Il risveglio delle « immagini antiche », l’impossibilità di « tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo » ? e, per altro verso, la certezza che « i piaceri e i dolori umani (sono) meri inganni » sono tra i motivi ispiratori dominanti della lirica. La quale nasce, nonostante la dolorosa presa di coscienza di una condizione esistenziale non destinata a mutare, in un momento

di grazia, in una pausa da

quell’insistente indagare sulle ragioni dell’infelicità e della « nullità delle cose » * da cui traggono umore ed essenza i canti precedenti e coevi, da Ad Angelo Mai, al Bruto minore, aWUltimo canto di Saffo.

La polemica antiromantica del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818) vi è sempre sottesa, ma si attenua, fino a scomparire,

nell’incanto di una memoria in cui i miti e le favole dell’antichità, sotto-

posti ad una critica demolitrice nei giovanili saggi eruditi, soprattutto in quello Sopra gli errori popolari degli antichi (1815), qui sono idoleggiati e ambiti come stati aurorali di felicità, approdi impossibili, coincidenti coi sogni dell’infanzia, infanzia del mondo e dell’intero universo vivente, « quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e 1 Cfr. Lettere, in Tutte le opere di G. Leopardi, a cura di F. Flora, Milano 19634, p. 146. 2 Ibid. 3 Ivi, p. 147.

4 Ibid.

373

le mura dei nostri alberghi (non solo l’eco, ma anche il linguaggio di questo passo con assoluta puntualità torna nella canzone: « Già di candide ninfe i rivi albergo, / placido albergo e specchio / furo i liquidi fonti », vv. 23-25), ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente

nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni » ecc. Tutta l’attività letteraria del Leopardi, negli anni che precedono Alla primavera, tende a dimostrare la superiorità dei poeti antichi sui moderni, ad opporre alla poesia sentimentale dei romantici quella « immaginativa » degli antichi (« La forza creatrice dell’animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi. Dopo che l’uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l’ha conosciuto, e così ha realizzata e confermata la sua infelicità », ecc.î Sul tema dell’infelicità s’in-

centra, com’è noto, l’episteme leopardiana, anche se « l’infelicità umana di cui parla il Leopardi non è il mal du siècle romantico né una fumosa angoscia esistenziale: è anzitutto un’infelicità fisica, basata su dati concreti: malattie, vecchiezza, fugacità del piacere ». Ne è conferma anche la

canzone in esame, dove sono contrapposte la « primavera odorata », che illusoriamente ancora « inspira » e « tenta » il « gelido cor » del poeta e la ferrea realtà esistenziale dell’uomo Leopardi, « ch’amara / nel fior degli anni suoi vecchiezza impara » (vv. 17-19). La primavera, dunque, come

tramite verso un passato irripetibile, e pur giovevole, in quanto pausa e momentanea alternativa al dolore. Non un laudator temporis acti il Leopardi, che sarebbe un modo tutto letterario di atteggiarsi, ma cantore appassionato di un « tempo ritrovato » nella scia dei poeti greci e latini, tradotti e commentati negli anni degli studi eruditi, tra i quali la Tifanomachia di Esiodo (1817). Qui, in anticipo sul Discorso, ma in perfetta con-

sonanza con esso, e con la canzone cui questi scritti fanno da supporto, Leopardi intona l’inno, tra malinconico e gioioso, al « tempo ritrovato »: leggiadro tempo quando il poeta nella natura, fresca vergine intatta, vedendo tutto cogli occhi propri, non s’affannando a cercare novità, che tutto era nuovo, creando, senza pensarselo, le regole dell’arte, con quella negligenza di cui ora tutta la forza dell'ingegno e dello studio appena ci sa dare la sembianza, cantava cose divine ed eternamente durature.3 ° Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Tutte le opere cit., Le poesie e le prose, II, Milano 19658, p. 480.

6 | ? nismo 8

374

Cfr. in Tutte le opere cit., Zibaldone, I, p. 511 sgg. S. TIMPANARO, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Classicismo e illuminell'Ottocento italiano, Pisa 19692, p. 161. Titanomachia di Esiodo, in Tutte le opere cit., Le poesie e le prose, I, p. 557.

Leopardi è convinto che contro il « barbaro insegnamento della ragione »,’ che porta a ritenere che « la felicità umana sia riposta nella cognizione del vero » e « nella certezza della nullità delle cose », il solo

modo di reagire sia offerto dalla immaginazione, la quale sola consente al poeta di continuare a vivere in una sorta di sopramondo animato e sensibilizzato da una natura partecipe e coinvolgente. La primavera che ritorna, in una epifania sempre uguale e diversa di luci di suoni e di colori, costituisce il vero leit-motiv della litica di cui i miti, rivissuti con vivissimo

« sentimento del tempo », sono le interne modulazioni. D’altra parte, il canzoniere leopardiano nasce dalla contrapposizione, spesso fortemente drammatica e passionale, tra realtà e fictio (valga l’esempio dell’Infnito), razionalità e immaginazione, e la canzone Alla primavera, pur con tutto il peso del classicismo che l’ingombra, ne è alta attestazione. Chi ha creduto di vedere nella canzone solo « un abilissimo esercizio letterario, nato da una vena estetizzante »,!! non è riuscito a coglierne la vera essenza, né « la tensione lirica portata all’interno delle immagini, dei

vocaboli, della stessa ispirazione », come rilevò opportunamente G. Ungaretti.! A una lettura attenta, non meramente filologica e formale, la canzone, che ha una salda compattezza strutturale, nel metro privilegiato dal Leopardi (endecasillabi e settenari, in cinque strofe, di 19 versi ciascuna)

svelerà i suoi momenti lirici intensi, originati sempre dal rapporto-contrasto tra la « bella età », simbolicamente riassunta ed espressa dalla « primavera

odorata », e l’« amara

vecchiezza »; un

canto

di rimembranza,

dunque, non già di cose vissute, ma ricreate dalla fantasia, polemicamente opposta alla razionalità dei poeti moderni. Non il grido disperato di Bruto, che impreca contro la « stolta virtù », quando vede infranti i suoi ideali e le sue illusioni e neppure l’accorato lamento di Saffo, amante non riamata, esclusa dalla vita e dall'amore, che ne è l’incanto supremo, sebbene

con l’Ultimo canto di Saffo, dello stesso anno e solo di pochi mesi posteriore, le consonanze siano più d’una, e come stato d’animo e indugio idilliaco e come scelte lessicali e stilistiche, in qualche caso perfettamente coincidenti: per esempio, tra « fiorito margo » di Alla primavera, 29-30 e « aprico margo » dell’Ultizzo canto di Saffo, 28. L’antitesi, permanente nel Leopardi, tra le ragioni del cuore e quelle dell’intelletto, le une sollecitatrici di speranze e illusioni, le altre vanificatrici delle stesse, è alla base anche di questo canto, che vuol essere una 9 Cfr. lettera al Giordani cit., in Lettere cit., p. 247.

10 Ibid. 11 N. SAPEGNO, Leopardi, in Storia della letter. it., VII, L’Ottocento, Milano 1969, p. 878. 12 Nel Secondo discorso su Leopardi (1950, in G. UNGARETTI, Vita d’un uomo - Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Milano

1974, p. 486.

375

dichiarazione di fede nella natura, pur nel dubbio che assale il poeta e si esprime negli interrogativi dei versi 20 e sgg.: « Vivi, tu, vivi, o santa /

Natura? vivi e il dissueto orecchio / della materna voce il suono accoglie? ». Non smentisce il Leopardi quanto affermato nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, sui pregiudizi, nati dall’ignoranza, sulla facile credulità nei fenomeni naturali, con quanto di misteriosamente inesplicabile si riteneva fosse in essi; eppure egli non vuol rinunziare a credere che « Vissero i fiori e l’erbe, / vissero i boschi un dì. Conscie le molli / aure,

le nubi e la titania lampa / fur dell’umana gente ... ». Era il solo modo di dare un’alternativa alla realtà dolorosa: ricreare, mediante « quella sterminata operazione della fantasia » © che fu degli antichi, e con l’anima del fanciullo (e il poeta è fanciullo, in quanto ha « prepotente inclinazione al primitivo » !), le antiche favole. Il Leopardi ritiene che la « memoria della fanciullezza e dei pensieri e delle immaginazioni di quell’età ci sia straordinariamente cara e dilettevole nel progresso della vita nostra »,% e perciò ama raffigurarsi la natura, nel primo stadio del suo pensiero, non indifferente, ma umanamente partecipe alle sofferenze degli uomini. In tale consapevolezza, i miti di Diana, di Dafne, di Fillide, di Climene, di Eco e di Filomela, nella evocazione leopardiana perdono la loro astrattezza, si trasformano da memorie letterarie in palpitanti immagini di vita. Come attesta il canto dell’usignolo che, « tra chiomato bosco », sembra « lamentar nell’alto / ozio de’ campi, all’aer muto e fosco, / antichi danni e scellerato scorno, / e d’ira e di pietà pallido il giorno ». È un mito, con gli altri, che suscita l'emozione e la commozione di un fatto presente, tale da destare « ira e pietà ». Il contrasto presente-passato su cui insiste la litica è appena avvertibile nel trapasso rapido delle immagini; soltanto l’ultima strofe rompe l’incanto e riporta il poeta-mitografo dalla suggestiva ipostasi alla dura realtà. L’invocazione finale alla « vaga natura » perché renda al suo spirito la « favilla antica » (dell’immaginazione) suggella, con un verso di grande pacatezza (« pietosa no, ma spettatrice almeno »), la canzone, la quale esprime insieme querelle e doléance su un fondo tematico-ideologico comune a tutte le canzoni ‘ filosofiche’ del Leopardi e con un linguaggio che, se pur sovraccarico di arcaismi e latinismi (tra gli altri, credano, induca, dissueto, margo, adduca, latebre, cognato, educa, cure), con interi

13 Cfr. Discorso cit., in op. cit., p. 480. 14 Ivi, p. 481.

15 Ibid. 16 Le ragioni di alcune di queste scelte sono chiarite dal Leopardi stesso nelle Annotazioni del 1824, in Tutte le opere, Le poesie e le prose cit., I, pp. 173-176.

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sintagmi ripresi dai classici, soprattutto da Ovidio, Orazio e Virgilio,” è

già squisitamente leopardiano, nella direzione dei grandi canti posteriori, dei quali taluni aggettivi, in particolare (arcano, deserto, ignudo, pallido, placido, remoto), hanno tutta la pregnanza semantica.

Nella storia del pensiero e della poesia del Recanatese Alla primavera ha dunque un posto di rilievo: essa attesta per un verso « lo studio lungo e profondo dei poeti antichi » ! da parte del Leopardi e, pertanto, continua e integra la sua attività filologica ed erudita, per un altro, rende, nei

tratti migliori, con la stessa limpidezza e purezza di accenti degli idilli, lo stupore del poeta di fronte alla natura, ai suoi occhi ancora « invariata e incorrotta »,” « vergine e intatta ».?° ERMANNO

CIRCEO

17 Fin dal primo verso, dove « celesti danni» rimanda all’oraziano « damna caelestia » di Carm., IV, 7, 12, come « niveo lato » di v. 38 traduce « niveum latus » di Carm., III, 27, 25-26, mentre « verginee braccia », dello stesso verso, è calco dell’ovidiano « virgineos attus » di Metam., III, 164; infine, per limitarci a pochi esempi, « freddo orror» di v. 85 riproduce il « frigidus horror » di Virgilio, Aew., III, 29. 18 Discorso cit., p. 508.

19 Ivi, p. 478. 20 Ivi, p. 479. dh

Leopardi e Plotino

A sostenere l’attiva presenza di Plotino in Leopardi si è adoperato in tempi recenti Vicenzo Cilento, il benemerito traduttore e commentatore delle Enzeadi. Nella Premessa alla sua traduzione, appunto, egli ha modo d’accennare a una impressione che gli si tramutava in certezza man mano che il lavoro procedeva, l’impressione cioè che la stessa poesia dell’idillio leopardiano traesse le sue pause incantate e il suo assorto senso contemplativo dalle Enneadi, delle quali il poeta aveva certo fatto uno studio più ampio di quel che i riferimenti lascino sospettare. Né il sentimento neoplatonico doveva localizzarsi e restringersi al solo dialogo tra Plotino e Porfirio nella celebre operetta, o a singole reminiscenze o a isolate immagini: esso consisteva in una « consonanza intima di accenti e di pensieri », in un « uguale accoramento », in uno « stato d’animo affine », che poteva suggerire perfino l’esistenza di un «ottimismo leopardiano », solo che all’estasi di Plotino si fosse sostituita, per petddeore, la poesia. Più chiaramente ed esplicitamente, trattando il tema Leopardi e l’antico, il Cilento è tornato a ribadire la tesi di un neoplatonismo plotiniano assorbito dal Leopardi: « Mi si profilava — egli scrive — una visione del

mondo, comune, nell’atmosfera crepuscolare ed ellenistica del neoplatonismo sino al tramonto malinconico della scuola d’Atene, sia nel filosofo — che errò, col suo agitato cuore di mistico, tra Egitto, Grecia, Roma,

Minturno — sia nel doloroso poeta romantico, che chiuso agli ideali dei migliori contemporanei, non trasse dalla sua fuga di città in città altro riposo, fuor che presso il sepolcro di un poeta infelice al par di lui ».? Soprattutto doveva aver influito sull’animo leopardiano il trattato sulla contemplazione (II, 8), essendo il Leopardi il poeta della contemplazione, e

contemplazione di uno stato d’animo essendo ogni suo idillio. Anche nei Saggi su Plotino il Cilento difende il sostanziale neoplatonismo leopardiano: 1 Cfr. PLOTINO, Enneadi, prima versione integrale e commento critico di V. CILENTO, I, Bari 1947, pp. xI-xv (di questa traduzione mi servirò per le citazioni dalle Enneadi). 2 V. Cicento, Leopardi e l’antico, in Studi di varia umanità, in onore di F. FLORA, Milano 1963, p. 611.

379

È Giacomo Leopardi — sono sue parole — un neoplatonico del sec. XIX. Io ho gravi ragioni per crederlo lettore amoroso delle Enneadi perché ho trovato nelle sue poesie e nelle Operette morali molti tratti plotiniani*

Tuttavia proprio chi si ponga a leggere le Operette morali con l’occhio e la memoria alle Enneadi, poco, pochissimo o quasi nulla troverà in esse di plotiniano. E già il Tocco, in un saggio ormai antico e per il vero troppo breve e sbrigativo, aveva avvertito l’estraneità del pensiero leopardiano al pensiero del filosofo greco.* Si potrebbe anzi affermare che, stando ai testi nulla si riveli più antitetico alla filosofia leopardiana della considerazione delle cose che fu propria di Plotino e della sua scuola. Non solo per quanto riguarda la struttura fondamentale della metafisica plotiniana e il principio della caduta delle anime, che al Leopardi doveva apparire « una puerile mitologia », come giustamente nota il Tocco, ma anche per quanto concerne motivi particolari e angolature minori del sistema. Lontanissima dal Leopardi è, per esempio, la dottrina dell’apatia, de-

rivante dall’essenza Enneadi:

formale

dell’anima,

quale compare

all’inizio delle

In qual modo poi addolorarsi e di che? Infatti, ciò che è proprio semplice, in essenza, è sufficiente a se stesso, poiché persevera, così com’è nella sua propria

essenza. Che cosa mai potrebbe sopraggiungere ond’ella si allieti, se nulla, nepLS pure il bene, le s’aggiunge? Ciò che è davvero è per sempre.”

La famosa nota dello Zibaldone su Teofrasto tocca all’opposto dell'impero della fortuna e della sua preponderanza sulla virtù relativamente alla felicità dell’uomo e anche del saggio, ciò che è contrario, aggiunge Leopardi, al sentire « degli altri filosofi tanto meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice per sé, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per sé medesime alla felicità » (Z:b. 316-317, 11 novembre 1820; e si veda anche Zib. 2800, 21 giugno 1823, e il cap. II dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri)À 3 V. CILENTO, Saggi su Plotino, Milano 1973, p. 293. 4 Cfr. F. Tocco, I! dialogo leopardiano di Plotino e di Porfirio, « Studi italiani di Filo-

logia classica », VIII, Firenze 1900, p. 500. V. anche TH. M. Jonson, Leopardi and Plotinus, « The Nation », 41, 1885, n. 1053.

5 Un energico richiamo ai testi opera il Timpanaro, protestando contro l’interpretazione del Cilento (cfr. S. TimPANARO, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa 1965, p. 212). 6 F. Tocco, I! dialogo leopardiano ... cit., p. 499. 7 «"O ydp gotw, Éoruv del » (I, 1, 2). 8 Cito da G. Leoparni, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. BINNI, con la collaborazione di E. GHETTI, Firenze 1969, 2 voll.

380

Tutta la concezione plotiniana della beatitudine, consistente solo nel buon vivere che si trova nell’anima e quindi anche tutto il lungo discorso

circa la connessione o il « composto » di anima e di corpo (I, 1, 8) con l'annesso postulato di evidente matrice metafisica, che la felicità sta non nell’« avere », ma nell’« essere » una forma di vita perfetta, onde per il saggio il bene si concretizza nell’« essere » a se stesso precisamente quello che « ha », a somiglianza di quanto accade al modello perfetto 0 ragdderyua (I, 2, 7), non trovano alcun riscontro o alcun punto di contatto nelle pa-

gine dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma vere e proprie dissonanze e irriducibili contrasti esistono fra altre affermazioni di Plotino e punti specifici del pensiero leopardiano. Basterà un breve elenco di sentenze tratte dalle Enneadi per far scattare il ricordo di opposte annotazioni del Leopardi: Il piacere, per quanto esteso nel tempo, in realtà occupa solo e sempre il presente; e il suo passato è bell’e andato.! A dire il vero, che piacere c’è nel ricordo del piacere? !! In conclusione, la materia è, per l’anima, causa di debolezza e causa di malvagità. Già cattiva in precedenza, essa, anzi, è il primo Male.” L’espressione « contro il merito », che ricorre allor che i buoni abbian mali e i tristi, invece, il loro opposto, può ben essere ribattuta con quest’altra: Nulla è male per chi è buono; né d’altra parte, v’è bene per chi è tristo.!

Ma questa [la Provvidenza] a cominciare dal suo grado inferiore, si chiama destino [eiuæouévn]; nell’ambito superno, invece, essa è esclusivamente « provvidenza » [rpévota]: si vuol dire, cioè, che nel mondo dello Spirito, tutto è disegno razionale ovvero lo trascende; poiché quivi è puro spirito ed anima Duran lat l525)

Questo spiritualismo provvidenziale ed ottimistico a sfondo metafisico * (si veda la nota antiplotiniana, in questo senso, di Zib. 336, 17 novembre 1820) che intride tutto il pensiero di Plotino dovrebbe mettere in guardia contro certe apparenti consonanze tra luoghi delle Enneadi e luoghi leopardiani. Ciò valga per esempio a proposito dell’osservazione

plotiniana sulla bontà dell’universo, a considerarlo nel suo insieme, in 9 & Tobrw tolvovy ti mor’éori tò dyadév; f) abrtòc ar brep Exer » (I, 4, 4). 10 «Kat ñ noovn dì h melov del tò Tapòv puòvov Eye, Tò SÈ mapeAnauddc adr otyetat » (I, 5, 4). 11 « Kaltor ti dv NIL 7) uvnun Toù Nitog Eyot; » (I, 5, 8). 12 «‘YAn tolvovv xa dodevelac duyf aitix xat xaxtac aitia. ITpotepov pa xaxi adrh nai tp@Tov xaxév » (I, 8, 14).

13 «[...] oddèv xaxòv To dyadé, odd’ adr pavim dyatòv opdég » (III, 2, 6). 14 Porfirio nella Vita di Plotino ricorda il titolo del trattato contenuto in Enneadi II, 9, 1 sgg.: « Ilpdg tode xaxòv tòv Inutovpyòy Tod xbopov Ha tòv xéopov xaxòv elvar Aéyovrac».

381

confronto del quale insieme qualche particolare imperfetto non ha alcun

peso o effetto (cfr. III, 2, 3). Come si sa anche il Leopardi, e in una fase abbastanza matura del suo cammino intellettuale, meditando sulla souf-

france degli enti sensibili, suppose che essa fosse in fondo una imperfezione trascurabile nel gran contesto dei mondi e nel gran quadro della natura universale:

questa loro necessità [cioè la necessità di essere souffrants] — scrive nello Zibaldone alla nota del 9 aprile 1925 — è una imperfezione della natura, e

dell’ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se perd — aggiunge — la souffrance d’una menoma parte della natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata un’imperfezione. Almeno ella è piccolissima [...] nell’ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perché gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perché grande per valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, né fondato sopra basi indipendenti e assolute, né conveniente colla realtà delle cose né conforme al giudizio e modo (diciamo così) di pensare

della natura

universale

[...] (Zid. 4133-4134).

Ma mentre Plotino trae le sue considerazioni a confermare la razionalità del piano universale, Leopardi, pur rasentando talora una specie di sospensione del giudizio (chi non ricorda il suo « Astenghiamoci [...] dal giudicare » [Zib. 4258, 21 marzo 1827]?; del resto anche il famosissimo brano che comincia « Tutto è male », in Zib. 4174, scritto assai probabilmente il 19 aprile 1826, cioè lo stesso giorno in cui venne redatta la nota, anch’essa famosissima, sul giardino apparentemente ridente in cui tutto è invece in stato di souffrance, contiene questa avvertenza

sull’im-

perfezione dell’esistenza: Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla,

tanto che egli non oserebbe estendere il sistema del tutto è male, sarebbe più sostenibile del sistema di Leibniz e Pope che tutto sino a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi « sostituendo così all’ottimismo il pessimismo », per non citare 382

che pure è bene, possibili l’impor-

tantissima nota del 16 febbraio 1829 in Zib. 4461-4462), resta fermo al

dubbio," si tormenta innanzi ai limiti dell’intelletto umano ! che non potrà mai intendere il modo di pensare della natura, chiave necessaria a risolvere il « misterio grande » delle cose, le contraddizioni innegabili della natura, a trovare un nesso convincente tra il fine della natura in generale e il fine della natura umana, in apparenza così divergenti (cfr. Zib. 4128) arriva perfino a sospettare l’assurdità dell’ipotesi appena formulata:

>

Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti

mali e non d’altro, possa risultare un bene (Zib. 4175, 22 aprile 1826).

Lo stesso si potrebbe dire riguardo alla visione plotiniana di un universo in cui dalla distruzione di alcuni esseri nascono

altri esseri, sicché

anche le malattie e le morti risultano necessarie alla concatenazione e all'ordine generale delle cose (cfr. III, 2, 5), dal momento che in Plotino il circuito di dissoluzione e ricostruzione attesta ancora una volta la prov-

videnzialità della mente divina e l’ordine del cosmo, in altre parole il primato della ragione formale sulla materia in continuo e programmato movimento, in Leopardi dimostra l’insensibilità della natura alle ardenti aspirazioni dell’uomo e la dolorosa subordinazione dell’esistente all’ente:

15 « Qual è il fine, qual è il voler sincero e l’intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perché l’ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, perché ha dato ai tali animali l’istinto e l’appetito e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile, o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese? che essa medesima è l’autrice unica delle difese e delle offese, del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo di vedere della natura, non si sa» (Z:b. 4204-4205, 25 settembre 1826); «Se di questi mali particolari di tutti nasca un bene universale, non si sa di chi [...]: se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest'ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende né pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle » (Zib. 4258, 21 marzo 1827); « E già le destinazioni, le cause finali della natura, in molte anco di quelle cose in cui è manifesta la volontà intenzionale di essa natura come loro autrice, o non si possono indovinare, o sono (se pur veramente vi sono) affatto diverse e lontane da quelle che parrebbono dover essere » (Zib. 4467, 26 febbraio 1829). 16 « L’intelletto umano non è atto a immaginare un piano come quello dell’universo » (Zib. 4142, 8 ottobre 1825). 17 Nella Scommessa di Prometeo il Leopardi aveva scritto: « Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l’uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in se, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire » (G. LeopARDI, Tutte le opere cit., I, p. 106).

383

L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. — Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica (Zib 4169, 11 marzo 1826).

E se Plotino si lascia prendere da qualche perplessità innanzi al « mutuo divorarsi dei vari animali », innanzi alla guerra eterna tra i viventi, che minaccia la razionalità del creato e la bontà stessa del creatore, alleggerisce e quasi annulla poi la gravità di quei conflitti riducendoli alle misure di un gioco di bimbi o di una rappresentazione teatrale: « ché, anzi, il morire in guerra e battaglie non è che un anticipo breve di ciò che avviene fatalmente in vecchiaia: più presto si parte, più presto si torna! » (III, 2, 16). Lacrime e lamenti sono dunque fittizi, appartengono non all’intima anima umana ma all’esterna. Il contrasto fra le cose rientra così nell’articolazione di una legge sapiente e positiva. Laddove il Leopardi pensa alla lotta che oppone vivente a vivente come a una condizione travagliosa e ineliminabile dalla società degli uomini « divenuti » e « civilizzati », dipendente però dall’odio naturale dell’uomo verso gli altri uomini, dall’egoismo innato in ogni individuo, come a un’occasione, dunque, d’infelicità costitutiva della natura e certo non riconducibile a una superiore razionalità: L’uomo odia l’altro uomo per natura, e necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale, politico, filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec., è mai bastato né mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell’uomo verso l’uomo (Zid. 2644, 2 novembre 1822; e v. anche 3932-3936, 28 novembre 1823 e, a parziale rettifica, Zib. 2494-2495, 24 giugno 1822).

E veniamo al tema plotiniano della contemplazione, così caro al Cilento e così leopardiano, a suo giudizio. Credo che la cosa migliore per valutare la misura dell’eventuale influenza di Plotino su Leopardi sia di citare quel dialogo fra la natura e l’uomo che si legge in Enneadi III, 8, 4 e che sembrerebbe, dall’esterno, dotato di forte potere suggestivo: Anche se uno la interrogasse per amore di che ella crei e supponendo pure che voglia dar retta alla domanda e parlare, ella potrebbe forse rispondere così: « In verità, era doveroso non domandare, ma comprendere, piuttosto, e da soli,

384

in silenzio, come me che sono silenziosa e non sono usa a parlate! » — « Comprendere, sì, ma che cosa? » — « Questo: l’essere che nasce è spettacolo, mio possesso, silenzio, una visione che mi sorge spontaneamente; # poiché io pure sono creata da una contemplazione così fatta, mi è dato avere, innata, la vocazione contemplativa; ond’è che l’atto stesso del mio contemplare crea, non so come, una sua visione, alla stessa guisa dei geometri che disegnano, contemplando; io, però, non disegno affatto, contemplo solamente, e vengono all’esistenza le linee dei corpi come se cadessero da me [...] ». Ma che si vuol dire con queste parole? Ecco: la così detta « natura » in realtà è « anima », germoglio di un’anima più alta, dotata di una vita più intensa: ella sta nel tacito possesso di quel suo intimo contemplare, non in cammino

verso l’alto e non più,

per altro, verso il basso, ma ferma nel punto in cui è, nella propria fissità e, vorrei dire, in compagnia della sua coscienza, anzi, proprio in virtù di questo

suo convergere con se stessa e di questa coscienza, ella vede, per quanto le è possibile, ciò che le vien dietro e non cerca più nulla dal momento che ha già recato a termine una sua visione in splendore e in grazia.

Che cosa questo brano abbia di potenzialmente leopardiano, come concetto

e come atmosfera, non saprei proprio dire, ma mi sembra che esso

col suo impianto mistico e nonostante quei ripetuti accenni al silenzio (per cui v. Zib. 2629) sia in certo qual modo un esempio di come il Leopardi non avrebbe mai considerato la natura, il suo agire e il proprio rapporto con l’origine delle cose, né trovo analogie convincenti tra il « comprendere » plotiniano e il leopardiano « sentire », quel sentire che è invocato a cogliere il poetico della natura: E siccome alla sola immaginazione e al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò che è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura (Zid. 3242-3243, 22 agosto 1823).

Ancor meno è possibile rilevare in Leopardi. motivi plotiniani sulla importante questione del suicidio. Le argomentazioni di Plotino nel dialogo con Porfirio non provengono, come è stato abbondantemente provato, dal trattato sul suicidio in Enneadi I, 9, e nemmeno provengono dalla Vita di Plotino scritta da Porfirio ! e tradotta in latino dal Leopardi nel 1814 (a parte lo spunto sulla indisposizione malinconica di Porfirio che viene ricordata in principio dell’operetta) o dalle vite di Plotino e di

18 «Ot tò yevouevév tor Itapo Euòv, crwrwon, nul pioer yevduevov dempnpa ». Non sarà inutile ricordare il giudizio tutt'altro che benevolo dato dal Leopardi sulla terza Enneade (cfr. G. LeoParDI, Tutte le opere cit., I, p. 890). 19 Cfr. PorrirIo, Vita di Plotino ed ordine dei suoi libri, a cura di G. PUGLIESE

CARRA-

TELLI, Napoli 1946.

385 25

Porfirio scritte da Eunapio” o dal commento di Macrobio al Somnium Scipionis ciceroniano, dove l’antiquario latino segue forse il commentario

ora perduto di Porfirio al trattato plotiniano,” o dal Fedone (61 e, 62 b,

62 c) oppure dalle Leggi (L. IX, XII, 873 c, d) di Platone. Dal punto di vista concettuale è più che probabile che il Leopardi abbia accettato qualche suggerimento, almeno per la parte assegnata a Porfirio, da altri testi, come l’Exercitatio sulla morte volontaria del Robeck pubblicata dal Funck nel 1736, cui spesso si richiama il Della Giovanna nel suo commento alle Operette, o la Dissertation sur le meurtre volontaire de soimême del Formey? che nel cap. III affronta il problema se l’amore della vita debba essere subordinato a quello della felicità, o ancor meglio la lettera 76 delle Lettere persiane del Montesquieu (« Perché costringermi a lavorare per una società della quale io non voglio più far parte e che ritengo una convenzione stipulata senza di me? La società è basata sopra un mutuo vantaggio. Ma quand’essa diventa onerosa per me, che mi vieta di rinunciarvi? La vita mi è stata data come un favore; posso dunque restituirla quando cessa d’esser tale; venuta meno

la causa, anche l’effetto

deve sparire » *) o l’Elogio della Pazzia di Erasmo da Rotterdam: Via, se di cima ad un’altissima vedetta (come van dicendo i poeti che faccia Giove) ci si mettesse a osservare intorno, vedremmo che la vita umana è esposta a infinite calamità. Com'è misera la nascita d’un bambino, com’è sudicia! Com'è faticoso il suo allevamento, a quante offese è esposta la fanciullezza, a quanti sudori è costretta la gioventù! E com’è gravosa la vecchiaia, com’è dura la fatalità della morte! Nella vita poi, in ogni vita, le malattie ti assalgono a sciami, mille accidenti ti sovrastano, mille inconvenienti ti circondano, non c’è cosa che non ti lasci sapore di fiele amarissimo! Questo, per non estendermi ai mali che l’uomo reca all’uomo, quali povertà, carcere, infamia, vergogna, tormenti, insidie, tradimenti, villanie, liti, frodi. Ma come contarli? Tanto vale

mettersi a misurare la sabbia del mare! Ma che mai han commesso gli uomini per meritar tali pene? Qual dio, nel suo sdegno, li ha costretti a nascere a queste miserie? Non mi è lecito palesarlo in questo momento. Ma chi si mette a con-

siderar le nostre condizioni, non potrà forse condannare l’esempio, per quanto deplorevolissimo,

delle fanciulle di Mileto. E chi furono

specialmente

coloro

2 Cfr. EunapII, Vitae sophistarum, Joseph Giangrande recensuit, Romae 1956, pp. 5-10. 21 Cfr. Amsrosit THEoposir MacgroBII, Commentari in Somnium Scipionis, edidit JE WitLIs, Lipsiae 1963, e F. Coumont, Comment Platin détourna Porfyre du suicide, « Revue des études grecques », T. XXXII, 1919, pp. 113-120. 2 J. RoBECK, Exercitatio philosophica de EYAOTQ ESATQTE sive morte voluntaria philosophorum et bonorum virorum etiam iudeorum et christianorum. Recensuit, perpetuis animadversionibus notavit, praefatus est et indicem rerum locupletissimum addidit JoH. NicoLaus FUNCIUS marburgensis, Rintelii 1736. 23 In Mélanges philosophiques par M° Formey, Tome premier, A Leyde 1574, pp. 205-235. 2 MoNTESQUIEU, Lettere persiane, a cura di G. CornaLI, Milano 1945, p. 188.

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che, per disgusto della vita, affrettarono il giorno fatale? Non son essi i vicini di casa della signora Sapienza? Quel famoso Chirone, per tacere adesso dei Diogeni, dei Senocrati, dei Catoni, dei Cassii e dei Bruti, pur non potendo essere immortale, preferì spontaneamente la morte

E non è da sottovalutare, pur nella cautela cui deve ispirarsi sempre la ricerca delle fonti, ciò che poté pervenirgli dalla Istoria critica e filosofica del suicidio ragionato di Appiano Buonafede, dove, a proposito di Pitagora, è detto, per esempio: Sarà forse più verisimile quell’altra narrazione, ch’egli nojato di vivere finisse di volontaria inedia; e così essendo, questa noja della vita avrà potuto parergli una licenza e una giusta cagione di abbandonarla.

Non molto diversamente, a proposito dei Cinici e degli Stoici, si osserva: Oltre questo insegnando gli Stoici, che l’uomo come parte della natura dee servire alla fatal legge e all’ordine universale di essa, in conseguenza insegnavano pure, che quando il dolore e la miseria e la felicità istessa e la vita erano o parea che fossero un contrasto o un impedimento a quella legge e a quell’ordine, dovea l’uomo darsi morte ecc. (con citazioni da Seneca e Stobeo).7

Infatti, come

si precisa nella sezione

dedicata

ai Cirenaici

e agli

Epicurei: [...] se non provvidi gl’iddii e gli animi non sono immortali, non vi è che temere nella vita futura; e se nella presente l’ultimo fine e la somma beatitudine è posta nella voluttà, perdendosi questa senza speranza di ricoverarla, è perduta ogni cosa, e dopo questa perdita a che più rimanersi in vita? ®

Persino l’accenno del Dialogo all’utilità del suicidio (« Resta se sia utile ecc. ») trova nel trattato del Buonafede un antecedente: E se la bontà delle opere umane si estima dalla utilità, perché non sarà egregia opera il suicidio, che ci toglie da una vita misera e turbata, il cui ultimo fine è perduto e c’immerge nell’eterna indolenza, la qual certo si rassomiglia

25 Erasmo DA ROTTERDAM, Elogio della pazzia, a cura di T. Fiore. Introduzione di D. CantIMoRI, Torino 1978, pp. 49-50. 26 A. BUONAFEDE [Agatopisto Cromaziano], Istoria critica e filosofica del suicidio ragionato di Agatopisto Cromaziano. Edizione prima veneta, in Venezia 1783, p. 41 (la prima edizione apparve a Lucca nel 1761). 21 Ivi, p. 59. EME bh IL

387

alla tranquillità epicurea assai più che il dolore e l’affanno e l’agitazione e tutta la intemperie delle umane calamità? ©

Meritevole di menzione è infine un tratto di Julie ou la Nouvelle Héloïse di Rousseau (Parte III, Lettere XXI e XXII) sia per il modo con

cui la discussione è introdotta (« Pacatamente, tranquillamente cerchiamo la verità; discutiamo la proposizione generale come se si trattasse d’un altro » a fronte del leopardiano « Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni ») sia per il modo con cui è condotta, ad ar-

gomentazioni contrapposte. Invece di citarne qualche frase preferisco trascrivere la nota dell’autore alla Lettera XXI, che contiene le ragioni a favore del suicidio: Strana lettera per la decisione di cui tratta! Si può ragionare tanto placidamente su una questione del genere, quando si è personalmente in giuoco? La lettera è scritta a freddo, oppure l’autore non vuol altro che essere confutato. Semmai può far dubitare l'esempio di Robeck da lui citato e che sembra giustificare il suo. Robeck deliberò con tanta calma che ebbe il tempo di scrivere un libro, un librone, assai greve e assai freddo: e quand’ebbe stabilito che secondo lui era lecito darsi la morte, se la diede con quella stessa tranquillità. Diffidiamo dei pregiudizi del secolo e della nazione. Quando il suicidio non è di moda, soltanto i forsennati si uccidono; tutti gli atti coraggiosi non sono che chimere per le anime deboli; ognuno giudica del prossimo soltanto rispetto a sé. Tuttavia, quanti esempi abbiamo di uomini, ragionevoli in tutto il resto, i quali senza rimorso, senza furore, senza disperazione, rinunciano alla vita soltanto perché gli è di peso, e muoiono più tranquillamente di come sono vissuti? 5

Per quanto invece riguarda la parte assegnata a Plotino, si potrà rilevare un contatto con le Enneadi, ma un contatto, per così dire, alla rove-

scia, nel senso che il Leopardi sembra ribaltare totalmente la tesi espressa in Enneadi I, 4, 8, là dove Plotino parla dei dolori di coloro che circon-

dano il saggio e disegna, del saggio, una figura distaccata e lontana, immune da debolezze sentimentali, insensibile alle pene dei suoi cari, sciolto

da ogni partecipazione ai travagli della vita sua e altrui, assolutamente chiuso in se stesso e, in definitiva, solo interessato alla sua impassibilità e serenità. Si voglia scusare, in virtù della sua importanza, la lunghezza della citazione: Si sappia, però, che ogni singola cosa non si rivela mai, al saggio, proprio come si rivela altrui: esse, ad una ad una, non violeranno mai la sua intimità 2 Ibid. 9 G.G. Rousseau, Giulia o la nuova lano 1964, vol. I, pp. 404-405.

388

Eloisa, traduzione

di P. BIANCONI,

2 voll., Mi-

umana; e cosi pure ogni altra cosa diversa; nulla: né dolori, né molestie, ed an-

che qualora i dolori tocchino altre persone; poiché pure in tal caso, si tratta, in definitiva, di una debolezza dell’anima nostra. Ne dà prova il fatto che ci riteniamo ben fortunati che i mali altrui ci restino ignoti e riteniamo addirittura un guadagno se essi accadono, dopo che noi siamo morti, non mirando più, così, al loro vantaggio, bensì al nostro, purché solo ci risparmiamo una molestia. E in questo ci tradisce già la nostra debolezza, della quale occorre pur spogliarci, non solo, ma anche, nell’atto di deporla, non temere più che neppure risorga. Se alcuno poi dicesse che la natura così ci ha fatti, sensibili, cioè, alle sventure di

chi ci appartiene (« dore dAyeiv èrì raic rüv oixelov ouupopaïc »), sappia, costui, che anzi tutto non è così di tutti gli uomini e, del resto, che è proprio della virtù addurre la condizione comune della natura a un grado di superiore bontà e bellezza, in disparte dal volgo (« ragà rode roXoic »). Ed è appunto superiore bellezza il non darla vinta a ciò che la natura comune vede con terrore (« x@A Ov DE Tò un évduBévar toîc vopitopévore tf xouvf) phoer Servotg eÎvar »).

Era una posizione stoica che il Leopardi aveva trovato in Epitteto;! la manifestazione di quella freddezza d’animo o noncuranza o indifferenza che nel ’25 gli era sembrata utile non già in relazione agli spiriti forti ed eroici ma a quelli temperati e forniti di mediocre fortezza « o vero eziandio deboli, e però agli uomini moderni ancora più che agli antichi ».? La posizione di Plotino nel dialogo è del tutto diversa: non più solitudine imperturbabile e impassibilità di fronte alle sofferenze degli altri, ma sollecitudine amorosa e compassione e solidarietà: E perché non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso? *

31 «Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcun suo congiunto o per lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l’apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero [...] Ciò non ostante tu non farai difficoltà di assecondare il suo dolore in parole, ed anco, se occorre, di sospirare insieme seco; ma guarda che tu non sospirassi però di cuore » (G. LEOPARDI, Tutte le opere cit., I, p. 495). 32 Ivi, p. 492. 33 Ivi, p. 178. « La tua morte non fa male a nessuno? Capisco! morire a nostre spese non ti importa affatto, non dai nessun peso ai nostri rimpianti. Non ti parlo più dei diritti del. l’amicizia, che tu disprezzi; ma non ce ne sono altri e più cari, che ti costringono a preservarti? Se c'è al mondo una persona che ti ha amato abbastanza da non poterti sopravvivere, e alla quale per essere felice manca la tua felicità, credi che non le devi qualche cosa? i funesti tuoi progetti, una volta eseguiti, non turberanno forse la pace d’un’anima che con tanto sforzo ha riconquistato la sua originaria innocenza? Non temi forse di riaprire in quel tenero cuore ferite

389

Che il Leopardi abbia qui volontariamente volto le tesi del Plotino storico è affermazione stegno sicuro, per quanto la probabilità di un antico sembri accreditata dalla parte successiva ciare al filosofo greco:

e consapevolmente capocui è difficile dare un sosottile rapporto col testo del discorso fatto pronun-

To so bene che non dee l’animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smo-

derate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana."

Ma si usi questa « fortezza d’animo » in quegli accidenti che non dipendono dalla nostra volontà, ché altrimenti si tratterà di un abuso inqualificabile, indegno della vera sapienza: Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non esser atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno, non è di sapiente ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici, è di noncurante d’altrui, e di

troppo curante di se medesimo.”

Insomma il Leopardi tiene a presentare un ideale nuovo di saggezza, in cui la sensibilità appaia elemento positivo, e la rigida ragione sia mitigata da una visione più gentile e cordiale dei rapporti umani. In tal modo l’error di computo e di misura cui accenna Porfirio a proposito di chi preferisce la vita alla motte e che viene subito accolto da Plotino (« Così è

veramente, Porfirio mio ») esce fuori dall’ombra ambigua d’un ripiego disdicevole alla dignità del sapiente e si solleva a norma generale dell’esistenza, come attivo e prezioso residuo della natura primitiva e dei suoi impulsi vitali: Ecco, questo che tu nomini error di computo; * veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli stupidi mal rimarginate? Non temi che la tua perdita ne provochi un’altra anche più crudele, togliendo al mondo e alla virtù il loro più degno ornamento? e se ella ti sopravvive, non temi di eccitare nel suo cuore il rimorso, più duro da sopportare della vita? Ingrato amico, amante senza delicatezza, non sarai mai preoccupato che di te stesso? Non penserai mai ad altro che alle tue pene? Non sei sensibile alla felicità di chi ti è stato caro? » (G.G. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa cit., I, pp. 410-411). 34 Ivi, pp.178-179.

DENT % «Qui

AUCE

mi pare che il Leopardi si riallacci alla concezione della perontixh rex che Socrate espone nel Protagora di Platone: cfr. in particolare 356 d 3 sgg., dove si spiega come per vivere bene sia necessaria un’arte della misura, in base alla quale si possa paragonare

390

solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà

in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne

La scelta della vita è dunque errore, se messa in raffronto con le conclusioni della ragione: La quale afferma per certissimo, che la morte, non che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva; anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore.:*

Un errore, come non è possibile porre in dubbio, dell’intelletto, non

dell’immaginazione, uno di quegli errori che la filosofia moderna avrebbe dovuto dissipare, lasciando sussistere se mai appunto gli altri, gli errori dell’immaginazione, secondo la distinzione di Zib. 2709-2711, 21 maggio 1823. Il fatto è che la ragione perde qui il suo primato sull’uomo. Il criterio di giudicare le cose umane, di considerarle non indegne di qualche cura, è assegnato ora non più all’intelletto, ma, come tutti sanno, al « senso

dell’animo », che non ignora le desolate verità della ragione, non ignora cioè l’infelicità della sorte umana, e tuttavia s’adopera ad alimentare quel diffusissimo error di computo e con esso la speranza e il gusto della vita: E ciò basta all’effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, non di meno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire) e

non l’intelletto, è quello che ci governa. il piacere che una cosa ci dà nel presente con il dispiacere che da essa potrà derivare nel futuro e scegliere in conseguenza; e cfr. anche 357 c 6 sgg., dove Socrate osserva che il male dell’uomo, per questo rispetto, è provocato da dual, dalla mancanza di quest'arte della misura (Socrate parla qui di dolori e di dispiaceri, ma già in 351c 2 aveva proceduto all’identificazione di ciò che è bene per l’uomo con il piacere e di ciò che è male con il dolore e questa identificazione è ribadita, in relazione alla petontixh téxvn, in 357d 5-6). Nel Porfirio il Leopardi utilizza questa dottrina, ma in un modo da procedere a un rovesciamento della morale socratica: quell’arte della misura che deve servire secondo Socrate a vivere bene (cfr. Plat. Prot. 351 ed Cv e 357 a 6-7 cwrepia rod Blou) in Leopardi ha invece l’effetto di condutte al suicidio chi rettamente l’applica » (V. Dr BENEDETTO, Giacomo Leopardi e i filosofi antichi, « Critica storica », VI, 1967, pp. 313-314). 37 G. LEOPARDI, Tutte le opere cit., p. 178. Sarà bene paragonare queste parole con una nota zibaldoniana, e notare la differenza di tono che le caratterizza: « E però chiunque vive (tolta la religione) vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl’istanti della nostra vita, in ciascuno de’ quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicato della nostra mente. Effetto dell’amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch'egli fa considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze » (Zib. 2551, 5 luglio 1822). 38 G. LeoPARDI, Tutte le opere cit., I, pp. 176-177.

nur. p. 178.

391

Singolare postulato, del quale non so se sia stata adeguatamente intesa e valutata l’importanza, il forte riflesso autobiografico. Il deciso accento assertivo, il carattere di conclusione e di riepilogo che lo connotano pongono infatti il problema se l’affermata e regolativa supremazia del senso dell’animo debba considerarsi limitata alla sola stagione preidillica o fiorentino-pisano-recanatese,

o possa

venire

estesa

a principio

durevole

della restante parabola culturale e poetica leopardiana. Si badi. Porfirio, con la piena approvazione di Plotino, dice che l’error di computo coincide con la scelta della vita, in ogni caso, a qualsiasi livello di consapevolezza: Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla volontà, o sia col fatto solo.

