Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi, Napoli, 18-19 ottobre 2001 8888321837

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Croce e il marxismo un secolo dopo. Atti del convegno di studi, Napoli, 18-19 ottobre 2001
 8888321837

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Crociana 4

Crocee il marxismo

un secolo dopo A cura di STIMA Griffo Atti del convegno di studi

Napoli 18-19 ottobre 2001,

°< | Editoriale Scientifica

Nella ricorrenza del centenario della pubblicazione della prima edizione di Materialismo storico ed economia marxistica, e

in occasione della ristampa del corrispondente volume nella Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, l’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, l’Istituto Universitario

Orientale, e l’Istituto Italiano per gli Studi Storici hanno organizzato un convegno di studi, che si è svolto a Napoli il 18 e il 19

ottobre 2001, di cui si raccolgono qui gli atti. Nella vasta opera di Croce i saggi dedicati alla teoria marxiana costituiscono una tappa essenziale per intendere l’evoluzione della

sua ‘filosofia dello spirito”, così come aspetti essenziali della cultura del tempo. Essi si inseriscono, inoltre, in modo originale

nella discussione sulla crisi del marxismo che caratterizza gli ultimi anni del XIX secolo.

Tenendo presente questo orizzonte di riferimento storico e concettuale, il convegno ha voluto tentare un bilancio di quella esperienza intellettuale nel contesto italiano ed europeo. Nei saggi che qui si pubblicano diverse sensibilità critiche mettono a fuoco interpretazioni

non coincidenti dell’opera di Croce, nella convinzione che una larga apertura euristica sia il modo migliore per fare i conti con

l’eredità crociana e per intenderne

la pregnante attualità.

Crociana 4 Diretta da P. Craveri, F. De Sanctis, G. Galasso

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/croceeilmarxismo0000unse

Croce e il marxismo un secolo dopo a cura di Maurizio Griffo

Atti del convegno di studi Napoli, 18-19 ottobre 2001

Editoriale Scientifica

Tutti i diritti (traduzione, adattamento) sono riservati per tutti i Paesi.

La riproduzione, anche parziale, e con qualsiasi mezzo

(compresi microfilm e fotostatiche) è vietata.

© Copyright 2004 Editoriale Scientifica srl 80132 Napoli via Generale Giordano Orsini, 42 ISBN 88-88321-83-7

Indice

| Co

1l

Premessa

Benedetto Croce, la riflessione su Marx

e l’organizzazione categoriale dell’utile Mauro

125

Visentin

Introduzione alla lettura crociana della teoria

del valore di Marx. Questioni di metodo Mario Reale

155

La filosofia giuridica di Benedetto Croce Valentino Petrucci

169

Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce Michele Maggi

183

Croce, il linguaggio e la praxis Fabrizia Giuliani

207

La critica crociana al marxismo e il suo rapporto con Eduard Bernstein e George Sorel Karl Egon Lonne

243

Croce e Hayek Maurizio Griffo

263

Antonio Labriola, il “compagno” Croce e la revisione del marxismo Luigi Cortesi

315

Marxismo e storia tra Labriola e Croce Giuseppe Cacciatore

341

Il marxismo dell’ultimo Labriola Stefano Miccolis

359

Croce lettore di Marx ed Engels Maria Rascaglia

DI

401

Sul testo del Materialismo storico di Benedetto Croce Silvia Zoppi Garampi

Tavola rotonda con: Mario Agrimi, Paolo Bonetti,

Piero Craveri, Biagio De Giovanni. Moderatore: Giuseppe Galasso

435

Indice dei nomi

RA

Premessa

Nella ricorrenza del centenario della pubblicazione di Materialismo storico ed economia

marxistica,

e in occasione della ri-

stampa del corrispondente volume nella edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce (a cura di Maria Rascaglia e Silvia Zoppi Garampi, con una nota al testo di Piero Craveri, 2 voll., Napoli, Bibliopolis, 2001) l’Istituto Universitario «Suor Orsola Benincasa»,

L'Istituto Universitario

Orientale, e l’Istituto Ita-

liano per gli Studi Storici hanno organizzato un convegno

di

studi, che si è svolto a Napoli il 18 e il 19 ottobre 2001, di cui si

raccolgono qui gli atti. I saggi pubblicati fra il 1896 ed il 1901, e poi confluiti nel volume sul materialismo storico, segnano una tappa essenziale nell’itinerario intellettuale di Benedetto Croce. Fino a quella data, le molte ricerche erudite, le prime riflessioni sullo statuto epistemologico della storia, gli interessi per la storia letteraria e le indagini-sull’estetica, per quanto ricche di spunti, erano an-

cora le membra sparse di una intensa produzione intellettuale

che non aveva trovato un centro ordinatore. Lo studio del marxismo, la lettura degli economisti classici, la riflessione sui temi della politica ad essi correlata, costituiscono un importante momento di chiarificazione interiore. A partire da allora la molteplice attività spirituale crociana si precisa e si definisce. Nel giro di un anno vede la luce il trattato sull’estetica. Nel quindicennio successivo, poi, sono concepite e scrittele altre parti sistemati-

che della filosofia dello spirito. In altri termini, è a partire dalle indagini sul marxismo che prende forma stabile la quadripartizione della filosofia crociana, assumendo i profili che la renderanno caratteristica. D'altronde, l’influsso degli studi su Marx non si esaurisce nel dare una spinta decisiva alla compiuta articolazione del “sistema” crociano, e vi marca una duratura impronta. Certo, le più tarde formulazioni crociane sulla storia etico-politica, e sulla storia come storia della libertà, danno una decisa preminenza ai moventi ideali; tuttavia anche esse non sono pienamente comprensibili senza il richiamo ad una concezione realistica della vicenda umana che si era fissata proprio negli studi di fine secolo. Lo storicismo assoluto non è una visione piattamente consolatoria del mondo, e non veicola un atteggiamento di indifferente accettazione del passato. E questo non solo per la necessaria articolazione categoriale dei distinti, bensì per un più fondamentale carattere. In tutte le sue specificazioni, infatti, la filosofia crociana esprime una concezione drammatica della realtà, nella quale l’eticità sopravanza certo il momento dell’utile o dell’economico, ma non in maniera definitiva, bensì come inesau-

sto processo di avanzamento dello spirito umano. Pure, i saggi di Croce su Marx non hanno solo la funzione di una cartina di tornasole per la ontogenesi della filosofia crociana. Essi costituiscono anche un significativo contributo a quella discussione sull’eredità marxista che caratterizza gli ultimi anni del XIX secolo. Sono, insomma, una parte non secondaria-della

cosiddetta Bernstein-Debatte che accompagna il travaglio politi-

co della socialdemocrazia europea, e il rovello concettuale della teoria socialista al tornante del secolo. D'altronde la critica del marxismo come aprioristica filosofia della storia, la sua riduzione a efficace canone d’interpretazione storiografica; la concezione del paragone ellittico come chiave per intendere la riflessione marxiana; la confutazione della cosiddetta legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, l’analisi delle aporie della teoria del valore-lavoro, sono altrettante acquisizioni concettuali durature che danno a Croce un posto di rilievo fra i critici del marxismo. Se questa è la cornice generalissima che ha fatto da sfondo ai lavori, le singole relazioni si possono raggruppare idealmente in tre diverse categorie, che corrispondono solo in maniera approssimativa alle tre sessioni di lavoro del convegno presiedute rispettivamente da Gennaro Sasso, Mario Scotti, Mario Agrimi. In primo luogo stanno gli interventi che studiano le ricerche sul materialismo storico in connessione con lo svolgimento della filosofia crociana. Un secondo nueleo di contributi si sofferma sui rapporti tra Croce e altri studiosi del marxismo, esponenti socialisti ed economisti. Infine, alcuni interventi affrontano argomenti che possiamo definire di filologia crociana, ovvero di attenta contestualizzazione dei suoi studi su Marx. Al primo gruppo possono ascriversi idealmente i saggi di Mauro Visentin (Benedetto Croce, la riflessione su Marx e l’organizzazione categoriale dell’utile); di Mario Reale (Introduzione alla lettura crociana della teoria del valore di Marx. Questioni di metodo); di Valentino Petrucci (La filosofia giuridica di Benedetto Croce); di Michele Maggi (Il principio di realtà alla prova dell’ideologia sociale. Considerazioni sulla filosofia di Croce); e di Fabrizia Giuliani, Croce, il linguaggio e la praxis. AI secondo tipo di relazioni si possono assegnare gli interventi di Karl-Egon Lénne (La critica crociana al marxismo e il suo rapporto con Eduard Bernstein e Georges Sorel); quello di Maurizio Griffo (Croce e Hayek); nonché le tre relazioni riser-

vate ad Antonio

Labriola,

che sollecitò Croce

allo studio del

marxismo e fu il suo principale interlocutore intellettuale in quel torno di tempo: Luigi Cortesi, Antonio Labriola, il “compagno” Croce e la revisione del marxismo; Giuseppe Cacciatore, Marxismo e storia tra Labriola e Croce; Stefano Miccolis, Il marxismo

dell’ultimo Labriola. Una maggiore attenzione agli aspetti storico-filologici troviamo nei contributi di Maria Rascaglia, Croce lettore di Marx ed

Engels; e di Silvia Zoppi Garampi, Sul testo del Materialismo storico di Benedetto Croce. Il convegno è stato chiuso da una tavola rotonda, cui hanno

preso parte Mario Agrimi, Paolo Bonetti, Piero Craveri, Biagio De Giovanni, con Giuseppe Galasso in veste di moderatore. Nonostante si tratti di una discussione che presenta un carattere necessariamente discorsivo e dialogico, si è ritenuto opportuno pubblicarla comunque, non solo perché offre una prima messa a punto delle analisi svolte nel convegno, ma anche perché mette a confronto diverse sensibilità critiche e interpretazioni non coincidenti dell’opera di Croce. E questa larga apertura euristica è forse il modo migliore per fare i conti con l’eredità crociana. Si ringraziano i tre istituti che hanno organizzato il convegno per la collaborazione offerta alla pubblicazione del volume. Un ringraziamento particolare va a Marta Herling e al personale dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici che hanno offerto un fattivo contributo alla raccolta e all’organizzazione del materiale, e all’Istituto Universitario «Suor Orsola Benincasa»

che ha

voluto ospitare questo volume nella collana “Crociana” pubblicata per suo impulso.

M.G.

10

Mauro

Visentin

Benedetto Croce: la riflessione su Marx

e l’organizzazione categoriale dell’utile

1. Premessa.

Quando, nell’aprile 1896 (e precisamente giovedì

23), Antonio Labriola, nell’indirizzare una lettera abbastanza lunga a Benedetto Croce, inseriva, giunto, grosso modo, a metà

dello scritto e delle cose che aveva da dirgli, quasi incidentalmente — e non senza un accenno

di nafcisistica, studiata suffi-

cienza — la notizia che Sorel lo “tempestava di lettere” per ottenere da lui (Labriola) un articolo per la rivista Le Devenir Social!, aggiungendo: “Avrai visto che nell’ultimo fascicolo mi han levato al settimo cielo”, non poteva certo supporre che il suo giovane interlocutore epistolare sarebbe, in breve tempo, giunto a dividere con lui il titolo di principale esponente del marxismo italiano, e meno che mai che la sua (di Croce) fama si sarebbe diffusa anche all’estero (soprattutto in Francia), insieme a quella del loro sodalizio2, a tal punto da far apparire tutto ciò che Croce avrebbe scritto in tema di materialismo storico e di economia come attribiribile anche a lui (Labriola) e da lui senz’altro condiviso. Ma se anche avesse potuto supporlo, certo non sarebbe mai ll

stato in grado di prevedere quello che ne sarebbe seguito. E cioè che, svolgendo Croce il suo pensiero intorno ai fondamenti del pensiero di Marx in modo tale da dare adito alla sensazione che nei suoi (di Croce) rilievi prendesse corpo ed espressione determinata un diffuso sentimento di disagio che si era andato propagando fra i marxisti in Europa a partire dalla pubblicazione del INI volume del Capitale (edito da Engels nel 1894, sulla base dei canovacci lasciati da Marx), il suo nome sarebbe stato associato a quelli di Croce e di Sorel dall’operazione con cui alcuni commentatori dell’epoca avrebbero tentato di dare un volto collettivo alla “crisi del marxismo”, finendo con l’individuare proprio in loro tre (insieme a Bernstein) il gruppo dei suoi principali promotori. Se egli avesse avuto una qualche premonizione di tutto ciò, magari non avrebbe aggiunto, qualche riga dopo, che Sorel lo “pregava e strapregava” di intercedere presso Croce perché questi gli facesse avere un articolo per il Devenir. Quantomeno, possiamo supporre che non avrebbe troppo insistito nell’indirizzare l’interesse del suo giovane corrispondente verso questioni di economia teorica, proponendogli di prendere occasione dalla richiesta di Sorel per fare ciò che lui (Labriola) gli aveva già suggerito di fare in una lettera di qualche tempo prima?, ossia serivere un saggio critico sugli “spropositi” di Achille Loria. In effetti, di scrivere questo saggio Croce non doveva avere un grandissimo desiderio, come egli stesso lascia francamente intendere ricordando questo episodio nel quadro della ricostruzione che molti anni dopo ebbe occasione di fare dello sviluppo, dell’evoluzione e della decadenza del “marxismo teorico in Italia”4. L’interesse era, piuttosto, di Labriola, il quale aveva concepito per Loria una netta avversione sul piano dottrinale e un profondo disprezzo, senza, però aver avuto la pazienza di leggere compiutamente i suoi contributi. La sua (di Labriola) grande capacità intuitiva gli permetteva di farsi un’idea talvolta abbastanza esatta della qualità di uno scrittore o di un’opera, se non proprio dall’esame sommario di qualche pagina, quantomeno già solo at12

traverso una lettura veloce, per così dire “a volo radente”, che

tuttavia non gli consentiva di cogliere i particolari, rendendolo incline ad addossare ad altri, ove ciò fosse possibile, l’onere di

una critica pubblica5. Egli era stato, verosimilmente (questa, almeno, era l’opinione di Croce©) l’ispiratore della violenza con la quale Engels, nella prefazione al terzo volume del Capitale e nelle Considerazioni supplementari, scritte ad integrazione e complemento di questa, e pubblicate postume nei nn. 1 e 2 (1895/96) della Neue Zeit, si era scagliato centro Loria. Nonostante

l’os-

sessione da cui Labriola sembrava essere pervaso a proposito dell’economista di Mantova” — ossessione che affondava le sue radici nel credito che il socialismo italiano aveva accordato a Loria come teorico dell'economia sociale e come interprete di Marx — il saggio che Croce alla fine scrisse contro l’autore delle Basi economiche della costituzione sociale e che pubblicò in francese nel Devenir Social, lo deluse un poco. Non perché Croce non fosse stato sufficientemente caustico e corrosivo nei confronti del suo oggetto, ma perché il disegno che egli doveva aver concepito di comprendere meglio, attraverso lo scritto di Croce — della cui esattezza e precisione si fidava assai più che della propria —, le ragioni della fortuna di Loria si era rivelato vano. Tanto che, dopo aver letto il saggio, Labriola non aveva potuto esimersi dall’esprimere tutta la sua meraviglia per il fatto che poi, in definitiva, nell’opera di Loria non vi fosse nient’altro che “la miseria” messa in luce dall’esame che Croce ne aveva fatto8. Oltre a questo, nello scritto di Croce c’era però un’altra cosa che dovette deludere Labriola e che avrebbe dovuto in effetti allarmarlo se egli avesse avuto una maggior capacità di antivedere gli sviluppi che essa preannunciava: una lunga nota sulla teoria del valore di Marx. Questa nota, insieme al saggio che Croce compose un anno dopo sull’Interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (che nel volume sul Materialismo storico, in cui entrambi sono compresi, segue immediatamente il contributo su Loria) e alla risposta? data al Postscriptum con il quale Labriola, nell’e13

dizione francese del suo Discorrendo di socialismo e di filosofia, prendeva le distanze da lui e da Sorel a proposito dell’interpretazione della teoria del valore, insieme alla critica della legge riguardante la caduta tendenziale del saggio di profitto!® e alle due lettere Sul principio economico indirizzate a Pareto!!, rappresenta la parte più significativa del volume dedicato a Marx, nel quale Croce raccolse, nel 1900, tutti isaggi da lui composti su questo argomento e su argomenti affini negli ultimi quattro anni. Nella convinzione che questi testi rappresentino effettivamente il “nucleo” concettuale e teorico della “lettura” di Marx sviluppata da Croce, sarà proprio su di essi che concentreremo il nostro esame, il cui obiettivo consiste (converrà non dimenticarsene strada facendo) nel dare adeguato svolgimento alla questione cui accenna il titolo del nostro contributo. Il fatto di aver definito i saggi appena elencati come quelli in cui si condensa il senso più riposto e profondo del lavoro critico-interpretativo prodotto da Croce su Marx e sulla sua opera richiede, probabilmente, qualche cenno di chiarimento. Non c’è dubbio, infatti, che il volume di argomento marxista, pubblicato da Croce a Palermo, presso l’editore Sandron, nel 1900, com-

prende altri testi, ricchi di temi e spunti diversi, che non possono mancare di attrarre l’attenzione dello storico e del sociologo in misura forse anche maggiore di quelli citati. L’importanza attribuita a questi ultimi, pertanto, potrebbe apparire come una preferenza soggettiva e, in ultima analisi, arbitraria. Questa importanza è, però, inscritta, in parte, nell’evoluzione stessa del pensiero di Croce e in parte nel fatto che in questi saggi Croce affronta temi che in seguito, per molto tempo, nel dibattito marxista destinato a svilupparsi in Italia, verranno trascurati o trattati in modo sommario, senza alcuna specifica competenza!?, pur rappresentando l’architrave dell’opera economica di Marx. Temi come la questione della coerenza teorica dell’analisi sviluppata nel Capitale (con specifico riguardo al problema del

rapporto fra il primo e il terzo volume) e in particolare della teo14

ria del valore; come quelli del concetto di plusvalore e del fenomeno per cui l’incremento del peso delle macchine nel processo lavorativo determinerebbe, a parità di altre condizioni, una progressiva diminuzione del saggio di profitto. Temi “tecnici” dell'economia politica, di quella classica in generale e in particolare di quella legata al nome di Marx, a proposito dei quali Croce interviene con una sicurezza ed un’autorità che gli verranno riconosciute anche da studiosi specialisti di questa disciplina, di estrazione marxista e, soprattutto, non italiani!3, Temi ai quali, tuttavia, è stato riservato, in Italia, lo stesso, curioso

destino — e forse non senza che tra le due cose si possa ipotizzare un certo legame — riservato alla loro trattazione da parte di Croce: quello di essere rapidamente accantonati dopo una breve stagione di intensa fioritura. In un primo momento questa sorte potrebbe essere dipesa dalla diffusa convinzione — da lui stesso accreditata — che Croce avesse detto una parola definitiva intorno alle questioni collegate a tali argomenti. Successivamente, essa

sembra

essere

scaturita,

in modo

abbastanza

naturale,

dalla prevalente estrazione storico-filosofica del nostro marxismo (estrazione che aveva un preciso rapporto con il ruolo assunto, nel suo ambito, dalla cultura crociana)!!. Così, quando

finalmente, in anni recenti, la discussione su di essi si è riaper-

ta, ciò è avvenuto nella cerchia più ristretta degli studiosi di teo-

ria economica e sulla scorta della grande impressione suscitata in tutto l’ambiente dell’economia politica (soprattutto in Inghilterra e in Italia) dalla pubblicazione, all’inizio degli anni ‘60,

dell’opera di Piero Sraffa (che peraltro era stato anche, come si sa, amico di Gramsci e aveva seguito da vicino la vicenda dei Quaderni, sia per la parte relativa alla loro stesura sia per quella concernente la loro messa in salvo e la loro spedizione a Mosca), ma all’interno di una prospettiva che si sarebbe potuta definire marxista solo attribuendo al termine un senso ben diverso da quello che esso aveva avuto negli anni della militanza e dell’ortodossia: un senso per certi versi più vicino a quello 15

che esso rivestiva ai tempi del primo dibattito sul significato e sull’interpretazione della teoria del valore, cui avevano preso parte, da noi, oltre a Loria e Croce, autori come Arturo Labrio-

la e Antonio Graziadei. Quanto all’interpretazione e alla critica di Croce, essa non è stata veramente discussa nella cultura italiana oltre che per ragioni analoghe a quelle già indicate con riferimento alla sorte delle questioni tecniche dell’economia marxista, anche per quelle che variamente si connettono alla vicenda del crocianesimo come tale. Per tutta la prima metà del ‘900, in altri termini, se della teoria del “paragone ellittico” si è parlato in sostanza abbastanza poco, ciò deve essere imputato almeno in parte alla soggezione che l’autorità del “maestro” ispirava e alla tendenza, propria di tanti seguaci, a ripetere le sue formule senza non solo discuterle ma spesso neppure esaminarle. In un secondo momento,

viceversa,

è verosimilmente

subentrato

il disinteresse

che ha investito, a partire dal dopoguerra, quasi tutta l’opera di Croce!5. Solo di recente si è ripreso a considerare questo capitolo del suo svolgimento spirituale. Ancora una volta, però, senza entrare nel merito delle tesi espresse, e con l’occhio rivolto piuttosto ad altri aspetti del rapporto con Marx e con il marxismo, come, ad esempio, quello della sua periodizzazione!6. Il primo compito che un rinnovato esame di questo rapporto deve proporsi perciò non può che essere quello di giungere ad un confronto effettivo e diretto con il contenuto concettuale e speculativo dell’interpretazione che Croce prospetta delle categorie marxiane. Il secondo, quello di valutare il ruolo che questa interpretazione può aver avuto nel promuovere e nel caratterizzare lo svolgimento del pensiero di Croce.

2. La teoria del valore-lavoro e le sue contraddizioni. Le reazioni del mondo scientifico alla pubblicazione del III volume del Capitale. Abbiamo incidentalmente fatto riferimento,«qualche decina di righe più su, al “diffuso sentimento di disagio che si 16

era andato propagando fra i marxisti in Europa a partire dalla pubblicazione del III volume del Capitale”. Di che cosa si trattava, e quale ne era la causa? Il terzo volume del Capitale venne pubblicato da Engels alla fine del 1894, dopo diversi anni spesi nello sforzo di ricostruire, sulla base di quanto Marx aveva lasciato, un testo coerente e, per quanto era possibile — ricorrendo in alcuni (pochi) casi estremi anche a qualche integrazione di proprio pugno — completo e corrispondente alle intenzioni e al disegno originale dell’autore!?. Il tempo richiesto da questo complicato lavoro fu, anche per via delle precarie condizioni di Engels la cui vista si era andata via via indebolendo, come abbiamo appena ricordato, di diversi anni. Per la precisione di nove. È naturale che negli ambienti marxisti e in generale nel mondo scientifico, l’attesa fosse grande, anche perché, proprio alla fine della sua prefazione al secondo volume (uscito nel 1885), dedicata in buona parte a rintuzzare l’affermazione di Rodbertus — che era stata raccolta da diversi “socialisti della cattedra e di Stato” in Germania — di aver subito un plagio ad opera di Marx per quanto riguardava la teoria dell’origine del plusvalore!8, Engels aveva proposto “agli economisti che [volevano] scoprire in Rodbertus la fonte segreta ed un più grande predecessore di Marx” la seguente sfida: dimostrare “che non soltanto senza pregiudizio della legge del valore, ma piuttosto sul fondamento di essa, può e deve formarsi un uguale saggio medio di profitto””!9. La sfida affondava le sue radici nel fatto che, come Engels aveva appena finito di rammentare “in base alla legge ricardiana del valore, due capitali che siano uguali per quantità ed impieghino lavoro vivente ugualmente pagato, essendo uguali tutte le altre circostanze, producono, in uguali periodi prodotti di uguale valore, e parimenti plusvalore o profitto di uguale grandezza. Se invece impiegano disuguali quantità di lavoro vivente, non possono produrre plusvalore, 0, come dicono i ri-

cardiani, profitto di uguale grandezza. In realtà avviene il contrario. Di fatto, capitali uguali, indipendentemente dalla quanx

17

tità più o meno grande di lavoro vivente che impiegano, in tempi uguali producono in media profitti uguali. Qui c’è dunque una contraddizione con la legge del valore, contraddizione già trovata da Ricardo e che la sua scuola fu parimenti incapace di risolvere’20. Secondo Engels, anche Rodbertus aveva saputo vedere la contraddizione ma non era stato in grado di risolverla,

mentre Marx ne aveva fornito la soluzione proprio nel III volume della sua opera. Di qui la sfida: prima che questo volume fosse pubblicato (cosa che per Engels avrebbe richiesto, così pensava allora, soltanto “dei mesi”) gli economisti che ritenevano Rodbertus il vero padre della teoria marxiana del plusvalore potevano provare, se credevano, a dedurre dalle sue (di Rodbertus) premesse questa stessa soluzione: se ci fossero riusciti que-

sta sarebbe stata la prova migliore della priorità di Rodbertus,

altrimenti nessuno avrebbe più potuto e dovuto contestare l’originalità di Marx. A raccogliere la sfida furono in molti, non tutti seguaci di Rodbertus, e nella sua prefazione al III volume dell’opera di Marx Engels enumera e recensisce, per lo più sfavorevolmente, quando addirittura la sua prosa non assuma in modo esplicito un tono sprezzante e sarcastico, diversi contributi sul tema. Egli ha parole di relativa considerazione solo per due dei partecipanti al dibattito: Conrad Schmidt, che aveva pubblicato Die Durchschnittsprofitrate auf Grundlage des Marxschen Wertgesetzes, uscito nel 1889, e Peter Frieman, autore di una Kritik

der Marx‘schen Werttheorie, apparsa nel 1893. Di questi due interventi è il primo quello sul quale conviene fermare la nostra attenzione, perché le osservazioni critiche che Engels gli rivolge gettano indirettamente molta luce sul problema e conducono, in qualche modo, la questione al punto nel quale si può dire che la incontri Croce. i La soluzione di Schmidt

si fondava sulla distinzione netta,

all’interno della produzione di un’impresa o di un intero*ramo industriale, di due quantità di merci, una costituita dal prodot18

to puro e semplice — quella destinata ad essere riassorbita in parte dal valore della forza lavoro necessaria alla prosecuzione del processo produttivo, ossia corrispondente al valore dei beni di consumo necessari al reintegro della forza lavoro spesa nel corso di questo processo, e in parte dal valore corrispondente all’usura delle macchine e ai mezzi di produzione impiegati in esso — l’altra costituita dal cosiddetto plusprodotto — cioè da tutta la parte restante del prodotto, dedotte queste prime due. Per Schmidt, in base alla legge del valore enunciata da Marx, secondo la quale il valore di ogni merce corrisponde alla quantità di lavoro, espressa in termini di tempo, richiesta dalla sua

produzione, il valore del prodotto deve corrispondere alla quantità di lavoro in esso “conglutinato”. Di conseguenza, per quanto attiene alla prima di queste due parti, deve esserci piena corrispondenza fra il tempo di lavoro speso nella produzione (sia come lavoro vivo, umano, sia come lavoro morto: quello contenuto nel valore dei mezzi di produzione impiegati, e trasmesso da questi al prodotto), da un lato, e, dall’altro, il valore

delle merci ricavate da questa stessa produzione. Ma per la parte restante, cioè per il plusprodotto, come opera la legge del valore? Secondo Marx, allo stesso modo, ovvero anche per questa parte i prodotti del lavoro (le merci) acquistano un valore di scambio solo in ragione del tempo di lavoro richiesto dalla loro produzione. Ma mentre la produzione del prodotto ha, per il capitalista, un costo che è, esso stesso, in ultima analisi, calco-

labile in termini di tempo di lavoro (quello, come abbiamo visto, necessario alla produzione o riproduzione degli strumenti di lavoro, delle materie prime e dei mezzi di sostentamento degli operai), la produzione del plusprodotto non ha alcun costo. È

per questo che il plusprodotto è un “plusprodotto”, ossia un prodotto netto. Pertanto, dietro l’apparente analogia, fra le due quantità di cui si compone la produzione complessiva c’è — osserva Schmidt — una differenza radicale. Ora, se il valore delle due quantità si calcola allo stesso modo (senza, cioè, tener conto IO)

della differenza appena emersa) il problema della contraddizione sottolineata da Engels non può essere evitato e risulta insolubile. Ma se i valori delle due quantità di prodotto (il prodotto e il plusprodotto) vengono calcolati in modo diverso, questo problema sparisce e i valori possono corrispondere ai prezzi di produzione, ossia a quei prezzi cui deve essere venduta la produzione di un certo ramo o settore industriale perché in esso si realizzi il saggio medio di profitto, vale a dire quello stesso saggio di

profitto che — in regime di mercato libero e di libera concorrenza — si deve realizzare in tutti i settori, perché possa esserci equilibrio tra di essi. Tuttavia, se il sistema di calcolo dei valori delle

due parti in cui si divide, come abbiamo visto, il prodotto complessivo di un’industria, non è, appunto, lo stesso per ciascuna di esse, come può essere mantenuta la teoria del valore-lavoro? Tale teoria, in altre parole sembrerebbe, in questo caso, utilizzabile per calcolare i valori e i prezzi solo della prima delle due parti, mentre il calcolo di quelli della seconda dovrebbe basarsì, per poter essere coerente con le premesse, su un principio diverso. La soluzione offerta da Schmidt al problema così impostato è indubbiamente ingegnosa, e merita di essere presa in esame. Dal momento che il lavoro complessivamente necessario per dare corso alla produzione si può considerare come il suo costo, noi possiamo impostare la questione così: esiste un costo che il capitalista sostiene per produrre il plusprodotto, ossia per ricavare, dal processo produttivo, un prodotto netto? Se questo costo esiste e può essere determinato, esso corrisponderà, in ter-

mini di valore, al lavoro necessario alla produzione del plusprodotto, e questo non solo in perfetta coerenza con quanto sostiene la teoria del valore-lavoro, ma, in qualche modo, come sua

conseguenza necessaria. Ora, secondo Schmidt questo costo esiste e può essere identificato con il capitale complessivamente anticipato all’inizio di un certo periodo di tempo e in seguito impiegato di nuovo per tutti i cicli produttivi che si svolgòno-nell’arco di quel periodo. La quantità di lavoro corrispondente al 20

valore di questo capitale, moltiplicato per il tempo della sua durata in funzione è allora, in base a questo modo, senza dubbio

originale e ingegnoso, di interpretare la teoria del valore-lavoro, il vero tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione del plusprodotto complessivo, ottenuto nel periodo indicato. Questo tempo di lavoro è ovviamente diverso da quello richiesto materialmente per la produzione del suddetto plusprodotto e proprio questa diversità consente, a giudizio di Schmidt, di calcolare il prezzo di ciascuna merce, tenendo conto delle due componenti distinte (prodotto e plusprodotto) comprese in essa, in modo coerente con il principio stabilito dalla legge del valorelavoro e nello stesso tempo garantendo l’uniformità dei saggi di profitto nei diversi settori produttivi2!. Questa coerenza fra teoria del valore e saggio medio di profitto sarebbe garantita, a parere di Schmidt, dall’uguaglianza della somma totale dei valori, calcolati in questo modo, con la somma

totale dei prezzi,

per quanto, rispetto alla singola merce, o meglio alle merci dei singoli settori produttivi, il prezzo e il valore si discostino di fatto l’uno dall’aitro in misura variabile, a seconda dell’appartenenza della merce stessa alla parte della produzione globale costituente il plusprodotto o alla parte della stessa produzione nella quale si esprime quel determinato quantum di merce che ha le caratteristiche di prodotto. In altre parole, essendo la merce che appartiene ad una parte (per es. al plusprodotto) uguale, in ogni singola manifattura o ramo produttivo, a quella che appartiene all’altra (il prodotto), esse dovranno avere lo stesso prezzo pur essendo di valore diverso. Ugualmente, se si considera la produzione sociale nel suo insieme, lo scambio fra setto-

ri merceologici diversi, mutuato dalla realizzazione, attraverso la vendita, del valore prodotto in ciascuno di essi, comporterà, in certi casi la cessione, a parità di prezzo, di più valore contro meno valore, in altri di meno valore contro più valore?2. Abbiamo indugiato così a lungo nell’esposizione della soluzione data da Schmidt al problema proposto da Engels, perché, 21

a nostro avviso, essa riveste una particolare importanza. Indubbiamente Engels ne dovette restare impressionato: nel suo lavoro Schmidt anticipava la soluzione che Marx aveva esposto nel III volume del Capitale e che consisteva nel dimostrare coincidenti le somme complessive dei prezzi e dei valori?3. Inoltre, era giunto a scoprire — come rilevava lo stesso Engels nella sua già citata prefazione al tanto atteso IMI volume: “per proprio conto”?24— “l’esatta spiegazione data da Marx nella terza sezione di questo Libro in merito alla finora inesplicabile tendenza alla diminuzione del saggio di profitto”25. Ciò nonostante, l’ipotesi su cui Schmidt si era basato veniva respinta da Engels in modo molto deciso. Infatti, tale soluzione conduceva inevitabilmente

al rovesciamento del presupposto che, nell’analisi di Marx, era alla base della teoria del valore: quello per il quale solo il lavoro umano sarebbe dotato della capacità di valorizzare i propri prodotti, ossia di creare, col valore d’uso, anche un valore di

scambio e di aggiungere a questo un nuovo valore. Evidente-

mente, collegare il plusprodotto (e quindi il plusvalore) all’entità del capitale anticipato e al tempo del suo funzionamento, significava attribuire anche alle macchine e agli strumenti della produzione la capacità di essere produttivi ovvero, la capacità di produrre valore, non limitandosi quindi a riconoscere loro solo quella di trasferire al prodotto il valore corrispondente alla quantità di lavoro umano in essi “immagazzinata”. Ne è una prova evidente il fatto che, nell’ipotesi di Schmidt capitali di uguale entità (e quindi, contenenti la stessa quantità di lavoro morto o di valore trasferibile) potevano produrre plusprodotti diversi in base alla diversità della loro efficienza e durata. Schmidt non era consapevole di quest’esito, almeno a giudicare da un’osservazione che egli lascia incidentalmente cadere nel corso della sua trattazione: “... Una cooperativa di lavoratori indipendenti [...] non potrà mai dare ad una parte della produzione il carattere di plusprodotto, in quanto tutte le mèrci che una tale società offre sul mercato hanno richiesto dispendio di 22

lavoro, e di un’uguale quantità di lavoro; non esiste in questo

caso una parte del prodotto non gravata da costi, e solo come tale sarebbe plusprodotto””26. Schmidt, in altre parole, riteneva il rapporto fra plusprodotto e capitale anticipato, un semplice rapporto contabile. Tuttavia, diversamente da Marx, che vede-

va in questo nesso contabile il frutto apparente di una deformazione ideologica del modo di pensare del capitalista??, per Schmidt questa rappresentazione della coscienza del capitalista aveva una funzione reale nella determinazione quantitativa del plusprodotto e del suo valore. Di qui la conseguenza che Engels traeva con estrema chiarezza: “La legge del valore è a priori in opposizione con la tesi, derivata dalla concezione capitalistica, secondo cui il lavoro passato, accumulato, in cui consiste il capitale, non sarebbe semplicemente una determinata quantità di valore finito ma, in quanto fattore della produzione e del processo produttivo del profitto, anche generatore di valore, cioè fonte di ulteriore valore oltre quello che esso stesso rappresenta; la legge del valore afferma che tale proprietà spetta solo al lavoro vivente” e concludeva in modo perentorio: “O il lavoro accumulato è creatore di valore al pari del lavoro vivente. E allora la legge del valore cade. Oppure tale proprietà gli manca. E in tale ipotesi la dimostrazione di Schmidt è incompatibile con la legge del valore??28. Il fatto è che, non appena apparso, il III volume del Capitale sollevò serie perplessità in alcuni e severe critiche da parte di altri e in primo luogo di Eugen von Bòohm-Bawerk, rappresentante della scuola marginalistica austriaca??. Divenne ben presto dominante la convinzione che la “soluzione di Marx” fosse fittizia, che fra la teoria del valore-lavoro esposta nel primo volume della sua opera e quella dei prezzi di produzione proposta nel terzo non ci fosse alcuna compatibilità, e che questo rendesse l’intero sistema marxiano incoerente ed autocontradditorio. Riassunta néi suoi termini essenziali la questione si presentava così: posto che settori produttivi diversi, contraddistinti da una 23

diversa composizione organica (ossia da un diverso modo di combinare mezzi di produzione e lavoro umano) dei capitali in essi impiegati, devono dare luogo a saggi di profitto diversi, e posto che, per le leggi della concorrenza, la trasmigrazione dei capitali dai settori meno redditizi a quelli più redditizi deve produrre un saggio di profitto medio, uniforme, comune a tutti i rami della produzione sociale, si deve avere come conseguenza che in numerosi settori le merci prodotte devono essere vendute ad un prezzo quantitativamente diverso (superiore in alcuni, inferiore in altri) rispetto al loro valore espresso in termini di tempo di lavoro necessario, per ottenere, in tutti, lo stesso saggio di profitto, cioè la stessa redditività. La soluzione di Marx l’abbiamo in parte già anticipata: essa consiste nel rilevare che il saggio di profitto medio. corrisponde, almeno idealmente, ad un settore industriale in cui i capitali investiti avrebbero una composizione media. In questo ipotetico settore i prezzi di produzione coinciderebbero con i valori, negli altri se ne discoste-

rebbero per eccesso o per difetto, giungendo, di fatto, ad una compensazione reciproca che avrebbe, come conseguenza ultima, l’uguaglianza quantitativa della somma complessiva dei prezzi e di quella dei valori rispetto all’intera produzione sociale39. Marx prendeva in esame il caso di tre settori industriali: uno a composizione media, uno a composizione superiore alla media ed uno a composizione inferiore alla media. Egli non si poneva, però, il problema di definire una situazione di equilibrio, neppure in riferimento anche soltanto ad uno schema di riproduzione semplice (quello in cui la produzione serva solo a ripristinare le condizioni di una sua ripetizione a quantità immutate, ossia a reintegrare tutto ciò che viene consumato nel corso del suo processo, senza aleuna accumulazione o alcun in-

cremento del capitale anticipato), e qualche interprete giunse ben presto a rilevare tale mancanza. Allestendo, pertanto, uno schema di questo tipo, e supponendo, di conseguenza e per semplicità, che i tre settori industriali dell’esempio assunto da Marx 24

producano, uno mezzi e strumenti di produzione, uno mercisalario, cioè merci destinate al consumo operaio, ed uno beni di

lusso, destinati al consumo di capitalisti e rentiers, una situazione di equilibrio si ha quando la somma dei prezzi dei prodotti del primo settore corrisponde alla somma dei prezzi di tutti i mezzi e gli strumenti di produzione impiegati nei tre settori, la somma dei prezzi delle merci prodotte dal secondo settore corrisponde alla somma dei salari versati ai lavoratori di tutti e tre i settori e la somma dei prezzi dei beni di lusso prodotti nel terzo settore corrisponde alla somma dei profitti complessivamente realizzati dalla classe capitalistica nell’insieme dei tre settori produttivi. È facile mostrare che se il calcolo si fa, come fa Marx, assegnando alle componenti dei capitali anticipati in ciascun settore un valore corrispondente alla quantità di tempo di lavoro impiegato nella loro produzione e ai prodotti di ciascun settore un prezzo complessivo calcolato sulla base del saggio medio di profitto, una situazione di equilibrio riproduttivo come quella dello schema descritto non si ottiene. Per ottenerla — e Marx ne era perfettamente consapevole, ma aveva trascurato di approfondire il problema — occorrerebbe assegnare anche alle componenti del capitale sociale complessivamente anticipato dei valori di scambio espressi in termini di prezzi. Se si fa questo, però, la somma totale dei valori e quella dei prezzi, di norma, non coincidono più3!, È evidente il problema che si apre a questo punto: per avere una situazione di equilibrio si deve definire il valore di scambio di ogni componente del capitale e del prodotto sociale complessivi o in termini di valore-lavoro (in questo caso, però, i saggi del profitto non saranno gli stessi in tutti i settori) o in termini di prezzo, ma non in modo misto. Questo vuol dire che il problema della trasformazione dei valori in prezzi cade e che è impossibile dimostrare la dipendenza dei secondi dai primi, cioè che è impossibile assumere la legge del valore di Marx come.la regolatrice effettiva, in ultima istanza, degli equilibri economici di mercato: valori e prezzi definiscono due siste25

mi produttivi determinati e distinti, il secondo dei quali soltanto corrisponde a quello in vigore nelle società cosiddette “capitalistiche”. Ma se la teoria del valore-lavoro non è più il cuore segreto o la sostanza del sistema di produzione capitalistico, il I libro del Capitale ci parla, in realtà di un sistema diverso, il concetto di “plusvalore” e quello connesso di “sfruttamento”, perdono ogni applicabilità al caso della produzione capitalistica e l’intero impianto dell’analisi di Marx cade a pezzi. Indubbiamente, non tutti i recensori e gli interpreti che intervennero

dopo l’uscita del III volume del Capitale, giunsero a conclusioni così drastiche, e neppure fu immediatamente chiara la natura della difficoltà che minava l’affermazione di Marx relativa alla uguaglianza delle somme totali dei valori e dei prezzi, respinta da Bihm-Bawerk (l’unico a trarre subito la radicale conclusione che la teoria del valore di Marx fosse insostenibile e inapplicabile all’analisi della produzione economica reale) piuttosto per la sua genericità e tautologicità, ossia per la sua assenza di valore esplicativo, che per la sua inesattezza33. Fu però subito chiaro a tutti che il terzo volume non si limitava ad integrare il primo ma modificava totalmente la sua impostazione e il suo apparato categoriale. A tal punto che Engels, il quale, come abbiamo visto, si era impegnato, nella prefazione, quasi esclusivamente a recensire con severità i vari tentativi fatti di raccogliere la sfida da lui lanciata nove anni prima, dopo le reazioni iniziali all’uscita del volume — soprattutto quelle di Werner Sombart e Conrad Schmidt — fu indotto a riprendere la penna e a pubblicare nella Neue Zeit delle considerazioni aggiuntive. Sombart, in un’ampia e favorevole recensione, nella quale definiva il II volume dell’opera di Marx un “classico” (“ein Standardwerk”), e lo dichiarava incomparabilmente superiore ai due precedenti34, era giunto alla conclusione che la teoria del valore fosse un ’’fatto del pensiero” privo di riscontro empirico (“sein Wert ist keine empirische, sondern eine gedankliche Thatsache”), uno strumento logico di cui ci serviamo per comprendere i feno26

meni della vita economica35, Schmidt, da parte sua, avvedutosi

del fatto che Marx, per giungere al risultato cui egli stesso era giunto nel 1889 dell’eguaglianza delle somme complessive di valori e prezzi per l’intero sistema economico, non aveva diviso il prodotto in due quantità i cui valori dovessero calcolarsi in modo diverso gli uni dagli altri, pur ribadendo la convinzione che la teoria del valore continuasse ad avere un significato euristico, perché consentiva di comprendere come mai il saggio medio del profitto si attestasse ad un certo valore percentuale piuttosto che ad un altro, definiva questa teoria un’ipotesi scientifi-

ca semplificata rispetto alla realtà effettuale39, e in una lettera ad Engels che il destinatario diceva di essere stato autorizzato a citare, ribadiva tale convincimento, giungendo ad affermare che la teoria del valore era, in Marx, unafinzione resa necessaria da ragioni teoriche8”?. Evidentemente, una volta abbandonata l’ipotesi che il valore di una parte del prodotto potesse calcolarsi, coerentemente con la teoria del valore, sulla base del capitale anticipato, ipotesi respinta da Engels e che non corrispondeva certo al metodo di trasformazione dei valori in prezzi adottato da Marx, non restava, agli occhi di Schmidt, altra possibilità che quella di considerare valori e prezzi rispondenti a due leggi e logiche diverse (quella dell’uguaglianza fra valore e tempo di lavoro umano, i primi, e quella dell’equilibrio concorrenziale di domanda e offerta i secondi) che potevano incontrarsi e confrontarsi solo sul piano dell’astrazione teorica e dell’esperimento mentale. Engels, elogiando gli sforzi di comprensione sia di Sombart sia di Schmidt, e trattando entrambi con considerazione e rispetto (le insolenze venivano, al solito, riservate anche in

questo caso a Loria, e qui, per la verità, soltanto a lui), dichiarava, da un lato, “non inesatta” ma “troppo generica” la formula di Sombart sulla teoria del valore come “fatto mentale”, e, dall’altro (non senza contraddire in qualche modo questa affermazione, visto che i due concordavano, come si è già detto, nel

sostenere il carattere astrattamente logico della teoria del valo27

re), “niente affatto esatta” quella di Schmidt38. Per Engels, infatti, era vero che la teoria del valore si applicava correttamente solo ad un sistema economico sociale fondato sulla cosiddetta “produzione mercantile semplice”, non quindi al sistema capitalistico come tale39, ma questo sistema mercantile semplice rappresentava il precedente storico del capitalismo e il passaggio che portava da una forma all’altra nòn era soltanto un processo logico-scientifico, ma altresì un processo reale, dispiegatosi nel tempo4°. La legge del valore, per Engels come per Marx, continuava dunque ad operare, sia pure in modo invisibile, cioè come sostanza nascosta, entro la forma di produzione capitalistica, esattamente come il sistema mercantile semplice (del quale il modo di produzione fondato sull’accumulazione privata e sull’anticipazione di capitale da parte dei detentori della ricchezza rappresentava non un genere diverso, ma solo una forma più evoluta e complessa). Questo, nelle sue linee essenziali, lo stato

della questione nel momento in cui, tra il 1896 e il 1897, Croce si imbatte in essa.

