La letteratura italiana. Storia e testi. Opere di Baldassare Castiglione, Giovanni Della Casa, Benvenuto Cellini [Vol. 27]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME

27

OPERE DI

BALDASSARE CASTIGLIONE GIOVANNI DELLA CASA BENVENUTO CELLINI A CURA DI CARLO CORDIÉ

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO • NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RESBRVBD PRINTED,IN ITALY

OPERE DI BALDASSARE CASTIGLIONE GIOVANNI DELLA CASA · BENVENUTO CELLINI

INTRODUZIONE

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

XXXVII

BALDASSARE CASTIGLIONE

s

IL LIBRO DEL CORTEGIANO

GIOVANNI DELLA CASA 367

GALA TEO OVVERO DE' COSTUMI ORAZIONE PER MUOVERE I VENEZIANI

A COLLEGARSI

COL PAPA, COL RE DI FRANCIA E CON GLI SVIZZERI CONTRO L'IMPERATOR CARLO QUINTO

443

ORAZIONE SCRITTA A CARLO V IMPERADORE INTORNO ALLA RESTITUZIONE DELLA CITTÀ DI PIACENZA

474

BENVENUTO CELLINI LA VITA DI BENVENUTO DI M 0 GIOVANNI CELLINI FIORENTINO SCRITTA (PER LUI MEDESIMO) IN FIRENZE

497

APPENDICE: TRATTATI E DISCORSI DI BENVENUTO CELLINI TRATTATO DELL'OREFICERIA

971

TRATTATO DELLA SCULTURA

1071

SOPRA L'ARTE DEL DISEGNO

1105

DELLA ARCHITETTURA

no8

SOPRA LA DIFFERENZA

NATA

TRA

GLI

SCULTORI

E'

PITTORI CIRCA IL LUOGO DESTRO STATO DATO ALLA PITTURA NELLE ESSEQUIE DEL GRAN MICHELAGNOLO BUONARROTI

I I

13

SOPRA I PRINClPI E 'L MODO DtJMPARARE L'ARTE DEL DISEGNO (FRAMMENTO)

NOTA CRITICA Al TESTI INDICE DEI NOMI DEL

1116

1123

« CORTEGIANO » DI BALDASSARE

CASTIGLIONE

1135

INDICE DEI NOMI DEL «GALATEO» DI GIOVANNI DELLA CASA

1~42

INDICE DEI NOMI DELLE ORAZIONI DI GIOVANNI DELLA CASA INDICE DEI NOMI DELLA «VITA» DI BENVENUTO CELLINI

1144 1145

INDICE DEI NOMI DEI TRATTATI E DEI DISCORSI DI BENVENUTO CELLINI INDICE GENERALE

II 58

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INTRODUZIONE Non era passato neppure un anno dal sacco di Roma, un gravissimo fatto politico non solo per i contemporanei e, personalmente, per Baldassare Castiglione, un vero scacco della nunziatura all'imperatore, che usciva, nell'aprile del 1528, il Libro del cortegiano, una delle opere più rappresentative del Rinascimento. All'indomani (o quasi) del tramonto di un ideale di cultura e di politica quale era stato quello delle Corti italiane, tale opera fissa in una splendida creazione un mondo di civiltà che non andrà perduto. Essa diffonderà nell'Europa le caratteristiche di un'Italia dotta per ricerche e studi, giusta negli ordinamenti dei suoi Comuni e dei suoi principati, civile nei costumi dei suoi abitanti. Tale ideale (che sarà quello del Rinascimento e, in poesia, s'incarnerà nel Furioso e nella Gerusalemme) durerà fin a quando subentrerà l'immagine tutta romantica di un'Italia dei briganti e degli intrighi, dei pugnali e dei veleni: non è che l'altra faccia dell'individualità tutta popolare del medesimo periodo storico. Basti pensare al Cellini e alla sua caratteristica Vita. Così come nel Galateo si avrà un codice democratico d'usi di fronte alla raffinatezza aristocratica del Cortegiano. L'immagine del perfetto uomo di Corte avrà larghe risonanze negli ambienti intellettuali e politici di Francia, Inghilterra e Spagna. Essa rimarrà legata all'appassionata esperienza del Castiglione, uno dei migliori cavalieri che mai fossero stati al mondo, come dirà Carlo V alla sua scomparsa. Ne conserverà le confessioni più segrete e più intime, gli slanci più appassionati. Quella del Castiglione era la disfatta di un'intera età dinanzi a problemi nuovi e diversi. L'Italia delle Corti umanistiche era soverchiata dalle conquiste degli Stati nazionali. L'individuo poteva fare azioni degne di meraviglia anche nel retaggio della civiltà antica, ma il valore dei singoli non contava più nei meandri della politica, né sui campi della guerra (nonostante la battaglia di Pavia così cavalleresca da parte francese), né il perfetto oratore riesce a vincere con le doti della saggezza e della persuasione in un mondo d'intrighi quale quello della politica. Una ben dura realtà si stava profilando: quella collegata con il consolidarsi e l'espandersi dei grandi Stati moderni. La nobiltà degli ideali contava ben poco dinanzi alla nuova situa-

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zione politica. Ogni rimpianto del buon tempo antico rischiava di essere inutile. Era un po' come lo sdegno per il fucile di Cimosco nel Furioso. L'età della cavalleria era ormai passata dinanzi a quella delle armi da fuoco. E proprio Niccolò Machiavelli aveva dovuto prenderne atto nell'Arte della guerra e nel suo estremo tentativo di organizzare l'Ordinanza fiorentina. (A buon diritto chi ben comprese la triste realtà dei tempi, il «savio» Francesco Guicciardini, sentirà l'inutilità di tal milizia: proprio come l'appellarsi agli antichi Romanil) La disfatta dei militi al sacco di Prato sarà un grave documento. Nuovi tempi erano all'orizzonte. La caduta di Roma sotto le orde dei Lanzichenecchi avrà la sua eroica rispondenza - nell'ideale della libertà- all'assedio di Firenze. Dal 1512 al 1530 gli anni si faranno pesanti nel ricordo delle glorie passate, o, almeno, del benessere dovuto all'intraprendenza dei buoni cittadini e al loro amore per la comunità. . Anche il Castiglione, volgendosi al passato, non potrà che contemplarlo con profonda religiosa malinconia. Nella lettera dedicatoria del Cortegiano - scritta certamente nella primavera del 1527, in Spagna - egli dice a don Michele de Silva di aver cominciato a rileggere il suo scritto nella necessità di darlo alle stampe:« ... presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar più avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti, esser già morti: ché, oltre a quelli de chi si fa menzione nel proemio dell'ultimo, morto è il medesimo messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indrizzato ; giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. Medesimamente il duca !uliano de' Medici, la cui bontà e nobil cortesia meritava più lungamente dal mondo esser goduta. Messer Bernardo, cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevole prontezza d'ingegno fu gratissimo a qualunque lo conobbe, pur è morto. Morto è il signor Ottavian Fregoso, omo a' nostri tempi rarissimo; magnanimo, religioso, pien di bontà, d'ingegno, prudenzia e cortesia, e veramente amico d'onore e di virtù, e tanto degno di laude che li medesimi inimici suoi furono sempre constretti a laudarlo; e quelle disgrazie che esso constantissimamente supportò, ben furono bastanti a far fede che la fortuna,· come sempre fu, è ancor oggidl contraria illa virtù. Morti sono ancor molti altri dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma

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quello che senza lacrime raccontar non si devria, è che la signora Duchessa, essa ancor è morta. E, se l'animo mio si turba per la perdita de tanti amici e signori miei che m'hanno lassato in questa vita come in una solitudine piena d'affanni, ragion è che molto più acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perché essa molto più che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto più che a tutti gli altri era tenuto». Questo rimpianto sta alle soglie del capolavoro e ne contraddistingue subito l'intima ispirazione. C'è in esso qualcosa di biblico. Per una nota meditazione del barone di Charlus nel gran romanzo del Proust il sempre rimpianto Trompeo richiamò alla mente una apostrofe pur essa degna di ricordo, quella che fa Chateaubriand nel 1833 ripassando da Verona dove undici anni prima si erano riuniti a congresso ministri e sovrani della Santa Alleanza. I Mémoires d' outre-t011zbe si affiancano alla Recherche du temps perdu. Proprio come diceva il nostro amato francesista e critico: «Il gran pezzo di Chateaubriand è, prima di Proust, l'ultimo anello d'una catena che fa capo all'antichità biblica. Ubi sunt principes gentium si chiede il profeta Baruch, e risponde: Exterminati sunt .•• et alii loco eoru,n surrexerunt». Così in Via Cupa. E se il Trompeo faceva quell'aggiunta ad un celebrato scritto critico del Gilson, sia qui concesso rammemorare - per un'altra «ricerca del tempo perduto » - proprio le pagine preliminari del Castiglione. Lo stato d'animo del nunzio pontificio si trova ad esser molto affine a quello d'un artista. La sua rievocazione si ammanta di parole di Platone e di Cicerone: ha un modo tutto suo d'esser poesia. Anche per questi atteggiamenti di meditazione e di intima sofferenza il Cortegiano appare come un libro di grande serietà, di profondo impegno morale. Educato alle nobili linfe dell'umanesimo il Castiglione - che era della terra di Virgilio e ne mantiene la dolcezza tutta particolare nei costumi quotidiani e nella lingua, anche in quella volgare - senti come pochi i legami (e le fratture) fra la morale e la politica. Si è detto che, da perfetto cavaliere dell'ideale, egli provava repugnanza per quanto era costretto ad appoggiare nella sua qualità di ambasciatore e, quindi, di nunzio. Ma è indubitato che l'elogio che egli fa _della nobiltà di natali e di spiriti è connesso con una concezione dell'uomo la quale si basa sulla ragione e sull'equilibrio delle passioni: Livio e Plutarco fanno da guida al descrittore della Corte d'Urbino e quello, che doveva

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riuscire un piccolo quadro privo di colore data l'affermata modestia dei suoi intendimenti, è invece risultato un affresco grandioso della vita italiana del Rinascimento. In tal modo il Cortegiano doveva raggiungere una grande fama nel mondo della trattatistica e della morale che non accenna ancora a diminuire. Sèguita a dire il Castiglione nella Lettera dedicatoria, dopo aver espresso il suo rimpianto per la morte di tanti illustri personaggi e, in particolare, della duchessa Elisabetta: «Per non tardare adunque a pagar quello che io debbo alla memoria de cosi eccellente signora e degli altri che più non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m'è stato concesso. E perché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca I uliano e del cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l'abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d'Urbino, non di mano di Rafaello o di Michel Angelo ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non è. E, come ch'io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le proprietà e condicioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma né anco accennato le virtù della signora Duchessa; perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l'intelletto ad imaginarle: e, se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità». In queste affermazioni (che si collegano anche alla necessità di dar fuori un testo corretto dell'opera, dopo le copie che circolavano senza autorizzazione dell'autore) si palesa una volta di più la finezza del Castiglione. Non si tratta solo cli modestia, di senso dei propri limiti. C'è qualcosa che va ricondotto all'educazione dei classici. Si tratta d'una dote del perfetto cavaliere e cortegiano: la discrezione. Il Castiglione, da quel Lombardo la cui grazia rifulge (an• che se è, forse, idealizzata) nel ritratto di Raffaello, sentl indubbiamente l'importanza del suo libro. Esso rappresenta l'estremo atto di fede negli ideali della cavalleria, ma quale documento linguistico e letterario presuppone tutto un mondo, quello del Rinascimento. Si era alle soglie dell'età moderna. L'autore era il primo a comprendere le ragioni per cui l'opera sua riusciva diversa da tutte le

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altre consimili. Sarebbe stata nuova anche nell'esigenza di un volgare che non dipendesse solo dall'esempio del Boccaccio e dagli schemi della lingua toscana. In realtà, il Castiglione non era in accordo coi precetti del suo carissimo Bembo. La civiltà italiana del Rinascimento cercava una propria originale espressione. Mantova, Milano, Venezia, Roma e Urbino erano città la cui esperienza storica era culminata nella formulazione di una politica evidentemente or grandiosa or avventurosa, or basata su ripieghi, ora ispirata a grandi esempi dell'antichità. Ma il più delle volte essa mirava a ripristinare i benefici di una perduta libertà. Cosi era negli ideali dei migliori. L'autore ha illustrato il suo intento, come si è in parte visto, nella Lettera dedicatoria. Essa è un po' il suo testamento letterario. È la logica conclusione di tutta la sua esistenza di cortigiano e di letterato. La dolcezza del carattere del Castiglione si manifesta nella straordinaria fluidità della sua lingua: armonica per la pienezza della sua compagine, libera nelle sue articolazioni sintattiche (salvo dove si fa sentire lo sforzo d'emulare i grandi scrittori antichi, quelli che sentivano la prosa come un'arte), elegante nei passaggi dai ragionamenti ai dialoghi ai racconti e alle descrizioni dei personaggi e dei casi umani. Gli studi, condotti in una delle più belle raccolte di manoscritti che siano state al mondo, diedero al Castiglione la possibilità .di maturare il suo carattere integerrimo così negli otia come nei negotia. Azione e contemplazione si compenetrano insieme per cui il libro che ne risulta potrebbe dirsi tanto documento di vita vissuta quanto vagheggiamento nostalgico di un'età tramontata. Come fu detto dal Cian, uno dei maggiori studiosi del Castiglione, il ritratto di Raffaello, oggi al Louvre, serba «insieme con le sembianze esteriori, l'anima vera del Castiglione: una gravità signorile con una dolcezza che sarebbe serena, se non vi apparisse disteso un velo sottile di malinconia». La stessa impressione può dare nel complesso la sua opera letteraria: tanto più se sottilmente composita (come mostrano raffronti con scrittori greci, latini e italiani) quale è il Cortegiano. Il documento storico è superato dall'alone poetico che circonda figure ed avvenimenti e tutto trasforma nel tentativo di fissare una società ideale e sottrarla all'azione del Tempo. I quattro libri del capolavoro trattano del modo di «formar con parole un perfetto cortegiano »: si illustrano a mano a mano - nei

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dialoghi condotti per quattro sere nel Palazzo sotto la guida della duchessa Elisabetta - le qualità che deve avere un personaggio cosi schiettamente cavalleresco e ideale, e si ricercano in concomitanza anche le qualità che deve possedere una perfetta «dama di palazzo ». Vengono, quindi, considerate le più belle incombenze del cortegiano. La più nobile è, certo, quella di muovere alla virtù il principe e di distoglierlo dal male qualora scegliesse tale tristo cammino, specialmente per causa della politica. Allo stesso principe si danno precetti in modo che sia facilitato il grave compito del consigliere. In ultimo (ed interlocutore è il Bembo, che dell'argomento aveva detto negli Asolani) vien trattata la dottrina dell'amor platonico: questo è essenzialmente contemplazione di bellezza ed avvicina a Dio. È il vero amore. Il cortegiano perfetto sa tirar di scherma e parlar di poesia, amare con purezza d'animo e combattere in guerra per il suo signore. Lo stesso autore mirava ad un ideale ritratto di gentiluomo, ma non trascurava la sua diretta esperienza. Per lunghi anni aveva lavorato alla stesura del suo libro. Scriveva elegantemente in latino e in volgare, parlava di arte, discorreva piacevolmente con le dame e trattava affari importanti con papi e potenti. « C'è chi, qual lui / vediamo ha tali cortigian formati », cosi diceva l'Ariosto nel Furioso parlando del personaggio. Ritratto ideale e atto di fede d'una vita pensosa fu, dunque, il libro. E ben sapeva l'autore quanto di sé fosse passato nella ideale pittura del suo cortigiano. Ed era pittura nobile e raffinata, non abbozzo o opera di maldestro artefice, come avrebbe voluto dar a intendere fors'anche per antifrasi cara ai classici. Valutato nelle sue manifestazioni esteriori - dalla lingua composita all'eclettismo filosofico che guida i ragionamenti di vari interlocutori - il Cortegiano doveva essere dalla critica illuministica e da quella romantica inteso come un grande esercizio retorico. E, quanto al contenuto - in riferimento all'età di Francesco I e di Carlo V, e anche alla Riforma e al sacco di Romal -, un sepolcro per quanto bellissimo. Ma era una pietra tombale più che un'arca. Le simpatie dei lettori di quelle età (e non di quelle soltanto) vanno alla quasi moderna prosa del Machiavelli e ai pensieri da lui scientificamente espressi in un trattato quale il coevo Principe. Basta leggere nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis alcuni giudizi, ormai famosi, in merito alla prosa del

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Cinquecento, che ha l'affettazione della forma ma è senza intimità e pensiero: cc Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'af.. fettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzione e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perché la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò rettorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, li è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortegiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed ele':" gante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi, ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche: i poeti petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico, con la imitazione esteriore del Boccaccio; la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. Ci era lo scrittore, non ci era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi "forma letteraria", nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna». Cosi il De Sanctis in un capitolo del più grande monumento della critica romantica. Il suo era un tempo di grandi illusioni: :il Risorgimento era una fiamma che ardeva purissima. Alla luce cli essa si rievocavano - per un'Italia non ancora serva di stranieri màrtiri e ribelli di un Cinquecento avanti il Concilio di Trento.

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Ciò che si rimprovera all'età di Leone X e di Clemente VII era la mancanza di religiosità, di serietà. Un giudizio come quello or ora espresso sulla prosa «umanistica» del secolo è duro proprio perché nato da una disillusione: quella di vedere gli uomini inferiori alle grandi concezioni dei moralisti, dall'antichità in poi. È evidente che il lato culto e raffinato del Castiglione non contasse e che anzi il suo sogno civile e politico - quello del «cortegiano » - fosse creduto superato dalla stessa realtà. Almeno il pessimismo eroico del Machiavelli avrebbe tentato di reagire. Il Castiglione contemplava il suo sogno con animo nostalgico. Il suo sarebbe stato un dolce tramonto, non un'angosciosa rovina (checché si sia detto anche per la rapida morte, dovuta a malattia e non a crucci morali). L'età nostra, comunque, ha visto ben altre disfatte nel campo della politica e in quello della morale. Perciò il sacco di Roma, per l'eco avuta negli spiriti dei contemporanei, è stato paragonato, proprio da uno storico delle idee quale il Toffanin, alla disperazione della prima grande guerra. Era anch'esso la rottura di un equilibrio, e inoltre la caduta di una illusione collegata col progresso, con la civiltà dei popoli ,, moderni». Era un segno della decadenza della cultura. Minerva soccombeva a Marte, l'uomo alla fiera. Giova, fra i critici dei nostri tempi, proprio vedere nelle pagine dedicate al Castiglione dal citato Toffanin nel suo Cinquecento la testimonianza più moralistica che sia dato leggere. Anche nelle pagine di un manuale destinato alla didattica universitaria (a sostituzione del più filologico Cinquecento del Flamini in una collezione vallardiana) si possono esprimere pensieri polemici, degni in tutto e per tutto di un saggista. Accettiamoli come documento estremo della tendenza di considerare l'autore e il mondo del Cortegiano nella storia del secolo XVI. Anche le lettere son testimonianze di civiltà. Comincia col dire lo studioso che il Castiglione ,e dalla tradizione domestica e dalla personale vocazione fu tratto a entrare nella vita di Corte, ad amarla con un sentimento di responsabilità da cui, nelle circostanze storiche d'allora, non potevano venirgli se non disinganni». E, in relazione alla discesa dei Lanzichenecchi e al sacco di Roma, il critico afferma, per la sfortunata azione del nunzio (non certo responsabile del fatto, come volle dapprima il pontefice), che «lo travolgerà una delle più complete disfatte diplomatiche e spirituali che la storia ricordi».

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Per restare al capolavoro - che è il frutto più cospicuo di un'integerrima vita di letterato e di diplomatico -, non sono ben chiariti dal Castiglione i rapporti fra il cortigiano e il principe (che può essere iniquo). Ed una Corte raffinata vive anche senza un vero ideale. Di qui certa tristezza che colpisce nel libro che vuol essere l'istituzione d'un perfetto uomo di Corte (e della sua compagna). Il Toffanin parla anzi di «una tristezza che è poi quella di tutta l'opera, la quale, meglio che del Furioso e delle Prose bisogna ricordare contemporanea del Principe». Ed aggiunge, per i rapporti fra politica e moralità: « Certe insistenti domande che ci rivolgiamo noi a proposito del Cortegiano, se le era già poste da sé il Castiglione». In vero, per alcune contraddizioni inerenti alla sua natura e al suo delicato ufficio, «chimerico è un tal cortigiano, di per se stesso. O egli è coetaneo del Principe: e come potrà essere tanto più inoltrato di lui nella via del sapere? O è più giovane: e come potrà avere su di lui tanto ascendente? O è più vecchio: e come immaginare in lui quelle qualità di galanteria e di vivacità che gli furon date come necessarie per figurare in Corte e insinuarsi nell'animo altrui?» Si accentua quindi la solitudine spirituale del Castiglione, il suo continuo illudersi e disingannarsi alla realtà dei suoi giorni. (cc La singolarità individuale del Castiglione è pari a quella del suo libro. Qui sono recenti le tradizioni principesche degli inquieti regnanti, fresco, per lo più, il ricordo delle ambigue origini e malcerto il domani: e tuttavia questo cortigiano consanguineo di Principi si sente legato al Principato da un sentimento di cosi cavalleresca devozione, da un concetto così alto dell'istituzione che, per trovargli degli spiriti affini, bisogna varcar qualche secolo, in Italia. Tra noi, per allora, i cortigiani se non pensano alla Corte con l'animo dell'Ariosto, pensano con quello del Tasso. La critica che il Guicciardini fa al sogno machiavellico della milizia nazionale, vale ancor meglio per il sogno del Cortigiano. L'uomo d'armel Ma è possibile l'uomo d'arme in Italia? Il Guicciardini, natura fredda ma nobile- lasciamo pur dire in pace il contrario -, s'esalta davanti a quell'esercito francese di cui è colonna vertebrale il cortegiano, uomo d'arme legato al suo sovrano pe,; la vita e per la morte dall'antichità della tradizione nobiliare, dalla comunità degli ideali e degli interessi. Nel Principato italiano che si veniva costituendo sulle rovine delle signorie le cose stavano tanto diversa-

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mente; e non è da pensare che il Castiglione non lo sapesse e non se ne rattristasse. Ora quel quarto libro che a taluno parve, perché il più astratto, il meno interessante o il più confondibile con l'altra trattatistica del secolo, si distingue, in 1 ealtà, da questa perché vive la pena della propria astrazione. Non è colpa del Castiglione mente concreta per eccellenza, se non può imaginare il suo cortigiano nel fervore di certe aspirazioni politiche, civili, umane. C'è troppo poca politica in quest'opera! Cosi si brancola nel vuoto della Giustizia, della Religione, della Fede senza incontrarvi mai un qualche grande proposito: per una patria: per un popolo: per una monarchia. Perché? Perché il suo non arriva neppure ad essere il cortigiano di un dato signore: è quello che usava e solo poteva fiorire in Italia: che passava per metodo da un signore ad un altro portando con sé il bagaglio delle buone intenzioni, cioè il culto di certe astrazioni scritte con la lettera maiuscola! Eppure il primo a sentire ch'esse contano di più con la minuscola era il Castiglione! Dell'Italia stessa si parla appena e con triste tono di rinuncia ... ») La conclusione non è meno pessimistica nella pagina con cui si chiude il profilo storico del Toffanin: « Io non esiterei ad affermare che questo è uno dei libri più tristi del rinascimento: qui la debolezza di un popolo si specchia nella coscienza d'un uomo di buona fede. E al paragone non appare immorale il Principe con cui un altro uomo cerca di sanare a ogni costo la piaga. Il Cortegiano resta, suo malgrado, un libro "alla filosofica" ... ». E fortunatamente il lettore trova, come in una formula di commiato del manuale predetto, un accenno al lato umanistico di un autore cosi essenzialmente legato alla cultura e alla sua funzione di rendere gli uomini migliori: « Il Castiglione era uno spirito sereno, disposto a quella sola malinconia che nasce da gentilezza d'animo». Con questa nota delicata il mondo del Castiglione trova la sua rispondenza in una propria realtà letteraria dove il mondo della politica non ha più ragione d'essere e solo è vivo il culto della Bellezza e del Bene. Anche del suo libro si può dire: «ferum victorem cepit».

* La fortuna di Giovanni della Casa da più secoli è dovuta al Galateo: solo da qualche tempo, nel campo della poesia oltre che del gusto letterario, s'è tenuto conto delle Rime. Ai nostri giorni più

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di una curiosità ha suscitato la riesumazione della Quaestio lepi,-dissima an uxor sit ducenda, volgarizzata da un dotto umanista a noi contemporaneo, Ugo Enrico Paoli. In realtà, se si tien conto dell'ampia produzione del prelato rac-colta nelle edizioni del Settecento (ad esempio, la fiorentina Manni, del Carlieri, del 1707; le veneziane Pasinelli, del 1728-'29, e del '52, e la napoletana del 1733) c'è da auspicare che nuovi studi sulla figura del letterato e del poeta siano condotti in modo che meglio risulti la sua importanza nell'ambito della storia della cultura del Rinascimento. Morto in ancor giovane età, nel 1556, monsignor Della Casa non aveva curato di stampare le cose sue in volgare, fra le quali non poche libere anche se rispondenti allo spirito del tempo. Il primo editore dei suoi scritti fu un familiare dell'autore, Erasmo Gemini de Cesis da Spoleto, che riuscì a mettere insieme alcune delle cose migliori di lui in uno smilzo volumetto di Ri.me et prose (Impresse in Vinegia per Nicolo Bevilacqua, nel mese d'ottobre M.D.LVIII). Non poche difficoltà aveva dovuto sostenere nella sua impresa il buon curatore di quel testo: gli stessi eredi dell'autore erano restii alla pubblicazione di opere non del tutto approvate da lui, cosi amante delle finitezze formali e delle grazie dello stile. Finalmente, con le rime, uscivano in tale occasione l'Orazione a Carlo Quinto intorno alla restituzione di Piacenza e il Galateo. Il Gemini, nel prestare omaggio allo scrittore prematuramente scomparso (« dal mondo honorata & da me sempre riuerita memoria di Monsignor della Casa mio Padrone», cosi dice), ne illustrava l'opera in una lettera Al clarissimo M. Girolamo Quirino, fu del magnifico messere Smerio, datata da Venezia, «a' x d'ottobre MDLVIII» e, particolareggiatamente, in un'altra lettera Ai lettori. Nel 1559 usciva a Milano, per Giovanni Antonio degli Antonj, il Trattato degli Ufici comuni tra amici superiori e inferiori, che è tra-duzione del De officiis dello stesso autore. Tenuta per sua dal Tasso che la cita nel dialogo Il padre di famiglia, essa è stata dai critici creduta di dubbia autenticità. Come è stato notato da Severino Ferrari (che nel 1900 pubblicava dell'autore alcune Prose scelte e annotate nella cc Biblioteca scolastica di classici italiani» diretta dal Carducci), per un secolo nuove prose di lui non apparvero alle stampe, se non si vuol tener conto· delle Lettere. Importante è, per altro, l'edizione iniziata dal Ménage con un

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volume di Prose, uscito a Parigi nel 1667 (« Appresso Tommaso lolly, Mercatante di Libri nel Palazzo à la Palma, et al Scuto d,Hollanda»). Il Ferrari ha illustrato con molta sagacia le vicende dell'edizione ed ha messo in evidenza, dietro le testimonianze di Giovan Batista Casotti accademico fiorentino, come le carte dellacasiane, in parte postillate da Carlo Dati con la collaborazione del conte Ferdinando del Maestro, fossero appunto passate alla morte del Ménage (24 luglio 1692) al Casotti. Costui apprestò con ogni cura una nuova e più completa raccolta di rime e prose. Si veda quindi la già citata edizione fiorentina stampata dal Manni per r editore Carlieri nel 1707: l'accademico fiorentino, in una lettera Al sig. abate Regnier Desmarais, presenta l'edizione. Pur nella modestia del modo con cui parla del suo lavoro, si sente che è conscio di aver fatto un'opera degna di grande interesse da parte dei letterati. Dell'importanza della nuova silloge degli scritti dellacasiani rende comunque conto l'editore, che in una sua avvertenza- Carlo Maria Carlieri a' lettori - cosi scrive: «Avrei voluto aggiungere a questa Raccolta la Vita dell'Autore; ma essendo questa stata scritta pochi anni sono da, Compilatori delle Notizie !storiche dell' Accademia Fiorentina, ho giudicato più opportuno inserirci la seguente lettera scritta al famosissimo Sig. Abate Regnier Desmarais Segretario perpetuo dell'Accademia Franzese, e Accademico della Crusca dal Sig. Abate Gio. Batista Casotti Accademico Fiorentino, e lettore di Filosofia Morale, e di Geografia nell'Insigne Accademia de' Nobili di questa Città, di cui è Reggente; che dopo di aver fatto generoso dono al Pubblico di quasi tutto ciò, che di nuovo comparisce in questa Raccolta si è compiaciuto in oltre di permettermi che io dia alla luce questa Scrittura; nella quale, oltre a molte curiose notizie non toccate finora da altri, intorno alla Famiglia, e alla vita di Monsig. Giovanni della Casa, molte cose vi sono riguardanti la presente edizione, e la parte, che hanno avuta in essa molti dottissimi Uomini, de' quali vuole ogni ragione che si faccia onorata menzione». Dall'edizione del Casotti data l'inizio della vera fortuna del Della Casa, poeta e prosatore in latino e in volgare. Di essa bisogna tener conto, anche se per l'illustrazione del Galateo conviene prendere le mosse da quanto affermava il buon Erasmo Gemini nel 1558. Nella già menzionata avvertenza Ai lettori costui diceva illu-

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strando la raccolta: « Seguita appresso Il Galatheo, che la terza & ultima parte è, & compie il Volume: il quale come hauesse luogo, altresi da se stesso si dichiara, nominandosi per Autore, & occasione del medesimo Trattato. Ma percioche, voi perauentura chi questi Messer Galatheo si fosse, volentieri intendereste; io il vi dirò, & come il fatto adiuenisse brieuemente vi farò chiaro. Ciascuno di voi puote alcuna volta hauere vdito ricordare Messer Galeazzo Florimonte al presente Vescouo di Sessa, degno per la sua dottrina, & per li suoi costumi, & per la bontà & sincerità della sua natura, & vie piu per la vera pietà Christiana & ottima Religione, che in lui si truouano di molto maggior grado & maggior fortuna, che egli non ha. Auenne adunque, che ritrouandosi egli vn giorno in Roma con l' Autor nostro, (che assai sovente accadea loro di essere insieme, come quelli, che in amore & vicendeuole beniuolenza erano congiuntissimi & domestichissimi ;) d'un in altro ragionameto passando, vennero a dire il viuere ciuile & politico, & della leggiadria & conuenenza de costumi, & delle sconcie & laide maniere, che gli huomini vsano bene spesso infra di loro: alla fine soggiunse il Vescouo, che allui molto a grado sarebbe di vedere intorno a modi che la gete nell'vsanza comune dee tenere o schifare, vn Trattato della nostra volgar fauella, accioche piu largamente comunicar si potesse; ma che l'amerebbe vie meglio nello stile di lui che d'altro scrittore, che egli a quel tempo conoscesse & che disponendosi esso accio fare, egli lo participerebbe d'alquanti auertimenti dalli sopra cio raccolti, nel tempo, che egli andò per lo mondo peregrinando, & visitando le Corti de gli Re, & de Prencipi, & d'altri gran Signori; & massimamente in Verona, in casa quel buono & santo Vescouo Giberti; la qual fu appunto vno Asilo de piu dotti, & de piu costumati, & insieme de piu religiosi huomini di quel secolo; si come è manifesto a ciascun che 'l conobbe. Perche il nostro Autore, accettato lo 'nuito, & la offerta, si diede come prima poté, a metterla in essecutione: il che quanto felicemente gli succedesse, vostro ne donerà hora essere il giudicio, & non mio. - State sani, & di me ricordeuoli; se tanto o quanto questo nostro Volume, vi giouerà d'hauer letto». Lo stile e la grafia di questo proemio avvicinano il lettore d'oggi ai tempi dell'autore e al gusto letterario di un'età. Ma piace vedere quanto scrive il Casotti nella sua edizione del 1707 rivolgendosi ali' abate Regnier Desmarais: «Vengono dietro alle Lettere, il pu-

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r1ss1mo Galateo, cosi chiamato dal celebre Infarinato Cav. Lionardo Salviati, ed il gravissimo Trattato degli Ufficj comuni tra gli amici superiori, ed inferiori, tradotto in Volgar Fiorentino; la qual Traduzione si crede comunemente che sia del Casa medesimo che lo scrisse in Latino, non ostante che Gio. Batista Strozzi detto il Cieco, uomo per altro dottissimo, e di finissimo giudicio, lo metta in forse nelle sue osservazioni intorno al parlare, e scriver Toscano; e l'uno, e l'altro di questi due non men vaghi, che utili Trattati sono arricchiti di brevi note, ma erudite, uscite dalle penne d'uon1ini accreditati: imperocché alcune sono di Monsig. Piero Dini, tra gli Accademici della Crusca il Pasciuto, Arcivescovo di Fermo: altre (che son state opportunamente somministrate dalla gentilezza del Sig. Antonfrancesco Marmi virtuoso Accademico Fiorentino, che le aveva manoscritte) sono di Iacopo Corbinelli letterato celebre anche in Francia, al quale dobbiamo la Bella mano di Giusto de' Conti, da lui ristorata; Il Trattato, dato fuori come di Dante, della volgare Eloquenza; il Corbaccio, la Fisica d' Aristotile del Cav. Fra Paolo del Rosso in terza Rima; l'Etica d'Aristotile ridotta in Compendio da Ser Brunetto Latini, e queste, ed altre Opere e Traduzioni illustrate con note, e ristampate in Parigi: altre sono del Sig. Abate Menagio: altre del Sig. Abate Anton Maria Salvini: che le mie non meritano l'onore di esser nominate». Dopo le grandi edizioni del Settecento, secolo erudito per eccellenza e aperto a ogni manifestazione della cultura, si può dire che l'interesse per il Della Casa si è polarizzato per lunghi decenni sul Galateo, come si nota dalle numerose edizioni del capolavoro: l'inclusione di parte di esso nel volume quarto (1892 5) delle Letture italiane di Giosue Carducci e di Ugo Brilli e del quasi intero testo nelle citate Prose scelte e annotate del Della Casa a cura di Severino Ferrari (1900) conferma come la critica avesse ormai sistemato l'autore fra i trattatisti, anzi fra i moralisti. Le edizioni scolastiche apprestate da Carlo Steiner e da Ugo Scoti-Bertinelli, rispettivamente nel 1910 e nel 1921, e perfino quella più sobriamente annotata per il grande pubblico da Pietro Pancrazi (del 1940) consolidano la fama dell'autore nell'ambito suddetto: il Della Casa è un fine letterato, nutrito di libri d'autori classici e buon osservatore dei costumi contemporanei. Anzi il Pancrazi diceva alle soglie dell'opera: «E perché ristampare ancora una volta il Galateo? È chiaro che abbiamo voluto offrire ai lettori una lettura,

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anzi una "curiosità" storica e morale; e nient'altro. È lontana da noi ogni intenzione edificante. Che quanto alle usanze, alle maniere e alla piacevolezza nei rapporti tra gli uomini, siamo andati tant'oltre dall'altra parte, che il Galateo di lVIonsignore ormai non basta più. E chi vorrà proporre, quando che sia, un galateo nuovo agli uomini nuovi, dovrà rifarsi da capo». Un'importanza tutta particolare, destinata com'era ad un grande pubblico, rivesti nel 1937 l'edizione di gran parte dell'opera dellacasiana, unita ad un'ampia scelta del Castiglione, per cura di Giuseppe Prezzolini. E grande fortuna ha il tascabile Galateo, presentato e commentato nel 1950 da Dino Provenzal. Per quanto si avvalorasse in primo piano l'autore del Galateo, è anche evidente che il Della Casa lirico non poteva essere trascurato dalla critica moderna. Il De Sanctis, come s'è già detto per il Cortegiano del Castiglione, valutava anche il trattato di monsignore quale documento d'una società cc pulita ed elegante», estranea in sostanza ai grandi problemi del tempo: e, in fatto di lingua e di stile, ne considerava i modi e gli spiriti nella sfera del boccaccismo e del ciceronianismo, cioè di un mondo basato sul canone delle imitazioni. Quanto all'autore lirico, il suo nome era come mescolato alla rinfusa con quelli di altri «rimatori». (Cosi scrive l'autore della Storia della letteratura italiana: «La posterità ha dimenticato i petrarchisti, ed è appena se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa, il Costanzo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Galeazzo di Tarsia e pochi altri, capitanati da Pietro Bembo boccaccevole e petrarchista tenuto allora principe della prosa e del verso».) Il De Sanctis, nella fretta di giungere alle sue maggiori scoperte critiche e alla sistemazione di una vasta materia quale quella della letteratura e della civiltà italiane, non dà valore alle Rime del nostro autore e ratifica quindi, più o meno consapevolmente, un'opinione comune che durava da più d'un secolo. A sua volta il Croce, nell'esaminare la produzione lirica del Della Casa nell'ambito delle correnti letterarie del primo Cinquecento, comprendeva l'importanza dell'autore che «non fu un effusivo dicitore, ma un travagliato "stilista"». E, notato il garbo e la finezza del Galateo (« uno di quei libri iniziatori che l'Italia del Cinquecento dette al mondo moderno»), ricordava i giudizi del Vico, del Foscolo e del Torti e, in genere, l'ammirazione dei com-

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mentatori e dei critici per la paziente arte da Orazio, anzi da Zeusi, che contraddistinse l'opera del poeta lirico. Passava, quindi, ad un esame dei migliori componimenti del Della Casa e, in fine, ad un breve ritratto dell'uomo e del letterato. Soprattutto interessa quanto il filosofo scrisse del poeta che, per non abbandonarsi liberamente alla sua ispirazione e per cedere alle lusinghe degli usi retorici del tempo, non poté essere un vero creatore: in molti suoi componimenti cn.'VI), luoghi che hanno riscontro con l'Amadfs spagnolo. Interessante il fatto che nel 1561 - un anno dopo la pubblicazione del poema di Bernardo Tasso - a Mantova si effigiò, per festeggiamenti nella Corte, proprio l'arco dei leali amanti: del resto, il motivo rientrava nella tradizione dei costumi del mondo brettone. 4. copertamente: e quindi, con riservatezza.

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tuoso e che le parli con poco rispetto, essa gli darà tal risposta ch'el conoscerà chiaramente che le fa dispiacere; se ancora sarà discreto ed usarà termini modesti e parole d'amore copertamente, con quel gentil modo che io credo che faria il cortegiano formato da questi signori, la donna mostrerà non l'intendere e tirarà1 le parole ad altro significato, cercando sempre modestamente, con quello ingegno e prudenzia che già s'è detto convenirsele, uscir di quel proposito. Se ancor il ragionamento sarà tale ch'ella non possa simular di non intendere, pigliarà il tutto come per burla, mostrando di conoscere che ciò se le dica più presto per onorarla che perché così sia, estenuando2 i meriti suoi ed attribuendo a cortesia di quel gentilomo le laudi che esso le darà; ed in tal modo si farà tener per discreta e sarà più sicura dagli inganni. Di questo modo parmi che debba intertenersi la donna di palazzo circa iragionamenti d'amore. [Lv.] Allora messer Federico: - Signor Magnifico, - disse voi ragionate di questa cosa come che sia necessario che tutti quelli che parlano d'amore con donne dicano le bugie e cerchino d'ingannarle: il che se così fosse, direi che i vostri documenti3 fossero boni; ma, se questo cavalier che intertiene ama veramente e sente quella passion che tanto affligge talor i cori umani, non considerate voi in qual pena, in qual calamità e morte lo ponete, volendo che la donna non gli creda mai cosa che dica a questo proposito? Dunque i scongiuri, le lacrime e tant'altri segni non debbono aver forza alcuna? Guardate, signor Magnifico, che non si estimi che, oltre alla naturale crudeltà che hanno in sé molte di queste donne, voi ne insegniate4 loro ancora di più. - Rispose il Magnifico: - Io ho detto non di chi ama, ma di chi intertiene con ragionamenti amorosi, nella qual cosa una delle più necessarie condicioni è che mai non manchino parole; e gli innamorati veri, come hanno il core ardente, cosi hanno la lingua fredda col parlar rotto e subito5 silenzio; però forsi non saria falsa proposizione il dire: Chi ama assai, parla poco. Pur di questo credo che non si possa dar certa6 regula per la diversità dei costumi degli omini; né altro dir saprei, 1. tirarà: trarrà, volgerà. 2. estenuando: attenuando. 3. documenti: insegnamenti (latinismo). 4. insegnate C, U. (Lo intendiamo quale congiuntivo e come tale lo rendiamo graficamente; cfr. p. 272 e la nota S e p. 2,77 e la nota 3.) 5. subito: subitaneo. 6. certa: sicura.

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se non che la donna sia ben cauta e sempre abbia a memoria che con molto minor periculo possono gli omini mostrar d'amare che le donne. Disse il signor Gasparo ridendo: - Non volete voi, signor ~agnifico, che questa vostra cosl eccellente donna essa ancora ami, almen quando conosce veramente esser amata? Atteso che, se 'l cortegiano non fosse redamato, non è già credibile che continuasse in amare lei; e così le mancheriano molte grazie, e massimamente quella servitù e riverenzia, con la quale osservano1 e quasi adorano gli amanti la virtù delle donne amate. - Di questo - rispose il Magnifico - non la voglio consigliare io; dico ben che lo amar come voi ora intendete estimo che convenga solamente alle donne non maritate ;2 perché, quando questo amore non po terminare in matrimonio, è forza che la donna n'abbia sempre quel remorso e stimulo che s'ha delle cose illicite e si metta a periculo di macular quella fama d'onestà che tanto l'importa. - Rispose allora messer Federico ridendo : - Questa vostra opinion, signor Magnifico, mi par molto austera, e penso che l'abbiate imparata da qualche predicator, di quelli che riprendono le donne innamorate de' seculari3 per averne essi miglior parte; e panni che imponiate troppo dure leggi alle maritate, perché molte se ne trovano, alle quali i mariti senza causa portano grandissimo odio e le offendono gravemente, talor amando altre donne, talor facendo loro tutti i dispiaceri che sanno imaginare; alcune sono dai padri maritate per forza a vecchi, infermi, schifi.4 e stomacosi, che le fan vivere in continua miseria. E, se a queste tali fosse licito fare il divorzio5 e separarsi da quelli co' quali son mal congiunte, non saria forse da comportar loro che amassero altri che ,1 marito; ma, quando, o per le stelle nemiche o per la diversità delle complessioni o per qualche altro accidente, occorre che nel letto, che dovrebbe esser nido di concordia e d,amore, sparge la maledetta furia infernale il seme del [LVI.]

1. osservano: onorano riverentemente. 2. non maritate M, p. 240; maritate C. Si deve trattare di un errore di stampa passato in tutte le edizioni di C, dato che il Cian faceva osservare come l'opinione del Magnifico fosse contraria alla prima delle regole tradizionali dell'amore cavalleresco: • Causa coniugii non est ab amore excusatio recta» (Andrea Cappellano). 3. seculari: oggi si direbbero •laici». 4. schifi: luridi. 5. E, se •.. divorzio: è da notare questo richiamo al problema del divorzio che si dibatté nel Rinascimento.

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suo veneno che poi produce lo sdegno, il sospetto e le pungenti spine dell'odio che tormenta quelle infelici anime, legate crudelmente nella indissolubil catena insino alla morte, perché non volete voi che a quella donna sia licito cercar qualche refrigerio a cosi duro flagello e dare ad altri quello che dal marito è non solamente sprezzato ma aborrito ? Penso ben che quelle, che hanno i mariti convenienti1 e da essi sono amate, non debbano fargli ingiuria: ma l'altre, non amando chi ama loro,2 fanno ingiuria a se stesse. Anzi a se stesse fanno ingiuria amando altri che il marito - rispose il Magnifico. - Pur, perché molte volte il non amare non è in arbitrio nostro,3 se alla donna di palazzo occorrerà questo infortunio: che l'odio del marito o l'amor d'altri la induca ad amare, voglio che ella niuna altra cosa allo amante conceda eccetto che l'animo; né mai gli faccia dimostrazion alcuna certa d'amore, né con parole, né con gesti, né per altro modo, talché esso possa es. serne sicuro.

[LVII.] Allora messer Roberto da Bari, pur ridendo: - Io, disse - signor Magnifico, m'appello di4 questa vostra sentenzia, e penso che averò molti compagni; ma, poiché pur volete insegnar questa rusticità,5 per dir cosi, alle maritate, volete voi che le non maritate siano esse ancora così crudeli e discortesi? e che non compiacciano almen in qualche cosa i loro amanti? - Se la mia donna di palazzo - rispose il signor Magnifico - non sarà maritata, avendo d'amare, voglio che ella ami uno col quale possa maritarsi; né reputarò già errore6 che ella gli faccia qualche segno d'amore: della qual cosa voglio insegnarle una regula universale con poche parole, acciò che ella possa ancora con poca fatica tenerla a memoria; e questa è che ella faccia tutte le dimostrazioni d'amore a chi l'ama, eccetto quelle che potessero indur nell'animo del1'amante speranza di conseguir da lei cosa alcuna disonesta. Ed a questo bisogna molto avvertire,7 perché è un errore dove incorrono 1. convenienti: che ben si convengono loro. 2. non amando chi ama loro: pare un'eco del dantesco e stilnovistico «Amor, che a nullo amato amar perdona», In/., v, 103. 3. il non amare ••• nostro: si sentono influssi delle discussioni platoniche - per il Convito, soprattutto ..... nel circolo di Marsilio Ficino alla Corte di Lorenzo il Magnifico, padre di Giuliano. 4. ni'appello di: faccio appello contro. 5. rusticità: rigidezza. 6. errore: colpa. 7. a1111ertire: fare attenzione.

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infinite donne, le quali per l'ordinario niun'altra cosa desiderano più che l'esser belle: e, perché lo avere molti innamorati ad esse par testimonio della loro bellezza, mettono ogni studio per guadagnarne più che possono; però scorrono 1 spesso in costumi poco moderati e, tassando quella modestia temperata che tanto lor si conviene, usano certi sguardi procaci, con parole scuriti ed atti pieni d'impudenzia, parendo lor che per questo siano vedute ed udite volentieri e che con tai modi si facciano amare: il che è falso; perché le demostrazioni2 che si fan loro nascono da un 3 appetito mosso da opinion di facilità, non d'amore. Però voglio che la mia donna di palazzo non con modi disonesti paia quasi4 che s' offerisca a chi la vole ed uccelli più che po gli occhi e la volontà di chi 1a mira, ma con i meriti e virtuosi costumi suoi, con la venustà, con la grazia, induca nell'animo di chi la vede quello amor vero che si deve a tutte le cose amabili e quel rispetto che leva sempre la speranza di chi pensa a cosa disonesta. Colui adunque che sarà da tal donna amato, ragionevolmente devrà5 contentarsi d'ogni minima dimostrazione ed apprezzar più da lei un sol sguardo con affetto d'amore che l'esser in tutto signor d'ogni altra; ed io a cosi fatta donna non saprei aggiunger cosa alcuna, se non che ella fosse amata da cosi eccellente cortegiano come hanno formato questi signori e che essa ancor amasse lui, acciò che e l'uno e l'altra6 avesse totalmente la sua perfezione. Avendo infin qui detto il signor Magnifico, taceasi; quando il signor Gasparo ridendo: - Or - disse - non potrete già dolervi che 'l signor Magnifico non abbia formato la donna di palazzo eccellentissima, e da mo,7 se una tal se ne trova, io dico ben che ella meriti esser estimata eguale al cortegiano. - Rispose la signora Emilia: - Io m'obbligo trovarla, sempre che voi trovarete il cortegiano. - Suggiunse messer Roberto: - Veramente negar non si po che la donna formata dal signor Magnifico non sia perfettissima: nientedimeno in queste ultime condizioni appartenenti allo amore parmi pur che esso l'abbia fatta un poco troppo austera, massimamente volendo che con le parole, gesti e modi suoi ella levi in [LVIII.]

1. sco"ono: trascorrono, trascendono. 2. demostrazioni M, p. 243; dimostrazioni C. 3. da un M, p. 243; d'un A, C. 4. paia quasi M, p. 233; paia C. 5. devrà U; dovrà C. 6. l'uno e l'altra M, p. 243; all'uno, ell'altro A;·e l'una e l'altro C. 7. da mo: d'ora innanzi.

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tutto la speranza allo amante e lo confermi più che ella po nella disperazione; ché, come ognun sa, li desiderii umani non si estendono a quelle cose, delle quali non s'ha qualche speranza. E, benché già si siano trovate alcune donne, le quali, forse superbe per la bellezza e valor loro, la prima parola che hanno detta a chi lor ha parlato d'amore è stata che non pensino aver mai da lor cosa che vogliano, pur con lo aspetto e con le accoglienze son lor poi state un poco più graziose, di modo che con gli atti benigni hanno temperato in parte le parole superbe; ma, se questa donna e con gli atti e con le parole e coi modi leva in tutto la speranza, credo che 'l nostro cortegiano, se egli sarà savio, non l'amerà mai, e cosi essa averà questa imperfezion, di trovarsi senza amante.1

[LIX.] Allora il signor Magnifico: - Non voglio - disse - che la mia donna di palazzo levi la speranza d'ogni cosa, ma delle cose disoneste, le quali, se 'l cortegiano sarà tanto cortese e discreto come l'hanno formato questi signori, non solamente non le sperarà, ma pur non le desiderarà; perché, se la bellezza, i costumi, l'ingegno, la bontà, il sapere, la modestia e tante altre virtuose condicioni che alla donna averno date, saranno la causa dell'amor del cortegiano verso lei, necessariamente il fin ancora di questo amore sarà virtuoso: e, se la nobilità, il valor nell'arme, nelle lettere, nella musica, la gentilezza, l'esser nel parlar, nel conversar pien di tante grazie, saranno i mezzi coi quali il cortegiano acquistarà l'amor della donna, bisognerà che 'l fin di quello amore sia della qualità che sono i mezzi per li quali ad esso si perviene; altra che, secondo che al mondo si trovano diverse maniere di bellezze, cosi si trovano ancora diversi desiderii d' omini ;2 e però intervien che molti, vedendo una donna di quella bellezza grave, che andando, stando, motteggiando, scherzando e facendo ciò che si voglia, tempera sempre talmente tutti i modi suoi che induce una certa riverenzia a chi la mira, si spaventano né osano servirle; e più presto, tratti dalla speranza, amano quelle vaghe e lusenghevoli,3 tanto delicate e tenere che nelle parole, negli atti e nel mirar mostrano una certa passion languidetta, che promette poter facilmente incorrere4 e 1. E, benché • .• e complesso, è caso d'influsso negli uomini.

amante: a Lo schema di questo periodo, insolitamente lungo riuscito, contro le consuetudini del!' A., asintattico. t un tra classicheggiante e boccaccevole » (Cian). 2. d'omini: 3. lwe,1ghevoli U; lusinghevoli C. 4. inco"ere: procedere.

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convertirsi in amore. Alcuni, per esser sicuri degli inganni, amano certe altre tanto libere e degli occhi e delle parole e dei movimenti che fan ciò che prima lor viene in animo, con una certa semplicità che non nasconde i pensier suoi. Non mancano ancor molti altri animi generosi, i quali, parendo loro che la virtù consista circa la difficultà1 e che troppo dolce vittoria sia il vincer quello che ad altri pare inespugnabile, si voltano facilmente ad amar le bellezze di quelle donne, che negli occhi, nelle parole e nei modi mostrano più austera severità che !'altre, per far testimonio che 'l valor loro po sforzare un animo ostinato e indur ad amar ancor le voglie ritrose e rubelle d'amore.2 Però questi tanto confidenti di se stessi, perché si tengono securi di non lassarsi ingannare, amano ancor volentieri certe donne, che con sagacità ed arte pare che nella bellezza coprano mille astuzie; o veramente alcun'altre, che hanno congiunta con la bellezza una manera sdegnosetta di poche parole, pochi risi, con modo3 quasi d'apprezzar poco qualunque le mira o le serva. 4 Trovansi poi certi altri, che non degnano amar se non donne che nell'aspetto, nel parlare ed in tutti i movimenti suoi portino tutta la leggiadria, tutti i gentil costunlÌ, tutto 'l sapere e tutte le grazie unitamente cumulate,5 come un sol fior composto di tutte le eccellenzie del mondo. Sicché, se la mia donna di palazzo averà carestia di quegli amori mossi da mala speranza, non per questo restarà senza amante; perché non le mancheran quei che saranno mossi e dai meriti di lei e dalla confidenzia del valor di se stessi, per lo quale si conosceran degni d'essere da lei amati.

[Lx.] Messer Roberto pur contradicea, ma la signora Duchessa gli diede il torto, confirmando la ragion del signor Magnifico; poi suggiunse: - Noi non abbiam causa di dolersi6 del signor Magnifico, perché in vero estimo che la donna di palazzo da lui formata possa star al paragon del cortegiano, ed ancor con qualche vantaggio; perché le ha insegnato ad amare, il che non han fatto questi signori al suo cortegiano. - Allora l'Unico aretino: - Ben è conveniente - disse - insegnar alle donne lo amare, perché rare volte consista circa la difficr,ltà: • consiste nel combattere e vincere le difficoltà» (Cian). 2. ,ubelle d,amo,e: ribelli alramore e alle sue leggi. (Si noti Parcaico rube/lo, usato un tempo in senso politico.) 3. con modo: con aria. 4. le serva: le osserva (Maier). 5. unitamente cumulate: unite insieme. 6. dolersi: dolerci. 1.

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ho io veduto1 alcuna che far lo sappia: ché quasi sempre tutte accompagnano la lor bellezza con la crudeltà ed ingratitudine verso quelli che più fedelmente le serveno e ·che per nobilità, gentilezza e virtù meritariano premio de' loro amori; e spesso poi si danno in preda ad omini sciocchissimi e vili e da poco, e che non solamente non le amano ma le odiano. Però, per schifar questi cosi enormi errori, forsi era ben insegnare loro prima il far elezione di chi meritasse essere amato, e poi lo amarlo; il che degli omini non è necessario, che pur troppo per se stessi lo sanno : ed io ne posso esser bon testimonio; perché lo amare a me non fu mai insegnato, se non dalla divina bellezza e divinissimi costumi d'una Signora,3 talmente che nell'arbitrio mio4 non è stato il non adorarla, nonché ch'io in ciò abbia avuto bisogno d'arte o maestro alcuno; e credo che 'l medesimo intervenga a tutti quelli che amano veramente: però piuttosto si converria insegnar .al cortegiano il farsi amare che lo amare.

[LXI.] Allora la signora Emilia: - Or di questo adunque ragionate, - disse - signor Unico. - Rispose l'Unico: - Parrai che la ragion vorrebbe che col servire e compiacer le donne s'acquistasse la lor grazia; ma, quello di che esse si tengon servite e compiacciute, credo che bisogni impararlo dalle medesime donne, le quali spesso desideran cose tanto strane che non è omo che le imaginasse, e talor esse medesime non sanno ciò che si desiderino; perciò è bene che voi, signora, che sete donna e ragionevolmente dovete saper quello che piace alle donne, pigliate questa fatica per far al mondo una tanta utilità. - Allor disse la signora Emilia: - Lo esser voi gratissimo universalmente alle donne, è bono argumento che sappiate tutti e' modi per li quali s'acquista la lor grazia; però è pur conveniente che voi l'insegniate. 5 - Signora, - rispose l'Unico - io non saprei dar ricordo più utile ad un amante che 'l procurar che voi non aveste autorità con quella6 donna, la grazia della quale esso cercasse; perché qualche bona condicione, che pur è paruto7 al mondo talor che in me sia, col più sincero amore che fosse mai, non hanno avuta tanta forza di far ch'io fussi amato quanta voi di far che fussi odiato. 1. veduto U ;- tJeduta C. 2. schifar: evitare. 3. una Signora: la duchessa Elisabetta. 4. nell'arbitrio mio: in mia possibilità. 5. insegnate C, U. 6. con quella: su quella, presso quella. 7. paruto: parso.

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Rispose allora la signora Emilia: - Signor Unico, guar... dimi Dio pur di pensar, non che operar mai, cosa perché foste odiato; ché, oltre ch'io farei quello che non debbo, sarei estimata di poco giudicio, tentando lo impossibile; ma io, poiché voi mi stimulate con questo modo a parlare di quello che piace alle donne, parlerò; e, se vi dispiacerà, datene la colpa a voi stesso. Estimo io adunque che chi ha da essere amato, debba amare ed essere amabile, e che queste due cose bastino per acquistar la grazia delle donne. Ora, per rispondere a quello di che voi m'accusate, dico che ognun sa e vede che voi siete amabilissimo; ma che amiate così sinceramente come dite sto io assai dubbiosa, e forse ancora gli altri; perché l'esser voi troppo amabile ha causato che siete stato amato da molte donne, ed i gran fiumi divisi in più parti divengono piccoli rivi; cosi ancora l'amor, diviso in più che in un obietto, ha poca forza; ma questi vostri continui lamenti ed accusare in quelle donne che avete servite la ingratitudine, la qual non è verisimile, atteso tanti vostri meriti, è una certa sorte di secretezzaI per nasconder le grazie, i contenti e piaceri da voi conseguiti in amore ed assicurar quelle donne, che v'amano e che vi si son date in preda, che non le pubblichiate;2. e però esse ancora si contentano che voi cosi apertamente con altre mostriate amori falsi per coprire i lor veri: onde se quelle donne, che voi ora mostrate d'amare, non son così facili a crederlo come vorreste, interviene perché questa vostra arte in amore comincia ad essere conosciuta, non perch'io vi faccia odiare. [LXII.]

Allor il signor Unico: - Io - disse - non voglio altrimenti tentar di confutar le parole vostre, perché ormai panni cosi fatale il non esser creduto 3 a me la verità, come l'esser creduto a voi la bugia. - Dite pur, signor Unico, - rispose la signora Emilia che voi non amate così come vorreste che fosse creduto; che, se amaste, tutti i desideri vostri sariano di compiacer la donna amata [LXIII.]

è una certa sorte di secretezza: « t un certo vostro segreto artificioso e misterioso. In queste parole della signora Emilia all'Unico par di sorprendere quasi un tono di amabile canzonatura verso quel suo sentimentalismo erotico ed iperbolico, che si direbbe dovuto anche alle sue abitudini del poetare secentistico. E si sa da documenti sicuri che quelle gentildonne, a cominciare da Isabella estense, godevano di farsi giuoco di lui» (Cinn). 2. le pt1bblicliiate: le rendiate note a tutti. 3. creduto: creduta (secondo un· uso dell'epoca in merito alla concordanza). I.

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e voler quel medesimo che essa vole: ché questa è la legge d'amore; ma il vostro tanto dolervi di lei denota qualche inganno, come ho detto, o veramente fa testimonio che voi volete quello che essa non vole. - Anzi, - disse il signor Unico - voglio io ben quello che essa vole: che è argumento ch'io l'amo; ma dolgomi perché essa non voi quello che voglio io: che è segno che non mi ama, secondo la medesima legge che voi avete allegata. - Rispose la signora Emilia: - Quello che comincia ad amare, deve ancora cominciare a compiacere ed accommodarsi totalmente alle voglie della cosa amata, e con quelle governar le sue e far che i proprii desiderii siano servi e che l'anima sua istessa sia come obediente ancella, né pensi mai ad altro che a transformarsi, se possibil fosse, in quella della cosa amata, e questo reputar per sua somma felicità; perché così fan quelli che amano veramente. - Appunto la mia somma felicità - disse il signor Unico - sarebbe se una voglia sola governasse la sua e1 la mia anima. - A voi sta di farlo - rispose la signora Emilia.

[LXIV.] Allor messer Bernardo, interrompendo: - Certo è - disse - che chi ama veramente, tutti i suoi pensieri, senza che d'altri gli sia mostrato, indrizza a servire e compiacere la donna amata; ma, perché talor queste amorevoli servitù non son ben conosciute, credo che, oltre allo amare e servire, sia necessario fare ancor qualche altra dimostrazione di questo amore tanto chiara che la donna non possa dissimular di conoscere d'essere amata; ma con tanta modestia però che non paia che se le abbia poca riverenzia. E perciò voi, signora, che avete cominciato a dir come l'anima dello amante dee essere obbediente ancella alla amata, insegnate ancor, di grazia, questo secreto, il quale mi pare importantissimo. Rise messer Cesare, e disse: - Se lo amante è tanto modesto che abbia vergogna di dirgliene, scrivaglielo.2 - Suggiunse la signora Emilia: - Anzi, se è tanto discreto come conviene, prima che lo faccia intendere alla donna devesi assecurar di non offenderla. Disse allora il signor Gasparo : - A tutte le donne piace l'esser pregate d'amore, 3 ancor che avessero intenzione di negar quello che loro si domanda. - Rispose il magnifico !uliano: - Voi v'ingan1. e M, p. 237; o C. 2. scrivaglielo M, p. 243; scrivagliele A, C. 3. A tutte .•• amore: si veda, per quanto la situazione non sia del tutto uguale, Ovidio, Art. am., 1,711: •Ut potiare, roga; tantum cupit illa rogari».

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nate molto; né io consiglierei il cortegiano che usasse mai questo termine, se non fusse ben certo di non aver repulsa.

[Lxv.] E che cosa deve egli adunque1 fare? - disse il signor Gasparo. Suggiunse il Magnifico: - Se pur vole scrivere o parlare, farlo con tanta modestia e cosi cautamente che le parole prime tentino l'animo e tocchino tanto ambiguamente la voluntà di lei che le lassino modo ed un certo esito2 di poter simulare di non conoscere che quei ragionamenti importino amore, acciò che, se trova difficultà, possa ritrarsi e mostrar d'aver parlato o scritto ad altro3 fine per goder quelle domestiche carezze ed accoglienzie con sicurtà,4 che spesso le donne concedono a chi par loro che le pigli per amicizia; poi le negano, subito che s'accorgono che siano ricevute per dimostrazion d'amore. Onde quelli, che son troppo precipiti e si avventurano cosi prosuntuosamente con certe furie ed ostinazioni, 5 spesso le perdono, e meritamente: perché ad ogni nobil donna pare sempre di essere poco estimata da chi senza rispetto la ricerca d'amore prima che l'abbia servita.6

[LXVI.] Però, secondo me, quella via che deve pigliar il cortegiano per far noto l'amor suo alla donna parmi che sia il mostrargliele coi modi più presto che con le parole; ché veramente talor più affetto d'amor si conosce in un suspiro, in un rispetto,7 in un timore che in mille parole; poi far che gli occhi siano que' fidi messaggieri,8 che portino l' ambasciate del .core; perché spesso con maggior efficacia mostran quello che dentro vi è di passione che la lingua propria o lettere o altri messi, di modo che non solamente scoprono i pensieri, ma spesso accendono amore nel cor della persona amata; perché que' vivi spirti9 che escono per gli occhi, per 1. egli adunque M, p. 237; adunquc egli C. 2. esito: possibilità (letteralmente, «scampo»: latinismo). 3. ad altro M, p. 243; d'altro A, C. 4. sicurtà: sicurezza. 5. certe furie ed ostinazioni: certa impaziente ostinazione. 6. perché .•. servita: « Notevole questo passo, perché viene a confermare nel modo più esplicito che il "servire" o corteggiare era considerato come il necessario tirocinio dell'amor vero, il quale riusciva cosi il premio d'un lungo e degno "servizio"• (Cian). 7. rispetto: riguardo. 8. far ••. messaggieri: si ricordi la letteratura trobadorica e stilnovistica. 9. que, vivi spirti ecc.: per questa fraseologia (a parte quanto dagli antichi peripatetici e dai filosofi arabi era passato nel mondo medievale) si tenga presente ciò che dissero il Ficino e il suo discepolo Francesco Cattani da

BALDASSAR~ CASTIGLIONE

esser generati presso al core, entrando ancor negli occhi, dove sono indrizzati, come saetta al segno, naturalmente penetrano al core come a sua stanza ed ivi si confondono con quegli altri spirti e, ~on quella suttilissima natura1 di sangue che hanno seco, infettano ~1 sangue vicino al core, dove son pervenuti, e lo riscaldano e fannolo a sé simile ed atto a ricevere la impression di quella imagine .che seco hanno portata; onde a poco a poco andando e ritornando questi messaggeri la via per gli occhi al core, e riportando l'esca e 'l focile 2 di bellezza e di grazia, accendono col vento del desiderio quel foco che tanto arde e mai non finisce di consumare, perché sempre gli apportano materia di speranza per nutrirlo. Però ben dir si po che gli occhi siano guida in amore, massimamente se sono graziosi e soavi; neri di quella chiara e dolce nerezza, ovvero azzurri; allegri e ridenti, e così grati e penetranti nel mirar come alcuni, nei quali par che quelle vie che danno esito3 ai spiriti siano tanto profonde che per esse si vegga insino al core. Gli occhi adunque stanno nascosi come alla guerra soldati insidiatori in aguato; e, se la forma di tutto 'I corpo è bella e ben composta, tira a sé ed alletta chi da lontan la mira, fin a tanto che s'accosti; e, subito che è vicino, gli occhi saettano ed affatturano come venefìci ;4 e massimamente quando per dritta linea mandano i raggi suoi negli occhi della cosa amata in tempo che essi facciano il medesimo; perché ì spiriti s'incontrano ed in quel dolce intoppo l'un piglia la5 qualità dell'altro, come si vede d'un occhio infermo che guardando fisamente in un sano gli dà la sua infermità :6 sicché a me pare che 'l nostro cortegiano possa di questo modo manifestare in gran parte l'amor alla sua donna. Vero è che gli occhi, se non son governati con arte, molte volte scoprono più gli amorosi desiderii a cui l'om men vorria, perché fuor per essi quasi visibilmente traluceno quelle ardenti passioni, le quali volendo l'amante palesar solamente alla cosa amata, spesso palesa ancor a cui più desiderarebbe nasconDiacceto: da loro « dovette attingere » il Castiglione, dice appunto il Cian. 1. natura: qualità. 2. Questo linguaggio metaforico (focile è la pietra focaia e l'esca è la materia che s'accende) richiama l'uso delle armi da fuoco nel Quattro e nel primo Cinquecento e, unendosi alla fraseologia petrarchesca, prepara il terreno al linguaggio secentistico. 3. esito: uscita (latinismo, già notato. poco più sopra, e qui usato nel suo valore originario). 4. venefici: veleni. 5. la M, p. 238; le C. 6. come . •• infermità: qui si allude al malocchio (con probabile riferimento ad una questione tratto.ta da Plutarco nel libro 111 delle Dispute conviviali> intitolata Di qllelli che, come si dice, fanno mal occhio).

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derle. Però chi non ha perduto il fren 'della ragione si governa cau.: tamente ed osserva i tempi, i lochi e quando bisogna s'astien da quel cosi intento mirare, ancora che sia dolcissimo cibo: perché troppo dura cosa è un amor publico.1 Rispose il conte Ludovico: - Talor ancora l'esser publico non noce, perché in tal caso gli omini spesso estimano che quegli amori non tendano al fine che ogni amante desidera, vedendo che poca cura si ponga per coprirli né si faccia caso che si sappiano o no; e però col non negar si vendica rom una certa libertà di poter publicamente parlare e star senza suspetto con la cosa amata; il che non avviene a quelli che cercano d'esser secreti, perché pare che sperino, e siano vicini a qualche gran premio, il quale non vorriano che altri risapesse. Ho io ancor veduto nascere ardentissimo amore nel core d'una donna verso uno, a cui per prima non avea pur una minima affezione, solamente per intendere che opinione di molti fusse che s'amassero insieme; e la causa di questo credo io che fosse che quel giudicio così universale le parea bastante testimonio per farle credere che colui fosse degno dell'amor suo, e parca quasi che la fama le portasse }'ambasciate per parte dell'amante molto più vere e più degne d'esser credute che non aria potuto far esso medesimo con lettere e con parole, ovvero altra persona per lui. Però questa voce publica non solamente talor non noce, ma giova. - Rispose il Magnifico: - Gli amori, de' quali la fama è ministra,2 sono assai pericolosi di far che l'omo sia mostrato a dito; e però chi ha da camminar per questa strada cautamente, bisogna che dimostri aver nell'animo molto minor foco che non ha e contentarsi di quello che gli par poco, e dissimular i desiderii, le gelosie, gli affanni e i piaceri suoi e rider spesso con la bocca quandQ il cor piange e mostrar d'esser prodigo di quello di che è avarissimo; e queste cose son tanto difficili da fare che quasi sono impossibili. Però, se 'l nostro cortegiano volesse usar del mio consiglio, io lo conforterei a tener segreti gli amori suoi. [LXVII.]

Allora messer Bernardo: - Bisogna - disse - adunque che voi questo gli insegniate,3 e ·parmi che non sia di piccola [LXVIII.]

publico: cioè noto a tutti. 3. insegnate e, u. 1.

2.

ministra: serva (cioè favorevole ancella).

BALDASSARE CASTIGLIONE

importanzia; perché, oltre ai cenni, che talor alcuni cosi copertamente fanno che quasi senza movimento alcuno quella persona che essi desidrano nel volto e negli occhi lor legge ciò che hanno nel core, ho io talor udito tra dui inamorati un lungo e libero ragionamento d'amore deP quale non poteano però i circonstanti2 intender chiaramente particularitate alcuna, né certificarsi che fosse 3 d'amore; e questo per la discrezione ed avvertenzia di chi ragionava, perché, senza far dimostrazione alcuna d'aver dispiacere d'essere ascoltati, dicevano secretamente quelle sole parole che importavano ed altamente4 tutte l'altre che si poteano accommodare a diversi propositi. - Allora messer Federico: - Il parlar - disse - cosi minutamente di queste avvertenzie di secretezza, sarebbe un andar drieto5 all'infinito; però io vorrei più tosto che si ragionasse un poco come debba lo amante mantenersi la grazia della sua donna,6 il che mi par molto più necessario. Rispose il Magnifico: - Credo che que' mezzi che vagliono per acquistarla, vagliano ancor per mantenerla; e tutto questo consiste in compiacer la donna amata senza offenderla mai: però saria difficile darne regula ferma; perché per infiniti modi chi non è ben discreto, fa errori talora che paion piccoli, nientedimeno offendeno7 gravemente l'animo della donna; e questo intervien, più che agli altri, a quei che sono astretti8 dalla passione: come alcuni, che sempre che hanno modo di parlare a quella donna che amano, si lamentano e dolgono cosi acerbamente e voglion spesso cose tanto impossibili che per quella importunità vengon a fastidio. Altri, se son punti da qualche gelosia, si lassan di tal modo trapportar9 dal dolore che senza risguardo scorrono in dir mal di quello di chi hanno suspetto, e talor senza colpa di colui ed ancor della donna, e non vogliono ch'ella gli parli o pur volga gli occhi a quella parte ove egli è; e spesso con questi modi non solamente offendon quella donna, ma son causa ch'ella s'induca ad amarlo; perché 'I timore che mostra talor d'avere un amante, che la sua [LXIX.]

I. del M, p. 243 ; dal A, C. 2. circonstanti M, p. 243 ; circostanti C. 3.fosse M, p. 243; fusse C. 4. altamente: ad alta voce. 5. andar drieto: seguitare. 6. peri> ... donna: cfr. Ovidio, Art. am., II, 13: •Nec minor est virtus, quam quaerere, parta tueri •· 7. offe11deno U; offendono C. 8. astretti: costretti. 9. trapportar U ; trasportar C.

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donna non lassi lui per quell'altro, dimostra che esso si conosce inferior di meriti e di valor a colui, e con questa opinione la donna si move ad amarlo, ed accorgendosi che per mettergliele1 in disgrazia se ne dica male, ancor che sia vero non lo crede, e tuttavia l'ama più.

[LXX.] Allora messer Cesare ridendo: - lo - disse - confesso non esser tanto savio che potessi astenermi di dir male d'un mio rivale, salvo se voi non m'insegnaste qualche altro miglior modo da ruinarlo. - Rispose ridendo il signor Magnifico: - Dicesi in proverbio che, quando il nemico è nell'acqua insino alla cintura, se gli deve porger la mano e levarlo del pericolo; ma, quando v'è insino al mento, mettergli il piede in sul capo, e summergerlo tosto.=1 Però sono alcuni che questo fanno co' suoi rivali e, fin che non hanno modo ben sicuro di ruinargli, vanno dissimulando, e più tosto si mostrano loro amici che altrimenti; poi, se la occasion s'afferisce lor tale che conoscan poter precipitargli con certa ruina, dicendone tutti i mali, o veri o falsi che siano, lo fanno senza riservo, 3 con arte, inganni e con tutte le vie che sanno imaginare. lVla, perché a me non piaceria mai che 'I nostro cortegiano usasse inganno alcuno, vorrei che levasse la grazia4 dell'amica al suo rivale non con altra arte che con l'amare, col servire e con l'essere virtuoso, valente, discreto e modesto; in somma col meritar più di lui e con l'esser in ogni cosa avertito e prudente, guardandosi da alcune sciocchezze inette nelle quali spesso incorrono molti ignoranti e per diverse vie: che già ho io conosciuti alcuni che, scrivendo e parlando a · donne, usano sempre parole di Polifilo5 e 1. mettergliele: metterglielo. Come in altri casi precedenti, si tratta - avverte il Cian - d'un idiotismo toscano che il Castiglione, •non ostante le sue dichiarazioni teoriche, non sapeva o non voleva evitare•· 2. Dicesi ••• tosto: cr Il Magnifico tempera, è vero, con un sorriso, la gravità di questo detto proverbiale; ma non tanto che non ne appaia tutto il carattere immorale e anticristiano, degno d'un'età che vide sorgere, prodotto caratteristico, il Principe del Machiavelli e il suo Valentino• (Cian). 3. riservo: riserva, ritegno. 4. la grazia: il favore. 5. parole di Polifilo: cioè parole ricercate e messe insieme con raffinatezza composita di linguaggio. Si allude alla Hypnerotomachia Poliphili, attribuita al veneziano Francesco Colonna, frate domenicano morto nel 152.7: l'opera venne sontuosamente pubblicata da Aldo Manuzio nel 1499 con stupende illustrazioni che ne fanno il più bel libro figurato del Rinascimento. Come giustamente dice il Cian, • la citazione che qui fa il Magnifico della Hypnerotoma-

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tanto stanno in su la sottilità1 della retorica che quelle si diffidano di se stesse, e si tengon per ignorantissime, e par loro un'ora mill'anni finir quel ragionamento e levarsegli davanti; altri si vantano senza modo; altri dicono spesso cose che tornano a biasimo e danno di se stessi: come alcuni, dei quali io soglio ridermi, che fan profession d'inamorati e talor dicono in presenzia di donne: « Io non trovai mai donna che m'amasse»; e non si accorgono che quelle che gli odono subito fan giudicio che questo non possa nascere d'altra causa, se non perché non meritino né esser amati, né pur2 l'acqua che beveno, 3 e gli tengon per omini da poco né gli amerebbono per tutto l'oro del mondo; parendo loro che, se gli amassero, sarebbono da meno che tutte l'altre che non gli hanno amati. Altri, per concitar odio a qualche suo rivale, son tanto sciocchi che pur in presenzia di donne dicono: « Il tale è il più fortunato om del mondo; che già non è bello, né discreto, né valente, né sa fare o dire più che gli altri, e pur tutte le donne l'amano e gli corron drieto »; e, così mostrando avergli invidia di questa felicità, ancora che colui né in aspetto né in opere si mostri essere amabile, fanno credere che egli abbia in sé qualche cosa secreta, per la quale meriti l'amor di tante donne; onde quelle, che di lui senton ragionare di tal modo, esse ancora per questa credenza si movono molto più ad amarlo. 4

[LXXI]. Rise allor il conte Ludovico, e disse: - lo vi prometto5 che queste grosserie6 non userà mai il cortegiano discreto per acquistar grazia con donne. - Rispose messer Cesare Gonzaga: - Né men quell'altra che a' miei di usò un gentilomo di molta estimazione, il qual io non voglio nominare per onore degli omini. Rispose la signora Duchessa: - Dite almen ciò che egli fece. Suggiunse messer Cesare: - Costui, essendo amato da una gran .signora, richiesto da lei, venne secretamente in quella terra7 ove chia, prova che questo libro, riboccante di pedanteria, di artifici, di retorica, di sensualità, ma anche di entusiasmo per l'antichità classica, per la natura, per l'arte, era ben noto alla Corte urbinate,,. 1. la sottilità: le sottigliezze. (Il linguaggio affettato diventa retorico e, quindi, non riesce efficace nell'amore.) 2. né pur: sottinteso tion meritino (che, poco prima, regge un infinito). J. beveno U; bevono C. 4. onde ... amarlo: il Cian rimanda all'aneddoto narrato, nel libro u, da messer Federico Fregoso (qui a p. 132). 5. prometto: assicuro. 6. grosserie: grossolanità. 7. terra: .città.

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essa era; e, poiché la ebbe veduta e fu stato seco a ragionare quanto essa e 'l tempo comportarono, partendosi con molte amare lacrime e sospiri, per testimonio dell'estremo dolor ch'egli sentiva di tal partita, le supplicò ch'ella tenesse continua memoria di lui; e poi suggiunse che gli facesse pagar l'osteria1 perché, essendo stato richiesto da lei, gli parea ragione che della sua venuta non vi sentisse2 spesa alcuna. - Allora tutte le donne cominciarono a ridere e dir che costui era indegnissimo d'esser chiamato gentilomo; e molti si vergognavano per quella vergogna che esso meritamente arìa sentita, se mai per tempo alcuno avesse preso tanto d'intelletto3 che avesse potuto conoscere un suo cosi vituperoso fallo. Voltossi allor il signor Gaspar a messer Cesare, e disse: - Era meglio restar di narrar questa cosa per onor delle donne che di nominar colui per onor degli omini; che ben potete imaginare che bon giudicio avea quella gran signora, amando un animale4 cosi irrazionale, e forse ancora che di molti che la servivano aveva eletto questo per lo più discreto, lassando adrieto e dando disfavore a chi costui non saria stato degno famiglio. - Rise il conte Ludovico, e disse: - Chi sa che questo non fusse discreto nell'altre cose e peccasse solamente in osterie ?5 Ma molte volte per soverchio amore gli omini fanno gran sciocchezze; e, se volete dir il vero, forse che a voi6 talor è occorso farne più d'una.

[LXXII.] Rispose ridendo messer Cesare: - Per vostra fé, non scopriamo i nostri errori. - Pur bisogna scoprirli, - rispose il signor Gasparo - per sapergli correggere; - poi suggiunse: - Voi, signor Magnifico, or che 'I cortegian si sa guadagnare e mantener la grazia della sua signora e torla al suo rivale, sete debitor de insegnarli a tener secreti gli amori suoi. - Rispose il Magnifico: - A me par d'aver detto assai: però fate mo che un altro parli di questa secretezza. - Allor messer Bernardo e tutti gli altri comin1. gli facesse pagar l'osteria: facesse pagare il conto suo all'albergo. 2. non vi sentisse: non risentisse (il vi = cc ne» è qui pleonastico). 3. avesse • •• i1itelletto: fosse diventato cosi intelligente. 4. animale: bestia, ma al solito - per una sfumatura del linguaggio raffinato della Corte - in senso inizialmente generico (quale vocabolo filosofico d'origine aristotelico-scolastica), e, quindi, con una punta di scherno collegata con tutta una letteratura satirica dagli antichi al Rinascimento. 5. in osterie: in questioni d'osteria: Cian: a Cioè avesse soltanto il difetto dell'avarizia, come un oste uso ad esigere il conto dai suoi clienti». 6. a voi: a voi, qui ,presenti.

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ciarono di novo a fargli instanzia; e 'I Magnifico ridendo: - Voi, disse - volete tentarmi; troppo sete tutti ammaestrati in amore: pur, se desiderate saperne più, andate e si vi leggete Ovidio.1 E come - disse messer Bernardo - debb'io sperare che i suoi precetti vagliano in amore ? poiché conforta e dice esser bonissimo che l'om in presenzia della innamorata finga d'esser imbriaco ?~ (vedete che bella manera d'acquistar grazia!) 3 ed allega per un bel modo di far intendere, stando a convito, ad una donna d'esserne4 innamorato lo intingere un dito nel vino e scriverlo in su la tavola. 5 - Rispose il Magnifico ridendo: - In que' tempi non era vicio. - E però, - disse messer Bernardo - non dispiacendo agli omini di que' tempi questa cosa tanto sordida, è da credere che non avessero cosi gentil maniera di servir donne in amore come abbiam noi; ma non lasciamo il proposito nostro primo, d'insegnar a tener l'amor secreto.

[LXXIII.] Allor il Magnifico: - Secondo me - disse - per tener l'amor secreto bisogna fuggir le cause che lo publicano, le quali sono molte, ma una principale, che è il voler esser troppo secreto e non fidarsi di persona alcuna, perché ogni amante desidera far conoscer le sue passioni6 alla amata, ed essendo solo è sforzato a far molte più dimostrazioni e più efficaci che se da qualche amorevole e fidele amico fosse aiutato; perché le dimostrazioni, che lo amante istesso fa, danno molto maggior suspetto che quelle che fa per internuncii: 7 e, perché gli animi umani sono naturalmente curiosi di sapere, subito che un alieno8 comincia a sospettare, mette tanta diligenzia che conosce il vero e, conosciutolo, non ha rispetto di publicarlo, anzi talor gli piace; il che non interviene dell'amico il qual, oltre che aiuti9 di favore e di consiglio, spesso rimedia a10 quegli errori che fa il cieco innamorato, e sempre procura la sefJi leggete Ovidio: cioè l'Ars amatoria. 2. poiché ... imbriaco: cfr. Art. am., I, 597-602. 3. Il Cian osserva: «È strano però che di questa grossolanità dei costumi romani sia proprio il Bibbiena che qui si meraviglia, il Bibbiena che, come cardinale alle mense di Leone X, si mostrerà degno compagnone di fra Mariano ». 4. d'esserne U; d, essere C. 5. ed allega ..• tafJola: cfr. Art. am., 1, 569-72. 6. passioni: patimenti, sofferenze. 7. per internuncii: mediante intermediari (latinismo, originariamente nel valore di •messi», con vocabolo rimasto vivo nella diplomazia pontificia). 8. un alieno: un estraneo. 9. oltre che aiuti: oltre l'aiutare. 10. rimedia a M, p. 233; rimedia C. 1.

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cretezza, e provede a molte cose alle quali esso proveder non po; oltre che grandissimo refrigerio si sente dicendo le passioni e sfogandole con amico cordiale, e medesimamente accresce molto i piaceri il poter comunicargli. Disse allor il signor Gasparo: - Un'altra causa publica molto più gli amori che questa. - E quale? - rispose il Magnifico. Suggiunse il signor Gas par: - La vana ambizione congiunta con pazzia e crudeltà delle donne, le quali, come voi stesso avete detto, procurano quanto più possono d'aver gran numero d'inamorati, e tutti, se possibil fosse, vorriano che ardessero e, fatti cenere, dopo morte tornassero vivi per morir un'altra volta; e, benché esse ancor amino, pur godeno del tormento degli amanti, perché estimano che 'l dolore, le afflizioni e '1 chiamar ognor la morte sia il vero testimonio che esse siano amate, e possano con la loro bellezza far gli omini miseri e beati,1 e dargli2 morte e vita come lor piace; onde di questo sol cibo se pascono, e tanto avide ne sono che, acciò che non manchi loro, non contentano né disperano mai gli amanti del tutto; ma per mantenergli continuamente nelli affanni e nel desiderio usano una certa imperiosa austerità di minacce mescolate con speranza e vogliono che una loro parola, uno sguardo, un cenno sia da essi riputato per somma felicità; e, per farsi tenere pudiche e caste, non solamente dagli amanti, ma ancor da tutti gli altri, procurano che questi loro modi asperi e discortesi siano publichi acciò che ognun pensi che, poiché così maltrattano quelli che son degni d'essere amati, molto peggio debbano trattar gl'indegni; e, spesso sotto questa credenza pensandosi esser sicure con tal arte dall'infamia, si giaceno tutte le notti con omini vilissimi e da esse appena conosciuti, di modo che per godere delle calamità e continui lamenti di qualche nobil cavaliera e da esse amato negano a se stesse que' piaceri che forse con qualche escusazione potrebbono conseguire; e sono causa3 che 'l povero amante per vera disperazion4 è sforzato usar modi donde si publica quello che con ogni industria s'averia a tener secretissimo. Alcune [LXXIV.]