Una elementare operazione logica porterebbe a concludere che se il Leopardi accettò la vita, col giudizio, con la volontà, o col fatto (la distin-

zione poco importa), ciò dipese dall’incessante efficacia di quell’errore, dall’ammaestramento consolatore del senso dell’animo. Eppure non possiamo fare a meno di domandarci che cosa sopravviva del mite e sereno Leopardi-Plotino, tutto inteso ad affermare il potere consolatore dell’amicizia, degli affetti domestici, delle memorie che accrescono vita alla vita (« Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non

ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno

ancora »)," che cosa sopravviva, dicevo, di questo

Leopardi-Plotino nel tragico Leopardi-Tristano, che ride degli uomini innamorati della vita e rifiuta ogni vigliaccheria e ogni inganno puerile, teso a mirare intrepidamente il deserto della vita, senza dissimularsi alcuna parte dell’infelicità toccata in sorte ai mortali e senza concedere ai viventi alcuna speranza a venire: « Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non esser nulla, né di non aver nulla a sperare » (« di non aver nulla a sperare dopo la morte », in Zib. 4525, appunto che potrebbe essere contempo-

40 Ibid. 4 G. LEoPARDI,

4 Ivi, p. 181. 392

Tutte le opere cit., I, p. 179.

raneo al Dialogo di Tristano e di un amico). recisamente condannato e con esso è respinto della vita. E così vengono derisi gli uomini qualche sollievo in altro che nella cognizione mini comuni, che erano stati all’origine del del Plotino (« come

L'errore dell’intelletto è ora ogni possibile addolcimento che volendo vivere cercano della verità. Anzi sugli uocodice interpretativo-morale

fanno gli altri ») cade una condanna

implacabile:

severissima

e

E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che a loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo.#

Un altro Leopardi, si direbbe, fiero ed eroico, sconsolato e disperato come il suo libro di favole malinconiche, solo in un mondo di vili e di de-

boli, il Leopardi estremo che la critica ha così bene esplorato e ricostruito in questi ultimi decenni. Eppure quanto a forza d’animo l’autore del Preambolo alla traduzione del Manuale di Epitteto aveva scritto, sì, che il cedere e il conformatsi

alla natura e al fato, il ridursi a desiderar poco, è proprio degli spiriti deboli, ma aveva anche affermato, come s’è ricordato, che segno di debolezza

è anche la freddezza e l’indifferenza, quel « non darsi pensiero delle cose esterne ». Il che vale a dire che la sensibilità, la partecipazione alla sorte degli altri, il condividere dolori e speranze dei nostri cari, l’amare, infine,

i compagni e gli amici è anch’esso, in una sua precisa misura, un atto di coraggio, una prova di forza, un impegno tutt’altro che vile. D'altra parte accanto all’alta elegia della morte * consegnata alle ultime pagine del Tristano («Se ottengo la morte morrd così tranquillo e così contento, come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo » 4) e accanto ai versi finali di Amore e morte che riconfermano 43 Ibid. 44 Nota il Cecchetti che la morte sostituisce in Tristano i sogni e le speranze in cui il nuovo personaggio-mito leopardiano non crede più e diviene essa stessa una diversa, grande illusione: « Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch'io fo, come accade

nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non uscire » (cfr. G. CECCHETTI, Il «Tristano», in Sulle « Operette morali ». Premessa

sa di

R. Scrivano, Roma 1978, p. 108). 45 G. LEOPARDI, Tutte le opere cit., I, p. 185.

393

l’atteggiamento del Tristano sarà lecito ricordare l’intenso interrogativo di Sopra un bassorilievo antico sepolcrale che restaura per più rispetti l'atmosfera del Plotino, sia pure accentrando i sospetti sulla crudeltà della natura: « Già se sventura è questo / Morir che tu destini / A tutti noi che senza colpa, ignari, / Né volontari al vivere abbandoni, / Certo ha

chi more invidiabil sorte / A colui che la morte / Sente de’ cari suoi. Che se nel vero, / Com’io per fermo estimo, / Il vivere è sventura, / Grazia il morir, / Chi però mai potrebbe, / Quel che pur si dovrebbe, / Desiar de’ suoi cari il giorno estremo, / Per dover egli scemo / Rimaner

di se stesso, / Veder d’in su la soglia levar via / La diletta persona / Con chi passato avrà molt’anni insieme, / E dire a quella addio senz’altra speme / Di riscontrarla ancora / Per la mondana via; / Poi solitario abbandonato in terra, / Guardando attorno, all’ore ai lochi usati / Rimemorar la scorsa compagnia? / Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre / Di strappar dalle braccia / All’amico l’amico, / Al fratello il fratello, / La prole al genitore, / All’amante l’amore: e l’uno estinto, / L’altro in vita serbar? Come potesti / Far necessario in noi / Tanto dolor, che so-

pravviva amando / Al mortale il mortal? ». I « suoi cari », la « diletta persona », la « scorsa compagnia », l’« amico », il « fratello », la « prole », il « genitore », l’«amante », l’« amore ».

La solitudine disperata ed eccezionale di Tristano si mitiga nuovamente nell’abbraccio degli « altri », cerca rifugio negli affetti dolci e sicuri, il nudo vero della ragione sembra cedere ancora una volta al tenace senso dell'animo: « Questo se all’intelletto / Appar felice, invade / D’alta pietade ai più costanti il petto ».“ 46 Il raccordo tra il Plotino e il canto Sopra un bassorilievo antico sepolcrale fu già compiuto da B. ZumBini (Studi sul Leopardi, I, Firenze 1902, p. 200) il quale, rilevando che i

due interlocutori del dialogo personificano in sé non due concetti più o meno contrari ma due parti della stessa filosofia leopardiana, indicò il significato perenne dell’operetta, in cui si celebra « il sereno che, pur nella nostra povera vita, segue immancabile ad ogni procella: è il certo risorgere della speranza, la quale, non meno che il dolore, è insita nell’umana natura [...] ». Tra le testimonianze sul Plotino vanno particolarmente ricordate quelle che mirano a fissare il posto del dialogo nella carriera leopardiana o che ne mettono in rilievo il valore intrinseco. Il Gentile, nell’ambito della sua discussa interpretazione, appellandosi a un pensiero di Eleandro (« Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio »), scrive: « Sicché è evidente che non la filosofia negativa che spazia dal Dialogo di Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leopardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla natura e da questo ‘senso dell'animo ’ » (G. GENTILE, Le « Operette morali », in Manzoni e Leopardi, seconda ed. riv. e accr., Firenze 1966 [la prima ed. è del 1928], p. 151; il saggio apparve originariamente negli « Annali delle Università Toscane », Pisa 1916). Il Porena (cfr. Prose scelte di G. LEOPARDI, a cura di M. PorENA, Milano 1921, pp. 319-320), nota il significato nuovo e originale dell’ultimo discorso di Plotino, tutto incentrato su argomenti affettivi. Il Bianchi (cfr. G. LeoPARDI, Operette morali, con introduzione e note di D. BiAncHI, Palermo 1922, pp. 42-43)

394

E come trascurare il peso che accanto alla Ginestra (dove pure è decisivo il rilievo dato, oltre che al « vero », all'amore che stringe mutualrileva che le parole di Plotino erano state intuite dal Leopardi fin dal 1819-1820, quando il poeta scriveva al Giordani: «[...] procuriamo di piangere insieme giacché la fortuna tanto nemica in ogni altra cosa ci ha favoriti oltre l’ordinario in questo, che avessimo ove riparare sicuramente il nostro amore », e ancora: « Ma viviamo, giacché dobbiamo vivere, e confortiamoci scambievolmente, e amiamoci di cuore, che forse è la miglior fortuna di questo mondo ». Il Reichenbach conferma che i due personaggi sono due aspetti « e quasi due momenti » dell’anima leopardiana, « i quali peraltro, nella storia di quell’anima, non rappresentano due epoche distinte, succedentisi cronologicamente, ma piuttosto lo avvicendarsi di due tendenze, a volta a volta vittoriose e vinte » (G. REICHENBACH, Studi sulle Operette morali di Giacomo Leopardi, Firenze 1934, p. 165). Il Losacco è per una più stretta integrazione degli slanci consolatori e dei sentimenti scettici ed è convinto che la risposta finale di Plotino, nonostante il suo indubbio valore morale, non arrivi a cancellare «la desolata impressione che spirano gli argomenti e le obiezioni dell’amico » (M. Losacco, Indagini leopardiane, Lanciano 1937, p. 69).

Il De Robertis, che avverte la mancata unità dell’opera (« Il Plotino che doveva essere, nell'intenzione del Leopardi, un discorso drammatico dove non fosse possibile parlate o confessarsi senza dolore, è risultato in effetto un dialogo a metà, con un personaggio solo che sente e soffre, dove l’altro ragiona e disserta »), citato il pensiero del 16 gennaio 1821 sulla speranza che sempre risorge, scrive: « Se non proprio quando scrisse queste amorose refrigeranti parole, certo l’anno ’27 dovette avvertirne tutta la verità e la potenza, e la parte sostanziale di esse passò nelle pagine più belle del Plotino [...]. Per credere ancora alla poesia, che da tanto l’aveva lasciato, il Leopardi sentiva il bisogno di rifarsi ‘ il gusto della vita’; circa l’uccidersi, se pur ragionevole, egli sapeva quanto fosse ‘ atto fiero e disumano’. Non per farsene un’illusione, o una ragione di contentezza; ma unicamente per ‘compiere nel miglior modo questa fatica della vita”. E non fu il sentimento di quell’anno soltanto » (G. De RoBERTIS, Le « Operette morali », in Saggio sul Leopardi, Firenze 1973 [prima ed. 1944], pp. 74 e 76). Il Whitfield, a proposito del « senso dell’animo », osserva: « Per interpretare Leopardi non vi è nelle Operette un passo più significativo » (J.H. WHITFIELD, Giacomo Leopardi, trad. di M. C. MonereLLo D’AMBROGI9, rivista da G. VALLESE e dall’autore, Napoli 1964, p. 147 [l'originale inglese è del 1954, Oxford, Basil Blackwell]). Il Bosco, discutendo di titanismo e pietà nel Leopardi, constata che nelle Operette morali il titanismo è schivo di esibirsi e si condensa tutto nella lucidità e pacatezza dello stile: « Lucidità e pacatezza — aggiunge — qua e là sottolineate da abbandoni a un dolore più personale e direi più umano, nei quali si avverte un Leopardi che non ragiona più spietatamente, ma piange o è vicino al pianto; o anche da affermazioni di orgoglio titanico. Non può essere un caso che questi abbandoni ed affermazioni abbiano il loro culmine nel Dialogo di Plotino e Porfirio, del 1827, o in quello di Tristano e di un amico, del 1832: composti dunque quando il Leopardi stava per uscire o era da un pezzo uscito dall’assideramento sentimentale di cui il corpo delle Operette son testimonianza » (U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Firenze 1957, p. 14). Per il Fubini il discorso finale di Plotino, legato alle positive esperienze di Bologna e Firenze, è la prima pagina, malinconica e dolce, della maturità leopardiana: si direbbe, egli prosegue, che nel delineare la figura dell’antico saggio « persuasore di vita » il suo cuore si sia aperto e che nello stendere i discorsi, egli abbia lasciato parlare quell’« uomo antico » non mai morto in lui e che era antico e nuovo a un tempo, perché il suo affetto era stato affinato dall’esperienza delle cose e dall’assidua meditazione su di esse (cfr. G. LEOPARDI, Operette morali, seguite da una scelta di pensieri, con intr. e comm. di M. FuBINI, Firenze 1959, p. 277). Al Bigi preme innanzi tutto respingere la discordanza di tono che la critica ha rinvenuto nei discorsi dei due interlocutori. Il tono dell’ultimo discorso plotiniano non presuppone infatti a suo parere un atteggiamento di « riconciliazione » ingenua con la vita, « bensì lo stato d’animo di chi la condizione umana contempla col dolce e disperato affetto che può nascere dal ‘pieno e chiaro conoscimento ’ della sua integrale miseria, e solo attraverso questo affetto disperato e dolce può ricuperare, più prezioso e doloroso — come già nelle lettere e nei pensieri contemporanei dello Zibaldone — il valore della vita e dei sentimenti che ci aiutano a ‘ sofferirla ’, dell’assurda

595

mente tutti gli uomini) assume il Tramonto della luna, con quell’accorata ripresa delle ombre e dei dilettosi inganni che si disperdono col morire della giovinezza e soprattutto con quell’accenno alle « lontane speranze / Ove s’appoggia la mortal natura », una massima che sembra oltrepassare l’evocazione nostalgica d’un’età fantasiosa e sognatrice e valere come verità umana

senza tempo? DoMENICO

CONSOLI

e insopprimibile speranza, delle illusioni naturali, del conforto caro e malinconico dell’amicizia e del ricordo » (E. Bici, Dalle « Operette morali » ai « grandi idilli », « Belfagor », XVIII, n. 2, 31 marzo 1963, pp. 147-148, poi in La genesi del « Canto notturno » e altri studi sul Leopardi, Palermo 1967, pp. 81-112). Il Leopardi, sostiene lo Sciacca, alla « maledizione » platonica del « dubbio dell’al di là » contrappone (ma il dubbio resta) la tranquillità epicurea derivante dalla convinzione che l’uomo è solo materia e muore tutto con la morte del corpo: «Quanto al suicidio, anche se lecito, non ne vale la pena: ‘la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla’. In questo spirito di nihilismo consapevolmente e virilmente accettato — la ‘ persuasione’ del nulla come posizione morale contro ogni forma di ‘retorica’ — e non in quello di una fratellanza universale favorita dal progresso, cosa per il Leopardi senza senso, va intesa l’esortazione di Plotino al suo discepolo: ‘viviamo ecc.’» (M.F. Sciacca, Platone nello « Zibaldone », «Cultura e scuola », n. 38, aprile-giugno 1971, p. 160; sull’argomento del suicidio in Plotino e Leopardi si può vedere M. CARBONARA NADDEI, Plotino e Leopardi di fronte al problema del suicidio, « Misure critiche », V, 1975, 14-15, pp. 27-53, poi in Momenti del pensiero greco nella problematica leopardiana, Lecce 1977, pp. 39-83). Per il Campailla con l’ultimo discorso di Plotino il Leopardi « scrive una delle sue pagine più alte, in cui lo stile si pone come la spontanea trascrizione dei ritmi esistenziali: fremito giovanile e maturità dolente, passione e compostezza, istinto e saggezza si fondono mirabilmente a riaffermare l’inconcepibile diritto alla vita [...] Non è importante vivere o non vivere, dal momento che il risultato della rintronante Storia del genere umano è il vanitas vanitatum, ma è impottante che l’uomo non sia vissuto invano, e questo significato ideale della sua comparsa terrena può venire unicamente dall’amore ». Tuttavia la tensione « positiva » del finale non deve indurre a tentazioni troppo ottimistiche: « Plotino e Porfirio sanno che c’è un’altra ragione, più dolente e consapevole, sposa della morte, ma innamorata della vita: una ragione che piange sui ‘ mali della nostra specie ’, ma che capisce che questi mali prima d’essere storici sono ontologici, e che storicamente aumentano all’impazzata nella misura in cui non se ne scorge o se ne occulta la dimensione ontologica » (S. CAMPAILLA, La vocazione di Tristano, Storia interiore delle « Operette morali », Bologna 1977, pp. 305 e 308).

396

Lo stoicismo greco-romano e la filosofia pratica di Leopardi Pensa quanto poco vale il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa. Marco Aurelio, Ricordi IX O Critone, se così piace agli Dei, così sia.

Epitteto, Manuale

1.

In una delle ultime lettere dell’epistolario (ne sarebbero

seguite

fino alla morte dell’autore poco più di una ventina), Leopardi prendeva congedo da Carlo Bunsen! tornando, con quella memoria in lui irriducibile all’avverso fato e alla consunzione stessa del tempo, al libro di prose scritto con passione tanti anni prima:

Voi avete ragione che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva e forse anche qualche volta fa velo al mio giudizio. Datene la colpa parte al mio carattere, e parte all’età in cui furono scritte, perché a 26 anni le scrissi, e d’allora in qua, benché ristampate con qualche mia correzione, mai non ho potuto rileggerle interamente fino al giorno d’oggi. La propria mia esperienza m’insegna che il progresso dell’età, fra i tanti cangiamenti che fa nell’uomo, altera ancora notabilmente il suo sistema di filosofia.

Il consenso amichevole all’osservazione del Bunsen, il relegare per civile accondiscendenza dialogica in un passato lontano il cedimento alla malinconia, era attenuato però subito dalla confessione che anche « nell’annesso volume », ove l’interlocutore avesse avuto la pazienza di scorrerlo, si sa-

rebbe potuto trovare « qualche eccesso malinconico ». Come dire che nonostante i « tanti cangiamenti » operati dal « progresso dell’età », le sue opere (ovvero nel caso la loro persistente malinconia) avrebbero potuto attestare una fedeltà sostanziale a quel « sistema » filosofico che riconduceva ai suoi ventisei anni e al periodo della stesura delle Operette morali. 1 « Vi assicuro, togliendo di mezzo ogni ombra di cerimonia, che il pensiero di non più rivedervi mi cagionerebbe un gran dolore. Del resto ho fiducia che in qualunque luogo i vostri nobili destini vi chiameranno, non lascerete di portare qualche rimembranza di me, come certamente nessuna lontananza potrà cancellare in me la memoria vostra» (A Carlo Bunsen, Napoli, 26 settembre 1835). Questa citazione, come le altre dall’Epistolario, è da riferirsi al quinto volume dell’edizione Flora di Tutte le opere di Giacomo Leopardi (Lettere, Milano 19634). Per le lettere dei corrispondenti sarà invece implicito il rinvio all’edizione Moroncini (Epistolario di Giacomo Leopardi, Firenze 1936-1940, voll. III-VI). 2 A Carlo Bunsen (Napoli, 26 settembre 1835).

397

Né il riferimento al 1824, o agli anni comunque circonvicini, è casuale,

se si pensa che il reale discrimine filosofico leopardiano è idealmente uno solo: quello che segna il passaggio e il trapasso di coscienza dall’età giovanile all’età adulta, con la conseguente scelta del vero, del brutto, e con

l’abbandono degli errori e delle illusioni. Accompagnata s’intende, la scelta irreversibile del vero, a suo modo testimoniata da malinconia e ironia, da un habitus di maggiore compostezza e da una capacità ferma e lucidissima di giudicare e di tirare innanzi la vita. Per Leopardi il giovane è per natura portato all’estremizzazione dei sentimenti e delle passioni,’ all’infelicità non sa vedere altra conclusione che la morte, ogni consolazione gli si vieta, visto che nient’altro può sentire che « profondamente e ostinatamente il suo male »; * le altre età, sia pur non dimenticando la necessità vitale delle illusioni e il vagheggiamento della perduta felicità (ricordando quindi continuamente l’oggetto della privazione e defraudazione umana), si studiano nelle forme persistenti, uniche valide della negazione del reale,

almeno di mitigare le conseguenze del dolore, cercando di attenuare, non di raddoppiare la sofferenza e l’infelicità. È insomma nella saggezza che conduce contemporaneamente a una controllata coscienza e all’indifferenza (non per sé e per gli altri, o per la propria infelicità, ma per i beni esterni del mondo) che si profila per l’uomo leopardiano la possibilità unica di vita, la possibilità anche, se non di scrivere, almeno di accettare, di amare un libro pseudo-consolatorio, di conformarsi, non per viltà o pochezza di spirito ma per coscienza del mondo, ai dettati di un’antica filosofia. Una filosofia che quasi dimentica delle teorizzazioni necessarie alla logica e alla fisica si occupasse prevalentemente dell’etica, dei fini dell’uomo, delle modalità del suo esistere nel mondo; una filosofia pratica, che avesse l’unico

scopo di guidare al vivere, che soprattutto nascesse dall’analisi della realtà, al punto da scordare o non accorgersi quasi di essere filosofia. Una filosofia, 3 Si veda per questo, fra le tante testimonianze possibili una delle più significative, in Zibaldone 3838 (5 novembre 1823: «il giovane [...] impiega tutta la sua vita morale in abbracciare, sopportare e mantenere costantemente la sua morte morale, tutto il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in sostenere la monotonia e l’uniformità della vita, tutta la sua costanza in scegliere di soffrire, voler soffrire [...] come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa de’ suoi difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento, egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l’obbliga a soffrir tanto, egli elegge di soffrir dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti, e rinunzia affatto al godere »). La citazione, come tutte le altre dello Zibaldone (e l’indicazione numerica qui come

altrove rimanda alla numerazione dell’autografo) è tratta dal secondo volume di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti (Firenze 1969). 4 Zibaldone 313 (novembre 1820). 5 Ma per un’interpretazione complessiva del discorso poetico leopardiano, tra i poli consequenziali di negazione e utopia, cfr. A. DoLFI, Leopardi tra negazione e utopia. Indagini e ricerche sui « Canti », Padova 1973.

398

ancora, di cui Leopardi, proprio nell’osservazione del reale, aveva avuto intuizione giovanissimo, e che gli anni avrebbero condotto ad avvicinare ai testi dell’ultima stoa, a quel Manuale di Epitteto che doveva accompagnare i suoi progetti, i suoi sogni di un manuale di filosofia pratica: « cioè un Epitteto a mio modo » $ Nelle Polizzine a parte, preparate nel ’27 quale singolare, propositivo indice tematico del suo Zibaldone (vi era infatti implicita la possibilità di ricavarne più libri), Leopardi segnalava come primo testo del suo ideale manuale proprio un pensiero nato dall’osservazione delle cose e dei meccanismi dell’animo umano: Diceva una volta mia madre a Pierino che piangeva [...] E quegli si consolava perché anche in altro caso l’avrebbe perduta. Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a quell’altro suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo che quel bene non era in nostra balia d’ottenerlo, né quel male di schivarlo [...]. Vedi a questo proposito il Manuale di Epitteto!

accanto a pagine che affidavano la felicità, o comunque quella poca felicità possibile all’uomo, alla rimembranza di un’infelicità passata mutata al ricordo, alla quiete e alla calma fiducia nel futuro) alla necessità

dello

6 Ma non si dimentichi, a proposito della filosofia pratica leopardiana, l’influenza di altri testi, oltre quelli indubbiamente decisivi dell’antico stoicismo; si ricordino almeno le Leçons frangaises di Noél, che già erano state una fonte dello Zibaldone negli anni giovanili, e che Leopardi tenne presenti come modello nel ’26-’27, nel periodo di elaborazione della Crestomazia prosastica (cfr., a questo proposito, e per un’articolata discussione sull’influenza che le scelte della Crestomazia operarono sulle letture e sull’opera poetica leopardiana, la bella introduzione di Giulio Bollati alla Crestomazia italiana. La prosa, Torino 1968). Una lettura della Crestomazia consente indubbiamente, specie nella sezione della filosofia pratica, di individuare testi, in prevalenza umanistici o settecenteschi, che dovettero incidere, assieme alle notizie e agli scritti dello stoicismo, sull’elaborazione e il rafforzamento del sistema leopardiano. Si pensi in particolare al Palmieri della Vita civile, ma anche poi, più in generale, al Gozzi dell’Osservatore, del Mondo morale, della Gazzetta veneta, al Segneri del Cristiano istruito (sul tema dell’imperturbabilità), a Gelli, Castiglione, Pandolfini, Alfieri, Adriani, Della Casa, Caro, Pallavicino, Maffei, Tasso, Botero, Roberti; e per consonanze, sia pur lontane all'insegnamento dell’antica saggezza filosofica, al Boccaccio della Lettera a messer Pino de’ Rossi, al Castiglione del Cortegiano (sul tema ragione-virtù), ma soprattutto, sopra lo stesso argomento, al Della Casa del Galateo (« Ma i sensi amano e appetiscono il diletto presente, quale egli si sia; e la noia hanno in odio, e indugianla: e perciò schifano anche la ragione; e par loro amara: conciossiacché ella apparecchi loro innanzi, non il piacere, molte volte nocivo; ma il bene, sempre faticoso [...] Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro; anzi ve ne ha due; che l’uno è il costume; e l’altro è la ragione » (Crestomazia italiana cit., pp. 224-225). Si vedano anche, alla sezione Apologhi, sul tema piacere/dolore, le scelte dalla Circe del Gelli; tra le Allegorie, comparazioni il brano sulla vita umana dall’Osservatore del Gozzi, e sul coraggio/fortezza d’animo in generale il Cortegiano del Castiglione. 7 Zibaldone 65. 8 Zibaldone 4286. 9 Zibaldone 76.

399

scopo, alla coscienza della brevità," all’inevitabilità,' alla possibilità di tenere occupata la vita © o di distrarre “ e assopire l’animo,” di fermarlo comunque all’obiettivo di piccole felicità. Così significativamente ricorrevano in quelle annotazioni, ad hoc prescelte a posteriori, e in qualche modo conformate anche quali « Memorie della mia vita »,7 i nomi di Madame Lambert, di Cicerone,” di Plutarco, di Epitteto, mentre la noncuranza veniva proposta come la qualità/modo per avere successo, per provare piacere; il bene, su insegnamento plutarcheo, dichiarato consistere nel sentire meno il dolore? Tra consolazione, rassegnazione, disperazione, e pure, ancora, un’ultima strenua voce in difesa della libertà,” il sistema di

Leopardi, costituito nel tempo, si delineava condurre, per esplicita confessione d’autore, a uno « scetticismo ragionato e dimostrato » irresolubile ma ancor più a una « disperazione placida, tranquilla, rassegnata » * che, cosciente del passaggio fatale dell’età che aveva fatto rifiutare Cicerone e il suo De consolatione? poteva proporre la pazienza come « la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico » E sul concetto dell’apparerza, non su quello della sostanza reale e a suo modo eroica, oltre la facies ingannevole, si giocherà non a caso tutta la

filosofia pratica di Leopardi, e, oltre quella, l’interesse leopardiano per lo 10 11 12 13 14 15 16

Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone

268, 345. 1508. 4261. 4259. 4187. 172, 248. 303, 1464, 2451, 2495

(«l’arte della felicità consiste

nell’averne

pochi e

poco vivi [desideri] »).

17 Zibaldone 4286. 18 Zibaldone, 304, 633, 636, 666, 678. 19 Non casualmente questi nomi sarebbero tornati nelle Operette morali. Cfr., per una citazione congiunta da Cicerone e Madame Lambert, la Proposta di premi fatta dall’accademia dei Sillografi (ivi).

20 Zibaldone 496. 21 Zibaldone 1580. 22 Zibaldone 2673 (in data 10 febbraio 1823). 23 Così il Cicerone delle Filippiche, citato in Zibaldone 459. 24 Le polizzine rimandano, quali estremi cronologici, a Zibaldone 65 e 4286. 25 Zibaldone 1655. 26 Zibaldone 618. 27 « Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e non vede altra consolazione che della morte [...] Il libro di Crantore [...], il libro di Cicerone, de Consolatione [...], saranno stati utili alle altre età. Pel giovane estremamente sventurato, o che si creda tale, non si può scrivere libro consolatorio » (Zibaldone 302). 28 Zibaldone 112.

400

stoicismo e la traduzione del Manuale d’Epitteto. Ché il « prezioso e caro libricciuolo » cui si accennava nel preambolo del volgarizzatore, avendo per scopo « la pratica filosofica che qui s’insegna », solo all’apparenza patrà

apparecchiato « agli animi di natura o d’abito non eroici, né molto forti [...] o vero eziandio deboli »° perché la pazienza, in realtà, è l’unica cosa lì proposta, e la pazienza, come si diceva, potrebbe anche essere, in qual-

che modo, « la più eroica delle virtù ». Per altro già Leopardi confessava che al suo restrittivo giudizio era « contraria la estimazione universale, reputandosi comunemente che l’esercizio della filosofia stoica non si con-

faccia [...] se non solamente agli spiriti virili e gagliardi oltre misura »; * contraria forse, potremmo aggiungere, la sua stessa ‘ estimazione ’ privata, che gli faceva tanto prediligere per « sentenze verissime », « considerazioni sottili », « molti precetti e ricordi sommamente

utili », il famoso Enchiri-

dion, accanto alle opere di Marco Aurelio. Il fatto è che lungi dal dimenticare i legami che lo stoicismo aveva avuto con l’impegno politico e civile nell’antica Roma, con tutto quello quindi che si poteva considerare coraggioso e nobile (si pensi alla figura e all’eroismo di Bruto, non scindibili certo dalla predicazione stoica; e si veda per questo, a riprova, l’intenzione leopardiana più volte palesata di associare in uno stesso volumetto il volgarizzamento di Epitteto e la Comparazione delle sentenze di Bruto e Teofrasto vicini a morte *), premeva a Leopardi sottolineare piuttosto i legami che quella filosofia poteva avere con la « debolezza » dell’uomo, con una debolezza causata e indotta non dall’indole, ma dall’effettiva natura

dei tempi. Come se appunto quella pazienza fatta di « freddezza d’animo », « noncuranza » o anche « indifferenza », fosse elevata nell’era moderna,

per conformità alla ragione, per convenienza alla natura mortale, a un’unica possibile e fattiva virtù, nascendo di fatto da una consapevolezza chiara e totale della situazione umana. L'utilità della morale di Epitteto si giustificava in realtà soltanto con la costatazione, valevole per il passato come per il futuro, « che l’uomo 29 Preambolo del volgarizzatore al Manuale d’Epitteto (in Tutte le opere, a cura di W. Binni cit., I, p. 492). 30 Ibid. 31 «[...] opera profondamente e intimamente filosofica, e attenente alla scienza della vita e del cuore umano ed alle sottili speculazioni psicologiche » (Zibaldone 2167-2170). 32 Sui diversi ruoli di Bruto e Teofrasto nella storia del pessimismo leopardiano (« Bruto e Teofrasto rappresentano due diverse facce del pessimismo leopardiano, quella alfieriana e agonista, quale si era espressa nelle Canzoni, e quella negativa e filosofica, a cui il Leopardi avrebbe di lì a poco dato espressione nelle Operette ») cfr. S. TIMPANARO, Leopardi e i filosofi antichi, in Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano (Pisa 1965 [pp. 183-228], p. 201). Agli studi fondamentali del Timpanaro si rimanda per un quadro generale ed esauriente dei rapporti di Leopardi con l’antica filosofia, per una storia della formazione filosofica di Leopardi, e per uno studio soprattutto della sua filologia (S. TimpanarO, La filologia di Giacomo Leopardi, Bari 1978?).

401 26

non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità », e quell’insegnamento trovava la sua legittimità nel porre le basi sui « travagli dell’animo », sulle « molte angosce » e sulla somma di « tutta la sapienza umana » raccolta nel principio dell’astensione dalla lotta palese, raccolta nella verità di una passiva testimonianza: quella paradossale e crudele che avrebbe costretto la passione di gloria e l’amzor sui a « amar se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza », quella che avrebbe condotto, mutato nomine

e tempi, la saggia ginestra a rifiutare il « capo » « eretto / con forsennato orgoglio inver le stelle » (come dire «il contrastare » all’esterno « alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe di

Eschilo, e come gli altri magnanimi degli antichi tempi » *), o piegato anche « codardamente supplicando innanzi / al futuro oppressor » (e in questo poteva consistere forse anche il ringraziamento di una vita che non avesse preso coscienza di sé, intenta ancora, nonostante le sconfitte, i do-

lori, la palese verità dello stato mortale, a una fiduciosa conquista della felicità). Altro non sarebbe stato in sostanza quel soccombere, quel piegare « non renitente / il tuo capo innocente », se non ammettere la qualità, la peculiarità di un’infelicità che doveva predisporre alla saggezza del limite (« tanto / meno inferma dell’uom, quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal fato o da te fatte immortali ») e indurre a quell’adattamento che portava in sé la disperata rinuncia alla felicità e la fuga nel suo contrario.* Nella capacità di leggere l’antica filosofia nella sua parte destruens piuttosto che in quella costruttiva, nella possibilità di condividere lo smantellamento progressivo delle umane illusioni, l’elencazione dei beni effimeri, l’analisi dei vizi e delle contraddizioni della società, stava insomma la « concordanza delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia;

per esempio della socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ecc. »; © e la ragione della preferenza accordata comunque alla filosofia antica sulla moderna, ove si configurasse opportunamente come « mezza filosofia ».” 33 Preambolo del volgarizzatore cit., pp. 492-493. 34 Ibid. 35 Zibaldone 4190 (Bologna, 1 agosto 1826). % Si veda, tra le altre testimonianze possibili, una lettera allo Stella, in data 16 giugno 1826: « Avrei voluto fare una prefazione alle Operette morali, ma mi è paruto che quel tuono ironico che regna in esse, e tutto lo spirito delle medesime escluda assolutamente un preambolo; e forse Ella, pensandovi, converrà con me che se mai opera dovette essere senza prefazione, questa lo debba in particolar modo. Nondimeno ho voluto supplire col Dialogo di Timandro ed Eleandro, già stampato nel Saggio, il quale Dialogo è nel tempo stesso una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni ». 37 Cfr. Zibaldone 4096. Ma al ’21 risaliva la teorizzazione leopardiana di una « mezzafilosofia » che in qualche modo consentisse di conciliare ragione e sentimento, antica speculazione e illusione.

402

Non diversamente una filosofia « trascendente, ma intellegibile a tutti,

e modellata variamente nel tempo su Montaigne, Epitteto, La Rochefou-

cauld, Marco Aurelio avrebbe dovuto costituire, tra gli abbozzi e appunti per opere da comporre, l’opera « della mia vita ».* Un’opera, giova pensare, che non sarebbe stata consolatoria più di quanto non lo consentisse

la necessità di farsi coraggio e di armarsi di costanza, di indifferenza.” E non era impegno da poco, se si pensa che con l’inazione Leopardi aveva spesso identificato la morte, che senza illusioni la sua giovinezza si era persuasa che non potessero esistere né vita né azione; e che nel binomio natura-ragione, proprio nella posta inevitabilmente giocata sull’indifferenza, Leopardi per lungo tempo non si era risoluto a scegliere la ragione. L’indifferenza era infatti il punto estremo di negazione della sua teoria del piacere (in quanto stato « contrario [...] alla natura, e quindi alla [....] felicità » 4) e soprattutto la confutazione massima di quel privilegio in lui assoluto, prioritario della sensibilità. Se è vero che per Leopardi « l’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente »,* si può ben capire quanto dovesse essere costata l’accettazione dell’apatia stoica, la rinunzia a sentire, a desiderare, a sperare, a credere, a amare, nella scelta soltanto, nuda, inamena, della verità. Ma già nel ’23 lo Zibaldone “ aveva

registrato il coraggio necessario a dimostrare timore, ribadendo che è « debito del coraggio la perfettissima calma interiore »,* che bisogna « trovarsi in pieno riposo di spirito, e libero da ogni passione, come vuole il perfetto coraggio ».“ Quel non piegarsi alla necessità, quella ribellione attiva (ancora sole uniche possibili fino al ’21, quand’era pur arrivato alla co38 Tra gli abbozzi e appunti per opere da comporre, al capo IX, X, XI, XIII dei Disegni letterari, si trovano segnalati: « Spoglio e traduzione di Stobeo [...] Massime morali sull’andare del manuale di Epitt. Rochefoucauld ec. [...] Lettera a un giovane del 20° secolo », e separatamente « À se stesso; ad imitazione di M. Aurelio », e all’altezza del 1829: « Della natura degli uomini e delle cose. Conterrebbe la mia metafisica, o filosofia trascendente, ma intelligibile a tutti. Dovrebbe essere l’opera della mia vita. / Trattato delle passioni e dei sentimenti degli uomini. La scienza dell’intelletto e delle idee, negli ultimi due secoli è stata coltivata molto, e con frutto; ed ora si trova adulta: ma quella dei sentimenti, che importa almeno altrettanto, da Aristotele in qua, come scienza, non ha fatto progresso alcuno [...] Manuale di filosofia pratica: cioè un Epitteto a mio modo. / Galateo morale [...] Il Macchiavello della vita sociale [...] L’arte di essere infelice [...] », e poi ancora « Saggi, alla Montaigne ». 39 «[...] fatevi coraggio e armatevi d’un poco di costanza » (Lettera a Paolina, Roma, 19 aprile 1823). 40 Zibaldone 270-271, 362.

4 4 43 #4 45 4%

Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone Zibaldone

959. 1555. 384. 3527. 3535-3536. 3537.

403

scienza dell’inefficacia della sapienza, dell’inutilità della gloria ‘), quel contrastare perenne ‘ con l’infelicità presente, che generava solo odio verso di sé * e tendenze lesive, e alla lunga tra il patire e il non patire il desiderio di non patire e quindi il suicidio avrebbero trovato nell’indifferenza, indotta dagli stoici e dal Manuale di Epitteto (così diversa da quella cui Leopardi pensava da giovane, quando la supponeva legata alla reazione e alla stanchezza per le cose del mondo), una supplementare saggezza in grado non di spegnere ma di acuire la percezione delle cose, legate anche dall’analisi filosofica alla coscienza della precarietà, del transito, e alla volontà acutissima dell’uomo di goderle tutte intere al presente. Ché era un modo poi per rendere operante (non disperante, negativa) la sapienza stoica, e con quella la tristezza d’animo, da medicare sempre, per sopravvivere, con la filosofia.

Così avrebbe scritto ancora Leopardi ad Adelaide Maestri nel 1831: La tristezza, che dite, dell'animo, bisogna medicarla con la filosofia, o col disprezzo delle cose di questo mondo, che non sono fatte per gli spiriti gentili e caldi 5!

a quasi dieci anni di distanza da quella lettera alla sorella Paolina dove per la prima volta, con le esortazioni alla filosofia pratica, aveva forse fatto del Manuale di Epitteto, letto tra il novembre del ’22 e l’aprile del ’23,° un inconsapevole, inavvertito prontuario di vita: 41 Cfr., tra l’altro, la lettera a Giulio Perticari (Recanati, 9 aprile 1821). 48 Zibaldone 504. 4 Zibaldone 505-506. 50 Zibaldone 2549-2555. 51 Ad Adelaide Maestri (Firenze, 1 settembre 1831). 52 Per le letture leopardiane si vedano gli elenchi ricomposti da Giuseppe Pacella (Elerchi di letture leopardiane, « Giornale storico della letteratura italiana », 1966, 444, pp. 557-577) rielaborando o ricontrollando alla fonte le indicazioni di Porena (in Scritti leopardiani, Bologna 1959). Il secondo elenco registra, con Epicteti Enchirid., anche la lettura del De officiis di Cicerone, di Platone, degli Opuscoli di Plutarco volgarizzati da Marcello Adriani e soprattutto del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce di Barthelémy, che tanta parte doveva avere, nel 1823, per l’estensione del pessimismo leopardiano anche agli antichi. Il quarto elenco registrerà invece nel maggio 1825 la lettura del Manuale di Epitteto nella traduzione del Pagnini (Pavia 1795) e della Tavola di Cebete tradotta (ii) dallo stesso; e successivamente, nell'ottobre dello stesso anno, con l’avvicinarsi del volgarizzamento, quella delle più accurate edizioni: « Cebetis Tabula. Oxon. 1804. ed. Simpson / Epicteti Enchiridion. ibid. ». Nel mese di novembre (dopo il Teofrasto già registrato nel luglio 1823) sarebbero seguiti: « Coray Notes sur les caractères de Théophraste, Paris 1799, Theophrasti Charactères. ibid.» e Plutarco ancora tradotto dall’Adriani. L’elenco VI testimonierà invece la parziale lettura di Stobeo (dall’edizione di Basilea del 1549). Alla prima lettura del Manuale, del ’22-’23, sarebbero allora seguiti numerosi ritorni. Ma per l’importanza del ’23 nel sistema filosofico leopardiano cfr. ancora S. TIMPANARO, Leopardi e i filosofi antichi cit., e W. BINNI, La protesta di Leopardi, Firenze 1973.

404

La speranza è una passione turbolentissima, perché porta con sé necessariamente un grandissimo timore che la cosa non succeda; e se noi ci abbandoniamo a sperare, e per conseguenza a temere, con tutte le nostre forze, troviamo che la disperazione e il dolore sono più sopportabili della speranza [...] questo stato [...] non valeva poi la pena di tanti palpiti [...] se noi non acquistiamo un poco d’indifferenza verso noi stessi, non possiamo mai, non dico esser felici, ma neppur vivere [...]. Direte ch'io vi sono sempre intorno colla filosofia. Ma mi con-

cederete che questa non mi è stata insegnata né dai libri né dagli studi né da nessun’altra cosa, se non dall’esperienza; ed io vi esorto a questa filosofia perché credo che vi abbiate i miei stessi diritti e la mia stessa disposizione.®

2. A porte il problema, qui pur essenziale, della conoscenza che Leopardi poté avere dell’antica filosofia, in particolare dello stoicismo, ci si scontra con una serie di difficoltà oggettive:* la carenza di sicure testimonianze, ché tali non possono essere ritenute neppure le citazioni leopardiane, spesso, specie in età giovanile, di seconda mano e mediate dalle fonti più vulgate del sapere classico (Diogene Laerzio,” lo Stobeo, il Fabricius; ma anche Seneca, lo « stoicissimo Seneca », appare spesso nel Saggio sugli errori popolari degli antichi come fonte erudita *); la scarsa utilità del Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati" che pur nelle inesattezze e nelle omissioni testimonia solo i libri presenti nella biblioteca paterna, non quelli di fatto consultati e letti, né quelli visti eventualmente in altre biblioteche recanatesi; * l’oggettiva irrilevanza, ove pur accertato, del nesso tra lettura e provocazione fantastica (valida per altro per qualunque altro scrittore antico o moderno). Né si dovrà dimenticare come la carenza di strumenti filologici, di edizioni più o meno critiche dei testi, rendessero di fatto sconosciuta ai primi dell’Ottocento (ovvero non conoscibile tramite una lettura diretta) la produzione della prima e della seconda stoa, recuperata in parte, sotto forma di frammenti, per merito di edizioni di gran lunga successive. Un discorso sullo stoicismo greco-romano e Leopardi viene a limitarsi per motivi oggettivi (ove si eccettuino accenni 53 A Paolina, Roma, 19 aprile 1823. 54 Ma per una più ampia disamina del problema credo sarà possibile rinviare ad alcune relazioni di questi stessi Atti, in particolare a quella di A. GRILLI, Leopardi, Platone e la filosofia greca. 55 Ma per certe mediazioni subite dalle stesse fonti (« L’anello intermedio tra Diogene Laerzio e il Leopardi è costituito da P. BAYLE, Dictionnaire historique et critique ») cfr. V. DI BENEDETTO, Giacomo Leopardi e i filosofi antichi, « Critica storica », 1976, 3, pp. 289-320. 56 Ma non si dimentichi, tra le fonti, neppure il Barthelémy cit. Quanto a Seneca si veda, tra gli altri, il rimando esplicito nel Dialogo della Natura e di un Islandese. 57 Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati, « Atti e memorie della R. Deputazione di Storia patria per le province delle Marche », Ancona 1899. 58 Il catalogo vale per altro per gli anni giovanili, precedenti i numerosi spostamenti a Roma, Bologna, Firenze, e il lunghissimo periodo napoletano.

405

puramente dotti, di seconda mano, presenti nelle opere erudite) all’ultima stoa, quella che su presupposti greci e spesso in lingua greca (il caso del Manuale e dei Ricordi) si sviluppò a Roma in età imperiale ed ebbe tra i suoi maggiori rappresentanti Epitetto, Marco Aurelio, Seneca, e l’eclettico da Plutarco, da Seneca," Cicerone.® Ora è certo che proprio da Cicerone di cui esistevano le opere nella biblioteca paterna, oltre che dal Fabricius e dallo Stobeo, Leopardi dovette apprendere le prime notizie sulla filosofia stoica, presentata prevalentemente, nel privilegio che all’etica diedero gli interpreti e i continuatori romani, come filosofia pratica, come fenomenologia morale. Si aggiunse poi la lettura diretta e fondamentale di Marco Aurelio © e di Epitteto. Così, attraverso tutte queste mediazioni, l’antica equazione virtù/felicità, e anche l’unione usuale tra gli antichi di felicità e bontà, infelicità e

59 Rimandi a Cicerone sono impliciti nel primo Leopardi poeta (Sopra il monumento a Dante, Ad Angelo Mai, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Inno ai patriarchi, Alla primavera). À proposito del Bruto minore l’autografo napoletano recava una nota e postilla al titolo che riconduceva

al mondo

antico (a Bruto e a Cicerone

assieme):

« Bruto

minore.

Così gli antichi intitolavano spesso i loro libri assolutamente dal nome delle persone che v’erano introdotte a parlare. Non solo i Dialoghi (come Cic. il Cato maior e il Laelius, dove pur prima di tutto parla esso Cic. in persona propria) ma similmente altri libri, come Isocrate il Nicocle e l’Archidamo » (Canti di Giacomo Leopardi, edizione critica ad opera di F. Moroncini, I, Bologna 1927, p. 204). A parte i frequenti riscontri possibili nell’Epistolario e nello Zibaldone, Cicerone figura spesso anche nelle Operette morali, nel testo (Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillograf, Il Parini ovvero della gloria, Il dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, Il Copernico), ma quasi sempre come auctoritas, punto di riferimento per altre opinioni o pareri; nelle note (Dialogo di Torquato Tasso, Parini ovvero della gloria, Dialogo di Federico Ruysch, Dialogo di Plotino e di Porfirio); nelle annotazioni marginali, non rifluite in note (Dialogo della Terra e della Luna, Detti memorabili di Filippo Oftonieri).

6 E per un riferimento

preciso a Cicerone

come

fonte

sullo stoicismo

valga il solo

rimando alle note alle Operette morali (Dialogo di un folletto e di uno gnomo): «Sus vero quid habet praeter escam? cui quidem, ne putisceret, animam ipsam, pro sale, datam dicit esse Chrysippus. Cicerone de Nat. Deor. lib. 2, cap. 64» (G. LEoPARDI, Operette morali, edizione critica a cura di Ottavio Besomi, Milano 1979, p. 426). Non è casuale che sia stato proprio Cicerone a ridestare l’interesse e l’attività leopardiana

sull’antica filosofia. Fu infatti in seguito alla proposta dello Stella per il controllo e la verifica delle Opere ciceroniane che Leopardi andò a Milano, inaugurando un rapporto di lavoro che si sarebbe concretizzato nel commento a Petrarca, nelle Crestomzazie, non senza aver prima favorito progetti sulle traduzioni di opere filosofiche greche. In questo piano di divulgazione dei moralisti antichi sarebbe dovuto rientrare anche l’Epitteto, certo la testimonianza più importante che Leopardi ci abbia lasciato in materia. 61 L’accostamento leopardiano a Seneca fu precocissimo, sollecitato da alcune richieste dello Stella (cfr. in proposito le lettere allo Stella del 6 e del 27 dicembre 1816). L’interesse giovanile alla filosofia senechiana (pur nella notata diversità imposta dal mutamento dei tempi), è documentato anche da una lettera al Giordani del 30 giugno 1820. @ La conoscenza di Marco Aurelio era già stata documentata, negli anni giovanili, dalla Lettera al ch. Pietro Giordani sopra il Frontone del Mai e dal Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone (con specifici riferimenti allo stoicismo dell’imperatore)

406

malvagità che inevitabilmente avrebbe ricordato l’insegnamento socratico8 passava tramite testi (Marco Aurelio, Epitteto, in parte lo stesso Seneca *)

che riconducevano forse più all’antico stoicismo turbato dalla crisi e necessariamente confinato nell’apatia, che alla media stoa di Posidonio e Panezio (cui era piuttosto legato Cicerone), che intravedeva, proponeva anzi

(è il caso di Panezio), una possibilità di eutimia, di contentezza e gioia di

vivere, nella raggiunta armonia col dovere. Era la posizione materialistica dello stoicismo, il suo intrinseco antiplatonismo, la sua dialettica analoga a quella socratica, articolata sulla domanda e sulla risposta, la sua osses-

siva domanda sulla natura e il modo di raggiungere la felicità, assieme alla necessità di obbedire all’istinto della conservazione di sé, che dovettero attirare Leopardi proprio negli anni in cui, in una reciproca influenza% si faceva più evidente la sua critica e la sua discussione a Platone, la sua analisi dell’azzor sui” e della passione quale causa d’infelicità la sua idea della noia come stato necessario e perenne del vivere. Certo doveva rimanere insoluto, a livello di percezione, di adesione, di lettura della filo-

sofia stoica, e insoluto in un certo senso lo sarebbe rimasto sempre, nonostante il consenso palese del ’23-’27, quel contrasto per Leopardi insanabile di sentimento e ragione, di logos e passione, risolto dagli stoici, dagli ultimi in particolare (Epitteto, Marco Aurelio, il Seneca delle Lettere a Lucilio) nel completo assoggettamento del sentire al pensare, del patire 63 Zibaldone 4119. Ma tra le Operette, si veda in particolare, a questo proposito, i Detti memorabili di Filippo Ottonieri. 64 Ma non si dimentichi anche Lucano, sul quale agirono indubbiamente suggestioni stoiche. 65 Sarebbe da studiare l’influenza del dialogo socratico sulla struttura delle Operette morali. Per qualche cenno in proposito, e per un discorso poi sulla dialettica leopardiana cfr. A. Dotri, La dialettica leopardiana e la tragedia dell’assenza, « Sigma », I, 1978, pp. 17-46. 6 Le conclusioni raggiunte dovevano infatti acuire l’interesse per quei filosofi stoici che avevano contribuito a determinarle. 67 Si veda a questo proposito, tra i tanti esempi estraibili dalle Operette: «Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l'animo almeno di liberarmi dall’infelicità? — Se tu puoi fare di non amarti supremamente » (Diglogo di Malambruno e di Farfarello). 68 Cfr., tra le Operette, quelle in particolare scritte all’inizio del ’24: «[...] tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti » (Dialogo della Natura e di un Islandese). Ma per rimandi più precisi alla filosofia stoica e alla struttura formale del Manuale, si ricordino in particolare Il Parini ovvero della gloria, Detti memorabili di Filippo Ottonieri (nonostante

le polemiche

interne,

che, adversus

Epitteto,

utilizzano

piuttosto

la riflessione

teofrastea). Sulla complementare influenza di Epitteto e di Teofrasto sulle Operette cfr. S. TimPANARO, Leopardi e i filosofi antichi cit. 6 Cfr., nel Dialogo di Torquato Tasso: «[...] per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere,

e non offeso apertamente

dal dispiacere ».