3. Croce e l’interpretazione della teoria del valore-lavoro. La prima domanda che dobbiamo porci, nell’affrontare l’esame dell’interpretazione proposta da Croce della teoria del valore di Marx, è quella di quanto e di che cosa, del dibattito svoltosi in Europa prima e dopo l’uscita del III volume del Capitale, gli fosse noto, e di quale fosse, nell’insieme, l’ampiezza della sua informazione nel campo della scienza economica. Le uniche fonti di cui disponiamo per rispondere a questa domanda sono le citazioni che troviamo nelle note e nei testi raccolti nel volume sul marxismo, le notizie autobiografiche ricavate dal Contributo alla critica di me stesso e dall’insieme di “appunti” che fece da base all’autoricostruzione biografica svolta nel Contributo, cioè le Memorie della mia vita, l’elenco delle opere presenti nella sua biblioteca, e le lettere inviategli da Labriola (quelle di Croce a Labriola, sono, come è noto, salvo un numero piuttosto esiguo, 28

andate perse). Per questa fase dell’attività di Croce, come si sa,

non è possibile utilizzare quel prezioso strumento di ricostruzione storica che è rappresentato dai Taccuini di lavoro, nei quali Croce verrà annotando, ma solo in seguito — a partire dal 1906 — tutti i progressi del suo pensiero e delle sue letture. Possiamo quindi incominciare a dare una risposta alla domanda formulata all’inizio di questo paragrafo ricordando la testimonianza autobiografica affidata alle Memorie della mia vita. Qui si dice che gli studi economici, sollecitati dall’interesse per il marxismo, stimolato, a sua volta, dalla lettura dei saggi di Labriola, ebbero inizio nel 1895 e durarono circa un anno (dalla primavera del 1895 a quella del 1896). Nel corso di questo anno Croce avrebbe affrontato principalmente i classici dell’economia, passando poi a Marx e da questo agli indirizzi più moderni della scienza economica. L'indicazione di un arco di tempo abbastanza esiguo come quello rappresentato da un anno che compare in questa ricostruzione non va evidentemente presa alla lettera: sebbene egli stesso dichiari che “essendo già pratico negli studii” gli riuscì, in quella circostanza, di “impadronirsi della letteratura sull’argomento e di orientarsi nei suoi problemi” molto rapidamente”, è ovvio che il periodo indicato si riferisce solo alla fase “preparatoria”, nella quale Croce svolse un lavoro di documentazione e informazione, prima di mettersi a scrivere, ma non, come è chiaro, alla durata complessiva del tempo

da lui dedicato all’approfondimento di questo genere di questioni. Per quanto concerne poi le opere che egli ebbe effettivamente modo di leggere e approfondire in questa fase, possiamo dire

quanto segue. A proposito della scuola marginalistica, che pure lo influenzerà in modo notevole, non è chiaro se e in che misura

la sua informazione fosse di “prima mano”: gli unici autori citati nel

volume

sul materialismo

storico

sono

Bòhm-Bawerk,

Jevons e Gossen, ma gli ultimi due una sola volta e in modo generico, il primo tre volte e in nessuna di esse facendo esplicitamente riferimento a qualche sua opera, salvo in un caso: quello 29

in cui compare un riferimento esplicito al saggio Zum Abschluss des Marxschen System. In questa circostanza, però, la citazione serve a Croce solo per ammettere onestamente una lacuna del proprio aggiornamento scientifico, dovuta al fatto che non gli era stato possibile prendere visione di questo contributo, allora appena pubblicato, di un autore che si era già fatto conoscere come il più agguerrito fra i critici di Marx. È abbastanza verosimile, dato anche il modo in cui la cita — ricorrendo uniforme-

mente alla definizione di “scuola edonistica” —, che le posizioni

della scuola austriaca e, in generale, dei marginalisti, gli fossero note essenzialmente attraverso la mediazione di Pantaleoni e Pareto, che Croce teneva in una considerazione ben diversa da

quella in cui li teneva Labriola43. Veniamo al dibattito specifico sul III volume Croce conosce il saggio di Sombart; la prefazione scritto Erginzung und Nachtrag zum III. Buche pubblicato da quest’ultimo nella Neue Zeit; due

del Capitale: di Engels e lo des «Kapital” saggi di Sorel:

Sur la théorie marxiste de la valeur, uscito nel Journal des éco-

nomistes nel 1897 e Nuovi contributi alla teoria marxistica del vatore, pubblicato in italiano sul Giornale degli economisti del 18984; il saggio di Vilfredo Pareto Il Capitale (citato da Croce come Introd. critica agli Estratti del Capitale del Marx45) che costituisce la traduzione italiana della prefazione di Pareto ad un volume di estratti dal primo libro del Capitale pubblicata in Francia a cura di P. Lafargue nel 189346 e poi in Italia nel 1894. Non conosce direttamente né il saggio di Bihm-Bawerk Sulla conclusione del sistema di Marx (come abbiamo già visto, per sua esplicita ammissione) né i lavori di Conrad Schmidt (che infatti non cita mai, riferendosi una volta sola e in modo

del

tutto generico al loro autore, del quale doveva avere una conoscenza mutuata quasi esclusivamente dalle affermazioni di Engels e da quelle di Sombart, contenute nei testi che abbiamo ricordato poche righe più su”). o Quanto al Capitale, Croce fa riferimento, ripetutamente, al 30

primo volume, mai — se non andiamo errati — al secondo e una sola volta al terzo nell’edizione originale tedesca, mentre cita diverse volte un opuscolo nel quale Pasquale Martignetti aveva tradotto e raccolto, con i due testi di Engels (la prefazione e le aggiunte) riguardanti questo volume, alcuni brani da esso

estratti48, Era necessario fare il punto sullo stato dell’approfondimento, da parte di Croce, delle questioni trattate soprattutto nella nota del saggio dedicato a Loria riguardante la teoria del valore e nel saggio sull’Interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, poiché nell’interpretazione che egli delinea in questi due testi della legge marxiana del valore-lavoro sono presenti in uguale misura suggestioni ed equivoci, che contribuiranno a definire il profilo dell’evoluzione del suo pensiero, con riguardo, in primo luogo, ma non solo, ai temi della filosofia pratica, e che, dunque, devono essere esaminati con particolare

attenzione.

La prima definizione del significato che secondo essere attribuito alla teoria del valore formulata incontra, come abbiamo appena ricordato, in una inserita nel saggio dedicato a Loria!9. Im questa nota

Croce deve da Marx si lunga nota Croce esor-

disce dicendo che

A parlare propriamente, la teoria proposta dal Ricardo e perfezionata dal Marx non è una teoria generale del valore, ossia non è propriamente una teoria del valore. Questa teoria generale è invece l’assunto della scuola edonistica o austriaca. Che cos’è, dunque, la concezione del valore nel Capitale del Marx?

È la determinazione di quella particolare formazione di valore, che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica. È, insomma, il paragone fra due valori particolari. Questo paragone ellittico forma una delle principali difficoltà per la com-

prensione dell’opera di Marx. In pura economia, il valore di un bene è uguale alla somma degli sforzi (pene, sacrifici, astensio-

31

ni, ecc.) che sono necessarî per la sua riproduzione [...] È impossibile giungere mai, per deduzione puramente economica, a restringere il valore delle merci solo al lavoro e ad escludere da esso la parte del capitale, e quindi a considerare il profitto come nascente dal sopralavoro non pagato, e i prezzi come derivazione dai valori reali per effetto della concorrenza tra i capitalisti; se non sì tenga a riscontro, come tipo, un altro valore

particolare, quello cioè che avrebbero i beni aumentabili col lavoro in una società in cui non esistessero gli impedimenti della società capitalistica e la forza lavoro non fosse una merce?0.

Il primo punto che richiede un chiarimento per poter accedere alla comprensione del significato di questo lungo brano, significato tutt'altro che immediatamente desumibile da una prima lettura, consiste nella negazione con la quale esso ha inizio: la teoria del valore-lavoro non è una teoria generale del valore, dunque non è, propriamente, una teoria del valore. L’implicito di questa affermazione è rappresentato dal convincimento che una teoria del valore, per essere veramente e propriamente tale, deve essere una teoria generale del valore. Vale a dire una teoria in grado di abbracciare il valore (economico) in tutte le sue espressioni e manifestazioni, in grado, cioè, di abbracciare il fenomeno “valore” come tale. Ma perché la teoria del valore-lavoro non sarebbe una teoria di questo genere, perché non avrebbe queste caratteristiche? Perché essa, considerando il valore solo come prodotto del lavoro umano, potrebbe rendere conto tutt’al più del valore di quei beni che sono il risultato di un processo produttivo, che sono cioè dei “prodotti”. La terra, la fertilità del suolo, ciò che si trova in natura può essere posseduto e dunque anche scambiato. Ha pertanto un valore. Ma non può essere prodotto né riprodotto per mezzo del lavoro5!. Ci sono beni che in condizioni normali sono disponibili illimitatamente, e dunque sono privi di valore, ma in determinate condizioni possono diventare scarsi o rari e acquistare un valore in modo del tutto indipendente dall’intervento di qualsiasi attività umana volta a procacciarli. Per beni di questo tipo la 32

teoria del valore non serve, non ha carattere esplicativo, perché non consente di rendere conto del fatto, peraltro incontestabile, che essi hanno un valore economico, che un valore economico, cioè di scambio, viene ad essi attribuito e riconosciuto. Occorre, però, fare attenzione: Croce non intende dire che la

teoria del valore si applica validamente solo ai beni procurabili per mezzo del lavoro, ma piuttosto che proprio il suo non potersì applicare, comunque e per definizione, che a questa sola categoria di beni basta ad escludere la possibilità che essa sia una teoria generale del valore, e quindi ùn’autentica teoria del valore, il che vuol dire: basta ad escludere la possibilità che essa si

applichi, realmente, ad un bene qualsiasi, tanto nel caso che la

sua esistenza dipenda quanto in quello che non dipenda dall’impiego o dispendio di lavoro umano. Che

significato

attribuire,

allora, all’affermazione

che “la

concezione del valore di Marx è la determinazione di quella particolare formazione di valore, che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica”? Una risposta plausibile a questa domanda richiede, come prima condizione, che si possa identificare la società “ipotetica e tipica” cui Croce fa riferimento in questo passo. Essa, a giudicare da quello.ehe Croce dice, per descriverla, qui — nel corpo della nota appartenente al saggio su Loria, le cui righe più significative sono state appena citate per esteso — e nel saggio successivo, sarebbe una società nella quale l’uguaglianza del valore con il tempo di lavoro verrebbe applicata come regola generale degli scambi. Ciò vuol dire, alla luce di quanto abbiamo detto prima, una società in cui avrebbero valore (e sarebbero, quindi, scambiabili) solo i beni producibili e riproducibili ad opera del lavoro umano. Ma, come Croce chiarisce nella parte conclusiva del brano citato, la società “ipotetica e tipica” alla quale egli pensa è definita anche da altre due condizioni: l'assenza degli impedimenti caratteristici di una società capitalistica e il fatto che in essa la forza-lavoro non do33

vrebbe assumere la forma di una merce. Queste tre condizioni insieme delineano un’ipotesi di società abbastanza determinata: si tratta di una società nella quale i beni (come la terra e le risorse naturali), la cui esistenza non è il risultato di uno sforzo produttivo (e dunque del lavoro), sono proprietà collettiva; nella quale il lavoratore non vende se stesso, cioè la sua forza-lavoro; e nella quale, non esistendo gli impedimenti tipici del sistema capitalistico (ossia la proprietà dei mezzi di produzione concentrata nelle mani dei possessori di capitale), i lavoratori sarebbero gli unici proprietari dell’intero frutto del loro lavoro e gli unici titolari del diritto di scambiarlo con il frutto del lavoro altrui. Assumendo come criterio di valutazione o modello una società di questo genere, la società capitalistica deve allora apparire come una forma di società nella quale il profitto equivale ad una certa quantità di lavoro non retribuito, e i prezzi sì discostano dai valori per effetto della concorrenza fra capitalisti. In altre parole, Marx opererebbe, con la teoria del valore, una doppia astrazione. Prima, astraendo dalla concreta società capitalistica alcuni tratti, isolandoli, e definendo, sulla loro base,

una legge per la quale il valore economico dei beni corrisponde alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione. Poi, reintroducendo (in quel contesto astratto, che così da contenuto diventa contenente) i caratteri propri del sistema economico fondato sulla proprietà privata del capitale. Il risultato euristico di questo confronto implicito (o ellittico) sarebbe quello di fare emergere, dall’analisi dell’economia capitalistica, quelle contraddizioni che altrimenti resterebbero nascoste?2,

Se questo è il significato dell’interpretazione data da Croce alla teoria del valore di Marx, bisogna, allora, svolgere, in proposito, qualche considerazione. La prima è che la “società lavoratrice” di cui parla Croce non è una società storica come quella “mercantile semplice” alla quale Engels, nelle proprie Considerazioni supplementari po-

stume destinate ad integrare la sua prefazione al III volume del 34

Capitale, riduce la validità effettiva della teoria del valore-lavoro, anche se ha significativi punti di contatto con questo tipo di società.

Lo schema

che ha in mente

Croce sembra,

piuttosto,

affine ad un altro modello, ugualmente ipotetico ed astratto: nel X cap. del III volume della sua opera fondamentale — il capitolo che, proseguendo l’analisi iniziata nel IX, affronta il problema del rapporto fra valori e prezzi alla luce del processo per il quale, in una società capitalistica, le leggi della concorrenza tendono a produrre un livellamento dei diversi saggi di profitto riscontrabili nelle diverse sfere della produzione di merci ad un saggio medio generale di profitto —- Marx parte da un’ipotesi semplificatrice53, quella “che gli operai siano essi stessi proprietari dei loro rispettivi mezzi di produzione e scambino reciprocamente i loro prodotti”. In questo caso, osserva Marx, se il tempo di lavoro da essi impegnato nelle relative produzioni fosse lo stesso, essi dovrebbero ricavare, dalla propria giornata lavorativa, lo stesso reddito. Il fatto che il tipo di produzione dell’uno, differenziandosi, per questo aspetto, dal tipo di produzione dell’altro, richieda, supponiamo, mezzi di lavoro più sofisticati e costosi, non avrà alcuna incidenza sull’uguaglianza dei ricavi netti, perché vorrà solo dire che la diversa massa di valore corrispondente alla produzione di A rispettoa quella di B conterrà una diversa quota destinata a reintegrare il capitale anticipato da ciascuno sotto forma di strumenti di lavoro e materie prime, ma lascerà immutata la quota di valore aggiunto o di nuovo valore prodotto, che sarà la stessa per entrambi. Nella situazione descritta, conclude Marx, ciò che conta è il saggio di plusvalore, che deve essere il medesimo per i due tipi di prodotti e di produzioni, non il saggio di profitto, che è, ovviamente diverso, ma nella sua diversità, ininfluente.

Tutt’altra cosa accade, ovvia-

mente, nel caso in cui ad anticipare all’operaio i mezzi di lavoro (strumenti e materie prime) sia il capitalista. In questa eventualità (che è poi quella che corrisponde alla situazione reale di un sistema economico di tipo capitalistico) il saggio del profitto ac35

quista tutta la sua importanza e diventa decisivo, mentre regredisce sullo sfondo il peso del saggio del plusvalore. Per il capita-

lista, infatti, ciò che conta è il rapporto fra il suo ricavo netto e il capitale complessivamente anticipato, cioè, appunto, il saggio di profitto. A questo passo del capitolo X del terzo volume del Capitale fa riferimento anche Sombart®4. Ora,è chiaro che l’ipotesi semplificatrice introdotta in questo caso da Marx per chiarire con un esempio il senso del suo discorso ha dei punti di contatto con quella forma di produzione che si suole definire “mercantile semplice”, ma anche rispetto a questa risulta estremamente semplificata. Non è quindi affatto improprio attribuire a Marx, in proposito, l’intento di operare, attraverso una pura ipotesi astratta, un confronto (neppure tanto implicito, per la verità) fra la situazione teorica derivante da questa astrazione ipotetica e la situazione reale di un sistema economico di tipo capitalistico®5. Ma il fatto è che un simile confronto non costituisce in nessun modo per Marx, come invece suppone Croce, la base o il fondamento dell’applicabilità della teoria del valore ad un sistema sociale (quello capitalistico) al quale, se esso venisse considerato per se stesso, tale concezione risulterebbe non solo estranea (come di fatto, sotto il profilo ideologico, già è) ma assolutamente inapplicabile, perché incongruente con la natura stessa del sistema. Il valore, dal punto di vista che guida e sostiene la concezione di Marx, agisce come l’essenza nascosta della produzione capitalistica, quell’essenza che la dinamica concorrenziale dei prezzi e il modo in cui essi vengono calcolati sulla base del saggio medio di profitto possono solo nascondere o dissimulare, ma che non possono né snaturare né neutralizzare (come dimostrava, ai suoi occhi, il fatto che, in definitiva, le somme

complessive dei valori e dei prezzi, dei plusvalori e dei profitti, risultassero, nel suo sistema di calcolo, coincidenti). Perciò, se

di confronto o paragone si vuole ancora parlare a proposito del concetto 36

di valore-lavoro,

occorre

chiarire che tale confronto

non è, per Marx — come, invece, è per Croce — un confronto fra realtà diverse (una effettiva e l’altra ipotetica), ma un confronto fra l'apparenza e l'essenza della stessa realtà50. Da questo punto di vista, l’interpretazione che Croce fornisce della legge del valore rappresenta un completo fraintendimento delle intenzioni e del pensiero di Marx, come pure del senso e dello scopo che egli attribuiva alla sua analisi della società capitalistica”. La cosa appare del tutto evidente se si prende in esame il significato che, come conseguenza di questa interpretazione del concetto di “valore”, Croce attribuisce alla categoria marxiana del plusvalore, la cui origine è, indiscutibilmente, l’oggetto che Il capitale si prefigge di spiegare e intorno al quale ruota tutta l’analisi del primo libro e l’intero impianto dell’opera88, Alla luce dell’interpretazione della teoria del valore come “paragone ellittico”, Croce, nel saggio dedicato alla Interpretazione e critica di alcuni concetti del marxismo, afferma che “so-

lo in forza di questo procedimento [...]il Marx poté giungere a porre e definire l’origine sociale del profitto, ossia del sopravalore” e continua notando che “«sopravalore», in pura economia, è parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa; giacché un sopravalore è un extravalore, ed esce fuori dal campo della pura economia”. Quindi l’economia pura, che si fonda su una teoria autentica perché generale del valore, in altre parole l’analisi economica “edonistica” — come la definisce Croce — non conosce alcun plusvalore. E nemmeno la realtà economica che essa studia: il plusvalore è un concetto che nasce dall’esame comparativo di questa realtà con la realtà ipotetica e astratta incarnata dal modello di una pura “società lavoratrice”. Ma questo vuol forse dire che il plusvalore è, come il valore, un concetto applicabile correttamente solo a questa realtà ipotetica? Le cose non stanno affatto così, come si può ricavare assai meglio da un brano del saggio successivo Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse:

37

Prendiamo due tipi di società: il primo tipo A, composto di 100 individui, che con capitale comune e con eguale lavoro, producono beni che ripartiscono in proporzioni uguali; il tipo B, composto di 100 individui, di cui 50 in possesso del suolo e dei mezzi di produzione, ossia i capitalisti, e 50 esclusi da quel possesso, ossia proletarî e lavoratori [...]. Che nel tipo A non abbia luogo sopravalore è chiaro. Ma neanche nel tipo B voi avete diritto di chiamare sopravalore quella parte*di prodotto che è riscossa dai capitalisti, se non quando paragoniate il tipo B col tipo A e trattiate il primo a contrasto col secondo®0,

Il passo è molto importante, e la cosa che lo rende tale è proprio quella che qui Croce presenta come ovvia e scontata: il fatto che nel primo tipo di società (A) — cioè, in sostanza, nell’ipotetica e astratta “società lavoratrice” di cui Croce parla in tutti i casi in cui (come fa anche poche righe prima del brano appena citato) vuole riferirsi direttamente al termine teorico di confronto con il quale, secondo lui, Marx paragona la società capitalistica quando elabora la legge del valore-lavoro — che in questo ipotetico sistema sociale, il plusvalore abbia luogo tanto poco quanto nella produzione capitalistica studiata, per se stessa, dall’“economia pura”. La legge del valore lavoro si applica a questa società, ma il plusvalore è concetto comparativo, che si applica, piuttosto, alla società fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sulla compravendita della forza-lavoro. Solo, però, in quanto la si consideri, non per se stessa, bensì a confronto dell’altra, ipotetica (quella in cui vige — o meglio in cui avrebbe vigore se una simile società esistesse — la legge dell’eguaglianza fra il valore delle merci e il tempo di lavoro necessario a produrle). Il plusvalore, non ha quindi luogo in nessuna delle due forme di società e di produzione sociale: è,. torniamo a ripetere, un

puro concetto comparativo. Ciò significa che esso si distingue dal concetto di “valore-lavoro”, perché questo è un concetto applicabile ad una delle due tipologie sociali (il tipo “A) ‘anche quando essa venga considerata indipendentemente dall’altra. 38

Dal momento che la stessa cosa non si può dire del plusvalore, la conseguenza di tutto il discorso consiste nel fatto che, stando ad un'impostazione come questa, uguaglianza di valore e lavoro e concetto di plusvalore possono essere tenuti distinti, e la prima può essere presa in considerazione senza fare intervenire, nel suo schema

astratto, la funzione euristica che essa deve o do-

vrebbe assolvere nei confronti del secondo. Dall’ipotesi dell’uguaglianza di valore e lavoro, in altri termini, non si può ricavare,

secondo

Croce, alcuna conseguenza

necessaria

riguardo

alla teoria dello sfruttamento, almeno finché non intervenga quella valutazione comparativa che ci è ormai ben nota fra due tipi diversi di sistema sociale ed economico. Torniamo ora, per un momento,

a Marx, e in particolare al

passo del capitolo X del ITI volume che abbiamo riassunto poco fa°! e citiamolo per esteso: ...supponiamo che gli operai siano essi stessi proprietari dei rispettivi mezzi di produzione e scambino reciprocamente i loro prodotti.[...] Supponiamo inoltre che il tempo di lavoro di questi operai sia in media uguale [...]. Due operai avrebbero quindi reintegrato entrambi, nelle merci che rappresentano la loro giornata lavorativa, innanzitutto le loro spese, il prezzo di costo dei mezzi di produzione adoperati: spese che varieranno in relazione alla natura tecnica dei loro rami di produzione. In secondo luogo, entrambi gli operai avrebbero creato uguale ammontare di valore nuovo, che rappresenta la giornata lavorativa che essi hanno aggiunto ai mezzi di produzione, e che comprende il loro salario più il plusvalore, il pluslavoro che eccede i loro bisogni essenziali, il cui risultato però apparterrebbe a loro stessi. Ossia, esprimendoci in termini capitalistici, entrambi gli

operai ricevono lo stesso salario più lo stesso profitto®2,

Il testo è chiarissimo: per Marx anche in una società ipotetica — immaginata adottando un’astrazione semplificatrice simile a quella di cui parla Croce e per molti aspetti analoga alla società mercantile semplice alla quale Engels riduce la validità effet-

tiva della teoria del valore — anche in una società di questo tipo 39

avrebbe luogo la produzione di plusvalore. Ciò che in una società analoga a quella descritta non avrebbe né potrebbe, in generale, aver luogo sarebbe semplicemente il prelievo del plusvalore o la sua appropriazione ad opera del capitalista. L’appropriazione del plusvalore, infatti, è, per Marx, una cosa ben diversa dalla sua produzione, sebbene sia legata ai rapporti giuridico-sociali che regolano e definiscono lo schema o il quadro entro il quale la produzione attua il suo processo. L’appropriazione, in altre parole, riguarda, a giudizio di Marx, la fase distri-

butiva dell’attività economica di un sistema sociale: non la creazione del valore, ma la sua realizzazione attraverso la vendita

delle merci prodotte. È solo per aver collocato la soluzione da dare al problema della possibilità e della genesi del plusvalore nel cuore del processo produttivo che Marx ritiene di essere riuscito ad offrire, una volta per sempre, una spiegazione valida del fenomeno a suo giudizio più misterioso di tutta la realtà economica, ossia dell’incremento di valore che si realizza attra-

verso il percorso in virtù del quale, partendo dalla materia prima, si giunge alla merce destinata alla vendita e al consumo. Se il plusvalore nascesse solo nella sfera della circolazione, l’appropriazione di esso da parte del venditore corrisponderebbe ad una espropriazione ai danni del compratore. Non ci sarebbe crescita di ricchezza per il sistema sociale nel suo complesso, o perlomeno non ci sarebbe crescita di ricchezza reale, perché ci sarebbe crescita solo dal punto di vista monetario93. La differenza fra teoria marxista e teoria marginalistica sta in primo luogo in questo aspetto, non nel fatto che Marx non prenda in esame i fenomeni connessi alla sfera della circolazione, agli equilibri concorrenziali di domanda e offerta e alle dinamiche di mercato. Anche perché che non lo faccia, semplicemente, non è

vero. Come sa chiunque abbia gettato uno sguardo, sia pure solo superficiale, al complesso della sua opera teorica di economista. Ci rendiamo conto allora del grave fraintendimento presente nell’interpretazione crociana della teoria del valore: facendo del 40

plusvalore un concetto puramente comparativo, Croce ne riporta la genesi entro la sfera della circolazione e distribuzione della ricchezza. Esso non nasce, perciò, nella sua ipotesi interpretativa, dalla produzione, ma dal confronto fra un modo di ripartire socialmente il prodotto secondo rapporti di produzione caratteristici di una ipotetica “società lavoratrice” e un modo di ripartirlo che dipende da rapporti di produzione fondati sulla separazione del capitale dal lavoro e dunque di questo dai suoi strumenti e mezzi04.

Non aveva quindi torto Labriola quando protestava vivacemente (in privato, come risulta dalla corrispondenza con Croce, e in pubblico, nel Postscriptum all’edizione francese del Discorrendo di socialismo e di filosofia) contro questa interpretazione. Se non ché le cose sono più complicate di come appare da quanto abbiamo messo in luce fin qui. L’equivoco, infatti, in un certo senso, è già in Marx, e Croce, con la sua interpretazione, lungi dal voler svelare un simile stato di cose, mostra di

essere a sua volta vittima di questo stesso equivoco9?. Abbiamo visto che il fatto che il plusvalore abbia, per Marx, la sua origine nel processo produttivo e non nella sfera della circolazione sta ad indicare, innanzitutto, che esso non dipende da scambi

tra grandezze ineguali né li richiede: la sua appropriazione da parte del produttore-venditore non significa che il compratore venga espropriato di un importo equivalente o che debba subire

una perdita. In questo, solo in questo consiste agli occhi di Marx, la “scientificità” della propria spiegazione: essa non fa intervenire fattori extraeconomici nella interpretazione del fenomeno del profitto. Al contrario, dimostra che esso viene realizzato dal capitalista nel completo rispetto delle leggi che regolano formalmente lo scambio in un’economia mercantile. Che significato dare, allora, all’affermazione, continuamente ripetu-

ta da Marx, secondo la quale il plusvalore equivarrebbe a “lavoro non pagato” e sarebbe, quindi, il frutto di un’espropriazione messa in atto dal capitalista ai danni dell’operaio? In effetti 41

il lavoro (tutto il lavoro e non solo il pluslavoro) in un’economia capitalistica non è pagato, perché, secondo le stesse premesse di Marx, non può e non deve esserlo, non essendo una merce. Il lavoro è solo il valore d’uso di una merce. Ciò che, pertanto, deve essere pagato è la merce della quale esso esprime e rappresenta l’utilità, intesa come attitudine o disposizione a soddisfare un bisogno effettivo99. Una merce o, più esattamente, il suo valore di scambio: questo è ciò che il salario paga, ciò in cui si converte (per il capitalista). E la merce in questione è la forza-lavoro, che, appunto, non è il lavoro vero e proprio, il lavoro concreto e “in atto”, ma la sua virtualità. La disponibilità, in altre parole, a mettere le proprie forze e la propria abilità manuale al servizio di un capitale altrui, dal punto di vista dell’operaio; la possibilità di disporre — per impiegarle nella produzione di qualcosa — delle energie, dell’intelligenza e della forza muscolare di un certo numero

di individui che non hanno altro da vendere,

dal punto di vista del detentore di questo capitale. Perciò il lavoro è il valore d’uso di questa merce: perché è ciò che viene messo

in opera dal suo impiego. Tale detto, dal salario, ed è pagata valore (di scambio). Che cosa chiedere, “lavoro non pagato”? ta correttamente,

merce è pagata, come abbiamo in misura corrispondente al suo significa, dunque, torniamo a La forza lavoro è pagata e paga-

il lavoro effettivo o in atto, non richiede di

esserlo e non può esserlo, perché non ha valore (in senso econo-

mico, cioè valore di scambio) e dunque non ha né può avere un prezzo?0. Croce si rende perfettamente conto di questa incongruenza: “la natura usurpatrice del profitto si può affermare solamente quando si applichi, quasi reagente chimico, alla seconda società [la società di tipo B, quella, in altre parole, basata su una forma di produzione capitalistica ]la misura, ch’è invece propria di un tipo di società fondata sulla umana eguaglianza [...]. “È sopralavoro non pagato”, dice il Marx, e sia pure, ma non pagato rispetto a che? Nella società presente è ben pagato, pel prezzo che 42

realmente ha””. Dunque, questa la conclusione implicita, e a suo modo corretta, di Croce, se vogliamo parlare di “lavoro non pagato”, dobbiamo assumere non la società capitalistica in cui il lavoro,

o più precisamente la forza-lavoro, è una merce che viene comprata e venduta, come tutte le altre merci, al suo valo-

re, e neppure un'ipotetica società nella quale il lavoratore, disponendo egli stesso degli strumenti necessari al suo lavoro, non sia costretto a vendere la propria forza-lavoro (nella quale, dunque, questa non divenga una mercè, non venga venduta e comprata, ma venga impiegata direttamente da chi ne detiene la titolarità). In nessuna

di queste due tipologie sociali, considerate

indipendentemente l’una dall’altra, può manifestarsi e prende-

re corpo un fenomeno come quello cui allude il concetto di “plusvalore”, e rispetto a nessuna delle due può avere senso parlare di “pluslavoro”, individuando in questo qualcosa come un “lavoro non pagato”. Perché espressioni del genere possano significare e quindi comunicare alcunché di comprensibile, occorre ricondurle ad una situazione in cui vengano messi a confronto sistemi sociali diversi e alternativi. Nella quale, dunque i due modelli descritti non siano considerati ciascuno per sé ma insieme, stabilendo fra di essi un paragone, grazie al quale sia possibile rendere manifesto il fatto che în uno dei due si realizza qualcosa che nell’altro non si realizza?2. Ma a che scopo fare tutto questo? Sopra abbiamo detto: per fare emergere le contraddizioni della società capitalistica, il contrasto in cui la società capitalistica si trova con se stessa?3. L’assunto crociano dal quale facevamo dipendere questa conclusione era quello secondo cui l’ipotetica “società lavoratrice”, che, stando all’interpretazione di Croce, Marx assume come ter-

mine implicito di confronto per esaminare la forma di produzione basata sulla separazione tra capitale e lavoro, questa società ipotetica ed astratta veniva designata come una parte della società capitalistica, separata dal resto e “innalzata ad esistenza indipendente”’74. Ma se torniamo all’esame che avevamo condot43

to di questa ipotesi per ricavarne i lineamenti essenziali del tipo sociale con cui essa si identificava, ci accorgiamo

che le cose

stanno in modo leggermente diverso. Questa società ipotetica,

stando al nostro esame, si configurava come un sistema economico e produttivo nel quale: a) i beni (come la terra e le risorse naturali) la cui esistenza non è il risultato di uno sforzo produt-

tivo (e dunque del lavoro) sarebbero proprietà collettiva; b) il lavoratore non venderebbe se stesso, cioè la sua forza-lavoro; e

dunque c) i lavoratori sarebbero gli unici proprietari dell’intero frutto del loro lavoro e gli unici titolari del diritto di scambiarlo con il frutto del lavoro altrui?5. Ebbene, che genere di società è questo? Per un verso, come abbiamo visto, ha diversi aspetti in comune con un sistema sociale di tipo ‘mercantile semplice”, benché se ne differenzi per il fatto di non avere un carattere storico-reale, ma solo ideale-ipotetico o ipotetico-astratto?°. Per un altro, la proprietà collettiva della terra lo avvicina molto a certe forme di comunismo

primitivo, come pure, almeno per questo

aspetto, un poco anche al tipo di società delineato nel progetto di riforme economico-sociali che sì poteva desumere dalle opere di Loria (a cominciare da quella sulle Basi economiche della costituzione sociale)". E ad un qualche tipo di comunismo o socialismo si avvicina, com’è ovvio, il possesso dei mezzi di lavoro da

parte dei lavoratori e il loro diritto di ricavare l’intero frutto (in termini di valore) derivante dalla vendita delle merci da loro

stessi direttamente prodotte. In altre parole, questa società ideale ed astratta, ipotetica e tipica, più che ad una parte della società capitalistica, isolata e separata dal suo contesto, sembra

corrispondere ad una compagine sociale, schematica ma storicamente possibile, in cui non abbia luogo il fenomeno, condannato dal socialismo moderno, dell’ingiusta “usurpazione” rappresentata dal profitto?8. Ecco, confrontata con una società di questo genere (ma anche solo nel quadro di un simile confronto), la società capitalistica deve apparire come una formazione sociale in cui i rapporti giuridici sui quali si fonda la forma ecodd

nomica della produzione assicurano ad una parte dei suoi membri la possibilità di sfruttare legalmente l’altra. Di “sfruttarla”, non nel senso, neutro ed oggettivo, in cui il termine sta ad indicare la “messa a frutto” di qualche bene che abbia la caratteristica, appunto, di “fruttificare” (come la terra o il lavoro), ma nel senso morale ed etico per cui questa parola viene di solito impiegata con l’intento di designare una prevaricazione ed un arbitrio, un’estorsione

operata

con violenza, la sottomissione

ottenuta prepotentemente delle ragioni del più debole all’interesse del più forte. L’interpretazione

di Croce,

mostra,

dunque,

uno

stato di

cose effettivo ed innegabile quando afferma che in Marx agisce qualcosa come un paragone implicito (o ellittico) fra modelli sociali opposti, uno reale ed uno ideale. Solo che questo paragone non rappresenta, come pensa Croce, lo strumento di cui Marx si servirebbe tacitamente per applicare alla realtà un’ipotesi astratta, e neppure la base dalla quale emergerebbe, per lui, il concetto di “plusvalore”. Esso rappresenta, piuttosto il fondamento dell’interpretazione ideologica, ossia politico-morale, della teoria del valore e del concetto di “profitto”. Interpretazione che in Marx coesiste equivocamente con un’altra, quella puramente scientifica, delle stesse categorie e degli stessi fenomeni, che è invece fondata sul confronto della realtà apparente del capitalismo con la sua essenza nascosta. Ora, proprio il fatto che la tesi crociana del “paragone ellittico” sia, come abbiamo visto, incompatibile con l’interpretazione scientifica di queste categorie, e allo stesso tempo necessariamente richiesta da quella politico-morale (nessuna valutazione morale sarebbe infatti possibile se non si confrontasse il reale con l’ideale, l’essere con il dover essere) dimostra che le due interpretazioni, entrambe presenti in Marx e nel Capitale, sono, per quanto le riguarda, inconciliabili? Tuttavia, la loro inconciliabilità appartiene a quel lato del progetto teorico marxiano che sottolinea il dualismo di appa45

renza ed essenza, di ideologia (0 apologia) e verità scientifica, di sovrastruttura e struttura. Questo progetto deve, però, fare i conti anche con l’altro suo lato, quello per il quale, fra questi estremi irriducibili deve potersi stabilire un rapporto coerente e razionale. Fa parte perciò (e ne fa parte in modo costitutivo) di tale progetto anche il legame che connette i due piani — quello scientifico e quello etico-politico — dalla cui sovrapposizione emerge l’equivoco che alimenta il duplice significato che nel Capitale riveste il concetto di “sfruttamento”. L’equivoco nasce, in altri termini, dalla pretesa che riconducendo l’apparenza alla sua essenza si sveli altresì la falsificazione ideologico-apologetica dell’economia borghese, cosa che confermerebbe, con la veri-

tà della visione critico-scientifica, anche quella (ideologica come l’altra ma ad essa opposta) di un programma politico che ne sia la conseguenza. Questi due lati che appartengono all’impianto teorico di Marx caratterizzano nel loro insieme come metafisica l’impostazione della sua indagine. Impostazione metafisica che, d’altra parte, come vedremo, si può apprezzare anche nell’attribuzione “umanistica” della funzione di valorizzazione (ossia della capacità di produrre un nuovo ed ulteriore valore) al solo lavoro umano®0, L’interpretazione di Croce è allora una lettura che infrange — nell’atto stesso in cui, così facendo, lo mette in evidenza — il quadro metafisico di riferimento sullo sfondo del quale si proietta in Marx l’enunciazione della teoria del valore-lavoro. Lo infrange eliminando da questo quadro la componente fondamentale, rappresentata dall’idea del radicamento di un’apparenza ideologica in una verità nascosta o in un’essenza che deve essere svelata. Ma fa tutto ciò senza alcuna consapevolezza e comprensione del problema filosofico (il problema della metafisica) che qui viene allo scoperto. Lo fa, soprattutto, confondendo

a

sua volta i piani della morale e della scienza. Tuttavia, benché confusi, i due piani, nelle pagine di Croce, non giungono-mai a identificarsi (come accade in Marx). Proprio per questo — per il 46

fatto che nella sua interpretazione, questi piani si confondono (scambiandosi, talvolta, i ruoli o sovrapponendo i rispettivi confini) ma non si identificano — il suo esame acquista comunque significato in rapporto al tema della metafisica e del ruolo storico che essa riveste, avviando un processo di maturazione specu-

lativa che verrà messo a frutto negli anni successivi. Per Croce, infatti, (e non solo per il Croce maturo, ma già

per quello, di cui stiamo parlando, degli anni fra il 1895 e il 1900) la scienza e l’etica sono cose ben distinte. In particolare, egli ritiene di trovare proprio in Marx una conferma di questa diversità: secondo lui, una volta stabilito che la teoria del valo-

re consiste in un paragone, resta aperto il problema di ciò che è possibile ricavarne e delle ragioni per le quali Marx avrebbe impostato la questione in questi termini. A tali domande, che si erano già da un pezzo presentate ai critici, molti di questi critici avevano, da tempo, risposto col dire che l’uguaglianza del valore col lavoro è un ideale eticosociale, un ideale morale. Ma — proseguiva Croce — niente di più erroneo in sé, come niente di più lontano dal pensiero del Marx si potrebbe concepire di codesta interpretazione. Dalla premessa che il valore è uguale al lavoro socialmente necessario, quale illazione morale si può mai cavare? Se ci si riflette alquanto, proprio nessuna. Lo stabilimento di quel fatto non dice nulla sui bisogni della società, che rendono conveniente l’uno o l’altro ordinamento etico-giuridico della proprietà e del modo della ripartizione. [...]JIl valore sarà bene eguale al lavoro; ma anche ammesso che nuove condizioni storiche rendano mai possibile la sparizione della società di classi, e l’avvento della società comunista, ed anche ammesso che in questa società la ripartizione possa aver luogo secondo la quantità di lavoro da ciascuno contribuita, tale ripartizione non sarebbe già una illazione della stabilita eguaglianza del valore col lavoro , ma una misura adottata per ragioni speciali di convenienza sociale. E non si può dir nemmeno che tale eguaglianza contenga in sé un ideale di giustizia perfetta (se pure non attuabile), perché il criterio del giusto non ha-nessun rapporto con le differenze, spesso meramente naturali nella capacità di compiere un maggiore o minor lavoro

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sociale, di produrre un maggiore o minor valore. Dall’uguaglianza del valore col lavoro non si può trarre, dunque, né una massima di astratta giustizia, né una massima di convenienza ed

opportunità sociale...8!

Ma se le cose stanno così, perché mai, nel saggio, posteriore di due anni, con il quale deciderà di rispondere al modo scelto da Labriola per prendere pubblicamente le distanze, nel Postscriptum al Discorrendo..., da lui e da Sorel, Croce affer-

merà, come abbiamo già visto, che dall’applicare alla concreta società capitalistica la misura che è propria dell’ipotetica “società lavoratrice” (ideale ed astratta), e quindi dal “confronto” fra queste due diverse forme di produzione sociale emerge “la natura usurpatrice del profitto”?82 Possiamo supporre che venga qui al pettine un nodo, relativo al rapporto, che nella sua testa va poco alla volta stringendosi, fra quelli che saranno i “distinti” della futura “Filosofia dello Spirito”. A questo “nodo”, prima di continuare il nostro esame dell’interpretazione crociana di Marx, passando alle pagine dedicate alla “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”, dobbiamo rivolgere ora la nostra attenzione, per precisare i termini esatti del problema che esso rappresenta. 4. Scienza, etica e storia in Croce, nell’ultirmo decennio del XIX

secolo: la prima configurazione dell’utile. Due anni prima di essere iniziato, dalle suggestioni e dagli stimoli di Labriola e dei suoi saggi sul materialismo storico, allo studio dei classici dell’economia e del marxismo, ossia nel 1893, Croce aveva pubblica-

to una memoria accademica che rappresenta il suo primo vero contributo in campo filosofico: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In questo scritto egli distingueva con molta nettezza due attività e due atteggiamenti fondamentali dello spirito o della mente dell’uomo: la conoscenza e la raffigurazione.