I. Il Maier, nel suo commento a p. 439, richiamo il pet1·archesco: « chi mi fa morto e vivo, / chi 'n un punto m'agghiaccia e mi riscalda» (Rime, cv, 89-90). 2. dargli: dar loro (evidentemente per non avere nel lor seguente una ripetizione inelegante). 3. causa M, p. 2.38; cause C. 4. disperazion C, M, p. 238; disposizione A.

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altre sono le quali, se con inganni possono indurre molti a credere d'esser da loro amati, nutriscono tra essi le gelosie col far carezze e favore all'uno in presenzia dell'altro; e, quando veggon che quello ancor che esse più amano già si confida d'essere amato per le demostrazioni fattegli, spesso con parole ambigue e sdegni simulati lo suspendeno 1 e gli trafiggono il core, mostrando non curarlo e volersi in tutto donare all'altro; onde nascono odii, inimicizie ed infiniti scandali e ruine manifeste, perché forza è mostrar l'estrema passion che in tal caso l'uom sente ancor che alla donna ne risulti biasimo ed infamia.2 Altre non contente di questo solo tormento della gelosia, dopo che l'amante ha fatto tutti i testimonii d'amor e di fedel servitù ed esse ricevuti l'hanno con qualche segno di correspondere in benivolenzia, senza proposito e quando men s'aspetta cominciano a star sopra di sé 3 e mostrano di credere che egli sia intepidito e, fingendo novi suspetti di non essere amate, accennano volersi in ogni modo alienar4 da lui: onde per questi inconvenienti il meschino per vera forza è necessitato a ritornare da capo e far le demostrazioni, come se allora cominciasse a servire; e tutto dì passeggiar per la contrada, e quando la donna si parte di casa accompagnarla alla chiesa, ed in ogni loco ove ella vada non voltar mai gli occhi in altra parte: e quivi si ritorna ai pianti, ai suspiri, allo star di mala voglia; e, quando se le po5 parlare, ai scongiuri, alle biasteme, alle disperazioni ed a tutti quei furori, a che gl' infelici inamorati son condotti da queste fiere, 6 che hanno più sete di sangue che le tigri.

[Lxxv.] Queste tai dolorose dimostrazioni son troppo vedute e conosciute, e spesso più dagli altri che da chi le causa;7 ed in tal modo in pochi dì son tanto publiche che non si po far un passo né un minimo segno che non sia da mille occhi notato. Intervien poi che, molto prima che siano tra essi i piaceri d'amore, sono creduti8 e giudicati da tutto 'l mondo, perché esse, quando pur veggono che I. lo mspendeno: lo fanno sospeso (dubbioso) intorno alla vera realtà della loro relazione con la dama. 2. ancor che ..• infamia: 11 Perché l'uomo, nel colmo della sua passione, della sua gelosia, è irresistibilmente trascinato ad atti e parole che ridondano a danno della sua donna, e dai quali egli a mente calma rifuggirebbe» (Cian). 3. sopra di sé: sulle loro. 4. alienar: allontanare. 5. se le po: le può. 6. fiere; « Nella redazione primitiva del cod. laurenz. era aggiunto a fiere l'aggettivo rabiose» (Cian). 7. da clii le causa: cioè dai due amanti. 8. creduti; come fossero veri.

IL LIBRO DEL CORTEGIANO • LIBRO TERZO

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l'amante già vicino alla morte, vinto dalla crudeltà e dai strazii usatigli, delibera determinatamente e da dovero di ritirarsi, allora cominciano a dimostrar d'amarlo di core e fargli tutti i piaceri e donarsegli acciò che, essendogli mancato quell'ardente desiderio, il frutto d'amor gli sia ancor men grato e ad esse abbia minor obli~ gazione per far ben ogni cosa al contrario. E, essendo già tal amore notissimo, sono ancor in que' tempi poi notissimi tutti gli effetti che da quel procedono; così restano esse disonorate, e lo amante si trova aver perduto il tempo e le fatiche ed abbreviatosi la vita negli affanni senza frutto o piacer alcuno per aver conseguito i suoi desiderii, non quando gli seriano1 stati tanto grati che l'arian fatto felicissimo, ma quando poco o niente gli apprezzava per esser il cor già tanto da quelle amare passioni mortificato2 che non tenea sentimento più per gustar diletto o contentezza che se gli offerisse. Allor il signor Ottaviano ridendo: -Voi - disse - siete stato cheto un pezzo e retirato3 dal dir mal delle donne; poi le avete così ben tocche4 che par che abbiate aspettato per ripigliar forza, come quei che si tirano a drieto per dar maggior incontro :5 e veramente avete torto, ed oramai dovreste esser mitigato. - Rise la signora Emilia e, rivolta alla signora Duchessa: - Eccovi; disse - signora, che i nostri adversarii cominciano a rompersi6 e dissentir l'un dall'altro. - Non mi date questo nome, - rispose il signor Ottaviano - perch'io non son vostro adversario; èmmi ben dispiaciuta questa contenzione, non perché m'increscesse vederne la vittoria in favor delle donne, ma perché ha indutto il signor Gasparo a calunniarle più che non dovea, e 'l signor Magnifico e messer Cesare a laudarle forse un poco più che 'l debito: oltre che per la lunghezza del ragionamento averno perduto d'intender molt'altre belle cose, che restavano a dirsi del cortegiano. - Eccovi, disse la signora Emilia - che pur siete nostro adversario; e perciò vi dispiace il ragionamento passato, né vorreste che si fosse formato questa cosi eccellente donna di palazzo, non perché vi fosse altro che dire sopra il cortegiano (perché già questi signori han detto [LXXVI.]

1. seriano U; sariano C. 2. mortificato: - più che straziato e oppresso. 3. retirato: volontariamente alieno. 4. tocclze: toccate (occupandosi di loro). 5. incontro: urto. «Preso dal linguaggio della scherma e della lotta, delle quali il C. era appassionato cultore» (Cian). 6. rompersi: disunirsi.

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quanto sapeano, né voi, credo, né altri potrebbe aggiungervi più cosa alcuna), 1na per la invidia che avete all'onor delle donne. Certo è - rispose il signor Ottaviano - che, oltre alle cose dette sopra il cortegiano, io ne desiderarci molte altre: pur, poiché ognun si contenta ch'ei sia tale, io ancora me ne contento; né in altra cosa lo mutarci, se non in farlo un poco più amico delle donne che non è il signor Gaspar, ma forse non tanto quanto è alcuno di questi altri signori.1 - Allora la signora Duchessa: - Bisogna - disse - in ogni modo che noi veggiamo se l'ingegno vostro è tanto che basti a dar maggior perfezione al cortegiano che non han2 dato questi signori. Però siate contento di dir ciò che n'avete in animo: altrimenti noi pensaremo che né voi ancora sappiate aggiungergli più di quello che s'è detto, ma che abbiate voluto detraere 3 alle laudi della donna di palazzo, parendovi ch'ella sia eguale al cortegiano, il quale perciò voi vorreste che si credesse che potesse esser molto più perfetto che quello che hanno formato questi signori. - Rise il signor Ottaviano, e disse: - Le laudi e biasimi dati alle donne più del debito hanno tanto piene !'orecchie e l'animo di chi ode che non han lassato loco che altra cosa star vi possa; oltra di questo, secondo me, l'ora è molto tarda. - Adunque - disse la signora Duchessa - aspettando insino a domani aremo più tempo; e quelle laudi e biasimi, che voi dite esser stati dati alle donne dell'una parte e l'altra troppo eccessivamente;~ frattanto usciranno dell'animo di questi signori di modo che pur saranno capaci di quella verità che voi direte. - Così parlando, la signora Duchessa levossi in piedi e, cortesemente donando licenzia a tutti, si ritrasse nella stanza sua più secreta, 5 ed ognuno si fu a dormire. [LXXVII.] -

1. questi altri signori: il magnifico Giuliano e Cesare Gonzaga, i più appassionati paladini delle donne nelle presenti conversazioni. 2. han: gli abbiano. 3. detraere: detrarre (latinismo). 4. troppo eccessivamente: oggi o « troppo » o «eccessivamente». 5. nella •.. secreta: cioè nella camera da letto (dato che le riunioni si fingono tenute nella «stanza» della duchessa, cioè in una sala, come dice il Cian, destinata a ricevimenti e a convegni quali appunto questi del Cortegiano).

IL QUARTO LIBRO DEL CORTEGIANO DBL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE

A MESSER ALFONSO ARIOSTO

[1.] Pensando io di scrivere i ragionamenti che la quarta sera dopo le narrate nei precedenti libri s'ebbero, sento tra varii discorsi un amaro pensiero che nell'animo mi percuote, e delle miserie umane e nostre speranze fallaci ricordevole mi fa; e come I spesso la fortuna a mezzo il corso talor presso al fine rompa i nostri fragili e vani disegni, talor li summerga prima che pur veder da lontano possano il porto. Tornami adunque a memoria che, non molto tempo dapoi che questi ragionamenti passarono, privò morte importuna la casa nostra2 di tre rarissimi3 gentilomini, quando di prospera età e speranza d'onore più fiorivano. E di questi il primo fu il signor Gaspar Pallavicino,4 il quale, essendo stato da una acuta infermità combattuto e più che una volta ridutto all'estremo, benché l'animo fosse di tanto vigore che per un tempo tenesse i spiriti in quel corpo a dispetto di morte, pur in età molto immatura forni il suo natural corso : perdita grandissima non solamente alla5 casa nostra ed agli amici e parenti suoi, ma alla patria6 ed a tutta la Lombardia.7 Non molto appresso mori messer Cesare Gonzaga,8 il quale a tutti coloro che aveano di lui notizia lascib acerba e dolorosa memoria della sua morte, perché, producendo la natura così rare volte come fa, tali omini, pareva pur conveniente che di questo cosi tosto non ci privasse: ché certo dir si po che messer Cesare ci fosse0 appunto ritolto quando cominciava a mostrar di sé più che la speranza ed esser estimato quanto meritavano le sue ottime qualità, perché già con molte virtuose fatiche avea fatto bon testimonio del suo valore, il quale risplendeva, oltre alla nobilità del sangue, dell'ornamento ancora delle lettere10 e d'arme e d'ogni laudabil costume, e come: e sento come. 2. casa nostra: •nella famiglia dei Duchi d'Urbino, quasi una grande casa ospitale, come oggi le poche superstiti Case regnanti» (Cian). 3. rarissimi: eccellentissimi (la cui qualità era, quindi, rarissima fra i contemporanei). 4. Il Pallavicino morì nel I 5 I I, a venticinque anni. 5. alla M, p. 244; nella A, C. 6. patria: nelsignificato letterario (petrarchesco in special modo) d'Italia. 7. Lombardia: in quanto, come si è già detto, il Pallavicino apparteneva ai rami dei marchesi di Cortemaggiore (Piacenza). 8. Cesare Gonzaga morl nel settembre del 1512, in Bologna: era cugino del Castiglione. 9. /osse U; fusse C. 10. risplendeva.• •• lettere: il Serassi nel 1760 pubblicò rime e lettere di lui, e varie sono 1.

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BALDASSARE CASTIGLIONE

tal che, per la bontà, per ringegno, per l'animo e per lo saper suo non era cosa tanto grande che di lui aspettar non si potesse. Non passò molto che messer Roberto da Bari esso ancor morendo' molto dispiacer diede a tutta la casa; perché ragionevole pareva che ognun si dolesse della morte d'un giovane di boni2 costumi, piacevole e di bellezza d'aspetto e disposizion della persona rarissimo, in complession tanto prosperosa e gagliarda quanto desiderar si potesse.

[n.] Questi adunque, se vivuti fossero,3 penso che sariano giunti a grado che ariano ad ognuno che conosciuti gli avesse potuto dimostrar chiaro argumento quanto la Corte d'Urbino fusse degna di laude e come di nobili cavalieri ornata; il che fatto hanno quasi tutti gli altri, che in essa creati4 si sono; ché veramente del cavai troiano5 non uscirono tanti signori e capitani quanti di questa casa usciti sono omini per virtù singulari, e da ognuno sommamente pregiati. Ché, come sapete, messer Federico Fregoso fu fatto arcivescovo di Salerno; 6 il conte Ludovico, vescovo di Baious;7 il signor Ottaviano, duce8 di Genova; messer Bernardo Bibiena, cardinale di Santa Maria in Portico ;9 messer Pietro Bembo, secretario di papa Leone ;10 il signor Magnifico al ducato di N emoursu ed a quella grandezza ascese dove or si trova; il signor Francesco Maria Rovere,12 prefetto di Roma, fu esso ancora fatto duca d'Urbino: 13 benché molto maggior laude attribuir si possa alla casa dove nutrito fu 14 che in essa sia riuscito cosi raro ed eccellente signore in ogni ancora inedite. Per di più, come ricorda il Cian, il Castiglione « ebbe nel Gonzaga un valente collaboratore nella composizione e nella recitazione del Tirsi, la celebre egloga drammatica rappresentata da loro alla Corte d'Urbino nel carnevale del I 506 ». 1. morendo: pare verso il 1 5 1 3. 2. boni U; bon C. 3.fossero U; fussero C. 4. creati: formati. 5. cavai troia110: con riferimento al particolare della leggenda, cfr. Virgilio, Aen., 11, 21-249 e passim. (Contro Giuseppe Prezzolini che nel suo commento al Cortegia110, Milano, Rizzoli, 1937, ritiene non ben scelto questo paragone, GIUSEPPE BETTALLI, Considerazioni su di un luogo del « Cortegiano », in « Belfagor », xi. 1956, pp. 454-7, lo dice invece appropriato secondo gli stessi inganni guerreschi del Rinascimento.) 6. Federico .•• Salerno: nel 1507. 7. Baious: Bayeux. Il conte Ludovico di Canossa vi fu fatto vescovo nel 15 16. 8. duce: doge, nel 1513. 9. Bernardo ... Portico: nel 1 5 I 3. 1 o. Pietro ... Leone: era stato eletto a tale ufficio (insieme col Sadoleto) nel 1513 da Leone X. 11. al ducato di Nemours: nel 1515, in occasione delle sue nozze con Filiberta di Savoia. 12. Ruvere V; Rovere C. 13. duca d'Urbino: nel 1 508, alla morte di Guidubaldo. 14. alla casa • • • fu: quella dei Della Rovere.

IL LIBRO DEL CORTEGIANO • LIBRO QUARTO

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qualità di virtù come or si vede che dello esser pervenuto al ducato d'Urbino; né credo che di cib piccol causa sia stata la nobile compagnia, dove in continua conversazione sempre ha veduto ed udito lodevoli costumi. Perb1 parmi che quella causa, o sia per ventura o per favore delle stelle, che ha così lungamente concesso ottimi signori ad Urbino, pur ancora duri e produca i medesimi effetti; e perb sperar si po che ancor la bona fortuna debba secondar tanto queste opere virtuose che la felicità della casa e dello stato non solamente non sia per mancare, ma più presto di giorno in giorno per accrescersi: e già se ne conoscono molti chiari segni, tra i quali estimo il precipuo l'esserci stata concessa dal cielo una tal signora, com'è la signora Eleonora Gonzaga,2 duchessa nova; che, se mai furono in un corpo solo congiunti sapere, grazia, bellezza, ingegno, manere accorte, umanità ed ogni altro gentil costume, in questa tanto sono uniti che ne risulta una catena che ogni suo movimento di tutte queste condizioni insieme compone ed adorna. Seguitiamo adunque i ragionamenti del nostro cortegiano con speranza che dopo noi non debbano mancare di quelli che piglino chiari ed onorati esempii di virtù dalla corte presente d'Urbino, così come or noi facciamo dalla passata. 3

[111.] Parve adunque, secondo che 'l signor Gasparo Pallavicino raccontar soleva, che 'I seguente giorno, dopo i ragionamenti contenuti nel precedente Libro, il signor Ottaviano fosse poco veduto ;4 perché molti estimarono che egli fosse retirato5 per poter senza impedimento pensar bene a cib che dire avesse: perb, essendo J. Peri, ecc.: a Questo poteva scrivere il C. prima del 1517, l'anno tristissimo pei Duchi d'Urbino, in cui con un'iniqua violenza furono da Leone X spogliati dello Stato, dall'ambizione del cupido pontefice nepotista destinato al nipote Lorenzo, divenuto appunto Duca d'Urbino• (Cian). Per quella ventura e per queste stelle, interessante riferimento di carattere astrologico, si veda quanto è detto alla p. 33 (cfr. la nota 4). 2. Eleonora Gonzaga: figlia primogenita del marchese Francesco e d'Isabella d'Este, venne sposata tredicenne nel marzo 150 s a Francesco Maria della Rovere: e solo alla fine del 1509 si recò in Urbino fra splendide feste. Come giustamente dice il Cian, « qui il C. abbonda, oltre la giusta misura, nelle lodi all'indirizzo della giovane Duchessa, la quale era ben lungi dall'altezza morale e intellettuale della madre Isabella e della zia e suocera Elisabetta•· 3. con speranza ... passata: questo spiega il carattere nostalgico e ideale della rievocazione e, di redazione in redazione, giustifica nella narrazione lo spogliarsi di elementi realistici e, si direbbe, strettamente documentari. 4. Josse poco veduto: si mostrasse raramente. 5. Josse retirato: stesse ritirato.

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BALDASSARE CASTIGLIONE

all,ora consueta ridottasi1 la compagnia alla2 signora Duchessa, bisognò con diligenzia far cercar il signor Ottaviano, il quale non comparse per bon spacio; di modo che molti cavalieri e damigelle della corte cominciarono a danzare ed attendere ad altri piaceri con opinion che per quella sera più non s'avesse a ragionar del cortegiano. E già tutti erano occupati, chi in una cosa chi in un,altra, quando il signor Ottaviano giunse quasi più non aspettato; e, vedendo che messer Cesare Gonzaga e 'l signor Gaspar danzavano, avendo fatto riverenzia verso la signora Duchessa disse ridendo : - Io aspettava pur d'udir ancor questa sera il signor Gaspar dir qualche mal delle donne; ma, vedendolo danzar con una, penso ch,egli abbia fatto la pace con tutte; e piacemi che la lite o, per dir meglio, il ragionamento del cortegiano sia terminato cosi. - Terminato non è già, - rispose la signora Duchessa - ; perch'io non son cosi nemica degli omini come voi siete delle donne; e perciò non voglio che 'l cortegiano sia defraudato del suo debito onore e di quelli ornamenti che voi stesso iersera3 gli prometteste; - e, cosi parlando, ordinò che tutti, finita quella danza, si mettessero a sedere al modo usato :4 il che fu fatto; e, stando ognuno con molta attenzione, disse il signor Ottaviano: - Signora, poiché l'aver io desiderato molt'altre bone qualità nel cortegiano si batteggia5 per promessa ch'io le abbia a dire, son contento parlarne non già con opinion di dir tutto quello che dir vi si poria, ma solamente tanto che basti per levar dell'animo6 vostro quello che ierisera opposto mi fu, cioè ch'io abbia cosi detto più tosto per detraere alle _laudi della donna di palazzo, con far credere falsamente che altr~ eccellenzie si possano attribuire al cortegiano e con tal arte fargliele7 superiore, che perché cosi sia: però, per accomodarmi ancor al-I' ora, che è più tarda che non sole quando si dà principio al ragionare, sarò breve.

I. essendo ... Tidottasi: essendosi ridotta. 2. alla: dalla (cioè nella sala di ricevimento e di ritrovo), 3. iersera U; ierisera C. 4. al modo usato: cioè in circolo. 5. si batteggia: si tende a far passare. (Cian: «È una forma tutt'altro che comune [per battezza], che in uno scrittore lombardo come il nostro C. potrebbe essere un falso toscanismo, se non ricorresse anche in .antiche scritture toscane11.) 6. dell'anin,o M, p. 238; dall'animo C. 7. / argliele U; · / arglie/o C ..

IL LIBRO DEL CORTEGIANO • LIBRO QUARTO

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[Iv.] Cosl, continuando il ragionamento di questi signori, il quale in tutto approvo e confermo, dico che delle cose che noi chiamiamo bone sono alcune che semplicemente e per se stesse sempre son bone, come la temperanzia, la fortezza, la sanità e tutte le virtù che partoriscono tranquillità agli animi; altre che per diversi rispetti e per lo fine al quale s'indrizzano son bone, come le leggi, la liberalità, le ricchezze ed altre simili. Estimo io adunque che 'I cortegiano perfetto, di quel modo che descritto l'hanno il conte Ludovico e messer Federico, possa esser veramente bona cosa e degna di laude, non però semplicemente né per sé, ma per rispetto del fine al quale po essere indrizzato: 1 ché in vero, se con l'esser nobile, aggraziato e piacevole ed esperto in tanti esercizii il cortegiano non producesse altro frutto che l'esser tale per se stesso, non estimarei che per conseguir questa perfezion di cortegiania dovesse l'omo ragionevolmente mettervi tanto studio e fatica quan-. to è necessario a chi la vole acquistare; anzi direi che molte animo che, quantunque le vostre vittorie ed i vostri felici avveni-menti siano stati molti e molto maravigliosi in ogni tempo, non di meno più beata e più fortunata si conobbe essere Vostra Maestà in una sola avversità che ella ebbe in Algeri5 che ella non si era dimostrata in tutte le sue maggiori e più chiare felicità trapassate. Perocché chi fu in quel tempo che del vostro fortunoso caso amaramente non si dolesse ? o chi della vostra vita, come di molto amata e molto apprezzata cosa, non istette pensoso e sollecito? o chi non porse a Dio con pietoso cuore ardentissimi prieghi per la vostra salute? Certo nessuno che animo e costume umano avesse. Che parlo io degli uomini ? Questa terra, sacra Maestà, e questi liti pa-rea che avessino vaghezza e disiderio di farvisi allo 'ncontro,6 ed il vostro travagliato e combattuto naviglio soccorrere, e ne, lor seni e ne' lor porti abbracciarlo. Né i vostri nimici medesimi erano I. bianche e canute chiome: «canute aggiunge a bianche l'idea di vecchiezza» (Lisio che ricorda, come fonte dell'espressione del Della Casa, il famoso • Movesi il vecchierel canuto e bianco» del Petrarca, Rime, XVI, 1). 2. la .•• intenzione: di persuadervi a rendere Piacenza, viste le ragioni addotte, per il bene dell'impero e del nome di Carlo V. 3. sostiene: permette. 4. miseria: infelicità. (Espressione che è stata ispirata dal famoso esempio di Dante, lnf., v, 123.) 5. avversità . •• Algeri: si tratta della spedizione contro i corsari africani fotta nell'inverno del 1541; la flotta imperiale fu in parte distrutta dalla tempesta sulle coste algerine. Carlo V si salvò e venne a Napoli; e passò, quindi, a Roma e a Milano. 6.Jarvisi allo 'nco11tro: farsi incontro a voi. (Cfr. Petrarca, Rime, cccxv, 13.)

GIOVANNI DELLA CASA

arditi di rallegrarsi della vostra disavventura, né il vostro pericolo aver caro. Del quale poi che la felicissima novella venne che Vostra l\t1aestà era fuori, niuna allegrezza fu mai si grande né si conforme ugualmente in ciascuno, come quella che tutti i buoni insiememente sentirono allora. Sì fatto privilegio hanno, sacra Maestà, le giuste opere e magnanime che esse sono ezianclio nelle avversità felici e nelle perdite utili e ne' dolori liete e contente. I quali effetti, se noi vogliamo risguardare il vero, non si sono cosi pienamente veduti ora in questo novello acquisto che voi fatto avete di Piacenza come in quella perdita d'Algeri si sentirono; anzi pare che una cotale1 taciturnità, che è stata nelle genti dopo questo fatto, più tosto inchini a biasimar cli ciò i vostri ministri che a commendarneli. . Il che a ciò che voi più chiaramente conosciate, io priego Vostra Maestà per quel puro affetto che a prendere la presente fatica m'ha mosso2 e se ella alcuna considerazione merita da voi che non abbiate a schifo di ricevere nell'animo per brieve spazio una poco piacevole finzione 3 e che voi degniate d'imaginarvi che tutte le città, che voi ora legitimamente possedete, siano cadute sotto la vostra giurisdizione non con giusto titolo né per eredità né per successione o con ragionevole guerra e reale, ma che in ciascuna di esse si siano commossi in diversi tempi alcuni, i quali il loro signore, congiunto e parente di Vostra Maestà, insidiosamente ucciso avendo, la lor patria sforzata ed oppressa a voi con scelerata mano e sanguinosa abbiano pòrta ed assignata, e voi come vostra ritenuta ed usata l'abbiate: tal che tutto lo 'mperio ed i reami e tutti gli Stati che voi avete, ad uno ad uno, cosi in Ispagna, come in Italia ed in Fiandra e ne la Magna, siano divenuti vostri in quella guisa, nella quale costoro vi hanno acquistata Piacenza, contaminati di fraude e di violenza, e del puzzo de' morti corpi de' loro signori fetidi, e nel sangue tinti e bruttati e bagnati, e di strida e di ramarico e di duolo colmi e ripieni. Ed in questa imaginazione stando, consideri Vostra Maestà come ella, tale essendo, dispiacerebbe a se stessa e ad altrui, e più a Dio. Dinanzi al severo ed Ìnfallibil giudicio del quale, per molto che altri tardi, tosto debbiamo in ogni modo venir tutti, non per interposta persona né I. una cotale: una certa. 2. per quel •.. mosso: l'affetto verso i Farnese, privo di ogni secondo fine e mosso dal solo amore per la verità dei fatti e dalla necessità che si rimediasse agli errori del passato. 3. finzione: 1' «imaginazione », anzi tutta la raffigurazione (di cui più avanti) anche nel senso di artificio oratorio.

ORAZIONE A CARLO V

con le compagnie né con gli esserciti, ma soli ed ignudi e per noi stessi, non meno i re e gli imperadori che alcun altro quantunque idiota e privato. E certo misero e dolente colui che a sl fatto tribunale la sua conscienza torbida e maculata conduce! Io dico adunque, liberando Vostra Maestà da questa falsa e spiacevole imaginazione, che quello che essendo in tutti gli Stati, che voi possedete, attristerebbe voi, e le genti chiamerebbe 1 al vostro odio ed al vostro biasimo, e commoverebbe la Divina Maestà ad ira ed a vendetta contra di voi, non può essere eziandio in una sola città senza rimordimento della vostra conscienza né senza riprensione degli uomini2. né senza offesa della divina severità. [xv.] Per la qual cosa, io che sono uno fra molti, anzi sono uno fra la innumerabil turba che levai al miracolo della vostra virtù, è gran tempo, gli occhi, supplicemente la priego che ella non permetta che il suo nome, per la cui luce il nostro secolo è fin qui stato chiarissimo e luminoso, possa ora essere offuscato di alcuna ruggine; anzi lo purghi e lo rischiari, e più bello e più maraviglioso e più sereno lo renda, e seco medesima e con gli uomini e con Dio si riconcilii, ed imponga oggimai silenzio a quella maligna e bugiarda voce e sfacciata, la quale è ardita di dire che Vostra Maestà fu consapevole della congiura contra l'avolo3 de' vostri nipoti fatta; e rassereni la mente de' buoni, che ciò, già è gran tempo, da voi sospesa attendono e dell'indugio si gravano;~ Piacenza al vostro umilissimo figliuolo ed ubidientissimo genero e :fidelissimo servidore assignando: acciocché la vostra fama, lunghissimo spazio vivendo, e canuta e veneranda fatta, possa raccontare alle genti che verranno come l'ardire ed il valore e la scienzia della guerra e la prodezza e la maestria delle armi fu in voi virtù e magnanimità, e non impeto né avarizia, e che quella parte dell'animo, che Dio agli uomini diede robusta e spinosa e feroce e guerrera, con la ragione e con la umanità in voi componendosi e mescolandosi, quasi salvatico albero co' rami delle domestiche piante innestato, divenne dolce e mansueta in tanto che voi, la vostra fortezza in niuna parte allentando né minuendo, di benigno ingegno foste e pietoso e pieghevole. La qual loda di pietà tanto è maggiore ne' 1. chiamerebbe: muoverebbe. 2. senza riprensione degli uomini: senza che la gente vi biasimi per ciò. 3. l'avolo: Pier Luigi Farnese. 4. si gravano: • si dolgono gravemente» (Lisio).

GIOVANNI DELLA CASA

virili animi ed altieri, e fra le armi e nelle battaglie, quanto ella più rade volte vi s'è veduta, e quanto più malagevole è che la temperanza e la mansuetudine siano congiunte con la licenzia1 e con la potenzia. Vuole adunque Vostra Maestà dal nobilissimo stuolo delle altre sue magnifiche laudi scompagnare questa difficile e rara virtù ? E, se ella non vuole che la sua gloria scemi ed impoverisca di tanto, dove potrà ella mai impiegar la sua misericordia con maggior commendazione degli uomini o con più merito verso Dio che nel duca Ottavio, il quale per la disposizion delle leggi è vostro figliuolo, e per la vostra vostro genero, e per la sua vostro servidore? Senza che, quando bene egli di niun parentado vi fosse congiunto, ad ogni modo il suo molto valore ed i suoi dolci costumi e la sua fiorita età doverebbon poter indurre a compassione di sé non solo gli strani,2. ma gl'inimici e le fiere salvatiche istesse. E voi, la cui usanza è stata fino a qui di rendere gli Stati non solo a' prencipi strani,3 ma eziandio a' re barbari e saracini, sostenete che egli vada disperso e sbandito e vagabondo, e comportate che quella vita, la quale pur dianzi4 ne' suoi teneri anni si pose, combattendo per voi, in tanti pericoli, ora per voi medesimo tapinando sia cotanto misera ed infelice ? O gloriose, o ben nate e bene avventurose anime, che nella pericolosa ed aspra guerra de la Magna5 seguiste il duca6 e di sua milizia foste, e le quali per la gloria e per la salute di Cesare i corpi vostri abbandonando ed alla tedesca fierezza, del proprio sangue e di quel di lei tinti lasciandoli, dalle fatiche e dalle miserie del mondo vi dipartiste, vedete voi ora in che dolente stato il vostro signore è posto ? Io son certo che si: e, come quelle che lo amaste e da lui foste sommamente amate, tengo per fermo che misericordia e dolore de' suoi duri ed indegni affanni sentite. Ecco, i vostri soldati, sacra Maestà, e la vostra fortissima milizia fino dal cielo vi mostra le piaghe che ella per voi ricevette, e vi 1.

licenzia: sfrenatezza (solita in periodo di guerra).

:z. strani: estranei,

cioè non parenti. (È espressione desunta dal Boccaccio, introduzione alla giornata I del Decameron.) 3. strani: qui «forestieri». 4. dianzi: nella guerra contro i Protestanti (1546-7). 5. pericolosa ••. Magna: è la guerra smalcaldica fra l'imperatore e i Protestanti tedeschi (iniziata nel 1546, 6.nl il 24 aprile 147 con la battaglia di Milhlberg; cfr. la nota 5 di p. 460). 6. il duea: Ottavio Farnese, che comandava parte delle truppe pontificie mandate a sostegno della politica di Carlo V (cfr. la nota 6 di p. 480).

ORAZIONE A CARLO V

priega ora che 'l vostro grave sdegno, per l'altrui forse non vera colpa1 conceputo, per la costui innocente gioventù2 s'ammollisca e che voi non al duca, ma a' vostri nipoti, non rendiate come loro, ma doniate come vostra quella città, la qual voi possedete ora, se non con biasimo, almeno senza commendazione. E potrà forse alcuno fare a credere alle età che verrano dopo noi che l' altiero animo vostro, avvezzo ad assalire con generosa forza ed a guisa di nobile uccello a viva preda ammaestrato, in questo atto dichini ad ignobilità, e quasi di morto animale si pasca, quella città, non con la vostra virtù né con le vostre forze ma con gli altrui inganni e con le altrui crudeltà acquistata, ritenendo. Di ciò vi priegano similmente le misere contrade d'Italia ed i vostri ubidientissimi popoli, e gli altari e le chiese ed i sacri luoghi, e le religiose vergini e gl'innocenti fanciulli e le timide e spaventate madri di questa nobile provincia3 piangendo; ed a man giunte con la mia lingua vi chieggon mercé, che voi procuriate, per Dio,4 che la crudele preterita fiamma, 5 per la quale ella è poco meno che incenerita e distrutta, e la quale con tanto affanno di Vostra Maestà si difficilmente s'estinse, non sia raccesa ora, e non arda e non divori le sue non bene ancora ristorate né rinvigorite membra. Di ciò pietosamente e con le mani in croce vi priega madama illustrissima vostra umile serva e figliuola, 6 la quale voi donaste ad Italia, e con sì nobile presente e magnifico degnaste farne partecipi del vostro chiarissimo sangue, acciocché ella di sì prezioso legnaggio co' suoi parti questa gloriosa terra arricchisse. E noi lei, sì come nobilissima pianta peregrina nel nostro terreno translata7 ed allignata e lavostra divina stirpe fruttificante, lietissimi ricevemmo; e quanto la nostra umiltà fare ha potuto, l'abbiamo onorata e riverita. Non vogliate ora voi ritòrci sì pregiato dono; e, se la sua benigna stella le diede che ella nascesse figliuola d'imperadore ed il suo valore ed i I. l'altrui • •• colpa: quella di Pier Luigi Famese che sembra abbia partecipato alla congiura dei Fieschi: da ciò prese lo spunto Ferrante Gonzaga per l'azione che condusse al1 1assassinio di lui. 2. la costui .•. gioventù: l'innocente gioventù di costui. 3. provincia: l'Italia, cosi chiamata «a modo latino come parte del rinnovato impero romano» (Lisio). 4. per Dio: invocazione che richiama Dante, Purg., XXIII, 58, e Petrarca, Rime, CXXVIII, 87. s. la crudele preterita fiamma: le guerre fra Carlo V e Francesco I in gran parte combattute in Italia, dal 1521 al 1544. Il conflitto, riaccesosi con Enrico II e Filippo II, ebbe termine con la pace di CateauCambrésis nel 1559. 6. madama ... figliuola: l\tlargherita di Panna (originariamente Margherita d'Austria). 7. tra11slata: trasportata.

GIOVANNI DELLA CASA

suoi regali costumi la fecero degna figliuola di Carlo quinto imperadore, non vogliate far voi che tanta felicità e bontà siano ora in doglioso stato, quello che il cielo le concedette e quello che la sua virtù le aggiunse togliendole. Assai la fece aspra fortuna e crudele delle sue prime nozze sconsolata e dolente; non la faccia ora il suo generosissimo padre delle seconde misera e scontenta. Ella non puote in alcun modo essere infelice essendo vostra figliuola; ma come può ella senza morta! dolore veder colui, cui ella si affettuosamente come suo e come da voi datole ama, caduto in disgrazia di Vostra Maestà vivere in doglia ed in essilio? Ma, se ella pure diponesse l'animo di ardente mogliera, come può ella diporre quello di tenera madre ? ed il suo doppio parto1 sopra ogni creata cosa vaghissimo e dilicato ed amabile non amare tenerissimamente? Il quale certo di nulla v'offese già mai: o, se l'altrui nome all'uno de' nobili gemelli nuoce cotanto, giovi almeno all'altro in parte il vostro. Questi le tenere braccia ed innocenti distende verso Vostra Maestà timido e lagrimoso, e con la lingua ancora non ferma mercé le chiede: per ciò che le prime novelle, che il suo puerile animo ha potuto per le orecchie ricevere, sono state morte e sangue ed essilio; ed i primi vestimenti, co' quali egli ha dopo le fasce ricoperto le sue picciole membra, sono stati bruni e di duolo; e le feste e le carezze, che egli ha primieramente dalla sconsolata madre ricevute, sono state lagrime e singhiozzi e pietoso pianto e dirotto. Questi adunque al suo avolo chiede misericordia e mercé; ed Italia al suo signore chiama2 pace e quiete; e l'afflitta Cristianità di riposo e di concordia il suo magnanimo prencipe priega e grava. 3 E io, da celato divino spirito commosso, oltra quello ch'al mio stato si converrebbe fatto ardito e presontuoso, la sua antica magnanimità a Carlo quinto richieggo, e la sua carità usata gli addimando. La divina bontà guardò il vostro vittorioso essercito da quelle mortali seti affricane4 e dievvi che voi conquistaste quel regno in sl pochi giorni a ciò che voi, di tanto dono conoscente,5 la sua santa fede poteste difendere ed ampliare e non perché voi la misera Cristianità tutta piagata e monca e sanguinosa, quando ella le sue doppio parto: Margherita ebbe dal secondo matrimonio due figlioli. chiama: invoca ad alta voce (latinismo). 3.priega e grava: prega continuamente (fino a riuscir grave, molesto); cfr. per tale endiadi Boccaccio, Decam., III, 6. 4. La divina .. • ajfricane: nelle due imprese di Tunisi e cli Algeri. 5. conoscente: riconoscente. I. 2..

ORAZIONE A CARLO V

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ferite sanava ed i suoi deboli spiriti rafforzava, a nuove contese ed a nuove battaglie suscitaste per aggiugnere una sola città alla vostra potenzia. Questa medesima divina bontà rendé tiepide e serene le pruine ed il verno de la Magna, ed i venti e le tempeste del Settentrione acquetò, per salvare il suo eletto e diletto campione; e diedegli tanta e si alta vittoria,' fuori d'ogni umana credenza non a fine che egli poco appresso, per avanzarsi, imprendesse briga con Santa Chiesa, ma acciocché egli la ubidisse e le sparse e divise membra di lei raccozzasse ed unisse e col capo suo le congiugnesse. Sì come Vostra Maestà farà di certo, perciocché cotanta virtù, quanta in voi risplende, non puote in alcun modo né con alcuna onda di utilità estinguersi, né pure un poco intiepidirsi già mai. Piaccia a Colui, al quale, essendo egli somma bontà, ogni ben piace, che queste mie parole, più alla buona intenzione che all'umil fortuna mia convenevoli, nel vostro animo ricevute, quello effetto produchino, che al suo santissimo nome sia di laude e di gloria, ed a Vostra Maestà di salute e di consolazione.

1. tanta .•• fJÌttoria: si allude alla preminenza sempre più decisiva dell'imperatore nella Germania, sede del suo dominio universale.

BENVENUTO CELLINI

LA VITA

Questa mia vita travagliata io scrivo per ringraziar lo Dio della natura,2 che mi diè l'alma e poi ne à uto 3 cura: alte4 diverse 'mprese lzo fatte e vivo. Quel mio crudel destz"n d' offes' à privo5 vita or gloria e vfrtù più che misura, grazia valor beltà cotal figura 6 che molti ·io passo e chi mi passa arrivo.7 Sol mi duo[ grandemente or ch'io cognosco quel caro tempo in vanità perduto: nostri fragil pensier se 'n porta 'l vento. Poi che 'l pentir non val, starò contento salendo qual io scesi il Benvenuto8 nel fior di questo degno terren tosco.9 lo avevo cominciato a scrivere di mia mano questa mia vita, come si può vedere in certe carte rappiccate;10 ma, consi.derando che io perdevo troppo tempo e parendomi una smisurata vanità, mi capitò innanzi un figliuolo di Mz'chele di Goro dalla Pieve a Groppine,1 1 Questo sonetto e la dichiarazione che segue sono di mano del Cellini: a lui sono dovute anche varie aggiunte, correzioni e note al testo della Vita, quasi interamente dettata ad un garzoncello di bottega, un certo Michele di Goro Vestri. (Tale testo è oggi il manoscritto mediceo-palatino 2342 e trovasi nella Biblioteca Mediceo-Laurenziana, in Firenze.) Si veda, a integrazione dell'importante edizione della Vita, curata da Francesco Tassi, in quello che si indica come volume III, Ricordi, prose e poesie di BENVENUTO CELLINI con documenti la maggior parte inediti in seguito e ad illustrazione della Vita del medesimo raccolti e pubblicati dal dottor Francesco Tassi, Firenze, Presso Guglielmo Piatti, 1829, p. 74, il documento che il finale Sommario cronologico cosl registra: «Affida a Michele Vestri dalla Pieve a Groppine l'onere di tenergli sue scritture». Esso è in data del 29 luglio 1557. Al giovane il Cellini dettava lavorando. 2. lo Dio della natura: si noti questa definizione, ispirata a concezioni neoplatoniche assai diffuse in Firenze anche in ambienti popolari. 3. uto: avuto. 4. alte: importanti. 5. d'offes•à privo: ha privato del potere di farmi danno (il soggetto è lo Dio della natura del v. 2). 6. beltà cotal figura: in tal modo mette in me («compone in me un insieme di beltà tali»: P. D'ANCONA, in CBLLINI, La vita, testo riveduto con introduzione e note, Milano, Cogliati, s.a., ma 1925). 7. arrivo: raggiungo. 8. salendo q11al io scesi il Benvenuto: «salendo in alto quanto già scesi in basso, io, Benvenuto11 (D'Ancona). 9. nel fior •.. tosco: cioè in Firenze; tosco: toscano. 10. rappiccate: attaccate (si tratta delle prime sette carte del codice mediceolaurenziano). II, È il predetto Michele di Goro Vestri, il cui nome risulta 1.

BENVENUTO CELLINI

f a11ci.ullino di età di anni quattordici in circa, ed era ammalatuccio. lo lo cominciai a fare scrivere, e, in mentre che io lavoravo, gli dittavo la vita mia; e, perché' ne pigliavo qualche piacere, lavoravo molto più assiduo e facevo assai più opera. Cosi lasciai al ditto tal carica2 quale spero di continuare tanto innanzi quanto mi ricorderò.

da un documento del 13 dicembre ISSS, anche se non sembra del tutto evidente che si tratti di Pieve a G-roppine di Valdarno di Sopra, come è chiamata nel documento suddetto. (Tale paese si trova presso Arezzo, nelle vicinanze di Terranuova Bracciolini: si legga Gròppine.) I. pere/,,: per il fatto che. 2. carica: incarico.

LA VITA DI BENVENUTO DI M 0 GIOVANNI CELLINI FIORENTINO SCRITTA (PER LUI MEDESIMO) IN FIRENZE 1

[LIBRO PRIMO]

[1.] Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa o si veramente che le virtù somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propia2 mano descrivere la loro vita; ma non si doverrebbe cominciare una tal bella impresa prima che passato l'età3 de' quaranta anni. Avvedutomi d'una tal cosat ora che io cammino sopra la mia età de' cinquantotto anni finiti e, sendo in Fiorenze4 patria mia, sovvenendomi di molte perversità che avvengono a chi vive, essendo con manco di esse perversità che io sia mai stato insino a questa età, anzi5 mi pare di essere con maggior mio contento d'animo e di sanità di corpo che io sia mai stato per lo addietro; e ricordandomi di alcuni piacevoli beni e di alcuni inistimabili mali, li quali, volgendomi indrieto, 6 mi spaventano di maraviglia che io sia arrivato insino a questa età de' cinquantotto anni: con la quali7 tanto felicemente io, mediante la grazia di Dio, cammino innanzi.8

L'amanuense aveva scritto dapprima: •Al nome d' Dio vivo et i'mortale / Vita di Benuenuto Cellini / oreficie et scultore schritta / di sua mano propia ». Il Cellini cancellò e mise le parole cli cui nel titolo attuale. (M0 è da intendere: maestro.) Avverte O. BACCI, in Vita di BENVENUTO CELLINI, testo critico con introduzione e note storiche, Firenze, Sansoni, 1901: «Sulla parola schritta, fu aggiunto, forse dal Varchi [su cui si veda la nota 2 di p. 531], per lui medesimo» (cioè «da lui medesimo»). 2.propia: propria (dissimilazione di tipo popolare, non inso1ita nel linguaggio del Cellini e, del resto, riscontrabile anche nell'Orlando furioso e nella viva parlata toscana d'oggidl). 3. passato l'età: si noti la costruzione popolare vivacissima. 4. Il Cellini usa Fiorenze e Firenze scambievolmente (cfr. p. 859). 5. anzi: qui «a maggior ragione» (ed è pensiero concatenato coi vari gerundi precedenti). 6. indrieto: indietro. 7. la quali: la quale. 8. innanzi: prima aveva scritto sopra. Del resto tutto questo inizio dell'opera - ricopiato dal ragazzo - da alcuni è stato discusso, come lasciato a mezzo. Bisogna anche tener conto - con O. BAcc1, La vita di BENVENUTO CELLINI, ad uso delle scuole, con note storiche, di lingua e di stile, Firenze, Sansoni, nuova tiratura, 1934 (d'ora in poi abbreviato in Bacci scol.) - che «l'esserci poi nel MS. il capoverso, rafferma che il C. e il suo copista sentirono e ben finito il discorso e lo stacco da esso al nuovo ». 1.

500

BENVENUTO CELLINI

[n.] Con tutto che1 quegli uomini, che si sono affaticati con qualche poco di sentore di virtù,2 ànno dato cognizione di loro al mondo, quella sola doverria bastare, vedutosi essere uomo e conosciuto :3 ma,4 perché egli è di necessità vivere in nel modo che uno truova come gli altri vivono, però in questo modo ci si interviene5 un poco di boriosità di mondo,6 la quali à più diversi capi :7 il primo si è far sapere agli altri che l'uomo à la linea sua8 da persone virtuose ed antichissime. Io son chiamato Benvenuto Cellini, figliuolo di maestro Giovanni d'Andrea di Cristofano Cellini: mie9 madre madonna10 Elisabetta di Stefano Granacci, e l'uno e l'altra cittadini fiorentini. Troviamo scritto in nelle croniche fatte dai nostri Fiorentini molto antichi ed uomini di fede, secondo che scrive Giovanni Villani,11 sl come si vede la città di Fiorenze fatta a imitazione della bella città di Roma e si vede alcuni vestigi del Collosseo e delle Terme.12 Queste cose sono presso a Santa Croce: il Campitoglio era dove è oggi il Mercato Vecchio; la Rotonda13 è tutta in piè, che fu fatta per il tempio di Marte: oggi è per il nostro San Giovanni. Che questo fussi cosi, benissimo si vede e non si può negare; ma sono ditte fabbriche 14 molto minore di quelle di Roma. Quello che le fece fare dicono essere stato Iulio Cesere con alcuni gentili uomini romani, che, vinto e preso Fiesole, in questo luogo edificorno una città e ciascuni di loro prese a fare 1. Con tutto che: quantunque. 2. virtù: nel senso rinascimentale di «valore•· 3. vedutosi ... conosciuto: qui si passa da un plurale ad un singolare per un'evidente costruzione a senso, come fa spesso il Cellini. 4. ma: il precedente Con tutto che si collega con un ma ben perentorio: anche questo fa parte dello stile singolarissimo dell'Autore. 5. ci si interviene: ci capita. 6. boriosità di mondo: vanagloria. 7. capi: specie. (Si noti che il Cellini, dopo aver esposto il primo capo, passa subito a parlar di sé.) 8. la linea sua: la sua ascendenza: e sta per a antenati», «maggiori•· 9. mie: mia. 10. madonna: nell'abbreviazione M" si può leggere tanto «Madonna» (come abbiamo fatto) quanto «Monna». 11. secondo ••• Villani: il Cellini più avanti (cfr. p. 747) racconterà di aver letto la Cronaca del Villani quand'era rinchiuso a Castel Sant'Angelo. 12. si come ..• Terme: il Villani ricorda appunto le vestigia romane di Firenze in più luoghi della sua opera: cioè l'anfiteatro presso Santa Croce; il Campidoglio dov'era Mercato Vecchio e il tempio di Marte, che è diventato il Duomo «il quale oggi si chiama il Duomo di San Giovanni». Quanto alle Terme se ne trovavano in vari luoghi della città: le principali erano presso quella che ancora si chiama Via delle Terme. 13. la Rotonda: il nome ricorda il Pantheon, comunemente la Rotonda. (Risulta erronea l'idea espressa dal Villani: San Giovanni, fra il IV e il V secolo, sorse in un luogo dove erano state abbattute molte casupole e tabernae.) 14.fabbriche: costruzioni.

LA VITA • LIBRO PRIMO

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uno di questi notabili edifizii.1 Aveva Iulio Cesare un suo primo e valoroso capitano, il quali si domandava Fiorino da Cellino,2 che è un castello il quali è presso a Montefiasconi3 a dua miglia. Avendo questo Fiorino fatti i sua4 alloggiamenti sotto Fiesole ( dove è ora Fiorenze) per esser vicino al fiume d'Arno per comodità dello esercito, tutti quelli soldati ed altri, che avevano a fare del ditto capitano, dicevano: - Andiamo a Fiorenze -, sl perché il ditto capitano aveva nome Fiorino e perché in nel luogo che lui aveva li ditti sua alloggiamenti, per natura del luogo, era abbundantissima5 quantità di fiori. Cosi in nel dar principio alla città, parendo a Iulio Cesare questo bellissimo nome e posto a caso6 e perché i fiori apportano buon aurio,7 questo nome di Fiorenze pose nome alla ditta città, ed ancora per fare un tal favore al suo valoroso capitano: e tanto meglio gli voleva per averlo tratto di luogo molto umile e per essere un tal virtuoso fatto da lui. Quel nome, che dicono questi dotti immaginatori ed investigatori di tal dipendenzie8 di nomi, dicono per essere fluente9 a l'Arno: questo non pare che passi stare, perché Roma è fluente al Tevero, Ferrara è fluente al Po, Lione è fluente alla Sonna,10 Parigi è fluente alla Senna; però ànno nomi diversi e venuti per altra via. Noi troviamo così, e cosi crediamo dipendere da uomo virtuoso.11 Di poi troviamo essere de' nostri Cellini in Ravenna12 più antica città di Italia,13 e quivi è gran gentili uomini; 14 ancora n'è in Pisa, e ne ò trovati in molti luoghi di Cristianità, ed in questo Stato15 ancora n'è restato qualche casata, pur dediti all'arme; ché non sono molti edificorno ••• edifi:rii: questa è una delle tante tradizioni leggendarie intorno alle origini di Firenze e dei luoghi vicini. 2. D'un leggendario Fiorino, come d'uno dei fondatori di Firenze (e anche re), parlano antiche cronache, ma l'aver fatto da Ce/lino questo fantomatico personaggio è un curioso accorgimento del Cellini, che magari avrà seguito tradizioni di famiglia. 3. Mo11tefiasconi: presso Viterbo. 4. i sua: i suoi. (E cosi, ripetutamente, in seguito.) 5. abbundantissima: MS: abbuntantissi.ma. 6. Il nome di Florentia pare derivi piuttosto dal fatto che la città fosse una colonia «fiorente». 7. artrio: augurio. 8. dipendenzie: derivazioni. 9. dicono . .. fluente: il Cellini vuol, quindi, confutare l'etimologia del nome di Firenze da «fluente» (o corso d'Amo), etimologia che era sostenuta da Leonardo Bruni e dal Poggio, e che il l\1achiavelli aveva ricordato nelle ]storie fiorentine (11, 2). 10. Sonna: Saona. u. virtuoso: valoroso. I 2. troviamo ... Ravenna: è certamente una supposizione del Cellini. E così quella che segue per Pisa. 13. più antica .. . Italia: quindi ancor più antica che non sia Firenze. 14. gran gentili uomi11i: gentiluomini di grande nobiltà. 15. in questo Stato: in Firenze. I.

502

BENVENUTO CELLINI

anni da oggi che un giovane chiamato Luca Cellini, giovane senza barba,1 combatté con uno soldato, pratico e valentissimo uomo che altre volte aveva combattuto in isteccato,2 chiamato Francesco da Vicorati. 3 Questo Luca per propria virtù con l'arme in mano lo vinse ed ammazzò con tanto valore e virtù4 che fe' maravigliare il mondo 5 che aspettava tutto il contrario: in modo che io mi glorio d'avere lo ascendente mio6 da uomini virtuosi. Ora quanto io m'abbia acquistato qualche onore alla casa mia, li quali7 a questo nostro vivere di oggi per le cause che si sanno e per l'arte mia, quali non è materia da gran cose, al suo luogo io le dirò; gloriandomi molto più essendo nato umile8 ed aver dato qualche onorato prencipio9 alla casa mia che se io fussi nato di gran lignaggio e colle mendace qualità io l'avessi macchiata o stinta. Pertanto darò prencipio come a Dio piacque che io nascessi.

[111.] Si stavano in nella val d'Ambra li mia antichi,1° e quivi avevano molta quantità di possessioni; e, come signorotti là ritiratisi per le parte,11 vivevano: erano tutti uomini dediti all'arme e bravissimi.12 In quel tempo un lor figliuolo, il minore, che si chiamò Cristofano,13 fece una gran quistione14 con certi lor vicini e amici; e, perché l'una e l'altra parte dei capi di casa vi avevano misso le mani e veduto costoro essere il fuoco acceso di tanta importanza che e' portava pericolo che le due famiglie si disfacessino affatto; considerato questo, quelli più vecchi, d'accordo, li mia levorno giOtJane senza barba: cioè adolescente. z. in isteccato: in campo chiuso (in tornei, duelli e simili). 3. Vicorati: è a un chilometro da Londa (presso Firenze). 4. con tanto valore e virtù: cioè con valore fisico e coraggio morale. 5. il mondo: nel valore di Cl tutti 11, 6. lo ascendente mio: si noti che, nel concetto del Cellini, egli ascendeva, risaliva a (non • discendeva 11). 7. li quali: il solito collegamento a senso (con qualche onore, forse per influsso del francese parlato: quelques hon11eurs, e simili). 8. essendo nato umile: qui il Cellini pensa ai suoi umili natali, e lascia da parte le favolose origini della famiglia, già millantate. 9. qualche onorato prencipio: con la fama della sua arte. I o. antichi: antenati. II. per le parte: a causa dei partiti. 12. bravissimi: coraggiosissimi. 13. Cristo/ano: questo Cristoforo Cellini, bisnonno di Benvenuto, sarebbe stato il primo della famiglia a venire a Firenze. Nel 1427 egli è al catasto per il popolo della Badia di Fiesole. Per altro, parrebbe, da ricerche del Bacci, che non Cristofano, ma Andrea di Cristofano d'Andrea venisse in Firenze dopo il 1469. 14. quistione: litigio. I.

LA VITA • LIBRO PRIMO

5°3

via Cristofano, e cosi l'altra parte levò via l'altro giovane origine della quistione. Quelli mandorno il loro a Siena: li nostri mandorno Cristofano a Firenze, e quivi li comperorno una casetta1 in Via Chiara dal monisterio di Sant'Orsola, ed al ponte a Rifredi li comperorno assai buone possessioni. Prese moglie2 il ditto Cristofano in Fiorenze ed ebbe figliuoli e figliuole; e, acconce3 tutte le sue figliuole, il restante si compartirno4 li figliuoli 5 di poi6 la morte di lor padre. La casa di Via Chiara con certe altre poche cose toccò a uno de' detti figliuoli che ebbe nome Andrea. Questo ancora lui prese moglie7 ed ebbe quattro figliuoli masti.8 Il primo ebbe nome Girolamo, il sicondo Bartolomeo, il terzo Giovanni che poi fu mio padre, il quarto Francesco. Questo Andrea Cellini intendeva assai del modo della architettura di quei tempi e, come sua arte, di essa viveva. 9 Giovanni, che fu mio padre, più che nissuno degli altri vi dette opera. E perché, sì come dice Vitruio in fra l'altre cose, volendo fare bene detta arte bisogna avere alquanto di musica e buon disegno,1° essendo Giovanni fattosi buon disegnatore, cominciò a dare operau alla musica ed insieme con essa imparò a sonare molto bene di viola e di flauto; e, essendo persona molto studiosa, poco usciva di casa. Avevano per vicino a muro12 uno che si chiamava Stefano Granacci, il quali aveva parecchi figliuole, tutte bellissime. Sì come piacque a Dio, Giovanni vidde una di queste ditte fanciulle che aveva nome Elisabetta, e tanto li piacque ,ma casetta: su questa casa (oggi sulla Piazza del Mercato Centrale, al numero 22) v'è un'iscrizione di Giuseppe Molini dove è erronea la data di nascita del Cellini quale avvenuta il 1° novembre 1500. 2. Prese moglie: di nome Lisa o Lisabetta. 3. acconce: sistemate, con dote. 4. il restante si compartirno: divisero quanto restava del patrimonio. 5. li.figliuoli: erano Simone (nato nel 1408), Andrea (nel 1425) e Bartolomeo (nel 1450). 6. di poi: dopo. 7. Questo •• . moglie: Andrea veramente (secondo l'Alberetto genealogico dei Cellini che il Bacci mise insieme correggendo con nuove ricerche quelli compilati rispettivamente da Carlo Milanesi e da Cesare Guasti) avrebbe avuto, a stare al catasto di più anni, come prima moglie Caterina (nata nel 1425), come seconda Cosa o Niccolosa (nata nel 1447) e, come terza, Lisabetta (nata nel 1465). 8. masti: maschi. Cioè come è detto più avanti - Bartolomeo (nato nel 1447), Giovanni (145 I o, secondo un altro documento, 1453), Girolamo (1458?) e Francesco (1463). Bartolomeo - comunemente chiamato Baccio - fu valente intagliatore di legno e d'avorio cd è strano che il Cellini non ricordi tale qualità. 9. intendeva .•. viveva: in realtà Andrea dichiara, in una « portata I al catasto nel 1487, di essere muratore, non architetto (Bacci). 10. si come . •• disegno: cfr. Vitruvio, De architectura, I, I, 8. II. dare opera: applicarsi. 12. per vicino a muro: cioè confinante, contiguo. 1.

BENVENUTO CELLINI

che lui la chiese per moglie :1 e, perché l'uno e l'altro padre benissimo per la stretta vicinità2. si conoscevano, fu facile a fare questo parentado; ed a ciascuno di loro gli pareva d'avere molto bene acconce le cose sue. In prima quei dua buon vecchioni conchiusono il parentado; di poi cominciorno a ragionare della dota e, essendo in fra di loro qualche poco di amorevol disputa, perché Andrea diceva a Stefano: - Giovanni mio figliuolo è 'I più valente giovane e di Firenze e di Italia e, se io prima gli avessi voluto dar moglie, arei aute delle maggior dote che si dieno a Firenze a' nostri pari - ; e3 Stefano diceva: - Tu hai mille ragioni, ma io mi truovo cinque fanciulle con tanti altri figliuoli che, fatto il mio conto, questo è quanto io mi posso stendere.4 - Giovanni era stato un pezzo a udire, nascosto da loro, e, sopraggiunto all'improvviso, disse: - O mio padre, quella fanciulla ò desiderata ed amata, e none5 li loro dinari: tristo6 a coloro che si vogliono rifare in su la dota della lor moglie. Si bene, come7 voi vi siate vantato che io sia cosi saccente,8 o non saprò io dare le spese alla mia moglie e sattisfarla alli sua bisogni con qualche somma di dinari manco che '1 voler vostro? Ora io vi fo intendere che la donna è la mia, e la dota voglio che sia la vostra.9 - A questo sdegnato alquanto Andrea Cellini, il quali era un po' bizzarretto,10 fra pochi giorni Giovanni menò11 la sua donna e non chiese mai più altra dota. Si goderno la lor giovinezza ed il loro santo amore diciotto anni, pure con gran disiderio di aver figliuoli: di poi in diciotto anni la detta sua donna si sconciò di12 dua figliuoli masti, causa della poca intelligenzia de' medici; di poi di nuovo ingravidò, e partori una femmina che gli posono nome Cosa13 per la madre di mio padre. Di poi dua anni di nuovo ingravidò e,· perché quei vizii che ànno le donne gravide, molto vi si pon cura, gli erano appunto come quegli del parto d'innanzi, in modo che erano resoluti che la dovessi fare una femmina come Maria Elisabetta di Stefano Granacci era nata nel 1464. 2. tJicinità: s'intende, delle loro dimore. 3. e: in funzione intensiva (dal latino ecce). 4. quanto io mi posso stendere: quello a cui posso giungere. 5. none: non. 6. tristo: quanto a dire: u maledizione ». 7. come: a quel modo che. 8. saccente: istruito. 9. la mia .•• la tJostra: è stato notato come queste espressioni in luogo di mia e di vostra giovino "forse a render più intensa l'affermazione e distinzione di proprietà» (Bacci scol.). 10. bizza"etto: un po' incline all'ira. II.fra .•. ment>: pochi giorni dopo Giovanni sposò. 1z. si sconci() di: cioè aborti. 13. Cosa o Nicolosn, nata nel 1499, mori nel 1500. (Il nome era stato dato in onore - per della nonna.) 1.

LA VITA • LIBRO PRIMO

s0 s

la prima, e gli avevono d'accordo posto nome Reparata1 per rifare la madre2 di mia madre. Avvenne che la partorl una notte di tutti e' Santi, finito il dl d'Ognissanti, a quattro ore e mezzo in nel millecinquecento appunto. 3 Quella allevatrice,4 che sapeva che loro l'aspettavano femmina, pulito che l'ebbe la creatura, involta in bellissimi panni bianchi, giunse cheta cheta a Giovanni mio padre, e disse: - Io vi porto un bel presente, qual voi non aspettavi. Mio padre, che era vero filosafo, 5 stava passeggiando, e disse: - Quello che lddio mi dà, sempre m'è caro - e, scoperto i panni, coll'occhio vidde lo inaspettato figliuolo mastio. Aggiunto insieme le vecchie palme, con esse alzò gli occhi a Dio, e disse: - Signore, io ti ringrazio con tutto 'l cuor mio; questo m'è molto caro, e sia il benvenuto. - Tutte quelle persone che erano quivi, lietamente lo domandavano come e' si gli aveva a por nome. Giovanni mai rispose loro altro, se none: - E' sia il Benvenuto. - E, risoltisi, tal nome mi diede il santo battesimo, e così mi vo vivendo con la grazia di Dio.

[Iv.] Ancora viveva Andrea Cellini mio avo,6 che io avevo già l'età di tre anni in circa, e lui passava li cento anni. Avevano un giorno mutato un certo cannone7 d'un acquaio e del detto n'era uscito un grande scarpione,8 il quali loro non l'avevano veduto ed era dello acquaio sceso in terra ed itosene sotto una panca; io lo vidi e, corso a lui, gli missi le mani addosso. Il detto era si grande che, avendolo in nella picciola mano, da uno degli illati9 avanzava fuori10 la coda e da l'altro avanzava tutt'a due le bocche. Dicono che con gran festa io corsi al mio avo, dicendo: - Vedi, nonno mio, 1. Reparata o Liperata, sorella di Benvenuto, ebbe tre mariti: Bartolomeo orafo (morto nel 1528), Raffaello Tassi (morto nel 1545) e Pagolo Pagolini (morto nel 1546 ?), chiamato anche Paolo Paolini. 2. rifare la madre: rifare (ripetere) il nome della madre. 3. partorì •• . appunto: in realtà, Benvenuto, come risulta dal registro di battesimo, nacque il martedì 3 novembre 1500 (non il 2., come parrebbe da questo passo e da un altro della Vita, a p. 757). Lo scrittore deve aver confuso il giorno dei Morti con quello d'Ognissanti. 4. allevatrice: levatrice. 5. filosafo per «filosofo» è forma popolare che si trova fin dai primi secoli della lingua italiana. 6. at10: nonno. 7. cannone: tubo. 8. scarpione: scorpione (per dissimilazione). 9. degli illati: così nel manoscritto. Cioè degli lati: dei lati. (Bacci: «i/lati, è evidente errore del copista, ma non corretto dal Celi. ». Ma si ricordi dagli inlati nel Trattato dell'Oreficeria, qui avanti p. 999. 10. at1anzat1a fuori: sporgev._.

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BENVENUTO CELLINI

il mio bel granchiolinol - Conosciuto il ditto che gli era uno scarpione, per il grande spavento e per la gelosia di me1 fu per cader morto e me lo chiedeva con gran carezze :2 io tanto più lo strignevo piagnendo, ché non lo volevo dare a persona. Mio padre, che ancora egli era in casa, corse a cotai grida, e stupefatto non sapeva trovare rimedio che quel velenoso animale non mi uccidessi. In questo gli venne veduto un paro di forbicine: cosi, lusingandomi,3 gli tagliò la coda e le bocche. Di poi che lui fu sicuro4 del gran male, lo prese per buon aurio. In nella età di cinque anni in circa, essendo mio padre in una nostra celletta5 in nella quali si era fatto bucato ed era rimasto un buon fuoco di querciuoli, Giovanni con una viola in braccio sonava e cantava soletto intorno a quel fuoco. Era molto freddo: guardando in nel fuoco, a caso vidde in mezzo a quelle più ardente fiamme un animaletto come una lucertola, il quale si gioiva in quelle più vigorose fiamme. 6 Subito avvedutosi di quel che gli era, fece chiamare la mia sorella e me, e, mostratolo a noi bambini, a me diede una gran ceffata,7 per la quali io molto dirottamente mi missi a piagnere. Lui piacevolmente racchetatomi, mi disse cosi: - Figliolin mio caro, io non ti do per male che tu abbia fatto, ma solo perché tu ti ricordi che quella lucertola che tu vedi in nel fuoco si è una salamandra, quali non s'è veduta mai più per altri di chi8 ci sia notizia vera. - E cosi mi baciò e mi dette certi quattrini.9 [v.] Cominciò mio padre a 'nsegnanni sonare di flauto e cantare di musica; e, con tutto che10 l'età mia fussi tenerissima, dove i piccoli bambini sogliono pigliar piacere d'un zufolino e di simili trastulli, io ne avevo dispiacere inistimabile, ma solo per ubbidire sonavo e cantavo. Mio padre faceva in quei tempi organi con canne di legno maravigliosi, gravicemboliu i migliori e più belli che allora si vedessino, viole, liuti, arpe bellissime ed eccellentissime. Era I. gelosia di me: grande affetto verso di me. 2. carezze: nel senso generico di •moine». 3. lruingandomi: facendomi complimenti (per distranni nel frattempo). 4. sicuro: in senso etimologico, cioè senza pericolo. 5. celletta: stanzino (che poteva servire anche come ripostiglio). 6. si gioiTJa • •• fiamme: per antica tradizione, di cui nei bestiari e nelle enciclopedie medievali, la salamandra non bruciava nel fuoco. 7. ceffata: schiaffo. 8. per altri di chi: da altri dei quali. 9. certi quattrini: oggi, più comunemente, e dei quattrini •· I o. con tutto clae: benché. 1 1. graTJicemboli: clavicembali•.

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ingegnere e, per fare strumenti come modP di gittar ponti, modi di gualchiere,2 altre macchine, lavorava miracolosamente.3 D'avorio4 e' fu il primo che lavorassi bene. Ma, perché lui s'era innamorato di quella che seco mi fu di padre ed ella madre forse per causa di quel flautetto, frequentandolo assai più che 'l dovere,5 fu richiesto dalli pifferi della Signoria di sonare insieme con esso loro.6 Cosi seguitando un tempo per suo piacere, lo sobbillorno7 tanto che e' lo feciono de' lor compagni pifferi. Lorenzo de' Medici8 e Piero suo :figliuolo, che gli volevano gran bene, vedevano di poi che lui si dava tutto al piffero e lasciava indrieto il suo bello ingegno e la sua bella arte: lo feciono levare di quel luogo. Mio padre l'ebbe molto per9 male, e gli parve che loro gli facessino un gran dispiacere. Subito si rimise all'arte, e fece uno specchio, di diamitro di un braccio in circa, di osso e avorio, con figure e fogliami, con gran pulizia10 e gran disegno. Lo specchio si era figurato una ruota: 11 in mezzo era lo specchio; intorno era12 sette tondi, in ne' quali era intagliato e commesso di avorio ed osso nero le sette Virtù; e tutto lo specchio e cosi le ditte Virtù erano in un bilico13 in modo che, voltando la ditta ruota, tutte le Virtù si movevano; ed avevano un contrappeso ai piedi, che le teneva diritte. E, perché lui aveva qualche cognizione della lingua latina, intorno a ditto specchio vi fece un verso14 latino, che diceva: «Per tutti li versi che volta la ruota di Fortuna, la Virtù resta in piede»: Rota mm, semper, quo quo me verto, stat virttu,15

lvi a poco tempo gli fu restituito il suo luogo16 deP7 piffero. Se bene alcune di queste cose furno innanzi ch'io nascessi, ricordandomi d'esse non l'ò volute lasciare indietro. In quel tempo quelli n,odi: ordigni. 2. gualchiere: sono attrezzi per lanaioli (mossi dallo scorrer dell'acqua). 3. miracolosamente: meravigliosamente. 4. D'avorio: cioè con intagli in avorio. (Anche in questo particolare si notano le vanterie del Cellini.) 5./requentandolo ••. dovere: cioè sonandolo assai più del dovuto. 6. con esso loro: con loro. Cfr. la nota 7 a p. 368. 7. sobillorno: pregarono con insistenza. 8. ~ Lorenzo il Magnifico (1448-1492). Non è da confondere con Lorenzo duca d'Urbino, suo discendente. 9. per: a. 10. pulizia: politezza. 11. si era • •• ruota: era stato fatto in figura (in forma) d'una ruota. 12.. era: c'erano. 13. in un bilico: in bilico. 14. un verso: nel senso di «iscrizione•· 1 s. Diamo di seguito l'iscrizione che dagli editori è, di solito, data secondo la disposizione del manoscritto con stat virtus a capo. 16. luogo: occupazione (mestiere). 17. del: di. 1.

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sonatori si erano tutti onoratissimi artigiani, e v'era alcuni di loro che facevano l'Arte maggiori1 di seta e lana: qual fu causa che mio padre non si sdegnò a fare questa tal professione.z El maggior desiderio, che lui aveva al mondo circa i casi mia, si era che io divenissi un gran sonatore: el maggior dispiacere, che io potessi avere al mondo, si era quando lui me ne ragionava dicendomi che, se io volevo, mi vedeva tanto atto a tal cosa che io sarei il primo omo del mondo.

[vi.] Come ò ditto, mio padre era gran servitore ed am1c1ssimo della Casa de' Medici, e, quando Piero ne fu cacciato,3 si fidò di mio padre in moltissime cose molte importantissime.4 Di poi, venuto il magnifico Piero Soderini, 5 essendo mio padre al suo uffizio del sonare, saputo il Soderini il maraviglioso ingegno di mio padre se ne cominciò a servire in cose molte importantissime come ingegnere; e, in mentre che 'l Soderino stette in Firenze, volse tanto bene a mio padre quanto immaginar si possi al mondo; e, in questo tempo io che era di tenera età, mio padre mi faceva portare in collo e mi faceva sonare di flauto, e facevo sovrano6 insieme con i musici del Palazzo innanzi alla Signoria, e sonavo al libro,' ed un tavolaccino8 mi teneva in collo. Di poi il gonfalonieri, che era il detto Soderino, pigliava molto piacere di farmi cicalare, e mi dava de' confetti e diceva a mio padre: - Maestro Giovanni, Le Arti della seta e della lana facevano parte delle sette Arti maggiori ( costituite da grandi complessi industriali e mercantili e da professioni liberali). Le Arti minori erano quattordici (ed erano, in genere, mestieri). 2. qual fu ... professione: era insomma una prestazione da musicista dilettante. Questo almeno nella disquisizione di Benvenuto. Ma forse era l'unico modo di guadagnar qualche quattrino in modo sicuro come aiuto d'una nota banda musicale di Firenze, quella dei pifferi della Signoria. 3. Piero de' Medici perse la signoria di Firenze il 9 novembre del 1494, operò in molti modi contro la Repubblica e fini per morire affogato nel Garigliano nel I 504 nel corso della nota guerra fra Spagnoli e Francesi. 4. molte importa11tissime: per attrazione di tipo popolare, per molto importantissime. (Il molto con un superlativo è documentato anche da antichi testi italiani, ad esempio, dal Novellino.) 5. Il Soderini, eletto gonfaloniere a vita nel 1502, durò nel suo ufficio fino al 1512, cioè fino alla restaurazione medicea. È nota la sua familiarità col Machiavelli come si rileva anche dalle lettere del Segretario fiorentino. 6. facevo soorano: facevo, cantando, la parte di soprano. 7. sanavo al libro: cioè seguendo le note (la musica scritta). 8. tavolaccino: era un donzello di Magistrati e signori (cosi chiamato perché portava, nelle pubbliche comparse, uno scudo con l'arme del Comune cli Firenze). I.

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insegnali insieme con il sonare quelle altre tue bellissime arte! Al cui2 mio padre rispondeva: - Io non voglio che e' faccia altra arte che 'l sanare e comporre; 3 perché in questa professione io spero fare il maggiore uomo del mondo, se lddio gli darà vita. A queste parole rispose alcuno di quei vecchi signori,4 dicendo a maestro Giovanni: - Fa quello che ti dice il gonfaloniere; perché sarebbe egli mai altro che un buono sonatore? - Cosi passò un tempo insino che i Medici ritornorno. 5 Subito ritornati i Medici, il cardinale, che fu poi papa Leone, fece molte carezze6 a mio padre. Quella arme, che era al palazzo de' Medici,7 mentre che loro erano stati fuori 8 era stato levato da essa le palle9 e vi avevano fatto dipignere una gran croce rossa, quali era l'arme ed insegna del Comune: in modo che subito tornati si rastiò10 la croce rossa, e in detto scudo vi si commisse11 le sue palle rosse e, misso il campo d'oro, con molta bellezza acconce. Mio padre, il quali aveva un poco di vena poetica naturale stietta12 con alquanto di profetica (che questo certo era divino in lui), sotto alla ditta arme, subito che la fu scoperta, fece questi quattro versi; dicevan cosi: Que.st'arme, che sepulta è stata tanto sotto la santa croce 13 tnansi,eta, 14 mostr'or la facci.a gloriosa e lieta, aspettando di Pietro il sacro ammanto. rs

Questo epigramma fu letto da tutto Firenze. Pochi giorni appresso mori1 6 papa I ulio secondo. Andato il cardinale de' Medici a Roma, contra a ogni credere del mondo fu fatto papa, che fu papa Leone X,17 liberale e magnanimo. Mio padre gli mandò li sua 1. quelle • .. arte: cioè le arti di intagliatore e di ingegnere. 2. Al cui: a cui. 3. compo"e: comporre musica. 4- vecchi signori: i priori delle Arti, che formavano il Consiglio del gonfaloniere (Bacci scol.). 5. insino ..• ritornorno: dopo il sacco di Prato ritornarono in Firenze con l'aiuto degli Spagnoli, il 4 settembre 1512, il cardinal Giovanni e Giuliano duca di Nemours: erano fratelli di Piero, morto nel frattempo, come si è già detto. 6. carezze: gentilezze. 7. palazzo de' Medici: l'attuale palazzo Medici Riccardi. 8. fuori: in esilio. 9. le palle: erano le insegne dei Medici (e si è anche detto che, in origine, erano pillole di speziale). 10. rastiò: raschiò. 11. si commisse: si conficcò (si conficcarono, per la concordanza con quanto segue). 12. stietta: schietta. 13. croce: simbolo del Comune. 14. mansueta: concorda con arme. 15. ammanto: manto. (Cioè l'elezione di Giovanni al soglio pontificio: in questo augurio si rivelava la vena profetica del padre del Cellini.) 16. mori il 21 febbraio 1513. 17. Leone X fu eletto pontefice il 15 marzo 1513, a trentasette anni.

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quattro versi di profezia. Il papa mandò a dirgli che andasse là, che buon per lui. Non volse andare: anzi, in cambio di remunerazioni, gli fu tolto il suo luogo1 del Palazzo da Iacopo Salviati,z subito che lui fu fatto gonfalonieri. Questo fu causa che io mi missi all'orafo ;3 e parte imparavo tale arte, e parte sonavo molto contra mia voglia.

[v11.] Dicendomi queste parole,4 io lo pregavo che mi lasciassi disegnare tante ore del giorno e tutto il resto io mi metterei a sonare, solo per contentarlo. A questo mi diceva: - Addunche5 tu non hai piacere di sonare? - Al quali io dicevo che no, perché mi pareva arte troppa vile6 a quello che io avevo in animo. Il mio buon padre, disperato di tal cosa, mi misse a bottega col padre del cavalieri Bandinello,7 il quali si domandava8 Michelagnolo, orefice da Pinzi di Monte,9 ed era molto valente in tale arte: non aveva lume20 di nissuna casata, ma era figliuolo d'un carbonaio.11 Questo12 non è da biasimare il Bandinello, il quali à dato principio alla Casa13 sua, se da buona causa14 la fussi venuta. Quali la sia, non mi occorre dir nulla di lui. Stato che io fui là alquanti giorni, mio padre mi levò dal ditto Michelagnolo, come quello che non poteva vivere sanza vedermi di continuo. Cosi malcontento mi stetti a sonare insino alla età de' quindici anni. Se io volessi descrivere le gran cose che mi venne fatto insino a questa età, ed in gran pericoli della propria vita, farei maravigliare chi tal cosa leggessi; ma, per non essere tanto lungo e per avere da dire assai, le lascerò indietro. Giunto ali' età de' quindici anni, contro al volere di mio padre mi missi a bottega ali' orefice con uno che si chiamò Antonio di 1. luogo: posto (tenuto per trentasei anni). 2. Iacopo Salviati fu gonfaloniere per il gennaio e il febbraio del I s14. Era marito di Lucrezia, primogenita di Lorenzo il Magnifico. 3. all'orafo: a fare l'orafo. 4. queste parole: quelle riferite in alto e intercorse fra suo padre, il gonfaloniere Soderini e i priori. 5. Addunche: dunque. 6. troppa vile: troppo vile (per attrazione). 7. Bandinella: Baccio Bandinelli si chiamava in realtà Brandini e mutò nome per farsi credere dei nobili Bnndinelli di Siena. Era stato fatto cavaliere di Sant'Iacopo da Clemente VII. 8. si domandava: si chiamava. 9. orefice da Pinzi di Monte: veramente era di Gaiole in Chianti, non di Pizzidimonte (presso Prato), luogo in cui (avverte il Bocci) ebbe però qualche possedimento. Cfr. l'Introduzione del Trattato dell'Oreficeria (qui avanti, p. 973). 10. lume: splendore, gloria. I 1. d'un carbonaio: in realtà, d'un maniscalco. 12. Questo: per questo. 13. Casa: casata. 14. causa: origine.

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Sandro orafo,1 per soprannome Marcane orafo. Questo era un bonissimo praticone2 e molto uomo dabbene: altiero 3 e libero in ogni cosa sua. Mio padre non volse che lui mi dessi salario come si usa agli altri fattori, 4 acciò che, da poi che volontaria io pigliavo a fare tale arte, io mi potessi cavar la voglia di disegnare quanto mi piaceva. Ed io così facevo molto volentieri, e quel mio dabben maestro ne pigliava maraviglioso piacere. Aveva un suo unico figliuolo naturale, al quali lui molte volte gli comandava per risparmiar me. Fu tanta la gran voglia o si veramente inclinazione, e l'una e l'altra, che in pochi mesi io raggiunsi5 di quei buoni, anzi i migliori giovani dell'Arte, e cominciai a trarre frutto delle mie fatiche. Per questo non mancavo alcune volte di compiacere al mio buon padre, or di flauto or di cornetto sanando; e sempre gli facevo cadere le lacrime con gran sospiri ogni volta che lui mi sentiva; e bene spesso per pietà lo contentavo, mostrando che ancora io . . ne cavavo assai piacere. [vin.] In questo tempo, avendo il mio fratello carnale minore di me dua anni, 6 molto ardito e :fierissimo, qual divenne da poi de' gran soldati che avessi la scuola del maraviglioso signor Giovannino de' Medici,7 padre del duca Cosimo: questo fanciullo aveva quattordici anni in circa, e io dua più di lui. Era una domenica in su le ventidua ore in fra la porta a San Gallo e la porta a Pinti, e quivi si era disfidato8 con un garzone9 di venti anni in circa con le spade in mano: tanto valorosamente lo serrava che, avendolo malamente10 ferito, seguiva più oltre.11 Alla presenza era moltissime persone, in fra le quali v'era assai sua parenti uomini ;12 e, veduto la cosa andare per la mala via, messono mano a molte from1. Antonio di Sandro di Paolo Giamberti. «Fu matricolato all'arte dell'orafo il J agosto 1500 n (Bacci). 2. praticone: artista molto ricco di pratica (in un significato tutto particolare al Cellini - cfr. qui avanti, p. 972 -, e qui in senso buono). 3. altiero: altero (nel senso di «eccellente»). 4.fattori: ragazzi di bottega, apprendisti. (Da cui il moderno «fattorino», pur con diversità di significato.) 5. raggiunsi: uguagliai (nelPabilità del mestiere). 6. il mio .. . dua anni: Giovanfrancesco Cellini, nato nel 1502: era detto Cecchino del Piffero. (Il Cellini ne parla ancora più avanti; cfr. a pp. 515-6, 588 e 603-9.) 7. Giovatini110 de' Medici: il famoso Giovanni delle Bande Nere, nato da Giovanni di Pierfrancesco de' Medici e da Caterina Sforza, signora d'Imola e Forll. Sposò una figlia di Iacopo Salviati: suo figlio è Cosimo I, duca e, quindi, granduca di Toscana. 8. disfidato: sfidato. 9. garzone: giovane. 10. malamente: gravemente. II. seguiva più oltre: lo incalzava. 12. uomini: maschi.

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bole, e una di quelle colse nel capo del povero giovinetto mio fratello: subito cadde in terra, svenuto come morto. Io, che a caso mi ero trovato quivi e senza amici e senza arme, quanto io potevo sgridavo il mio1 fratello che si ritirassi, ché quello che gli aveva fatto bastava; intanto che il caso occorse che lui, a quel modo, cadde come morto. Io subito corsi e presi la sua spada, e dinanzi a lui mi missi e contra parecchi spade e molti sassi: mai mi scostai dal mio fratello, insino che dalla porta a San Gallo venne alquanti valorosi soldati e mi scamporno da quella gran furia, molto maravigliandosi che in tanta giovinezza fussi tanto gran valore. Cosi portai il mio fratello insino a casa come morto, e giunto a casa si risentl2 con gran fatica. Guarito, gli Otto,3 che di già avevano condennati li nostri avversari e confinatigli per anni, ancora noi confi.norno per se, mesi fuori delle dieci miglia. lo dissi al mio fratello: - Vienne meco. - E cosi ci partimmo dal povero padre e, in cambio di darci qualche somma di dinari perché non aveva, ci dette la sua benedizione. Io me n,andai a Siena a trovare un certo galante uomo4 che si domandava maestro Francesco Castoro; 5 e, perché un,altra volta io, essendomi fuggito da mio padre, me n'andai da questo uomo dabbene e stetti seco certi giorni insino che mio padre rimandò per me, pure lavorando dell'arte deWorefice, il ditto Francesco, giunto a lui, subito mi ricognobbe e mi misse in opera. Cosi missomi a lavorare, il ditto Francesco mi donò6 una casa per tanto quanto io stavo in Siena; e quivi ridussi il mio fratello e me, ed attesi a lavorare per molti mesi. Il mio fratello aveva principio di lettere latine, ma era tanto giovinetto che non aveva ancora gustato il sapore della virtù ma si andava svagando.

[IX.] In questo tempo il cardinal de' Medici,7 il qual fu poi papa Clemente, ci fece tornare a Firenze alli prieghi di mio sgridavo il mio: gridavo al mio. 2. si risenti: rinvenne. 3. gli Otto: cr Gli Otto erano di Guardia e Balia: qui stanno a indicare il Magistrato criminale che risiedeva nel Palazzo del Podestà» (Bacci). 4. galante uomo: galantuomo. 5. Francesco Castoro: è ricordato nei documenti come orefice a Siena. Ebbe un figlio di nome Bernardino, che fu anch,egli orafo e lavorò per la Zecca della città. 6. donl,: diede (naturalmente, in uso). 7. il cardi,ral de' Medici: era Giulio de' Medici, figlio naturale di Giu-liano, ucciso nella congiura dei Pazzi: fu arcivescovo di Firenze e, per Leone X, governatore della città. Ascese al papato, il 19 novembre 1523, col nome di Clemente VII. I.