407

al vivere. E proprio su quel punto, sul quale doveva alla fine implicitamente misurarsi anche il contrasto forza/debolezza, cui accennava il preambolo del volgarizzatore, si sarebbe motivata nel tempo la stanchezza, la critica leopardiana per la filosofia stoica, che sarebbe rimasta travolta,

nella ‘ primavera’ pisana dal risorgimento delle passioni, destinate a portare ancora i « moti del cuore » a desiderare e accusare la caducità delle cose, la nullità e la vanità del tutto. Scartato quel suicidio che lo stoicismo poneva come ultima ratio dinanzi alla costrizione esterna, alla logica stessa dell’imperturbabilità del vero e del giusto, l’urgenza (non per sé ma per gli altri) di una più forte consolazione e compassione avrebbe fatto dell’assuefazione apatica, come ipotesi di durativo, immobile adeguamento allo status, un punto necessario di superamento; piegato quanto meno, il cinico, pratico, socratico stoicismo di Epitteto a quelle istanze eclettiche senechiane e ciceroniane che prevedevano l’unione di sapienza, virtù, amicizia in un più generale legame tra gli uomini. Più di Epitteto, che aveva creduto alla liberazione dalle passioni ad opera della filosofia e all’applicazione della volontà alla sola sfera privata, dopo i modelli giovanili di Catone e di Bruto (allievo quest’ultimo di quell’Antioco che si era sentito attratto dal rigorismo della stoa ”), l’ultimo Leopardi potrà piuttosto essere avvicinato alla vanitas vanitatum di Marco Aurelio," che pure ipotizza una volontà destinata all’azione, ormai certo l’uomo, dentro di sé, irrevo-

cabilmente, delle reali proporzioni dell’universo e della brevità della vita, della vanità della paura, dell’oblio di tutto. Ma questo nella consapevolezza che nel tempo tutto avrebbe agito — perdutesi ormai le fonti — come un ricordo dimenticato e lontano, alterato e modificato dalle mediazioni

necessariamente intercorse, modificate poi, e alterate anch’esse.” 70 Ma per ogni notizia sullo stoicismo cfr. Max PoHLENZ, La stoa, Firenze 1978; G. REALE, Storia della filosofia antica, Milano 1976.

71 Ancora nel ’28 Marco Aurelio figurava tra le letture leopardiane. Per l'intenzione di stampare e curare i pensieri cfr. invece la lettera allo Stella del 21 ottobre 1825 (« Amerebbe Ella che io mi occupassi di una collezione di operette morali di vari autori greci, volgarizzate nel miglior italiano che io sappia fare? Avrei già in pronto il primo tometto, se non che bisognerebbe copiarlo. In questa collezione potrebbero aver luogo i Caratteri di Teofrasto, i Pensieri di M. Aurelio, e soprattutto i Pensieri di Platone »). 72 Anche se nei ricordi del filosofo imperatore romano l’inquietudine degli ultimi libri (il gioco della palla, la terra ridotta ad un punto, le fragili foglie, la morte dei singoli e delle stirpi, il mutamento e la monotonia insite nell’interminabile trapassare delle cose in un epicureo rinnovellarsi del mondo, la possibilità di accostare insieme i due ruoli di madre e matrigna) è ricondotta all’iniziale suggerimento di un vivere secondo natura, in ossequio al privilegiato carattere razionale del saggio. 73 In questi termini si potrebbe parlate di un’utilizzazione dell’eredità classica da parte di Leopardi, e giustificare anche la libera funzionalità di testi, a volte solo parzialmente conosciuti alla fonte, ma attivi e reattivi grazie alla mediazione di tutta la tradizione umanistica. Purché si ricordi, s'intende, il generale rischio implicito in accostamenti che non abbiano la possibilità di verifiche sintagmatiche sui testi.

408

Dei rimandi concreti, delle rispondenze dirette, letterali, tra l’opera leopardiana e la filosofia stoica potremmo trovarle solo all’altezza del ’24°26 (per l’epistolario l’arco si dilata, almeno dal ’23 al ’27), in coincidenza con la lettura documentata e con la traduzione del Manuale e con la stesura delle Operette morali”* Non è un caso che il sintagma binario (esser

beato), posto alla conclusione del Coro dei morti, si ripeta antifrasticamente quasi in clausola al Preambolo del volgarizzatore (« Ora la noncu-

ranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici, viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice »), né forse che il topos della persecuzione dell’uomo, sia pur quieto, da parte della natura e degli uomini, di cui si varrà l’islandese nella sua accusa/invettiva, avesse avuto già in Epitteto un suo primo accenno: Qualora tu pigli a fare che sia, recati a mente la qualità di quella cotale operazione. Se tu vai, ponghiamo caso, al bagno a lavarti, recati al pensiero le cose che accaggiono nel bagno; la gente che ti spruzza, che ti sospinge, che ti rampogna, che ti ruba.” Sul problema dei rapporti di Leopardi col mondo antico mi sembra sia da sottolineare l’importanza attribuita da Leopardi al contenuto, al messaggio di verità trasmesso dai classici, oltre il « fenomeno estetico » indubbiamente rilevante, ma non esclusivo, come pare proporre invece M.A. Rigoni (Leopardi e l’estetizzazione dell’antico, « Paragone », ottobre 1976, pp. 70-103), in un saggio costruito nella radicale limitazione di ogni ‘ razionalismo ’ leopardiano. Il saggio di Rigoni prova come una parziale utilizzazione dello Zibaldone possa portare a un Leopardi irrazionale, pre-nietzscheano, modernamente esaltatore della sola sensibilità («T...] l’antichità è un mondo nel quale non le verità positive della ragione, ma l’immaginazione, il corpo, l’istinto, l’azione, la forza, la bellezza soltanto avevano valore » [ivi, p. 84]; «l'antico era per se stesso estraneo [...] alla categoria dello spirituale e del vero» [ivi, p. 87]; «nel tramonto della natura primitiva Leopardi rimpiange la perdita di un mondo che esisteva soltanto come forza estetica, fondato sulla pura materialità » [ibid.]. Per un’ampia e documentata analisi delle istanze ideologiche, politiche e civili implicite invece nella lettura e riscoperta dei classici in ambito neo-classico e più in generale nel primo Ottocento si veda piuttosto R. CarpINI, Ideologie letterarie dell'età napoleonica, Roma 1975. A parte la polemica intorno ai manifesti romantici, che indubbiamente interferì sul rapporto tra Leopardi e il mondo antico, non si deve scordare che Leopardi dovette risentire di quel nesso politica/cultura che era stato affrontato da autori a lui ben noti (si pensi a questo proposito, e funzionalmente al nostro tema, almeno all’importanza che la filosofia e la poesia greche avevano avuto nelle Lezioni di eloquenza del Monti). 74 Per ulteriori rimandi alle Operette morali cfr. il puntuale commento di Galimberti a G. Leopardi, Operette morali, Napoli 1977; e i saggi più volte citati di Timpanaro. Tra le Operette si vedano comunque, in particolare, il Dialogo di Malambruno e di Farfarello, il Dialogo della Natura e di un'Anima, Il Parini ovvero della gloria.

75 Ma ancora per qualche riferimento al Dialogo della Natura e di un Islandese cfr. nella Tavola di Cebete Tebano (tradotta dal Pagnini assieme al Manuale): « L’interpretazione di questa tavola dunque è simile agli enigmi della Sfinge? ». Non si dimentichi che nell’antica operetta la pittura raffigurava un recinto (la vita), nel quale gli uomini erano invitati ad

entrare, sottoposti poi a tentazioni molteplici. 76 Ma i rimandi sarebbero assai più numerosi. Si ricordi solo il filosofo Amelio, nell’Elogio degli uccelli, conformato alla filosofia stoica (cfr. per questo S. CAMPAILLA, La vocazione di Tristano, Bologna 1977).

71 Epitteto, Manuale,

in G. LeoparDI,

Tutte le opere cit, p. 494. Ma ancor

più si

409

Né ancora che le due voci attraverso le quali Leopardi esprimeva, nelle Operette morali, le ragioni di una dialettica socratica o pseudo-stoica (vista l’abitudine degli stoici, in particolare di Epitteto, di argomentare. soltanto), potessero in appunti dello Zibaldone significativamente vicini” venire concretizzate in un dialogo interno teso a dibattere le ragioni dell’apatia e a documentare, come per altro in tutte le Operezte morali, quello scontro che gli stoici pretendevano risolvere tra saggezza e dolore. Il tentativo di fermare con la ragione e con la filosofia l’infelicità, rendendo così più acuta, nuda, ironica l’analisi del reale, avrebbe ottenuto nelle Operette e nello Zibaldone quel « reale effetto » che il volgarizzatore aveva attribuito al Manuale (« Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto un’utilità

incredibile »), ipotizzando

l’attuazione

pratica

(« desidero

e

prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo massimamente ad esecuzione ») della distinzione tra opinioni e verità (« Per tanto a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi ad ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un’apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti che tu sai, e prima e massimamente come vedere se ella appartiene alle cose che sono in nostra facoltà o vero a quelle che non lo sono. Ed appartenendo a quelle che non sono, abbi apparecchiata in tuo cuore questa sentenza: ciò a me non rileva nulla »). Che è una prova di quanto l’arte di correggere la vita umana con la coscienza dei valori, con la distinzione tra moralità e dovere, potesse avere inciso su una struttura prosastica che con lo stile delle Operette andava proponendo, riproponendo anzi, a un’inqueta domanda esistenziale e alla convinzione, i contenuti del

Manuale di Epitteto entro le scelte suggerite per la propria filosofia pratica: Spesse volte in occasioni di miei dispiaceri, anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi di questa cosa? E l’esperienza avutane già più volte, mi sforzava a risponder di sì, che io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male come è grave, come è serio e vero? — Lasciamo star che nessun male è vero per se, poiché se uno non lo conosce o non se ne affligge, ei non è più male. Ma l’affliggertene può forse rimediarvi o diminuirlo? — No. — Il non affliggertene può forse nuocerti? — No certo. — E non è meglio assai per te il non pensarne, il non pigliarne dolore, che il pigliarlo? dovrebbero forse ricordare alcune sentenze di Epitteto tratte dallo Stobeo e tradotte ai primi dell'Ottocento dal Papi, assieme al Manuale (« Invitati ad un pranzo, noi ci serviamo di quel che abbiamo davanti, talché se uno chiedesse all’ospite che gli si arrecassero pesci o focacce O CORALE egli comparirebbe uno sfacciato: eppure noi chiediamo agli Dei le cose che non ci

danno »).

T8 Zibaldone, 21 settembre e 29 ottobre 1826.

410

— Meglio assai. - Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà ragionevolissimo.

E se egli è ragionevole, se utile, se tu lo puoi, perché non lo fai? che ti manca se non il volerlo? — Io vi giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente e avevano reale effetto, sicché io ricusando di affliggermi di una mia sventura, per notabile ch’ella fosse, non me ne affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai poco (Bologna, 21 settembre 1826). Spesse volte in occasioni di gran travaglio e afflizione d’animo, io mi sono consolato così. Ho dimandato a me stesso: Certo questa è una sventura grande: ma posso io non affliggermi di questa cosa? L’esperienza mia propria, di più altre volte, mi obbligava a risponder di sì, che io poteva: ma il non affliggersene sarebbe cosa irragionevole: la sventura è grande e vera. — Lasciamo star che sia vera: ma affliggendomene la posso io dissipare o scemare? — Nulla. — Non affliggendomene, crescerà ella punto, o me ne verrà punto di danno? — Punto. — Dunque come sarà irragionevole il non affliggermene? E se questo è ragionevole, se mi è utilissimo (il che è manifesto), se io lo posso, perché non lo vorrò? — Vi giuro che questo discorso era efficace; che la mia volontà si determinava secondo esso, ed otteneva il suo effetto: e che io mi consolava e non pativa. (Bologna, Domenica, 29 ottobre 1826).

3.

Nel preambolo premesso dal volgarizzatore alle Operette morali

di Isocrate (1826), Leopardi, nel rivendicare la necessità, l’opportunità italiana al tradurre, insisteva molto “ sullo stile delle traduzioni, sull’« eccel-

lenza di stile » da richiedersi, oltre alla fedeltà al testo; ® e tornando ancora dopo pochi mesi sulla traduzione, nel Discorso in proposito di una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone e volgarizzamento della medesima, sottolineava l’importanza pratica, morale, civile, educativa delle

buone traduzioni, capaci di evitare la noia, e in grado così di giovare ai costumi, alle opinioni, alla civiltà: E io poi sono di opinione che i libri degli antichi, Latini o Greci, non solo di altre materie, ma di filosofia, di morale, e di così fatti generi nei quali gli antichi ai moderni sono riputati valere come per nulla, se mediante buone traduzioni fossero più divulgati, e più nelle mani della comun gente, che essi non sono ora, e non furono in alcun tempo, potrebbero giovare ai costumi, alle opinioni, alla

79 Zibaldone

4201-4202.

80 Zibaldone

4225.

81 Ma è, quello del richiamo allo stile, un topos leopardiano; si vedano almeno il Discorso

sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone e la Lettera a Pietro Giordani sopra il Frontone del Mai. 82 « Certo, fuori della tedesca, niuna lingua moderna è più capace che la nostra di traduzioni perfette, o almeno eccellentissime, da qual si sia favella del mondo, ma dal latino e dal greco massimamente » (Preambolo del volgarizzatore alle Operette morali d’Isocrate, in G.

LeoparpI, Tutte le opere cit.).

411

civiltà dei popoli più assai che non si crede; e in parte, e per alcuni rispetti, più che i libri moderni.®

Né era questa un’attenzione recente. Già nel 1815-16, nel Discorso sopra Mosco, Leopardi, poco più che adolescente, aveva annotato alcune considerazioni generali sulle traduzioni, in particolare soffermandosi sui vari volgarizzamenti destinati nel tempo al poeta greco. Fra tutte le traduzioni, confrontate tra loro per appurarne la diversa funzionalità, aveva riservato un’attenzione particolare a quella del Pagnini che, pur sembrandogli pregevole per la resa metrica, gli appariva carente di dolcezza («i suoi versi alquanto duri ») e quindi in sostanza non adeguata allo stile del testo, e per i lettori noiosa. Dopo molti anni Leopardi avrebbe alluso ancora al Pagnini, in una lettera allo Stella del 27 novembre 1825, in cui chiedeva « licenza di terminare la traduzione del Manuale di Epitteto (strapazzatissimo dal Pagnini) »® Se si pensa a quanto fu cara a Leopardi la lettura e la traduzione del libretto * (basta ricordare, a parte le dichiara83 Cfr. Discorso in proposito di una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone (ivi, p. 510). 84 « Quella del P. Pagnini in isciolti merita più considerazione. Questo celebre traduttore ha conservato il gusto greco, ha dato una versione poetica e non una parafrasi, ha schivato l’affettazione, e ha scritti versi italiani e non barbari. Nondimeno una certa negligenza nel verseggiare, che rende di tratto in tratto i suoi versi alquanto duri, dispiace nella sua traduzione, e impedisce di gustare le bellezze dei componimenti che egli ha tradotto. Ogni piccolo neo è visibile in quelle poesie, tutto il pregio delle quali consiste nella grazia e nella delicatezza. Il lettore, che v’incontra di tratto in tratto dei difetti, comincia ad annoiarsi [...] Ho cercato di evitare con cura il difetto del P. Pagnini» (Discorso sopra Mosco, ivi, p. 413). 85 A Luigi Stella, Bologna; 27 novembre 1825. 8 Il volumetto fu tradotto a Bologna tra il novembre e il dicembre del ’25. La sua fortuna editoriale fu alterna: spesso annunziato imminente, fu confinato in realtà dallo Stella nel novero delle opere che non sarebbero uscite mai. Apparve postumo, dopo la morte dell’autore, nell’edizione delle Opere curata da Antonio Ranieri (Firenze, Le Monnier 1845). La storia dell’Epitteto leopardiano si può agevolmente ricostruire con il ricorso all’epistolario, in particolare alle lettere allo Stella, che per tutto il 26 documenteranno la preoccupazione leopardiana per la stampa sperata e ritenuta vicina (cfr. in particolare: A Luigi Stella, Bologna 6 gennaio 1826; Ad Antonio Fortunato Stella, Bologna 25 gennaio 1826 (« Epitteto (opera alla quale ho un affetto particolare) con prefazioni e giunte, e in una lettera annessa le spiegherò [...] l’uso ch’io bramerei che Ella ne facesse »); Di A. F. Stella, Milano 20 marzo 1826; Ad A.F. Stella, 26 marzo 1826 (sulla collezione dei moralisti greci); Ad A.F. Stella, Bologna 7 aprile 1826; Di A.F. Stella, Milano 19 aprile 1826; Di A. F. Stella, Milano 10 giugno 1826; Ad Antonio Papadopoli, Bologna 3 luglio 1826 (sulla posticipazione della stampa dei moralisti al Petrarca); Di A. F. Stella, Milano 5 luglio 1826; Di A. F. Stella, Milano 19 luglio 1826; Di A. F. Stella, Milano 29 novembre 1826 (sulla proposta di passaggio dei moralisti a Sonzogno); Ad A.F. Stella, Recanati 6 dicembre 1826; Di Stella, Milano 13 dicembre 1826 (ancora sulla cessione a Sonzogno). E si veda ancora nel ’27: A Carlo, Firenze 23 agosto 1827; Di Carlo, Recanati 25 agosto 1827; A Francesco Puccinotti, Pisa 9 dicembre 1827 (per il passaggio dell’Epitteto allo stampatore Mancini); Di Francesco Puccinotti, Macerata Natale 1827; Ad A.F. Stella, Pisa 28 gennaio 1828; Di Stella, Milano 1 febbraio 1828; Di Francesco Puccinotti, Macerata 1 giugno 1828 (sul fallimento dei contatti con Mancini per la resistenza alla cessione del

manoscritto da parte dello Stella); e ancora Ad A. F. Stella, Recanati 26 agosto 1829; Di A. F. Stella, Milano 30 gennaio 1830 (con allusioni alla « delicata domanda » circa l’Epitteto)

»

412

zioni esplicite del volgarizzatore, certi cenni nelle lettere allo Stella ®), non sarà priva di importanza la notazione assai severa avanzata a quella traduzione, specie se si tiene presente che l’Epitteto, assai più di qualsiasi altra opera tradotta da Leopardi, pareva nascere dal e col proposito di verificare una coincidenza personale e di raggiungere su quella un pubblico da muovere e convincere all’esecuzione. Il preambolo stesso al volgarizzamento, a differenza di quelli coevi, non poneva esplicitamente questioni di stile (scontate e insite nell’atto stesso del tradurre) ma puntava piuttosto al messaggio, a una considerazione sulle ragioni dello stoicismo, sulla stessa ragion d’essere, per l’autore e per il pubblico, del Manuale. In questo caso più che in altri allora una critica alla traduzione dovrà intendersi critica alla reale capacità di penetrazione del testo, al freno opposto a una sua corretta lettura. Per accertare (pur con ogni beneficio d’ipotesi) quali potessero apparire a Leopardi i limiti maggiori dello strapazzatissimo Epitteto pagniniano,* converrà un precedente regesto della fortuna del Manuale presso i volgarizzatori del tempo dei quali Leopardi poteva avere notizie in particolare il Salvini” e il Papi! Anche limitandosi soltanto a un’analisi dello stile nel suo complesso, prescindendo quindi dalla discussione sulla Ad A.F. Stella, Recanati 17 febbraio 1830 (con un’ulteriore raccomandazione per la stampa); Di Stella, Milano 21 agosto 1830 (con menzione di bozze vicine); Ad A.F. Stella, Firenze 2 settembre 1830 (con la richiesta della restituzione, a cui lo Stella aderirà nella lettera succes-

siva); Di Stella, Milano 22 settembre

1830. E si sono citate solo le lettere non

utilizzate

altrove in queste note. (Si ricordi, a chiudere il problema Epitteto, la lettera a Luigi De Sinner del 2 marzo 1837).

87 Si veda la lettera allo Stella del 18 dicembre 1825: « Profitterd della licenza che mi dà il signor Padre di ritenere ancora qualche altro poco l’Epitteto, per rivederlo bene a testa raffreddata, e forse anche aggiungervi qualche cenno originale ecc. ». 88 Il Manuale di Epitteto, volgarizzato da Eritisco Pilenejo fu pubblicato a Parma, Bodoni 1793 e ristampato poi a Pavia, Comino 1795. 89 Ma giova ricordare che il Manuale ebbe una prima versione latina in età umanistica ad opera del Poliziano (Bologna, Bersaldo 1497) e che le Diafribe furono eccellentemente tradotte da Vittorio Alfieri. 9 Le traduzioni dal greco del Salvini dovevano essere particolarmente diffuse, perché incluse nelle edizioni degli stessi Discorsi accademici (cfr. Anton Maria Salvini, Discorsi accademici con alcune sue traduzioni dal greco, Firenze, Matmi

1733). E per la sicura conoscenza

della versione Salvini, così come per un'ipotesi critica che certo doveva trovare consenziente il Leopardi, si veda una lettera di Antonio Papadopoli (Napoli, febbraio 1826): «A questi dì ho riletto il Manuale d’Epitteto del Salvini e parvemi che quel filosofo avesse bisogno di essere ritradotto, perché lo stile del bravo canonico a quando a quando ha difetto di nervi, e assai volte è rattratto ». 91 La prima edizione del Manuale con la traduzione del Papi era apparsa nel 1812, assieme alla Tavola di Cebete tradotta da Cesare Lucchesini (Lucca, Bertini 1812). Questa versione era stata ai suoi tempi considerata « eccellente per l’inerenza al testo, e per l’eleganza dello stile » (cfr. Fortunato Federici, Degli scrittori greci e delle italiane versioni delle loro opere, Padova, Minerva 1828). All’inizio dell'Ottocento anche il Giovio aveva fornito una versione di Epitteto (cfr. Giovanbattista Giovio, Nuovo Manuale di Epitteto colla di lui vita, Como 1804).

413

correttezza delle traduzioni e sulla loro fedeltà all’originale,” appare evidente, pur su minime campionature, come la versione del Salvini” in una sintassi talvolta ardua, contorta, sia brusca e veloce nei confronti di quella

leopardiana, che parrà seguire nella lentezza discorsiva il pathos della vita e dei beni concessi e bruscamente sottratti; come quella del Papi, in uno stile secco, essenziale, tagli anch’essa (se confrontata con l’Epitteto leopardiano) lo spazio narrativo, l'ampliamento del discorso concesso a una sensibilità più acuta (si notino i vezzeggiativi leopardiani), e alla necessità di uno stile moderno.* Né cambiano sostanzialmente i rilievi quando si passi a un confronto diretto delle versioni Pagnini-Leopardi, che là dove l’arcade Eritisco Pilenejo, in una maggiore rigidezza e fedeltà al testo, non farà registrare alcun mutamento visibile di stile o misura, Leopardi pare invece adattarsi al contenuto del testo, passando indifferentemente da modi più tecnici (certo linguaggio della filosofia: l’ ‘ appetizione’ in luogo del ‘ desiderio ?) a toni più colloquiali, distesi, affettivi.® Il lessico del2 Per questo si auspica l’intervento di grecisti. 93 Si vedano due brani, rispettivamente tradotti dal Salvini e da Leopardi: « Siccome nel viaggio di mare, fermata la nave, se tu uscirai a far acqua; di passaggio anche, e per un di più, raccorrai una chioccioletta, o un cipollino; bisogna però sempre tener teso il pensiero alla nave, e continuamente voltarsi per vedere se il piloto chiama; e allora tutte queste cose lasciare ire, acciocché non sii legato gittato fuori, come le pecore. Così nel mondo, se ti è stato dato in vece d’un cipollino, e d’una chioccioletta, una donnetta, e un bambinetto, niente ti fia d’impaccio; ma se il piloto chiama, corri alla nave, lasciando andare tutto, niente rivoltandoti; e se sarai vecchio, non ti allungar giammai dalla nave troppo, affinché chiamato non manchi » (A. M. SaLvini, Manuale di Epitteto, in Discorsi accademici cit., p. 162); « Siccome in una navigazione, poiché il legno ha dato in terra a qualche porto, se tu esci del legno per fare acqua, tu puoi bene ancora venir cogliendo per via qua una chiocciolina, là una radicetta, ma egli ti conviene però aver sempre il pensiero alla nave, e voltarti spesso, per intendere se il piloto ti chiama, e chiamandoti, lasciare tutte quelle cose, per non avere a esset cacciato dentro legato come si fa delle pecore; così nella vita, se in cambio di radicette o di chioccioline ti si porgerà una donnicciuola o un putto, niente vieta che tu non lo debba pigliare e godertelo. Ma se il piloto ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lascia stare ogni cosa. E se tu sarai vecchio, non ti dilungherai dal legno gran tratto, per non avere a mancare quando il piloto ti chiami » (Manuale cit., p. 494). % Si confrontino dei passi della traduzione del Papi con quella del Leopardi: «Se vezzeggi il figliuoletto o la moglie, dì: io vezzeggio un essere mortale; e così per la morte loro non ti conturberai » (Il Manuale d’Epitteto, trad. da L. Papi, Lucca, Bertini 1822, p. 16), « Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbi perciò a turbartene » (Manuale cit., p. 494); e ancora: « Recati a mente che se’ attore d’un dramma qual’è piaciuto al poeta. Se esso è breve, breve è la tua parte; se lungo, lunga » (Papi), « Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta » (Leopardi); « E avverti che se in ciò persevererai, coloro che dianzi ti deridevano, poscia t'ammireranno; dove se ti lasci smuovere, ne verrai doppiamente schernito » (Papi), «E sappi che se tu durerai nel tenore di vita incominciato, quei medesimi che a principio si avranno preso giuoco di te, in progresso di tempo cangiati ti ammireranno; laddove se per li motteggi ti perderai d’animo, tu ne guadagnerai le beffe e le risa doppie » (Leopardi). 9 Si confrontino adesso alcuni brani dell’edizione Pagnini con quella del Leopardi: « [...] pensa che tu non dei al loro possesso determinarti con moto lento e rimesso » (Pa-

414

l’Epitteto leopardiano, pur legato e ancorato alle ragioni di un libro preesistente (rispettato anche nella sua antica misura), risente insomma e re-

gistra quel particolare lessico che sarebbe stato peculiare delle Operette morali,* caratterizzato nel suo complesso dalla possibilità di spostamenti di tono, dalla mescolanza significativa di arcaismi e loquela quotidiana (a livello sintagmatico e sintattico), dalla ricerca della chiarezza, del gusto e dell’eufonia.” Ragioni di stile insomma, soprattutto, quelle stesse che avevano mosso le prime accuse alla traduzione di Mosco, quelle anche che avevano guidato le riserve di Papadopoli alla versione Salvini, erano alla base della violenta censura leopardiana (« strapazzatissimo dal Pagnini »);

gnini), « [...] sappi che a ciò si chiede sforzo e concitazione d’animo non mediocre » (Leopardi); « Sovvengati, che l’intento del desiderio è l’asseguire ciò che tu brami, l'intento dell’avversione il non cadere in ciò che tu schivi» (Pagnini), « Sovvengati che l’intento dell’appetizione si è il conseguire ciò che ella appetisce, e l’intento dell’avversione il non incorrere in ciò che ella fugge» (Leopardi); «sarai sciagurato » (Pagnini), « avrai cattiva fortuna » (Leopardi); « À ciascuna di quelle cose che danno diletto od utile, o son da te amate, ti sovvenga di dire: Che cosa è questa? incominciando dalle meno importanti » (Pagnini), « Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcuno uso, incominciando dalle più piccole » (Leopardi); « Se accarezzi un tuo figlioletto o la moglie: Io accarrezzo un mortale. E perciò se ti muore, non ne sarai sturbato » (Pagnini), « Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso; io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino tu non abbi petciò a turbarti » (Leopardi); « Non son le cose, che disturbano gli uomini; ma sì bene le opinioni che se ne formano » (Pagnini), « Gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni ch’essi hanno delle cose » (Leopardi). % Ma a questo proposito si vedano studi specifici sulle tecniche di rallentamento, sui prolungamenti ottenuti con il ricorso a particelle e avverbi, sulla qualità del moderato arcaismo

delle Operette nel loro complesso (cfr. E. Bici, Tono e tecnica delle Operette morali, in Dal Petrarca al Leopardi, Milano 1956, pp. 111-142). 9 A questo proposito, per un’analisi complessiva del lessico delle Operette, si veda L. Ricci BATTAGLIA, Sul lessico delle Operette morali, « Giornale storico della letteratura italiana », 1972, 466/467, pp. 269-323. %8 Sempre sulle basi del « puro e buono italiano » Leopardi avrebbe commentato il progetto di una sua traduzione a Teofrasto: «[...] edizioncina elegante dei Caratteri di Teofrasto tradotti dal greco in puro e buono italiano. Il libro è affatto del gusto del tempo presente, e sconosciuto, si può dire, alla lingua italiana, la quale non ne ha, ch'io sappia, altra traduzione che quella sciocchissima di Costantini » (A Giuseppe Melchiorri, 22 dicembre 1824). Proprio per l’impossibilità di tradurre bene, in mancanza di una buona copia del testo originale di Teofrasto, Leopardi avrebbe rinunciato al progetto di volgarizzamento (cfr. una lettera al Melchiorri del 29 febbraio del 1825). Ma si veda ancora, sui propositi di « bello stile » e di chiarezza, una lettera a Carlo Antici del 15 gennaio 1825 (« Io vengo presentemente ingannando il tempo e la noia con una traduzione di operette morali scelta da autori greci dei più classici, fatta in un italiano che spero non pecchi d’impurità né di oscurità ») a cui l’Antici avrebbe risposto (il 23 dello stesso mese) approvando il progetto del nipote, con una sola eccezione sollevata al « sozzo gregge di Epicuro ». Per l’influenza che Carlo Antici dovette avere sulle scelte e la formazione culturale di Giacomo cfr. F. MoroncinI, Discorso proemiale, in G. LeoparpI, Opere minori approvate. I. Poesie, ed. critica di F. Moroncini, Bologna 1931 e M. Corti, Introduzione a G. LeoPARDI, « Entro dipinta gabbia ». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810, a cura di M. Corti, Milano 1972.

415

una censura che però, da stilistica,” si faceva subito ideologica, se lo stile era destinato a incidere sulla lettura, sull’uso.

La ‘ passione ” che Leopardi nutriva per il Manuale è da misurare d’altronde, oltre che sull’adesione alla filosofia stoica, sullo stile in cui gli era riuscito renderla conforme alla sua riflessione pratica, soprattutto forse

su quella capacità di unire in un linguaggio, senza precise regole arcaico e moderno, la spietata analisi del vero e la vibrazione interna per il mondo negato. Era stata questa cura finale dello stile probabilmente quella che lo aveva fatto alzare da letto, nel febbraio del ’26,'" e che aveva guidato la logica delle varianti d’autore: varianti alla traduzione a cui difficilmente si potrebbe trovare una spiegazione (nel privilegio alternativamente accordato ora alle forme più paludate e colte, ora a quelle più familiari, discorsive) se non all’interno di una complessiva ricerca di tono, di ritmo," che era destinata a mettere in luce !* e a rendere fruttuose, per il passato così come per il presente, le lucide analisi di Epitteto e la sua capacità di restringere a niente il potere dell’uomo e la sua possibilità di vita e di felicità. L'adesione leopardiana sarebbe stata destinata, in questo senso, a fer9 Il « miglior italiano » possibile era stato 4 priori l’obiettivo della progettata collana di volgarizzamenti; si veda la prima lettera allo Stella, dopo il viaggio milanese (e la necessità di guadagnare con lavori anche di proprio gradimento l’emolumento mensile assegnato dall’editore): « Amerebbe Ella che io mi occupassi di una collezione di operette morali di vari autori greci, volgarizzate nel migliore italiano che io sappia fare? Avrei già in pronto il primo tometto, se non che bisognerebbe copiarlo. In questa collezione potrebbero aver luogo i Caratteri di Teofrasto, i Pensieri di M. Aurelio, e soprattutto i Pensieri di Platone » (Ad A. F. Stella, 21 ottobre 1825). 10 Cfr. la lettera ad Antonio Papadopoli (Bologna 16 gennaio 1826): «[...] dopo la tua partenza, tradussi in un mezzo mese il Manuale di Epitteto, e questo lavoruccio mi venne in modo, che io ti confesso di avergli un affetto particolare », e quella a Carlo Bunsen (Bologna 1° febbraio 1826): «[...] Manuale d’Epitteto [...] tradotto da me ultimamente con tutto l’amore e lo studio possibile. Vi ho premesso un brevissimo preambolo sopra la filosofia stoica, che io mi trovo avere abbracciato naturalmente, e che mi riesce utilissima ». 101 Cfr. la lettera ad A.F. Stella (4 febbraio 1826): «[...] il ms. dell’Epitteto, che ho ben riveduto e corretto, alzandomi a bella posta da letto. Confesso che ne sono stato soddisfatto assai: almeno è certo che io non saprei far di meglio ». Nella stessa lettera, significativamente, Leopardi progettava un’edizioncina elegante, « la quale crederei che non dovesse avere cattivo incontro ». 12 Molte delle varianti obbediscono a ragioni complessive di ritmo; si pensi a « potere nostro », all’inizio del testo, mutato più sotto, per necessità di diversificazione, in « nostro potere ». (Cfr. G. LeoPARDI, Opere minori approvate cit. II. Prose, Bologna 1931). 18 Le varianti al testo del Manuale (e si offre qui soltanto qualche esempio) si possono raggruppare secondo dei criteri comuni che gradualmente le informano (anche se è il caso di sottolineare, come si diceva, la mancanza di una direzione univoca complessiva, e la presenza piuttosto, nella pluralità delle soluzioni proposte, di preminenti ragioni di stile). Tra le varianti introdotte per evitare ripetizioni potremmo segnalare i mutamenti di prendine in pigliane (521, 15-17, e la numerazione rimanda a quella del Moroncini, con l’indicazione della pagina e delle righe del testo a cui si riferisce), prenderesti in piglieresti e poi ancora in prenderesti (522, 18-19), di fuori in esterne (529, 25), esterne in estrinseche (529, 27); tra quelle che obbediscono a criteri di modernizzazione semantica la correzione di mondezza in mondizia

416

marsi sulle proposizioni morali pratiche, sulle sentenze verissime !* che dovevano condurre a uno stato di vita conforme a ragione, ma, s’intende, non per il raggiungimento di quella felicità negata dalla natura e dal fato,

ma per un so da misurare e ribadire cautamente giorno per giorno:

Sempre pertanto ch’ei desidera, egli è necessariamente infelice, perciò appunto ch’ei desidera inutilmente, esclusa anche ogni altra cagione d’infelicità;

giacché un desiderio non soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d’infelicità. E tanto più infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v’è dunque pel vivente altra felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d’infelicità; 19 In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qua-

lunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso (Può servire al Manuale di filosofia pratica) (30 marzo 1827); !% E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell’impeto, e cominciata la freddezza, e ridotto l’uomo a curarsi poco e a disperare ormai del piacere (30 marzo 1827); !” Riconosciuta l'impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l’infelicità (530, 16), di istrettezza in strettezza; tra quelle che ancor più tendono a rendere familiare il discorso, sopprimendo o attenuando gli arcaismi (cfr. 517, 12-13; 518, 3-4; 518, 20-22; 519, 23-26; 519, 31; 520, 29-30; 521, 23-24; 522, 2-3; 524, 12), la sostituzione di #iuno in nessuno (517, 17-18), di ella in essa (522, 15-16), di arco in però (523, 9), di tenerloti in goderteli (520, 22), di eco medesimo, stesso in fra te medesimo (525, 1), di 4 paro in del pari (526, 14), tè a proposito in fa per te (526, 27), a niuna di quelle in punto alle (527, 19), alludere a in pigliare la (528, 16), dipartirti in separarti (528, 22), conforme alle in secondo le (530, 15), posto a morte in messo a morte (531, 17-18); tra quelle che diversamente cercano di rendere più aulico e più antico il linguaggio, la sostituzione di #alattie con morbi (518, 24), tu non avrai con non ti si appartiene (518, 33-34), mi accade con m'interviene bene con pregio (520, 7), ricordati con considera (526, 9), anco con eziandio

(519, 26), (524, 34),

esterne con estrinseche (523, 3), modi di con maniera (536, 5), prima con innanzi (536, 21), cose di fuori con esterne e poi estrinseche (537, 19); tra quelle che per la vicinanza di collocazione provano la decisa volontà di mistione di due livelli stilistici: 4 niuna di quelle cose mutato in punto alle cose, poi nascendoti in in progresso nascendoti, voglia in desideri (539, 20-21), si vuol in si dee (539, 32), è conoscitore in ha il conoscimento (540, 10). 10 In questa direzione si potrebbe forse risolvere il dissidio tra morale eroica e morale stoica che, avviato in qualche modo dal De Sanctis con grande acutezza (F. DE Sancris, La morale di Leopardi, in Storia della letteratura italiana nel secolo XIX. Leopardi, Milano 1964) è stato poi puntualizzato da Luporini (C. Lurorini, Leopardi progressivo, Roma 1980). Ferma restando cioè la considerazione finale (che nel consenso

di tutti gli interpreti moderni

- Luporini, Timpanaro, Binni — vede inevitabile la sostituzione della morale stoica, col passare degli anni), sarà il caso di sottolineare più di quanto non sia stato fatto finora il ruolo attivo, e non marginale (non relegabile alla sola riflessione privata) svolto dallo stoicismo, dal Manuale

di Epitteto in particolare, sul pensiero leopardiano. 105 Zibaldone 3841. 106 Zibaldone

4266.

107 Zibaldone

4266-4267.

417 27

dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità [...] consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza [...] Gli stati di animo meno sviluppato [...] sono i meno sensibili, e

quindi i meno infelici degli stati umani.!®

mentre la contraddizione implicita al sistema, tra logico e sensibile, tra verità della ragione e affermazioni della coscienza,'” che doveva trovare nel ’27 la forza per palesarsi esplicitamente di nuovo, sarebbe rimasta, sia pur disperatamente celata, vitale !!° nella conformazione totale, sulla pratica dell’esperienza, del proprio manuale di vita (non di scrittura) a quello,

specularmente riflessovi, della ferma sapienza stoica: Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell’assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio in Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una rasse-

gnazione d’animo, una certa quiete dell’animo nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll’abitudine del sopportare un travaglio o una noia.!

4. Scrivendo a Giacomo, che aveva da poco compiuto l’Epitteto, Carlo Antici, informato da amici di una nuova raccolta leopardiana, richiamava il nipote a quei moniti più volte avanzati nelle lettere del ’25,1!° 108 Zibaldone 4186.

19 Ma per questo si veda il capitolo dedicato a Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, in A. Dotrr, Leopardi tra negazione e utopia cit. 110 Si veda Zibaldone 4185-4186, schedato da Leopardi, nell’Indice del mio Zibaldone: « Come si concilii, nel mio sistema sulla felicità, il lodar la vita, l’attività ecc. e dall’altra parte

l’insensibilità, il torpore ecc. ». 111 Zibaldone 4239-4240. 112 Si vedano di Carlo Antici le lettere del 21 luglio 1825 (« Mi disse conoscendo quanto il Segretario di Stato ami le lettere, voleva per dargli un talenti passargli l’esemplare delle vostre vaghissime Canzoni, il di cui merito dubbio eminente. Ma che se ne è astenuto, perché senza dubbio i principj

De Bunsen che saggio dei vostri poetico è senza ivi esposti sono a contrario senso dei principj di governo, e al segno, che si meravigliava come ne fosse stata permessa la stampa ») e del 14 agosto 1825 (« Quella lettera sulle parole di Bruto — quella canzone sull’opera scoperta dal Mai — quel compianto sulle sparite Deità pagane — quei tanti e tanti pensieri sparsi con tanta bella poesia, e con tanta poca saviezza in quel volumetto, vi fanno comparite quello che non siete »). i

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soprattutto ripetendo la sua preoccupazione per le liriche e il discorso intorno a Bruto:'" Sento che per cura di vostri amici si raccoglieranno in due volumi i migliori

dei vostri letterati prodotti. Me ne compiaccio di cuore, ma vorrei che in questa ristampa vi ricordaste delle mie candide osservazioni

sulle vostre liriche, e sul

discorso intorno a Bruto. Poco sforzo vi costerà di dare alle une e all’altro uno scopo morale, facendo vedere colle prime che la nostra abiezione nasce dalla irreligione; e che il rimprovero di Bruto alla virtù nacque dall’essere egli l’allievo soltanto dell’orgogliosa Stoa, non del divino Vangelo. Su questo grave argomento vi scongiuro di leggere subito l’insigne opera del Conte Maistre, Les soirées de St. Petersbourgh [...] Dopo questa lettura vi scongiuro di leggere l’incomparabile trattato di La Mennais, Sur l’Indifférence en matière de Religion."

In particolare la sua apprensione per la fama di Giacomo a Roma, negli ambienti ecclesiastici, gli faceva ricordare ancora una volta quanto la figura di Bruto fosse contraria al « divino Vangelo », come il colpevole comportamento dell’eroe romano fosse stato determinato dall’« essere egli allievo soltanto dell’orgogliosa Stoa ». Per tutta risposta, mentre ribadiva la sua adesione allo stoicismo,* Leopardi, appena quindici giorni dopo (la lettera di Carlo Antici era del 18 gennaio 1826), scriveva allo Stella (da

Bologna, il 4 febbraio 1826) per proporgli, accanto alla traduzione del Manuale di Epitteto ! la pubblicazione della Comparazione delle sentenze di Bruto e Teofrasto vicini a morte; !!" e all’editore, che gli obiettava possibili difficoltà della censura,"* allegava incurante la Comparazione, predisponendo già il frontespizio !’ e sottolineando il filosofico preambolo allo 113 La scelta leopardiana di Bruto obbediva in realtà a un’elezione presente quasi fin dall’infanzia. Si vedano, per alcune incidenze della poesia giovanile sul Bruto minore, il Catone in Africa (in particolare là dove si descrive il campo di Farsaglia e la morte di Catone) e il sonetto La morte di Cesare (ove appare « Di Bruto la sdegnosa ombra, feroce »). 114 Di Carlo Antici, Roma 18 gennaio 1826. 115 Cfr. la lettera a Carlo Bunsen del 1 febbraio 1826: « Vi ho premesso un brevissimo preambolo sopra la filosofia stoica, che io mi trovo avere abbracciato naturalmente, e che mi riesce utilissima ». 116 La proposta è tanto più importante quanto più vicina alla data della traduzione. 117 « Se mai per accrescere il volume dell’Epitteto, ella volesse aggiungervi la mia Coparazione delle sentenze di Bruto e di Teofrasto (cosa che ha relazione colla filosofia stoica, e che in Lombardia non ha potuto esser conosciuta), ella me lo indichi, e nel riveder le prove di stampa, io vi farò quei miglioramenti che tengo già preparati per una seconda edizione » (Ad A.F. Stella, Bologna, 4 febbraio 1826). 118 Cfr. Di A.F. Stella, Milano 15 febbraio 1826 (« Non vorrei che la Comparazione delle sentenze di Bruto e di Teofrasto incontrasse qualche ostacolo alla Censura, e per ciò ne parlerò prima a uno dei Censori »). 119 Ad A.F. Stella, Bologna 22 febbraio 1826 (« Consegno al signor Moratti una copia

della Comparazione delle sentenze di Bruto e Teofrasto, corretta. Non ci trovo cosa che mi

paia dover dispiacere a cotesta Censura, e però crederei che passasse.

In caso che ella voglia

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stesso Manuale. La proposta d’accostamento dell’Epitteto a Bruto e Teofrasto 2! non era casuale, ché un’analoga componente di virile eroismo — quale quella affidata per comune sentenza a Bruto — doveva circolare anche nella radicale e decisa convinzione stoica, mediata da Epitteto, che non mancava di fargli dichiarare contro l’opinione del secolo, il disprezzo per la vita e la riduzione dei desideri e delle cose a nulla: Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l’esistenza!

Né doveva mancare la desolata analisi del reale, di qualche possibile cenno ! alla ribellione di Bruto, sia pur sopita, dopo l’adesione giovanile/* nello scetticismo, nell’impossibilità (la «tracia polve », l’« atra notte », l’« amaro ferro », i « nudi sassi »), se Carlo Antici, replicando a effettivamente unirla al Manuale ecc., il frontespizio dovrebb’essere concepito in questa forma: Manuale di Epitteto / ec. / Volgarizzamenti / del con / ec. / con un discorso filosofico / dello stesso »). 120 Cfr. ivi (« Ho fatto all’Isocrate un preambolo sull’andare di quello del Manuale, ma . più lungo, e di genere non filosofico ma letterario, per variare »). Lo Stella avrebbe comunicato in data 22 marzo 1826 che non c'erano stati ostacoli da parte della censura e che pertanto avrebbe provveduto alla composizione dell’opera per la stampa (« Al Manuale di Epitteto vi ho aggiunto anche la Comparazione. Ora veda se l’incluso frontespizio correrà bene »: Di A.F. Stella, Milano 1° aprile 1826). 121 Cfr. la lettera a Melchiorre Missirini, Recanati 15 gennaio 1825. 12 A Giampietro Vieusseux, Bologna 4 marzo 1826. 13 Sulla persistenza dell’ombra di Bruto nel pensiero di Leopardi, in particolare per la Comparazione intesa come momento di raccordo tra il Bruto minore e la lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, come swwma filosofica leopardiana, cfr. M. MarcazzAN, Leopardi e l'ombra di Bruto, in Nostro Ottocento, Brescia 1955, pp. 189-292. 14 Già si è detto del sonetto Morte di Cesare, ma si vedano anche i Disegni letterari (« A Bruto come sopra, e notando e compiangendo l’abiura da lui fatta della virtù »), l’immagine di Bruto nel III canto dell’Appressazzento della morte, e l’identificazione col proprio stato suggerita nella lettera a Pietro Giordani (Recanati 26 aprile 1819): « Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand’io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e a noi recare in favor suo ». Si veda ancora la figura di Bruto evocata nell’Orazione agli italiani in occasione della liberazione del Piceno, e posta tra i Disegni letterari come argomento di un libro politico («Di quella famosa esclamazione di Bruto vicino a morte») e poi di nuovo riproposta: «A Virginia Romana Canzone dove si finga di vedere in sogno l'ombra di Lei, e di parlargli teneramente tanto sul suo fatto quanto sui mali presenti d’Italia. Parimenti se ne potrebbe far una. / A Bruto come sopra, e notando e compiangendo l’abiura da lui fatta della virtù. Così anche a qualche altro fautore della antica libertà ».