La prima attività veniva descritta da lui come propria. della scienza 0, se si preferisce, come la scienza stessa (se per scienza 48

si intende il processo del conoscere scientifico), oppure anche (se per scienza

si intende l’insieme dei risultati ai quali in ogni

epoca storica questa attività mette capo) come ciò di cui la scienza rappresenta lo scopo o l’esito. La seconda attività era costituita dall’arte, cioè dalla rappresentazione delle cose, grazie

alla quale noi siamo messi nelle condizioni di percepire gli oggetti, ossia ci disponiamo a vederli83. In questo secondo ambito di attività spirituale Croce inscriveva allora anche la storia, azzardando una tesi certamente piuttosto spregiudicata e controcorrente, almeno in Italia84, per quei tempi di dilagante positivismo, che gli avrebbe dato però il conforto di un consenso di massima da parte di Labriola, spesso critico nei confronti della sua attività di “letterato”’85. Consenso espresso dapprima privatamente, in un biglietto dell’undici giugno 18938, e in seguito anche pubblicamente, sebbene (ed è difficile ipotizzarne le ragioni) in modo solo implicito, con il sottoscrivere — senza, però ricondurla al nome di Croce — la tesi del carattere “artistico” dell’attività storiografica nel secondo dei suoi saggi sulla Concezione materialistica della storia8. Ciò che è rilevante, di questa distinzione, è che essa individua due dei futuri “distinti” della Filosofia dello Spirito. Ma l’assegnazione della storia al campo dell’attività artistico-rappresentativa denuncia, nello stesso tempo, con chiarezza lo stato di “incubazione” nel quale, in questa fase dell’evoluzione filosofica di Croce, si trovava ancora la teoria delle quattro fondamentali espressioni della vita spirituale, fra le quali la sua filosofia avrebbe, in seguito, ripartito le singole, diverse e specifiche manifestazioni della realtà. In effetti, fino al 1900 — anno di pubblicazione, oltre che del volume sul Materialismo storico (che

nella sua prima edizione raccoglieva solo testi cronologicamente precedenti questa data), della memoria sull’ Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, letta alla Pontaniana in tre tornate (il 18 febbraio, il 18 marzo e il 6 maggio)#8 — negli scritti di Croce, non c’è alcuna traccia di un “sistema dei distin49

ti”. Per giungere a delinearlo, era necessario che Croce arrivasse a mettere a fuoco, dopo l’attività rappresentativa, dopo quella conoscitiva e quella etico-pratica (la cui specificità non aveva bisogno di essere tematizzata per essere posta accanto alle altre, visto che rappresentava un lascito della tradizione filosofica nel suo complesso) anche l’attività pratico-utilataria o pratico-economica, facendone un’espressione autonoma dell’autosvolgimento dello Spirito. Di una simile autonomia del “momento economico” non si hanno indizi se non verso la fine dell’ultimo decennio del secolo XIX, quando questa idea inizia a prendere corpo, favorendo l’attribuzione — questa volta tematica e non solo, come prima, implicita — di un’analoga autonomia all’etica, e la conseguente ipotesi — che in breve tempo divenne una convinzione fermamente posseduta — che anche la sfera pratica dell’agire spirituale si articolasse, come la teoretica in due momenti, caratterizzati da una gerarchia interna analoga a quella che era il segno distintivo del rapporto fra arte e conoscenza89. Negli scritti su Marx, e in particolare in quello sull’ Interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, V’argomentazione di Croce ruota ancora intorno a tre “distinti”: la scienza, la storia (che, come sappiamo, è un caso particolare dell’arte) e l’etica. Ma i loro rapporti sono incerti. L'analisi di Marx è, secondo Croce, un’analisi scientifica, dalla quale non si possono trarre conseguenze di carattere morale. D'altra parte, non è possibile neppure trarne conseguenze di carattere storico-sociale. Dobbiamo allora domandarci:

si tratta, nei due casi, della

stessa impossibilità? O, in altri termini, questi due ordini di con-

seguenze, che non si possono trarre, sono riconducibili ad uno? A giudicare dal passo riportato sopra, si direbbe di si: una volta posta l’uguaglianza del valore con il lavoro, asserisce Croce, si sarà stabilito solo un “fatto” che “non dice nulla sui biso-

gni delle società, che rendano conveniente l’uno o l’altro ordinamento etico-giuridico della proprietà e del modo della ripartizione”’92, L’allusione ad un ordinamento etico-giuridico della 50

società sembra coinvolgere nello stesso concetto, un fatto storico (l'ordinamento giuridico) e un fatto valutativo (cui rinvia il riferimento al carattere “etico” di tale ordinamento). Dalla teoria del valore, legge scientificamente dedotta, per via di astrazione, attraverso un confronto fra due forme distinte di produzione sociale, non si può ricavare alcuna conseguenza su nessuno di questi due piani che, del resto, nel concetto di “ordinamento etico-giuridico” sembrano collegati. Da un lato, dunque, la scienza, dall’altro, distinte ma variamente intrecciate, l’etica

e la storia. Ma in questa stessa pagina, la storia sembra giocare anche un altro ruolo: “il valore — dice Croce — sarà bene uguale al lavoro; e non pertanto condizioni storiche speciali renderanno necessaria la società di caste o di classi [...]. Il valore sarà bene uguale al lavoro; ma anche ammesso che nuove condizioni storiche ren-

dano possibile la sparizione della società di classi, e l’avvento della società comunistica, ed anche ammesso che in questa socie-

tà la ripartizione possa aver luogo secondo la quantità di lavoro da ciascuno contribuita, tale ripartizione non sarebbe già una illazione dalla stabilita eguaglianza del valore col lavoro, ma una misura adottata per ragioni speciali di convenienza sociale”’93, Qui non si tratta più di conseguenze, ma di condizioni: la storia, in altre parole, non è più vista, ora, come un futuro da realiz-

zare, ma come un passato o un presente che grava, con tutto il peso della sua influenza, sull’ipotetico avvenire che si vorrebbe veder realizzato. Insomma, la premessa dalla quale dedurre conseguenze relative all’assetto di un certo sistema sociale ha cessato di essere rappresentata (sia pure come ipotesi da respingere) dalla scienza, e questo ruolo è stato assunto direttamente (e correttamente) dalla storia. È partendo da una tale premessa, autentica e non fittizia, che ora si afferma l’impossibilità di trarre conseguenze etiche dalla teoria del valore. Nel primo caso (la storia vista. come conseguenza), storia ed etica tendono insieme

a contrapporsi alla scienza, nel secondo (la storia vista come 51

condizione o premessa), è la storia che si schiera con la scienza (intesa come logica e razionalità), contrapponendosi, insieme ad essa, all’etica. In questo discorso, allora, si direbbe che la storia assuma due ruoli distinti e in qualche modo incompatibili. Due ruoli che tendono a spezzare la continuità del filo narrativo e che così facendo sembrano mettere già in discussione la sua appartenenza all’orizzonte dell’arte. Ma tale appartenenza, per ora e fino, almeno, al 1905 (quando essa viene di nuovo ribadi-

ta, sia pure in forme che già preludono ad un suo definitivo su-

peramento, nei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro?) non è oggetto di nessuna retractatio da parte di Croce. Attraverso la storia assunta come condizione (e in parte anche attraverso quella che, intesa come conseguenza, viene abbinata all’etica) incomincia, piuttosto, a farsi strada il concetto dell’utile. E sul profilo di questo concetto o di questa categoria — che, in modo ancora implicito, si può già intravvedere nella pagina crociana — influisce, prima ancora di Marx, la figura e l’opera di Machiavelli, così come essa emerge dall’interpretazione che ne offre De Sanctis nel capitolo della Storia della letteratura italiana dedicato al Segretario Fiorentino e in alcuni dei Saggi critici. In queste pagine, De Sanctis tratteggia un Machiavelli armato di passione intellettuale e morale (passioni che confluivano in lui in una sola, quella politica, alla quale, fondendovisi, entrambe davano corpo), nemico della corruttela ita-

liana e animato da un’idea di riscatto nazionale che sconfinava nell’utopia, ma spietatamente realista e ammiratore della forza, soprattutto della forza di volontà e di carattere, ovvero di quella tenacia con la quale uno scopo, quale che sia, viene perseguito quando nel suo perseguimento si impegnino animo ed energia morale, commisurando i mezzi al fine e sapendo usare, allorché il bisogno lo richieda, sia il coraggio sia l’intelligenza. Da una simile raffigurazione, Croce poteva essere indotto a ricavare V’idea che l’etica, per non essere un vano conato,

dovesse essere

armata:

Ma anche che

92

armata

di volontà e di determinazione.

queste, la volontà e la determinazione,

potessero esserci senza

che ci fosse uno scopo morale in vista, e magari, anzi, anche in presenza di uno scopo moralmente esecrabile?, Una simile idea configurava appunto il profilo di un rapporto autonomo fra politica ed etica, cioè di un rapporto basato sulla reciproca autonomia dell’una e dell’altra?, Questo Machiavelli, il Machiavelli di De Sanctis, Croce lo incontra proprio negli anni in cui ha inizio e si svolge il suo con-

fronto con Marx. Più esattamente, questi sono appunto gli anni in cui tale incontro è documentabile attraverso tracce ed indizi significativi di un’influenza dell’interpretazione desanctisiana su Croce. Il quale, nel 1896, cura l’edizione delle Lezioni sulla letteratura italiana del secolo XIX di De Sanctis. E nella sua prefazione al volume troviamo un primo riferimento a Machiavelli nonché all’analisi che lo riguarda, svolta nel capitolo a lui dedicato della Storia della letteratura italiana?8. Successivamente, nel 1898, Croce tornerà a curare una raccolta di scritti

di De Sanctis, gli Scritti varî inediti o rari, e anche in questo caso, nella sua prefazione, comparirà un riferimento a Machia-

velli. Questa volta in modo più determinato, sottolineando il fatto che Machiavelli, come aveva messo in risalto De Sanctis e co-

me invece, criticando quest’ultimo perché nel trattare di Ma-

chiavelli aveva tralasciato l’esame della questione etica, non aveva compreso Villari, era politico e storico, e a buon diritto non si era soffermato su problemi di natura morale, che — questo era il sottinteso della polemica rivolta contro Villari — riguardavano un’altra sfera della realtà e della vita pratica??. Questo riferimento è importante. Lo è, soprattutto, agli occhi dello stesso Croce, che in una lettera a Gentile datata 8.10.1898, in rispo-

sta ad un’altra di quest’ultimo del 1° ottobre, esordisce proprio compiacendosi per il consenso che l’amico gli aveva espresso “per le sante staffilate aggiustate al critico illustre del Machiavelli” (cioè ci Villari)! e dichiara di avere abbreviato nella prefazione agli Scritti di De Sanctis la parte relativa a Machiavelli 53

e Villari, ossia a Machiavelli e alla questione etica, “perché forse mi capiterà di toccar di nuovo, a proposito di Marx, ciò che il Villari chiama il problema Machiavelli, e che è un problema solo pei filosofi della sua fatta!”101, Qui l’accostamento fra il “problema Machiavelli”, ossia, per lui, il tema del rapporto di indipendenza della politica e della storia rispetto alla morale, e il nome di Marx ci consente di capire meglio quel riferimento diventato ‘celebre’ a Marx come al “Machiavelli del proletariato” con cui si chiudeva il saggio del °97!02, A tal punto si erano ormai congiunti, nella sua testa, questi temi e questi autori, che nello scritto del 99 su Marxismo ed economia pura - scritto che contiene una risposta ad alcuni appunti mossi ai suoi studi riguardanti Marx da Vittorio Racca sulla Rivista italiana di sociologia — Croce dichiarava che l’aspetto di vero [del marxismo] consisteva, a suo parere, “nell’avere il Marx richiamato fortemente

alla coscienza la condizionalità sociale del profitto: di che lacrime grondi e di che sangue quel profitto, che nelle unilaterali e formalistiche esposizioni di coloro ch’egli chiamava ‘i commessi viaggiatori del liberalismo’ pareva quasi nascere per via miracolosa, insita nel capitale”’!03, E qui, l’intreccio dei motivi, raggiunge, come si vede, il massimo di complicazione grazie all’accostamento a Marx del Machiavelli foscoliano, interpretato in chiave

antifrastica,

e quindi ‘“moralizzato”,

nei celebri versi

154-158 dei Sepolcri. Cerchiamo, allora, di tirare le somme di tutto questo lungo e tormentato discorso. La contaminazione di Marx con Machiavelli si avverte soprattutto nel saggio del ’97 (quello che nella sua prima redazione, pubblicata negli Atti della Pontaniana, introduceva un riferimento a Machiavelli soltanto alla fine, in modo decontestualiz-

zato ed apparentemente estrinseco!04).. Essa trapela attraverso

l’esclusione rigida che Croce vi compie della dimensione etica dall’analisi e dagli intenti scientifici di Marx. Esclusione che contrasta in modo eclatante con quello che appena un annò prima, nella recensione al secondo saggio di Labriola sulla Con54

cezione materialistica della storia (cioè alla Dilucidazione preliminare), egli aveva affermato, ossia che, sebbene Marx ed Engels, dovendosi confrontare con le tendenze utopistiche del socialismo precedente, avessero indotto “nella letteratura socialistica” una “forte corrente di relativismo morale”, era evidente

che “l’idealità o l’assolutezza della morale” erano “un presupposto necessario del socialismo”, concludendo le sue considerazioni su questo punto con una domanda retorica: “L'interesse, che ci muove a costruire un concetto di sopravalore, non è forse

un interesse morale o sociale che si voglia dire?”?105, Ma il saggio del ’97 è, d’altra parte, anche quello in cui, come sappiamo, Croce sviluppa e dà il massimo risalto all’interpretazione della teoria marxiana del valore già accennata nella nota al “Loria” del ‘96, quella che fa leva sul concetto di “paragone ellittico”. Ora, un’interpretazione del genere, spostando l’asse del problema del plusvalore dal piano della genesi del suo oggetto nell’ambito del processo produttivo a quello della sua realizzazione ed appropriazione nella sfera della circolazione, era, per propria natura, tale da caricare il tema, volente o nolente l’interprete,

di un significato essenzialmente morale e politico, come Croce, sia pure tra mille distinguo e forzature tornerà a riconoscere nei due contributi del °99, che appariranno entrambi sulla Riforma sociale!09, A conti fatti, dunque, è tra scienza e morale che l’utile deve

ricavare il proprio spazio, sfruttando la variabilità dei confini che, in questa fase della riflessione crociana, separano

le due

sfere. È quello che accade attraverso l’incertezza della dislocazione della storia socio-politica nel saggio del ’97, dove, abbiamo già avuto modo di rilevarlo, questa, vista e interpretata come condizione,

si colloca

accanto

alla scienza, contro

mentre, vista e interpretata come conseguenza,

la morale,

si pone, al con-

trario, accanto alla morale, contro la scienza. Ciò vuol dire che

l’utile potrà acquistare una propria autonomia categoriale solo facendosi largo fra queste due forme di espressione della realtà 55

umana, ossia sottraendo qualcosa all’una e qualcosa all’altra. La sua posizione in quello che sarà il “circolo” della vita dello Spirito è, quindi, già acquisita, prima ancora che esso prenda corpo come una nuova categoria e chiarisca i suoi contorni e il suo orizzonte di influenza. E questo è importante, è addirittura decisivo, per comprendere il volto, complesso e tormentato, con il quale alla fine ci si presenterà la prima e la più elementare delle due forme dell’attività pratica che verranno distinte e coordinate nella “Filosofia dello Spirito”: con dei tratti e delle “competenze” desunti dall’etica (come quelli che, in generale attengono alla sfera della socialità) e con altri (che emergeranno solo più tardi) desunti dalla scienza (quelli cui farà riferimento la teoria degli pseudoconcetti, o che serviranno a definire il ruolo della tecnica nel sistema crociano). Dal loro incontro sul terreno dell’economicità, della volontà particolare e utilitaria, scaturiranno i motivi destinati a fare dell’utile un “distinto” che,

nell’evoluzione del pensiero di Croce, avrà una storia anomala e rivelatrice. Quegli stessi motivi che, in modo specifico, conferiranno a questa categoria e alla sua articolazione in forme ed espressioni diverse (economia, politica, scienza naturale, diritto ecc.) una struttura tale da renderla incapace di contenere tutto ciò in vista di cui essa, progressivamente,

mostrerà

di essere

stata concepita.

5. Le obiezioni di Croce alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Dopo aver affrontato, nel modo che è stato esposto ed esaminato nelle pagine precedenti, la teoria dell’uguaglianza fra valore e lavoro — ossia il “cuore”, dal punto di vista dell’impianto categoriale, dell’opera maggiore di Marx -, Croce decide di dedicare la sua attenzione al “corollario” più rilevante che il III volume del Capitale proponga di questa uguaglianza e insieme della determinazione di un saggio generale o medio del profitto, che compare proprio in questa parte dell’opera per giustificare la divergenza dei prezzi dai valori senza 56

contravvenire alla legge che fa dipendere i secondi dalla quantità di lavoro in essi “conglutinata”, a dispetto dell’apparente contraddittorietà che sembra rendere tale dipendenza incompatibile con il conereto funzionamento dell’economia capitalistica. L'importanza di questo corollario è data non solo dal rilievo che gli conferisce Marx, assegnandogli un’intera sezione (la terza) del volume nel suo complesso. ma anche — e soprattutto — dal fatto che esso si lega strettamente con la teoria del “crollo” del sistema di produzione capitalistico. sintetizzando in sé l'insieme delle “contraddizioni” che affliggono alla radice l'essenza stessa di questo sistema e lo proiettano verso una condizione di crisi irreversibile. Si tratta della legge che stabilisce una caduta “tendenziale” del saggio di profitto come componente ineludibile del processo di sviluppo tecnico-produttivo del capitalismo. Una legge che. sebbene venga definita da Marx, come si è appena detto, in termini di semplice “tendenzialità” (perché vi sono diversi fattori i quali. pur dipendendo dai suoi medesimi presupposti. possono, entrando in gioco, contrastare i suoi effetti). possiede

tutta l'efficacia persuasiva di una scoperta che sembra riuscire nella difficile impresa di assegnare al capitalismo una disposi zione inevitabile alla crisi. mettendo in rapporto diretto tale disposizione non con la debolezza del suo apparato economico e produttivo, ma piuttosto con la forza che rende inarrestabile la dinamica del suo sviluppo. La legge come tale è il risultato di un presupposto e di una serie di passaggi algebrici. Essa afferma che aumentando la composizione organica del capitale (cioè il rapporto fra il capitale costante e il capitale complessivamente impiegato). qualora il saggio del plusvalore (ossia il rapporto fra plusvalore e capitale variabile o capitale speso in salari, cioè nell’aeguisto di forza-lavoro) rimanga costante, il saggio del profitto (vale a dire il rapporto fra plusvalore e capitale totale) deve diminuire. Il presupposto che sta alla base della legge è quello per cui il prusvalore e i suoi movimenti possono essere messi in

relazione con il solo capitale variabile e con i movimenti di queNAni

sto. Cosa che, a sua volta dipende dall’assunto secondo il quale è il lavoro (inteso come lavoro vivo o lavoro umano) quello che

valorizza il capitale, ovvero il fattore produttivo da cui dipende la creazione di nuovo valore. Il senso della legge è perciò che la

composizione organica diminuisce quando il capitale variabile aumenta rispetto a quello costante (o perché questo non aumenta per nulla o perché aumenta di meno), infatti, in tal caso il denominatore del rapporto deve crescere più del suo numeratore; mentre aumenta nel caso opposto, per la ragione inversa. Ora, visto che, data la premessa di cui si è detto, il plusvalore si

muove in sintonia con il capitale variabile, se il capitale complessivo aumenta perché aumenta il capitale variabile (e dunque diminuisce la composizione organica), aumenterà anche il plusvalore e di conseguenza il saggio di profitto, mentre accadrà il contrario se l’aumento del capitale complessivo dipenderà dall’aumento del capitale costante: in tal caso il plusvalore non crescerà (crescerà, invece, la composizione organica) e di conseguenza il saggio del profitto dovrà diminuire. Visto che il capitale costante è rappresentato dall’investimento in macchine o strumenti di lavoro e materie prime, l’aumento della composizione organica coinciderà con l’aumento di questa spesa e dunque, in generale, con il progresso tecnico, che tende a sostituite il lavoro umano con quello meccanico. Tuttavia, a contrastare gli effetti della legge, interviene il fatto che il progresso tecnico, può, in certe circostanze, far crescere il plusvalore anche a capitale variabile costante o decrescente. In tal caso aumenterà il saggio di plusvalore (che Marx chiama anche saggio di sfruttamento del lavoro) e dunque il saggio di profitto potrebbe non diminuire o diminuire meno di quanto la crescita della composizione organica del capitale dovrebbe, per parte sua, indurci ad supporre. È questa possibilità che, derivando dalle stesse cause da cui dipende la diminuzione del saggio di profitto, opera in controtendenza rispetto a tale diminuzione e la rende, appunto, solo “tendenziale”. Questa possibilità ammette diverse “varia58

zioni sul tema”, che Marx esamina in un capitolo dedicato alle Entgegenwirkende Ursachen, cioè alle “cause antagonistiche” rispetto all’azione della legge. Cause che, tuttavia, a suo giudizio, possono solo contrastare questa azione, rallentando il decorso dei suoi effetti e allontanando nel tempo l’esito al quale essì conducono, ma che non possono annullare la validità della legge stessa né, quindi, impedire che essa eserciti un'efficacia reale e non solo ipotetica o teorica. La legge non suscitò in un primo momento grandi obiezioni. Come ricorda lo stesso Croce all’inizio del suo contributo. I critici di “rito austriaco”, e tra questi innanzitutto Bihm Bawerk, non

le avevano

Sombart,

prestato

nessuna

nella sua recensione

specifica

al III volume,

attenzione!07, si era limitato a

dichiarare la sua dimostrazione, “splendidamente” condotta!%, Schmidt, come abbiamo visto, l’aveva addirittura anticipata nel

suo esame del rapporto fra Il saggio medio di profitto e la legge marziana del valore! Inoltre il “fatto” di una diminuzione del saggio di profitto in concomitanza con il processo di accumulazione

era

attestato

da tutti i classici,

sebbene



Smith



Ricardo ne avessero data una giustificazione persuasiva!!0, Le critiche rivolte a confutare espressamente la legge e il fenomeno che essa pretendeva di interpretare furono, dunque, per lo più, cronologicamente posteriori, e presero spunto proprio dalla impostazione, assai più articolata e complessa rispetto a quella dei suoi predecessori, data da Marx alla trattazione del problema!!!. Il saggio di Croce, che rifiuta il fatto come tale o nega quantomeno che esso possa conseguire dalle premesse sulle quali si basa Marx per darne una spiegazione, è, pertanto, forse il primo (risale infatti al 1899) a svolgere la tesi della pura insostenibilità degli argomenti esposti, a questo proposito, nel Capitale12, La critica di Croce si fonda (0 presume di fondarsi) sulle stes-

se categorie-marxiane dalle quali viene desunta la legge. Il suo intento, perciò, mira a far emergere una contraddizione interna 59

al ragionamento di Marx. Lo scopo non è, qui, pertanto, quello di interpretare il testo e, come nel caso del saggio del ‘97 e del significato che esso attribuiva alla teoria del valore-lavoro, di appianarne le contraddizioni, ma è, al contrario, quello di svolgere una confutazione sia del presunto fenomeno della caduta del saggio di profitto sia della legge chiamata a giustificarlo, mostrando che l’uno e l’altra non seguono dalle premesse di Marx, ossia, in altre parole, che sono mal dedotti.

Per Croce, il progresso tecnico ha come obiettivo generale non quello di aumentare l’impiego di capitale, ma quello di ridurlo: “stessa produzione con minor spesa’’!!3, Questa “minor spesa” è dovuta a due fattori strettamente connessi: a) aumento della produttività del lavoro e dunque diminuzione generale dei costi e dei prezzi di produzione (sia dei beni strumentali che dei beni-salario) e b) diminuzione dell’impiego di forza-lavoro. Il primo fattore è strettamente collegato al secondo perché, in ultima analisi, ne dipende, in quanto “tutto è prodotto di lavoro”1l4. Croce suppone che il risparmio di capitale realizzato nell'acquisto di beni strumentali sia proporzionale a quello realizzato nell’acquisto di forza-lavoro, in modo che la composizione organica resti la stessa prima e dopo l’introduzione dell’innovazione tecnica. In questo caso, rimanendo immutato il saggio del plusvalore (ipotesi che viene implicitamente inserita fra le premesse dell’argomentazione di Marx), la massa del plusvalore (e quindi anche quella dei profitti) deve diminuire. La massa, si badi bene, non il saggio. Ma se ci limitassimo a questa conclusione potremmo, in linea teorica, arrivare a dedurne un progressivo disimpegno della forza-lavoro dal processo produttivo, fino ad ipotizzare la sua totale esclusione da tale processo e la

sua sostituzione con “fonti automatiche di ricchezza”. Ciò comporterebbe, ovviamente, la fine del capitalismo, perché non ci sarebbe più la base su cui esso poggia, ossia “l’utilità del lavoro”, e sarebbe finito quindi anche lo sfruttamento, pèrché “gli ex capitalisti non avrebbero più operai da sfruttare”. Un’ipotesi 60

del genere è, però, secondo Croce, “una vuota generalità”, che, proprio per questo, Marx non avrebbe, giustamente, preso neppure in considerazione!!5. Dunque, la forza-lavoro espulsa dal processo produttivo doveva, per lui (Marx) esservi reintrodotta. È appunto su questa ipotesi che si fonderebbe, a parere di Croce, la dimostrazione della legge svolta nel 13° capitolo del III volume del Capitale: per reimpiegare la forza-lavoro divenuta superflua, occorrerebbe investire capitale aggiuntivo in strumenti di lavoro e materie prime. In tal modo, la stessa quantità di forza lavoro di prima verrebbe abbinata ad un capitale costante maggiore, e la composizione organica aumenterebbe. La fallacia dell’argomento di Marx risalta, a giudizio di Croce,

proprio in questo: che esso non tiene conto del fatto che il valore delle merci nelle quali si converte il capitale — sia costante sia variabile — è diminuito per effetto della generale crescita della produttività e per la conseguente diminuzione dei prezzi. Ma questo non significa che sia diminuita la sua “utilità naturale”. Pertanto, con lo stesso capitale di prima, o meglio, tenendo conto della diminuzione del valore anche dei mezzi di sussistenza,

con un capitale più piccolo (in termini di valore) si potranno impiegare gli stessi lavoratori di prima, fornendoli di mezzi e materie prime aggiuntivi. Tirando quindi; in definitiva, le somme, se si assumono le premesse di Marx si dovrebbe raggiungere secondo Croce, come esito finale del ragionamento, la conclusio-

ne che, in conseguenza del progresso tecnico, un capitale minore assorbirebbe la stessa quantità di forza-lavoro e produrrebbe, quindi, la stessa massa di profitto. Ma “massa di profitto uguale con capitale complessivo minore significa saggio di profitto cresciuto”, non diminuito. Cioè un risultato diametralmen-

te opposto rispetto a quello cui perviene il Capitale!!6, Gli errori che Croce commette nell’avanzare questa obiezione sono diversi, e alcuni sono stati già chiaramente indicati da coloro (per la verità, pochi) che hanno dedicato la loro attenzione a questa analisi. Il primo errore, anzi, ha una lunga tradi61

zione, nel senso che si presenta come una variante (che tiene conto dei rilievi di Marx) di quello già a suo tempo denunciato nel I volume del Capitale, ribattendo le tesi dei teorici della “compensazione” che il capitale metterebbe in atto nei confronti degli “operai soppiantati dalle macchine” (James Mill, MacCulloch,

Torrens, Senior, J.St. Mill e altri). Costoro soste-

nevano che, quando il lavoro umano*viene sostituito dal lavoro meccanico, gli operai divenuti superflui possono essere sempre

reimpiegati

ricorrendo

al capitale reso disponibile dalla loro

estromissione dal processo produttivo. A questa tesi Marx contrappone una constatazione ovvia: il progresso tecnico, cioè l’e-

stromissione di forza-lavoro

dal processo

produttivo in virtù

della sostituzione di parte del lavoro vivo che questo assorbiva con lavoro meccanico, modifica quella che potremmo definire “composizione organica per unità di prodotto”, cioè il rapporto in cui, nella produzione di ogni singola unità di merce, entrano

lavoro vivo e lavoro meccanico, nonché i corrispondenti valori.

Questo vuol dire che per reimpiegare, alle nuove condizioni tecniche, la forza-lavoro espulsa, occorre un investimento incrementale in capitale costante (per cui, la quota di capitale resa disponibile dall’estromissione di forza-lavoro non potrebbe comunque essere reinvestita tutta nel riassorbimento della forza-lavoro

estromessa),

con

la conseguenza

(prescindendo

dalla trasferibilità dei lavoratori da un settore produttivo ad un altro, che comunque non potrebbe essere né immediata né perfetta e richiederebbe l’entrata in gioco di molte altre variabili)

che il rapporto tra lavoro vivo e lavoro meccanico si dovrebbe trasformare comunque (almeno nel settore in cui è stata introdotta l’innovazione) nel senso di un incremento (anche in termini di valore) del secondo rispetto al primo!!”, Il ragionamento di Marx parte, in ogni caso, dall’ipotesi che l’innovazione tecnica abbia, almeno

nell’immediato,

un costo.

Ovvero

che comporti

un incremento netto del capitale impiegato nell’acquisto di stru-

menti e materie prime. La tesi di Croce è invece che l’innovazio62

ne tecnica, aumentando la produttività del lavoro, dovrebbe provocare una diminuzione generalizzata dei costi e dunque dei prezzi. Ora, anche volendo seguire Croce in questa ipotesi (cosa che, come vedremo, non è, in realtà, possibile) la diminuzione,

lo abbiamo visto, riguarderebbe sia il capitale investito in beni strumentali sia quello investito in forza-lavoro. Tuttavia, dato che l’incremento generalizzato della produttività comporta una espulsione di forza-lavoro dall'ambito complessivo della produzione, quindi una diminuzione della domanda di questa particolare merce,

i salari dovrebbero

diminuire due volte, una

per

effetto della diminuzione dei prezzi dei beni-salario, l’altra come conseguenza della diminuita richiesta di forza-lavoro. E il risultato sarebbe, comunque, una modificazione della composizione organica a favore del capitale costante rispetto a quello variabile. Resta da considerare, collocandola in un quadro di generale ed immediata diminuzione dei prezzi conseguente all’introduzione di nuove tecniche produttive, l’ulteriore supposizione di Croce: quella di un reimpiego della forza-lavoro espulsa. In questo caso, dato che il suo ragionamento considera il complesso della produzione, occorrerà supporre che la produzione sociale stessa venga incrementata!!8. Ciò non può avvenìire senza aumentare l’impiego di capitale-costante (se non altro per l’acquisto di materie prime aggiuntive, ma, verosimilmente, come abbiamo già visto, anche per ulteriori strumenti di lavoro, posto che il rendimento ottimale delle nuove macchine richieda l’impiego di una forza-lavoro proporzionalmente minore della precedente). La nuova domanda di forza-lavoro farà, allora, recuperare in parte la diminuzione del suo prezzo (solo in parte, però, perché resterà comunque la diminuzione legata all’abbassamento dei prezzi dei beni-salario), ma in una situazione in cui dovrà crescere, proporzionalmente (sebbene a prezzi diminuiti rispetto alla situazione precedente l’introduzione delle nuove tecniche) il valore del capitale costante. Anche adottando l’ipotesi di Croce, quindi, ma solo alla condizione che tale ipotesi 63

venga sviluppata (cosa che Croce non fa) fino alle sue ultime conseguenze, la nuova composizione organica del capitale complessivo manterrebbe l’incremento conseguito, con l’introduzione dei processi innovativi, nei confronti di quella precedente

tale introduzione. Fin qui abbiamo seguito la logica intrinseca all’ipotesi adottata da Croce. Ora, però, dobbiamo mettere in questione gli stessi presupposti sui quali tale ipotesi si fonda. In primo luogo quello dell’immediato generalizzarsi degli effetti dell’incremento di produttività in un settore all’intero ambito della produzione complessiva. Questo presupposto implicito della posizione di Croce è messo in luce da Giulio Pietranera, singolare figura di economista marxista di formazione crociana, uno dei pochi so-

stenitori, ancora nel 1947, della validità della legge concernente la caduta tendenziale del saggio di profitto. Pietranera fa osservare che una diminuzione generalizzata dei prezzi di tutte le merci comprese nel complesso della produzione sociale di un determinato paese sarebbe possibile solo se fosse lecito assumere il generalizzarsi dell’incremento di produttività, cioè il suo estendersi all’intero sistema (ossia al complesso dei settori produttivi), come “istantaneo”. In altre parole, mentre Marx fonda la sua legge su un’ipotesi dinamica, che presuppone il graduale estendersi del progresso tecnico ai diversi settori della produzione sociale, l’ipotesi di Croce si fonda su un presupposto statico: essa potrebbe anche applicarsi allo stadio finale del processo di incremento, su base tecnica, della produttività sociale,

ma, se questo viene considerato come qualcosa che si produce nel tempo (nei termini, cioè, che Marx tiene presenti, e che sono

i soli cui la legge possa applicarsi), essa si risolve in una petizione di principio; nel dare, cioè, per già avvenuto, ciò che deve ancora realizzarsi (come l’estensione dei nuovi metodi produttivi all’intero settore che produce beni strumentali e nello stesso tempo al complesso di quello che produce beni-satario). Ciò comporta anche un’altra divergenza fra l’ipotesi da cui parte 64

Marx e quella da cui parte Croce: il secondo considera il processo economico dal punto di vista della produzione sociale nel suo insieme. La sua visione, sostiene Pietranera, è “per totalità

di imprese”. Ma la legge scoperta da Marx richiede, per essere valutata correttamente, che si prenda in esame la dinamica dell’innovazione con riferimento (cosa del resto inevitabile, come abbiamo visto, se si vuole che il punto di vista adottato sia realmente dinamico) alla produzione della singola impresa o del singolo settore merceologico. A questo punto, se quanto abbiamo rilevato è vero, risulta evidente, da tutto il contesto, che la pre-

tesa di Croce di formulare un’obiezione che fosse fondata sugli stessi presupposti e le stesse premesse, su cui Marx si basa per

enunciare la legge della caduta del saggio di profitto, è insostenibile: la sua (di Croce) critica della legge dipende, in realtà, da premesse completamente diverse e da un’impostazione che, con quella di Marx, non ha nulla a che vedere!!9, Pertanto essa non è affatto in grado di fare emergere, come Croce pensava, “le contraddizioni” del ragionamento di Marx e tanto meno, dunque, di invalidarne le conclusioni. Ma l’obiezione di Croce alla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, sebbene sia, come la sua interpretazione della teoria del valore-lavoro, fondata su una com-

prensione equivoca del testo di Marx, è di grande interesse, per-

ché rivela una disposizione mentale e culturale riguardo alla tecnica che dovremo, innanzitutto, far venire alla luce, e che, una

volta emersa, apparirà determinante per comprendere il problema maggiore da cui il concetto dell’ “utile” risulta afflitto nella sua configurazione finale. Nella legge, infatti, e nelle questioni ad essa collegate, la tecnica gioca un ruolo determinante. Un ruolo che, sia pure partendo da presupposti diversi, tanto Marx quanto Croce sembrano volere ridimensionare, l’uno proprio con l’enunciazione della tendenza alla caduta del saggio di profitto, l’altro svolgendone la critica nel modo che si è visto. Se 65

l’aumento — che è un fatto constatabile ed evidente già alla fine del secolo XIX — del peso del capitale costante rispetto al capitale variabile non avesse, come conseguenza almeno tendenziale, la diminuzione del saggio di profitto e quindi la crisi del sistema capitalistico, il cui unico scopo consiste nel produrre plusvalore, ossia nel valorizzare il capitale, l’intero impianto dell’analisi di Marx verrebbe messo a dura prova, visto che esso fa

dipendere il processo di valorizzazione del capitale dal solo lavoro umano. Dato questo presupposto, deve evidentemente sussistere ed essere riconoscibile una proporzionalità diretta fra capitale variabile e plusvalore, mentre deve sussisterne una inversa fra questo e il capitale costante. Ma è singolare dover supporre che, in ultima analisi, il capitale tenda al proprio suicidio. Per sforzi che si facciano, non sembra onestamente possibile attribuire al progresso tecnico in ambito produttivo altro movente che l’accrescimento della ricchezza e della redditività del capitale investito. Se un aumento della spesa destinata all’acquisto e alla sostituzione dei mezzi di produzione impiegati fin qui con strumenti nuovi e più efficienti non avesse come effetto questo incremento di redditività, perché tale spesa verrebbe sostenuta? È per questo motivo che la legge, secondo Marx, è solo “tendenziale”, perché se non lo fosse, tutta la razionalità da lui ascritta, come caratteristica determinante, a quella forma di

produzione che è propria del sistema capitalistico, verrebbe smentita in modo clamoroso. D’altra parte, se l’innovazione tecnica opera nel senso di sostituire lavoro umano con lavoro meccanico, ossia nel senso di promuovere un risparmio di lavoro umano attraverso un incremento della sua forza produttiva, la legge deve pure, alla fine, farsi valere, perché meno lavoro umano, anche se più produttivo, deve in ultima analisi significare, per Marx, una minor quantità di nuovo valore prodotto. Se questa conseguenza non si potesse trarre, si potrebbe arrivare all’ipotesi di una produzione capitalistica interamente automatizzata e fondata solo sul lavoro meccanico, visto che, per quanto 66

futuribile, essa rappresenta l’ipotesi-limite cui un incremento indefinito del progresso teenco-produttivo deve inevitabilmente tendere. Ma un tale sbocco ipotetico è in contraddizione con l’essenza stessa del capitalismo secondo Marx, per cui o esso si dimostra irraggiungibile anche in linea teorica — attraverso una dimostrazione del fatto che prima di conseguire un esito di questo genere la tendenza implicita nella dinamica della produzione capitalistica dovrebbe, comunque, determinare il crollo del sistema — oppure la teoria del valore-lavoro ne verrebbe smentita. Ricordiamoci dell’enfasi e della severità con le quali Engels aveva respinto l’ipotesi di soluzione del rapporto fra valori e prezzi anticipata da Conrad Schmidt, pur riconoscendo la sua serietà e il suo acume. La stessa enfasi e la stessa severità con le quali, molti marxisti di inizio secolo (dallo stesso Schmidt a Kautsky e Rudolf Hilferding, a Rosa Luxemburg e all’americano Louis B. Boudin) si sono scagliati contro le tesi dell’economista revisionista russo Tugan-Baranowsky!20. L’una e l’altra (la soluzione di Schmidt e la teoria di Tugan) mettevano, infatti, in discussione — la prima senza avvedersene, la seconda mirando,

in realtà, solo a separare concettualmente la produzione dal consumo — proprio la dipendenza del valore e della ricchezza dal lavoro umano. E lo facevano attribuendo, almeno indirettamen-

te, il potere di creare ricchezza (anche) alla macchina. Ma se questo spiega la ragione per la quale il problema del progresso tecnico e del conseguente estendersi dell’impiego del lavoro meccanico nel ciclo produttivo costituisce per Marx e per il marxismo a cavallo fra i due secoli una questione tanto tormentosa quanto imbarazzante!?!, non spiega per quale motivo esso rappresenti una analoga ragione di imbarazzo per Croce. Eppure non c’è dubbio che le cose stiano così: non solo nella sua critica della legge riguardante la caduta del saggio di profitto l’incremento di produttività derivante dall’introduzione di procedimenti tecnici innovativi è risolto interamente in una diminuzione di costi e quindi di prezzi, piuttosto che in un incremento di 67

produzione e di ricchezza, cioè in un aumento di plusvalore!?2; ma quando Croce tocca — dopo averlo, come abbiamo visto, già fatto nel corso della sua esposizione-interpretazione critica della legge!23 — incidentalmente, l’ipotesi di una totale sostituzione del lavoro umano ad opera del lavoro meccanico — quasi un’anticipazione della tesi di Tugan — svolta molto sinteticamente da Graziadei in un breve intervento sulle Teorie del valore di Carlo Marx e di Achille Loria, comparso nel 1894 sulla rivista di Turati!24, ha toni quasi sprezzanti: Permetta il Graziadei ch’io noti che non è la prima volta ch'egli fa scoperte, che sono poi equivoci. Alcuni anni fa, dibattendosi nella rivista Critica Social#una polemica sulla teoria della formazione del profitto nella dottrina del Marx [...] scriveva “Noi possiamo benissimo ideare una società in cui non già col sopralavoro ma col non lavoro esista il profitto. Se infatti tutto il lavoro compiuto ora dall’uomo fosse surrogato dall’opera delle macchine, queste, con una quantità di merci relativamente piccola, ne produrrebbero una quantità enormemente maggiore [...]”. Ma qui il Graziadei dimentica di spiegare come potrebbero esistere lavoratori e ottenersi profitto dal lavoro, in una società ipotetica fondata sul non lavoro e in cui tutto il lavoro, già compiuto dall’uomo, verrebbe compiuto dalle macchine. Che cosa farebbero ivi i lavoratori? L’opera di Sisifo o delle Danaidi? [...] che se poi egli intendeva che le macchine producessero automaticamente beni esuberanti per gli uomini tutti di quella società, in tal caso faceva la semplice ipotesi del paese di cuccagna!?25,

Il punto è che Croce, pur interpretando la teoria del valore come “paragone ellittico” e cioè pur non ammettendo senz’altro che il valore, inteso in senso economico, coincida con il lavoro,

è comunque in grado di escludere, fin d’ora, che esso possa coincidere con la tecnica o derivare da essa. Il “valore”, al quale Croce — lo vedremo meglio affrontando, tra poco, il problema del “principio economico” sollevato e discusso nelle due lettere a Pareto — attribuisce il ruolo di “concetto cardine” intorno al quale ruotano 68

le definizioni della scienza economica,

ha già

adesso, o sta cominciando

ad assumere,

un significato più am-

pio, che lo porterà a rivestire il ruolo di “genere” rispetto alle diverse espressioni o “categorie” nelle quali prenderà corpo, in seguito, l’intero circolo delle attività fondamentali dello Spirito. Proprio replicando a Graziadei, sostenitore, come abbiamo visto, della possibilità di “dedurre il profitto indipendentemente dalla teoria del valore”’126, nelle stesse pagine dalle quali è tratta la citazione precedente, Croce aveva detto che “Un’Economia, nella quale si prescinda dal valore, è una Logica in cui si prescinda dal concetto, un’Etica in cui si prescinda dall’obbligazione, un’Estetica in cui si prescinda dall’espressione”27, Le iniziali maiuscole che qui vengono assegnate ai nomi delle quattro ‘discipline filosofiche nelle quali, fra non molto, prenderà corpo e si articolerà la Filosofia dello Spirito — Economia, Logica, Etica ed Estetica — ci avvertono che siamo già in clima di “distinti”. In questo clima la tecnica deve essere, se è qualcosa (e qualcosa certamente è), espressione di un valore. Ma non può, essa stessa, esprimere o creare valore!28, È questa la strettoia per la quale è necessario passare se vogliamo arrivare a

comprendere le ragioni del profilo determinato che l’utile assumerà nella configurazione sistematica conferita da Croce, qualche anno dopo, all’assetto definitivo del'proprio pensiero, e soprattutto se vogliamo mettere in luce quanto, nelle successive definizioni di questa categoria, continuerà ad annidarsi di non risolto e di inespresso o anche solo di parzialmente espresso: quella “inquietudine” o quel movimento interno, che imprimerà all’utile il suo impulso inappagato — e probabilmente, entro il quadro del pensiero crociano, anche inappagabile — ad evolvere in qualcosa d’altro.

6. Il principio economico e il problema della tecnica nelle lettere a Pareto e nella risposta ad Ulisse Gobbi. Sul fatto che le due lettere pubblicamente indirizzate da Croce a Pareto e apparse sul Giornale degli Economisti con le date, rispettivamente, del 69

15 maggio e del 20 ottobre 1900 rappresentino una tappa importante nell’evoluzione del suo pensiero, non solo con riferimento alla teoria dell’utile ma in generale, non corre alcun dubbio. In esse — lo aveva già a suo tempo sottolineato Aldo Mautino nel noto saggio da lui dedicato alla formazione della filosofia pratica di Croce e in particolare dei concetti di “economicità” e di “politica”129 — per la prima volta il filosofo napoletano affronta tematicamente il problema dell’economia come espressione autonoma della realtà, retta da un principio suo proprio. Lo spunto a riflettere su questo tema, spingendolo a dare forma ad idee che, evidentemente, si agitavano in lui già da diverso tempo senza trovare il modo di venire con chiarezza allo scoperto, gli fu offerto da due scritti di Pareto, molto simili sebbene non del tutto coincidenti, che gli era capitato di leggere poco prima: uno era il testo di una “memoria” presentata nel dicembre 1898 ai membri della società scientifica “Stella” di Losanna;

l’altro un’anticipazione, che apparve sul Giornale degli Economisti in due parti!30, tra il marzo e il giugno del 1900, di alcuni frammenti del futuro Manuale di economia politica, scelti a cu-

ra della direzione della rivista, e pubblicati con il titolo: Sunto di alcuni capitoli di un nuovo trattato di economia pura del prof. Pareto. In questo secondo testo, Pareto prendeva le distanze non solo dal principio edonistico proprio dell’economia pura o marginalistica, ma anche da quel principio di ‘“ofelimità” con il quale, nel Cours d’économie politique, uscito a Losanna fra il 1896 e il 1897, egli stesso aveva già cercato di eludere i problemi che nascevano dall’impiego del concetto di “piacere” nell’economia marginalistica e dal suo significato equivoco. La natura soggettivamente variabile del piacere, infatti, lo rendeva, a suo parere, poco suscettibile di quantificazione. Questo lo aveva spinto a cercare un principio dell’agire economico, l’ofelimità appunto, che si limitasse a registrare il dato dell’inclinazione soggettiva e che pertanto potesse, in riferimento al singola individuo, consentire di elaborare una “scala” di preferenze, a cia70

scuna delle quali fosse possibile associare un valore numeric o. Tale concetto, tuttavia, conservava un tratto qualitativo, variabile da soggetto a soggetto, e per questa ragione pur sempre ambiguo, cosa che indusse Pareto a sostituirlo con quello della scelta, interpretata come un puro e semplice fatto che si può constatare oggettivamente — perché per farlo non c’è bisogno di tener conto delle sue motivazioni soggettive — e che per questo gli appariva più facilmente suscettibile di elaborazione matematica!3!,

Interpretando

suoi compiti,

Pareto

in questo

modo

la scienza economica e i finiva, così, per essere indotto dalle sue

stesse premesse ad assimilarla, in ultima analisi, alla meccani-

cal32,

Croce reagisce, in primo luogo, proprio contro questa analogia: per lui l'economia è una scienza solo se è dotata di un principio autonomo, e tale principio non può che essere qualitativo, dunque non quantitativo e meccanico. Il giudizio economico, quello con cui si giudica il comportamento di un soggetto che agisce in vista del proprio utile personale, è un giudizio di valore, o meglio di valutazione, per mezzo del quale si afferma che tizio ha agito o non ha agito in modo economicamente corretto, che ha agito economicamente o antieconomicamente!33, Tra le azioni economiche e quelle antieconomiché non c’è mediazione né passaggio graduale e continuo: esse sono opposte come un valore e un disvalore: per l’uomo che sceglie, tutto ciò che non rientra nella sua scelta ne è escluso. Ciò significa non che ha un valore più piccolo, ma, semplicemente, che è privo di valore!34, Questo è il primo punto sul quale verte la sua divergenza da Pareto. Ma ce n’è anche un altro, più complesso e ricco di implicazioni. In entrambi gli scritti che abbiamo citato e che forniscono a Croce lo spunto per la sua prima lettera “sul principio economico” (la seconda è una risposta alla replica di Pareto), Pareto fa riferimento ad una distinzione che avrà un ruolo importante anche nella sua sociologia: quella fra azioni logiche e azioni non 71

logiche. L'economia si rivolgerebbe al primo tipo di azioni. Tuttavia, se nel Sunto la distinzione si presenta in questa forma semplificata, nella memoria del ’98 essa ha un carattere assai più articolato, giungendo ad individuare quattro diversi tipi di azioni: quelle sperimentali e logiche, quelle sperimentali e non logiche, quelle non sperimentali e logiche, quelle non sperimentali e non logiche! Inoltre, ciascuna di queste azioni avrebbe, secondo Pareto, degli antecedenti (che, ovviamente, rappresenterebbero la base per definire i moventi delle azioni), e questi antecedenti sarebbero costituiti o da fatti reali oppure da “entités non réelles, non expérimentales, métaphysiques”!36, Anche la distinzione suddetta, però, riguarda esclusivamente gli antecedenti che si riflettono nella coscienza del soggetto (e che proprio per questo possono diventare moventi), che in altre parole sone reali oppure ideali e metafisici per lui. Una simile precisazione permette di comprendere come mai, dopo aver introdotto quella differenza fra antecedenti, Pareto possa aggiungere: “Il ne faut pas oublier qu’il s’agit ici, non des antécédents réels, mais des antécédents qui se reflètent dans la conscience du sujet’?137,

In questo

modo,

infatti, le azioni economiche,

che

rientrano nel primo genere di azioni (sperimentali e logiche) hanno moventi reali che sono, in fondo, solo opinioni soggettive,

nel senso che la loro realtà non è niente più di questo. Di conseguenza, antecedenti reali in senso oggettivo risultano, da questo punto di vista, per la scienza economica, qualcosa — potremmo dire adottando una terminologia kantiana — di noumenico e perciò di inattingibile.

Insomma,

se ne renda conto o no, Pareto

configura qui una situazione per la quale, rispetto ai moventi e agli antecedenti delle azioni, il conscio è soggettivo (e dunque non oggettivamente reale) e l’oggettivamente reale è inconscio (ovviamente non nel senso psicoanalitico del termine — sebbene la distinzione paretiana possa in teoria abbracciare anche moventi di questo tipo — ma in quello molto più generico per ilquale

“inconscio” o “inconsapevole” è tutto quello che non appartiene 72

all’orizzonte cognitivo e che resta al di fuori della portata della coscienza).

Vediamo, adesso, come Croce reagisce a questa impostazione. Per prima cosa egli nota che il “fatto economico”, per Pareto, se è ancorato ad una scelta, deve essere un fatto che ha a che

fare con la volontà!38. Diciamo così: un fatto pratico, non teoretico. Dunque, definire le azioni come “logiche” e “illogiche”, in quanto si tratti di azioni pratiche, non ha senso, perché “logico e illogico rimandano chiaramente all’attività teoretica?’139, Occorre fare attenzione: Croce parla di logico e illogico, Pareto parla di logico e non logico. In effetti, nel Sunto, c’è un passo in cui compare l’alternativa logico-illogico al posto di quella logiconon-logico!40, ma la cosa non desta alcuno stupore: per Pareto, anche se quasi sempre egli sceglie di usare l’altra forma, la seconda non deve poi essere così diversa dalla prima. Per Croce, invece, le cose stanno altrimenti, e benché la teoria dei quattro gradi distinti dello Spirito, con la differenza che essa introdurrà fra il concetto di “distinzione” e quello di “opposizione”, sia ancora di là da venire, nondimeno il teoretico è già pienamente distinto dal pratico. Perciò, se il primo coincide con la logicità (e, di conseguenza, ciò che in esso si presenta come negativo, con l’illogicità), il secondo dovrebbe essere ‘caratterizzato altrimenti e definito, dunque, sotto un tale riguardo, solo in termini privativi, ossia come non-logico, qualcosa di tanto diverso dall’illogico quanto l’agire pratico-utilitario lo è da un errore concettuale. Il fatto è che Croce ha, per qualche ragione, in mente proprio l’errore (l’illogico) — che, non dimentichiamolo, è, per definizione inconscio: non è infatti possibile ingannarsi, cioè, appunto, commettere un errore di carattere teorico o concettuale, consa-

pevolmente — come dimostra il suo modo di argomentare contro la distinzione proposta da Pareto e contro la conseguente inclusione delle azioni economiche nell’ambito delle azioni logiche. In primo luogo Croce osserva che interpretare l’agire economico 73

come agire logico comporta “l’erronea concezione del principio economico come fatto tecnologico”!41, La tecnica, infatti, in que-

sta fase di evoluzione del suo pensiero, rientra a pieno titolo

nella sfera teoretica. Ma la cosa interessante è quella che Croce dice subito dopo, svolgendo la sua confutazione della tesi di Pareto: “A chi voglia scorgere a colpo d’occhio la differenza tra il tecnico e l’economico, suggerirei di considerare bene in che consista un errore tecnico, ed in che un errore economico??!42, È

dunque dalla differenza fra questi due tipi di errore che risalta quella fra il teoretico e il pratico. E questa differenza consiste in ciò: che “È errore tecnico l’ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare [...] È errore economico non mirar dritto al proprio fine, voler questo e insieme quello, ossia non voler veramente né questo né quello. L’errore tecnico è errore di conoscenza; l’errore economico è errore di volontà”’!43,

Potremmo supporre che il percorso di Croce sia stato, all’incirca, questo: posto che le azioni economiche fossero — come vorrebbe Pareto — “logiche”, e posto che, secondo la stessa formu-

lazione paretiana del rapporto fra le premesse dell’agire e l’agire, le premesse consce (delle quali, cioè, l’agente è consapevole e che dunque gli forniscono dei moventi) fossero sempre soggettive, allora l’azione — nella sua “verità”, ossia dal punto di vista

degli antecedenti inconsci o ignoti che oggettivamente la condizionano e che rappresentano la ragione effettiva del suo prodursi —- dovrebbe essere sempre inconsapevole. Noi potremmo esprimere questo risultato tanto negando che la realtà dell’agire sia razionale quanto riconoscendo entrambi i casi dovremmo

il suo essere inconscia.