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padre. Un certo discepolo di mio padre, mosso da propia cattività,1 disse al ditto cardinale che mi mandassi a Bologna a 'mparare a sonare bene da un maestro che v'era, il quali si domandava Antonio, veramente valente uomo in quella professione del sonare. Il cardinale disse a mio padre che, se lui mi mandava là, che mi faria lettere di favore e d'aiuto. Mio padre, che di tal cosa se ne moriva di2 voglia, mi mandò: onde io, volonteroso di vedere il mondo, volentieri andai. Giunto a Bologna, io mi missi a lavorare con uno che si chiamava maestro Ercole del Piffero, 3 e cominciai a guadagnare; e intanto andavo ogni giorno per la lezioni del sonare, ed in breve settimane feci molto gran frutto di questo maladetto sonare, ma molto maggior frutto feci dell'arte dell'orefice; perché, non avendo auto dal ditto cardinale nissun aiuto, mi missi in casa di uno miniatore bolognese che si chiamava Scipione Cavalletti :4 stava nella strada di Nostra Donna del Baraccan, e quivi attesi a disegnare ed a lavorare per un che si chiamava Graziadio giudeo con il quali io guadagnai assai bene. In capo di sei mesi me ne tornai a Fiorenze, dove quel Pierino piffero, già stato allievo di mio padre, l'ebbe molto per male; e io, per compiacere a mio padre, lo andavo a trovare a casa e sonavo di cornetto e di flauto insieme con un suo fratel carnale, che aveva nome Girolamo 5 ed era parecchi anni minore del ditto Piero ed era molto da bene e buon giovane, tutto il contrario del suo fratello. Un giorno in fra li altri venne mio padre alla casa di questo Piero per udirci sonare, e, pigliando grandissimo piacere di quel mio sonare, disse: - Io farò pure un maraviglioso sonatore contra la voglia di chi mi à voluto impedire. A questo rispose Piero, e disse il vero: - Molto più utile ed onore trarrà il vostro Benvenuto se lui attende all'arte dell'orafo che a questa pifferata.6 - Di queste parole mio padre ne prese tanto isdegno, veduto che ancora io avevo il medesimo openione7 di Piero, che con gran collora gli disse: - Io sapevo bene che tu eri tu quello che mi impedivi questo mio tanto desiderato fine e sei cattività: malignità. 2. di: dalla. 3. del Piffero: questo è evidentemente un soprannome (ol pari di quello dello stesso fratello del Cellini, Cecchino del Piffero). 4. Sdpione Cavalletti: figlio di Giovanni. Lavorò per San Petronio dal 1519 al 1523. 5. Girolamo del Piffero è ancora ricordato, nella Vita, in un passo che risulta cancellato dal contesto per volontà del Cellini. (Cfr. il citato testo critico del Bacci, p. 31.) 6. pijferata: cioè « arte del piffero». (MS: e piplierata; Bacci: «ma l' e, tra due virgole, sembra espunta».) 7. il medesimo open ione: la stessa opinione. ( Open ione è qui maschile come in altri scrittori del Tre e del Quattrocento.) I.

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BENVENUTO CELLINI

stato quello che m,ài fatto rin1uovere1 del mio luogo del Palazzo,2 pagandomi di quella grande ingratitudine che si usa per ricompenso de' gran benifizii. lo a te lo feci dare, e tu a me l'ài fatto tòrre; io a te insegnai sonare con tutte l'arte che tu sai, e tu impedisci il mio figliuolo che non facci la voglia mia; ma tieni a mente queste profetiche parole: E' non ci va, non dico anni o mesi, ma poche settimane, che per questa tua tanto disonesta ingratitudine tu profonderai. - A queste parole rispose Pierino, e disse: - Maestro Giovanni, la più parte degli uomini, quando gl'invecchiano, insieme con essa vecchiaia impazzano come avete fatto voi; e di questo non mi maraviglio, perché voi avete dato liberalissimamente3 via tutta la vostra roba, non considerato eh' e' vostri figliuoli ne avevano aver bisogno; dove io penso far tutto il contrario, di lasciar tanto a' mia :figliuoli che potranno sovvenire i vostri. - A questo mio padre rispose: - Nessuno albere4 cattivo mai fe' buon frutto; cosi, per il contrario e più, ti dico che tu sei cattivo ed i tua figliuoli saranno pazzi e poveri e verranno per la merzé5 a' mia virtuosi e ricchi figliuoli. - Cosi si parti di casa sua, brontolando l'uno a l'altro di pazze parole. Onde io, che presi la parte del mio buon padre, uscendo di quella casa con esso insieme gli dissi che volevo far vendette delle ingiurie che quel ribaldo li aveva fatto, - con questo: che voi mi lasciate attendere a l'arte del disegno. - Mio padre disse: - O caro figliuol mio, ancora io sono stato buono disegnatore: e per refrigerio di tal cosi maravigliose fatiche e per amor mio, che son tuo padre che t' ò ingenerato ed allevato e dato principio di tante onorate virtù, a il riposo di quelle non mi prometti tu qualche volta pigliar quel flauto e quel lascivissimo6 cornetto, e, con qualche tuo dilettevole piacere dilettandoti, sonare? - Io dissi che sì, e molto volentieri, per suo amore. Allora il buon padre disse che quelle cotai virtù sarebbon la maggior vendetta che delle ingiurie ricevute da' sua nimici io potessi fare. Da queste parole non arrivato il mese intero che quel detto Pierino, facendo fare una volta a una sua casa, che lui aveva nella Via dello Studio,7 essendo un giorno ne la sua camera terrena, sopra una volta che lui faceva fare, con molti compagni, venuto in pror. rimuovere: cacciare. 2. Palazzo: Palazzo della Signoria. 3. liberalissimamente: con gran profusione. 4. albere: albero. 5. per la merzé: per aver mercede (aiuto). 6. lascivissimo: dolcissimo. 7. La Via dello Studio esiste .ancor oggi a Firenze, presso Santa Maria del Fiore.

LA VITA • LIBRO PRIMO

posito ragionava del suo maestro, ch'era stato mio padre, e, replicando le parole che lui gli aveva detto del suo profondare, non sl tosto dette che la camera dove lui era, per esser mal gittata la volta o pur per vera virtù di Dio 1 che non paga il sabato, profondò; e di quei sassi della volta e mattoni, cascando insieme seco, gli fiaccorno tutte a due le gambe; e quelli ch'erano seco, restando in su li orlicci2 della volta, non si feceno alcun male ma ben restorno storditi e maravigliati, massime di quello che poco innanzi lui con ischerno aveva lor ditto. Saputo questo, mio padre, armato, lo andò a trovare, ed alla presenza del suo padre che si chiamava Niccolaio da Volterra, trombetto 3 della Signoria, disse: - O Piero, mio caro discepolo,4 assai mi incresce del tuo male; ma, se ti ricorda5 bene, egli è poco tempo che io te ne avverti'; ed altanto6 interverrà intra i figliuoli tua ed i mia quanto io ti dissi. - Poco tempo appresso, lo ingrato Piero di quella infirmità si mori. Lasciò la sua impudica moglie con un suo figliuolo, il' quale alquanti anni appresso venne a me p' elemosina8 in Roma. Io gnene diedi, si per esser mia natura il far delle elemosine, ed appresso con lacrime mi ricordai il felice istato che Pierino aveva, quando mio padre li disse tal parole, cioè che i figliuoli del ditto Pierino ancora andrebbono per la mercé ai figliuoli virtuosi sua. E di questo sia detto assai, e nessuno non si faccia mai beffe dei pronostichi di un uomo da bene avendolo ingiustamente ingiuriato, perché non è lui quel che parla, anzi è la voce de Iddio istessa.

[x.] Attendendo pure all'arte9 de l'orefice, e con essa aiutavo il mio buon padre. L'altro suo figliuolo e mio fratello chiamato Cecchino, come di sopra dissi, avendogli fatto dare principio di lettere latine, perché desiderava fare me maggiore, gran sonatore e musico, e lui minore, gran litterato legista,1° non potendo isforzare quel che la natura ci inclinava,11 qual fe' me applicato all'arte del disegno ed il mio fratello, quali era di bella proporzione12 e grazia, 1. per vera virtù di Dio: per miracolo divino. 2. orlicci: orli, margini. 3. trombetto: banditore. 4. discepolo: il manoscritto, per scorso di penna, dà disceplole. Bacci: «di.sceplole: fu corr. (Celi.?) solo l'e finale in o: forse di altro inchiostro n. 5. ti ricorda: ricordi. 6. altanto: altrettanto. 7. il: MS: ,a il. (Bacci: «,a non cass. ».) Correggiamo. 8. p' elemosina: per elemosina. 9. arte: professione. 1 o. legista: giW"ista. Il. quel ••. inclinava: l'inclinazione della natura. 12. bella p,oporzio11e: s'intende, di membra.

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BENVENUTO CELLINI

tutto inclinato a le arme e, per essere ancor lui molto giovinetto, partitosi da una prima elezione1 della scuola del maravigliosissimo signor Giovannino de' Medici; giunto a casa, dove io non era, per esser lui manco bene guarnito 2 di panni e trovando le sue e mie sorelle, che di nascoso da mio padre gli detteno cappa e saio3 mia belle e nuove (ché oltra a l'aiuto che io davo al mio padre ed alle mie buone ed oneste sorelle, delle avanzate• mie fatiche quelli onorati panni mi avevo fatti), trovatomi ingannato e toltomi i detti panni né ritrovando il fratello, ché torgnene volevo, dissi a mio padre perché e' mi lasciassi fare un si gran torto, veduto che cosi volentieri io mi affaticavo per aiutarlo. A questo mi rispose che io ero il suo figliuol buono e che quello aveva riguadagnato, qual perduto pensava avere, e che gli era di necessità,5 anzi precetto de Iddio istesso, che chi aveva del bene ne dessi a chi non aveva, e che per suo amore io sopportassi questa ingiuria: lddio m'accrescerebbe d'ogni bene. Io, come giovane sanza isperienza, risposi6 al povero afflitto padre; e, preso certo mio povero resto7 di panni e quattrini, me ne andai alla volta di una porta della città e, non sapendo qual porta fusse quella che m'inviasse a Roma, mi trovai a Lucca e da Lucca a Pisa. E giunto a Pisa ( questa era l'età di sedici anni in circa8), fermatomi presso al ponte di mezzo, dove e' dicono la pietra del Pesce,9 a una bottega d'un'oreficeria, guardando con attenzione quello che quel maestro faceva, il detto maestro mi domandò chi ero e che professione era la mia: al quale io dissi che lavoravo un poco di quella istessa arte che lui faceva. Questo uomo da bene mi disse che io entrassi nella bottega sua, e subito mi dette innanzi da lavorare e disse queste parole: - Il tuo buon aspetto mi fa credere che tu sia da bene e buono. - Cosi mi dette innanzi oro, argento e gioie; e, la prima giornata fornita,1° la sera mi menò alla casa sua, dove lui viveva onoratamente con una sua bella moglie e figliuoli. Io, ricordatomi del dolore che poteva

I. elezione: lezione (idiotismo). 2. guarnito: fornito. 3. saio: vedi la nota 2 a p. 378. 4. avanzate: passate. 5. era di necessità: era inevitabile. 6. risposi: risposi con arroganza (come è ancor vivo oggi nel linguaggio popolare e nei dialetti). 7. certo ... resto: quel poco che mi restava. 8. in circa: circa. Il Cellini, come risulta da documenti, stette in Pisa tutto il I S 17. 9. la pietra del Pesce: 11 I lastroni su' quali si vendeva il pesce portato per Arno» (Bacci). Il luogo corrisponde press'a poco all'attuale Piazza del Mercato. •I o.fornita: finita.

LA VITA · LIBRO PRIMO

aver di me il mio buon padre, gli scrissi come io ero in casa di un uomo molto buono e da bene, il quale si domandava maestro Ulivieri della Chiostra,1 e con esso lavoravo di molte opere belle e grande; e che stessi di buona voglia, ché io attendevo a imparare e che io speravo con esse virtù presto riportarne a lui utile ed onore. Il mio buon padre subito alla lettera rispose dicendo cosi: - Figliuol mio, l'amor ch'io ti porto è tanto che, se non fussi il grande onore quale2 io sopra ogni cosa osservo, subito mi sarei messo a venire per te, 3 perché certo mi pare essere senza il lume degli occhi il non ti vedere ogni di, come far solevo. Io attenderò a finire di condurre a virtuoso onore la casa mia, e tu attendi a imparar delle virtù; e solo voglio che tu ricordi di queste quattro semplice parole, e queste osserva, e mai non te le dimenticare: In nella casa che t11 t1Uoi stare,

vivi onesto e non vi rubare.4

[xI.] Capitò questa lettera alle mane5 di quel mio maestro Olivieri, e di nascoso da me la lesse; di poi mi si scoperse averla letta, e mi disse queste parole: - Già, Benvenuto mio, non mi ingannò il tuo buon aspetto, quanto mi afferma una lettera6 che m'è venuta alle mane di tuo padre; quale7 è forza che lui sia uomo molto buono e da bene; così fa' conto d'essere nella casa tua e come con tuo padre. - Standomi in Pisa andai a vedere il Camposanto, e quivi trovai molte belle anticaglie, cioè cassoni di marmo ;8 ed in molti altri luoghi di Pisa viddi molte altre cose antiche, intorno alle quali tutti e' giorni che mi avanzavano del mio lavoro della bottega assiduamente mi affaticavo: e, perché il mio maestro con grande amore veniva a vedermi alla mia cameruccia che lui mi aveva datò, veduto che io spendevo tutte l' ore mie virtuosamente9 mi aveva posto un amore come se padre mi fusse. Feci un gran frutto in un anno che io vi stetti, e lavorai d'oro e di argento cose importante e 1. Ulivieri della Chiostro: questo artigiano, fratello d'un Tommaso parimenti orefice, risulta da alcuni documenti come fornitore della sagrestia del Duomo di Pisa e anche come artigiano di fiducia per vari lavori eseguiti per essa di anno in anno. 2. quale: che. 3. per te: da te. 4. Il testo nel manoscritto è reso su una linea sola. 5. mane: mani. 6. Da unire col seguente di tuo padre. 7. quale: il quale (cfr. già alla nota 2). 8. cassoni di manna: si trovano in parte nel Camposanto e in parte nel Museo attiguo e sono superstiti alle distruzioni belliche del 1944. 9. virtuosamente: cioè dedicandole al lavoro e all'indefesso studio del mestiere.

BENVENUTO CELLINI

belle, le quale mi detton grandissimo animo a 'ndar più innanzi.1 lVlio padre in questo mezzo~ mi scriveva molto pietosamente3 che io dovessi tornare a lui, e per ogni lettera mi ricordava che io non dovessi perdere4 quel sonare che lui con tanta fatica mi aveva insegnato. A questo, subito mi usciva la voglia di non mai tornare dove lui, tanto aveva in odio questo maladetto sanare; e mi parve veramente istare in paradiso un anno intero che io stetti in Pisa, dove io non sonai mai. Alla fine de l'anno, Ulivieri mio maestro gli venne occasione di venire a Firenze a vendere certe spazzature5 d'oro ed argento che lui aveva: e, perché in quella pessima aria m'era saltato addosso un poco di febbre, con essa e col maestro mi ritornai a Firenze dove mio padre fece grandissime carezze a quel mio maestro, amorevolmente pregandolo, di nascosto da me, che fussi contento non mi rimenare a Pisa. Restatomi ammalato, istetti circa dua mesi, e mio padre con grande amorevolezza mi fece medicare e guarire, continuamente dicendomi che gli pareva mill'anni che io fussi guarito per sentirmi un poco sonare. Ed in mentre che 'gli mi ragionava di questo sanare, tenendomi le dita al polso, perché aveva qualche cognizione della medicina e delle lettere latine, sentiva in esso polso, subito ch'egli moveva a ragionar del sanare, tanta grande alterazione che molte volte isbigottito e con lacrime si partiva da me; in modo che, avvedutomi di questo suo gran dispiacere, dissi a una di quelle mia sorelle che mi portassero un flauto; ché, se bene io continuo6 avevo la febbre, per esser lo strumento di pochissima fatica non mi dava alterazione il sonare con tanta bella disposizione di mano e di lingua che, giugnendomi7 mio padre all'improvvisto, mi benedisse mille volte dicendomi che in quel tempo che io ero stato fuor di lui8 gli pareva che io avessi fatto un grande acquistare ;9 e mi pregò che io tirassi innanzi e non dovessi perdere una cosi bella virtù.

a 'ndar pitì innanzi: cioè a far meglio. 2. in questo mezzo: nel frattempo. 3, pietosamente: cioè scongiurandomi. 4. perdere: disimparare. 5. spazzature: «Limatura o trucioletti di metalli preziosi, di corallo, d'avorio e sim., che si raccolgono accuratamente nelle botteghe di tali arti» (Tommaseo-Bellini). 6. continuo: continuamente (latinismo d'uso popolare, ancorché meno risulti, in confronto, ad esempio, di massime da ma~-ime). 7. giugnendomi: giungendo da me. 8. fuor di lui: lontano da lui. 9. acquistare: progredire. 1.

LA VITA • LIBRO PRIMO

[xn.] Guarito che io fui, ritornai al mio Marcone, uomo da bene, orafo, il quale mi dava da guadagnare: con il quale guadagno aiutavo mio padre e la casa mia. In questo tempo venne a Firenze un iscultore che si domandava Piero Torrigiani,1 il qual veniva di Inghilterra dove egli era stato di molti anni e, perché egli era molto amico di quel mio maestro, ogni dl veniva da lui; e, veduto mia disegni e mia lavori, disse: - Io son venuto a Firenze per levare3 più giovani che io posso; ché, avendo a fare una grande opera al mio re, 3 voglio per aiuto de' mia Fiorentini; e, perché il tuo modo di lavorare ed i tua disegni son più da scultore che da orefice, avendo da fare grande opere di bronzo, in un medesimo tempo io ti farò valente e ricco. - Era questo uomo di bellissima forma, aldacissimo ;4 aveva più aria di gran soldato che di scultore, massimo5 a' sua mirabili gesti ed alla sua sonora voce, con un aggrottar di ciglia atto a spaventar ogni uomo da qualcosa ;6 ed ogni giorno ragionava delle sue bravurie7 con quelle bestie8 di quelli Inghilesi. In questo proposito cadde in sul ragionar di Michelagnolo Buonarroti, 9 che ne fu10 causa un disegno che io avevo fatto, ritratto da un cartoneu del divinissimo Michelagnolo. Questo cartone fu la prima bella opera che Michelagnolo mostrò delle maravigliose sue virtù, e lo fece a gara cor12 un altro che lo faceva, con Lionardo da Vinci, che avevano a servire per la sala del Consiglio del palazzo della Signoria. Rappresentavano quando Pisa fu presa da' FioPiero Torrigiani: questo artista (1472-1522) era a Firenze nel 1519. Egli era di natura violenta, anzi tracotante, come racconta il Vasari nelle Vite. Lavorò specialmente in Inghilterra e in Spagna, dove mori nel 1522. 2. levare: cioè assumere con patti di lavoro. 3. re: d'Inghilterra. Il Torrigiani lo chiama mio, perché in quel momento lavorava per lui. 4. aldacissimo: audacissimo. s. massimo: massimamente (MS: maximo, latinismo; più frequente maxime). 6. uomo da qualcosa: valentuomo. 7. bravurie: bravure. 8. bestie: indubbiamente nel senso che non erano ritenuti intenditori d'arte quanto l'Italiano vantatore con cui avevano a che fare. 9. Michelagnolo Buona"oti: il Cellini lo ricorda con grandi lodi in altri luoghi della Vita e nei suoi Trattati e discorsi. 10. che nefu: di cui fu. I 1. iin cartone ecc.: è il disegno del 1504-1505 per dipingere una parete della Sala del Consiglio: il cartoneal quale il pittore lavorò in una stanza dell'ospedale di Sant'Onofrio - rappresentava un episodio non della guerra di Pisa, ma della battaglia di Cascina (1364), e (sostiene il Cellini) venne distrutto da Baccio Bandinelli nel 1512. È conosciuto solo da copie e disegni derivati. Il gonfaloniere Soderini aveva dato incarico anche a Leonardo di fare un cartone per la stessa incombenza: -esso concerneva un episodio della battaglia d 'Anghiari tra Fiorentjni e Milanesi (1440). Ma anche questo celebre cartone andò distrutto: se ne ha conoscenza solo da copie. I 2. cor: con. 1.

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rentini; ed il mirabil Lionardo da Vinci aveva preso per elezione1 di mostrare una battaglia di cavagli2. con certa presura3 di bandiere, tanto divinamente fatti quanto imaginar si possa. Michelagnolo Buonarroti in nel suo dimostrava una quantità di fanterie4 che per essere di state s'erano missi a bagnare in Arno; ed in questo istante dimostra che e' si dia allarme, e quelle fanterie ignude corrono all'arme e con tanti bei gesti che mai né dclii antichi né d'altri moderni non si vidde opera che arrivassi a cosi alto segno; e, sl come io ho detto, quello del gran Lionardo era bellissimo e mirabile. Stetteno questi dua cartoni, uno in nel palazzo de' Medici ed uno alla sala del papa.5 In mentre che gli stetteno in piè, furno la scuola del mondo. Se bene il divino Michelagnolo fece la gran cappella di papa lulio6 da poi, non arrivò mai a questo segno alla metà: la sua virtù non aggiunse mai da poi alla forza di quei primi studii.7

[xu1.] Ora torniamo a Piero Torrigiani, che con quel mio disegno in mano disse così: - Questo Buonarruoti8 e io andavamo a 'mparare da fanciulletti in nella chiesa del Carmine dalla cappella di Masaccio :9 e, perché il Buonarruoti10 aveva per usanza di uccellare11 tutti quelli che disegnavano, un giorno in fra gli altri dandomi noia il detto, mi venne assai più stizza che 'l solito, e stretto la mana ·gli detti sl grande il pugno in sul naso che io mi senti' fiaccare sotto il pugno quell'osso e tenerume del naso, come se fusse stato un cialdone: e cosi segnato da me ne resterà insin che vive.1 2. - Queste parole generorono in me tanto odio, perché vedevo continuamente i fatti del divino Michelagnolo, che non tanto ch'a me venissi voglia di a~darmene seco in Inghilterra13 ma non potevo patire di vederlo. 1. preso per elezione: scelto. 2. cavagli: cavalieri (armati pesantemente). 3. presura: cattura. 4.fanterie: fanti. 5. sala del papa: in Santa Maria Novella. 6. la gran cappella di papa lulio: la Cappella Sistina in Vaticano. 7. studii: applicazioni, lavori (anche nel senso di «abbozzi»). 8. Buonarruoti: MS: Buonaaruoti. 9. cappella di Masaccio: è la famosa Cappella Brancacci, ancor oggi tanto frequentata per gli affreschi di Masaccio. 10. Buonarruoti: MS: Bllonaaroti. 1 I. uccellare: beffare. 12. ungion10 •.• vive: il Vasari, raccontando il fatto nella Vita di Pietro Torrigiani, esclude che vi sia stata provocazione da parte di Michelangelo. Il Condivi, nella Vita di Michelangelo Buonarroti, dice che il Torrigiani • uomo bestiale e superbo» venne «sbandito per questo di Firenze e fece mala morte». I 3. Inghilterra: MS: ichilterra. (Per altro, Bacci: «L'i d'ichilterra è molto addossato al e: forse scritto dopo ».)

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Attesi continuamente in Firenze a imparare sotto la bella maniera1 di Michelagnolo, e da quella mai mi sono ispiccato.2 In questo tempo presi pratica ed amicizia istrettissima con uno gentil giovanetto di mia età, il quale ancora lui stava allo orefice. Aveva nome Francesco, figliuolo di Filippo di fra Filippo3 eccellentissimo pittore. Nel praticare insieme generò in noi un tanto amore che mai né di né notte stavamo l'uno senza l'atro4 e perché ancora la casa sua era piena di quelli belli studii5 che aveva fatto il suo valente padre, i quali erano parecchi libri disegnati di sua mano, ritratti dalle belle anticaglie6 di Roma; la qual cosa, vedendogli, mi innamorarono assai e dua anni in circa praticammo7 insieme. In questo tempo io feci una opera di ariento8 di basso rilievo, grande quanta è una mana di un fanciullo piccolo. Questa opera serviva per un serrame per una cintura da uomo, che cosi grandi allora si usavano. Era intagliato in esso un gruppo di fogliame, fatto all'antica, con molti puttini ed altre bellissime maschere. Questa tale opera io la feci in bottega di uno chiamato Francesco Salimbene.9 Vedendosi questa tale opera per l'Arte degli orefici, mi fu dato vanto del meglio giovane10 di quella Arte. E, perché un certo Giovambattista chiamato il Tasso,11 intagliatore di legname, giovane di mia età appunto, mi cominciò a dire che, se io volevo andare a Roma, volentieri insieme ne verrebbe meco; questo ragionamento che noi avemmo insieme fu di poi il desinare appunto, e per essere per le medesime cause del sonare adiratomi con mio padre, dissi al Tasso: - Tu sei persona da far delle parole e non de' fatti. Il quale Tasso mi disse: - Ancora io mi sono adirato con mia madre e, se io avessi tanti quattrini che mi conducessino a Roma, io non tornerei indrieto a serrare quel poco della botteguccia che io tengo. - A queste parole io aggiunsi che, se per quello lui 1. maniera: stile, scuola. 2. ispiccato: allontanato. 3. Fra11cesco ••• FiUppo: Francesco, figlio di Filippino Lippi. Risulta da documenti che Giovan Francesco - vero nome del giovane - era nato nel 1501. 4. atro: cioè altro. 5. studii: abbozzi, cartoni e simili. 6. anticaglie: antichità. 7. praticammo: facemmo pratica d'arte. 8. una opera di oriento: un lavoro d'argento. 9. Francesco Salimbene: era figlio d'Antonio, matricolato all'Arte della Seta nel 1507. 10. del meglio giovane: di esser il miglior apprendista. 11. Giovambattista ••. il Tasso: intagliatore in legno e figlio di Marco del Tasso. « Fu anche architetto e fece il disegno della bella Loggia di Mercato Nuovo, 1547- 1 s5 I 11 (Ba cci). La sua attività fu molteplice. Egli fu dei sette artisti interpellati da Benedetto Varchi in merito alla questione della precedenza fra la pittura e la scultura.

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restava, io mi trovavo accanto 1 tanti quattrini che bastavano a portarci a Roma tutti a dua. Cosi ragionando insieme, mentre andavamo, ci trovammo alla porta a San Piero Gattolini2 disavvedutamente. Al quale io dissi: - Tasso mio, questa porta che né tu né io avveduti ce ne siamo, ora, da poi che io son qui, mi pare aver fatto la metà del cammino. - Così d'accordo lui ed io dicevamo, mentre che seguivamo il viaggio: - Oh che dirà i nostri vecchi stasera? - Cosi dicendo, facemmo patti insieme di non gli3 ricordar più insino a tanto che noi fussimo giunti a Roma. Cosi ci lega1nmo i grembiuli4 indrieto e quasi alla mutola5 ce ne andammo insino a Siena. Giunti che fummo a Siena, il Tasso disse che s'era fatto male ai piedi, che non voleva venire più innanzi e mi richiese gli prestassi danari per tornarsene. Al quale io dissi: - A me non ne resterebbe per andare innanzi; però tu ci dovevi pensare a muoverti di Firenze; e, se per causa de' piedi tu resti di non venire, troveremo un cavallo di ritorno6 per Roma, ed allora non arai scusa di non venire. - Così preso il cavallo, veduto che lui non mi rispondeva, in verso la porta di Roma presi il cammino. Lui, vedutomi risoluto, non restando di brontolare, il meglio che poteva, zoppicando, drieto assai ben discosto e tardo veniva. Giunto che io fui alla porta, piatoso del mio compagnino,7 lo aspettai e lo missi in groppa, dicendogli: - Che domin8 direbbono e' nostri amici di noi, che partitici per andare a Roma, non ci fusse bastato la vista9 di passare Siena? - Allora il buon Tasso disse che io dicevo il vero e, per esser persona lieta, cominciò a ridere ed a cantare: e, cosi sempre cantando e ridendo, ci conducemmo10 a Roma. Questa era appunto l'età mia di diciannove anni insieme col millesimo.n Giunti che noi fummo in Roma, subito mi messi a bottega con uno maestro che si domandava Firenzola.12 Questo aveva nome Gio-

I. accanto: addosso. 2. porta a San Piero Gattolini: cosi chiamata dal nome d'una chiesa vicina, poi trasformata in quella di Ser Umido. È l'odierna Porta Romana. 3. gli: li. 4. grembiuli da lavoranti. 5. alla mutola: senza parlare. 6. un cavallo di ritorno: cioè un cavallo da posta di ritorno (e, quindi, di minor spesa). 7. compagnino: compagno. 8. Che domin: quasi « Che diavolo i>. 9. bastato la vista: bastato l'animo. 10. ci conducemmo: giungemmo. I I. insieme col millesimo: in accordo con gli anni del nuovo secolo (1519). 12. Firenzola: nel 1521, a Roma, c'era una bottega tenuta da costui insieme con Giovanni Caravaggio e con un Giannotti che sarà più innanzi ricordato (Bacci). Nel 1528, era console degli orefici in Roma (D'Ancona). Di cognome si chiamava de Giorgis.

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vanni ed era da Firenzuola di Lombardia; 1 ed era valentissimo uomo di lavorare di vasellami e cose grosse.2· Avendogli mostro 3 un poco di quel modello di quel serrame che io avevo fatto in Firenze col Salimbene, gli piacque maravigliosamente, e disse queste parole, voltasi a uno garzone che lui teneva (il quale era fiorentino e si domandava Giannotto Giannotti4 ed era stato seco parecchi anni); disse cosi: - Questo è di quelli Fiorentini che sanno, e tu sei di quelli che non sanno. - Allora io, riconosciuto quel Giannotto, gli volsi fare motto perché, innanzi che lui andassi a Roma, spesso andavamo a disegnare insieme ed eravamo stati molto domestici5 compagnuzzi. Prese tanto dispiacere di quelle parole che gli aveva detto il suo maestro che egli disse non mi cognoscere né sapere chi io mi fussi; onde io, sdegnato a cotal parole, gli dissi: - O Giannotto, già mio amico domestico che ci siamo trovati in tali e tali luoghi e a disegnare ed a mangiare e bere e dormire in villa tua, io non mi curo che tu faccia testimonianza di me a questo uomo da bene tuo maestro, perché io spero che le mane mia sieno tali che sanza il tuo aiuto diranno quale io sia.

[xIV.J Finito queste parole, il Firenzuola, che era persona arditissimo e bravo, si volse al detto Giannotto e li disse: - O vile furfante, non ti vergogni tu a usare questi tai termini e modi a uno che t'è stato si domestico compagno? - E, nel medesimo ardire voltasi a me, disse: - Entra in bottega e fa' come tu ài detto: che le tue mane dicano quel che tu sei. - E mi dette a fare un bellissimo lavoro di argento per un cardinale. Questo fu un cassonetto6 ritratto da quello di porfido che è dinanzi alla porta della Retonda.7 Oltra quello che io ritrassi, di mio arricchi' 8 con tante belle mascherette che il maestro mio s'andava vantando e mostrandolo per l'Arte che di bottega sua usciva cosi ben fatta opera. Questo era di grandezza di un mezzo braccio in circa; ed era accomodato che Firenzuola di Lombardia: oggi Fiorenzuola d'Arda presso Piacenza. eose grosse: sono le «grosserie» di cui a p. 532 e alla nota 1. 3. mostro: mostrato. 4. Giannotto Giannotti: era fratello dello storico e letterato Donato Giannotti, che fu amico di Michelangelo. 5. domestici: intimi. 6. un casso11etto: si tratta d'una tazza di porfido che «trovasi oggi al Laterano sul sepolcro di Clemente XII D (D'Ancona). 7. Retonda: « Il Pantheon di Agrippa; fu adattato a chiesa da Bonifacio IV, col nome di S. Maria ad Martires, o, come oggi più comunemente si dice, della Rotonda D (Bacci). 8. di mio a"icchi' : con aggiunte di sua invenzione. I. 2.

BENVENUTO CELLINI

serviva1 per una saliera da tenere in tavola. Questo fu il primo guadagno che io gustai2 in Roma ed una parte d'esso guadagno ne mandai a soccorrere il mio buon padre, l'altra parte serbai per la vita mia; 3 e con esso me ne andavo studiando intorno alle cose antiche, insino a tanto che e' denari mi mancorno, che mi convenne tornare a bottega a lavorare. Quel Battista del Tasso mio compagno non istette troppo in Roma, che lui se ne tornò a Firenze. Ripreso nuove opere, mi venne voglia, finite che io le ebbi, di cambiare maestro per esser sobbillato4 da un certo Milanese il quale si domandava maestro Pagolo Arsago. 5 Quel mio Firenzuola primo6 ebbe a fare gran quistione con questo Arsago, dicendogli in mia presenza alcune parole ingiuriose, onde che io ripresi le parole in defensione del nuovo maestro. Dissi ch'io ero nato libero e cosi libero mi volevo vivere, e che di lui non si poteva dolere; manco di me, restando aver da lui certi pochi scudi d'accordo; e come lavorante libero volevo andare dove mi piaceva, conosciuto non far torto a persona. Anche quel mio nuovo maestro usò parecchi parole, dicendo che non mi aveva chiamato e che io gli farei piacere a ritornare col Firenzuola. A questo io aggiunsi che, non cognoscendo in modo alcuno di farli torto ed avendo finite l'opere mia cominciate, volevo essere mio e non di altri, e chi mi voleva mi chiedessi a me. A questo disse il Firenzuola: - Io non ti voglio più chiedere a te, e tu non capitare innanzi per nulla più a me. Io gli ricordai e' mia danari. Lui sbeffandomi, a il quale io dissi che, cosi bene come io adoperavo e' ferri per quelle tale opere che lui aveva visto, non manco bene adoperrei la spada per recuperazione delle fatiche mie. A queste parole a sorta7 si fermò un certo vecchione, il quale si domandava maestro Antonio da San Marino.8 Questo era il primo più eccellente orefice di Roma, ed era stato maestro di questo Firenzuola. Sentito le mia ragione, quale io dicevo di sorte che le si potevano benissimo intendere, subito preso la mia protezione disse al Firenzuola che mi pagassi. Le dispute furno grande, perché era questo Firenzuola maraviglioso manegaccomodato che serviva: fatto per servire. 2. gustai: godetti. 3. per la vita mia: per le mie necessità. 4. sobbillato: indotto. 5. Pago/o Arsago: Paolo d, Arzago. Da documenti appare già morto nel 1563: risulta come il 25 giugno I s16 intervenisse, in Roma, alla «congrega » della Università degli orefici. 6. primo: anzitutto (latinismo). 7. a sorta: per caso. 8. Antonio da San Marino: orefice. Fu uno degli eredi di Raffaello. Ebbe vari incarici pubblici presso la Corte romana. 1.

LA VITA • LIBRO PRIMO

giator di arme assai più che ne l'arte dell'orefice; pur è la ragione che volse il suo luogo, e io con lo istesso valore lo aiutai in modo che io fui pagato; e con ispazio di tempo il ditto Firenzuola e io fummo amici, e gli battezzai un figliuolo, 1 richiesto da lui.

[xv.] Seguitando di lavorare con questo maestro Pagolo Arsago, guadagnai assai, sempre mandando la maggior parte al mio buon padre. In capo di dua anni, alle preghiere del buon padre, me ne tornai a Firenze, e mi messi di nuovo a lavorare con Francesco Salimbene, con il quale molto bene guadagnavo e molto mi affaticavo a 'mparare. Ripreso la pratica con quel Francesco di Filippo,2 con tutto che io fussi molto dedito a qualche piacere (causa di quel maladetto sonare, mai lasciavo certe ore del giorno o della notte, quale io davo alli studii), feci in questo tempo un chiavacuore3 di argento, il quale era in quei tempi chiamato così. Questo si era una cintura di tre dita larga che alle spose novelle s'usava di fare, ed era fatta di mezzo rilievo con qualche figuretta ancora tonda in fra esse. Fecesi a uno che si domandava Raffaello Lapaccini.4 Con tutto che io ne fussi malissimo pagato, fu tanto l'onore che io ne ritrassi che valse molto più che 'l premio5 che giustamente trar ne potevo. Avendo in questo tempo lavorato con molte diverse persone in Firenze (dove io avevo cognusciuto in fra gli orefici alcuni uomini da bene, come fu quel Marcone mio primo maestro), altri che avevano nome di molto buoni uomini, essendo sobbissato6 da loro in nelle mie opere, quanto e' potettano7 mi riburno8 grossamente. 9 Veduto questo, mi spiccai da loro, ed in concetto di tristi e ladri gli tenevo. Un orafo in fra gli altri, chiamato Giovambattista Sogliani, piacevolmente mi accomodò10 di una parte della sua bottega, quale era in sul canto di Mercato Nuovo, accanto a il banco che era de' Landi. Quivi io feci molte belle operette e guadagnai assai: potevo molto bene aiutare la casa mia. Destossi la invidia da quelli cattivi maestri che prima io avevo auti, i quali si gli battezzai un figliuolo: cioè gli feci da padrino. 2. Francesco di Filippo: il figlio di Filippino Lippi, già menzionato. 3. chiavacuore: «fermaglio d'oro o d'argento che anticamente usavano di portare le donne in Firenze» (Tommaseo-Bellini). 4. Rajjaello Lapaccini: è ricordata la famiglia di lui da vari storici del tempo. 5. premio: compenso. 6. sobbissato: rovinato (per la grande loro avversione e invidia). 7. potettano: poterono. 8. riburno: cioè « ruborno » (rubarono). 9. grossamente: per molti denari. 10. accomodò: favori. 1.

BENVENUTO CELLINI

chiamavano Salvadore e Michele Guasconti :1 erano ne l'Arte degli orefici tre grosse botteghe di costoro, e facevano di molte faccende: in modo che, veduto che mi offendevano, con alcun uomo dabbene io mi dolsi, dicendo che ben doveva lor bastare le ruberie che loro mi avevano usate sotto il mantello della lor falsa dimostrata bontà. Tornando loro a orecchi,2 si vantorno di farmi pentire assai di tal parole; onde io, non conoscendo di che colore la paura si f usse, nulla o poco gli stimava.

[xvi.] Un giorno occorse3 che, essendo appoggiato alla bottega di uno di questi, chiamato da lui, e parte mi riprendeva4 e parte mi bravava.5 Al cui io risposi che, se loro avessin fatto il dovere a me, io arei detto di loro quel che si dice degli uomini buoni e da bene; cosi, avendo fatto il contrario, dolessinsi di loro e non di me. In mentre che io stavo ragionando, un di loro, che si domanda Gherardo Guasconti, lor cugino, ordinato forse da costoro insieme, 6 appostò7 che passassi una soma.8 Questa fu una soma di mattoni. Quando detta soma fu al rincontro mio,9 questo Gherardo me la pinse talmente addosso che la mi fece gran male. Voltomi subito e veduto che lui se ne rise, gli menai si grande il pugno in una tempia che svenuto cadde come morto; di poi, voltomi ai sua cugini, dissi: - Cosi si trattano i ladri poltroni10 vostri pari. - E, volendo lor fare alcuna dimostrazione perché assai erano, io, che mi trovavo infiammato, messi mano a un piccol coltello che io avevo, dicendo cosi: - Chi di voi esca della sua bottega, l'altro corra per il confessoro, perché il medico non ci arà che fare. Furno le parole a loro di tanto spavento che nessuno si mosse a l'aiuto del cugino. Subito che partito io mi fui, corsono i padri ed i figliuoli agli Otto, e quivi dissono che io con armata mano gli avevo assaliti in su le botteghe loro, cosa che mai più in Firenze 1. Grandi lodi di Salvatore Guasconti come orefice fa il Cellini stesso nell'Introduzione del Trattato dell'Oreficeria; cfr. qui avanti, p. 97 s; Michele Guasconti era suo cugino, e anch'egli fu matricolato in quell'Arte. Quanto alla rissa di cui subito dopo, avvenuta il 13 novembre 1523, il Bacci fa notare varie differenze tra i documenti che rimangono e il racconto del Cellini. 2. Tornando loro a orecchi: venendo tale frase alle loro orecchie. 3. occorse: avvenne. 4. riprendeva: pungeva. 5. bravava: provocava. 6. ordinato • •• imieme: forse d'accordo con costoro. 7. appostò: attese ad un dato posto. 8. soma: carico. 9. al rincontro mio: a rincontro di me. 10. poltroni: malfattori.

LA VITA · LIBRO PRIMO

s'era usata tale. E' signori Otto mi fecion chiamare; onde io comparsi; e, dandomi una grande riprensione1 e sgridato sl per vedermi in cappa2 e quelli in mantello e cappuccio3 alla civile,4 ancora perché li avversari mia erano stati a parlare a casa a quei signori a tutti in disparte e io, come non pratico, a nessuno di quelli signori non avevo parlato fidandomi della mia gran ragione che io tenevo, e' dissi che a quella grande offesa ed ingiuria che Gherardo mi aveva fatta, mosso da collora grandissima e non gli dato altro che una ceffata, 5 non mi pareva dovere6 di meritare tanta gagliarda riprensione. Appena che Prinzivalle della Stufa,' il quale era degli Otto, mi lasciassi finir di dire ceffata che disse: - Un pugno e non ceffata gli desti. - Sonato il campanuzzo e mandatici tutti fuora, in mia difesa disse Prinzivalle alli compagni: - Considerate, signori, la semplicità8 di questo povero giovane, il quale si accusa di aver dato ceffata, pensando che sia manco errore che dare un pugno; perché d'una ceffata in Mercato Nuovo la pena si è venticinque scudi e d'un pugno poco o nonnulla. Questo è giovane molto virtuoso e mantiene la povera casa sua con le fatiche sua molto abbundante; e volessi Iddio che la città nostra di questa sorta ne avessi abbundanzia, sì come la n'à mancamento. [xvn.] Era in fra di loro9 alcuni arronzinati10 cappuccetti, che mossi dalle preghiere e male informazione delli mia avversari, per esser di quella fazione di fra Girolamo,1 1 mi arebbon voluto metter prigione e condennarmi a misura di carboni :12 alla qual cosa il buon Prinzivalle a tutto 13 rimediò. Così mi fece una piccola conden1. ripre11sione: sgridata. 2. Chi portava la cappa alla spagnola era di solito considerato malfattore e di vita dissoluta. 3. cappuccio: ad uso di copricapo faceva parte dell'abito stesso (come oggi per i frati di alcuni Ordini). 4. alla civile: da civile (non da bravaccio}. 5. ceffata: ceffone. 6. «Dovere ha qui significato di giustizia» (D'Ancona). 7. Prinzivalle della Stufa: fu un partigiano dei Medici. Nel I s10 aveva promosso una congiura contro il gonfaloniere Soderini. Ebbe varie cariche pubbliche. Mori nel 1561. 8. semplicità: ingenuità. 9. i11 fra di loro: fra gli Otto. I o. a"onzinati: attorcigliati. Questo modo di adattarsi il cappuccio «par che fosse distintivo del partito democratico» (BRUNONB BIANCHI, in La vita di B. CELLINI, Firenze, Le Monnicr, 1852). u. di fra Girolamo: del Savonarola. Si tratta quindi di Piagnoni, che qui - nel rendere giustizia - facevano astiosamente i moralisti. 12. a misura di carboni: senza risparmio, in sovrabbondanza, «perché misurando il carbone suole aggiungersi il colmo alla misura» (Tommaseo-Bellini). 13. a tutto: in tutto.

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BENVENUTO CELLINI

nagione di quattro1 staia di farina, le quali si dovessino donare per elemosina al monasterio delle Murate.2 Subito richiamatoci drento, mi comandò che io non parlassi parola sotto pena della disgrazia loro3 e che io ubbidissi di quello che condennato io ero. Cosi dandomi una gagliarda grida ci mandorno al cancelliere: io che bor.. bottando sempre dicevo: - Ceffata fu e non pugno - in modo che ridendo gli Otto si rimasono,4 il cancelliere ci comandò da parte del Magistrato che noi ci dessimo sicurtà5 l'un l'altro, e me solo condennorno in quelle quattro staia della farina. A me, che parve essere assassinato, non tanto ch'io6 mandai per un mio cugino (il quale si domandava maestro Anniballe cerusico, padre di messer Librodoro Librodori),7 volendo io che lui per me promettessi.8 Il ditto non volse venire: per la qual cosa io sdegnato, soffiando diventai come un aspido9 e feci disperato iudizio. 10 Qui si cognosce quanto le stelle non tanto ci inclinano ma ci sforzano. Conosciuto quanto grande obbrigo 11 questo Anniballe aveva alla Casa mia, m'accrebbe tanta collora che, tirato 12 tutto al male ed anche per natura alquanto collerico, mi stetti a 'spettare che il detto uffizio13 degli Otto fussi ito a desinare: e restato quivi solo, veduto che nes .. suno della famiglia degli Otto più a me non guardava, infiammato di collora, uscito deP 4 Palazzo, corsi alla mia bottega, dove trovatovi un pugnalotto saltai in casa delli mia avversari,1 5 che a casa ed a bottega istavano. Trova'gli a tavola, e quel giovane Gherardo che era stato capo della quistione16 mi si gettò addosso: al cui io menai una pugnalata al petto che 'l saio, il colletto insino alla camicia, a banda a banda io li passai, non gli avendo tocco la carne o fattogli un male al mondo.17 Parendo a me, per l'entrar della mana e quello I. qllattro: dodici, dice il Bacci. 2. monasterio delle Murate: il famoso convento fiorentino, oggi trasformato in carcere giudiziario. « Vi stette giovanetta Caterina de' Medici, moglie di Enrico II di Francia, e vi morl e fu sepolta Caterina Sforza 11 (Bacci). 3. sotto •.. loro: a rischio di cadere in disgrazia a loro. 4. si rimasono: rimasero. 5. ci dessimo sicurtà: «è la frase legale per indicare la pace fatta e ratificata» (Bacci scol.). Magistrato: « magistratura 11, cioè legge, ufficio. 6. non tanto ch'io: non pertanto io. 7. Questo Librodoro dev'essere figlio di Annibale di Librodoro. È citato come cugino del Cellini che lo nomina curatore e attore dell'eredità dei suoi averi. 8. promettessi.: facesse garanzia. 9. aspido: aspide. Io.feci disperato iudizio: presi una determinazione disperata. II. obbrigo: obbligo. 12. tirato: vòlto. 13. il detto uffizio: cioè gli uffiziali. 14. del: dal. 15. saltai • •• avversari: andò invece alla loro bottega, come, dietro i documenti, rettifica• il Bacci (che seguiremo anche più avanti). 16. capo della quistione: il maggior responsabile del litigio. 17. non gli • ••

LA VITA · LIBRO PRIMO

romor de' panni, aver fatto grandissimo male e lui per ispavento caduto in terra, dissi: - O traditori, oggi è quel di che io tutti vi ammazzo. - Credendo il padre, la madre e le sorelle che quel fusse il di del Giudizio, subito gettatisi in ginocchione in terra misericordia ad alta voce con le bigonce1 chiamavano; e, veduto non fare alcuna difesa contro di me e quello disteso in terra come morto, troppo vil cosa mi parve a toccargli, ma furioso corsi giù per la scala e, giunto alla strada, trovai tutto il resto della casata, li quali erano più di dodici: chi di loro aveva una pala2 di ferro, alcuni un grosso canale3 di ferro, altri martella, ancudine,4 altri bastoni. Giunto fra loro, si come un toro invelenito quattro o cinque ne gittai in terra e con loro insieme caddi, sempre menando il pugnale ora a questo ora a quello. Quelli che in piedi restati erano, quanto egli potevano sollecitavano, dando a me a due mane con martella, con bastoni e con ancudine: e, perché lddio alcune volte piatoso si intermette, 5 fece che né loro a me e né io a loro non ci facemmo un male al mondo. Solo vi restò la mia berretta, 6 la quale assicuratisi e' mia avversari che discosto a quella si eron fuggiti, ugnuno di loro la percosse con le sua arme: di poi, riguardato in fra di loro de e' feriti e morti, nessuno v'era che avessi male.

[xvin.] Io me ne andai alla volta di Santa Maria Novella e, subito percossomi' in frate Alesso Strozzi8 il quale io non conosceva, a questo buon frate io per l'amor de Dio mi raccomandai che mi salvassi la vita, perché grave errore9 avevo fatto. Il buon frate mi disse che io non avessi paura di nulla; che, tutti e' mali del mondo che io avessi fatti, in quella cameruccia10 sua ero sicurissimo. In ispazio d'una ora appresso, gli Otto, ragunatisi fuora del loro ordine, u fecion mandare un de' più spaventosi bandi contra di me12 mo11do: veramente ferì nelle braccia e nelle reni detto Gherardo e un Bartolommeo Benvenuti. 1. con le bigonce: smisuratamente (cioè «a gran voce»). 2. pala: badile. 3. canale: tubo. 4. ancudine: incudini. 5. intermette: frammctte. 6. berretta: berretto (copricapo usuale in quell'epoca). 7. percossomi: imbattutomi. 8.frate Alessio Strozzi è il traditore di fra Benedetto da Foiano (B. Varchi, Storia Fiorentina, XII, 4). 9. errore: fallo. 10. cameruccia: cella. 11. fuora •.. ordine: in seduta straordinaria. 12.fecion ..• me: lo condannarono cioè a morte. Il 14 gennaio 1527 Michele di Niccolò Guasconti orafo e Gherardo suo figlio e Giovanni Andrea di Cristofano Cellini (in nome proprio e in nome e vece del figlio Benvenuto) fecero pace, come risulta da un rogito notarile. Per altro, il I 4 gennaio 34

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BENVENUTO CELLINI

che mai s'udissi, sotto pene grandissime a chi m'avessi o sapessi,' non riguardando né a luogo né a qualità che mi tenessi. Il mio afflitto e povero buon padre entrando agli Otto, ginocchioni si buttò in terra, chiedendo misericordia del2 povero giovane figliuolo; dove che un di quelli arrovellati, 3 scotendo la cresta dello arronzinato4 cappuccio, rizzatosi in piedi, con alcune ingiuriose parole disse al povero mio padre: - Lièvati di costì e va' fuora subito, ché domattina te lo manderemo in villa con i lanciotti. 5 - Il mio povero padre pure ardito rispose dicendo loro: - Quel che lddio arà ordinato, tanto farete e non più là. 6 - Al cui quel medesimo rispose che per certo così aveva ordinato lddio. E mio padre a lui disse: - lo mi conforto che voi certo non lo sapete. - E, partitosi da loro, venne a trovarmi insieme con un certo giovane di mia età, il quale si chiamava Piero di Giovanni Landi:7 ci volevamo bene più che se fratelli fussimo stati. Questo giovane aveva sotto il mantello una mirabile ispada ed un bellissimo giaco di maglia ;8 e, giunti a me, il mio animoso padre mi disse il caso e quel che gli avevan detto i signori Otto: di poi mi baciò in fronte e tutti a dua gli occhi; mi benedisse di cuore, dicendo cosi: - La virtù de Dio sia quella che ti aiuti. - E, portami la spada e l'arme, con le sue mane proprie me le aiutò vestire. Di poi disse: - O figliuol mio buono, con queste in mano, o tu vivi o tu muori. - Pier Landi, che era quivi alla presenza, non cessava di lacrimare, e, portami dieci scudi d'oro, io dissi che mi levassi certi peletti9 della barba che prime caluggine10 erano. Frate Alesso mi vesti in modo di frate ed un converso mi diede per compagnia. Uscitomi del convento, uscito per la porta il Prato, lungo le mura me ne andai insino alla piazza di San Gallo e, salito la costa di Montui/ 1 in una di quelle prime case 1523 il Cellini era già stato condannato a pagare dodici staia di farina per atti di libidine commessi con Giovanni di ser Matteo Rigoli (che par sia da identificare col Giovanni Rigogli, menzionato più avanti nella Vita, alle pp. 554 e 588) a danno di un Domenico di ser Giuliano da Ripa. I. a chi ••. sapessi: cioè a chi gli desse ricetto o non lo denunciasse. 2. del: per il. 3. arrovellati: arrabbiati (che è nome distintivo dei Savonaroliani al pari di quello pure celebre di Piagnoni). 4. arronzi11ato: si veda la nota 10 a p. 527. 5. lanciotti: lancieri (soldati armati di lancia). La frase significherebbe che il Cellini era destinato a morte. 6. 11011 più là: non di più. 7. Piero di Giovanni Landi: più innanzi, alle pp. 588-9 1 592 e 681, ancora ricordato - e con affetto - dal Cellini. 8. giaco di 111aglia: armatura di maglie di ferro (o di fili d'ottone). 9. peletti: peluzzi. 10. caluggi11e: lanuggine. 11. Montui: Montughi. (Si legga: Montùi.)

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trovai un che si domandava1 il Grassuccio, fratel carnale di misser Benedetto da Montevarchi}~ Subito mi sfratai e, ritornato uomo, montati in su dua cavalli che quivi erano per noi, la notte ce ne andammo a Siena. Rimandato indrieto il detto Grassuccio a Firenze, salutò mio padre e gli disse che io ero giunto a salvamento.3 Mio padre rallegratosi assai, gli parve mill'anni di ritrovar quello degli Otto che gli aveva detto ingiuria; e trovatolo disse cosi: - Vedete voi, Antonio, eh' egli era Iddio quello che sapeva quel che doveva essere del mio figliuolo, e non voi? - Al cui rispose: - Di' che ci capiti un'altra volta. - Mio padre a lui: - Io attenderò4 a ringraziare lddio che l'à campato5 di questo.

[xix.] Essendo a Siena, aspettai il procaccia6 di Roma e con esso mi accompagnai. Quando fummo passati la Paglia' scontrammo il corriere che portava le nuove del papa nuovo, che fu papa Clemente.8 Giunto a Roma mi missi a lavorare in bottega di maestro Santi orefice :9 se bene il detto era morto, teneva la bottega un suo figliuolo. Questo non lavorava, ma faceva fare le faccende di bottega tutte a uno giovane che si domandava Luca Agnolo da lesi.10 Questo era contadino, e da picco! fanciulletto era venuto a lavorare con maestro Santi. Era piccolo di statura, ma ben proporzionato. Questo giovane lavorava meglio che uomo che io vedessi mai insino a quel tempo, con grandissima facilità e con molto disegno:

1. un che si domandava: uno che si chiamava. 2. Benedetto Varchi, nato in Firenze nel r503 e ivi morto nel 1565. La famiglia era oriunda da Montevarchi. Come è noto, il Cellini, data la domestichezza che aveva con lo storico e letterato famoso, gli chiese di rivedere il testo della Vita; ma, come dice P. D'Ancona, «per fortuna il Varchi non introdusse nel testo quasi nessuna mutazione». 3. salvamento: MS: salvameto. 4. atte11derò: baderò. 5. campato : scampato. 6. procaccia : incaricato di portare la posta. (Il nome è oggi rimasto ai portalettere rurali.) 7. la Paglia: fiume che scorre in quel d'Orvieto: già abbiamo ricordato - nel commento al Cortegia110, qui a p. 188, nota 7 - quest>affiuente del Tevere: nel Cinquecento anche un gruppo di casolari era chiamato Paglia. 8. Clemente VII Medici: è il ben noto cardinal Giulio de' Medici, con cui ebbe a trattare anche il Machiavelli sia per la compilazione di alcuni memoriali, sia per la stesura delle ]storie fiorentine, sia inoltre per qualche commissione d'uffi.cio, in realtà di poco conto. 9. 111aestro Santi orefice: par che si tratti d'un Santo di Cola, cittadino romano, che apparteneva all'Università degli orefici. Era orefice del papa e faceva anche il mazziere. 10. Luca Agnolo da Jesi: sarà ancora ricordato, più avanti, alle pp. 534-7 e 541.

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BENVENUTO CELLINI

lavorava solamente di grosseria,1 cioè vasi bellissimi e bacini,2 e cose tali. Mettendomi io a lavorar in tal bottega, presi a fare certi candelieri per il vescovo Salamanca spagnuolo.3 Questi tali candelieri furno riccamente lavorati, per quanto si appartiene a tal'opera. Un descepol4 di Raffaello da Urbino, chiamato Gianfrancesco,5 per soprannome il Fattore,6 era pittore molto valente e, perché egli era amico del detto vescovo, me gli misse molto in grazia a tale che io ebbi' moltissime opere da questo vescovo e guadagnavo molto bene. In questo tempo io andavo quando a disegnare in cappella di Michelagnolo8 e quando alla casa di Agostino Chigi9 sanese, nella qual casa era molte opere bellissime di pittura di mano dello eccellentissimo Raffaello da Urbino; e questo si era il giorno della festa, perché in detta casa abitava misser Gismondo1° Chigi, fratello del detto misser Agostino. Avevano molta boria quando vedevano delli giovani miei pari 11 che andavano a 'mparare12 drento alle case loro. La moglie13 del detto misser Gismondo, vedutomi sovente in questa sua casa - questa donna era gentile al possibile ed oltramodo bella-, accostandosi un giorno ·a me, guardando li mia disegni mi domandò se io ero scultore o di grosseria: cioè in oggetti d'una certa grossezza (cfr. qui avanti, pp. 1048 sgg.), non in minuterie e altre cose da orefici. 2. bacini: vassoi. 3. il tJescovo Salamanca spagnuolo: don Francesco di Andrea di Cabresa e di donna Beatrice di Bobadilla, vescovo di Salamanca. Venuto a Roma per il Concilio Lateranense del 1517 1 vi si trattenne un decennio: durante il Sacco, nel 1527 1 fu rinchiuso in Castel Sant' Angelo insieme con Clemente VII. Per lui il Cellini fece varie opere. 4. descepol: MS: decepol. 5. Gianfrancesco: era di cognome Penni, pittore fiorentino, che con Raffaello, Giulio Romano e Giovanni da Udine rimise in onore le grottesche. Ricorda il Bacci come egli fosse scolaro di Raffaello ed ereditasse da lui, e dietro le rettifiche di Gaetano Milanesi ai dati delle Vite del Vasari - dice che, figlio di Michele di Lucca, tessitore di pannilini, era nato nel 1496 e morto a Napoli nel 1536. 6. Fattore: in origine avrà voluto dire «aiutante». 7. ebbi: ebbi ordinate, commissionate. 8. cappella di Michelagnolo: la Cappella Sistina. 9. Agostino CJ,igi: il famoso banchiere, protettore di Raffaello. La casa è appunto il Palazzo alla Lungara (costruito fra il 1509 e il 1510 sui disegni di Baldassarre Peruzzi). Raffaello vi dipinse il Trionfo di Galatea e, coi suoi discepoli, decorò una loggia con la Storia di Amore e Psiche. Passata nel 1580 al cardinal Alessandro Farncse, tale casa si chiamò la Farnesina e tale nome conserva tuttora. r o. Gismondo: Sigismondo. 11. miei pari: cioè «del mio valore». 12. •mpa,are: imparare, cioè esercitarsi nel mestiere. 13. La 111oglie: si chiamava Sulpizia Petrucci, secondogenita del famoso Pandolfo, signore di Siena (di cui anche nelle Legazioni e commissarie del Machiavelli): era andata a nozze nel r 507. 1.

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pittore: alla cui donna io dissi che ero orefice. Disse lei che troppo ben disegnavo per orefice e, fattosi portare da una sua cameriera un giglio di bellissimi diamanti legati in oro, mostrandomegli volse che io gli stimassi. lo gli stimai ottocento scudi. Allora lei disse che benissimo gli avevo stimati. Appresso mi domandb se mi bastava l'animo 1 di legargli bene; io dissi che molto volentieri, ed alla presenza di lei ne feci un pochetto2 di disegno, e tanto meglio lo feci quanto io pigliavo piacere di trattenermi con questa tale bellissima e piacevolissima gentildonna. Finito il disegno, sopraggiunse un'altra bellissima gentildonna romana, la quale era di sopra e, scesa a basso, dimandb la detta madonna Porzia3 quel che lei quivi faceva; la quale sorridendo disse: - Io mi piglio piacere il vedere disegnare questo giovane da bene, il quale è buono e bello. Io, venuto in un poco di baldanza, pur mescolato un poco di onesta vergogna, divenni rosso e dissi: - Quale io mi sia, sempre, madonna, io sarb paratissimo4 a servirvi. - La gentildonna, anche lei arrossita alquanto, disse: - Ben sai che io voglio che tu mi serva. - E, portami il giglio, disse che io me ne lo portassi ;5 e di più mi diede venti scudi d'oro, che l'aveva nella tasca, e disse: - Legamelo in questo modo che disegnato me l'ài, e salvami6 questo oro vecchio in che legato egli è ora. - La gentildonna romana allora disse: - Se io fussi in quel giovane, volentieri io m'andrei con Dio.7 - Madonna Porzia aggiunse che le virtù rare volte stanno con i vizii e che, se tal cosa io facessi, fort~ ingannerei quel bello aspetto che io dimostravo di uomo da bene, e, voltasi, preso per mano la gentildonna romana, con piacevolissimo riso mi disse: - Addio, Benvenuto. - Soprastetti8 alquanto intorno al mio disegno che facevo, ritraendo certa figura di love di man di Raffaello da Urbino detto.9 Finita che l'ebbi, partitomi, mi messi a mi bastava l'animo: me la sentivo (ero capace). 2. pochetto: po'. 3. madonna Porzia: è la sorella minore di Sulpizia ed aveva sposato nel 1525 Buoncompagno Agazznri di Siena, e qui il Cellini sbaglia perché la confonde con Sulpizia. Secondo che riferì Gaetano Guasti (citato da Bacci e da D'Ancona) aquesta correzione fu tolta da un esemplare della Vita (ed. 1728) postillato da Giovanni Baldovinetti•. 4. paratissimo: prontissimo. 5. me ne lo portassi: lo prendessi con me (per fare il lavoro). 6. salvami: risparmiami, mettimi da parte. (Voleva cioè l'oro come materia da utilizzare per altri lavori.) 7. con Dio: per i fatti miei (senza rendere l'oggetto dato in lavorazione). 8. Soprastetti: mi indugiai. 9. Titraendo . • • detto: di cui nelle predette storie raffaellesche di AmoTe e Psiche. 1.

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fare un piccolo modellino di cera, mostrando per esso come doveva da poi tornar fatta l'opera; e, portatolo a vedere a madonna Porzia detta, essendo alla presenza quella gentildonna romana che prima dissi, l'una e l'altra grandemente satisfatte delle fatiche mie mi feceno tanto favore 1 che, mosso da qualche poco di baldanza, io promissi loro che l'opera sarebbe meglio ancora la metà2 che il modello. Così messi mano, e in dodici giorni fini' il detto gioiello in forma di giglio, come ò detto di sopra, adorno con mascherini,3 puttini, animali e benissimo smaltato in modo che li diamanti, di che4 era il giglio, erano migliorati più della metà.

[xx.] In mentre che io lavoravo questa opera, quel valente uomo Lucagnolo, che io dissi di sopra, mostrava di averlo molto per male, più volte dicendomi che io mi farei molto più utile e più onore ad aiutarlo lavorar vasi grandi di argento, come io avevo cominciato. Al quale io dissi che io sarei atto, sempre che io volessi, a lavorar vasi grandi di argento, ma che di quelle opere che io facevo, non ne veniva ogni giorno da fare e che in esse opere tali era non manco onore che ne' vasi grandi di argento, ma si bene molto maggiore utile. Questo Lucagnolo mi derise, dicendo: - Tu lo vedrai, Benvenuto; perché allora che tu arai finita cotesta opera, io mi affretterò di aver finito questo vaso, il quale cominciai quando tu il gioiello; e con la esperienza sarai chiaro5 l'utile6 che io trarrò del 1.feceno tanto favore: mi favorirono tanto (con la loro approvazione). 2. meglio ancora la metà: cioè il doppio migliore. 3. mascherini: mascherine. (Vedi quanto dice il Cellini stesso nel Trattato dell'Oreficeria, capo 111, Dell'arte dello smaltare: «Ancora si usa di smaltare molte opere, come sono parte di pendenti e di alcuni ornamenti di gioie, e molte altre diverse cose, le quali si smaltano senza avere adoperare la pietra frassinella, perché ei si smalta alcune cose di rilievo, come è dire frutte e foglie, et alcuno animaletto, et alcune mascherette, le quali si smaltano con gli smalti sottilissimamente pesti, e lavati con la detta diligenzia •· Si vedano I trattati dell'Oreficeria e della Scultura di BENVENUTO CELLINI nuovamenti messi alle stampe secondo la originale dettatura del Codice Marciano per cura di Carlo Milanesi. Si aggiungono: I Discorsi e i Ricordi intorno all'arte, le Lettere e le Suppliche, le Poesie, Firenze, Le Monnier, 1857 (che sempre citeremo), p. 36. A questa raccolta di testi, ristampata dalla stessa Casa nel 1893, è doveroso far spesso riferimento anche oggi e si tenga conto della Tavola alfabetica dei nomi e dello Spoglio delle voci e dei modi di dire appartenenti alle arti, che s'incontrano nei Trattati e negli altri scritti del volume. (Per il luogo suddetto cfr. qui avanti, p. 991.) 4. di che: di cui. 5. chiaro: ben informato. 6. l'tttile: in quanto all'utile.

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mio vaso e quello che tu trarrai de il tuo gioiello. - Al cui io risposi che volentieri avevo a piacere di fare corz un si valente uomo, quale era lui, tal pruova, perché alla fine di tale opere si vedrebbe chi di noi si ingannava. Così l'uno e l'altro di noi alquanto, con un poco di sdegnoso riso, abbassati il capo fieramente, ciascuno desideroso di dar fine alle cominciate opere in modo che in termine di dieci giorni in circa ciascun di noi aveva con molta pulitezza e arte finita l'opera sua. Quella di Lucagnolo detto si era un vaso assai ben grande (il qual serviva in tavola di papa Clemente dove buttava drento, in mentre che era a mensa, ossicina di carne e bucce di diverse frutte), fatto più presto a pompa2 che a necessità. Era questo vaso ornato con dua bei manichi, con molte maschere3 piccole e grande, con molti bellissimi fogliami di tanta bella grazia e disegno quanto immaginar si possa; al quale io dissi quello essere il più bel vaso che mai io veduto avessi. A questo, Lucagnolo, parendogli avermi chiarito, disse: - Non manco bella pare a me l'opera tua, ma presto vedreno4 la differenza de l'uno e de l'altro. - Cosi, preso il suo vaso, portatolo al papa, restò sattisfatto benissimo e subito lo fece pagare secondo l'uso de l'arte di tai grossi lavori. In questo mentre io portai l'opera mia alla ditta gentildonna madonna Porzia, la quali con molta maraviglia mi disse che di gran lunga io avevo trapassata la promessa fattagli; e poi aggiunse dicendomi che io domandassi delle fatiche mie tutto quel che mi piaceva, perché gli pareva che io meritassi tanto che, donandomi un castello, appena gli parrebbe d'avermi sadisfatto, ma, perché lei questo non poteva fare, ridendo mi disse che io domandassi quel che lei poteva fare. Alla cui io dissi che il maggior premio delle mie fatiche desiderato, si era l'avere sadisfatto sua signoria. Cosi anch'io ridendo, fattogli reverenza, mi parti' dicendo che io non volevo altro premio che quello. Allora madonna Porzia ditta si volse a quella gentildonna romana, e disse: - Vedete voi che la compagnia di quelle virtù che noi giudicammo in lui, son queste, e non sono i vizii? - Maravigliatosi l'una e l'altra, pure disse madonna Porzia: - Benvenuto mio, ha' tu mai sentito dire che, quando il povero dona a il ricco, il diavol se ne ride? - Alla quale io dissi: - E però di tanti sua dispiaceri, questa volta lo voglio vedere ricor: con. 2. a pompa: per lusso. 3. maschere: cioè •sculture in forma di teste stranamente foggiate» (Tommaseo-Bellini). 4. vedreno: ve-• dremo. 1.

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dere. - E, partitomi, lei disse che non voleva per questa volta fargli cotal grazia. Tornaton1i alla mia bottega, Lucagnolo aveva in un cartoccio li dinari avuti del suo vaso; e giunto, mi disse: - Accosta un poco qui a paragone il premio 1 del tuo gioiello accanto al premio del mio vaso. - Al quale io dissi che lo salvassi2 in quel modo insino al seguente giorno perché io speravo che, si bene come l'opera mia in nel suo genere non era stata manco bella della sua, così aspettavo di fargli vedere il premio di essa.

[xxi.] Venuto l'altro giorno,3 madonna Porzia mandato alla mia bottega un suo maestro di casa, 4 mi chiamò fu ora e, porto mi in mano un cartoccio pieno di danari da parte di quella signora, mi disse che lei non voleva che il diavol se ne ridessi affatto; mostrando che quello che la mi mandava non era lo intero pagamento che meritavano le mie fatiche, con molte altre cortese parole degne di cotal signora. Lucagnolo, che gli pareva mill'anni di accostare il suo cartoccio al mio, subito giunto in bottega, presente dodici lavoranti ed altri vicini fattisi innanzi, che desideravano vedere la fine di tal contesa, Lucagnolo prese il suo cartoccio con ischerno ridendo, dicendo: - Ou! oul - tre o quattro volte, versato li dinari in sul banco con gran romore: i quali erano venticinque scudi di giuli, pensando che li mia fussino quattro o cinque scudi di moneta :5 dove che io, soffocato dalle grida sue, dallo sguardo e risa de' circunstanti, guardando così un poco dentro in nel mio cartoccio, veduto che era tutto oro, da una banda del banco, tenendo gli occhi bassi senza un romore al mondo, con tutt'a duale mane forte in alto alzai il mio cartoccio, il quali facevo versare a modo di una tramoggia di mulino. Erano li mia danari la metà più che li sua in modo che tutti quegli occhi, che mi s'erano affisati addosso con qualche ischerno, subito volti a lui, dissono: - Lucagnolo, questi dinari di Benvenuto, per essere oro e per essere la metà più, fanno molto più bel veder che li tua. - lo credetti certo che per la invidia, insieme con lo scorno che ebbe, quel Lucagnolo subito cascassi morto: e, con tutto che di quelli mia danari a lui ne venissi la terza 1. premio: prezzo (compenso). 2. lo salvassi: lo tenesse, conservasse. 3. l'altro giorno: il giorno dopo. 4. maestro di casa: maggiordomo. 5. Gli scudi di giuli valevano all'incirca nove o dieci giuli (moneta coniata in Roma ·in onore di Giulio II, 1503-13): dieci ne valevano gli scudi di moneta alla Zecca di Roma nel 1566.

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parte per esser io lavorante - ché cosl è il costume: dua terzi ne tocca a il lavorante e l'altra terza parte alli maestri della bottega - potette più la temeraria invidia che la avarizia in lui, qual doveva operare tutto il contrario per essere questo Lucagnolo nato d'un contadino da lesi. Maladisse l'arte sua e quelli che gnene1 avevano insegnata, dicendo che da mo innanzi non voleva più fare quell'arte di grosseria, solo voleva attendere a fare di quelle bordellerie2 piccole da poi che le erano così ben pagate. Non manco sdegnato io dissi che ogni uccello faceva il verso suo; che lui parlava sicondo3 le grotte4 di dove egli era uscito, ma che io gli protestavo bene che a me riuscirebbe benissimo il fare delle sue coglionerie e che a lui non mai riuscirebbe il far di quella sorte5 bordellerie. Cosi partendomi adirato, gli dissi che presto gnene faria vedere. Quelli che erano alla presenza gli dettano a viva voce il torto, tenendo lui in coccetto6 di villano come gli era e me in coccetto di uomo, si come io avevo mostro.7

[xxu.] Il di seguente andai a ringraziare madonna Porzia e li dissi che sua signoria aveva fatto il contrario di quel che la disse :8 ché, volendo io fare che 'l diavol se ne ridessi, lei di nuovo l'aveva fatto rinnegare Iddio. Piacevolmente l'uno e l'altro ridemmo, e mi dette da fare altre opere belle e buone. In questo mezzo io cercai, per via d'un discepolo di Raffaello9 da Urbino pittore, che il vescovo Salamanca mi dessi da fare un vaso grande da acqua, chiamato un'acquereccia,10 ch'è per l'uso delle credenze che in sun11 esse si tengono per ornamento. E, volendo il detto vescovo fame dua di equal grandezza, uno ne dette da fare al detto Lucagnolo ed uno ne ebbi da fare io; e la modanatura12 delli detti vasi, ci dette il disegno quel ditto Gioanfrancesco pittore. Così messi mano con maravigliosa voglia in nel detto vaso, e fui accomodato d'una particina di bottega da uno Milanese che si chiamava maestro Gio1. gnene: gliela. 2. bordellerie: bagattelle, cosette di poco conto (chiamate spregevolmente da bordello). « Quel che adesso dicesi corbelleria» (Tommaseo-Bellini). 3. sicondo: secondo. 4. grotte: caverne (nel senso di abitazioni di contadini). 5. sorte: sorta di. 6. coccetto: concetto (forma popolare). 7. mostro: mostrato. 8. la disse: aveva detto. 9. 1m discepolo di Raffaello: era il già menzionato Gianfrancesco Penni, amico del vescovo Salamanca. 10. acquereccia: vaso ornamentale, specie di anfora. (Il Cellini ricorda tali oggetti anche nel Trattato dell'Oreficeria. Cfr. qui avanti, p. 1052.) 11. i,i sun: su di. 12. la· modanattlra: per la modanatura. (Si tenga sempre conto dello stile parlato del Cellini.)

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vampiero della Tacca.1 Messomi in ordine, feci il mio conto delli danari che mi potevano bisognare per alcuni mia affari, e tutto il resto ne mandai a soccorrere il mio povero buon padre; il quale, mentre che gli erano pagati in Firenze, s'abbatté per sorte un di quelli arrabbiati2 che erano degli Otto a quel tempo che io feci quel poco del disordine e eh' egli svillaneggiandolo gli aveva detto di mandarmi in villa con lanciotti a ogni modo. E, perché quello arrabbiato aveva certi cattivi figliolacci, a proposito mio padre disse: - A ognuno può intervenire delle disgrazie, massimo agli uomini collorosi3 quando egli ànno ragione, come intervenne al mio figliuolo; ma veggasi poi del resto della vita sua, come io l 'ò virtuosamente saputo allevare.4 Volesse lddio in vostro servizio che i vostri figliuoli non vi facessino né peggio né meglio di quel che fanno e' mia a me; perché, sl come lddio m'à fatto tale che io gli ò saputi allevare, così dove la virtù mia non ha potuto arrivare lui stesso me gli à campati, contra il vostro credere, dalle vostre violente mane. - E, partitosi, tutto questo fatto mi scrisse, pregandomi per l'amor5 di Dio che io sonassi qualche volta, acciò che io non perdessi quella bella virtù che lui con tante fatiche mi aveva insegnato. La lettera era piena delle più amorevol parole paterne che mai sentir si possa, in modo tale che le mi mossono a pietose lacrime, desiderando, prima che lui morissi, di contentarlo in buona parte quanto al sonare, si come lddio ci compiace tutte le lecite grazie che noi fidelmente gli domandiamo.

[XXIII.] Mentre che io sollecitavo il bel vaso di Salamanca6 e per aiuto avevo solo un fanciulletto, che con grandissime preghiere d'amici, mezzo contra la mia voglia, avevo preso per fattorino, questo fanciullo era di età di quattordici anni in circa: aveva nome Paulino ed era figliuolo di un cittadino romano, il quale viveva delle sue entrate. Era questo Paulino il meglio creato,7 il più onesto ed il più bello figliuolo che mai io vedessi alla vita _mia, e, per i sua onesti atti e costumi e per la sua infinita bellezza .e per el grande amore che lui portava a me, avvenne che per que1. Giovampiero della Tacca: •Quest'artista milanese avrebbe appartenuto, secondo alcuni, alla famiglia de Carpanis o Carpani, secondo altri, a quella Crivelli» (D'Ancona). 2. un di quelli a"abbiati: un Savonaroliano, di cui sopra (cfr. p. 530, nota 3). 3. collorosi: collerici. 4. saprlto allevare: MS: saputa levare. 5. l'amor: MS: la amor. 6. di Salamanca: da Salamanca, dal vescovo di Salaman~. 7. creato: fatto.

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ste cause io gli posi tanto amore quanto in un petto di un uomo rinchiuder si possa. Questo sviscerato amore fu causa che, per vedere io più sovente rasserenare quel maraviglioso viso che per natura sua onesto e maninconico si dimostrava, pure, quando io pigliavo il mio cornetto, subito moveva un riso tanto onesto e tanto bello che io non mi maraviglio punto di quelle pappolate1 che scrivono e' Greci degli dei del cielo: questo talvolta, essendo a quei tempi, gli arebbe fatti forse più uscire de' gangheri. Aveva questo Paulino una sua sorella, che aveva nome Faustina, qual penso io che mai Faustina2 fussi sì bella, di chi3 gli antichi libri cicalan tanto. Menatomi alcune volte alla vigna sua e, per quel che io potevo giudicare, mi pareva che questo uomo da bene, padre del detto Paulino, mi arebbe voluto far suo genero. Questa cosa mi causava4 molto più il sanare che io non facevo prima. Occorse in questo tempo che un certo Gianiacomo piffero da Cesena,5 che stava col papa, molto mirabil sonatore, mi fece intendere per6 Lorenzo trombone lucchese il quale è oggi al servizio del nostro duca,7 se io volevo aiutar loro, per il ferragosto del papa, sonar di sobrano8 col mio cornetto quel giorno parecchi mottetti che loro bellissimi scelti avevano. Con tutto che io fussi nel grandissimo desiderio di finire quel mio bel vaso cominciato, per essere la musica cosa mirabile in sé e per sattisfare in parte al mio vecchio padre, fui contento far loro tal compagnia: ed otto giorni innanzi al ferragosto ogni dì dua ora facemmo insieme conserto, 9 in modo che il giorno d'agosto andammo in Belvedere10 e, in mentre che papa Clemente desinava, sonammo quelli disciplinati11 mottetti in modo che il papa ebbe a dire non aver mai sentito musica più suavemente e meglio unita12 sanare. Chiamato a sé quello Gianiacomo, lo domandò di che luogo ed in che modo lui aveva fatto a avere cosi buon cornetto per sobrano, e lo domandò minutamente chi io ero. Gianiacomo ditto gli disse a punto il nome I. pappolate: sciocchezzuole. 2. Si allude a Faustina, moglie dell'imperatore Marc,Aurelio. 3. di chi: della quale. 4. causava: cagionava (cioè lo spingeva a). 5. Gianiacomo piffero da Cesena: da documenti risulta che ebbe l'incarico di pagare gente da lui messa insieme per le bande dei pifferi papali, e che faceva anche l'intarsiatore: si sarebbe chiamato De Berardini; Gianiacomo: Giangiacomo. 6. intendere per: sapere tramite. 7. Il duca Cosimo I. 8. sobrano: soprano. 9. comerto: concerto. 10. Belvedere: celebre cortile ottagono del Vaticano, costruito dal Della Porta su disegno di Bramante. II. disciplinati: ben preparati. 12. unita: d'accordo, affiatata.

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mio. A questo il papa disse: - Adunque questo è il figliuolo di mastro Giovanni? - Cosi disse che io ero. Il papa disse che mi voleva al suo servizio in fra gli altri musici. Gianiacomo rispose: - Beatissimo Padre, di questo io non mi vanto che voi lo abbiate, perché la sua professione a che lui attende continuamente si è l'arte della oreficeria, ed in quella opera maravigliosamente e tirane molto miglior guadagno che lui non farebbe al sonare. - A questo il papa disse: - Tanto meglio li voglio, essendo cotesta virtù di più in lui che io non aspettavo. Fagli acconciare la medesima provvisione che a voi altri, e da mia parte digli che mi serva e che alla giornata ancora in nella altra professione ampliamente1 gli darò da fare. - E, stesa la mana, gli donò in un fazzoletto cento scudi d'oro di Camera,2 e disse: - Pàrtigli3 in modo che lui ne abbia la sua parte. - Il ditto Gianiacomo spiccato4 dal papa, venuto a noi, disse puntatamente5 tutto quel che il papa gli aveva detto e, partito li dinari in fra otto compagni che noi eramo, dato a me la parte mia, mi disse: - lo ti vo a fare scrivere nel numero delli nostri compagni. - Al quale io dissi: - Lasciate passare oggi, e domani vi risponderò. - Partitomi da loro, io andavo pensando se tal cosa io dovevo accettare, considerato quanto la mi era per nuocere allo isviarmi dai belli studi della arte mia. La notte seguente mi apparve mio padre in sogno, e con amorevolissime lacrime mi pregava che per l'amor di Dio e suo io fussi contento di pigliare quella tale impresa ;6 a il quali mi pareva rispondere che in modo nessuno io non lo volevo fare. Subito mi parve che in forma orribile lui mi spaventasse, e disse: - Non lo facendo arai la paterna I. ampliamente: abbondantemente. 2. di Camera: del Tesoro. Per particolareggiate delucidazioni storiche si veda EDOARDO MARTINORI, La moneta, Roma, Presso l'Istituto italiano di numismatica, 1915 1 s. Scudo d'oro, alle pp. 459-65, e, in particolare, s. Fiorino di Camera papale, p. 163 1 specie per l'affermazione seguente: « Il primo Fiorino di camera lo coniò in Roma Paolo II (1464-1471) con la figura della Veronica col sudario e poscia Sisto IV (1474-1484) con la navicella di S. Pietro, tipo che fu adottato per molto tempo, fino cioè a Paolo III {1534-1550) che nel 1545 introdusse gli Scudi d'oro•· Il Cellini - come si vede più avanti - dice indifferentemente .scudi (o ducati) d'oro di Camera. Come avverte il Martinori, op. cit., pp. 134-5, il fiorino papale fu chiamato ducato papale dopo il ritorno dei papi da Avignone, ma «per molti autori ed in quasi tutti i cataloghi il ducato papale è detto Zecchino o Fiorino confondendo monete ben distinte e di epoca differente». 3. Pàrtigli: dividili. 4. spiccato: partitosi. 5. puntatamente: appuntino (per filo e per segno). 6. impresa: incombenza.

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maladizione,1 e facendolo sia tu benedetto per sempre da me. Destatomi, per paura corsi a farmi scrivere: di poi lo scrissi al mio vecchio padre, il quale per la soverchia allegrezza gli prese un accidente, il quali lo condusse presso alla morte; e subito mi scrisse d'aver sognato ancora lui quasi che il medesimo che avevo fatto io.

[xxiv.] E' mi pareva, veduto di aver sadisfatto alla onesta voglia del mio buon padre, che ogni cosa mi dovessi succedere a onorata e gloriosa fine. Così mi messi con grandissima sollecitudine a finire il vaso che cominciato avevo per il Salamanca. Questo vescovo era molto mirabile uomo, ricchissimo, ma difficile a contentare; mandava ogni giorno a vedere quel che io facevo; e, quella volta che il suo mandato2 non mi trovava, il detto Salamanca veniva in grandissimo furore, dicendo che mi voleva far tòrre la ditta opera e darla ad altri a finire. Questo ne era causa il servire a quel maladetto sonare. Pure con grandissima sollecitudine mi ero misso giorno e notte, tanto che, conduttola a termine di poterla mostrare, al ditto vescovo lo feci vedere: a il quali crebbe tanto desiderio di vederlo finito che io mi penti' d'avergnene mostro. 3 In termine di tre mesi ebbi finita la detta opera con tanti belli animaletti, fogliami e maschere quante immaginar si possa. Subito la mandai per quel mio Paulino fattore a mostrare a quel valente uomo di Lucagnolo detto di sopra; il qual Paulino, con quella sua infinita grazia e bellezza, disse così: - Misser Lucagnolo, dice Benvenuto che vi manda a monstrare le sue promesse e vostre coglionerie, aspettando di voi vedere le sue bordellerie.4 - Ditto le parole, Lucagnolo preso in mano il vaso e guardollo assai; di poi disse a Paulino: - O bello zittiello, 5 di' al tuo padrone che egli è un gran valente uomo e che io lo priego che mi vogli per amico e non s'entri in altro. 6 - Lietissimamente mi fece la imbasciata quello onesto e mirabil giovanetto. Portossi il ditto vaso al Salamanca, il quali volse che si facessi stimare. In nella detta istima si intervenne questo Lucagnolo, il quali tanto onoratamente me lo stimò maladizione: MS: maladione. 2. mandato: inviato. 3. d' avergnene mostro: d'averglielo mostrato. 4. monstrare ... bordellerie: cfr. qui addietro, p. 537. 5. zittiello: ragazzino. 6. non s'entri in altro: cioè, appunto, in appiccare baruffa. 1.