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una lettera intermedia leopardiana andata smarrita, sottolineava il tono arido e tetro della risposta (« La vostra risposta del 29 Gennaio, arida e tetra, sembra dettata ancora dalla risoluzione di sfuggire il punto principale della mia proposta sull’impiego veramente proficuo e glorioso delle vostre classiche cognizioni [...] Se il vostro ingegno, se la vostra erudizione, se la vostra vasta cognizione delle lingue antiche e moderne non

vi condurranno che all’ellenismo, alla filologia, ai voli poetici, voi fabbricherete sull’arena » ©); se ancora in una lettera ulteriore l’insistenza dello zio sulle letture di Lamennais e De Maistre (alle quali, in una lettera an-

cora mancante, Leopardi non doveva aver dato risposta) sarebbe stata mitigata, dinanzi alla risolutezza di Giacomo, dal tentativo di pacificazione: l’invito a fargli giungere appena possibile, a mo’ di gloria domestica, il « vostro Canzoniere, ed il vostro Epitteto ».!% Il Manuale di fatto più che una traduzione doveva e poteva apparire implicitamente anche una risposta a quegli interrogativi di Bruto formulati nel 1821 (« Men duro è il male / Che riparo non ha? dolor non sente / Chi di speranza è nudo? »), una conferma alla desolata considerazione sulla fine delle illusioni (la fine della virtù, e quindi, stoicamente parlando, della felicità: « stolta virtù », « prole infelice »), sulla crudeltà

del fato, sulla necessità per gli uomini di conformarvisi (« Preme il destino invitto e la ferrata / Necessità gl’infermi / Schiavi di morte »), sia

pur col ricorso alla ribellione estrema, e poco epittetica (« Guerra mortale, eterna, o fato indegno, / Teco il prode guerreggia »), di un suicidio appassionato (« amaro ferro intride », « maligno alle nere ombre sotride »). L’Epitteto (a suo modo) poteva apparire, e forse era, per Leopardi, l’anello

conclusivo di quella catena che secondo la Comparazione aveva portato Teofrasto all’analisi della nullità («la vanità della vita e della sapienza medesima ») col massimo della sapienza,” là dove Bruto aveva usato invece l’intuizione, il massimo della passione.'* Ma mutati i tempi, già a Leopardi erano parse inevitabili (nell’analogia ‘°). le risposte distinte: 125 Di Carlo Antici, Roma 19 febbraio 1826. 126 Di Carlo Antici, Roma 4 marzo 1826 e ancora 13 marzo e 18 aprile 1826. 127 Sull’alternativa incidenza di Epitteto e Teofrasto cfr. S. TimPANARO, Alcune osserva zioni sul pensiero di Leopardi, in Classicismo e illuminismo cit. Timpanaro insiste sull’influenza della morale epittetica negli anni dal 1824 al ’26-’27, contrassegnati da una « fondamentale apoliticità ». Cfr. anche, per l’identificazione degli anni delle Operette con il periodo della rassegnazione filosofica, dell'adattamento alla realtà, S. TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi cit. (« due facce del suo pessimismo, la rassegnata e la combattiva, si alternarono sempre in lui, l’una evocando incessantemente l’altra, ma certo la prima prevalse in questi anni dal ’24 al ’26 relativamente tranquilli », ivî, p. 110). Sostanzialmente concorde con la posizione di Timpanaro è W. Binni, in La protesta di Leopardi cit. 18 Su Bruto e sul titanismo leopardiano cfr. U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Firenze 1957, Roma 19802. 19 « Laddove le soprascritte parole di Bruto s’hanno tutto giorno, si può dire, fra le

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quella di Teofrasto, che vivendo in un periodo ancora propizio o comunque in momenti « non ripugnanti a quei sogni e a quei fantasmi che gover-

narono i pensieri e gli atti degli antichi » aveva potuto lasciare testimonianza composta del sentimento « doloroso e profondo » che l’animava, e amando la gloria aveva potuto dichiarare l’inutilità delle fatiche umane spese per ricercarla, notando la poca proporzione « che passa tra la virtù e la felicità della vita »; * e quella di Bruto, che vivendo invece « l’ultima età dell’immaginazione, prevalendo finalmente la scienza e l’esperienza del vero », non aveva potuto esimersi dal bestemmiare quella virtù, quella felicità che l’età moderna avrebbe affidato sempre più alla fortuna anziché al valore. A questo dittico esemplare, mutati ancora i tempi !* nella rivelazione che ne dava l’attenta osservazione di sé,'* l’Epitteto, teo-

rizzato nel preambolo del volgarizzatore, poteva aggiungere una terza voce in qualche modo finale e mediana: ammesso che « tutto il bello, il piacevole e grande è falsità e nulla », i caratteri epittetici, sulla scorta della personale esperienza, avrebbero offerto l’immagine di un Bruto che con la saggezza di Teofrasto avrebbe cercato di mitigare l’eccesso umano, tentando di spengere in sé la passione per non arrivare a bestemmiare pet mani; quelle che raffigurerd di Teofrasto moribondo non credo che uscissero mai dalle scritture degli eruditi [...] non ostante [...] che abbiano molta corrispondenza col detto di Bruto sì per l’occasione in cui furono pronunziate, e sì per la sostanza loro » (Comparazione delle sentenze di Bruto e Teofrasto). Sul legame tra la Comparazione e le Operette cfr. O. BESOMI, Tra preistoria e cronaca delle Operette morali, in G. LeoPARDI, Operette morali, a cura di O. Besomi, Milano 1979. Si veda anche G. BerARDI, Ragione e stile in Leopardi, « Belfagor », 1963, 18. 130 Il problema, insolubile, del contrasto tra virtù e felicità sarebbe stato tra i più assillanti della giovinezza leopardiana (cfr. Nelle nozze della sorella Paolina e tutte le canzoni civili). 131 « [...] voce più lacrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, più vera » (Comparazione

cit.).

132 « Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andare dei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s'è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l'avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatti com’erano a credere, secondo l’insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro che alla miseria, queste sì fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, non si trova che intervenissero se non di rado; e però, quando si trova, è ragione che il filosofo le consideri attentamente » (Comparazione cit.). 153 Cfr. «Ora un animo capace di molte conformazioni, cioè molto delicato e vivo, non può far che non senta la nudità e l’infelicità irreparabile della vita e non inclini alla tristezza, quando i molti studi l’abbiano assuefatto a meditare »; « Perciocché le qualità morali come anche gli affetti degli uomini, volendoli rappresentare al vivo, non tanto si possono ricavare dall’osservazione materiale de’ fatti e delle maniere altrui, quanto dall’animo proprio, eziandio quando sono disparatissimi dagli abiti dello scrittore » (Comparazione cit.)

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troppo amore la virtù (conservata infatti nei limiti, nel Manuale, quale

ultimo residuo bene lasciato dal ridimensionamento di una astratta felicità, non concessa agli umani). La vicinanza della Comparazione all’Epitteto suggerita da Leopardi poteva consentite, un po’ più del dovuto, di fondere il Bruto giovanile col preambolo al volgarizzamento, facendo del Manuale, quale nuda descrizione di uno stato di tempi bui, la terza sentenza (dopo le due esperite nella Comparazione) di un Leopardi/Epitteto vicini a morte. Che i pericoli interpretativi stessero per altro nelle premesse atte a orientarli — che si sarebbero acuite con l’avvicinamento al Manuale del Bruto e Teofrasto — anziché nella traduzione vera e propria, lo provano le stesse correzioni apportate dalla censura. Le varianti censorie sono scarse sulla traduzione, e esclusivamente moralistiche, nel controllo costante della sola sfera affettiva-sensuale: si pensi all’abolizione del bacio (« Se tu bacerai [...] io bacio un mortale » corretto in « Se tu ami [...] io amo un

mortale » !*), alla sostituzione di « cosce » con « gambe » ! di « godere » con « accettare »,* di « donnicciuola o putto » con « consorte e figliuolino »,!” di « usare » con « opporre ». Un solo intervento più significativo — una cassatura giustificata con la motivazione « manca nell’originale » — consente forse di individuare quella che già ci è parsa la sotterranea peculiarità del volgarizzamento leopardiano: la discreta ma vibrante dilatazione del testo, quasi sempre raggiunta con tecniche di rallentamento, con costruzioni perifrastiche (piuttosto che con inserti diretti come segnalato dal censore), per accrescere il pathos dinanzi alla fatale necessità del distacco, della stessa epittetica apatia (« Non dir mai di cosa veruna:

io l’ho

perduta, ma bene: io l’ho restituita. Ti è morto per avventura un figliuolo? Tu l’hai renduto. [Morta la tua donna? tu l’hai renduta.] Ti è stato tolto un podere » !*). Qualità dinanzi

alla quale doveva

rimanere

sordo il revisore, preoccupato solo di rendere il Manuale meno inquietante, meno politicamente e religiosamente eversivo. La mancanza di speranza implicita nel discorso di Epitteto e ancor più in quello leopardiano di accompagnamento (in questa direzione si potranno spiegare le frequenti puntualizzazioni censorie al preambolo), ben134 Manuale di Epitteto, in Opere minori approvate. Prose cit., 519, 5-10 (la numerazione rimanda alle pagine e ai righi della stesura corretta, così come è menzionata da Morondell’apparato critico). cini nelle successive pagine £ à Ni daga se : AI controllo esercitato sulla sfera affettiva-sensuale si può segnalare un’unica eccezione di tipo vagamente ideologico («per Dio » mutato in « per gli Dei»: ivi, 527, 22).

135 Ivi, 528, 18. 136 Ivi, 520, 22. 137 Ivi, 520, 21.

138 Tra parentesi quadre è collocata la parte cassata.

ché non rivoluzionaria alla stregua della palese ribellione di Bruto, doveva comunque essere moderatamente gradita se in calce al preambolo una nota di mano non leopardiana aggiungeva: « Si debbe anticipatamente avvertire, che, quantunque questo gran filosofo dell’antichità sia fra i più profondi e più sani; parla purtuttavia senza il lume della rivelazione, e però non è da maravigliare se alcune delle sue proposizioni non si confanno colle regole e insegnamenti inconcussi di nostra sacrosanta religione »; se

soprattutto il Manuale poteva essere accetto al governo solo a patto che fosse risultata evidente la dislocazione dell’infelicità nei tempi antichi e apparso palese che la scelta della saggezza doveva essere motivata non dalla nera disperazione di Bruto (che, sia pur diversamente, nella compostezza della speranza perduta, accompagna almeno gli anni della stesura delle Operette morali), ma dalla speranza di un premio, di una ricompensa in un aldilà divino e migliore. Giova leggere così gli interventi del revisore volti a limitare la riflessione sulla beatitudine e l’infelicità al solo ambito privato (non pubblico o politico; « nella sua vita morale » !°), a con-

finare l’ipotesi dell’eroismo in una sfera pagana (« è proprio degli spiriti grandi e forti secondo il pensar de’ gentili » !*), e l’intero contenuto del testo alla filosofia pre-cristiana (« Proprio secondo la stessa opinion de’ pagani degli spiriti deboli » “). Nel tentativo di ricondurre le affermazioni leopardiane al campo dell’opinabile, del non vero (« guerra feroce e mortale al creduto destino », poi nuovamente mutato in « al destino per dir così » !*), il revisore sottolinea quanto poteva ancora, nell’indifferenza stoica palesemente dichiarata, apparire in Leopardi come germe di scontento, di rivolta; quasi che l’apatia epittetica, ove non confinata ai soli tempi pagani, potesse consentire in una modernità forte ed eroica (quale quella più volte invocata dalle canzoni patriottiche) una risposta diversa, ancora di guerra « feroce e mortale al destino ». La fortuna e il fato erano secondo il censore allora da modificare in « volgar mente della fortuna e del fato »,* mentre incerto doveva divenire lo stato di inimicizia e di guerra opposto agli umani (« E dove quello stato quasi di nimicizia e di guerra » *), scontata 4 priori e su basi provvidenzialistiche (« Il quale insegnamento [...] si è in verità la cima e la somma, sì della filosofia di Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare per rapporto ad un 199 Ivi, 08 Ur Mal i MarIDi 18 Ivi, 14 Ivi,

424

514, 3. TE S514012: 914,210) 514, 14-15. 514, 18-19.

premio nella vita futura che ci promette e fa sperare la fede » “) la condizione di pace e di resa ritenuta ragione prioritaria, non ultima ratio (si pensi a « questo altro stato di pace e quasi di soggezione dell’animo e di

servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, e pur conforme a ragione », mutato in « quantunque in apparenza niente abbia di gene-

roso, è pure per altro il solo conforme a ragione » “), ridimensionata

a

felicità effimera, a infelicità procurata “ e casuale quell’unica umana, laica felicità proposta e negata da Leopardi ed Epitteto (si veda « non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità » cambiato in «di rinunciare a quella, che parea dirsi felicità » !*), o l’integrazione:

« Ora la noncuranza

delle cose di fuori, in-

giunta da Epitteto e dagli altri stoici, viene a dire questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice giusta il volgar credere degli uomini »).

Quanto poi ci fosse di esplicito, di intenzionale nella irregolarità leopardiana di pensare il testo quale #odo, non fine (e forse per questo il Manuale sarebbe stato particolarmente caro, come le Operette morali ®), lo attestano, oltre il Preambolo, anche le confessioni private riflesse nelle

parole degli amici, restituite significativamente a sottolineare proprio di quell’Epitteto la costanza, la coraggiosa ratio implicita nella scelta del vero:!! [...] che la tua traduzione del Gerzisto ti avrà servito come di un mezzo dirò quasi alla moda onde esporre qualche tua massima morale che più importi ai nostri miseri tempi: siccome mi dicesti aver fatto col ragionamento che accompagna il tuo Epitteto."? 145 Ivi, 515, 6. 146 Ivi, 514, 24-25. 147 Si veda: «Il quale insegnamento,

che è come

dire di dover amar

se medesimo »

mutato in «che è, per così dire, di volere amar se medesimo » (ivi, 515, 1-2).

148 Ivi, 514, 31-32. 149 Si veda nella lettera allo Stella del 12 marzo 1826: «[...] le raccomando a mani giunte quei miei cari e poveri manoscritti acciò non vadano perduti, il che mi darebbe una pena indicibile ». 150 Si veda la lettera di Luca Mazzanti (Recanati 20 maggio 1826), nella quale si rimprovera Leopardi per la sua posizione di scorato stoicismo: «[...] Io sfido Zenone e tutti i suoi seguaci a dimostrarne il contrario, ché nessuno può essere a tal segno di se stesso nemico ». 151 In questa chiave di stoico pessimismo sarà da leggere, tra i Canti, Al Conte Carlo Pepoli («In questo specolar gli ozi traendo / Verrò: che conosciuto, ancor che tristo ... »). 152 Di Francesco Puccinotti, Macerata 29 luglio 1827. Quanto Puccinotti fosse corretto interprete del pensiero leopardiano lo prova anche una sua lettera del 29 maggio 1826 sulle Operette morali (« E veramente è così: bando alle fredde chimere: mostriamo l’uomo miserissimo qual’è: richiamiamo, per essere meno annoiati, alcuni di que’ vaghissimi errori dell’antichità [...]: il misero e freddo vero non accresca miseria e freddezza negli animi nostri: la storia delle moderne pretensioni si converta in quella del riso de’ sapienti: ed a questo

425

Che fosse poi un vero che non dimenticava il bisogno della consolazione (non è un caso che l’interesse per la filosofia pratica si accrescesse in Leo-

pardi come si faceva più intenso il suo rapporto con i famigliari, gli amici), ma nei limiti della sopportazione della vita, dell’elevazione a principio di esistenza della ragione in luogo della passione,'* lo provano, ove fosse necessario, le Operette morali, maturate nel clima del volgarizzamento, e del

cui negativo l’autore aveva ben chiara coscienza,'® le pagine dell’epistolario,* dello Zibaldone. Lo prova soprattutto la consapevolezza di un’apatia che nel Leopardi, incapace di sentire qualsiasi cosa tiepidamente, si era fatta col passare degli anni vizio disperato dell’assenza, rischio di allontanamento, di separazione. Quella filosofia, eletta per scampare sé e gli altri dalla disperazione,” ridotta ormai ad absence, rischiava di non funzionare più. E se la ‘ nuova” filosofia avrebbe trovato nella morte del fratello (tra gli altri dati biografici) e nel conseguente intensificarsi e farsi più caldo del tono, del dialogo nelle lettere al padre una sua ragion sufficiente d’esistenza, un suo modo nuovo d’espressione (che sarebbe rifluito direttamente nelle operette più tarde !*), la filosofia stoica, epittetica, pratica così a lungo seguita, e destinata a restare come momento determinante ma non conclusivo nell’analisi del reale, avrebbe

avuto

anch’essa

una data esemplarmente conclusiva, riflessa specularmente, in immediato beatissimo riso facciamo l’apoteosi e innalziamogli un’ara »), alla quale ne sarebbe seguita una di Leopardi allo Stella (Bologna 30 giugno 1826) sulla filosofia e la forza comica come caratteri peculiari delle Operette morali. 153 Si vedano le numerose lettere a Giuseppe Melchiorri nel periodo tra il ’24 e il ’25. 154 Si veda la lettera al padre del 3 ottobre 1825. Quanto poi fosse generalizzato, in ambito leopardiano, questo sentimento, lo prova la lettera a Carlo del 7 settembre 1825 («Il che non lo debbo ad altro che a quella perfettissima indifferenza che abbiamo tanto desiderata, e che ho finalmente ottenuta e radicata in modo che non ha più paura») a cui il fratello avrebbe risposto il 6 ottobre 1825 (« Ti dirò bensì che io penso, che quando la facoltà di sentire si va per l’esperienza diminuendo, e si riduce quasi al solo soffrire, dobbiamo prendere per guida dei nostri passi la ragione, quantunque una volta tanto odiata, e un uomo deve essere contento quando può provare da se stesso che il suo stato è buono, quantunque non ne senta alcun godimento »).

155 Si veda la lettera allo Stella del 23 agosto 1827. 156 Si veda la lettera a Pietro Giordani (Recanati 6 maggio 1825). 157 « L'indifferenza e l’allegria sono le uniche passioni proprie, non solamente dei savi, ma di tutti quelli che hanno pratica delle cose umane, e talento per profittare dell’esperienza » (A Giuseppe Melchiorri, Recanati 19 dicembre 1823). Ma soprattutto si veda l'importante lettera a Francesco Puccinotti del 14 aprile 1826. 58 Si pensi al Dialogo di Plotino e di Porfirio, parallelamente alle lettere al padre del 26 maggio, del 2 giugno, del 17 giugno 1828 (« Finché Dio ci vuole in vita, Ella è necessaria a noi, e noi a Lei: dobbiamo aver cura alla nostra salute, non più per noi stessi, ma gli uni per amor degli altri. Io per causa mia propria le raccomando con tutto il cuore di acconsentire a trattar l'animo suo in modo, che la sua salute non ne patisca »); nonché alle lettere a Antohe (Firenze 5 luglio 1828) e di Antonietta Tommasini (Bologna 28 settemre 3

426

riscontro, in una lettera di Francesco Puccinotti. Nel ribadire tutti gli in-

segnamenti vitali dell’indifferenza, di quella saggia apatia che l’aveva fatto avvicinare e sulla quale aveva influito lo stoicismo e il Manuale d’Epitteto, nel condurre la coscienza della fragilità della vita al suo limite massimo, al desiderio di morte, nel confermare l’absezce come risultato ultimo, come colpa, questa data (sia pur indicativa) l’aveva stabilita Leopardi, in una lettera che aveva provocato quella dell'amico (« Forse appunto perché è coltissimo egli non gusta più piaceri, e dove per lui non è dolore trova subito noia? [...] Viviamo dunque, e ridiamo del nostro stesso desiderio di morire » !) e che era stata spedita da Firenze il 16 agosto del (1827: Caro Puccinotti, io ti voglio pur bene; avrei pur caro di vederti qui meco. Sono stanco della vita, stanco della indifferenza filosofica, ch’è il solo rimedio de’ mali e della noia, ma che in fine annoia essa medesima. Non ho altri disegni, altre speranze che di morire. Veramente non metteva conto il pigliarsi tante fatiche per questo fine. Starò qui fino a mezzo Ottobre; poi sono incerto se andrò a Pisa o se a Roma. Ma se mi sentirò male assai, verrò a Recanati, volendo morire in mezzo ai miei. Voglimi bene, e conservami nella tua memoria. Il tuo Leo-

pardi.!® ANNA

DOLFI

159 Dj Francesco Puccinotti, Macerata 8 settembre 1827. 160 A Francesco Puccinotti, Firenze 16 agosto 1827.

427

A PEN As

ila

AL

Sociologismo estetico e sapienza classica in Leopardi

Scriveva nel ventitreesimo dei suoi Pensieri Giacomo

Leopardi:

Quello che si dice comunemente che la vita è una rappresentazione scenica,

si verifica soprattutto in questo, che il mondo parla costantissimamente in una maniera, ed opera costantissimamente in un’altra. Della quale commedia essendo tutti recitanti, perché tutti parlano ad un modo, e nessuno quasi spettatore, perché il vano linguaggio del mondo non inganna che i fanciulli e gli stolti, segue che tale rappresentazione

è divenuta cosa compiutamente

inetta, noia e

fatica senza causa. Però sarebbe impresa degna del nostro secolo, quella di rendere la vita finalmente un’azione non simulata ma vera, e di conciliare per la prima volta al mondo la famosa discordia tra i detti e i fatti. La quale, essendo i fatti per esperienza ormai bastante, conosciuti immutabili, e non convenendo che gli uomini si affatichino più in cerca dell’impossibile, resterebbe che fosse accordata con quel mezzo che è, ad un tempo, unico e facilissimo benché fino ad oggi intentato, e questo è mutare i detti e chiamare una volta le cose coi nomi loro.

Questo pensiero è certamente

sintomatico per rilevare la concezione

umana ed artistica del poeta recanatese, nell’ambito di una sua preoccupazione sociale di dare un certo significato all’alternarsi delle umane relazioni. È chiaro che alla base c’è sempre una visione pessimistica; ma essa è contemperata da una constatazione che fa parte quasi del senso comune: quella di intendere la vita come commedia. In fondo anche Dante Alighieri aveva dato alla sua più grande opera il titolo di « Commedia » e, psicologicamente, è difficile da precisare se fu maggiore l’intenzione stilistica o il riferimento antropologico. Certamente per Leopardi si pone un

problema di caratterizzazione umana dell’istanza artistica nel senso che, malgrado non appaia evidentissima cosa, è sempre l’umanità, nella sua essenza, ciò che preoccupa il poeta. In fondo Leopardi può essere considerato uno degli artisti più individualisti della letteratura italiana, degno di esser posto accanto al suo amatissimo Tasso o, per riandare al mondo antico, ai grandi lirici della letteratura greca che egli pure predilesse. Ma il problema in chiave umana e contemporanea si pone proprio nel429

l’interpretazione di un Leopardi aperto alle istanze più vive dell’uomo.! Certo esse sorgevano alla luce di una preoccupazione storica e culturale nella quale prendeva significato una determinata valutazione del mondo di sapienza classica, quella che veniva, in ispecie nella letteratura italiana, vista in una luce privilegiata, perché espressa nella lingua latina, la lingua di Roma. Tale mondo si rifaceva soprattutto a Lucrezio, Virgilio, Cicerone, Orazio, Seneca, Lucano, ma forse è impossibile per un uomo

dalla

cultura vivace e profondissima come fu Leopardi tentare di fare una statistica delle sue preferenze per il mondo degli scrittori latini. Certo è, ad esempio, che il suo amore per Virgilio fu molto intenso, perché vivo fu il sentimento georgico e idillico della realtà umana nel poeta recanatese, così come in lui fu vivo l’interesse per la storia umana. Ce ne potrebbe dare un sintomo la traduzione che egli fece del libro secondo dell’Eneide, spinto certamente non soltanto da intenti poetici, ma soprattutto da una riflessione storica ed umana. Malgrado tutto, però, la meditazione antropologica di Leopardi è talmente viva ed originale che si accosta addirittura alle considerazioni di un artista che potrebbe sembrare il più lontano dalla sua concezione del mondo e della storia: Alessandro Manzoni. Si ricordi, al proposito, che c'è un brano del capitolo secondo dell’Operetta morale Detti memorabili di Filippo Ottonieri che diede modo ad uno studioso napoletano, Federico Persico, nel 1870, di pubblicare in forma epistolare alcune sue meditazioni letterarie intitolate I due letti con evidente riferimento a quanto Manzoni aveva scritto nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi. Lo scrittore milanese, anzi, ne fa specifico riferimento nella « Lettera al Casanova », l’uomo di lettere napoletano che fu suo grande ammiratore. Ascoltiamolo: E se le dico che ho letto con vivo piacere l’opuscolo — I due letti — del suo degno amico il signor Persico, la cosa Le parrà naturalissima; ma ho paura che sia per due ragioni: una (e questa bonissima) il merito, e di pensieri e di forma dell’opuscolo; l’altra (e qui s’ingannerebbe) le lodi che ci ho trovate per me, e che sono troppo evidentemente dovute a un eccesso d’indulgenza perché io me le possa godere?

Chiaramente vi è una certa distanza cronologica fra Leopardi e Manzoni, ma è da considerare il fatto che sia l’uno che l’altro vissero in un secolo letterariamente ricco di emozioni e di trapassi. Basti pensare all’al1 Si ricordi, sintomaticamente, che il titolo della prima delle Operette morali, che rappresentano veramente una matura meditazione umana da parte di Leopardi, è proprio Storia del genere umano. 2 A. MAnzonI, Lettera al Casanova, in Opere, Firenze 1946, p. 985.

430

ternanza tra Classicismo e Romanticismo e se Leopardi, nella discordanza dei momenti, assunse, ad un certo punto, una posizione esteticamente autonoma, anche Manzoni, comunemente visto come il capo del Romanticismo, ha una sua ben caratteristica fisionomia di uomo di cultura e di letterato. Si vuol dire, cioè, che di fronte ai problemi dell’uomo e, di conseguenza, a quelli del significato dell’arte, i due poeti ebbero in comune qualcosa d’importantissimo: la preoccupazione per una definizione della realtà umana nel suo alterno e, talvolta, paradossale sviluppo e l’amore per una classicità rettamente intesa. Si pensi soltanto al fatto che anche Manzoni fu amantissimo delle lettere classiche. Nei suoi versi giovanili appaiono pregevoli brani di traduzione dal libro quinto dell’Eneide di Virgilio, dalla I Satira d’Orazio, e se si ricorda il Leopardi della Canxone all’Italia appariranno importanti alcuni versi manzoniani del Trionfo della Libertà ove il poeta milanese rivede le celebrazioni classiche che furono particolarmente dell’Eneide di Virgilio e ciò fa con passione tale che può paragonarsi a quella del giovane Leopardi. Ma in Manzoni la passione classica e quella politica trovarono l’impatto in una realtà sociale che venne vissuta dall’artista in maniera sempre aperta, tanto da portare a quelle vivaci istanze culturali e popolari che ispirarono la grande impresa dei Promessi Sposi. In Leopardi la considerazione socio-umana si chiude, ad un certo punto, in una contemplazione artistica che è, tuttavia, profonda

riflessione sulle capacità catartiche dell’arte. Non per niente il 1827 fu l’anno in cui Manzoni finalmente compiva il primo sforzo di revisione in chiave letterario-sociale del suo romanzo storico, mentre Leopardi dava alle stampe le sue Operette morali. Che cosa sono esse se non proprio una riflessione storico-linguistica-estetica dei problemi dell’uomo e della società? Ed al proposito è interessante fare un breve confronto fra quanto aveva scritto Manzoni nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi e Leopardi nel brano in questione di una delle sue Operette morali. Ecco le riflessioni manzoniane riguardanti l’uomo, che fin che sta in questo mondo è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello; e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s'è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme; siamo, insomma, a un di presso alla storia di

prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio.

Ecco, invece, il brano leopardiano: ognuno di noi che viene al mondo è come uno che si corica in un letto duro e

disagiato:

dove subito posto, sentendosi

stare incomodamente,

comincia

a ri-

431

volgersi sull’uno e sull’altro fianco, e mutare luogo e giacitura a ogni poco; e dura, così, tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno, e alcune volte credendo esser in punto di addormentarsi; finché, venuta l’ora, senza essersi mai riposato, si leva.

È evidente, nel paragone, anche la sostanziale differenza tra la concezione di Manzoni e quella di Leopardi. Spinti più o meno dagli stessi interessi artistici, i due poeti divergono nell’esplicazione di una concezione che ha alla radice una riflessione sull'uomo e sulla sua incontentabilità. Certo il Leopardi che scrive I detti memorabili di Filippo Ottonieri ha maturato il suo pessimismo: non è più l’acerbo e quasi disquilibrato senso nostalgico di una classicità che non può più esserci; la constatazione di una inutilità parossistica che gli ispirava la lettera famosa al Giordani nel 1819 che fu certamente l’anno più terribile del poeta per il presentarsi di mali fisici, delle incomprensioni in famiglia, dei tentativi di fuga dal suo paese natale. È un Leopardi che, artisticamente, sente di voler mettere a nudo, anzi diremo a profitto estetico, la sua concezione della vita. x È, in certo senso, il Leopardi che si rivela nella Palinodia al conte Carlo Pepoli « di poesia canuto amante ». È il Leopardi che in un’altra operetta morale Del Parini ovvero della gloria rivela tutta la sua rassegnata concezione della realtà dell’uomo, convinto com’era della mutabilità dei giudizi umani che non corrispondono al merito, poiché soggiacciono ad altre cause che la sorte contribuisce a rendere favorevoli o sfavorevoli. È, in certo senso, il Leopardi che, malgrado tutto, vince il suo spietato e crudele individualismo per porsi in una contemplazione sociale della realtà dell’uomo. È certamente un fenomeno che avviene sul piano estetico; per cui l’individualismo artistico rimane, ma si accompagna alla riflessione filosofica di una umanità che è quella che è e difficilmente può mutarsi: opinione che si aggira sempre nei meandri del pessimismo perché al contrario di quella manzoniana non è sorretta dalla convinzione cristiana che deriva non soltanto da elementi trascendenti, ma anche dalla pratica quotidiana del vivere. In Leopardi anche la preoccupazione sociale rimane sul piano contemplativo; la sua profondissima cultura classica, la sua quasi mancante esperienza umana, nel senso più pedestre della parola, lasciano il poeta sul piano di un sociologismo che, nella prosa, si corrobora di una riflessione filosofica; mentre nella poesia la meditazione si trasferisce soprattutto sul piano idillico. È, comunque, una convinzione che rimane nell’ambito estetico; anzi è, paradossalmente, la misura di un socializzarsi del pessimismo individuale. Sarebbe, al proposito, interessante ricordare

ciò che, artisticamente,

lo scrittore recanatese

voleva realizzare con

le

Operette morali, quando scriveva che esse sotto forma di dialoghi avrebbero dovuto supplire « a tutto ciò che manca nella Comica italiana, giac432

ché ella non è povera d’intreccio, d’invenzione, di condotta ecc. e in tutte quelle parti ella sta bene; ma le manca affatto il particolare, cioè lo stile e le bellezze parziali della satira fina e del sale e del ridicolo attico veramente e plautino e lucianesco, e la lingua, al tempo stesso, popolare e pura e conveniente ». Dunque si ritorna ad una considerazione satirica da parte di Leopardi nei confronti della vita umana; il pessimismo si trasferisce, esteticamente, sul piano della satira, perché il poeta sente, orazianamente, il dramma

dell’uomo: dramma che faceva scrivere al Venosino nella prima delle sue Satire: « Qui fit, Maecenas, ut nemo quam sibi sortem / seu ratio dederit seu fors obiecerit illa / contentus, vivat ...? ». È in fondo una riflessione sull’uomo che non riesce a convincersi della perennità umana di fatti sostanziali sia positivi che negativi e crede che solo ciò che è stato presenti aspetti degni di valutazione. È, in altre parole, la critica che Leopardi compie verso se stesso; essa trova la sua paradossale possibilità d’essere sul piano sociologico-estetico. Ci si ricorda, allora, di alcune considerazioni freudiane sull’arte; eccole: quando ... il poeta ci rappresenta i suoi drammi o ci racconta ciò che noi siamo

inclini a interpretare come suoi personali sogni ad occhi aperti, proviamo un vivissimo piacere che sembra provenire da molti fonti confluenti. Come il poeta riesce a far ciò, è il suo particolarissimo segreto, la vera ars poetica consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza la quale è certo in connessione

con le barriere che si elevano fra ogni singolo e gli altri. Possiamo supporre due mezzi di questa tecnica: il poeta addolcisce il carattere della sua fantasticheria egoistica alterandola e velandola; e ci seduce mediante il godimento puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella presentazione delle sue

fantasie.*

Il pensiero strettamente scientifico di uno studioso abituato ad analizzare quasi crudamente la psiche umana è, in maniera sintomatica, applicabile a ciò che in realtà avviene, quando leggiamo un’opera del poeta di Recanati. L’artista che maledice i valori positivi della vita è capace d’incantarci, di farci amare la vita, così come egli, paradossalmente, l’amava, senza tuttavia farci perdere il senso profondo delle cose e del significato di esse, anzi convincendoci che la vita è quella che è; e da ciò deriva la suggestione di una testimonianza che prende a soggetto non uno qualunque, ma un artista colto e sensibile. Accade, cioè, quello che rilevava il De Sanctis quando scriveva: 3 Il brano è contenuto in Opere inedite, a cura di Cugnoni, II; si veda anche Le Operette morali, a cura di N. Zingarelli, Napoli 1895, p. xIx. 4 S. Freup, Saggi sull'arte, la letteratura, il linguaggio, in Estetiche e poetiche del Novecento, a cura di S. Givone, Torino 1973, pp. 121-122.

433 28

Leopardi produce l’effetto contrario a quello che propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico; e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita»

In effetti anche il presunto disprezzo per gli uomini da parte del poeta di Recanati deriva da considerazioni non valide sul piano estetico; artisticamente l’umanità ha un valore di cui addirittura Virgilio, che Leopardi ritiene tardo nel favellare, seguendo l’opinione del grammatico Donato (« Nam et in sermone tardissimum ac pene indocto similem fuisse Melissus tradidit »), può ritenersi uno dei simboli. Ciò che artisticamente interessa notare è la proiezione in sede estetica dei vizi e delle virtù dell’uomo; la constatazione può essere suggerita da un qualsiasi personaggio, sempre che sia impegnato nella quotidiana fatica del vivere. Ad esempio nel « Canto di un pastore errante dell’Asia » è il « vecchierel bianco, infermo / mezzo vestito e scalzo / con gravissimo fascio in su le spalle » e la voce del pastore verso la greggia termina con questi accorati accenti: « Forse s’avess’io l’ale / da volar su le nubi, / e noverar le stelle ad una ad una, / o come il tuono errar di giogo in giogo, / più felice sarei, dolce mia greggia, / più felice sarei, candida luna. / O forse erra dal vero, / mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale ». Si ritorna al tema del pessimismo parossistico nella riflessione dell’ultimo verso, ma l’anafora dell’avverbio dubitativo pone l’accento sulla considerazione del poeta che non ha trovato, malgrado tutto) nella sapienza degli antichi una risposta alle sue domande sulla vita umana, sul perpetuarsi delle sue leggi d’infelicità, ma anche sulla necessità di sopportazione e di comprensione; è stato d’animo diverso, però, dall’apatia filosofica. Il poeta si pone addirittura in posizione critica nei confronti della sapienza antica. Non è la constatazione di un privilegio di cultura che deve portare a disinteressarsi del mondo; nel poeta di Recanati c'è sempre partecipazione ° F. De

pp. 297-298.

Sanctis,

Schopenhauer

e Leopardi,

dialogo,

in Saggi

critici,

Napoli

1893

$ Si veda, al proposito, il capitolo quarto dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri. ? È interessante al proposito rileggere la canzone Ad Angelo Mai.

434

alla figura dell’uomo. E se nell’Ultimo canto di Saffo si può pensare ad uno stimolo individuale da parte dell’artista * si deve notare che la riflessione porta Leopardi a dire ben più precise cose. Ascoltiamolo: dopo lunghissima battaglia son domo e disteso per terra perché mi trovo in termine che se molti sapienti hanno conosciuto la tristezza e vanità delle cose, io, come parecchi altri, ho conosciuto anche la tristezza e vanità della sapienza.

È atteggiamento che troverà accenti caustici nella prosa delle Operette morali, in particolar modo in una di esse quando lo scrittore pensa che si possano costruire due macchine parlanti per il bene degli uomini: la prima di esse non deve essere linguacciuta come quella che si racconta costruita da Alberto Magno e distrutta dal suo discepolo San Tommaso: L’inventore di questa macchina riporterà in premio una medaglia d’oro di quattrocento zecchini di peso la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste, dall’altra il nome del premiato col titolo « Primo verificatore delle favole antiche ». La seconda macchina vuol essere un uomo artificiale a vapore atto e ordinato a fare opere virtuose

e magnanime. L'Accademia reputa

che i vapori, poiché altro mezzo non pare che vi si trovi, debbano essere di profitto a infervorare un semovente ed indirizzarlo agli esercizi della virtù e della

gloria.!

Dunque se l’uomo deve ricorrere ad un automa per poter porre a frutto la sapienza, a che cosa serve esser uomini?

Aver ragione e sentimento?

È questa, in fondo, la domanda drammatica che ci pone Leopardi. È in questa constatazione che si stempera il suo pessimismo, alla luce di una convinzione che è frutto di una profonda meditazione sociale. E la conclusione potrebbe esser questa: non fu mai possibile all'uomo aver completa felicità. La sapienza degli antichi non servirebbe a nulla se essa inaridisse il nostro sentimento; se essa portasse a non volerci bene; a disprezzare l’amore degli amici e dei parenti non solo, ma anche l’opera costante, umile, disinteressata delle anime semplici e buone, di coloro che, al di là ed al di fuori di un mondo di sapienza, vivono la loro quotidiana

lotta per l’esistenza; del lavoratore che torna a sera alla sua povera mensa o della vecchierella che siede su la scala a filare « incontro là dove si perde il giorno: / e novellando vien del suo buon tempo, / quando ai dì della

8 Soprattutto ai vv. 47-54. 9 Dalla lettera al Conte Perticari del 9 aprile 1821. 10 G. Leoparpi, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillograf, in Operette morali, ed. cit., p. 49.

435

festa ella si ornava, / ed ancor sana e snella / solea danzar la sera intra

di quei / ch’ebbe compagni dell’età più bella ».!

Questa semplice bellezza, la grandezza delle cose umili e semplici, la bontà delle cose umane non deve essere distrutta dalla ragione; da una ragione che prendesse a modello soltanto una sapienza arida ed egoistica: è questo l’insegnamento che Leopardi impara a sue spese. Da ciò deriva anche l’atteggiamento critico rispetto a buona parte della filosofia postsocratica, del mondo classico. Qui è il segreto dell’arte leopardiana: è il

messaggio nuovo di questa formidabile figura di dotto e di poeta: la sapienza non deve spegnere, anche se spesso ciò accade, in noi l’anelito alla vita. Leopardi ama la vita nei suoi valori più belli, più puri, più sani. Perciò la sua riflessione filosofica si apre nella visione di una natura e di un uomo che, malgrado tutto, continuano la loro strada: misteriosa e necessitata

quella della Natura, meno

automatica,

ma

anche necessitata

quella dell’uomo; e la necessità consiste in questo: l’uomo non deve disobbedire alle leggi della sua natura fatta di ragione e di sentimento; quando vi disobbedisce diventa estremamente infelice. È questa rassegnazione? Si direbbe di sì; ed allora appare il grande messaggio umano di questo poeta inimitabile e, come tutti i grandi artisti, dono impagabile che la civiltà ha fatto agli uomini d’ogni tempo e d’ogni nazione. È un messaggio d’amore e di comprensione; è un invito, fatto a proprie spese, a vincere il turbine del pessimismo per rifugiarsi nelle cose semplici e buone, nelle cose pure. Perciò è opportuno conchiudere con un pensiero che, scritto in ma-

niera lucida e schietta come era abitudine del grande poeta e pensatore che guardava in faccia alla realtà, è nella conclusione di uno dei dialoghi delle Operette morali, più filosoficamente consono alla natura leopardiana: Colui che si uccide da se stesso, non ha cura, né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita apparisce il più schietto, il più sordido, o certo, il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo. Togra

D'ONOFRIO

1l Il sabato del villaggio, vv. 8-15. 12 G. LeoparpI, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in Operette morali, ed. cit., pp. 379-380.

436

Leopardi e Frontone

Dallo studio dell’ampia produzione letteraria di Leopardi, in contrasto con la breve durata della sua vita, è evidente che 4! gobbo de Leopardi” era nato un genio e, come avrebbe detto il Voltaire, egli coltivava il suo giardino. Egli non aveva una cattedra universitaria, ma poteva ben averla a Bologna, o, come attesta la lettera al Bunsen, a cecina o a Bonn;

ma il Leopardi rifiutò a causa della sua salute e del clima della Germania? Era poeta nato, critico minuzioso, filosofo e filologo. Giacomo dovrebbe essere considerato il miracolo poetico e il profeta della sua epoca, a volte tuttavia disprezzato, a volte stimato ed amato. Alla sua schietta vocazione poetica e alla sua vocazione filosofico-filologica, si aggiunsero la pazienza tenace, lo studio e l’inesauribile lavoro; i primi ferri del suo mestiere erano nella biblioteca paterna. Il Bigi, trattando dell’interpretazione desanctisiana, scrive: « il filosofo e il filologo serviranno solo ad illustrare, a meglio farci apprezzare quella che fu sola e vera grandezza di Leopardi: l’artista ».° Lo stesso Leopardi nella lettera a Carlo Pepoli scrive di se stesso: Precettori non ebbe se non per li primi rudimenti ... Bensì ebbe l’uso di una ricca biblioteca raccolta dal padre, uomo molto amante delle lettere. ... Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette anni; ...'

Facendo dei ragguagli tra il Leopardi e Frontone si nota immediatamente come il Leopardi sia affratellato, frère d'armes di Frontone, e quasi si direbbe della stessa indole: ambedue vanno alle fonti, ai classici dell’età

aurea, ambedue scrivono con parole che sgorgano dall’intimo dell’anima, 1 G. Leoparpi, Tutte le opere. Le citazioni, come di consueto, sono dall’ed. a cura di F. FLora; Le lettere, Lettera alla sorella Paolina, p. 939. 2 Ibid., Lettera a Carlo Bunsen, p. 629. 3 I classici italiani nella storia della critica. Opera diretta da W. BinnI, II, Firenze 1954, p. 406. 4 G. Leoparpi, Le lettere. Lettera a Carlo Pepoli, p. 725.

437

ambedue scrivono con sincerità, tenerezza e fuoco; si direbbe che Leo-

pardi emula Frontone anche col suo stile: si pensi all’uso di semplici vocaboli e di locuzioni, come pure all’uso dei superlativi e delle similitudini; il Leopardi consiglia a tutti come modello Frontone quando scrive:

L’ingegno di Frontone fecondo in immaginare, ... giudizioso in disporre, si adattava in maniera meravigliosa a quasi tutti i generi di componimento. Nelle sue lettere ... si vede dove serietà e dignità, dove premura e sollecitudine, dove fuoco e vivacità; dove forza di argomenti e di prove; dove invenzione e acutezza; dove amore e confidenza; dove nitidezza e amenità; dove squisito lepore, soavissimi, elegantissimi scherzi ... onde io giudico che Frontone sia degnissimo di servir di modello a tutti i futuri scrittori di lettere d’ogni genere. ...

Come si preciserà più tardi, si può dire fin d’ora che il Leopardi emula Frontone. Ma vi sono ancora altre affinità tra i due scrittori. Leopardi quasi spontaneamente sembra immergersi nello stile frontoniano: un esempio per il momento è sufficiente. In una lettera al fratello Carlo, Leopardi scrive: « Amami, per Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, en-

tusiasmo, vita: ... ».° Frontone aveva già scritto nel II secolo dopo Cristo nel medesimo modo in alcune delle sue epistole; e anche Marco Aurelio scriveva quasi nello stesso modo al suo stimato Magister. Si può notare l’affetto che lega Marco Aurelio e Marco Cornelio, il reciproco rispetto, manifestato con lo stesso modulo espressivo. Cesare al suo magister optime nel giorno del compleanno scrive: « ... ego tamen, quia te iuxta ac memet ipsum amo, volo hoc die tuo natali mihi bene precari ... »,' e alla fine di un’altra epistola: « Vale, spiritus meus » è Il Leopardi si serve del medesimo stile quando scrive al Giordani: « Mia cara anima ») oppure: « Mio caro angelo ».!° Frontone

dall’altra parte nel cosiddetto *Eporixdc X610g chiama

Marco Aurelio *Q gie tai oppure è rai, ambedue termini di affetto e rispetto tra maestro e discepolo." Più tardi si vedrà come questa epistola è stata trattata dal Leopardi. À questo punto credo opportuno dire che per il carteggio di Frontone mi son servito della serie « The Loeb Classical Library », la corrispon-

5 Poesie e Prose. II, p. 655. Vita e opere di Frontone. 6 Lettere. Lettera al fratello Carlo, p. 344. T The Correspondence of Marcus Cornelius Fronto. Edited and fot the first time translated into english by C. R. Hannes, London-New York 1919, p. 50. (Da notare che Haines si imposta sul Naber, e si riferisce anche ai Codici dell’Ambrosiana e della Vaticana) (Vat. 119). 8 Ibid., p. 18 (Vat. 120). ? G. LeopARDI, Le lettere. Lettera a Pietro Giordani, p. 325. 10 Ibid., p. 448.

!! C.R. HAINES, op. cit., p. 20, passim (Ambr. 133).

438

denza tra Marco Cornelio Frontone e Marco Aurelio Antonino; un’edizione bilingue che per la prima volta presenta Frontone tradotto in inglese da C. R. Haines nel 1919. È curioso notare però che Haines nella sua Introduzione parla del Mai, del Mommsen, del Naber, dei palinsesti, dei codici dell’Ambrosiana e della Vaticana; ma giammai fa menzione del nostro Leopardi o delle sue opere sui classici, o delle sue congetture relative ai codici di Frontone, come pure non fa menzione del Moroncini e del suo Studio su Leopardi filologo. Nella bibliografia dell’Haines sono annotate l’opera del Mai del 1815, come pure quella del Niebuhr del 1816, e quella del Mai del 1823, e si imposta poi, sull’opera del Naber, l’edizione di Lipsia del 1867. Si rileva

pertanto che fra le opere bibliografiche annovera

la pubblicazione

del

Freytag, Ex antiqua historia Literaria de M. Corn. Frontone et Frontonia-

norum secta rbetorica. È l’edizione di Norimberga del 1732. Esaminando il carteggio delle epistole frontoniane e quelle del Leopardi si nota immediatamente una similarità di stile nelle formule iniziali. Le lettere sono di tutti i generi, quelle familiari, ad amicos, lettere politiche e letterarie, quelle di critica degli autori antichi e di quelli recenti che trattano il passato letterario. Nelle Epistole di Frontone si può notare un progresso graduale nelle formule iniziali quando egli scrive all’imperatore, e queste mostrano i segni di rispetto e di amicizia intima e mutua tra Frontone e Marco Aurelio. Per esempio Frontone usa le formule: Domino meo, Caesari suo Fronto, Domino meo Caesari Fronto, Have Domine, M. Caesari Domino suo Fronto; da non dimenticare la lettera alla

Mnrpì Xaioapos e più tardi, Fronto Caesari, e Domino meo. Dall’altra parte le formule iniziali usate da Marco Aurelio al maestro sono: Magistro meo, Have mi magister optime (a questo punto vi sono delle varianti nei codici della Vaticana e dell’Ambrosiana), Aurelius Caesar Frontoni suo salutem, Have mi Fronto carissime, Magistro suo Caesar suus, M. Caesar Frontoni magistro salutem, Have mi magister gravissime, Have mi magister dulcissime, e più oltre, Caesar Frontoni, formula molto

semplice, come pure Magistro meo. È ovvio il progresso di amicizia tra l’imperatore e il maestro. Queste formule di Magister dulcissime, o carissime, fanno immediatamente pensare agli appellativi che Dante dà a Virgilio; Dante sconfortato davanti alle mura di Dite chiama Virgilio « dolce padre », e nella terza cornice del Purgatorio esclama « dolce padre mio ».

Nell’epistolario leopardiano si riscontrano dei ragguagli relativi all’uso delle formule iniziali nelle lettere indirizzate ai familiari, agli amici e a personaggi importanti. A Carlo, suo fratello, scrive: Carlo mio, o Mio caro;

a Paolina, sua sorella, scrive: Cara Paolina, Cara Pilla, o Paolina mia; al

cugino, Giuseppe Melchiorri, scrive:

Caro cugino, o Caro Peppino;

al

439

padre, Conte Monaldo, secondo l’occasione scrive: Caro Signor Padre, Papà mio, o Mio caro Papà; agli amici scrive: Caro amico, O mio carissimo, Mio caro e incomparabile amico, e Anima mia, ecc. Per i personaggi illustri le formule sono varie: nelle lettere al Mai il progresso della relazione personale del Leopardi è evidente: da Pregiatissimo Signore a stimatissimo, e poi Pregiatissimo e carissimo signore; ad Antonio Fortunato Stella va da Stimatissimo Signore a Signore ed amico pregiatissimo, o ama-

tissimo. Mi son permesso di selezionare le formule solamente per rendere un’idea del progresso di amicizia. Continuando ad esaminare il carteggio dei due scrittori, si possono intravedere altre somiglianze di stile; se si tratta di cose familiari, troviamo riportate delle chiacchieratine. Nel carteggio frontoniano troviamo: 2. Paululum studui atque id ineptum. Deinde torum sedente multum garrivi. Meus sermo hic erat: Frontonem facere? Tum illa: Quid autem tu meam autem passerculam nostram Gratiam minuscularum? tercamur, uter alterum vestrum magis amaret, discus balneum transisse nuntiatus est.!?

cum matercula mea supra Quid existimas modo meum Gratiam? Tum ego: Quid Dum ea fabulamur atque alcrepuit, id est, pater meus in

Questa epistola di Marco Aurelio a Frontone ci riporta immediatamente a delle lettere familiari del Leopardi al fratello Carlo o alla sorella Paolina, come pure alle lettere dirette al Giordani. Si tratta proprio di cose comuni e di pettegolezzi. Ambedue parlano delle sofferenze a causa delle malattie; Frontone riporta i suoi malori e sembra a volte che scherzi nel suo lamentarsi: Postquam profecti estis, genus dolore arreptus sum, verum ita modico ut et ingrederer pedetemptim et vehiculo uterer. Hac nocte vehementior dolor invasit, ita tamen ut iacens facile patiar, nisi quid amplius ingruerit.!*

Come pure: Cervicum, Domine, dolore gravissimo correptus sum; cessit.‘, 14

de pede dolor de-

Domino meo.