In

dire che essa, è piuttosto “illogica”

che “logica”. Cioè dovremmo giungere, dalle premesse di Pareto, ad un rovesciamento del suo assunto. Ma se, sviluppate correttamente, queste premesse conducono ad un esito così paradossale, occorrerà

ridiscuterle.

E quello che, secondo

Croce,

deve essere ridiscusso, non è tanto il carattere inconsapevole dell’agire economico (ricordiamoci del futuro voluntas fertur in 74

incognitum), quanto la sua classificazione come attività “logi ca”. Basta, infatti, confrontare l’errore tecnico-conoscitivo con quello pratico per vedere che l’”incoscienza” è, in un caso, ‘“illogicità” e, nell’altro, ‘“irresolutezza”. Perciò, se una volontà de-

bole non comporta un difetto di logica, una volontà forte o autentica non avrà alcun bisogno della logica per determinarsi. Essa sarà, se si vuole, inconsapevole di ciò che la precede e dei suoi possibili esiti, ma non lo sarà mai di sé stessa e quindi neppure delle sue condizioni, perché queste non sono niente di ulteriore e di diverso da lei. Pertanto, l’agire in quanto tale — e dunque anche l’agire economico — non è né logico né illogico: è qualcosa d’altro rispetto ai termini di questa alternativa, che sarebbe obbligata solo se — come appunto ritiene Pareto — la natura dell’azione potesse essere decisa in basea quella dei moventi, e se, soprattutto, questi fossero nettamente distinti dalla volontà (così come, ugualmente, la volontà lo fosse da ciò che la deter-

mina). Non però nel caso che la volontà risultasse priva di moventi,

o meglio ancora, che fosse movente a se stessa.

A questo punto facciamo un altro passo avanti, sempre seguendo Croce, e cercando di vedere come adesso, dopo aver distinto l’economia dalla logica, egli passi a distinguerla anche dall’etica: è, come si ricorderà, fra queste due forme o attività dello

Spirito che l’utile ci è apparso, a suo tempo, impegnato a farsi largo. La distinzione dall’etica viene argomentata attraverso la confutazione di un secondo pregiudizio (il primo era quello per il quale il “principio economico” veniva talvolta confuso con il ‘fatto tecnologico”): quello secondo cui il fatto economico sareb-

be essenzialmente un fatto “egoistico”’!44, Egoistico, per Croce il fatto economico potrà anche esserlo, ma solo dal punto di vista dell’etica, cioè da un punto di vista morale. L’economico, preso per sé, non è né egoistico né altruistico (così come non è né logico né illogico) è, semplicemente, qualcosa d’altro (non-logico, non-morale)?45, Naturalmente, se non lo si prende per sé, cioè se non lo si considera nella sua autonomia e lo si valuta, quindi, 75

con un criterio ed un metro che sono diversi da quelli suoi propri, allora esso potrà apparire immorale, come, del resto, l’eti-

co, da un punto di vista economico, potrà apparire inutile. Sebbene Croce non sia così esplicito, i confini fra i due gradi dell’attività pratica sono ben delineati: ciascun grado riconosce solo se stesso e non l’altro, giudicando tutto secondo il suo metro (questo anche se l’etica, per trasformarsi in azione concreta, ha

bisogno di operare rispettando anche le leggi dell’utile, ossia quelle che fanno di qualsiasi azione, indipendentemente dal suo scopo, un’azione efficace). Ma rispetto alla logica e alla tecnica, per quanto, come abbiamo visto, apparentemente le cose stiano allo stesso modo, dobbiamo riconoscere che l'economia non si distingue con altrettanta nettezza. Ritorniamo al passo citato prima: “È errore tecnico — dice Croce in quel passo — l’ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare”. Dunque, nella definizione dell’errore tecnico, cioè di una delle forme sotto le quali sì presenta l’errore teoretico, Croce include un riferimento alla pratica: alla volontà e all’operare. Questo vuol dire una sola cosa: la tecnica è teoretica, non pratica, ma è una teoresi legata alla pratica e finalizzata ad essa. Ciò significa, ancora, che mentre economia ed etica in qualche modo si ignorano, come abbiamo visto, a vicenda, logica ed economia, o perlomeno tecnica ed economia, non possono ignorarsi. L'economia non può apparire illogica dal punto di vista della tecnica, né questa può apparire inutile dal punto di vista dell’economia. Si potrebbe rispondere che ciò dipende dal fatto che la logica è logica, ossia attività distintiva, esercizio del pensiero definitorio (come Croce dirà più tardi), e deve, dunque essere in grado, diversamente dalle altre forme, di dominare l’intero orizzonte dell’attività spirituale, sapendo attribuire ad ogni suo aspetto, il carattere che gli è proprio. Ma questa risposta non spiegherebbe che una metà della questione, lasciando inevasa l’altra metà. Infatti non'è solo la logica che qui è consapevole e rispettosa dell’autonomia del76

l’utile, ma è altresì questo, l’utile — cioè l'economia -, che è con-

sapevole e rispettoso dell’autonomia questa fase, della conoscenza).

tentasse di sostituirsi alla i suoi precetti (oppure — questa premessa ipotetica essa non conseguirebbe il

della tecnica (e cioè, in

Se non lo fosse, se l’economia

tecnica, di “fare da sola”, di ignorare cosa che non modifica il risultato di — se ignorasse davvero tali precetti), suo scopo: non essendosi armata degli

strumenti adatti, la volontà economica mostrerebbe, con ciò, di

non essere realmente tale e darebbe luogo non già all’aff ermazione ma alla negazione di se stessa.

Prima di poter tirare le somme di tutta questa complessa ed intricata questione, dobbiamo ancora esaminare, brevemente, il confronto che, suscitato da un intervento di Ulisse Gobbi nella

disputa fra lui e Pareto, Croce ebbe con l’economista lombardo a proposito del rapporto fra il “giudizio economico” e il “giudizio tecnico”. Gobbi aveva fondato la sua posizione nel campo della teoria economica sul principio della “convenienza”: per lui, che si muoveva, pur scostandosene per diversi aspetti, nel quadro dell’economia utilitaristica (come Pareto e Pantaleoni), l’agire economico doveva basarsi su un giudizio relativo a ciò che in ogni singola occasione è più o meno conveniente fare. Tale giudizio, a sua volta, doveva essere preceduto da un giudizio tec-

nico di “possibilità” e subordinato ad un fine. In questo modo, pur distinguendosi fra loro, l’attività teoretica (che si esprimeva nel giudizio tecnico), quella economica (che si esprimeva nel giudizio di convenienza) e quella morale (che definiva ed indicava i fini che si volevano perseguire) risultavano collegate secondo un rigido schema gerarchico!46, Le posizioni di Gobbi non potevano, evidentemente, ottenere alcun consenso da parte di Croce,

tutto intento a distinguere l’agire pratico da quello teoretico e, nell’ambito del primo, l’economia dalla morale. Innanzitutto, perché Gobbi riduceva queste diverse forme di attività a “giudizi”, ossia, dal punto di vista crociano, ad una sola ed identica LT

attività: quella logica. In secondo luogo, perché, per Croce, fra economia e morale non poteva esserci “subordinazione” (come voleva Gobbi), ma solo “implicazione’’!47, L'aspetto interessante della risposta di Croce sta in ciò che egli dice del giudizio tecnico sullo sfondo del rapporto intercorrente fra l’attività teoretica e la pratica, che ora incomincia a delinearsi meglio ai suoi occhi. Questo rapporto, infatti, non può essere di antecedenza della teoria rispetto alla prassi, ma deve, piuttosto, essere un rapporto di consecuzione della prima nei riguardi della seconda:

Qualche filosofo e qualche scuola filosofica hanno pensato che l’azione pratica dell’uomo sia preceduta da giudizi pratici o di valore. Il processo sarebbe: 1) Giudizio teorico “A è”. 2) Giudizio pratico: “A è buono” (o cattivo, utile

o dannoso, convenien-

te o sconveniente, ecc.). 3) Intervento della volontà, per dirigere l’azione secondo il giudizio n. 2. L’immaginario, in questo preteso processo, è il secondo stadio, il n. 2. Il n. 2 è effetto di illusione psicologica [...]. L'uomo che vuole, nell’attimo che vuole, non riflette sulla sua volontà. Ma nell’attimo seguente può dare alla sua accaduta volizione l’espressione teorica “Voglio A perché A è buono, o non voglio A perché A è cattivo” [...]. Ma giudizi pratici non esistono: i giudizi sono sempre teorici, e sono

teorici

ancorché

siano

teorici

del pratico,

ossia

abbiano come antecedente e materia le volizioni. Per dire che “la tal cosa è da volere o da non volere”, bisogna, anzitutto,

averla voluta o non voluta [...] Un’azione non la voglio perché è utile, ma è utile perché la voglio!48,

La critica di Croce si concentra su quello che Gobbi chiamava “giudizio di convenienza”: non c’è alcuna possibile convenienza prima che la volontà sia intervenuta a definire, volendolo, ciò che, in una determinata circostanza e per un certo indi-

viduo, è utile. È la volontà che erea il suo oggetto (il bene o il conveniente), per Croce come per Cartesio (il quale, tuttavia, conferiva, come si sa, questo potere solo alla volontà divina). In questo modo il giudizio, come atto teorico, finiva con l’occupa78

re una posizione stabile rispetto all’agire pratico: esso interve niva, come la filosofia secondo Hegel, sempre a cose fatte. Tuttavia, se il giudizio, come atto teorico — in quanto, è ovvio, prendesse ad oggetto l’attività pratica — risultava così necessa riamente un posterius rispetto alla volontà, che ne era di quella antecedenza del teoretico, inteso come tecnico, nei confron ti del-

l’agire economico, alla quale Croce, lo abbiamo visto, accenna va, in qualche modo, nella prima lettera a Pareto? Ricordiamoci di due battute che si incontrano in quella lettera: secondo la prima “volere non è ragionare, ma il volere suppone il pensiero e perciò la logica”149, mentre per la seconda l’errore tecnico consisterebbe nell’ “ignoranza delle leggi della materia sulla quale vogliamo operare”150. Ebbene, questa antecedenza del tecnico, questa condizionalità della conoscenza

(che non deter-

mina il volere, ma predispone le condizioni perché esso possa esprimersi: per volere qualcosa bisogna innanzitutto conoscere questo qualcosa; conoscere la sua natura e le possibilità che essa ci offre — che offre alla nostra volontà — di intervenire su di esso), questa condizionalità tecnica del conoscere si presenta ora come “situazione’’!51 (Croce aveva già introdotto questa definizione della tecnica nelle Tesi fondamentali di un’estetica!2, e Gobbi lo ricorda nel suo intervento!53). Per Gobbi, il giudizio tecnico faceva seguito a quello scientifico e rappresentava, per così dire, una specie di ponte fra questo e il giudizio di convenienza. Ora, secondo Croce,

Il fatto tecnico è così poco un giudizio nel senso del Gobbi, una sottospecie dei giudizi scientifici, che, allorquando prende forma teorica, si esprime (a sua stessa confessione) con un discorsetto in cui sono combinati elementi scientifici ed elementi storici. [...] Il discorsetto descrittivo di quanto è accaduto nello spirito è ciò che può succedere al fatto tecnico, e non è il fatto tec-

nico. Questo non è un discorsetto o giudizio; ma (non saprei mutar la parola) una situazione, la quale, esprimendosi teoricamente, ‘non può non esprimersi per proposizioni, per giudizi

[...]. Il mondo della tecnica è il mondo stesso teorico, della con79

templazione, della scienza e della storia [...]. Se lo si chiama tecnico non è già perché le sopraindicate conoscenze possono mai cangiar la loro natura, ma semplicemente perché sopravviene un nuovo fatto (l’azione pratica), che prende queste cono-

scenze come base di operazione [...]!®*.

Dunque il “fatto tecnico” non è un giudizio, esso, apparte-

nendo alla sfera teoretica, si esprime attraverso giudizi, ma il giudizio non è, come è invece per i fatti teorici veri e propri, la sua forma naturale. A tal punto non lo è, che Croce stesso dice che esso sì manifesta per mezzo di giudizi — ed anzi, per mezzo

di un “discorsetto”, nel quale rientrano giudizi diversi, in parte scientifici, in parte storici — solo “allorquando prende forma teorica”. E quando non prende questa forma? Quando non prende questa forma esso è una semplice « “situazione”. Che cosa vuole dire qui Croce e perché ricorre a questo termine? Ricaviamo una risposta a tali domande nel modo più chiaro dalle Tesi fondamentali di un'estetica: La cieca volontà non è attività pratica: la volontà vera è occhiuta. L'attività pratica è preceduta dal fatto tecnico: il quale non è altro che la conoscenza stessa in quanto è immediatamente seguita dalla volontà. Erroneamente perciò si suol talvolta concepir la tecnica come un'attività media tra la teoretica e la pratica [...]. Il tecnico non è concetto di una nuova attività, ma indica una situazione in cui può trovarsi l’attività teoretica

PS In altri termini: siamo sulla via che condurrà gradualmente

Croce ad assorbire il tecnico nell’economico. Per quanto, infatti, il tecnico continui qui ad essere ascritto all'ambito teoricoconoscitivo, è chiaro che il suo legame con la volontà individuale, pratico-economica, (0 con la volontà senz'altro) è più stretto

di quello di qualunque altro fatto teorico. Esso, del resto, non è neppure una conoscenza particolare (come la scienza o la storia) ma un modo d'essere di qualunque conoscenza (una “situazione”

80

in cui qualunque

conoscenza

può venirsi

a trovare),

in

quanto essa preceda immediatamente l’attività pratica e la orienti, ossia in quanto non stia per se stessa, ma rappresenti un antefatto, una condizione dell’agire pratico (che se deve essere autonomo e non condizionato da altro, dovrà includere le proprie condizioni in se stesso, cioè nel suo ambito!56). Come abbiamo detto in precedenza, l’utile si fa strada fra la logica e la morale, prendendo qualcosa un po’ dall’una e un po” dall’altra. Dall’etica esso ricava la competenza su tutti quegli aspetti della vita pratica che hanno relazione con la sfera sociale. In più, lo abbiamo visto a proposito della discussione condotta da Croce con i sostenitori dell’identità di economia ed egoismo, di questo grado della vita pratica dello Spirito esso assorbe, o meglio recupera (meglio ancora — almeno per quello che si può dire con riferimento alla fase dell’evoluzione del pensiero di Croce di cui cì stiamo occupando — si appresta a recuperare) il negativo.

Trasformandolo in positivo: ciò che dal punto di vista morale è egoistico e censurabile, dal punto di vista economico potrebbe

essere la corretta applicazione di una massima volta a perseguire, da parte di un individuo qualsiasi, il proprio utile soggettivo. È lo schema concettuale che condurrà Croce a teorizzare l’origine pratica dell’errore e, in generale, la natura pratico-utilitaria di tutto ciò che nelle altre sfere appare negativo. Dalla logica l'economia, lo abbiamo appena detto, tenderà a

recuperare la dimensione tecnica, presto allargata a quella tecnico-scientifica. Si tratta, come è noto ad ogni conoscitore del pensiero di Croce, di quell’area tematica nella quale, seguendo

anche suggestioni di ispirazione pragmatistica, egli farà ben presto rientrare tutte le indagini fondate sui metodi delle scienze positive: osservazione empirica, analisi e astrazione. In quest’area rientreranno successivamente anche tutti quegli aspetti della vita sociale — come la politica, il diritto, la sfere delle istituzioni pubbliche — che, sottratti, come abbiamo visto, in un primo tem-

po all’etica; si sveleranno,

progressivamente,

insuscettibili di

trattazione filosofica, sia pure nel senso di una filosofia pratica. 81

A conti fatti, dalle altre sfere l’economia ricava, quindi, fonda-

mentalmente, due ordini di oggetti: quelli che altrove rappresentano il negativo (l'opposto della forma, l’irreale), e quelli che nelle altre sfere costituiscono l’empirico. Le due cose non coincidono — anche se si può, a tratti, avere l’impressione di sì —, così come non coincidono, nella sfera logica, l’errore e lo pseudoconcetto. Questa diversità discende proprio dal modo in cui, negli scritti su Marx e dintorni, la categoria dell’utile si è venuta dipanando fra logica e morale. Essa sta tutta, in fondo, nella differenza, che la prima lettera a Pareto fa emergere, fra la con-

futazione che Croce svolge della tesi volta a identificare il fatto economico con il fatto tecnico, e la confutazione, non meno net-

ta, ma diversa, dell’identità di economia ed egoismo. Ora, questa differenza apre, all’interno della prima e più elementare categoria del volere, una frattura e quindi un problema, che potremmo riassumere come segue. Se il negativo delle tre sfere (estetica, logica, etica) che eccedono

l’ambito

dell’economico

e

contribuiscono, con questo, a definire l’articolazione completa delle distinzioni dello Spirito, rientra, come positivo, nella sfera

dell’utile (se quest’ultima, in altre parole, rappresenta l’orizzonte nel quale ciò che altrove è negativo appare come positivo), allora, ugualmente, si dovrà dire che il negativo dell’economia — il disvalore economico, l’inutile — è positivo in una o nell’altra delle sfere restanti. Ma per l’empirico (l’altro oggetto che l’utile, assumendo progressivamente la propria identità categoriale, deve recuperare all’ambito della considerazione filosofica), si potrebbe dire altrettanto? e cioè che, essendo, quello che appare come empirico nelle altre sfere, spirituale (ossia un prodotto dell’attività dello Spirito) nella sfera dell’utile, ciò che dovesse apparire come empirico in questa sfera sarebbe spirituale in una delle altre? Avrebbe forse senso dire che una legge pubblica — il cui scopo è la definizione dei confini entro i quali ciascuno può muoversi liberamente alla ricerca del proprio vantaggio’ personale senza interferire con l’analogo diritto che deve essere rico82

nosciuto ad ogni altro individuo — che una tale legge o norma sia in realtà (al di là della sua apparenza empirica e pseudoconcettuale) il prodotto, per es. di un atto etico (o di un atto logico o di un atto estetico)? Certamente non avrebbe alcun senso, almeno

dal punto di vista di Croce. L’universalità di una simile legge sarebbe, infatti, un’universalità astratta, e quindi irriducibile all’individualità concreta, che è il carattere essenziale e costitu-

tivo di ogni atto dello Spirito come tale, indipendentemente dalla sua natura. Un atto di questo genere sarà rappresentato magari dall’adozione della massima per mezzo della quale il singolo individuo assume e fa propria, adattandola alle sue esigenze, una norma come quella che regola la sfera delle azioni socialmente lecite. O meglio sarà l’atto della volontà soggettiva per mezzo del quale l’individuo deciderà di agire secondo questa regola empirica. Ma l’atto non sarà, evidentemente, la regola stessa. Né, soprattutto, questa sarà mai l’atto, il quale la include e, includendola, la trasfigura. 7. Conclusione. Il nostro esame di alcuni dei saggi (in sostanza di tutti quelli rivolti specificamente a discutere la teoria del valore e il problema del principio economico) che Croce riunì nel volume dedicato a Marx e al marxismo ‘alla fine del XIX secolo,

e comprendente, con le aggiunte successive, scritti redatti negli anni che vanno dal 1896 al 1906157, ci ha condotti a qualche conclusione? Perché se questo fosse il caso, sarebbe finalmente venuto

il momento

di tirare le somme.

Ma

innanzitutto,

e in

generale, si può, nell’esame filosofico di un testo realmente filosofico, giungere mai ad una conclusione? E d’altra parte, si tratta poi davvero, in questo caso, di testi “realmente filosofici”?

Nonostante essi affrontino temi di carattere più che altro econo-

mico (ed anche, per alcuni di essi, di natura abbastanza “tecnica”), riteniamo di poter dire che questi scritti risultano filosofici se vengono-letti, come qui si è cercato di fare, avendo lo sguardo rivolto ai loro esiti nell’opera successiva di Croce. Da questo 83

punto di vista, la risposta alla domanda relativa alla possibilità di giungere ad una conclusione in un’indagine che abbia per oggetto un testo filosofico ha — almeno con riferimento ai saggi che sono stati esaminati qui su — in-se stessa la sua risposta: una lettura filosofica di questi testi è tale solo se è in grado di fare emergere la loro tensione speculativa, e questo è, a sua volta, possibile a condizione di saperne condurre l’esame verso quell’esito al quale è indirizzata la cosa stessa come alla sua naturale conclusione. In questo caso, com'è ovvio, l'esito non può che essere quello rappresentato dalla ormai più che imminente Filosofia dello Spirito. Un tale orientamento dell’esame a partire dal futuro del proprio oggetto è caratteristico e merita una riflessione. Esso sta, innanzitutto, ad indicare questo: che gli scritti contenuti nel volume crociano sul marxismo risultano molto più interessanti nella prospettiva degli sviluppi ai quali, prendendo le mosse dalle considerazioni sul principio filosofico della scienza economica consegnate alle loro pagine (oltre che da quelle concernenti la storia e l’arte, esposte nella memoria del 793), il pensiero di Croce andrà soggetto nel decennio immediatamente successivo, di quanto non lo siano nell’ottica di una comprensione o di un approfondimento del significato dell’opera di Marx. In secondo luogo, questo orientamento dell’indagine non fa altro che sottolineare un’ovvietà, ossia il fatto che il decennio seguente — quello, per intenderci, che va dal 1900 al 1909 — rappresenta, nell’evoluzione della filosofia crociana, un periodo decisivo, nel quale Croce elabora e porta ad effetto il piano del suo sistema, pubblicando i primi tre dei quattro volumi che costituiranno la Filosofia dello Spirito, ossia |’ Estetica, la Logica e la Filosofia della pratica: sì tratta di un periodo che non può non illuminare, retrospettivamente, con la propria luce, tutto ciò che lo precede (così come ai suoi risultati deve, per altro verso, essere rapportato tutto quello che lo segue). Gli scritti di Croce su Marx sono molto più interessanti, dice-

vamo, se vengono letti in questa prospettiva anziché in quella 84

dell’interpretazione che forniscono di alcune categorie del Capitale. Rispetto al compito di interpretare il pensiero marxiano, infatti, occorre dire che le analisi di Croce non riescono

ad essere sufficientemente persuasive. In particolare, la teoria della legge del valore-lavoro come “paragone ellittico” coglie solo uno dei due aspetti — quello più rilevante dal punto di vista

politico-ideologico, che non è però il più rilevante dal punto di vista teorico — che nell’opera economica di Marx si contaminano e sì sovrappongono. Soprattutto, coglie questo aspetto confondendolo con l’altro (come fa lo stesso Marx), a dimostrazione del

fatto che fra Marx e Croce sussiste, a proposito della contaminazione

involontaria

riguarda il contenuto

di morale

e scienza,

delle tesi, ma

un’analogia

che non

piuttosto l'atteggiamento

filosofico generale, contraddistinto, per entrambi, dall’adesione

ad una metafisica di tipo “umanistico”, secondo la quale il solo ed unico valore è rappresentato dall’uomo o dallo Spirito (ma da questo esclusivamente in quanto Spirito umano). Per quello che riguarda poi la critica alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, la posizione di Croce è condivisibile essenzialmente soltanto nel suo essere, appunto, una critica, ovvero nel suo atteggiamento di sostanziale rifiuto della validità della legge, come pure nel rilievo che essa, almeno‘indirettamente, assegna al tema del rapporto fra innovazione tecnica e incremento della produttività del lavoro. Ma è difficilmente accettabile per ciò che concerne il suo assunto di fondo, ossia la tesi che un peso

accresciuto del fattore meccanico nel processo produttivo non condurrebbe ad un’alterazione della composizione organica del capitale a vantaggio del capitale costante rispetto a quello variabile. Anzi, proprio il fatto che la confutazione della legge debba passare, secondo Croce, attraverso il rifiuto di ammettere quel-

lo che già allora era del tutto evidente, vale a dire che il progresso tecnico comporta, unilateralmente, l'aumento del peso relativo de} lavoro meccanico rispetto a quello umano, proprio questo fatto attesta una volta di più quello che abbiamo appena 85

detto, ossia la forza dei pregiudizi umanistici sulla base dei quali Croce conduce l’analisi di Marx. . Lette in una prospettiva futura, tuttavia, l’interpretazione della teoria del valore-lavoro come paragone ellittico e la critica della legge di caduta del saggio del profitto mostrano una certa coerenza anche dal punto di vista del dibattito interno al marxismo della Seconda Internazionale. Una coerenza che allora doveva sfuggire allo stesso Croce e che sicuramente non faceva consapevolmente parte delle sue intenzioni: attraverso una lettura che simultaneamente, da un lato, ridava peso — senza peraltro che, in un primo momento, egli stesso se ne rendesse neppure conto — alla dimensione etica (e quindi politico-ideologica) del pensiero marxiano, e, dall’altro, ne toglieva, svalutandola radicalmente, alla tesi del crollo necessario e spontaneo del sistema capitalistico, Croce si inseriva, di fatto, in una corrente interpretativa che nel secolo che stava per iniziare si sarebbe affermata innanzitutto in ambito “revisionista”, ma che avrebbe poi anche gettato ì suoì semi nel campo opposto, quello del marxismo rivoluzionario, privilegiando, dei due aspetti presenti nel Capitale, il lato della soggettività politica (così incline in certi casì ad accentuare la propria spinta fino a sfociare in una specie di volontarismo etico) piuttosto che quello scientifico-filosofico (destinato ad attestarsi sul terreno della pura teoria e a tradursi, politicamente, in qualcosa di molto simile ad una forma di attendismo storico). Da questo punto di vista, la vicinanza a Labriola, è molto più marcata di quanto le loro occasionali polemiche e i loro dissensi su questo o quel punto, non indurrebbero a credere. Molto di più di quanto, in definitiva, lascerebbe supporre l'accusa di distacco e di indifferenza per il fattore politico-ideologico che nelle sue lettere maggiormente polemiche Labriola rivolge spesso a Croce. Il fatto è che Croce, allora, andava districando con fatica un groviglio di questioni che egli desumeva dal dibattito culturale europeo contemporaneo è ‘nel ri-

spondere alle numerose sollecitazioni che gli venivano da questo 80

dibattito aveva

iniziato a declinare, a modo

suo, la differenza’

fra scienza e morale. Che in questa distinzione potesse introdursi, sulle prime, qualche motivo di incertezza e di equivocità, non può e non deve destare sorpresa, tanto più che una sua conseguenza accidentale, ma di primaria importanza per permettere al pensiero di Croce di definire quello che sarà il suo profilo caratteristico, è rappresentata dal graduale emergere, fra Vattività conoscitiva e quella rivolta al perseguimento del bene, di un'attività economico-utilitaria, che avrebbe dovuto, poco per volta,

raggiungere

uno

status

categoriale

compiutamente

auto-

nomo, privo di soggezioni e di complessi nei confronti di quello di cui già godevano le altre espressioni dello Spirito. È proprio rispetto a questo processo che il ruolo del confronto con Marx assume tutto il suo consistente rilievo nel quadro della formazione intellettuale e filosofica di Croce: se scienza ed etica non fossero state chiamate a distinguere i rispettivi ruoli sullo sfondo delle suggestioni provenienti dalla riflessione rivolta ai temi dell’economia teorica e della politica, e soprattutto dalla lettura del Capitale, tra di esse si sarebbe mai incominciato

a intrave-

dere qualcosa come il volto dell’utile? Probabilmente no, sebbene al suo emergere abbia dato un contributo decisivo, oltre a Marx, anche Machiavelli, filtrato attraverso De Sanctis. In que-

sto modo, d’altra parte, l’utile emergeva

con dei tratti che lo

candidavano subito a ricoprire un ruolo tanto decisivo quanto complesso e problematico nel quadro del pensiero maturo di Croce. Sono questi tratti che ne fanno una via d’aecesso privilegiata alla filosofia crociana per tutti coloro che nel tentativo di comprendere questa filosofia non intendono ripercorrere le strade, già tanto battute, della retorica e del commento edifican-

te, per un verso, della semplice liquidazione, per l’altro! Su questo nuovo terreno il pensiero di Croce può riservare sorprese davvero paradossali, come quella — alla quale abbiamo implicitamente accennato alla fine del paragrafo precedente — rappresentata dall’emergere, in esso, di un aspetto inconsapevol87

mente “parmenideo” o “eleatico”, traducibile nella tesi, presente nella filigrana di questo pensiero, dell’impossibilità di ricomprendere fino in fondo la dimensione empirica entro l’orizzonte della filosofia e dei valori, e dalla conseguente sciarla parzialmente

sussistere,

in forma

necessità di la-

residuale,

come

una

sorta di “irrelato doxastico”’159. In questo aspetto si può allora intravvedere qualcosa come una sotterranea disposizione antimetafisica della riflessione crociana. Disposizione diversa e più complessa rispetto a quella — rivendicata spesso da Croce, ma estrinseca e superficiale (tale, cioè, da non incidere sulla natura ancora

sostanzialmente

metafisico-umanistica,

come

abbiamo

visto, del suo orientamento di pensiero e del suo impianto filosofico) — che soprattutto nelle pagine da lui dedicate al ruolo metodologico della filosofia ha più volte trovato espressione attraverso le reiterate denunce del concetto dell'Essere, dell’unico, eterno problema della Verità, della figura, astratta e sequestrata dal mondo e dalla storia, del “Filosofo”. Una disposizio-

ne che trapela già dall’interpretazione con la quale, sia pure mancando completamente il bersaglio, nell’affrontare il significato della teoria del valore di Marx, Croce svela 0, con più esat-

tezza, fa trasparire, senza volerlo e senza rendersene conto, l’ipoteca metafisico-essenzialistica che grava sull’impianto teorico

del Capitale e soprattutto sul concetto di “sfruttamento”. Il pensiero di Croce può riservare sorprese di questo genere, ma esclusivamente a coloro che sappiano riconoscerne il senso

meno evidente, e siano perciò disposti a raccogliere e rilanciare, con una spregiudicatezza capace all’occorrenza di mostrarsi anche incauta e di non farsi vincere dalla perplessità, la sfida di un paradosso che non è certo documentato dalla lezione esplicita del testo crociano. Ben oltre, quindi, e al di là non solo della

lettera, ma anche delle intenzioni che possono e devono essere plausibilmente attribuite a chi, avendolo innanzitutto concepi-

to, di questo pensiero fu anche il primo testimone ed interprete.

Senza dubbio 88

molto più segnato in questo secondo

ruolo di

quanto non lo fosse nel primo dai limiti della mentalità e della cultura delle quali era, a suo modo — e cioè in modo certo non

comune — egli stesso partecipe, come tutti i suoi contemporanei.

Appendice. Nel quadro della discussione dedicata più sopra — nella nota 104 — al saggio di Morpurgo-Tagliabue concernente l’obiezione rivolta da Croce alla legge di caduta tendenziale del saggio di profitto, abbiamo fatto riferimento alla rivendicazione di priorità accampata da Arturo Labriola nei confronti di Crocè riguardo alla critica di questa legge marxiana e all’argomentazione con la quale Croce la sviluppa. Il fatto che Morpurgo avalli, in sostanza, tale rivendicazione, palesemente infondata (almeno con riferimento al modo in cui le due analisi sono condotte), merita e nello stesso tempo richiede un esame più ravvicinato di tutta la vicenda. È innanzitutto una ricostruzione del contesto nel quale essa si inserisce. : Labriola sviluppa la propria critica della legge nel terzo capitolo di una memoria sulla Teoria del valore di Marx che venne da lui redatta per presentarla ad un concorso destinato a premiare un contributo sul III volume del Capitale. Nel 1897, l'Accademia Pontaniana, su suggerimento di Croce, decise di assegnare questo come tema per il conferimento dell’annuale Premio Tenore. Croce, che esaminò i due lavori in

concorso (oltre a quello di Labriola, era stato presentato un saggio di Vincenzo Giuffrida) ed espresse in una relazione redatta allo scopo le conclusioni della commissione, valutò comparativamente più equilibrata la memoria di Giuffrida, anche se il suo giudizio su quella di Labriola non è poi così severo come sostiene Morpurgo (cfr. L’obiezione di Benedetto Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, cit., p. 176). Anzi, la sua relazione — che comunque era stata redatta “al buio”, visto che gli scritti da valutare erano stati letti e giudicati senza che la commissione conoscesse i nomi degli autori, depositati in busta sigillata da aprirsi solo a concorso ultimato — si mostra, nei confronti del saggio di Labriola, critica sì (come del resto anche nei confronti di quello di Giuffrida), ma non sprezzante, e, per alcuni aspetti addirittura benevola (“La forma di questo secondo lavoro è spesso notevole per vivacità e facilità di esposizione...”, Relazione sulle memorte inviate pel Premio Tenore, cit., p. 16). La bocciatura di Labriola non nasceva, dunque, da prevenzione e ostilità personale, e 89

sebbene dall’esame espresso nella relazione risulti un certo equilibrio fra le due memorie, ciò che fece alla fine pendere il piatto della bilancia a favore di Giuffrida fu il maggior ordine espositivo e la maggior scrupolosità, anche nell’avanzare critiche, obiezioni e riserve, riscontrabile nel suo studio. Ragioni, quindi, fondamentalmente di carattere metodologico e, in senso lato, “stilistico”. A meno di supporre che Croce fosse venuto in qualche modo a conoscere i nomi dei concorrenti. Ma più di un’ipotesi come questa, che senza prove documentali sarebbe temerario e offensivo avanzare, si potrebbe, se proprio si volesse accreditare la tesi di un giudizio prevenuto da parte di Croce nei confronti della memoria di Labriola, ricordare che in essa — e precisamente nel capitolo conclusivo dedicato alla caduta del saggio di profitto — l’analisi svolta da Croce sui testi di Marx viene giudicata, in una nota — della quale la relazione di Croce non fa alcun cenno, e per il cui contenuto si veda ciò che verrà detto più avanti —, con tanta asprezza da rendere plausibile supporre in Labriola qualcosa come un vero e proprio intento provocatorio. Per sostenere, tuttavia, che la lettura di queste righe possa aver maldisposto Croce nel suo giudizio, occorrerebbe escludere la possibilità che la nota in questione sia stata aggiunta successivamente, nella redazione del testo predisposta da Labriola per la stampa. Cioè occorrerebbe confrontare il saggio pubblicato in seguito (cfr. Arturo Labriola, La teoria del valore di C. Marx, MilanoPalermo, 1899) con l'originale effettivamente presentato alla commissione del concorso. Cosa piuttosto difficile. In primo luogo, perché per fare questo

sarebbe,

com’è

ovvio,

necessario

ritrovare

possibil-

mente proprio la copia della memoria letta e magari annotata da Cro-

ce. In secondo luogo, perché l’unica sede nella quale avrebbe senso condurre una simile ricerca (a parte la biblioteca di Croce, dove non c’è traccia del documento

concorsuale), ossia l'archivio dell’ Accade-

mia Pontaniana, per quanto concerne la documentazione precedente la fine della seconda guerra mondiale, è andato distrutto nel 1943. A parte queste considerazioni, una ragione della preferenza accordata al saggio di Giuffrida si può cercare nella posizione relativa alla teoria del valore. Giuffrida, sebbene tale àspette non venga rilevato espressamente nelle conclusioni della Commissione ma sia desumibile solo dall’insieme della relazione stilata da Croce, era un critico della teoria del valore di Marx, e, diversamente

da Labriola,

non pensava

che essa potesse rivestire il ruolo di teoria generale del valore. Quindi,

90

per questo verso, la sua memoria doveva apparire a Croce indubbiamente più apprezzabile dell’altra. Per quanto poi riguarda, in particolare, la critica della legge di caduta del saggio del profitto svolta da Labriola nella sua monografia, Croce si limita a riesporla senza, prati-

camente, aleun commento, salvo quello finale che concerne gli esempi storici dei quali Labriola si serve per illustrare le sue tesi, esempi che

Croce giudica talvolta avventati, ma forse intendendo riferirsi all’inte-

ra memoria e non solo a questa parte conclusiva. In ultima analisi, si può quindi affermare che Croce non mostra un più accentuato interesse per questa particolare sezione del lavoro di Labriola, mentre, con riferimento allo stesso tema svolto in modo meno critico da Giuffrida,

egli osserva che la legge avrebbe potuto apparire all’estensore della “prima memoria” (cioè, appunto, Giuffrida) “molto più erronea di quanto egli creda” se solo avesse dedicato più specifica attenzione al suo aspetto teorico, tenendolo distinto e separato da quello storico (cfr. Opi citi, pr9).

F

Indubbiamente, l’esame della legge svolto da Labriola è piuttosto contorto e i concetti che vi sono esposti e spiegati risultano connessi in modo spesso troppo schematico. Nonostante questo, la sua critica si basa su un argomento più convincente di quello di Croce, ma soprattutto, decisamente diverso, se non addirittura opposto. Labriola esamina varie possibilità e combinazioni, a seconda che l’innovazione tec-

nica sia introdotta in un settore o nell’altro della produzione sociale. Da tutte le ipotesi prese in considerazione risulta sempre che la caduta o non

si produce o è contrastata (ma necessariamente

e non in modo

accidentale come pensava Marx) da altri fattori. Solo nello sviluppo del terzo caso (l'ipotesi c), viene suggerita la possibilità che un aumento contemporaneo della forza produttiva del lavoro nei due settori che producono, rispettivamente, beni di consumo per i capitalisti e per gli operai, dovuta ad un aumento del capitale costante, richieda l’impiego di una forza-lavoro aggiuntiva. Ipotesi che sembra avere in comune con quella di Croce l’idea di una composizione organica che, in conseguenza del progresso tecnico, rimane stabile o diminuisce, ma dalla quale Labriola trae tutt’altre conseguenze, visto che per lui l’incre-

mento della spesa in salari si rifletterebbe in una contrazione del consumo dei capitalisti e quindi in una sovrapproduzione nel settore dei beni di lusso» Essa avrebbe perciò, come risultato, il trasferimento di

capitali da questo settore a quello dei beni-salario con conseguente tra-

91

sferimento, in questo, della sovrapproduzione generata nel primo settore, una diminuzione dei prezzi delle merci legate al consumo operaio e, infine, per questa via, una diminuzione dei salari, parzialmente — ma solo parzialmente, perché la sovrapproduzione si riflette in modo negativo non solo sui salari ma anche sugli utili delle imprese — compensativa di quella dei profitti. Le varie ipotesi di Labriola (compresa questa) conducono così alla conseguenza generale che la caduta del saggio di profitto, là dove si verifica, dipende da un eccesso produttivo, ossia di offerta, che si determina in uno o più settori come conseguenza del progresso tecnico, quindi, piuttosto dalle leggi della concorrenza e della circolazione che non da quelle della produzione e dal mutamento della composizione organica del capitale. Naturalmente, dipendendo da questi fattori, essa dipende da qualcosa, come uno squilibrio fra domanda e offerta, che, se si inserisce in una tendenza, sì inserisce in quella al ristabilimento spontaneo dell’equilibrio alterato e dunque anche del saggio di profitto, piuttosto che nella tendenza ad un decremento progressivo e inarrestabile di questo stesso saggio (pp. 237-47). Come abbiamo detto, Morpurgo Tagliabue accetta per buona la rivendicazione di paternità della critica alla legge, che Labriola avanza nei confronti di Croce in un contributo successivo (efr. Studio su Marx, Napoli 1908, pp. 147-48, n.) per contestare la priorità assegnata a Croce da Tugan-Baranowsky nelle sue Theoretische Grundlagen des Marxismus,

cit. Anche Labriola è, tuttavia, costretto ad ammette-

re la differenza dell'argomento usato da Croce, dicendo che la sua (di Croce) esposizione sarebbe stata mantenuta da lui “artificialmente un po’ diversa” dalla propria, pur restando, a suo dire, identica nelle conclusioni. La ragione del credito che Morpurgo concede alla rivendicazione di Labriola, stando almeno alla citazione di un passo che egli adduce a sostegno di questa, nasce da un equivoco. Il passo si trova alle pp. 230-31 del saggio di Labriola (e non a p. 320, come, per un evidente refuso, si dice nell’articolo di Morpurgo, cfr. op. cit., p. 178, n. 5) e vi si legge che una riduzione del tempo di lavoro necessario alla produzione di una certa merce, liberando forza-lavoro insieme alle risorse necessarie per il suo mantenimento, ne consentirebbe il reimpiego in un altro settore produttivo. Apparentemente, l’argomentazione ricorda molto da vicino quella di Croce, ma il fatto è che essa si riferisce non all’ipotesi di una società capitalistica (che è quella in cui la inserisce Croce, servendosene per dimostrare l'insussistenza del fenomeno della

caduta del saggio di profitto) bensì a quella di una società comunista,

nella quale non essendoci profitto (cioè appropriazione privata del plusvalore) non può esserci neppure una caduta del suo saggio. Con la conseguenza che, dunque, nell’impostazione di Labriola, essa non serve affatto a dimostrare l’infondatezza della legge. Lo scopo di Labriola, nell’impiegarla, è piuttosto quello, verosimilmente, di stabilire un confronto fra gli effetti che l'evoluzione dei metodi produttivi e della tecnica applicata alla produzione avrebbe in una società comunista e quelle che essa ha di fatto nella presente società capitalistica. Pertanto, una simile supposizione non cade, come cade, invece, quella di

Croce, sotto la critica che, come abbiamo visto, già a suo tempo Marx aveva rivolto contro i sostenitori (Mill, MacCulloch, Senior ecc.) dell’argomento del reimpiego della forza-lavoro “risparmiata” grazie all’adozione delle nuove tecniche. L’ipotesi di Labriola, infatti, è che

l’innovazione tecnica e il risparmio di forza-lavoro si realizzi in un settore il cui prodotto è consumato dai produttori stessi. Di conseguenza, il medesimo prodotto, realizzato con minor dispendio di lavoro, consentirà, almeno virtualmente, lo stesso consumo di prima, e perciò il

sostentamento degli stessi lavoratori, una parte dei quali, quella resasi superflua nel settore sottoposto ad innovazione, potrà applicarsi a settori merceologici diversi. Questo argomento non avrebbe alcun senso in un sistema economico di tipo capitalistico, ma ne ha uno assai chiaro se lo si riferisce ad una ipotetica società comunista, nella quale le risorse sono socializzate: il progresso tecnico-produttivo ha in questo caso, come beneficiario diretto ed immediato, l’insieme del corpo sociale. Qui, come si vede, se c’è un’influenza, questa'è casomai di Croce su La-

briola (che infatti conosceva il saggio crociano del ?97 — giacché lo cita polemicamente, come abbiamo già ricordato, in una nota di questo terzo capitolo del suo contributo — e di conseguenza la teoria del paragone ellittico), piuttosto che il contrario. In realtà, se si esamina ciò che nella memoria del 1898 Labriola af-

ferma conclusivamente a proposito della propria analisi della caduta del saggio di profitto, ci si rende conto del fatto che in comune con la sua la posizione di Croce ha solo questo aspetto: di essere una critica della legge. Labriola, infatti, tirando le somme alle pp. 244-47 del suo scritto sostiene che la caduta del saggio sarebbe, a “popolazione operaia costante?; il semplice effetto dell’accumulazione (per via della cre-

scita dei valori) solo se il rapporto

fra capitale costante e capitale

93

variabile restasse inalterato. A questa tendenza i capitalisti reagirebbero aumentando la quota relativa del capitale costante, il cui incremento, dunque, lungi dal determinare la caduta del saggio di profitto, secondo Labriola servirebbe a contrastarla. Aumentando nella stessa proporzione la forza-lavoro, si avrebbe, invece un incremento della domanda di questa merce e un conseguente innalzamento del saggio dei salari, cosa che significa diminuzione del saggio di profitto. Come si vede, l’argomentazione,

sebbene miri allo stesso scopo — contestare,

ripetiamo, la validità della legge enunciata da Marx — si fonda su un presupposto non semplicemente diverso ma addirittura contrario rispetto a quello di Croce, ed è, bisogna riconoscerlo, come si è detto,

nel complesso più convincente, in quanto rileva come il risparmio di lavoro vivo e l'aumento di produttività che le innovazioni tecniche comportano si traducano tendenzialmente, in regime capitalistico, non in un semplice aumento della massa di plusvalore (come sosteneva Marx) ma in un aumento del saggio di sfruttamento del lavoro e quindi anche (proporzionalmente) del saggio di profitto. Insomma, l’argomento di Labriola mette in luce, di fatto, che se c’è una tendenza lega-

ta al processo di innovazione continua delle tecniche produttive, questa è una tendenza all’aumento e non alla diminuzione del rapporto fra utile netto e capitale complessivamente investito, e che quando questo non accade, ciò è dovuto ad un effetto collaterale dell’incremento della

composizione organica, ossia ad un eccesso di produzione. Incidentalmente, si può inoltre osservare che la diminuzione dei prezzi, legata, sia nell’ipotesi di Labriola sia in quella di Croce, all’incremento della produzione (e quindi dell’offerta), dà luogo nell’uno e rispettivamente nell’altro a conseguenze contrarie, perché per Croce essa, agendo sulla composizione organica nel senso di contrastarne la crescita, si oppone alla caduta del saggio di profitto, mentre per Labriola, traducendosi in quote di merce invenduta o venduta sottocosto (per effetto della sovrapproduzione) è la vera causa (anche se solo occasionale e non tendenziale) di questa caduta.

Quello che dunque, per concludere, si può dire a proposito dell’influenza esercitata da Labriola su Croce è che essa, per quanto riguarda gli argomenti impiegati dall’uno e dall’altro, non ci fu, che non è in nessun modo documentabile. Mentre è possibile che se uno spunto a riflettere ulteriormente sul tema della caduta del saggio ti profitto venne offerto a Croce anche dalla memoria di Labriola, questo potreb-

94

be essere stato occasionato non tanto dalla trattazione che il suo terzo capitolo dedica al tema, quanto eventualmente dalla critica, sprezzante e sarcastica, che Labriola rivolge a Croce, in una nota di questo stesso capitolo (la n. 3, posto, naturalmente e come abbiamo già sottolineato all’inizio, che essa non sia stata aggiunta in seguito), a proposito di un accenno alla caduta del saggio di profitto fatto incidentalmente da Croce, in un contesto all’apparenza tutt'altro che critico, nel saggio del ‘97. Qui Croce sottolineava il fatto che il progresso tecnico, secondo le indicazioni di Marx, in una società capitalistica si traduceva in un abbassamento del saggio di profitto (cfr. Materialismo storico..., p. 66). In questo stesso passo viene formulato anche il proposito di dedicare uno specifico esame critico al problema, in un’altra circostanza. L’idea di impegnarsi in un’analisi della questione era dunque nata, nella testa di Croce, prima della lettura della memoria di Labriola e indipendentemente da essa, e il suo rifiuto della validità della legge doveva già essere ben consolidato all’epoca della stesura della relazione sui due saggi in concorso per il Premio Tenore (come risulta anche dalle cose che egli dice, comméèntando l’esame del problema condotto da Giuffrida). Ma non si può escludere che l’accusa di avere, in precedenza, condiviso la tesi di Marx riguardo alla caduta del saggio di profitto senza essersi reso conto del fatto che la propria interpretazione della teoria del valore era in contrasto con questa tesi — accusa contenuta nella nota del testo di Labriola cui abbiamo fatto riferimento sopra — abbia fornito a Croce uno stimolo in più a formulare con chiarezza il proprio punto di vista sul tema. î I In breve, nella nota suddetta, Labriola osservava che se per Croce la teoria del valore di Marx non poteva essere una teoria generale del valore a causa della presenza, in una economia capitalistica, di beni economici che non sono prodotti per mezzo del lavoro (anzi, che non sono affatto prodotti), allora l’interferenza rappresentata da questo fattore distorsivo doveva far sì che in un’economia di questo tipo la divergenza fra “reddito e pluslavoro” fosse massima, mentre sarebbe stata minima in una società primitiva (tendenzialmente, anche se rozzamente, comunistica), nella quale l’uso delle risorse naturali sarebbe stato libero e la loro proprietà collettiva. Perciò, dipendendo, in un sistema capitalistico, l’utile netto dal lavoro umano in misura minore che in qualsiasi altro sistema, anche l’abbassamento del suo saggio avrebbe dovuto essere assai poco influenzato dalla diminuzione del-

95

l’impiego di tale fattore. Con la conseguenza che Croce, sulla base di una simile interpretazione della teoria del valore-lavoro, non avrebbe dovuto dare credito al fenomeno della caduta del saggio di profitto e non avrebbe dovuto accogliere, come invece sembrava fare, la validità della legge marxiana che lo giustificava (cfr. La teoria del valore di C. Marx, cit., p. 248 n. 3). La nota, come dicevamo, era sprezzante e sar-

castica e si concludeva rilevando come, dall’interpretazione della teoria del valore proposta da Croce, risultasse che lo sfruttamento del lavoro sarebbe stato massimo nelle società comunistiche e minimo in quella capitalistica, e che se di questa interpretazione egli (Labriola) non sì era servito nella sua memoria e sì era anzi guardato, precedentemente, anche solo dal menzionarla, ciò era dovuto al fatto che essa gli appariva “capricciosa e poco giustificata” (ivi, p. 249). L’addebito rivolto all’interpretazione di Croce, espresso in questa forma, era ingiusto ed immotivato:

in una

società comunistica

non

ci sarebbe

stato,

secondo Croce, come abbiamo avuto precedentemente modo di sottolineare, nessuno

sfruttamento

del lavoro.