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e lodò da gran lunga di quello che io mi pensava. Preso il ditto vaso, il Salamanca spagnolescamente' disse: - lo giuro a Dio2 che tanto voglio stare a pagarlo quanto lui à penato a farlo. Inteso questo, io malissimo contento mi restai, maladicendo tutta la Spagna e chi li voleva bene. Era in fra gli altri belli ornamenti un manico tutto di un pezzo a questo vaso, sottilissimamente lavorato, che per virtù di una certa molla stava diritto sopra la bocca del vaso. Monstrando un giorno per boria monsignor ditto a certi sua gentiluomini spagnuoli questo mio vaso, avvenne che un di questi gentiluomini, partito che fu il ditto monsignore, troppo indiscretamente maneggiando il bel manico del vaso, non potendo resistere quella gentil molla alla sua villana forza, in mano al ditto si roppe; e, parendoli di aver molto mal fatto, pregò quel credenzier che n'aveva cura che presto lo portasse al maestro che lo aveva fatto, il quali subito lo racconciassi, e li promettessi tutto il premio3 che lui domandava, pur che presto fusse acconcio. Così capitandomi alle mani il vaso, promessi acconciarlo prestissimo, e così feci. Il ditto vaso mi fu portato innanzi mangiare: a ventidua ore venne quel che me lo aveva portato, il quale era tutto in sudore, ché per tutta la strada aveva corso, avvenga che monsignore ancora di nuovo lo aveva domandato per mostrarlo a certi altri signori. Però questo credenziere non mi lasciava parlar parola, dicendo: - Presto, presto, porta il vaso. - Onde io volontoroso di fare adagio e non gne dare,• disse che io non volevo fare presto. Venne il servitore ditto in tanta furia che, accennando di mettere mano alla spada con una mana, e con la altra5 fece dimostrazione e forza di entrare in bottega; la qual cosa io subito gliene ,nterdissi con l'arme, accompagnate con molte ardite parole, dicendogli: - Io non te lo voglio dare; e va', di' a monsignore tuo padrone che io voglio li dinari delle mie fatiche prima che egli6 esca di questa bottega. - Veduto questo di non aver potuto ottenere per la via delle braverie, si messe a pregarmi come si priega la Croce, dicendomi che se io gnene davo farebbe per me tanto che io sarei pagato. Queste parole niente mi mossono del mio proposito, sempre dicendogli il medesimo. Alla fine disperatosi 1. spagnolescamente: cioè con alterigia e iattanza da Spagnolo. 2. giuro a Dio: giuramento solito agli Spagnoli. 3. premio: compenso. 4. gnedare: darglielo. (Sta per gne ne dare o gne le dare.) 5. e con la altra: ecco che con l'altra (dato che l'e ha valore intensivo). 6. egli: esso (il vaso).

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della impresa, giurò di venire con tanti Spagnuoli che mi arieno tagliati1 a pezzi; e, partitosi correndo, in questo mezzo io, che ne credevo qualche parte di questi assassinamenti loro, mi promessi2 animosamente difendermi; e, messo in ordine un mio mirabile scoppietto il quale mi serviva per andare a caccia, da me dicendo: « Chi mi toglie la roba mia con le fatiche insieme, ancora se gli può concedere la vita ?3 », in questo contrasto, che da me medesimo faceva, comparse molti Spagnuoli insieme con il loro maestro di casa, il quale a il4 lor temerario modo disse a quei tanti che entrassin dentro e che togliessino il vaso e me bastonassino. Alle qual parole io monstrai loro la bocca dello scoppietto in ordine col suo fuoco, e ad alta voce gridavo: - Marrani, 5 traditori, assassinas' egli a questo modo le case e le botteghe in una Roma ?6 Tanti quanti di voi ladri s'appresseranno a questo isportello, tanti con questo mio istioppo7 ne farò cader morti. - E volto la bocca d'esso istioppo a il loro maestro di casa, accennando di trarre,8 dissi: - E tu, ladrone che gli ammetti,9 voglio che sia il primo a morire. - Subito dette di piede a un giannetto10 in su che lui era, e a tutta briglia si misse a fuggire. A questo gran romore era uscito fuora tutti li vicini; e di più passando alcuni gentiluomini romani, dissono: - Ammazzali pur questi marrani, perché sarai aiutato da noi. - Queste parole furno di tanta forza che molto ispaventati da me si partirno; in modo che, necessitati dal caso, furno forzati a narrare tutto il caso a monsignore, il quale era superbissimo, e tutti quei servitori e ministri isgridò, sì perché loro eran venuti a fare un tale eccesso e perché, da poi cominciato, loro non l'avevano finito. Abbattessi in questo quel pittore che s'era intervenuto in tal cosa; a il quale monsignore disse che mi venissi a dire da sua parte che, se io non gli portavo il vaso subito, che di me il maggior pezzo sarien gli orecchi e, se io lo portavo, che subito mi darebbe il pagamento di esso. Questa cosa non mi messe punto di paura, e gli feci intendere che io lo andrei a dire al papa subito. Intanto a lui passato la stizza 1. tagliati: «si spiega come attrazione dei due plurali in mezzo a cui si trova» (Bacci scol.). 2. mi promessi.: mi ripromisi. 3. vita?: MS: t1ita. 4. a il: secondo il. 5. Ma"ani: porci. Si veda la nota 14 a p. 164. 6. in una Roma: in una città come Roma. 7. istioppo: schioppo. 8. trarre: cioè •sparare». 9. gli ammetti: li aizzi (contro di me). 1 o. giannetta: cavallo di razza spagnola (detto anche ginetto).

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ed a me la paura, sotto la fede 1 di certi gran gentiluomini romani che il detto non mi offenderebbe e con buona sicurtà del pagamento delle mie fatiche, 1nessomi in ordine con un gra'2 pugnale ed il mio buon giaco giunsi in casa del detto monsignore, il quale aveva fatto mettere in ordine tutta la sua famiglia. 3 Entrato, avevo il mio Paulino appresso con il vaso d'argento. Era né più né manco come passare per mezzo il zodiaco,4 che chi contraffaceva5 il leone, quale lo scorpio, altri il cancro; tanto che pur giugnemmo alla presenza di questo pretaccio, il quali sparpagliò6 le più pretesche spagnolissime parole che immaginar si possa. Onde io mai alzai la testa a guardarlo, né mai gli risposi parola. A il quale mostrava di crescere più la stizza e, fattomi porgere da scrivere, mi disse che io scrivessi di mia mano, dicendo d'essere ben contento e pagato da lui. A questo io alzai la testa e li dissi che molto volentieri lo farei, se prima io avessi li mia dinari. Crebbe collora7 al vescovo, e le bravate e le dispute furno grande. Al fine prima ebbi li dinari, da poi scrissi, e lieto e contento me ne andai. [xxv.] Da poi lo intese papa Clemente, il quale aveva veduto il vaso in prima ma non gli fu mostro per di mia mano, ne prese grandissimo piacere e mi dette molte lode, ed in bubblico8 disse che mi voleva grandissimo bene. A tale che monsignore Salamanca molto si pentì d'avermi fatto quelle sue bravate e, per rappattumarmi, per il medesimo pittore9 mi mandò a dire che mi voleva dar da fare molte grande opere; al quale io dissi che volentieri le farei, ma volevo prima il pagamento di esse che io le cominciassi. Ancora queste parole vennono agli orecchi di papa Clemente, le quale lo mossono grandemente a risa. Era alla presenza il cardinale Cibo,10 al quali il papa contò tutta la differenza11 che io

i.fede: garanzia. 2. gra': gran. 3.famiglia: servitù e dipendenti. 4. il zodiaco: con tutte le bestie zodiacali, di cui segue la numerazione. 5. contraffaceva: qui «aveva l'aspetto di». 6. sparpagliò: nel senso che parlava a vanvera, solo per fare il prepotente ed alzar la voce. 7. Crebbe collora: venne collera (latinismo). 8. bubblico: pubblico. 9. il medesimo pittore: è sempre Giovan Francesco Penni, di cui sopra. 10. il cardinale Cibo: Innocenzo Cybo Malaspina, nipote di Leone X (era figlio di sua sorella Maddalena). Il Cellini ricorda il vaso fatto per detto cardinale nel Trattato dell'Oreficeria (cfr. qui avanti, p. 1052). 11. differenza: litigio.

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avevo auto1 con questo vescovo; di poi si volse a un suo ministro3 e li comandò che continuamente mi dessi da fare per il Palazzo. 3 Il ditto cardinal Cibo mandò per me, e dopo molti piacevoli ragionamenti mi dette da fare un vaso grande, maggior che quello del Salamanca; cosi il cardinal Cornaro4 e molti altri di quei cardinali, massimamente Ridolfi.5 e Salviati :6 da tutti avevo da fare, in modo che io guadagnavo molto bene. Madonna Porzia7 sopra ditta mi disse che io dovessi aprire una bottega che fusse tutta mia: e io cosi feci, e mai restavo di lavorare per quella gentile donna da bene, la quale mi dava assaissimo guadagno, e quasi per causa sua istessa m'ero mostro al mondo uomo da qualcosa. Presi grande amicizia col signor Gabbriello Ceserino,8 il quale era gonfaloniere di Roma: a questo signore io li feci molte opere. Una in fra le altre notabile: questa fu una medaglia grande d'oro da portare in un cappello.9 Dentro isculpito in essa medaglia si era Leda col suo cigno :10 e, sadisfattosi assai delle mie fatiche, disse che voleva farla istimare per pagarmela il giusto prezzo. E, perché la medaglia era fatta con gran disciplina,n quelli stimatori della Arte la stimarono molto più che lui non s'immaginava: cosi, tenendosi la medaglia in mano, nulla ne ritraevo delle mie fatiche. Occorse il medesimo caso di essa medaglia che quello del vaso del Salamanca. E, perché queste cose non mi tolgano il luogo da dir cose di maggior importanza, cosi brevemente le passerò.12

I. auto: avuto. 2. ministro: servo. 3. per il Palazzo: per il Vaticano. 4. il cardinal Coniaro: Marco, figlio di Giorgio (il fratello di Caterina, regina di Cipro). È fratello del cardinal Francesco, più avanti menzionato. Fu fatto cardinale nel I 524. I lavori eseguiti per lui dal Cellini devono essere posti prima del 1524, anno in cui il Cornaro si recò a Venezia e ivi mori. 5. Il cardinale Niccolò Ridolfi di Firenze (di cui fu vescovo): era figlio di Contessina de' Medici, sorella del papa. Mori nel I s50. . 6.. 11 cardinal Giovanni Salviati era figlio di un'altra sorella del papa, Lucrezia (moglie di Iacopo Salviati): morl nel I s53. Il Cellini lo menzionerà con sfavore, ma avrà qualche lode per lui come arcivescovo di Ferrara. Secondo che ricorda il Bacci, l'artista 11 incominciò per hù una saliera d'argento, che finì poi per il cardinal di Ferrara». 7. Madonna Porzia: la suddetta sorella di Sulpizia Chigi. Vedi la nota 3 a p. 533. 8. Ceserino: o piuttosto Cesarino (Cesarini). 9. da portare in un cappello: secondo l'uso del Rinascimento. (Si pensi alle medaglie di Pisanello.) 10. isculpito ..• cigno: è stato discusso se questa medaglia si potesse identificare con un cammeo del Gabinetto antico di Vienna. II. disciplina: maestria. 12. passerò: lascerò da parte per passar oltre.

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[xxvi.] Con tutto che io esca alquanto della mia professione, volendo descrivere la vita mia mi sforza qualcuna di queste cotal cose non già minutamente descriverle, ma sì bene soccintamente accennarle. Essendo una mattina del nostro San Giovanni' a desinare con molti della nazion nostra,2 di diverse professione, pittori, scultori, orefici, in fra li altri notabili uomini ci era uno domandato il Rosso pittore3 e Gianfrancesco discepole4 di Raffaello da Urbino e molti altri. E, perché in quel luogo io gli avevo condotti liberamente, tutti ridevano e motteggiavano, sicondo che promette lo essere insieme quantità di uomini, rallegrandosi di una tanto maravigliosa festa. Passando a caso un giovane isventato bravaccio, soldato del signor Rienzo da Ceri,5 a questi romori, sbeffando disse molte parole inoneste della nazione fiorentina. Io, che era guida di quelli tanti virtuosi e uomini da bene, parendomi essere lo offeso, chetamente, sanza che nessuno mi vedessi, questo tale sopraggiunsi, il quale era insieme con una sua puttana che, per farla ridere, ancora seguitava di fare quella scomacchiata.6 Giunto a lui, lo· domandai se egli era quello ardito che diceva male de' Fiorentini. Subito disse: - Io son quello. Alle quale parole io alzai la mana dandogli in sul viso, e dissi: - E io son questo - subito messo mano all'arme l'uno e l'altro arditamente, ma non si tosto cominciato tal briga che molti entrorno di mezzo, più presto pigliando la parte mia che altrimenti, e sentito e veduto che io avevo ragione. L'altro giorno appresso mi fu portato un cartello di disfida per combattere seco, il quale io accettai m_olto lietamente, dicendo che questa mi pareva impresa da spedirla7 molto più presto ·che quelle di quella altra arte mia: e subito me ne andai a parlare a un vecchione chiamato il Bevi-

r. una mattina ••. Giovanni: la celebrazione festiva è del 24 giugno. Si ricordi che in Roma v'era la chiesa di San Giovanni de' Fiorentini, alla quale lavorarono Iacopo Sansovino, Antonio da Sangallo e Iacopo della Porta. 2. della nazion nostra: cioè di Firenze. 3. il Rosso pittore: è Giovambattista di Iacopo detto il Rosso fiorentino: il Cellini lo ritrova in Francia al lavoro per Francesco I. (Opere di tal manierista di notevole importanza sono a Fontaineblcau e altrove.) Il pittore si avvelenò a Parigi nel 1541. Di lui parla il Vasari nelle Vite. 4. discepole: MS: dicepole (cfr. p. 532, nota 4). 5. Lorenzo da Ceri era un capitano di ventura mandato dal re di Francia contro gli imperiali. Morl, scontento per sue non riuscite imprese, in Abruzzo nel 1528. È ricordato dagli storici del tempo. -6. seornacchiata: bravata. 7. spedirla: sbrigarla.

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lacqua,1 il quale aveva nome d'essere stato la prima spada di Italia, perché s'era trovato più di venti volte ristrettoa in campo franco 3 e sempre ne era uscito a onore. Questo uomo dabbene era molto mio amico e conosciutomi per virtù della arte mia, ed anche s'era intervenuto in certe terribil quistione in fra me ed altri. Per la qual cosa lui lietamente subito mi disse: - Benvenuto mio, se tu avessi da fare con Marte, io son certo che ne usciresti a onore, perché di tanti anni, quant'io ti conosco, non t'ò mai veduto pigliar nessuna briga a torto. - Cosi prese la mia impresa e, conduttoci in luogo con l'arme in mano, sanza insanguinarsi, restando dal mio avversario,4 con molto onore usci' di tale impresa. Non dico altri particolari; ché, se bene sarebbono bellissimi da sentire in tal genere, voglio riserbare queste parole a parlare de l'arte mia, quale è quella che m'à mosso a questo tale iscrivere; ed in essa arò da dire pur troppo. 5 Sebbene mosso da una onesta invidia,6 desideroso di fare qualche altra opera che aggiugnessi e passassi7 ancora quelle del ditto valente uomo Lucagnolo, per questo non mi scostavo mai da quella mia bella arte del gioiellare8 in modo che in fra l'una e l'altra mi recava molto utile e maggiore onore, ed in nell'una e nella altra continuamente operavo cose diverse dagli altri. Era in questo tempo a Roma un valentissimo uomo perugino per nome Lautizio,9 il quale lavorava solo di una professione, e di quella era unico al mondo. Avvenga che a Roma ogni cardinale tiene un suggello10 in nel quale è impresso il suo titolo,11 questi suggelli si fanno grandi quanto è tutta una mana di un piccoI putto di dodici anni in circa; e, sl come io ò detto di sopra, in esso si intaglia quel titolo del cardinale, nel quale I. Pare che sia un Bevi/acqua milanese che combatté sotto gli occhi del doge nella battaglia di Rapallo (1494). 2. ristretto: cioè in corpo a corpo. 3. in campo franco: «nel "campo franco o sicuro,, i combattenti potevano venire alle mani senza incorrere in pena, qualunque fosse l'esito del cimento• (Tommaseo-Bellini). 4. restando dal mio QfJfJersario: • dipendendo dal mio avversario il non battersi; ossia: venendo prima da lui la proposizione dell'aggiustamento• (Bianchi, seguìto da D'Ancona). 5.pur troppo: troppo. 6. 011esta intJidia: emulazione, solo mossa dall'ammirazione per la perizia dell'artista. 7. aggi11gnesn e passassi: uguagliasse e sorpassasse. 8. arte del gioiellare: arte dell'oreficeria. 9. Lautizio: era figlio di Bartolomeo Rotelli. Il Cellini lo ricorda anche nel Trattato dell'Oreficeria. (Cfr. qui avanti, pp. 1032-3.) Era zecchiere in Perugia fino dal 1516 con Cesarino Rossetti. 10. suggello: sigillo. II. titolo: questo è connesso con la chiesa di cui egli è titolare.

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s'interviene moltissime figure: pagasi l'uno di questi suggelli ben fatti cento e più di cento scudi. Ancora a questo valente uomo io portavo una onesta invidia; sebbene questa arte è molto appartata' da l'altre arte che si intervengono~ nella oreficeria; perché questo Lautizio, facendo questa arte de' suggelli, non sapeva fare altro. Messomi a studiare ancora in essa arte, se bene difficilissima la trovano, non mai stanco per fatica che quella mi dessi, di continuo attendevo a guadagnare ed a imparare. Ancora era in Roma un altro eccellentissimo valente uomo, il quale era milanese e si domandava per nome misser Caradosso.3 Questo uomo lavorava solamente di medagliette cesellate fatte di piastra, e molte altre cose; fece alcune pace4 lavorate di mezzo rilievo, e certi Cristi di un palmo fatti di piastre sottilissime d'oro, tanto ben lavorate che io giudicavo questo essere il maggior maestro che mai di tal cose io avessi visto, e di lui più che di nessun altro avevo invidia. Ancora c'era altri maestri che lavoravano di medaglie intagliate in acciaio, le quali son le madre5 e la vera guida a coloro che vogliono sapere fare benissimo le monete. A tutte queste diverse professioni con grandissimo studio mi mettevo a impararle. Ècci ancora la bellissima arte dello smaltare, quale io non viddi mai far bene ad altri che a un nostro Fiorentino chiamato Amerigo, 6 quale io non cognobbi, ma ben cognobbi le maravigliosissime opere sue; le quali in parte del mondo, né da uomo mai, non viddi chi s'appressassi di gran lunga a tal divinità.7 Ancor a questo esercizio, molto difficilissimo rispetto al fuoco che nelle finite gran fatiche per utimo8 si interviene e molte volte le guasta e manda in ruina, ancora a questa diversa professione con tutto il mio potere mi messi; e, se bene molto difficile io la trovavo, era tanto il piacere che io pigliavo che le ditte gran difficultà mi pareva che mi fussin

I. appartata: distinta. 2. intervengono: si manifestano. 3. Cristoforo Foppa detto il Caradosso era di Pavia, ma veniva detto milanese per la sua attività preponderante in Milano. Di lui parla ancora il Cellini nel Trattato dell'Oreficeria. (Cfr. soprattutto qui avanti, p. 987.) Fu lavoratore di conii, nichelatore e orefice. 4. pace: paci, cioè piastre - di solito d'argento - con immagini sacre che si danno a baciare nelle chiese in segno di pace. 5. le madre: le madri, cioè i modelli. 6. Amerigo: era figlio di Rigo Righi (o Amerighi), nato nel 1420 e morto nel 1491. Ricorda il Bacci come, fra gli artisti che parteciparono al concorso per la facciata di Santa Maria del Fiore (1491), vi sia un «Amerigus aurifex ». 7, divinità: eccellenza d'artista. 8. utimo: ultimo.

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riposo: 1 e questo veniva per un espresso dono prestatomi dallo lddio della natura2 d'una complessione tanto buona e ben proporzionata che liberamente io mi promettevo dispor di quella tutto quello che mi veniva in animo di fare. Queste professione ditte sono assai e molto diverse l'una dall'altra in modo che chi fa bene una di esse, volendo fare le altre, quasi a nissuno non riesce come quella che fa bene, dove che io, ingegnatomi con tutto il mio potere di tutte queste professione egualmente operare; ed al suo luogo mostrerrò tal cosa aver fatta, sl come io dico.

[xx.VII.] In questo tempo,3 essendo io ancora giovane di ventitré anni in circa, si risentì4 un morbo pestilenziale tanto inistimabile che in Roma ogni dì ne moriva molte migliaia. Di questo alquanto spaventato, mi cominciai a pigliare certi piaceri, come mi dittava l'animo, pure causati da qualcosa che io dirò. Perché io me ne andavo il giorno della festa volentieri alle anticaglie,5 ritraendo di quelle or con cera or con disegno, e perché queste ditte anticaglie sono tutte rovine ed in fra quelle ditte ruine cova assaissimi colombi, mi venne voglia di adoperare contra essi lo scoppietto: in modo che per fuggire il commerzio,6 spaventato dalla peste, mettevo uno scoppietto in ispalla al mio Pagolino, e soli lui ed io ce ne andavamo alle ditte anticaglie. Il che ne seguiva che moltissime volte ne tornavo carico di grassissimi colombi. Non mi piaceva di mettere in nel mio scoppietto altro che una sola palla, e cosi per vera virtù di quella arte facevo gran cacce. Tenevo uno scoppietto diritto, di mia mano; e drento e fuora non fu mai specchio da vedere tale.7 Ancora facevo di mia mano la finissima polvere da trarre,8 in nella quale io trovai i più bei segreti che mai per insirio a oggi da nessun altro si sieno trovati: e di questo, per non mi ci stendere molto, solo darò un segno da fare maravigliare tutti quei che son periti in tal professione. Questo si era che, con la quinta parte della palla il peso della mia 1. riposo: un nonnulla (un lavoro per riposanni). 2. ltldio della natura: ritorna l'espressione, di cui già nel sonetto introduttivo. 3. In questo tempo: cioè nell'estate del 1524. 4. si risend: riprese. E difatti la peste era già scoppiata in Roma - ma assai più micidiale - nel 1522 e nell'agosto nel 1523. 5. alle anticaglie: cioè a studiare i ruderi antichi. 6. il commerzio: la domestichezza col prossimo. 7. da vedere tale: cioè parimenti pulito e splendente. 8. polvere da tra"e: polvere da sparo.

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polvere,1 detta palla mi portava ducento passi andanti in punto bianco.a Se bene il gran piacere che io traevo da questo mio scoppietto mostrava di sviarmi dalla arte e dagli studii mia, ancora che questo fussi la verità, in un altro modo mi rendeva molto più di quel che tolto mi aveva: il perché si era che tutte le volte che io andavo a questa mia caccia miglioravo la vita mia grandemente, perché l'aria mi conferiva forte. Essendo io per natura malinconico, come io mi trovavo a questi piaceri subito mi si rallegrava il cuore, e venivami meglio operato e con più virtù assai che quando io continuo3 stavo a' miei studi ed esercizii; di modo che lo scoppietto alla fin del giuoco mi stava più a guadagno che a perdita. Ancora, mediante questo mio piacere m'avevo fatto amicizie di certi cercatori,4 li quali stavano alle velette5 di certi villani6 lombardi che venivano al suo tempo a Roma a zappare le vigne. Questi tali in nel zappare la terra sempre trovavono medaglie antiche, agate, prasme,' corniuole, cammei; ancora trovavano delle gioie, come s'è dire ismeraldi, zaffini,8 diamanti e rubini. Questi tali cercatori da quei tai villani avevano alcuna volta per pochissimi danari di queste cose ditte; alle quali io alcuna volta, e bene spesso, sopraggiunto i cercatori, davo loro tanti scudi d'oro molte volte di quello che loro appena avevano compero9 tanti giuli.10 Questa cosa, non istante il gran guadagno che io ne cavavo (che era per l'un dieci o più), ancora mi facevo 11 benivolo quasi a tutti quei cardinali di Roma. Solo dirò di queste qualcuna di quelle cose notabile e più rare. Mi capitò alle mane, in fra tante le altre, una testa di un dalfino grande quant'una fava da partito1a grossetta.13 In fra le altre, non istante che questa testa fusse bellissima, la natura in questo molto sopraffaceva la arte; perché questo smiraldo era di tanto buono colore che quel tale, che da me lo comperò a decine di scudi, lo fece acconciare a uso di ordinaria pietra da portare in anello: cosi legato lo vendé centinaia. Ancora un altro genere di pietra: questo si fu una testa del più bel topazio che mai con la ••• polvere: il peso della polvere era una quinta parte di quello della palla. 2. in punto bianco: orizzontalmente. 3. continuo: continuamente (il solito latinismo). 4. cercatori: gente che cercava medaglie (e simili) nel terreno. 5. velette: vedette. 6. 'Villani: contadini. 7. prasme: pietre dure di color verde scuro (D'Ancona). 8. zaffini: zaffiri. 9. compero: comperato. 10. giuli: monete di poco conto; vedi la nota s a p. 536. 11. mi facevo: mi faceva. 12. da partito: di quelle che si adoperano nelle assemblee per le votazioni. 13. grossetta: un po' grossa. 1.

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fusse veduto al mondo (in questo l'arte adeguava la natura). Questa era grande quant'una grossa nocciuola, e la testa si era tanto ben fatta quanto immaginar si possa: era fatta per1 Minerva. Ancora un'altra pietra diversa da queste: questo fu un cammeo; in esso intagliato un Ercole che legava il trifauce Cerbero. Questo era di tanta bellezza e di tanta virtù ben fatto che il nostro gran Michelagnolo ebbe a dire non aver mai veduto cosa tanto maravigliosa. Ancora in fra molte medaglie di bronzo una me ne capitò nella quale era la testa di love. Questa medaglia era più grande che nessuna che veduto mai io ne avessi: la testa era tanto ben fatta che medaglia mai si vidde tale. Aveva un bellissimo rovescio di alcune figurette 2 simili a lei fatte bene. Arei sopra di questo da dire di molte gran cose, ma non mi voglio stendere per non essere troppo lungo.

[XXVIII.] Come di sopra dissi, era cominciato la peste in Roma: se bene io voglio ritornare un poco indietro, per questo non uscirò del mio proposito. Capitò a Roma un grandissimo cerusico,3 il qual si domandava maestro Iacomo da Carpi.4 Questo valente uomo, in fra gli altri sua medicamenti, prese certe disperate5 cure di mali franzesi. 6 E, perché questi mali in Roma sono molto amici de' preti, massime di quei più ricchi, fattosi cognoscere questo valente uomo, per virtù di certi profumi mostrava di sanare maravigliosamente queste cotai infirmità, ma voleva far patto7 prima che cominciassi a curare; e' quali patti, erano a centinaia8 e non a dicine. Aveva questo valente uomo molta intelligenzia9 del disegno. Passando un giorno a caso dalla mia bottega, vidde a sorta10 certi disegni che io avevo innanzi, in fra' quali era parecchi biz1. era fatta per: raffigurava. 2. figurette: figurine. 3. cerusico: chirurgo. 4. Giacomo Berengario da Carpi (che più avanti il Cellini chiamerà ciurmadore) era uno dei medici più valenti dell'età sua; professore allo studio di Pavia e poi in quello di Bologna. Fu forse il primo a praticare sistematicamente sezioni anatomiche sui cadaveri umani. (Cfr. A. CASTICLIONI, Le malattie e i medici di Benvenuto Cellini, nel volume Il volto di Ippocrate: istorie di medici e medicine d'altri tempi, Milano, Unitas, 1925, pp. 2x3-51.) 5. disperate: date per disperate. 6. malifranzesi: sifilidi. 7. patto: l'onorario delle sue prestazioni di medico. 8. a centinaia: sottinteso di scudi. Il Bacci ricorda come detto medico ebbe in dono dal cardinale Pompeo Colonna un San Giovanni dipinto su tela da Raffaello. 9. Aveva molta intellige,izia: comprendeva moltissimo il valore. 10. a sorta: a caso.

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zarri vasetti che per mio piacere avevo disegnati. Questi tali vasi erano molto diversi e varii da tutti quelli che mai s'erano veduti insino a quella età. Volse il ditto maestro Iacomo che io gnene facessi d'argento: i quali io feci oltramodo volentieri per essere sicondo il mio capriccio. Con tutto che il ditto valente uomo molto bene me gli pagasse, fu l'un cento maggiore1 l'onore che mi apportorno perché in nella Arte di quei valenti uomini orefici dissono non aver mai veduto cosa più bella né meglio condotta. Io non gli ebbi sl tosto forniti che questo uomo li mostrò al papa; e l'altro dl da poi s'andò con Dio.2 Era molto litterato: maravigliosamente parlava della medicina. Il papa volse che lui restassi al suo servizio, e questo uomo disse che non voleva stare al servizio di persona del mondo e che, chi aveva bisogno di lui, gli andassi dietro. 3 Egli era persona molto astuta e saviamente fece a 'ndersene di Roma, perché non molti mesi appresso tutti quelli che egli aveva medicati si condusson tanto male che l'un cento eran peggio4 che prima: sarebbe stato ammazzato, 5 se fermato si fussi. Mostrò li mia vasetti in fra molti signori, in fra li altri allo eccellentissimo duca di Ferrara;6 e disse che quelli lui li aveva auti da un gran signore in Roma, dicendo a quello, se lui voleva essere curato della sua infirmità, voleva quei dua vasetti, e che quel tal signore gli aveva detto eh' egli erano antichi e che di grazia gli chiedesse ogni altra cosa, qual non gli parrebbe grave a dargnene, purché quelli gnene lasciassi; disse aver fatto sembiante non voler medicarlo, e però gli ebbe. Questo me lo disse misser Alberto Bendedio7 in Ferrara, e con gran sicumera me ne mostrò certi ritratti8 di terra; al quali io mi risi e, non dicendo altro, misser Alberto Bendedio, che era uomo superbo, isdegnato mi disse: - Tu te ne ridi, eh? e io ti dico che da mill'anni in qua non c'è nato uomo che gli sapesse solamente ritrarre. - E io, per non tor loro quella riputazione, standomi cheto, stupefatto gli ammiravo. Mi fu detto in Roma da molti signori di questa opera che a lor pareva miracolosa 1. l'un cento maggiore: cento volte maggiore. 2. l'altro . .. Dio: l'indomani se ne partì. 3. gli andassi dietro: per usare dei suo servigi. 4. l'un ••• peggio: stavano cento volte peggio. 5. sarebbe stato ammazzato: mori invece a Ferrara e lasciò erede il duca, come sotto è detto. 6. duca di Ferrara: Alfonso I d'Este, magnificato dall'Ariosto nell'Orlando furioso. 7. Alberto Benclidio (della famiglia a cui appartenne il poeta Timoteo Bendedei), era un gentiluomo ferrarese, più avanti, alle pp. 783 e 785-7, ricordato al servizio del cardinal di Ferrara: con lui litigherà il Cellini. 8. ritratti: riproduzioni.

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ed antica; alcuni di questi, amici mia. E io, baldanzoso di tal faccenda, confessai di averli fatti io. Non volendo crederlo; onde io, volendo restar veritiero a quei tali, n'ebbi a dare testimonianza e farne nuovi disegni; ché quella non bastava, avvenga che li disegni vecchi il ditto maestro Iacomo astutamente portar se gli volse. In questa piccola operetta io ci acquistai assai. [xxix.] Seguitando appresso la peste molti mesi, io mi ero scaramucciato,1 perché mi era morti di molti compagni ed ero restato sano e libero. Accadde una sera, in fra le altre, un mio confederato compagno2 menò in casa a cena una meretrice bolognese che si domandava Faustina. Questa donna era bellissima ma era di trenta anni in circa, e seco aveva una servicella3 di tredici in quattordici. Per essere la detta Faustina cosa del mio amico, per tutto l'oro del mondo io non l'arei tocca.4 Con tutto che la dicesse esser di me forte innamorata, constantemente osservavo la fede allo amico mio; ma, poi che a letto furno, io rubai quella servicina la quali era nuova nuova, 5 ché guai a lei se la sua padrona lo avessi saputo. Così godetti piacevolmente quella notte con molta più mia sadisfazione che con la patrona Faustina fatto non arei. Appressandosi ali' ora del desinare, onde io stanco, che molte miglia avevo camminato, 6 volendo pigliare il cibo, mi prese un gran dolore di testa, con molte anguinaie7 nel braccio manco, scoprendomisi un carbonchio8 nella nocella della mana manca, dalla banda di fuora. Spaventato ugnuno in casa, lo amico mio, la vacca grossa e la minuta tutte fuggite, onde io, restato solo con un povero mio fattorino9 il quale mai lasciar mi volse, mi sentivo soffocare il cuore e mi conoscevo certo esser morto. In questo, passando per la strada il padre di questo mio fattorino, il quale era medico del cardinale Iacoacci10 ed a sua provvisione11 stava, disse il detto fatI. scaramucciato: difeso, schermito (dal pericolo). 2. confederato compagno: collega di lavoro. 3. servicella: servetta. 4. tocca: toccata. s. nuova nuova: cioè vergine. 6. che .•• camminato: con allusioni erotiche (secondo tennini soliti nei novellieri, a cominciare dal Boccaccio e presenti anche nell'Orlando furioso). 7. molte anguinaie: molti bubboni (per analogia con le enfiagioni dell'inguine). 8. carbonchio: foruncolo, enfiagione pestilenziale (rosso come carbone acceso). 9. un .•. fattorino: è il bel Pagolino, di cui già in precedenza. 10. cardinale lacoacci: questo cardinale sarebbe il nobile romano Domenico cli Cristofano Iacobacci: fatto cardinale da Leone X nel 1517, mori fra il 1527 e il 1528. II. a sua provvisione: ai suoi stipendi.

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tore al padre: - Venite, mio padre, a veder Benvenuto, il quali è con un poco di indisposizione a letto. - Non considerando quel che la indisposizione potessi essere, subito venne a me e, toccatomi il polso, vide e sentì quel che lui volsuto 1 non arebbe. Subito volto al figliuolo, gli disse: - O figliuolo traditore, tu m'ài rovinato: come poss'io più andare innanzi al cardinale? - A cui il figliuol disse: - Molto più vale, mio padre, questo mio maestro che quanti cardinali à Roma. - Allora il medico a me si volse, e disse: - Da poi che io son qui, medicare ti voglio. Solo di una cosa ti fo avvertito: che, avendo usato il coito, se' mortale.2 - Al quali io dissi: - Ùllo usato questa notte. - A questo disse il medico: - In che creatura, e quanto? - E gli dissi: - La notte passata, e in nella giovinissima fanciulletta. - Allora avvedutosi lui delle sciocche parole usate, subito mi disse: - Sì per esser giovini a cotesto modo, le quali ancora non putano, 3 e per essere a buona ora4 il rimedio, non aver tanta paura, ché io spero per ogni modo guarirti. - Medicatomi e partitosi, subito comparse un mio carissimo amico, chiamato Giovanni Rigogli, il quali, increscendoli e del mio gran male e dell'esser lasciato cosi solo da il compagno mio, disse: - Non ti dubitare, Benvenuto mio, che io mai non mi spiccherò5 da te per infin che guarito io non ti vegga. Io dissi a questo amico che non si appressassi a me, perché spacciato ero. Solo lo pregavo che lui fussi contento di pigliare una certa buona quantità di scudi che erano in una cassetta quivi vicina al mio letto, e quelli, di poi che Iddio mi avessi tolto al mondo, gli mandassi a donare al mio povero padre, scrivendogli piacevolmente come ancora io avevo fatto sicondo l'usanza che prometteva quella arrabbiata stagione. Il mio caro amico mi disse non si voler da me partire in modo alcuno, e quello, che da poi occorressi, in nell'uno o in nell'altro modo sapeva benissimo quel che si conveniva fare per lo amico. E cosi passammo innanzi con lo aiuto di Dio e, con i maravigliosi rimedi cominciato a pigliare grandissimo miglioramento, presto a bene di quella grandissima infirmitate campai. Ancora tenendo la piaga aperta, dentrovi la tasta6 e un piastrello' sopra, me ne andai in sun un mio cavallino sal1. volsuto: voluto. 2. mortale: in pericolo di vita. 3. putano: puzzino (è congiuntivo), nel senso che esse siano abusate al vizio e, quindi, malate. 4. a buona ora: cioè sollecito. 5. mi spiccherò: partirò. 6. tasta: garza di lino (per far spurgare la ferita). 7. piastrello: «Quel Panno, o Cuoio, sopra il quale si distende l'impiastro per metterlo su i malori» (Crusca). ·

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vatico, il quale io avevo. Questo aveva i peli lunghi più di quattro dita; era appunto grande come un grande orsacchio, e veramente un orso pareva. In sun esso me ne andai a trovare il Rosso pittore,1 il quali era fuor di Roma in verso Civitavecchia, a un luogo del conte dell' Anguillara detto Cervetera,2 e, trovato il mio Rosso il quali oltra modo si rallegrò, onde io gli dissi: - r vengo a fare a voi quel che voi facesti a me tanti mesi sono-, cacciatosi subito a ridere e abbracciatomi e baciatomi, appresso mi disse che per amor del conte io stessi cheto. Cosi filicemente e lieti con buon vini e ottime vivande, accarezzato3 dal ditto conte, in circa a un mese ivi mi stetti, ed ogni giorno soletto me ne andavo in sul lito del mare,4 e quivi smontavo5 caricandomi di più diversi sassolini, chiocciolette6 e nicchi7 rari e bellissimi. L'utimo8 giorno, che poi più non vi andai, fui assaltato da molti uomini, li quali, travestitisi, eran discesi d'una fusta9 di Mori; e, pensandosi1° d'avermi in modo ristretto11 a un certo passo il quali non pareva possibile a scampar loro delle mani, montato subito in sul mio cavalletto,12 resulutomi al periglioso passo quivi d'essere o arrosto o lesso, perché poca speranza vedevo di scappare di uno dclii duoi modi, come volse lddio il cavalletto, che era qual di sopra io dissi, saltb quello che è impossibile a credere: onde io salvatomi ringraziai Iddio. Lo dissi al conte; lui dette allarme: si vidde le fuste in mare. L'altro giorno appresso sano e lieto me ne ritornai in Roma. [xxx.] Di già era quasi cessata la peste, di modo che quelli che si ritrovavano vivi molto allegramente l'un l'altro si carezzaI. i;; il predetto Rosso fiorentino. Si veda la nota 3 di p. 546. 2. un luogo .•• Cervetn-a: Cerveteri, presso Bracciano. Si pensa che questo conte sia Averso

di Flaminio dell'Anguillara. Sua figlia andò sposa a Giordano di Valerio Orsini generale della Serenissima: perciò gli Orsini furono eredi dei conti dell,Anguillara. 3. accarezzato: ben trattato. 4, sul lito del mare: sulla spiaggia. MS: in sulito del mare; Bacci: «sulito ha un j incrociato con i, non vedo se i o j sia anter. o poster. (ma forse era scritto su lico): aman. ». s. smontavo : da cavallo. 6. chiocciolette: conchigliette. 7. nicchi: gusci di conchiglie (univalve e bivalve), fatti « di un sol pezzo come nelle Chiocciole, o di due come nell'Ostrica• (Tommaseo-Bellini). 8. utimo: ultimo. 9. fusta : piccola nave corsara. («Spezie di N avilio da remo di basso bordo e da corseggiare», Tommaseo-Bellini.) 10. pensandosi: mentre quelli pensavano. 11. ristretto: stretto. 12. cavalletto: cavallino.

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vano.1 Da questo ne nacque una compagnia di pittori, scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; ed il fondatore di questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo.2 Questo Michelagnolo era sanese, ed era molto valente uomo, tale che poteva comparire in fra ogni altri di questa professione, ma sopra tutto era questo uomo il più piacevole ed il più carnale3 che mai si cognoscessi al mondo. Di questa detta compagnia lui era il più vecchio, ma sì bene il più giovine alla valitudine4 del corpo. Noi ci ritrovavomo spesso insieme; il manco5 si era due volte la settimana. Non mi voglio tacere che in questa nostra compagnia si era Giulio romano pittore6 e Gianfrancesco,7 discepoli maravigliosi del gran Raffaello da Urbino. Essendoci trovati più e più volte insieme, parve a quella nostra buona guida che la domenica seguente noi ci ritrovassimo a cena in casa sua e che ciascuno di noi fussi ubbrigato8 a menare la sua cornacchia9 ( ché tal nome aveva lor posto il ditto Michelagnolo); e, chi non la menassi, fussi ubbrigato a pagare una cena a tutta la compagnia. Chi di noi non aveva pratica di tal donne di partito,10 con non poca sua spesa e disagio se n'ebbe a provvedere per non restare a quella virtuosa cena svergognato. Io, che mi pensavo d'esser provvisto bene per una giovane molto bella, chiamata Pantassilea,n la quale era grandemente innamorata di me, fui forzato a concederla a un mio carissimo amico, chiamato il Bachiacca,12 il quali era stato ed era ancora grandemente innamorato di lei. In questo caso si agitava un pochetto

1. si carezzavano: si vezzeggiavano. 2. Michelagnolo di Bernardino di Michele, senese: era uno degli scolari di Giacomo Cozzarelli. In gioventù era stato vari anni fra gli Slavi. Morì nel 1 540. Valendosi del modello di Baldassarre Peruzzi fece, nel 1524, il mausoleo di Adriano VI nella Chiesa dei Tedeschi (Santa Maria dell'Anima). 3. carnale: sensuale. 4. valitudine: salute. 5. il manco: il meno. 6. Giulio romano era figlio di Piero Pippi de' lannuzzi: pittore e architetto, visse dal 1492 al 1546. Discepolo e uno degli eredi di Raffaello, fu molto stimato. Lavorò in Vaticano e a Mantova (come la Vita ricorderà a p. 585) per il marchese Federico Gonzaga. 7. Gianfrancesco: il già menzionato Penni. 8. ubbrigato: obbligato. 9. cornacchia: ganza. 10. di tal donne di partito: cioè di meretrici. 11. Pantassilea: cioè Pentesilea. 12. il Bachiacca: Francesco Ubertini (originariamente Francesco di Ubertino Lippini poi Verdi) nacque nel 1494 e morì nel 1557. Era noto per grottesche e decorazioni. Fece anche lavori di mole per Cosimo I de' Medici. Suoi fratelli sono Bartolommeo (Baccio) pittore e Antonio, ricamatore. (Quest'ultimo sarà ricordato nella Vita, a pp. 874-5, col nome di crBachiacca ricamatore».) La loro famiglia era originaria di Borgo San Lorenzo nel Mugello.

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di amoroso isdegno, perché, veduto che alla prima parola io la concessi al Bachiacca, parve a questa donna che io tenessi molto poco conto del grande amore che lei mi portava; di che ne nacque una grandissima cosa in ispazio di tempo, volendosi lei vendicare della ingiuria ricevuta da me: la qual cosa dirò poi al suo luogo.1 Avvenga che2 l'ora si cominciava a 'ppressare di appresentarsi alla virtuosa compagnia ciascuno con la sua cornacchia e io mi trovavo senza, e pur troppo mi pareva far errore mancare di una si pazza cosa e quel che più mi teneva si era che io non volevo menarvi sotto il mio lume 3 in fra quelle virtù tali qualche spennacchiata cornacchiuccia, pensai a una piacevolezza• per accrescere alla lietitudine maggiori risa. Cosi risolutomi, chiamai un giovinetto de età di sedici anni, il quale stava accanto a me: era figliuolo di un ottonaio spagnuolo. Questo giovine attendeva alle lettere latine ed era molto istudioso; avea nome Diego, era bello di persona, maraviglioso di color di carne: lo intaglio della testa sua era assai più bello che quello antico di Antino 5 e molte volte lo avevo ritratto; di che ne avevo auto molto onore nelle opere mie. Questo non praticava con persona, di modo che non era cognosciuto; vestiva molto male ed a caso :6 solo era innamorato dei suoi maravigliosi studi. Chiamatolo in casa mia, lo pregai che si lasciasse addobbare di quelle veste femminile che ivi erano apparecchiate. Lui fu facile e presto si vestì, e io con bellissimi modi di acconciature presto accresce' gran bellezze al suo bello viso: messigli dua anelletti agli orecchi, dentrovi' dua grosse e belle perle, li detti anelli erano rotti,8 solo istrignevano li orecchi li quali parevano che bucati fussino; da poi li messi9 al collo collane d'oro bellissime e ricchi gioielli : così acconciai le belle mane di anella. Da poi piacevolmente presolo per un orecchio, lo tirai davanti a un mio grande specchio. Il qual giovine vedutosi, con tanta baldanza disse: - Oimè, è quel Diego? - Allora io dissi: - Quello è Diego, al quale io non domandai mai di sorte alcuna piacere: solo ora priego quel Diego che mi compiaccia di un onesto piala qual ... luogo: si veda più avanti, alle pp. 565-9. 2. Avvenga che: benché. 3. sotto il mio lume: cioè con me. 4. piacevolezza: scherzo. 5. Antino: Antinoo, il famoso giovinetto di Bitinia, favorito dell'imperatore Adriano. 6. a caso: senza ricercatezza. 7. dentrovi: con dentro. 8. erano rotti: avevano cioè un fermaglio e non bucavano le orecchie. 9. li messi: gli misi. 1.

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cere. E questo si è che in quel proprio abito io volevo che venissi a cena con quella virtuosa compagnia, che più volte io gli avevo ragionato. - Il giovane onesto, virtuoso e savio, levato da sé quella baldanza, volto gli occhi a terra, stette cosi alquanto sanza dir nulla; di poi, in un tratto alzato il viso, disse: - Con Benvenuto vengo; ora andiamo. - Messoli in capo un grande sciugatoio il quale si domanda in Roma un panno di state,1 giunti al luogo, di già era comparso ugnuno e tutti fattimisi incontro: il ditto lVIichelagnolo era messo in mezzo da Iulio e da Giovanfrancesco. Levato lo sciugatoio di testa a quella mia bella figura, quel Michelagnolo, come altre volte ò detto, era il più faceto ed il più piacevole che immaginar si possa, appiccatosi con tutte a dua le mane una a Iulio ed una a Giovanfrancesco, quanto egli potette in quel tiro li fece abbassare, e lui con le ginocchia in terra gridava misericordia e chiamava tutti e' populi2 dicendo: - Mirate, mirate come son fatti gli angeli del paradiso I che con tutto che si chiamino angeli, mirate che v'è ancora delle angiole - : e gridando diceva: O angiol bella, o angiol degna, tu mi salva, e tu mi segna,3

A queste parole la piacevo} creatura ridendo alzò la mana destra, e gli dette una benedizion papale con molte piacevo} parole. Allora, rizzatosi, Michelagnolo disse che al papa si baciava i piedi e che agli angeli si baciava le gote: e, così fatto, grandemente arrossi il giovane, che per quella causa si accrebbe bellezza grandissima. Cosi, andati innanzi, la stanza era piena di sonetti, che ciascun di noi aveva fatti e mandatigli a Michelagnolo. Questo giovine li cominciò a leggere, e gli lesse tutti: accrebbe alle sue infinite bellezze tanto che saria impossibile il dirlo. Di poi molti ragionamenti e maraviglie ai quali io non mi voglio stendere, ché non son qui per questo: solo una parola mi sovvien dire, perché la disse quel maraviglioso I ulio pittore, il quale, virtuosamente girato gli occhi a chiunque era ivi attorno ma più affisato le donne che altri, voltasi a Michelagnolo cosi disse: - Michelagnolo mio 1. di ftate: cioè leggero (da estate). 2. e' populi: i circostanti. 3. Nel manoscritto questi due versi sono di seguito. (Essi derivano probabilmente da un cantico religioso.)

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caro, quel vostro nome di cornacchie oggi a costoro sta bene, benché le sieno qualche cosa manco belle che cornacchie appresso a uno de' più bei pagoni1 che immaginar si possa. - Essendo presto ed in ordine le vivande, volendo metterci a tavola, Iulio chiese di grazia di volere essere lui quel che a tavola ci mettessi. Essendogli tutto. concesso, preso per mano le donne, tutte le accomodò per di dentro, e la mia in mezzo; di poi tutti gli uomini messe di fuori e me in mezzo, dicendo che io meritavo ogni grande onore. Era ivi per ispalliera alle donne un tessuto di gelsumini naturali2 e bellissimi, il quale faceva tanto bel campo3 a quelle donne, massimo alla mia, che impossibile saria il dirlo con parole. Così seguitammo ciascuno di bonissima voglia quella ricca cena, la quale era abbundantissima a maraviglia. Di poi che avemmo cenato, venne un poco di mirabil musica di voce insieme con istrumenti e, perché cantavano e sanavano con i libri innanzi,4 la mia bella figura chiese da cantare la sua parte; e, perché quella della musica lui la faceva quasi meglio che l'altre, dette tanto maraviglia che li ragionamenti che faceva Iulio e Michelagnolo non erano più in quel modo di prima piacevoli, ma erano tutti di parole grave, salde e piene di stupore. 5 Appresso alla musica, un certo Aurelio ascolano,6 che maravigliosamente diceva alla improvviso,' cominciatosi a lodar le donne con divine e belle parole, in mentre8 che costui cantava, quelle due donne, che avevano in mezzo quella mia figura, 9 non mai restate di cicalare; ché una di loro diceva in nel modo ch'ella fece a capitar male,1° raltra domandava la mia figura in che modo lei aveva fatto, e chi erano li sua amici, e quanto tempo egli era che l'era arrivata in Roma, e molte di queste cose tali (egli è il vero che, se io facessi solo per descrivere cotai piacevolezze, direi molti accidenti che vi accaddono, mossi da quella Pantassilea la quale forte era innamorata di me; ma, per non essere in nel mio proposito, brevemente li passo); ora, venuto a noia questi ragionamenti di quelle bestie donne alla mia figura, alla quali noi avevamo posto nome Pomona, la detta pagani: pavoni. 2. naturali: di grandezza e colori naturali. 3. campo: sfondo. 4. con •.• innanzi: cioè seguendo le notazioni musicali. s. piene di stupore: stupende. 6. Aurelio ascolano: pare sia l'improvvisatore Eurialo d'Ascoli, di cui sono note alcune Stanze messe a stampa. 7. alla improvviso: improvvisando. 8. in mentre: MS: inmenentre. 9. quella mia figura: Diego. 10. a .capitar male: cioè a darsi alla vita licenziosa. I.

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Pomona volendosi spiccare da quelli sciocchi ragionamenti di coloro si scontorceva ora in sun una banda ora in su l'altra. Fu domandata da quella femmina che aveva menata Iulio se lei si sentiva qualche fastidio. Disse che si, e che si pensava d'esser grossa di qualche mese e che si sentiva dar noia alla donna del corpo.1 Subito le due donne che in mezzo l'avevano, mossosi a pietà di Pomona, mettendogli le mano al corpo trovorno che l'era mastio.2 Tirando presto le mani a loro con ingiuriose parole quali si usano dire ai belli giovanetti,3 levatosi da tavola, subito le grida spartesi e con gran risa e con gran maraviglia, il fiero Michelagnolo chiese licenza da tutti di poter darmi una penitenzia a suo modo. Avuto il sì, con grandissime grida mi levò di peso, dicendo: - Viva il signore! Viva il signore! - E disse che quella era la condannagione che io meritavo aver fatto un così bel tratto.4 Così fini la piacevolissima cena e la giornata: e ugnun di noi ritornò alle case sue.

[xxxi.] Se io volessi descrivere percisamente5 quale e quante erano le molte opere che a diverse sorte di uomini io faceva, troppo serebbe lungo il mio dire. Non mi occorre per ora dire altro, se none che io attendevo con ogni sollecitudine e diligenzia a farmi pratico in quella diversità e differenzia di arte6 che disopra ò parlato. Cosi continuamente di tutte lavoravo; e, perché non m'è venuto alla mente ancora occasione di descrivere qualche mia opera notabile, aspetterò di porle al suo luogo, che presto verranno. Il detto Michelagnolo sanese, scultore, in questo tempo faceva la sepoltura de il morto papa Adriano.' Iulio romano, pittore ditto, se ne andò a servire il marchese di Mantova.8 Gli altri compagni si ritirorno chi in qua e chi in là a sue faccende, 1. alla donna del corpo: cioè all'utero. 2. mastio: maschio. 3. quali si usano . • . belli giooanetti: questo conferma che tutto l'episodio poggia sulla figura equivoca del giovane (anche se il Cellini ne parla con atteggiamenti staccati). 4. aver ... tratto: per aver escogitato un cosi bello scherzo. 5. percisamente: precisamente. 6. diversità . .. arte: cioè sia con opere di finissima oreficeria sia con lavori di maggior mole. 7. Adriano VI fiammingo (Adriano Florensz da Utrecht, nato nel 1459), fu eletto papa alla morte di Leone X il 9 gennaio 1522 e visse fino al 14 settembre 1523. 8. il marchese.di Mantova: Federico II Gonzaga (1500-1540). Era stato Baldassare Castiglione a procurargli nel 1523, Giulio Romano per nuovi lavori in Mantova e particolarmente per il grande palazzo del Te.

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in modo che la ditta virtuosa compagnia quasi tutta si disfece. In questo tempo mi capitò certi piccoli pugnaletti turcheschi/ ed era di ferro il manico sl come la lama del pugnale; ancora la guaina era di ferro similmente. Queste ditte cose erano intagliate, per virtù di ferri, molti bellissimi fogliami alla turchesca e pulitissimamente commessi d'oro: la qual cosa mi incitò grandemente a desiderio di provarmi ancora a affaticarmi in quella professione tanta diversa dall'altre; e, veduto ch'ella benissimo mi riusciva, ne feci parecchi opere.2 Queste tali opere erano molto più belle e molto più istabile che le turchesche per più diverse cause. L'una si era che in ne' 3 mia acciai io intagliavo molto profondamente a sottosquadro; ché tal cosa non si usava per i lavori turcheschi. L'altra si era che li fogliami turcheschi non sono altro che foglie di gichero4 con alcuni fiorellini di clizia :5 se bene ànno qualche poco di grazia, la non continua di piacere come fanno i nostri fogliami. Benché in nell'Italia siamo diversi cli modo di fare fogliami, perché i Lombardi fanno bellissimi fogliami ritraendo foglie de ellera6 e di vitalba con bellissimi girari,7 le quali fanno molto piacevol vedere: li Toscani ed i Romani in questo genere presono molto8 migliore elezione, perché contraffanno le foglie d'acanto, detta branca orsina,9 con i sua festuchi 10 e fiori, girando in diversi modi; ed in fra i detti fogliami viene benissimo accomodato alcuni uccelletti e diversi animali, qual si vede chi à buon gusto. Parte ne truova naturalmente nei fiori salvatici, come è quel_le che si chiamano bocche di lione, che cosi in alcuni fiori si discerne, accompagnate con altre belle immaginazione di quelli valenti artefici: le qual cose son chiamate da quelli che non sanno, grottesche. 11 Queste grottesche hanno acquistato questo nome dai moderni per essersi trovate in certe caverne della terra in Roma dagli studiosi, le quali caverne12 anticamente erano camere, stufe,1 3 studii, sale ed altre cotai cose. Questi studiosi trovandole in queI. turcheschi: turchi. 2. parecchi opere: cioè diversi esemplari. 3. in ne': MS: in e'. 4. Il gic/iero (o gigaro) è della famiglia delle aracee. 5. clizia: è il girasole (dal ricordo mitologico della ninfa Clizia innamorata di Apollo). 6. de ellera: d'edera. 7. girari: volute. l\1S: com bellissimi girari. 8. molto: MS: molt'. 9. branca orsina: soprannome di una varietà d•acanto. (È detta anche acanto domestico.) 10.festucl,i: viticci (lo stesso chefestuche, fuscellini in genere). 11. grottesche: il nome viene dalle decorazioni trovate nelle grotte o catacombe. Vedi la nota I a p. 85. 12. caverne: appunto situate nel sottosuolo o nelle cavità dei colli. 13. stufe: cioè bagni, tenne.

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sti luoghi cavernosi, per essere alzato dagli antichi in qua il terreno e restate quelle in basso e perché il vocabulo chiama quei luoghi bassi in Roma, grotte da questo si acquistorno il nome di grottesche. Il qual non è il suo nome, perché, si bene come gli antichi si dilettavano di comporre de' mostri usando con capre, con vacche e con cavalle, nascendo questi miscugli gli domandavono1 mostri, cosi quelli artefici facevano con i loro fogliami questa sorte di mostri: e mostri è 'l vero lor nome e non grottesche. Facendo io di questa sorte fogliami commessi2 nel sopradditto modo, erano molto più belli da vedere che li turcheschi. Accadde in questo tempo che in certi vasi, i quali erano umette antiche piene di cenere, fra essa cenere si trovò certe anella di ferro commessi d'oro insin dagli antichi, ed in esse anella era legato un nicchiolino3 in ciascuno. Ricercando quei dotti, dissono che queste anella le portavano coloro che avevano caro di star saldi col pensiero in qualche stravagante accidente avvenuto loro cosi in bene come in male. A questo io mi mossi, a requisizione4 di certi signori molto amici miei, e feci alcune di queste anellette; ma le facevo di acciaro ben purgato :5 di poi, bene intagliate e commesse d'oro, facevano bellissimo vedere; e fu talvolta che di uno di questi anelletti, solo delle mie fatture, ne ebbi più di quaranta scudi. Se usava in questo tempo alcune medagliette d'oro, che ogni signore e gentiluomo li piaceva fare sculpire in esse un suo capriccio o impresa ;6 e le portavano nella berretta. Di queste opere io ne feci assai, ed erano molto difficile a fare. E, perché il gran valente uomo ch'io dissi, chiamato Caradosso, ne fece alcune, le quali come erano di più di una figura non voleva manco che cento scudi d'oro dell'una7 (la qual cosa, non tanto per il premio8 quanto per la sua tardità, 9 io fui posto innanzi a certi signori, ai quali in fra l'altre feci una medaglia a gara di10 questo gran valent>uomo: in nella qual medaglia era quattro figure intorno alle quali io mi ero molto affaticato), accadde che li detti gentiluomini e signori, ponendola accanto a quella del maraviglioso I. domandavono: chiamavano. 2. sorte .•• commessi: sorta di fogliami intrecciati. 3. niccl,iolino: conchiglietta. 4. requisizione: richiesta. 5. p11rgato: temprato. 6. impresa: su queste imprese è tutta una letteratura, e già si son viste quelle di cui parla il Cortegiano (qui addietro a p. 20; cfr. la nota 12). 7. dell'una: di ognuna. 8. premio: valore. 9. tardità: lentezza (cioè il tempo occorrente per l'esecuzione). 10. a gara di: a gara con.

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Caradosso, dissono che la mia era assai megJio fatta e più bella e che io domandassi quel che io volevo delle fatiche mie perché, avendo io loro tanto ben satisfatti, che loro me voleano satisfare altanto. Ai quali io dissi che il maggior premio delle fatiche mie e quello che io più desiderava si era lo aggiugnere appresso alle opere di un così gran valent'uomo e che, a lor1 signorie cosl paressi, io pagatissimo mi domandavo. Cosl partitomi subito, quelli mi mandorno appresso un tanto liberalissimo presente che io fui contento e mi crebbe tanto animo di far bene che fu causa di quello che per lo avvenire si sentirà.

[xxxu.] Se bene io mi discosterò alquanto dalla mia professione2 volendo narrare alcuni fastidiosi incidenti intervenuti in questa mia travagliata vita, e perché avendo narrato per l'addietro di quella virtuosa compagnia e delle piacevolezze accadute per conto di quella donna ch'io dissi, Pantassilea (la quale mi portava quel falso e fastidioso amore, e isdegnata grandissimamente meco per conto di quella piacevolezza, dove era intervenuto a quella cena Diego spagnuolo di già ditto), lei avendo giurato vendicarsi meco, nacque una occasione che io descriverrò, dove corse la vita mia a ripentaglio grandissimo. E questo fu che, venendo a Roma un giovanetto chiamato Luigi Pulci, 3 figliuolo di uno de' Pulci al quale fu mozzato il capo per avere usato con la figliuola, 4 questo ditto giovane aveva maravigliosissimo ingegno poetico e cognizione di buone lettere latine; iscriveva bene; era di grazia e di forma oltramodo bello: erasi partito da non so che vescovo ed era tutto pieno di mal franzese. E, perché quando questo giovane era in Firenze la notte di state in alcuni luoghi della città si faceva raddotti5 in nelle proprie strade, dove questo giovane in fra i migliori si trovava a cantare allo improvviso; era tanto bello udire il suo che il divino Michelagnolo Buonarroti,6 eccellentissimo scultore e pittore, sempre che sapeva dov'egli era con grandissimo desiderio e piacere lo andava a udire; .e un certo 1. a lor: se a loro. 2. dalla mia professione: cioè dal racconto della mia vita d'artista. 3. Luigi Pulci: era nipote di Luigi Pulci, l'autore del Morgante. 4. al quale ... figliuola: si tratta di Iacopo, figlio del poeta: per tale misfatto venne decapitato il 15 novembre I 53 I. 5. raddotti: riunioni, adunanze. 6. Buonarroti: MS: Buonaaroti (Bacci: •è scritto buona, e aroti è scritto di seguito a ruoti cass. lin. aman. »).

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chiamato il Piloto,1 valentissimo uomo, orefice, e io gli facevomo compagnia. In questo modo accadde la cognizione2 in fra Luigi Pulci e me; dove passato di molti anni, in quel modo mal condotto mi si scoperse a Roma pregandomi che io lo dovessi per l'amor de Dio aiutare. Mossomi a compassione per le gran virtù sua, per amor della patria e per essere il proprio della natura mia, lo presi in casa e lo feci medicare in modo che, per essere a quel modo giovane, presto si ridusse alla sanità. In mentre che costui procacciava per essa sanità,3 continuamente studiava, e io lo avevo aiutato provveder di molti libri sicondo la mia possibilità; in modo che, cognosciuto questo Luigi il gran benifizio ricevuto da me, più volte con parole e con lacrime mi ringraziava, dicendomi che se Iddio li mettessi mai innanzi qualche ventura4 mi renderebbe il guidardone 5 di tal benifizio fattoli. Al quale io dissi che io non avevo fatto a lui quello che io arei voluto ma sl bene quel che io potevo e che il dovere delle creature umane si era sovvenire l'una l'altra; solo gli ricordavo che questo benifizio che io gli avevo fatto lo rendessi a un altro che avessi bisogno di lui, si bene come lui ebbe bisogno di me; e che mi volessi bene da amico e per tale mi tenessi. Cominciò questo giovane a praticare la Corte di Roma, nella quale presto trovò ricapito6 ed acconciossi con un vescovo, uomo di ottanta anni ed era chiamato il vescovo Gurgensis.7 Questo vescovo aveva un nipote, che si domandava misser Giovanni: era gentiluomo veniziano; questo ditto misser Giovanni dimostrava grandemente d'essere innamorato delle virtù di questo Luigi Pulci, e sotto nome di queste sue virtù se l'aveva fatto tanto domestico8 come se fussi lui stesso. Avendo il detto Luigi ragionato di me e del grande obbrigo che lui mi aveva, con questo misser Giovanni, causò che 'l detto misser Giovanni mi volse conoscere. Nella qual cosa accadde che avendo io una sera in fra !'altre fatto un po' di pasto9 a quella già ditta Pantassilea, il Piloto: si chiamava Giovanni di Baldassarre. (Nato a Firenze nella seconda metà del secolo XV, mori nel 1536.) Era orefice e scultore. Lo menziona più volte il Vasari nelle Vite. Da alcuni è stato confuso con l'umanista Pelotti. 2. cognizione: conoscenza. 3. procacciava per essa sanità: si adoperava per star in tale salute. 4. 'Ventura: occasione fortunata. 5. guidardone: compenso. 6. ricapito: accoglienza. 7. il vescovo Gurgensis: è Girolamo Balbo, vescovo di Gurck nella Carinzia. Morl nel 1555. Fu molto lodato per la sua dottrina e per l'eleganza dello stile delle sue epistole latine. 8. domestico: familiare. 9. un po, di pasto: qualcosa da mangiare. 1.

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alla qual cena io avevo convitato molti virtuosi amici mia, sopraggiuntoci appunto nell'andare a tavola il ditto misser Giovanni con il ditto Luigi Pulci, appresso alcuna cirimonia fatta1 restorno a cenare con esso noi. Veduto questa isfacciata meretrice il bel giovine, subito gli fece disegno addosso ;a per la qual cosa, finito che fu la piacevole cena, io chiamai da canto il detto Luigi Pulci dicendogli, per quanto obbrigo lui s'era vantato di avermi, non cercassi in modo alcuno la pratica di quella3 meretrice. Alle qual parole lui mi disse: - Oimè, Benvenuto mio, voi mi avete adunque per un insensato? - Al quale io dissi: - Non per insensato, ma per giovine. - E per Dio gli giurai4 che - di lei io non b un pensiero al mondo, ma di voi mi dorrebbe bene che per lei voi rompessi il collo. 5 - Alle qual parole lui giurò che pregava Iddio che, se mai e' le parlassi, subito rompesse il collo. Dovette questo povero giovane fare tal giuro a Dio con tutto il cuore, perché e' roppe il collo come qui appresso si dirà. Il detto misser Giovanni si scopri seco d'amore sporco6 e non virtuoso, perché si vedeva ogni giorno mutare veste di velluto e di seta al ditto giovane, e si cognosceva eh' e' s'era dato in tutto alla scelleratezza ed aveva dato bando alle sue belle mirabile virtù, e faceva vista di non mi vedere e di non mi cognoscere, perché io lo avevo ripreso dicendogli che s'era dato in preda a brutti vizii i quali gli arien fatto rompere il collo come disse.

[x,cxnI.] Gli aveva quel suo misser Giovanni compro7 un cavallo morello bellissimo, in nel quale aveva speso centocinquanta scudi. Questo cavallo si maneggiava mirabilissimamente, in mode;, che questo Luigi andava ogni giorno a saltabeccar con questo cavallo intorno a questa meretrice Pantassilea. Io, avvedutomi di tal cosa, non me ne curai punto, dicendo che ogni cosa faceva secondo la natura sua; e mi attendevo a' mia studi. Accadde una domenica sera che noi fummo invitati da quello scultore Michelagnolo sanese a cena seco, ed era di state. A questa cena ci era il Bachiacca già ditto e con esso aveva menato quella ditta Pantas1. appresso .•• fatta: dopo qualche convenevole. 2. gli ... addosso: se ne invaghì ai suoi fini. 3. la pratica di quella: di praticare quella. 4. gli giurai: MS : et ui protesto et giuro. Bacci: • Le parole ui protesto et cass. lin., e so-. prar. di man. Celi. è scritto p dio gli: giuro è ridotto a giurai (Celi. ?). Il verbo ò è rimasto intatto». 5. voi rompessi il collo: cioè vi capitasse male. 6. d'amore sporco: cioè d'amore greco. .7. compro: comperato.

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silea, sua prima pratica. Cosi, essendo a tavola a cena, lei era a sedere in mezzo fra me e il Bachiacca ditto: in su il più bello della cena lei si levò da tavola, dicendo che voleva andare a alcune sue comodità, perché si sentiva dolor di corpo, e che tornerebbe subito. In mentre che noi piacevolissimamente ragionavamo e cenavamo, costei era soprastata1 alquanto più che il dovere. Accadde che, stando in orecchi, mi parve sentire isghignazzare cosl sommissamente nella strada. Io tenevo un coltello in mano, il quale io adoperavo in mio servizio a tavola. Era la finestra tanto appresso alla tavola che, sollevatomi alquanto, viddi nella strada quel ditto Luigi Pulci insieme colla ditta Pantassilea, e senti' di loro Luigi che disse: - Oh se quel diavolo di Benvenuto ci vedessi, guai a noil - E lei disse: - Non abbiate paura, sentite che romore e' fanno: pensano a ogni altra cosa che a noi. - Alle qual parole io che gli avevo conosciuti mi gettai da terra la finestra,2 e presi Luigi per la cappa e col coltello che io avevo in mano certo lo ammazzavo ma, perché gli era in sun un cavalletto bianco, al quale lui dette di sprone, lasciandomi la cappa in mano per campar3 la vita, la Pantassilea si cacciò a fuggire in una chiesa quivi vicina. Quelli che erano a tavola, subito levatisi, tutti vennono alla volta mia pregandomi che io non volessi disturbare né me né loro a causa di una puttana. Ai quali io dissi che per lei io non mi sarei mosso, ma sl bene per quello scellerato giovine il quale dimostrava di stimarmi si poco. E cosi non mi lasciai piegare da nessuna di quelle parole di quei virtuosi uomini da bene, anzi presi la mia spada e da me solo me ne andai in Prati ;4 perché la casa dove noi cenavamo era vicina alla porta di Castello che andava in Prati. Cosi andando alla volta di Prati, non istetti molto che, tramontato il sole, a lente passo me ne ritornai in Roma. Era già fatto notte e buio, e le porte di Roma non si serravano. Avvicinatosi a dua ore, 5 passai da casa di questa Pantassilea con animo che, essendovi quel Luigi Pulci, di fare dispiacere a l'uno e l'altro. Veduto e sentito che altri non era in casa che una servaccia chiamata la Canida, andai a posare la cappa ed il fodero della spada, e cosi me ne venni alla ditta casa la quali era drieto a Banchi6 I. era soprastata: s'era trattenuta. 2. da terra la finestra: cioè dalla finestra a terra (sulla strada). 3. campar: scampare, aver salva. 4. in Prati: cioè nella distesa dietro Castel Sant'Angelo. 5. Avvicinatosi a dua ore: circa due ore dopo il tramonto. 6. Banchi: era la celebre via dei mercanti (cosi chiamata dai banchi per le vendite); oggi via Banco Santo Spirito.

LA VITA • LIBRO PRIMO

in sul fiume del Tevero. Al dirimpetto a questa casa si era un giardino di un oste che si domandava Romolo: questo giardino era chiuso da una folta siepe di marmerucole,1 in nella quale cosi ritto mi nascosi aspettando che la ditta donna venissi a casa insieme con Luigi. Alquanto soprastato,2 capitò quivi quel mio amico detto il Bachiacca, il quale o sl veramente se l'era immaginato o gli era stato detto. Sommissamente mi chiamò compare (ché così ci chiamavamo per burla); e mi pregò per l'amor di Dio, dicendo queste parole quasi che piangendo: - Compar mio, io vi priego che voi non facciate dispiacere a quella poverina, perché lei non à una colpa al mondo. - A il quale io dissi: - Se a questa prima parola voi non mi vi levate d'innanzi, io vi darò di questa spada in sul capo. - Spaventato, questo mio povero compare subito se li mosse il corpo,3 e poco discosto possette andare, ché bisognò che gli4 ubbidissi. Gli era uno stellato, che faceva un chiarore grandissimo: in un tratto io sento un romore di più cavagli, e da l'un canto e dall'altro venivano innanzi. Questi si erano il ditto Luigi e la ditta Pantassilea accompagnati da un certo misser Benvegnato perugino, cameriere di papa Clemente, e con loro avevano quattro valorosissimi capitani perugini con altri bravissimi .giovani soldati: erano in fra tutti più che dodici spade. Quando io viddi questo, considerato che io non sapevo per qual via mi fuggire, m'attendevo a ficcare 5 in quella siepe. E, perché quelle pungente marmerucole mi facevano male e mi aissavo6 come si fa il toro, quasi risolutomi di fare un salto e fuggire, in questo, Luigi aveva il braccio al collo alla detta Pantassilea, dicendo: - Io ti bacerò pure un tratto, al dispregio di quel traditore di Benvenuto-, a questo, essendo molestato dalle ditte marmerucole e sforzato dalle ditte parole del giovine, saltato fuora alzai la spada; con gran voce dissi: - Tutti siate morti. - In questo il colpo della spada cadde in su la spalla al "ditto Luigi e, perché questo povero giovine que' satiracci' l'avevano tutto inferrucciato8 di giachi e d'altre cose tali, il colpo fu grandissimo; e, voltasi la spada, dette in sul naso e in su la bocca alla ditta Pantassilea. Caduti tutti a dua in terra, il Bachiacca con le calze9 a mezza gamba gridava e fuggiva. 1. marmenlcole: «Pianta spinosa. Forse lo stesso che Marruca » (Fanfani, citato da Tommaseo-Bellini). 2. soprastato: indugiato. 3. se li mosse il corpo: gli venne voglia d'andar di corpo. 4. g/i: egli (pleonastico). 5. m'attendevo a ficcare: pensavo di ficcarmi. 6. aissavo: aizzavo •. 7. satiracci: z.oticoni. 8. inferrucciato: imbQttito. 9. calze: calzoni..Vedi la nota 3 a p. 399.

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Voltomi agli altri arditamente con la spada, quelli valorosi uomini, per sentire un gran romore che aveva mosso l'osteria, pensando che quivi fussi l'esercito di cento persone, se bene valorosamente avevano messo mano alle spade, dua cavalletti in fra gli altri ispaventati gli missano in tanto disordine che, gittando dua di quei migliori sottosopra, gli altri si missono in fuga: e io, veduto uscirne a bene, con velocissin10 corso a onore usci' di tale impresa, non volendo tentare più la fortuna che 'I dovere.1 In quel disordine tanto smisurato s'era ferito con le loro spade medesime alcun di quei soldati e capitani, e misser Benvegnato ditto, camerier del papa, era stato urtato e calpesto2 da un suo muletto; ed un servitore suo, avendo messo man per la spada, cadde con esso insieme e lo ferì 'n una mana malamente. Questo male causb che più che tutti li altri quel misser Benvegnato giurava3 in quel lor modo perugino, dicendo: - Per lo cul di Dio,4 ché io voglio che Benvegnato insegni vivere a Benvenuto. - E commesse5 a un di quei sua capitani, forse più ardito che gli altri, ma6 per esser giovane aveva manco discorso. Questo tale mi venne a trovare dove io mi ero ritirato, in casa un7 gran gentiluomo napoletano il quale, avendo inteso e veduto alcune cose della mia professione, appresso a quelle la disposizione de l'animo e del corpo atta a militare, la qual cosa era quella a che il gentiluomo era inclinato, in modo che, vedutomi carezzare,8 e trovatomi ancora io nella propria beva mia,9 feci una tal risposta a quel capitano per la quale io credo che molto si pentisse di essermi venuto innanzi. Appresso a pochi giorni, rasciutto10 alquanto le ferite e a Luigi e alla puttana e a quelli altri, questo gran gentiluomo napoletano fu ricerco 11 da quel misser Benvegnato, al cui1 2 era uscito il furore, di farmi far I. che 'l dovere: che il dovuto. 2. calpesto: calpestato. 3. giurava: bestemmiava. 4. Per lo cui di Dio: Bacci: « per lo .•. » (seguito da tutte le edizioni). Lo studioso avvertiva come nel manoscritto fosse una cassatura di due o tre lettere, indecifrabili. Le ha lette GIUSTINO CRISTOFANI, Integrazione di unafrase della« Vita» di Benvenuto Ce/lini, in «Lares», xxn, 1957, pp. 1520 (con la riproduzione della c. 68v del codice mediceo-palatino 3342 ). La bestemmia è «tipicamente perugina:·che essa esca dalla bocca d'un cameriere del papa, non stupisce nessuno di quanti conoscono le condizioni della Chiesa prima della Controriforma e del Concilio di Trento» (p. 16). 5. commesse: diede l'incombenza (di sfidarmi). 6. ma: ma che. 7. in casa un: in casa d'un. (Uso assai frequente nel Cinquecento. ed anche oggi non sparito nelle parlate popolari di Toscana.) 8. carezzare: trattar bene. 9. trovatomi • •• mia: trovandomi inoltre a mio agio. 10. rasciutto: cioè .,asciutte, rimarginate. I I. ricerco: ricercato. I 2. al cui: a cui.

LA VITA • LIBRO PRIMO

pace con quel giovane detto Luigi e che quelli valorosi soldati, li quali non avevano che fare nulla con esso meco, solo mi volevano cognoscere. La qual cosa quel gentiluomo -disse a tutti che mi merrebbe 1 dove e' volevano e che volontieri mi farebbe far pace, con questo: che non si dovessi né dall'una parte né dall'altra ricalcitrar parole,2 perché sarebbon troppo contra il loro onore: solo bastava far segno di bere e baciarsi e che le parole le voleva usar lui, con le quale lui volentieri li salveria. Cosi fu fatto. Un giovedl sera il detto gentiluomo mi menò in casa al ditto misser Benvegnato, dove era tutti quei soldati che s'erano trovati a quella isconfitta, ed erano ancora a tavola. Con il gentiluomo mio era più di trenta valorosi uomini, tutti ben armati: cosa che il ditto misser Benvegnato non aspettava. Giunti in sul salotto, prima il detto gentiluomo, e io appresso, disse queste parole: - Dio vi salvi, signori: noi siamo giunti a voi, Benvenuto e io, il quale io lo amo come carnai fratello; e siamo qui volentieri a far tutto quello che voi avete voluntà di fare. - Misser3 Benvegnato, veduto empiersi la sala di tante persone, disse: - Noi vi richiedemo di pace, e non d'altro. - Così misser Benvegnato promisse che la corte4 del governatore di Roma non mi darebbe noia. Facemmo la pace: onde io subito mi ritornai alla mia bottega, non potendo stare una ora sanza quel gentiluomo napoletano, il quale o mi veniva a trovare o mandava per me. In questo mentre guarito il dittQ Luigi Pulci, ogni giorno era in su quel suo cavallo morello che tanto bene si maneggiava. 5 Un giorno in fra gli altri, essendo piovegginato e lui atteggiava6 il cavallo appunto in su la porta di Pantas~ilea, isdrucciolando cadde ed il cavallo addòssogli :7 rottosi la gamba dritta in tronco, in casa la ditta8 Pantassilea ivi a pochi giorni mori, ed adempiè il giuro9 che di cuore lui a Dio aveva fatto. Così si vede che lddio tien conto de' buoni e de' tristi, ed a ciascun dà il suo merito.10

I. merrebbe: menerebbe; condurrebbe. 2. ricalcitrar parole: litigare con aspro diverbio. 3. Misser: MS: Miser (e così sotto). 4. la corte: cioè la compagnia delle guardie. s. che .•. 1na11eggiava: con cui tanto bene faceva gli esercizi. 6. atteggiava: metteva in posizione. 7. addè>ssogli: gli ruinò addosso. 8. in ... ditta: in casa della suddetta. 9. giuro: giuramento. 10. il suo merito: secondo il suo merito.

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[xx.~1v.] Era di già tutto il mondo in arme.1 Avendo papa Clemente mandato a chiedere al signor Giovanni de' Medici2 certe bande di soldati, i quali vennono, questi facevano tante gran cose3 in Roma che gli era male4 stare alle botteghe pubbliche. Fu causa che io mi ritirai in una buona casotta5 drieto a' Banchi; e quivi lavoravo a tutti6 quelli guadagnati mia amici. I mia lavori in questo tempo non furno cose di molta importanza; però non mi occorre ragionar di essi. Mi dilittai in questo tempo molto della musica e di tai piaceri simili a quella. Avendo papa Clemente, per consiglio di misser Iacopo Salviati,7 licenziato quelle cinque bande che gli aveva mandato il signor Giovanni, il quale di già era morto in Lombardia,8 Borbone,9 saputo che a Roma non era10 soldati, sollecitissimamente spinse l'esercito suo alla volta di Roma. Per questa occasione tutta Roma prese l'arme; il perché, essendo io molto amico di Alessandron figliuol di Piero del Bene e perché a tempo che i Colonnesi vennono in Roma12 mi richiese che io gli guardassi 13 la casa sua, dove che14 a questa maggiore occasione mi pregò che io facessi15 cinquanta compagni per guardia di detta casa e che io fussi lor guida, si come avevo fatto a tempo de' Colonnesi: onde io feci cinquanta valorosissimi giovani, e

1. Era • •• arme: per la guerra fra Carlo V e Francesco I 5:n e conclusa col trattato di Cambrai. «La chiesa favorì

I, scoppiata nel prima l'imperatore, poi fu mediatrice di pace, indi si dichiarò per la Francia» (Bacci). 2. Giovanni de' Medici: Giovanni delle Bande Nere. Vedi la nota 7 a p. 5n. 3. gran cose: cioè prepotenze, come facevano spesso le milizie mercenarie. 4. male: pericoloso. 5. casotta: casetta. 6. a tutti: per tutti. 7. Iacopo Salviati: vedi la nota 2 a p. 510. 8. il quale ••• Lombardia: ·nel 1526, per la ferita alla coscia d'un colpo di falconetto, in un fatto d'anne a Governolo presso Mantova. Famoso è il dolore manifestato dall'Aretino per la morte dell'eroico soldato. 9. Carlo di Borbone, cugino di Francesco I: essendosi inimicato col re, era passato dalla parte dell'imperatore nel 1523 e al principio del 1527 si era unito con le bande tedesche del Frundsberg, capo dei Lanzichenecchi, e veniva a comandare una vera banda di malfattori e di violenti. 10. non era: non vi erano. 11. Alessandro: costui sarà ricordato ancora nella Vita, a p. 640. (Suo padre Piero del Bene • nel 1540, come rilevasi dai documenti, era ricco mercante e banchiere in Roma 11, D'Ancona.) 12. a tempo ... Roma: le loro genti, entrate col cardinal Pompeo Colonna, il 19 settembre 1526 sobillarono la plebe romana alla ribellione contro il governo papale, e misero a sacco il Palazzo Vaticano: ·Clemente VII dovette quindi fare un trattato in favore degli Imperiali. 13. guardassi: tutelassi, come si dirà subito dopo, con una sorveglianza ·annata. 14. dove che: ragione per cui. 15.facessi: mettessi insieme (per costituire una vera banda).

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intrammo in casa sua ben pagati e ben trattati. Comparso di già l'esercito di Borbone alle mura di Roma,1 il detto Alessandro del Bene mi pregò che io andassi seco a farli compagnia; cosi andammo un di quelli miglior compagni ed io, e per la via con esso noi si accompagnò un giovanetto addomandato Cecchino della Casa. Giugnemmo alle mura di Camposanto,2 e quivi vedemmo quel maraviglioso esercito che di già faceva ogni suo sforzo per entrare. A quel luogo delle mura dove noi ci accostammo, v'era molti giovani morti3 da quei di fuora; quivi si combatteva a più potere :4 era una nebbia folta quanto immaginar si possa; io mi volsi a Alessandro e li dissi: - Ritiriamoci a casa il più presto che sia possibile, perché qui non è un rimedio al mondo; voi vedete, quelli montano 5 e questi fuggono. - Il ditto Lessandro spaventato, disse: - Cosi volessi Iddio che venuti noi non ci fussimo - e così voltosi6 con grandissima furia per andarsene: il quale io ripresi, dicendogli: - Da poi che voi n1i avete menato qui, gli è forza fare qualche atto da uomo. - E, volto il mio archibuso dove io vedevo un gruppo di battaglia' più folta e più serrata, posi la mira in nel mezzo appunto a uno che io vedevo sollevato dagli altri ;8 per la qual cosa la nebbia non mi lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè. Voltomi subito a Lessandro ed a Cecchino, dissi loro che sparassino i loro archibusi; ed insegnai 1. Comparso .•• Roma ecc.: come il Bacci avverte, questi e altri particolari lasciati dal Cellini intorno al Sacco del 1527, vanno presi con beneficio d'inventario data la sua sbrigliata e immaginifica fantasia di narratore che di tutto si vanta nella continua ricerca del grandioso e del mirabolante. Va fatto quindi rinvio, con lo studioso, alle opere storiche in materia per chi volesse esaminare queste note pagine della Vita - culminanti nella vanteria di aver ucciso il Borbone con un'archibugiata - come documento storico dei fatti di quei terribili giorni. È, per altro, da tener presente quanto osserva P. D'Ancona: • Gli storici concordano nel ritenere la ignobile caduta di Roma un fatto unico nella storia. Certo il numero dei difensori non era tale da poter opporre resistenza all'invasore, anche perché le principali famiglie preferirono assoldare armati per la difesa dei loro palazzi che contribuire alla difesa comune. Comunque abbiamo numerose testimonianze che confermano la veridicità di quanto racconta il Cellini ». 2. Camposanto: «È il Camposanto dei tedeschi nei pressi del Vaticano» (D'Ancona). 3. morti: uccisi. 4. a più potere: n più non posso. 5. montano: salgono (verso le mura) o anche, semplicemente, prevalgono. 6. floltosi: cosl il manoscritto. Si potrebbe forse anche interpretare tJOltòsi: «voltossi ». 7. un gruppo di battaglia: un gruppo di combattenti. 8. sollevato dagli altri: più alto degli altri.