Ego gravissime

arreptus

sum

iterum

ab altero inguine.”

Anche nell’Epistola di felicitazioni per l’anniversario dell’ascesa all’Impero di Antonino Pio, Frontone dopo le cortesie narra le sue pene: 12 Ibid., p. 182 (Vat. 185). 13 Ibid., p. 192 (Vat. 106). 14 Ibid., p. 198 (Vat. 87).

15 Ibid., p. 224 (Vat. 99).

440

... Sed dolor humeri gravis, cervicis vero multo gravissimus ita me adflixit, ut adhuc usque vix inclinare me vel erigere vel convertere possim: ita immobili cervice utor.!9

Troviamo persino nell’epistolario frontoniano la narrazione degli incidenti, come per esempio la lettera a Marco Aurelio: Pueri dum e balneis me sellula, ut adsolent, advehunt, imprudentius ad ostium balnei fervens adflixerunt. Ita genum mihi simul abrasum et ambustum est: postea etiam inguen ex ulcere extitit. Visum medicis ut lectulo me tenerem. ... 17

Leopardi nella sua opera e nelle sue lettere tratta delle malattie dell’anima e del corpo; egli soffre, si dispera, e si rassegna. Pertanto è interessante osservare che, anche se si parla di noia, si trovano dei riscontri sia nella corrispondenza di Frontone che nella corrispondenza del Leopardi. Marco Aurelio scrive al maestro: Dies mihi totus vacuus erit. Siquid umquam me amasti, hodie ama et uberem mi materiam mitte, oro et rogo xal &vriBonë xaù Stouar xai ixetebo. In illa

enim centumvirali non inveni praeter émpwvuara Il senso della noia che non è vita è evidente, come pure è evidente nel Leopardi quando scrive al Giordani: « Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia ».° Due anni più tardi scrive ancora allo stesso Giordani: « Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo » ...?° Se finora si è osservato lo stile epistolare e il lessico di Frontone e del Leopardi, si crede opportuno ora trattare i riscontri per quanto riguarda lo studio, l'ammirazione e la critica dei classici da parte di ambedue gli scrittori. Bisogna ammettere che Frontone, nel trattare i classici, rappresenta una rivolta e desidera una riforma linguistica additando il modello nell’arcaismo lessicale. Mettendo da parte la disputa tra lo stile ciceroniano e quello frontoniano, è necessario rilevare il fatto che Frontone ebbe una grande stima per Marco Tullio, difatti l’epistola di Frontone a Marco Aurelio dichiara:

16 Ibid., p. 226 (Ambr. 348). 17 Ibid., p. 246 (Vat. 100). 18 Ibid., p. 208 (Vat. 80 ad fin. e Vat. 79). 19 G. Lroparpi, Lettere. Lettera a Pietro Giordani, p. 58.

20 Ibid., p. 233.

441

3. Hic tu fortasse iamdudum requiras quo in numero locem M. Tullium, qui caput atque fons Romanae eloquentiae cluet. Eum ego arbitror usquequaque verbis pulcherrimis elocutum et ante omnes alios oratores ad ea, quae ostentare vellet, ornanda magnificum fuisse. Verum is mihi videtur a quaerendis scrupulosius verbis procul afuisse vel magnitudine animi vel fuga laboris vel fiducia, non quaerenti etiam sibi, quae vix aliis quaerentibus subvenirent, praesto adfutura.!

Dopo che Frontone ha trattato nella medesima epistola dell'abbondanza e della ricchezza del lessico, critica la mancanza di vocaboli inaspettati, e continua a definire cosa siano questi vocaboli. Quando

scrive di Cicerone

« fons Romanae

eloquentiae », Frontone

ci fa pensare al Virgilio dantesco, a « ... quella fonte / che spande di parlar sì largo fiume ».? Nel suo metodo di insegnamento Frontone nota la supremazia dello stile dell’Arpinate nelle lettere più familiari, e incoraggia i discepoli ad imitare questo stile tulliano. Ancora nella stessa lettera menziona Frontone gli altri autori classici: Sallustio, Plauto, Ennio, Lucrezio ed altri. È da osservare che Frontone l’oratore rispettava l’Arpinate, lo comparava agli altri nel suo stile e lo raccomandava ai suoi discepoli. Leopardi col suo natural talento per la filologia ben osservava lo stato degli studi filologici in Italia; difatti li deplorava, notandone le lacune, a paragone degli studi filologici d’oltralpe. Egli aveva analizzato i classici, era in contatto con gli eminenti filologi dai quali era stimato, era in contatto col Niebuhr che pubblicò il Frontone nel ’16, un anno dopo la pubblicazione princeps del Mai, e che spronò il Mai a rilavorare sul Frontone che doveva apparire nel 23. Ancora Leopardi era cosciente del dibattito Mai-Niebuhr, e si innestava nella disputa con le sue proprie congetture. Il Frontone era alla moda nell’ ’800, e il Leopardi tratterà il Frontone. Per quanto riguarda la filologia romana, il Leopardi in una lettera al De Sinner scrive: Voi aspettate forse ch'io vi dica qualche cosa della filologia romana ... È ben vero che spesso mi trovo onorato di visite letterarie, ma queste non sono punto filologiche, e in generale si può dire che se qui si conosce un poco più di latino che nell’alta Italia, il greco è quasi sconosciuto, e la filologia quasi interamente abbandonata in grazia dell'archeologia. La quale come felicemente possa essere coltivata senza una profonda cognizione delle lingue dotte, lo lascio pensare a voi. Filologi stranieri di grido non si trovano a Roma quest’anno. Io veggo assai spesso il buon Ministro di Prussia, cavalier Bensen, amico già del povero Niebuhr. ..È 21 C.R. HAINES, op. cit., p. 4 (Vat. 146). 2 DANTE, Inferno. Canto I, vv. 79-80. 23 G. LeoparpI, Le Lettere. Lettera a Luiga De Sinner, p. 1003.

442

Si può dire che il Leopardi era veramente in anticipo rispetto alla filologia italiana dell’epoca, in particolar modo quando si tratta del suo contributo

relativo a Frontone, a Dionigi, e a Cicerone. Il Leopardi aveva trattato il

De re publica di Cicerone prima del ’23 ed era ben in grado di poter fare dei paralleli tra Frontone e Cicerone; ne diviene una autorità rispettata. In una delle lettere a Stella scrive: L’opinione

mia è che non

si debba

scegliere né l’edizione di Parigi, né

verun’altra delle edizioni complete di tutte le opere di Cicerone ... Io non dubito di asserire che una edizione completa di tutte le opere di Cicerone cum selectis variorum, fatta sopra edizioni veramente ottime, e con una scelta di note latine

veramente critica e saggia, avrebbe un incontro grandissimo presso l’estero ...”* E ancora a Stella nel ’26 scrive: Ricevo oggi da mente contentissimo al gusto e all’usanza solamente mi piace, versia il più bello e

Brighenti ... il suo magnifico Cicerone. ... sono rimasto veradelle note latine, che trovo ottime e affatto corrispondenti de’ filologi del nostro tempo. Il resto poi dell’edizione, non ma mi sorprende. Il suo Cicerone sarà senz’alcuna controil più buon Cicerone che abbia mai veduto l’Italia. À

Leopardi aveva dato il suo punto di vista sulla famosa lettera di Cicerone a Lucceio, relativa al comporre la storia della congiura di Catilina, come pure sull’altra lettera nella quale Vero imperatore pregava il suo maestro, Frontone, di scrivere la guerra partica. Ambedue lettere, come dice il Leopardi, « somigliantissime ».# Leopardi aveva ben conosciuto e studiato i classici, e giammai dimentica Frontone. Il suo interesse e l’amore per Frontone era ovvio; nel ’16 scrive al Mai:

« Frontone è vostro ... La vostra fama non morrà, ove non

muoia quella del secondo fra gli Oratori Romani ... ».7 Era l’epoca in cui il Mai era a Milano, e Leopardi prega il noto curator della biblioteca di

leggere la Vita di Frontone scritta da lui. Nel ’17 disilluso il Leopardi scrive al Mai: « ... Il mio Frontone, indegno di veder la luce torna a me, ...in tenebre eternamente ».* Nel giugno dello stesso anno il Leopardi mette da parte il Frontone; nel frattempo nel ’18 ammira il Mai per la sua difesa del Frontone e maltratta il Niebuhr; al Mai in questo periodo scrive:

24 Ibid., Lettera

a Antonio Fortunato Stella, pp. 531-532 e p. 533.

25 Ibid., p. 715.

26 Le poesie e le prose, vol. II, LXIX, p. 43. 27 Le Lettere. Lettera ad Angelo Mai, p. 13.

28 Ibid., p. 39.

443

… m'è stata cara la sua Difesa del Frontone, dove con tanta dignità e forza si schermisce da quei cani stranieri. Io per me domanderei volentieri al Signor Niebuhr perché mai stimando Frontone, com’egli dice, uno scrittoraccio vile e da nulla, si sia scomodato a curarlo, e fasciargli, secondo ch'egli scrive, le piaghe, con applicarci quelle sue chiarate che invece erano vescicatorii ...?

Il Frontone sembra essere per il nostro Leopardi una spina che gli trafigge il cuore, egli sempre continua ad interessarsi del soggetto, difatti nel 25 scrive al Melchiorri: … Pare ancora che gli editti imperiali in quel tempo si scrivessero in molto cattivo stile, e Frontone ne mette in ridicolo uno di M. Aurelio nei suoi Frammenti de Orationibus.®

Nel Discorso sopra la Vita di M. Cornelio Frontone, il Leopardi mostra a qual punto egli amasse l’oratore; deplorava, infatti, « di cuore la perdita delle sue opere, che supponeva essere state eccellenti, e non inferiori ad altre che a quelle di M. Tullio ».* Il Leopardi l’ammira immensamente dichiarandolo « uomo dabbene. La sua eloquenza fu somma ... scelse la virtù con piena cognizione ... Fu fedele, costante, liberale, compassionevole, pio, modesto, sobrio, sincero, paziente, facile a perdonare le offese ... » ? Nella lettera al Giordani ancora una volta si nota l’amore del Leopardi per Frontone, che è stato « sconosciutissimo » fino al ’15; il nostro Leo-

pardi analizza a fondo l’opera dell’oratore e lo difende dall’accusa della pompa attribuitagli da Mamerto e da quella della secchezza assegnatagli da Macrobio; egli si dilunga facendo delle distinzioni logiche fra i concetti di secchezza e di pompa, dichiarando i due elementi incompatibili con gli antichi. Ecco come Leopardi definisce secchezza: E per la secchezza del dire non bisogna mica intendere né povertà né grettezza né fiacchezza né cose tali, ma quella proprietà degli attici tanto famosa e lodata anticamente, che consisteva massime nella semplicità e nella sobrietà: la chiamavano i latini non pure siccitatem, ma tenuitatem e subtilitatem, e anche sanitatem e integritatem, dai quali nomi si può comprendere di che natura fosse.

Queste distinzioni logiche leopardiane indicano ciò che il Leopardi ammirava, cioè l’inaspettato, lo spontaneo, ciò che viene dall’intimo dello scrit29 30 31 32 3

444

Ibid., p. 129. Ibid., Lettera a Giuseppe Melchiorri, pp. 536-537. Le poesie e le prose, II, p. 640. Ibid., p. 652. Ibid., p. 662.

tore e dell’oratore. Lo stile del Leopardi è il medesimo di quello di Frontone, egli scrive solo quel che sente e scaturisce in un modo naturale dall’animo; si potrebbe ben dire: stile frontoniano-leopardiano, che consiste di semplicità e di naturalezza. Aggiunge Leopardi che nel suo stile « ... Frontone non era effeminato né temerario né ampolloso, e non esagerava né sbraciava, né sputava paroloni ... ma metteva solo quelle che il soggetto

gli porgeva e quasi frattanto gli produceva ... ».* Come dice Leopardi, di Frontone abbiamo dei « rimasugli giudiziali », ma dalle epistole si può ben notare il suo stile, il suo metodo pedagogico e le sue teorie dell’Ars Oratoria. Frontone richiedeva ai suoi discepoli lo studio delle farse, delle commedie, e lo studio degli antichi oratori e poeti;

li incoraggiava a fare degli estratti dagli autori studiati: Catone, Gracco, Sallustio, Ennio e Cicerone. Marco Aurelio preferiva Catone, mentre il maestro preferiva Sallustio. Per quanto riguardava la composizione delle epistole Cicerone era considerato esempio supremo da imitare, in particolar modo per lo stile delle lettere familiari. Importante nel sistema pedagogico era la composizione di poesie, e si credeva che Virgilio fosse un buon modello da seguire perché Virgilio usava le forme arcaiche e seguiva le leggi retoriche. Le similitudini eixéves erano di importanza capitale, come vedremo; inoltre Frontone richiedeva ai suoi discepoli la traduzione da una lingua a un’altra e composizioni originali, e narrative storiche.® Abbiamo pochissimo delle orazioni di Frontone, ma di nuovo dal carteggio di Frontone possiamo stabilire le teorie della sua retorica: con l’esigenza di un ritmo spezzato, raccomanda quasi una rozzezza, il naturale, richiede un rinnovamento e un rimodellare della lingua, l’uso accurato del vocabolo, la ricerca delle parole di sapore arcaico; ed è in questa maniera che Frontone divenne lo scrittore amato dal Leopardi. Col pensiero rivolto all’oratoria egli scrive a Marco Aurelio: Quae sunt aures hominum

hoc tempore!

Quanta in spectandis orationibus

elegantia! Ex Aufidio nostro scire poteris quantos in oratione mea clamores conCItarit.

Hic summa illa virtus oratoris atque ardua est, ut non magno detrimento rectae eloquentiae auditores oblectet; eaque delenimenta, quae mulcendis volgi auribus comparat, ne cum multo ac magno dedecore fucata sint: potius ut in compositionis structuraeque mollitia sit delictum quam in sententia impudenti.*

È appunto questo che vuole Frontone: piacere agli astanti, applausi per l'oratore, e parole che solleticano l’udito, senza sacrificare la dignità. % Ibid., p. 663. 35 C.R. HAINES, op. cif., pp. XXXV-XXXVI, passim. 36 Ibid., p. 118 sg. (Ambr. 60).

445

Si vorrebbe fare, prima di concludere, una parentesi per trattare le lettere greche di Frontone e la sua maniera di scrivere; per esempio nelle due lettere che tratteremo, quella del cosiddetto Discorso sull’Amore e quella scritta alla Madre

di Cesare le similitudini

eixéves abbondano.

Nella prima vi sono dei riferimenti alle orazioni di Lisia e Socrate nel Phaedrus di Platone e i paralleli dell'amore, oltre alle formule iniziali già trattate. Una delle prime similitudini tratta delle piante e dei fiori; dei fiumi e delle piante: « ... dA mi Tavrì dyado. nai Gpenobvrar Yàp xaù Sixcmtovtar oi xadoi ÜTd TGV UM ÉpPOVTOY UANOV, Morep TA UT ÙITÒ TV 0O&TEV. où yap Épdouv oùte Tnyai oùte morauol TOY purüv, KAMA THPLOVTES obtw S) xal mapapptovieg dvdeiv adrà xai DEAR Tapeoxeracav »

Un’altra similitudine, quella delle bestione feroci e selvagge si trova nella stessa lettera: « Bo tic dxbiaotog rt’ ototpov Tporeuropév, drotat Inpicov 7 Booxnuatwy dròd Épwroc Bprympévwy à yeepetitoviwv À puxmpévoy À dpvouévov. tobrois Éouxev TÀ Tüv épovrwy dopata».* I

E ancora oltre, ecco un parallelo coi fiori e la loro inclinazione:

« ...

cixdc SE 0° À mapa untpdc À Tüv dvadpevautvov pù dvijuoov sivar TL TV / dvd éotiv TL È Sh tod MAlov Epà Hal mioyer TÀ TV ÉPHOVTOV, dvateMovtoc / ÉTALQÔMEVOV KA Topevouévov xaTaoTpepouevov, duvovtocg dè reprrperdpevov: /

dA’ oùdév ye TASOv drodadet, ... ».° Immagine

meravigliosa

di due ele-

menti della natura che si inclinano l’uno verso l’altro; è il caso di dire:

Amor naturale desiderato. L’amicizia intima, familiare, è evidente, e l’affetto reciproco permette a Frontone di scrivere alla madre dell’imperatore e dire ciò che gli vien fuori dal suo intimo in un modo naturale. La lettera all’inizio rivela a Domitia Lucilla che egli aveva composto una orazione pertinente all’imperatore, ma quasi immediatamente fa una enumerazione di similitudini: egli lavora con gli stessi difetti della iena, datvy, che è inamovibile e non si volta né a destra, né a sinistra; si compara

al serpente, ëpeuc, che va

sempre avanti; ancora fa il parallelo delle frecce e delle lance, tà Sépata Sè xa tà t6za, che se lanciate in linea diretta possono colpire il bersaglio in modo migliore. Continua a paragonarsi alla nave, vaüv, che spinta dal vento di poppa va avanti; e infine, nella quinta similitudine, fa il parallelo con la linea retta, ed9eîa, linea diretta, perfetta. Scrive più tardi che l’arte di creare similitudini è insinuante e cresce con lo scrittore. Alla

37 Ibid., Epist. Graecae, 8, p. 22 (Ambr. 70). 38 Ibid., p. 28 (Ambr. 74). 39 Ibid., pp. 28 e 30 (Ambr. 73).

446

fine dell’epistola, dopo aver detto che era egli un nomade della Libia, con-

clude col dire di porre termine alle similitudini! |

Ritorniamo

per un istante all”’Eporixèc A6Yyos per notare

di Marco Aurelio, che scrive al maestro opfime:

la risposta

Age perge, quantum libet, comminare et argumentorum globis criminare: numquam tu tamen erasten tuum, me dico, depuleris. Nec ego minus amare me Frontonem praedicabo, minusque amabo, quod tu tam variis tamque vehemen-

tibus sententiis adprobaris minus amantibus magis opitulandum ac largiendum esse. Ego hercule te ita amore depereo, neque deterreor isto tuo dogmate, ac si nua us aliis non amantibus properus et promptus, ego tamen vivus salvusque

amabo. Il Discorso sull’Amore, che per noi sarebbe l’Arzicizia, e la risposta

dell’imperatore lasciano immediatamente pensare allo stile epistolare classico e rinascimentale. Dicevo Azzicizia e ciò potrebbe essere confermato dalla lettera di Marco Aurelio a Frontone consul amplissime: Manus do, vicisti: tu plane omnes, qui umquam amatores fuerunt, vicisti amando. Cape coronam ... At ego, quamquam superatus, tamen nihil de mea prothymia decessero aut defecero. Igitur tu quidem me (mi) magister, magis amabis quam ullus hominum ullum hominem amat … Iam mihi cum Gratia certamen Chit

Leopardi aveva ben inteso questo stile, difatti nei suoi scritti ne parla e lo difende, i malintesi possono venire a galla per quelli che non sanno. Nello Zibaldone scrive: Non sarebbe fischiato oggidì, non dico in Francia ma in qualunque parte del mondo civile, un poeta, un romanziere ec. che togliesse per argomento la pederastia, o l’introducesse in qualunque modo; anzi chiunque in una scrittura alquanto nobile s’ardisse di pur nominarla senza perifrasi? Ora la più polita nazione del mondo, la Grecia, l’introduceva nella sua mitologia (Ganimede), scriveva elegantissime poesie su questo soggetto, donna a donna (Saffo), uomo a giovane (Anacreonte) ec. ec. ne faceva argomento di dispute o trattati rettorici o filosofici (prima epistola greca di Frontone), ...*

Il Leopardi non manca di fare uso delle similitudini alla Frontone, delle immagini simili abbondano anche nel Leopardi. Citiamo per esempio dal Discorso sopra la Vita e le Opere di Frontone: 4 41 4 43

Ibid., pp. 130-136, passim (Vat. 106, Ambr. 158). Ibid., p. 30 (Ambr. 126, Vat. 121). Ibid., p. 112 (Vat. 174). G, Leoparpi, Zibaldone I, p. 1171.

447

.. Dove scorreva il fiume di Tullio, precipitava il torrente di Seneca e di Plinio; dove suonava la tromba di Virgilio, strepitava il tamburo di Lucano; dove Catullo, scherniva Marziale. Frontone si avvide che nel suo nee per i esser veramente eloquente conveniva essere riformatore. ….#

Ancora nella medesima opera troviamo: . Frontone usa uno stile maschio, e robusto ... cerca la sodezza e la forza; gli ornamenti che adopera, non consistono in parole, ma in cose, e però sono per così dire innestati nel soggetto, e non risaltano certamente come quelli di Seneca

e di Plinio. Questi lampeggiano, e Frontone risplende; essi saziano, e Frontone contenta ... Egli si serve all'uopo di una gravità dignitosa ... di uno stile semplice e leggiadro ...®

E per ultimo dalla lettera al Giordani Sopra il Frontone del Mai (l’ediz. del 1815) vogliamo citare il passo che tratta dei paralleli tra Demostene, Cicerone e Frontone, nel discutere la pompa attribuita a Frontone da Mamerto: .. paragonare con Demostene Cicerone, il quale come è, si può dire, il solo oratore latino che ci rimanga, così è il solo pomposo, non confacendosi la pompa allo stile dei greci: ... nel che differisce ... manca a Demostene la pompa. Il quale si potrebbe paragonare a un torrente ... Ma Cicerone si dovrebbe rassomigliare a un fiume ...*

Nel comparare Leopardi e Frontone i riscontri delle similitudini sono evidenti nel loro stile semplice, ma descrittivo che ci presenta delle immagini fluide; torrente, fiume, lampo, splendore, vento, movimento

sia del

fiore che delle piante, immagini del tutto naturali e si direbbe veristiche. Si è notato a qual punto il Leopardi diventa puntiglioso nella definizione e nella distinzione della « secchezza » e della « pompa ». Nello Zibaldone, dopo aver trattato della differenza tra la lingua greca e quella latina, dopo aver trattato di vari scrittori, e delle differenze linguistiche dei vari autori, scrive: .. Bisogna però ch’io renda giustizia a Frontone, perché se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio e discernimento, ... Frontone non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e

giudiziosa novità e formazione delle parole o modi, ... Frontone del resto non fu niente povero d’ingegno ...! # 45 40) 47

448

Le poesie e le prose, II, p. 653. Ibid., p. 655. Ibid, p. 661. Zibaldone I, p. 525.

Il difetto al quale si riferisce il Leopardi consisteva nel fatto che Frontone invece di purificare la lingua l’aveva resa antiquata col suo arcaismo. Frontone è stato discusso ampiamente nell’ ’800, le dispute si son susseguite. Il Leopardi era entrato con amore nella battaglia frontoniana, e a favore di Frontone, disputando e difendendolo. Fortunatamente il Frontone del Leopardi, il suo Frontone, non è rimasto nelle tenebre eterne, ma lo possediamo: analizzandolo, ci sprona di continuo a riscontri e paralleli tra i due scrittori. JosePH FIGURITO

449

L'opposizione antichi-moderni nelle tensioni epico-liriche delle prime dieci canzoni del Leopardi

Il rapporto antichi-moderni, uno dei motivi portanti nel pensiero del Leopardi sulla realtà storica sociale esistenziale dell’uomo, si sviluppa nello Zibaldone principalmente tra gli anni 1820 e 1821, parallelamente, almeno in parte, all’elaborazione delle prime dieci canzoni! Lo studio di tale rapporto risulta condizionato dalle complesse metamorfosi che si verificano nella meditazione del poeta tra la prima fase del suo pessimismo, cosiddetto « soggettivo », e le successive

del pessimismo

« storico » e « co-

smico », anche se risulta impossibile una distinzione netta fra tali momenti, dato che quello che il Leopardi afferma e presume come « sistema » è sostanzialmente la ricerca perennemente in fieri di un poeta, non priva pertanto di contraddizioni anche se orientate su alcune fondamentali intuizioni di fondo:? pertanto il più probante riscontro è per esse da ricercarsi piuttosto nelle opere alle quali meglio risponde l’immagine che l’autore intende incidere di se stesso coinvolgendo nella elaborazione estetica e stilistica l’intera realtà che dalla sua coscienza in movimento si decanta. Particolarmente ricche di riflessioni sono negli anni suddetti le pagine zibaldoniane dove si pone a confronto la civiltà moderna con quella antica, 1 Tali canzoni il Leopardi raccolse in volume nel 1824, a Bologna (Tip. Nobili, pp. 196 in 16° piccolo). 2 Sulla impossibilità del « sistema » filosofico del Leopardi — fondato sullo scandalo della caduta delle illusioni, degli inganni benefici della natura — di sostanziali sviluppi, nonostante le « correzioni » dell’ultimo periodo, insiste Rodolfo QUADRELLI in un breve studio su La reiterazione filosofica di Leopardi (« Otto/Novecento », a. III, n. 1, gennaio-febbraio 1979, pp. 285-293): dove fra l’altro si tende a considerare la dialettica romanticismo-illuminismo, ben viva in tutta l’opera del Recanatese, come un capitolo minore della più grande opposizione moderno-antico. Su particolari aspetti e problemi del « romanticismo » leopardiano, anche in rapporto all’opposizione antichi-moderni, cfr. il mio recente studio, Leopardi romantico antiromantico: la fiamma e lo specchio sul labirinto (« Otto/Novecento », a. III, n. 3-4, maggioagosto

1979).

3 Proprio in questo coinvolgimento è possibile chiarire nell’analisi delle strutture i legami semantici con i contenuti e i fenomeni pre-testuali, secondo le considerazioni di Jurij M. LOTMAN

(La struttura del testo poetico, Mursia 1972, 1976) secondo il quale neppure lo studio semio-

logico può prescindere dai problemi del contenuto, che risulta sempre « un problema di transcodificazione » (ivi, pp. 47-48).

451

della quale si intende a comprovare, sull’altra, la decisa superiorità in quanto privilegia questa nostra vita come il massimo bene da difendere, in armonia con la volontà della natura provvida: ma già in una lettera al Giordani del 30 giugno 1820 si coglie una testimonianza importante su detto confronto che esplicitamente si risolve in netta opposizione: Che cosa è barbarie se non quella condizione dove la natura non ha più forza negli uomini? Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita. Come penseremo di traviare seguendo la natura? [...] Tutto quello che è, non è scontento di essere, eccetto noi che non siamo più quello che dovevamo e ch’eravamo da principio. Seneca diceva che la ragione ha da osservare e consultar la natura, e che il viver beato, e secondo natura, è tutta una cosa. Ma la ragione moderna, all’opposto della ragione antica, non osserva né consulta se non il vero, ben altra cosa che la natura.

È evidente che nell’espressione « non siamo più quello che dovevamo e ch’eravamo da principio » il Leopardi intende riferirsi, accostandosi alle suggestive proposte del Rousseau nel Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes) a un mitico « stato di natura » che è più un’ipotesi di fantasia che una fase-condizione concretamente

definibile, e risulta co-

munque superata dall’irreversibile sviluppo della facoltà razionale propria dell’uomo: sì ché — come il Recanatese scriveva qualche mese più avanti nello Zibaldone — « dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita, è quello di una civiltà media », caratterizzato da «un certo equilibrio fra la ragione e la natura »: « Tale appunto era lo stato degli antichi popoli colti ».f A quella civiltà — la civiltà dei Greci e dei Latini come si preciserà nello Zibaldone alcuni anni dopo” — già il Leopardi si richiama, 4 G. LEOPARDI, Epistolario, a cura di F. MoroncinI, II, Firenze 1935, p. 54. I concetti basilari di questo passo sono già presenti in una pagina dello Zibaldone, probabilmente del 1819, dove le illusioni — come la gloria, l’amor di patria, la libertà — vengono sì considerati «beni vani» ma da «chi è bene illuminato » (detto ovviamente con ironia), mentre « non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ecc. ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura » (Zib., ed. a cura di F. FLora, Mondadori 19534 [a questa edizione faremo sempre riferimento anche nelle note successive], I, p. 32). ° Vedine il titolo esatto in Contrat social etc., Oeuvres choisies de J. J. RousseAU, Paris 1908. Una buona traduzione italiana dell’opera (a cura di R. MONDOLFO) si trova in Opere di J.J. RoussEAU, a cura di P. Rossi, Firenze 1972.

6 Zib. I, p. 353. 7 Zib. II, p. 1001.

452

a contrasto con la civiltà moderna, nelle due canzoni patriottiche, non a

caso collocate dall’autore ad apertura dei Canti, in quanto in esse mostra di aver trovato il punto di applicazione più appropriato alla sua ricerca secondo un’idea di poesia che, senza rinunciare a far centro della ispirazione le più alte tensioni del cuore e la fiera coscienza di un ingegno anelante all’azione e alla gloria, faccia scoccare la scintilla più feconda tra ideale e reale, tra storia e parenesi, mettendo a confronto le miserie del presente con l’eroismo degli antichi. Ed ecco, nella canzone A//’Italia, l’inizio già incardinato sull’antitesi che nasce, visivamente, da quel confronto: « ma la gloria non vedo, / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi » (vv. 4-6). Commenta lo stesso Leopardi

a proposito di « carchi di lauro »: « Qui è un’iperbole per lodare » (e cita, come ascendente, un’espressione di Virgilio). Ma osservando le strutture e il lessico si nota, nell’insistenza dell’iterazione negativa, il forte rilievo del lemma simbolico (lauro per « gloria ») e della metafora (ferro, meto-

nimia di « armi ») che richiamano ed esaltano principi, costumi e ideali degli antichi” Ai quali torna a richiamarsi nei vv. 61-63 — « Oh venturose e care e benedette / l’antiche età, che a morte / per la patria correan le genti a squadre » — con accenti dove la prolessi del triplice predicato e l’ellissi del verbo concorrono a incidere con più celerità e forza l’esaltazione affettuosa: anche in questo caso a contrasto con l’angosciosa realtà del presente cui alludono i precedenti versi 54-60! che intendono probabilmente richiamare, con « nemici altrui », gli eserciti russi contro cui

avevano combattuto soldati italiani costretti a militare sotto le insegne di Napoleone. A quella desolata tragedia il Leopardi dedicherà l’ultima parte della canzone Sopra il monumento di Dante, concepita in un unico abbozzo insieme alla precedente: così mentre in questa, al v. 60, il tema sembra trasformarsi e il discorso si sposta dai moderni agli antichi sì che il canto all'Italia diviene il canto di Simonide per il sacrificio eroico di Leonida e dei suoi trecento, in quella alla celebrazione

dell’eroe antico — anche

Dante può considerarsi carlyliamente « eroe » — sapientemente s’innesta 8 Già nell’Appressamento della morte, la cantica leopardiana del 1816, « l’ansia di grandezza, l’anelito all’immortalità, che si generano in un sentimento oramai adulto e ardito del proprio valore, preannunciano una importante linea di sviluppo della poesia del Leopardi, quella dell’agonismo eroico » (A. FRATTINI, Introduzione alla poesia del Leopardi, in G.L., Canti, a cura di A.F., Brescia 1960, 19744, p. 9). 9 Presso gli antichi — osserverà qualche anno dopo (5-11 agosto 1823) il Leopardi nello Zibaldone (II, p. 266) — «l’esser vinto si teneva per ignominia, e il vincere in qualsivoglia modo era gloria, non si considerando allora gran fatto altra giustizia che quella dell’armi, altro diritto che della forza ». 10 « Oh misero colui che in guerra è spento, / non per li patrii lidi e per la pia / consorte e i figli cari, / ma da nemici altrui / per altra gente, e non può dir morendo: / Alma terra natia, / la vita che mi desti ecco ti rendo ».

453

il commosso epicedio per i caduti italiani nella campagna di Russia. Ma anche in questa seconda delle due canzoni « gemelle » assai accesa è la dialettica che oppone gli antichi ai contemporanei, sì che aspro e impietoso monito suona l’invito che il poeta può rivolgere alla sua patria: « Volgiti indietro, e guarda, o patria mia, / quella schiera infinita di immortali, / e piangi e di te stessa ti disdegna; / che senza sdegno omai

la doglia è stolta: / volgiti e ti risveglia e ti riscuoti, / e ti punga una volta / pensier degli avi nostri e de’ nepoti ». Dove, al di là di un ricorrente gusto di amplificazione aulicheggiante intonato alla solennità dell’allocuzione, si rileva nell’incalzare dei verbi contestativi — « ti disdegna », « ti vergogna », « ti riscuoti », « ti punga » — l’energia che si sprigiona dall’insistente confronto tra i nobilissimi esempi dei remoti progenitori e l’avvilente realtà dei nostri tempi: un’energia che si moltiplica irradiandosi — sull’arco di tensioni avi-nepoti — nelle prospettive del futuro. Ma sul presente torna a battere con forza l’accento in un passo centrale della canzone, dove si auspica che Dante possa, dal monumento

dedica-

togli, aver gioia non per compiacenza personale (assurda ipotesi già respinta nel v. 78) ma per amore di patria:

« Ma non per te; per questa

ti rallegri / povera patria tua, s’unqua l’esempio / degli avi e de’ parenti / ponga ne’ figli sonnacchiosi ed egri / tanto valor che un tratto alzino il viso » (vv. 86-90): espressione di singolar potenza che trova il suo fulcro nello scatto figurale, al punto di tangenza-contrasto tra l’esempio degli antichi padri e l’inerzia umiliante dei figli. Un motivo che si riafferma dominante anche nella sequenza conclusiva della canzone, in cui, dopo una serie convulsa di interrogativi, dove si riflette l’acme dello sgomento e del dubbio per l’avvenire, solennemente il poeta, in prima persona, afferma la volontà di perorare senza tregua la riscossa della sua gente richiamandola alla coscienza delle proprie origini, all’eredità morale e civile dei padri." Anche nella canzone Ad Angelo Mai del 1820, l’opposizione antichimoderni si rivela motivo portante nel tessuto dell’ideazione ma entro una dialettica etico-tematica più complessa sì che il ritorno degli « antichi padri » — che offre occasione al canto con la riscoperta da parte del Mai del De Republica ciceroniano — si trasfigura in una sorta di prodigioso risveglio (« tanto e tale / è il clamor de’ sepolti, e che gli eroi / dimenticati il suol quasi dischiude », vv. 26-28) nella cui luce rigenerante trova appropriato spazio l'ideale « galleria » dei grandi italiani del passato — dall’Ali| 1 «Io mentre viva andrò sclamando intorno, / volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio; / mira queste ruine / e le carte e le tele e i marmi e i templi; / pensa qual terra premi; e se destarti / non può la luce di cotanti esempli, / che stai? levati e parti. / Non si conviene a sì corrotta usanza / questa d’animi eccelsi altrice e scola: / se di codardi è stanza, / meglio l’è rimaner vedova e sola ».

454

ghieri a Colombo, dall’Ariosto al Tasso all’Alfieri — che consentono al Recanatese di prospettare da un lato la sua attivistica ma già pessimistica visione della realtà della natura e dell’esistenza, dall’altro di offrire al « secol morto » uno strumento di radicale palingenesi: della quale anche la vergogna (vedi v. 180) suscitata dal confronto potrebbe farsi rigorosa promotrice. Fra i più acuti interpreti novecenteschi di questa canzone Ungaretti, sottilmente scavando nel contrappunto che la informa, mira a coglierne i riflessi nel vivo del linguaggio, in quel contrasto tra forme nuove e arcaiche che vi si afferma (coerentemente con il nuovo criterio di « eleganza » perseguito dal Leopardi) e che vale a comunicare mirabilmente « per peregrinità una percezione dell’occulta origine e dell’occulta meta delle cose »: una prospettiva, in certo modo, microescatologica della semantica poetica riconducibile alla straordinaria sensibilità filologica del Recanatese ma che non deve comunque mettere in ombra l’altro aspetto della nuova poesia che nel canto Ad Angelo Mai si rivela e cioè l’idea di litica — primogenito fra i generi di poesia, « espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo » © — innestata con il genere epico che altro « non è in certo modo che un’amplificazione del lirico », tanto che lo stesso poema epico « non è che un inno in onor degli eroi o delle nazioni ... solamente un inno prolungato ».* Questi appunti sono del 1826 ma possono integrarsi, per quanto riguarda il fine che il poeta epico, e non solo epico, deve proporsi, con quanto il Leopardi aveva annotato nel 1823, insistendo sugli scopi morali civili parenetici sottesi ma dissimulati nella poesia," mentre per quanto riguarda l’interesse che dall’opera poetica — epopea o dramma — può sorgere è da tener presente un appunto zibaldoniano del 1829, dove si privilegia il « nazionale » il « noto » il « familiare » ma anche «le cose e le persone antiche e straniere » se più note e familiari — e dunque « più ricche di rimembranze » — rispetto alle nazionali e moderne; sino alla conclusione, solo in apparenza paradossale:

« I nazionali nostri sono i greci, i romani, gli ebrei ecc. coi

quali siamo convissuti fin da fanciulli » ® (rilievo che si fa chiave preziosa per ricollegare la poetica del familiare alla poetica della memoria). Un altro aspetto da non trascurare nella poetica che il Leopardi va elaborando nel tempo delle dieci canzoni è la suggestione che avverte in ogni riferimento

agli antichi e all’antico:

poeticissime e piacevoli consi-

12 Zib. II, p. 1063. 13 Aggiunge, a comprova: « E veggonsi i canti di selvaggi in gran parte, e quelli ancora de’ bardi, partecipar tanto dell’epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de’ due generi attribuirli » (207). CPP

RL DS 12;

15 Zib. II, p. 1291 (5 aprile 1829).

455

le parole lontano e antico « perché destano idee vaste, derava nel 1821 e indefinite », mentre in una premessa (nell’autografo napoletano) all’Ultimo canto di Saffo (del 1822) osservava: « Il grande spazio frapposto tra Saffo e noi confonde le immagini, e dà luogo a quel vago e incerto che favorisce sommamente la poesia ». Un riflesso di questa convinzione, che si salda con l’altra sopra accennata della vitalità degli antichi per familiarità di memorie, già si coglie nella canzone al Mai dove, rivolgendosi al fortunato filologo, il poeta scrive: « per tua man presenti / paion que’ giorni allor che dalla dira / obblivione antica ergean la chioma, / con gli studi sepolti, / i vetusti divini, a cui natura / parlò senza svelarsi, onde

i riposi / magnanimi allegràr d’Atene e Roma »:” dove il tono, di una gravità tra epica e ieratica, che la frequenza degli arcaismi accentua, mira ad esaltare, nella mediazione del risorgimento umanistico, l’irrepetibile condizione degli antichi con i quali la natura direttamente comunicava prima che la ragione, penetrandola e sforzandola, ne svelasse gli amari segreti. Il persistere anche qui di una tensione dialettica traspare dai versi immediatamente successivi, dove l’iterazione incide di quell’età l’insanabile perdita: « Oh tempi, oh tempi avvolti / in sonno eterno! ». Ma la varietà e duttilità dei registri in cui l’antitesi antichi-moderni si attua può verificarsi più avanti in questa stessa canzone, nella sequenza dedicata al Tasso:

« O caro / chi ti compiangeria / se fuor che di se stesso, altri

non cura? / chi stolto non direbbe il tuo mortale / affanno anche oggidì, se il grande e il raro / ha nome di follia; / né livor più, ma ben di lui più dura / la noncuranza avviene ai sommi? o quale / se più de’ carmi, il computar s’ascolta, / ti appresterebbe il lauro un’altra volta? ! Anche

oggidì, si noti: cioè come ai tempi del Tasso, sebbene la situazione attuale sia ben peggiore di quella di allora, ché il risentimento e l’invidia nei confronti degli uomini più grandi sono oggi superati dall’agghiacciante indif: ferenza che li circonda;

né manca

la nota ironico-satirica:

chi vorrebbe

più attribuire al Tasso la corona di poeta in un tempo come il nostro in cui più che alla poesia si presta attenzione al computar, all'arte di fare i conti? !

16 I 18 19

Zib. I, pp. 1145-1146. Ad Angelo Mai, vv. 49-55. Ivi, vv. 141-150. Nel XLIV dei Pensieri, dove si afferma che i contemporanei non si accordano che nella stima della moneta, « quasi che i danari in sostanza sieno l’uomo », il Leopatdi trova modo subito dopo, di mettere a contrasto moderni e antichi: « Al qual proposito diceva un filosofo francese del secolo passato: i politici antichi parlavano sempre di costumi e di virtù; i moderni non parlano d’altro che di commercio e di moneta ». Quanto al filosofo francese qui chiamato in causa, mentre Ildebrando DELLA GIOVANNA (nel suo commento a Le prose morali di G. LeoPARDI, Firenze 1895, ivî — con nuova presentazione di G. DE ROBERTIS — 1957) aveva pensato

456

L’opposizione

antichi-moderni

torna

come

motivo

epico-lirico nella

canzone successiva Nelle nozze della sorella Paolina (1821), dove l’intento

parenetico risulta più diffusamente potenziato, coerentemente con il tema, dal patetico affettuoso; ma non meno dura e radicale risulta la riprovazione del presente: che se nella conclusione della canzone al Mai veniva bollato come « secol di fango » qui si caratterizza come « la vergognosa età »:° « I danni e il pianto / della virtude a tollerar s’avvezzi / la stirpe vostra, e quel che pregia e cole / la vergognosa età, condanni e sprezzi: / cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto / agli avi suoi deggia la terra impari ». Una poesia, dunque, che decisamente distaccandosi dal carattere tradizionale dell’epitalamio affonda le proprie radici nella passione patriottica e libertaria del giovane Leopardi, con punte di agonismo particolarmente alte proprio nella parte conclusiva del canto, dedicata a Virginia e tutta animata dal contrappunto tra l’immagine di una giovinezza troncata nel suo fiore e la morte come dono di virtù e strumento di riscossa per un intero popolo, ammollito dagli ozi e dalla servitù: un contrappunto dove la poesia si fa, nell’abile intarsio fra intento parenetico e sviluppo epico-lirico, autenticazione di un moto profondo del sentimento e della coscienza, omologazione di ciò che fu in ciò che deve o dovrebbe essere. Anche nella canzone (scritta poco dopo la precedente) A un vincitore nel pallone la memoria degli antichi si ripropone in luce d’esempio per il giovane atleta, entro densi e drammatici scorci dell’eroismo classico, qui specificamente ellenico. Si riconfermava così la convinzione, maturata da Giacomo in lunghi anni di appassionati studi, che la superiorità degli antichi sui moderni si fondava anche sulle particolari condizioni di società e di libertà che consentivano ai giovani di temprarsi agonisticamente all’azione sotto l’eccitante stimolo dell’amor patrio e della gloria. La visione del poeta tende ad un pessimismo ancor più accentuato (si pensi anche ai possibili riflessi della situazione politica italiana negli anni della Restaurazione) sì che nella conclusione dell’epinicio altra gioia o ricompensa non si prospetta per l’atleta vittorioso che quella di meglio assaporare la vita nell’impegno dell’azione e nella sfida del rischio, ma nessuna via è possibile al riscatto dalla presente situazione se gli italiani non riprenderanno coscienza del luminoso passato della patria: inevitabile, altrimenti, sarà per essa la distruzione e la rovina che la fantasia del poeta al Montesquieu, citando un passo dell’Esprit des lois dove si esprime un concetto analogo, M. Losacco (Leopardiana, « Giorn. stor. d. letter. ital. », 1896, vol. XXVIII, fasc. 1-2, p. 275)

chiariva la vera derivazione dal Rousseau, che aveva scritto: « Les anciens politiques parlaiement sans cesse di moeurs et de vertu, les nôtres ne parlent que de commerce e d’argent ». 20 Ancora più crudi i precedenti assaggi: « (Il) nequitoso (tempo) — Il pestifero, venenoso, venefico » (Canti di G. LeoPARDI, ediz. critica di F. Moroncini, Bologna 1927, I, p. 164).

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foscamente prefigura:” « se la funesta delle patrie cose / obblivion dalle perverse menti / non isgombrano i fati, e la matura / clade non torce

dalle abbiette genti / il ciel fatto cortese / dal rimembrar delle passate imprese ». Dove il ricorrere degli arcaismi e dei latinismi fa più severo e solenne il contrasto, di cui force dice plasticamente la potenza, tra l’abiezione del presente e la eccellenza degli antichi progenitori, della quale il

semplice ricordo si considera capace di indurre a benevolenza le forze avverse che ci trascendono. Nel Bruto minore l'orizzonte si allarga ancora per proiettare dall’interno di un personaggio dell’antichità classica — qui Bruto, come poi Saffo nella canzone del 1822 — il senso di una situazione esistenziale. In una nuova sintesi delle metamorfosi dell’uomo e della storia del mondo, con-

notata da una idea di progressiva decadenza (vv. 112-113: precipitano i tempi ») si contrappongono

« In peggio /

così ai « regni beati » (v. 56)

dell’età aurorale del genere umano l’« empio costume », la nuova realtà della vita associata, nel segno dominante della ragione. Bruto, che insorge contro la tirannia, violenza e frode del potere, e, sconfitto, non trova altra

alternativa alla vergogna della schiavitù che la ribellione al fato e agli dei e la conseguente logica del suicidio, è sul discrime di due età, il termine di rottura in cui la parabola del pensiero del Leopardi riflette la parabola stessa della storia dell’umanità: all’epoca della ridente immaginazione, delle feconde illusioni, succede l’età della ragione, dell’arido vero in cui la

morte di Bruto, rispondendo come protesta, si omologa come emblema. Il mito edenico di un’età libera e felice vissuta dagli uomini, nel pieno rispetto delle leggi di natura, rifluisce su roussoiane ascendenze ? nello stesso Bruto minore (« Non fra sciagure e colpe, / ma libera ne’ boschi e pura etade / natura a noi prescrisse, / Reina un tempo e Diva »: vv. 52-55) ma trova più ampio sviluppo in due canti, entrambi del 1822, Alla primavera e Inno ai Patriarchi. Nel primo, che ha per titolo alternativo « delle favole antiche », sembra rifiorire il meraviglioso mondo di miti, superstizioni, leggende che Giacomo aveva precocemente attraversato e assaporato preparando il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) e che qui torna a rimpiangere confrontando la gioiosa comunione che in quei tempi remoti regnava tra gli uomini, la natura e la vita universa, con la situazione dell’uomo moderno in cui la ragione, rivelando l’arido vero, ha neutralizzato i mirabili effetti delle illusioni:

motivo che

di Cfr. i precedenti versi 40-46: « Tempo forse verrà ch’alle ruine / delle italiche moli VI insultino gli armenti, e che l’aratro / sentano i sette colli; e pochi Soli / forse fien volti, e le città latine / abiterà la cauta volpe, e l’atro / bosco mormorerà fra le alte mura ». 2 Cfr. A. FRATTINI, Leopardi e Rousseau, Roma 1951, poi in Cultura e pensiero in Leopardi, Roma 1958.

458

ritorna nell’Inno ai Patriarchi, dove perd, con il vagheggiamento del mitico « stato di natura », confluiscono le suggestioni della tradizione biblica (il peccato d’origine costituisce la novità ideologica dell’I##0) in una dinamica integrazione tra mitologia filosoficamente mediata e filologia poeticamente inverata: ed ecco l’espressività dell’antico (con il frequente ricorso ad arcaismi latinismi grecismi) potenziare l’imprescindibile nesso tra avantesto ® e forma realizzata. Così la dialettica antichi-moderni, che

nelle precedenti canzoni parenetiche aveva lo specifico supporto di tensione agonistico-eroica volta a un fine di palingenesi politica e patriottica, qui si dilata a una dimensione esistenziale nell’ancora insistente rivendicazione del primato della natura sulla ragione: « Oh contra il nostro / scellerato ardimento inermi regni / della saggia natura! » (vv. 110-112). È evidente il riflusso della vagheggiata ipotesi di un’« età dell’oro » cui già si accenna nei precedenti versi 87-92,” dove la stessa insistenza con

cui l’affermazione si modula strutturalmente, con la prolessi e l’iterazione del verbo, dà il senso di un puntello squisitamente letterario all’improbabile realtà e alla struggente tentazione di un’utopia regressa: un clima in cui più intimamente s’intona lo sfondo iperreale della « sua donna », nella canzone del 1823 che ad essa s’intitola: « forse tu l’innocente / secol beasti, che dall’oro ha nome » (vv. 7-8). Dove il transfert dell’ideale archetipo si colloca su una verticale diacronica cui risponderà, in versi successivi, l’orizzonte sincronico dell’hic ef nunc, richiamato con fine denegativo: « Ma non è cosa in terra / che ti somigli » (vv. 19-20).