Lo sfruttamento

del lavoro,

infatti, era, a suo giudizio, un concetto applicabile esclusivamente alla società capitalistica, e solo nel caso che essa non venisse considerata di

per sé, ma messa a confronto con un’altra, ossia proprio con una ipotetica “società (comunistica) lavoratrice”. Tra Arturo

Labriola

e Croce non

correva,

evidentemente,

buon

sangue, e come accade sempre in questi casi, forse nessuno dei due era davvero disposto a rendere giustizia all’altro. Sullo sfondo di questo difficile rapporto campeggiava poi la figura del Labriola maggiore, che nei confronti del suo più giovane omonimo aveva quasi subito (come risulta dalle sue lettere) iniziato a nutrire una profonda avversione e

una radicale disistima. L’una e l’altra, verosimilmente, non poterono non esercitare una qualche influenza sull’opinione, comunque meno passionale e più equilibrata, di Croce. Il profilo della vicenda che qui abbiamo sinteticamente ricostruito a grandi linee è questo. Esso serve a testimoniare quanto il leggere attentamente ed il capire — soprattutto i testi degli avversari — siano o possano diventare, pur nella loro semplicità, obiettivi così difficili da raggiungere che il loro conseguimento finisce talvolta per risultare praticamente impossibile, rendendo i contendenti sordi e ciechi a tal punto da indurli tanto a vedere il conflitto dove non c’è o dove c’è l’identità (e questo potrebbe essere il caso della vicenda che, più tardi, opporrà Croce a Gentile), quanto, al contrario,

96

a vedere l’identità (e magari il plagio) dove non c’è e dove c’è, invece, solo la differenza.

SMI

! Rivista che Sorel aveva fondato appena l’anno prima, nel 1895, a Parigi.

2 Come è noto, Croce si fece editore dei tre saggi — poi riuniti nel volume La concezione materialistica della storia — che contribuirono in modo decisivo a promuovere e diffondere la fama, in Italia e oltre confine, di Labriola come teorico marxista. Diede, inoltre, un ulteriore apporto a tale diffusione e promo-

zione, facendo, del secondo di questi saggi, l'oggetto di una propria conferenza presso l'Accademia Pontaniana di Napoli (conferenza il cui testo confluì — dopo una prima pubblicazione negli Atti accademici del 1896 — nel volume dedicato al Materialismo storico, del quale costituisce il'testo d’apertura). 3 Del 28 febbraio. 4 Cfr. Croce, Come

nacque e morì il marxismo

teorico in Italia, in Ma-

terialismo storico ed economia marxistica, Bari 1968, pp. 271-72. 5 Ibid. 6 Ibid. ? Ibid. 8 Ibid. 9 Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad essa, uscito sulla “Riforma

storico..., 10 Una pubblicato storico...,

sociale’ nel 1899, poi in Materialismo

cit., pp. 121-137. obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, in “Atti dell’Accademia Pontaniana” nel 1899, poi in Materialismo pp. 139-150.

Ul Ivi, pp. 209-229.

12 Sull’estraneità del Capitale e dei suoi temi a buona parte del marxismo teorico italiano del ‘900 — fatta eccezione per alcuni casi sporadici — sarebbe

necessario intervenire con un discorso a sé (che da più parti è stato abbozzato, senza essere mai condotto a compimento). Ma per chiarire il significato e la rilevanza della questione basta citare, come esempi di questa estraneità, due figu-

re del peso di Rodolfo Mondolfo e di Antonio Gramsci. 13 Cfr. R. Meek, Studi sulla teoria del valore-lavoro (tr. it. di M. Pacor,

P.L. Porta e E. Facchini, Milano 1973, pp. 201 sgg.), il quale dà un ampio resoconto delle critiche formulate da Croce intorno alla teoria del valore, trattandole con attenzione e rispetto, anche se, con vezzo tutto anglosassone, fa pre-

cedere il loro esame da quello dedicato alle analoghe critiche di A.D. Lindsay, che sono cronologicamente successive a quelle di Croce e ne dipendono, essendo ad esse ispirate, visto che Lindsay è, tra l’altro, il traduttore in lingua inglese del volume crociano su Marx (cosa che Meek, del resto, non manca di sotto-

lineare). 14 Cfr., in proposito, le osservazioni di L. Colletti, nella sua celebre Inter-

vista politico-filosofica, Roma-Bari 1974, pp. 12-13. !5 Un esempio di questo disinteresse può essere considerato l’ampio saggio

(uno dei pochi prodotto su questi temi nell’Italia di quegli anni da ùno studioso che di professione faceva il filosofo e non l’economista) Sul plusvalore che

98

costituisce la seconda parte del volume Cultura e rivoluzione (Roma 1974) di M. Rossi. In esso non si fa alcun cenno del nome di Croce (come non si fa cenno, oltre che di Croce,

neppure

di Labriola — e questo sorprende,

se possibile,

anche di più — nel saggio sul materialismo storico che costituisce il 7° cap. della terza parte dello stesso volume, ma qui la questione investe, piuttosto il contrasto che dalla fine degli anni ’50 aveva opposto all’interno della cultura marxista una corrente “dellavolpiana” alla “vulgata” che rappresentava la posizione ufficiale del PCI e che coniugava, abbastanza liberamente, tradizione italia-

na e marxismo sotto l’egida di un generico orientamento “storicistico”’). 10 Cfr. G. Bedeschi, Croce e il marxismo, contributo apparso nel fascicolo monografico dedicato a Croce dalla rivista “La Cultura” nel 1993 (pp. 295-315) e, sempre

di Bedeschi,

la conversazione,

eon

lo stesso

titolo, curata

da P.

Bonetti come le altre pubblicate insieme ad essa nel volume Per conoscere Croce, Napoli 1998 (cfr. pp. 21-33). Di Bedeschi si veda anche La rielaborazione italiana del marxismo, in L'Italia e la formazione della civiltà europea, vol. I La cultura civile, a. c. di N. Matteucci, Torino 1992, pp. 267-282 (edi-

zione fuori commercio, pubblicata dalla casa ed. UTET per conto della Banca Nazionale dell'Agricoltura). Fa eccezione, rispetto a quanto abbiamo ora affer-

mato con riferimento alla scarsa “fortuna” dell’interpretazione crociana della teoria del valore, il recentissimo volume di N. Bellanca, Economia politica e

marxismo in Italia. Problemi teorici e nodi storiografici 1880-1960, Milano 1997, che concede a Croce uno spazio assai ragguardevole nella ricostruzione storica e teorica della vicenda del marxismo italiano. Il saggio, opera di un giovane studioso di storia delle dottrine economiche, si segnala per l’intento di fornire, attraverso questa ricostruzione, una chiave di lettura inedita della teoria del valore-lavoro, che la libererebbe dall’obbligo di confrontarsi con il problema della “trasformazione” (in proposito si veda, più avanti, la n. 64). Per conseguire questo obiettivo ambizioso, Bellanca incrocia, al di là dei contrasti per-

sonali che li videro polemizzare da posizioni apparentemente opposte, i destini teorici di Loria e Croce, di Croce e Arturo Labriola, di entrambi questi ultimi

e Graziadei. L'operazione — suggestiva anche per la rivalutazione che comporta di figure (come Loria e Arturo Labriola) sulle quali l’avversione variamente manifestata da Antonio Labriola e dallo stesso Croce aveva finito per far cadere l’ombra di un discredito probabilmente ingiusto e senza riscatto — incorre, tuttavia, in alcuni equivoci, soprattutto per ciò che riguarda Croce, cosa che ne

fa vacillare l’intero edificio, visto il ruolo di assoluta preminenza che essa asse-

gna alla teoria del paragone ellittico nel quadro della sua ricostruzione interpretativa delle posizioni degli autori ricordati e delle ragioni teoriche che permetterebbero, secondo Bellanca, di riconoscere la necessità della riduzione del

valore al lavoro (per quanto riguarda tali equivoci si vedano, più avanti, le nn. 64 e 123). 17 Si veda, per la storia di questa vicenda e per l’esposizione dei criteri editoriali, la prefazione dello stesso Engels.

99

18 Cfr. F. Engels, Prefazione a K. Marx, Das Kapital, zweiter Band, Berlin 1980, pp. 13 sgg. (= Il Capitale, vol. II, Roma 1989, tr. it. di R. Panzieri, pp. 13 sgg.). < 19 Ivi, tr. it. cit., p. 26. 20 Ivi, p. 25. 21 Cfr. C. Schmidt, Il saggio medio del profitto e la legge marxiana del valore, tr. it. di M. Deichmann, Roma 1975, cap. II, pp. 75 sgg.

22 Cfr. ivi, pp. 119-126. 23 Cfr. Il Capitale, vol. III, cit., cap. X, pp. 215 sgg. 24Tvi, p- 20. 25 Ibid. La scoperta “per proprio conto” della legge tendenziale di caduta del saggio di profitto ad opera di Schmidt occupa il cap. III del suo saggio, cit., pp. 127 sgg. 26 C. Schmidt, op. cit., p. 87. 27 Cfr. Il Capitale, voll. III, pp. 68-69. 28 Il Capitale, vol. II, cit., p. 19. 29 Cfr. E. von Bihm-Bawerk,

Zum Abschluss des Marxschen

System, in

Festgabe fir Karl Knies, Berlin 1896. 30 Cfr. Il Capitale, vol. III, cit., cap. IX, in part. pp. 204 sgg 31 La rapidità dell’esposizione cui siamo costretti ci impone il richiamo, a

questo proposito, di due testi canonici: P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, tr. it. di L. Cerini e C. Napoleoni, Torino Einaudi 1951, cap. VII, v. in part. pp. 156 sgg.; e R.L. Meek, Studi sulla teoria del valore-lavoro, cit., pp. 174 sgg, v. in part. pp. 178 sgg. Entrambi questi testi riassumono lo stato della questione fino all’intervento di L. von Bortkiewicz (sebbene Meek, nella

Introduzione alla seconda edizione del suo libro si spinga a riconsiderare l’intero problema alla luce delle più recenti acquisizioni consentite dalla comparsa dell’opera di Sraffa, cfr. pp. XIV sgg.), intervento considerato da essi (e in particolare da Sweezy) conclusivo. Tale intervento è affidato a due celebri saggi:

Calcolo del valore e calcolo del prezzo nel sistema marxiano e Per una rettifica dei fondamenti della costruzione teorica di Marx nel terzo volume del Capitale, l’uno e l’altro compresi nella silloge: L. von Bortkiewiez, La teoria economica di Marx, ed. it. a cura di L. Meldolesi, tr. di G. Panzieri Saija, Torino 1971, pp., rispett., 5-104 e 105-125. Nel dibattito suscitato dal tema sono

tuttavia da ricordare almeno altri due interventi, che si può dire facciano, in un certo senso, da raccordo fra Bortkiewicz e Sraffa: quelli di J. Winternitz, Values and Prices: a Solution of the So-called Transformation Problem, “Economic Journal” 1948, e quello di F. Seaton, The Tranformation Problem, “Review of Economie Studies” 1957. La traduzione di entrambi è compresa nell’appendice alla seconda ed. it. del già citato volume di Sweezy, edizione che sostituisce con tale appendice la IV parte dell’opera, proponendo, al suo posto,

una raccolta di interventi critici sui problemi della teoria economica di Marx e in particolare sulle questioni sollevate dalla comparsa del II vol. del Capitale

100

(cfr. La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino Boringhieri 1972, pp. 438444 e 477-496). 32 Dopo la pubblicazione dell’opera di Sraffa, da alcuni considerata risolu-

tiva dell’annosa questione, non sono mancati i rilievi di coloro che hanno sottolineato come dal sistema di equazioni proposto in Produzione di merci a mezzo

di merci emerga

un modello algebrico di soluzione,

che, se soddisfa i

requisiti di una risposta matematica al problema, rende del tutto indifferente e quindi arbitraria la scelta della “merce tipo” da assumere come misura dei valori, ponendo il suo prezzo uguale a 1 e ottenendo così un sistema ad n equa-

zioni ed n incognite (ossia, un sistema nel quale, in linea di principio, i valori numerici delle incognite sono deducibili). In altri termini, questa “soluzione” salta a piè pari il problema dell’origine del plusvalore. Tra i contributi che hanno sottolineato questo aspetto, spicca quello di M. Rossi su Valori e prezzi (in Cultura e rivoluzione, cit., pp. 275-325: p. 320). Non è forse un caso che dopo Sraffa si sia delineata una tendenza interpretativa che respinge in toto il problema della trasformazione e le sue pretese soluzioni algoritmiche. Oltre al già ricordato contributo di M. Rossi, si possono citare come esempi di una simile tendenza il saggio di R. Banfi, Uno pseudo-problema: la teoria del valorelavoro come base dei prezzi di equilibrio, “Critica marxista” maggio-giugno 1965 (pp. 135-158) e il volume di N. Bellanca, al quale abbiamo già fatto riferimento, Economia politica e marxismo in Italia. A proposito di questa linea che rifiuta di ammettere l’esistenza stessa del problema in quanto tale, sebbene il rilievo da cui essa esplicitamente o implicitamente prende le mosse sia condivisibile (rilievo che potrebbe riassumersi in un’affermazione di Lucio Colletti, secondo la quale Sraffa avrebhe fatto, con il suo “revisionismo econo-

mico”, “un falò dell’analisi di Marx”: cfr. Il marxismo e Hegel, Bari 1971, p. 431), meno condivisibili sono le conseguenze che essa ne trae. In particolare Rossi non sembra rendersi conto del fatto che se la somma totale dei valori e quella dei prezzi non coincidono, il sistema verificherà, sul piano dei prezzi, l’esistenza di un valore eccedente, la cui origine non potrà essere ricondotta alla produzione ma solo alla circolazione e al mercato.

In tal caso, non si vede

come, alla fine, una simile conseguenza potrebbe evitare di risolversi in una vittoria dell’impostazione marginalistica. 33 Cfr. E. von Bihm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen System, cit. (ne esiste una tr. it. a cura di G. Panzieri Saija nel volume collettaneo Economia borghese ed economia marxista, Firenze 1971); e la parte dedicata

a Marx

del I vol. dell’opera Kapital un Kapitalzins, uscita fra il 1884 e il 1889, dunque prima della pubblicazione del III vol. del Capitale, ma le cui edizioni successi

ve erano state integrate con considerazioni relative alla soluzione marxiana del problema della trasformazione (esiste una trad. it. della parte concernente Marx, desunta dalla terza ed. — del 1914 —; tale traduzione è stata pubblicata

dalla “Rivista-trimestrale” nel 1963 e poi riprodotta in appendice alla citata ed. Boringhieri del volume di Sweezy, cfr. pp. 295-335, v. in part. pp. 333-34).

101

34 Cfr. W. Sombart, Zur Kritik der 6konomischen System von Karl Marx, in “Archiv fir Soziale Gesetzgebung und Statistik”°, VII (1894), pp. 555-594: p.

558. 35 Ivi, p. 974.

36 In una recensione del terzo volume pubblicata nel febbraio

1895 dal

“Sozialpolitisches Zentralblatt” (citata da Engels: cfr. Il Capitale III, p. 34).

37 38 39 40

Cfr. Il Capitale III, p. 34. Ibid. Cfr. ivi, pp. 38-39. Cfr. ivi, pp. 34 sgg.

41 Cfr.

B.

Croce,

Memorie

è.

della

mia

vita,

Napoli

1992,

p. 20.

Nel

Contributo, la versione fornita è assai simile: vi si parla di “più mesi” nel corso dei quali egli si sarebbe dato “con ardore indicibile” allo studio, fino ad allora

per lui del tutto ignoto, dell'economia politica e della meraviglia di Labriola di fronte alla sicurezza con la quale lui (Croce) in così breve tempo, senza l’ausilio di manuali e di opere divulgative, ma rivolgendosi, piuttosto, direttamente

ai “principali classici di quella scienza” e leggendo “tutto ciò che di non volgare” era reperibile “nella letteratura socialistica’”’, si venne

a trovare “affatto

orientato” (cfr. Contributo alla critica di me stesso, in Etica e politica, Bari

1967, p. 329). 4 Cfr. Materialismo storico..., p. 57, n. 1. Di questi tre autori, l’unico di

cui sono presenti alcune opere nella biblioteca di Croce è Jevons, del quale Croce possiede The Principles of Science, London 1879; The Theory of Political Economy, London 1879; e Economia politica, Milano 1893 (la breve ricerca

che mi ha permesso di acquisire queste informazioni è stata condotta, per mio conto e in via amichevole, dal dott. Maurizio

Tarantino.

bibliotecario dell’I-

stituto Italiano per gli Studi Storici, che qui colgo l’occasione di ringraziare cordialmente per questa come per altre notizie che devo alla sua sollecitudine e alla sua cortesia). È bene ricordare, al riguardo, che, nonostante la vastità e la ricchezza della propria biblioteca personale, Croce fu sempre un frequentatore assiduo delle biblioteche pubbliche, in particolare della Nazionale di Napoli e, dal momento in cui divenne senatore del Regno (26 gennaio 1910), di quella

del Senato. Pertanto — come del resto è ovvio non solo nel suo caso, ma in quel-

lo di qualsiasi studioso — il fatto che non possedesse le opere di un autore non può comunque garantire che non ne avesse una conoscenza diretta.

43 L'atteggiamento di Labriola, documentabile attraverso le lettere a Croce, nei confronti di Pantaleoni in particolare, assume un tono per lo più infastidito e sprezzante (che del resto contraddistingue, molti dei suoi giudizi su contemporanei) solo a partire dagli anni °97-°98. Prima esso appare, generalmente, abbastanza amichevole, anche perché Pantaleoni era stato, con Colajanni,

l’autore della denuncia fatta ai giornali dell’esistenza di una relazione segreta in possesso del governo sugli illeciti della Banca Romana, denuncia dalla quale era scaturito il famoso scandalo. A proposito di questa vicenda è interessante

102

confrontare due lettere di Labriola a Croce, quella del 20 dicembre 1894 e quella del 14 gennaio 1896, nella prima delle quali Labriola chiede a Croce notizie di un articolo apparso sul Mattino di Napoli, in cui, secondo un’informazione avuta, sarebbe stato fatto il suo (di Labriola) nome, indicandolo come “il primo

provocatore o suggeritore del Colajanni nel promuovere tutto questo ben di Dio”. Nella lettera Labriola dà l’impressione di stupirsi della notizia, facendo intendere che era fantasiosa: “Vedo di rado il Mattino. Tempo fa vi lessi un articolo contro il Colajanni, nel quale si parlava di persone in genere che avrebbero istigato due anni fa il Colajanni, per poi nascondere la mano. Può darsi che tutto si riduca a ciò, e che il mio informatore con fantasia napoletana abbia

aggiunto il nome dove non c’era” (cfr. A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce.

1885-1904, Napoli 1975, p. 61). Nella seconda, invece, Labriola conferma il

ruolo avuto nella vicenda: “Come saprai quel Pantaleoni fu il primo che per mezzo mio e poi del Colajanni iniziasse le rivelazioni su gli scandali bancarii” (Ivi, p. 93). 4 Quindi, posteriore alla pubblicazione del saggio più importante di Croce sull’argomento, del quale, d’altra parte, Sorel, in questo contributo, si avvale

i con larghezza. 45 Cfr. Materialismo storico..., p. 74 n. 1. 10 Cfr. Pareto, Introduction à Karl Marx, Le capital. Extraits fait par Paul Lafargue, Paris 1893.

4 In proposito, è interessante il fatto, e va sottolineato — ci torneremo in

seguito —, che le critiche rivolte da Engels soprattutto al volume di Schmidt sul Saggio medio di profitto e la legge marxiana del valore non abbiano in nessun modo attirato l’interesse di Croce su questo studioso e sulla sua opera, tanto è

vero che dopo averle lette non solo egli non si procurò il libro — come del resto nessun altro scritto di Schmidt, che è infatti un autore completamente assente dalla sua biblioteca — ma neppure si riferì mai a qualche suo contributo specifico, limitandosi a ricordare Schmidt come un più timido predecessore di Sombart nell’affermazione del carattere puramente logico della legge del valore-lavoro (cfr. Materialismo storico... p. 57). 18 Dal terzo volume del Capitale di Carlo Marx, prefazione e commenti di Federico Engels, tr. di P. Martignetti. Pasquale Martignetti era un modesto impiegato della camera notarile, di cui Labriola, evidentemente per ragioni di affinità politica — Martignetti era socialista —, si era preso a cuore la sorte, raccomandandolo a Croce, che era intervenuto con un aiuto economico (cfr. Antonio Labriola, Lettere a Benedetto Croce, cit., pp. 39-40). In seguito, Martignet-

ti, entrò, grazie a Turati, in rapporti con Francesco Saverio Nitti, rapporti che, tuttavia, divennero ben presto critici a causa di una traduzione commissionata

a Martignetti dalla casa editrice Treves per l’interessamento di Nitti, che venne però rifiutata all’atto della consegna. Per tutta questa complicata vicenda, che coinvolse anche Labriola (come protettore di Martignetti) e Croce (che era amico di Nitti), cfr. le lettere del primo al secondo (cit., pp. 44-47, vi è traccia

103

della faccenda anche nel carteggio fra Martignetti ed Engels, compreso in Marx e Engels, Corrispondenza con italiani, Milano 1964). Martignetti è chiamato in causa nel carteggio Labriola-Croce diverse altre volte, e sempre con spirito protettivo (salvo forse nel caso in cui si fa riferimento all’impegno che egli si era assunto di tradurre il libro di Paul Lafargue — altro personaggio inviso a

Labriola — su Campanella, cfr. lettere 125 e 138). In particolare, in una lettera del 20 dic. 1896, Labriola sottolinea il fatto che: “Sul III° vol. del Capitale, e su

le traduzioni di Martignetti fu organizzata la lega del silenzio” (op. cit., p. 181). Può darsi che Croce sia stato indotto ad usare prevalentemente il riferimento alla traduzione di Martignetti (ove possibile) nelle sue note da questa osservazione di Labriola, anche se non si può del tutto escludere che, nonostante la

conoscenza che egli aveva della lingua tedesca, data la rapidità con la quale si era dovuto impadronire della materia, almeno per il terzo volume dell’opera di Marx, egli avesse fatto una lettura “selettiva” (più attenta, cioè, a certe parti

che ad altre), aiutandosi, in quest'opera di selezione, con l’opuscolo curato da

Martignetti. 49 Cfr. Materialismo storico..., pp. 31-32. 50 Ibid. 5! Che il senso da attribuire alla formula crociana, secondo la quale la teoria del valore di Marx non sarebbe una teoria generale del valore, sia questo risulta con assoluta chiarezza da quanto Croce afferma, per es., a p. 125 del volume sul Materialismo storico, nel contesto del saggio Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, dove si dichia-

ra espressamente quanto segue: “l’opposizione è da me additata tra un’ipotetica società lavoratrice, ossia tale che tutti i suoi beni siano prodotti di lavoro, e una società economica bensì, ma non esclusivamente lavoratrice, perché goden-

te di beni dati naturalmente accanto a quelli prodotti dal lavoro”. Questa critica alla teoria del valore di Marx, fondata sulla sua applicabilità solo alle “merci” e non anche ai “beni” economici, risale

a Bihm Bawerk e alla sua ana-

lisi della Teoria dell’interesse in Marx, condotta nella prima parte (Geschichte und Kritik der Kapitalzins-Theorien) del suo Kapital und Kapitalzins (cfr. la trad. it. delle pagine dedicate a Marx e riprodotta nella già richiamata appendice a Sweezy, op. cit, ed. 1972, pp. 312-13). 92 In realtà, Croce non parla di “contraddizioni”, ma in un passo del saggio del °97 (Per la interpretazione e la critica ecc., cit.) dice che “i contrasti degli altri fatti con questa legge (ossia dei fatti reali con l’ipotesi astratta) sono stati

minori in numero ed intensità nel comunismo primitivo e nell'economia medioevale e domestica, laddove hanno raggiunto il massimo nella società fondata sul

capitale privato e sulla più o meno libera concorrenza mondiale” (ivi, p. 64).

Dunque, il senso e lo scopo del paragone ellittico consiste nel fare emergere questi contrasti, e, visto che nel passo immediatamente successivo a quello appena citato (ivi, p. 65) Croce dice che, ‘“nell’assumere a tipo l’eguaglianza del valore col lavoro e nell’applicarlo alla società capitalistica” Marx “istituiva paragone

104

della società capitalistica con una parte di se stessa, astratta e innalzata ad esistenza indipendente”, il contrasto messo in luce dal paragone ellittico è, per Croce, un contrasto interno al sistema economico capitalistico, un contrasto di tale sistema con se stesso, ossia, in altre parole, una contraddizione.

93 Cfr. Il Capitale, vol III, cit., pp. 218-19. > Cfr. Zur Kritik des 6konomischen Systems von Karl Marx, cit., p. 563. ® Perciò un marxista come R. Meek poteva, ancora nel 1956, esaminando le critiche più rilevanti rivolte alla teoria del valore-lavoro dal momento del suo apparire, dichiarare, parlando dell’interpretazione di Croce, “vero in un certo

senso — seppure assai tenue —|” il fatto che dopo aver preso in considerazione, inizialmente, “la società basata sulla produzione mercantile in quanto tale, astraendo da ‘tutte le distinzioni di classe’”, Marx avesse elaborato un’analisi

che poteva essere considerata come “uno studio ‘comparato’ tra questa società astratta e quella capitalistica pienamente sviluppata”, cfr. Studi sulla teoria del

valore-lavoro, cit., p. 209. Il fatto che Croce non si renda conto di questa differenza fra l’impostazione di Marx e la propria spiega perché, pur essendo la sua interpretazione influenzata dal dibattito prodottosi in seguito alla pubblicazione del terzo volume del Capitale e dal problema del rapporto fra valori e prezzi, egli non accenni qui neppure indirettamente alla questione della “:rasformazione” (dei primi nei secondi) e alle sue difficoltà, e perché in un altro contesto affermi espressamente che la soluzione data da Marx al problema sarebbe del tutto soddisfacente e persuasiva, addirittura in qualche modo obbligata. se si assumessero per buone le premesse a partire dalle quali egli (Marx) svolgeva il suo ragionamento

(e cioè, essenzialmente,

la teoria del valore-lavoro intesa come

teoria

generale del valore). Il contesto diverso — nel quale Croce afferma in sostanza che non si tratta di desumere dal fallimento della soluzione tentata da Marx l’insostenibilità della sua teoria del valore, ma, al contrario, di dedurre, dal-

l’improponibilità di questa (della teoria marxiana' del valore-lavoro) come teoria generale del valore il non-senso di qualsiasi tentativo di ricavare i prezzi dai valori — è rappresentato dalla relazione, relativa alle memorie concorrenti all’assegnazione del “Premio Tenore” bandito dall'Accademia Pontaniana (a proposito del quale e della vicenda ad esso relativa si veda l’Appendice), che Croce lesse ai membri dell’Accademia nella tornata del 5 febbraio 1899, e che

si trova pubblicata nel volume XXIX degli “Atti” accademici (cfr. p. 14). 57 A proposito del fatto che per Marx la legge del valore-lavoro rappresenta il criterio regolatore degli scambi anche nella società capitalistica, fa fede quanto egli afferma a proposito di Adam Smith nel I vol. delle Theorien iiber den Mehrwert (riguardo alle quali, v. la n. successiva). La tesi di Marx è che Smith avrebbe per primo individuato l’origine del plusvalore nella differenza fra la quantità di lavoro vivo che viene “comandata” dal lavoro morto e viceversa la quantità di lavoro morto (o oggettivato) che viene “comandata” dal lavoro vivo. In generale, diversamente da ciò che accade nelle società mercan-

105

tili precapitalistiche, dove due quantità di lavoro si scambiano sempre su un piano di parità, indipendentemente dal loro essere quantità di lavoro vivo o di lavoro oggettivato, nel sistema di produzione capitalistico — nel quale il lavoro è separato dalle sue condizioni e la proprietà di queste dalla proprietà della forza lavorativa — una certa quantità di lavoro oggettivato “comanda”, come dice Smith, sempre (ossia si scambia con) una quantità maggiore di lavoro vivo. Ma se Smith ha interpretato questa differenza fra le due forme sociali, desumendone la tesi che con l’avvento del sistenta, di produzione fondato sulla detenzione della proprietà privata del capitale da parte della classe dei nonlavoratori le merci non si sarebbero più scambiate in base al tempo di lavoro necessario a produrle, per Marx, come per Ricardo, ciò che cambia, in questo

caso, è solo l’equivalenza fra “quantità di lavoro” e “valore del lavoro”, per-

ché con la separazione del lavoro dalle sue condizioni anche il lavoro diviene una merce. Questo, però, non significa che la legge del valore cessi di esercitare la sua funzione. Al contrario, significa che il lavoro vivo deve essere acquistato anch’esso in base al tempo di lavoro che richiede la sua produzione, come

qualsiasi altra merce. Insomma, per Marx, con l’avvento della società capitali-

stica, la legge del valore, lungi dal perdere significato, si generalizza al punto di estendersi, senza eccezioni, a tutta la sfera degli scambi (cfr. Teorie sul plusvalore, tr. it. di G. Giorgetti, Roma 1971, vol. I, pp. 163-66). È, quindi, comple-

tamente estranea all’orizzonte di pensiero di Marx anche l’interpretazione “difensiva” che della teoria del valore propone Engels nelle già ricordate Considerazioni supplementari. A giustificazione di Engels e dell’equivoco nel quale sembra, in proposito, essere incorso, si possono però addurre due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il fatto che egli non doveva avere una cognizione precisa del contenuto delle Teorie sul plusvalore, visto che non era arrivato, nella sua opera di editore del Capitale, oltre il terzo volume, e che,

quindi, doveva aver condotto una lettura attenta dello smisurato canovaccio lasciato dall’amico

scomparso

solo fino a questo punto.

In secondo

luogo, la

difettosità del sistema di calcolo dei prezzi a partire dai valori proposto nel III volume potrebbe averlo spinto a ridimensionare intenzionalmente (rispetto a quella che sapeva essere la posizione effettiva di Marx) il peso e il ruolo della teoria del valore. 58 Basti a dimostrarlo, ricordare che secondo il piano originario di Marx la

sua opera doveva dividersi in quattro volumi, i primi tre di carattere teorico e l’ultimo di carattere storico. In questo “quarto volume” avrebbe, cioè, dovuto essere svolta l’analisi e la critica delle tesi dei predecessori dal punto di vista definito nei tre precedenti. Come è noto, Marx lasciò questo “quarto volume”, esattamente

come il secondo e il terzo, allo stato di elaborazione proprio di

un’opera non

ancora

predisposta per la stampa.

Il suo editore fu, morto

Engels, Kautsky, il quale lo fece uscire in tre tomi fra i 1905 e il 1910 do criteri, dal punto di vista filologico, molto insoddisfacenti. Ebbene, testo fu, come

106

adottanquesto

si sa, intitolato Teorie sul plusvalore, ricavando tale titolo da

quello che Marx aveva assegnato alla parte più cospicua del manoscritto sul quale si era basato il lavoro di edizione. perché è appunto nella prospettiva del problema del plusvalore e della sua genesi, ossia della giustificazione della sua possibilità nel quadro di un’economia fondata sullo scambio di valori formalmente uguali, che Marx esamina i sistemi dei suoi predecessori, e questo perché, con ogni evidenza, egli faceva consistere l'originalità della propria opera precisamente nella scoperta della soluzione di questo problema (per la storia del testo e della sua prima edizione si veda l’ampia introduzione di G. Giorgetti alla tr. it., da lui curata, del I vol., cit.).

9 Materialismo storico..., p. 65. S0.Tvis pp125-26: °1 Cfr. il testo cui fa riferimento la n. 53. °2 Il Capitale, vol. III, cit., p. 218 (corsivi nostri). 93 Crescita reale potrebbe esserci solo in virtù dell’acquisizione e dello sfruttamento di risorse naturali in precedenza inutilizzate, come nel caso della

messà a coltura di terre vergini, della scoperta di giacimenti di nuove materie prime o di nuove fonti energetiche. Si tratterebbe comunque, in ciascuno di questi casi e in generale, di una crescita non inesauribile. Sullo sfondo di que-

sti due diversi modi di concepire la ricchezza e lo sviluppo economico si intravvedono, dunque, due concezioni divergenti del progresso umano e della storia. % Questa denuncia dell’incomprensione del senso autentico della teoria del valore-lavoro da parte di Croce contrasta radicalmente con gli apprezzamenti pressoché unanimi che l’interpretazione crociana ha ricevuto dai non moltissimi contributi che se ne sono espressamente occupati. Tra questi spicca (anche per la specifica competenza “tecnica” del suo autore, che è uno studioso del pensiero economico) il saggio recente di N. Bellanca, già citato nella n. 14. Bellanca ritiene che la teoria del paragone ellittico consenta di giustificare pienamente la riduzione del valore al lavoro operata da Marx, fornendo la base ad una lettura della Legge marxiana che la svincoli dall’ipoteca del problema della trasformazione. Per fare questo sarebbe necessario, secondo Bellanca. integrare Croce con Graziadei, separando

così la creazione di valore nella sfera

della produzione dalla realizzazione di questo stesso valore in forma di prezzo nella sfera della circolazione e rendendo la prima completamente autonoma dal punto di vista teorico rispetto alla seconda. Per quanto riguarda Graziadei e l’insufficienza dell’interpretazione che ne propone Bellanca si veda, più avanti, la n. 124, mentre per ciò che riguarda Croce farei valere le seguenti considerazioni. Bellanca interpreta il “paragone ellittico” di Croce come un paragone duplice, articolato in due momenti. Attraverso il primo verrebbe definita la società capitalistica, paragonandola con un sistema non-capitalistico. Attraverso il secondo si dimostrerebbe la necessità della riduzione del valore al lavoro, paragonando

un capitalismo essenziale con un capitalismo inessenziale —

ossia concepito astrattamente, senza tener conto del suo connotato più caratteristico (ricavato dal primo paragone) che è la proprietà privata dei mezzi pro-

107

duttivì e la riduzione del lavoro a forza-lavoro, cioè a merce. Ora, come abbiamo visto, Croce non paragona affatto un capitalismo essenziale con un capitalismo inessenziale, 0, se sì preferisce, il capitalismo con la sua essenza: questo è, semmai, ciò che fa Marx. L’equivoco nasce dal credere che Croce voglia, innanzitutto, definire il capitalismo è ciò che vi è in esso di essenziale. Ma Croce non ìntende affatto procedere in questo modo: a suo parere, Marx, quando assume, per scelta è volontà o interesse politico-sociale, il punto di vista del lavoro, costruisce, procedendo in modo astratte, lo schema di una società lavovatrìce pura (cioè esclusivamente lavoratrice, e nella quale tutto ciò che è scam-

biabile deriva dal lavoro), dopodiché cala su questo schema astratto i rapporti giuridici caratteristici dì un'economia fondata sulla proprietà privata del capitale è sulla separazione fra capitale e lavoro, ottenendo così di mettere direttamente a confronto nell'ambito dell'astrazione e per mezzo dell’astrazione, cose che, în realtà, sono incompatibili. In Croce, in altre parole, non abbiamo due paragoni, ma due procedimenti astrattivi, per mezzo dei quali sì realizza un solo paragone: quello consistente nel confrontare una società reale con un’ipotesì astratta, costruìta în modo arbitrario per ragioni euristiche. Da questo schema interpretativo non sì ricava nulla circa l'essenza del capitalismo, ovvevo la sua intima verità, né, tanto meno, sì ricava la necessità della riduzione del valore al lavoro. Ma se Bellanca — che pure, come ho grà detto, ci offre un contributo originale e stimolante — ritiene che l’interpretazione crociana intenda,

per prima cosa, cogliere l'essenza del capitalismo attraverso un confronto con ciò che capitalismo innanzitutto non è, questo potrebbe dipendere dal suo essete incorso în un equivoco di fondo suì tempi e sul senso dell’evoluzione filosofica dì Croce, il quale ha introdotto l’“opposizione” e la “definizione” come categorìe strutturali e costitutive del proprio sistema di pensiero solo in un secondo momento (rispetto a quello che stiamo considerando adesso), e oltretutto in un quadro concettuale dì cuì Bellanca non sembra sospettare la complessità. ® Cir Lettere a Benedetto Croce, cit., pp. 187-88 (si tratta della lettera n. 250, in cuì sì accenna alla nota del saggio su Loria), pp. 192-94 e 264-270. l’ultimo gruppo dì pagine citato comprende due lettere, la n. 338 e la n. 339, nella prima delle quali Labriola, dopo un lungo indugio — motivato forse dalla poca voglia dì dare vita ad una polemica epistolare e documentato dalle numerose promesse di comunìcarglì il suo giudizio che non ebbero seguito (cfr. lett. n. 323, n, 327, n. 331) — espresse a Croce, con la solita franchezza, ciò che pen-

sava del suo contributo, mentre nella seconda troviamo una risposta alla rearione dì Croce. La lettera con la quale quest'ultimo difendeva la propria interpretazione della teoria del valore è andata persa, come la quasi totalità di quelle da luì indirizzate a Labriola, ma dalla replica di quest’ultimo si capisce che doveva essere piuttosto risentita.

® Cir La concezione materialistica della storia, cit., pp. 291 sgge è Naturalmente, il fatto che Croce sia a sua volta vittima dell’equivoco in cuì cade Marx, se impedisce dì consìderare la sua ipotesi come una critica volta

108

intenzionalmente a sottolineare l'ambiguità del Capitale su questo punto, non esclude in aleun modo che l’interpretazione su cui essa poggia non abbia anche, al di là delle sue intenzioni, la capacità di svelare l’incertezza di Marx e della sua opera nella definizione dei confini che separano (0 dovrebbe ro separare, almeno per lui) l’analisi della produzione della merce dal giudizio storico e morale circa il modo della ripartizione della ricchezza. 68 Marx fa diffusamente uso. nel Capitale, di questo modo di esprimersi,

ma, sia pure solo a titolo esemplificativo, se ne può indicare la presenza ricorrente nella sesta sezione del I vol. del Capitale, dedicata al “salario”. °° Direttamente, il bisogno di valorizzazione e arricchimento del capitale (cfr. su questo — sia pure in un contesto che appare oggi del tutto desueto per impostazione, impianto e linguaggio — M. Rossi, Cultura e rivoluzione, cit., pp. 262-63). Indirettamente, i bisogni che possono essere ricondotti al consumo 0 all’uso dei beni che esso produce. 7° Per tutto questo si vedano, in primo luogo, le sezioni seconda e terza del I vol, del Capitale.

"1 Materialismo storico..., cit., p. 126. 72 Ad una conclusione in fondo norf dissimile era giunto, sia pure su basi del tutto diverse, Conrad Schmidt, negando che in una comunità di lavoratori indi-

pendenti avrebbe mai potuto aver luogo la creazione di un plusprodotto (cfr., supra, il testo corrispondente alla n. 26). 73 Cfr., supra, la nota 52 e il testo ad essa corrispondente. 74 Cfr. Materialismo storico..., cit., p. 65.

5 Cfr., più su, p. 34. 70 Varrebbe comunque la pena di osservare che anche la società mercantile semplice — descritta da Engels, nelle pagine delle sue Considerazioni supplementari al III vol. del Capitale, come una società fondata sulla produzione per il consumo, nella quale l'eccedenza veniva scambiata in natura solo fra comunità diverse; una forma sociale che, a suo dire (cfr. op. cit. p. 39) avrebbe

regnato dal momento

in cui ha inizio un’attività sistematica di scambio fra

società primitive, prevalentemente

contadine e, successivamente,

anche arti-

giane, “fino al XV secolo della nostra era” — anche una società di questo tipo è, in fondo, un’astrazione, nel senso che, allo stato puro, definito dalle caratteristiche enumerate da Engels, essa non si presenta, nella storia, mai o quasi mai;

certamente non “fino al XV secolo”, visto che in quell’epoca era già da tempo entrato in scena il capitale mercantile (come sottolinea, incidentalmente B. Besnier, nella presentazione della trad. it. dell’opera di C. Schmidt sul Saggio medio del profitto e la legge marxiana del valore, cit., cfr. p. 13). 7? Il fatto che Croce sia stato un critico sprezzante di Loria non esclude che egli possa avere ricavato dalle teorie dell’economista di Mantova qualche suggestione. Ipotesi che si potrebbe considerare in un certo senso avvalorata forse anche dalla reticenza e malavoglia con le quale, lo abbiamo già visto, egli dovet-

te disporsi ad assecondare l’insistente desiderio di Labriola di vederlo cimen-

109

tarsi in quella critica (e proprio alla volontà di non deludere Labriola è possi bile che debba addebitarsi, almeno in parte, il tono caustico e spesso addirittu-

ra sarcastico delle osservazioni che il saggio del ’96 rivolge contro l’autore della Teoria economica della costituzione politica). Per quanto riguarda la reticenza di Croce cfr. più su pp. 12-13. Alle considerazioni che si ricavano dalla ricostruzione fatta da Croce della vicenda relativa al suo saggio critico su Loria in Come nacque e morì ecc. si può aggiungere la citazione di una lettera di Labriola, nella quale questi si difende dall’accusa, che evidentemente Croce gli aveva mossa, di voler fare di lui (Croce) un “Anti-Loria”, cfr. Lettere a Benedetto Croce, cit., p. 185. 78 Si veda l’affermazione di Croce, già citata, sulla “natura usurpatrice del

profitto” a p. 126 di Materialismo storico.... 79 Il “doppio paragone” che Bellanca attribuisce all’interpretazione crociana della teoria del valore sì trova, quindi, piuttosto in Marx che in Croce — come in parte abbiamo già avuto modo di sottolineare -, ed è alimentato dal legame metafisico che nel suo schema collega “dialetticamente” apparenza ed essenza. Riducendo questo “doppio paragone” ad un paragone semplice (quello fra essere e dover essere), Croce assegna, senza realmente avvedersene e quindi praeter intentionem, all’intera analisi svolta nel Capitale, il ruolo di un manifesto politico-programmatico. 80 È abbastanza naturale che proprio coloro i quali rifiutano di ammettere che il problema della “trasformazione” giochi un ruolo decisivo nella teoria marxiana del valore (o anche solo che essa rappresenti un problema effettivo) siano nello stesso tempo i sostenitori di norma più radicali di una linea interpretativa che respinge sprezzantemente ogni tentativo di mettere a nudo la natura metafisica dell’analisi di Marx. Il problema della “trasformazione”

è,

infatti, strettamente legato all’esigenza di connettere in modo lineare e razionale il piano “apparente” dei prezzi e delle dinamiche concorrenziali con quello sottostante e perciò ‘essenziale’ dei valori. Il fatto è, tuttavia, che questi critici non rinunciano in nessun modo a tenere unite, nella loro interpretazione,

teoria del valore e teoria dello sfruttamento (come fa anche Croce, il quale, però, lo si è visto, fornisce nel contempo lo spunto per separare il concetto del-

l’uguaglianza di valore e lavoro da quello di “sfruttamento”). Cioè non rinunciano alla pretesa di conferire alle conseguenze etico-politiche (0, in senso lato, ideologiche) del pensiero di Marx un legame stretto con la verità scientifica e filosofica. Rimane pertanto fortemente radicata, nella loro interpretazione, la

“premessa umanistica” della critica marxiana

dell’economia, e finché questa

premessa viene fatta valere ogni tentativo di dichiarare decaduto il problema della “trasformazione” è destinato a lasciare il tempo che trova. Emblematiche, da questo punto di vista, oltre alla posizione di Mario Rossi (cfr. Cultura e rivoluzione, cit., pp. 357-63), le pagine di Rodolfo Banfi, il quale, pur, svolgendo

alcune considerazioni non prive di interesse sul ruolo del capitale costante (cfr. Uno pseudo-problema..., cit., pp. 149-51), sembra voler provare che il discor-

110

so di Marx non è metafisico, appellandosi al fatto che il suo ricondurre l’apparenza all’essenza sarebbe funzionale all’interesse che egli (Marx) porta alla

prima e non alla seconda (cfr. op. cit., p. 141). Come, insomma,

se lo scopo

della metafisica, non fosse appunto questo: quello di rendere conto, attraverso il ricorso all’essenza, precisamente dell’apparenza e di ciò che essa, in realtà, significa. 81 Materialismo storico..., pp. 60-61. 2 Che era tesi perfettamente consonante con quella espressa già nel 1896, alla fine del saggio Sulla forma scientifica del materialismo storico: “L’interes se, che ci muove

a costruire un concetto del sopravalore, non è forse un inte-

resse morale, o sociale che si voglia dire?” (Materialismo storico..., cit., p. 18). Del resto, ancora nel 1899, l’anno cui appartiene la stesura del saggio di risposta a Labriola (che è della primavera), e rispetto a questo con una precedenz a solo di qualche mese (nel febbraio), Croce aveva ribadito il concetto espresso

nel lungo brano citato nel testo e desunto dal saggio concernente l’“interpretazione e la critica” delle categorie di Marx, svolgendo, su incarico dell’Accad e-

mia Pontaniana, l’esame delle due memorie concorrenti al “Premio Tenore”

(cfr., supra, n. 56 e Appendice). Nella sua relazione, infatti, troviamo scritto,

a proposito del tentativo che egli aveva fatto di interpretare la teoria marxiana del valore “come un continuo paragone”, che tale paragone non si stabilisce “fra ciò che è e ciò che eticamente

dovrebb’essere”,

“ma

tra ciò che è nella

società capitalistica e ciò che sarebbe nell’astratta società lavoratrice”, e che se lo si era talvolta inteso nel primo senso, ciò era dovuto solo ad un equivoco nel

quale erano caduti alcuni interpreti, visto che espresso in questo modo il concetto sarebbe risultato ripugnante al pensiero marxista (cfr. Relazione sulle memorie inviate pel Premio Tenore, cit., p. 8). 83 Cfr. La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, Messina 1993,

pp. 21-22.

i

84 Le cose andavano

infatti diversamente

in: Germania,

dove non

si era

ancora spenta l’eco delle dispute sullo storicismo e il metodo storico. Che anzi, nella patria di Kant e Goethe, avevano assunto il tono e il carattere di un vero

e proprio confronto filosofico, visto che sul tronco di questa polemica e della distinzione fra scienze dello spirito e scienze della natura si era innestata la cosiddetta “filosofia dei valori”. 8 Su questo punto si vedano gli inizi della loro corrispondenza, ai tempi in cui Croce

si dedicava

essenzialmente

a lavori

di erudizione,

giudicati

da

Labriola come inutili e oziosi: lavori da “letterato” nel senso deteriore della parola. 86 Cfr. lettera n. 64 del carteggio, cit., p. 47. 87 Cfr. La concezione materialistica della storia, cit.., p- 140 (dove Labriola

definisce la storia — la storia concreta e non il suo “scheletro” — come “racconto” e non “astrazione”, un racconto nel quale, egli prosegue, “si tratta di esporre e di tratteggiare l’insieme, e non già di risolverlo e di analizzarlo soltanto; si

111

tratta, a dirla in una parola, ora come

prima e come

sempre,

di un'arte”).