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loro il modo, acciocché e' non toccassino una archibusata da que' di fuora. Cosl fatto dua volte per uno, io mi affacciai alle mura destramente, e veduto in fra di loro un tumulto istrasordinario, fu 1 che da questi nostri colpi si ammazzò Borbone; e fu quel primo che io vedevo rilevato dagli altri, per quanto poi s'intese. Levatici di quivi, ce ne andammo per Camposanto ed entrammo per San Piero; ed usciti là drieto alla chiesa di Santo Agnolo, arrivammo al portone di Castello con grandissime difficultà, perché il signor Renzo da Ceri2 ed il signor Orazio Baglioni3 davano delle ferite ed ammazzavano tutti quelli che si spiccavano4 dal combattere alle mura. Giunti al detto portone, di già erano entrati una parte de' nimici in Roma, e gli5 avevamo alle spalle. Volendo il Castello far cadere la saracinesca del portone, si fece un poco di spazio di modo che noi quattro entrammo drento. Subito che io fui entrato, mi prese il capitan Pallone de' Medici,6 perché essendo io della famiglia del Castello' mi forzò che io lasciassi Lessandro; la qual cosa molto contra mia voglia feci. Così salitomi sù al mastio,8 in nel medesimo tempo era entrato papa Clemente per i corridori9 in nel Castello; perché non s'era voluto partire prima del palazzo di San Piero, non possendo credere che coloro10 entrassino. Da poi che io mi ritrovai drento a quel modo, accosta'mi a certe artiglierie le quali aveva a guardia un bombardiere chiamato Giuliano fiorentino.n Questo Giuliano affacciatosi li al merlo del castello, vedeva la sua povera casa saccheggiare e straziare la moglie e' figliuoli, in modo che, per non

1./u: fatto sta. 2. Renzo da Ceri: come si è detto, questo capitano di ventura era al servizio del re di Francia. 3. Orazio Baglioni: altro capitano di ventura, figlio di Giovan Paolo Baglioni. Quale disturbatore della pace di Perugia, era stato imprigionato in Castel Sant' Angelo dal papa che poi gli aveva affidato la difesa di Roma. Mori nel x528 combattendo sotto Napoli. Aveva militato per i Veneziani e per i Fiorentini. Sua mira era stata quella di dominare in Perugia, dove la sua famiglia era potentissima. 4. spiccavano: allontanavano. 5. gli: li. 6. Pallone de' Medici: pare sia un Marcello Pallone che fu poi al servizio dei Medici dal 1555 al I 572. 7. essendo ... Castello: il Cellini a era della famiglia del Castello, perché ascritto alla banda dei sonatori di Castel Sant'Angiolo » (D'Ancona). 8. mastio: maschio (il torrione maggiore del Castello). 9. corridori: che mettono in comunicazione il Palazzo Vaticano con Castel Sant' Angelo. 10. coloro: i Lanzichenecchi del Frundsberg e le truppe del Borbone. I 1. Giuliano fiorentino: • Un bombardiere di tal nome è tra i salariati del 1527 • (Bacci).

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dare ai suoi, non ardiva sparare le sue artiglierie; e, gittato la miccia da dar fuoco per terra, con grandissimo pianto si stracciava1 il viso; el simile facevano certi altri bombardieri. Per la qual cosa io presi una di quelle micce, facendomi aiutare da certi che erano quivi, li quali non avevano cotai passione :2 volsi certi pezzi di sacri e falconetti3 dove io vedevo il bisogno, e con essi ammazzai di molti uomini de' nimici; ché, se questo non era, quella parte che era intrata in Roma quella mattina se ne veniva diritta al Castello ed era possibile che facilmente ella entrassi, perché l'artiglierie non davano lor noia. lo seguitavo di tirare: per la qual cosa alcuni cardinali e signori mi benedivano e davonmi grandissimo animo. II che io, baldanzoso, mi sforzavo di fare quello che io non potevo: basta che io fu' causa di campare4 la mattina il Castello e che quelli altri bombardieri si rimessono a fare i loro uffizii. Io seguitai tutto quel giorno: venuto la sera, in mentre che l'esercito entrò in Roma per la parte di Tresteveri, avendo papa Clemente fatto capo di tutti e' bombardieri un gran gentiluomo romano, il quale si domandava misser Antonio Santa Croce, 5 questo gran gentiluomo la prima cosa se ne venne a me, facendomi carezze :6 mi pose con cinque mirabili pezzi di artiglieria in nel più eminente luogo del Castello, che si domanda da l' Agnolo7 appunto: questo luogo circunda il Castello attorno attorno e vede in verso Prati8 ed in verso Roma: cosi mi dette tanti sotto a di me a chi9 io potessi comandare per aiutarmi voltare le mie artiglierie; e, fattomi dare una paga innanzi,10 mi consegnò del pane ed un po' di vino, e poi mi pregò che in quel modo che io avevo cominciato seguitassi. Io, che talvolta11 più ero inclinato a questa professione12 che a quella che io tenevo per mia, la facevo tanto volentieri che la mi veniva fatta meglio che la ditta. Venuto

stracciatJa: straziava (graffiava). 2. panione: patimenti (sofferenze). 3. sacri efalco11etti: sono bocche da fuoco dell'epoca. 4. campare: salvare. 5. Antonio Santa Croce: questo gentiluomo romano è ricordato nelle storie del Guicciardini e dell'Ammirato. 6. carezze: complimenti. 7. che si .•• Agnolo: a C'è lassù in cima un nngiolo che fu già di marmo, opera di Raffaello da Montelupo, e fu rifatto di bronzo nel 700 11 (PLINIO CARLI, in La vita di B. CELLINI, Firenze, Le Monnier, nuova tiratura, 1934). Si tenga conto che il nome di Castel Sant'Angelo è dato a tutto il castello (Mole Adriana). 8. Prati: detti appunto Prati di Castello. 9. a chi: a cui. xo. una paga innanzi: un anticipo del soldo (e precisamente una rata). 11. taltJolta: nel senso di II forse». x2. questa professione: quella delle anni. 1.

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la notte e i nimici entrati in Roma, noi che eràmo1 nel Castello, massimamente io che sempre mi son dilettato veder cose nuove, istavo considerando questa inestimabile novità e 'ncendio; la qual cosa quelli che erano in ogni altro luogo che in Castello nolla possettonoa né vedere né immaginare. Pertanto io non mi voglio mettere a descrivere tal cosa: solo seguiterò descrivere questa mia vita che io ò cominciato e le cose che in essa appunto si appartengono. 3 [xxxv.] Seguitando di esercitar le mie artiglierie continuamente, per mezzo di esse, in un mese intero che noi stemmo nel Castello assediati, mi occorse molti grandissimi accidenti degni di raccontargli tutti; ma, per non voler essere tanto lungo né volermi dimostrare troppo fuor della mia professione, ne lascerò la maggior parte dicendone solo quelli che mi sforzano, 4 li quali saranno i manco 5 e i più notabili. E questo è il primo: che avendomi fatto quel ditto misser Antonio Santa Croce discendere giù de l' Agnolo perché io tirassi a certe case vicine al Castello dove si era veduti entrare certi dell'inimici di fuora, 6 in mentre che io tiravo, a me venne un colpo di artiglieria, il qual dette in un canton di un merlo e presene tanto che fu causa di non mi far male: perché quella maggior quantità7 tutta insieme mi percosse il petto e, fermatomi l'anelito, istavo in terra prostrato come morto, e sentivo tutto quello che i circustanti dicevano; in fra i quali si doleva molto quel misser Antonio Santa Croce, dicendo: - Oimè, che noi abbiam perso il migliore aiuto che noi ci avessimo. - Sopraggiunto a questo rumore un certo mio compagno, che si domandava Gianfrancesco piffero (questo uomo era più inclinato alla medicina che al piffero), e subito piangendo8 corse per una caraffina di bonissimo vin greco, avendo fatto rovente una tegola in su la quale e' messe sù una buona menata9 di assenzio; di poi vi spruzzò sù di quel buon vin greco: essendo imbeuto 10 bene

I. eràmo: eravamo. 2. no/la possettono: non la poterono. 3. in essa • •. si appartengono: la riguardano. 4. mi sforzano: mi fanno forza. s. i manco: i meno. 6. di fuora: cioè accampati fuori delle mura. 7. quella maggior quantità: data la maggior quantità dei calcinacci, la violenza dell'urto fu minore. 8. piangendo: MS: piagendo. 9. menata: a Tutto ciò che può inchiudere in sé la mano, prendendolo colle dita: quasi lo stesso che Manata• (Fanfani, citato dal Tommaseo-Bellini). 10. imbeuto: imbevuto (assorbito).

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il ditto assenzio, subito me lo messe in sul petto, dove evidente si vedeva la percossa. Fu tanto la virtù di quello assenzio che resemi subito quelle ismarrite virtù. Volendo cominciare a parlare, non potevo, perché certi sciocchi soldatelli mi avevano pieno1 la bocca di terra parendo loro con quella di avermi dato la comunione,3 con la quale loro più presto mi avevano scomunicato, perché non mi potevo riavere, dandomi questa terra più noia assai che la percossa. Pur di questa scampato, tornai a que' furori delle artiglierie, seguitandoli con tutta quella virtù e sollecitudine migliore che immaginar potevo. E, perché papa Clemente aveva mandato a chiedere soccorso al duca di U rbino3 il quale era con lo esercito de' Veniziani, dicendo all'imbasciadore che dicessi a sua eccellenzia che tanto quanto il detto Castello durava a fare ogni sera tre fuochi in cima di ditto Castello accompagnati con tre colpi di artiglieria rinterzati,4 che insino che durava questo segno, dimostrava che il Castello non saria5 arreso; io ebbi questa carica6 di far questi fuochi e tirare queste artiglierie: avvenga che7 sempre di giorno io le dirizzava in que' luoghi dove le potevan fare qualche gran male; la qual cosa il papa me ne voleva di meglio assai, perché vedeva che io facevo l'arte con quella avvertenza8 che a tal cose si promette. Il soccorso de il detto duca mai non venne; per la qual cosa io, che non son qui per questo, altro non descrivo.

[JCCXVI.] In mentre che io mi stavo sù a quel mio diabolico9 esercizio, mi veniva a vedere alcuni di quelli cardinali che erano in Castello, ma più ispesso il cardinale Ravenna10 e il cardinal de' Gaddi ;u ai quali io più volte dissi ch'ei non mi capitassino in1. pieno: riempito. 2. parendo ••• comunione: per un'antica superstizione, che si sviluppò anche attraverso le leggende cavalleresche. 3. duca di Urbino: Francesco Maria della Rovere, nipote di Guidubaldo da Montefeltro: di lui ampiamente qui addietro nel nostro commento al Cortegiano (cfr. la nota 4 a p. 5). Durante la guerra fra Carlo V e Francesco I era a capo dell'esercito della Repubblica Veneta. 4. con tre . .• rinterzati: con «tre serie distinte di tre colpi ciascuna» (Carli). 5. no,i saria: non si sarebbe. 6. carica: incarico. 7. avve11ga che: nel senso di « vero è che». 8. aooerte11za: cura. 9. diabolico: in quanto trattava il fuoco. 10. il cardinale Rave,ina: Benedetto Accolti aretino; arcivescovo di Ravenna nel 1524; morl a Firenze nel 1549. Per lui il Cellini fece varie opere. n. Niccolb Gaddi fiorentino era stato fatto cardinale insieme con !,Accolti pochi giorni prima del sacco di Roma; dopo l'uccisione di Alessandro de' Medici, tentò di rimettere in Firenze un governo repubblicano. Morl nel 1552.

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nanzi, perché quelle lor berrettucce rosse1 si scorgevano discosto (il che da que' palazzi vicini, com'era la torre de' Bini, loro ed io portavomo2 pericolo grandissimo), di modo che per utimo io gli feci serrare,3 e ne acquistai con loro assai nimicizia. Ancora mi capitava spesso intorno il signor Orazio Baglioni, il quali mi voleva molto bene. Essendo un giorno in fra gli altri ragionando meco, lui vidde certa dimostrazione in una certa osteria, la quale era fuor della porta di Castello, luogo chiamato Baccanello. Questa osteria aveva per insegna un sole dipinto in mezzo dua finestre, di color rosso. Essendo chiuse le finestre, giudicò il detto signor Orazio che al dirimpetto, drento di quel sole,4 in fra quelle due finestre, fussi una tavolata di soldati a far gozzaviglia; il perché mi disse: - Benvenuto, se ti dessi il cuore di dar5 vicino a quel sole un braccio con questo tuo mezzo cannone, io credo che tu faresti una buona opera, perché colà si sente un gran romore, dove debb'essere uomini di molta importanza. - Al qual signor io dissi: - A me basta la vista di dare in mezzo a quel sole. - Ma si bene una botte piena di sassi, ch'era quivi vicina alla bocca di detto cannone, el furore del fuoco e di quel vento6 che faceva il cannone l'arebbe mandata a terra. Alla qual cosa il detto signore mi rispose: - Non mettere tempo in mezzo, Benvenuto: in prima non è possibile che, in nel modo che la sta, il vento de il cannone la faccia cadere; ma, se pure ella cadessi e vi fussi sotto il papa, saria manco male che tu non pensi; sicché tira, tira. - Io, non pensando più là, detti in mezzo al sole, come io avevo promesso appunto. Cascò la botte, come io dissi, la qual dette appunto in mezzo in fra il cardinal Farnese7 e misser Iacopo Salviati, che bene gli arebbe stiacciati8 tutti a dui: che di questo fu causa che il ditto cardinal Farnese appunto aveva rimproverato che il ditta misser Iacopo era causa del sacco di Roma; dove, dicendosi ingiuria l'uno l'altro per dar campo alle ingiuriose parole, fu la causa che la mia botte non gli stiacciò tutt'a dua. Sentito il gran berrettucce rosse: secondo gli storici, erano in tredici i cardinali attorno al papa, durante l'assedio. 2. portavamo: portavamo. 3. gli feci serrare: I.

impedii loro di venire chiudendo la porta del corridoio segreto (che dal Palazzo Vaticano conduce a Castel Sant'Angelo). 4. al .•• sole: •in corrispondenza di quel sole, dal lato interno del muro su cui era dipinto• (Carli). 5. di dar: di colpire. 6. el furore ... vento: la potenza dello scoppio e lo spostamento d'aria. 7. Alessandro Farnese, decano del sacro collegio: egli fu papa col nome di Paolo III dal 1534 al 1549. Vedi anche la nota I a p. 654. 8. stiacciati: schiacciati.

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rimore1 che in quella bassa corte si faceva, il buon signor Orazio con gran prestezza se ne andò giù; onde· io, fattomi fuora2 dove era caduta la botte, senti' alcuni che dicevano: - E' sarebbe bene ammazzare quel bombardieri. - Per la qual cosa io volsi dua falconetti alla scala che montava sù, con animo risoluto che, il primo che montava, dar fuoco a un de' falconetti. Dovetton que' servitori del cardinal Farnese aver commessione3 dal cardinale di venirmi a fare dispiacere ;4 per la qual cosa io mi feci innanzi, e avevo il fuoco in mano. Conosciuto certi di loro, dissi: - O scannapane, 5 se voi non vi levate di costi e se gli è nessuno6 che ardisca entrare drento a queste scale, io ò qui dua falconetti parati,' con e' quali io farò polvere di voi; e andate a dire al cardinale che io ò fatto quello che dai mia maggiori8 mi è stato commesso: le qual cose si son fatte e fannosi per difension di loro preti, e non per offenderli. - Levatisi e' detti, veniva sù correndo il ditto signor Orazio Baglioni, al quale io dissi che stessi indrieto, se non9 che io l'ammazzerei, perché io sapevo benissimo chi egli era. Questo signore non sanza paura si fermò alquanto, e mi disse: - Benvenuto, io son tuo amico. - Al quale io dissi: - Signore, montate pur solo, e venite poi in tutti i modi che voi volete.10 - Questo signore, ch'era superbissimo, si fermò alquanto, e con istizza mi disse: - lo ò voglia di non venire più sù e di far tutto il contrario che io avevo pensato di far per te. - A questo io I. rimare: rumore. 2.fattomi fuo,a: sporgendomi. 3. commusione: incombenza. 4. fare diq,iacere: malmenarmi (darmi una lezione). 5. scannapane: malfattori (MS: scanna pane). Più avanti (cfr. p. 790) il Cellini dice 1can11apagnotte. Si tratta di un vocabolo, ben presto deformato a causa di una facile etimologia popolare, che si vede rispecchiata nei commenti, ad es. in quello di P. D'Ancona con la nota: 11 Uomo dappoco, buono soltanto a mangiare,._ L'espressione originaria è tedesca e non ha niente a che fare con l I etimo di pane e simili. Essa è giunta in Italia evidentemente dal francese che,1apan, 11 predone». In BLOCH-WARTBURG 1 Dictionnaire étymologique de la la,zguefrançaise, Paris 1 P.U.F., 19502 , p. 121 1 si ricorda come l'espressione originariamente tedesca (Sclmappl,ahn) si diffondesse con la Guerra dei Trent'anni. E a tale periodo si rifà anche il DAUZAT, Dictionnaire étymologique de la langue Jrançaise, nuova edizione, ivi, Larousse, 1949, p. 168. Giustamente riconduce il vocabolo all'antico tedesco (secolo XV) SnapJ,ane, 11 brigand à cheval », ALBERT MAQUET, A propos du mot Jrançais a c/zeriapan » (in II Studi francesi», n. 4 - a. 11, n. I -, gennaio-aprile 1958, pp. 89-92: dove però non si tien conto delle testimonianze italiane, tanto per Cellini quanto per altri autori, eventualmente anche di età precedente). 6. nessuno: qualcuno. 7. parati: pronti. 8. maggiori: superiori. 9. se non: altrimentj. 10. in tutti ••. volete: a o come amico, o come nemico• (Carli).

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gli risposi che, si bene come io ero messo in quello uffizio per difendere altrui, che cosi ero atto a difendere ancora me medesimo. Mi disse che veniva solo; e, montato che e, fu, essendo lui cambiato più che 'l dovere1 nel viso, fu causa che io tenevo la mana in su la spada e stavo in cagnesco seco. A questo lui cominciò a ridere, e, ritornatogli il colore nel viso, piacevolissimamente mi disse: - Benvenuto mio, io ti voglio quanto bene io ò e, quando 2 sarà tempo che a Dio piaccia, io te lo mostrerrò: volessi Iddio che tu gli avessi ammazzati que' dua ribaldi, ché uno 3 è causa di sì ·gran male e l'altro talvolta4 è per esser causa di peggio. - Cosi mi disse che, se io fussi domandato, 5 che io non dicessi che lui fussi quivi da me quando io detti fuoco a tale artiglieria; e, del restante, che io non dubitassi. I romori furno grandissimi, e la cosa durò un gran pezzo. In questo io non mi voglio allungare più innanzi: basta che io fu' per fare le vendette di mio padre con misser Iacopo Salviati, il quale gli aveva fatto mille assassinamenti. 6 Pure disavvedutamente7 gli feci una gran paura. Del Farnese non vo' dir nulla, perché si sentirà al suo luogo quanto gli era bene che io l'avessi ammazzato. [xxxvn.] Io mi attendevo8 a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo ognindi9 qualche cosa notabilissima di modo che io avevo acquistato un credito ed una grazia col papa inistimabile. Non passava mai giorno che io non ammazzassi qualcun degli inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri, il papa passeggiava per il mastio ritondo10 e vedeva in Prati un colonnello spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni, inteso11 che questo era stato già al suo servizio: e, in mentre che lo guardava, ragionava di lui. Io, che ero di sopra a l' Agnolo e non sapevo nulla di questo, ma vedevo un uomo che stava là a fare acconciare trincee con una zagaglietta12 in mano, vestito tutto di rosato,1 3 I, essendo • •. dovere: il fatto che lui era cambiato più del dovuto. 2. quando: MS: quanto. 3. uno: il Salviati, a cui si faceva l'accusa d'aver causato il sacco di Roma. Cfr. qui addietro, p. 570. 4. talvolta: forse. 5. domandato: interrogato. 6. assassinamenti: azioni di grande inimicizia. 7. disavvedutamente: senza volere. 8. mi attendevo: mi dedicavo. 9. og11indì: ognidì (sempre). 10. mastio rito11do: maschio rotondo (quello su cui si poggia il maschio superiore, e più piccolo, dell'Angelo). 11. inteso: atteso (visto). 12. zagaglieua: piccola zagaglia (la zagaglia era un'arme in asta; .si pensi alla «zagaglia barbara» del Carducci). 13. rosato: rosa,

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disegnando quel che io potessi fare contra di lui, presi un mio gerifalco1 che io avevo quivi, il qual pezzo si è maggiore e più lungo di un sacro, quasi come una mezza colubrina: questo pezzo io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine mescolata con la grossa; di poi lo dirizzai2 benissimo a questo uomo rosso, dandogli una arcata3 maravigliosa, perché era tanto discosto che l'arte non prometteva tirare cosi lontano artiglierie di quella sorta. Dettigli fuoco, e presi appunto nel mezzo quell'uo-mo "rosso, il quali s'aveva messo la spada per saccenteria dinanzi in un certo suo modo spagnolesco; che4 giunta la mia palla della artiglieria, percosso in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua pezzi. Il papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e maraviglia, sì perché gli pareva impossibile che una artiglieria potessi giugnere tanto lunge di mira e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi, non si poteva accomodare5 come questo caso star potessi; e, mandatomi a chiamare, mi dimandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza che io avevo usato al modo del tirare; ma, per esser l'uomo in dua pezzi, né lui né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribe.;. nedissi dell'omicidio e d'altri che io ne avevo fatti in quel castello in servizio della Chiesa. Alla qual cosa il papa, alzato le mane e fattomi un patente6 crociane sopra la mia figura,7 mi disse che mi benediva e che mi perdonava tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in servizio della Chiesa aposto-lica. Partitomi, me ne andai sù, e sollecitando8 non restavo mai di tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i mia begli studii e la mia bellezza9 di sanare di musica, tutte erano in sonar di quelle artiglierie e, s' i' avessi a dire particolarmente le belle cose che in quella infernalità10 crudele io feci, farei maravigliare il mondo; ma per non essere troppo lungo me le passo.11 Solo ne dirò qualcuna di quelle più notabile, le quale mi sono di necessità; e questo si è che, pensando io giorno e notte quel che io potevo fare per la parte mia in defensione della Chiesa, considerato x. gerifalco: girifalco (sorta di bocca da fuoco di forma affine - come dice anche il nome - al • falcone »). 2. dirizzai: lo volsi prendendo la mira. 3. arcata : parabola. 4. che: per modo che. s. accomodare: capacitare. 6. patente: vistoso. 7. figura: faccia. 8. sollecitando: senza riposo. 9. bellezza: bravura, abilità. 10. injernalità: mestiere d'inferno (per il fuoco). 1 x. 11,e le passo: le ometto.

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che i nimici cambiavano le guardie e passavano per il portone di Santo Spirito (il quale era tiro ragionevole ma, perché il tiro mi veniva in traverso, non mi veniva fatto quel gran male che io desiderava di fare; pure ogni giorno se ne ammazzava assai bene: in modo che, vedutosi e' nimici impedito cotesto passo, messono più di trenta botti una notte in su una cima di un tetto, la quale mi impedivano cotesta veduta), io, che pensai un po' meglio a cotesto caso che non avevo fatto prima, volsi tutti a cinque i mia pezzi di artiglieria dirizzandogli alle ditte botti ed aspettato le ventidua ore1 in sul bel di rimetter le guardie. E perché loro, pensandosi esser sicuri, venivano più adagio e più folti che 'l solito assai, il che, dato fuoco ai mia soffioni,2 non tanto gittai quelle botti per terra che m'impedivano, ma in quella soffiata3 sola ammazzai più di trenta uomini. Il perché, seguitando poi cosl dua altre volte, si misse i soldati in tanto disordine che, in fra che4 gli eran pieni del latrocinio del gran sacco, desiderosi alcuni di quelli godersi le lor fatiche, più volte si volsono abbottinare5 per andarsene. Pure, trattenuti da quel lor valoroso capitano, il quale si domandava .Gian di Urbino,6 con grandissimo lor disagio furno forzati pigliare un altro passo per il rimettere delle lor guardie; il qual disagio importava7 più di tre miglia, dove quel primo8 non era un mezzo. Fatto questa impresa, tutti quei signori ch'erano in Castello mi facevano favori maravigliosi. Questo caso tale, per esser di tanta importanza seguìto, lo b voluto contare per far fine a questo, perché non sono nella professione che mi muove a scrivere; ché, se di queste cose tale io volessi far bello la vita mia, troppo me ne avanzeria da dire. Eccene sola un'altra che al suo luogo io la dirb.

I. ventidua ore: appunto sul far della sera (secondo il computo di allora che era fatto, con differenza da stagione in stagione). 2. soffioni: a:cannoni simili per forma a quelle canne di carta fatte a modo di razzi pieni di polvere grossa» (D'Ancona). 3. soffiata: si noti il corrispettivo stilistico dei precedenti soffioni. 4. in fra che: dato che. 5. abbottinare: ammutinare (facendo fagotto del bottino), 6. Gian di Urbino: Giovanni d'Urbino, capitano dell'esercito spagnolo, luogotenente del principe d'Orange. La sua valentia è menzionata dal Guicciardini (Storia d'Italia, XIX, 2); il Varchi lo dice orgoglioso e crudele (Storia fiorentina, 1x, 22) e, quindi, menziona la sua morte (x, 3). 7. importava: costringendolo a far nuovo cammino. 8. quel primo: quel primo passo.

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[XXXVIII.] Saltando innanzi un pezzo, dirò come papa Clemente, per salvare i regni1 con tutta la quantità delle gran gioie2 della Camera apostolica,3 mi fece chiamare, e rinchiusesi con il Cavalierino4 e io in una stanza soli. (Questo Cavalierino era già stato servitore della stalla di Filippo Strozzi :5 era franzese, persona nata vilissima6 e, per essere gran servitore, papa Clemente lo aveva fatto ricchissimo e se ne fidava come di se stesso.) In modo che, il papa detto e il Cavaliere e io rinchiusi nella detta stanza, mi messono innanzi li detti regni con tutta quella gran quantità di gioie della Camera apostolica e mi commisse che io le dovessi sfasciare7 tutte dell'oro in che le erano legate. E io cosi feci; di poi le rinvolsi in poca carta ciascune,8 e le cucimmo in certe farse9 addosso al papa ed al detto Cavalierino. Di poi mi dettono tutto l'oro, il quale era in circa dugento libbre, e mi dissono che io lo fondessi quanto più segretamente che io poteva. Me ne andai a l' Agnolo, dove era la stanza mia, la quale io potevo serrare che persona non mi dessi noia; e, fattomi ivi un fornelletto 10 a vento11 di mattoni ed acconcio in nel fondo di detto fornello un ceneracciolo12 grandotto13 a guisa di un piattello,14 gittando l'oro di sopra in su' carboni, a poco a poco cadeva in quel piatto. In mentre che questo fornello lavorava, io continuamente vigilavo come I. regni: i triregni (corone papali). z. gioie: gioielli. 3. Camera apostolica: Tesoro della Chiesa. 4. il Cavalierino: era un familiare, anzi un favorito del papa: Giulio Romano lo ritrasse nella storia del Battesimo di Costantino in Vaticano. 5. Filippo Strozzi: famoso personaggio, che, imparentato coi Medici (in quanto ebbe per moglie Clarice di Piero de' Medici), fu ambasciatore di Firenze in Francia e a Roma. Lottò con vari fuorusciti contro Alessandro de' Medici. Preso a Montemurlo, fu rinchiuso nella Fortezza a Basso (allora Forte di San Giovanni). lvi, nel 1539, si tolse la vita, o, secondo alcuni, fu ucciso per ordine del duca Cosimo. 6. nata vilisnma: di assai umili natali. 7. s.fasciare: liberare (come da una fascia). 8. ciascune: una per una. 9.Jarse: farsetti (o anche, secondo alcuni, fodere d'abito). 10.Jornelletto: di cui nel Trattato dell'Oreficeria, cap. XIII, De' suggelli cardinaleschi: • •.• tanto che tu vegga che la tua forma sia bene asciutta; e poi che la sia bene asciutta, mettera'la intra certi mattoni, facendogli un fornelletto con fili di ferro, e cose legate • ecc. ; cfr. J trattati, ed. Milanesi cit., p. 106 e qui avanti, p. 1036. E per fornelletti di statue si veda una menzione in una lettera dell'artista al duca Cosimo I, da Firenze, 20 maggio 1548, sempre nell'ed. cit. dei Trattati, p. 276. Per la fusione dell'oro di cui nel testo della Vita dice P. D'Ancona che •il fatto è confermato dagli storici ». I I. a 'Vento: sembra n voglia dire che si manteneva acceso perché era fatto in modo che ci passasse sempre una corrente d'aria• (Carli). 12. ceneracciolo: ceneraio (per raccogliere la cenere del fornello e, inoltre, i grumi dell'oro fuso). 13. grandotto: grandicello. 14. piattello: piatto.

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io potevo offendere gli inimici nostri, e, perché noi avevamo sotto le trincee degli inimici nostri a manco di un trar di mano,1 io facevo lor danno in nelle dette trincee con certi passatoiacci2 antichi, che erano parecchi cataste, già munizione del Castello. Avendo preso un sacro ed un falconetto, li quali erano tutti a dui rotti un poco in bocca, questi io gli empievo di que' passatoiacci; e, dando poi fuoco alle dette artiglierie, volavano giù alla impazzata facendo alle dette trincee molti inaspettati mali: in modo che, tenendo questi continuamente in ordine in mentre che io fondivo il detto oro, un poco innanzi ali' ora del vespro veddi venire in su l'orlo della trincea uno a cavallo in sun un muletto. Velocissimamente andava il detto muletto; e costui parlava a quelli delle trincee. Io stetti avvertito di dar fuoco alla mia artiglieria innanzi che egli giugnessi al mio diritto ;3 cosi col buon iudizio4 dato fuoco, giunto, 5 lo investi' con un di quelli passatoi in nel viso appunto: quel resto dettono al6 muletto, il quale cadde morto; nella trincea sentissi un grandissimo tumulto: detti fuoco a l'altro pezzo, non sanza lor gran danno. Questo si era il principe d'Orangio,7 che per di drento delle trincee fu portato a una certa osteria quivi vicina, dove corse in breve tutta la nobiltà dello esercito. Inteso papa Clemente quello che io avevo fatto, subito mandò a chiamarmi e, dimandatomi del caso, io gli contai il tutto, e di più gli dissi che quello doveva essere uomo di grandissima importanza, perché in quella osteria dove e' l'avevano portato, subito vi s'era ragunato tutti e' caporali8 di quello esercito per quel che giudicar si poteva. Il• papa di bonissimo ingegno9 fece chiamare misser Antonio Santa Croce, il qual gentiluomo era capo e guida di tutti e' bombardieri, come ò ditto; disse che comandassi a tutti noi bombardieri che noi dovessimo dirizzare tutte le nostre artiglierie

I. a manco di un trar di mano: con un sasso. 2. passatoiacci: si trattava di materiale da tempo giacente inutilizzato e, come dice il Cadi erano • rottami di pietra e di metallo, che si lanciavano con macchine di guerra prima dell'invenzione delle artiglierie». Cfr. anche la nota 4 a p. 153. 3. al mio diritto: in faccia a me. 4. col buon iudizio: con giusto calcolo. s. giunto: colpitolo. 6. dettano al: colpirono il. 7. il principe d'Orangio: Filiberto di Chalons, principe d'Orange: aveva lasciato il re Francesco I ed era passato al servizio dell'imperatore. Dopo la morte del Borbone era diventato il comandante generale degli Imperiali. Morl a Gavinana nel 1530, combattendo contro Francesco Ferrucci. 8. caporali: capi. 9. di bot,issimo ingegno: con una mirabile pensata.

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a quella detta casa, le quali erano un numero infinito, e che a un colpo di archibuso ognuno dessi fuoco; in modo che, ammazzando quei capi, quello esercito che era quasi in puntelli 1 tutto si metteva in rotta; e che talvolta lddio arebbe udite le loro2 orazione che cosi frequente e' facevano e per queJla via gli arebbe liberati da quelli impii ribaldi. Messo noi in ordine le nostre artiglierie, secondo la commissione del Santa Croce aspettando il segno, questo3 lo intese il cardinale Orsino, 4 e cominciò a gridare con il papa, dicendo che per niente non si dovessi far tal cosa, perché erano in sul concludere l'accordo e, se que' ci si ammazzavano, il campo5 sanza guida sarebbe per forza entrato_ in Castello. e gli arebbe finiti di rovinare affatto: pertanto non volevan che tal cosa si facessi. Il povero papa disperato, vedutosi essere assassinato drento e fuora, disse che lasciava il pensiero a loro. Cosi, levatoci la commessione, io che non potevo stare alle mosse, quando io seppi che mi venivano a dare ordine che io non tirassi, detti fuoco a un mezzo cannone che io avevo, il qual percosse in un pilastro di un cortile di quella casa dove io vedevo appoggiato moltissime persone. Questo colpo fece tanto gran male ai nimici che gli fu per fare abbandonare la casa. Quel cardinale Orsino ditto mi voleva fare o impiccare o ammazzare in ogni modo; alla qual cosa6 il papa arditamente mi difese. Le gran parole che occorson fra loro, se bene io le so, non facendo professione di scrivere istorie, non mi occorre dirle: solo attenderò al fatto mio.

[XX..'\:IX.] Fonduto che io ebbi l'oro, io lo portai al papa, il quale molto mi ringraziò di quello che io fatto avevo, e commesse al Cavalierino che mi donasse venticinque scudi scusandosi meco che non aveva più da potermi dare. lvi a pochi giorni si fece l'accordo. lo me ne andai col signor Orazio Baglioni insieme con trecento compagni alla volta di Perugia; e quivi il signor Orazio 1. era . .. puntelli: si reggeva a stento (Carli). 2. le loro: di lui (papa) e dei prelati pontifici. 3. qr1e1to: questa notizia. 4. il cardinale Orsino: Francesco o Franciotto: prima era stato uomo d,arme e ammogliato; divenuto vedovo, era stato fatto cardinale nel I S17. Dirigeva con altri le trattative con gl'lmperiali e, fatto tale accordo, fu ostaggio con altri quattro cardinali. 5. campo: il campo imperiale. 6. alla qual cosa: sottinteso un «opponendosi» (ovvero anche nel significato generico: «nel qual frangente»). ·

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mi voleva consegnare1 la compagnia, la quale io per allora non volsi, dicendo che volevo andare a vedere mio padre in prima,z e ricomperare3 il bando che io avevo di Firenze. Il detto signore mi disse che era fatto capitano de' Fiorentini; e quivi era ser Piero Maria di Lotto4 mandato dai detti Fiorentini, a il quale il detto signor Orazio molto mi raccomandò come suo uomo. Cosl me ne venni a Firenze con parecchi altri compagni. Era la peste inistimabile grande. 5 Giunto a Firenze trovai il mio buon padre, il quale pensava o che io fussi morto in quel Sacco o che a lui ignudo io tornassi. La qual cosa avvenne tutto il contrario : ero vivo e con di molti danari, con un servitore, e bene a cavallo. Giunto al mio vecchio, fu tanto l'allegrezza che io gli viddi che certo pensai, mentre che mi abbracciava e baciava, che per quella e' morissi subito. Raccòntogli tutte quelle diavolerie del Sacco e datogli una buona quantità di scudi in mano, Ii quali soldatescamente6 io me avevo guadagnati, appresso fattoci le carezze il buon padre e io, subito se ne andò agli Otto a ricomperarmi il bando; e s'abbatté per sorte a esser degli Otto un di quegli che me l'avevan dato, ed era quello che indiscretamente7 aveva detto quella volt' a mio padre che mi voleva mandare in villa co' lanciotti; per la qual cosa mio padre usò alcune accorte parole in atto di vendetta, causate dai favori che mi aveva fatto il signor Orazio Baglioni. Stando così, io dissi a mio padre come il signor Orazio mi aveva eletto per capitano e che e' mi conveniva cominciare a pensare di fare8 la compagnia. A queste parole sturbatosi9 subito il povero padre, mi pregò per l'amor di Dio che io non dovessi attendere a tale impresa, con tutto che lui cognoscessi che io saria atto a quella ed a maggior cosa, dicendomi appresso che aveva l'altro figliuolo e mio fratello tanto valorosissimo10 alla guerra e che io dovessi attendere a quella maravigliosa arte, in nella quale tanti anni e con si grandi studi io mi ero affaticato di poi. Se bene io gli promessi ubbidirlo pensò, come persona savia, che, se veniva il signor Orazio, si per avergli io promesso e per altre cause io non potrei mai mancare di non seguitare le cose della guerra: cosi r. consegnare: affidare. 2. in prima: per prima cosa. 3. ricomperare: riscattare (pagando una data somma). 4. Piero Maria di Lotto: notaio della Signoria di Firenze. 5. inistimabile grande: grandissima. 6. soldatescamente: facendo il soldato. 7. indiscretamente: inopportunamente. 8./are: mettere insieme, raccogliere. 9. sturbatosi: turbatosi. 10. tanto tJalorosissi.mo: tanto valoroso.

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con un bel modo pensò levarmi di Firenze, dicendo cosi: - O caro mio figliuolo, qui è la peste inistimabile grande, e mi pare tuttavia di vederti tornare a casa con essa; io mi ricordo, essendo giovane, che io me ne andai a Mantova, nella qual patria1 io fui molto carezzato, ed ivi stetti parecchi anni: io ti priego e comando che per amor mio, più presto oggi che domani, di qui ti lievi e là te ne vada.

[XL.] Perché sempre m'è dilettato di vedere il mondo e non essendo mai stato a Mantova, volentieri andai, preso que' danari che io avevo portati e la maggior parte di essi ne lasciai al mio buon padre, promettendogli di aiutarlo sempre dove io fussi, lasciando la mia sorella maggiore a guida del povero padre. Questa aveva nome Cosa e, non avendo mai voluto marito, era accettata monaca in Santa Orsola, e così soprastava per aiuto e governo del vecchio padre e per guida de l'altra mia sorella minore, la quale era maritata a un certo Bartolomeo scultore.2 Cosi partitomi con la benedizion del padre, presi il mio buon cavallo e con esso me ne andai a Mantova. Troppe gran cose arei da dire, se minutamente io volessi scrivere questo picco! viaggio. Per essere il mondo intenebrato di peste e di guerra, con grandissima difficultà io pur poi mi condussi alla ditta Mantova, in nella quale, giunto che io fui, cercai di cominciare a lavorare; dove io fui messo in opera3 da un certo maestro Nicolò milanese, il quali era orefice del duca di detta Mantova.4 Messo che io fui in opera, di poi dua giorni appresso io me ne andai a visitare misser Iulio romano pittore eccellentissimo, già ditto, molto mio amico, il quale misser Iulio mi fece carezze inestimabile ed ebbe molto per male che io non ero andato a scavalcare5 a casa sua: il quale viveva da signore e faceva una opera pel duca fuor della porta di Mantova, luogo detto al Te. 6 Questa opera era grande e maravigliosa, come forse ancora si vede.7 Subito il ditto misser I ulio con molte onorate parole parlò di me al duca, il quale I. patria: qui città. (Ed è usato, dice il Carli, «con allusione sintetica all'accoglienza che vi ebbe, come in una nuova patria 11.) 2. Del cognato Bartolomeo dice più avanti che mori nel 1528. (Il Bacci osserva: «Sarà stato poi uno scultore o uno scalpellino? 11). 3. in opera: al lavoro. 4. duca ..• Mantova: Federico Gonzaga. 5. scavalcare: smontare da cavallo (nel senso di u fermarsi per alloggiare 11), 6. luogo ••• Te: il famoso Palazzo del Te, a cui molti artisti diedero la loro opera. 7. come .•. vede: in realtà, la si vede ancor oggi, e abbastanza ben conservata.

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mi commesse che io gli facessi un modello per tenere la reliquia1 del sangue di Cristo che gli ànno, qual dicono essere stata portata quivi da Longino ;2 di poi si volse al ditto misser lulio, dicendogli che mi facessi un disegno per detto reliquiere. A questo, misser Iulio disse: - Signore, Benvenuto è un uomo che non à bisogno delli disegni d'altrui, e questo vostra eccellenzia benissimo lo giudicherà quando la vedrà il suo modello. - ì\'1esso mano a far questo ditto modello, feci un disegno per il ditto reliquiere da potere benissimo collocare la ditta ampolla: di poi feci per di sopra un modelletto di cera. Questo si era un Cristo a sedere, che in nella mana mancina levata in alto teneva la sua croce grande, con atto di appoggiarsi ad essa, e con la mana diritta faceva con le dita di aprirsi la piaga del petto. Finito questo modello, piacque tanto al duca che li favori furno inistimabili e mi fece intendere che mi terrebbe al suo servizio con tal patto3 che io riccamente vi potrei stare. In questo mezzo, avendo io fatto reverenzia al cardinale suo fratello, 4 il detto cardinale pregò il duca che fussi contento di lasciarmi fare il suggello pontificale5 di sua signoria reverendissima; il quale io cominciai. In mentre che questa tal opera io I. un modello ... reliquia: «Non possediamo più questo reliquiario, ma ne rimangono uno stampo in bronzo e un antico disegno. Forse fu finito nel 1529 da maestro Niccolò surricordato. Sarebbe, forse, il più antico fra i lavori rimasti del C. di data sicura» (Bacci). 2. Longino: così la tradizione chiama il soldato che trafisse il costato al cadavere di Gesù Cristo: egli sarebbe stato poi martirizzato in Cappadocia. 3. patto: condizioni. 4. cardinale suo fratello: Ercole Gonzaga, vescovo di Mantova, fatto cardinale nel 1527. Mori nel I 563 nel presiedere il Concilio di Trento. Di lui si ricorda specialmente l'lnstitutio vitae Clzristianae. 5. il suggello pontificale: di questo sigillo parla il Cellini nel Trattato dell'Oreficeria, capo XIII, De' suggelli cardinaleschi: « In questo suggello si era intagliato la Ascensione di Nostra Donna con i dodici Apostoli, che cosl era il titolo del cardinale detto [...]. Di quel suggello di Mantova detto ebbi dugento ducati di mia fattura». Cfr. I trattati, ed. Milanesi cit., p. 100 e qui avanti, pp. 1032-3. Sagace (cd in accordo con le risultanze delle indagini mediche dei nostri giorni intorno alla psicologia del Cellini) è una nota di ATIILIO PoRTIOLI, I sigilli del cardinale Ercole Gonzaga (nell' « Archivio storico lombardo», a. VIII, 188 I, pp. 64-7). Riportando una lista di spese del maggiordomo del prelato e considerando le vanterie dell'artista che magnificava le sue opere col dire che erano state pagate dai committenti in modo mirifico, così lo studioso dice: « Il sigillo pontificale adunque, lungi dall'essere costato duecento ducati, non costò che 2.14 lire di Mantova, che corrispondono, colla tariffa d'allora, a non più di 42 zecchini. Il Cellini bravamente tramutò le lire di Mantova in ducati, quintuplicando così sulla carta la mercede avuta per questo grande sigillo. E di quello col manico portante l'Ercole, di cui si vanta tanto,

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lavoravo, mi soprapprese la febbre quartana, la qual cosa, quando questa febbre mi pigliava, mi cavava de' 1 sentimenti; onde io maladivo Mantava e chi n'era padrone e chi volentieri vi stava.:• Queste parole furono ridette al duca da quel suo orefice milanese ditto, il quale benissimo vedeva che 'I duca si voleva servir di me. Sentendo il detto duca quelle mie inferme parole,3 malamente meco s'adirò; onde, io essendo adirato con Mantova, della stizza fummo pari. Finito il mio suggello, che fu un termine di quattro mesi, con parecchi altre operette fatte al duca sotto nome del cardinale, da il ditto cardinale io fui ben pagato; e mi pregò che io me ne tornassi a Roma in quella mirabil patria,4 dove noi ci eramo conosciuti. Partitomi con una buona somma di scudi di Mantova, giunsi a Governo, 5 luogo dove fu ammazzato quel valorosissimo signor Giovanni.6 Quivi mi prese un piccol termine7 di febbre, la quale non m'impedì punto il mio viaggio e, restata in nel ditto luogo, mai più l'ebbi. Di poi giunto a Firenze, pensando trovare il mio caro padre, bussando la porta si fece alla finestra una certa gobba arrabbiata e mi cacciò via con assai villania, dicendomi che io l'avevo fradicia.8 Alla qual gobba io dissi: - Oh dimmi, gobba perversa, ècc' clii altro viso in questa casa che 'I tuo? - No, col tuo malanno. - Alla qual io dissi forte: - E questo non ci basti dua ore.9 - A questo contrasto si fece fuori non ebbe mai che trentasette lire e soldi nove di Mantova, cioè sette zecchini e mezzo circa, e in totale per i tre sigilli, tra spese di metallo e prezzo d'opera, ebbe 347 lire e sette soldi; e quindi 69 zecchini e mezzo, nemmeno la metà dei duecento. Il Cellini è indubitato che fu artista sommo, impareggiabile, ma nel medesimo tempo anche un grande orgoglioso portato ad ingrandire tutto ciò che riguardava lui, la sua arte, la sua abilità, e nel conto del cardinale Gonzaga noi abbiamo una prova di più» (p. 66). Hmnu FoCILLON, Benvenrlto Ce/lini, Biograpl,ie critique, Paris, Laurens, s.a., ma x911, coli. « Les grands artistes: leur vie - leur O!uvre •, p. 59, ricorda come si possieda un modello in cera del sigillo eseguito per il cardinale Ercole Gonzaga, L' Assrmzione della V ergi1le e i dodici Apostoli. • Autant que l'influencc de Lautizio, sensible dans la perfection et la délicatesse du modclé, » dice il critico, •on peut y lire celle de MichelAnge, encore prédominante dans cette composition tourmentée, rayée de plis savants, dramatiques, un peu durs •· 1. mi cavava de': mi faceva uscir dai. 2. vi stava: stava in essa (città). 3. inferme parole: parole folli, dette da un malato febbricitante. 4. patria: anche qui nel significato generico di città, luogo. 5. Governo: Governolo, al confluente del lvlincio e del Po. 6. Giovanni delle Bande Nere. 7. piccol termine: breve corso. 8. fradicia: cioè infastidita all'ultimo segno (D'Ancona). 9. E qHe.sto ..• ore: cioè « possi tu crepare tra men di due ore• (Bianchi).

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una vicina, la qual mi disse che mio padre con tutti quelli della casa mia erano morti di peste, onde, che io parte 1 me lo indovinavo, fu la cagione che il duolo fu minore: di poi mi disse che solo era re-stata viva quella mia sorella minore, la quale si chiamava Liperata, che era istata raccolta da una santa donna la quale si domandava monna Andrea de' Bellacci. Io mi parti' di quivi per andarmene all'osteria. A caso rincontrai un mio amicissimo: questo si doman-dava Giovanni Rigogli.2 !scavalcato a casa sua, ce ne andammo in piazza,3 dove io ebbi nuove che 'I mio fratello era vivo, il quale io andai a trovare a casa di un suo amico che si domandava Ber-tino Aldobrandi.4 Trovato il fratello e fattoci carezze ed accoglienze infinite (il perché si era che le furno istrasordinarie, ché a lui di me e a me di lui era stato dato nuove della morte di noi stessi); di poi levato una grandissima risa, con maraviglia, presomi per la mano, mi disse: - Andiamo, fratello, ché io ti meno in luogo il quale tu mai non immagineresti: questo si è che io ò rimaritata la Liperata nostra sorella, la quale certissimo ti tiene per morto. In mentre che a tal luogo andavamo, contammo l'uno all'altro di bellissime cose avvenuteci; e, giunti a casa dov• era la sorella, gli venne tanta stravaganza5 per la novità inaspettata, eh' ella mi cadde in braccio tramortita; e, se e' non fussi stato alla presenza il mio fratello, l'atto fu tale sanza nessuna parola che il marito cosl al primo6 non pensava che io fussi il suo fratello. Parlando Cecchin mio fratello e dando aiuto alla svenuta, presto si riebbe; e, pianto un poco poco il padre, la sorella, il marito, un suo figliolino, si dette ordine alla cena; ed in quelle piacevol nozze in tutta la sera non si parlò più di morti, ma sì bene ragionamenti da nozze: cosi lietamente e con gran piacere finimmo la cena. [XLI.] Forzato dai prieghi del fratello e della sorella, furno causa

che io mi fermai a Firenze, perché la voglia mia era volta a tor-narmene a Roma. Ancora quel mio caro amico, che io dissi prima in parte: in parte (Bacci scol.). z. Giooanni Rigogli: già menzionato nella Vita, a p. 554. Cfr. anche la nota 12 di p. 529. 3. in piazza: in piazza del duca (oggi, della Signoria). 4. Bertino Aldobrandi: «L'Ammirato lo chiama (lib. 111) giooane animoso a dim,imra. Il Varchi (lib. XI) narrandone il duello (1530), nel quale perdé la vita, con Dante da Castiglione che seguiva le insegne nemiche, dice che era giovane valoroso e allievo di Francesco Ccllini (Cecchino del Piffero)• (Bacci). 5. stravaganza: commozione. 6. al primo: di primo acchito. I.

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alcune mie angustie tanto aiutato da lui - questo si era Piero di Giovanni Landi -,1 ancora questo Piero mi disse che io mi doverrei per alquanto fermare a Firenze, perché, essendo i Medici cacciati di Firenzea (cioè il signore lppolito3 e signore Alessandro, quali furno poi un cardinale e l'altro duca di Firenze), questo Piero ditto mi disse che io dovessi stare un poco a vedere quel che si faceva. Cosi cominciai a lavorare in Mercato Nuovo, e legavo assai quantità di gioie e guadagnavo bene. In questo tempo capitò a Fiorenza un Sanese chiamato Girolamo Marretti4 - questo Sanese era stato assai tempo in Turchia ed era persona di vivace ingegno-; capitommi a bottega e mi dette a fare una medaglia d'oro da portare in un cappello: volse in questa medaglia che io facessi un Ercole che sbarrava la bocca a il lione. Cosi mi missi a farlo; e, in mentre che io lo lavorava, venne Michelagnolo Buonarroti5 più volte a vederlo; e, perché io mi v'ero grandemente affaticato, l'atto della figura e la bravuria de l'animale, molto diversa da tutti quelli che per insino allora avevano fatto tal cosa; ancora, per esser quel modo del lavorare totalmente incognito a quel divino Michelagnolo, lodò tanto questa mia opera che a me crebbe tanto l'animo di far bene che fu cosa inistimabile. Ma, perché io non avevo altra cosa che fare se non legare gioie, che, se bene questo era il maggior guadagno che io potessi fare, non mi contentavo, perché desideravo fare opere d'altra virtù che legar gioie, in questo accadde un certo Federigo Ginori,6 giovane di molto elevato spirito: questo giovane

1. Piero di Giova1111i La11di: vedi la nota 7 a p. 530. 2. usendo •. . Firenze: il 17 maggio 1527. Venne eletto gonfaloniere Niccolb Capponi. Si fece poi la pace fra il papa e l'imperatore (giugno 1529) e venne anche combinato il matrimonio fra la figlia naturale di Carlo V, Margherita d'Austria, e Alessandro de' Medici. Firenze dovette cosi sostenere il famoso assedio per dieci mesi. Fin che Alessandro divenne duca della città. 3. Ippolito de' Medici (1511-1555). Per altre notizie vedi la nota I di p. 642. 4. Giro/amo Marretti: il Cellini, nel Trattato dell'Oreficeria (cfr. I trattati, ed. Milanesi cit., p. 76), lo chioma Marretta e ricorda anche la medaglia e specifica il giudizio ammirativo espresso da Michelangelo: a Se questa opera fussi grande, o di marmo o di bronzo, condotta con questo bel disegno, la farebbe stupire il mondo, sì che di questa grandezza io la veggo tanto bella, che io non credo mai che quegli orefici antichi facessero tanto bene•· (Si veda qui avanti, p. 1017.) 5. Buonarroti: MS: Buonaa"oti. 6. Federigo Ginori: anch'egli è ricordato nel Trattato deWOreficeria, capo XII, Lavorare di mi11uteria, tanto per le qualità e il suo mecenatismo - • Questo gentiluomo amava sopra modo e favoriva gli uomini virtuosi, tonto esso era amatore delle virtù• - quanto per la medaglia che aveva richiesto

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era stato a Napoli molti anni, e, perché gli era molto bello di corpo e di presenza, se era innamorato in Napoli di una principessa. Cosi, volendo fare una medaglia in nella quale fussi un Atalante 1 col mondo addosso, richiese il gran Michelagnolo che gnene facessi un poco di disegno. Il quale disse al ditto Federigo: - Andate a trovare un certo giovane orefice, che à nome Benvenuto; quello vi servirà molto bene, e certo che non gli accade2 mio disegno; ma, perché voi non pensiate che di tal piccola cosa io voglia fuggire le fatiche, molto volentieri vi farò un poco di disegno. Intanto parlate col detto Benvenuto che ancora esso ne faccia un poco di modellino; di poi il meglio si metterà in opera. - Mi venne a trovare questo Federigo Ginori, e mi disse la sua voluntà appresso quanto quel maraviglioso Michelagnolo mi aveva lodato, e che io ne dovessi fare ancora io un poco di modellino di cera in mentre che quel mirabile uomo gli aveva promesso di fargli un poco di disegno. Mi dette tanto animo quelle parole di quel grande uomo che io subito mi messi con grandissima sollecitudine a fare il detto modello; e, finito che io l'ebbi, un certo dipintore molto amico di Michelagnolo, chiamato Giuliano Bugiardini, 3 questo mi portò il disegno de l' Atalante. In quel medesimo tempo io mostrai al ditta Giuliano il mio modellino di cera: il quali era molto diverso da quel disegno di Michelagnolo talmente che Federigo ditto ed ancora il Bugiardino conclusono che io dovessi farlo sicondo il mio modello. Cosi lo cominciai, e lo vidde lo eccellentissimo Michelagnolo, e me lo lodò tanto che fu cosa inistimabile. Questo era una figura, come io ò detto, cesellata di piastra; aveva il cielo addosso, fatto una palla di cristallo, intagliato in essa il suo zodiaco con un campo di lapislazzuli. Insieme con la ditta figura faceva tanto bel vedere che era cosa inistimabile; era sotto un motto di

all'artista; cfr. J trattati, ed. Milanesi cit., pp. 77-80 e qui avanti, pp. 1018-9. E anche qui si veda il fatto raccontato appunto dal Cellini: morto il Ginori, la medaglia capitò in mano di Luigi Alamanni che, esule in Francia, la donò al re Francesco I. Il sovrano desiderò quindi conoscere l'artista, che l' Alamanni gli aveva menzionato come 1t carissimo amico •· Spesso la Vita e i Trattati sono complementari per la narrazione di avvenimenti o per la descrizione di opere figurative. I. Atalante: Atlante (il gigante che regge il mondo). 2. gli accade: gli serve. 3. Giuliano Bugiardini: fiorentino (1475-1554), allievo di Bertoldo scultore, poi del Ghirlandaio. Fra le sue opere si ricorda il Martirio di Santa Caterina, dipinto nella cappella Rucellai in Santa Maria Novella.

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59 1 lettere le quali dicevano: «Summa-tulisse iuvat ».1 Sadisfattosi il ditto Federigo me liberalissimamente pagò. Per essere in questo tempo misser Aluigi Alamanni2 a Firenze, era amico de il detto Federigo Ginori, il quale molte volte lo condusse a bottega mia, e per sua grazia mi si fece molto domestico amico.

[XLII.] Mosso la guerra papa Clemente alla città di Firenze e quella preparatasi alla difesa, fatto la città per ogni quartiere gli ordini delle milizie populare, ancora io fui comandato3 per la parte mia. Riccamente mi messi in ordine; praticavo con la maggior nobiltà di Firenze, i quali molto d'accordo si vedevano voler militare a tal difesa, e fecesi quelle orazioni per ogni quartiere qual si sanno. Di più si trovavano i giovani più che 'l solito insieme, né mai si ragionava d'altra cosa che di questa. Essendo un giorno, in sul mezzodi, in su la mia bottega una quantità di omaccioni e giovani, e' primi della città, mi fu portato una lettera di Roma, la qual veniva da un certo chiamato in Roma maestro lacopino della Barca. Questo si domandava Iacopo dello Sciorina, ma della Barca in Roma, perché teneva una barca che passava il Tevero in fra ponte Sisto e ponte Santo Agnolo. Questo maestro Iacopo era persona molto ingegnosa ed aveva piacevoli e bellissimi ragionamenti: era stato in Firenze già maestro di levare opere4 a' tessitori di drappi. Questo uomo era molto amico di papa Clemente, il quale pigliava gran piacere di sentirlo ragionare. Essendo un giorno in questi cotali ragionamenti, si cadde in proposito e del Sacco e de l'azione del Castello: per la qual cosa il papa, ricordatosi di me, ne disse tanto bene quanto immaginar si possa; ed aggiunse che, se lui sapeva dove io fussi, arebbe piacere di riavermi. 1. • Piace reggere le cose eccelse. 11 Sul S11mma ( come sembra doversi leggere nelle abbreviazioni del manoscritto, e non Summam) si veda il com.mento del Bacci. Il latino del Cellini è sempre, per altro, assai approssimativo. Si legge Simm,am anche nel Trattato dell'Oreficeria, capo xn, Lavorare di milmteria. (Cfr. I trattati, ed. Milanesi cit., p. 79 e qui avanti p. 1019.) Del resto anche Summa,n - interpretando nel valore di «somma» - può essere ritenuto regolare nell'uso non letterario. 2. Aluigi Alamanni: il celebre autore della Coltivazione, del Giron cortese e dell' Avarchide: nacque in Firenze nel 1495 e mori in Amboise nel 1556. Era stato, appunto, esule in Francia. Era a Firenze nell'autunno del 1529. 3.Jui comandato: appunto per il servizio militare nella difesa di Firenze. 4. levare opere: ricavar disegni per tessuti. ( Opera è quanto si rappresenta nel drappo.)

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Il detto maestro Iacopo disse che io ero a Firenze; per la qual cosa il papa gli commesse che mi scrivessi1 che io tornassi a lui. Questa ditta lettera conteneva che io dovessi tornare al servizio di Clemente e che buon per me.2 Quelli giovani, che eran quivi alla presenza, volevano pur sapere quel che quella lettera conteneva; per la qual cosa, il meglio che io potetti, la nascosi: di poi iscrissi al ditto maestro Iacomo, pregandolo che, né per bene né per male, in modo nessuno lui non mi scrivessi. Il ditto, cresciutogli maggior voglia, mi scrisse un'altra lettera, la quale usciva tanto de' termini che, se la si fussi veduta, io sarei capitato male. Questa diceva che, da parte del papa, io andassi subito, il quali mi voleva operare a cose di grandissima importanza; e che, se io volevo far bene, che io lasciassi ogni cosa subito e non istessi a far contro a un papa insieme con quelli pazzi arrabbiati. Vista la lettera, la mi misse tanta paura che io andai a trovare quel mio caro amico che si domandava Pier Landi; il qual vedutomi, subito mi domandò che cosa di nuovo io avevo, che io dimostravo essere tanto travagliato.3 Dissi al mio amico che, quel che io avevo che mi dava quel gran travaglio, in modo nessuno non gliel potevo dire; solo lo pregavo che pigliassi quelle tali chiave che io gli davo, e che rendessi le gioie e l'oro al terzo e 'l quarto4 che lui in sun un mio libruccio troverebbe scritto; di poi pigliassi la roba della mia casa e ne tenessi un poco di conto con quella sua solita amorevolezza, e che in fra brevi giorni lui saprebbe dove io fussi. Questo savio giovane, forse a un dipresso imaginatosi la cosa, mi disse: - Fratel mio, va' via presto, di poi scrivi, e delle cose tue non ti dare un pensiero. - Cosi feci. Questo fu il più fidele amico, il più savio, il più da bene, il più discreto, il più amorevole che mai io abbia conosciuto. Partitomi di Firenze me ne andai a Roma, e di quivi scrissi. Subito che io giunsi in Roma, 5 ritrovato parte dclii mia amici, dalli quali io fui molto ben veduto e carezzato, e subito mi messi a lavorare opere tutte da guadagnare, e non di nome da descrivere. Era un certo vecchione6 orefice, il quale si domandava [XLIII.]

I. gli commesse che mi scrivessi: lo incaricò di scrivermi. 2. e che buon per me: cioè non c'era altro da fare. 3. travagliato: preoccupato. 4. al ter::o e ~l quarto: a questo e a quello. 5. Subito ••. Roma: rammenta il Bocci come nella metà del 1529 il Cellini era già a servizio di Clemente VII. 6. veccl,ione: vecchio.

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Raffaello del Moro.1 Questo era uomo di molta riputazione nel1'Arte,:i e nel resto era molto uomo da bene; mi pregò che io fussi contento andare a lavorare nella bottega sua, perché aveva da fare alcune opere d'importanza, le quali erano di bonissimo guadagno: cosi andai volentieri. Era passato più di dieci giorni che io non m'ero fatto vedere a quel detto maestro Iacopino della Barca; il quale, vedutomi a caso, mi fece grandissima accoglienza, e, domandatomi quant'egli era che io era giunto, gli dissi che gli era circa quindici giorni. Questo uomo l'ebbe molto per male, e mi disse che io tenevo molto poco conto d'un papa, il quale con grande istanzia di già gli aveva fatto scrivere tre volte per me: e io, che l'avevo auto molto più per male di lui, nulla gli risposi mai, anzi mi ingozzavo la stizza. Questo uomo, ch'era abbundantissimo di parole, entrò in sun una pesta e ne disse tante che pur poi, quando io lo viddi stracco, non gli dissi altro se non che mi menassi dal papa a sua posta.3 Il qual rispose che sempre era tempo; onde io gli dissi: - E io ancora son sempre parato.4 Cominciatosi a 'vviare verso il Palazzo, e io seco - questo fu il Giovedl santo -, giunti alle camere del papa, lui che era conosciuto e io aspettato, subito fummo messi drento. 5 Era il papa in nel letto un poco indisposto, e seco era misser Iacopo Salviati e l'arcivescovo di Capua.6 Veduto che m'ebbe il papa, molto strasordinariamente si rallegrò: e io, baciatogli e' piedi, con quanta modestia io potevo me gli accostavo appresso, mostrando volergli dire alcune cose d'importanza. Subito fatto cenno con la mana, il ditto missere Iacopo e l'arcivescovo si ritirorno molto discosto da noi. Subito cominciai, dicendo: - Beatissimo Padre, da poi che fu il Sacco in qua io non mi son potuto né confessare né comunicare, perché non mi vogliono assolvere; il caso è questo: che, quando io fonde' l'oro e feci quelle fatiche a scior7 quelle gioie, vostra santità dette commessione al Cavalierino che donasse I. Raffaello del Moro: il Cellini lo ricorda con varie lodi nel Trattato dell'Oreficeria, ai capi VIII, Conre ,'acconcia il diamante e IX, Come si fa la tinta a' diamanti (cfr. J trattati, ed. Milanesi cit., pp. 56 e 61, e qui avanti, pp. 1004 e 1008). Da vari documenti dell'epoca risulta che fornì pietre preziose al papa. z. Arte: corporazione degli orefici. 3. a sua polta: quando volesse. 4. parato: pronto. 5. meni drento: introdotti. 6. Fra Nicola Scomberg, svevo. Era domenicano. Venne fatto arcive,covo di Capua nel 1520 e nominato cardinale nel 1535. 7. 1cior: slegare (togliere dall'incastonatura).

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un certo poco premio delle mie fatiche, il quale io non ebbi nulla, anzi mi disse più presto villania: andatomene sù dove io avevo fonduto il detto oro, levato le ceneri trovai in circa una libbra e mezzo d'oro in tante granellette come panico; e, perché io non avevo tanti danari da potermi condurre onorevolmente a casa mia, pensai servirmi di quelli e rendergli da poi quando mi fusse venuto la comodità. Ora io son qui a' piedi di vostra santità, la quali è 'l vero confessoro: 1 quella mi faccia tanto di grazia di darmi licenzia, acciocché io mi possa confessare e comunicare e mediante la grazia di vostra santità io riabbia la grazia del mio signor Iddio. - Allora il papa con un poco di modesto sospiro, forse ricordandosi de' sua affanni, disse queste parole: - Benvenuto, io sono certissimo quel che tu di', il quale ti posso assolvere d'ogni inconveniente che tu avessi fatto, e di più voglio; sì che liberissimamente e con buon animo di' sù ogni cosa, ché, se tu avessi auto il valore di un di que' regni2 interi, io son dispostissimo a perdonarti. - Allora io dissi: - Altro non ebbi, beatissimo Padre, che quanto io ò detto; e questo non arrivò al valore di centoquaranta ducati, che tanto ne ebbi dalla zecca di Perugia, e con essi n'andai a confortare il mio povero vecchio padre. - Disse il papa: - Tuo padre è stato cosi virtuoso, buono e dabbene uomo quanto nascessi mai, e tu punto non traligni. Molto m'incresce che i danari furno pochi; però questi, che tu di' che sono, io te ne fo un presente, e tutto ti perdono. Fa' di questo fede al confessoro, se altro non c'è che attenga a me; 3 di poi, confessato e comunicato che tu sia, lascera'ti rivedere, e buon per te. - Spiccato che io mi fui dal papa, accostatosi il ditto misser Iacopo e l'arcivescovo, il papa disse tanto ben di me quanto d'altro uomo che si possa dire al mondo, .e disse che mi aveva confessato ed assoluto; di poi aggiunse dicendo a l'arcivescovo di Capua che mandassi per me e che mi domandassi se sopra a quel caso bisognava altro, che di tutto mi assolvessi, che gnene dava intera autorità e di più mi facessi quante carezze quanto e' poteva. Mentre che io me ne andavo con quel maestro lacopino, curiosissimamente mi domandava che serrati e lunghi ragionamenti erano stati quelli che io avevo auti col papa. La qual cosa come e' m'ebbe dimandato più di dua volte, gli dissi che non gnene volevo dire perché non 1.

confessoro: confessore.

2.

regni: triregni.

3. attenga a me: riguardi me.

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eran cose che s'attenessino a lui, però non me ne dimandassi più. Andai a fare tutto quello che ero rimasto col papa; di poi, passato le due feste,' lo andai a visitare. Il quale, fattomi più carezze che prima, mi disse: - Se tu venivi un poco prima a Roma, io ti facevo rifare quelli mia dua regni che noi guastammo in Castello; ma, perché e' le son cose, dalle gioie in fuora, di poca virtù,2. io ti adopererò a una opera di grandissima importanza, dove tu potrai mostrare quel che tu sai fare. E questo si è il bottone3 del peviale,4 il quale si fa tondo a foggia di un tagliere e grande quanto un taglieretto di un terzo di braccio: in questo io voglio che si faccia un Dio Padre di mezzo rilievo, ed in mezzo al detto voglio accomodare quella bella punta del diamante grande con molte altre gioie di grandissima importanza. Già ne cominciò uno Caradosso, e non lo fini mai. Questo io voglio che si finisca presto, perché me lo voglio ancora io godere qualche poco. Si che va' e fa' un bel modellino. - E mi fece mostrare tutte le gioie; onde io affusolato5 subito andai.

[XLIV.] In mentre che l'assedio era intorno a Firenze6 quel Federigo Ginori, a chi io avevo fatto la medaglia de l' Atalante, si mori di tisico,' e la ditta medaglia capitò alle mane di misser Luigi Alamanni, il quale in ispazio di breve tempo la portò egli medesimo a donare a re Francesco, re di Francia, con alcuni sua bellissimi scritti. Piacendo oltramodo questa medaglia al re, il virtuosissimo misser Luigi Alamanni parlò di me con sua maestà alcune parole di mia qualità, oltra l'arte, con tanto favore che il re fece segno di aver voglia di conoscermi. Con tutta la sollecitudine che io potevo sollecitando quel detto modelletto, il quale facevo della grandezza appunto che doveva essere l'opera, risentitosi nell'Arte degli orefici molti di quelli, che pareva loro essere atti a far tal cosa, e perché gli era venuto a Roma un certo Micheletto8 molto valente uomo per intagliare corniuole - ancora era passato le due feste: cioè dopo due settimane. 2. virtÌl: valore. 3. bottone: nel senso di II piastra»; vedi p. 598, nota 3. 4. peviale: piviale. 5. affusolato: difilato. 6. In mentre . •. Ffre,1ze: dur6 dal 24 ottobre 1529 al 10 agosto 1530. 7. di tisico: di tisi (o tisico). 8. Micheletto o Michelino, probabilmente figlio d'un Francesco Nardini (o Naldini), era un valente intagliatore di gemme; fiorentino di nascita. Della gara con lui parla il Cellini anche nel Trattato dell'Oreficeria, capo xu, LafJorare di minuteria {cfr. I trattati, ed. Milanesi cit., p. 85 1 e qui avanti, p. 102,3). I.

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intelligentissimo gioielliere, cd era uomo vecchio e di molta riputazione -, erasi intermesso alla cura de' dua regni1 del papa: facendo io questo detto modello, molto si maravigliò che io non avevo fatto capo a lui, essendo pure uomo intelligente ed in credito assai del papa. A l'utimo, veduto che io non andavo da lui, lui venne da me, domandandomi quello che io facevo. - Quel che m'à commisso2 il papa - gli risposi. Allora e' disse: - Il papa m'à commisso che io vegga tutte queste cose che per sua santità si fanno. - Al quale io dissi che ne dimanderei prima il papa, di poi saprei quel che io gli avessi a rispondere. Mi disse che io me ne pentirei; e, partitosi da me adirato, si trovò insieme con tutti quelli dell'Arte, e ragionando di questa cosa dettono il carico3 al detto Michele tutti; il quale con quel suo buon ingegno fece fare da certi valenti disegnatori più di trenta disegni tutti variati l'uno dall'altro di questa cotale impresa. E, perché gli aveva a sua posta l'orecchio del papa, accordatosi con un altro gioielliere il quale si chiamava Pompeo milanese4 - questo era molto favorito dal papa ed era parente di misser Traiano, 5 primo cameriere del papa -, cominciorno questi dua, cioè Michele e Pompeo, a dire al papa che avevano visto il mio modello e che pareva loro che io non fussi strumento atto a cosi mirabile impresa. A questo il papa disse che l'aveva a vedere anche lui; di poi, non essendo io atto, si cercherebbe chi fussi. Dissono tutt'a dua che avevano parecchi disegni mirabili sopra tal cosa. A questo il papa disse che l'aveva caro assai, ma che non gli voleva veder prima che io avessi finito il mio modello; di poi vedrebbe ogni cosa insieme. In fra pochi giorni io ebbi finito il modello e, portatolo una mattina sù dal papa, quel misser Traiano mi fece aspettare, ed in questo mezzo mandò con diligenzia per Micheletto e per Pompeo, dicendo loro che portassino i disegni. Giunti che e' furno, noi fummo messi drento; per la qual cosa subito Michele e Pompeo cominciorno a squadernare i lor disegni, ed il papa a vedergli. E, perché i disegnatori fuor de l'arte del gioiellare non sanno la situazione delle gioie, né manco dua regni: il Bacci ricorda come un altro triregno fosse stato affidato oli' orefice Gaspare Gallo romano, perché lo rimettesse a nuovo. 2. commisso: ordinato (affidato). 3. il carico: l'incarico. 4. Pompeo milanese: di cognome dovrebbe essere un De Capitaneis: come si vedrà più avanti (a p. 652), il Cellini lo ucciderà il 26 settembre 1534. 5. Traiano Alicorno, chierico e notaio milanese, aveva molte incombenze alla Corte papale. 1.

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coloro che erano gioiellieri non l'avevano insegnata loro (perché è forza a un gioielliere, quando in fra le sue gioie intervien figure, 1 ch'egli sappia disegnare, altrimenti non gli vien fatto cosa buona), di modo che tutti que' disegni avevano fitto quel maraviglioso diamante nel mezzo del petto di quel Dio Padre. Il papa, che pure era di bonissimo ingegno, veduto questa cosa tale, non gli finiva di piacere: e, quando e' n'ebbe veduti insino a dieci, gittato e' resto in terra disse a me che mi stavo là da canto: - Mostra un po' qua, Benvenuto, il tuo modello, acciò che io vegga se tu sei nel medesimo errore di costoro. - Io fattomi innanzi ed aperto una scatoletta tonda, parve che uno splendore dessi proprio negli occhi del papa; e disse con gran voce: - Se tu mi fussi stato in corpo, tu non l'aresti fatto altrimenti come io veggo. - Costoro non sapevano altro modo a vituperarsi. Accostatisi molti gran signori, il papa mostrava la differenza che era dal mio modello a' lor disegni. Quando l'ebbe assai lodato, e coloro spaventati e goffi alla presenza, si volse a me e disse: - Io ci cognosco appunto un male che è d'importanza grandissima: Benvenuto mio, la cera è facile da lavorare; il tutto è2 farlo d'oro. - A queste parole io arditamente risposi, dicendo: - Beatissimo Padre, se io non lo fo n1eglio dieci volte di questo mio modello, sia di patto che voi non me lo paghiate. - A queste parole si levò un gran tomulto fra quei signori, dicendo che io promettevo troppo. V'era un di questi signori, grandissimo filosofo, il qual disse in mio favore: - Di quella bella finnusumia 3 e simmitria di corpo, che io veggo in questo giovane, mi prometto tutto quello che dice, e da vantaggio. - Il papa disse: - È perché io lo credo ancora io. - Chiamato quel suo cameriere misser Traiano, gli disse che portassi quivi cinquecento ducati d'oro di Camera.4 In mentre che i danari si aspettavano, il papa di nuovo più adagio considerava in che bel modo io avevo accomodato5 il diamante con quel Dio Padre. Questo diamante l'avevo appunto messo in mezzo di questa opera,6 e sopra d'esso diamante vi avevo accomodato a sedere il Dio Padre in un certo bel modo svolto che dava bellissima accordanza e non occupava la gioia niente: alzando la man diritta, dava intervien figure: càpitano figure. 2. il tutto è: il merito sta nel. 3. finnusumia: fisionomia. 4. ducati d'oro di Camera: lo stesso che scudi d'oro di Camera (cfr. qui addietro, p. 540 e la nota 2). 5. accomodato: sistemato armonicamente. 6. opera:. il termine riguarda il tessuto del piviale. I.

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la benedizione. Sotto al detto diamante avevo accomodato tre puttini, che colle braccia levate in alto sostenevano il ditto diamante. Un di questi puttini di mezzo era di tutto rilievo; gli altri dui erano di mezzo. All'intorno era assai quantità di puttini diversi, accomodati con l'altre belle gioie. Il resto de Dio Padre aveva un ammanto 1 che svolazzava, di' quale usciva di molti puttini, con molti altri belli ornamenti li quali facevano bellissimo vedere. Era questa opera fatta di uno stucco bianco sopra una pietra negra. Giunto i danari, il papa di sua mano me gli dette, e con grandissima piacevolezza mi pregò che io facessi di sorte che lui l'avessi a' sua di, e che buon per me.

[nv.] Portatomi via i danari e il modello, mi parve mill'anni di mettervi le mane. Cominciato subito con gran sollecitudine a lavorare, in capo di otto giorni il papa mi mandò a dire pe~ un suo cameriere, grandissimo gentiluomo bolognese, che io dovessi andar da lui e portare quello che io avevo lavorato. Mentre che io andavo, questo ditto cameriere, che era la più gentil persona che fussi in quella Corte, mi diceva che non tanto il papa volessi veder quell'opera, ma me ne voleva dare un'altra di grandissima importanza, e questa si era le stampe delle monete della Zecca di Roma; e che io mi armassi a poter rispondere a sua santità, ché per questo lui me ne aveva avvertito. Giunsi dal papa e, squadernatogli quella piastra d'oro3 dove era già isculpito Iddio Padre solo, il quale cosi bozzato4 mostrava più virtù che quel modelletto di cera, di modo che il papa, stupefatto, disse: - Da ora innanzi tutto quello che tu dirai, ti voglio credere. - E, fattomi molti sterminati favori, disse: - Io ti voglio dare un'altra impresa, la quale mi sarebbe cara quant'è questa e più, se ti dessi il cuor di farla. - E, dittomi che arebbe caro di far le stampe delle sue monete e domàndomi se io n'avevo più fatte e se me ne dava il cuore di farle, io dissi che benissimo me ne dava il cuore e che io avevo veduto come le si facevano, ma che io non5 n'avevo mai fatte. Essendo alla presenza un certo misser Tommaso da Prato,6 il quale I. ammanto: manto. 2. per: per mezzo di. 3. piastra d, oro: secondo che il Bacci rammenta seguendo Eugène Plon (Benvenuto Cellini, orflvre, médailleur, sculpteur, Paris, Plon, 1883) 1 questo «bottone»fu poi smontato e distrutto, assieme ad altre opere preziose, per pagare i tributi di guerra imposti da Napoleone I. 4. bozzato: abbozzato. 5. non: MS: no. 6. Tom-

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era datario di sua santità, per essere molto amico di quelli mia amici1 disse: - Beatissimo Padre, gli favori che fa vostra santità a questo giovane, e lui per natura arditissimo, son causa che lui vi prometterebbe un mondo di nuovo; perché, avendogli dato una grande impresa ed ora aggiugnendognene una maggiore, saranno causa di dar l'una noia a l'altra.z - Il papa adirato se gli volse e disse 'gli badassi all'uffizio suo; ed a me impose che io facessi un modello d'un doppione largo d'oro,3 in nel quale voleva che fussi un Cristo ignudo con le mane legate, con lettere che dicessino : «Ecce homo», 4 e un rovescio dove fussi un papa ed un imperatore che dirizzassino d'accordo una croce la quale mostrassi di cadere, con lettere che dicessino: « Uno spiritus et una fides erat in eis ». 5 Commessomi il papa questa bella moneta, sopraggiunse il Bandinello scultore,6 il quale non era ancor fatto cavaliere, e con la sua solita prosunzione vestita d'ignoranzia disse: - A questi orafi, di queste cose belle bisogna lor fare e' disegni. - Al quale io subito mi volsi e dissi che io non avevo bisogno di sua disegni per l'arte mia, ma che io speravo bene con qualche tempo che con i mia disegni io darei noia7 a l'arte sua. Il papa mostrò aver tanto caro queste parole quanto immaginar si possa e, voltosi a me, disse: - Va' pur, Benvenuto mio, ed attendi animosamente a servirmi, e non prestare orecchio alle parole di questi pazzi. Cosi partitomi, e con gran prestezza feci dua ferri ;8 e, stampato

maso da Prato: Tommaso Cortesi, famoso giureconsulto; diventato vedovo, entrò nello stato ecclesiastico e da papa Clemente VII fu fatto cardinale, datario e vescovo. Morl nel 1543. I. di quelli mia amici: è detto con ironia, s'intende. 2. di dar •.• altra: di danneggiarsi a vicenda. 3. doppione largo d'oro: • Cosl il Cellini nella sua Vita chiama la Doppia di Clemente VII con ECCE HOMO» (E. l\1ARTINORI, La moneta, cit., p. 120; cfr. come detto vocabolario numismatico indica a p. n6 - il valore di doppia: • Voce comune per indicare una moneta d'oro del valore di 2 Scudi d'oro o Doppio zecchino. Il nome di Doppia corrisponde allo spagnuolo dobla, da doblar raddoppiare»). Di questa moneta parla a lungo il Cellini anche nel Trattato dell'Oreficeria, capo xiv, Il modo di far nzedaglie per stampare in acciaio, e cosl il modo dello stampar monete (cfr. I trattati, ed. Milanesi cit., pp. 109-10, e qui avanti pp. 1038-9). 4. «Ecco l'uomo•: sono le celebri parole riferite a Cristo nel Vangelo (cfr. Ioa,i., 19, 5). 5. cr Un solo spirito ed una sola fede era in loro•; Uno: cosi nel manoscritto in luogo di Unw. 6. il Bandi11ello scultore: il Bandinelli (cfr. la nota 7 a p. 510), era veramente odiato dal Cellini. Per il suo caratteraccio di dir male di tutto e di tutti, come osserva il Vasari, nessuno lo poteva sopportare. 7. ,,aia: fastidio (con l'es~ ser superiore). 8. dua /erri: due conii.

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una moneta in oro,X portato una domenica dopo desinare la moneta e' ferri al papa, quando la vidde, restato maravigliato e contento non tanto della bella opera che gli piaceva oltramodo, ancora più lo fe' maravigliare la prestezza che io avevo usata. E, per accrescere più satisfazione e maraviglia al papa, avevo meco portato tutte le vecchie monete che s'erano fatte per l'addietro da quei valenti uomini che avevano servito papa lulio e papa Lione; e, veduto che le mia molto più satisfacevano, mi cavai di petto un moto proprio2 per il quale io domandavo quel detto uffizio del maestro delle stampe della Zecca, il quale uffizio dava sei scudi d'oro di provvisione il mese, sanza che i ferri poi erano pagati dal zecchiere,3 che se ne dava tre al ducato.4 Preso il papa il mio moto proprio e voltosi, lo dette in mano al datario dicendogli che subito me lo spedissi. 5 Preso il datario il moto proprio e, volendoselo mettere in nella tasca, disse: - Beatissimo Padre, vostra santità non corra così a furia; queste son cose che meritano qualche considerazione. - Allora il papa disse: - Io v' ò inteso; date qua quel moto propio. - E presolo, di sua mano subito lo segnò; poi, datolo a lui, disse: - Ora non c'è più replica; speditegnene voi ora, perché così voglio; e6 val più le scarpe di Benvenuto che gli occhi di tutti questi altri balordi. - E, così ringraziato sua santità, lieto oltra modo me ne andai a lavorare. [XLVI.] Ancora lavoravo in bottega di quel Raffaello del Moro

sopradditto. Questo uomo da bene aveva una sua bella figlioletta, per la quale lui mi aveva fatto disegno addosso; e io, essendo..: mene in parte avveduto, tal cosa desideravo ma in mentre che io avevo questo desiderio io non lo dimostravo niente al mondo anzi una moneta in oro: tale •doppione largo d'oro» ha nel diritto (secondo quanto dice P. D'Ancona che riproduce quello ed altri esemplari in facsinùle) il busto del papa e nel rovescio un Cristo ignudo. Fa notare il Bacci come - per alcune particolarità - il Cellini confondesse nella Vita due monete, anzi ne parlasse come se fossero una sola. 2. moto proprio: è una supplica per avere un decreto (motu proprio). Si tratta qui d'un decreto di nomina (o d'un breve). Il Cellini, come risulta da documenti, venne nominato maestro delle stampe della Zecca pontificia il 16 aprile 1529. (Qui il manoscritto ha motto, e più avanti reca moto.) 3. zecchiere: il soprintendente della Zecca. 4. tre al ducato: tre conii per ogni ducato. 5. me lo spedissi.: me lo sbrigasse. 6. • Solito e conclusivo che dà rilievo alla calorosa e vivissima dichiarazione del Papa• 1.

(Carli).

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istavo tanto costumato che i' gli facevo maravigliare. Accadde che a questa povera fanciulletta gli venne una infirmità nella mana ritta, la quale gli aveva infradiciato1 quelle dua ossicina che seguitano il dito mignolo e l'altro accanto al mignolo. E, perché la povera figliuola era medicata per la inavvertenza del padre da un medicaccio ignorante, il quale disse che questa povera figliuola resterebbe storpiata di tutto quel braccio ritto, non gli avvenendo peggio, veduto io il povero padre tanto sbigottito, gli dissi che non credessi tutto quel che diceva quel medico ignorante. Per la qual cosa lui mi disse non avere amicizia di medici nissuno cerusicf' e che mi pregava che, se io ne conoscevo qualcuno, gnene avviassi. 3 Subito feci venire un certo maestro Iacomo perugino,+ uomo molto eccellente nella cerusia ;5 e, veduto che egli ebbe questa povera figlioletta, la quale era sbigottita perché doveva avere presentito quello che aveva detto quel medico ignorante, dove questo intelligente disse che ella non arebbe mal nessuno e che benissimo si servirebbe della sua man ritta: se bene quelle dua dita ultime fussino state un po' più debolette de l'altre, per questo non gli darebbe una noia al mondo. E, messo mano a medicarla, in ispazio di pochi giorni volendo mangiare6 un poco di quel fradicio7 di quelli ossicini, il padre mi chiamò, che io andassi anch'io a vedere un poco quel male che a questa figliuola si aveva a fare. Per la qual cosa, preso il ditto maestro Iacopo certi ferri grossi e veduto che con quelli lui faceva poca opera e grandissimo male alla ditta figliuola, dissi al maestro che si fermassi e che mi aspettassi un ottavo d'ora.8 Corso in bottega feci un ferrolino9 d'acciaio finissimo e torto, e radeva. Giunto al maestro, cominciò con tanta gentilezza a lavorare che lei non sentiva punto di dolore, e in breve di spazio ebbe finito. A questo, oltra l'altre cose, questo uomo da bene mi pose tanto amore più che non aveva a dua figliuoli i,,jradiciato: putrefatto (per infezione). 2. cerusici: che fossero cerusici (chirurghi). 3. gnene avviassi: gliene mandassi. 4. laconw perugino: è Iacomo Rastelli da Rimini, nato e vissuto a lungo a Perugia. Fu al servizio di Pio II I e dei successori fino al I 566, anno in cui morl. « Fu persona di vasta coltura ed ebbe dimestichezza coi maggiori artisti e letterati del suo tempo 11 (D'Ancona, che menziona il già citato studio di A. Castiglioni). Il Rastelli sarà ancora ricordato qui avanti, a p. 735. 5. cenuia: chirurgia. 6. mangiare: eliminare, togliere. 7./radicio: infezione. 8. un otta'Vo d'ora: si noti il modo di computare il tempo: si tratta di sette minuti e mezzo. 9. Jerrolino: piccolo ferro. I.