Lontano dal tipo di opposizione fra mondo antico e mondo moderno considerata in questa ricerca risulta il poeta in un canto del 1820, La sera del dì di festa, modulato entro i registri del nuovo idillio leopardiano, ben diversi da quelli che caratterizzano le canzoni, e pertanto motivati anche su una matrice etico-ideologica notevolmente differenziata: dalla coscienza della personale sventura il poeta qui si solleva alla coscienza di un destino di dolore in cui tutti gli uomini e gli stessi popoli sono coinvolti e travolti in una spirale senza scampo il cui esito è la cancellazione totale d’ogni voce o traccia, la quiete del nulla: « Or dov'è il suono / di que’

popoli antichi? or dov'è il grido / de’ nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’armi e il fragorio / che n’andò per la terra e l’oceano? / tutto è pace e silenzio, e tutto posa / il mondo, e più di lor non si ragiona » (vv. 33-39). La memoria e l’immagine della civiltà antica che

23 Nell’accezione di «fase generativa pre-testuale » con cui la parola viene usata da M. Corti in Principi di comunicazione letteraria, Milano 1976. 24 « Fu cetto, fu (né d’error vano e d’ombra / l’aonio canto e della fama il grido / pasce l’avida plebe) amica un tempo / al sangue nostro e dilettosa e cara / questa misera piaggia, ed aurea corse / nostra caduca età ».

costituiscono il polo di opposizione agonistica e palingenetica in buona parte delle prime dieci canzoni qui si fanno accorato schermo dell ineludibile condizione dell’uomo, stringente verifica di una realtà esistenziale dove nel segno dell’effimero si accomunano le sorti del singolo e quelle dell'umanità. Un passato di gloria non risponde più alla miseria del presente come modello salutare, come

fulcro di riscossa:

lo stesso modulo

espressivo — con l’accumulo seriale di tanti segni di potenza e di grandezza faticosamente avviluppati dagli enjambements eppur rotti e sfuggenti nell’incalzare delle interrogative — dà il senso della disperante consapevolezza e dell’angoscioso sgomento del poeta di fronte a un destino ormai svelatosi come suprema inconfutabile verità dell’umana condizione.® ALBERTO

FRATTINI

% Da questa visione pessimisticamente indifferenziata della storia umana sembra distaccarsi, circa un quindicennio più tardi, la Palinodia, dove l'opposizione fra tempo antico ed età moderna è usata però, con amara ironia, per contestare la superiorità del sapere contemporaneo sul pensiero e la sapienza dei nostri antichissimi progenitori. Ma poco più di un anno dopo nella Ginestra tornerà ad affermarsi la prospettiva che già affiorava nell’idillio (cit.) del 1820 e nella quale al perenne consistere della natura, in apparente stasi (poiché il meccanismo dei suoi sviluppi sfugge ad un sicuro controllo della nostra conoscenza) si contrappone il labile inarrestabile avvicendarsi delle generazioni umane, un fenomeno che rende illusoria ogni distinzione epocale della storia e demistifica in superba presunzione il febbrile anelito dell’uomo a sopravvivere oltre le sue caduche forme corporee, oltre la sua dimensione terrena: « Così, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno / dopo gli avi i nepoti, / sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star. Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi: ella non vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto » (vv. 289-296).

460

Leopardi e il pirronismo

Il primo accenno a Pirrone e alla sua filosofia risale al 1812; nella Appendice alle Dissertazioni logiche, fatica erudita ma ricca di spunti interessanti per gli sviluppi del suo pensiero, il Leopardi, discutendo del libero arbitrio, afferma: Questa facoltà di eleggere vienci dimostrata dall’intimo sentimento naturale, e dalla quotidiana esperienza per modo che solo coloro, che l’animo hanno pervertito, e accecato

l’intelletto possono

rivocarla in dubbio

[...] Per dubitare

della verità della nostra posizione ci converrebbe cadere in un Pirronismo universale, e darci a credere che il nostro Autore ci abbia formato in guisa che sempre erriamo del ms.).

anche

in ciò che

sperimentiamo

più vivamente

(pp. 49-50

Si tratta evidentemente di un riferimento veloce, in chiave polemica, ancora tutto imbevuto di un razionalismo reazionario alla Monaldo, che

all’intelletto accecato dalla ragione ipercritica contrappone la sana concretezza dell’esperienza (intizzo sentimento naturale — quotidiana esperienza); posizione, tra l’altro, ampiamente superata già tre anni dopo, in quel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815, che è un entusiastico atto di fede illuminista nelle possibilità della ragione, dove il dubbio viene rivalutato come potente mezzo conoscitivo e strumento metodologico da contrapporre alla credulità del volgo: Un uomo ignorante [...] crederà sempre tutto ciò che gli verrà detto, e stimerà effetto di folle arroganza ed anche di stupidità il dubitarne (P. e p. II, 453).

Sono, come si vede, pur sempre riferimenti generici, che poco dicono sulla diretta conoscenza del pirronismo da parte del giovane erudito. In effetti stabilire con certezza se e quando il Leopardi abbia conosciuto i testi dello scetticismo antico è pressoché impossibile. Dai suoi x

1 Le citazioni leopardiane, qualora non sia diversamente zione a cura di F. Flora, Milano 1937, 5 voll.

indicato,

son

tratte

dall’edi-

461

Indici di letture non si ricava alcuna citazione interessante e l’unica fonte indiscussa resta quel Diogene Laerzio che egli commentò a lungo con attenzione meticolosa; è qui, nel IX libro delle Vite dei filosofi, che compaiono i nomi di Eraclito, Democrito, Protagora, Anassarco, tutti per vie diverse maestri di Pirrone, e quello dello stesso Pirrone, insieme ad una

illustrazione sintetica delle loro dottrine. Per il resto il riferimento esplicito ai rappresentanti dello scetticismo è, nei testi leopardiani, abbastanza raro e quasi sempre marginale; lo stesso nome di Sesto Empirico, il sistematore e divulgatore di queste idee vissuto fra il II e il III secolo, che pare il più noto al Leopardi, appare nello Zibaldone complessivamente cinque volte: tre solo di sfuggita e in appunti di natura filologica (Zib. II, 28; cembre 1820, un po’ più ampiamente (Zi. fine in un passo significativo del febbraio l’autorità a sostegno delle proprie tesi di

100; 1277); una volta, nel diI, 355-356) come vedremo, e in1821, ove il Leopardi ne invoca relativismo assoluto:

Delle diverse opinioni intorno alla pretesa legge naturale, vedi [...] il Menagio, il quale riporta in proposito alcune parole di Sesto Empirico, la cui opera Pyrronianarum Hypotiposeon, e l’altra Adversus Mathematicos ossia adversus cuiusvis generis dogmaticos, è tutta relativa a quest’argomento, ed a quello ch’io sostengo, che non c’è verità nessuna assoluta (Z:b. I, 480).

Si tratta però sempre di citazioni di seconda mano; anche per quanto riguarda gli altri filosofi antichi indulgenti a forme di scetticismo più o meno totale (da Carneade che introdusse il criterio di una verità approssimativa dando vita al probabilismo che per molti aspetti richiama il possibilismo leopardiano degli anni ’20-’21, a Protagora, che riducendo l’essere al fenomeno salvava come unico valore l’opinione, anch’egli assai vicino al pensiero leopardiano, di questi e di altri pensatori più o meno gravitanti nell’area pirroniana) il Leopardi non ci lascia testimonianza di letture dirette. Ma indiscutibile ci sembra, in tutto lo svolgimento della sua riflessione, la presenza costante dei topoi del pensiero scettico, in un progressivo avvicinamento che passa attraverso fasi inizialmente polemiche per poi sfociare in una condivisione quasi totale. In un primo tempo infatti, almeno fino al 1820, il pirronismo compare nei testi leopardiani come punto di riferimento polemico. Significativo è, a questo proposito, il passo dello Zibaldone del dicembre 1820, che risente della tensione costante di quegli anni di giungere alla formulazione di un « suo sistema degli uomini e delle cose », in cui torna il nome di Pirrone; e torna a conclusione di un lungo e intenso travaglio intellettuale, nell’ambito della riflessione sul complesso rapporto ragione-illusioni. Il Leopardi sta parlando della affermazione del Cristianesimo in quanto 462

« religione ragionevole » come antidoto ai guasti operati dalla ragione: e

sottolinea come esso sia sorto proprio nel « momento

in cui l’eccessivo

progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perché tutto è veramente falso o dubbio senza la rivelazione), spegnendo

tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l’uomo nell’inazione, nell’indifferenza, nell’egoismo » (Zib. I, 355) che è poi il « momento a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o pirroniana »

(Zib. I, 356). In quell’epoca che con cronologia abbastanza approssimativa faceva risalire al II-III secolo, l’età di Sesto Empirico, il Leopardi ritrovava sintomaticamente gli stessi caratteri del suo tempo: « l’egoismo, la morte, il tedio, l'indifferenza, l’inazione, la mala fede pubblica e privata, l’assenza di ogni eroismo, sacrifizio, virtù » (Z:b. I, 345-346). È questo, mi pare, un momento importante del suo cammino intellettuale, e non solo in rapporto allo scetticismo antico: proprio nella identificazione fra il pirronismo e l’iperrazionalismo che il Leopardi vedeva reincarnato nel suo tempo ? e combatteva in nome di una razionalità diversa (quella stessa che lo avrebbe portato fra non molto alla tesi dell’ultrafilosofia), inizia a evidenziarsi l’ambiguità di fondo del suo pensiero, quel dialettico rapporto mai del tutto risolto fra accettazione e ripulsa del vero, arido ma che pur si deve conoscere; e la conseguente ambivalenza insita nell’intellettuale, il philosophe che non può che essere, come dirà la Natura all’anima, « grande e infelice ». Infatti, se da un lato vi è ancora la caparbia speranza di inseguire una parvenza di felicità, salvando ciò che resta della natura, nell’equilibrio difficile tra questa e la ragione (sulla scia di Pascal che cita da Montesquieu il cui Essai andava accuratamente leggendo e postillando in quei mesi, il Leopardi afferma: « quanto al dubbio, cagione principalissima d’indifferenza [...] Sostengo che non ha mai esistito un pirronista effettivo e perfetto. La natura sostiene la ragione impotente, e l’impedisce di delirare fino a questo punto [...] La natura confonde i pirronisti, e la ragione confonde i dogmatizzanti » (Zib. I, 329); d’altro lato si chiarisce e si arric-

chisce di tratti la figura del sapiente, che viene sempre più assumendo una fisionomia « pirroniana »: l’uomo d’ingegno non può che dubitare « anche sopra le cose credute indubitabili » (Zib. I, 21), perché « Piccolissimo è

quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio » (Zib. I, 933); anzi il Leopardi va ancora più in là di Cartesio, per il quale « l’amico della ve-

rità debbe una volta in sua vita dubitar di tutto » (Zid. I, 1110) e giunge ad affermare che « la certezza degli uomini nel credere [...] è in ragione inversa del loro sapere. Hoc unum

scio, me nihil scire:

famoso detto di

2 Ribadirà, nell’aprile del ’21: « sistema il quale consista nell’esclusione di tutti i sistemi, come quello di Pirrone, e quello che fa quasi il carattere del nostro secolo » (Z1b. I, 635).

463

quell’antico sapiente. E questa è la conclusione, la sostanza [...] la mèta, la perfezione della sapienza » (Zid. I, 368), con una interpretazione poco corretta del pensiero di Socrate, che i quasi coincidere con la epoché degli Scettici, senza cogliere la reale dimensione del dubbio socratico, che è maieutico, mezzo e non fine di ricerca filosofica. Così, fra oscillazioni e riserve, all’interno di tutto questo riflettere sui temi fondamentali della scepsi classica da cui ha finora almeno ufficialmente sempre preso le distanze, il Leopardi va chiarendo a se stesso dei punti

fermi, preparando quella che sarà la svolta del 1821 con la scoperta del relativismo assoluto. Innanzitutto si delinea sempre più chiaramente la complessa natura del dubbio, che è alla base delle tesi pirroniane: dubbio teorico (e dal dubbio metodologico cartesiano come avvio ‘alla scoperta della verità a quello assoluto e relativistico il passo è breve e sarà presto compiuto dal Leopardi); e dubbio etico-pratico che da quello naturalmente discende (per cui il saggio, condannato a vedere tutti i rapporti tra le cose, si sperde inevitabilmente nella rete intricata di connessioni, cause e concause, e resta come bloccato di fronte all’azione):

gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare [...] E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere (Zib. I, 417).

Testo chiave, in questo cammino intellettuale, è un passo dello Zibaldone del 26 maggio 1821, ove si ammette l’impossibilità di giungere alla piena conoscenza del vero, con motivazioni derivate dagli ideologi: nessuna

verità

si conosce

mai

perfettamente,

se non

si conoscono

perfetta-

mente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre. E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente

ed essenzialmente,

di quello

che

creda

[...] il comune

degli stessi

filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna (ancorché menoma, ancorché evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai né sarà mai perfettamente e interamente

e da ogni

parte conosciuta (Zib. I, 733) 3 Si noti come il Leopardi si avvicini al Montaigne, che pure andava leggendo in quegli anni, nell’avvertire il profondo senso di sofferenza derivante dal dubbio; e come si discosti in questo dalla filosofia di Pirrone, che del dubbio sottolineava invece la dimensione di sereno distacco dalle cose, premessa indispensabile per il raggiungimento dell’atarassia. 4 Si confronti l’articolo Pirroniana dell’ Encyclopedie, a firma di Diderot, in cui compaiono gli stessi concetti, quasi le stesse espressioni: « Per parte nostra concluderemo che, tutto essendo connesso in natura, non v’è nulla, propriamente parlando, di cui l’uomo abbia

464

Aver riconosciuto l’impossibilità di una conoscenza piena è solo il primo passo; ben presto il Leopardi approderà ad un gnoseologico sempre più assoluto e disincantato (« Notate che sizione [...] ha non solo due ma infinite facce, sotto ciascuna

della verità relativismo ogni propodelle quali

si può considerare, contemplare, dimostrare, e credere con ragione e verità.

E intanto si dice che n’abbia due in quanto d’ogni proposizione si può

dir pro e contra, dimostrarla vera e falsa, e sostenere così la tal proposizione come la sua contraria » (Zid. I, 1511), che è poi l’ {coodéverx rüv \6ywy = egual forza dei discorsi, precetto fondamentale del pirronismo), fino a che si troverà quasi naturalmente, alla fine del 1821, a far professione esplicita e inconfutabile di scetticismo:

Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che [...] la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo;

anzi esso contiene il vero, e si dimostra

che la nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio [...]) ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che

si possa sapere (Zid. I, 1075).

Coerentemente con queste premesse programmatiche, del pirronismo il Leopardi accetta e ribadisce più volte anche il principio essenziale della sospensione del giudizio: E però se una cosa non manca affatto di prova, o di prova sufficiente a muover dubbio, o s’ella non è del tutto assurda, o riconosciuta evidentemente da lui stesso per falsa o col fatto, o colla ragione, [...] il vero e saggio filosofo [...] enéyer xa daoxértetat, e ritiene come l’assenso così anche il dissenso (Z5b. I, 418)

Principio che egli per primo mette in pratica, trattando ad esempio del problema dell’esistenza e della essenza dell’anima: in un succedersi serrato di proposizioni e stringenti argomentazioni dialettiche, prima smantella pezzo per pezzo le dimostrazioni tradizionali dell’immaterialità ed immortalità dell’anima, ma dopo di ciò non propone alcuna soluzione, peruna conoscenza perfetta, assoluta, completa; non l’ha neanche degli assiomi più evidenti, perché bisognerebbe che sapesse tutto. Tutto essendo connesso, s’egli conosce tutto, dovrà necessariamente, di discussione in discussione, giungere a qualcosa d’ignoto: dunque, a partire da tale incognita, potremo obbiettargli validamente l’ignoranza, o l’oscurità, o l’incertezza del punto che precede e di quello che precede questo; e così via fino al principio più evidente ». 5 È significativa l’insistenza, anche lessicale, sull’espressione che era divenuta ormai emblematica del pensiero scettico.

465 30

ché « Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l’affermazione sono ugualmente assurde » (Zib. I, 451) ed anche se azzarda

l'ipotesi della mortalità dell’anima,

soggiunge immediatamente:

« Dico

può perire, non dico perisce, perché non posso, come non si può dire umanamente il contrario » (Zib. I, 464); estende poi gradualmente questo

agnosticismo al « primo e universale principio delle cose, [che] o non esiste [...] o se esiste o esisté non lo possiamo in niun modo conoscere » (Zib. I, 903), sino a concludere drammaticamente questa serie di rifles-

sioni arrestandosi davanti alla « inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci possa attendere dopo la morte » (Z/b. I, 555). Accenna anche, ma con meno convinzione, all’altro cardine

teorico dello scetticismo antico, l’atarassia, tentando una definizione del « vero » coraggio: Forse la similitudine può parer vile, ma io non trovo più naturale immagine di un uomo veramente e perfettamente coraggioso nell’ora del pericolo, di quella che Pirrone navigando mostrò a’ suoi compagni spaventati nel tempo di una burrasca; e ciò fu un porco che in un cantone della nave attendea tranquillamente a mangiar le sue ghiande, mostrando bene all’esterno che anche il suo stato interiore si era appunto tale quale se la burrasca non fosse stata (Zib. II, 503-504).

Si tratta però di una superiore impassibilità quasi impossibile per l’uomo che, a differenza dell’animale, ben conosce il pericolo che sta correndo, riconosce il Leopardi. Una forma di atarassia che lo affascina e lo colpisce molto di più è la irrazionalità come rinuncia alla scelta, l’accettare che siano le cose, gli eventi a determinarci e non noi a dirigerli; è una sorta di consegna delle armi da parte della ragione: Grave non è né a farsi, né a soffrirsi quello a che noi necessità costringe

(Zib. II, 36)

trascriveva il Leopardi il 20 febbraio 1823 da un tragico greco, nell’ambito della sua riflessione sul tema dell’indecisione che precede la scelta ed è fonte di sofferenza e di tormento per chi deve decidere; con l’apparire della recessità che condiziona dall’esterno la scelta diviene univoca, obbligata; cessa, cioè, d’esser scelta e nello stesso istante cessa d’esser fonte di

sofferenza; non più problematico e doloroso dilemma fra due possibilità, essa diviene atto univoco e indolore di una volontà piegata dagli eventi.

E cos'è, in fondo, se non l’éxonovosiv

466

rois parvoutvorg

degli scettici, il

loro abbandonarsi al dato, al fluire delle cose, senza pretendere di dominarle né di giudicarle? Già nel ’21, dunque, il Leopardi si può dire giunga all’acquisizione di uno scetticismo pratico perfettamente consapevole, e insieme affronti seriamente il problema in chiave gnoseologica; sino al ’23 torna su queste acquisizioni per approfondirle, arricchirle, meglio definirle; troviamo in lui, a questa data, gli elementi fondamentali distintivi dello scetticismo antico: innanzi tutto l’accentuazione più pratica che teorica, etica più che metafisica, dei termini del problema; e poi, più articolatamente, i cardini della scepsi classica: l’epoché e le due ipotesi di soluzione di essa che in Leopardi acquistano rilevanza particolarissima: l’irrazionalità e la sospensione del giudizio. Il problema che si pone a questo punto è quello di accertare se si tratti di una soluzione provvisoria e superata negli anni seguenti, o se non sia

invece un’acquisizione definitiva e suscettibile solo di approfondimenti e precisazioni ulteriori; e però sembra che questa duplicità di proposte non sarà più messa in dubbio dal Leopardi, ma appunto approfondita ed articolata nel tempo, sostanziata ed arricchita da nuove esperienze di vita e di cultura. Gli anni che vanno dal ’23 al ’29 presentano una sintomatica diminuzione delle riflessioni su questa tematica: essa era ormai stata esaurita a livello teorico, si trattava ora di sperimentarla e verificarla nella realtà. Di qui il silenzio quasi completo nello Zibaldone, e l’assenza di filoni di pensiero originali a riguardo:

c’è invece un ritorno a posizioni già note,

per completarle e perfezionarle, a confronto con le circostanze mutate. Il viaggio a Roma prima ed il soggiorno bolognese poi rafforzano nel Leopardi la consapevolezza della dismisura tra essere e dover essere; e coincidono non a caso (le conclusioni del Timpanaro ci sembrano definitive a questo proposito) ° con una fase di pacato distacco e di disimpegno politico e civile. Lentamente intanto, proprio durante il soggiorno bolognese, il Leopardi si accosta all’etica ellenistica, soprattutto ad Epitteto, scoprendo un nuovo universo culturale: l’indifferenza, che aveva fino al 1821 combattuto e bollato di « freddezza e morte », gli si presenta ora in tutta la sua complessità di stato morale che arreca felicità all'uomo e del resto la sua stessa esperienza di vita in quel periodo, serena e pacata, lo dispone ad accogliere e comprendere quell’atarassia che nella prima giovinezza gli era apparsa meschina e incomprensibile: recupera ora, a livello etico-pratico, una realtà che aveva sempre combattuto in nome di un vitalismo eroico; dalla drastica posizione di rifiuto dell’indifferenza classico ma sempre validissimo Leopardi e i filosofi antichi, in Classicismo nell’800 italiano, Pisa 1969, pp. 218-220.

6 Neli’ormai

e Illuminismo

467

come stato « contrario dirittamente alla sua natura [dell’uomo], e quindi alla sua felicità » (Zib. I, 1020)” giunge così, alla fine del ’25, alla identifi-

cazione dell’indifferenza psicologica con quella filosofica di Epitteto, in funzione della felicità: non altro è quella tranquillità dell’animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non con ciò che noi chiamiamo [...] noncuranza o vogliasi indifferenza (P. e p. 11,%93)

sino ad esaltare, con significativi riferimenti alla propria esperienza, la ragionevolezza dell’atarassia: quest'altro stato di pace, e quasi di soggezione dell’animo, e di servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, è pur conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libero da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei dolori di che la vita nostra suole essere tribolata. Imperocché veramente a ottener quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non quest’una, di rinunciare, per così dire, la felicità [...] Ora la noncuranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici, viene a dir questo appunto, cioè di non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice [...] Ed io, che dopo molti travagli dell'animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto un’utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione (P. e p. II, 94-95).

La dimensione privilegiata è evidentemente, come del resto già in Pirrone (si pensi alla frequente accusa di misologismo che gli si faceva) e in molte altre dottrine coeve, quella pratica rispetto a quella più specificamente teorica.’ Ma pure, accanto alle suggestioni di una prassi che svolgeva la precisa funzione di esorcizzare una realtà ostile in una sorta di autoconsolazione intellettuale, non si può negare, negli stessi anni, la presenza di un agnosticismo sempre più agguerrito e consapevole anche a livello teorico. Al centro di questo universo sono naturalmente le Operette morali, con la Natura che si è venuta rivelando sempre più nella sua vera identità di matrigna. Proprio la consapevolezza della indifferenza di essa nei confronti dell’uomo e ancor più « l’orribile mistero delle cose e della 7 Cfr. ancora Zib. I, 100 («è più dolce l’odio che la indifferenza verso alcuno »); 259-260; 316; 1166-1167. 8 Lo stesso Leopardi ne è consapevole; scrive, il 1 agosto 1826: « Concordanza delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; per esempio della socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ec.» (Zib. II, 1018).

468

esistenza universale » (Zib. II, 924) coinvolgono e mettono in crisi, per il Leopardi, gli stessi fondamenti della logica (aristotelica, naturalmente) e il principio di non contraddizione: quel principio #0n può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente

falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L’essere [...] e il non potere in alcun modo essere felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza (Zib. II, 924).

Ancora una volta, unica via d’uscita non può essere che la rinuncia a pronunciarsi tanto per l’affermazione che per la negazione assoluta: « misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunciando in certo modo anche al principio di cognizione, #0# potest idem simul esse et non esse » (Zib. II, 956):

«in certo

modo »:

anche

quest’affermazione

non

può

avere crismi o pretese di assolutezza. Così anche non è possibile dare una risposta ai problemi eterni dell’uomo: E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i filosofi sono d’accordo [...] Ma [...] in che consiste, e di che natura è la felicità [...]? Qui non v’è setta, non v'è filosofo [...] che non discordi dagli altri [...e l’uomo]

cerca e cercherà sempre [...] queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano, né mai lo saprà (Z:b. II, 997-998).

Allo stesso modo l’idea di infinito, inaccessibile alla ragione, è avvolta nel dubbio, potrebbe persino essere « un sogno, non una realtà [...] si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile (cosa che alcuni moderni hanno ben negato) » (Zb. II, 1007).

Di fronte a questa distruzione sistematica dei capisaldi della logica umana, unico a salvarsi è proprio quel criterio sospensivo del giudizio connesso ad un cauto empirismo: Le pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. Oggi con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità (Zib. II, 1017).

Su questo tessuto si innesta, alla fine del 1826, la polemica contro il

neo-spiritualismo che dilagava in quegli anni a Firenze e poi a Napoli,

contro la filosofia dell’apriori e soprattutto contro i nuovi credenti, gli uomini delle magnifiche sorti e progressive, che tendevano a giustificare ed esaltare la realtà e la natura, accentuando gli aspetti positivi del vivere, e coprendone i mali con la cortina impenetrabile del mistero. À questo inganno il Leopardi oppone, con la consueta onestà intellettuale, un rigoroso rifiuto:

469

Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono; benché non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno misteri, e che ci paiano beni e non siano (Zi. II, 1080).

Fino a che, nel marzo 1827, concluderà: Lodasi [...] il gran magisterio della natura [...] Or che ha egli, perch’ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali, quanti beni [...] Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, né aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sian veramente buone o cattive [...] astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo (Zib. II, 1090).

È ancora una volta il trionfo dell’epoché, tanto più significativo in quanto attiva dopo una serie di riflessioni complesse, ed è contemporaneo alle affermazioni materialiste su cui tanto ci si è spesso soffermati, considerandole un definitivo superamento dell’agnosticismo. Ci pare invece che emerga abbastanza, da quanto detto fin qui, il permanere costante, accanto a nuove acquisizioni culturali, di quell’atteggiamento agnostico così radicato nell’esperienza leopardiana e che ha conseguenze notevoli sulla sua stessa poesia." Quest’atteggiamento è inoltre in costante rapporto dialettico con un empirismo immediato, spicciolo, fatto di certezze verificabili ovvero di realtà irrazionali (a volta a volta la « follia », il sonno,” l’ebbrezza,* l’amore, la stessa poesia o gli studi,

« sorgente [...] durevole e certa di distrazione e di dimenticanza », come scriverà al Giordani nel gennaio 1820); certezze che in gran parte coincidono con le illusioni, verso le quali non a caso il Leopardi orienterà per tutta la vita la propria ricerca, non solo a livello teorico, ma esistenziale. SILVANA

? Pensiamo

ovviamente

alle tesi di Luporini, ma

anche

GHIAZZA

ai saggi più recenti di Timpa-

naro, Biral, ed altri.

10 La sospensione, come stato mentale-affettivo assoluto, proiezione lirica della epoché, diviene momento aurorale di percezione poetica e conferisce uno spessore particolarissimo

ed una risonanza del tutto originale alle stesse interrogazioni che costellano, estreme gini espressive di quella complessa realtà intellettuale, quasi tutti i Canti. 11 Cfr. Zib. II, 820. 12 Zib. I, 1141.

13 Zib. I, 122-123;

470

135; 169-170; Zib. II, 749-750.

propag-

Leopardi e il mondo biblico

Nel quadro dei rapporti di Leopardi con l’antichità, merita indubbiamente considerazione anche il rapporto col mondo biblico. Preciso che per mondo biblico intendo, in questo caso, limitativamente, quello veterotestamentario, cioè quella parte delle Sacre Scritture che i Cristiani hanno in

comune con gli Ebrei.

Leopardi, nella prima adolescenza, in quei suoi sette anni di « studio matto e disperatissimo » apprese, oltre alle lingue classiche e alle principali lingue moderne, anche l’ebraico, acquistandone sufficiente conoscenza per compiere una lettura diretta dei testi sacri ed occuparsene con acume filologico. Mi sarebbe molto piaciuto se il programma (del resto così ricco e articolato) del nostro Convegno avesse incluso anche una relazione su questo tema: fatta da uno studioso leopardiano che fosse anche appassionato della Bibbia, o, meglio ancora, da un biblista che fosse appassionato di Leopardi. Io amo immensamente la Bibbia e Leopardi, ma non sono, purtroppo, né una leopardista né una biblista. Quello che dirò non avrà dunque alcun valore scientifico

e me ne rammarico e scuso fin d’ora; ma sarà frutto di

osservazioni e riflessioni su dati molto evidenti dell’opera leopardiana, che si trovano sotto gli occhi di tutti; mentre, per quelli più nascosti e segreti, posso solo girare la mia curiosità ai competenti, sperando che mi aiutino a soddisfarla. Mi sembra che il rapporto fra Leopardi e l'Antico Testamento si possa affrontare da vari punti di vista. Il primo riguarda, ovviamente, la formazione religiosa di Leopardi. L’Antico Testamento fece parte, insieme al Nuovo e come introduzione al Nuovo, di quel bagaglio religioso che gli veniva trasmesso dalla sua famiglia e dal suo ambiente natìo: in maniera, purtroppo, così chiusa e gretta da portare più a una deformazione che a una vera formazione del suo senso religioso. Questo bagaglio doveva perciò venire rifiutato da Leopardi, per quanto riguarda l’adesione ad una fede positiva, nel successivo sviluppo del suo pensiero, segnato dagli incontri con la filosofia del suo tempo e dei tempi passati e dalle risposte a cui veniva stimolato il suo genio inquieto. 471

La Bibbia cessò presto di essere per lui il Libro con la L maiuscola, ma rimase sempre un grande libro, per il quale continuò ad esprimersi con rispetto e ammirazione e ad avere, pur da non credente, un molteplice interesse. Per comodità raggrupperò gli aspetti di questo interesse, brevemente e magari un po’ rozzamente, in tre categorie: stile, contenuti, e qualcosa di più sottile e inafferrabile che, per mancanza di un termine migliore, chiamerò « aura » 0 « atmosfera ». La competenza stilistica e filologica di Leopardi in campo biblico appare pienamente da un suo saggio giovanile, Parere sul Salterio, scritto nel 1816 in occasione dell’uscita, in italiano, presso la Tipografia Mainardi di Verona, di un Salterio che era stato tradotto dall’ebraico dall’Abate Giu-

seppe Venturi e messo in versi dal commendator Giovambattista Conte Gazola. Leopardi non risparmia le sue osservazioni né all’Abate né al commendator Conte, dimostrando fin d’allora quanto fosse inesorabilmente lucida la lente della sua intelligenza critica e con quale precisione sapesse individuare e mettere a fuoco punti e problemi essenziali. AI Venturi egli rimprovera alcune inesattezze filologiche e soprattutto una tendenza a cambiare e allungare, a fini esplicativi, il testo sacro. Al Gazola muove rimproveri molto più severi: ne mette in evidenza la scarsa sensibilità poetica, che lo ha fatto puntare sull’exploif puramente formale e tecnico di una traduzione metrica, senza curarsi della fedeltà allo spirito e al fuoco della poesia dei Salmi, col risultato di spengerlo completamente nella sua versificazione. « Gran freddo » (scrive Leopardi) è ciò che io ho sentito in correndo questi paesi ebreo-italiani, e so di certo che tutto il debbo alle leggi severissime che, come ne ha avvisati egli stesso, ha creduto di doversi imporre il Sig. Commendatore; empie leggi contro le quali non posso adirarmi a bastanza. Poco importa al lettore che il metro della traduzione somigli quello che si pretende di scorgere nel testo; pochissimo che la versione serbi la distinzione de’ versetti che è nell'originale; niente che i salmi, alfabetici o acrostici nel testo, il siano altresì nella traslazione: ma molto che il traduttore si vegga acceso, avvampato dal fuoco dell'originale; moltissimo che la traduzione conservi la semplicità, la forza, la rapidità, il calore della fantasia orientale e profetica (si considerino bene ad una ad una tutte queste doti sostanzialissime che mancano quasi sempre nell’opera del N. A.) sommamente che la versione il commuova quasi come il commuoverebbe l’originale, e come forse il commuove alcuna interpretazione in prosa che non ha altro pregio che la fedeltà, e la stessa Vulgata. Le troppe difficoltà (delle quali io penso sia stata la massima quella della rima, con cui sembra impossibile cosa fare una buona traduzione, e che pure in questa sorta di poesia per nostra mala ventura appart necessaria) han fatto, se io non erro, che il terribile mediocre si affacci alle labbra di chi legge questa versione.

472

Ho riportato questo brano perché mi sembra doppiamente importante. Primo, per le qualità dei Salmi che Leopardi elenca, invitando a considerarle attentamente ad una ad una: semplicità, forza, rapidità, calore della

fantasia. Secondo, perché definisce, indirettamente ma mirabilmente, quali

debbano essere i requisiti di una buona traduzione, separando gli accessori

dai principali, o meglio dal principale, che è uno solo: « commuovere il lettore quasi come il commuoverebbe l’originale »: parole che valgono

per tutti i traduttori, di tutti i tempi e di tutte le lingue, e che andrebbero anzi scritte in un cartello da appendersi sulla scrivania di ciascun traduttore. Di come il Signor commendatore Conte Gazola contravvenisse a que-

sto principio basilare (« annegati brevissimi versetti in altrettante strofe, temperato il calore vivissimo dell’originale, annacquate

le frasi, allentato

il corso rapido della poesia profetica »), Leopardi dà poi vari esempi, gustosi quanto spietati, solo alla fine porgendo al povero « Signor Commendatore Conte » lo zuccherino della sua approvazione per due singoli passi di tutto il Salterio. Osservazioni sulla qualità dello stile della Sacra Scrittura si trovano anche in altre parti dell’opera leopardiana, ad esempio nello Zibaldone, e vertono principalmente sul « sublime » che lo differenzia dallo stile dei classici greci e latini (riconducibile al « bello » come armonia e proporzione, secondo quella contrapposizione tanto cara ai romantici che ebbe origine dallo pseudo Longino). La sublimità del linguaggio biblico è vista dal Leopardi come effetto di tendenze connaturate alla poesia orientale, a parte l’afflato profetico proprio dei testi sacri. E passiamo ora a vedere il rapporto di Leopardi con i contenuti biblici. Intendiamo i contenuti — poiché abbiamo escluso il fattore religioso — come narrazioni e storie. Le storie bibliche che più interessavano a Leopardi sono quelle della Genesi. E il motivo ne è chiaro: si trattava là dell’infanzia dell’umanità; di un

mondo — naturale non meno che umano — ancora immerso nella luce dell’inizio:

e perciò migliore, più armonioso,

più felice, secondo

le teorie

leopardiane basate sulla dilatazione (fino a comprendervi tutto il genere umano) del suo disperato rimpianto per l’infanzia come unica età dolce in un’amara vita. I protagonisti della Geresi attirano insomma l’attenzione di Leopardi solo in quanto « antichi »: un tipo di attenzione sostanzialmente non diversa da quella che egli aveva per le figure delle favole classiche. Non è certo una combinazione se due componimenti come Alla Pri-

mavera 0 delle favole antiche e l'Inno ai Patriarchi sono stati scritti da Leopardi nello stesso anno (il 1822). E neppure è una combinazione se dei vari « Inni cristiani » progettati in un periodo precedente e che com473

prendevano anche titoli come A/ Redentore, Agli Apostoli, Ai Martiri, A Maria, Leopardi è riuscito a realizzare solo quello ai Patriarchi. Era in-

fatti l’unico per il quale non gli occorresse più una fede cristiana, gli bastava la disperata e sempre più radicata convinzione del cammino a rovescio dell’umanità, della sua inarrestabile decadenza. L’equivalenza, per il Leopardi, dei Patriarchi con gli antichi del classicismo è dimostrata dallo stile stesso che egli uso nell’Inno. Non solo è lo stile ornato del coetaneo componimento Alla Primavera, ma gli ornamenti sono del medesimo stampo classico, con un effetto, in verità, piut-

tosto stridente. Se infatti « di febo i raggi », la « ciprigna luce », le « stanze d’Olimpo » vanno benissimo in Alla Primavera, che ha per tema gli dèi e le ninfe di cui i Greci popolavano la natura, è per lo meno incongruo trovare espressioni simili in un discorso sui Patriarchi. Eppure Leopardi ve le dissemina con la stessa abbondanza: ecco « l’offeso Olimpo », il « disperato Erebo », « l’aprico raggio di febo », « l’aonio canto ». Solo l’ultima strofe, la più bella, ne è esente: ma lì Leopardi non parla più di primitivi antichi, ma di primitivi a lui contemporanei, gli abitanti delle « vaste californie selve », cui la venuta dell’uomo bianco apporta tutti i mali della civiltà. Un'altra debolezza dell’Inno sta, a parer mio, nella disparità fra la sostanza tragica delle vicende narrate nella Geresi e l’immagine idillica che Leopardi ci vuol dare di un’umanità ai suoi primi albori. Nella Geresi i primi albori dell’umanità — salvo proprio il primissimo, l’Eden, identificabile con la classica « età d’oro » — sono tutt’altro che idillici. Viene presto la caduta, la cacciata, il fratricidio di Caino, la Torre di Babele, il Diluvio, il fuoco su Sodoma. Anche queste cose, è vero, rientrano bene, per

un certo verso, nel pensiero di Leopardi: ad esempio che Caino, il fratricida, sia nella Bibbia il primo fondatore di città torna utile alla contrapposizione frequente nel primo Leopardi fra la città come sede d’ogni vizio e un’idealizzata e innocente vita agreste. Ma resta il fatto che tanto dramma indebolisce notevolmente l’idea di pace che Leopardi voleva soprattutto associare ai primi uomini. La sua ricapitolazione di storia sacra sorvola accortamente su alcuni episodi che egli aveva incluso nella traccia in prosa dell’Inno, come il destino di Babele e di Sodoma (lasciate fuori,

evidentemente, proprio perché avrebbero fatto traboccare la bilancia dalla parte del male, già presente fin dai più lontani esordi dell’uomo) e punta sulle scene più serene: la natura incorrotta che si offre agli occhi di Adamo, Abramo visitato dagli angeli « in sul meriggio, all’ombre » (visita messa, per inciso, sullo stessissimo piano degli incontri dei pagani con i loro dèi boscherecci in Alla Primavera), l’amore di Giacobbe per Rachele.

Ma c’è sempre anche quell’altra corrente, come un pericolo o una già realizzata minaccia, che impedisce che quel remoto passato appaia, tutto 474

sommato, così felice. Vi è perciò nell’Inno qualcosa d’irrisolto e diviso, che lo rende inferiore al suo gemello, dove questi problemi non si presentano. È tuttavia importante che un componimento deliberatamente basato su una materia biblica abbia trovato posto fra i Canti leopardiani. Nel periodo dei suoi primi progetti ed esperimenti, Leopardi aveva cominciato a scriverne un altro: un Giobbe in terzine dantesche, che tuttavia non andò oltre la terza unità metrica. Leggendo questo inizio, non ci si può che felicitare che Leopardi l’abbia abbandonato: Uom fu che ’1 mal fuggia, che Dio temea, Retto, illibato in Us. Giobbe ’1 nomaro.

Sette figliuoli e tre figliuole avea. Fu l’aver suo divizioso e raro: Cammei

tremilia avea, mille giumente,

Buoi cinquecento ed altrettanti a paro; Del minor gregge settemila; e gente In sua famiglia assai, così che grande Si fu tra tutti i grandi in Oriente.

Forse proprio questo tentativo adolescente e la coscienza della propria saggezza nel rinunziarvi dettero al Leopardi tanta sicurezza e convinzione, nel Parere sul Salterio, nel giudicare severamente le parafrasi me-

triche dei testi biblici. È in altro modo che sublimi testi poetici dell'Antico Testamento, come Giobbe o il Salterio o l’Ecclesiaste avrebbero agito su Leopardi; ed è qui che entriamo in quella categoria più inafferrabile che ho prima chiamato dell’aura o atmosfera. E questo ci porta non al Leopardi marginale, ma al Leopardi più grande. Modi, non esterni ma interiori, dei tre grandi libri che ho citati sono quanto mai consoni a Leopardi: e raggiunti, certo, non

soltanto per uno spontaneo evolversi, ma anche assimilati per un’opportuna e congeniale frequentazione. Basterebbero i primi due capitoli dell’Ecclesiaste a stabilire questa straordinaria affinità: Ne stralcio alcuni versetti:

Parole di Qoheleth, figlio di David, re di Gerusalemme. / Vanità delle vanità, dice Qoheleth / Vanità delle vanità e tutto è vanità. / Che resta all'uomo di tutto il suo affanno / con cui s’affanna sotto il sole? / Generazione che va, generazione che viene / e la terra nel suo ciclo rimane / ... Ciò che è stato è quello che sarà / e ciò che s'è fatto è quello che si farà: / niente di nuovo avviene sotto il sole /

C'è forse qualcosa di cui si possa dire: Ecco, questa cosa è nuova? Proprio questa è già stata nei secoli prima di noi. Non c’è più ricordo delle cose passate, come non ci sarà delle cose avvenire presso coloro che dopo vivranno. / Io, Qoheleth,

sono stato re d’Israele

a Gerusalemme, ed ho posto il mio cuore a ricercare e in-

vestigare con saggezza tutto ciò che vien fatto sotto il sole: è questa un’occupa-

475

zione molesta, che Dio ha dato ai figli dell’uomo perché in essa si affatichino. Ho veduto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco il tutto è vanità e inutile affanno / ... Dov'è molta sapienza è molta molestia / e chi accresce il sapere accresce il dolore. / E presi in odio la vita, perché m’attristava tutto ciò che si fa sotto il sole, ché ogni cosa è vanità ed inutile affanno ... E allora che cosa rimane all’uomo di tutta la sua fatica e di tutto l’affanno del suo cuore in cui si è affaticato nella vita? di tutti i suoi giorni pieni di dolori, delle sue occupazioni piene di molestie, delle sue notti insonni? Anche questo, quale vanità!

Quante espressioni leopardiane, dai Canti allo Zibaldone, alle Operette Morali, ai Pensieri, vengono irresistibilmente a disporsi, come pezzi di ferro attratti da una calamita, intorno alla desolata confessione di Qohe-

leth! Non abbiamo che da sfogliare Leopardi, ne troveremo conferma quasi ad apertura di pagina. E come coincidono le conclusioni del giovane poeta e filosofo con quelle dell’antico re! Poiché anche Qoheleth aveva detto — tanti secoli prima di Leopardi: « Felici i morti che son già morti, più dei vivi che sono ancor vivi: e più felici degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le malvagità che si commettono nel mondo ». Ugualmente vicino all’amarezza leopardiana l’attacco di una lamentazione di Giobbe: « Perisca il giorno in cui nacqui / E la notte che disse: È stato concepito un uomo ». La preferenza data al non-esistere sull’esistere si esprimerà in Leopardi, oltre che in innumerevoli passi dei Canti (culminanti nell’« È funesto a chi nasce il dì natale » del Canto notturno

di un pastore errante dell’Asia) in tutte le Operette Morali (una delle quali, il Cantico del Gallo Silvestre, viene messa in relazione da Leopardi con la tradizione ebraica): in tutte, si può dire, indistintamente, ma in

particolar modo nel Diglogo della Natura e di un’Anima, in cui l’anima cerca disperatamente di ritrarsi verso il nulla, e nell’impossibilità di ottenere questo, chiede almeno, come una grazia, la forma più attenuata e meno consapevole di esistenza; e nella perorazione di Porfirio a favore del suicidio (vinta da Plotino non con argomenti razionali, ma solo con l’affetto).

Lo schema fondamentale del Libro di Giobbe si ripresenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: si potrebbe dire che è l’Islandese il vero Giobbe di Leopardi (molto più dell’uomo « retto, illibato in Us » che egli cercò fuggevolmente di celebrare nei suoi versi giovanili). Interlocutore dell’uomo tormentato ed esausto, nel dialogo leopardiano, non è Dio, ma la Natura che ormai da tempo si era sostituita a Dio nella concezione leopardiana. Come il lamento di Giobbe s’infrangeva contro l’onnipotenza e l’incomprensibilità di Dio, così le proteste e le angosciate domande dell’Islandese s’infrangono contro i decreti immutabili 476

e incomprensibili della Natura. In un caso come nell’altro è in gioco una quantità immensa di sofferenza che sembra andare perduta.

Un altro punto di contatto fra Leopardi e la Scrittura mi sembra di poterlo ravvisare in certi Salmi: quelli in cui più si avverte un cosmico stupore e sgomento, e il senso di vastissimi spazi. Il contatto è qui meno

evidente, in quanto da quella contemplazione il Salmista procede alla lode di Dio (« I cieli narrano la gloria di Dio ») e lo stesso sgomento è accom-

pagnato dalla certezza della Divina Presenza: « Chi è l’uomo perché Tu ti ricordi di lui? O il Figliuolo dell’uomo, perché Tu lo visiti? ». Leopardi, invece, vede allargarsi illimitatamente davanti a sé soltanto un universo orfano. Ma vi è qualcosa di così solenne ed augusto nello spazio leopardiano che l’unico termine di confronto possibile è proprio lo spazio degli autori biblici, di quella loro contemplazione estatica. Del resto, il meraviglioso cielo di Recanati, quando Leopardi si affacciava a contemplarlo, di notte, dai balconi del palazzo paterno, non era meno gremito di stelle di quello che si stendeva sul capo di David in fuga nel deserto davanti alla collera di Saul, o addirittura sul capo di Abramo nella sua migrazione dal paese di Ur. Confesso che mentre ho difficoltà a ritrovare Abramo nell’I#no ai Patriarchi dov'è esplicitamente ricordato, me lo richiama invece, sempre, spontaneamente alla memoria il Canto notturno di un Pastore, anche se il pastore è la perfetta antitesi di Abramo riguardo alla fede. Ma quel vagare nei deserti, quel parlare al gregge, alla luna, quel continuo attonito interrogarsi: « A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita e quel profondo / Infinito seren? Che vuol dir questa / Solitudine immensa? Ed io che sono? » svegliano risonanze di una vastità che ancora una volta posso definire soltanto « biblica ». Così l’Infinito: non è possibile vedervi solo un’esercitazione filosofica, esso è il documento di un’esperienza che, al di fuori di qualsiasi religione costituita, rimane una delle più intense esperienze mistiche che siano mai state registrate. L’assenza di Dio, in simili poesie, finisce col diventare premente come la Sua presenza: ne conserva, per così dire, la forma, le dimensioni smisurate: il vuoto che occupa il posto di Dio non può essere un vuoto qualunque, diventa in qualche modo la Sua capovolta presenza. Penso che sulla tomba di Leopardi sarebbe stato giusto incidere un versetto di un Salmo, di uno dei grandi Salmi che gli piacevano e che, non potendolo

citare

in ebraico

(lingua

che

non

so), cito

dalla

Vulgata:

« Omnia excelsa tua et fluctus tui / super me transierunt ». Tutte le tue

altezze vertiginose e i tuoi flutti / sono passati su di me.

MARGHERITA

GUIDACCI

477

Riflessi del xept svovc sulla poetica leopardiana

Ad offrire lo spunto al Leopardi per una prima considerazione della poetica del sublime con ogni probabilità non fu il repì twovc, ma la recensione di Del Bello e del Sublime di Ignazio Martignoni, letta, come informa una delle prime pagine dello Zibaldone} sul n. 8, a. III, 1811

degli « Annali di scienze e lettere », forse verso la fine del 1817. L’articolo gli forniva inoltre alcuni dati intorno alla fortuna europea di quella poetica durante il Settecento, accordando un certo risalto a Burke, secondo qualcuno, suo suggeritore, con altri inglesi, di temi sublimi più propriamente preromantici, discendenti da sviluppi postossianici. Ma è evidente che, a brevissima scadenza, il poeta doveva essersi rivolto alla lettura diretta del trattatello dovuto alla penna dello Pseudo-Longino se, poche pagine dopo, introduceva alcuni aggiustamenti alla teoria, svolta nel capitolo XXXIV di Del sublime, secondo la quale la mancanza di grandi scrittori in una determinata epoca (l’anonimo si riferiva alla propria) dipende dalla perdita della libertà, dal tramonto

dell’ordinamento

repubblicano, dall’avarizia, dall’ignavia. Le osservazioni del Leopardi in proposito, come si vedrà, meno marginali di quanto a tutta prima si potrebbe supporre, si accompagnavano al contemporaneo, sia pur sfumato, impiego polemico di alcuni canoni longiniani di natura estetica nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica nell’atto di contrapporre al Di Breme la propria concezione della poesia: « non vogliamo che il poeta non sia poeta; vogliamo che pensi e immagini e trovi, vogliamo ch’avvampi, ch’abbia mente divina, che abbia impeto e forza e grandezza di affetti e di pensieri ».° Non era stato infatti lo Pseudo-Longino a iden1 Nello Zibaldone, alla fine di p. 7 (qui e in seguito ci riferiamo alla paginazione dell’autografo), il poeta dà l'indicazione del testo che gli ha offerto l’opportunità di registrare alcune osservazioni, avviate nella p. 6, vertenti sul bello, il sublime, il terribile, ecc. Per le

citazioni dallo Zibaldone e dagli altri scritti leopardiani ci serviamo di Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, Firenze

1969.