L'affermazione della natura artistico-narrativa della storiografia, venne riba-

dita da Labriola in un corso di lezioni sulla filosofia della storia tenuto nell’anno accademico

1902-3, il cui testo fu inserito da Croce — senza fare, signoril-

mente, alcun riferimento alla adesione implicita, che vi compare, alla propria tesi di dieci anni prima — in una raccolta di scritti di Labriola (gli Scritti vari

editi e inediti difilosofia e politica) da lui curata e pubblicata presso la casa editrice Laterza nel 1906.

*

88 Cfr. Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, vol. XXX, memoria n. 3, Napoli 1900. 89 Una ricostruzione del problema che per ampiezza. per complessità e compiutezza rappresenta un unicum nella pur vasta letteratura sul tema è quella prodotta da G. Sasso nella III parte, intitolata Storia dell’utile, della sua gigantesca monografia su Croce (cfr. Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975), della quale tale ricostruzione occupa un numero di pagine così cospicuo, dalla 427 alla 713, da risultare insolito anche per un volume di que-

ste dimensioni. Per ciò che riguarda il periodo che stiamo affrontando, sono ovviamente significative le pagine iniziali (427 e sgg.) del primo dei tre capitoli (Genesi e struttura dell’utile) in cui si articola tale sezione. 90 Cfr. quanto Croce afferma alle pp. 60-61 (già citate in precedenza, si veda, supra, la n. 81) di Materialismo storico....

2 9 93 %

Quello cui fa riferimento la n. 81. Cfr. Materialismo storico..., p. 60 (corsivi nostri). Ivi, pp. 60-1. Cfr. Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, in “Atti

dell’Accademia Pontaniana”, vol. XXXV,

1905, p. 54.

% Riguardo all’influsso di De Sanctis e della sua interpretazione di Machiavelli sull’elaborazione della categoria crociana dell’“utile’’ ha prodotto una ricostruzione ampia e stimolante M. Reale, nel saggio Una fonte dell’“utile” crociano: i “modelli letterari”, apparso sul 3° fascicolo della rivista “La Cultura”, XXXVII (1999), pp. 411-450 (cfr., per il senso generale della tesi che vi si sostiene, in part., le pp. 427-29, delle quali, peraltro, non mi sentirei, come

risulta, credo, abbastanza evidentemente da quanto dico nel testo, di condividere fino in fondo la tesi che nel saggio del °97 la dimensione etico-morale sia del tutto uscita di scena rispetto all’interpretazione di Marx, sebbene questo sia incontestabilmente vero — anche se solo provvisoriamente — dal punto di vista del dettato testuale o della “lettera’’ del saggio crociano). 26 Cfr., per esempio, la pagina della Storia in cui De Sanctis afferma: “Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui [ossia Machiavelli] il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano. [...] Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui ehe ha

voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è ne’

mezzi. (Quanto ai mezzi la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell’ignoranza o nella fiacchezza” (Storia della letteratura italiana, Torino 1975, II vol., p. 585).

°? Il fatto che questo sia il motivo che Croce ricava da Machiavelli attraverso De Sanctis non significa che tale motivo sia effettivamente presente nell’opera e nel pensiero di Machiavelli. In particolare, ha contestato l’attribuzio-

ne crociana della scoperta dell’autonomia dell’utile al Segretario Fiorentino uno studioso che abbiamo già avuto occasione di menzionare e che appartiene

alla ristretta cerchia dei principali interpreti dell’opera di entrambi gli autori in questione. Per essere più precisi, Gennaro Sasso (è lui lo studioso del quale stiamo parlando) ha sostenuto con vigore la tesi che, dovendo l’autonomia dell’utile corrispondere alla reciproca autonomia della morale, il fatto che di que-

sta seconda autonomia non ci sia traccia in Machiavelli porta ad escludere anche che gli si possa coerentemente attribuire la scoperta della prima. Cfr. G. Sasso, Benedetto Croce interprete di Machiavelli, in Benedetto Croce. a c. di F. Flora, Milano 1953, pp. 305-22. ° Cfr. B. Croce, Unafamiglia di patrioti, Bari 1927, pp. 163-71: p. 168. 99 Cfr. ivi, Gli “Scritti varî”, pp. 173-89: p. 180. 100 Cfr. G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, vol. I, Firenze 1972, p. 103.

101 B. Croce, Lettere

a Giovanni Gentile, Milano 1981, p. 24. Croce “toc-

cherà di nuovo” questa materia in una lunga nota aggiunta al saggio del ’97 sui “concetti del marxismo”, quando esso verrà riproposto, insieme a tutti gli altri di argomento

affine, nel volume

sul Materialismo

storico, ossia nel 1900.

In

questa nota Croce stabilisce, infatti, un’analogia, richiamandosi all’interpreta-

zione desanctisiana di Machiavelli, fra la critica superficiale del Villari all’etica machiavelliana e le riserve che da parte di alcuni autori venivano rivolte sullo stesso tema a Marx, tacciandolo di insensibilità per il problema morale (cfr. Materialismo storico..., pp. 98-99). Con l’aggiunta di questa nota, Croce otterrà anche, nella seconda edizione del saggio citato, di rendere più comprensibile e meno estrinseco quell’accostamento finale di Machiavelli a Marx, che egli aveva proposto, quasi a suggello del proprio contributo, già nella prima redazione del ‘97 (cfr. ivi, p. 104). 102 Cfr. la conclusione della n. precedente. 103 Materialismo storico..., pp. 152-53. 104 E che è tanto più significativo, in quanto dimostra che la contestualità dell’accostamento era tutta nella testa di Croce e la impegnava a tal punto da non consentirgli neppure di accorgersi che ad un lettore qualsiasi qualche ragione in più dell’abbinamento fra i nomi di Marx e Machiavelli — oltre a quella che Marx, diversamente dai “puristi” dell’economia e della sociologia, avrebbe avuto di mira la “realtà concreta” ed “effettuale” — sarebbe forse stato opportuno proporla (come poi farà nell’edizione successiva del saggio, cfr., più su, la

n. 101).

Ss

105 Cfr., supra, la n. 82. Questo contrasto è stato sottolineato — con riferi-

113

mento ai medesimi passi del volume di Croce che abbiamo richiamato nel testo - anche da Guido Calogero, il quale rileva — sia pure nel quadro di un’interpretazione critica della teoria del valore-lavoro che ci appare, per gli argomenti sui quali si fonda, assai più debole ed equivoca di quella stessa proposta da Croce — che tale contrasto potrebbe essere risolto se solo si intendesse l’esclusione crociana del coinvolgimento dell’etica nella teoria del valore come relativo bensì alla pretesa che da tale teoria si possano dedurre conseguenze etiche ma non alla deducibilità della teoria stessa da un presupposto etico (cfr. G. Calogero, Il metodo dell’economia e il marxismo, Bari 19674, pp. 64 sgg.). Presupposto che per Calogero è non solo evidentemente implicito nella teoria marxiana, ma anche, e non meno evidentemente, nell’interpretazione che Cro-

ce ne prospetta. Ad ogni buon conto, a prescindere dal modo in cui Calogero ricostruisce il senso della legge del valore di Marx e ne sottolinea le difficoltà, questo saggio presenta diversi motivi di interesse se lo si considera nella prospettiva di un’analisi del pensiero non di Marx o del marxismo, ma dello stesso Calogero. In esso acquista notevole risalto un tratto della sua filosofia (quello della contrapposizione non risolubile fra esperienza — o storia — e verità — 0 onnipresenza) che per quanto mi riguarda ho cercato altrove di fare emergere, cfr. il saggio La fine della gnoseologia e la posizione del problema speculativo di Guido Calogero, compreso nella raccolta: Guido Calogero a Pisa fra la Sapienza e la Normale, a c. di C. Cesa e G. Sasso, Bologna 1997, pp. 275-357. 106 I già ricordati: Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse e Marxismo ed economia pura. 107 Cosa che, come rileva anche Croce, poteva essere la semplice conseguenza del legame evidente che nel dispositivo teorico del III volume stringeva insieme la questione del rapporto fra valori e prezzi e quella della caduta del saggio di profitto. Anche la prima questione, infatti, come abbiamo visto, nasceva dalla constatazione che settori produttivi caratterizzati da una diversa composizione organica dei capitali in essi impiegati dovevano avere saggi di pro-

fitto diversi: maggiori dove la composizione organica era più bassa, minori nel caso opposto. Un nesso di inversa proporzionalità fra composizione organica e saggio del profitto era quindi già stato stabilito da Marx nell’individuare la causa di quel divario fra valori e prezzi di produzione che risultava mettendo a confronto l’analisi teorica del capitalismo basata sui valori con il concreto funzionamento delle dinamiche concorrenziali e di mercato operanti in un sistema reale. È evidente, pertanto, che la confutazione della teoria del valore ricavata

dal confronto fra il I e il III volume del Capitale, vanificando il problema della

“trasformazione”, doveva vanificare, agli occhi di Béihm Bawerk, anche la necessità di criticare una legge che derivava dagli stessi presupposti dai quali dipendeva, appunto, quel problema. 108 Cfr. op. cit. alla n. 34 p. 564. 100 Cfr. supra, lan. 23% Lat: 110 Cfr. R. Rosdolsky, Genesi e struttura del “Capitale” di Marx, tr. it. di

114

B. Maffi, Roma-Bari

1975, vol. II, pp. 434 sgg., il quale ricorda, tra l’altro, a

proposito dell’impostazione insoddisfacente data da Ricardo al tema della caduta del saggio di profitto, che Ricardo non conosceva né la differenza fra capitale costante e capitale variabile né quella fra saggio del profitto e saggio del plusvalore. 111 Cfr. L. von Bortkiewiez, Calcolo del valore e calcolo del prezzo..., cit.,

pp. 92 sgg., e P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, cit. (Einaudi 1951), pp. 138 sgg. e, in part., 142 sgg. 12 Per la questione della priorità nella critica della legge marxiana, cfr., poco più avanti, la parte conclusiva della lunga nota 118. 113 Cfr. Materialismo storico..., p. 141. ,

l4 Cfr. ivi, p. 142. 15 Cfr. ivi, p. 143. 116 Cfr. ivi, pp. 144-45.

i

Ul Cfr. Il Capitale, vol. I, cit., pp. 482 sgg. 118 Questo, d’altra parte, era del tutto chiaro anche a Croce, che sottolineava, incidentalmente ma in modo inequivocabile, tale conseguenza, sebbene

senza ricavarne quanto vi era di implicito (cfr. Materialismo storico..., p. 145). È strana, pertanto, l’osservazione di Guido Morpurgo Tagliabue, il quale, in uno dei pochi contributi sul tema apparsi nel secondo dopoguerra (cfr. G. Morpurgo Tagliabue, L’obiezione di Croce alla legge marxistica della caduta tendenziale del saggio di profitto, in “Giornale degli economisti”, 1946, pp. 175-193: p. 185), nel confutare un “critico recente” (P. Battara), che contestando le conclusioni di Croce sosteneva che esse si sarebbero basate sull’ipotesi irrealistica di una produzione immutata, rilevava non che l’accusa era infon-

data, ma

che essa

si sarebbe,

in definitiva,

potuta

riassumere

nell’ovvietà

secondo la quale un reimpiego di forza-lavoro con capitale svalutato sarebbe stata “una contraddizione in termini” e che esso non avrebbe potuto non comportare “un aumento del prodotto” (cfr. p. 185). L'osservazione di Morpurgo, è inserita in un contesto non sempre chiaro, nel quale si riconosce che la divergenza di fondo fra Marx e Croce consiste nel fatto che mentre il primo ragiona in termini di imprese singole o di singoli settori produttivi, il secondo ragiona in termini di produzione sociale, ossia “per totalità di imprese”, e questo, a giudizio di Morpurgo, porterebbe Croce a far coincidere il concetto di “progresso

tecnico” con complessivo trarrebbe il fatto, inutile

quello di “progresso economico”, interpretato come risparmio di mezzi per il conseguimento di uno stesso scopo, cosa che sotsuo ruolo autonomo alla composizione organica (rendendone, di il concetto), dal momento che in una considerazione “per totalità

di imprese” capitale costante e capitale variabile si muoverebbero, per defini-

zione, nello stesso senso (cfr. p. 186). Pertanto, sulla base dei suoi presupposti, Croce avrebbe ragione, ma la sua critica non colpirebbe la tesi di Marx, che si

fonda su presnpposti diversi. L’interpretazione di Morpurgo — che nelle conclusioni coincide con la nostra ma che nel suo andamento appare contorta, svi-

115

luppata seguendo troppi ‘fili? e, anche per questo, spesso tutt'altro che limpi-

da — misconosce il fatto che Croce accetta per intero il ruolo della composizione organica nelle variazioni del saggio di profitto, tanto è vero che la sua confutazione della legge si fonda proprio sul tentativo di dimostrare erroneo il principio che l’introduzione di tecniche innovative nel processo della produzione industriale comporterebbe un aumento della composizione organica. Il non aver compreso questo aspetto dell’argomentazione di Croce, spinge Morpurgo ad accreditare, contro ogni evidenza, la rivendicazione di priorità nella critica alla legge avanzata

da Arturo Labriola (il quale, effettivamente,

svolgeva la sua analisi riconducendo il fenomeno della caduta del saggio di profitto alla logica della concorrenza, ed escludendo dalla sua interpretazione ogni aspetto legato alla produzione, come, appunto, la composizione organica), e quasi ad avallare la sua (di Labriola) velata accusa di plagio rivolta contro Croce. La questione merita di essere ricostruita prestando una certa attenzione ai dettagli. Anche perché, dato il contesto nel quale Croce risulterebbe essere venuto per la prima volta a conoscenza della posizione di Labriola su questo tema, il fatto che egli possa essersi ispirato agli argomenti ai quali tale posizione si affidava getta sul suo modo di procede l’ombra di un sospetto assai grave. Per l’esame della vicenda connessa a questa disputa e per una valutazione comparativa degli argomenti di Croce e di Labriola si veda l’appendice. 119 Cfr. G. Pietranera, La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la critica revisionistica, in Capitalismo ed economia, Torino 19722, pp. 147-176, v. in part. le pp. 160 sgg.. 120 Tugan è l’autore di due opere che nei primissimi anni del secolo XX (1901-1905) misero in questione la teoria del crollo, contestando l’inevitabilità delle crisi da sottoconsumo: cfr. Shudien zur Theorie und Geschichte der Handelskrisen in England, Jena 1901, e Theoretische Grundlagen des Marxismus, Leipzig 1905. In questo secondo contributo egli si spinse a teorizzare — come, appunto, ipotesi-limite — l’eliminazione di tutta la forza-lavoro dal

processo produttivo e la sua sostituzione con le macchine (cfr. op. cit., p. 230). Per questa questione e tutte quelle connesse alla polemica sviluppatasi nei

primi decenni del ‘900 sul “crollo” del capitalismo, v. P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, 1? ed. cit., pp. 207-276 e il volume antologico, corredato di un’ampia introduzione, su Il marxismo e il crollo del capitalismo, a c. di L. Colletti, Roma-Bari 1975. 121 È sufficiente, a testimoniarlo, il peso e la frequenza con la quale il tema

ricorre in quello straordinario “canovaccio” ed insieme anche laboratorio del suo pensiero economico che sono i Grundrisse. — 122 Che è la ragione cui si appella Bortkiewicz per contestare la validità della legge (cfr. La teoria economica di Mara, cit., pp. 92-93) e anche quella cui, in sostanza, pur prendendo in parte le distanze da Bortkiewiez, fa riferi-

mento Sweezy nella sua analisi critica di questo tema (cfr. La teoria dello sviluppo capitalistico, cit., pp. 138 sgg.).

116

123 Cfr., supra, la n. 115 e il testo al quale essa si riferisce. 124 Cfr. “Critica Sociale”, IV (1984), pp. 347-49. La tesi sviluppata da Graziadei in questo scritto coincide (in alcuni punti alla lettera) con quella più ampiamente

argomentata,

che egli ebbe a sostenere nella sua tesi di laurea,

redatta nello stesso periodo (seconda metà del 1894) e discussa l’anno successivo (1895) presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Il titolo di questo breve lavoro, /l capitale tecnico e la teoria classico-socialista

del valore, allude espressamente al problema che, partendo dal dibattito sorto prima della pubblicazione del III volume del Capitale in merito al contrasto fra teoria del valore e saggio medio di profitto, e poi riaperto dalla comparsa dell’ultimo tomo dell’opera principale di Marx: Graziadei affronta e discute nella

seconda parte: se il capitale tecnico sia o no produttore di plusprodotto. La risposta di Graziadei è che, contrariamente all’assunto di Marx (e di Loria),

anche le macchine danno luogo ad una creazione di eccedenza e conseguentemente

di profitto (cfr. A. Graziadei,

Il capitale tecnico e la teoria classico-

socialista del valore, a c. di M. Gallegati, in “Quaderni di storia dell’economia

politica”, 1 (1983), fase. IT, pp. 151-164: pp. 157 sgg.). In proposito è davvero sorprendente quello che, nella breve introduzione, afferma il curatore. Che la tesi di Graziadei non comporti il “ritorno alle idee borghesi sulla produttività del capitale fisico o ad un’economia ‘volgare’ in cui il capitale è assimilato al lavoro come agente di produzione” è una dichiarazione quantomeno ambigua se si mette a confronto

con la posizione chiaramente

espressa da Graziadei,

secondo la quale “come il lavoratore rappresenta un organismo che, per la sua costituzione, può produrre più di quello che consuma,

così la macchina

è uno

strumento che produce una quantità di merci molto maggiore di quella che è necessaria alla sua creazione e al suo mantenimento”

(op. cit., p. 160). Inoltre

la tesi che “il fondamento dell’economia è il lavoro”, attribuita a Graziadei e citata a suffragio dell’interpretazione che Gallegati propone di questo scritto giovanile, può voler dire tante cose, ma

non

certo che quello che Graziadei

chiama “il capitale tecnico” non sia per lui produttivo, come lo è il lavoro umano, di “sopraprodotto”. Non può voler dire questo, perché una interpretazione del genere risulta smentita espressamente da quanto Graziadei afferma non solo nei contributi già ricordati del 1884 ma anche, a molti anni di distanza, per esempio in una nota del saggio Le capital et la valeur, pubblicato in francese (Paris-Lausanne 1937) e poi tradotto in italiano (Il capitale e il valore, Roma 1948): cfr. pp. 33-34 dell’ed. franc. e 32-33 di quella italiana. Quello che è estremamente interessante della posizione di Graziadei relativa al “capitale tecnico”, oltre alla perfetta simmetria che il suo saggio stabilisce tra la prestazione della macchina e quella della forza-lavoro, è il fatto che egli mette direttamente in collegamento l’errore compiuto a suo parere da Marx (e da Loria) nell’assegnare la capacità di creare plusprodotto solo al lavoro umano, con il divario fra valori e prezzi (interpretato come la prova definitiva dell’insostenibilità della teoria del valore) e con la caduta del saggio di profitto (seb-

117

bene la legge che la riguarda non sia espressamente attribuita alla responsabilità di Marx, cosa che è singolare e che richiederebbe qualche ipotesi esplicativa), da lui presentata come un paradosso insostenibile perché chiaramente smentito dai fatti. Da qui la distinzione fra produzione e valore (e anche tra

plusprodotto e profitto), che rende sufficientemente conto sia della lettera a Loria citata da Gallegati (cfr. op. cit., p. 163, n. 7: i due concetti sono, appunto, distinti, e quello di “capitale’’ qui evocato include tanto “il capitale tecnico” quanto “il capitale salario”, cfr. p. 159) sia delle affermazioni ricorrenti di Graziadei secondo le quali il capitale tecnico genera profitto (in un sistema capitalistico il plusprodotto è comunque alla base del reddito da capitale, che si realizza, però — e non solo in senso monetario — esclusivamente nella e attra-

verso la circolazione). La posizione di Gallegati è tanto più sorprendente perché gli sono note la critica di Croce allo scritto di Graziadei apparso nel 94 su “Critica sociale” e l’interpretazione che Francesco Coletti diede di questo stesso scritto in una lettera indirizzata a Loria nel medesimo anno (cfr. nn. 5 e 8

pp. 163-64), dalle quali risulta inequivocabilmente il senso della tesi di Graziadei. Ultimo motivo di sorpresa è rappresentato da quello che Bellanca dice nel capitolo dedicato a Graziadei del suo libro, nel quale si dimostra interamente tributario dell’interpretazione di Gallegati (cfr. Economia politica e Marxismo in Italia, cit., p. 141, n. 10) radicalizzata fino al punto di sostenere che “per tutta la vita Graziadei avrebbe studiato la tesi’’ che l’eccedenza è originata dal lavoro umano

senza mai discutere l’altra, equivalente e simmetrica, che essa

possa essere originata dal capitale: cfr. op. cit., pp. 138-39. Questa incredibile reticenza a prendere atto di quanto viene affermato con assoluta chiarezza in un testo che pure si dovrebbe avere ben presente visto che se ne parla o addirittura, come nel caso di Gallegati, se ne propone per la prima volta l’edizione

a stampa, potrebbe essere interpretata come un'ulteriore prova di quanto abbiamo detto, poche righe più su nel testo, riguardo al rapporto fra marxismo e “macchinismo” (confronta, supra, la n. 120 e le considerazioni alle quali essa

si riferisce). 125 Materialismo storico..., p. 136, n. 1 (si tratta della conclusione del saggio, pubblicato sulla “Riforma Sociale” nel 1899, Recenti interpretazioni della

teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse). 126 Ivi, p. 134. Il volume di Graziadei cui Croce fa riferimento in questo luogo è La produzione capitalistica, Torino 1899, nel quale Graziadei sostiene

la tesi che il profitto non è determinato dal plusvalore ma dal plusprodotto e che pertanto Marx ha ragione di ricercarne l’origine nella sfera della produzione anziché in quella della circolazione, ma sbaglia ad ancorare tale indagine ad una teoria del valore (cfr. pp. 1-14). Nel saggio Graziadei prende posizione anche nei confronti dello scritto di Croce del ?97, dichiarandolo

“notevolissi-

mo”, ma sostenendo nello stesso tempo la sua assoluta incompatibilità con l’analisi di Marx (cfr. p. 230). x

LO

118

pacitàpal35:

128 Questa è, verosimilmente, la ragione per la quale Croce, pur così atten-

to ed informato sul dibattito sviluppatosi intorno al terzo libro del Capitale, non ha nessuna conoscenza diretta dell’opera di Conrad Schmidt, come abbiamo già avuto modo di rilevare (cfr., supra, n. 47). Con ogni probabilità, la natura della critica di Engels a Schmidt contenuta nella prefazione al III volume dell’opera di Marx, doveva aver convinto Croce che non valesse la pena di sottoporsi alla fatica di approfondire una tesi tanto peregrina da sostenere — secondo quello che egli poteva ricavare da Engels — che il capitale avesse, di per sé — e non come strumento del lavoro umano o come fattore interno ad una dinamica di mercato — la capacità di produrre valore. 12° Cfr. A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Torino 1941, p. 50. 150 Ma la discussione tra Croce e Pareto tiene presente solo la prima di queste due parti, cfr. “Giornale degli economisti”, serie II, XIX (1900), pp. 216239. Gira ipp22.1-23% 132 Cfr. ivi, p. 224. 133 Cfr. Materialismo storico..., p. 211. 34 Cfrtivs, py212/

15° Cfr. Comment se pose le problème de l’économie pure, Mémoire présenté, en décembre

1898, à la Société “Stella”, par le prof. Vilfredo Pareto, in

Marxisme et Économie pure, vol. IX delle Euvres Complétes, publiées sous la direction de G. Busino, Genève 1966, pp. 102-109: p. 104.

1507 1brds 137 Ibid. 138 Cfr. Materialismo storico..., p. 216.

139 Ibid. LO Ctrtop®cirips220: 141 Materialismo storico..., p. 217.

lee bili 143 Ibid. 144 Ibid. todlva-ip 218; 146 Cfr. U. Gobbi, Sul principio della convenienza economica, in “Memorie del R. Ist. Lombardo”, serie III, XII (1900), CI. sc. stor. e mor., pp. 173-203.

147 Cfr. Materialismo storico..., pp. 232 e 239. 148 Ivi, pp. 233-34. Io4Tvi pp. 216:

SO

pAZITE

IL Girsivio p.1237% DA Gfrdopi cit apal9:

153 Cfr. Sul principio della convenienza economica, cit., p. 175.

154 Materialismo storico..., p. 237 (corsivo nostro).

119

55 Tesi fondamentali di un’estetica..., cit., p. 19. tè Che è la stessa cosa, per Croce, del dire che la volontà è attività consapevole e non inconsapevole, libera e non eterodiretta. Ossia un’attività che ha la sua consapevolezza in se stessa (cfr. Materialismo storico..., p. 225). Perciò, replicando a Pareto, Croce afferma che l'individuo, quando sceglie, non formula una scala dì preferenze: sceglie A e rifiuta (nell’atto della scelta di A) tutto il resto (cfr. îvi, pp. 212-213). L'inconscio paretiano, come antefatto, viene respinto: l’antefatto non è mai inconscio, perché è intrinseco alla volontà, ossia è la volontà stessa, che è consapevole di sé. Inconscio è solo l’opposto (della volontà e della conoscenza), ma come tale esso non è mai un antefatto (nel senso dì qualcosa che possa determinarla), sebbene questo non significhi che i suoi antefattì (nel senso dì ciò che viene prima) debbano e possano essere, rispetto alla volontà è al suo determinarsi, perfettamente noti. Abbiamo qui, come si vede, potenzialmente tutte le premesse della futura articolazione distinti-opposti della Filosofia dello Spirito. In questa articolazione, d’altra parte, si insinuerà (e ìl momento preparatorio di questa “intrusione” può cogliesi fin d’ora) qualcosa (la tecnica e la scienza, nell’interpretazione che Croce ne darà successìvamente, a partire dal 1905), che pur non essendo inconscio, e dunque pur

senza costituire un errore in senso filosofico, verrà dichiarato da Croce come non esprimibile per mezzo di veri e propri “concetti”, ma piuttosto soltanto attraverso concetti fintî 0, come egli stesso li definirà, coniando un’espressione

divenuta celebre, “pseudoconcetti”. Qualcosa che, quindi, in un certo senso, sarà e non serà errore, e questo non da punti di vista diversi, ma da uno stesso punto dì vista (quello della logica). Qualcosa, pertanto, che tenderà al raddoppiamento (come, del resto, accadrà anche all’“astratto” gentiliano), a collocarsì, cioè, entro la cornice della realtà spirituale, ma poi, nello stesso tempo

e indebitamente, a porsì altresì fiori di tale cornice. LT A parte l’Appendice che è del 1937, nella seconda edizione, com'è noto,

il volume sul Materialismo storico fu integrato da Croce con l’aggiunta di qualche seriìtto dì argomento affine, Poì non subì più incrementi fino all’ultima edisìone curata dall'autore (la VI), nella quale fu introdotta, appunto, l’Appendice.

8 Due vizi daì quali con pochissime, parziali eccezioni, non è andato esente quasi nessuno dei critici e degli interpreti italiani di Croce fino a tutti gli anni "50, La prima vera rottura rispetto a questa tradizione esegetica fortemente contaminata dì ìdeologia e oratoria si ha nel decennio successivo, con un ampio saggio di G. Sasso intitolato Per un'interpretazione di Croce, apparso sulla rivista “La Cultura” nel ’63-°64, cuì farà seguito, nel 1975, la monumentale ricognizione dello stesso autore sull’intero territorio della filosofia e della produzìione intellettuale erociana, della quale abbiamo più volte fatto menzione in queste note, L'opera, dedicata alla Ricerca della dialettica da parte, di Croce,

prende, certamente non per caso, le mosse dall’analisi di aleuni aspettì della sua filosofia pratica e ha, come abbiamo già ricordato, nell’ampia sezione dedi-

120

cata alla “storia dell’utile” la sua “chiave di volta”. 159 Diversamente da Hegel, infatti, per il quale il “residuo” rappresentato dalla contingenza empirica è ciò che, nel processo di Aufhebung — un “superamento” che è, però, anche una “soppressione” e un “annullamento” — viene “lasciato cadere” e così “va a fondo” (zugrunde), cioè viene negato e parificato, nella sua irrealtà, all’errore e al non-essere; per Croce, come abbiamo visto, empiricità ed errore sono concetti diversi.

121

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Mario Reale

Introduzione alla lettura crociana della teoria del valore

di Marx. Questioni di metodo

L’interpretazione crociana della teoria del valore di Marx può essere analiticamente articolata in tre capi principali. Il primo riguarda le questioni in senso largo di metodo, che rivestono molta importanza nell’analisi complessiva di Croce. Il secondo, per alcuni aspetti contiguo al primo, concerne gli scopi e i risultati “formali” della ricerca economica di Marx, se cioè essi producano contenuto conoscitivo (ed eventualmente anche scientifico)!; in altre parole, si tratta qui di stabilire se la teoria del valore-lavoro rientra nella scienza dell’economia, almeno qualora sia intesa in modo non

ristretto, e, in caso affermativo, quale

ruolo vi svolga e, appunto, a quali risultati metta capo. Il terzo, di cui tuttavia non devono sfuggire le connessioni con il secondo e neanche con il primo, riguarda quella che Croce chiama “la giustificazione non più formale ma reale” del procedimento di Marx, o, in modo ancor più diretto, la “determinazione”

del-

“utilità” ché la teoria del valore di Marx “può avere per noi”; un tema, questo, affascinante e difficile, per via, se non altro,

123

della ferma distinzione crociana di teoria e prassi, o di scienza,

storia e “programmi sociali”’3. — Dire ora che queste articolazioni dell’indagine si ritrovino proprio così formulate e distinte- nell'esposizione crociana dei saggi su Marx, sarebbe very hazardous. Dipenda dalla intrinseca contiguità dei temi, o dalla difficoltà dell’indagine, che sembra conquistare ordine logico-espositivo nel corso del suo stesso svolgimento (donde la miglior chiarezza di Croce quando si volge con uno sguardo retrospettivo sui suoi lavori, nel corso delle polemiche con Labriola e con Racca), fatto sta che le questioni a volte scivolano l’una sull’altra, e a volte sembrano stringersi in un nesso unitario. Si prenda, per limitarci a un solo esempio, il passo dell’inizio di Per la interpretazione dove Croce si chiede: Ma quale legame questa proposizione [l°“eguaglianza di valore e lavoro” ]ha con le leggi della società capitalistica? ossia, quale ufficio essa compie nella ricerca? E qual è poi il suo intrinseco significato? Una lettura benigna, ai nostri fini, di queste domande,

che

hanno carattere programmatico per la ricerca (“ecco — si aggiunge di seguito — ciò che il Marx non dice mai espressamente; ed è questo anche il punto intorno a cui sono nate le maggiori confusioni e più si sono sbizzarriti e gl’interpreti e i critici”?4), potrebbe portare a dire che i due primi quesiti si collocano nell’ambito di ciò che sopra abbiamo chiamato metodo e risultati conoscitivi, mentre il terzo appartiene al capo utilità. Ma sarebbe pure evidente in questo un certo grado di artificiosità, a proposito di un passo che Croce avrebbe potuto stringere in una sola domanda intorno al significato della teoria del valore di Marx. E con tutto ciò, nonostante le difficoltà e le resistenze che

il testo crociano, anche in modi più complessi di quanto risulti da questa esemplificazione, opponga talvolta alla ripartizione della materia che proponiamo, ad essa ci terremo nelle pagine

seguenti. Del resto, provi il lettore a fare l'esperimento che noi 124

stessi abbiamo fatto, quello cioè di esporre Croce seguendo l’ordine del saggio in tutti i sensi “maggiore” degli studi su Marx, Per la interpretazione: vedrà che le cose non sono affatto più facili, che, dopo le prime pagine, le questioni si aggrovigliano, richiedendo in ogni caso un criterio selettivo nell’esposizione. Quest’ordine di considerazioni merita del resto ancora un chiarimento, o una specificazione interna. La relazione infatti che la teoria del valore-lavoro intrattiene con l’“economia pura” — uno dei temi fondamentali dell’analisi di Croce — è, sotto

ogni riguardo, questione di metodo; ci dice cioè se le ricerche di Marx possano, e a che titolo, rientrare nella “scienza” dell’eco-

nomia: se, perciò, almeno dal lato formale e potenzialmente, sono in grado di produrre conoscenza scientifica. Fin dalla sua prima memoria teorica sul materialismo storico, Croce ha sempre tenuto fermo che la vera scienza economica fosse quella del ‘“purismo” marginalistico, e che da questa, “dalle teorie che costituiscono attualmente il nostro patrimonio scientifico”, dovesla storia di una scienza’. L'analisi crociana della

se muovere

“scientificità” della teoria del valore di Marx dovrà sempre fare i conti con questo saldo riferimento; e ciò ci riporta a difficili problemi di metodo: se la scienza “cerca sempre il generale e lavora per concetti”, se l’economia scientifica opera con “leggi generali”, mostrando come i più diversi fatti economici, nel tempo e nello spazio, obbediscano sempre alla stessa legge, si poteva fare scienza anche “restringendosi”, come fa Marx, solo alla

“particolare formazione economica [...] capitalistica”’?7 La natura di queste e altre simili domande ci conduce dunque nel pieno di un discours de la méthode. Per ragioni soprattutto di spazio, mi limiterò in questo scritto a trattare le sole questioni, più generali, di metodo, sebbene ciò comporti qualche inevitabile sconfinamento agli altri ambiti. Quello di cui ora invece non ci occupiamo espressamente è costituito dagli eventuali scopi erisultati conoscitivi (o anche scientifici) che l’indagine di Marx è in grado di conseguire; e a fortiori, resterà fuori 125

della nostra analisi tutto ciò che riguarda l’utilità che il valorelavoro “può avere per noi”. In generale, perciò, quasi nulla diremo in merito alla specifica interpretazione crociana del valore-lavoro, stretta nella formula del “paragone ellittico”. Le assenze non sono da poco, sì obietterà. Ma, come mi sono venuto convincendo, il fatto è che se non si scende alla radice delle questioni, più circoscritte, che affronteremo, lo stesso “paragone ellittico” rischia di esporsi alla banalizzazione, o a quelli che Croce chiamava “semplici giochetti di pensiero”. Il saggio avrà pertanto la natura di una prima introduzione, o di un’approssimazione, alla lettura crociana della teoria del

valore di Marx.

Incentrate intorno alla domanda sulla natura della ricerca economica di Marx, le questioni che diciamo metodiche sono frutto di una consapevolezza che viene conquistata da Croce nel tempo. Nella prima formulazione crociana del significato da dare alla “concezione del valore nel Capitale del Marx”, che si trova nella celebre nota aggiunta all’edizione italiana del saggio su Loria”, non c’è alcun accenno a questioni di metodo. La “teoria generale del valore”, si dice qui, è stata attinta, sulla base della “concezione utilitaria”, dalla scuola “edonistica o austriaca”; la teoria del valore di Marx “è un’altra cosa”, sebbene rile-

vantissima dal lato economico-sociale, qualunque cosa ne pensino critici come Bòhm-Bawerk!®. L'estrema genericità dell’espressione testimonia a sufficienza un imbarazzo che dovrà essere sciolto. Il fatto è tanto più significativo, né può essere perciò addebitato ai ristretti margini di una nota, sia pur lunga, se si riflette alla circostanza che in questa pagina Croce formula nella maniera più precisa e incisiva la sua riconduzione del valorelavoro a “paragone ellittico”, o comparazione tra la formazione di valore che ha luogo nella società capitalistica, e quello che ha luogo in un’“ipotetica” società di puri lavoratori. Ma le questioni di metodo, si potrebbe osservare, quando non si risolvono in

vuote e inutili genericità, o non si dissolvono nel tutto, come

nelle ultime pagine della Scienza della logica di Hegel, sono tra 126

le più difficili, e fatalmente investono il cuore stesso dei problemi. Del resto, ciò non vuol dire affatto che la proposta crociana del “paragone ellittico” sia. dal lato metodico. problemlos. A poterla esaminare con larghezza. si vedrebbe anzi che essa è sorretta in tutte le sue parti da una precisa scelta di metodo. consistente, per anticipare subito la cosa. nel sottrarre la teoria del valore di Marx a quella dimensione oggettivistica. di legge “reale” dei fatti economici, che così fortemente la connota. per ricondurla invece entro un più sofisticato concetto di “scienza”. Il caso più significativo in proposito. è toccato là dove Croce dice che solo per aver assunto il valore-lavoro come “tipo” o misura. termine di paragone con la società capitalistica. Marx poté giungere a considerare “i prezzi come deviazione dai valori reali per effetto della concorrenza tra capitalisti”!!. Se non fosse stato în possesso di un sottile, acuminato e di necessità un po’ paradossale procedimento metodico, mai Croce sarebbe stato in grado di fermare arditamente Marx al di qua di quel tormentoso problema della “trasformazione” dei valori in prezzi che campeggia nel terzo libro del Capitale: né mai avrebbe potuto risolvere la divaricazione di valori e prezzi. fuori di ogni tentativo di riunificazione quantitativa. in una più forte tensione critico-sistematica dell’analisi marxiana in merito alla natura (si potrebbe persino dire “contraddittoria”) del capitalismo. Altro però è dir questo. mostrare cioè che in Croce il “metodo” non è mai astrattamente separato dai contenuti dell’indagine. e che la proposta interpretativa del “paragone ellittico” è, fin dalla sua prima formulazione, tutt'altro che ingenua metodicamente, altro è la piena consapevolezza del metodo operante nella ricerca di Marx. alla quale la ricostruzione crociana perviene solo in un secondo tempo. I problemi su quest'ultimo terreno si complicano perché. a tacer d’altro, interviene il difficile confronto tra la specifica ricerca economica di Marx e l'economia pura.

Ma se ora ci spostiamo dalla nota al Loria alla memoria pon127

taniana Per la interpretazione, che, letta il 21 novembre

1897,

è esattamente di un anno dopo, possiamo misurare quanto cammino Croce abbia compiuto in merito al nostro problema. La nota segnava certo il grande passo avanti di Croce sulla via della propria interpretazione della teoria del valore di Marx, poiché, rompendo il pareggiamento, alto ma alquanto neutro, tra la concezione del valore “utilitaria”, della scuola austriaca, e il valo-

re-lavoro della “scuola ricardiano-marxistica”, qual era consegnato al testo francese del Loria, assegnava alla prima la “teoria

generale del valore”, o la teoria del valore tout court; ed è questa mossa, si badi, che apriva la strada alla limpida formulazione del “paragone ellittico”. Ma, per le questioni che ora interessano, la nota mostrava ancora i tratti della provvisorietà. Che voleva dire infatti che “le teorie edonistiche‘ e “le teorie del Marx” sono reciprocamente inconfutabili, le prime possedendo la teoria del valore, le altre genericamente dichiarate “un’altra cosa”? L’“apparente antinomia delle due diverse teorie del valore” non poteva esser risolta nei modi dell’indifferenza reciproca, né bastava alzare il tiro sulla rilevanza sociale dell’‘altra co-

sa” marxiana,

se l’intera scienza economica,

con la teoria del

valore, veniva assegnata alla “scuola edonistica”. Partito dalla simmetria, di egual “rigore logico”, della scuola edonistica o austriaca e di quella ricardiano-marxistica (con esattezza si dice: “teoria proposta dal Ricardo e perfezionata dal Marx”), in merito alla concezione del valore Croce rischiava di concludere nel segno di una sbilanciata asimmetria!2. Su questa base, contro gli auspici crociani, i puristi economici avrebbero potuto continuare a infischiarsene di Marx, o a pontificare dall’alto contro il Capitale, indifferenti sì ad “altre cose”, non però a ciò che avesse

a che fare con

la loro scienza; mentre

i marxisti

avrebbero dovuto esser censurati ognî volta che, non si dice nominassero la scienza, ma presumessero uscire dalla sfera pratica. La ricerca di Croce, tuttavia, non si arresta a questo punto. Formulata secondo il verso delle questioni metodiche,la do128

manda di Croce assume tutt’altra direzione: posto che la teoria del valore è quella utilitario-austriaca, se e in che modo il valore-lavoro di Marx rientri nella scienza economica. Ed è per questo che, completamente assenti i problemi di metodo dalla nota al Loria, il saggio maggiore di Croce si apre, un anno dopo, con una sezione dedicata al “Problema scientifico nel Capitale del Marx”. Generato da quei mutamenti che nel tempo si producono, l’interesse crociano per le questioni metodiche nello studio del Capitale ebbe altresì un potente stimolo, mobilitatore di energie frustrate dal lavoro su Loria e ancora incerte sulla via da prendere, dalla lettura del celebre Zum Abschluss

des Marxschen

Systems di Bihm-Bawerk. Ma le questioni, riguardo a questo saggio, decisivo a nostro giudizio per la comprensione della genesi e della configurazione della-lettura crociana della teoria del valore di Marx, sono molte e di varia natura,

a cominciare da

quelle relative a quando e dove Croce poté leggerlo!3; chiediamo perciò un po” di credito, ché dell’intero caso ci occuperemo presto in altra sede. Per la stessa ragione, tratteremo qui la questione solo nei suoi termini più generali: svolgerla per intero non si può, ometterla è grave, quando si affrontino i problemi di metodo dell’indagine di Croce sulla ricerca economica di Marx. Sebbene Béhm-Bawerk affermi, con non poca civetteria, alla

fine del suo scritto, che per lui tutti i metodi vanno bene in economia, eccezion fatta per il “genre ennujeux ‘14 della battuta di Voltaire, il confronto di Croce con Zum Abschluss avviene proprio su un terreno metodico, al quale del resto nemmeno Zum Abschluss riesce a sottrarsi. Marx, per Béhm, si era sempre attenuto, in maniera seria e consapevole, al “metodo oggettivistico”;

ed è su questo terreno che si doveva misurare il completo fallimento del Capitale!5. Quanto a Sombart, che, a partire dalla contrapposizione del metodo “oggettivistico” di Marx ai metodi soggettivi e psicologici della scuola austriaca (0 tra studio delle condizioni économiche che si svolgono “alle spalle” degli indivi129

dui, da essi indipendenti, e spiegazione della vita economica a

partire dalla “motivazione psicologica” dei soggetti) aveva auspicato una nuova stagione della eritica marxista, interessata innanzitutto a discutere le questioni di metodo!° — Bòhm obiettava che, pur se il contrasto tra Marx e gli 6 “austriaci” era frutto di “osservazione sottile e intelligente”, nella sostanza i conti con Marx erano già stati fatti (da parte sua aveva assolto il compito principale fin dal 1884) e la diagnosi era stata infausta, di “aborto della dialettica”, sicché non poteva esserci nessuna “nuova era” di critica marxista in vista!”. In breve e in modi sommari, i problemi metodici che Croce ha dinanzi, dagl’inizi di ottobre del 1896, quando legge a Perugia Zum Abschluss, possono essere anticipati nella maniera seguente. Il punto di partenza è costituito dalla valorizzazione della lettura sombartiana del valore-lavoro di Marx come una “gedankliche (0 logische) Tatsache ”, che del resto aveva ricevuto sostanziale e autorevole avallo nel Nachtrag di Engels al terzo volume del Capitale. Scelta decisiva dal lato metodico, contro il Marx “oggettivistico””, questa di Croce; ma con la piena consapevolezza che la proposta “concettualista” di Sombart rappresentasse solo una prima e fuggevole intuizione: con le parole di Per la interpretazione, si trattava di una ricerca “piuttosto

avviata

che condotta

a buon

termine”!8,

Nel frattempo,

con Zum Abschluss, era intervenuto Bòhm, che, pur tra molti riguardi, “accademici”

o no, aveva

picchiato, nel segno di una

dura ironia, contro Sombart, anzitutto mostrando come il “concettualismo” sombartiano riposasse su un giaciglio quantitativo e oggettivistico!?. Per il resto, le cose erano chiare e nette nel

giudizio di Bihm. Marx, come tutte le persone sensate, aveva preteso di tenersi sempre ai “dati di fatto”, solo che i fatti avevano smentito il suo “sistema”. Se poi, lasciando interamente da canto Marx, si doveva scendere sul terreno della “critica sombartiana”, e prendere posizione circa l'assunto che il, valorelavoro di Marx, scacciato dalla “realtà”, trovava rifugio nel 130

“pensiero dell’economista teorico”, ossia che era solo un dato “concettuale” e non “empirico” — gli esiti possibili erano per Bohm solo due: o si trattava di un escamotage per sfuggire le difficoltà riconosciute dallo stesso Sombart e compiere, dal “sicuro rifugio” concettuale, nuove incursioni “nel modo dei dati di fatto”, e allora, c’era della scorrettezza: in ogni caso si tornava

alla teoria del valore di Marx che “non regge alla prova dei fatti”; o si formulava un’interpretazione del valore-lavoro che desse rigoroso congedo ai fatti, e allora non si sapeva che farsene di una cosa così “innocua” e scipita, nella teoria e nella pratica pari a “zero”, oltre che contraria allo spirito e alla lettera di Marx?0, Dinanzi a questo quadro, che abbiamo cercato di richiamare solo nei termini essenziali, la posizione di Croce è complessa perché, a dirlo in una battuta, lavora, al tempo stesso, mit Bohm e

gegen Bihm. L’area del consenso è segnata dalla generale adesione di Croce all’indirizzo “purista”, o appunto “austriaco”, e quindi dall’accordo con le critiche alla teoria del valore di Marx dei marginalisti, e segnatamente con quella bawerkiana, che è del resto la migliore e la più significativa?!; anche nella polemica

con

Sombart,

Croce

sta,

sostanzialmente,

dalla

parte

di

Bohm, o se si vuole, dalla parte di quel Sombart che sostiene nel modo più deciso, come che sia coerente, la non corrispondenza del valore di Marx alla realtà empirica (non si trova nel rapporto di scambio delle merci, non indica il punto verso cui gravitano i prezzi, “non compare in alcun luogo”22). Il dissenso di Croce da Béhm riguarda il giudizio sull'economia di Marx; né ci si affretti a mettere ciò in paradossale contrasto con quanto si è appena detto.