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mastii e cosi attese a guarire la bella figliuoletta. Avendo grandissima amicizia con un certo misser Giovanni Gaddi,1 il quale era cherico di Camera, questo misser Giovanni si dilettava grandemente delle virtù, con tutto che in lui nessuna non ne fussi. Istava seco un certo misser Giovanni greco,2 grandissimo litterato; un misser Lodovico da Fano,3 simile a quello, litterato; misser Antonio Allegretti ;4 allora misser Anni bai Caro giovane. 5 Di fuora eràmo misser Bastiano veniziano, 6 eccellentissimo pittore, e io; e quasi ogni giorno una volta ci rivedevamo col ditto misser Giovanni. Dove che per questa amicizia quell'uomo da bene di Raffaello orefice disse al ditto misser Giovanni: - Misser Giovanni mio, voi mi cognoscete; e, perché io vorrei dare quella mia figlioletta a Benvenuto, non trovando miglior mezzo che vostra signoria vi prego che me ne aiutate, e voi medesimo delle mie facultà gli facciate quella dota che a lei piace. - Questo uomo cervellino7 non lasciò appena finir di dire quel povero uomo da bene che, sanza un proposito al mondo, gli disse: - Non parlate più, Raffaello, di questo, perché voi ne siete più discosto che il gennaio dalle more.8 - Il povero uomo molto isbattuto,9 presto cercò di maritarla, e meco istavano la madre d'essa e tutti ingrognati,1°

Giovanni Gaddi: era fiorentino, aveva l'ufficio di decano della Camera apostolica e mantenne altre varie incombenze di fiducia per la sua abilità di amministratore. Morl a Firenze nel 1543: il Caro, che gli era stato segretario, pianse la sua morte nel sonetto Lasso quando fioria. 2. Giovanni greco: si pensa che sia Giovanni Vergezio, gentiluomo greco, che visse in Roma e presentò poi a Firenze al duca Cosimo certi suoi mirabili caratteri greci per stamperia. Da qualche commentatore è identificato con Giovanni Lascaris, veramente di grande autorità e valore. 3. Lodovico da Fano: è ricordato in lettere del Beccadelli e del Varchi. 4. A11tonio Allegretti: fiorentino, di cui è ricordata qualche poesia. 5. Annibal Caro: nato nel 1517, è dunque chiamato giovane nel '30 (allora) dal Cellini, che più avanti, nel par]are di fatti del 1535, chiama il letterato «molto giovane». 6. Bastiano veniziano: dal suo ufficio del sigillo alla Curia papale fu poi chiamato Sebastiano del Piombo. Nato a Venezia da Francesco Luciani nel 1485, mori a Roma nel 1547. Il suo ufficio gli lasciò ben poco tempo per la pittura. (Dice P. D'Ancona: «L'influenza michelangiolesca non valse, come per tanti altri artisti, a menomare la sua forte personalità veneziana, che nel colorito trova il miglior mezzo d'espressione. Raffaello, nel suo periodo romano, si avvicinò a lui quando volle accentuare le sue ricerche coloristiche».) 7. cervellino: di poco cervello. 8. che il gen11aio dalle more: perché queste maturano nei mesi caldi dell'estate. 9. isbattuto: turbato. 10. ingrognati: col grugno (per il cruccio e il risentimento). t.

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ed io non sapevo la causa: e, parendomi che mi pagassin di cattiva moneta di più cortesie che io avevo usato loro, cercai di aprire una bottega vicino a loro. Il ditto misser Giovanni non mi disse nulla insin che la ditta figliuola non fu maritata, la qual cosa fu in ispazio di parecchi mesi. Attendevo con gran sollecitudine a finire l'opera mia e servire la Zecca, ché di nuovo mi comrnisse il papa una moneta di valore di dua carlini/ in nella quale era il ritratto della testa di sua santità e da rovescio un Cristo in sul mare, il quale porgeva la mana a San Piero, con lettere intorno che dicevano: cc Quare dubitasti ?»2 Piacque questa moneta tanto oltramodo che un certo segretario del papa, uomo di grandissima virtù domandato il Sanga,3 disse: - Vostra santità si può gloriare d'avere una sorta di monete la quale non si vede negli antichi con tutte le lor pompe. - A questo il papa rispose: - Ancora Benvenuto si può gloriare di servire un imperatore4 par mio, che lo cognosca. - Seguitando la grande opera d'oro, mostrandola spesso al papa, la qual cosa lui mi sollecitava di vederla e ogni giorno più si maravigliava. Essendo un mio fratello in Roma al servizio del duca Lessandro, 5 al quale in questo tempo il papa gli aveva procacciato il ducato di Penna6 (stava al servizio di questo duca moltissimi soldati, uomini da bene, valorosi, della scuola di quello grandissimo signor Giovanni de' Medici,7 e il mio fratello in fra di loro, tenutone conto dal ditto duca quanto ciascuno di quelli altri più valorosi), era questo mio fratello un giorno dopo desinare in Banchi in bottega d'un certo Baccino della Croce,8 dove tutti quei [XLVII.]

I. una moneta . •• carli11i: di essa dice anche nel Trattato dell'Oreficeria capo XIV, Il modo di far medaglie per stampare in acciaio, e cosi il modo dello stampar monete (cfr. I trattati, ed. Milanesi cit., p. 110 e qui avanti p. 1039). Sulle emissioni di carlini nei vari Stati e, in particolare, negli Stati pontifici si veda E, MARTINORI, La moneta cit., pp. 52-8. 2. « Perché hai dubitato?» Cfr. Matth., 14, 3 I. 3. Giambattista Sanga, elegante poeta neolatino, fu segretario di Clemente VII; mori cli veleno nel 1532. 4. un imperatore: un sovrano. 5. Lessandro: Alessandro de' Medici. 6. il papa ••• Penna: «La nomina a duca di Civita di Penne, Alessandro l'ebbe da Carlo V nel 1522, per favore di Giulio de' Medici non ancora pontefice» (Bacci). 7. Giovanni de' Medici: Giovanni delle Bande Nere. 8. Boccino della Croce: pare invece che si tratti di un Bernardino della Croce.

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bravi1 si riparavano: erasi messo in su una sedia e dormiva. In questo tanto passava la corte del bargello,2 la quale ne menava prigione un certo capitan Cisti3 l01nbardo (anche lui della scuola di quel gran signor Giovannino ma non istava già al servizio del duca). Era il capitano Cattivanza degli Strozzi4 in su la bottega del detto Baccino della Croce. Veduto il ditto capitan Cisti il capitan Cattivanza degli Strozzi, gli disse: - Io vi portavo quelli parecchi scudi che io 5 v'ero debitore; se voi gli volete, venite per essi6 prima che meco ne vadino in prigione. - Era questo capitano volentieri a mettere altri al punto, non si curando sperimentarsi ;7 per che, trovatosi quivi alla presenza certi bravissimi giovani più volontorosi che forti a sì grande impresa, disse loro che si accostassino al capitan Cisti e che si facessin dare quelli sua danari e che, se la corte faceva resistenza, loro a lei facessin forza, se a loro ne bastava la vista.8 Questi giovani erano quattro solamente, tutti a quattro sbarbati; e il primo si chiamava Bertino Aldobrandi, 9 l'altro Anguillotto da Lucca: degli altri non mi sovviene il nome. Questo Bertino era stato allevato e vero discepolo del mio fratello, ed il mio fratello voleva a lui tanto smisurato bene quanto immaginar si possa. Eccoti i quattro bravi giovani accostatisi alla corte del bargello, i quali erano più di cinquanta birri in fra picche, archibusi e spadoni a dua mane. In breve parole si misse mano all'arme, e quei quattro giovani tanto mirabilmente strignevano10 la corte che, se il capitano Cattivanza solo si fussi mostro un poco sanza metter mano all'arme, quei giovani mettevano la corte in fuga; ma, soprastati11 alquanto, quel Bertino toccò certe ferite d'importanza, le quale lo batterno12 per terra. Ancora Anguillotto nel medesimo tempo toccò una ferita in nel braccio dritto, che non potendo più sostener la spada si ritirò il meglio che 1. bravi: nel senso generico di «animosi D (trattandosi di soldati). 2. la corte del bargello: gli esecutori di giustizia (cioè gli sbirri). 3. Cisti: il nome fa pensare a quello - più famoso - di Cisti fornaio del Decamero,z (v1, 2). 4. Cattivanza degli Strozzi: Bernardo Strozzi, capitano della Repubblica fiorentina nel I 530. Il Busini in una lettera al Varchi lo dice « oltre all'essere animosissimo, vario ed incostante, vituperoso di costumi quanto alcun altro» e aggiunge non senza qualche risentimento politico, che e usò ogni sommessione con Lessandro per tornare in Firenze ». s. che io: di cui io. 6. per essi: cioè a prenderli. 7. sperimentarsi: mettersi alla prova. 8. la vista: il coraggio. 9. Bertino Aldobrandi: vedi la nota 4 a p. 588. xo. strignevano: incalzavano. 11. soprastati: soffermatisi nell'incertezza dell'agire. 12. battemo: gettarono.

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potette; gli altri feciono il simile; Bertino Aldobrandi fu levato di terra malamente ferito. Intanto che queste cose seguivano, noi eràmo tutti a tavola perché la mattina s'era desinato più d'un'ora più tardi che 'l solito nostro. Sentendo questi romori, un di quei figliuoli, il maggiore, si rizzò da tavola per andare a vedere questa mistia! Questo si domandava Giovanni, al qual io dissi: - Di grazia non andare, perché a simil cose sempre si vede la perdita sicura sanza nulla di guadagno. - Il simile gli diceva suo padre: - Deh, figliuol mio, non andare. - Questo giovane senza udir persona corse giù pella2 scala. Giunto in Banchi, dove era la gran mistia, veduto Bertino levar di terra, correndo, tornando a drieto, si riscontrò in Cecchino mio fratello, il quali lo domandò che cosa quella era. Essendo Giovanni da alcuni accennato che tal cosa non dicessi al ditto Cecchino, disse a l'ampazzata3 come gli era che Bertino Aldobrandi era stato ammazzato dalla corte. Il mio povero fratello misse si grande il mugghio4 che dieci miglia si sarebbe sentito; di poi disse a Giovanni: - Oimè, saprestimi tu dire chi di quelli me l'à morto? - Il ditto Giovanni disse che sì e che gli era un di quelli che aveva uno spadone a dua mane, con una penna azzurra nella berretta. Fattosi innanzi il mio povero fratello e conosciuto per quel contrassegno lo omicida, gittatosi con quella sua maravigliosa prestezza e bravuria in mezzo a tutta quella corte e, sanza potervi rimediare punto, messo una stoccata nella trippa e passato dall'altra banda il detto, cogli elsi5 della spada lo spinse in terra, voltosi agli altri con tanta virtù ed ardire che tutti lui solo gli metteva in fuga. Se non che, giratosi per dare a un archibusiere, il quale per propia necessità sparato l'archibuso colse il valoroso sventurato giovane sopra il ginocchio della gamba dritta, e posto in terra, la ditta corte mezze6 in fuga sollecitava a 'ndarsene, acciò che un altro simile a questo sopraggiunto non fussi. Sentendo continuare quel tomulto, ancora io levatomi da tavola e messomi la mia spada accanto che per ugnuno7 in quel tempo si portava, giunto al ponte Sant' Agnolo viddi un ristretto8 di [XLVIII.]

I. ,nistia: mischia, tafferuglio. 2. pella: per la. 3. a l'ampazzata: cioè senza pensarci. 4. il mtlgghio: oggi si direbbe • un urlo di dolore». s. cogli elsi: con le else. 6. mezze: mezza. 7. per ug,ru,ro: da ognuno. 8. un ristretto: un gruppo.

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molti uomini; per la qual cosa fattomi innanzi, essendo da alcuni di quelli conosciuto mi fu fatto largo e mòstromi' quel che manco io arei voluto vedere, se bene mostravo grandissima curiosità di vedere. In prima giunta noi cognobbi, per essersi vestito di panni diversi da quelli che poco innanzi io ravevo veduto. Di modo che, conosciuto lui prima me, disse: - Fratello carissimo, non ti sturbi il mio gran male, perché r arte2 mia tal cosa mi prometteva ;3 fammi levare di qui presto, perché poche ore ci è di vita. - Essendomi conto4 il caso, in mentre che lui mi parlava con quella brevità che cotali accidenti promettono, 5 gli risposi: - Fratello, questo è il maggior dolore e il maggior dispiacere che intravvenir mi possa in tutto il tempo della vita mia; ma ista' di buona voglia, ché, innanzi che tu perda la vista, di chi t'à fatto male vedrai le tua vendente6 fatte per le mie mane. - Le sue parole e le mie furno di questa sustanzia, ma brevissime.

[XLIX.] Era la corte discosto da noi cinquanta passi, perché Maffio, ch'era lor bargello,7 n'aveva fatto tornare una parte per levar via quel caporale che 'l mio fratello aveva ammazzato; di modo che, avendo camminato prestissimo quei parecchi passi rinvolto e serrato nella cappa, ero giunto appunto accanto a Maffio e certissimo l'ammazzavo, perché i populi8 assai ed io m'ero intermesso fra quelli di già con quanta prestezza immaginare si possa. Avendo fuor mezza la spada, mi si gettò per didrieto alle braccia Berlinghier Berlinghieri,0 giovane valorosissimo e mio grande amico, e seco era quattro altri giovani simili a lui, e' quali dissono a Maffio: - Lèvati, ché questo s01010 t'ammazzava. - Dimandato, Maffio: - Chi è questo? - Dissono: - Questo è fratello di quel che tu vedi là, carnale. - Non volendo intendere altro, consolle1. mt>stromi: mostratomi (cioè •mi fu mostrato»). 2. arte: professione. 3. mi prometteva: da me richiedeva. 4, conto: raccontato, detto. 5. promettono: permettono. 6. vendente: vendette. 7. Maffeo, ch'era lor bargello: risulta da documenti che, negli anni I 529 e I 530, capo dei birri era appunto Maffio di Giovanni: la sua «famiglia• era di venticinque fanti e dieci cavalli (nel significato di soldati a cavallo). 8. i populi: la gente. 9. Berlinghier Berlinghieri: pare sia quel Berlinghiero Berlinghieri che (secondo il Segni, Istoria di Firenze, libro vu) accompagnò il cardinale Ippolito de' Medici da Carlo V in Napoli, e mori - di veleno o, piuttosto, di malaria - in Puglia. 10. que1to solo: costui, pur essendo solo.

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citudine si ritirò in torre di Nona;1 ed a me dissono: - Benvenuto, questo impedimento che noi ti abbiamo dato contra tua voglia, s'è fatto a fine di bene: ora andiamo a soccorrere quello che starà poco a morire. - Cosi voltici, andammo dal mio fratello, il quale io lo feci portare in una casa. Fatto subito un consiglio di medici lo medicorno, non si risolvendo a spiccargli2 la gamba affatto che talvolta3 sarebbe campato. Subito che fu medicato, comparse quivi il duca Lessandro,4 il quale facendogli carezze, stava ancora il mio fratello in sé. Disse al duca Lessandro: - Signor mio, d'altro non mi dolgo se none che vostra eccellenzia perde un servitore, del quale quella ne potria trovare forse de' più valenti di questa professione ma non che con tanto amore e fede vi servissino quanto io faceva. - Il duca disse che s'ingegnasse di vivere; de' resto 5 benissimo lo cognosceva per uomo da bene e valoroso. Poi si volse a certi sua, dicendo loro che di nulla si mancassi a quel valoroso giovane. Partito che fu il duca, l'abbundanzia del sangue qual non si poteva stagnare fu causa di cavarlo del cervello in modo che la notte seguente tutta farneticò, salvo che, volendogli dare la comunione, disse: - Voi facesti bene a confessarmi dianzi; ora questo sacramento divino non è possibile che io lo possa ricevere in questo di già guasto istrumento :6 solo contentatevi che io lo gusti con la divinità degli occhi, per i quali sarà ricevuto dalla immortale anima mia; e quella sola a lui chiede misericordia e perdono. - Finite queste parole, levato il Sacramento, subito tornò alle medesime pazzie di prima, le quali erano composte dei maggior furori, delle più orrende parole che mai potessino immaginare gli uomini; né mai cessò in tutta notte insino al giorno. Come il sole fu fuora del nostro orizzonte, si volse a me e mi disse: - Fratel mio, io non voglio più star qui, perché costoro mi farebbon fare qualche gran cosa, di che e' s'arebbono a pentire d'avermi dato noia.7 - E scagliandosi con runa e l'altra gamba, la quale noi gli avevamo messo in una cassa molto ben grave, la tramutò in modo di montare a cavallo; voltandosi a me col viso, disse tre volte: - Addio, addio. - E l'ultima parola se ne andò con quella bravosissima anima. Venuto l'ora debita, I. in torre di Nona: vi erano le carceri (che saranno celebri anche per il soggiorno di Giordano Bruno, prima che fosse condotto al rogo). 2. spiccargli: tagliargli. 3. talfJolta: forse. 4. Lessandro: in quel momento duca di Civita di Penne, come si è detto. 5. de' resto: del resto. 6. questo ••• istrumento: il corpo ferito a morte. 7. noia: offesa.

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che fu in sul tardi a ventidua ore, io lo feci sotterrare con grandissimo onore in nella chiesa de' Fiorentini ;1 e di poi gli feci fare una bellissima lapida di marmo, in nella quale vi si fece alcuni trofei e bandiere intagliate. Non voglio lasciare indrieto che, domandandolo un di quei sua amici chi gli aveva dato quell'archibusata, se egli lo ricognosccssi, disse di sì e dettegli e' contrassegni; e' quali, se bene il mio fratello s'era guardato da me che tal cosa io non sentissi, benissimo lo avevo inteso, e al suo luogo si dirà il seguìto. [L.] Tornando alla ditta lapida, certi maravigliosi2 litterati che cognoscevano il mio fratello mi dettono una epigramma3 dicendomi che quella meritava quel mirabil giovane, la qual diceva così: « Francisco Cellina Fiorentino, qui quod in teneris annis ad Ioannem Medicem ducem plures victorias retulit et signifer fuit, facile documentum dedit quantae fortitudinis et consilii vir futurus erat, ni crudelis fati archibuso transfossus, quinto aetatis lustro iaceret, Benvenutus frater posuit. Obiit die XXVII Maii MDXXIX ».4 Era dell'età di venticinque anni, e, perché domandato in fra i soldati Cecchino del Piffero dove il nome suo propio era Giovanfrancesco Cellini, io volsi far quel nome propio, di che gli era conosciuto, sotto la nostra arme. Questo nome io l'avevo fatto intagliare di bellissime lettere antiche ;5 le quali avevo fatto fare tutte rotte,6 salvo che la prima e l'ultima lettera. Le quali lettere rotte io fui domandato per quel che cosl avevo fatto 7 da quelli litterati chiesa de' Fiorentini: San Giovanni dei Fiorentini, già ricordata (vedi a p. 546, nota 1). La lapide a cui accenna il Cellini oggi più non esiste, come P. D'Ancona ricorda. Il Bacci riportava dal Varchi (Storia fiorentina, XI, 29), una menzione per il fratello dell'artista: « Il qual Cecchino avvezzo tralle Bande Nere, e non conoscendo paura nessuna, era stato morto in Banchi dalla famiglia del bargello, mentre che egli solo voleva con molto ardire, ma poca prudenza, combattere con tutti». 2. maravigliosi: di gran nome e importanza. 3. epigramma: epigrafe, iscrizione. 4. 11 A Francesco Cellini fiorentino, il quale, per il fatto che nei suoi teneri anni presso Giovanni de' Medici capitano riportò parecchie vittorie e fu alfiere, diede facile documento di quanta forza e assennatezza egli sarebbe stato se, colpito per crudel destino da un colpo d'archibugio, non avesse dovuto soccombere nel quinto suo lustro. Il fratello Benvenuto pose. Morì il 27 maggio 1529. » 5. antiche: con caratteri antichi (maiuscoli e orizzontali: i caratteri romani cosi si usavano nelle iscrizioni dopo la riforma di Augusto). 6. tutte rotte: cioè spezzate. 7. per . . • fatto: cioè a perché le avessi cosi fatte». 1.

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che mi avevano fatto quel bello epigramma. Dissi loro quelle lettere esser rotte perché quello strumento mirabile del suo corpo era guasto e morto e quelle dua lettere intere, la prima e l'ultima, si erano, la prima, memoria di quel gran guadagno di quel presente che ci dava Iddio di questa nostra anima accesa1 dalla sua divinità; questa non si rompeva mai: quella altra ultima intera si era per la gloriosa fama delle sue valorose virtù. Questo piacque assai, e di poi qualcun altro se n'è servito di questo modo. Appresso feci intagliare in detta lapida l'arme nostra de' Cellini,2 la quale io l'alterai3 da quel che l'è propia; perché si vede in Ravenna, che è città antichissima, i nostri Cellini onoratissimi gentiluomini, e' quali hanno per arme un leone rampante di color d'oro in campo azzurro con un giglio rosso posto nella zampa diritta e sopra il rastrello con tre piccoli gigli d'oro. Questa è la nostra vera arme de' Cellini. Mio padre me la mostrò, la quale era la zampa sola con tutto il restante delle ditte cose; ma a me più piacerebbe che si osservassi quella dei Cellini di Ravenna sopraddetta. Tornando a quella che io feci nel sepulcro del mio fratello, era la branca del lione, ed in cambio del giglio gli feci una accetta in mano col campo di detta arme partito in quattro quarti; e, quell'accetta che io feci, fu solo perché non mi si scordassi di fare le sue vendette.

[LI.] Attendevo con grandissima sollecitudine a finire quell'opera d'oro4 a papa Clemente, la quale il ditto papa grandemente desiderava, e mi faceva chiamare dua e tre volte la settimana volendo vedere detta opera, e sempre gli cresceva di piacere: e più volte mi riprese, quasi sgridandomi della gran mestizia che io portavo di questo mio fratello; ed una volta in fra l'altre, vedutomi sbattuto5 e squallido più che 'l dovere, mi disse: - Benvenuto, ohi 1. accesa: infiammata. (È qui un'eco delle discussioni dell'Accademia platonica nella Firenze di Lorenzo il Magnifico.) 2. l'arme nostra de' Cellini: il Bacci riporta da un disegno conservato alla Biblioteca Nazionale (oggi Nazionale Centrale) di Firenze quanto scrisse il Cellini di sua mano: «i tre gigli rossi i[n] campo d'oro d'nrge[n]to et il rastrello rosso - il liane d'oro i[n] campo azzurro» e nel verso: «La uera arme de cellinj co[n]forme aqquella delli gentili huomini di Rauenna Citta antichissima et trouata i[n] casa mia i(n] sino da Cristofano Cellini mio B[i]savo padre d'Andrea mio Avolo». Queste affermazioni si collegano con quanto si è già visto all'inizio della Vita (cfr. p. 501). 3. alterai: modificai. 4. quell'opera d'oro: si tratta sempre del «bottone» per il piviale del papa. 5. sbattuto: abbattuto per la tristezza.

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i, non sapevo che tu fussi pazzo; non hai tu saputo prima che ora che alla morte non è rimedio? Tu vai cercando di andargli drieto.1 - Partitomi dal papa seguitavo Popera ed i ferri della Zecca, e per mia innamorata2 mi avevo preso il vagheggiare quello archibusieri che aveva dato aP mio fratello. Questo tale era già stato soldato cavalleggieri, di poi s'era messo per archibusieri4 nel numero de' caporali col bargello; e, quello che più mi fece crescere la stizza, fu che lui s'era vantato in questo modo, dicendo: - Se non ero io che ammazzai quel bravo giovane, ogni poco che si tardava, che egli solo con nostro gran danno tutti ci metteva in fuga. - Cognoscendo io che quella passione5 di vederlo tanto ispesso mi toglieva il sonno e il cibo e mi conduceva per il mal cammino, non mi curando di far cosi bassa impresa6 e non molto lodevole, una sera mi disposi a volere uscire di tanto travaglio.7 Questo tale istava a casa vicino a un luogo chiamato Torre Sanguigna, accanto a una casa dove stava alloggiato una cortigiana delle più favorite di Roma, la quali si domandava la signora Antea. Essendo sonato di poco le ventiquattro ore,8 questo archibusieri si stava in su l'uscio suo con la spada in mano, ed aveva cenato. Io con gran destrezza me gli accostai con un gran pugnai pistolese9 e, girandogli un marrovescio,10 pensando levargli il collo di netto, voltosi anche egli prestissimo, il colpo giunse in nella punta della spalla istanca11 e, fiaccato tutto l'osso, levatosi sù, lasciato la spada, smarrito dal gran dolore, si messe a corsa. Dove che seguitandolo in quattro passi lo giunsi e, alzando il pugnale sopra la sua testa, lui abbassando forte il capo, prese il pugnale appunto l'osso del collo e mezza la collottola, e in nell'una e nell'altra parte entrò tanto dentro il pugnale che io, se ben facevo 12 gran forza di riaverlo, non passetti; perché della ditta casa de l'Antea saltò fuora quattro soldati con le spade impugnate in mano a tale che13 io fui forzato a metter mano per la mia spada per difendermi da loro. Lasciato I. andargli drieto: dietro al fratello, cioè di morire a tua volta. 2. per mia innamorata: cioè come un'idea che non mi lasciava mai. 3. dato al: colpito il. 4. per archib11sieri: come archibugiere. 5. passione: ardore. 6. cosi bassa impresa: in quanto Benvenuto si avvede che l'archibugicre aveva sparato per necessità. 7. travaglio: stato angoscioso. 8. le ve11tiquattro ore: di sera, al crepuscolo. 9. pistolese: pistoiese. Era a due tagli e •si fabbricava e usava originariamente in Pistoia» (Carli). IO. marrovescio: manrovescio. 11. istanca: sinistra. 12. se ben facevo: sebbene facessi. I 3. a tale clie: tanto che.

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il pugnale mi levai di quivi e per paura di non1 essere conosciuto me ne andai in casa il duca Lessandro, che stava in fra piazza N avona e la Ritonda.2 Giunto che io fui feci parlare al duca, i' quale mi fece intendere che, se io ero solo,3 io mi stessi cheto e non dubitassi di nulla, e che io me ne andassi a lavorare l'opera del papa che la desiderava tanto, e per otto giorni io mi lavorassi drento ;4 massimamente essendo sopraggiunto quei soldati che mi avevano impedito, 5 li quali avevano quel pugnale in mano e conta vano la cosa come l'era ita e la gran fatica che egli avevano durato a cavare quel pugnale dell'osso del collo e del capo di colui, il quale loro non sapevano chi quel si fussi. Sopraggiunto in questo Giovan Bandini,6 disse loro: - Questo pugnale è il mio, e l'avevo prestato a Benvenuto, il quale voleva far le vendette del suo fratello. - I ragionamenti di questi soldati furno assai, dolendosi d'avermi impedito,7 se bene la vendetta s'era fatta a misura di carboni.8 Passò più di otto giorni: il papa non mi mandò a chiamare come e' soleva. Da poi, mandatomi a chiamare per quel gentiluomo bolognese suo cameriere che già dissi, 9 questo con gran modestia mi accennò come il papa sapeva ogni cosa, e che sua santità mi voleva un grandissimo bene, e che io attendessi a lavorare e stessi cheto. Giunto al papa, guardatomi cosi coll'occhio del porco,1° con i soli sguardi mi fece una paventosa bravata; di poi, atteso all'opera,11 cominciatosi a rasserenare il viso, mi lodò oltramodo, dicendomi che io avevo fatto un gran lavorare in sì poco tempo; da poi, guardatomi in viso, disse: - Or che tu se' guarito, Benvenuto, attendi a vivere. - E io, che lo 'ntesi, dissi che cosi farei. Apersi una bottega subito bellissima in Banchi al dirimpetpaura di non: paura di (costrutto latineggiante, in uso nel secolo)~ Ritonda: il Pantheon; vedi la nota 13 a p. 500. (La casa del duca Alessandro de' Medici, poi Palazzo Madama, è oggi la sede del Senato.) 3. solo: cioè senza complici. 4. mi lavorassi dre11to: me ne stessi al lavoro. s. mi avevano impedito: mi avevano dato impaccio. 6. Giovan Bandi11i: era un soldato ligio al duca Alessandro: come ricorda P. D'Ancona, egli fu poi famoso per il duello con Lodovico Martelli nel campo dell'Orange al tempo dell'assedio di Firenze. Divenne partigiano di Filippo Strozzi e, come tale, venne imprigionato da Cosimo I. 7. dolendosi d'avermi impedito: per il fatto che, fra i soldati dell'epoca, la vendetta era considerata come un diritto da parte di chi si sentiva offeso. 8. a misura di carboni: in sovrabbondanza. E cfr. la nota 12 a p. 527. 9. gentiluomo . •• dissi: si veda l'allusione, per altro generica, qui addietro a p. 598. 10. coll'occhio del porco: cioè di traverso. 11. atteso all'opera: esaminata l'opera. 1. 2.

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to a quel Raffaello,' e quivi fini' la detta opera in pochi mesi appresso.

[LII.] Mandatomi il papa tutte le gioie, da il diamante in fuora il quale per alcuni sua bisogni lo aveva impegnato a certi banchieri genovesi, tenevo tutte l' altre gioie, e di questo diamante avevo solo la forma. Tenevo cinque bonissimi lavoranti, e fuora di3 questa opera facevo di molte faccende in modo che la bottega era carica di molto valore d'opere e di gioie, d'oro e di argento. Tenendo in casa un cane peloso, grandissimo e bello, il quale me lo aveva donato il duca Lessandro, se bene questo cane era buono per la caccia, perché mi portava ogni sorta di uccelli e d'altri animali che ammazzato io avessi con l'archibuso, ancora per guardia d'una casa questo era maravigliosissimo. Mi avvenne in questo tempo, promettendolo la stagione in nella quale io mi trovava in nell'età di ventinove anni, avendo presa per mia serva una giovane di molta bellissima3 forma e grazia, questa tale io me ne servivo per ritrarla a proposito per l'arte mia: ancora nù compiaceva alla giovanezza mia del diletto carnale. Per la qual cosa avendo la mia camera molto appartata da quelle dei mia lavoranti e molto discosto alla bottega, legata con un bugigattolo d'una cameruccia di questa giovane serva, e, perché molto ispesso io me la godevo e, se bene io ò auto il più leggier sonno che mai altro uomo avessi al mondo, in queste tali occasioni de l' opere della carne egli alcune volte si fa gravissimo e profondo, sl come avvenne che una notte in fra !'altre essendo istato vigilato4 da un ladro, il quale sott'ombra di dire che era orefice, aocchiando5 quelle gioie disegnò rubarmele, per la qual cosa sconfittomi la bottega, trovò assai lavoretti d'oro e d'argento. E, soprastando a sconficcare alcune cassette per ritrovare le gioie eh' egli aveva vedute, quel cane ditta se gli gettava addosso e lui con una spada malamente da quello si difendeva di modo che più volte il cane corse per la casa, entrato in nelle camere di quei lavoranti che erano aperte per esser di state. Da poi che quel suo gran latrare quei non volevan sentire, tirato lor le coperte da dosso, ancora non sentendo, pigliato per i I. quel Rajfaello: Raffaello del Moro di cui il Cellini ha già parlato in precedenza (vedi pp. 593 sgg.). 2./uora di: oltre. 3. molta bellissima: uso popolare non insolito nel Cellini. 4. vigilato: sorvegliato. 5. aocchiando: adocchiando.

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bracci or l'uno or l'altro, per forza gli svegliò e, latrando con quel suo orribil modo, mostrava loro il sentiero avviandosi loro innanzi. E' quali, veduto che lor1 seguitare non lo volevano, venuto a questi traditori a noia tirando al detto cane sassi e bastoni, e questo lo potevano fare perché era di mia commessione2 che loro tutta la notte tenessino il lume,3 per ultimo serrato molto ben le camere, il cane, perso la speranza dell'aiuto di questi ribaldi, da per sé solo si messe all'impresa; e corso giù, non trovato il ladro in bottega, lo raggiunse; e, combattendo seco, gli aveva di già stracciata la cappa e tolta; e, se non era che lui chiamò l'aiuto di certi sarti dicendo loro che per l'amor di Dio l'aiutassino difendere da un cane arrabbiato, questi, credendo che cosi fussi il vero, saltati fuora iscacciorno il cane con gran fatica. Venuto il giorno, essendo iscesi in bottega la vidono sconfitta4 ed aperta, e rotto tutte le cassette. Cominciorno ad alta voce a gridare: - Oimè, oimèl -, onde io resentitomi, ispaventato da quei romori, mi feci fuora. Per la qual cosa fattimisi innanzi, mi dissono: - Oh sventurati a noi, che siamo stati rubati da uno che à rotto e tolto ogni cosal - Queste parole furno di tanta potenzia che le non mi lasciorno andare al mio cassone a vedere se v'era drento le gioie del papa, ma per quella cotal gelosia5 ismarrito quasi affatto il lume degli occhi, dissi che loro medesimi aprissino il cassone, vedendo quante vi mancava di quelle gioie del papa. Questi giovani si erano tutti in camicia, e, quando di poi aperto il cassone vidoro6 tutte le gioie e l'opera d'oro insieme con esse, rallegrandosi mi dissono: - E' non ci è mal nessuno, da poi che l'opera e le gioie son qui tutte; se bene questo ladro ci à lasciati tutti in camicia, causa che iersera per il gran caldo noi ci spogliammo tutti in bottega ed ivi lasciammo i nostri panni. - Subito ritornatomi le virtù al suo luogo, ringraziato lddio, dissi: - Andate tutti a rivestirvi di nuovo, e io ogni cosa pagherò, intendendo più per agio il caso come gli è passato. - Quello che più mi doleva e che fu causa di farmi smarrire e spaventare tanto fuor della natura mia, si era che talvolta il mondo non avessi pensato che io avessi fatto quella finzione di quel ladro sol per rubare io le gioie; e, perché a papa Clemente fu detto da un suo fidatissimo e da I. veduto che lor: dato che essi. 2. mia commessione: mio ordine. 3. tenessino i'l lume: acceso, s'intende. 4. sconfitta: sconnessa dai cardini. 5. gelosia: timore smisurato. 6. vidoro: videro.

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altri, e' quali furno Francesco del Nero/ il Zana2 de' Biliotti suo computista, 3 il vescovo di Vasona4 e molti altri simili: - Come fidate voi, beatissimo Padre, tanto gran valore di gioie a un giovane il quale è tutto fuoco ed è più nell'arme immerso che nell'arte, e non à ancora trenta anni? -, la qual cosa il papa rispose se nessun di lor sapeva che io avessi mai fatto cose da dare loro tal sospetto. Francesco del Nero suo tesauriere presto rispose dicendo: - No, beatissimo Padre, perché e' non à auto mai una tale occasione. - A questo il papa rispose: - Io l' ò per intero 5 uomo da bene, e, se io vedessi un mal di lui, io non lo crederrei. Questo fu quello che mi dette il maggior travaglio e che subito mi venne a memoria. Dato che io ebbi ordine a' giovani che fussino rivestiti, 6 presi l'opera insieme con le gioie, accomodandole meglio che io potevo a' luoghi loro, e con esse me ne andai subito dal papa, il quale da Francesco del Nero gli era stato detto parte di quei romori che nella bottega mia s'era sentito e subito messo sospetto al papa. Il papa, più presto immaginato male che altro, fattomi uno sguardo addosso terribile, disse con voce altiera: - Che se' tu venuto a far qui? che c'è? - Ècci tutte le vostre gioie e l'oro, e non manca nulla. - Allora il papa, rasserenato il viso, disse: - Cosi- sia tu il benvenuto. - Mostratogli l'opera e, in mentre che la vedeva, io gli contavo tutti gli accidenti del ladro e de' mia affanni e quello che m'era di maggior dispiacere. Alle qual parole molte volte si volse a guardarmi in viso fiso, ed alla presenza era quel Francesco del Nero, per la qual cosa pareva che avessi mezzo per male non si essere apposto.? All'ultimo il papa, cacciatosi a ridere di quelle tante cose che io gli avevo detto, mi x. Francesco del Nero: «Soprannominato il Crà del Piccadiglio: sotto i Medici fu depositario del Comune di Firenze, insieme a Filippo Strozzi e sospettato di appropriarsi il denaro pubblico» (Bacci, con rinvio alle opere del Varchi, del Giovio e del Busini per giudizi sul personaggio). Era cognato del Machiavelli che gli indirizzò varie lettere. 2. Zana: deriva probabilmente da Giovanni. 3. computista: contabile. 4. il vescovo di Vasona: Girolamo Schio vicentino (da alcuni creduto di Vasona, cioè di Vaison nella contea di Avignone, il cui vescovado ebbe nel 1523). Fu confessore di Clemente VII e incaricato di importanti uffici e anche di legazioni. Mori nel 1533. 5. per i11tero: del tutto, completamente. 6.fussino rivestiti: si procurassero nuovi abiti (a sue spese, s,intende). 7. avessi . •• apposto: prendesse in cattiva parte che (il papa) non si fosse opposto. Dice il Bacci che nel manoscritto «le due %% di mezzo sono soprar. su una macchia forte, che è cass. di due ss (sembra): aman. ».

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disse: -· Va' e attendi a essere uomo da bene, come io mi sa• pevo.

[LIII.] Sollecitando la ditta opera e lavorando continuamente per la Zecca, si cominciò a vedere per Roma alcune monete false istampate con le mie propie stampe. Subito furno portate dal papa; e, datogli sospetto di me, il papa disse a Iacopo Balducci zecchiere :1 - Fa' diligenza grandissima di trovare il malfattore, perché sappiamo che Benvenuto è uomo da bene. - Questo zecchiere traditore, per esser mio nimico, disse: - lddio voglia, beatissimo Padre, che vi riesca cosi qual voi dite perché noi abbiamo qualche riscontro.3 - A questo il papa si volse al governatore di Roma e disse che lui facessi un poco di diligenza di trovare questo malfattore. In questi di il papa mandò per me; di poi con destrP ragionamenti entrò in su le4 monete, e bene a proposito mi disse: - Benvenuto, darebbet'egli il cuore di far monete false? Alla qual cosa io risposi che le crederrei far meglio che tutti quanti gli uomini che a tal vii cosa attendevano, perché quelli che attendono a tal poltronerie5 non sono uomini che sappin guadagnare né sono uomini di grande ingegno. E, se io col mio poco ingegno guadagnavo tanto che mi avanzava, perché quando io mettevo ferri per la Zecca ogni mattina innanzi che io desinassi mi toccava a guadagnare tre scudi il manco6 ( che così era stato sempre l'usanza del pagare i ferri delle monete, e quello sciocco del zecchiere mi voleva male, perché e' gli arebbe voluti avere a miglior mercato), a me mi bastava assai questo che io guadagnavo con la grazia de Dio e del mondo; ché, a far monete false, non mi sarebbe tocco a guadagnar tanto. Il papa attinse7 benissimo le parole e, dove gli aveva dato commessione che con destrezza avessin cura che io non mi partissi di Roma, disse loro che cercassino con diligenza e di me non tenessin cura, perché non arebbe voluto isdegnarmi qual fussi causa di perdermi. A chi e' commesse caldamente, furno alcuni de' cherici di Camera, e' quali, fatto quelle debite diligenze perché a lor toccava, subito lo trovorno. Questo si era un istampa1. Iacopo Balducci zeccl,iere: era soprintendente della Zecca pontificia fin dal I 529. Ricorda P. D'Ancona come più tardi fosse imprigionato e messo alla tortura per l'accusa di aver fatto falsa moneta. 2. riscontro: ragguaglio. 3. destri: abili. 4. in su le: a parlar delle. 5. poltronerie: ribalderie. 6. il manco: almeno. 7. attinse: cioè «comprese•.

BENVENUTO CELLINI

tore della propia Zecca, che si domandava per nome Ceseri Ma.. cheroni,X cittadin romano; e insieme seco fu preso un ovolatore di Zecca.2 In questo di medesimo passando io per piazza Naona3 avendo meco quel mio bello can barbone, quando io sono giunto dinanzi alla porta del bargello, il mio cane con grandissimo impito forte latrando si getta dentro alla porta del bargello addosso a un giovane il quale aveva fatto cosi un poco sostenere4 un certo Donnino5 orefice da Parma, già discepol di Caradosso, per aver auto indizio che colui l'avessi rubato. Questo mio cane faceva tanta forza di volere sbranare quel giovane che, mosso i birri a compassione, massimamente il giovane audace difendeva bene le sue ragione, e quel Donnino non diceva tanto che bastassi, maggiormente essendovi un di quei caporali de' birri, eh' era genovese e conosceva il padre di questo giovane; in modo che, fra il cane e quest'altre occasioni, facevan di sorte che volevan lasciar andar via quel giovane a ogni modo. Accostato che io mi fui, il cane non cognoscendo paura né di spada né di bastoni, di nuovo gittatosi addosso a quel giovane, coloro mi dissono che se io non rimediavo al mio cane me lo ammazzerebbono. Preso il cane il meglio che io potevo, in nel ritirarsi il giovane in sù la cappa, gli cadde certe cartuzze6 della capperuccia;7 per la qual cosa quel Donnino ricognobbe esser cose sue. Ancora io vi ricognobbi un piccolo anellino; per la qual cosa subito io dissi: - Questo è il ladro che mi sconfisse e rubò la mia bottega, però8 il mio cane lo ricognosce. - E, lasciato [LIV.]

1. Cesare Maclieroni: «Entrato nella zecca fin dal tempo del Sacco. Carcerato coi compagni, il suo processo durò dall'n di Aprile al 2 di Maggio del 1532, ed il Macheroni fu sottoposto due volte alla tortura» {Bacci). 2. un ovolatore di Zecca: si chiamava Raffaello di Domenico, romano. Tra i commentatori il Molini (GIUSEPPE MoLINI, La vita di BENVENUTO CBLLINI, Firenze, Tipografia all'insegna di Dante, 1830) e il Bianchi intesero covolatore (anziché ovolatore), da covo/o, « nel qual caso significherebbe un fonditor di metalli della Zecca. Il Guasti invece [GAETANO GUASTI, La vita di BENVENUTO CELLINI, Firenze, Barbèra, 1890] pensa che ovolatore sia corruzione di overatore, ch'era uno degli esercizi della ricordata Zecca, consistente nello spianare i pezzi dell'argento e dell'oro» (D'Ancona). 3. Naona: Navona. 4. sostenere si dice anche per « trattenere » da parte del giudice per sospetto, ma senza una vera incarcerazione (è cioè « trattenere a disposizione»). 5. Do,mino Rippa di Lorenzo, che venne nominato dai creditori nel testamento del Caradosso. 6. cartu.zze: cartocci, apezzuolo di carta in cui sia avvolta checchessia n (Tommaseo-Bellini). 7. capperuccia: cappuccio (capperuccio). 8. periJ: perciò.

LA VITA • LIBRO PRIMO

il cane, di nuovo si gli gittò addosso. Dove che il ladro mi si raccomandò, dicendomi che mi renderebbe quello che aveva di mio. Ripreso il cane, costui mi rese d'oro e di argento e di anelletti quel che gli aveva di mio, e venticinque scudi da vantaggio;' di poi mi si raccomandò. Alle quali parole io dissi che si raccomandassi a Dio, perché io non gli farei né ben né male. E, tornato alle mie faccende, ivi a pochi giorni quel Ceseri Macherone delle monete false fu impiccato in Banchi dinanzi alla porta della Zecca; il compagno fu mandato in galea; il ladro genovese2 fu impiccato in Campo di Fiore; e io mi restai in maggior concetto di uomo da bene che prima non ero.

[Lv.] Avendo presso a fine l'opera mia, sopravvenne quella grandissima inundazione,3 la quale traboccò d'acqua4 tutta Roma. Standomi a vedere quel che tal cosa faceva, essendo di già il giorno logoro, 5 sonava ventidua ore e l'acque oltramodo crescevano. E, perché la mia casa e bottega el dinanzi era in Banchi e il didrieto saliva parecchi braccia perché rispondeva in verso Monte Giordano, di modo che, pensando prima alla salute6 della vita mia, di poi all'onore, mi missi tutte quelle gioie addosso e lasciai quell'opera d'oro a quelli mia lavoranti in guardia, e cosi scalzo discesi per le mie finestre didrieto ed il meglio che io potetti passai per quelle acque, tanto che io mi condussi a Monte Cavallo,7 dove io trovai misser Giovanni Gaddi8 cherico di Camera e Bastiano veniziano9 pittore. Accostatomi a misser Giovanni, gli detti tutte le ditte gioie che me le salvassi; il quale tenne conto di me come se fratello gli fussi stato. Di poi a pochi giorni, passati i furori dell'acqua, ritornai alla mia bottega e fini' la ditta opera con tanta buona fortuna, mediante la grazia de Dio e delle mie gran fatiche, che ella fu tenuta la più bella opera che mai fussi vista a Roma; di modo che portandola al papa, egli non si poteva saziare di lodarmela; e disse: - Se io fussi un imperatore ricco, io donerei al mio Benvenuto tanto terreno quanto il suo occhio scorressi; ma, perché noi dal dì d'oggi siamo poveri imperatori falliti,1° ma da vantaggio: di più. 2. Cfr. p. 616. 3. sopravvenne ... inundazione: nei giorni 8 e 9 ottobre con gravi danni alle cose e alle persone. 4. traboccò d'acqua: sommerse. 5. logoro: nell'imminenza di finire. 6. salute: salvezza. 7. Monte Cavallo: Quirinale, residenza papale. 8. Giovanni Gaddi: vedi la nota I a p. 602. 9. Bastiano veniziano: vedi la nota 6 a p. 602. 10. pooeri ••. falliti: •La frase scherzosa e amaramente ironica dev'essere 1.

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a ogni modo gli darem tanto pane che basterà alle sue piccole voglie. - Lasciato che io ebbi finire al papa quella sua smania1 di parole, gli chiesi un mazzieri che era vacato.2 Alle qual parole il papa disse che mi voleva dar cosa di molta maggiore importanza. Risposi a sua santità che mi dessi quella piccola intanto per arra. Cacciandosi a ridere, disse che era contento, ma che non voleva che io servissi, e che io mi convenissi3 con li compagni mazzieri di non servire, dando loro qualche grazia,4 che già gli avevano domandato al papa, qual era di potere con autorità riscuotere le loro entrate. Cosi fu fatto. Questo mazziere mi rendeva poco manco di dugento scudi l'anno di entrata.

[LVI.] Seguitando appresso di servire il papa or di un piccolo lavoro or di un altro, m'impose che io gli facessi un disegno di un calice ricchissimo; il quale io feci il ditto disegno e modello. Era questo modello di legno e di cera; in luogo del bottone5 del calice avevo fatto tre figurette di buona grandezza, tonde, le quale erano la Fede, la Speranza e la Carità. In nel piede6 poi avevo fatto a corrispondenza tre storie in tre tondi di basso rilievo: che in nell'una era la natività di Cristo, in nell'altra la resurressione di Cristo, in nella terza si era san Piero crocifisso a capo di sotto; che cosi mi fu commesso che io facessi. Tirando innanzi questa ditta opera, il papa molto ispesso la voleva vedere in modo che, avvedutomi che sua santità non s'era poi mai più ricordato di darmi nulla, essendo vacato un frate del Piombo,' una sera io gnene chiesi. Al buon8 papa non sovvenendo più di quella ismania che gli aveva usato in quella fine di quella altra opera, mi disse: - L'uffizio del Piombo rende più di ottocento scudi, di modo che, proprio testuale, e ritrae bene la condizione in cui si venne a trovare il Papato dopo le batoste della guerra e del sacco di Roma» (Carli). I. smania: effusione affettuosa. 2. un ... vacato: un posto di mazziere che si era fatto libero. I mazzieri, quali sergenti d'arme, precedendo il corteggio papale facevano largo a esso fra il popolo con le loro mazze. È noto agli storici il motuproprio per virtù del quale il Cellini il 14 aprile I 53 I ebbe il posto di mazziere da Clemente VII. 3. mi convenissi: mi mettessi d'accordo. 4. grazia: favore. 5. bottone: rigonfiamento (la cosiddetta «pancia»). 6. piede: supporto. 7. del Piombo: questo ufficio della Curia romana (nel quale alle bolle si apponeva il piombo o sigillo pontificio) fu per lungo tempo conferito a frati cistercensi. Lo ebbero anche laici - tra cui Bramante e il già ricordato Sebastiano Veneziano -, ma costoro, con la carica, presero abito e titolo di frati. 8. buon: qui o: è ironico come altrove• (Carli).

LA VITA • LIBRO PRIMO

se io te lo dessi, tu ti attenderesti a grattare il corpo e quella bell'arte che tu ài alle mane si perderebbe, e io ne arei biasimo. Subito risposi che le gatte di buona sorte1 meglio uccellano per grassezza che per fame; cosi quella sorte degli uomini dabbene che sono inclinati alle virtù molto meglio le mettono in opera quando egli ànno abbundantissimamente da vivere. Di modo che quei principi che tengono abbundantissimi questi cotali uomini, sappi vostra santità che eglino annaffiano2 le virtù: cosi per il contrario le virtù nascono ismunte e rognose; e sappi vostra santità che io non lo chiesi con intenzione di averlo. 3 Pur beato che io ebbi quel povero mazziere! di questo tanto4 m'immaginavo. Vostra santità farà bene, non !'avendo voluto dar a me, a darlo a qualche virtuoso che lo meriti e non a qualche ignorantone che si attenda a grattare il corpo, come disse vostra santità. Pigliate esempio dalla buona memoria di papa Iulio, che un tale uffizio dette a Bramante eccellentissimo architettare. - Subito fattogli reverenza, infuriato5 mi parti'. Fattosi innanzi Bastiano veniziano pittore, disse: - Beatissimo Padre, vostra santità sia contenta di darlo a qualcuno che si affatica nel!' opere virtuose; e perché, come sa vostra santità, ancora io volentieri mi affatico in esse, la priego che me ne faccia degno. - Rispose il papa: - Questo diavolo di Benvenuto non ascolta le riprensioni. Io ero disposto a dargnene, ma e' none sta bene essere cosi superbo con un papa; pertanto io non so quel che io mi farò. - Subito fattosi innanzi il vescovo di Vasona, pregò per il ditto Bastiano dicendo: - Beatissimo Padre, Benvenuto è giovane, e molto meglio gli sta la spada accanto che la vesta di frati; vostra santità sia contenta di darlo a questo virtuoso uomo di Bastiano; ed a Benvenuto talvolta6 potrete dare qualche cosa buona, la quale forse sarà più a proposito che questa. - Allora il papa voltosi a misser Bartolomeo Valori,7 1. di buona sorte: cioè di buona razza. 2. annaffia110: innaffiano (facendo crescere rigogliosamente). L'immagine relativa alle piante continua più avanti. 3. averlo: cioè quel frate del Piombo (l'ufficio vacante di cui sopra). 4. tanto: cioè quanto è avvenuto. 5. infuriato: in gran fretta. 6. talvolta: semmai. 7. Bartolomeo Valori: Bartolomeo (o Baccio) fiorentino: partigiano dei Medici e uomo di fiducia di Clemente VII che lo mandò commissario presso l'Orange all'assedio di Firenze con ricchi mezzi della Camera apostolica per facilitare la sottomissione della città. Cospirò poi contro i Medici insieme con Filippo Strozzi; fatto prigioniero nella battaglia di Montemurlo, fu condotto a Firenze e decapitato il 20 agosto 1537.

BENVENUTO CELLINI

gli disse: - Come voi scontrate1 Benvenuto, ditegli da mia parte che lui stesso à fatto avere il Piombo a Bastiano dipintore e che stia avvertito che la prima cosa2 migliore che vaca sarà la sua, e che intanto attenda a far bene e finisca l'opera mie. - L'altra sera seguente a dua ore di notte, 3 scontrandomi in misser Bartolomeo Valori in sul cantone della Zecca (lui aveva due torce innanzi e andava in furia domandato4 dal papa), facendogli riverenza, si fermò e chiamommi, e mi disse con grandissima affezione tutto quello che gli aveva ditto il papa che mi dicessi. Alle qual parole io risposi che con maggiore diligenzia ed istudio finirei l'opera mia che nessuna mai dell'altre, ma si bene senza punto di speranza d'avere nulla mai dal papa. Il detto misser Bartolomeo ripresemi, 5 dicendomi che cosi non si doveva rispondere alle offerte d'un papa. A cui io dissi che ponendo isperanza a tal parole, saputo che io non l'arei a ogni modo, pazzo sarei a rispondere altrimenti; e, partitomi, me ne andai a 'ttendere alle mie faccende. Il ditto misser6 Bartolomeo dovette ridire al papa le mie ardite parole e forse più che io non dissi, di modo che il papa stette più di dua mesi a chiamarmi, ed in questo tempo non volsi mai andare al Palazzo per nulla. Il papa, che di tale opera si struggeva, commesse a misser Ruberto Pucci7 che attendessi8 un poco a quel che io facevo. Questo omaccion da bene ogni dl mi veniva a vedere, e sempre mi diceva qualche amorevol parola e io a lui. Appressandosi il papa a voler partirsi per andare a Bologna,9 a l'utimo poi, veduto che da per me io non vi andavo, mi fece intendere dal ditto misser Ruberto che io portassi sù10 l'opera mia, perché voleva vedere come io l'avevo innanzi.u Per la qual cosa io la portai, mostrando detta opera esser fatto tutta la importanza,12 e lo pregavo che mi lasciassi cinquecento scudi, parte a buon conto 13 e I. scontrate: incontrate. 2. cosa: ufficio, incombenza. 3. a dt1a ore di notte: contando dal tramonto. 4. domandato: richiesto. 5. ripresemi: mi redargul. 6. misser: MS: Mr (e cosi in numerosi casi nelle pagine che seguono. Qualche volta l'abbreviazione è con M). 7. Roberto Pucci, d'Antonio, nacque a Firenze nel 1463; cercò di distogliere Clemente VII dall'idea di muovere contro la città, patria comune. Datosi alla vita religiosa fu fatto cardinale da Paolo III nel 1542. Mori a Roma nel 1547. 8. attendessi: badasse (sorvegliando). 9. Appressandosi .•• Bologna: partì difatti da Roma il 18 novembre 1532 per incontrarsi con Carlo V imperatore e accordarsi con lui su molte questioni politiche e anche familiari. 10. sù: in Palazzo. 11. innanzi: condotta avanti. 12. detta ... importanza: di detta opera era stata eseguita tutta la parte più importante. 13. a buon conto: cioè come anticipo.

LA VITA • LIBRO PRIMO

parte1 mi mancava assai bene de l'oro da poter finire detta opera. Il papa mi disse: - Attendi, attendi a finirla. - Risposi, partendomi, che io la finirei se mi lasciava danari. Cosl me ne andai.

[LVII.] Il papa andato alla volta di Bologna lasciò il cardinale Salviati legato di Roma, e lasciogli commessione che mi sollecitassi questa ditta opera, e li disse: - Benvenuto è persona che stima poco la sua virtù, e manco noi; sl che vedete di sollecitarlo in modo che io la truovi finita. - Questo cardinal bestia mandò per me in capo di otto di, dicendomi che io portassi sù l'opera; a il quale io andai a lui senza l'opera. Giunto che io fui, questo cardinale subito mi disse: - Dov'è questa tua cipollata ?2 à'la tu finita ?Al quale io risposi: - O monsignor reverendissimo, io la mia cipollata non ò finita e non la finirò, se voi non mi date delle cipolle da finirla. - A queste parole il ditto cardinale, che aveva più viso di asino che di uomo, divenne più brutto la metà; e, venuto al primo a mezza spada,3 disse: - lo ti metterò in una galea,4 e poi arai di grazia5 di finir l'opera. - Ancora io con questa bestia entrai in bestia e gli dissi: - Monsignore, quando io farò peccati che meritino la galea, allora voi mi vi metterete; ma per questi peccati io non ò paura di vostra galea: e di più vi dico, a causa di vostra signoria, io non la voglio mai più finire; e non mandate mai più per me, perché io non vi verrò mai più innanzi, se già voi non mi facessi venir co' birri. - Il buon6 cardinale provò alcune volte amorevolmente a farmi intendere che io doverrei lavorare e che i' gnene doverrei portare a mostrare; in modo che a quei tali7 io dicevo: - Dite a monsignore che mi mandi delle cipolle, se vuol che io finisca la cipollata. - Né mai gli risposi altre parole, di sorte che lui si tolse da questa disperata cura.8

1. e parte: « S'è insinuato nella correlazione un rapporto causale, che è rimasto assorbito nel secondo termine senza che alcun segno lo indichi» (Carli). 2. cipollata: detto nel senso di cosa abborracciata e volgare. 3. a mezza spada: cioè ai ferri corti. 4. galea: o galera (per i condannati). 5. arai di grazia: avrai, come concessione, la possibilità. 6. buon: • ironico, come altrove» (Carli). 7. a quei tali: cioè agli inviati di Curia. 8. si tolse • •. cura: •non s'occupò più di questa faccenda dandola per disperata» (Cnrli).

BENVENUTO CELLINI

[LVIII.] Tornò il papa da Bologna1 e subito domandò di me, perché quel cardinale di già gli aveva scritto il peggio che poteva de' casi mia. Essendo il papa in nel maggior furore che immaginar si possa, mi fece intendere che io andassi con l'opera. Così feci. In questo tempo che il papa stette a Bologna, mi si scoperse una scesa2 con tanto affanno agli occhi che per il dolore io non potevo quasi vivere, in modo che questa fu la prima causa che io non tirai innanzi l'opera: e fu sì grande il male che io pensai certissimo rimaner cieco di modo che io avevo fatto il mio conto queP che mi bastassi a vivere cieco. Mentre che io andavo al papa, pensavo il modo che io avevo a tenere a far la mia scusa di non aver potuto tirare innanzi l'opera. Pensavo che, in quel mentre che il papa la vedeva e considerava, poterli dire i fatti. La qual cosa non mi venne fatta, perché giunto da lui, subito con parole villane disse: - Da' qua quell'opera: è ella finita? - Io la scopersi: subito con maggior furore disse: - In verità de Dio dico a te, che fai professione di non tener conto di persona, che se e' non fussi per onor di mondo4 io ti farei insieme con quell'opera gittar da terra quelle finestre. 5 - Per la qual cosa, veduto io il papa diventato cosi pessima bestia, sollecitavo di levarmigli d'innanzi. In mentre che lui continuava di bravare, messami l'opera sotto la cappa, borbottando dissi: - Tanto il mondo non farebbe che un cieco fussi tenuto a lavorare opere cotali. - Maggiormente alzato la voce, il papa disse: - Vien qua, che di' tu? - Io stetti in fra dua di cacciarmi a correre giù per quelle scale ;6 di poi mi rivolsi, e gittatomi in ginocchioni, gridando forte perché lui non cessava di gridare, dissi: - E, se io sono per una infirmità divenuto cieco, sono io tenuto a lavorare? - A questo e' disse: - Tu hai pur veduto lume7 a venir qui, né credo che sia vero nessuna di queste cose che tu di'. - Al quale io dissi, sentendogli alquanto abbassar la voce: - Vostra santità ne dimandi8 il suo medico, e troverrà il vero. Disse: - Più all'agio9 intenderemo se la sta come tu di'. - Allora, vedutomi prestare audienza, dissi: - Io non credo che di questo mio Torni, .•• Bologna: nel marzo 1533. 2. scesa: flussione. 3. q,iel: di quel. 4. per onor di mondo: cioè per timore di un giudizio del prossimo. 5. gittar ••. finestre: vedi la nota 2 di p. 566. 11 Curiosa inversione idiomatica, che il Cellini adopera anche altrove per gettare a terra da ecc.• (Carli). 6. Manca l'alternativa: •o di rispondere». 7. lu,ne: luce. 8. dimandi: interroghi. 9. all'agio: ad agio. 1.

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gran male ne sia causa altri che il cardinal Salviati, perché e' mandò per me subito che vostra santità fu partito e, giunto a lui, pose alla mia opera nome una cipollata e mi disse che me la farebbe finire in una galea. E fu tanto la potenzia di quelle inoneste parole che per la estrema passione 1 subito mi senti' infiammare il viso e vennemi in negli occhi un calore tanto ismisurato che io non trovavo la via a tornarmene a casa: di poi a pochi giorni mi cadde dua cataratti2 in su gli occhi. Per la qual cosa io non vedevo punto di lume, e da poi la partita di vostra santità io non ò mai potuto lavorare nulla. - Rizzatomi di ginocchioni, mi andai con Dio; e mi fu ridetto che il papa disse: - Se e' si dà gli uffizi, 3 non si può dare la discrezione con essi. Io non dissi al cardinal che mettessi tanta mazza ;4 ché, se gli è il vero che abbia male in negli occhi quale intenderò dal mio medico, sarebbe da 'vergli qualche ·compassione. - Era quivi alla presenza un gran gentiluomo molto amico del papa e molto virtuosissimo. Domandato egli il papa che persona io ero, dicendo: - Beatissimo Padre, io ve ne domando, perché m'è parso che voi siete venuto in un tempo medesimo nella maggior collora5 che io vedessi mai e in nella maggiore compassione; sì che per questo io domando vostra santità chi egli è; che, se gli è persona che meriti essere aiutato, io gl'insegnerei un segreto da farlo guarire di quella infirmità - ; a queste parole disse il papa: - Quello è il maggiore uomo che nascessi mai della sua professione; e, un giorno che noi siamo insieme, vi farò vedere delle maravigliose opere sue, e lui con esse; e mi sarà piacere che si vegga se si gli può fare qualche benifizio. - Di poi tre giorni il papa mandò per me un dì dopo desinare, ed eraci questo gentiluomo alla presenza. Subito che io fui giunto, el papa si fece portare quel mio bottone del piviale. In questo mezzo io avevo cavato fuora quel mio calice; per la qual cosa quel gentiluomo diceva di non aver mai visto un'opera tanto maravigliosa. Sopraggiunto il bottone, gli accrebbe molto più maraviglia; guardatomi in viso, disse: - Gli è pur giovane a saper tanto, ancora molto atto a 'cquistare. - Di po' me domandò del mio nome. Al quale io dissi: - Benvenuto è il mio nome. - Rispose: - Benvenuto sarò io questa volta per te: piglia de' fioralisi6 con il gambo, col fiore 1. passione: nel senso di «irritazione•, •patimento•· 2. dua cataratti: due cateratte. 3. Se e' ••. uffizi: se si danno le incombenze. 4. mazza: nel senso di energia. 5. collora: collera. 6. fiorali.si: fiordalisi.

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e con la barba1 tutto insieme, di poi gli fa' stillare con gentil fuoco,2 e con quell'acqua ti bagna gli occhi parecchi volte il di, e certissimamente guarrai3 di cotesta in:firmità; ma fatti prima purgare e poi continua la detta acqua. - Il papa mi usò qualche amorevol parola: così me ne andai mezzo contento.

[LIX.] La infirmità gli era il vero che io l'avevo, ma credo che io l'avessi guadagnata mediante quella bella giovane serva che io tenevo nel tempo che io fui rubato. 4 Soprastette quel morbo gallico a scoprirmisi più di quattro mesi interi, di poi mi coperse tutto tutto a un tratto: non era in nel modo de l'altro che si vede, ma pareva che io fussi coperto di certe vescichette, grandi come quattrini, rosse. I medici non mel volson mai battezzare mal franzese: ed io pure dicevo le cause che credevo che fussi. Continuavo di medicarmi a lor modo e nulla mi giovava; poi a l'ultimo risoltomi a pigliare il legno 5 contra la voglia di quelli primi medici di Roma, questo legno io lo pigliavo con tutta la disciplina ed astinenzia6 che immaginar si possa, ed in brevi giorni senti' grandissimo miglioramento; a tale _che in capo di cinquanta giorni io fui guarito e sano come un pesce. Da poi, per dare qualche ristoro a quella gran fatica che io avevo durato, entrando in nel inverno presi per mio piacere la caccia dello scoppietto, la quale mi induceva a andare a l'acqua ed al vento e star pe' pantani; a tale che in brevi giorni mi tornò l'un cento maggior male di quel che io avevo prima. Rimessomi nelle man de' medici, continuamente medicandomi, sempre peggioravo. Saltatomi la febbre addosso, io mi disposi di ripigliare il legno: Ii medici non volevano, dicendomi che, se io vi entravo con la febbre, in otto dì morrei. Io mi disposi di far contro la voglia loro e, tenendo i medesimi ordini che all'altra volta fatto avevo, beuto che io ebbi quattro giornate di questa santa acqua de il legno, la febbre se ne andò affatto. Cominciai a pigliare grandissimo miglioramento e, in questo che io pigliavo I. barba: radici. 2. con gentil fuoco: a fuoco lento. J. gua"ai: guarirai. 4. rubato: derubato. 5. il legno: il legno santo, cioè il guaiaco, assai usato, un tempo, per la cura della sifilide in quanto «possiede azione sudorifera, diuretica e purgativa del sangue» (Tommaseo-Bellini). Fu cantato dal Fracastoro nel De morbo Gallico. 6. con tutta la disciplina ed astinem::ia: con quest'endiadi il Cellini si riferisce ad un periodo di forzata castità dovuto alla cura del male.

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il detto legno, sempre tiravo innanzi i modelli di quella opera; e' quali in cotesta astinenzia io feci le più belle cose e le più rare invenzione che mai io facessi alla vita mia. In capo di cinquanta giorni io fui benissimo guarito, e di poi con grandissima diligenzia io mi attesi a 'ssicurare la sanità addosso. Di poi che io fui sortito di quel gran digiuno,1 mi trovai in modo netto dalle mie infirmità, come se rinato fussi. Se bene io mi pigliavo piacere nell'assicurare quella mia desiderata sanità, non mancavo ancora di lavorare tanto che, in nell'opera detta e in nella Zecca, ad ognona di loro certissimo davo la parte del suo dovere.

[Lx.] Abbattessi2 ad essere fatto legato di Parma quel ditta cardinale Salviati, il quali aveva meco quel grande odio sopradditto. In Parma fu preso3 un certo orefice milanese falsatore di monete, il quali per nome si domandava Tobbia.4 Essendo giudicato alla forca ed al fuoco, ne fu parlato al ditta legato, messogli innanzi per gran valente uomo. Il ditta cardinale fece soprattenere la eseguizione della giustizia, e scrisse a papa Clemente, dicendogli essergli capitato in nelle mane un uomo il maggiore del mondo della professione dell'oreficeria e che di già gli era condennato alle forche ed al fuoco per essere lui falsario di monete ma che questo uomo era simplice e buono, perché diceva averne chiesto parere da un suo confessoro il quale diceva che gnene aveva dato licenzia che le potessi fare. Di più diceva: cc Se voi fate venire questo grande uomo a Roma, vostra santità sarà causa di abbassare5 quella grande alterigia del vostro Benvenuto, e sono certissimo che le opere di questo Tobbia vi piaceranno molto più che quelle di Benvenuto». Di modo che il papa lo fece venire subito a Roma. E, poi che fu venuto, chiamatici tutti a dua ci fece fare un disegno per uno a un corno di liocorno6 il più bello che mai fusse veduto: si era venduto diciassettemila ducati di Camera. Volendolo il papa donare a il re Francesco,' lo volse in prima guarnire riccamente d'oI. quel gran digitmo: appunto la suddetta astinenzia. ::i. Abbattessi: capitò. 3. preso: arrestato. 4. Tobbia: anziché di Milano. questo Tobia era di Camerino nelle Marche. Egli lavorò in Vaticano dal 1537 al 1546. 5. abbassare: umiliare. 6. liocorno: unicorno (animale con un sol corno dritto in fronte). 7. Vole11dolo • •• Francesco: tale dono era per Francesco I di Valois. re di Francia: nel 1533 il re faceva sposare la nipote Cate-

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ro, e commesse a tutti a dua noi che facessimo i detti disegni. Fatti che noi gli avemmo, ciascun di noi il portb dal papa. Era il disegno di Tubbia a foggia di un candeliere, dove a guisa della candela si imboccava quel bel corno, e del piede di questo ditto candeliere faceva quattro testoline di liocorno con semplicissima invenzione: tanto che, quando tal cosa io vidi, non mi potetti tenere che in un destro modo io non sogghignassi. Il papa s'avvide e subito disse: - Mostra qua il tuo disegno. - Il quale era una sola testa di liocorno. A corrispondenza di quel ditta corno avevo fatto la più bella sorte di testa che veder si possa; il perché si era che io avevo preso parte della fazione 1 della testa del cavallo e parte di quella del cervio,2 arricchita con la più bella sorte di velli ed altre galanterie, tale che, subito che la mia si vide, ognuno gli dette il vanto. Ma, perché alla presenza di questa disputa era certi Milanesi di grandissima autorità, questi dissono: - Beatissimo Padre, vostra santità manda a donare questo gran presente in Francia: sappiate che i Franciosi sono uomini grossi e non cognosceranno l'eccellenzia di questa opera di Benvenuto, ma sì bene piacerà loro questi ciborii, li quali ancora saranno fatti più presto; e Benvenuto vi attenderà a finire il vostro calice, e verravvi fatto dua opere in un medesimo tempo; e questo povero omo, che voi avete fatto venire, verrà ancora lui ad essere adoperato. 3 - Il papa, desideroso di avere il suo calice, molto volentieri s'appiccò al consiglio4 di quei Milanesi: così l'altro giorno5 dispose quella opera a Tubbia di quel corno di liocorno, ed a me fece intendere per6 il suo guardaroba' che io dovessi finirgli il suo calice. Alle qual parole io risposi che non desideravo altro al mondo che finire quella mia bella opera, ma che, se la fussi d'altra materia che d'oro, io facilissimamente da per me la potrei finire; ma, per essere a quel modo d'oro, bisognava che sua santità me ne dessi, volendo che io la potessi finire. A queste parole questo cortigiano plebeo disse: rina de, Medici a Enrico duca d,Orléans, suo secondogenito, il futuro Enrico II. Clemente VII, nell'intento di spingere il sovrano all'impresa d'Italia, andò a Marsiglia ad assistere alle nozze. 1. della fazione: delle fattezze. :z. ceroio: cervo. 3. adoperato: impiegato. 4. s'appiccò al consiglio: prese per buono il consiglio. 5. l'altro giorno: l'indomani. 6. per: tramite. 7. il suo guardaroba: era Giovanni Aliotti, nominato ,•escovo di Forll da Giulio III nel 1551. Michelangelo - come ricorda il Vasari - lo chiamava il Tante.cose, perché voleva provvedere a tutto e pretendeva che tutto a dipendesse da lui •·

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- Oimè, non chiedere oro al papa, che tu lo farai venire in tanta collora che guai, guai a te. - Al quale io dissi : - O misser voi la signoria vostra, insegnatemi un poco come sanza farina si può fare il pane? cosi sanza oro mai si finirà quell'opera. - Questo guardaroba mi disse, parendogli alquanto che io lo avessi uccellato,' che tutto quello che io avevo ditto riferirebbe al papa; e cosi fece. Il papa, entrato in un bestial furore, disse che voleva stare a vedere se io era un cosi pazzo che io non la finissi. Cosi si stette dua mesi passati e, se bene io avevo detto di non vi voler dar sù colpo, questo non avevo fatto, anzi continuamente io avevo lavorato con grandissimo amore. Veduto che io non la portavo, mi cominciò a disfavorire assai, dicendo che mi gastigherebbe a ogni modo. Era alla presenza di queste parole uno Milanese suo gioielliere. Questo si domandava Pompeo, il quale era parente stretto di un certo misser Traiano,2 il più favorito servitore che avessi papa Clemente. Questi dua d'accordo dissono al papa: - Se vostra santità gli togliessi la Zecca, forse voi gli faresti venir voglia di finire il calice. - Allora il papa disse: - Anzi sarebbon dua mali: l'uno che io sarei mal servito della Zecca che m'importa tanto, e l'altro che certissimo non arei mai il calice. - Questi dua detti l\tlilanesi, veduto il papa mal volto in verso di me, a l'utimo possetton tanto che pure mi tolse la Zecca3 e la dette a un certo giovane perugino, il qual si domandava Fagiuolo4 per soprannome. Venne quel Pompeo a dirmi da parte del papa come sua santità mi avea tolta la Zecca e che, se io non finivo il calice, mi torrebbe dell'altre cose. A questo io risposi: - Dite a sua santità che la Zecca e' l'à tolta a sé e non a me, e quel medesimo gli verrebbe fatto di quell'altre cose; e che, quando sua santità me la vorrà rendere, io in modo nessuno non la rivorrò. - Questo isgraziato e sventurato gli parve mill'anni di giugnere dal papa per ridirgli tutte queste cose, e qualcosa vi messe 5 di suo di bocca. I vi a otto giorni mandò .il papa per questo medesimo uomo dirmi che non voleva più che

1. uccellato: beffato. 2. Su Pompeo e su Traiano si vedano, in precedenza, alla p. 596 le note 4 e 5. 3. mi tolse la Zecca: questo avvenne agli ultimi del 1533 o ai primi del '34. Come risulta da documenti, il Cellini fu ancora pagato il 2 gennaio 1534 per un periodo cominciato il 17 dicembre 1 33. 4. Fagiuolo: si chiamava Tommaso d'Antonio. Insieme a Giovanni Bernaroli di Castel Bolognese venne nominato stampatore delle monete della Zecca pontificia con motuproprio papale. 5. vi messe: vi mise, vi aggiunse.

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io gli finissi quel calice, e che lo rivoleva appunto in quel modo ed a quel termine che io l'avevo condotto. A questo Pompeo io risposi : - Questa non è come la Zecca, che me la possa tòrre; ma sì ben e' cinquecento scudi, che io ebbi, sono di sua santità, i quali subito gli renderò; e l'opera è mia e ne farò quanto m'è di piacere. - Tanto corse a riferir Pompeo con qualche altra mordace parola che a lui stesso, con giusta causa, io avevo detto. [LXI.] Di poi tre giorni appresso, un giovedi, venne a me dua

camerieri1 di sua santità favoritissimi, che ancora oggi n'è vivo uno di quelli, eh' è vescovo, il quale si domandava misser Pier Giovanni2 ed era guardaroba di sua santità; l'altro si era ancora di maggior lignaggio di questo, ma non mi sovviene il nome. Giunti a me mi dissono cosi: - Il papa ci manda, Benvenuto: da poi che tu non l'ài voluta intendere per la via più agevole, dice o che tu ci dia l'opera sua o che noi ti meniamo prigione. - Allora io li guardai in viso lietissimamente, dicendo: - Signori, se io dessi l'opera a sua santità, io darei l'opera mia, e non la sua, e pertanto l'opera mia io non gnene vo' dare perché, avendola condotta molto innanzi con le mie gran fatiche, non voglio che la vada in mano di qualche bestia ignorante che con poca fatica me la guasti. - Era alla presenza, quando io dicevo questo, quell'orefice chiamato Tobbia ditto di sopra, il quale temerariamente mi chiedeva ancora i modelli di essa opera: le parole, degne di un tale sciagurato, che io gli dissi, qui non accade riplicarle. E, perché quelli signori camerieri mi sollecitavano che io mi spedissi3 di quel che io volevo fare, dissi a loro che ero spedito :4 preso5 la cappa ed innanzi che io uscissi della mia bottega, mi volsi a una immagine di Cristo con gran riverenza e con la berretta in mano, e dissi: - O benigno ed immortale, giusto e santo Signor nostro, tutte le cose che tu fai sono secondo la tua giustizia, quale è sanza pari.

1. camerieri: prelati pontifici. Come spiega il Tommaseo-Bellini, un cameriere segreto è, nelle Corti, quel cameriere « che può senza altra imbasciata entrare a sua posta dal signore» e, quanto al papa, si può essergli cameriere segreto «stando mille miglia lontano» (aJla voce Cameriere segreto di cappa e spada, non chierico). 2. Pier Giovanni: l'Aliotti, poco primo menzionato (vedi p. 626 e la nota 7). 3. mi spedissi: mi sbrigassi. 4. spedito: pronto. 5. preso: avendo preso (con la solita libertà sintattica, di tipo popolaresco).

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Tu sai che appunto io arrivo all'età de' trenta anni della vita mia, né mai insino a qui mi fu promesso1 carcere per cosa alcuna; da poi che ora tu ti contenti che io vadia al2 carcere, con tutto il cuor mio te ne ringrazio. - Di poi voltomi ai dua camerieri, dissi cosi con un certo mie viso alquanto rabbuffato: - Non meritava un par mio birri di manco valore che voi signori; sl che mettetimi in mezzo e, come prigioniero, mi menate3 dove voi volete. - Quelli dua gentilissimi uomini cacciatisi a ridere,4 mi messono in mezzo, e sempre piacevolmente ragionando mi condussono dal governa-tore di Roma, il quale era chiamato il Magalotto. 5 Giunto a lui insieme con esso si era il procurator fiscale, 6 li quali mi attende-vano. Quelli signor camerieri ridendo pure dissono al governatore: - Noi vi consegniamo questo prigione, e tenetene buona cura. Ci siamo rallegrati assai che noi abbiamo tolto l'uffizio alli vostri 'secutori' perché Benvenuto ci à detto che, essendo questa la prima cattura sua, non meritava birri di manco valore che noi ci siamo. - Subito partitisi giunsono al papa; e, dettogli precisamente ogni cosa, in prima fece segno di voler entrare in furia; appresso si sforzò di ridere, per essere alla presenza alcuni signori e cardinali amici mia, li quali grandemente mi favorivano. Intanto il governatore ed il fiscale parte mi bravavano, parte mi esortavano, parte mi consigliavano, dicendomi che la ragione voleva che uno che fa fare una opera a un altro la può ripigliare a sua posta8 ed in tutt'i modi che a lui piace. Alle quali cose io dissi che questo non lo prometteva9 la giustizia10 né un papa non11 lo poteva fare perché e' non era un papa di quella sorte che sono certi signoretti tirannelli che fanno a' lor popoli il peggio che possono, non ospromesso: annunciato (cioè minacciato). 2. tJadia al: vada in. 3. mi menate: menatemi. 4. cacciatisi a ridere: scoppiando dal ridere. 5. il Maga/otto: il romano Gregorio Magnlotti, letterato e giureconsulto. Da Clemente VII fu fatto vescovo di Lipari nel 1532, e, di Chiusi, nel '34. lVIorl nel 1537 a Bologna, dove si trovava in qualità di legato per ordine di Pao.. lo III. Suo è un noto Securitatis et saltJiconducti tractatus, uscito a Roma nel 1538. 6. Era Benedetto Valenti, di Trevi, dove raccolse molte statue antiche. Il procuratore fiscale - come ricorda il Tommaseo-Bellini - «d'uffizio, d'innanzi ai giudici, difende gl'interessi del fisco o della legge: due cose troppo fiscalmente confuse». 7. 'secutori: esecutori (di giustizia), cioè birri. MS : secutori. 8. ripigliare a sua posta: riprendere indietro a sua volontà. 9. prometteva: consentiva. 10. la giustizia: appunto raffigurata, poco prima, in ragione. 11. Questo non, ridondante, è anch'esso tipico del linguaggio effusivo del Cellini. I,

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servando né legge né giustizia: però1 un vicario di Cristo non pub far nessuna di queste cose. Allora il governatore con certi sua birre.. schi atti e parole disse: - Benvenuto, Benvenuto, tu vai cer.. cando che io ti faccia quel che tu meriti. - Voi mi farete onore e cortesia, volendomi fare quel che io merito. - Di nuovo disse: Manda per l'opera subito e fa' di non aspettar lasiconda parola.2 A questo io dissi: - Signori, fatemi grazia che io dica ancora quat.. tro parole sopra le mie ragione. - Il fiscale, che era molto più discreto birro che non era il governatore, si volse a il governatore, e disse: - Monsignore, facciàngli grazia di cento delle parole; pur che dia l'opera, assai ci basta. - Io dissi: - Se e' fussi qual.. sivoglia sorte di uomo che facessi murare un palazzo o una casa, giustamente potrebbe dire a il maestro che la murassi: « Io non voglio che tu lavori più in su la mia casa o in sul mio palazzo». Pagandogli le sue fatiche giustamente ne lo può mandare. 3 Ancora se fussi un signore che facessi legare una gioia di4 mille scudi, veduto che il gioielliere non lo servissi sicondo la voglia sua, può dire: «Dammi la mia gioia, perché io non voglio l'opera tua». Ma a questa cotal cosa5 non c'è nessuno di questi capi ;6 perché la non è né una casa né una gioia, altro non mi si può dire se non che io renda e' cinquecento scudi che io ò auti. Si che, monsignori, fate tutto quel che voi potete, ché altro non arete da me che e' cinquecento scudi. Cosi direte al papa. Le vostre minacce non mi fanno una paura al mondo perché io sono uomo da bene e non ò paura de' mia peccati. - Rizzatosi il governatore ed il fiscale mi dissono che andavano dal papa e che tornerebbono con com.. messione,7 che guai a me. Cosi restai guardato.8 Mi passeggiavo per un salotto: e gli stettono presso a tre ore a tornare dal papa. In questo mezzo mi venne a visitare tutta la nobilità della nazion nostra di mercanti,9 pregandomi strettamente che io non la volessi stare a disputare con un papa, perché potrebbe essere la rovina perè,: perciò. (Non ci sembra un perè, con 1t valore fortemente avversativo•, come dice il Carli.) z. la siconda parola: la seconda parola (cioè che l'opera ti sia richiesta nuovamente). 3. ne lo può mandare: lo può mandar via da quel lavoro. 4. di: del valore di. s. a questa cotal cosa: nel nostro caso. 6. capi: condizioni. (Il termine è legale, quasi si trattasse di capitoli o articoli d'una legge.) 7. con commessione: con una tale incombenza. 8. guardato: vigilato, sorvegliato. 9. la nobilità .•• merca11ti: cioè i più ragguardevoli mercanti fiorentini che avevano diretti rapporti commerciali con Roma. 1.

LA VITA · LIBRO PRIMO

mia. Ai quali io risposi che m'ero risoluto benissimo di quel che io volevo fare.

[LXII.] Subito che il governatore insieme col fiscale furno tornati da Palazzo, fattomi chiamare, disse in questo tenore: - Benvenuto, certamente e' mi sa male d'esser tornato dal papa con una commessione tale quale io ò; si che o tu truova l'opera subito o tu pensa a' fatti tua.' - Allora io risposi che, da poi che io non avevo mai creduto insin a quell'ora che un santo vicario di Cristo potessi fare una ingiustizia, - però io lo voglio2 vedere prima che io lo creda; sì che fate quel che voi potete. - Ancora il governatore replicò, dicendo: - Io t'ò da dire dua altre parole da parte del papa, di poi 'seguirò3 la commessione datami. Il papa dice che tu mi porti qui l'opera e che io la vegga mettere in una scatola e suggellare; di poi io l'ò a portare al papa, il quale promette per la fede sua di non la muovere dal suo suggello chiusa4 e subito te la renderà; ma questo e' vuol che si faccia così, per averci anch'egli la parte dell'onor suo. - A queste parole io ridendo risposi che molto volentieri gli darei l'opera mia in quel modo che diceva, perché io volevo saper ragionare5 come era fatta la fede di un papa. E, cosi mandato per l'opera mia, suggellata in quel modo che e' disse, gliene detti. Ritornato il governatore dal papa con la ditta opera in nel modo ditto, presa la scatola il papa, sicondo che mi riferì il governatore ditto, la volse6 parecchi volte. Di poi domandò il governatore se l'aveva veduta; il qual disse che l'aveva veduta e che in sua presenza in quel modo s'era suggellata; di poi aggiunse che la gli era paruta cosa molto mirabile. Per la qual cosa il papa disse: - Direte a Benvenuto che i papi hanno autorità di sciorre e legare molto maggior cosa di questa. - E, in mentre che diceva queste parole, con qualche poco di sdegno aperse la scatola, levando le corde ed il suggello con che l'era legata; di poi la guardò assai e, per quanto io ritrassi,' e' la mostrò a quel Tubbia orefice, il quale molto la lodò. Allora il papa lo domandò se gli

1. a' fatti tua: cioè al pericolo che corri. 2. perl, io lo voglio: si noti il passaggio - non insolito in Cellini - dalla forma indiretta a quella diretta del discorso. 3. 'seguirò: eseguirò (MS: seg11i,ò). 4. chiusa: mantenendola chiusa. 5. ,agio11are: calcolare (da ragione, «computo», latino ratio). 6. volse: voltò. 7. ritrassi: venni a sapere.