2 Si vedano in proposito N.J. PERELLA, Night and the sublime in Giacomo Leopardi, Berkeley-Los Angeles-London 1970 e L. CELLERINO, Leopardi fra sensismo e misticismo, in AA.VV., Il caso Leopardi, « Problemi-libri », Palermo 1974, pp. 104-115. 3 Discorso di un italiano ecc., in Tutte le opere cit., I, p. 932.

479

tificare le fonti « naturali » del sublime nell’elevatezza del pensiero, nel-

l’ardore del sentimento (cap. VIII) e nella grandezza d’animo (cap. IX), fino ad aggregarvi lo spirito divino (cap. XXXVI)? Eppure l’anonimo era invocato dal Di Breme proprio per accreditare la tesi che privilegiava il

« patetico » quale carattere dominante della poesia romantica. Tuttavia il patetico non poteva essere respinto aprioristicamente dal Leopardi se non nell’utilizzazione che ne faceva appunto il Di Breme, un uso, secondo il poeta, essenzialmente analitico e quindi razionale, al servizio di un processo conoscitivo del cuore umano, di un’« arte psicologica » che distruggeva «la grandezza dell’animo »,° comprometteva quella « naturalezza », quella spontaneità che già lo Pseudo-Longino aveva predicato, anche se ora, nei primi anni dell'Ottocento, incrociandosi coi prolungamenti di acquisizioni settecentesche, si coloravano di tinte rousseauviane. Ma il Leopardi, a quest’altezza cronologica — tra la fine del 1817 e il 1818 —, pur assorbendo quelle più moderne ascendenze, le faceva confluire, dove possibile, sul terreno della teoresi longiniana. Anzi, in qualche caso, come in tema di utilizzazione degli strumenti tecnici senza pregiudizio della spontaneità, l'accordo con l’anonimo era pressoché perfetto. L’autore del Sublime, nel capitolo XVII, aveva infatti sostenuto che la figura retorica

è di grande efficacia quando non trapela, quando l’artificio è coperto dallo splendore della grandezza e della bellezza, e aggiungeva, nel capitolo XXII, che « compiuta è l’arte, quando sembra essere l’istessa natura: e allora è felice la natura, quando contiene l’arte celatamente ».9 Affermazioni, specie la seconda, che non potevano che trovare un Leopardi pienamente solidale, al punto da indurlo, se non proprio a trascriverle o a parafrasarle, certo ad appropriarsene il significato in alcune annotazioni dello Zibaldone, soprattutto in una, intenzionalmente assiomatica nella sua stringatezza: « il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte »,! dove il termine ‘arte’, come nello Pseudo-Longino, è adottato con ambiva-

lenza semantica, dapprima in accezione estetica, poi retorica. In questo periodo, mentre viene elaborando una sua idea di poesia eloquente, il Leopardi sembra, dunque, tenere a portata di mano, quale sostegno primario, anche se non esclusivo, proprio il Del sublime. Il primo 4 Nelle Osservazioni al Giaurro di Lord Byron, il Di Breme scriveva:

« Longino è quegli,

se non sbaglio, che segnò più lucidamente i confini di questo vago furore, in cui fecero gli antichi consistere l’efficacia poetica, riponendola desso in gran parte nel Patetico ». Cfr. L. DI BREME, Polemiche, a cura di C. Calcaterra, Torino 1923, p. 90. 5 Zibaldone, p. 17. è Trattato del sublime di Dionisio Longino, tradotto da A. F. Gori, III ed., Bologna 1748, p. 54. È questa l’edizione posseduta dalla biblioteca di casa Leopardi, ma per il momento non utilizzata, come risulta dalle citazioni in lingua greca ricorrenti nello Zibaldone. 1 Zibaldone, p. 20.

480

momento longiniano del poeta, quale è attestato, in sede teorica, soprattutto dallo Zibaldone, coincide infatti col costituirsi dell'idea di poesia che prepara e poi accompagna la composizione delle prime due canzoni. È intanto sintomatico che egli, mentre opera qualche scandaglio sulla poesia del Petrarca e del Chiabrera per saggiarne la concordanza con la poetica del sublime, non accenni né ai sonetti dell'uno né alle odi dell’altro, ma

soltanto alle loro canzoni, vale a dire a strutture alle quali anch'egli affida la propria tensione eroica e morale. Questo potrebbe inoltre provare che egli, nel riferirsi a Pindaro (oltre che a Omero) quale paradigma della sublimità, non tenga conto — probabilmente perché non ben conosciuta —

della tradizione inglese che, sulle orme di Cowley, aveva fatto dell’ode pindarica il vertice delle proprie scelte. L’intento del Leopardi, invece, è di collegarsi ad una tradizione nazionale e, parallelamente, di ascoltare, senza più moderni intermediari, la voce di chi aveva teorizzato e canonizzato la sublimità.

Il problema che si connette ad intenzioni programmatiche che, da una presa di coscienza teorica, dovevano subito dopo tradursi in slanci operativi, aveva per oggetto capitale un duplice rapporto: fra poesia ed eloquenza da un lato, fra poesia e tecnica dall’altro. Al secondo già si è accennato, trascurando, però, alcune integrazioni che ora è indispensabile introdurre. Il dilemma e la almeno apparente contraddizione fra spontaneità e assunzione dei modelli, tra imitazione della natura e « studio lungo e profondo dei poeti antichi »} vengono risolti dal poeta col rifiuto della prassi ripetitiva seguita dai classicisti e col ricupero di una condizione di verginità educata, che derivava dall’aver desunto dai classici non già un formulario, delle « regole » (la cui « osservanza cieca e servile »? egli condannava

in modo

perentorio),

ma

un modello

di comportamento

di

fronte alle bellezze naturali o alle proprie invenzioni. Non a caso lo PseudoLongino, nel secondo capitolo, aveva sostenuto che la disposizione naturale nell’esprimere sentimenti intensi e pensieri elevati non andava disgiunta dalla spontaneità, ma rifuggiva dall’incoerenza, dal disordine e richiedeva pertanto rigore e metodo, perché altrimenti i grandi ingegni avrebbero corso gravi rischi se abbandonati a se stessi, senza alcuna disci-

plina. Nel capitolo XIII, richiamandosi al Platone della Repubblica, aveva ricordato che una delle vie per attingere il sublime era l’emulazione dei grandi poeti e prosatori del passato, dai quali scendeva all’anima di quanti

8 Discorso di un italiano cit., p. 931. 9 Ivi, p. 932. Anche a p. 10 dello Zibaldone il poeta inveisce contro la riprovevole abitudine dei contemporanei di non scostarsi mai « da quelle regole (ottime e classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente ».

481 31

cercavano di emularli il soffio dell’ispirazione. Anche lo Pseudo-Longino, quindi, aveva salvaguardato l’autonomia creativa del poeta, pur ricono-

scendo la necessità dello studio, del metodo, della disciplina, invocati dal Leopardi in opposizione al disprezzo del Di Breme per l’« arte di poetare

e di scrivere », poiché « Virgilio senz’arte non sarebbe stato Virgilio » e Cicerone « studiò profondissimamente l’arte sua e la sua lingua e la gramatica e gli esemplari greci » non divenendo per questo « né un pedante né un imitatore [...], ma diventò un Cicerone ».° Era, dunque, in questa sede che, come l’anonimo, il poeta realizzava quella convivenza, o, meglio, collaborazione, fra immaginazione e. intelletto, fra poesia e retorica, che di fatto sanciva la caduta della barriera che egli stesso frapponeva fra natura e ragione: assoggettata ad un principio d’integrazione, la ragione retorica dava scacco all’antirazionalismo. Quanto all’eloquenza, che lo Pseudo-Longino (nel capitolo VIII) poneva a comune fondamento delle cinque fonti da cui si genera il sublime — così da poter collocare Archiloco accanto a Demostene (capitolo X) —,

il Leopardi non solo non esitava ad equipararla alla poesia," ma proprio in vista della composizione delle due prime canzoni, si dedicava all’analisi della poesia eloquente dal Petrarca all’Arcadia, avendo di mira la verifica della sua consonanza con la poetica del sublime. È infatti principalmente in questi scandagli che il Del sublime costituisce un sicuro punto di riferimento, ma, appunto perché con riflessi immediati sulla stesura delle due prime canzoni, nell’ambito dell’eloquenza poetica. Si capisce poi che proprio il Petrarca, che specie nella prima parte di All’Italia ha un’incidenza massiccia, dovesse fruire di una condizione privilegiata, grazie soprattutto alla capacità di fondere insieme pathos e persuasione, ma in modo che questa fosse assorbita, « abbagliata » dalla tensione emotiva (« Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più ». Non certo casualmente il Leopardi individuava soprattutto in tre canzoni (O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil e Italia mia) il vertice delle possibilità espressive del Petrarca, in virtù di « una semplicità e candidezza » che peraltro « si piega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire (come in quel: Pon mente al temerario ardir di Serse ec.), così in tutto il corpo e continuatamente,

come

nelle

varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per l’ordinario ». In confronto Orazio, benché forse « superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può

10 Zibaldone, pp. 19-20. 1l À p. 20 dello Zibaldone, soffermandosi su Cicerone, annotava che « l’eloquenza è cosa molto simile alla poesia ».

482

pur venire al paragone col Petrarca ». Il Testi poi, pur con « sufficiente grandiosità ed anche qualche eloquenza », era giudicato nient’altro che un imitatore di Orazio, pressoché privo di « sublimità di concetti e d’invenzioni ». Ma nonostante « s’innalzi maggiormente e metta fuori più forza e facondia, e più energiche immagini e in somma sia più pindarico », molto spesso non riesce ad evitare d’imbrattarsi con la « pece del suo secolo ».* Un vizio, questo, al dire del Leopardi, a cui non sa sottrarsi neppure il Filicaia, anche se tenta di riprodurre « quel so#mo sublime della Scrittura, e per questo sommo sublime si fa pregiare »."

L’allusione a Pindaro, appena accennata nella caratterizzazione del Testi, giustamente si muta in parametro essenziale nel paragrafo dedicato al Chiabrera. Ma Pindaro, assunto con funzione largamente positiva nell’ambito della sua consonanza col sublime nell’accezione più rigorosamente longiniana (« sublime, colla conveniente e greca semplicità, per mezzo dell’accozzamento ré@v \muudtov, come dice Longino »), è poi biasimato per i suoi « voli », responsabili, a giudizio del Leopardi, di una certa oscurità. Quanto al Chiabrera, secondo il poeta, il suo merito maggiore

sarebbe di aver aperta una nuova via alla poesia italiana, proponendo un « sublime alla greca Omerica e Pindarica ».® Il Guidi, infine, definito dal

Leopardi « emulo impotente di Pindaro », a suo dire « cerca di grandeggiare e d’innalzarsi, ma la sua grandezza né si comunica col lettore innalzandolo, né lo percuote e stordisce » per difetto di fantasia, mentre «i suoi sublimi », pur diffusi in tutte le sue canzoni, « non

sono

formati

rapidamente dalla scelta züv &xpov Anuuéruv, come dice Longino, come fa Pindaro e Omero e il Chiabrera, con che vengono ad ëmrAirreu il lettore e te lo trascinano e sbalzano qua e là stordito e confuso a voglia loro »." In queste annotazioni il Leopardi stabilisce alcuni punti fermi, di non trascurabile importanza: il primato del Petrarca nell’accordare l’eloquenza delle canzoni con la vocazione lirica, sostenuta dalla « sublimità », dalla « nobiltà e magnificenza del dire »; il contributo innovativo del Chiabrera nel rifarsi a Pindaro e nel tentativo di attingere un « sublime alla greca », pur col limite di una certa oscurità; l’appartenenza ad un’area di minore

dignità letteraria del Testi, del Filicaia e del Guidi, nei quali più evidente è l’intenzione di imitare e « grandeggiare » senza che il sublime riesca a riscattarli da tensioni quasi soltanto velleitarie. 12 Zibaldone, p. 23

13 Ivi. 14 Ivi, p. 24. 15 Ivi. MS 26

483

In questa ricognizione della poesia eloquente parrebbe proprio che il Leopardi si sia attenuto ai criteri adottati dallo Pseudo-Longino per distinguere il vero sublime, che innalza l’anima e dispone alla grandezza, dall’enfasi, da un turgore che simula la grandezza, dall’artificio (capitolo VII). La fedeltà a quei criteri non si limita al loro impiego sul versante critico, tale da contrapporre la grande poesia eloquente a quella che ne ha solo una parvenza esteriore, ma si estende anche alla descrizione, sia pur sommaria, degli effetti psicologici del sublime (lo si avverte soprattutto nel paragrafo dedicato al Guidi), quelli che l’anonimo, nel primo capitolo, faceva coincidere con l’estasi, con la sopraffazione del fruitore, dominato da una forza irresistibile. Ed è noto che proprio il coinvolgimento del lettore, anche secondo recenti interpretazioni,” rappresenta uno degli aspetti più interessanti e per molti versi attuali del sublime longiniano.

Fin qui, insomma, il trattatello apprestava dei criteri di natura prevalentemente retorica e letteraria, sia pure con aperture verso valori di tipo etico, quali la grandezza, la magnanimità, collegabili ai fini parenetici del sublime, realizzabili attraverso il coinvolgimento del lettore. Ma già il capitolo XVI, sulle figure, proponendo un esempio di eloquenza tratto da Demostene, nel quale si esaltavano gli Ateniesi che combatterono per la libertà della Grecia, gli eroi di Salamina, di Maratona, di Platea, accen-

tuava il carattere di quelle aperture, pareva piegarlo a intenti pedagogici, implicitamente sottolineandone una esemplarità non semplicemente oratoria, come del resto sembra confermare quanto l’anonimo veniva subito dopo proclamando a proposito del giuramento: Indi a poco, come a un tratto ispirato da Dio, e come preso da Febo, profferì il giuramento per li più prodi di Grecia: Non erraste al certo, no: giuro per l’animo di coloro, che in Maratona a’ cimenti s'esposero; sembra, che mercé di questa figura di giuramento [...] l’Oratore nel suo dire abbia consecrati i maggiori, mostrando, che per coloro, che in sì fatta guisa morirono, deesi come

per gli dei stessi giurare: e mettendo ne’ giudicanti il coraggio di quelli, che ivi al cimento s’esposero, pare ch’egli abbia fatto passare la natura della dimostrazione in una oltre passante altezza ed affezione; [...] e che negli animi degli uditori, come un [...] medicamento [....], abbia fatto calare il discorso.!8

I fini parenetici, ancora implicati nelle maglie della ragione retorica nel capitolo XVI, si facevano espliciti in quel capitolo XXXIV a cui si è accennato all’inizio, non a caso proprio quello sul quale il Leopardi si 17 Cfr. P.L. Donini, Il sublime, ovvero la ricerca dell’unità, cembre 1966. 18 Trattato del sublime, tradotto da A.F. Gori cit., pp. 44-45.

484

« Sigma », n.

11-12,



di-

soffermava con una certa acribia. Le considerazioni sui motivi che pote-

vano spiegare la scarsità di « anime grandi » ai tempi dello Pseudo-Longino si connettevano ad uno dei temi capitali svolti nelle due prime canzoni (e non in esse soltanto, ma ripreso e arricchito nella terza, al Mai),

anche se configurabile, in ambito poetico, lungo un filone che andava dal Petrarca al Foscolo. Ma i nostri poeti e scrittori (oltre il Petrarca di Italia mia e il Foscolo dell’Ortis, il Maggi, il Filicaia, l’Alfieri di La congiura de’ Pazzi, il Monti) si erano limitati a denunciare il « letargo », il « sopore » in cui l’Italia giaceva da secoli, sia pure con l’aggiunta del proposito di volerla svegliare, mentre l’anonimo aveva additato cause politiche e conseguenze sociali e psicologiche, soprattutto aveva spiegato come la libertà nutra il pensiero degli uomini magnanimi, ecciti l’ardore dell’emulazione, assecondi la libera competizione, attraverso la quale si affinano le doti spirituali. Certo il primitivismo preromantico del Leopardi non si accordava con le convinzioni dello Pseudo-Longino nello stabilite rapporti di causa ed effetto; ma questo non impediva che si realizzasse l’accordo sulla necessità della « grandezza di pensieri », su « forza e impeto e ardore d’animo », « la gloria l’amor della patria la libertà » ?? per uscire dallo stato di decadenza. Se lo Pseudo-Longino aveva insistito sul sublime in quanto vertice dell’arte della parola (capitolo I), era soprattutto perché, grazie ad esso, poeti e prosatori avevano potuto conoscete la gloria, intesa nel suo significato più ampio. Il passato — un passato, appunto, paradigmatico — doveva servire da stimolo, promuovere l’emulazione. Il presente — un presente di decadenza — rinviava al passato, suggeriva un confronto, l’assunzione di un rapporto dialettico. Il sublime doveva allora educare alla grandezza, alla magnanimità, sollevare gli animi dal torpore in cui erano precipitati. L’accostamento del Leopardi alla poetica del sublime si giustificava in quanto obbediva ad esigenze abbastanza simili a quelle da cui era stato sollecitato l'anonimo in rapporto a condizioni morali in qualche misura analoghe. Entro certi limiti, quindi, lo Pseudo-Longino non era sol-

tanto il collaboratore ideale al costituirsi della poetica eloquente, ma anche l’interlocutore, a livello umano e storico, di un’esperienza per certi versi simile, vissuta con coscienza attiva. L’autobiografismo, che in sede teorica

restava largamente dissimulato entro le pieghe di enunciati d’ordine critico 19 Scriveva

infatti il Leopatdi:

« Cercava

Longino

(nel fine del trattato

del Sublime)

perché al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia. Ora queste non sono madri ma

sorelle di quell’eftetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano

dai pro-

gressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri, né forza e impeto e ardore d’animo, né grandi azioni che per lo più sono pazzie » (Zibaldone, p. 21). 20 Zibaldone, p. 21.

485

o tecnico-formale, così nel trattatello dell’anonimo come nello Zibaldone,

aveva poi modo di esprimersi, sia pure in termini talora di un protago-

nismo o di una passionalità alquanto enfatica, nelle due prime canzoni leopardiane, che, appunto, in buona parte (ma più la prima della seconda) si modulavano secondo le guise della sublimità in accezione eloquente. A parte le tensioni tirtaiche della poesia, l'anonimo e il poeta si assumevano una funzione esortativa, puntando sull’esemplarità del passato, non solo a livello letterario, ma morale, principalmente secondo l’ottica dell’eroico. Non è certo il caso di dilatare oltre il dovuto l’incidenza avuta dallo Pseudo-Longino sul poeta di Recanati, ma è indubbio che l’esaltazione continua dei grandi greci, da Omero a Pindaro, da Sofocle a Saffo, da Platone a Demostene, da Tucidide a Simonide, dagli eroi di Maratona a quelli di Salamina (sia pure con esclusione dei caduti alle Termopili) risvegliava in lui ricordi culturali, riproponeva suggestioni, alimentava passioni, lo rinviava a Simonide (nel trattatello citato non per l’epigramma dedicato agli epici combattenti delle Termopili, ma per un componimento a noi non pervenuto) e, per analogia tematica, al Petrarca di O aspettata in ciel beata e bella che, in aggiunta agli eroi di Salamina e di Maratona, aveva celebrato « il leon » che « con poca gente » difese « le mortali strette ». Il Del sublime era, dunque, anche la voce di quel passato paradigmatico, la cui sintesi corale, il Leopardi, come già lo Pseudo-Longino in rapporto al proprio tempo, intendeva contrapporre alla desolazione del presente. Ma la risonanza del trattatello è forse anche riconoscibile a livello della sua più evidente specificità. Pur non volendo, come s’è avvertito, caricare l’anonimo di responsabilità che non gli competono, non è tuttavia arbitrario intravedere in taluni suoi suggerimenti di natura retorica il peso di una proposta sollecitante, quanto meno il valore di un’autorizzazione. Si pensi, ad esempio, al fervore con cui nel Del sublime era magnificata l’efficacia delle interrogazioni nel capitolo XVIII: Ma che diremo noi delle Domande e delle Interrogazioni? Non fann’elleno, con tali acconciature di figure, più tese quelle cose, che si dicono, e di gran lunga più efficaci e più altiere? [...] Ma il furore e l’uscita della domanda, e della risposta, come se fosse un’altra persona, mercé di questa figura, rende il detto non solo più sublime, ma più credibile ancora. Perché allora rapiscono più che mai le cose patetiche o affettuose, quando pare, che il Dicitore medesimo non le dica a posta, ma la congiuntura sia che le partorisca.!

Non vorremmo insinuare che senza la lettura di questo passo sarebbe mancata la serie d’interrogazioni introdotta dal poeta nella prima parte di All’Italia e di Sopra il monumento di Dante (oltre che nel finale della 2! Trattato del sublime, tradotto da A.F. Gori cit., pp. pp. 49-50.

486

seconda canzone), ma semplicemente che egli doveva sentirsi confortato ad adottare un modulo cosi vivacemente

raccomandato

e che, nella sua

maturità, avrebbe destinato ad impieghi anche più intensi e necessitati.? Senza contare, certo, che lo stesso Petrarca in Italia mia ne aveva offerto

uno dei tanti esempi, ma anche di un uso più sobrio. Non è del resto un caso che, come dimostrano le prime pagine dello Zibaldone, l'anonimo e il Petrarca si trovassero ad agire di conserva, l’uno in ambito teorico, l’altro paradigmatico. L’accordo sul piano teorico, ma con propaggini allargate, come s’è visto, con lo Pseudo-Longino, oltre le zone qui scandagliate, ha una consistenza apprezzabile e meriterebbe una verifica se essa non fosse già stata condotta da altro studioso. Sarà piuttosto opportuno rilevare come la consonanza su taluni temi, come la « vastità », ad esempio, se ha nell’ano-

nimo il suo primo suggerimento, trova nel Leopardi un’eco piuttosto di secondo grado, proveniente da filtri preromantici o empiristici d’area anglosassone e pertanto fuoruscenti dai limiti della presente ricerca. Sostanzialmente nel Sublime la « vastità » rientrava come variante, con implicazioni religiose, della « grandezza », orientando piuttosto verso il mirabile, il maestoso,

l’imponente,

di cui il Nilo, il Reno, l’oceano

erano

citati ad

esempio nel capitolo XXXV. L’innata tendenza dell’uomo ad ammirare tutto ciò che è eccellente, grande bello sarebbe per l’anonimo il contrassegno più tipico della sua natura. Nel pensiero leopardiano, secondo un’annotazione del 5 novembre 1821, la « vastità » non solo è guardata attraverso la lente della teoria del piacere, ma, conformemente ad un’ottica sensistica, ne sono avvicinati gli effetti al « vago o indefinito » (topos centrale, com’è noto, della poetica leopardiana), distinguendone nettamente la natura. L’unificazione tra vastità e vago o indefinito avviene pertanto 22 Tuttavia alcuni studiosi hanno — in omaggio ad una prassi crociana — ad esempio, nelle « folte interrogazioni canzone all’Italia pur nell’enfasi in cui rettorico riscontratovi

comunemente

tentato di rivalutare tali serie interrogative puntando quasi esclusivamente su valori psicologici. Il Figurelli, rettoriche che punteggiano le prime due strofe della sono espresse » ha avvertito non tanto «il movimento

dai critici, ma

più la desolata

interrogazione

al mistero

del mondo », aggiungendo che il « mordente patriottico già si allenta e cede a una dolorosa contemplazione delle sorti dell’uomo e delle nazioni » (F. FIGURELLI, Le due canzoni patriottiche del Leopardi e il suo programma di letteratura nazionale e civile, « Belfagor », a. V, n. 1, 31 gennaio 1951, pp. 35-36). Il Blasucci, dopo aver sostenuto che la « moltiplicazione quasi esasperata di movenze eloquenti, interrogazioni invocazioni esclamazioni esortazioni » della prima canzone « costituiscono già le premesse psicologiche e stilistiche da cui scatterà la ribellione titanica di Bruto minore », trova, « dietro la foga appassionata » degli interrogativi della seconda canzone, « un contenuto più vasto di quello patriottico » (L. Brasucci, Sulle due prime canzoni leopardiane, « Giorn. stor. d. lett. it.», CXXXVIII, 1961, pp. 66 e 86). 23 Ci riferiamo al citato volume del Perella, alle pp. 75-110. 24 Si legge infatti nello Zibaldone, p. 2053: « La sola vastità desta nell'anima un senso di piacere, da qualunque sensazione fisica o morale ella provenga, e per mezzo di qualunque

487

solo a livello sensoriale. La dimensione dell’oggetto che provoca la sensazione piacevole è secondaria rispetto a quella della sensazione, la cui peculiarità è quella di non conoscere limiti, per sua intrinseca natura non essendo definibile in termini oggettivi. Già alcuni mesi prima, riferendosi al piacere procurato dalla « lettura della vera poesia », il poeta aveva

osservato che essa, « destando mozioni vivissime, e riempiendo l’animo

d’idee vaghe e indefinite e vastissime e sublimissime e mal chiare ec. lo riempie quanto più si possa a questo mondo ».? Come si vede, già qui è

operata l’indistinzione tra vago o indefinito e vastità, ma a livello ideale, non oggettivo, a differenza, quindi, dello Pseudo-Longino che invece proclamava la corrispondenza tra vastità dell’oggetto e intensità dei sentimenti o grandezza di idee che suscitava. Tuttavia quando, con l’intento di dimostrare l’aspirazione dell’uomo al divino, egli affermava (sempre nel capitolo XXXV) che all’ansia di contemplazione e riflessione non basta il mondo intero e che spesso i nostri pensieri sorpassano i limiti dell’universo, è evidente che offriva lo spunto alla meditazione settecentesca e poi romantica intorno all’illimitatezza del pensiero, dell’immaginazione ed è soprattutto a questa corrente speculativa, rappresentata da Locke, da Addison, da Blair, che si rifà il Leopardi. Non è il caso d’insistere su

questo argomento perché già trattato da altri,” tuttavia va osservato come anche nell’ambito di tale corrente non mancano i casi in cui è conservata la corrispondenza, di origine longiniana, tra vastità oggettuale ed ideale, come si legge in un passo di Blair, ad esempio: « Togliete ogni limite ad un oggetto, e subito lo rendete sublime. Quindi lo spazio immenso, il numero infinito, la sempiterna durata empion la mente di grandi idee ».? Sulla scia di questa vasta problematica, di cui lo Pseudo-Longino costituiva l’archetipo, il Leopardi era sospinto alla fuga dal reale verso l’immaginario, com’egli stesso teorizzava nello Zibaldone: « Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec.» Da qui discende,

de’ cinque sensi. [...] Bisogna distinguere il vasto dal vago o indefinito. L’uno e l’altro piace all'anima per le stesse ragioni, o per ragioni della stessa specie. Ma ci può ben essere un vasto che non sia vago, e un vago che non sia vasto. Nondimeno queste qualità si ravvicinano sempre quanto all’effetto che fanno sull’anima, e ciò perché le sensazioni vaghe, ancorché derivino (come spesso) da oggetti materialmente piccolissimi, e compresi bastantemente dall’anima per piccoli, sono sempre vaste, in quanto essendo indefinite non hanno termini ». 25 Zibaldone, p. 1574. 2% Dal Perella e dalla Cellerino negli studi citati. 27 Lezioni di retorica e belle lettere di Ugone Blair, tradotte dall'inglese e commentate da Francesco Soave, I, Milano 1815, p. 60. Il Leopardi possedeva la prima edizione (Venezia 1803) di quest’opera. 28 Zibaldone, p. 167.

488

com'è noto, un filone tematico che attraversa buona parte degli idilli, « piccoli » e « grandi » (per usare una terminologia impropria, peraltro largamente

divulgata), ma, come

la parallela meditazione

zibaldoniana,

sintonizzata quasi esclusivamente sui grandi temi della ricerca speculativa e poetico-retorica europea del Settecento, dietro la quale, del resto, s’intravedeva lo Pseudo-Longino quale ispiratore primatio.? Così, se è vero che, nel capitolo X, l'anonimo aveva accennato al terrore, allegando qualche esempio ricavato principalmente da Omero, è evidente che si tratta di una tipologia che resta al di qua da quella diffusa dalla letteratura preromantica inglese, a partire dai canti ossianici, che ebbe invece risonanza più che altro nel tirocinio poetico del Leopardi, ma che nei Canti quasi non lasciò traccia, se non nella rappresentazione « sublime » della natura vulcanica della Gizestra. Un’eco se ne rinviene, ma nell’ambito di un descrittivismo in chiave satirica, nel canto VII (st. 29 e 31) dei

Paralipomeni. Non si tratta peraltro di scene naturalistiche nelle quali dominano irte foreste, strapiombi, impetuosi torrenti come, sulla scia dell’esempio ossianico, si ritrovano in passi abbastanza noti della Nouvelle Héloise, del Werther, fino all’Ortis: la fedeltà del Leopardi a quell’esemplate, nei due casi ora citati, è sicuramente minore. Quanto poi all’orrore piacevole, al « delightful horror » associato all’idea « sublime » d’infinito — poeticamente individuabile in L'infinito —, si è chiamato in causa il Burke di A philosophical enquiry into the origin of our ideas of the sublime and the beautiful, vale a dire un fedele della tradizione longiniana del Settecento inglese. Più direttamente connessa ai suggerimenti dell’anonimo, benché rientrante in un largo strato della riflessione estetica settecentesca che risentì del suo influsso, è l’idea di brevità dell’organismo poetico, portata a privilegiare la lirica. Fin dalle annotazioni del ’18 sul Guidi il Leopardi aveva deprecato che il suo sublime fosse « composto placidissimamente di lunghe enumerazioni di cose di parti d’immagini accozzate e messe una dopo l’altra ordinatamente e in simmetria senza rapidità di stile », mostrando, insomma, di aver « bisogno di una pagina per formare un quadro o pezzo qualunque sublime, dove Pindaro e il Chiabrera di pochi versi ».* Certo il poeta era fresco della lettura della recensione al

29 Per questo tema, con riferimento all’area anglosassone, rinviamo ad alcune delle varie ricerche americane, quali ad esempio, S.H. Monk, The Sublime: A study of Critical Theories in XVIII-Century England, New York 1935; N. MacLean, From Action to Image. Theories of the Eighteen Century, in Critics and Criticism, Chicago 1952 (trad. it. Dall’azione all’immagine, in Figure e momenti di storia della critica, a cura di R.$. Crane, Milano 1967); M.H. A8rams, The Mirror and the Lamp. Romantic Theory and the Critical Tradition, New York 1953 (trad. it. Lo specchio e la lampada. La teoria romantica e la tradizione critica, Bologna 1976). 30 Zibaldone, p. 27.

489

volume del Martignoni, nella quale aveva potuto cogliere l’osservazione che « la brevità è pure una dote quant’altra mai connaturale al sublime »,

né ignorava che il Blair aveva avvertito che il sublime « è un sentimento,

che non si può mai lungamente protrarre. Per niuna forza di genio può la mente esser tenuta gran tempo così sollevata sopra il suo tono ordinario, che non cerchi sempre di ricadere nella sua consueta situazione ».” Anche il Beccaria nelle Ricerche intorno alla natura dello stile aveva affermato che il sublime equivale ad « un’impressione grandissima e subitanea », ad «un colpo di luce », aggiungendo che « non può ammettersi uno stile costantemente sublime, perché eccederebbe i limiti della nostra comprensibilità ».7 In realtà questi autori, a questo proposito, si erano attenuti alla formulazione che del sublime aveva dato l'anonimo, da lui definito

quasi « un fulmine » (capitolo I), precisando che l’eccellenza sta nel saper cogliere i punti essenziali e nel fonderli insieme (capitolo X), come è dimostrato dai grandi geni che, pur avendo di mira la perfezione, rifuggivano dalla meticolosità dei particolari (capitolo XXXV). Quanto al Leopardi, v'è poi da aggiungere che, nel tentativo di chiarite a se stesso la propria poetica giovanile attraverso una verifica dei valori, faceva leva sulle risorse della propria coscienza critica. Superata la fase eloquente e a ridosso di quella idillica (in senso proprio), verso la fine del ’21 esaltava gli « stili energici e rapidi », peculiari della vera poesia, soprattutto lirica. Ma proprio nel ’21, l’anno in cui, tra i vari Disegni letterari, si trova un « Comento a Longino », rimasto allo stadio progettuale, parrebbe che il poeta, attraverso l'anonimo, volesse risalire alla sua fonte primaria, al Platone del « furor » poetico, quando annotava: Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprite e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile e straordinario [...] e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veramente, che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento.»

Del resto lo Pseudo-Longino non aveva associato la nozione di sublime a quella di estasi, di foga, di folgorazione?

Già nell’annotazione dello Zibaldone ora citata (ma con un preannuncio nel Discorso di un italiano nel luogo riprodotto all’inizio) la litica è fatta derivare da un « impeto » (fantastico-sentimentale),

lebre definizione dell’agosto 1828:

anticipando

una

ce-

«la poesia sta essenzialmente in un

Lezioni di retorica e belle lettere cit., t. I, pp. 90-91. C. BECCARIA, Opere, a cura di S. Romagnoli, I, Firenze 33 Zibaldone, p. 1856.

1958, PIZIDI

impeto ». Ma a parte il canone della « rapidità », la consonanza col pen-

siero dell’anonimo continua anche in questi anni della maturità leopardiana e, anzi, in maniera forse più aderente che nel passato. Se nel ’28 il problema dell’estensione è posto in termini pregiudiziali ai fini di una qualificazione rigorosamente poetica (che comportava la svalutazione del poema epico in quanto richiedeva « un piano concepito e ordinato con tutta freddezza »), nel ’29 il sublime era assunto con analoga funzione, a tal punto

da indurre il Leopardi a proclamare: Il primo fondamento di qualunque o immaginazione o sentimento nobile, grande, sublime (e tali sono i poetici e sentimentali di qualunque natura: anche i dolci, teneri, patetici, ec.: tutti inalzano l’anima), è il concetto di una propria nobiltà e dignità. [...] Ogni sentimento o pensiero poetico qualungue è, in qualche modo, sublime. Poezico non sublime non si dà.

Come si vede, il sublime viene qui assunto a categoria capace di elevare qualsiasi moto sentimentale o intellettuale a livello poetico, ma in termini di specificità esclusiva: il non-sublime equivale al non-poetico. Se dapprima il trattatello è il paradigma teorico della poesia eloquente, poi il mediatore della poesia idillica, infine esso contribuisce non solo ad una definizione della lirica, ma anche ad accrescere nel poeta la coscienza di sé. Non va infatti dimenticato che il passo dello Zibaldone orta citato fa riferimento, nelle righe che lo precedono (« Alla p. 4488. Ancora:

che ardisco

io format de’ pensieri nobili, che da tutti son tenuto per uom da nulla »), ad un pensiero del 14 aprile 1829 nel quale egli scruta in se stesso, alla luce dell’avvilente condizione di « abitualmente disprezzato e vilipeso dalle persone ». La propria capacità di sentire e di pensare in modo sublime

(le « doti naturali » secondo lo Pseudo-Longino) lo facevano emergere dalla mediocrità che lo attorniava. Una volta tanto la natura gli aveva, dunque, offerto una possibilità consolatoria. Il Del sublime fu, insomma, per il Leopardi un libro utile e importante, ma sarebbe forse troppo dire che sia stato un livre de chevet. È certo che

il suo approccio se non fu continuo ma intermittente lo fu, staremmo per dire, proprio nei momenti cruciali, a contrassegnare fasi decisive, delle svolte. Senza contare che la fedeltà alla plaguette parrebbe aver provocato in lui, in qualcuno di quei momenti, un desiderio di appropriazione per segni tangibili, ma purtroppo rimasti bloccati a livello intenzionale. Nel °21, come si è ricordato, nasce il « disegno » di un commento a Longino, nel ’26, per disgusto nei confronti della versione del Gori, condannata per « trivialità dello stile e della lingua » e per gli « errori d’intelligenza

34 Ivi, pp. 4492-4493.

491

e d’interpretazione del testo greco »,* prende l’avvio una traduzione del poeta, che peraltro s’interrompe dopo il primo periodo. In sostanza, come in ogni opera di appropriazione, il Leopardi attualizzava lo Pseudo-Longino nell’atto stesso in cui — nelle riflessioni dello Zibaldone o nella poesia — lo interpretava secondo gli stimoli della propria sensibilità che, per quanto personale e inconfondibile, non era estranea alle suggestioni della cultura europea più recente, autrice del più importante capitolo della fortuna di quell’aureo libretto ch'è il Del sublime. RopoLFo

D.

; O Operette morali d’Isocrate. ;

492

Preambolo

MaccHIoNI

JoDI

del volgarizzatore, in Tutte le opere

cit.,

I

L

Influenza della metrica classica

nella poesia leopardiana

1.

Soltanto Domenico De Robertis, a mia scienza, ha additato — ma

come en passant e, in una rapida nota del suo commento,

con attenua-

zione dubitativa — il precedente culturale che ha certamente determinato, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, l’artificio per cui i vv. 57-58, verso la fine della terza strofa, riprendono, con lievi varianti,

i precedenti versi 37-38: « quasi a imitazione », egli dice, « delle cadenze di certo canto pastorale »; e rinvia all'VIII egloga virgiliana. In effetti, in questo punto del Canto notturno, ci troviamo di fronte alla precisa e consapevole messa in opera di un artificio tecnico assai frequente nella poesia pastorale, oltre che latina, anche greca: quell’ephymnion che, presente nella virgiliana Damone ed Alfesibeo, era già stato impiegato (per citare poeti particolarmente cari a Leopardi) da Teocrito (nel primo e secondo idillio) e da Mosco, nel Canto funebre di Bione bifolco amoroso, che, tradotto da Leopardi stesso, era da lui giudicato la « sua

poesia più bella » e « un capo d’opera nel genere lugubre pastorale »? E proprio perché appartenente al genere pastorale, il Tasso aveva ripreso il modulo

nell’Azzizza (atto I, sc. I), là dove Dafne, perorando in favore

d’amore, conclude tre sue battute col medesimo — o di poco variato — ritornello: « Ah cangia, Cangia, prego, consiglio, Pazzarella che sei » (vv. 6-8);

« Cangia, cangia consiglio, Pazzarella che sei: Ché ’1 pentirsi da sezzo nulla giova » (vv. 38-40); (vv. 165-166).

« Cangia,

cangia

consiglio,

Pazzarella

che

sei »

1 Cfr. G. LeoparpI, Canti, a cura di G. e D. De Robertis, Milano 1979, p. 319. Per Vir« Ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite

gilio, cfr. Buc. VIII, per esempio il v. 100: Daphnim », ripetuto a 104, ecc.

2 Cfr. Tutte le opere di G. LeoPARDI, a cura di F. Flora, I, Milano 19534, p. 571. 3 Credo che l’esempio del Tasso fosse ben presente nella memoria di Leopardi. Si ripensi, infatti, a quel che osservava A. MontEvERDI, La composizione del « Canto notturno », « La Rassegna della Letteratura Italiana », LXV, 1960, pp. 207-217 (ora in Frammenti critici leopardiani, Napoli 1967, p. 119): «C'è poi, appena dissimulato dalla sostituzione di due parole,

e dall’aggiunta di due versi, ma ben caratterizzato dalla identità dell’espressione e della rima (tale: mortale), il ritornello che lega la terza lassa alla seconda ». Ora, a parte la sostituzione

493

Cosi stando le cose, à facile accorgersi come il ritornello che collega i vv. 37-38 e 57-58 del Canto notturno non è che una variante — e sarebbe meglio dire un incremento o l’acme — dell’altro artificio, per cui ogni strofa termina con un sistema di rime in -dle, rima che infine, in veste di ripresa dall’ultimo verso della quinta, apre anche la sesta ed ultima stanza. Ma se questo è vero, bisognerà anche concludere che, in questo caso, la rima perde in qualche modo il valore che ha nella poesia volgare, per acquistare la funzione di ritornello o ephymnion, così come esso si trova nella poesia classica. Ed è geniale innesto da parte di Leopardi dei modi di una lingua in quelli d’un’altra: o, se si vuole, felicissima riscoperta, nel profondo di una poesia come quella classica, di un istituto che, un tempo, gli era sembrato ad essa repugnante. Ancora il 23 giugno 1821, riflettendo sulla estrema relatività del gusto, scriveva nello Zibaldone: Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non si accorge di verun’armonia, né

li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini ec., alle cui lingue si poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche il maggior numero di parole, considerando, se non altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l’infinita copia e varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il verso, l’armonia della sua struttura, il ritmo ec. E nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all’armonia de’ loro versi, parrebbero

barbari e disgustosi ponendovi la rima.

A distanza di quasi dieci anni, chissà se Leopardi avrebbe ancora sottoscritto questa pagina, senza almeno procedere alla precisazione per cui anche i classici, greci e latini, avevano una specie di rima, l’ephymnion appunto?

2. D'altra parte, al genere pastorale l’uso dell’ephymnion era giunto, in Grecia, attraverso la mediazione della poesia lirica e di quella drammatica: dove la corrispondenza ritmica tra strofe ed antistrofe invogliava di delle parole, proprio l’aggiunta, se non di due versi, almeno di uno, è quel che si verifica È 5 ; BE nt (« Ché ’1 pentirsi da sezzo nulla giova ») anche nel Tasso, in occasione della seconda ripresa del ritornello. 4 Cfr. Tutte le opere cit., Zibaldone, tomo

494

I, pp. 813-814.

per sé ad istituire anche corrispondenze verbali. Al poeta l’esempio era

fornito dal ritornello dei canti popolati, che per lo più chiudevano le strofe con qualche esclamazione (iò Béxye, è Si9ipape, aiaî aiat ecc.) puntualmente ritornante ad intervalli prevalentemente regolari5 E se, per la lirica, più di Pindaro o dell’amatissimo Simonide, fu certo presente al Leo-

pardi del Canzo notturno il desolato esempio dell’Ecclesiaste, che scandisce molti dei suoi capitoli col ritorno del lemma « vanitas » o di suoi affini; ° dovette invece essere l’esempio dei poeti drammatici e quello di certa poesia funebre a suggerirgli l’impiego del medesimo artificio in quel Coro dei morti, che (coro, appunto) apre il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie: dove, come si ricorderà, i vv. 29-30 (« Nostra ignuda natura; Lieta no ma sicura ») ripetono tali e quali (con la sola soppressione della virgola dopo « no ») i vv. 4-5. 3.

Con l’operetta morale or ora ricordata siamo nel 1824; e, forse

dall'anno precedente, Leopardi sperimentava per la prima volta, traducendo da Archiloco e da Simonide, quella forma metrica che è la sua più tipica. Ed è estremamente significativo che l'invenzione del metro (invenzione senz'altro, anche se avesse più o meno inconsapevolmente operato l’esempio di Alessandro Guidi)” avvenga in occasione del volgarizzamento di poeti greci, perché appunto dalla poesia greca discende la forma, in tutto corrispondente a quella dei componimenti che, cosiddetti &runta proprio perché continuati e senza pause, non prevedevano alcun raggruppamento

dei versi in singole strofe. Solo col 1828, infatti, e col canto

A Silvia, Leopardi procederà alla distinzione di strofe di varia natura e di varia estensione, ed anche questa volta secondo il modello di quelle forme greche dette, appunto per la loro varietà, dvoporootpogixd.È 5 Una tale origine dell’ephymnion conferisce particolare lucentezza ad un'osservazione di E. Bici (La genesi del « Canto notturno » e altri studi su Leopardi, Palermo 1967, p. 139), secondo il quale, nel ritorno, alla fine di ogni stanza, della rima in -ale, si deve vedere una costante della qualità « tra popolare e letteraria » (anche se, ovviamente, è impossibile condividere l’idea per cui essa sarebbe suggerita « da una specie di contaminazione tra lo schema della ballata e quello della canzone petrarchesca »). 6 Cfr. 1 2: « Vanitas vanitatum, dixit Ecclesiastes; Vanitas vanitatum, et omnia vanitas »; 2 11: «vidi in omnibus vanitatem », 19: «et est quidquam tam vanum? » e 25: «Sed et hoc vanitas est»; ecc. (né a De Robertis è sfuggita, nel Canzo notturno, la presenza dell’Ecclasiaste, che egli rileva, sia pure ad altro proposito, alla pagina citata del citato commento). 7 Cfr. P. BiLancINI, G. Leopardi ed A. Guidi, « Rassegna Pugliese », XI, 1894; A. CREspi, A. Guidi e la canzone libera leopardiana, « Rivista d’Italia », 15 sett. 1913 ecc. Cfr. anche di A. MonteverDI, La data del « Passero solitario », in Frammenti ecc. cit., pp. 74-75.

8 Della profonda differenza

tra la struttura

monostrofica

del Coro

di morti e quella

polistrofica di A Silvia tiene attento conto il MONTEVERDI, op. cit., pp. 75-76, che segnala altri precedenti (fra gli altri, il Tasso dell’Amzor fuggitivo e il Savioli di Awmore e Psiche, ambedue compresi da Leopardi nella Crestomazia della Poesia italiana, proprio in quel 1828).

495

4. Ma libertà delle strofe è caratteristica della poesia greca piuttosto tarda, quando l’esigenza dell’espressività ebbe la meglio su quel bisogno di simmetria che aveva caratterizzato l'ordinamento triadico (strofe, antistrofe, epodo), che Leopardi, nella medesima pagina dello Zibaldone ci-

tata or è poco, vedeva riaffiorare in qualche modo nella canzone petrarchesca, la cui nobile e grave armonia gli sembrava particolarmente adatta alla lirica sublime? Né io ritengo un caso che un canto, d’intonazione singolarmente tragica, come il Pensiero dominante, proponga con le sue prime

sei stanze l’organizzazione tipica triadica per cui, alla strofe ed all’antistrofe di uguale estensione (6 versi ciascuna, le strofe 1 e 2; 8, le strofe 4 e 5), segue un epodo di diversa ampiezza (8 versi la strofa 3, 7 versi

la 6) — mentre il resto del canto torna alla forma &youotootpoptxn nante nei grandi idilli. 5.

domi-

Ancora un’osservazione. Io penso che a modelli greci Leopardi si

uniformasse, già nel 1818, quando, nella canzone A/l’Italia, innovava con

forme singolari ed inedite lo schema petrarchesco. In effetti, distinguendo con non trascurabili varietà le strofe dispari da quelle pari, egli sembra pensare a quel particolare schema, che i trattatisti chiamarono eîdoc Svadixòv xarà meptxomhv ävouorouep.

Mentre, nell’altra canzone,

Sopra il

monumento di Dante, lo stesso schema viene arricchito con l’aggiunta di un apparente congedo, che in realtà è un epodo — unico, come in certa più tarda poesia greca, a conclusione di una serie di coppie di strofe ed antistrofe. Mario

? Cfr. Zibaldone cit., pp. 814-815.