- Croce sembra raccogliere l’invito di Sombart ad aprire una nuova stagione di studi su Marx incentrata anzitutto sulle questioni di metodo, per le quali mancano ancora del tutto finanche le “opere preliminari”?3. La necessità che una simile esigenza venga assolta è riconosciuta da Croce molte volte, in varie e non 131

sempre esplicite guise. Si prenda ad esempio l'incipit di Per la là dove, richiamato il “non piccolo sforzo di mente filosofica ed astraente” richiesto per la comprensione della specifica natura delle ricerche del Capitale, si aggiunge che lo interpretazione,

stesso Marx non pare avesse

sempre

piena

consapevolezza

della

peculiarità,

ossia

della differenza teorica della sua ricerca rispetto alle altre che sì possono

esercitare

sui fatti economici;

e, a ogni modo,

dis-

prezzò o trascurò tutte quelle spiegazioni preliminari e metodiVER 5 che, che potevano chiarire il suo assunto?!,

Sono osservazioni che, lette velocemente, quasi di circostanza,

possono suonare

relative alle raisons du commencement,

e

anche un po” curiose (Il Capitale, dopotutto, ha per sottotitolo Kritik der politischen

Oeconomie;

e Croce conosce

il “sommo

disprezzo” di Marx per l’oeconomia vulgaris 2°), mentre rinviano esattamente ai problemi che stiamo indagando — se la specifica differenza delle ricerche di Marx si lascì riportare a un gene-

re — metodico, teorico e scientifico — comune all'economia pura. In altri casi invece, ci limitiamo anche qui a un solo esempio, le

cose sono più dirette. Così è nella risposta a Labriola, là dove Croce scrive:

Ciò che il Marx ha voluto fare, o sì è illuso di fare, mi par che alla critica interessi fino a un certo segno, perché la storia della scienza prova che non sempre i pensatori hanno avuto piena e chiara coscienza del proprio pensiero, e che altro è scoprire una verità, altro definire e collocare al suo luogo la scoperta fatta?0,

Se ora ci poniamo dalla prospettiva dì definire la “scoperta” fatta da Marx, Zum Abschluss si rivela una lezione di straordinaria portata, sebbene anch'essa da “collocare” al suo posto. Ciò che Bihm-Bawerk, con le armi della critica, insegna — né si tratta davvero di poco — è come non si possa e non si debba leggere Marx , per quanto forte sia la sua caparbia adesione (liqui132

datoria) alla lettera e persino allo “spirito” delle ricerche del Capitale. E addirittura preziose sono le indicazioni di Bòhm, in

quanto cautelano dai passi falsi; ossia, mostrando i vincoli inaggirabili che si devono tener fermi nella lettura di Marx, aprono

la strada a una critica insieme più libera e rigorosa. Degli errori, “illusioni” o ‘fallacie” di Marx, a questo punto, nemmeno conviene parlare più: sono tutti idealmente inclusi nei vincoli posti all’analisi. Croce si terrà, piuttosto saldamente, a questo proposito: gli sforzi devono essere concentrati sulla ricostruzione, positiva, simpatetica e valorizzante, della “scoperta” fatta da Marx. Qui “spirito” e parte della “lettera” di Marx (Agostino d’Ippona ci aiuti) vengono ritrovati, in polemica aperta e indignata con Béhm, che, al di là dei signorili riguardi nei confronti della persona e dell’intelligenza di Marx, riteneva del tutto irrilevante la portata teorica delle ricerche svolte nel Capitale. A Bohm

poi, convinto, con malcelata boria, che la sua critica,

basata sui testi e sulle presumibili intenzioni di Marx, fosse la critica tout court, netta e definitiva, Croce avrebbe potuto ri-

spondere: ‘ma il campo economico può dar luogo mai a un criterio obiettivo?””27, La demanda sulla quale dobbiamo ora concentrarci riguarda la centralità e l’impellenza delle questioni di metodo nello studio dell’economia di Marx. Croce risponde in vari modi a questa domanda (un modo lo abbiamo già incontrato nell’incipit di Per la interpretazione), ma la forma più radicale di risposta, che pur soggiace, come ci pare, al fondo di tutta la sua analisi, non viene mai formulata: appartiene, diremmo, a quel bagaglio di precondizioni, in compagnia delle critiche a Marx di Bohm, e di prenozioni, a partire dalle quali l’analisi si costituisce, ma che tuttavia, per una serie di ragioni, per lo “stile” di Croce e per non conferire all’indagine un taglio troppo ostile, non vengono mai alla luce. Svolgere una tale domanda, perciò, vuol dire capi-

re scelte interpretative che, a una lettura veloce dei saggi crociani su Marx, possono sembrare singolari o, addirittura, biz133

zarre: perché ad esempio non vi si incontrino quelle critiche al valore-lavoro, guadagnato “per esclusione” nelle prime pagine del Capitale, o al cosiddetto problema della “trasformazione” dei valori in prezzi del III libro, che già si erano costituite in una tradizione null’affatto irrilevante?8; perché insomma si opta spesso per il silenzio, e anzi, alcune note “traversie” sembrano

vichianamente mutate in “opportunità”. det problema generale che Croce si era posto riguardava “l’interpretazione da dare alla teoria marxistica del valore perché diventi in qualche modo adoperabile”2°. Quest'ultima espressione va intesa in maniera larga: Croce l’usava anche a proposito del materialismo storico; essa vale, oltre che in particolare per la terza delle questioni che sopra abbiamo isolato, circa “1’utilità per noi” del valore-lavoro, anche per le prime due. Ma, “ristringendomi più a’ particulari”’30, venendo cioè alle questioni di metodo, il modo crociano “d’intendere e adoperare” la teoria del valore di Marx si scontra subito con una formidabile difficoltà. Per dire la cosa (pronta altrimenti a esplodere) con le semplici parole di Bohm, la teoria del valore-lavoro, per insormontabili difficoltà analitiche, “non regge la prova dei fatti”. E la questione qui non è, né solo né tanto, che i valeri non si tra-

sformano in prezzi. Al di là, e prima, dei difficili problemi tecnico-analitici del decimo capitolo, in particolare, del III libro del Capitale, al di là della “contraddizione” tra primo e terzo libro, la critica marginalistica, in maniera esemplare con Bòhm,

si era rivolta alle battute iniziali e al Grundakkord del Capitale, là dove, dopo una serie di esclusioni, si argomenta che l’elemento comune nelle merci può essere solo lavoro astratto, o dispendio di lavoro umano ‘‘iiberhaupt‘*31. Con una critica che è stata giudicata “formalmente ineccepibile”, e tale da indurre un motivato distacco dal valore-lavoro di Marx82, Bòhm osservava che,

sempre fatta astrazione dalle qualità delle singole merci, vi sono, oltre il lavoro, al quale pur si concede di essere il dato-ovil “fattore” più rilevante, numerosi altri elementi comuni: l’utilità, la 134

scarsità, la circostanza di essere oggetti appropriabili o di essere prodotti della natura83. Da parte sua, Croce è perfettamente al corrente delle critiche marginalistiche a Marx, e ne condivide,

con sobrietà, lo spirito. Di più, le mette in atto per circoscrivere l’ambito di un’interpretazione del valore-lavoro criticamente avvertita. Se fosse qui il luogo per farlo, si potrebbe agevolmente mostrare, con molte citazioni, che i presupposti della critica marginalista e bawerkiana sono per Croce temi preliminari e correnti, necessari cioè per impostare un’impeccabile formulazione del “problema scientifico nel Capitale”?84, Ma, delineati gli elementi essenziali della questione, è ora di

venire alla domanda fondamentale che a nostro giudizio è sottesa all’intera analisi crociana dell’ “economia marxistica”: se la teoria del valore-lavoro non è criticamente sostenibile nella sua

gravosa pretesa esplicativa, che farne? ossia, che fare dell’intera ricerca

economica

di Marx,

la quale, com’è

chiarissimo

a

Croce, solo dalla teoria del valore, e dagli svolgimenti che vi si connettono, a cominciare dal “sopravalore”, prende significato? Poiché nel corso del ‘900, in questa o in forme simili, con acri-

bia accademica e con pathos politico, tale domanda si è ripresentata più volte, è necessario anzitutto riconoscere a Croce il rango di capostipite. Ma, al tempo stesso, è pure necessario riconoscere, anticipando subito una conclusione del nostro lavoro, l’intelligenza, l’originalità, e, aggiungeremmo, la civile serietà della lettura crociana di Marx. Se provassimo, con arbitrio non legittimato nemmeno dall’estrema ramificazione del caso, a schematizzare le tante interpretazioni del valore-lavoro di Marx secondo le approssimative categorie della sua giustificazione economica, nelle forme più varie, o della sua risoluzione e transvalutazione, attraverso una più libera lettura, in un orizzonte

almeno in parte diverso85, si potrebbe avere subito un’idea della significativa peculiarità della lettura crociana. Da un lato cioè Croce tiene ben ferma la critica all’identità del valore con il lavoro sul piano economico, quantitativo e oggettivo: si tratti di 135

ipotesi da verificare caso per caso, di un “presupposto reale”, indimostrato e dimostrabile solo attraverso l’analisi che esso stesso stimola (per alcuni aspetti, la soluzione meno lontana da Croce), o di un cosiddetto “principio interno” della teoria, e così via36, Ma, dall’altro lato, Croce non sente proprio alcun bisogno di risolvere la teoria del valore, tramite il lavoro astratto, in una teoria dell’alienazione, o in un’ontologia dell’essere sociale, o in

una metafisica del rapporto uomo-natura, e così variamente filosofando. Il tratto specifico della lettura crociana risiede nella libertà dell’interpretazione, caratterizzata (ne parleremo tra poco) da intenti chiaramente ricostruttivi, che vuole tuttavia rimanere, senza dirottare altrove le difficoltà, sul terreno del-

l'economia, proprio del Capitale. Ci siamo fatti un po’ trasportare dal tema, ed è ora di tornare all’ordine del nostro discorso. Quando la ricognizione critica investe il cuore stesso dei problemi indagati, e un ponderato giudizio, invece, trova che vi sono più cose nei cieli e nelle terre di Marx di quanto le failures dicano; che non conviene assolutamente buttar via, con la tinozza o l’acqua sporca, anche il bambino (un motto che proprio in queste pagine Croce, tirandolo dal tedesco, mette in circolazione in Italia); che il tentativo di Bihm-Bawerk di fare dell’ Abschluss anche una pietra tombale di Marx merita indignazione — ecco che non c’è altra via se non quella di riprendere pazientemente, nella lettura di Marx, le fondamentali questioni del metodo. Lo scarto profondo tra i fallimenti, pur decisivi, e la ricchezza dell’opera che li contiene può essere in parte neutralizzato solo prendendo distanza dall’immediatezza delle debolezze analitiche, e dallo stesso contra-

sto in cui esse si trovano rispetto alla riconosciuta significatività dell’intero. I punti “deboli e scadenti” del Capitale, che Bòhm, condizionando il dibattito successivo, aveva lucidamente indivi-

duato37, non sono per Croce né incidenti di percorso, né costituiscono un bawerkiano luogo assoluto di verifica e di falsificazione. Essi sono, invece, frutto di una scelta metodica di lettura 136

(a sua volta riposante su un preciso concetto di “scienza”’), che, per essere ampiamente avallata dallo stesso Marx, non per questo è in assoluto legittimata come l’unica possibile, a partire dal generale criterio per il quale “altro è scoprire una verità, altro è definire e collocare al suo luogo la scoperta fatta”. Se questo criterio non fosse valido, del resto, la stessa funzione

critica

diverrebbe ridondante. Ciò che per Bohm costituisce un esclusivo e intrascendibile orizzonte — i “dati di fatto” con cui la “scienza” opera, sul fermo modello della. dinamica, e senza che all’e-

conomia sì riconosca alcuna specificità — rappresenta invece per Croce una possibilità, un metodo, ispirato peraltro a un concetto di scienza poco sofisticato, e, diciamolo pure, positivistico: per il monismo metodologico, per il modello incontrastato della fisica matematica, per la spiegazione “causale”38, La questione,

preliminare e sottaciuta, che si presenta a Croce è quella di liberare l’analisi economica del Capitale dal sovraccarico metodico-dimostrativo in cui è come avviluppata, per ricondurla a quei parametri “leggeri”, non “oggettivistici” o

realistici cioè, che sono propri della scienza economica, come di ogni altra scienza. Fare dell’ironia intorno a un simile compito, sarebbe fin troppo facile. Croce sa benissimo che Marx è fortemente refrattario a lasciarsi circoscrivére entro una scienza “ipotetico-astratta-deduttiva”;

sa che, autore

di robustissima

vena realistica, nell’orbita segnata da Aristotele, Hegel e gli economisti classici, come

scienziati positivi del sovrappiù e delle

classi sociali, Marx crede che i conti con la realtà debbano assolutamente tornare; e, in una certa misura, sarebbe stato persi-

no d’accordo con Bòhm, quando suggeriva che una teoria del

valore come sombartiana “gedankliche Tatsache” avrebbe di per sé scatenato in Marx quegli umori ironici e sarcastici che a stento padroneggiava. Ma il guaio, questa volta tremendamente serio, della scienza “realistica” è che se i “fatti” si ribellano alla

legge che vuole stringerli e dominarli, l’intero impianto, qual è consegnato

a quella forma, ne risente i danni.

Questo, lo si è

137

detto, è il punto decisivo e discriminante. Che non deve essere tuttavia banalmente interpretato come una risposta ad hoc, quasi che Croce abbia voluto salvare Marx in qualunque modo, escogitandone una lettura “eterea”, posta cioè al riparo dalle lotte e dalle critiche che nel basso mondo si conducono. Se Croce si fosse convinto che dell’“economia marxistica” non c’era nulla di serio da salvare, pur restando Marxun pensatore importante, con cui si dovevano fare i conti, avrebbe avuto dinanzi a sé

una via agevole e fortemente labour saving : spostare i pesi della rilevanza di Marx interamente sul terreno della storia o del materialismo storico. Ma Croce in realtà, ritenendo estranea

a

Marx, e in ogni caso improbabile, quell’unità dialettica dell’intero che non concederà nemmeno a Hegel, vuol tenere insieme entrambi i piani: la storia certamente, per un interesse diretto e in lui connaturato — è su questo terreno che viene recuperata la tempra robustamente realistica di Marx — ma anche la trama sottile della teoria economica, che per converso non potrebbe mai avere ‘“corpulenza”. E da ultimo, dobbiamo chiederci in che rapporto stia il metodo crociano di lettura della teoria del valore con i testi di Marx, se cioè, pur restando sul terreno dell’economia, esso vuol rifor-

mulare per intero e in piena libertà il problema cruciale del Capitale, o se presume di mantenersi ancora aderente, salva l’intoccabile autonomia dell’interprete, all’opera, nella sua intentio, se non in tutta la sua littera. Sembra un problema facile, e non lo è mai; nel caso di Croce, per i motivi che diremo, è par-

ticolarmente difficile. Nella risposta a Racca, Croce osserva che nei suoi lavori ha cercato di mostrare [“quei presupposti” del Capitale] necessarî e immanenti al pensiero del Marx, ma reconditi e al Marx restati oscuri. Se fossero esposti chiaramente nelle prime pagine del Capitale, quanto lavoro risparmiato ai critici!39 a

Non è la sola volta che Croce si esprime così; il lettore ricor,

138

derà almeno l’analoga forma usata all’inizio di Per la interpretazione. Senza assommare altri richiami, e concentrandoci sul passo indirizzato a Racca, è facile osservare che per un verso Croce rivendica una legittima funzione della critica, che è ovviamente diversa dalla “traduzione”, mentre, per altro verso, nu-

merose questioni sorgono circa i pensieri immanenti ma reconditi, rimasti oscuri al loro stesso autore. Il problema è più complicato di quello che, nella stessa pagina, e ricorrendo all’alta lezione di Bertrando Spaventa e di Francesco de Sanctis, Croce ha illustrato, sempre a partire dal quesito: “che cosa significa domandarsi quale sia il pensiero di uno scrittore?” Il caso è qui risolto con la distinzione tra nocciolo e scorza, tra “pensiero reale ed elementi estranei”, o tra ciò che i poeti “vollero fare” e

ciò che “obiettivamente fecero”. Anche riguardo a Marx, la differenza è tra il pensiero “reale”, per il quale solo egli “entra” nella “storia

della scienza

economica”,

e le contraddittorie

o

ingiustificate “illusioni” che cercò di ricavare dai suoi pensieri. Ma che il caso sia qui più difficile, si capisce bene se teniamo fermo il passaggio essenziale della pagina, dove — con riferimento ad Aristotele e a Kant — si dice che quando esprimiamo il “vero pensiero” di un autore 7 facciamo una scelta, oltrepassando la materialità della parola: abbandoniamo

una parte come scoria, e cerchiamo, non ciò che

lo scrittore ha creduto di pensare, ma ciò che ha realmente pensato per la forza delle premesse da cui moveva.

In questa formulazione più stringente (e più vicina all’effettivo procedere crociano), resta vero che scoria e materialità

della parola vengono sì abbandonate, ma per le premesse da cui l’autore stesso muoveva, perché altrimenti premesse e presupposti sarebbero affidati all’interprete, che un po” agirebbe, rispetto all’Author, come l’Actor del celebre capitolo del Leviathan. pa Si potrebbero a lungo ragionare, in termini generali, le que139

stioni sollevate da questo o da altri analoghi luoghi crociani; ma, temiamo, con esiti deludenti. Dichiarazioni come quella sui presupposti immanenti e reconditi, mentre esprimono problemi in qualche modo comuni a ogni pratiea storiografica che si eserciti su altri pensieri, sono destinate a rimanere chiuse a una definitiva comprensione, 0, come diceva Machiavelli nei celebri “Ghi-

ribizi al Soderino”, a presentarsi “in pappafico”. Per un verso, la questione può essere, fino a un certo punto, sciolta solo dall’analisi concreta della lettura crociana di Marx; per altro verso

— è ciò che ora cercherò di fare —, si può dire qualcosa riguardo ai modi tenuti da Croce nell’interpretare Marx. Ispirata a un atteggiamento simpatetico verso Marx, ricordato anche negli scritti autobiografici degli anni tardi, usciti nel tempo di una dura polemica contro il marxismo, la lettura crociana della teoria del valore si costituisce in una forma critico-ricostruttiva che, dopo aver sgrossato il campo dai più vistosi fraintendimenti, tiene piuttosto in ombra gli errori e le debolezze del Capitale (o meglio, come si è osservato, li consegna di solito alle premesse tacite dell’analisi), per concentrarsi su un conferimento di senso, rigoroso e valorizzante, al suo nucleo di “verità”’10. Nel fare ciò — questa è l’idea, non immotivata, che ne ho ricavato — Croce è convinto (la verifica concreta di tale convinzione è problema che ora abbiamo escluso) di operare secondo lo spirito e, tenuto conto del generale diritto della critica di giungere al “vero pensiero” di un autore facendo scelte e sacrificando la “materialità della parola”, anche secondo la lettera (rigorosa) del testo di Marx. Con un termine preso a prestito dalla sociologia e dalle scienze sociali, si potrebbe dire che, quella di Croce è un’interpretazione “comprendente” (verstehende). Habermas, tra altri, ha fatto valere infinite volte l’opposizione tra la prospettiva del

“partecipante” e quella dell’’osservatore” dallo sguardo oggettivante!!, che nel caso della storiografia filosofica si dovrebbe chiamare, classicamente, “dossografica”. Croce sembra ‘piuttosto interpretare secondo la modalità del “partecipante”, investi140

to sì di una precisa funzione critica, ma volto a contribuire alla migliore intelligenza, purificata e resa coerente, dell’autore indagato.

Del resto, senza ricorrere agli scritti autobiografici, si prendano le pagine della prima sezione di Per la interpretazione, dove Croce, avendo segnalato il punto morto della critica, che si aggirava tra “l’accettazione totale” e “il rifiuto totale e sommario del procedere del Marx”, osserva come “negli ultimi anni, e segnatamente dopo la comparsa del terzo volume postumo del Capitale, si è cominciato a tentare e a percorrere una via migliore”. Si fa cenno, a partire di qui, dei tentativi recenti e al fondo concordì, o non discordi, di cogliere la specifica natura del valore in Marx e di conferire per tal via senso e rigore al suo programma scientifico; avallata nientemeno che da Engels (né solo per l’essenziale apprezzamento del Zur Kritik sombartiano), una simile disposizione interpretativa raccoglieva alcune delle menti migliori tra quanti fossero interessati alle teorie di Marx e al socialismo: da Sombart, che con straordinario tempismo e anche originalità, nonostante i difetti del saggio, aveva finito per condizionare un po” la discussione, allo stesso Engels, a Labriola

e a Sorel. Croce s’inserisce con pieno diritto, lungo questa “via migliore”, cercando di arrecarvi un contributo originale, di notevole chiarezza e radicalità, e perciò, fatalmente, destinato a

entrare anche in collisione polemica con alcuni (in un certo senso, con tutti) i suoi compagni di strada. Ma non è questo ora che importa: gli autori citati, con qualche aggiunta, sono le fonti vive e dirette, o i compagni, dell’analisi di Croce, ed è necessa-

rio studiarli a parte, con agio. Importa invece soffermarsi ancora un momento sulla Stimmung (in tutti significati del termine: come

accordatura

musicale, disposizione di spirito, atmosfera

non depressa) di fiduciosa appartenenza collaborativa a una qualificata e importante direzione di ricerca, che si ritrova ancora nel saggio maggiore di Croce su Marx. Se, come

si dice, la coesione di un nucleo d’idee, o di un 141

gruppo, si misura in relazione all’avversario, esplicito 0 implicito cui si riferiscono, è da osservare che, nel nostro caso, il nemi-

co unmusikalisch è proprio Bihm-Bawerk43. Nonostante l’acutezza delle sue critiche a Marx, Béhm appare come un déplacé: polemizza troppo, e con troppa sicumera contro Sombart, quasi

a stroncare sul nascere un’intuizione di lettura che rimettesse in questione un giudizio ormai consolidato di liquidazione del Capitale; a dispetto della sua voracità e acribia bibliografiche, mostra di non conoscere il Nachtrag engelsiano — e la cosa è qui più grave, poiché ha effetti spiazzanti sulle sue pagine, là dove, appoggiandosi ancora a Hugo Landé contro Conrad Schmidt, si affanna a sostenere che mai né Marx né i marxisti avrebbero riconosciuto nel Capitale un impianto scientifico men che “oggettivistico”, come quello, fraudolento o insignificante, proposto da Sombart44; e infine, anche nella seconda edizione di Kritik und Geschichte, che è del 1900, accresciuta di oltre un terzo e

bibliograficamente aggiornata, dove Bohm rifonde i risultati di Zum Abschluss, ignora felicemente Labriola, Croce e Sorel, passando

da vecchi

autori,

per

lo più tedeschi,

direttamente

a

Tugan-Baranowski e a Bortkiewicz — questa volta conosce il Nachtrag di Engels, ma (quando si dice la tenacia dei pregiudizi) se ne serve addirittura per confermare che contro il tentativo di Sombart, e si riferisce proprio a Engels, “si sono levate energiche proteste dal campo marxista”?45, La Stimmung che abbiamo evocato, come positiva adesione a un indirizzo di ricerca, garantito nel suo simpatetico sforzo di comprensione di Marx non solo dalle inclusioni, ma, lo si è appena visto, anche dalle esclusioni, e d’altra parte giustificato dalla pubblicazione recente di quel terzo libro del Capitale che, completando l’opera, “fornisce come la chiave della dottrina”, si presterebbe a numerose considerazioni. Sembra probabile, a tacer d’altro, che preso da questo stato d’animo e da questo clima, a Croce dovesse suonar singolare, se non stravagante

e.fuori

dai problemi che davvero urgevano, la domanda, un po” da agri142

mensore, che prima Gentile e poi anche Racca gli rivolsero, per sapere in quale punto esatto, finita l’esposizione e l’interpretazione di Marx, cominciassero i supplementi, il “completamento”, o la parte non più storica ma “teorica”, dovuta esclusivamente a Croce”. Ma, a questo proposito, occorre che la Stimmung sia determinata nel tempo. Sebbene i saggi (teorici) raccolti da Croce nella prima edizione di Materialismo storico ed economia marxistica siano stati scritti in tre anni esatti, tra

il maggio 1896 e il maggio 1899, non è difficile cogliervi le sfumature almeno di un diverso atteggiamento verso Marx, che si riflette in alcune espressioni8, e, almeno nel caso dell’Obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, in un'analisi dal taglio del tutto particolare rispetto ai precedenti saggi!°. Per questo slittamento di pathos, se non anche di logos e di giudizio5, ci basti un solo esempio. Nella Prefazione alla prima edizione di MSEM, datata luglio 1899, Croce ricorda che già nella nota al Loria veniva “brevemente formolata [una] poco ortodossa interpretazione della teoria marxistica del valore”. AI di là del contesto — dove Croce giustamente si difende da quanti ritenevano che egli fosse passato, da “rigido marxista ortodosso”, a “oppositore” di Marx, rivendicando una funzione critica che in effetti sempre aveva esercitato= un'espressione come in-

terpretazione “poco ortodossa” non si trova mai in Per la interpretazione, per ragioni storiche, visto che la stessa nozione di “ortodossia” era di là da venire (il saggio si chiude con un richiamo congiunto agli “avveduti marxisti” tedeschi Kautsky e Bernstein), e per ragioni interpretative, se sono plausibili le ragioni che stiamo svolgendo. Nel giro pur breve di tre anni, si trovano accennati due livelli un po’ sfasati nella lettura crociana di Marx. La stagione di più fiducioso impegno critico-ricostruttivo (quel che abbiamo designato con il nome, ormai ingombrante, di Stimmung) arriva fino a Per la interpretazione; vi aggiungeremmo solo, alcune pagine più tarde, del 1899, nelle quali Croce, discutendo i suoi scritti, riespone con precisione, in qualche 143

punto arricchendole, le proprie tesi. È questo, a parer nostro, il Croce che veramente conta nell’indagine su Marx. Se ci chiediamo ora perché, a proposito dello stesso quesito — dove finisse la “parte” di Marx e cominciasse quella crociana —,

la risposta a Gentile è più imbarazzata, quella a Racca più distesa e sicura, la nostra spiegazione è che, tra altre ragioni, nei due anni che intercorrono tra le due risposte sono appunto accaduti i mutamenti, di cui s’è detto finora, nell’intrinseca disposizione dell’analisi crociana. A Racca Croce può dire quel che non avrebbe potuto dire, con eguale facilità, a Gentile: “la tesi da me sostenuta esclude che il Marx la pensasse come me, salvo che in parte”52, Nell’ottobre del 1899 (l'edizione di Materialismo storico è stata licenziata in luglio e se ne attende l’uscita che, per ragioni indipendenti dalla volontà di Croce, avverrà solo verso la fine dell’anno, con la data dell’anno seguente?3) il tema Marx si è con evidenza raffreddato, e anzi, come si dice proprio a Racca, è stato ormai composto “come in una bara”. Ora è precisamente questo distanziamento che consente a Croce di cominciare a parlare, con la storiografia che piace ai più, della “parte” sua e di quella di Marx, del “vero” e del “falso” (ma è significativo che, ancora nella risposta a Racca, il ’’falso” è quasi schiacciato dal “vero”’), e così via. Nel 1897, nella memoria Per la interpretazione, pur riconoscendo vero il dubbio avanzato da Gentile, ma in riferimento, si badi, “ai due scritti precedenti”,

e, diremmo essenzialmente, al saggio sul materialismo storico (come se la cosa non riguardasse Per la interpretazione, né in effetti la riguarda), Croce dirotta il suo imbarazzo su una questione, certo molto più netta e gestibile: la prevalenza del Marx “critico della società presente”, rispetto al Marx filosofo e costruttore di “metafisica” che piaceva a Gentile. Se, in effetti, riguardo al saggio del 1896 sul materialismo storico, così impaniato nella stessa rete degli autori studiati — Marx, e soprattutto Labriola ed Engels — qualche dubbio poteva esserci, era franca-

mente difficile al Croce del saggio maggiore del 1897, così teso 144.

nello sforzo di un’“interpretazione teorica” (né si trattava di un ossimoro), capire in che cosa consistesse esattamente la “giusti-

ficazione” richiesta da Gentile. Il modo tenuto da Croce nella lettura di Marx, infine, non differisce molto, dal lato formale dalle consuete maniere crocia-

ne di fare storiografia filosofica. Si tratti di Marx, di Hegel o di Vico — che sono i tre soli autori di cui Croce abbia fatto larga e specifica storiografia —, la modalità dell’interpretazione è sempre di natura critico-ricostruttiva, e, senza tanti giri di parole, viene mirabilmente espressa dalla terzina dantesca con la quale fu dedicata a Thomas Mann la Storia d’Europa: Pur mo venieno i tuo” pensier tra’ miei, con simile atto e con simile faccia,

sì che d’intrambi un sol consiglio fei 54, x

E, insomma, la storiografia di filosofi che, con partecipazione e autonomia, fanno storia di altri filosofi. E, piaccia o no,

questa è la storiografia dei grandi, che non si disperde nella confutazione, né nelle forme esteriori e accidentali, ma punta drit-

to al “vero”: quella di Aristotele del primo libro della Metafisica, di Hegel, e anche di Heidegger.

145

1 Si ricordi che Croce aveva esordito distinguendo conoscenza e scienza. La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), poi in Primi saggi, Bari 19513, p. 16. 2 Materialismo storico ed economia marxistica (d’ora in poi, purtroppo, MSEM), nell’ed. naz. delle opere di B. Croce pubblicata da Bibliopolis, con una

nota al testo di P. Craveri e “apparato critico” a cura di M. Rascaglia e S. Zoppi Garampi, 2 voll., Napoli 2001, pp. 79, 74. Questa edizione, oltre al pregio di rimettere in circolazione un importante testo, assente dalle librerie ormai da

troppi anni, si raccomanda, tra altre ragioni, per l’accurato e prezioso apparato critico, che collaziona, ed è quel che più importa, anche la prima edizione dei saggi raccolti in MSEM, apparsi, oltre che negli “Atti dell’Acc. Pontaniana,” in varie riviste e, nel solo caso del saggio su Loria (in italiano), in opuscolo separato (ma qui direi: Giannini, Napoli 1897, non i Loescher di Roma, che furono

incaricati, per il tramite di Labriola, solo di curare la distribuzione dell’opuscolo). Solo chi ha lavorato intorno a questo testo sa quanta fatica costasse dover ogni volta cercare in biblioteca la prima ed. dei saggi di Croce, che in effetti contengono varianti o note soppresse a volte interessanti; a meno di non ricorrere alla scorciatoia di E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, Torino 1962, molto attento nel segnalare tali varianti o soppressioni. 3 Il testo più significativo in proposito si trova alla sezione quarta di Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (d’ora in poi, Per la interpretazione), che s’intitola “Della conoscenza scientifica rispetto ai programmi sociali”, MSEM, 99-109. Per altro, si osserva in queste pagine che “qui

non si disputa dell’utilità della scienza, sibbene della possibilità di dedurre, come alcuni pretendono, programmi pratici da proposizioni scientifiche; e solo

codesta possibilità si nega” (p. 106); cfr. pure, nella memoria crociana del 1896,

che apre MSEM, le pp. 31-32. Ma il tema è complesso, e presuppone tutta la precedente riflessione di Croce, a partire dalla celebre memoria

del 1893 sulla

Storia sopra citata il cui impianto, in merito alla scienza e alla storia, riesce

ancora in sostanza prevalente negli studi su Marx. 4 MSEM, 70.

° Uso questa espressione in senso non tecnico, scambiandola perciò indifferentemente, come fa Croce, con altre denominazioni: le “ricerche dei puristi, o

edonisti, o utilitarî, o deduttivisti,

o austriaci,

o come altro variamente si chia-

mino”, MSEM, 82. Non s’incontra mai in Croce né la dizione marshalliana di “neoclassici”, poi divenuta corrente, sebbene in effetti sia fuorviante, né quella, più tecnica, di “teorici dell’equilibrio”’(a volte ricorre invece, ovviamente, il

termine “marginalismo”’). Si v. in proposito i primi due capitoli di C. Napoleoni, F. Ranchetti, Il pensiero economico del Novecento, Torino 1990 (ristampa il

testo di Napoleoni del 1963, sempre presso Einaudi, con l’aggiunta di cinque nuovi capitoli di Ranchetti, di aggiornamento postsraffiano; si trova qui la conferma importante che tutti gli economisti di cui si occupa Croce possorio essere considerati come “coautori di una dottrina unitaria”). Più volte, e con decisio-

146

ne, Croce afferma la sua particolare adesione all’indirizzo economico “austriaco”. Devo tuttavia confessare che, nonostante abbia svolto non poche ricerche in proposito, la questione non mi si è ancora chiarita; né è questa la sede per trattarne.

6 La citazione, condivisa da Croce, che la mette in opera avant la lettre, è

di Pantaleoni, in un articolo del 1898. La si legge nell’articolo erociano Di alcune leggi di storia delle scienze (1901), poi in app. a Primi saggi, cit., pp. 19495, n. Con Montemartini invece, che l’anno dopo respinge la tesi di Pantaleoni, Croce è d’accordo nel ritenere che la storia delle dottrine economiche non sia “la storia delle verità soltanto e non degli errori”: una storia purgata degli errori, cessa di essere storia e “diventa teoria” (ma la storiografia, almeno filosofica, di Croce è più complessa di quanto qui si dica, non fosse altro perché, si tratti di Hegel o di Vico, ma, in un senso da precisare, anche di Marx, la storia anche “teoria”). Giovanni Montemartini, che è un fine e

è, nell’intrinseco,

importante economista,

stimatissimo da Menger e Walras, insieme socialista e

segnace dell’economia pura (una miktè per nulla infrequente nell’Italia di fine ottocento), merita senz'altro di essere studiato in rapporto a Croce, che ne possedeva i libri in biblioteca; in ogni caso costituisce un filo, nemmeno tanto indiretto, per l’oscuro rapporto di Croce con gli “austriaci”. Cfr. intanto le informate pagine di P. Favilli, Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx

(1892-1902 ), Napoli 1980, pp. 101-138. ® Per le citazioni v., secondo l’ordine del testo, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in Primi saggi, cit., p.16; MSEM, 69, 45. 8 MSEM, 74.

? MSEM, 45-46. D’ora in poi, Le teorie storiche del Prof. Loria, il saggio crociano che, uscito dapprima in francese nel “Devenir social” (fasc. di nov. 1896, pp. 881-905), comparve i primi di dicembre anche in italiano, in opuscolo separato, sarà indicato solo con Loria. Segnalo ché a questo saggio è dedicata una lunga analisi, di natura, per così dire, ‘stilistico-ideologica’ in un libro su Croce

appena uscito (F. Lolli, Croce polemista e recensore 2001, pp. 235-55, passim).

(1897-1919), Bologna

10 MSEM, 45-46. 11 MSEM, 45, n. Ma v. soprattutto Per la interpretazione, MSEM,79; per altri

luoghi, appresso nel testo. 12 Cfr. il mio L’interpretazione crociana di Marx tra il “canone” e il “paragone ellittico”, “La cultura”, XXXVII

(1999), 2, 219-63. Si trova qui, con un

giudizio sul materialismo storico in quanto canone (non a priori ) d’interpretazione storica, una ricostruzione delle vicende biografiche e concettuali che condussero Croce, dal materialismo storico, ad affrontare i problemi della “economia marxistica”, scrivendo la nota al Loria.

13 Il saggio comparve dapprima in Staatswissenschaftliche Arbeiten. Festgabe fiir KarlKnies, a cura di O. v. Boenigk, Berlin 1896, pp. 88-205. Nello stesso anno, sempre a Berlino, il saggio uscì anche in volume separato. Citiamo dalla

147

trad. it. di G. Panzieri Saija in E. Bihm-Bawerk, R. Hilferding, L. v. Bortkiewicz, Economia borghese ed economia marxista, Firenze 1971, con present.

di P.M. Sweezy (La conclusione del sistema marxiano, pp. 3-110, sarà d’ora in poi citata con Conclusione). Labriola ebbe da Ugo Mazzola, di ritorno dalla Germania, un estratto, probabilmente freseo di stampa, dalla Festgabe per i 75 anni di Knies; ne dà notizia a Croce nella lett. del 9 lug. 1896, A. Labriola Epistolario, III, a cura di V. Gerratana e A.A. Santucci, Roma 95; (purtroppo,

Labriola

nota

in Zum

Abschluss

solo

che

1983, pp. 694quel “vero

im-

broglione” di Loria ha copiato, “storpiando”, anche qui, ma ciò che dava fastidio a Labriola (cfr. la lett. a Croce del 20 dic. 1896, Epistolario III, cit. pp. 75051), né si può capire quanto viscerale, sono le due onorevoli menzioni di Loria

da parte di Bòhm: una volta perché vi aveva attinto notizie bibliografiche sul Capitale; un’altra citandolo direttamente in appoggio alle proprie tesi, e su un punto importante. Croce “legge” Zum Abschluss nell’esemplare che è nelle mani di Labriola. Ma sulla questione, come si dice nel testo, bisognerà tornare. 14 Conclusione, 106.

15 Conclusione, 7 sgg., 96 sgg., passim. A deludenti precisazioni di metodo Bohm è condotto, se non altro, dalla discussione con Sombart. 6 W. Sombart,

Zur Kritik des 6konomischen

Systems

von Karl Marx,

“Archiv fir soziale Gesetzgebung und Statistik”, vol.VII (1894), fase. 4, pp. 555-94: 591 sgg., 556; d’ora in poi Zur Kritik. Ciò che, almeno implicitamente, Sombart sembra proporre è una contaminazione tra metodo oggettivo e metodo soggettivo. !? Conclusione, 105 sgg. Ma si legga il breve capoverso finale del saggio, dove Hegel e Marx sono detti “pensatori geniali” che hanno esercitato “un’influenza straordinaria [...] sullo spirito stesso della loro epoca”; solo che, con “incredibile maestria” e “favolosa capacità architettonica”, hanno innalzato un

“castello di carte”. Che Béhm poi non abbia il benché minimo sospetto di cosa sia la “dialettica”, è un’altra questione.

18 MSEM, 75. 19 In breve, Sombart

vede nel valore-lavoro

di Marx

l’espressione di un

“dato tecnico”: attraverso di esso la diversa qualità dei lavori particolari e concreti viene resa quantitativamente omogenea nell’astratto e indistinto lavoro sociale; e ciò non in modo arbitrario ma in riferimento alla “forza produttiva

sociale del lavoro” (Zur Kritik, 574, 582, passim). Lungo questa via quantitati-

va, 0 di commensurabilità, Sombart era stato direttamente preceduto da Conrad Schmidt che è discusso e anche apprezzato da Bihm. Su Schmidt cfr. R. Racinaro, La crisi del marxismo, Bari 1978, pp. 88-101, passim.

20 Conclusione, 103 sgg., passim.

i

21 Lenin, in uno scritto del 1908, per un noto libro che celebrava i 25 anni dalla morte di Marx, sapeva bene che il punto dolente, e l’unico frutto che il

“revisionismo” avesse prodotto riguardo alla teoria del valore di Maîx, fossero le critiche di Bihm-Bawerk.Che poi Zum Abschluss, censurabile da tanti punti

148

di vista, fosse pieno di “allusioni e conati molto confusi” è proposizione che una sola pagina di Bòhm basta a smentire, ingiustificabile persino in “una formale dichiarazione di guerra” (così Lenin a Gorki) contro la “filosofia machista”.

Marxismo e revisionismo, in Opere complete Roma 1956, vol. 15, pp. 15-25; opp. in Opere scelte, Roma 1965, pp. 443-451. 2 Béhm, per illustrare questo punto, strategicamente decisivo nella sua argomentazione,

riproduceva per intero, tra molte altre citazioni, due intere

pagine del saggio di Sombart (Conclusione 44-46 ; Zur Kritik, 584-86). 23 Zur Kritik, 556. 24 MSEM, 67. 25 SEM, 82. È un peccato che Croce non abbia potuto conoscere le Glosse marginali al “manuale di economia politica” di Adolph Wagner, uno scritto di Marx del 1879-80, ma pubblicato solo nel 1969. Croce riteneva questo noto manuale di Wagner “pedantissimo e pesantissimo”, pieno di “vuote ed insignificanti generalità”. MSEM, 85. .26 MSEM, 137-38. Seguiva qui, fino alla seconda ed. di MSEM, una nota dove

si diceva, appresso anche con le parole di Manzoni, che “l’autore è il peggiore dei critici” (delle proprie opere). Il testo prosegue con una dura battuta, per una volta anche un po’ ingenerosa, contro Labriola, il quale però aveva da parte sua usato mano pesantissima. “Può darsi che chi confonde la ricerca ideologica con la ricerca storica riproduca meglio lo ‘spirito’ del Marx”, ecc. Il limite maggiore, riproduttivo-imitativo, della lettura labrioliana di Marx veniva tuttavia, al di là delle formule non felici, dettate dalla polemica (“bozzetto artistico”, “rifacimento psicologico”), colto con la solita acutezza. 27 Estrapoliamo la domanda dal contesto della discussione con Sorel, dove

costituisce un prodromo alla dichiarata adesione al principio, non obiettivo, dell’economia edonistica, MSEM, 148. 28 Da Knies, diremmo, allo stesso Loria, a Wicksteed, Bohm-Bawerk, Georg

Adler, e, in un certo senso, anche a Schmidt e a Sombart. Tra questi autori, ai

quali naturalmente

altri sarebbero

da

aggiungere

per

completezza

(cfr.

Conclusione , 5-6, n.), escluderei solo che Croce conoscesse 1’ interessante arti-

colo di Wicksteed, uscito nell’ott. 1884 nella rivista socialista “Today”. 29 Prefazione alla seconda edizione, datata maggio 1906, di MSEM, 11-12.

30 Contro Loria, si dice che la storia “non tollera di essere trattata brusca-

mente, ed in essa, come già disse Machiavelli, non vale se non ciò che ‘particolarmente’

si descrive, MSEM, 49. Croce ha certo in mente il celebre luogo del

Proemio alle Istorie fiorentine ; non è escluso tuttavia che si sia ricordato anche del fatale spartiacque di Principe, XXV citato nel testo, che leggo nell’ed. critica di G. Inglese, Roma 1994. 31 Das Kapital, Berlin 1993, I, 59-61; tr. it. di D. Cantimori, Roma

1964,

pp-75-78. 32 C. Napoleoni, Sfruttamento, alienazione e capitalismo, “La Rivista Tri-

mestrale”, Il (1963), 7-8, p. 419 sgg. (in questo fase. è tradotta per la prima

149

volta

in italiano

l’ampia

“sezione”

che Bohm-Bawerk

dedica

dalla terza

a Marx

in

Geschichte

und Kritik der Capitalzins-Theorien,

ed., del 1914,

dove, come

già nella seconda, del 1900; sono rifusi anche i risultati di Zum

Abschluss).

A Napoleoni, che ne ha scritto molte volte (v. per es. Valore, Milano

1976; Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx, Torino, 1972, p. 164 sgg.) rimandiamo altresì per la critica alla teoria del valore e al “fallimento” del problema della trasformazione, di cui si dice sopra nel testo. Ciò per molte buone ragioni: la critica è intelligente e limpida; viene da parte di quello che è stato, a nostro giudizio, il maggior storico italiano del pensiero economico nella seconda metà del ‘900; e ancora, perché si tratta di uno studioso molto vicino a Marx — che è senza dubbio il suo grande autore — e, al tempo stesso, interessato a

Boòhm-Bawerk, fino al punto da proporre nel suo ultimo libro (Discorso sull’economia politica, Torino 1985) una teoria del valore che cercasse di tenere insieme il lavoro di Marx e l’astinenza di Bohm. 33 La Geschichte und Kritik di Bihm dove questa critica è formulata si può leggere ( ed è lettura che si raccomanda anche agli studiosi di storia del pensiero politico) ora anche in una pregevole edizione italiana: Storia e critica delle teorie del capitale, tr. e cura di E. Grillo, Archivio Guido Izzi, Roma,

1886-

1986, III vol. Di Marx, che ricorre spesso nell’opera, Bòhm si occupa specificamente nel cap.XII, “La Teoria dello sfruttamento”, che, dopo la consueta sezione di introduzione generale, contiene, nella sezione “critica”, due parti,

una su Rodbertus e una su Marx (II, 294-361). La traduzione italiana è condotta sulla quarta

ed., postuma,

curata

da Fr. von

Wieser,

(Fischer,

Jena

1921): in sostanza, una ristampa dell’ed. che Bohm licenziò nel 1914, due mesi prima della morte; la prima ed. è del 1884 e, come le due seguenti, uscì presso

il Verlag universitario di Innsbruck. 34 V, per altro almeno MSEM, 77, 83. 35 Ma è da vedere la sintetica e precisa schematizzazione delle “spiegazioni dell’identità valore-lavoro”, tesa tra l’altro a far emergere la lettura crociana come quella “più persuasiva”, di N. Bellanca, Economia politica e marxismo in

Italia. Problemi teorici e nodi storiografici. 1880-1960, Milano 1997, pp. 16-

25; l’innovativo capitolo dedicato al Croce dei saggi su Marx, alle pp. 65-95. Devo molto conforto a questo libro e al suo autore; mi capiterà di citarlo e discuterlo spesso, man mano che la ricerca avanzerà fino al “paragone ellittico”. Il pregio del lavoro, osservo intanto, sta nella sua intelligenza e originalità, che spiazza luoghi comuni interpretativi non poco incrostati in merito al rapporto del “giovane Croce” e Marx. Il limite, se così lo sì vuol chiamare, mi pare risieda nel fatto che Bellanca si è un po’ innamorato del suo Croce “marxista”, rispetto al quale, si propone di compiere a sua volta una lettura ricostruttiva e rigorizzante. 36 Cfr. N. Bellanca, op. cit. 37 Conclusione, 82-83. I punti deboli, contenuti peraltro in “un Capolavoro

di logica rigorosa e compatta, in tutto degna delle capacità intellettuali dell’au-

150

tore”, si trovano, naturalmente nelle prime battute del Capitale, e nel ITT lio:

soprattutto nel cap. 10. 38 Cfr. G.H. von Wright, Spiegazione e comprensione (1971), tr. it. Bologna 1988, pp. 20-22. 39 MSEM, l’incomodo

166-167.”Né io — continua il testo —, per mio conto, mi sarei dato di scrivere i miei poveri opuscoli, ma avrei, tutt’al più, semplice-

mente tradotto o fatto ristampare quelle prime pagine del Capitale”. 40 A Racca, nella pagina che stiamo esaminando, Croce dice che nello scritto Recenti interpretazioni (la discussione con Labriola, Sorel e Graziadei), ma l’osservazione ha valenza più larga, “addirittura ho taciuto della forma mista di vero e di falso, che il Marx ha data alla sua dottrina; e ho procurato di meglio mostrare come sia pensabile ciò che ho ‘chiamato di sopra il suo aspetto di vero”. 4! Si v. almeno Teoria dell'agire comunicativo (1981), tr. it. Bologna 1986, I, 178-227; Fatti e norme (1992), tr. it. Milano 1996, 55-101; cfr. S. Petruccia-

ni, Introduzione a Habermas, Roma-Bari 2000, pp. 59-63, 95 sgg. 42 MSEM, 71-72. 43 Quando, finalmente, nella primavera del 1899, Croce riebbe tra le mani il sospirato Zum Abschluss, per una verifica relativa al saggio sulla caduta del saggio di profitto, non farà molta fatica nel confermare quel giudizio su Bihm che da tempo si era formato: di “avversario” che, in modo implicito o esplicito,

“rigetta [...] i principî fondamentali del Marx”. MSEM, 151. 44 Non che la sicurezza di Bihm sarebbe uscita sconvolta dalla conoscenza del Nachtrag engelsiano. Ci voleva ben altro, per chi aveva scritto: “anche se lo stesso Marx avesse ratificato l'ammissione di Sombart [sul valore-lavoro come “dato concettuale”’], io la giudico assai discutibile”. Conclusione, 96. 45 Storia e critica, ecc., cit., II, 341; qui, naturalmente, non c’è più solo

sicurezza, ma scorrettezza o faciloneria.

|

46 Le parole sono tratte dalla relazione finale di Croce, del feb. 1899, per

l’assegnazione del premio Tenore a un saggio sul terzo volume del Capitale ( il premio, con scelta a nostro parere discutibile, andò a V. Giuffrida De Luca contro Arturo Labriola: entrambi i lavori furono pubblicati nello stesso 1899). “Atti Ace. Pontaniana”,

XXIX;

la relazione di Croce, con alcuni tagli, poi in

Pagine Sparse, I, Napoli 1942, pp. 43-48: 43; alcune notizie sulla vicenda in E. Agazzi, Il giovane Croce e il marxismo, cit., pp. 394-95, passim. 4 G. Gentile,

Una

critica del materialismo

storico, “Studi storici”, VI

(1897) III, 379-423; poi in La filosofia di Marx. Studi critici, Pisa 1899, p.104; V. Racca, Recenti interpretazioni del marxismo,

“Rivista italiana di sociolo-

gia”, 1899, fasc. 4, p. 476 sgg.; le risposte di Croce in MSEM, 90-91 n., 165-67.