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bastava la vista di fare una opera a quel modo; il papa gli disse che lui seguitassi quell'ordine appunto. Di poi si volse al governatore e li disse: - Vedete se Benvenuto ce1 la vuol dare: che, dandocela così, se gli paghi tutto quel che l'è stimata da valenti uomini2 o sì veramente, volendocela finir lui, pigli un tern1ine: e, se voi vedete che la voglia fare, diesigli quelle comodità che lui domanda giuste. - Allora il governatore disse: - Beatissimo Padre, io che cognosco la terribil qualità di quel giovane, datemi autorità che io gliene possa dare una sbarbazzata3 a mio modo. A questo il papa disse che facessi quel che volessi con le parole,4 benché gli era certo che e' farebbe il peggio; di poi, quando e' vedessi di non poter fare altro, mi dicessi che io portassi li sua cinquecento scudi a quel Pompeo suo gioielliere sopradditto. Tornato il governatore, fattomi chiamare in camera sua, e con un birresco sguardo, mi disse: - E' papi hanno autorità di sciorre e legare tutto il mondo, e tanto subito si afferma in cielo per ben fatto: eccoti là la tua opera sciolta e veduta da sua santità. - Allora subito io alzai la voce e dissi: - lo ringrazio Iddio che io ora so ragionare com'è fatta la fede de' papi. - Allora il governatore mi disse e fece molte sbardellate braverie ;5 e da poi, veduto che lui dava in nunnulla, affatto disperatosi dalla impresa riprese alquanto la maniera più dolce e mi disse: - Benvenuto, assai m'incresce che tu non vuoi intendere il tuo bene; però va', porta i cinquecento scudi, quando tu vuoi, a Pompeo sopradditto. - Preso la mia opera,6 me ne andai, e subito portai li cinquecento scudi a quel Pompeo. I. ce: si consideri il noi macstatico usato dal pontefice. 2. 'Valenti uomini: cioè periti di valore. 3. sbarbazzata: strapazzata. 4. co,i le parole: cioè senza passare ai fatti con punizioni corporali (prigione, tortura e simili). 5. sbardellate braverie: smargiassate, vanterie eccessive. 6. la mia opera: il calice ordinatogli da Clemente VII. Come è qui ricordato, il Cellini non aveva potuto terminarlo e esso fu compiuto dall,orafo Nicolò di Francesco Santini per ordine del duca Cosimo. Costui lo donò a Pio V nel 1569 quando dal pontefice fu incoronato granduca di Toscana. Il Cellini descrisse l'opera in una supplica del 20 settembre 1570 a, soprassindachi granducali: « ••• l'importanza del detto Calice» dice l'artista II era tre figure d'oro, ch'eran desse d,un terzo di braccio, le quali dimostravano Fede, Speranza e Carità, con molti e diversi ornamenti festivi sopra le teste loro, e tre medaglie di mezzo rilievo, le quali andavano nel piede del Calice, che v'eran storie d'importanza condotte alla penultima fine». Si veda in Ricordi, prose e poesie del Cellini, ed. Tassi cit., pp. 196-7, con la nota: «Festivo nel significato di leggiadro, grazioso e simili manca nella Crusca».

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E perché talvolta1 il papa, pensando che per incomodità o per qualche altra occasione2 io non dovessi così presto portare i dinare, desideroso di rattaccare il filo della servitù mia, quando e' vedde che Pompeo gli giunse innanzi sorridendo con li dinari in mano, il papa gli disse villania e si condolse assai che tal cosa fussi seguita in quel modo. Di poi gli disse: - Va', truova Benvenuto a bottega sua e fagli più carezze che può la tua ignorante bestialità; e digli che, se mi vuol finire quell'opera per farne un reliquiere per portarvi drento il Corpus Domini quando io vo con esso a pricissione,3 che io gli darò le comodità4 che vorrà a finirlo, purché egli lavori. - Venuto Pompeo a me, mi chiamò fuor di bottega e mi fece le più isvenevole carezze d'asino, dicendomi tutto quel che gli aveva commesso il papa. Al quale io risposi subito che il maggior tesoro che io potessi desiderare al mondo si era l'aver riauto la grazia d'un cosi gran papa, la quale si era smarrita da me e non per mio difetto, ma sì bene per difetto della mia smisurata infirmità e per la cattività5 di quelli uomini invidiosi che hanno piacere di commetter male. 6 E, perché il papa ha 'bbundanzia di servitori, non mi mandi più7 intorno, per la salute vostra; ché badate bene al fatto vostro. Io non mancherò mai né dì né notte di pensare a fare tutto quello che io potrò in servizio del papa; e ricordatevi bene che, detto che voi avete questo al papa di me, in modo nessuno non vi intervenire in nulla de' casi mia, perché io vi farò cognoscere gli error vostri con la penitenzia che meritano. Questo uomo riferì ugni cosa al papa in molto più bestiai modo che io non gli avevo porto. Così si stette la cosa un pezzo, e io m'attendevo alla mia bottega e mie faccende. [LXIII.] Quel Tubbia orefice sopradditto attendeva a finire quel-

la guarnitura e ornamento a quel corno di liocorno; e di più il papa gli aveva detto che cominciassi il calice in su quel modo che gli aveva veduto il mio. E cominciatosi a farsi mostrare dal ditto Tubbia quel che lui faceva, trovatosi mal sodisfatto, assai si doleva di aver rotto con esso meco, e biasimava l'opere di colui e chi gnene aveva messe innanzi, e parecchi volte mi venne a parlare 1. talvolta: forse. 2. occasione: causa. 3. pricissio11e: processione. 4. le comodità: il tempo. 5. cattività: malvagità. 6. commetter male: seminar zizzania. 7. non mi ma11di piii: sottinteso voi (a meno che sia stato omesso dall,amanucnse).

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Baccino della Croce1 da parte del papa che io dovessi fare quel reliquiere.2 Al quale io dicevo che io pregavo sua santità che mi lasciassi riposare della grande infirmità che io avevo auto, della quale io non ero ancor ben sicuro; ma che io mostrerrei a sua santità di quelle ore ch'io potevo operare, che tutte le spenderei in servizio suo. lo m'ero messo a ritrarlo, e gli facevo una medaglia3 segretamente; e quelle stampe di acciaio per istampar detta medaglia me le facevo in casa; e alla mia bottega tenevo un compagno che era stato mio garzone, il qual si domandava Felice:• In questo tempo, sì come fanno i giovani, m'ero innamorato d'una fanciulletta siciliana, la quale era bellissima; e, perché ancor lei dimostrava volermi gran bene, la madre sua accortasi di tal cosa, sospettando di quello che gli poteva intervenire (questo si era che io avevo ordinato per un anno fuggirmi con detta fanciulla a Firenze, segretissimamente dalla madre), accortasi lei di tal cosa, una notte segretamente si partì di Roma e andossene alla volta di Napoli; e dette nome d'esser ita da Civitavecchia, e andò da Ostia. lo l'andai drieto a Civitavecchia,5 e feci pazzie inistimabile per ritrovarla. Sarebbon troppo lunghe a dir tal cose per l'appunto: basta che io stetti in procinto o d'impazzare o di morire. In capo di dua mesi lei mi scrisse che si trovava in Sicilia molto malcontenta. In questo tempo io avevo atteso a tutti i piaceri che immaginar si possa, e avevo preso altro amore solo per istigner6 quello. [LXIV.] Mi accadde per certe diverse stravaganze che io presi

amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno ed aveva assai buone lettere latine e grece.7 Venuto una volta in un proposito d'un ragionamento, in nel quale s'intervenne a parlare dell'arte8 della negromanzia,9 alla qual cosa io dissi: - Grandissimo desiderio ò avuto tutto il tempo della vita Bauino della Croce: su cui si veda più addietro la nota 8 a p. 603. reliqfliere: reliquiario. 3. una medaglia: è la medaglia della Pace, descritta dal Cellini alle pp. 647-8. 4. Felice Guadagni, che fu molto amico dell'artista come si vede da altri luoghi della Vita. 5. Civitavecchia: !VIS: Civatavechia. 6. istigner: estinguere. 7. grece: greche. 8. s'i,itervenne . .. arte: il discorso cadde sull'arte. 9. 11egromanzia: assai diffusa nel Rinascimento. Concerneva la divinazione del futuro mediante l'evocazione dei morti «facilmente confusi, nella superstizione popolare, con gli spiriti infernali 11 (Carli). Si ricordi - per gli elementi satirici - una commedia dell'Ariosto, Il negromante. Vari negromanti sono ncll'Or/01,do furioso. I. 2.

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mia di vedere o sentire qualche cosa di quest'arte - ; alle qual parole il prete aggiunse: 1 - - Forte animo e sicuro bisogna che sia di quell'uomo che si mette a tale impresa. - lo risposi che della fortezza e della sicurtà dell'animo me ne avanzerebbe, pur che i' trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: - Se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò. - Cosl fummo d'accordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera in fra !'altre si messe in ordine, e mi disse che io trovassi un compagno, insino in dua.2 lo chiamai Vincenzio Romoli3 mio amicissimo, e lui menò seco un Pistolese4 il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Culiseo,5 quivi paratosi6 il prete a uso di negromante, si misse a disegnare i circuii in terra con le più belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profumi preziosi e fuoco, ancora profumi cattivi. Come e' fu in ordine, fece la porta7 al circulo e, presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi comparti gli uffi.zii ;8 dette il pintaculo9 in mano a quelt>altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e' profumi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa più d'una ora e mezzo; comparse parecchi legione,1° di modo che il Culiseo era tutto pieno. lo che attendevo ai profumi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta quantità si volse a me e disse: - Benvenuto, dimanda lor qualcosa. - Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisognava che noi ci andassimo un'altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto quello che io domandavo ma che voleva che io menassi meco un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli e, per essere nostro domestico compagno un certo Agnolino Gaddi, ancora lui aggiunse: soggiunse. 2. insino in dua: due al massimo. 3. Vincenzio Romoli: fiorentino; era sensale alla Zecca, nella quale suo fratello Agostino era banchiere. 4. Pistolese: Pistoiese. 5. Culiseo: Colosseo. 6. paratosi: indossati paramenti. 7. la porta: «in termine di negromanzia è l'apertura per cui si entra nel circolo 11 (Carli). 8. comparti gli 11.ffizii: di\rise le incombenze per tale esperimento magico. 9. pi11taculo: pentagono; strumento fondamentale nelle pratiche di magia: « era una macchina a cinque lati con caratteri e segni stravaganti, usata nelle operazioni magiche dagli antichi• (Bianchi). 10. parecchi legione: molte legioni (di diavoli). I.

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menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo a il luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e più ancora maraviglioso ordine, ci misse in nel circulo, qual di nuovo aveva fatto con più mirabile arte e più mirabil cerimonie. Di poi a quel mio Vincenzio diede la cura de' profumi e del fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi: di poi a me pose in mano il pintaculo, qual mi disse che io lo voltassi sicondo e' luoghi dove lui m'accennava, e sotto il pintaculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terrebilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtù e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empié tutto il Culiseo l'un cento più di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell' Agnolino detto, e molta quantità di profumi preziosi. Io, per consiglio del negromante, di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, nù disse: - Senti che gli ànno detto ? che in ispazio di un mese tu sarai dove lei. - E di nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli tenessi il fermo,1 perché le legioni eran l'un mille più di quel che lui aveva domandato e che l'erano le più pericolose; e, poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli2 e pazientemente gli licenziare. 3 Da l'altra banda il fanciullo, che era sotto il pintaculo, ispaventatissimo, diceva che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi,4 e' quali tutti ci minacciavano: di più disse che gli era comparso quattro smisurati giganti, e' quali erano armati e facevan segno di voler entrar da noi. 5 In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva con dolce e suave modo el meglio che poteva a licenziarli. Vincenzio Romoli, che tremava a verga a verga, attendeva ai profumi. Io, che avevo tanta paura quant'e6 loro, mi ingegnavo di mostrarla manco e a tutti davo maravigliosissimo animo;7 ma certo io m'ero fatto morto per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s'era fitto il capo in fra le ginocchia, dicendo: - Io voglio morire a r. gli .•. fermo: stessi ben saldo. 2. carezzargli: blandirli. 3. gli licemriare: licenziarli (mandarli via). 4. bravissimi: tracotanti. 5. da noi: cioè nel circolo magico. 6. quant'e: MS: quat'e. 7. maravi'gliosissimo a11imo: coraggio da far stupire.

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questo modo, ché morti siàno.1 - Di nuovo io dissi al fanciullo:- Queste creature2 son tutte sotto a di noi, e ciò che tu vedi si è fumo e ombra; si che alza gli occhi. - Alzato che gli-ebbe gli occhi, di nuovo disse: - Tutto il Culiseo arde, e 'l fuoco viene addosso a noi. - E, missasi le mane al viso, di nuovo disse che era morto e che non voleva più vedere. Il negromante mi si raccomandò, pregandomi che io gli tenessi il fermo e che io facessi fare profumi di zaffetica :3 cosi voltami a Vincenzio Romoli, dissi che presto profumassi di zaffetica. In mentre che io cosi diceva, guardando Agnolino Gaddi (il quale si era tanto ispaventato che le luce degli occhi aveva fuor del punto4 ed era più che mezzo morto, al quale io dissi: - Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare ed aiutarsi; si che mettete sù presto di quella zaffetica), - il ditto Agnolo, in quello che lui si volse muovere, fece una strombazzata di corregge con tanta abbundanzia di merda la qual potette molto più che la zaffetica. 5 Il fanciullo a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato6 un poco la paura, disse che se ne cominciavano a 'ndare a gran furia. Cosi soprastemmo infino a tanto che e' cominciò a sanare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo che ve n'era restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un gran fardel di libri che gli aveva portati, tutti d'accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi' l'un sotto l'altro; massimo il fanciullo, che s'era messo in mezzo ed aveva preso il negromante per la vesta e me per la cappa; e continuamente, in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli che gli aveva visti nel Culiseo ci andavano saltabeccando8 innanzi, or correndo su pe' tetti ed or per terra. Il negromante diceva che di tante volte quante lui I. siàno: siamo. 2. aeature: esseri. (I diavoli sono considerati inferiori all'uomo e, quindi, non temibili.) 3. zaffetica: assa fetida (sostanza resinosa graveolente). 4. le luce •.. punto: aveva le pupille stralunate (fuori dell'orbita). 5.fece ... zaffetica: «Non è rara, nelle leggende popolari sull'apparizione dei diavoli, la mescolanza di elementi triviali e grotteschi a quelli paurosi. Questa disgrazia di Agnolino introduce un siffatto elemento anche nella narrazione cclliniona; la quale dal meraviglioso è passata allo spaventoso e finisce, cosi, nel grottesco 11 (Carli). Cfr. anche Orazio, Sat., 1, 8. 6. assicurato: calmatasi. 7. ficcandosi: ficcandoci. 8. saltabeccando: cioè facendo strani salti.

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era entrato in nelli circuii non mai gli era intervenuto una cosl gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di volere esser seco a consacrare1 un libro da il quale noi trarremo infinita ricchezza, perché noi dimanderemmo li demonii che ci insegnassino delli tesori i quali n'è pien la terra, e a quel modo noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d'amore si erano vanità e pazzie, le quale non rilevavano2 nulla. Io li dissi che, se io avessi lettere latine,3 che molto volentieri farei una tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi che le lettere latine non mi servivano a nulla e che, se lui avessi voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d'un saldo animo come ero io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascun di noi tutta quella notte sognammo diavoli. Rivedendoci poi alla giornata4 il negromante mi strigneva5 che io dovessi attendere a quella impresa; per la qual cosa io lo domandai che tempo vi si metterebbe a far tal cosa e dove noi avessimo a 'ndare. A questo mi rispose che in manco d'un mese noi usciremmo di quella impresa e che il luogo più a proposito si era nelle montagne di Norcia;6 benché un suo maestro aveva consacrato quivi vicino al luogo detto alla Badia di Farfa7 ma che vi aveva auto qualche difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne di Norcia; e che quelli villani norcini son persone di fede,8 ed ànno qualche pratica di questa cosa a tale che possan dare a un bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete negromante certissimamente mi aveva persuaso tanto che io volentieri mi ero disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle medaglie che io facevo per il papa, e con il detto9 m'ero conferito10 e non con altri, pregandolo che lui me le tenessi segrete.1 1 Pure conti[Lxv.]

I. consacrare: fare scongiuri su. 2. rile'Vavano: importavano. 3. lettere latine: nella considerazione che la lingua latina fosse strumento di scienza e di magia, secondo una credenza accolta dal Medioevo. 4. alla giornata: ogni giorno. 5. mi strigneva: mi stringeva, mi assillava. 6. Norcia: nell'Umbria. 7. Badia di Far/a: l'Abbazia benedettina di Santa Maria, a Farfa - nella Sabina, non lungi da Roma - è celebre anche per un'antica Cronaca. 8. di fede: di parola (cioè leali). Si tratta del fatto che tali pratiche erano perseguitate dall'autorità ecclesiastica, e quindi denunciate. 9. Cioè il detto negromante. IO. conferito: confidato. 11. me ..• segrete: mi tenesse il segreto sulla loro lavorazione.

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nuamente lo domandavo se lui credeva che a quel tempo1 io mi dovessi trovare con la mia Angelica siciliana, e, veduto che s'appressava molto al tempo, mi pareva molta gran cosa2 che di lei io non sentissi nulla. Il negromante mi diceva che certissimo io mi troverrei dove lei, perché loro3 non mancan4 mai quando e' promettono in quel modo come ferno allora; ma che io stessi con gli occhi aperti e mi guardassi da qualche scandolo che per quel caso mi potrebbe intervenire, e che io mi sforzassi di sopportare qualche cosa contra la mia natura, 5 perché vi conosceva drento un grandissimo pericolo; e che buon per me se io andavo seco a consacrare il libro, ché per quella via quel mio gran pericolo si passerebbe e sarei causa di far me e lui felicissimi. Io, che ne cominciavo avere più voglia di lui, gli dissi che, per essere venuto in Roma un certo maestro Giovanni da Castel Bolognese,6 molto valentuomo per far medaglie, di quella sorte che io facevo, in acciaio, e che non desideravo altro al mondo che di fare a gara con questo valentomo e uscire al mondo addosso7 con una tale impresa per la quale io speravo con tal virtù e non con la spada ammazzare quelli parecchi mia nimici. Questo uomo8 pure mi continuava dicendomi: - Di grazia, Benvenuto mio, vien meco e fuggi un gran pericolo che in te io scorgo. - Essendomi io disposto in tutto e per tutto di voler prima finir la mia medaglia,· di già eràmo vicini al fine del mese; al quale, 9 per essere invaghito tanto in nella mia medaglia, io non mi ricordavo più né di Angelica né di nulPaltra cotal cosa, ma tutto ero intento a quella mia opera. [LXVI.] Un giorno fra gli altri, vicino all'ora del vespro, mi venne

occasione di trasferirmi, fuor delle mie ore, da casa alla mia bottega; perché avevo la bottega in Banchi ed una casetta mi tenevo drieto a' Banchi, e poche volte andavo a bottega, ché tutte le facCioè entro il tempo vaticinato nella notte degli esorcismi al Colosseo. molta gran cosa: strnnissimo. 3. loro: i diavoli. 4. non mancan: non fallano (non sono fedifraghi). 5. natr,ra: il Cellini era collerico e non si lasciava montar la mosca al naso. 6. Giovanni Bemardi, intagliatore di gemme e incisore alla Zecca pontificia: era venuto a Roma per invito del Giovio e con l'aiuto dei cardinali Salviati e Medici. Morì nel 1555 e fu mazziere pontificio. P. D'Ancona riproduce un ritratto di lui eseguito dal Pannigianino e conservato al Museo Nazionale di Napoli. 7. uscire al . •• addosso: assaltare il mondo (cioè domarlo, stupirlo). 8. Questo uomo: cioè il prete negromante. 9. al quale mese. 1. 2.

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cende io le lasciavo fare a quel mio compagno che aveva nome Felice. Stato cosi un poco a bottega, mi ricordai che io avevo a 'ndare a parlare a Lessandro del Bene.1 Subito levatomi e arrivato in Banchi, mi scontrai in un certo molto mio amico il quale si domandava per nome ser Benedetto. Questo era notaio ed era nato a Firenze, figliuolo d'un cieco che diceva l'orazione, che era sanese. Questo ser Benedetto era stato a Napoli molt'e molt'anni; di poi s'era ridotto in Roma, e negoziava per certi mercanti sanesi de' Figi.2 E, perché quel mio compagno più e più volte gli aveva chiesto certi dinari che gli aveva aver da lui di alcune anellette che lui gli aveva fidate, questo giorno, iscontrandosi in lui in Banchi, li chiese li sua dinari in un poco di ruvido modo, il quale era l'usanza sua, ché il detto ser Benedetto era con quelli sua padroni; in modo che, vedendosi fra quella cosa cosi fatta, sgridorno grandemente quel ser Benedetto, dicendogli che si volevano servir d'un altro per non aver a sentir più tal baiate. Questo ser Benedetto il meglio che e' poteva si andava con loro difendendo, e diceva che quello orefice lui l'aveva pagato e che non era atto a affrenare il furore de' pazzi. Li detti Sanesi presono quella parola in cattiva parte, e subito lo cacciorno via. Spiccatosi da loro, affusolato 3 se ne andava alla mia bottega, forse per far dispiacere al detto Felice. Avvenne che appunto in nel mezzo di Banchi noi ci incontrammo insieme onde io, che non sapevo nulla, al mio solito modo piacevolissimamente lo salutai; il quale con molte villane parole mi rispose. Per la qual cosa mi sovvenne tutto quello che mi aveva detto il negromante; in modo che, tenendo la briglia il più che io potevo a quello che con le sue parole il detto mi sforzava a fare, dicevo: - Ser Benedetto fratello, non vi vogliate adirar meco, ché non v' ò fatto dispiacere e non so nulla di questi vostri casi, e, tutto quello che voi avete che fare con Filice, andate di grazia e finitela seco, ché lui sa benissimo quel che v'à a rispondere; onde io, che none so nulla, voi mi fate torto a mordermi di questa sorte,4 maggiormente sapendo che io non sono uomo che sopporti ingiurie. - A questo il detto disse che I. È Alessandro di Piero del Bene, già ricordato dal Cellini in pagine precedenti. Vedi a p. 570 e la nota 11. 2. Figi: « Parola probabilmente frantesa dal copista, e da correggersi Cliigi, cognome della nota famiglia senese che allora abitava in Roma» (Bacci). 3. affusolato: difilato. 4. a mordermi ••• sorte: a rimproverarmi in questa maniera.

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io sapevo ogni cosa e che era uomo atto a farmi portar maggior soma di quella e che Felice ed io eràmo dua gran ribaldi. Di già s'era ragunato molte persone a vedere questa contesa. Sforzato dalle brutte parole, presto mi chinai in terra e presi un mozzo1 di fango, perché era piovuto, e con esso presto gli menai a man salva per dargli in sul viso. Lui abbassò il capo, di sorte che con esso gli detti in sul mezzo del capo. In questo fango era investito un sasso cli pietra viva con molti acuti canti e, cogliendolo con un di quei canti in sul mezzo del capo, cadde come morto svenuto in terra; il che, vedendo tanta abbondanzia di sangue, si giudicò per tutti e, circostanti che lui fussi morto. [LXVII.] In mentre che il detto era ancora in terra e che alcuni

si davano da fare per portarlo via, passava quel Pompeo gioielliere già ditto di sopra. Questo, il papa aveva mandato per lui per alcune sue faccende di gioie. Vedendo quell'uomo mal condotto,a domandò chi gli aveva dato. Di che gli fu detto: - Benvenuto gli à dato, perché questa bestia se l'à cerche.3 - Il detto Pompeo, prestamente giunto che fu al papa, gli disse: - Beatissimo Padre, Benvenuto adesso adesso à ammazzato Tubbia; ché io l'ò veduto con li mia occhi. - A questo il papa infuriato commesse al governatore, che era quivi alla presenza, che mi pigliassi e che m'impiccassi subito in nel luogo dove si era fatto l'omicidio, e che facessi ogni diligenzia avermi e non gli capitassi innanzi prima che lui mi avessi impiccato. Veduto che io ebbi quello sventurato in terra, subito pensai a' fatti mia, considerato alla potenzia de' mia nimici e quel che di tal cosa poteva partorire. Partitomi di quivi, me ne ritirai a casa misser4 Giovanni Gaddi cherico di Camera, volendomi metter in ordine il più presto che io potevo per andarmi con Dio.5 Alla qual cosa il detto misser Giovanni mi consigliava che io non fussi così furioso6 a partirmi, ché talvolta potria essere che 'l male non fussi tanto grande quanto e' mi parve: e fatto chiamare misser Annibal Caro, il quale stava seco, gli disse che andassi a 'ntendere il caso.7 Mentre che di questa un mozzo: un pezzo (un poco). 2.. mal condotto: ridotto a mal partito. 3. se l,à cerclie: se le è cercate. 4. casa misser: a casa di messer. 5. andarmi con Dio: andarmene per i fatti miei. 6./urioso: frettoloso. 7. a 'ntendere il caso: a informarsi delraccaduto. 1.

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cosa si dava i sopradditti ordini, comparse un gentiluomo romano· che stava col cardinal de' Medici1 e da quello mandato. Questo gentiluomo, chiamato a parte misser Giovanni e me, ci disse che il cardinale gli aveva detto quelle parole che gli aveva inteso dire al papa, e che non aveva rimedio nessuno da potermi aiutare, e che io facessi tutto il mio potere di scampar questa prima furia, e che io non mi fidassi in nessuna casa di Roma. Subito partitosi il gentiluomo, il ditto misser Giovanni guardandomi in viso faceva segno di lacrimare, e disse: - Oimè, tristo ·a me, che io non ò rimedio nessuno a poterti aiutare! - Allora io dissi: - Mediante Iddio, io mi aiuterò ben da me; solo vi richieggo che voi mi serviate di un de' vostri cavalli. - Era di già messo in ordine un cavai morello turco, il più bello ed il miglior di Roma. Montai in sun esso con un archibuso a ruota dinanzi all'arcione, stando in ordine per difendermi con esso. Giunto che io fui a ponte Sisto, vi trovai tutta la guardia del bargello e cavallo ed a piè; cosi facendomi della necessità virtù, arditamente spinto modestamente il cavallo, merzé di Dio oscurato2 gli occhi loro, libero passai, e con quanta più fretta io potetti me ne andai a Palombara,3 luogo del signor Giovambattista Savello,4 e di quivi rimandai il cavallo a misser Giovanni, né manco volsi eh' egli sapessi dove io mi fussi. Il detto signor Giambattista, carezzato 5 che egli m'ebbe dua giornate, mi consigliò che io 1ni dovessi levar di quivi e andarmene alla volta di Napoli per tanto che passassi questa furia. E, datomi compagnia, mi fece mettere in sulla strada di Napoli; in su la quale io trovai uno scultore mio amico, che se ne andava a San Germano a finire la sepoltura di Pier de' Medici a Monte Casini.6 Questo si chiamava per nome il Solosmeo;7 lui mi dette cardinal de' Medici: Ippolito, figlio naturale di Giuliano di Nemours e nipote di Leone X: venne fatto cardinale, a diciotto anni, nel 1529. Congiurò invano contro il duca Alessandro. Mori nel 1555 a Itri, in Puglia. Il Varchi lo disse « liberalissimo verso tutti gli uomini eccellenti•· 2. oscurato: essendo stati oscurati. 3. Palombara: oggi Palombara Sabina (a trentasei chilometri da Roma). 4. Giovambattista Savello: « Gentiluomo romano: comandante di un corpo di cavalleria, al soldo di Clemente VII. Prese parte all'assedio di Firenze, quindi passò ai servizi di Cosimo I e vi rimase fino alla morte (1553) » (Bacci). 5. carezzato: trattato con gentilezza. 6. Monte Casini: è la famosa abbazia benedettina di Montecassino. 7. il Solosmeo: Antonio da Settignano, pittore e scultore. Era stato scolaro di Andrea del Sarto e del Sansovino. Il sepolcro di Pietro de' Medici - fatto su disegno di Antonio da Sangallo e finito nel 1559 - è .ricordato dal Vasari. 1.

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nuove come quella sera medesima papa Clemente aveva mandato un suo cameriere a intendere come stava Tubbia sopradditto; e, trovatolo a lavorare e che in lui non era avvenuto cosa nissuna né manco non sapeva nulla, referito al papa, il ditto si volse a Pompeo e gli disse: - Tu sei uno sciagurato, ma io ti protesto bene che tu ài stuzzicato un serpente che ti morderà e faratti il dovere. - Di poi si volse al cardinal de' Medici e gli commisse che tenessi un poco di conto di me, che per nulla lui non mi arebbe voluto perdere. Cosi il Solosmeo e io ·ce ne andavamo cantando alla volta di Monte Casini per andarcene a Napoli insieme. [LXVIII.] Riveduto che ebbe il Solosmeo le sue faccende a

Monte Casini, insieme ce ne andammo alla volta di Napoli. Arrivati a un mezzo miglio presso a Napoli, ci si fece incontro un oste il quale ci invitò alla sua osteria e ci diceva che era stato in Firenze molt'anni con Carlo Ginori1 e, se noi andavamo alla sua osteria, che ci arebbe fatto moltissime carezze per esser noi fiorentini. Al qual oste noi più volte dicemmo che seco noi non volevamo andare. Questo uomo pur ci passava innanzi ed or restava indrieto, sovente dicendoci le medesime cose, che ci arebbe voluti alla sua osteria. Il perché venutomi a noia, io lo domandai se lui mi sapeva insegnare2 una certa donna siciliana, che aveva nome Beatrice, la quale aveva una sua bella figliuoletta che si chiamava Angelica, ed erano cortigiane. Questo ostiere, parutoli che io l'uccellassi,3 disse: - lddio dia il malanno alle cortigiane e chi vuol lor bene. E, dato il piè al cavallo, fece segno di andarsene resoluto4 da noi. Parendomi essermi levato da dosso in un bel modo quella bestia di quell'oste, con tutto che di tal cosa io non estessi in capitale5 perché mi era sovvenuto quel grande amore che io portavo a Angelica, e ragionandone col ditto Solosmeo non senza qualche amoroso sospiro, vediamo con gran furia ritornare a noi l' ostiere il quale, giunto da noi, disse: - E' sono o dua ovver tre giorni che accanto alla mia osteria è tornato una donna e una fanciulletta, le quali ànno cotesto nome; non so se sono siciliane o d'altro pae.:. se. - Allora io dissi: - Gli à tanta forza in me quel nome di An1. Carlo Ginori: di Lionardo, era stato gonfaloniere della Repubblica .fiorentina nei primi due mesi del 1527. 2. insegnare: indicare. 3. l'uccellassi: lo beffossi. 4. resolrdo: sciolto, staccato. 5. non atetri in capitale: non facessi gran conto.

BENVENUTO CELLINI

gelica che io voglio venire alla tua osteria a ogni modo. - Andammocene d'accordo insieme coll'oste nella città di Napoli e scavalcammo alla sua osteria, e mi pareva mill'anni di dare assetto alle mie cose, qual feci prestissimo; e, entrato nella ditta casa accanto all'osteria, ivi trovai la mia Angelica, la quale mi fece le più smisurate carezze che immaginar si possa al mondo. Cosi mi stetti seco da quell'ora delle ventidua ore insino alla seguente mattina con tanto piacere che pari non ebbi mai. E, in mentre che in questo piacere io gioiva, mi sovvenne che quel giorno appunto spirava il mese che mi fu promisso in nel circulo di negromanzia dalli demonii. Si che consideri ogn'uomo, che s'impaccia con loro, e' pericoli inistimabili che io ò passati.

[LXIX.] Io mi trovavo in nella mia borsa a caso un diamante,

il quale mi venne mostrato in fra gli orefici: e, se bene io ero giovane ancora, in Napoli io ero talmente conosciuto per uomo da qualcosa1 che mi fu fatto moltissime carezze. In fra gli altri un certo galantissimo uomo gioielliere, il quale aveva nome misser Domenico Fontana; questo uomo da bene lasciò la bottega per tre giorni che io stetti in Napoli, né mai si spiccò da me, monstrandomi molte bellissime anticaglie che erano in Napoli e fuor di Napoli, e di più mi menò a fare reverenzia al viceré di Napoli,3 il quale gli aveva fatto intendere che aveva vaghezza di vedermi. Giunto che io fui da sua eccellenzia, mi fece molte onorate accoglienze; e, in mentre che cosi facevamo, dette in negli occhi di sua eccellenzia il sopradditto diamante; e, fattomiselo mostrare, disse che, se io ne avessi a privar me, non cambiassi lui, di grazia. Al quale io ripreso il diamante lo porsi di nuovo a sua eccellenzia, ed a quella dissi che il diamante ed io eràmo al servizio di quella. Allora e' disse che aveva ben caro il diamante, ma che molto più caro li sarebbe che io restassi seco: ché mi faria tal patti che io mi loderei di lui. Molte cortese parole ci usammo l'un l'altro; ma venuti poi ai meriti del diamante, comandatomi da sua eccellenzia che io ne domandassi pregio qual mi paressi a una sola parola, 3 al quale io dissi che dugento scudi era il suo pregio appunto. A questo da qualcora: di valore. 2. tJicerl di Napoli: Pietro Alvarez di Toledo, marchese di Villafranca. Nominato viceré nel 1532, mori nel 1553. Era zio del duca d'Alba. 3. a u11a sola parola: cioè senza discutere (D'Ancona). 1.

LA VITA • LIBRO PRIMO

sua eccellenzia disse che gli pareva che io non fussi niente iscosto dal dovere; ma per esser legato di mia mano, conoscendomi per il primo uomo del mondo, non riuscirebbe, se un altro lo le.. gasse, di quella eccellenzia che dimostrava. Allora io dissi che il diamante non era legato di mia mano e che non era ben legato; e, quello che egli faceva, lo faceva per sua propria bontà e che, se io gnene rilegassi, lo migliorerei assai da quel che gli era. E, messo l'ugna del dito grosso ai filetti del diamante/ lo trassi del2 suo anello e, nettolo alquanto, lo porsi al vicerè; il quale satisfatto e maravigliato, mi fece una polizza che mi fussi pagato li dugento scudi che io l'avevo domandato. Tornatomene al mio alloggiamento, trovai lettere che venivano dal cardinale de' Me.. dici, le quali mi dicevano che io ritornassi a Roma con gran3 di.. ligenza, e di colpo me ne andassi a scavalcare a casa sua signoria reverendissima. Letto alla mia Angelica la lettera, con amorosette lacrime lei mi pregava che di grazia io mi fermassi in Napoli o che io ne la menassi meco. Alla quale io dissi che, se lei ne voleva venir meco, che io gli darei in guardia4 quelli dugento ducati che io avevo presi dal viceré. Vedutoci la madre a questi serrati ragionamenti, si accostò a noi e mi disse: - Benvenuto, se tu ti vuoi menare la mia Angelica a Roma, lassami un quindici ducati acciocché io possa partorire, e poi me ne verrò ancora io. - Dissi alla vecchia ribalda che trenta volentieri gnene lascerei, se lei si contentava di darmi la mia Angelica. Cosi restati d'accordo, Angelica mi pregò che io gli comperassi una vesta di velluto nero, perché in Napoli era buon mercato. Di tutto fui contento; e mandato per il velluto, fatto il mercato e tutto, la vecchia, che pensò che io fussi più cotto che crudo, mi chiese una vesta di panno fine per sé e molt'altre spese per sua figliuoli e più danari assai di quelli che io gli avevo offerti. Alla quale io piacevolmente mi volsi e le dissi: - Beatrice mia cara, bastat'egli quello che io t'b offerto ? - Lei disse che no. Allora io dissi che quel che non bastava a lei basterebbe a me: e, baciato la mia Angelica, lei con lacrime ed io con riso ci spiccammo, e me ne tornai a Roma subito. filetti del diamante: «Le coste angolari con le quali si terminano le faccette delle gioie » (Bianchi). 2. del: dal. J. gran: MS: gra, senza alcun segno di abbreviazione, come avverte il Bacci. 4. in guardia: in deposito. J.

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[Lxx.] Partendomi di Napoli a notte con li dinari addosso, per non essere appostato né assassinato come è il costume di Napoli, trovatomi alla Selciata/ con grande astuzia e valore di corpo mi difesi da più cavagli2 che mi erano venuti per assassinare. Di poi gli altri giorni appresso, avendo lasciato il Solosmeo alle sue faccende di Monte Casini, giunto una mattina per desinare a l'osteria di Adanagni, 3 essendo presso all'osteria tirai a certi uccelli col mio archibuso e quelli ammazzai; ed un ferretto, che era nella serratura del mio stioppo, mi aveva stracciato la man ritta. Sebbene non era il male d'importanza, appariva assai per molta quantità di sangue che versava la mia mano. Entrato nell'osteria, messo il mio cavallo al suo luogo, salito in sun un palcaccio4 trovai molti gentiluomini napoletani che stavano per entrare a tavola, e con loro era una gentildonna giovane, la più bella che io vedessi mai. Giunto che io fui, appresso a me montava un bravissimo giovane mio servitore con un gran partigianone5 in mano: in modo che noi, l' arm' e il sangue messe tanto terrore a quei poveri gentili uoinini, massimamente per esser quel luogo un nidio6 di assassini: rizzatisi da tavola, pregorno lddio con grande spavento che gli aiutassi. Ai quali io dissi ridendo che Iddio gli aveva aiutati e che io ero uomo per difendergli da chi gli volesse offendere, e, chiedendo a loro qualche poco di aiuto per fasciar la mia mana, quella bellissima gentildonna prese un suo fazzoletto riccamente lavorato d'oro volendomi con esso fasciare. lo non volsi: subito lei lo stracciò pel mezzo, e con grandissima gentilezza di sua mano mi fasciò. Così assicuratisi alquanto, desinammo assai lietamente. Di poi il desinare montammo a cavallo, e di compagnia' ce ne andavamo. Non era ancora assicurata8 la paura che quelli gentili uomini astutamente mi facevano trattenere a quella gentildonna, restando alquanto indietro; e io a pari con essa me ne andavo in sun un mio bel cavalletto, accennato al mio servitore che stessi un poco discosto da me in modo che noi ragionavamo di quelle

I. Selciata: rcPonte a Selice, fra Capua ed Aversa n (Bacci). 2. cavagli: cavalli (cioè cavalieri). 3. Adanagni: Anagni, nella campagna romana. 4. palcaccio: stanzaccia ad un piano superiore (Carli). 5. partigia11011e: grossa partigiana, che è « specie d'arme in asta con una punta diritta in cima e due altre uncinate dalle parti» (Carli). 6. nidio: nido (covo). 7. di compagllia: tutti insieme. 8. assicurata: cioè passata.

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cose che non vende lo speziale.1 Cosi mi condussi a Roma col maggior piacere che io avessi mai. Arrivato che io fui a Roma, me ne andai a scavalcare al palazzo del cardinale de' Medici; e, trovatovi sua signoria reverendissima, gli feci motto e lo ringraziai assai dell'avermi fatto tornare. Di poi pregai sua signoria reverendissima che mi facessi sicuro2 dal carcere e, se gli era possibile, ancora3 della pena pecuniaria. Il ditto signore mi vidde molto volentieri; mi disse che io non dubitassi di nulla; di poi si volse a un suo gentiluomo, il quale si domandava misser Pierantonio Pecci4 sanese, dicendogli che per sua parte dicessi al bargello che non ardissi toccarmi. Appresso lo domandò come stava quello a chi io avevo dato del sasso in sul capo. Il ditta misser Pierantonio disse che lui stava male e che gli starebbe ancor peggio; il perché si era saputo che io tornavo a Roma, diceva volersi morire per farmi dispetto. Alle qual parole con gran risa il cardinale disse: - Costui non poteva fare altro modo che questo a volerci fare cognoscere che gli era nato di Sanesi.5 - Di poi voltosi a me, mi disse: - Per onestà nostra e tua abbi pazienzia quattro o cinque giorni, che tu non pratichi in Banchi ;6 da questi in là va' poi dove tu vuoi, e i pazzi muoiano a lor posta. - Io me ne andai a casa mia mettendomi a finire la medaglia, che di già avevo cominciata, della testa di papa Clemente, la quale io facevo con un rovescio figurato una Pace. Questa si era una femminetta vestita con panni sottilissimi, soccinta con una facellina in mano, che ardeva un monte di arme legate insieme a guisa di un trofeo. Ed ivi era figurato una parte di un tempio, in nel quale era figurato il Furore con molte catene legato; ed all'intorno si era un motto di lettere, il quale diceva: « Claulduntur belli portae ».7 In mentre 1. quelle • .. speziale: dato che costui vende di solito cose amare, e invece le parole d'amore sono dolci. 2. sicuro: cioè esente. 3. ancora: MS: achora. 4. Piera,zto,zio Pecci: passò poi al servizio di Caterina de' Medici, •e fu dichiarato ribelle nel 1551, essendosi adoperato per toglier Siena agli Spagnoli e darla ai Francesi• (Bacci). 5. a volerci ••• Sane.si: allusione alla nomea di sciocchi dei Senesi presso i Fiorentini. 6. pratichi in Banchi: bazzichi in Banchi. MS: il Banchi. (Bacci: a e così scrisse probabilmente il copista, non intendendo il valore della frase in Banchi».) 7. « Si chiudono le porte della guerra n (con riferimento al tempio di Giano). Il latino dà regolarmente c/auduntur, ma l'espressione intera è stata stesa dal Cellini - come avverte il Bacci - e dopo vari tentativi di scrivere correttamente la parola claudu11tur: chla, Claldrmtur, per riscrivere la quale (e fu scritta claulduntur) si cassarono con lin. anche le parole Belli Portae».

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ch'io finivo la ditta medaglia, quello che io avevo percosso era guarito e 'l papa non cessava di domandar di me: e, perché io fuggivo 1 di andare intorno al cardinale de' Medici, avvenga che tutte le volte che io gli capitavo inanzi sua signoria mi dava da fare qualche opera d'importanza per la qual cosa m'impediva assai alla fine della mia medaglia, avvenne che misser Pier Carnesecchi,2 favoritissimo del papa, prese la cura di tener conto di me: cosi in un destro modo mi disse quanto il papa desiderava che io lo servissi. Al quale io dissi che in brevi giorni io mostrerrei a sua santità che mai io non m'ero scostato dal servizio di quella.

[LXXI.] Pochi giorni appresso avendo finito la mia medaglia, la stampai in oro ed in argento ed in ottone. Mostratala a misser Pietro,3 subito mi introdusse dal papa. Era un giorno dopo desinare del mese di aprile, ed era un bel tempo: il papa era in Belvedere.4 Giunto alla presenza di sua santità, li porsi in mano le medaglie insieme con li conii di acciaio. 5 Presele, subito cognosciuto la gran forza di arte che era in esse, guardato misser Piero in viso, disse: - Gli antichi non furno mai sì ben serviti di medaglie. - In mentre che lui e gli altri le consideravano, ora i conii ora le medaglie, io modestissimamente cominciai a parlare e dissi: - Se la potenzia delle mie perverse istelle non avessi no auto una maggior potenzia che a loro avessi impedito quello che violentemente in atto le mi dimostrorno, vostra santità senza sua causa e mia perdeva un suo fedele ed amorevole servitore. Però, beatissimo Padre, non è error nessuno in questi atti, dove si fa del resto, 6 usar quel modo che dicono certi poveri semplici uomini, usando dire che si dee segnar sette e tagliar uno.7 Da poi che una

Su questa medaglia si veda il Trattato dell'Oreficeria, capo xv, Delle medaglie (cfr. I trattati, ed. Milanesi, p. u8, e qui avanti, p. 1044). i.fuggivo: evitavo. 2. Pier Carnesecchi: fiorentino, segretario di Clemente VII. Godeva l'amicizia dei letterati del tempo. Per aver aderito alle dottrine di Juan de Valdès e di Melantone, fu inquisito e quindi condannato al rogo il J ottobre 1567. Era stato consegnato dal duca Cosimo I al papa Pio V. 3. Pietro Carnesecchi. 4. Bel'Vedere: vedi la nota 10 a p. 539. 5. li conii di acciaio: i punzoni di questa medaglia - di cui si fecero varie riproduzioni sono conservati a Firenze al Museo Nazionale del Bargello. 6. dove si fa del resto: dove ne va la vita (frase tolta dal linguaggio dei giocatori). 7. si dee • •. uno: modo proverbiale, del mestiere dei sarti, ad indicare la necessità di ponderare prima di agire.

LA VITA • LIBRO PRIMO

mal vagi a bugiarda lingua d'un mio pessimo avversario che aveva cosi facilmente fatto adirare vostra santità che ella venne in tanto furore commettendo1 al governatore che subito preso m'impiccassi; veduto da poi un tale inconveniente, facendo un cosi gran torto a se medesima a privarsi di un suo servitore qual vostra santità istessa dice che egli è, penso certissimo che, quanto a Dio e quanto al mondo, da poi vostra santità n'arebbe auto un non piccolo rimordimento.2 Però i buoni e virtuosi padri, similmente i padroni tali, sopra i loro figliuoli e servitori non debbono cosi precipitatamente lasciar loro cadere il braccio addosso; avvenga che lo increscerne lor da poi non serva a nulla. Da poi che lddio à impedito questo maligno corso di stelle e salvatomi a vostra santità, un'altra volta priego quella che non sia cosi facile a l'adirarsi meco. - Il papa, fermato di guardare le medaglie, con grande attenzione mi stava a udire; e, perché alla presenza era molti signori di grandissima importanza, il papa arrossito alquanto fece segno di vergognarsi e, non sapendo altro modo a uscir in quel viluppo,3 disse che non si ricordava di aver mai dato una tal commessione. Allora, avvedutomi di questo, entrai in altri ragionamenti tanto che io divertissi4 quella vergogna che lui aveva dimostrato. Ancora sua santità, entrato in ne' ragionamenti delle medaglie, mi dimandava che modo io avevo tenuto a stamparle cosi mirabilmente, essendo cosi grande; il che lui non aveva mai veduto degli antichi medaglie di tanta grandezza. Sopra quello si ragionò un pezzo e lui, che aveva paura che io non gli5 facessi un'altra orazioncina peggio di quella, mi disse che le medaglie erano bellissime e che gli erano molto grate, 6 e che arebbe voluto fare un altro rovescio a sua fantasia, se tal medaglia si poteva istampare con dua rovesci. lo dissi che si. Allora sua santità mi commesse che io facessi la storia di Moisè quando e' percuote la pietra,7 eh' e' n'esce l'acqua, con un motto sopra, il qual dicessi: (( U t bibat popolus ».8 E poi aggiunse: - Va', Benvenuto,

1. commettendo: ordinando. 2. rimordimento: rimorso. 3. di quel tJiluppo: cioè da quell'imbroglio, do quella situazione difficile. 4. divertissi: cioè stornassi. 5. che io non gli: che io gli (latinismo). 6. gli • •• grate: gli piacevano moltissimo. 7. quando ••• pietra: vedi Exod., 17 e Num., 20, 2-11. 8. «Affinché il popolo beva• (Exod., 17, 6). Per questo rovescio della medaglia - di cui appunto nel Trattato deWOreficeria (cfr. qui avanti, p. 1044) - il motto allude al grande pozzo di San Patrizio fatto

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BENVENUTO CELLINI

che tu non l'arai finita sì tosto che io arò pensato a' casi tua. Partito che io fui, il papa si vantò alla presenza di tutti di darmi tanto che io arei potuto riccamente vivere sanza mai più affaticarmi con altri. Attesi sollecitamente a finire il rovescio 'del Moisè.

[LXXII.] In questo mezzo il papa si ammalò e, giudicando i medici che 'l male fussi pericoloso, quel mio avversario,1 avendo paura di me, commise a certi soldati napoletani che facessino a me quello che lui aveva paura che io non facessi a lui. Però ebbi molte fatiche a difendere la mia povera vita. Seguitando fini' il rovescio affatto: portatolo sù al papa, lo trovai nel letto malissimo condizionato.2 Con tutto questo egli mi fece gran carezze, e volse veder le medaglie e e' conii; e, facendosi dare occhiali e lumi, in modo alcuno non iscorgeva nulla. Si messe a brancolarle3 alquanto con le dita; di poi, fatto così un poco, gittò un gran sospiro e disse a certi che gl'incresceva di me ma· che, se Iddio gli rendeva la sanità, acconcerebbe4 ogni cosa. Da poi5 tre giorni il papa morl6 e io, trovatomi aver perso le mie fatiche, mi feci di buon animo e dissi da me stesso che mediante quelle medaglie io m'ero fatto tanto cognoscere che da ogni papa che venissi io sarei adoperato forse con miglior fortuna. Così da me medesimo mi missi animo, cancellando in tutto e per tutto le grande ingiurie che mi aveva fatte Pompeo; e, missomi l' arme indosso e accanto,7 me ne andai a San Piero, baciai li piedi al morto papa non sanza lacrime: di poi mi ritornai in Banchi a considerare la gran confusione che avviene in cotai occasione.8 E, in mentre che io mi sedeva in scavare dal papa in Orvieto nel 1527-28 a Antonio da Sangallo il Giovane.

I punzoni di tale medaglia, come avverte il Bacci, si conservano a Firenze, alla Galleria degli Uffizi. Per il latino approssimativo del Cellini e del copista si tenga presente col Bacci che nel manoscritto si leggeva: aut biba popolus: il t di bibat è agg. d'altro inchiostro». Si noti anche popolus in luogo di populus. 1. quel mio aooersario: Pompeo. 2. malissimo condizionato: in pessime condizioni. 3. brancolarle: tastarle brancolando (cioè palpando a caso). 4. acconcerebbe: rimetterebbe in ordine. 5. Da poi: dopo. 6. Clemente VII mori il 25 settembre 1534. E morl, scrive il Varchi, asenza aver lasciato di sé molto desiderio ancora agli amici e servitori suoi, per essere stato uomo di poco cuore e di rimessa vita» (Storia Fiorentina, XIV, 22). 7. indosso e accanto: erano armi da difesa (armatura) e da offesa (spada e pugnale). 8. di poi ••• occasione: a Nel periodo fra la morte d'un papa e l'elezione del successore,

LA VITA·. LIBRO PRIMO

Banchi con molti mia amici, venne a passare Pompeo in mezzo a dieci uomini benissimo armati; e, quando egli fu appunto a rincontro dove io era, si fermb alquanto in atto di voler quistione1 con esso meco. Quelli eh' erano meco, giovani bravi e volontoriosi, accennatomi che io dovessi metter mano, alla qual cosa subito considerai che, se io mettevo mano alla spada, ne sarebbe seguito qualche grandissimo danno in2 quelli che non vi avevano una colpa al mondo; però giudicai che e' fussi il meglio che io solo mettessi a ripintaglio la vita mia. Soprastato che Pompeo fu del dir dua avemarie,3 con ischerno rise in verso di me e, partitosi, quelli sua anche risono scotendo il capo; e con simili atti facevano molte braverie. Quelli mia compagni volson metter mano alla quistione :4 ai quali io adiratamente dissi che le mie brighe io ero uomo da per me a sa perle finire, che io non avevo bisogno di maggior bravi di me: sì che ognun badassi al fatto suo. !sdegnati quelli mia amici, si partirno da me brontolando. In fra questi era il più caro mio amico, il quale aveva nome Albertaccio del Bene,5 fratel carnale di Alessandro e di Albizzo, il quale è oggi in Lione grandissimo ricco. Era questo Albertaccio il più mirabil giovane che io cognoscessi mai e il più animoso, e a me voleva bene quanto a se medesimo; e, perché lui sapeva bene che quello atto di pazienzia non era stato per pusillità d'animo ma per aldacissima6 bravuria, che benissimo mi conosceva, e replicato alle parole,' mi pregb che io gli facessi tanta grazia di chiamarlo meco a tutto quel che io avessi in animo di fare. Al quale io dissi: - Albertaccio mio sopra tutti gli altri carissimo, ben verrà tempo che voi mi potrete dare aiuto; ma in questo caso, se voi mi volete bene, non guardate a me e badate al fatto vostro, e levatevi via presto si come ànno fatto gli altri, perché questo non è tempo da perdere. -· Queste parole furno dette presto.

Roma cadeva in una specie d•anarchia. Si preannunziano le condizioni favorevoli al nuovo delitto di Benvenuto 1 (Carli). 1. voler q11istione: attaccar rissa. 2. in: a. 3. Soprastato ..• avemarie: nel senso di «passati pochi istanti». 4. nietter ••. quistione: attaccar lite. 5. Albertaccio del Be11e: fratello d•Alessandro del Bene. Morì nel combattimento di Marciano (1554). uEra scrittore elegante e perito di cose d•arte, come si rileva anche da una lettera che gli indirizzò il Bembo (27 giugno I 542) • (Bacci). 6. aldacissima: .audacissima. 7. replicato alle parole: rispondendo alle mie parole.

BENVENUTO CELLINI

[LXXIII.] Intanto li nimici mia di Banchi a lento passo s'erano avviati in verso la Chiavica, luogo detto cosi, ed arrivati in su una crociata1 di strade le quale vanno in diversi luoghi, ma quella, dove era la casa del mio nimico Pompeo, era quella strada che diritta porta a Can1po di Fiore. E, per alcune occasione de il detto Pompeo, era entrato in2 quello ispeziale che stava in sul canto della Chiavica e soprastato con ditto speziale alquanto per alcune sue faccende, benché a me fu ditto che lui si era millantato di quella bravata che a lui pareva aver fattami. Ma in tutt'i modi la fu pur sua cattiva fortuna perché, arrivato che io fui a quel canto, appunto lui usciva dello speziale e quei sua bravi si erano aperti3 e l'avevano di già ricevuto in mezzo. Messi mano a un piccol pungente pugnaletto e, sforzato la fila de' sua bravi, li messi le mane al petto con tanta prestezza e sicurtà d'animo che nessuno delli detti rimediar non possettono. Tiratogli per dare al viso, lo spavento che lui ebbe li fece volger la faccia, dove io lo punsi appunto sotto l'orecchio; e quivi raffermai dua colpi soli, che al sicondo mi cadde morto di mano, qual non fu mai mia intenzione ;4 ma, sì come si dice, li colpi non si danno a patti. Ripreso il pugnale con la mano istanca,5 e con la ritta tirato fuora la spada per la difesa della vita mia, dove tutti quei bravi corsono al morto corpo e contra a me non feceno atto nessuno, cosi soletto mi ritirai per strada Iulia, pensando dove io mi potessi salvare. Quando io fui trecento passi, mi raggiunse il Piloto orefice,6 mio grandissimo amico, il quale mi disse: - Fratello, da poi che 'l male è fatto, veg- giamo di salvarti. - Al quale io dissi : - Andiamo in casa di Albertaccio del Bene, che poco innanzi gli avevo detto che presto verrebbe il tempo che io arei bisogno di lui. - Giunti che noi fummo a casa Albertaccio, le carezze furno inistimabile, e presto comparse la nobilità delli giovani di Banchi d'ogni nazione, da' Milanesi in fuora; e tutti mi si offersono di mettere la vita loro per salvazione della vita mia. Ancora misser Luigi Rucellai' mi 1. crociata: crocicchio. 2. in: da. 3. si erano aperti: facendogli ala attorno. 4. Tiratogli ••• inte11zione: tale fatto avvenne il 26 settembre 1534, e ne segui istruttoria. • È stato osservato esser difficile che il Cellini uccidesse il suo nemico, a ventiquattro ore di distanza dalla morte del papa, senza premeditazione alcuna, poiché è noto che con la nomina del nuovo papa veniva generalmente concessa una grande amnistia• (D'Ancona). 5. istanca: sinistra. 6. il Piloto orefice: è il già ricordato Giovanni di Baldassarre, fiorentino. Vedi la nota I a p. 564. 7. Luigi Rucellai: fuoruscito fiorentino, di nobile famiglia.

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mandò a offerire maravigliosamente che io mi servissi delle cose sua, e molti altri di quelli omaccioni1 simili a lui; perché tutti d'accordo mi benedissono le mani, parendo loro che colui mi avessi troppo assassinato e maravigliandosi molto che io avessi tanto sopportato. In questo istante il cardinal Cornaro,2 saputo la cosa, da per sé mandò trenta soldati, con tanti partigianoni, picche e archibusi, li quali mi menassino in camera sua per ogni buon rispetto; e io accettai l'offerta e con quelli me ne andai, e più di altrettanti di quelli ditti giovani mi feciono compagnia. In questo mezzo saputolo quel misser Traiano suo3 parente, primo cameriere del papa, mandò al cardinal de' Medici4 un gran gentiluomo milanese, il qual dicessi al cardinale il gran male che io avevo fatto e che sua signoria reverendissima era ubbrigata5 a gastigarmi. Il cardinale rispose subito, e disse: - Gran male arebbe fatto a non fare questo minor male: ringraziate misser Traiano da mia parte, che m'à fatto avvertito di quel che io non sapeva. - E subito voltosi, in presenza del ditto gentiluomo, al vescovo di Frulli6 suo gentiluomo e familiare, li disse: - Cercate con diligenzia del mio Benvenuto, e menatemelo qui, perché io lo voglio aiutare e difendere; e chi farà contra di lui, farà contra di me. - Il gentiluomo molto arrossito si parti, e il vescovo di Frulll mi venne a trovare in casa il cardinal Cornaro e, trovato il cardinale, disse come il cardinale de' Medici mandava per Benvenuto e che voleva esser lui quello che lo guardassi. Questo cardinal Cornaro, ch'era bizzarro come un orsacchino, molto adirato rispose al vescovo dicendogli che lui era cosl atto a guardarmi come il cardinal de' Medici. A questo il vescovo disse che di grazia facessi che lui mi potessi parlare una parola fuor di quello affare, per altri negozii7 del cardinale. Il Comaro li disse che per quel giorno facessi conto di avermi parlato. Il cardinal de' Medici era molto isdegnato; [LXXIV.]

omaccioni: uomini d 1importanza.

2. Francesco Camara. veneziano. Era fratello d 1un altro cardinale, Marco (per cui il Cellini aveva lavorato, e già morto nel frattempo). Fu fatto vescovo di Brescia nel 1531. Mori a Viterbo nel 1543. 3. suo: di Pompeo. 4. Ippolito de' Medici: vedi la nota 3 a p. 589 e la nota I di p. 642. 5. ubbrigata: obbligata. 6. al vescovo di Frulli.: Bernardo di Michelozzo Michelozzi, vescovo di Forll: era stato devotissimo ai lVIedici. Fu molto stimato dai pontefici Leone X, Clemente VII e Paolo III. 7. altri nego:iii: altre commissioni. 1.

BENVENUTO CELLINI

ma pure io andai la notte seguente, senza saputa del Cornaro, benissimo accompagnato a visitarlo; di poi lo pregai che mi facessi tanto di grazia di lasciarmi in casa del ditto Cornaro e li dissi la gran cortesia che Cornaro mi aveva usato, dove che, se sua-signoria reverendissima mi lasciava stare col ditto Cornaro, io verrei ad avere un amico più nelle mie necessitate, o pure che disponessi di me tutto quello che piacessi a sua signoria. Il qual mi rispose che io facessi quanto mi pareva. Tornatomene a casa il Cornaro, ivi a pochi giorni fu fatto papa il cardinal Farnese: 1 e, subito dato ordine alle cose di più importanza, appresso il papa dimandò di me, dicendo che non voleva che altri facessi le sue monete che io. A queste parole rispose a sua santità un certo gentiluomo suo domestichissimo, il quale si chiamava misser Latino Iuvinale: 2 disse che io stavo fuggiasco per un omicidio fatto in persona di un Pompeo milanese e aggiunse tutte le mie ragioni molto favoritamente. Alle qual parole il papa disse: - Io no sapevo della morte di Pompeo, ma sì bene sapevo le ragione di Benvenuto, sì che facciasigli subito un salvocondotto3 con il quale lui stia sicurissimo. Era alla presenza un grande amico di quel Pompeo e molto domestico del papa, il quale si chiamava misser Ambruogio4 ed era milanese; e disse al papa: - In ne' primi dì del vostro papato non saria bene far grazie di questa sorte. - Al quale il papa voltosigli, gli disse: - Voi non la sapete bene si come me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non ànno da essere ubbrigati alla legge: or maggiormente lui, che so quanta ragione e' gli à. - E, fattomi fare il salvocondotto, subito lo cominciai a servire con grandissimo favore.

1. Alessandro Famese, eletto pontefice il 13 ottobre 1534, assunse il nome di Paolo III: venne incoronato il 7 novembre. Era nato a Canino nel 1467. Mori nel 1549. 2. Latino luvinale: era un romano, della famiglia~lanetti (1486-1553): canonico di San Pietro, da Paolo III fu nominato tesoriere di Piacenza e poi commissario generale delle antichità romane. Poeta in latino e in volgare fu in corrispondenza col Bembo, col Castiglio ne e con altri letterati del suo tempo. 3. un salvacondotto: era una •specie di decreto provvisorio di amnistia,, (Carli). Si stipulò quindi un patto di conciliazione (instrumentum pacis) fra il Cellini e Lodovico de Capi~aneis, fratello dell'ucciso. 4. misser Ambruogio: Ambrogio Recalcati, protonotario apostolico e primo segretario di Paolo lii. 00

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[Lxxv.] Mi venne a trovare quel misser Latino Iuvinale detto, e mi commesse che io facessi le monete del papa. Per la qual cosa si destò tutti quei mia nimici: cominciorno a impedirmi che io non le1 facessi. Alla qual cosa il papa, avvedutosi di tal cosa, gli sgridò tutti, e volse che io le facessi. Cominciai a fare le stampe degli scudi, in nelle quali io feci un mezzo san Pagolo con un motto di lettere che diceva: «Vas electionis ».2 Questa moneta piacque molto più che quelle di quelli che avevan fatto a mia concorrenza di modo che il papa disse che altri non gli parlassi più di monete, perché voleva che io fussi quello che le facessi e no altri. Cosi francamente 3 attendevo a lavorare; e quel misser Latino Iuvinale m'introduceva al papa, perché il papa gli aveva dato questa cura. lo desideravo di riavere il moto proprio dell'uffizio dello stampatore della Zecca. A questo il papa si lasciò consigliare, dicendo che prima bisognava che avessi la grazia dell'omicidio, la quale io riarei per le Sante Marie di agosto4 per ordine de' caporioni di Roma (ché cosi si usa ogni anno per questa solenne festa donare a questi caporioni dodici sbanditi); intanto mi si farebbe un altro salvocondotto per il quale io potessi star sicuro per insino al ditto tempo. Veduto questi mia nimici che non potevano ottenere per via nessuna impedirmi la Zecca, presono un altro espediente. Avendo il Pompeo morto lasciato tremila ducati di dota a una sua figliuolina bastarda, feciono che un certo favorito del signor Pierluigi5 figliuol del papa la chiedessi per moglie per mezzo del detto signore: così fu fatto. Questo ditto favorito era un villanetto allevato dal ditto signore, e per quel che si disse a lui toccò pochi di cotesti dinari, perché il ditto signore vi messe sù le mane e se ne volse servire. Ma, perché più volte questo marito di questa fanciulletta per compiacere alla sua moglie aveva pregato il signore 1. che io no11 le: che io le (latinismo). 2. «Vaso d'elezione•: la famosa definizione di san Paolo (Act., 9, 15) che si trova anche in Dante (/nf., u, 28). Questa ed altre monete coniate per Paolo III sono state particolannente studiate dai numismatici e dai critici d'arte. 3. francamente: liberamente. 4. per le .•• agosto: cioè per l'Assunta. In tale occasione molti sodalizi di Roma potevano liberare un condannato a morte: il Cellini fu liberato dalla Confraternita dei macellari. Il plurale le Sante Marie deve essere stato originnto da un'interpretazione popolare del testo della liturgia: festmn Sanctae Mariae, «festività di santa Maria». 5. Pierluigi Farnese, figlio naturale del papa: fu gonfaloniere della Chiesa, e, dal 1545, duca di Parma e Piacenza. Corrotto e scostumato, fini tragicamente ucciso nel 1547.

BENVENUTO CELLINI

ditto che mi facessi pigliare, il quale signore aveva promisso di farlo come e' vedessi abbassato un poco il favore che io avevo col papa, stando cosi in circa a dua mesi, perché quel suo servitore cercava di avere la sua dota, el signore non gli rispondendo a proposito, ma faceva intendere alla moglie che farebbe le vendette del padre a ogni modo. Con tutto che io ne sapevo qualche cosa e appresentatomi più volte al ditta signore, il quale mostrava di farmi grandissimi favori, dalla altra banda aveva ordinato una delle due vie: o di farmi ammazzare o di farmi pigliare dal bargello. Commesse a un certo diavoletto di un suo soldato còrso che la facessi più netta1 che poteva: e quelli altri mia nimici, massimo misser Traiano, aveva promesso di fare un presente di cento scudi a questo Corsetto;2 il quale disse che la farebbe cosi facile come bere uno vuovo fresco. Io che tal cosa intesi andavo con gli occhi aperti e con buona compagnia, e benissimo armato con giaco e con maniche, 3 ché tanto avevo auto licenzia. Questo ditta Corsetto, per avarizia pensando guadagnare quelli dinari tutti a man salva,4 credette tale impresa poterla fare da per sé solo, in modo che un giorno dopo desinare mi feciono chiamare da parte del signor Pierluigi; onde io subito andai, perché il signore mi aveva ragionato di voler fare parecchi vasi grandi di argento. Partitomi di casa in fretta, pure con le mie solite armadure me ne andavo presto per istrada lulia, pensando di non trovar persona in su quell'ora. Quando io fui su alto5 di strada lulia per voltare al palazzo del Farnese,6 essendo il mio uso di voltar largo ai canti, viddi quel Corsetto già ditto levarsi da sedere e arrivare al mezzo della strada di modo che io non mi sconciai di nulla,7 ma stavo in ordine per difendermi e, allentato il passo alquanto, mi accostai al muro per dare larga istrada al ditta Corsetto. Onde lui accostatosi al muro e di già appressatici bene, cognosciuto ispresso per le sue dimostrazione che lui aveva voluntà di farmi dispiacere,8 e vedutomi solo a quel modo, pensò che la gli riuscissi. In modo che io cominciai a parlare e dissi: - Valoroso soldato, se e' fussi 1. netta: si trattava cioè di uccidere al più presto il Cellini e senza tanto rumore. 2. Corsetto: • soldato corso di bassa statura» (Carli). 3. con maniche: erano fatte di maglia di ferro a difesa delle braccia. 4. a man salva: cio~ con poca spesa. 5. su alto: all'estremità (MS: altro). 6. al palazzo del Farnese: è il famoso Palazzo Farnese, oggi sede dell'Ambasciata di Francia in Roma. 7. non ••• nulla: non mi turbai per nulla. 8. dispiacere: dispetto (cioè offesa).

LA VITA • LIBRO PRIMO

di notte voi potresti dire di avermi preso in iscamhio, ma perché gli è di giorno benissimo cognoscete chi io sono, il quale non ebbi mai che fare con voi e mai non vi feci dispiacere, ma io sarei bene atto a farvi piacere. - A queste parole lui in atto bravo,1 non mi si levando d'innanzi, mi disse che non sapeva quello che io mi dicevo. Allora io dissi: - lo so benissimo quello che voi volete e quel che voi mi dite; ma quella impresa che voi avete presa a fare è più difficile e pericolosa che voi non pensate, e talvolta2 potrebbe andare a rovescio. E ricordatevi che voi avete a fare cor un uomo il quale si difenderebbe da cento, e non è impresa onorata da valorosi uomini, qual voi siate, questa. - Intanto ancora io stavo in cagnesco, cambiato il colore l'uno e l'altro. Intanto era comparso populi, che di già avevano conosciuto che le nostre parole erano di ferro: che non gli essendo bastato la vista a manomettermi, disse: - Altra volta ci rivedremo. - Al quale io dissi: - Io sempre mi riveggo con gli uomini da bene, e con quelli che fanno ritratto talc. 3 - Partitomi, andai a casa il signore, il quale non aveva mandato per me. Tornatomi alla mia bottega, il detto Corsetto per un suo grandissimo amico e mio mi fece intendere che io non mi guardassi più da lui, che mi voleva essere buono fratello, ma che io mi guardassi bene da altri perché io portavo grandissimo pericolo, ché uomini di molta importanza 1ni avevano giurato la morte addosso. Mandatolo a ringraziare, mi guardavo il meglio che io potevo. Non molti giorni appresso mi fu detto da un mio grande amico che 'l signor Pierluigi aveva dato espressa commessione che io fussi preso la sera. Questo mi fu detto a venti ore; per la qual cosa io ne parlai con alcuni mia amici, e' quali mi confortorno che io subito me ne andassi. E, perché la commessione era data per a una ora di notte, a ventitré4 ore io montai in su le poste5 e me ne corsi a Firenze; perché, da poi che quel Corsetto non gli era bastato l'animo di far la impresa che lui promesse, il signor Pierluigi di sua propria autorità aveva dato ordine che io fussi preso, solo per racchetare un poco quella figliuola di Pompeo, la quale voleva sapere in che luogo era la sua dota. Non la potendo contentare della vendetta in nissuno6 de' dua modi che I. bravo: provocatorio. 2. talvolta: forse. 3. che ••. tale: che si mostrano tali. 4. venti .•• una ora .•. ve,ititré: rispettivamente quattro ore avanti il tramonto, un'ora dopo e un'ora prima. 5. su le poste: si mutava il cavallo ad ogni posta. 6. nissuno: MS: nismo.

BENVENUTO CELLINI

lui aveva ordinato, ne pensò un altro il quale lo diremo al suo luogo. Io giunsi a Firenze e feci motto al duca Lessandro, il quale mi fece maravigliose carezze e mi ricercò che io mi dovessi restar seco. E, perché in Firenze era un certo scultore chiamato il Tribolino1 ed era mio compare per avergli io battezzato un suo figliuolo, ragionando seco mi disse che un Iacopo del Sansovino,2 già primo suo maestro, lo aveva3 mandato a chiamare e, perché lui non aveva mai veduto Vinezia e per il guadagno che ne aspettava, ci andava molto volentieri. E, domandando me se io avevo mai veduto Vinezia, dissi che no; onde egli mi pregò che io dovessi andar seco a spasso :4 al quale io promessi. Però risposi al duca Lessandro che volevo prima andare insino a Vinezia, di poi tornerei volentieri a servirlo; e cosi volse che io gli promettessi, e mi comandò che innanzi che io mi partissi io gli facessi motto. L'altro di appresso, essendomi messo in ordine, andai per pigliare licenza dal duca; il quale io trovai in nel palazzo de' Pazzi, in nel tempo che ivi era alloggiato la moglie e le figliuole del signor Lorenzo Cibo. 5 Fatto intendere a sua eccellenzia come io volevo andare a Vinezia con la sua buona grazia, tornò con la risposta Cosimino6 de' Medici, oggi duca di Firenze, il quale mi disse che io andassi a trovare Nicolò da Monte Aguto7 e lui mi darebbe cinquanta scudi d'oro, i quai danari mi donava la eccellenzia del duca che io me gli godessi per suo amore; di poi tornassi a servirlo. Ebbi li danari da Nicolò, e andai a casa per il Tribolo, il quale [LXXVI.]

1. il Tribolino: Niccolò di Raffaello detto il Tribolo (1500-1550). Scultore e architetto fiorentino. 2. È il famoso Sansovi1to: di cognome Tatti, era stato così soprannominato perché scolaro di Andrea Cantucci dal Monte San Savino. A causa del sacco di Roma si era rifugiato a Venezia, dove venne fatto protomaestro nei lavori delle Procuratie. Era stato dapprima assai valente in scultura. Mori nel 1570, a ottantasei anni. 3. aveva: 1\1S: haueuaua. 4. a spasso: per diporto e per svago. 5. Lore11zo Cibo (o piuttosto Cybo), uomo d'arme, prese parte alla difesa di Bologna durante la prigionia di papa Clemente VII e morì nel 1549. Era stato da poco nominato comandante generale dello Stato pontificio. Sospettando che amoreggiasse con sua moglie, Ricciarda Malaspina, congiurò contro il duca Alessandro insieme col cardinale Ippolito de' Medici. 6. Cosimino: • Con questo diminutivo si disignava comunemente Cosimo de' Medici prima del suo avvento al potere» (D'Ancona). 7. Nicolò da Monte Aguto: dal Cellini citato come un grande suo amico.

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era in ordine e mi disse se io avevo legato la spada.1 Io li dissi che chi era a cavallo per andare in viaggio, non doveva legar le spade. Disse che in Firenze si usava cosi, perché v'era un certo ser Maurizio2 che per ogni piccola cosa arebbe dato della corda a san Giovambattista ;3 però bisognava portar le spade legate per insino fuor della porta. Io me ne risi, e cosi ce ne andammo. Accompagnammoci con il procaccia di Vinezia, il quale si chiamava per soprannome Lamentone :4 con esso andammo di compagnia e, passato Bologna, una sera in fra r altre arrivammo a Ferrara; e quivi, alloggiati all,osteria di Piazza,- il detto Lamentone andò a trovare alcuno de' fuorausciti a portar loro lettere e imbasciate da parte della loro moglie; ché cosi era di consentimento del duca: che solo il procaccio potessi parlar loro, e altri no, sotto pena della medesima contwnazia in che loro erano. In questo mezzo, per essere poco più di ventidua ore, noi ce ne andammo, il Tribulo e io, a veder tornare il duca di Ferrara,5 il quale era ito a Belfiore6 a veder giostrare. In nel suo ritorno noi scontrammo molti fuorausciti e' quali ci guardavano fiso, quasi isforzandoci di parlar con esso loro. Il Tribolo, che era il più pauroso uomo che io cognoscessi mai, non cessava di dirmi: - Non gli guardare e non parlare con loro, se tu vuoi tornare a Firenze. - Cosi stemmo a veder tornare il duca; di poi tornaticene all'osteria, ivi trovammo Lamentone. E, fattosi vicina a una ora di notte,7 ivi comparse Nicolò Benintendi8 e Piero suo fratello ed un altro vecchione, qual credo che fussi Iacopo Nardi,9 insieme con parecchi altri giovani; e' quali subito giunti dimandavano il procaccia ciascuno delle sue

se . .. spada: com'era prescritto dalla legge per il tragitto in città. ser Maurizio da Milano, cancelliere degli Otto a Firenze, era crudele e autoritario nell'amministrazione della giustizia. 3. a san Giovambattista: cioè allo stesso protettore della città. 4. Lamento11e: in qualità appunto di procaccia di Venezia il personaggio è ricordato nel 1545 nel Libro (o Gior11ale) de' salariati del duca Cosimo I. 5. il duca di Fe"ara: è Ercole Il, figlio di Alfonso I e marito di Renata di Francia. 6. Belfiore: era una villa ducale nei dintorni di Ferrara. 7. di notte: contando dal tramonto. 8. Nicolò Be1,i11te11di: marito di 1\1:irietta de' Ricci, era stato degli Otto e anche capitano delle milizie fiorentine. Venne confinato col fratello Piero prima a Venezia e poi a Lecco. 9. Jacopo 1Vardi: è il noto storico, nato a Firenze nel 1476 e morto in esilio a Venezia nel 1563. Proclamò la necessità di tornare alle libertà del popolo e combatté i Medici. È chiamato vecchione, dal Cellini, certo in relazione con l'età degli altri esuli fiorentini. 1.

2.

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brigate di Firenze. Il Tribolo e io stavamo là discosto per non parlar con loro. Di poi che gl'ebbono ragionato un pezzo con Lamentone, quel Nicolò Benintendi disse: - Io gli cognosco quei dua benissimo; perché fann'eglino tante merde di non ci voler parlare? - Il Tribolo pur mi diceva che io stessi cheto. Lamentone disse loro che quella licenzia1 che era data a lui non era data a noi. Il Benintendi aggiunse e disse che l'era una asinità, mandandoci cancheri e mille belle cose. Allora io alzai la testa con più modestia che io potevo e sapevo, e dissi: - Cari gentiluomini, voi ci potete nuocere assai, e noi a voi non possiamo giovar nulla; e, con tutto che voi ci abbiate detto qualche parola la quale non ci si conviene, né anche per questo non vogliamo essere adirati con esso voi. - Quel vecchione de' Nardi disse che io avevo parlato da un giovane dabbene come io ero. Nicolò Benintendi allora disse: - Io ò in culo loro e il duca. - Io replicai che con noi egli aveva il torto, ché non avevàno2 che far nulla de' casi sua. Quel vecchio de' Nardi la prese per noi, dicendo al Benintendi che gli aveva il torto; onde lui pur continuava di dire parole ingiuriose. Per la qual cosa io li dissi che io li direi e farei delle cose che gli dispiacerebbono; si che attendessi al fatto suo, e lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il duca e noi di nuovo, e che noi e lui eràmo un monte di asini. Alle qual parole, mentitolo per la gola,3 tirai fuora la spada; e 'l vecchio, che volse essere il primo alla scala, pochi scaglioni in giù4 cadde, e lor tutti l'un sopra l'altro addòssogli. 5 Per la qual cosa io, saltato innanzi, menavo la spada per le mura con grandissimo furore, dicendo: - Io vi ammazzerò tutti. - E benissimo avevo riguardo a non far lor male, ché troppo ne arei potuto fare. A questo romore l'oste gridava. Lamentone diceva: - Non fate! - Alcuni di loro dicevano: - Oimè il capo I - Altri: - Lasciami uscir di qui. Questa era una bussa6 inistimabile: parevano un branco di porci. L'oste venne col lume; io mi ritirai sù e rimessi' la spada. Lamentone diceva a Niccolò Benintendi che gli aveva mal fatto; l'oste disse a Nicolò Benintendi: - E' ne va la vita a metter mano per l'arme qui e, se il duca sapessi queste vostre insolenzie, vi farebbe appieI.

licenzia: permesso, concessione.

z. avevàno: avevamo.

3. mentitolo

per la gola: dettogli che mentiva per la gola (ed era come una sfida).

4. pochi scaglioni in giù: scesi pochi scalini. 5. addòssogli: gli (furono) addosso. 6. bwsa: baruffa. 7. rimessi: riposi nel fodero.

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care per la gola; sl che io non vi voglio fare quello che voi meriteresti; ma non mi ci capitate mai più in questa osteria, che guai a voi. - L'oste venne sù da me, e volendomi io scusare non mi lasciò dire nulla, dicendomi che sapeva che io avevo mille ragioni e che io mi guardassi bene in nel viaggio da loro. Cenato che noi avemmo, comparse sù un barcheruolo per levarci1 per Vinezia; io dimandai se lui mi voleva dare la barca libera :2. cosi fu contento, e di tanto facemmo patto. La mattina a buon'otta3 noi pigliammo i cavagli per andare al porto, quale è non so che poche miglia lontan da Ferrara e, giunto che noi fummo al porto, vi trovammo il fratello di Nicolò Beneintendi con tre altri compagni, i quali aspettavano che io giugnessi: in fra loro era dua pezzi di arme in asta, e io avevo compro un bel giannettone in Ferrara. Essendo anche benissimo armato, io non mi sbigotti' punto, come fece il Tribolo che disse: - lddio ci aiuti; costoro son qui per ammazzarci. - Lamentane si volse a me e disse: - Il meglio che tu possa fare si è tornartene a Ferrara, perché io veggo la cosa pericolosa. Di grazia, Benvenuto mio, passa4 la furia di queste bestie arrabbiate. - Allora io dissi: - Andiàno5 innanzi, perché chi à· ragione lddio l'aiuta; e voi vedrete come io mi aiuterò da me. Quella barca non è ella6 caparrata per noi? Si - disse Lamentane. - E noi in quella staremo sanza loro, per quanto potrà la virtù mia. - Spinsi innanzi il cavallo e, quando fu' 7 presso a cinquanta passi, scavalcai, e arditamente col mio giannettone andavo innanzi. Il Tribolo s'era fermato indietro, ed era rannicchiato in sul cavallo, che pareva il freddo stesso: e Lamentane procaccio gonfiava e soffiava che pareva un vento ;8 ché così era il suo modo di fare ma più lo faceva allora che il solito, stando a considerare che fine avessi avere quella diavoleria. Giunto alla barca, il barcheruolo mi si fece innanzi e mi disse che quelli parecchi gentiluomini fiorentini volevano entrare di compagnia nella barca, se io me ne contentavo. Al quale io dissi: - La barca è [LXXVII.]

levarci: imbarcarci. 2. libera: cioè senza altri passeggeri. 3. a buon'otta: di buonora. 4. passa: evita. 5. Andià110: andiamo. 6. non è ella: nel MS• l'è, di piccola scrittura, av. ella forse è agg. di altra mano• (Bacci). 7. fu': seguiamo la congettura del Carli, dato che il testo Bacci col MS dà/u (di solito inteso come riferito al cavallo stesso). 8. pareva un vento: al modo dei venti, dipinti come giovani con le gote gonfiate nei quadri del Rinascimento. 1.

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caparrata per noi e non per altri, e m,incresce insino al cuore di non poter essere con loro. - A queste parole un bravo1 giovane de' Magalotti disse: - Benvenuto, noi faremo che tu potrai. Allora io dissi: - Se Iddio e la ragione che io ò, insieme con le forze mie vorranno o potranno, voi non mi farete poter quel che voi dite. - E con le parole insieme2 saltai nella barca. Volto lor la punta dell'arme, dissi: - Con questa vi mostrerrò che io non posso. - Voluto3 fare un poco di dimostrazione, messo mano all'arme e fattosi innanzi quel de' Magalotti, io saltai in su l'orlo della barca e tira'gli un cosi gran colpo che, se non cadeva rovescio in terra, io lo passavo a banda a banda. Gli altri compagni, scambio4 di aiutarlo, si ritirorno indietro; e, veduto che io l'arei potuto ammazzare, in cambio di dargli io li dissi: - Levati sù fratello, e piglia le tua arme e vattene; bene ài tu veduto che io non posso quel che io non voglio, e quel che io potevo fare non ò voluto. - Di poi chiamai drento il Tribolo e il barcheriuolo e Lamentone; così ce ne andammo alla volta di Vinezia. Quando noi fummo dieci miglia per il Po, quelli giovani erano montati in su una fusoliera5 e ci raggiunsono e, quando a noi furno al dirimpetto, quello isciocco di Pier Beneintendi mi disse: - Vien pur via, Benvenuto, ché ci rivedremo in Vinezia. - Avviatevi che io vengo, - dissi - e per tutto mi lascio rivedere. - Cosi arrivammo a Vinezia. lo presi parere da un fratello del cardinal Cornaro, dicendo che mi facessi favore che io potessi aver l'arme;6 qual mi disse che liberamente io la portassi, ché il peggio che me ne andava si era perder la spada.

[LXXVIII.] Cosi portando l'arme, andammo a visitare Iacopo del Sansovino scultore, il quale aveva mandato per il Tribolo; e a me fece gran carezze e vuolseci dar desinare, e seco restammo. Parlando col Tribolo, gli disse che non se ne voleva servire per allora e che tornassi un'altra volta. A queste parole io mi cacciai a ridere, e piacevolmente7 dissi al Sansovino: - Gli è troppo discosto la casa vostra dalla sua, avendo a tornare un'altra volta. - Il povero 1. bravo: ardito. 2. con le ptJTole insieme: nel dir cosi. 3. Voluto: avendo il Magalotti (coi compagni) voluto. 4. scambio: in luogo di. 5.fusoliera: barca rapidissima, di poco fondo (Carli). 6. aver l'anne: andar armato con autorizzazione. 7. piacevolmente: con tono di scherzo.