496

MARTELLI

Leopardi e Epitteto

Il 5 marzo 1825 l’Editore milanese Antonio Fortunato Stella aveva scritto al Leopardi chiedendogli il suo parere in merito al disegno di una edizione con traduzione delle opere di Cicerone e invitandolo a fornire la sua collaborazione. Pochi giorni dopo, da Recanati, Leopardi parlava allo Stella delle difficoltà dell'impresa e della importanza della « recensione del testo, ossia la scelta delle veramente migliori edizioni, l'accuratezza della lezione e in breve la parte filologica dell’impresa ... ». Questa si presentava tanto più ardua proprio per il livello bassissimo della filologia nostrana: « ... gli stranieri sono persuasi che in Italia non si sappia fare una edizione di un classico antico dove la recensione e la lezione non siano più che difettose ». E Leopardi in proposito così pensava: « ... veramente fin qui non credo che si trovino esempi da citare in contrario ». Il Poeta offre la sua disponibilità « per la recensione del testo ... quando io mi trovassi presente ». Da quest’ultima espressione appare chiaro l’intento del Leopardi di provocare un’offerta di lavoro da parte dello Stella, offerta che gli permetta di uscire da Recanati. Nella stessa lettera del 13 marzo si rinviene la notizia circa la proposta di volgarizzamenti che A.F. Stella ha fatta al Leopardi: Circa la sua proposizione d’incaricarmi di qualche volgarizzamento, io non posso risponderle precisamente, stando nel generale. Ma se Ella si compiacerà di specificarmi quale opera in particolare Ella desideri di avere nuovamente tradotta, io potrò esaminare bene l’opera e le mie forze, e dietro questo esame, darle una risposta precisa.

La necessità che si precisi l’opera da volgarizzare può trovare una adeguata motivazione nel particolare stato d’animo del Poeta, che dal-

l’amore per il bello e per la poesia era passato all’interesse per il vero. Il 6 maggio 1825, Leopardi scrive a Pietro Giordani: ... come io sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di

497 32

fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo.

E poi ancora: Io son qui senza speranza di uscire. Mi gitterei volentieri a vivere alla ventura, procacciandomi un poco di pane con la penna in qualche città grande ...

Lo Stella, ammirato della erudizione del Leopardi, l’8 giugno 1825 gli scrive invitandolo a venire a Milano: Ella si fermerà qui tutto quel tempo che più le sarà per piacere, certa di trovare in me più che un amico un padre, e nella mia famiglia una buona madre e degli amorosi fratelli.

In luglio il Poeta era in viaggio per Milano. Dopo una sosta a Bologna, « città quietissima, allegrissima, ospitalissima, dove ho trovato molto buone accoglienze ... » (Lettera A suo padre, a Recanati, da Bologna, 22

luglio 1825), l'impegno assunto con l’Editore costringe Leopardi a partire per la città lombarda, con l’intento di fermarsi lì il minor tempo possibile, per tornare quanto prima a Bologna, memore delle accoglienze fattegli e delle premure ivi riservategli. In Milano rimase dalla fine di luglio al 26 settembre preso dai lavori letterari che consistevano nel « combinare gli elementi di una edizione latina, e di un’altra latina e italiana di tutte le opere di Cicerone » (Lettera AI March. Giuseppe Melchiorri, a Roma, da Bologna, 3 ottobre 1825). Lo Stella gli aveva assegnato « per i lavori fatti e da farsi, dieci scudi al mese, come un acconto, senza pregiudizio di quel più che potranno meritare le mie fatiche letterarie dentro l’anno.

mia piena disposizione, cioè io potrò occuparmi

Queste fatiche sono

a

a scrivere quello che

vorrò, dando le mie opere a lui » (Lettera A suo padre, a Recanati, da

Bologna, 3 ottobre 1825). Tale libertà consente al Poeta di impartire lezioni private di latino e di greco e di studiare senza troppe preoccupazioni. Intanto pensa ad una raccolta di moralisti greci da pubblicare presso l’Editore milanese. Amerebbe ella che io mi occupassi di una collezione di operette morali di vari autori greci, volgarizzate nel migliore italiano che io sappia fare? Avrei già pronto il primo tometto, se non che bisognerebbe copiarlo. In questa collezione potrebbero aver luogo i Caratteri di Teofrasto, i Pensieri di M. Aurelio, e soprattutto i Pensieri di Platone, ecc. ecc.; e ciascuna operetta si potrebbe stampare in modo che stesse anche da sé e potesse vendersi separatamente (Lettera Ad A. F. Stella, a Milano, da Bologna, 21 ottobre 1825)

498

Si va delineando chiaramente l’interesse del Leopardi per i volgarizzamenti di alcuni autori greci, che suscitavano la sua attenzione sia per il

contenuto che per lo stile. Del suo intento, Leopardi torna a parlare nella lettera scritta da Bologna il 16 novembre 1825 ad Antonio Fortunato Stella, in Milano:

Il piano della mia collezione dei Moralisti greci sarebbe di pubblicare in piccoli volumetti (ciascuno dei quali potesse star da sé, e vendersi separato) le

più belle e classiche opere morali dei migliori greci, e specialmente le meno o le peggio tradotte e conosciute in Italia. Ho già in pronto la materia per il

primo volumetto che conterrebbe i Ragionamenti morali di Isocrate ... Se le piace di por mano a questa impresa fra poco, io farò subito copiare i detti Ragionamenti (che hanno bisogno di essere posti in netto) e glieli manderò insieme col manifesto di tutta la collezione. Intanto mi occupo di un altro volumetto che conterrebbe Pensieri Morali tratti da libri perduti di antichi scrittori greci; opera che sarebbe tratta da Stobeo, la cui collezione contiene infiniti pensieri e lunghi tratti di autori greci perduti e assolutamente classici; e nondimeno la detta collezione è ignota affatto, non solo alla lingua italiana, ma a tutte le lingue viventi. Di modo che il mio volumetto sarebbe una cosa nuova e di un interesse generale anche fuor d’Italia, poiché vi si vedrebbe per la prima volta tutto il meglio e il più conveniente ai nostri tempi, che sia nella collezione di Stobeo.

Un posto rilevante nel piano della collezione dei Moralisti greci tradotti dal Leopardi spetta al Manuale di Epitteto; quando, infatti, nella lettera del 27 novembre 1825, da Bologna, a Luigi Stella, figlio di Fortunato, dovrà giustificare il suo « silenzio sopra Petrarca », così si esprimerà parlando della versione del filosofo di Ierapoli: Al presente ... chiedo licenza di terminare la traduzione del Manuale di Epitteto [...], la quale ho intrapresa con sommo studio per la suddetta collezione; e ciò fatto, che sarà ben tosto, lascerò subito andare la collezione, e non penserò che al Petrarca ...

Il 18 dicembre la traduzione di Epitteto era già ultimata, ma aveva bisogno ancora di essere rivista. Così Leopardi, in quella data, scrive a Luigi Stella: Profitterò della licenza che mi dà il signor padre di ritenere ancora qualche altro poco l’Epitteto, per rivederlo bene a testa raffreddata, e forse anche aggiungervi qualche cenno originale, ec.

Il Poeta aveva impiegato pochi giorni per ultimare la versione del Manuale e conservò sempre molto affetto per il suo lavoro. « ... tradussi in un mezzo

mese il Manuale

di Epitteto, e questo lavoruccio mi venne

in

499

modo, ch’io ti confesso di avergli un affetto particolare » dice nella lettera scritta da Bologna il 16 gennaio 1826 al Conte Antonio Papadopoli, a Napoli. Parlando del manoscritto del Manuale destinato all’editore Stella, il Poeta ricorre sempre ad espressioni piene di raccomandazioni per il suo lavoro. AI più presto possibile consegnerd [....] il manoscritto dell’Epitteto (opera alla quale ho un affetto particolare) con prefazione e giunte, e in una lettera annessa le spiegherò distintamente l’uso che io bramerei che ella ne facesse se tale sarà il suo piacere (Lettera da Bologna, 25 gennaio 1826, ad A. F. Stella, a Milano).

Nella lettera allo stesso, datata 4 febbraio 1826, da Bologna, raccomanda ancora una volta il suo Epitteto: . consegnai al Sig. Moratti il 2° volumetto del Petrarca, e con questa gli consegno, raccomandandoglielo caldamente, il ms. dell’Epitteto, che ho ben riveduto e corretto, alzandomi a bella posta da letto. Confesso che ne sono stato soddisfatto assai: almeno è certo che io non saprei fare di meglio. Avrei molto caro che ella ne fosse contenta altresì, e che le piacesse il mio parere, che sarebbe di stamparlo così come io gliel mando, in una edizioncina elegante; la quale crederei che non dovesse avere cattivo incontro.

Viene accantonato da questo momento il progetto della Scelta dei moralisti greci tradotti e manifestata l’opportunità di dare « in separate edizioncelle le operette che ... voleva riunire in un sol corpo ». Leopardi sogna la possibilità di accrescere il volume di Epitteto con la « Comparazione delle sentenze di Bruto e di Teofrasto » « cosa che ha relazione colla filosofia stoica », scritta nel 1822. Dopo il Manuale, avrebbe dovuto essere stampata « La favola di Prodico ». La pubblicazione, però, non fu allora effettuata. Il Poeta torna con calore a parlare all’editore milanese nella lettera del 12 marzo 1826, da Bologna, delle sue traduzioni preferite: Ma non ardisco più farle questa preghiera,

dopo che mi è sembrato cono-

scere, non senza mia mortificazione, che ella fa poco o nessun conto del mio Epitteto e del mio Isocrate. Invece le raccomando a mani giunte quei miei cari e poveri manoscritti acciò non vadano perduti, il che mi darebbe una pena indicibile.

Ma perché tante premure per il suo Epitteto? La risposta va cercata

nel Preambolo « filosofico » che Leopardi fece precedere al volgarizzamento del Manuale. Non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricordi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciolo.

500

L’interesse del Leopardi in quel tempo era per le opere di contenuto prettamente morale; il Poeta era intento a curare la pubblicazione delle sue Operette morali; in Stobeo, autore di un Florilegium, in Marc’Aurelio,

il quale all’inizio dei suoi Ricordi afferma di ritenere una grande fortuna l’essersi imbattuto nei componimenti di Epitteto, Leopardi aveva trovato l’eco dell’insegnamento morale del filosofo di Ierapoli e ne era rimasto ammirato.

Si accinse con

amore

al volgarizzamento

dell’Enchiridion,

un

succinto libro di morale a cui nell’antichità attinsero norme di vita pagani e cristiani: si tratta di excerpta dei colloqui che Epitteto soleva tenere, dopo le lezioni vere e proprie, con studenti e visitatori; i brani furono raccolti dal suo discepolo Flavio Arriano di Nicomedia e pubblicati, dopo la morte del maestro, senza apportarvi alcuna rielaborazione, così che in essi si sentono ancora la freschezza e la vivacità della conversazione improvvisata. Arriano, nella lettera a Lucio Gellio, che fa da prefazione

all’altra

opera di Epitteto, le Diatribe, ci tiene a precisare che si tratta di appunti fatti da lui per suo uso, e che egli non avrebbe mai pensato a pubblicarli in quella forma, se non fossero venuti a conoscenza del pubblico. In verità, proprio quella che Arriano cercava di scusare, la mancanza di elaborazione stilistica, costituisce una delle attrattive del Manuale, la

cui lingua risente della immediatezza del discorso parlato e conserva un’efficacia e una purezza che contribuivano a rendere caro il libricciuolo a Leopardi. Il Poeta nel Manuale ritrovava la superiorità fisica ed immaginativa degli antichi sui moderni. Tale pensiero ricorre qua e là anche nello Zibaldone; così si legge a p. 96: ... possiamo congetturare quale dovesse essere ordinariamente l’entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente in uno stato di vigor fisico abituale superiore al nostro ordinario; il quale quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l’immaginazione, e i sentimenti focosi, gagliardi ed alti: … in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un’aria di festa, ...la felicità non ci pare un'illusione, [97] anzi ancora le dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un bene sublime che

ci fa palpitar e d’entusiasmo e di speranza ...

Nel Preambolo, Leopardi sostiene che la filosofia stoica insegnata nel Manuale si addice in modo particolare agli uomini moderni, « di natura o d’abito non eroici, né molto forti, ma temperati e forniti di mediocre fortezza ... ». L’essenza della filosofia di Epitteto, per Leopardi, non è « nella considerazione della forza, ma sì bene della debolezza dell’uomo ». È una visione particolare secondo la quale la atarassia si riduce alla convinzione « che l’uomo non può nella sua vita per modo alcuno né

conseguire la beatitudine né schivare una continua infelicità ». È pertanto 501

inutile, dice Leopardi, contrastare con il destino e con la necessità; cid

si addiceva agli antichi. Agli uomini moderni, deboli per natura, si addicono lo « stato di pace, e quasi di soggezione dell’animo, e di servitù tranquilla ... ». In questo senso viene inteso l’insegnamento di Epitteto, quando nel cap. I del Manuale dice:

... Ricordati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t’interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli Dei. Per lo contrario, se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è tuo veramente, e se terrai che sia d’altri quello che è veramente d’altri, nessuno mai ti potrà sforzare, nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerà ...

Questa noncuranza delle cose di fuori, questa « apatia » vuole signi-

ficare, secondo Leopardi, che per l’uomo è preferibile lo « stato di pace » allo « stato di inimicizia e di guerra con un potere incomparabilmente maggior dell'umano e non mai vincibile ». Che l’idea fondamentale di Epitteto sia questa, ricercare uno stato di tranquillità e non lasciarsi attirare da quello che non dipende da noi, lo dimostra il fatto che pure il primo capitolo del primo libro delle Diatribe tratta « delle cose che sono in noi e delle cose che non sono in noi ». L’argomento fa, per così dire, da introduzione alle due opere di Epitteto; per questo Leopardi nel Preambolo alla sua versione del Manuale, ritiene applicabile a se stesso il messaggio principale della filosofia stoica, « dovere amare se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza », ritenendo questo insegnamento « la cima e la somma sì della filosofia di Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana ». A tale conclusione Leopardi dice di essere giunto « dopo molti travagli dell'animo e molte angosce », e sostiene di riportare da ciò « una utilità incredibile ». Proprio il Preambolo del volgarizzatore mostra, però, quanto grande sia la differenza fra la concezione leopardiana della vita e l’ottimismo che è alla base della filosofia stoica. Il Leopardi seguita a cercare la felicità proprio là dove istintivamente

il

mondo la cerca, e non è maraviglia che vi trovi la delusione, il vacuo, il dolore. Epitteto nega che il bene sia lì, e vuole che la scuola del filosofo giovi a divez-

zarci da questa vana e triste ricerca. Il Leopardi vede in ciò solo una rinunzia, e considera questa filosofia come la filosofia dei deboli, come il duro giogo che nella sua impotenza l’uomo deve prendere sul collo per soffrir meno la sua miseria (da Epitteto, Il Manuale …

a cura di Nicola Festa, Milano 1913, pad). FiLIPPO

502

MATERIALE

Le «gemme perdute» della poesia

Nella Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana, da Recanati 7 maggio 1816 (in Le Poesie e le Prose, II, pp. 590-596), il Leopardi, con satira aspra e pungente, esprime meraviglia e stupore per avere appreso che un

tale Sig. Bernardo Bellini aveva concepito il disegno di tradurre « in verso italiano tutti i poeti classici greci » e si chiede: « Or sarà possibile che il Sig. Bellini abbia le anime di tutti i poeti classici greci? ». Un buon traduttore deve avere « in certa guisa l’anima dello scrittore che è da voltare in altra lingua » e, di certo, il Sig. Bellini non ha « le anime di tutti i poeti classici Greci ». Viene quindi a parlare di Omero, e della fedeltà che richiede ogni traduzione della poesia omerica, dove « ogni parola del testo trascurata è una gemma perduta, poiché d’ordinario basta togliere a un verso d’Omero le parole che sembrano di niun rilievo, per privarlo di tutto il sapore Omerico e renderlo come un ramo senza foglie ». Le « gemme perdute » della poesia sono dunque quelle immagini poetiche che scaturiscono dalla fantasia interpretativa di un singolo poeta, gemme che il traduttore non è riuscito a vedere, e sono rimaste nascoste nelle pieghe del componimento che, per ciò appunto, è stato lacunosamente tradotto. La gemma ci riconduce istintivamente al paragone con una pianta, la quale, nata da un seme e cresciuta prendendo linfa vitale dall’humus dove il seme ha fruttificato, ha poi germogliato, assumendo forma e consistenza di elemento naturale e vitale. Il complesso delle gemme ha formato la pianta, in un insieme unitario e singolare, onde se una sola gemma vien meno ne rimane menomato tutto il corpo, già realizzato dal complesso di espressioni concrete cui il seme ha dato luogo. Resta così confermato il concetto per cui la poesia è la personale manifestazione della fantasia del poeta, ma non secondo la concezione roman-

tica del genio, bensì secondo la concezione naturalistica della germinazione poetica. Da ciò discende la necessità di un’affinità, diremmo elettiva, tra poeta e traduttore, quasi che il traduttore debba avere in sé la stessa sen-

sibilità creativa del poeta, del quale deve possedere la medesima facoltà di

cogliere determinate immagini e di subìre le stesse reazioni al confronto

con il medesimo concetto da elaborare e sviluppare poeticamente.

503

Di due specie sono le espressioni della poesia, quelle che scaturiscono dall’immaginazione e quelle che scaturiscono dal sentimento (Zid. I, 962963) e, di esse, la prima è più propria degli antichi (Zib. I, 511); donde

deriva la difficoltà dei moderni a tradurli, perché vivono in un’età in cui l’uomo «è divenuto stabilmente infelice » avendo perduto l’antica felicità. Qui il Leopardi si dimostra coerente con il suo stesso pensiero sulla « storia del genere umano » e sulle « favole antiche », e conferma che i moderni, non possedendo la facoltà dell’immaginazione, possono soltanto « fingerla ». Naturalmente in questo processo di « ricreazione » sono agevolati coloro i quali conoscono il mondo antico per averne studiato la lingua e i costumi, ma ciò non basta, perché sono necessarie anche un’intima

penetrazione di quel mondo e una rinnovata partecipazione alla vita e ai problemi dell’antichità. Il paragone con le « gemme » riconduce anche al gusto per la semplicità e per la spontaneità, che può manifestarsi « per indole naturale », come accade in Omero che « non si accorgeva di essere semplice » anche quando si profondeva in « soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti », e nei « manieratissimi »

trecentisti

(Zi5.

I, 963):

ora,

riferendo

questi

concetti

all’attività del traduttore, ne risulta la grande difficoltà di tradurre oggi gli antichi. Molte devono essere, dunque, le « gemme perdute », perdute per noi moderni, della poesia antica. Né la ridondanza e l’abbondanza di nuovi ornamenti può colmare questa deficienza, ché anzi l’aggrava, portando all’opera elementi estranei e non confacenti ad essa, e addirittura stravolgendone l’indole e la natura. Basti l’esempio dallo stesso Leopardi addotto nel Parere sopra il Salterio ebraico (Le Poesie e le Prose, II, p. 622), dove quattro versi superflui mostrano,

insieme con

una cattiva traduzione, l’incolmabile abisso che separa il mondo moderno da quello antico. Si tratta del Salmo 48, versetto 6: « Essi lo videro, stupirono, si turbarono, fuggirono »; che G. B. Gazola, sulla traduzione dell’abate Giuseppe Venturi (Verona 1816), versifica come segue: Non appena dappresso alle sue mura Baldanzosi si fero, Il loro orgoglio altero Da vergogna fu domo e da paura: La viddero: stupiro: Tremarono: fuggiro.

Qui la ridondanza è un intervento illecito del traduttore ed è prova della sua incapacità di ricomporre, nella traduzione, un mondo poetico non suo. Nello stesso Parere il Leopardi esprime il giudizio che poco importa al lettore che il metro della traduzione somigli quello che si pretende scorgere nel testo; pochissimo, che la versione serbi la distinzion de’ versetti che è nell’originale; niente, che i salmi, alfabetici e acrostici nel testo, il

504

siano altresì nella traslazione:

ma molto che il traduttore si vegga acceso, av-

vampato dal fuoco dell’originale; moltissimo che la traduzione conservi la sem-

plicità, la forza, la rapidità, il calore della fantasia orientale e profetica ...; sommamente che la versione il commuova quasi come il commuoverebbe l’originale e come forse il commuove alcuna interpretazione in prosa che non ha altro pregio che la fedeltà, e la stessa Vulgata.

In questo passo è da notare, oltre al parere sulle traduzioni, la scelta di tre termini per indicare l’operazione del traduttore: traduzione, versione, traslazione. Sono parole che confermano il convincimento dell’impossibilità di esprimere il concetto stesso del tradurre. La traduzione non esiste, non può esistere. Si possono esprimere concetti diversi, con parole diverse, per indicare lo sforzo che un uomo compie per tentare di comprendere ciò che un altro uomo ha voluto dire, ma giammai un uomo può entrare nella mente di un altro uomo. Una perfetta traduzione è soltanto

perfetta imitazione (« la piena e perfetta imitazione è ciò che costituisce l’essenza della perfetta traduzione », Zib. I, 1244), sicché il Leopardi definisce l’Arte poetica di Orazio, da lui tradotta, come opera travestita ed esposta in ottava rima, perché il « travestimento », che risulta dalla sostituzione di un abito a un altro, non può essere considerato equivalente all’originale. La stessa parola « tradurre », che deve il suo significato attuale a Leonardo Bruni, sostituisce il più antico vocabolo « traslatare » o « tralatare » (B. Migliorini,

p. 303).

Storia

della lingua

italiana,

Firenze

1960,

La teoria leopardiana sulla traduzione risente evidentemente delle discussioni linguistiche settecentesche, specialmente del Cesarotti, il quale, anche a prescindere dalle difficoltà obiettive del tradurre, rileva la meta-

morfosi continua dei vocaboli con la conseguente modificazione del loro « valore », del « colore », dell’« effetto », donde

« l’estrema difficoltà di

giudicare adeguatamente delle opere scritte in una lingua morta o straniera ». Peraltro il Cesarotti aveva rilevato, in particolare, la difficoltà di tradurre bene gli antichi: Poiché per l’una parte gli antichi, conoscendo più intimamente il valore dei vocaboli, doveano spesso gustar un’occulta allusione, ove noi non ne scor-

giamo pur l’ombra, e ravvisar un'immagine ove noi non ne osserviamo che un cenno; dall’altra facendoci noi uno studio ponderato dell’opera degli antichi, qualora i termini ci presentano un’etimologia nota, o una traslazione sensibile, crediamo volentieri che quei vocaboli avessero sempre quell’enfasi che ci troviamo noi stessi, quando forse ell’era in tutto o in parte svanita; né sappiamo inoltre dubitare che quell’espressioni non fossero sempre le più agiustate e felici, quando per avventura i lor coetanei dovevano trovarne più d’una di strana, disadatta, ed audace (Saggio sulla filosofia delle lingue, a cura Spongano, Firenze 1943, parte II, cap. XIV).

di R.

505

Proprio per questa ragione (cioè per la diversa prospettiva e il diverso interesse con cui i moderni leggono gli antichi) il Leopardi aveva giudicato legittimo il nuovo titolo imposto dal Cesarotti all’Iliade, cioè La morte di Ettore, in quanto, mentre i lettori greci concentravano il loro interesse su Achille, per i moderni sono le sventure di Ettore e dei troiani la causa prima della loro commozione. Il Cesarotti si vantava di essere stato, nelle sue traduzioni, « più fedele allo spirito che alla lettera », e il Foscolo ribadiva che, fino a quel momento, « la parola essendo tradotta col dizionario, ogni immagine, ogni frase della poesia rimanevasi muta d’ogni armonia, cieca, fredda di splendore e di fuoco, e l’Iliade pareva cadavere » (Sulla traduzione dell’Odissea, « Annali di Scienze e Lettere, vol. II, fasc. 4°, aprile 1810; ora in Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), a cura di E. Santini, Firenze 1933). È lo stesso fuoco, lo stesso calore, la

stessa commozione che il Leopardi richiede al traduttore nel Parere sopra il Salterio, onde, per contrario, aveva sentito « gran freddo » ed era rima-

sto « tutto ghiaccio » percorrendo i paesi della traduzione ebreo-italiana dell’abate Venturi, il quale evidentemente,

non

essendo poeta, non

era

rimasto « acceso e avvampato dal fuoco dell’originale ». Queste qualità di penetrazione del testo, richieste al traduttore, sono quelle che consentono al Leopardi di scoprire tutte le « gemme » della poesia che altrimenti rimarrebbero nascoste e ignote al lettore moderno o di nazione diversa da quella dell’autore. Ma la proposizione cesarottiana, che il Leopardi sembra accettare, non esclude nel traduttore, ove sia vero poeta, la possibilità di aggiungere nuove gemme, generate dalla linfa offerta dal nuovo clima in cui quella poesia è stata traslata. Ne daremo, in seguito, qualche esempio. Nella premessa al Saggio di traduzione dell’Odissea il Leopardi afferma che « per tradurre gli antichi, e primamente Omero, è mestieri dottrina », e mostra due esempi di traduzione di parole greche non perfettamente aderenti al significato solitamente attribuito ad esse. Egli, corroborando la sua traduzione con un rilevante numero di esempi, giustifica il nuovo significato attribuito a queste parole: sono èuparbc-umbilico e &orvuu, considerato part. att. femm. pl. di un inusitato &prw-rapaci. E allora il v. 50 del Canto primo, 691 +’ èugaréc tor daAkoong, invece di essere tradotto « che è nel mezzo del mare », viene tradotto « ove del mare è l’umbilico », e al v. 241, &prvai, non viene tradotto

« arpie » ma

« ra-

paci Parche », inglobando nel « rapaci » il riferimento alle Parche. Ora, qui non si vuole discutere sul valore poetico della traduzione, di cui lo stesso Leopardi non discute, premendogli soltanto, in questo luogo, di sottolineare la fedeltà al testo e l'opportunità del lavoro filologico, ma non v'è dubbio che, sia nel primo che nel secondo caso, la profonda conoscenza

della lingua e del mondo omerico hanno dato ai due passi un pregio particolare. Leggiamo il contesto in cui si colloca la prima parola: 506

Misero! che lontan da’ cari suoi Da.gran tempo sopporta immensi affanni In un'isola d’arbori nutrice Tutta cinta dall’acque, ove del mare È l’umbilico, e dove in sua magione Ha ricetto una Dea figlia d’Atlante Cui tutto è noto, che del mar gli abissi Tutti conosce ...

Se avesse detto che quell’isola è #el mezzo del mare sarebbe venuto meno il collegamento con gli abissi del mare, ben noti alla Dea di cui l’isola è ricetto, e sarebbe venuta meno l’idea della centralità dell’isola e dei misteri che la circondano: tutte le isole sono in mezzo al mare, ma

non tutte sono depositarie di una sacralità che ne fa il centro dei misteriosi abissi marini. Ed ecco il secondo passo esemplare, dove si parla della misteriosa scomparsa di Ulisse. Dice Telemaco che, se l’eroe fosse morto in guerra o in altro modo certo, avrebbe avuto i dovuti onori: PA BIUU Tutti avrebbon gli Achei fatta una tomba, E immensa fama al suo figliuolo ancora Restata ne saria. Ma se l’han tolto Inonorato le rapaci Parche: Perito egli è; nullo il conosce, o n’ode Il nome; e doglia m'ha lasciato e pianto.

Se non fossero state le rapaci Parche, ma soltanto le Arpie, a farlo scomparire, si sarebbe perduto il senso della morte (ripreso dal successivo perito egli è) e tutto il passo avrebbe perduto di vigore e di coerenza. Sarebbero state, queste, due « gemme perdute », laddove il Leopardi, con lo studio filologico e il ripristino dei significati linguistici, ha ricostruito « l’andatura omerica » e quel « sapor pretto greco » che costituiscono il maggior pregio della traduzione (si veda anche la prefazione alle Iscri-

zioni greche triopee). La filologia aiuta a salvare le « gemme »: correggere un praedonis in praeconis o un salutant in saltant (nella traduzione di Frontone) non è certamente operazione superflua ai fini poetici (si veda

S. Timpanaro, La filologia di G. L., Firenze 1955, p. 51 sgg.). In realtà si possono talvolta riscontrare contraddizioni in certi giudizi, come quando si chiede al traduttore d’essere anche poeta e poi, in altro luogo, si afferma che l’erudizione è indispensabile a una buona traduzione. Ma la contraddizione è soltanto apparente. Per il Leopardi, si sa, la cultura e l’esercizio letterario, ivi compreso quello del tradurre, sono elementi indispensabili alla formazione del poeta (« ho per certis507

simo ed evidentissimo — scrive al Giordani in data 30 aprile 1817 — che la poesia vuole infinito studio e fatica, e che l’arte poetica è tanto profonda che come più si va innanzi più si conosce che la perfezione sta in luogo, al quale da principio né pure si pensava »); la poesia è ancella della filosofia, ed entrambe si distinguono e acquistano pregio dalla lingua e dallo stile (Zib. II, 218 e Zib. II, 428), ma anzitutto è da notare che tutte queste proposizioni critiche sono ravvivate da esperienze e convin-

cimenti personali, senza ordinarsi mai in un sistema compiuto. Contraddizione potrebbe essere riscontrata anche nel paragone della poesia con le gemme delle piante, in quanto anche le gemme piangono e soffrono e muoiono (« In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un fila-

mento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi », Zib. II, 1006), ma quelle della poesia non possono soffrire, rese felici, come sono, dall’alito poetico.

Ragione di più, questa, per salvare tutte le gemme, o il maggior numero possibile di esse. Peraltro una certa apparente incoerenza si può riscontrare nelle stesse poesie leopardiane, come ad es. in Aspasia, dove sembra esserci frattura tra la prima parte descrittiva e la seconda raziocinante, ma è nel cuore del poeta, nel suo impeto lirico, nel contrasto tra teoria e realtà, che bisogna vedere l’unità conseguenziale dei momenti poetici o prosastici che, nelle traduzioni, sono i momenti,

entrambi creativi, deri-

vati dall’esperimento filologico e dall’intuizione poetica. Fatta eccezione per la filologia e per l’erudizione classica il Leopardi non tiene in gran conto altre discipline non meno importanti per la conoscenza e la giusta interpretazione del mondo antico, come l’archeologia, l’epigrafia, la numismatica, l’antiquaria in generale, ed è da ricordare, tra l’altro, il pungente disprezzo proprio per gli antiquari espresso da Filippo Ottonieri nell’operetta omonima, precisamente in un « detto memorabile » del cap. VII: « Ad alcuni antiquari che disputavano insieme dintorno a una figurina antica di Giove, formata di terra cotta; richiesto del suo parere: non vedete voi, disse, che questo è un Giove in Creta? ».

Ciò non ci meraviglierà se teniamo presente il fine ultimo e pensiero primo di tutta l’opera leopardiana, che è la ricerca della poesia, verso la quale convergono tutti gli interessi del poeta e dello studioso. La fedeltà che si richiede a un traduttore di poesia è, appunto, la fedeltà alla poesia (G. Mounin, Teoria e storia della traduzione, Torino

1965, p. 145). La poesia occorre soprattutto sentirla, identificarla, comprenderla per poi tradurne il senso e il contenuto. Per il Leopardi sembra che la poesia sia fatta di idee-chiavi, o per lo meno di parole-chiavi che 508

ne esprimono i sensi in una determinata lingua ma possono non trovare

le corrispondenti in un’altra lingua. Poiché la poesia è imitazione della natura, ove non si trovi in una lingua la parola adatta a tradurla, bisogna trovare la parola corrispondente alla sintesi del concetto donde nasce, che è concetto filosofico e poetico insieme (il poeta sceglie « dentro i confini del verisimile quelle migliori illusioni che gli pare, e quelle più grate a noi e meglio accomodate all’ufficio della poesia, ch'è imitar la natura, e al fine, ch'è dilettare » (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in Poesie e Prose, II, p. 474).

Dagli studi di Benvenuto Terracini sulla traduzione (Conflitti di lingue e di culture, Venezia 1956), un altro illustre linguista, Antonino Pagliaro, ha ricavato sei aforismi (La traduzione, in Scritti minori, III, Firenze 1972), di cui tre riguardano la traduzione in astratto e tre il traduttore.

Ecco il primo gruppo:

« tradurre significa comprendere, non riprodurre »,

« tradurre significa trasferire da un ambiente a un altro, non da una lingua a un’altra », « tradurre presuppone nei due ambienti uguale prestigio così di cultura come di lingua ». Ed ecco il secondo gruppo: «il traduttore non annulla la sua personalità, la rende solo trasparente », « il traduttore lavora in fondo solo per sé », « il traduttore è paragonabile a uno che raccoglie un fiore per riporlo in un libro ». Il fiore è il frutto maturo della gemma (il Pagliaro forse non era a conoscenza del paragone leopardiano) e i fiori bisogna saperli trovare e sceglierli, in un prato o in un giardino che ne contiene tanti, anzi quanto più ricco di fiori è il giardino tanto più difficile diventa la scelta e più facile che qualcuno ne sfugga. La vista acuta e la sensibilità percettiva del traduttore diventano indispensabili. Il Pagliaro aggiunge postille fondamentali ai suoi aforismi, specialmente per quel che riguarda i testi poetici degli antichi, fondati sopra un ritmo la cui « evocazione » pone difficoltà quasi insormontabili. Bisogna preferire il verso o la prosa? Emblematico è l’esempio del Pascoli, che così traduce i primi versi dell’Odissea:

« L'uomo, o Musa, mi di’, molt’agile,

il quale per molto corse, da ch’ebbe la sacra città distrutta di Troia »: dove sono rispettate in massimo grado, e in maniera quasi perfetta, le esigenze del ritmo, ma la violenza al testo è sconcertante e i risultati sono repellenti. Meglio scegliere la prosa, dunque, trascurando le esigenze « culturali » di cui parla il Terracini? Sarebbe, a nostro avviso, come cercare le gemme non in un campo di fiori, ma in una fabbrica di automobili (la poesia dei ritmi meccanici esiste, ma non è quella degli antichi dove anche il fragore della guerra diventa voce umana, mentre la musica della macchina è disumanizzata). « Questa frase, questo libro, questa poesia — si dice spesso — è diffi-

cile da tradurre »: cosa si vuol dire? cosa intendiamo per « difficile »? Vuol dire che il mezzo

linguistico a nostra

disposizione

non

ci offre il

509

corrispettivo esatto di ciò che dobbiamo tradurre. Certamente il traduttore che si imbatte in questa difficoltà non si ferma alla parola, la quale trova sempre più o meno un corrispettivo, ma si riferisce all’ambiente, al clima culturale, alle strutture proprie dell’opera da tradurre. Al punto in cui emerge questa difficoltà ci si trova già alla seconda fase della traduzione, che è stata preceduta dal tentativo, non sempre agevole e sempre indifferente alla singola parola, di intendere il testo nel complesso delle sue componenti: letteraria, sociologica, ambientale, temporale, ideologica, strutturale, retorica, ecc. Le distinzioni, le mescolanze, le poliva-

lenze, le ambivalenze, le caratteristiche del linguaggio implicano metodologie e interpretazioni diverse. Per quanto profondo e sensibile sia il travaglio del traduttore, esso non può cogliere, in tutti i suoi esatti valori e nelle sue componenti essenziali o specifiche, i significati dell’originale nella loro estensione. Qui interviene — come s’è detto — il personale intervento del traduttore, sul quale giocano la sensibilità, la cultura, l’educazione letteraria, per cui egli è portato a trascurare certi aspetti e certi elementi del testo, e a sopravvalutarne altri, sicché bene a ragione il Leo-

pardi esclude che uno stesso traduttore sia adatto alla traduzione di tutti i testi, sia pure appartenenti alla stessa età classica, latina o greca. Non basta, inoltre, che il traduttore appartenga alla stessa area geografica e abbia una comune

tradizione di civiltà con l’autore tradotto, né il Leo-

pardi poteva rinunciare alla teoria generale del tradurre quando ancora non s’era neanche pensato ad una vocazione letteraria che superasse i con-

fini europei, anzi quelli del mondo neolatino. Talvolta il piccolo fatto, l’osservazione di un particolare ritenuto non necessario o indifferente al completo intendimento dell’opera, e per questa ragione non rilevato o trascurato, può costituire invece la chiave per scoprire gli accessi nascosti alle fonti poetiche. L’Auerbach ha dato due esempi emblematici di questo tipo di indagine, che è critica e poetica nello stesso tempo: La cicatrice di Ulisse e Il calzerotto marrone, tratti rispettivamente da Omero e da Virginia Woolf (E. Auerbach, Mimesis, To-

rino 1956, vol. I e vol. II). Fermiamoci per un momento

sull’episodio

del Canto XIX dell’Odissea, a tutti ben noto. Il riconoscimento di Ulisse

da parte della nutrice Euriclea avviene in virtù di una cicatrice visibile nella sua coscia. Il racconto si svolge « con precisione e con lentezza », ma anche con un discorso « minunzioso, fluido, diretto », che è il proce-

dimento tipicamente omerico. Ciò che manca in Omero è « lo sfondo », essendo tutto presente nella scena e nell’animo dello spettatore; ed ecco «un gran numero di congiunzioni, d’avverbi, di particelle e d’altri stru-

menti sintattici, tutti ben definiti nella loro importanza e finemente gra-

duati », il tutto evidenziato nelle « relazioni di tempo, di luogo, causali,

finali, consecutive, comparative, concessive, ecc. ». Allora la parola « ci510

catrice » acquista significato nel contesto di un lungo periodo fatto di almeno 50 versi, con interruzioni e incastri che scompongono il ricordo in tante fasi (in una prospettiva che non sarebbe nello stile omerico) che servono a far considerare « presente » l’episodio della cicatrice. Si potrebbe aggiungere che quei ricordi che costituiscono la storia remota della ferita sono tanti primi piani, cioè tante presenze nella « memoria » della nutrice, veramente ininfluenti ai fini del fatto principale, e non condizionano la narrazione. Passando ad altro esempio ci si potrebbe chiedere fino a che punto, nell’episodio biblico di Abramo e Isacco, quando Dio chiama Abramo, sia legittimo tradurre: « Sono qui! », se la parola ebraica dice « vedimi » oppure « io ascolto ». Qui gli aggettivi e gli epiteti sono banditi, non esistono divagazioni, e il lettore rimane « schiacciato » dall’interesse del racconto. Eppure qualcosa qui rimane oscura, legata alla « promessa » di riscatto dell’umanità, mentre in Omero, anche quando l’autore

è « bugiardo », rimane la certezza del racconto. Non tutte le lingue, anche quando posseggono regole grammaticali e costruzioni capaci di favorire una traduzione esatta, possono realizzare una traduzione fedele. Dice il Leopardi: « Omero non è Omero in tedesco, come non è Omero in una traduzione latina letterale »: « bisogna conservare il carattere di ciascun autore in modo ch’egli sia tutto insieme forestiero e italiano ecc. » (Zzb. I, 1226). Fatto l’esperimento coi primi

due Canti il Leopardi si persuase che non poteva andare avanti e la ragione è che Ulisse è « molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benché sventurato per quasi tutto il poema » e «per

tanto

ei non

interessa » (Z5b. II, 544).

Qualunque

traduzione

leopardiana dell’Odissea sarebbe partita da questo pregiudizio. Infatti nel saggio che precede il tentativo di traduzione di questo poema, come s’è visto, il Leopardi dimostra maggiore interesse per le questioni filologiche e linguistiche, non già per la poesia. Mancando la congenialità del traduttore col poeta tradotto, viene a mancare la premessa indispensabile a ogni buona traduzione. Il Leopardi, nel caso in specie, anticipò l’obiezione di Auerbach, che Omero « si può analizzare, ma non lo si può interpretare ». Auerbach cita Proust: « ritrovare nel ricordo la realtà perduta ». Ciò che dà rilievo e sostanza poetica al racconto non è l’azione principale, ma sono i particolari e le sfumature che a questa azione si intrecciano e talvolta si sovrappongono, determinando un contesto arricchito di riflessi, di

emozioni, di coloriture apparentemente secondari ma sostanzialmente ne-

cessari a sollevare la cronaca a realtà narrativa. La ricchezza dei particolari e la varietà, l’elementarietà e semplicità, opera, nella costruzione narrativa, un’azione solidificante e di rilievo, che concorre ad evidenziare e vivificare il fatto narrato. Accade proprio come per le gemme, che contriDIL

buiscono a dare evidenza e conformazione alla pianta di cui costituiscono l’elemento essenziale e costruttivo. AI fondo di questa concezione estetica della poesia c'è la rivalutazione dello stile umile nei confronti di quello tragico o sublime, cioè di una concezione dell’arte fondata sul principio dell’imitazione ma rivolta verso un realismo non tanto moderno quanto classico. L’idea che il Leopardi aveva del romanticismo, come di una concezione poetica che scarta le favole antiche e specialmente quelle greche, si riconcilia con lo stesso romanticismo quando gli viene riconosciuta una tendenza a percepire le « armonie della natura ». Ma « la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti » (Discorso intorno alla poesia romantica, in Le poesie e le Prose, II, p. 477), sicché è necessario ascoltarne attentamente i tenui sospiri e

guardare costantemente alle più insensibili trasformazioni che ad ogni istante in essa si operano. Così facendo ci si aprirà dinnanzi « una sorgente di diletti incredibili e celesti » e si appagherà la nostra « irrepugnabile inclinazione al primitivo, al naturale schietto e illibato ». Lo stesso poeta, negli anni della fanciullezza, ha provato le incredibili delizie provocate dall’osservazione della natura: ciò accadeva quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e laghi, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo e disusato, né trascuraravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abellivamo ... (Discorso cit.).

Questa è l’onda della memoria

che, nel rinnovato

mistero

creativo, ge-

nera la poesia. Forse, nel paragone della gemma, non è escluso quel tanto di mistero che in essa si cela e di immaginazione che suscita, cioè le stesse sensazioni che il traduttore deve recepire dal suo testo poetico. Il traduttore è soprattutto un lettore, e « il lettore è l’artista nel quale si perfeziona e si completa la relazione poetica; che non inventa intuizioni spontanee ma, sotto lo stimolo e l’eccitazione prodotta dall'opera d’arte, solo riflesse: un artista, insomma, che manca d’espressione e la cui arte consiste appunto nell’impressione » (Dfmaso Alonso, Saggio di metodi 512

e limiti stilistici, Bologna 1965, p. 103). Questo giudizio, pur inglobandolo, va oltre il pensiero del Leopardi, il quale si ferma alla « impres-

sione » soggettiva, senza vedere nell’opera tradotta la somma di impressioni accumulate sopra di essa col trascorrere del tempo, ma postula intuizioni nascoste che il poeta-traduttore deve svelare (secondo la concezione leopardiana). La poesia, come in un gioco ingenuo di fanciulli, nasce da un insieme « di fogliolini e di fuscelli »: Quale un fanciullo, con assidua cura, Di fogliolini e di fuscelli, in forma O di tempio o di torre o di palazzo, Un edificio innalza ... (Palinodia)

Se, poi, l’edificio crolla, che importa?

quelle costruzioni

frali e imma-

ginarie sono servite al necessario fantasticare del poeta. E piace immaginare che quei fogliolini e quei fuscelli siano come le « gemme » della poesia, alla cui edificazione essi contribuiscono.

Un alto esempio di traduzione poetica ci viene offerto dallo stesso Leopardi nel frammento Izzitazione (dove dell’originale s’è perduto tutto): Lungi dal proprio ramo, Povera foglia frale, Dove vai tu? — Dal faggio Là dov’io nacqui, mi divise il vento.

La « gemma della poesia » è come la « povera foglia frale » che, staccata dal ramo dei ricordi da un traduttore sprovveduto, rimane vagante, « perpetuamente pellegrina » nel bosco delle finzioni (su questa Imzitazione da La feuille di Arnault si veda C. Muscetta, Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 224-229). Anche se altre prove non ci fossero del pessimismo leopardiano basterebbe riflettere sulla sua teoria della traduzione per vederlo in tutta la sua desolata immensità. Le felicità perdute, sebbene attenuate talvolta dal

conforto della poesia, non possono essere riconquistate in nessun modo. Il fascino del mondo antico, irrecuperabile, è per il Leopardi uno stimolo a « immaginare », a « fingere » nel pensiero una felicità che solo in questo modo può essere rivelata e contemplata, ed è il premio di quella semplicità che è « propria degli uomini di molto merito » (Zib. II, 1332), ed è la cosa più difficile a raggiungersi (Z5b. I, 29), anzi è la sola « bellezza », sebbene mutabile, concessa all'uomo (Zid. I, 943). CARMELO

MUSUMARRA

513 33

Il non

essere come

condizione

del nostro essere

in Platone e Leopardi

L’essere è — diceva Parmenide — e il non essere non è. Di esso infatti non si può predicare né l’essere né il non essere, giacché se se ne predica l’essere lo si annulla, e se se ne predica il non essere lo si annulla del pari. L’essere per conseguenza deve risultare uno e indivisibile. Donde allora la molteplicità? Non può avere fondamento, è impossibile. Perché nasca la molteplicità, perché l’uno finisca di essere uno e diventi molteplice, è necessario — avverte giustamente Platone — « che il non essere in qualche modo sia ».! Se l’essere infatti è immoltiplicabile non si può neppure dire che è immoltiplicabile, imperocché per dire che l’essere è uno occorrono tre parole, le quali o hanno un significato e quindi sono diverse l’una dall’altra, o si confondono tutte in una e non dicono nulla, neppure che l’essere è uno. Col negare il non essere, in breve, non solo risulta impredicabile il non essere, ma risulta altresì impredicabile lo stesso essere. Il problema per Platone nasce dal fatto che noi, figli della terra, siamo abituati ad « abbrancare con le mani quercie e macigni », ad ammettere che esista « solo ciò che offre una resistenza e un contatto », e a farci beffe

pertanto « di chi dica per avventura che qualche cosa che è senza un corpo abbia un essere » À Quando esprimiamo un concetto invece, in tanto lo esprimiamo, lo rendiamo vale a dire chiaro, inconfondibile, in quanto lo distinguiamo da un altro, consimile o opposto che sia. Ciò che distingue, che separa qui un concetto dall’altro non è il non essere materiale — che non

avrebbe senso —, ma la diversità insita nel-

l’uno e nell’altro. Platone la chiama più propriamente « alterità ». È questa che, moltiplicando l’uno, fa nascere le idee, differenziandole l’una dall’altra, e con le idee anche le anime. È sulla somiglianza di queste con quelle infatti che — com’è risaputo — Platone basa, in uno dei suoi 1 PLATONE, Dialoghi, trad. Faggella, Bari 1931, p. 118. 2 Op. cit., p. 128.

515

dialoghi, nel Fedone più precisamente, uno degli argomenti intesi a provare l'immortalità dell’anima. Ogni essere pertanto è e non è al tempo stesso, è in quanto partecipa dell’essere, e non è in quanto è privo di tutto l’altro essere. « Quante volte gli altri sono — precisa il filosofo ateniese — tante volte esso non è ». #

+

*

Se conditio sine qua non del nostro essere è il non essere, se non possiamo essere che a patto di riconoscere il nulla che ci determina, non rimane che o accettare saggiamente questa condizione, cercando di restringerci quanto più è possibile nei limiti di essa, o spingerci pazzamente, violentemente nelle sue voragini e sperimentare ad un tempo come la punta massima del nostro essere con altro non possa coincidere che con quella altrettanto spinta del nostro non essere. Del primo tipo esempio emblematico è Ulisse. La sua anima è chiamata — secondo che racconta Platone nel mito di Er — a scegliersi una vita con cui tornare sulla terra, ma essa « schivando le ambizioni pel ricordo delle anteriori fatiche, andò cercando a lungo la vita di un uomo privato e tranquillo, e a stento la trovò buttata là e abbandonata dagli altri ». I più scelgono vite di uomini illustri e s’ingannano e soffrono. Ma quelli che non s’ingannano, hanno forse una vita di godimento? Soffrono di meno semmai, ma andare del tutto esenti da dispiaceri in questo mondo non è consentito.

Il pessimismo greco, di Platone nel nostro caso, è palpabile. La vita non è un dono, ma una scelta inevitabile, senza assistenza dal-

l’alto, senza amore: un castigo. Ci può essere gradazione di dolore tra le creature — (quando la vita si deve a una di essere e di non essere insieme, quando tanto da non avvertire neppure quello che senso pieno tanto da non chiedere quello

« caduta », quando si è tramati non si è cioè in senso assoluto non si è, e non si è neppure in di cui s’è privi) — ma non asx

senza di esso.

« Che vuoi? — domanda quella degli Atridi? [...] Più Manoa quando sarà scoperta? Carlo quinto si sognasse una di tempo ». « Non posso ». « posso ».

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Farfarello a Malambruno — nobiltà maggiore di ricchezze di quelle che si troveranno nella città di [...] Un impero grande come quello che dicono che notte? ». « No [...] Fammi felice per un momento Come non puoi? ». « Ti giuro in coscienza che non

3 Dialoghi, trad. Carlo Zuretti, Bari 1915, p. 347. 4 Cfr. G. LeoPARDI, Tutte le opere, a cura di W. Binni ed E. GHIDETTI, Firenze 1969, So, Sb

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