48 Per un esempio tra i tanti, l'affermazione, della risposta a Racca, secon-

do cui nelle trattazioni di Marx si trovano “miscugli sentimentali e politici” MSEM, 166. Sebbene qui (lo si dice anche a proposito di quel che sopra si è osservato circa la “scienza” e le “illusioni” di Marx) Croce chiaramente distingua il

151

Capitale (con il quale Marx, non però per l’intero “organismo del libro”, né per le parti deboli e criticabili, “entra” nella storia della scienza economica) da altri seritti, “opuscoli” e “discorsi”, che pure Marx scrisse o tenne — non riesco proprio a immaginare “miscugli sentimentali” in Per la interpretazione. 49 A proposito di questo saggio, che è difficile e costò non poca fatica a Croce, mi limito qui a due osservazioni esterne, che forse sono tra loro anche

connesse. La prima è che solo in questo saggio, in diretto contatto con il terzo libro del Capitale, terza sezione, Croce, per dirla con Michelet, mostra le cuci

ne del suo ragionamento, senza limitarsi, come di consueto, al risultato della portata. La seconda è che solo in questo caso si perde ogni “adoperabilità” di Marx (cfr. la Pref. alla seconda ed. di MSEM) o, se si vuole, ogni ambivalenza

della lettura crociana. Non solo la memoria è di taglio interamente negativo, ma i suoi risultati critici generali erano già inclusi a pieno nella linea metodica di Per la interpretazione, ché nella caduta del saggio di profitto era implicata non solo una pretesa realistica ma di filosofia della storia circa ‘la fine imminente e automatica della società capitalistica”. L'analisi di Agazzi di questo saggio (0p., cit., pp. 394-409) è migliore, o più perplessa, di altre che si trovano nello stesso libro; i contributi

di Morpurgo-Tagliabue

e di Pietranera,

utilizzati

da

Agazzi (v. anche, pp. 458-62) meritano di essere ristudiati. Una limpida analisi dei gravi e irrisolti problemi che gravano sulla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto già nel Capitale e nei suoi primi interpreti in C. Napoleoni. Ilfuturo del capitalismo, Roma-Bari 1976, pp. XXII-LII (ed. sep. di L. Colletti, C. Napoleoni, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Roma-Bari,

1970). Ma naturalmente, altro era Marx, altro il peso che il problema del “crollo” era venuto assumendo verso la fine dell’800 (cfr. P. Favilli, Il socialismo in

Italia e la teoria economica di Marx, cit., pp. 139-170).

50 MSEM,10. (Pref. alla prima edizione del volume). 51 Croce se ne ricorderà nelle ultime battute della risposta a Labriola, dove

rivendica, con la “ferma persuasione” circa la verità della propria interpretazione, anche “l’accordo in cui mi trovo con parecchi critici che, quasi al tempo

stesso e con procedere indipendente, sono pervenuti a conclusioni simili alle mie. Una medesima tendenza appare in ciò che scrisse sul proposito il Sombart nel 1894, l’Engels nel 1895, io nel 1896, il Sorel nel 1897, io stesso più a lungo nel 1897, e di nuovo il Sorel nel giugno del passato anno 1898”. E, se giudice del

vero e del falso è solo il pensiero, non i “segni esteriori”, “è pur naturale che

nelle condizioni sopra indicate sorga un sentimento di fiducia, come se la discussione stia per esser chiusa, e la questione prossima a esser collocata tra quelle risolute‘[fino alla seconda ed., “sia ormai matura per essere risoluta”]”. MSEM,143.

i

52 MSEM, 165; per quel che si dice appresso nel testo, p. 174. 53 Cfr. sulla questione il mio L’interpretazione crociana di Marx, ecc., cit. 54 Inf., XXIII, 28-30. Leggo la terzina nel Testo critico della sociètà dantesca italiana, Firenze 19602; qualche variante nella citazione di Croce. Per una

152

conferma tarda dell’atteggiam ento crociano di cui si dice nel testo, cfr. Il conlele)

cetto filosofico della storia della filosofia, in Il carattere della filosofia moderna, Bari 1941, pp. 52-70.

153

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Maurizio Griffo

Croce e Hayek

In premessa dobbiamo dire che non indulgeremo in un genere letterario deteriore che infesta soprattutto gli atti dei convegni e in genere i volumi collettanei. Intendiamo parlare del confronto fra o del parallelo tra. La ricetta è semplice, si prendono due autori all’incirca contemporanei e, senza preoccuparsi di accertare se si sono frequentati o se hanno avuto relazioni intellettuali

di un qualche rilievo, si imbastisce un parallelo fra le loro teorie, idee, od opinioni, magari forzando un po” le cose o cercando affannosamente possibili analogie. Non seguiremo questa strada, tenteremo invece anzitutto di rimanere ancorati ai fatti accertati, cioè alle relazioni effettive di cui siamo a conoscenza

e, solo a partire da queste, di articolare alcune ipotesi interpretative.

Il 26 novembre 1944 Hayek scrive a Croce inviandogli in omaggio una copia del suo libro The Road to Serfdom!. Nella lettera di accompagnamento Hayek dà una motivazione dell’invio che è al tempo stesso pratica e intellettuale. In primo luogo, 243

Hayek osserva che si tratta di un libro “in which I have reason to believe that you may be interested”, perché esso “deals with

the cause of the rise of totalitarian regimes, on lines somewhat similar to those of the works of my friend professor W. Ropke in Geneva with which you are familiar”. Il volume, pubblicato nel 1944, ha conosciuto, ricorda ancora Hayek, un notevole succes-

so in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.e se ne preparano traduzioni in diverse lingue europee. Se il libro potesse circolare in Italia portando una “similar contribution to current political discussions”, esso vi eserciterebbe “what I believe you would regard as a beneficial influence”. Per questi motivi Hayek dichiara che sarebbe felicissimo (‘I should be happy”) se Croce volesse “not only to sponsor an Italian translation of the book but also to contribute a Preface to it°°?. Che Hayek tenesse in maniera particolare alla mediazione di Croce per diffondere il suo saggio in Italia risulta anche dalla lettera, datata sempre 26 novembre, all’Ambasciatore italiano

a Londra, Nicolò Carandini, con

la quale Hayek trasmetteva — all’epoca, a causa della guerra, erano sospese le normali comunicazioni postali tra Italia e Gran Bretagna — la lettera a Croce e il libro. Hayek ricordava di essere stato “anxious to send a copy of the book which I have reason to believe will interest signor Croce, ever since it was published eight months ago”?3. Le ragioni generali dell’iniziativa di Hayek sono evidenti. The Road to Serfdom è anzitutto un libro di polemica culturale. Basato certo sugli studi di economia e di filosofia sociale che Hayek conduceva, ma pensato e scritto come libro d’intervento politico per incidere nella discussione corrente. Logico quindi che egli cercasse di farlo conoscere, con traduzioni ed edizioni in altre lingue, anche nell’Europa continentale dove, con la fine del conflitto (che a quella data s’immaginava non troppo lontana), si sarebbe avuta una ripresa della vita libera, con i problemi che essa avrebbe comportato.

In sostanza, il suo scopo pri-

mario era quello di diffondere e rafforzare un approccio libera244

le alle principali scelte politiche, mettendo in guardia le opinioni pubbliche contro i pericoli del comunismo, ma anche contro i richiami alla necessità di promuovere la giustizia sociale che i partiti socialdemocratici e laburisti avrebbero fatto valere. Quello che resta da capire è il perché Hayek si rivolga a Croce per fargli da tramite in Italia. Pur conoscendo e apprezzando — come vedremo — alcuni scritti di Croce, non risulta che egli avesse una grandissima dimestichezza con il suo pensiero o che lo considerasse un punto di riferimento privilegiato. Per intendere la mossa di Hayek è allora necessario considerare i motivi della fama di Croce oltre confine. All’estero il filosofo napoletano era noto oltre che per la sua opera di studioso e scrittore anche per essere il principale e più prestigioso oppositore del fascismo. Questa fama venne accrescendosi nel corso dell’ultima fase della guerra, soprattutto dopo la caduta del regime di Mussolini. Come ha notato Giuseppe Galasso, fissando una pertinente periodizzazione, “l’interesse per la figura, il pensiero, gli scritti di Croce fu vivo in Inghilterra da quando le sorti della seconda guerra mondiale portarono gli alleati prima a Napoli e poi a Roma, tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944, e andò

ancora

crescendo

mentre

si svolgeva la fase finale del grande

conflitto, per durare, come accadde, ben oltre”*. Allora, la scel-

ta di Hayek si spiega in prima battuta per ragioni di notorietà. Indirizzarsi a Croce significava scegliere l’interlocutore più

autorevole in campo liberale e, al tempo stesso, la persona che, anche dal punto di vista editoriale, meglio avrebbe potuto dare risonanza in Italia alle tesi sostenute nel libro. A queste motivo di prestigio se ne può aggiungere un’altro di ordine più personale. Nella lettera, per ben due volte, viene fatto riferimento a

Ropke. Con l’economista svizzero Croce era in rapporti cordiali ed è possibile che sia stato lui a suggerire il nome di Croce, oppure può darsi che sia stato Hayek a farsi scudo della comune conoscenza di Répke per potersi presentare a Croce. Come che sia di ciò, resta il fatto che il libro e la lettera, spe245

diti per le vie diplomatiche, impiegano qualche tempo per giungere a destinazione®. La lettera di trasmissione, firmata dal capo gabinetto del ministero degli esteri italiano, è datata infatti 27 gennaio 19457. In effetti, i ritardi di comunicazione caratterizzeranno questo scambio epistolare, sfalsando, in qualche modo, il ritmo del dialogo. Croce, a sua volta, risponde in maniera decisamente favorevole. Il 9 febbraio scrive ad Hayek dicendo di aver ricevuto il libro da poco e di averlo “letto con pieno consenso perché anch’io sono in quell’ordine di idee”. Quanto alle questioni pratiche si dichiara “dispostissimo ad adoperarmi per la traduzione italiana”, e aggiunge “ho già scritto in proposito al mio editore e ho qui a Napoli una signorina laureata che traduce bene dall’inglese, e che farebbe la traduzione sotto la mia vigilanza”. Anche l’obiezione che Croce muove non ha un carattere ostativo, ma serve soltanto a ribadire una distinzione concettuale che

gli sta molto a cuore. Dopo aver ricordato, quasi a rassicurare Hayek, la conoscenza

di Ròpke,

rammaricandosi

di non

aver

potuto più comunicare con lui “quando sopravvenne l’impossibilità dei rapporti epistolari con la Svizzera a causa della guerra in Italia”, sottolinea i motivi d’intesa con l’economista sviz-

zero. “Differivo da lui — osserva Croce — solo per il modo di porre il problema, diverso in me filosofo da quello da lui economista, ed economista pratico. Cioè, io pongo fondamentale la libertà, la coscienza morale, che sola decide; e considero liberi-

smo e statalismo come modi di soluzioni economiche che valgono in rapporto alle condizioni di fatto e alle esigenze morali. In

generale, la soluzione buona è quella della iniziativa individuale e della libertà di mercato; ma che essa non possa essere assoluta è comprovato dalle eccezioni che anche Lei ammette”. Che questo distinguo non costituisca una critica al libro di Hayek lo mostra ulteriormente la notazione finale, quando Croce raccomanda ad Hayek di scrivere per mezzo dell’ambasciatoxeitaliano a Londra, e di farlo “al più presto, perché un ritardo potreb246

be nuocere”8. A conferma della favorevole impressione che il’ libro gli aveva suscitato e del fatto che Croce annettesse importanza alla cosa sta anche un passo dei taccuini del successivo 13 febbraio dove annota di aver mandato “un mucchio di lettere [...] inclusa lettera per l’Hayek, autore di un libro, The Road to Serfdom, che si è rivolto a me desiderando che sia tradotto in italiano come è stato tradotto già in alte lingue, e io procurerò che la cosa si faccia”. Le cose sembrano evolvere verso un esito positivo, ma ben presto verranno

a complicarsi, non per mancanza

di editori,

bensì per la ragione opposta. Quando risponde ad Hayek, Croce non è ancora a conoscenza del fatto che l'autore ha assunto un altro, successivo, impegno. In una lettera all’ambasciatore italiano a Londra,

datata

30 dicembre

1944, Hayek comunica

di

aver “in the meantime [...] already granted the rights of an Italian translation to the publishing firm of Mario Einaudi which, I understand, is already operating in Italy”. A causa di questa nuova situazione, Hayek suggerisce che “should signor Croce be willing to contribute a Preface perhaps he would be good enough to communicate directly with the firm”?10, L'intervento di Mario Einaudi per assicurarsi il volume e modificare l’idea iniziale di Hayek non deve stupire. Come è stato”giustamente osservato, vivendo in America non riusciva a percepire i “mutamenti ideologici della casa editrice”, e continuava a ritenere che questa agisse “in una linea di continuità con la posizione del padre”, da qui le sue iniziative per “legare alla casa editrice” autori “come Hayek o Schumpeter?!!. Naturalmente anche questa lettera, trasmessa per i canali diplomatici, impiega parecchio tempo prima di giungere a destinazione, visto che la nota di accompagnamento ministeriale è del 15 febbraio 1945?2. D’altronde la lettera di Croce del febbraio verrà consegnata solo dopo parecchie settimane. La lettera di trasmissione ad Hayek di Carandini è, infatti, del 14 marzo!3. Per questo motivo, la replica di Hayek a Croce reca la data 247

del 17 marzo. Ripetendo di aver concesso i diritti a Mario Éinaudi, Hayek fa un po’ di confusione con le date e la corrispondenza. Si riferisce alla sua prima lettera a Croce come se questa fosse stata scritta il 26 dicembre e non il 26 novembre. Inoltre afferma di aver scritto di nuovo a Croce pochi giorni dopo per comunicargli il nuovo impegno editoriale assunto, ed evidentemente intende riferirsi alla lettera mandata a Carandini il 30 dicembre. Comunque si dichiara assai lieto se Croce vorrà scrivere qualche pagina di presentazione al volume (“I should however still be grateful if you should care to introduce the book with a Preface to the Italian readers”). Infine fa mostra di un certo interesse per le osservazioni formulate da Croce: ‘if you will permit I hope at some later date to refer to the interesting points made in your letter?!4, A questo punto il libro di Hayek è passato alla Einaudi e comincia la trafila che dovrebbe portarlo sui banchi delle librerie. Il 20 agosto 1945 Croce spedisce la traduzione fatta da Dora Marra! . In quella occasione non manca di definire lo studio di Hayek “importante”. Tuttavia va registrato anche un suo mutato atteggiamento rispetto al libro, dovuto, come vedremo, alla destinazione editoriale diversa da quella da lui immaginata inizialmente. Croce, forse anticipando possibili motivi di dissenso,

precisa: “come già le scrissi, io non so se a Lei sembra opportuna la prefazione che io avevo promesso all’Hayek. Ma se non farò la prefazione, farò certamente nella Critica una recensione del libro”’19, La traduzione non riscuote grande consenso alla redazione einaudiana!”. Lo si evince anche, indirettamente, da una lettera

del 31 agosto1945 che Antonio Giolitti, redattore presso la sede romana

dell’editrice, scrive a Croce.

Giolitti informa

di aver

“ricevuto la traduzione dell’Hayek della Dott. Marra”, assicura che “invieremo, poi, non appena pronte le bozze dell’Hayek”,

ma nel frattempo prega Croce di “inviarcene il testo, necessario per la revisione”. Conclude infine ringraziando Croce per le 248

recensioni “al dell’Hayek??!8, da Hayek non to al volume.

Lussu e al Balbo, e per quella promessa al libro In sostanza, il mutamento di casa editrice deciso ha modificato di molto l'impegno di Croce rispetHa trovato un traduttore, nella persona della

dott.ssa Dora Marra, sua bibliotecaria e fidata collaboratrice, e, se ha rinunciato a stendere una prefazione, ha preso accordi

per scrivere una recensione del libro quando uscirà. Perplessità in Croce erano sorte, invece, rispetto alle critiche rivolte alla traduzione. Scrivendo alla figlia Elena, Croce osservava che le critiche parevano “riferirsi non alla forma ma ai pensieri espressi dall’autore”, e giudicava negativamente il passaggio del libro alla casa editrice Einaudi “perché avendo la Casa Einaudi preso l’indirizzo politico che tutti conoscono, quel libro era in mezzo agli altri suoi una troppo forte stonatura”?!9. All’inizio del 1946 la Einaudi rifiuta di cedere i diritti del libro a Laterza, che

sì era mosso verosimilmente su sollecitazione di Croce. Intanto anche la Rizzoli si era fatta avanti?0. Dopo un intervallo di alcuni altri mesi, il 27 marzo 1946 Luigi Einaudi scrive a Croce a proposito del libro. “Dalla casa editrice di mio figlio, sede di Roma, mi fanno premura — avverte Einaudi — affinché io ti comunichi il loro desiderio di avere la promessa prefazione al libro The Road to Serfdom di von Hayek. . Certamente questa prefazione sarebbe un grande ornamento per il libro, ed io ti sarò molto grato se vorrai darla a mio figlio”21. Il 6 aprile 1946 Croce così progetta di replicare a Einaudi: “avevo consentito al desiderio dello Hayek di preporre alcune mie pagine al suo volume, quando egli mi aveva pregato di cercargli in Italia un editore e io gli avevo trovato il Laterza. Ma, passato poi il libro alla ditta di tuo figlio Giulio, io sentii ’inopportunità di una mia prefazione per una Casa Editrice apertamente e notoriamente legata alla propaganda russo-bolscevica. Non mi sarei sentito dàmon aise nello scrivere e avrei temuto sempre di apportare fastidi all’editore. Tuttavia, volendo essere 249

cortese all’autore e all’editore, dissi che del libro avrei fatto un

recensione sulla ‘Critica’, e così mi propongo di fare quando il

libro finalmente verrà in luce”?22. In questo caso ci pare che Luigi Firpo non colga il clima di quel momento e il tono della risposta di Croce quando sostiene che di tratta di una “impuntatura” crociana, “di un’asprezza che oggi appare eccessiva”23. Il tenore della risposta — che fra l’altro non fu spedita, fatto che spiega il tono un po’ asciutto e reciso, prima di essere inviata la lettera avrebbe subito con ogni evidenza qualche ritocco almeno formale — si intende perfettamente ove si rifletta che più che un rifiuto si tratta della conferma di un impegno precedentemente assunto. Croce ribadisce infatti la volontà di recensire il libro come già risulta dalla corrispondenza con l’editore dell’estate precedente. Semmai si può notare una punta di scetticismo che traspare nell’osservazione: “quando il libro finalmente verrà in luce”. Il fatto è che a quella data Croce ed Einaudi hanno un atteggiamento assai diverso nei confronti della casa editrice torinese. Croce è convinto che la linea editoriale della Einaudi sia definita e non vi sia spazio per libri eterodossi. Luigi Einaudi, invece, spera ancora di poter influenzare, facendo valere il proprio prestigio scientifico ed esercitando l’autorità paterna, le scelte del figlio. D’altronde proprio in quelle settimane veniva edito un importante volume collettaneo voluto da Luigi Finaudi e comprendente anche un saggio di Hayek. Dedicato alla pianificazione economica in regime collettivista, il libro raccoglieva un insieme di contributi scritti negli anni venti in cui si dimostrava l’impossibilità del calcolo economico in un’economia di piano?4. Tuttavia quest’opera rimase un fenomeno isolato e spicca come un masso erratico nel catalogo dell’editore. Quanto a The Road to Serfdom, Croce si sarebbe rivelato un buon profeta, il libro non venne mai pubblicato presso Einaudi e l’edizione italiana uscì soltanto due anni dopo presso un altro editore?5. ce .

Fin qui i fatti. Si tratta ora di avventurarci con cautela sul 250

terreno sdrucciolevole delle deduzioni e delle ipotesi interpretative. Cerchiamo, anzitutto, di saggiare quanto Hayek conoscesse il pensiero di Croce. Operazione necessaria per poter valutare con maggiore cognizione di causa l’impressione favorevole che la lettura del suo libro avrebbe suscitato nello studioso napoletano. Hayek cita Croce a più riprese, sia pure in maniera sempre episodica, tanto in opere precedenti quanto successive allo scambio epistolare che stiamo ricostruendo. In The Counter-revolution of Science, un libro composto di saggi scritti per la maggior parte negli anni quaranta, è citata la Storia d’Europa?. In un importante libro di sintesi, pubblicato nel 1960, The Constitution of Liberty??, analizzando il tema del rapporto tra liberalismo e democrazia, Hayek elenca in nota fra vari altri autori (Ortega, Kelsen, ad esempio, citati e discussi più lungamente) anche il saggio crociano intitolato La concezione liberale come concezione della vita, dalla edizione in lingua inglese degli Elementi di politica?8. In un libro-intervista di carattere autobiografico abbiamo un altro, e più generico, riferimento a Croce. Nel rievocare gli anni dell’università e quelli immediatamente successivi, quando frequentava il Privatseminar di von Mises, ricorda

come

venne

a contatto

con l’ambiente

ebreo,

“more internationally minded that my own circle”, e per il quale “what went on in the intellectual world of France and England was to them nearly as familiar as what happened in the Germanspeaking world. I found names which were quite new to me, like Bertrand Russell or H.G. Wells, Proust or Croce, the names of

men with whose ideas one had to be familiar to take part in ordinary conversation’?°, Un ultimo riferimento a Croce lo troviamo in uno scritto del 1973, sul liberalismo. Nel ribadire “il rifiu-

to della distinzione [...] tra liberalismo politico e. liberalismo economico”, osserva che questa “era stata ‘elaborata in parti-

colare da Croce come distinzione tra ‘liberalismo’ e ‘liberismo’”30, Da questo insieme di citazioni risulta che se Hayek ha certamente letto alcune opere di Croce, non ne ha ricevuto 251

un’impressione particolarmente profonda. In particolare, negli anni del dopoguerra, quando, lasciati un po’ da parte gli studi economici, si volge a quelli politici e sociali, egli non mostra di tenere particolarmente in conto, nella sua ricostruzione di una genealogia ideale del liberalismo, il contributo di Croce. Come si capisce dall’ultima citazione, dove Hayek torna in maniera un po” ellittica e anodina sulla distinzione o meno fra liberismo e liberalismo, che era stata al centro di un ben noto scambio di opinioni tra Croce ed Einaudi. Resta semmai il rammarico, pensando all’accenno contenuto nella lettera del 17 marzo 1945 richiamata prima, che lo studioso austriaco non abbia avuto modo di discutere, come pure si riprometteva, la questione direttamente con Croce3!. Per tentare di capire in maniera esaustiva l’interesse che The Road to Serfdom suscita in Croce, prima di svolgere un esame più particolareggiato, converrà indicare alcune ragioni di ordine generale. Croce non ha mai considerato il totalitarismo un fenomeno unicamente italiano identificabile solo con il fascismo,

ma lo ha sempre ritenuto la manifestazione particolare di una crisi della coscienza etica e civile dell'Europa contemporanea. L'analisi del totalitarismo richiedeva quindi anche un riesame del giudizio sul comunismo e sul marxismo cui le vicende della Russia bolscevica avevano dato caratteri nuovi e diversi. Nelle grandi opere di storia e di riflessione storiografica degli anni trenta, Croce si sforza di “rimettere a punto i termini generali del problema del marxismo alla luce della sua rivitalizzazione ideologica novecentesca”32,

Ancora,

durante

la guerra,

fra la

fine del 1942 e l’inizio del 1943, quando cominciava a profilarsi una possibile fine delle ostilità e la ripresa della vita libera, Cro-

ce scrive il saggio Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, che attualizza e precisa le sue riflessioni sull’argoment033. Come è stato osservato, dopo la caduta del fascismo, e molto prima che la cosiddetta guerra fredda determini un,riallineamento delle possibili posizioni politiche, agli occhi di Croce “la 252

partita tra liberalismo e totalitarismo non solo non appariva ancora risolta, ma appariva addirittura aggravata dal grado di diffusione e di potenza raggiunto dal comunismo, nonché dalle spinte, per lui non rassicuranti, verso politiche democratiche e sociali di cui, negli ultimi tempi della guerra, si parlava con sempre maggiore insistenza (‘il mondo va a sinistra’, si diceva)”?34, Poste tali premesse, risulta evidente che il libro di Hayek appare a Croce un’opera che può contrastare una deriva di opinione

troppo acquiescente verso il totalitarismo sovietico, o le sue edulcorate imitazioni. Tradurla e pubblicarla in Italia darà un contributo a riportare la discussione politico-culturale in un ambito più realistico e più attento alla considerazione dei fatti. Queste osservazioni generali ci portano al primo e più evidente punto di contatto fra Croce ed Hayek, la sottolineatura degli elementi di vicinanza tra fascismo e comunismo, considerati come espressioni diverse di un fenomeno unico. Una simile vicinanza era stata più volte rilevata da Croce. Già nel 1927, parlando con una giornalista britannica, aveva affermato di considerare “i nazionalismi e autoritarismi, che si oppongono al socialismo e comunismo, come un’imitazione a rovescio. La forma

seria e coerente e fondamentale rimane sempre quella marxistica”35. Una convinzione che non è difficile veder riaffiorare in scritti e interventi anche di molto successivi. In.una noticina polemica del 1950, ad esempio, si osserva che nel dopoguerra, “Il abito della dittatura e della rinunzia al dovere della libertà hanno trovato una nuova forma in un partito che fu avversario del fascismo ma di cui il dittatore italiano, già comunista rivoluzionario, si era nutrito, in modo che la sua era stata un’imitazione

del comunismo, dalla quale era agevole risalire all’originale. Solo gli accidenti e le avventure portarono il Mussolini a diventare nemico del comunismo, al quale sarebbe volentieri tornato se avesse potuto e se ne avesse avuto il tempo”?30. Tuttavia, per quanto immediatamente evidente, con tutta probabilità*non è questo il punto del libro di Hayek che colpisce 253

maggiormente Croce. Semmai, ci sembra di poter dire che l’a-

spetto più notevole che egli può aver rilevato nello studio di Hayek è la periodizzazione su cui esso fa perno. Lo studioso austriaco pone infatti come data cardine, che segna la decadenza progressiva degli ideali liberali, il 1870. “Il canone della libertà — scrive Hayek — che era stato messo in atto in Inghilterra sembrava destinato a diffondersi in tutto il mondo. Il dominio di queste idee ha probabilmente raggiunto la sua maggiore diffusione verso est negli anni intorno al 1870. Da allora cominciò a regredire, e un sistema diverso di idee, in realtà non nuove ma vecchissime, cominciò ad avanzare dall’est. L'Inghilterra perdette la sua funzione di guida intellettuale nella sfera sociale e politica e divenne un’importatrice di idee’’37. Come è noto Croce, in particolare nella Storia d’Europa, aveva indicato come momento di regressione degli ideali liberali proprio il 1870, dopo quella data, infatti, “nell'Europa [...] era scemata la meditazione attiva delle cose morali e politiche, e la fede che solo essa produce e rinnova, e il calore e l'entusiasmo che seguono la fede” 38, Dal 1870 si regisira, insomma, il progressivo indebolirsi di quella religione della libertà così rigogliosa nei decenni precedenti. Appare quindi ampiamente fondato ritenere che proprio questa comunanza di opinioni abbia impressionato favorevolmente Croce. D'altronde, è plausibile supporre che, nello scandire l’arco cronologico della sua analisi, Hayek abbia tenuto presente la storia crociana. E non si creda che l’esplicito riconoscimento della libertà anglosassone come modello che Hayek avanza non trovasse consonanza nella riflessione di Croce. Più volte, sia negli anni trenta che nel decennio successivo, nono-

stante le puntate polemiche contro la politica di apprezzamento del fascismo che veniva da alcuni ambienti britannici, o le criti-

che all’atteggiamento del governo inglese durante l’occupazione alleata e successivamente ritenuto responsabile delle clausole più dure del trattato di pace, Croce mostra

di considerare la

realtà inglese un modello ideale di convivenza civile e di ordina254

ta e libera vita politica. Nel 1939, ad esempio, osserva che l’Inghilterra è il “paese nel quale l’ideale di libertà ebbe la prima e più nobile affermazione e dove fu tradotto in istituti e costumi e donde ne venne l’esempio più efficace agli altri popoli”’39. In uno scritto del 1944 rileva il “dominio effettivo che il liberalismo ancora tiene colà [in Gran Bretagna]”, ed auspica che altri popoli “s’innalzino anch'essi a quel possesso forte e sicuro e lo serbino in simile forma, come ‘temperamento’, cioè passato in succo e sangue, diventato quasi cosa di natura”’40, Rispetto a una così evidente convergenza di vedute, anche le obiezioni che Croce formula nella sua lettera esprimono, più che un dissenso, soprattutto l’auspicio di una possibile discussione intellettuale con un interlocutore che si sente vicino sotto molti aspetti. Croce ribadisce la propria posizione, che distingue il liberismo economico dal liberalismo etico-politico, afferenti a due diverse sfere della vita umana. Pure, ci tiene anche a sotto-

lineare come nei casi pratici egli sia propenso in genere a sce-

gliere l’iniziativa individuale e la libertà di intrapresa economica. Una precisazione che non è una cortese ed estemporanea concessione alle posizioni di Hayek, ma risponde ad una convinzione più volte ribadita. Negli anni trenta, ad esempio, dopo aver ricordato che l’ideale della libertà coincide con la moralità, ed è quindi un fine a se stesso, Croce ricorda che il metodo per attuare tale ideale consiste “nella libera iniziativa e nella inventività individuale”’4!, A parecchi anni di distanza, nel marzo 1947, avrebbe osservato che la realtà economica deve più spesso attenersi “ai metodi liberistici perché sperimentati più conformi alla natura umana e più proficui”42. Ovviamente queste affermazioni non ledono la convinzione di fondo che occorra distinguere concettualmente i due momenti. Non a caso, nella sua lettera Croce fa riferimento all’accurata analisi di Hayek volta a dimostrare l’ambito e le condizioni in cui la concorrenza può dispiegare i suoi effetti benefici43. Certo, le posizioni non sono assimilabili. Ancora una volta, anzitutto, per una diversi255

tà di piani di ragionamento. Hayek è molto preoccupato, e questo è un punto sul quale tornerà anche in seguito (basti pensare a quanto scriverà in proposito in Legge, legislazione e libertà che è la sua opera più impegnativa‘4), di fissare le condizioni che consentono il pieno sviluppo della libertà d’intrapresa, e della crescita e autoregolazione del mercato. In altri termini il suo è uno sforzo di distinguere con chiarezza e mai confondere “la creazione di un’inquadratura permanente di leggi, nell’interno della quale l’attività produttiva è guidata da decisioni individuali, e la direzione dell’attività economica da parte di un’autorità centrale’45. Mentre Croce vuole soprattutto riaffermare la superiorità della libertà come ideale morale che guida anche le scelte pratiche concrete. In definitiva l’interesse di Croce per The Road to Serfdom risiede soprattutto nell’analisi del totalitarismo, che costituisce la preoccupazione politica maggiore per lui in quegli anni. Non casualmente a partire dal 1944 sono numerosi gli interventi di Croce su autori e libri che hanno analizzato il fenomeno totalitario. Basti pensare alle recensioni dei romanzi di Orwell o di Koestler, e anche la lettura di Hayek e l’interesse mostrato per le sue analisi rientra in questa più generale attenzione. Nella recensione dedicata a Buio a mezzogiorno, ad esempio, il motivo fondamentale del libro viene individuato nella denuncia del fanatismo. Pure, se il caso oggetto del libro “risponde di tutto punto allo schema

tradizionale,

così teorico come

storico, del

fanatismo”, esso ha però una connotazione propria della nostra

epoca e “nella sua particolarità si lega alle disposizioni morali dei giorni nostri, e soprattutto allo scemato spirito d’intrapresa morale e politica, d’inventività, di libertà, e al tentativo di sfug-

gire allo sforzo e all’impegno che ad esso chiede a noi di noi stessi, alla responsabilità; e perciò ben si adatta nel quadro di una società burocratica, nella quale non si ricerca e non si discute, ma si ubbidisce ad istruzioni precise e ad ordini”4. Qui il richiamo all’operosità e all’iniziativa individuale come ragione ùltima 256

di una società libera, che potremmo trovare condiviso in autori come Hayek o Einaudi, si associa ad una denuncia del dimidiamento morale dell’uomo moderno che tende a sfuggire dalla responsabilità e prende inflessioni che avvicinano la valutazione di Croce a quella di critici dell’impersonalità e dell’anomia etica come chiavi di lettura del totalitarismo. In conclusione credo si possa affermare che, anche osservato da un punto di vista particolare (e fin troppo specifico, come si è fatto in questo caso), il liberalismo crociano, come un prisma attraversato da raggio di luce che mostra una gamma completa dei colori, svela una complessità di ordito e una varietà di motivi che lo rendono irriducibile alla vulgata semplicistica cui si è cercato troppo spesso di riportarlo.

257

l F. A. Hayek, The Road to Serfdom, London, Routledge, 1944. Si tratta

dell’unico libro di Hayek presente nella biblioteca di Croce. 2 Copia della lettera si trova nelle carte di Croce conservate presso la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce — Napoli. D’ora in avanti indicato come Archivio Croce. Ringrazio la signora Alda Croce che con grande liberalità mi ha consentito di consultare i documenti conservati presso la fondazione. Un’altra copia della lettera è anche presso gli archivi di Hayek e della Mont Pelerin Society che sono alla Hoover Institution on war, revolution and peace, Stanford University, Stanford, California. La dettera citata si trova nel fascico-

lo Croce. D’ora in avanti si farà riferimento a questo fondo come Archivio Hayek. Devo l’indicazione di questo fondo hayekkiano a Roberto Pertici, che mi ha messo a disposizione copia dell’incartamento. A lui va il mio ringraziamento. In quel periodo Hayek lavorava presso la London School of Economics che, a causa della guerra, era alloggiata provvisoriamente a Cambridge. 3 Archivio Hayek. 4 G. Galasso, Nota del curatore, in B. Croce, La miafilosofia, a cura di G. G., Milano, Adelphi, 1993, p. 335. A dire il vero la fama di Croce in Inghilterra

era notevole anche prima della seconda guerra mondiale, tanto è vero che nel 1923 l’università di Oxford gli aveva attribuito una laurea honoris causa. 5 Di lì a poco tempo Croce avrebbe recensito favorevolmente il libro di Ropke, Die deutsche Frage, Erlenbach-Ziirich, Reutsch, 1945, sui “Quaderni della critica”, ora in B. Croce, Nuove pagine sparse, vol. II, Bari, Laterza, 1966, pp. 259-

262. L’anno successivo, poi, Ropke si sarebbe indirizzato a Croce per chiedergli di collaborare ad una nuova rivista. Cfr. a tal proposito i documenti raccolti e richiamati in M. Griffo (a cura di), Dall’“Italia tagliata in due” all’Assemblea costituente. Documenti e testimonianze dai carteggi di Benedetto Croce, prefazione di Gennaro Sasso, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 246-247 e 253.

6 Le circostanze in cui la lettera venne spedita e quelle del suo scambio epistolare con Croce sono ricordate da Hayek in una lettera a Pasquale Scaramozzino, direttore della rivista “Il Politico”, del 20 giugno 1970, Archivio Hayek.

Il 1 dicembre 1944 l’ambasciatore Carandini avverte Hayek che non potrà inviare subito la lettera e il libro a Croce, e che si ripromette di farlo a fine anno quando farà un breve soggiorno in Italia, Archivio Hayek. 7 La lettera in Archivio Croce. 8 Archivio Hayek. Altra copia in Archivio Croce. Questa minuta presenta una variante rispetto alla lettera inviata. Nel passo citato recita, infatti, “che

questa non possa essere assoluta”. La lettera che Croce avrebbe spedito a Laterza per informarlo della cosa non è fra quelle versate dalla famiglia Laterza all'Archivio di Stato di Bari. Dobbiamo questa-informazione alla dott.ssa Antonella Pompilio che ringraziamo.

La prof.ssa Dora Beth Marra, incaricata

della traduzione, che ha avuto la cortesia di rispondere ad alcune nostre domande, ci ha confermato che Croce aveva mostrato un interesse notevole per il

libro di Hayek. Conversazione telefonica del 7 febbraio 2002.

258

i

° B. Croce, Taccuini di lavoro V 1944-1 945, Napoli, Arte Tipografica, 1987

[1990], p. 255. !0 Archivio Croce, altra copia in Archivio Hayek. Vedi anche la lettera del 2 gennaio 1945, con la quale l'ambasciata italiana accusa ricevuta ad Hayek della sua del 30 dicembre, Archivio Hayek. 1! L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 190.

12 Archivio Croce. 13 Archivio Hayek. 14 Archivio Croce. Altra copia, non firmata, in Archivio Hayek. 15 La lettera di Croce che annunciava l’invio della traduzione con un pacco a parte e il biglietto che accompagnava il dattiloscritto in Archivio Einaudi. Ringraziamo il dottor Roberto Cerati, responsabile della casa editrice, per averci messo a disposizione questi documenti. 16 Archivio Einaudi. Un'altra testimonianza dell’interesse che portava al libro la si trova in un passo successivo della lettera dove si ricorda “quando verranno le bozze del libro dell’Hayek, le scorrerò anch’io per qualche eventuale piccolo ritocco. Ma la signorina Marra ha già fatto un primo diligente controllo”. Quanto al richiamo ad una precedente lettera contenuta nel brano citato nel testo, questa non deve essere stata recapitata all’editore torinese per un disservizio postale. In calce, infatti, c'è un’annotazione di pugno di Einaudi che dice “dov'è questa lettera? [o non l’ho trovata, chi è al corrente di questa proposta di Croce ?”?. 17 Sulle critiche alla traduzione da parte della redazione dell’Einaudi, cfr.

L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, cit., p. 248 n.

18 Archivio Croce. Altra copia non firmata, Archivio Einaudi. 19 I brani della lettera di Croce alla figlia sono riportati in L. Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 248-249. Ì 20 Su questi aspetti cfr. Ibidem. 21 L. Einaudi-B. Croce, Carteggio (1902-1953), a cura di Luigi Firpo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1988, p. 113.

22 Ivi, pp. 113-114. 23 L. Firpo, Einaudi e Croce, in L. Einaudi-B. Croce, Carteggio, cit., p. 22.

24 Cfr. Pianificazione economica collettivistica. Studi critici sulle possibilità del socialismo, prefazione di C. Bresciani-Turroni, Torino, Einaudi, 1946. Il

finito di stampare è del 1 marzo 1946. La traduzione del libro era stata suggerita originariamente alla casa editrice da Ernesto Rossi, che con Luigi Einaudi aveva una completa consonanza di vedute in materia, cfr. L. Mangoni, Pensare

i libri, cit., p. 250. 25 F.A. Hayek, Verso la schiavitù, presentazione di John Chamberlain, Milano, Rizzoli, 1948. La traduzione italiana è di Remo Costanzi. Negli anni a venire Croce non risparmierà le critiche, e fino i sarcasmi, verso la Einaudi, e

259

si può logicamente ipotizzare che anche l’esperienza negativa fatta con la mancata pubblicazione del libro di Hayek pesasse nelle sue valutazioni. Esemplare a tal proposito il giudizio espresso nella recensione al libro di V. J. Propp. Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Einaudi, 1949. Qui la casa torinese era definita “l’editore italiano, che più assiduamente di ogni altro ha cura di promuovere i rapporti tra la fiorente civiltà e cultura sovietica e quella povera e moribonda occidentale, tra la profonda scienza di colà e la superficiale dei nostri arretrati popoli” (B. Croce, Terze pagine sparse, vol. II, Bari, Laterza,

1955, p. 21). di 26 Cfr. F.A. Hayek, L’abuso della ragione, MST , Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 294 e 297. Le citazioni, due richiami in nota, ra) rispettivamente l’influenza della dottrina saint-simoniana sui Giovani Hegeliani e su Mazzini. Com'è noto la Storia d'Europa era stata tradotta in inglese nel 1933.

27 F.A. Hayek, [1960], p. 443.

The Constitution

of Liberty, London,

Routledge,

1990

28 B. Croce, Politics and Morals, New York, Philosophical Library, 1945.

Come informa Borsari, in questa edizione non sono tradotti i saggi Contrasti d’ideali politici dopo il 1870 e l’appendice Per una società di cultura politica,

cfr. S. Borsari (a cura

di), L’opera di Benedetto

Croce, Napoli, Nella sede

dell’Istituto, 1964, p. 509, n. 4578. Da notare che la bibliografia registra l’edi-

zione inglese della traduzione e non quella americana cui fa riferimento Hayek. 29 Hayek on Hayek. An autobiographical dialogue, a cura di Stephen Kresge e Leif Wenar, London, Routledge, 1994, p. 58, il libro è un montaggio di interviste e colloqui di varie persone con Hayek in modo da farne risultare un racconto autobiografico. 30 F. A. Hayek, Liberalismo, prefazione di Lorenzo Infantino, Roma, Idea-

zione, 1996, p. 62, si tratta di una voce preparata per l’Enciclopedia del novecento dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani. Le parole “liberalismo” e “liberismo” sono in italiano nel testo originale inglese. 31 Una lettura del pensiero di Hayek che sottolinea le affinità con lo storicismo crociano è quella data da N. Matteucci, L'eredità di von Hayek, Milano,

Società Aperta, 1997. I principali testi della discussione tra i due studiosi italiani sono raccolti in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, introduzione di Giovanni Malagodi, Milano, Ricciardi, 1988.

32 M. Maggi, L'Italia che non muore. La politica di Croce nella crisi nazionale, Napoli, Bibliopolis, 2001, p. 99. Si veda a tal proposito la Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 196533, pp. 311-313, e La Storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 19668, pp. 42-43, 70, 185-187, 221-223.

Per l’interpretazione crociana del comunismo cfr. A. Jannazzo, Croce e il comunismo, Napoli, Esi,1982.

33 Cfr. B. Croce, Discorsi di varia filosofia, vol. I, Bari, Laterza, 1945, pp. 277-290. Per la data di composizione del saggio cfr. Id., Taccuini di lavoro, IV, 1937-1943, Napoli, Arte Tipografica, 1987 [1989], p. 395.

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34 G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022,

p. 421. 35 B. Croce, Intervista con Lina Waterfield per l’“Observer”, in Id., Epistolario I: scelta di lettere curata dall’autore 1914-1935, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1967, p. 136. 36 B. Croce, Terze pagine sparse, vol. II, cit., p. 125. 37 F.A. Hayek, Verso la schiavitù, cit., pp. 18-19. 38 B. Croce, Storia d'Europa, cit., p. 298. Sul 1870 come spartiacque nella storia europea e per come tale giudizio maturi nella storiografia a partire dalla prima guerra mondiale cfr. R. Vivarelli, 1870 in European History and Historiography, “The Journal of Modern History”, vol. 53, n. 2, 1981, pp. 167-188, per la posizione di Croce soprattutto pp. 171-175. 39 B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Napoli, Bibliopolis, 1991,

p.- 112. 40 B. Croce, Scritti e discorsi politici, vol. II, Napoli, Bibliopolis, 1993, p.

148. Naturalmente additare come modello il costume politico britannico non significava rinnegare le critiche alle concezioni utilitaristiche della libertà, che Croce riteneva errate anche in riferimento alla realtà inglese. A tal proposito, fra i tanti esempi che si potrebbero fare, vedi quanto osservato in uno scritto pubblicato nel settembre 1951, ancora a proposito di liberismo e liberalismo, B. Croce, Terze pagine sparse, vol. I, cit., p. 306.

41 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono,

cit., p. 22. Questo

passo è presente anche nella prima stampa del testo come saggio negli Atti della Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, che è riprodotto nel volume B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit. p. 28. 4 B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. II, cit., p. 371.

43 Cfr. F.A. Hayek, Verso la schiavitù, cit., pp. 31-37 e 64-70. 44 Cfr. F.A. Hayek, Legge, legislazione e libeftà. Una nuova enunciazione . deiprincipi liberali della giustizia e dell’economia politica, trad. it., a cura di Angelo Petroni e Stefano Monti Bragadin, Milano, Il Saggiatore, 1986, pp. 415-

471. 4 F.A. Hayek, Verso la schiavitù, cit., p. 65. 46 B. Croce, Scritti e Discorsi politici, vol. II, cit., p. 362.

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