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Tribolo sbigottito1 disse: - Io ò qùi la lettera che voi mi avete scritta che io venga. - A questo disse il Sansovino che i sua pari, uomini da bene e virtuosi, potevan fare quello e maggior cosa. Il Tribolo si ristrinse nelle spalle e disse - Pazienzia - parecchi volte. A questo, non guardando al desinare abbundante che mi aveva dato il Sansovino, presi la parte del mio compagno Tribolo che aveva ragione. E, perché a quella mensa il Sansovino non aveva mai restato di cicalare delle sue gran pruove, dicendo mal di Michelagnolo e di tutti quelli che facevano tal arte,2. solo lodando se istesso a maraviglia, questa cosa mi era ·venuta tanto a noia che io non avevo mangiato boccon che mi fussi piaciuto e solo dissi queste dua parole: - O misser Iacopo, li uomini da bene fanno le cose da uomini da bene, e quelli virtuosi che fanno le belle opere e buone si cognoscono molto meglio quando sono lodati da altri che a lodarsi così sicuramente3 da per loro medesimi. - A queste parole e lui e noi ci levammo da tavola bofonchiando. Quel giorno medesimo, trovandomi per Venezia presso al Rialto, mi scontrai in Piero Benintendi, il quale era con parecchi; e, avvedutomi che loro cercavano di farmi dispiacere,4 mi ritirai in una bottega d'uno speziale, tanto che io lasciai passare quella furia. Di poi io intesi che quel giovane de' Magalotti, a chi io avevo usato cortesia, molto gli aveva sgridati; e cosi si passò. [LXXIX.] Da poi pochi giorni appresso, ce ne ritornammo alla

volta di Firenze: e, essendo alloggiati a un certo luogo il quale è di qua da Chioggia in su la man manca venendo in verso Ferrara, roste volse essere pagato a suo modo innanzi che noi andassimo a dormire; e, dicendogli che in negli altri luoghi si usava di pagare la mattina, ci disse: - Io voglio esser pagato la sera, ed a mio modo. - Dissi a quelle parole che gli uomini che volevan fare a lor modo bisognava che si facessino un mondo a lor modo, perché in questo non si usava così. L'oste rispose che io non gli affastidissi il cervello, perché voleva fare a quel modo. Il Tribolo tremava di paura, e mi punzecchiava che io stessi5 cheto acciocché non ci facessimo peggio. Così lo pagammo a lor modo: poi ce ne I. sbigottito: confuso e rattristato. 2. tal arte: la scultura. 3. cod sicr,rame11te: con tanta sicurezza. 4. cercavano • •• dispiacere: s,intende, con. una rissa. 5. mi . .. stessi: mi spingeva a stare.

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andammo a dormire. Avemmo di buono bellissimi letti, nuovi ogni cosa,1 e veramente puliti. Con tutto questo io non dormi' mai, pensando tutta quella notte in che modo io avevo da fare a vendicarmi. Una volta mi veniva in pensiero di ficcargli fuogo in casa; un'altra di scannargli quattro cavagli buoni che gli aveva nella stalla: tutto vedevo che m'era facile il farlo, ma non vedevo già l'esser facile il salvare me ed il mio compagno. Preso per ultimo spediente di mettere le robe e' compagni in nella barca, e cosi feci: e, attaccato i cavalli all'alzana,2 che tiravano la barca, dissi che non movessino la barca insino che io ritornassi, perché avevo lasciato un paro di mia pianelle nel luogo dove io avevo dormito. Cosi tornato nell'osteria, domandai l'oste; il quale mi rispose che non aveva che far di noi e che noi andassimo al bordello. Quivi era un suo fanciullaccio ragazzo di stalla, tutto sonnacchioso, il quale mi disse: - L'oste non si moverebbe per il papa, perché e' dorme seco una certa poltroncella che lui- à bramato assai. E chiesemi la bene andata ;3 onde io li detti parecchi di quelle piccole monete veniziane e li dissi che trattenessi un poco quello che tirava l'alzana insinché io cercassi delle mie pianelle ed ivi tornassi. Andatomene sù, presi un coltelletto che radeva,4 e, quattro letti che v'era, tutti gli tritai5 con quel coltello in modo che io cognobbi aver fatto un danno di più di cinquanta scudi. E, tornato alla barca con certi pezzuoli di quelle sarge6 nella mia saccoccia, con fretta dissi al guidatore dell'alzana che prestamente parassi via. Scostatici un poco dalla osteria, el mio compar Tribolo disse che aveva lasciato certe correggine che legavano la sua valigetta .e che voleva tornare per esse a ogni modo. Alla qual cosa io dissi che non la guardassi in7 dua corregge piccine, perché io gnene farei delle grande quante egli vorrebbe. Lui mi disse che io ero sempre in sulla burla, ma che voleva tornare per le sue corregge a ogni modo: e, facendo forza all'alzana che e' fermassi e io dicevo che parassi innanzi, in mentre gli dissi il gran danno che io avevo I. ogni cosa: in ogni parte loro. 2. alzana: è la fune con cui si trascinano battelli e chiatte contro corrente in canali o fiumi. (È più comunemente chiamata alzaia nei navigli di Milano e di Pavia, al pari della strada che fiancheggia il corso d'acqua.) 3. la bene andata: la mancia. 4. radeva: ta-gliava come un rasoio. 5. tritai: tagliuzzai minutamente. 6. sarge: sovraccoperte di cotone del letto, di solito a colori. 7. non la guardoni in: non badasse a.

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fatto all'oste e, mostratogli il saggio di certi pezzuoli di sarge ed altro, gli entrò un triemito addosso si grande che egli non cessava di dire all'alzana :1 - Para vial para via presto I - E mai si tenne sicuro di questo pericolo per insino che noi fummo ritornati alle porte di Firenze. Alle quali giunti, il Tribolo disse: - Leghiamo la spade per l'amor de Dio, e non me ne fate più; che sempre m'è parso avere le budella 'n un catino. - Al quale io dissi: - Compar mio Tribolo, a voi non accade2 legare la spada, perché voi non l'avete mai isciolta. - E questo io lo dissi a caso, per non gli avere mai veduto fare segno di uomo in quel viaggio. Alla quale cosa lui, guardatosi la spada, disse: - Per Dio che voi dite il vero, ché la sta legata in quel modo che io l'acconciai innanzi che io uscissi di casa mia. - A questo mio compare gli pareva che io gli avessi fatto una mala compagnia per essermi risentito e difeso contra quelli che ci avevano voluto fare dispiacere; e a me pareva che lui l'avessi fatta molto più cattiva a me a non si mettere a 'iutarmi in cotai bisogni. Questo lo giudichi chi è da canto sanza passione.

[LXXX.] Scavalcato che io fui, subito andai a trovare il duca Lessandro, e molto lo ringraziai del presente de' cinquanta scudi, dicendo a sua eccellenzia che io ero paratissimo a tutto quello che io fussi buono a servire sua eccellenzia. Il quale subito m'impose che io facessi le stampe delle sue monete; e la prima che io feci si fu una moneta di quaranta soldi, 3 con la testa di sua eccellenzia da una banda e dall'altra un san Cosimo e un san Damiano. Queste furono monete di argento e piacquono tanto che il duca ardiva di dire che quelle erano le più belle monete di Cristianità. Così diceva tutto Firenze e ognuno che le vedeva. Per la qual cosa io chiesi a sua eccellenzia che mi fermassi una provvisione4 e che mi facessi consegnare le stanze della Zecca; il quale mi disse che io attendessi a servirlo e che lui mi darebbe molto più di quello che io gli domandavo; e intanto n1i disse che aveva dato commessione al maeall'alzano: cioè al guidatore delPalzana. 2. accade: occorre. 3. una moneta di quaranta soldi: per questa ed altre monete coniate per il duca Alessandro, si veda ancora il Trattato dell'Oreficeria (al capo xiv, Il modo di far medaglie per stampare in acciaio, e con il modo dello stampar monete: cfr. I trattati ecc., ed. Milanesi cit., p. 110, e qui avanti, p. 1039). 4. mi • .. proTJfJisione: mi fissasse uno stipendio. 1.

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stro della Zecca, il quale era un certo Carlo Acciaiuoli,1 ed a lui andassi per tutti li dinare che io volevo. E cosi trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente2 li danari che sempre restavo avere qualche cosa sicondo il mio conto. Di nuovo feci le stampe per il giulio,3 quale era un san Giovanni in profilo a sedere con un libro in mano, che a me non parve mai aver fatto opera cosi bella, e dall'altra banda era l'arme del ditto duca Lessandro. Appresso a questa io feci la stampa per i mezzi giuli, in nella quale io vi feci una testa in faccia di un san Giovannino. Questa fu la prima moneta con la testa in faccia in tanta sottigliezza di argento che mai si facessi; e questa tale difficultà non apparisce se none agli occhi di quelli che sono eccellenti in cotai professione. Appresso a questa io feci le stampe per li scudi d'oro; in nella quale era una croce da una banda con certi piccoli cherubini e dall'altra banda si era l'arme di sua eccellenzia. Fatto che io ebbi queste quattro sorte di monete, io pregai sua eccellenzia che terminassi la mia provvisione e mi consegnassi le sopradditte stanze, se a quella piaceva il mio servizio: alle qual parole sua eccellenzia mi disse benignamente che era molto contenta e che darebbe cotai ordini. i\1entre che io gli parlavo, sua eccellenzia era in nella sua guardaroba4 e considerava un mirabile scoppietto5 che gli era stato mandato della Alamagna: il quale bello strumento, vedutomi che io con grande attenzione lo guardavo, me lo porse in mano, dicendomi che sapeva benissimo quanto io di tal cosa mi dilettavo e che, per arra di quello che lui mi aveva promesso, io mi pigliassi della sua guardaroba un archibuso a mio modo, da quello in fuora; ché ben sapeva che ivi n'era molti de' più belli e cosi buoni. Alle qual parole io accettai e ringraziai: e, vedutomi dare alla cerca6 con gli occhi, commisse al suo guardaroba, che era un certo Pretino da Lucca,7 che mi lasciassi pigliare tutto quello che io volevo. E, partitosi con piacevolissime parole, io mi restai, e scelsi il più bello ed il migliore archibuso che io vedessi mai e che io avessi mai, e que-

1. Carlo di Roberto Acciaiuoli era maestro della Zecca fin dal 1530. assegnatamente: frugalmente. 3. il giulio: moneta, su cui vedi la nota 5 a p. 536. 4. guardaroba: è la stanza di casa in cui si conservavano, in genere, abiti ed arnesi. 5. scoppietto: schioppetto. 6. cerca: ricerca. 7. 1,n certo Pretino da Lucca: è certamente un messer Francesco da Lucca, detto Pretino, che risulta quale e guardaroba• del duca Cosimo, dal Libro (o Giornale) de' salariati, a carico della Depositeria generale dal 1543 al '45. 2.

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sto me lo portai a casa. Dua giorni di poi io gli portai certi disegnetti che sua eccellenzia mi aveva domandato per fare alcune opere d'oro, le quali voleva mandare a donare alla sua moglie, che per ancora era in Napoli.1 Di nuovo io gli domandai la medesima mia faccenda, che e' me la spedissi. Allora sua eccellenzia mi disse che voleva in prima che io gli facessi le stampe di un suo bel ritratto, come io avevo fatto a papa Clemente. Cominciai il ditto ritratto di cera; per la qual cosa sua eccellenzia commisse che a tutte l'ore che io andavo per ritrarlo sempre fussi messo drento.2 Io che vedevo che questa mia faccenda andava in lungo, chiamai un certo Pietro Pagolo da Monte Ritondo, 3 di quel di Roma, il quale era stato meco da picco! fanciulletto in Roma; e, trovatolo che gli stava cor un certo Bernardonaccio orafo4 il quale non lo trattava molto bene, per la qual cosa io lo levai da lui e benissimo gl'insegnai mettere quei ferri per le monete. E intanto io ritraevo il duca: e molte volte lo trovavo a dormicchiare dopo desinare con quel suo Lorenzino5 che poi l'ammazzò, e non altri; e io molto mi maravigliavo che un duca di quella sorte cosi si fidassi.

[LXXXI.] Accadde che Ottaviano de' Medici, 6 il quale pareva che governassi ogni cosa, volendo favorire contra la voglia del duca el maestro vecchio di Zecca, che si chiamava Bastiano Cennini,7 1. s11a moglie •.• Napoli: Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V e di Margherita Vangest. Le nozze di lei quattordicenne e del duca furono celebrate in Napoli nel febbraio 1536. 2. messo drento: fatto entrare. 3. Pietro Pagolo da Monterotondo: di casato Galeotti, incisore di conii. lVlorì nel 1584. Aveva lavorato anche a «nettare le figure dell'opera del Perseo 1, nel dicembre 15 52, come è registrato da un « quademuccio • del Cellini. 4. Bernardo11accio: Bernardo Baldini, gioielliere molto rinomato. Fece, a Firenze, la stima delle gioie del Duomo all'epoca dell'Assedio. Fu provveditore alla Zecca di Firenze, come ricorda il Cellini che, per altro, poco lo stimava. s. È Lore11zino di Pier Francesco de 1 l\tledici e di Maria Soderini. Trucidò il cugino Alessandro nella notte fra il 5 e il 6 gennaio 1537. Venne ucciso a sua volta a Venezia nel 1548. Nato nel 1514, lasciò frn l'altro una famosa Apologia. 6. Ottaviano de' il1edici: non era del ceppo né di Cosimo il Vecchio né del di lui fratello Lorenzo. Sposò Francesca, sorella del cardinale Salviati. 7. Bastiano Cen11ini, figlio di Bernardo, nacque nel 1481 e mori nel 1535. Il Cellini lo loda, per altro, nell'Introduzione al suo Trattato dell'Oreficeria (I trattati ecc., ed. Milanesi cit., p. 8): « Bastiano di Bernardetto Ce11nini fu orefice, et ancora costui lavorò molto universalmente. Li sua antichi e lui feciono molti anni le stampe delle monete della città di Firenze insino a che fu fatto duca Alessandro

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uomo all'anticaccia e di poco sapere, aveva fatto mescolare nelle stampe degli scudi quei sua goffi ferri con i mia. Per la qual cosa io me ne dolsi col duca; il quale, veduto il vero, lo ebbe molto per male, e mi disse: - Va', dillo a Ottaviano de' Medici e mostragnene. - Onde io subito andai e, mostratogli la ingiuria che era fatto alle mie belle monete, lui mi disse asinescamente: - Cosi ci piace di fare. - Al quale io risposi che così non era il dovere, e non piaceva a me. Lui disse: - E se cosi piacessi al duca? - Io gli risposi: - Non piacerebbe a me; ché non è giusto né ragionevole una tal cosa. - Disse che io me gli levassi d,intorno e che a quel modo la mangerei,1 se io crepassi. rutornatomene dal duca, gli narrai tutto quello che noi avevamo dispiacevolmente discorso Ottaviano de' Medici e io: per la qual cosa io pregavo sua eccellenzia che non lasciassi far torto alle belle monete che io gli avevo fatto, ed a me dessi buona licenzia.2 Allora e, disse: - Ottaviano ne wol troppo; e tu arai ciò che tu vorrai, perché cotesta è una ingiuria che si fa a me. - Questo giorno medesimo, che era un giovedi, mi venne di Roma un amplio salvocondotto dal papa, dicendomi che io andassi presto per la grazia delle Sante Marie di mezzo agosto, 3 acciò che io potessi liberarmi di quel sospetto4 dell'omicidio fatto. Andatomene dal duca lo trovai nel letto, perché dicevano che gli aveva disordinato. 5 E, finito in poco più di dua ore quello che mi bisognava alla sua medaglia di cera, monstrandognele6 finita, li piacque assai. Allora io rnostrai a sua eccellenzia il salvocondotto auto7 per ordine del papa e come il papa mi richiedeva che io gli facessi certe opere; per questo andrei a riguadagnare8 quella bella città di Roma, e intanto lo servirei della sua medaglia. A questo il duca disse mezzo in collora: - Benvenude' Medici, nipote di papa Clemente. Questo Bastiano nella sua giovanezza lavorò molto bene di grosseria e di cesello: e veramente che questo fu un valente praticone. E se bene io di sopra [a p. 6] dico di non volere ragionare dei praticonacci. qui bisogna distinguere da quegli che erano praticonacci, a quegli che io chiamo buoni praticoni, perché questi son degni di lode». (Cfr. qui avanti p. 973 e, per il rinvio, p. 972). 1. la mangerei: la trangugerei, la ingollerei. 2. me ••• licenzia: mi lasciasse libero dai suoi impegni. 3. la grazia ••• agosto: vedi la nota 4 a p. 655. 4. sospetto: accusa. s. aveva disordinato: aveva fatto gozzoviglia. 6. mostra11dognele: il Bacci ricorda che nel manoscritto si legge mostrandogne e che il le è • agg. d'ignota mano (o forse del Celi.?) con inch. più chiaro» e che dei codici uno legge mostrandogliele e tutti gli altri e tutte le stampe mostrandogliela. 7. auto: avuto. 8. riguadagnare: raggiungere.

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to, fa' a mio modo; non ti partire, perché io ti risolverò la provvisione e ti darò le stanze in Zecca con molto più di quello che tu non mi sapresti domandare, perché tu dimandi quello che è giusto e ragionevole: e chi vorrestù1 che mi mettessi le mia belle stampe2 che tu n1'ài fatte? - Allora io dissi: - Signore, e' s'è pensato a ogni cosa, perché io ò qui un mio discepole il quale è un giovane romano a chi io ò insegnato, che servirà benissimo la eccellenzia vostra per insino che io ritorno con la sua medaglia finita a starmi poi seco sempre. E, perché io ò in Roma la mia bottega aperta con lavoranti e alcune faccende, auto che io ò la grazia lascerò tutta la divozione3 di Roma a un mio allevato4 che è là, e di poi con la buona grazia di vostra eccellenzia me ne tornerò a lei. - A queste cose era presente quello Lorenzino sopraddetto de' Medici e non altri: il duca parecchi volte l'accennò che ancora lui mi dovessi confortare a fermarmi; per la qual cosa il ditto Lorenzino non disse mai altro se none: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a restare. - Al quale io dissi che io volevo riguadagnare Roma a ogni modo. Costui non disse altro, e stava continuamente guardando il duca con un malissimo occhio. Io, avendo finito a mio modo la medaglia ed avendola serrata nel suo cassettino, dissi al duca: - Signore, state di buona voglia; ché io vi farò molto più bella medaglia che io non feci a papa Clemente: ché la ragion vuole che io faccia meglio, essendo quella la prima che io facessi mai, e misser Lorenzo qui mi darà qualche bellissimo rovescio come persona dotta e di grandissimo ingegno. - A queste parole il ditto Lorenzo subito rispose dicendo: - Io non pensavo a altro, se none a darti un rovescio che fussi degno di sua eccellenzia. - El duca sogghignò e, guardato Lorenzo, disse: - Lorenzo, voi gli darete il rovescio, e lui lo farà qui e non si partirà. - Presto rispose Lorenzo dicendo: - Io lo farò il più presto ch'io posso, e spero far cosa da far maravigliare il mondo. 5 - Il duca, che lo teneva quando per pazzericcio e quando per poltrone, si voltolò nel voTTestù: vorresti tu. 2. 11.l'lletter le stampe significa accomodare convenientemente, aggiustare i conii per battervi la moneta• (Bianchi). 3. tutta la divozione: tutti i lavori. 4. allevato: allievo. 5. cosa da far ... mo11do: cioè un'impresa degna di essere illustrata nel rovescio della medaglia. « È evidente che qui si accenna per metafora al proposito già formato da Lorenzo di uccidere il Duca• (Bacci scol.). Si veda più avanti, nella Vita (p. 687), un nuovo riferimento a questo rovescio. 1.

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letto e si rise delle parole che gli aveva detto. lo mi parti' sanza altre cirimonie di licenzia, e gli lasciai insieme soli. Il duca, che non credette che io me ne andassi, non mi disse altro. Quando è' seppe poi che io m'ero partito, mi mandò drieto un suo servitore, il quale mi raggiunse a Siena e mi dette cinquanta ducati d'oro da parte del duca, dicendomi che io me gli godessi per suo amore e tornassi più presto che io potevo. - E da parte di misser Lorenzo ti dico che lui ti mette in ordine un rovescio maraviglioso per quella medaglia1 che tu vuoi fare. - Io avevo lasciato tutto l'ordine a Pietropagolo romano sopradditto in che modo egli avev'a mettere le stampe; ma, perché l'era cosa difficilissima, egli non le misse mai troppo bene. Restai creditore della Zecca, di fatture di mie ferri, di più di settanta scudi.

[LXXXII.] Me ne andai a Roma e meco ne portai quel bellissimo archibuso a ruota2 che mi aveva donato il duca, e con grandissimo mio piacere molte volte lo adoperai per la via, facendo con esso pruove inistimabile. Giunsi a Roma ;3 e, perché io tenevo una casetta in Istrada I ulia, la quale non essendo in ordine, io andai a scavalcare a casa di misser Giovanni Gaddi cherico di Camera (al quale io avevo lasciato in guardia al mio partir di Roma molte mie belle arme e molte altre cose che io avevo molte care); però io non volsi scavalcare alla bottega mia e mandai per quel Filice mio compagno, e fecesi mettere in ordine subito quella mia casina benissimo. Di poi l'altro giorno vi andai a dormir drento per essermi molto bene messo in ordine di panni e di tutto quello che mi faceva mestiero, volendo la mattina seguente andare a visitare il papa per ringraziarlo. Avevo dua servitori fanciulletti, e sotto alla casa mia ci era una lavandara la quale pulitissimamente mi cucinava. Avendo la sera dato cena a parecchi mia amici, con grandissimo piacere passato quella cena, ma ne andai a dormire: e non fu sì tosto appena passato la notte che la mattina più d'un'ora avanti I. quella medaglia: si crede che si tratti della medaglia che si trova al Museo Nazionale del Bargello, col busto del duca Alessandro nel diritto e una corona col motto II Solatia luctus exigua ingentis » nel rovescio. Il Ccllini l'avrebbe terminata a richiesta della vedova Margherita. (Tale medaglia fu, per vero, attribuita anche a Francesco da Prato e a Domenico di Polo.) 2. a ruota: «che si scaricava girando una ruota» (Carli). 3. Giunsi a Roma: pare, ai primi del giugno 1535.

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il giorno io senti' con grandissimo furore battere la porta della casa mia, che l'un colpo non aspettava l'altro. Per la qual cosa io chiamai quel mio servi tor maggiore, che aveva nome Cencio1 ( era quello che io menai nel cerchio di negromanzia): dissi che andassi a vedere chi era quel pazzo che a quell'ora cosi bestialmente picchiava. In mentre che Cencio andava,2 io, acceso un altro lume (ché continuamente uno sempre ne tengo la notte), subito mi missi addosso sopra la camicia una mirabil camicia di maglia, e sopra essa un poco di vestaccia a caso. Tornato Cencio, disse: - Oimè! padrone mio, egli è il bargello con tutta la corte, e dice che, se voi non fate presto, che getterà l'uscio in terra; e ànno torchi3 e mille cose con loro. - Al quale io dissi: - Di' loro che io mi metto un poco di vestaccia addosso, e così in camicia ne vengo. - Immaginatomi che e' fussi un assassinamento si come già fattomi dal signor Pierluigi,+ con la mano destra presi una mirabil daga che io avevo, con la sinistra il salvocondotto, 5 di poi corsi alla finestra didrieto, che rispondeva sopra certi orti, e quivi viddi più di trenta birri: per la qual cosa io cognobbi da quella banda non poter fuggire. Messomi que' dua fanciulletti innanzi, dissi loro che aprissino la porta quando io lo direi loro appunto. Messomi in ordine, la daga nella ritta e 'I salvocondotto nella manca, in atto veramente di difesa, dissi a que' dua fanciulletti: - Non abbiate paura, aprite. - Saltato subito Vittorio bargello6 con du' altri drento, pensando facilmente di poter mettermi le mani addosso, vedutomi in quel modo in ordine si ritirorno indietro, e dissono: - Qui bisogna altro che baie. - Allora io dissi, gittato loro il salvocondotto: - Leggete quello; e, non mi possendo pigliare, 1nanco voglio che mi tocchiate. - Il bargello allora disse a parecchi di quelli che mi pigliassino e che il salvocondotto si vedria da poi. A questo, ardito spinsi innanzi l'arme e dissi: - Iddio sia per la ragione: o vivo fuggo, o morto preso. - La stanza si era istretta: lor fecion segno di venire a me con forza, e io grande

1. Cencio: secondo alcuni non sarebbe quel Vincenzo Romoli, di cui in precedenza nella Vita (cfr. p. 635, nota 3), ma un Vincenzo Mantovano che divenne poi rinomato orefice. 2. andava: MS: adaua. 3. to,·chi: torce. 4. Pierluigi Famese. 5. il salvacondotto: quello datogli da Paolo Ili alla sua assunzione al pontificato. 6. Non risulta, per quegli anni, alcun Vittorio bargello in Roma. Si deve trattare d'una svista. Un Vittorio Puliti ebbe tale posto solo dal 1539.

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atto di difesa; per la qual cosa il bargello cognobbe di non mi poter avere in altro modo che quel che io avevo detto. Chiamato il cancelliere,1 in mentre che faceva leggere il salvocondotto fece segno dua o tre volte di farmi mettere le mani addosso; onde io non mi mossi mai da quella resoluzione fatta. Toltosi dalla impresa, mi gittorno il salvacondotto in terra, e senza me se ne andarono.2

[LXXXIII.] Tornatomi a riposare, mi senti' forte travagliato né mai possetti rappiccar sonno. Avevo fatto proposito che, come gli era giorno, di farmi trar sangue ;3 però ne presi consiglio da misser Giovanni Gaddi, e lui da un suo mediconzolo,4 il quale mi domandò se io avevo auto paura. Or cognoscete voi che giudizio di medico fu questo, avendogli conto un caso sl grande, e lui farmi una tal dimandal Questo era un certo civettino5 che rideva quasi continuamente e di nonnulla; e in quel modo ridendo mi disse che io pigliassi un buon bicchier di vin greco e che io attendessi a stare allegro e non aver paura. Misser Giovanni pur diceva: - Maestro, chi fussi di bronzo o di marmo, a questi casi tali arebbe paura; or maggiormente6 un uomo. - A questo quel mediconzolino disse: - Monsignore, noi non siamo tutti fatti a un modo: questo non è uomo né di bronzo né di marmo, ma è di ferro stietto.7 - E, messomi le mane al polso, con quelle sua sproposite8 risa disse a misser Giovanni: - Or toccate qui; questo non è polso di uomo, ma è d'un leone o d'un dragone. - Onde io, che avevo il polso forte, alterato forse fuor di quella misura che quel medico babbuasso non aveva imparata né da Ippocrate né da Galeno, sentivo ben io il mio male ma, per non mi far più paura né più danno di quello che auto io avevo, mi dimostravo di buon animo. In questo tanto il ditto misser Giovanni fece mettere in ordine da desinare, e tutti di compagnia mangiammo; la quale era, insieme con il ditto misser Giovanni, un certo misser Lodovico I. il cancelliere: « La corte del bargello, oltre ai birri, aveva un segretario, o cancelliere, che la seguiva, a quanto pare, anche nelle operazioni di polizia» (Carli). 2. andarono: MS: adaro110. 3. trar sanglle: il salasso era molto in uso nel Cinquecento. 4. un suo medico11zolo: il Cellini lo cita ancora più avanti, e lo chiama « maestro Bernardino». Si è pensato che fosse Bernardino Lilli da Todi, medico della Curia papale dal 1528. 5. civettino: nel senso di uomo leggero e di poca scienza. 6. maggiormente: a maggior ragione. 7. stietto: schietto. 8. sproposite: fuori di proposito.

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da Fano, misser Antonio Allegretti, misser Giovanni greco,1 tutte persone litteratissime, misser Annibal Caro, quale era molto giovane; né mai si ragionò d'altro a quel desinare che di questa brava faccenda. E più la facevan contare a quel Cencio mio servitorino, il quale era oltramodo ingegnoso, ardito e bellissimo di corpo; il che tutte le volte che lui contava questa mia arrabbiata faccenda, facendo l'attitudine che io faceva e benissimo dicendo le parole ancora che io dette aveva, sempre mi sovveniva2 qualcosa di nuovo; e spesso loro lo domandavano se egli aveva auto paura. Alle qual parole lui rispondeva che dimandassino me se io avevo auto paura, perché lui aveva auto quel medesimo che avevo auto io. Venutomi a noia questa pappolata3 e perché io mi sentivo alterato forte, mi levai da tavola dicendo che io volevo andare a vestirmi di nuovo di panni e seta azzurri, lui ed io; che volevo andare in processione ivi a quattro giorni, che veniva le Sante Marie, e volevo il ditto Cencio mi portassi il torchio4 bianco acceso. Così partitomi andai a tagliare e' panni azzurri con una bella vestetta di ermisino5 pure azzurro ed un saietto del simile; e a lui feci un saio ed una vesta di taffettà, pure azzurro. Tagliato che io ebbi le ditte cose, io me ne andai dal papa, il quale mi disse che io parlassi col suo misser Ambruogio ;6 ché aveva dato ordine che io facessi una grande opera d'oro. Così andai a trovare misser Ambruogio; il quale era informato benissimo della cosa del bargello ed era stato lui d'accordo con i nimici mia per farmi tornare, ed aveva isgridato il bargello che non mi aveva preso; il qual si scusava che contra a uno salvocondotto a quel modo lui non lo poteva fare. Il ditto misser Ambruogio mi cominciò a ragionare della faccenda che gli aveva commesso il papa; di poi mi disse che io ne facessi i disegni e che si darebbe ordine a ogni cosa. Intanto ne venne il giorno delle Sante Marie e, perché l'usanza si è, quelli che hanno queste cotai grazie, di constituirsi in prigione, per la qual cosa io mi ritornai al papa e dissi a sua santità che io non mi volevo metLodovico da Fano: letterato, di cui lasciarono menzione il Beccadelli e il Valenti; A11tonio Allegretti: verseggiatore fiorentino; Giof.Janni greco: ai è voluto identificare questo •grandissimo litterato • (come a p. 602 lo chiama il Cellini) col Giovanni Vergezio, gentiluomo greco, di cui alla nota 2 della citata p. 602. 2. mi sotJveniva: mi faceva ricordare. 3. pappolata: stupidaggine. 4. torchio: torcia. 5. ermisino: sorta di drnppo leggero, detto anche a ermesino •· 6. misser Ambruogio: il già menzionato primo segretario di papa Paolo III. 1.

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tere in prigione e che io pregavo quella che mi facessi tanto di grazia che io non andassi prigione.1 Il papa mi rispose che cosl era l'usanza, e così si facessi. A questo io m'inginocchiai di nuovo, e lo ringraziai del salvocondotto che sua santità mi aveva fatto; e che con quello me ne ritornerei a servire il mio duca di Firenze che con tanto desiderio mi aspettava. A queste parole il papa si volse a un suo fidato e -disse: - Faccisi a Benvenuto la grazia senza il carcere; cosi se gli acconci2 il suo moto propio, che stia bene. Fattosi acconciare il moto propio, il papa lo risegnò ;3 fecesi registrare al Campidoglio; di poi, quel deputato giorno, in mezzo a dua gentiluomini molto onoratamente andai in processione, ed ebbi la intera grazia.• Da poi quattro giorni appresso, mi prese una grandissima febbre con freddo inistimabile e, postomi a letto, subito mi giudicai mortale. Feci chiamare i primi medici di Roma, in fra i quali si era un maestro Francesco da Norcia, 5 medico vecchissimo e di maggior credito che avessi Roma. Contai alli detti medici quale io pensavo che fussi stata la causa del mio gran male e che io mi sarei voluto trar sangue, ma io fui consigliato di no; e, se io fussi a tempo, li pregavo che me ne traessino. Maestro Francesco rispose che il trarre sangue ora non era bene, ma allora sì, ché non arei auto un male al mondo: ora bisognava medicarmi per un'altra via. Così messono mano a medicarmi con quanta diligenzia e' potevano e sapevano al mondo, e io ogni di peggioravo a furia, in modo che in capo di otto giorni il mal crebbe tanto che li medici disperati della impresa detton commessione che io fussi contento6 e mi fussi dato tutto quello che io domandavo. Maestro Francesco disse: - Insinché v'è fiato, chiamatemi a tutte [LXXXIV.]

non andassi prigione: non fossi imprigionato. 2. acco11ci: metta in ordine. 3. risegnò: Io controfirmò. 4. andai .•. grazia: « Il Cellini fu liberato dalla Confraternita dei macellai e prese parte alla processione notturna che solevasi fare alla vigilia dell, Assunzione trasportando il simulacro del Salvatore da S. Giovanni in Laterano e quello della Madonna da S. Maria Maggiore 11 (D'Ancona). 5. Francesco da Norcia: Francesco Fusconi, medico di Adriano VI, Clemente VII e Paolo III. Era famoso per il suo sapere. Specialista della malaria (si vuole sia stato il primo a prescrivere che i malarici potessero mangiare), curò il Cellini in un aspro attacco di tale male. ,6. contento: accontentato. 1.

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l'ore, perché non si può immaginare quel che la natura sa fare in un giovane di questa sorte: però, avvenga che lui svenissi, fategli questi cinque rimedi run dietro all'altro e mandate per me, che io verrò a ogni ora della notte; ché più grato mi sarebbe di campar1 costui che qualsivoglia cardinal di Roma. - Ogni di mi veniva a visitare dua o tre volte misser Giovanni Gaddi, e ogni volta pigliava in mano di quei miei belli scoppietti e mie maglie e mie spade, e continuamente diceva: - Questa cosa è bella, e quesealtra è più bella. - Così di mia altri modelletti e coselline: di modo che io me l'avevo recato a noia. E con esso veniva un certo Mattio Franzesi,2 il quale pareva che gli paressi mill'anni ancora a lui io mi morissi, non perché a lui avessi a toccar nulla del mio ma pareva che lui desiderassi quel che misser- Giovanni mostrava aver gran voglia. Io avevo quel Filice già detto mio compagno, il quale mi dava il maggiore aiuto che mai al mondo potessi dare un uomo a un altro. La natura era debilitata e avvilita affatto,3 e non mi era restato tanta virtù4 che uscito il fiato io lo potessi ripigliare; ma si bene la saldezza del cervello istava forte, come la faceva come quando io non avevo male. In però stando cosi in cervello, mi veniva a trovare a letto un vecchio terribile, il quale mi voleva istrascicare per forza drento in una sua barca grandissima; per la qual cosa io chiamavo quel mio Felice, che si accostassi· a me e che cacciassi via quel vecchio ribaldo. Quel Felice, che mi era amorevolissimo, correva piagnendo e diceva: - Tira via, 5 vecchio traditore, che mi vuoi rubare ogni mio benel - Misser Giovanni Gaddi allora, ch'era quivi alla presenza, diceva: - Il poverino farnetica, e ce n'è per poche ore. - Quell'altro Mattio Franzesi diceva: - Gli à letto Dante,6 e in questa grande infermità gli è venuto questa vagillazione.7 - E diceva cosi ridendo: - Tira via, vecchio ribaldo, e non dar noia al nostro Benvenuto! - Vedutomi schernire, io mi volsi a misser Giovanni Gaddi ed a lui dissi: - Caro mio padrone, sappiate che io non farnetico e che gli è il vero di questo vecchio che mi dà questa gran noia; ma voi I. ca,npar: scampare, salvare. :z. Mattia Franzesi: fiorentino, poeta burlesco, amico di molti letterati dell'epoca. 3. La natt1ra ••• affatto: il mio fisico era estremamente debole e fiacco. 4. virt1ì: forza. s. Tira via: vattene. 6. Gli à letto Dante: nelrlnferno, 111, 82-1 I 1, la figura di Caronte può far pensare ad un precedente della visione di Benvenuto. 7. fJagillazione: farneticamento, delirio.

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faresti bene1 il meglio a levarmi d'innanzi cotesto isciagurato di Mattio che si ride del mio male: e, da poi che vostra signoria mi fa degno che io la vegga, doveresti venirci con misser Antonio Allegretti o con misser Annibal Caro o con di quelli altri vostri virtuosi, i quali son persone d'altra discrezione e d'altro ingegno che non è cotesta bestia. - Allora misser Giovanni disse per motteggio a quello Mattio che si gli levassi d'innanzi per sempre; ma, perché Mattio rise, il motteggio divenne daddovero,a perché mai più misser Giovanni non lo volse vedere e fece chiamare misser Antonio Allegretti e misser Lodovico3 e misser Annibal Caro. Giunti che furono questi uomini dabbene, io ne presi grandissimo conforto e con loro ragionai in cervello un pezzo, pure sollecitando Felice che cacciassi via il vecchio. Misser Lodovico mi dimandava quel che mi pareva vedere e come gli era fatto. In mentre che io gnene disegnavo con le parole bene, questo vecchio mi pigliava per un braccio, e per forza mi tirava a sé; per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino perché mi voleva gittar sotto coverta in quella sua spaventata4 barca. Ditto quest'ultima parola, mi venne uno sfinimento grandissimo, e a me parve che mi gettassi in quella barca. Dicono che allora, in questo svenire, che io mi scagliavo5 e che io dissi di male parole a misser Giovanni Gaddi sl che veniva per rubarmi6 e non per carità nessuna, e molte altre bruttissime parole, le quali fecion vergognare il ditto misser Giovanni. Di poi dissono che io mi fermai come morto: e soprastati7 più d'un'ora, parendo loro che io mi freddassi, per morto mi lasciorono. E, ritornati a casa loro, lo seppe quel Mattio Franzesi, il quale scrisse a Firenze a misser Benedetto Varchi,8 mio carissimo amico, che alle tante ore di notte lor9 mi avevano veduto morire. Per la qual cosa quel gran virtuoso10 di misser Benedetto, e mio amicissimo, sopra la non vera ma si ben creduta morte fece un mirabil sonetto, il quale si metterà al suo luogo.11 Passò più di tre grande I. bene: certo. z. il motteggio divenne daddovero: lo scherzo diventò una co• sa seria (Carli). 3. Lodovico da Fano, ricordato poco sopra (cfr. p. 673, nota 1). 4. spaventata: spaventevole. 5. mi scagliavo: 1 nù agitavo, come per avventarmi» (Carli). 6. rubarmi: derubarmi. 7. soprastati: avendo sostato. 8. Benedetto Varclii: il noto storico e filologo (1503-1565), amico del Cellini. Benché fosse del partito degli Strozzi che segui anche nell'impresa finita con la disfatta di Sestino, fu chiamato a Firenze da Cosimo I e da lui ebbe nel 1543 l'incarico di scrivere la storia di quegli anni. 9. lor: cioè la brigata del Gaddi. 10. fJirtuoso: valente. u. il quale .• • luogo: lo si veda qui avanti, a p. 678.

LA VITA • LIBRO PRIMO

ore prima che io mi rinvenissi: e fatto tutti e' rimedi del sopradditto maestro Francesco, veduto che io non mi risentivo,1 Felice mio carissimo si cacciò a correre a casa maestro Francesco da Norcia, e tanto picchiò che egli lo svegliò e fecelo levare, e piagnendo lo pregava che venissi a casa, ché pensava che io fussi morto. Al quale, maestro Francesco, che era collorosissimo, disse: - Figlio, che pensi tu che io faccia a venirvi ? Se gli è morto, a me duol egli più che a te: pensi tu che con la mia medicina, venendovi, io li possa soffiare in culo e rendertelo vivo? - Veduto che '1 povero giovane se ne andava piangendo, lo chiamò indrieto• e gli dette certo olio da ugnermi e' polsi e il cuore e che mi serrassino istrettissime le dita mignole de' piedi e delle mane e che, se io rinvenivo, che subito lo mandassino a chiamare. Partitosi Felice, fece quanto maestro Francesco gli aveva detto: e, essendo fatto quasi dì chiaro e parendo loro d'esser privi di speranza, dettono ordine a fare la vesta2 ed a lavarmi. In un tratto io mi risenti', e chiamai Felice che presto presto cacciassi via quel vecchio che mi dava noia. Il qual Felice volse mandare per maestro Francesco; ed io dissi che non mandassi e che venissi quivi da me, perché quel vecchio subito si partiva ed aveva paura di lui. Accostatosi Felice a me, io lo toccavo, e mi pareva che quel vecchio infuriato si scostassi; però lo pregavo che stessi sempre da me. Comparso maestro Francesco, disse che mi voleva campare a ogni modo e che non aveva mai veduto maggior virtù 3 in un giovane a' sua dì di quella; e dato mano allo scrivere mi fece4 profumi, lavande, unzione, impiastri e molte cose inistimabile. Intanto io mi risenti' con più di venti mignatte al culo, forato, legato e tutto macinato. 5 Essendo venuto molti mia amici a vedere il miracolo de il resuscitato morto, era comparso uomini di grande importanza ed assai, 6 presente i quali io dissi che quel poco dell'oro e de' danari, quali potevano essere in circa ottocento scudi fra oro argento gioie e danari, questi volevo che fussino della mia povera sorella che era a Firenze, quale aveva per nome monna Liperata; tutto il restante della roba mia, tanto arme quanto ogni altra cosa; volevo che fussino del mio carissimo Filice, e cinquanta ducati d'oro più, acciocché lui si potesse vestire. A queste parole Filice 1ni 1. non mi risentivo: non rinvenivo. 2. afare la vesta: •a preparare la veste da mettermi dopo mortoli (Carli). 3. virtù: forza. 4.fece: prescrisse. 5. macinato: cioè pesto. 6. assai: numerosi.

BENVENUTO CELLINI

si gittò al collo, dicendo che non voleva nulla, altro 1 che mi voleva vivo. Allora io dissi: - Se tu mi vuoi vivo, toccami a cotesto modo e sgrida a cotesto vecchio, che à di te paura. - A queste parole v'era di quelli che spaventavano,2 conosciuto che io non farneticavo ma parlavo a proposito ed in cervello. Cosi andò facendo il mio gran male, e poco miglioravo. Maestro Francesco eccellentissimo veniva quattro volte e cinque il giorno; misser Giovanni Gaddi, che s'era vergognato, non mi capitava più innanzi. Comparse il mio cognato, marito della ditta mia sorella: veniva di Fiorenze per la eredità. E, perché gli era molto uomo da bene, si rallegrò assai l'avermi trovato vivo: il quale a me dette un conforto inistimabile il vederlo, e subito mi fece carezze dicendo d'essere venuto solo per governarmi3 di sua mano propria: e cosi fece parecchi giorni. Di poi io ne lo mandai,4 avendo quasi sicura isperanza di salute. Allora lui lasciò il sonetto di misser Benedetto Varchi, quale è questo : IN LA CREDUTA E NON VERA MORTE DI BENVENUTO CELLINI

Chi ne consolerà, Mattio ?S chi fia clze ne vieti il morir piangendo, poi che pur è vero, oimè, che sanza noi cosi per tempo al ciel salita sia quella chiara alma amica, in cui fioria virtù cotal, che fino a' tempi suoi non vidde equal, né vedrà, credo, poi il mondo, o,ide i miglior si Juggon pria ? Spirto gentil, se fuor del morta[ velo s'ama, mira dal ciel clii in terra amasti piangei> non già 'l tuo ben, ma 'l proprio male. Tu te 'n sei gito a contemplar sù 'n cielo l'alto Fattore, e vivo il vedi or quale con le tue dotte man quaggiù il formasti.'

[Lxxxv.] Era la infirmità stata tanta inistimabile che non pareva possibile di venirne a fine; e quello uomo da bene di maestro I. altro: se non. 2. spaventavano: si spaventavano. 3. gOtJernarmi: aver cura di me. 4. ne lo mandai: cioè a lo rimandai a casa ». 5. Mattio Franzesi. 6. pianger: «dipende da mira del verso precedente» (Carli). 7. Il Ccllini ha chiamato «mirabil» questo sonetto del Varchi. Ma si noti col Carli: C1È uno dei soliti sonetti d'occasione, lodevole solo per quella pulitezza cli stile che è dote comunissima nei rimatori del Cinquecento».

LA VITA • LIBRO PRIMO

Francesco da Norcia ci durava più fatica che mai ed ogni giorno mi portava nuovi rimedii, cercando di consolidare il povero istemperato istrumento/ e con tutte quelle inistimabil fatiche non pareva che fussi possibile venire a capo di questa indegnazione ;2 in modo che tutti e' medici se ne erano quasi disperati e non sapevano più che fare. Io che avevo una sete inistimabile, e mi ero riguardato, si come loro mi avevano ordinato, di molti giorni; e quel Felice, che gli pareva aver fatto una bella impresa a camparmi, non si partiva mai da me; e quel vecchio non mi dava più tanta noia, ma in sogno qualche volta mi visitava. Un giorno Felice era andato fuora, e a guardia mia era restato un mio fattorino ed una serva che si chiamava Beatrice. lo dimandavo3 quel fattorino quel che era stato di quel Cencio mio ragazzo, e che voleva dire che io non lo avevo mai veduto a' mia bisogni. Questo fattorino mi disse che Cencio aveva auto assai maggior male di me e che gli stava in fine di morte.4 Felice aveva lor comandato che non me lo dicessino. Detto che m'ebbe tal cosa, io ne presi grandissimo dispiacere: di poi chiamai quella serva detta Beatrice, pistolese, e la pregai che mi portassi pieno d'acqua chiara e fresca un infrescatoio5 grande di cristallo che ivi era vicino. Questa donna corse subito e me lo portò pieno. lo li dissi che me lo appoggiassi alla bocca e che, se la me ne lasciava bere una sorsata a mio modo, io li donerei una gammurra.6 Questa serva, che m'aveva rubato certe cosette di qualche importanza, per paura che non si ritrovassi il furto arebbe auto molto a caro che io fussi morto; di modo che la mi lasciò bere di quell'acqua per dua riprese quant'io potetti, tanto che buonamente io ne bevvi più d'un fiasco: di poi mi copersi e cominciai a sudare e addormenta'mi. Tornato Felice di poi che io dovevo aver dormito in circa a un,ora, dimandò il fanciullo quel che io facevo. Il fanciullo gli disse: - lo non lo so; la Beatrice gli à portato pieno quello infrescatoio d'acqua, e l'à quasi beuto tutto: io non so ora se s'è morto o vivo. - Dicono che questo povero giovane fu per cadere in terra per il gran dispiacere che gli ebbe; di poi prese un mal bastone,7 e con esso disperata1. istemperato istrumento: cioè il corpo, ritenuto scherzevolmente uno strumento scordato. 2.. indeg,ra=ione: sdegno (della natura), cioè malattia ostinata. 3. dimandafJo: interrogavo. 4. in fine di morte: in fin di vita (o in punto di morte). 5. infrescatoio: •grande vaso da tenere in fresco bottiglie e altro» (Carli). 6. ga,nmr,"a: era una veste femminile. 7. un mal bastone: un bastonaccio.

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mente bastonava quella serva, dicendo: - Oimè, traditora, che tu 1ne l'ài mortol 1 - In mentre che Felice bastonava e lei gridava, e io sognavo e mi pareva che quel vecchio aveva delle corde in mano; e, volendo dare ordine di legarmi, Felice l'aveva sopraggiunto e gli dava con una scura," in modo che questo vecchio fuggiva dicendo: - Lasciami" andare, ché io non ci verrò di gran pezzo. - Intanto la Beatrice gridando forte era corsa in camera mia; per la qual cosa svegliatomi, dissi: - Lasciala stare, ché forse per farmi male ella m'à fatto tanto bene che tu non ài mai potuto con tutte le tue fatiche far nulla di quel che l'à fatto ogni cosa; attendetemi a 'iutare che io son sudato, e fate presto. Riprese Filice animo, mi rasciugò e confortò: e io, che senti' grandissimo miglioramento, mi promessi la salute. Comparso maestro Francesco, veduto il gran miglioramento e la serva piagnere e 'l fattorino correre innanzi e 'ndrieto e Filice ridere, questo scompiglio dette da credere al medico che vi fussi stato qualche stravagante caso, per la qual cosa fussi stato causa di quel mio gran miglioramento. Intanto comparse quell'altro maestro Bernardino che da principio non mi aveva voluto cavar sangue. Maestro Francesco, valentissimo uomo, disse: - Oh potenzia della natural lei sa e' bisogni sua, e i medici non sanno nulla. Subito rispose quel cervellino di maestro Bernardino e disse: - Se e' ne beeva più un fiasco,3 e' gli era subito guarito. - Maestro Francesco da Norcia, uomo vecchio e di grande autorità, disse: - Egli era il malan che Dio vi dia. - E poi si volse a me, e mi domandò se io ne arei potuta ber più. Al quale io dissi che no, perché io m'ero cavato la sete affatto. Allora lui si volse al ditta maestro Bernardino e disse: - Vedete voi che la natura aveva preso appunto il suo bisogno e non più e non manco? Cosl chiedev' ella il suo bisogno quando il povero giovane vi richiese di cavarsi sangue: se voi cognoscevi4 che la salute sua fussi stata ora in nel bere dua fiaschi d'acqua, perché non l'aver detto prima? e voi ne aresti auto il vanto. - A queste parole il mediconzolo5 ingrognato6 si parti, e non vi capitò mai più. Allora maestro Francesco disse che io fussi cavato di quella camera e che mi facessin morto: ucciso. z. scura: scure. 3. piiì, un fiasco: un fiasco di più. 4. cognoscevi: conoscevate. 5. Nel manoscritto, come dice il Bncci, •del solito inchiostro più chiaro è corr. in z l's di mediconsolo ». 6. ingrognato: «immusonito per la mortificazione» (Carli). 1.

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portare in verso un di quei colli di Roma. Il cardinal Cornaro, inteso il mio miglioramento, mi fece portare a un suo luogo1 che gli aveva in Monte Cavallo :2 la sera medesima io fui portato con gran diligenza in sur una sedia3 ben coperto e saldo.4 Giunto che io fui, cominciai a vomitare; in nel qual vomito mi usci dello stomaco un verme piloso, grande un quarto di braccio: e' peli erano grandi ed il verme era bruttissimo, macchiato di diversi colori, verdi, neri e rossi. Serbassi al medico; il quale disse non aver mai veduto una tal cosa, e poi disse a Felice: - Abbi or cura al tuo Benvenuto, che è guarito, e non gli lasciar far disordini; perché, se ben quello l'à campato, un altro disordine ora te lo ammazzerebbe: tu vedi, la infermità è stata sì grande che portandogli l'olio santo noi non eràmo5 stati a tempo. Ora io cognosco che con un poco di pazienzia e di tempo e' farà ancora dell'altre belle opere. - Poi si volse a me e disse: - Benvenuto mio, sia savio a non fare disordini nessuno; e, come tu se' guarito, voglio che tu mi faccia una Nostra Donna6 di tua mano, perché la voglio adorar sempre per tuo amore. - Allora io gnene promessi; di poi lo domandai se fussi bene che io mi trasferissi insino a Firenze. Allora e' mi disse che io mi assicurassi un po' meglio e che e' si vedessi quel che la natura faceva. Passato che noi7 otto giorni, il miglioramento era tanto poco che quasi io m'ero venuto a noia a me medesimo perché io ero stato più di cinquanta giorni in quel gran travaglio; e resolutomi mi messi in ordine, e in un paio di ceste8 il mio caro Filice ed io ce ne andammo alla volta di Firenze e, perché io non avevo scritto nulla, giunsi a Firenze9 in casa la mia sorella dove io fui pianto e riso a un colpo da essa sorella. Per quel di mi venne a vedere molti mia amici; fra gli artri1° Pier Landi,11 ch'era il maggior ed il più caro che io avessi mai al mondo. L'altro giorno12 venne un [LXXXVI.]

luogo: villa, casa. 2. Monte Cavallo: nei pressi del Palazzo del Quirinale. 3. sedia: portantina. 4. saldo: per evitare urti. 5. eràmo: eravamo (cioè saremmo). 6. una Nostra Donna: un'immagine della Madonna. 7. Passato che noi: sottinteso II avemmo•· 8. ceste: vetture. (D'Ancona: • In origine così si denominavano due grandi panieri di vimini che si adattavano al dorso dei cavalli per il trasporto delle persone»). 9. giunsi a Firenze: il 9 novembre 1535, come si rileva esattamente da una lettera del Varchi al Bembo. 10. artri: altri (forma popolare). II. Pie, Landi: già menzionato; vedi p. 530 e la nota 7. 12. L'altro giorno: l'indomani. I.

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certo Nicolò da Monte Aguto,1 il quale era mio grandissimo ami• co, e, perché gli aveva sentito dire al duca: - Benvenuto faceva molto meglio a morirsi, perché gli è venuto qui a dare in una cavezza,2 e non gnene3 perdonerò mai-, venendo Nicolò a me, disperatamente mi disse: - Oimè, Benvenuto mio caro, che se' tu venuto a far qui? Non sapevi tu quel che tu ài fatto contro al duca? Che gli ò udito giurare, dicendo che tu sei venuto a dare in una cavezza a ogni modo. - Allora io dissi: - Nicolò, ricordate a sua eccellenzia che altrettanto già mi volse fare papa Clemente, e a sì gran torto; che faccia tener conto di me e mi lasci guarire; per che io mostrerrò a sua eccellenzia che io gli sono stato il più fidel servitore che gli arà mai in tempo di sua vita, e, perché qualche mio nimico arà fatto per invidia questo cattivo uffizio, aspetti la mia sanità,4 che come io posso gli renderò tal conto di me che io lo farò maravigliare. - Questo cattivo uffizio l'aveva fatto Giorgetto Vassellario 5 aretino, dipintore, forse per remunerazione di tanti benifizii fatti a lui, che, avendolo trattenuto in Roma e datogli le spese e lui messomi a soqquadro la casa (perché gli aveva una sua lebbrolina secca, la quale gli aveva usato le mane a grattar sem- · pre, e, dormendo con un buon garzone che io avevo che si do1nandava6 Manno,7 pensando di grattar sé, gli aveva scorticato una gamba al detto Manno con certe sua sporche manine le quale non si tagliava mai l'ugna; il ditto Manno prese da me licenza, e lui lo voleva ammazzare a ogni modo: io gli messi d'accordo; di poi acconciai il detto Giorgio col cardinal de' Medici, e sempre lo aiutai). Questo è il merito,8 che lui aveva detto al duca Lessandro ch'io avevo detto male di sua eccellenzia e che io m'ero vantato di volere essere il primo a saltare in su le mura di Firenze d'accordo con li nimici di sua eccellenzia fuorausciti. 9 Queste parole, sicondo che io intesi poi, gliene faceva dire quel galantuomo10 di Ottaviano de' Medici, volendosi vendicare della stizza che aveva NicoliJ da Monte Aguto: anche questi già ricordato dal Cellini; vedi a p. 658. 2. a dare in una cavezza: a farsi impiccare. 3. g11ene: MS: gne (e come avverte il Bacci un a secondo gne è soprar. di altro inch. e carattere•). 4. aspetti la mia sanità: aspetti che io sia guarito. 5. Giorgetto Vassellario: cioè Giorgio Vasari che è spesso menzionato dal Cellini nella Vita e nelle Rime «con non molta stima•, sebbene il Vasari abbia accennato a lui, nelle Vite, « con imparzialità e giustizia• (Bacci). 6. si do111a11dava: si chiamava. 7. Manna Sbarri, orefice fiorentino, era molto amico del Vasari. 8. merito: ricompensa. 9.fuorausciti: MS: fuorasciti. 10. galantuomo: detto ironicam.ente. I.

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auto il duca seco per conto delle monete e della mia partita di Firenze; ma io, ch'ero innocente di quel falso appostami, non ebbi una paura al n1ondo ed il valente maestro Francesco da Montevarchi1 con grandissima virtù mi medicava; e ve lo aveva condotto il mio carissimo amico Luca Martini,2 il quale la maggior parte del giorno si stava meco.

[LXXXVII.] Intanto io avevo rimandato a Roma il fidelissimo Filice alla cura delle faccende di là. Sollevato alquanto la testa dal primaccio,3 che fu in termine di quindici giorni, se bene io non potevo andare con i mia piedi, mi feci portare in nel palazzo de' Medici, sù dove è il terrazzino: cosi mi feci mettere a sedere4 per aspettare il duca che passassi. E, facendomi motto molti mia amici di Corte, molto si maravigliavano che io avessi preso quel disagio a farmi portare in quel modo, essendo dalla infirmità si mal condotto ; dicendomi che io dovevo pure aspettar d'esser guarito e di poi visitare il duca. Essendo assai insieme ragunati, e tutti mi guardavano per miracolo non tanto avere inteso che io ero morto, ma più pareva loro miracolo che come morto parevo loro. Allora io dissi, presente tutti, come gli era stato detto da qualche scellerato ribaldo al mio signor duca che io mi ero vantato di volere essere il primo a salire in su le mura di sua eccellenzia e che appresso io avevo detto male di quella; per la qual cosa a me non bastava la vista5 di vivere né di morire se prima io non mi purgavo da questa infamia e conoscere chi fussi quel temerario ribaldo che avessi fatto quel falso rapporto. A queste parole s'era ragunato una gran quantità di que' gentiluomini, e, mostrando avere di me grandissima compassione e chi diceva una cosa e chi un'altra, io dissi che mai più mi volevo partir di quivi insin che io non sapevo chi era quello che mi aveva accusato. A queste parole s'accostò fra tutti quei gentiluomini maestro Agostino, sarto del duca, e disse: - Se tu non vuoi sapere altro che cotesto, ora ora lo saprai. Appunto passava Giorgio sopradditto, dipintore; allora maestro Agustina disse: - Ecco chi t'à accusato: ora tu sai tu se gli è vero

r

maestro Francesco Catani da Montevarchi, medico e studioso di belle arti, fu molto ammirato dal Varchi nell 1Ercolano. 2. Luca Marti11i: personaggio con cui il Cellini fu in corrispondenza. Ebbe grande autorità alla Corte di Cosimo I in Firenze. Fu anche provveditore in Pisa e poeta burlesco. 3. pri,,,accio: piumaccio. + sedere: MS: sedre. 5. non bastava la vista: non bastava l'animo. 1.

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o no. Io arditan1ente, cosi come io non mi potevo muovere, dimandai Giorgio se tal cosa era vera. Il ditto Giorgio disse che no, che non era vero e che non aveva mai detto tal cosa. Maestro Austino disse: - O impiccato, non sai tu che io lo so certissimo? Subito Giorgio si partì e disse che no, che lui non era stato. Stette poco e passò 'l duca; al quale io subito mi feci sostenere innanzi a sua eccellenzia, e lui si fermò. Allora io dissi che io ero venuto quivi a quel modo solo per iusti.ficarmi. Il duca mi guardava e si maravigliava che io fussi vivo; di poi mi disse che io attendessi a essere uomo dabbene e guarire. Tornatomi a casa, Niccolò da Monte Aguto mi venne a trovare, e mi disse che io avevo passato una di quelle furie la maggiore del mondo quale lui non aveva mai creduto, perché vidde il male mio scritto d'un immutabile inchiostro, e che io attendessi a guarire presto e poi mi andassi con Dio, perché la veniva d'un luogo e da uomo il quale mi arebbe fatto male. E poi ditto: - Guarti1 - , e' mi disse: - Che dispiaceri à' tu fatti a quel ribaldaccio di Ottaviano de' Medici? lo gli dissi che mai io avevo fatto dispiacere a lui, ma che lui ne aveva ben fatti a me. E, contatogli tutto il caso della Zecca, e' mi disse: - Vatti con Dio il più presto che tu puoi e sta' di buona voglia, ché più presto che tu non credi vedrai le tua vendette. Io attesi a guarire: detti consiglio a Pietro Pagalo ne' casi delle stampe delle monete; di poi m'andai con Dio, ritornandomi a Roma, sanza far motto al duca o altro. Giunto che io fui a Roma, rallegratomi assai con li mia amici, cominciai la medaglia del duca; e avevo di già fatto in pochi giorni la testa in acciaio, più bella opera che mai io avessi fatto in quel genere, e mi veniva a vedere ogni giorno una volta almanco un certo iscioccone chiamato misser Francesco Soderini; 3 e, veduto quel che io facevo, più volte mi disse: - Oimè, crudelaccio, tu ci vuoi pure immortalare questo arrabbiato tiranno! E, perché tu non facesti mai opera sl bella, a questo si cognosce che tu sei sviscerato3 nimico nostro e tanto amico loro che il papa e lui t'ànno pur voluto fare impiccar dua volte a torto: quel fu il Padre e il Figliuolo; guardati ora dallo Spirito Santo. - Per [LXXXVIII.]

1. Guarti: guardati. 2. Francesco Soderini: era stato confinato a Spello nel 1530 con altri antimedicei. 3. sviJcerato: MS: suicerato.

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certo si teneva che il duca Lessandro fussi figliuolo di papa Clemente.1 Ancora diceva il ditto misser Francesco, e giurava ispressamente che, se lui poteva, che m'arebbe rubato que' ferri 2 di quella medaglia. Al qual io dissi che gli aveva fatto bene a dirmelo e che io gli guarderei di sorte che lui non gli vedrebbe mai più. Feci intendere a Firenze che dicessino a Lorenzino che mi mandassi il rovescio della medaglia. Niccolò da Monte Aguto, a chi io l'avevo scritto, mi scrisse cosi dicendomi che n'aveva domandato quel pazzo malinconico filosafo cli Lorenzino ;3 il quale gli aveva detto che giorno e notte non pensava ad altro e che egli lo farebbe più presto ch'egli avessi possuto: però mi disse che io non ponessi speranza a' suo rovescio e che io ne facessi uno da per me4 di mia pura invenzione e che, finito che io l'avessi, liberamente lo portassi al duca, ché buon per me. Avendo fatto io un disegno d'un rovescio qual mi pareva a proposito, e con più sollecitudine che io potevo lo tiravo innanzi ; ma, perché io non ero ancora assicurato di quella ismisurata infirmità, mi pigliavo assai piaceri in nell'andare a caccia col mio scoppietto insieme con quel mio caro Filice, il quale non sapeva far nulla dell'arte mia; ma, perché di continuo di e notte noi eràmo insieme, ognuno s'immaginava che lui fussi eccellentissimo nell'arte. Per la qual cosa, lui ch'era piacevolissimo,5 mille volte ci ridemmo insieme di questo gran credito che lui si aveva acquistato e, perché egli si domandava Filice Guadagni, diceva motteggiando meco: - Io mi chiamerei Filice Guadagni-poco, se non che voi mi avete fatto acquistare un tanto gran credito che io mi posso domandare de' Guadagni-assai. - E io gli dicevo che e' sono dua modi di guadagnare: il primo è quello che si guadagna a sé, il sicondo si è quello che si guadagna ad altri; di modo che io lodavo in lui molto più quel sicondo modo che 'l primo, avendomi egli guadagnato la vita. Questi ragionamenti noi gli avemmo più e più volte, ma in fra l'altre un di dell'Epifania che noi eràmo insieme presso alla Magliana6 e di già era quasi finito il giorno: il qual giorno io avevo ammazzato col mio scopsi teneva . .• Clemente: era una credenza assai diffusa in quel tempo. conii. 3. qr,el .•. Lorenzino: questo particolare del carattere di Lorenzino de' Medici è pur documentato dalla tradizione letteraria. 4. da per me: da me (da solo). 5. piacevolissimo: molto faceto. 6. 1v.lagliana: castello da coccia in riva al Tevere, a dieci chilometri da Roma. Fu costruito da Innocenzo VIII e acc;resciuto da Giulio II. Leone X vi andava spesso a cacciare. I.

2. /erri:

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pietto dell'anitre e dell'oche assai bene1 e, quasi resolutomi di non tirar più, il giorno ce ne venivamo sollecitamente in verso Roma. Chiamando il mio cane, il quale chiamavo per nome Barucco, non me lo vedendo innanzi mi volsi e vidi che il ditto cane ammaestrato guardava certe oche che s'erano appollaiate in un fossato. Per la qual cosa io subito iscesi ;2 messo in ordine il mio buono scoppietto, molto lontano tirai loro e ne investi' 3 dua con la sola palla; ché mai non volsi tirare con altro che con la sola palla, con la quale io tiravo dugento braccia ed il più delle volte investivo; che con quell'altri modi non si può far così. Di modo che, avendo investito le dua oche, una quasi che morta e l'altra ferita, che cosl ferita volava malamente, questa la seguitò il mio cane e portommela; l'altra, veduto che la si tuffava addrento in nel fossato, li sopraggiunsi addosso. Fidandomi de' mia stivali eh' erano assai alti, spignendo il piede innanzi mi si sfondò sotto il terreno: se bene io presi l'oca, avevo pieno lo stivale della gamba ritta4 tutto d'acqua. Alzato il piede all'aria, votai l'acqua e, montato a cavallo, ci sollecitavàno di tornarcene a Roma, ma, perché egli era gran freddo, io mi sentivo di sorte diacciare la gamba che io dissi a Filice: - Qui bisogna soccorrer questa gamba, perché io non cognosco più modo a poterla sopportare. - Il buon Filice sanza dire altro scese del suo cavallo e, preso cardi e legnuzzi e dato ordine di voler 5 far fuoco, in questo mentre che io aspettavo, avendo poste le mane in fra le piume del petto di quell'oche, senti' assai caldo; per la qual cosa io non lasciai fare altrimenti fuoco, ma empie' quel mio stivale di quelle piume di quell'oca, e subito io sentii tanto conforto che mi dette la vita.

[LXXXIX.] Montati a cavallo, venivamo sollecitamente alla volta di Roma. Arrivati che noi fummo in un certo poco di rialto,6 era di già fatto notte, guardando in verso Firenze, tutti a dua d'accordo movemmo gran voce di maraviglia, dicendo: - O Dio del cielo, che gran cosa è quella che si vede sopra Firenze? Questo si era com'un gran trave di fuoco, il quale scintillava e rendeva grandissimo splendore. lo dissi a Filice: - Certo noi sentiremo domane qualche gran cosa sarà stata a Firenze. - Cosi I. assai bene: in gran numero. 2. iscesi.: smon tni. 4. ritta: destra. 5. dato .•• voler: ordinato tutto per. una piccola altura.

J. intJesti•: colpii. 6. in ..• rialto! su

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venuticene a Roma, era un buio grandissimo: e, quando noi fummo arrivati vicino a, Banchi1 e vicino alla casa nostra, io avevo un cavalletto sotto, il quale andava di portante2 furiosissimo 3 di modo che, essendosi el dl fatto un monte di calcinacci e tegoli rotti nel mezzo della strada, quel mio cavallo non vedendo il monte ned4 io, con quella furia lo salse ;5 di poi allo scendere traboccò in modo che fare6 un tombolo: si messe la testa in fra le gambe onde io per propria virtù de Dio non mi feci un male al mondo. Cavato fuora e' lumi da' vicini a quel gran romore, io ch'ero saltato in piè, cosi, sanza montare' altrimenti, me ne corsi a casa ridendo, che avevo scampato una fortuna 8 da rompere il collo. Giunto a casa mia, vi trovai certi mia amici ai quali, in mentre che noi cenavamo insieme, contavo loro le istrettezze della caccia e quella diavoleria del trave di fuoco che noi avevamo veduto. E' quali dicevano: - Che domin9 vorrà significar cotesto? - Io dissi: - Qualche novità è forza che sia avvenuto a Firenze. - Cosi passatoci la cena piacevolmente, l'altro giorno10 al tardi venne la nuova a Roma della morte del duca Lessandro.11 Per la qual cosa molti mia conoscenti mi venivan dicendo: - Tu dicesti bene, che sopra Firenze saria accaduto qualche gran cosa. - In questo veniva a saltacchione12 in sun una sua mulettaccia quel misser Francesco Soderini. Ridendo per la via forte alla 'mpazzata, diceva: - Quest'è il rovescio della medaglia di quello iscellerato tiranno, che t'aveva promesso il tuo 13 Lorenzino de' Medici. - E di più aggiugneva: - Tu ci volevi immortalare e' duchi: noi non vogliam più duchi. E quivi mi faceva le baie14 come se io fussi stato un capo di quelle sette15 che fanno e' duchi. In questo e' sopraggiunse un certo Baccio Bettini,1 6 il quale aveva un capaccio come un corbello, ed an1.

a' Banchi: il Bacci, come già altra volta, dà secondo l'autografo, «al

Banchi». Correggiamo revidente svista dell'amanuense. (Carli: «a Banchi».) 2. andava di portante: cioè aveva «un'andatura a passi corti e veloci mossi in contrattempo, la quale dicesi anche ambio, comodissima al cavalcante n (Bianchi). 3. furiosissimo: di gran fretta. 4. ned: n~. (MS: nét). 5. salse: sall. 6. in modo che fare: tanto da fare. 7. montare: a cavallo. 8. una fortuna: un pericolo. 9. Che domin: che diavolo. 10. l'altro giorno: l'indomani. 11. la nuova .•. Lessandro: il duca Alessandro de' lVIedici venne ucciso nella notte fra il 5 e il 6 gennaio 1537. I 2. a saltaccliione: a salti sgraziati (Bacci scol.). I 3. u Quel tuo, sulle labbra del Sodcrini, suona insieme canzonatura e rimprovero pel Cellini, che si mostrava tanto affezionato a tutti i Medici» (Carli). 14. mi faceva le baie: mi canzonava. 15. sette: fazioni politiche. 16. Baccio Bettini: un

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cora lui mi dava la baia di questi duchi dicendomi: - Noi gli abbiamo isducati, e1 non arem più duchi, e tu ce gli volevi fare immortali - con di molte di queste parole fastidiose,2 le quali venutemi troppo a noia, io dissi loro: - O isciocconi, io sono un povero orefice, il quale servo chi mi paga, e voi mi fate le baie come se io fussi un capo di parte: ma io non voglio per questo rimproverare a voi le insaziabilità, pazzie e dappocaggine de' vostri passati,3 ma io dico bene a coteste tante risa isciocche che voi fate che, innanzi che e' passi dua o tre giorni il più lungo, 4 voi arete un altro duca, forse molto peggiore di questo passato. - L'altro giorno appresso venne a bottega mia quello de' Bettini, e mi disse: - E' non accadrebbe lo ispendere dinari in corrieri, perché tu sai le cose innanzi che le si faccino: che spirito è quello che te le dice? - E 5 mi disse come Cosimo de' Medici, 6 figliuolo del signor Giovanni, era fatto duca: ma che gli era fatto con certe condizioni, le quali l'arebbono tenuto che lui non arebbe potuto isvolazzare a suo modo.7 Allora toccò a me a ridermi di loro, e dissi: - Cotesti uomini di Firenze hanno messo un giovane sopra un maraviglioso cavallo, poi gli ànno messo gli sproni, e datogli la briglia in mano in sua libertà, e messolo in sun un bellissimo campo, dove è fiori e frutti e moltissime delizie; poi gli ànno detto che lui non passi certi contrassegnati termini : or ditemi a me voi chi è quello che tener lo possa, quando lui passar li voglia. Le legge non si

altro fuoruscito fiorentino, a cui - secondo che narra il Vasari - Michelangelo «fece e donò W1 cartone d'una Venere con Cupido che la bacia, che è cosa divina». Per suo tramite il Busini mandò al Varchi le proprie Lettere sull'assedio di Firenze. 1. e: MS: e'. 2. fastidiose: « Questa parola rileva e riassume il contrasto profondo fra Benvenuto e quei suoi schernitori: essi vivevano tutti nella febbre della libertà» (Carli). Si può notare come. nell'incontro con gli esuli, pur dimostrando fierezza personale il Cellini sia aspro e ingeneroso. Non è però necessario eccedere, come è stato fatto, in giudizi moralistici contro l'artista. 3. le insaziabilità . •• passati: con riferimento ad abusi ed errori dei repubblicani antimedicei, specie al tempo di Pier Sodcrini, ma seguendo notizie storiche di fonte medicea. 4. i/ più lu11go: al più. 5. E: MS: E'. 6. Il 9 gennaio 1537 Cosimo de' Medici prese il titolo di duca; prima era solo chiamato 11 capo e governatore della repubblica». Figlio di Giovanni delle Bande Nere, Cosimo I il Grande (1519-1574) nel 1548 acquistò l'isola d'Elba e nel '57 Siena; nel 1564 abdicò in favore del figlio Francesco, pur non abbandonando la suprema direzione dello Stato; nel 1569 ebbe dal papa il titolo di granduca di Toscana. 7. imolazzare a suo modo: cioè a governare a capriccio • (Carli).

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posson dare a chi è padron di esse. - Cosi mi lasciorno stare, e non mi davon più noia. [xc.] Avendo atteso alla mia bottega, e seguitavo alcune mie faccende, non già di molto momento, perché mi attendevo alla restaurazione della sanità1 e ancora non mi pareva essere assicurato dalla grande infirmità che io avevo passata. In questo mentre lo imperatore tornava vittorioso dalla impresa di Tunizi2 ed il papa aveva mandato per me e meco si consigliava che sorte di onorato presente io lo consigliavo per donare allo imperadore. Al quale io dissi che il più a proposito mi pareva donare a sua maestà una croce d'oro con un Cristo, al quale io avevo quasi fatto un ornamento, il quale sarebbe grandemente a proposito e farebbe grandissimo onore a sua santità ed a me. Avendo già fatto tre figurette d'oro, tonde, di grandezza di un palmo in circa (queste ditte figure furno quelle che io avevo cominciate per il calice di papa Clemente :3 erano figurate per la Fede, la Speranza e la Carità), onde io aggiunsi di cera tutto il restante del piè di detta croce e, portatolo al papa con il Cristo di cera e con molti bellissimi ornamenti, sadisfece grandemente al papa; e, innanzi che io mi partissi da sua santità, rimanemmo conformi di tutto quello che si aveva a fare e appresso valutammo la fattura di detta opera. Questo fu una sera a quattro ore di notte :4 cl papa aveva dato commessione a misser Latino I uvinale che mi facessi dar danari la mattina seguente. Parve al detto misser Latino, che aveva una gran vena di pazzo, di volere dar nuova invenzione5 al papa, la qual venissi da lui stietto ;6 ché egli disturbò tutto quello che si era ordinato e la mattina, quando io pensai andare per li dinari, disse con quella sua bestiale prosunzione: - A noi tocca a essere gl'inventori ed a voi gli operatori: innanzi che io partissi la sera dal papa, noi pensammo una cosa molto migliore. - Alle qual prime parole, non lo lasciando andar più innanzi, gli dissi: - Né voi né il papa non può mai pensare cosa migliore che quelle dove e' s'interviene Cristo; si che dite ora quante pappolate cortigianesche voi sapete. I. restaurazione della sanità: ristabilimento della salute. 2, lo imperatore ... Tunizi: Carlo V giunse a Napoli dopo la conquista di Tunisi, il 30 novembre 1535. 3. il calice di papa Clemente: di questo calice già il Cellini aveva a lungo parlato. Vedi a pp. 618 e 632. 4. di notte: a partire dnl tramonto. 5. invenzione: suggerimento. 6. stietto: schietto (cioè interamente). 44

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Sanza dir altro si partl da me in collora e cercò di dare la ditta opera a un altro orefice; ma il papa non volse, e subito mandò per me e mi disse che io avevo detto bene, ma che si volevan servire di un uffiziuolo di Madonna,1 il quale era miniato maravigliosamente e ch'era costo2 al cardinal de' Medici a farlo miniare più di dumila scudi. E questo sarebbe a proposito per fare un presente alla imperatrice, e che allo imperadore farebbon poi quello .che avevo ordinato3 io, che veramente era presente degno di lui; ma questo si faceva per aver poco tempo, perché lo imperadore s'aspettava in Roma in fra un mese e mezzo. Al ditto libro voleva fare una coperta d'oro massiccio, riccamente lavorata e con molte gioie adorna. Le gioie valevano in circa seimila scudi: di modo che, datomi le gioie e roro, messi mano alla ditta opera e, sollecitandola, in brevi giorni io la feci comparire di tanta bellezza che il papa si maravigliava e mi faceva grandissimi favori con patti che quella bestia dell'luvinale non mi venissi intorno. Avendo la ditta opera vicina alla fine, comparse lo imperadore, a il quale s'era fatti molti mirabili archi trionfali ;4 e, giunto in Roma con maravigliosa pompa (qual toccherà a scrivere ad altri perché non vo' trattare se non di quel che tocca a me), alla sua giunta5 subito egli donò al papa un diamante il quale lui aveva compero6 dodicimila scudi. Questo diamante, il papa mandò per me e me lo dette, che io gli facessi7 un anello alla misura del dito di sua santità; ma che voleva che io portassi prima el libro al termine che gli era.8 Portato che io ebbi el libro al papa, grandemente gli sodisfece; di poi si consigliava meco che scusa e' si poteva trovare con lo imperadore,

un uffiziuolo di Madonna: per l'invano progettato «bel Crocifisso d'oro posto in su una croce di lapis lazzuli, la quale è una pietra azzurra che se ne fa l'azzurro oltramarino; et il piede di questa croce fussi d'oro riccamente lavorato, et adornato di gioie, secondo il valore che piaceva a Sua Santità• e, quindi, per la a: coperta d'oro fine, arricchita con quella quantità di gioie che e' piaceva di mettervi a Sua Santità» per l'« ufiziuolo di Madonna miniato, il quale aveva fatto fare il cardinale Ippolito de' Medici per donare alla signora Julia di Casa Gonzaga II si veda il Trattato dell'Oreficeria, capo VIII, Come s'acconcia il diamante (ne I trattati, ed. Milanesi cit., pp. 53-4, e qui avanti, pp. rooz-3). 2. costo: costato. 3. ordinato: preparato. 4. comparse ••. trionfali: Carlo V entrò in Roma il s aprile 1536: egli si recò solennemente alla Basilica vaticana passando sotto gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio Severo. 5. giunta: arrivo. 6. compero: comperato. 7. / acessi: acconciassi. 8. al termine che gli era: cioè incompiuto come era. I.

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che fussi valida, per essere quella ditta opera imprefetta.r Allora io dissi che la valida iscusa si era che io arei detto della mia indisposizione, la quale sua maestà arebbe facilissimamentè creduta, vedendomi così macilente e scuro come io ero. A questo il papa dis-se che molto gli piaceva; ma che io arrogessi2 da parte di sua santità, facendogli presente del libro, di fargli presente di me istesso: e mi disse tutto il modo che io avevo a tenere, delle parole che io avevo a dire, le qual parole io le dissi al papa, domandandolo se gli piaceva che io dicessi così. Il quale mi disse: - Troppo bene diresti, se a te bastassi la vista di parlare in questo modo allo imperadore che tu parli a me. - Allora io dissi che con molta maggior sicurtà mi bastava la vista di parlare con lo imperadore, avvenga che lo imperatore andava vestito come mi andavo io, e che a me saria parso parlare a un uomo che fussi fatto come me; qual cosa non mi interveniva cosi parlando con sua santità, in nella quale io vi vedevo molto maggior deità, 3 sì per gli ornamenti ecclesiastici, quali mi mostravano una certa diadema, insieme con la bella vecchiaia di sua santità: tutte queste cose mi facevano più temere che non quelle dello imperadore. A queste parole il papa disse: - Va', Benvenuto mio, ché tu sei un valente uomo: facci onore, che buon per te. [xci.] Ordinò il papa dua cavalli turchi i quali erano istati di papa Clemente ed erono i più belli che mai venissi in Cristianità. Questi dua cavalli il papa commesse a misser Durante4 suo cameriere che gli menassi giù ai corridori del palazzo ed ivi li donassi allo imperadore dicendo certe parole che lui gl'impose. 5 Andammo giù d'accordo; e, giunti alla presenza dello imperadore, entrò que' dua cavalli con tanta maestà e con tanta virtù6 per quelle camere che lo imperadore e ognuno si maravigliava. In questo si fece innanzi il ditto misser Durante con tanto isgraziato modo e con certe sue parole bresciane, annodandosigli7 la lingua in bocca, che mai si vidde e sentl peggio: mosse lo imperatore alquanto a risa. In questo io di già avevo iscoperto la ditta opera mia; e, avveduimprefetta: incompiuta. 2. arrogessi: aggiungessi. 3. deità: divinità; per segno di autorità derivante da Dio• (Carli). 4. Durante Duranti, bresciano, prelato assai dotto, prefetto di camera cli Paolo III e poi cardinale e vescovo di Brescia. 5. gl'impose: gli ordinò. 6. virtù: destrezza. 7. annodandosigli: impappinandoglisi. 1.

cr qui

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tomi che con gratissimo modo lo imperatore aveva volto gli occhi in verso di me, subito fattomi innanzi, dissi: - Sacra maestà,1 il santissimo nostro papa Paulo manda questo libro di Madonna a presentare a vostra maestà, il quale si è scritto a mano e miniato per mano de il maggior uomo che mai facessi tal professione; e questa ricca coperta d'oro e di gioie è cosi imprefetta per causa della mia indisposizione: per la qual cosa sua santità insieme con il ditto libro presenta me ancora e che io venga appresso a vostra maestà a finirgli il suo libro; e di più tutto quello che lei avessi in animo di fare, per tanto quanto io vivessi, lo servirei. - A questo lo imperatore disse: - Il libro m'è grato e voi ancora; ma voglio che voi me lo finiate in Roma; e, come gli è finito e voi guarito, portatemelo e venitemi a trovare. - Di poi, in nel ragionar meco mi chiamò per nome, per la qual cosa io mi maravigliai, perché non c'era intervenuto parole dove accadessi il mio nome; e mi disse aver veduto quel bottone del piviale di papa Clemente, dove io avevo fatto tante mirabil figure. Così distendemmo ragionamenti di una mezz'ora intera, parlando di molte diverse cose tutte virtuose e piacevole, e, perché a me pareva esserne uscito con molto maggiore onore di quello che io m'ero promesso, fatto un poco di cadenza2 a il ragionamento feci reverenzia e partimmi. Lo imperatore fu sentito che disse: - Donisi a Benvenuto cinquecento scudi d'oro subito: - di modo che quello che li portò sù dimandò qual era l'uomo del papa che aveva parlato allo imperatore. Si fece innanzi misser Durante, il quale mi rubò li mia cinquecento scudi. lo me ne dolsi col papa; il quale disse che io non dubitassi, ché sapeva ogni cosa quant'io m'ero portato bene a parlare3 allo imperadore e che di quei danari io ne arei la parte mia a ogni modo. [xcn.] Tornato alla bottega mia, messi mano con gran sollecitudine a finire l'anello del diamante;4 el quale mi fu mandato quattro, 5 i primi gioiellieri di Roma, perché era stato detto al papa che quel diamante era legato per mano del primo gioiellier 1. maestà: MS: mestà. 2. cadenza: conclusione. 3. a parlare: nel parlare. 4. messi . •. diamante: si vedano varie osservazioni nel citato Trattato dell'Oreficeria intorno al modo di acconciare e tingere il diamante (capo VIII, Come s'acconcia il diamante, e capo 1x, Come sifa la tinta a• diamanti. Cfr. qui avanti, pp. 1001 e 1005). 5. quattro: attraverso la diretta

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del mondo in Vinezia, il quale si chiamava maestro Miliano Targhetta/ e, per essere quel diamante alquanto sottile, era impresa troppo difficile a farla sanza gran consiglio. Io ebbi caro e' quattro uomini gioiellieri, in fra i quali si era un Milanese domandato Gaio.2 Questo era la più prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco 3 e gli pareva saper più : gli altri erano modestissimi e valentissimi uomini. Questo Gaio innanzi a tutti cominciò a parlare e disse: - Salvisi4 la tinta di Miliano, e a quella, Benvenuto, tu farai di berretta perché, si come 'I tignere un diamante è la più bella e la più diffidi cosa che sia in nell'arte del gioiellare, Miliano è il maggior gioielliere che fussi mai al mondo, e questo si è il più difficil diamante. - ·Allora io dissi che tanto maggior gloria mi era il combattere con un cosi valoroso uomo d'una tanta professione. Di poi mi volsi agli altri gioiellieri e dissi: - Ecco che io salvo la tinta di Miliano, e mi proverò se facendone io migliorassi quella; quando che no, con quella medesima lo ritigneremo. - Il bestiai Gaio disse che, se io la facessi a quel modo, volentieri le farebbe di berretta. Al qual io dissi: - Adunque facendola meglio lei merita dua volte di berretta. - Si -, disse. Ed io cosi cominciai a far le mie tinte. Messomi intorno con grandissima diligenzia a fare le tinte (le quali al suo luogo 5 insegnerò come le si fanno), certissimo che il detto diamante era il più difficile che mai né prima né poi mi sia venuto innanzi, e quella tinta di Miliano era virtuosamente fatta. Però la non mi sbigotti ancora; io auzzato6 i mia ferruzzi dello ingegno, feci tanto che io, non tanto raggiugnerla, ma la passai assai bene. Di poi, conosciuto che io avevo vinto lui, andai cercando di vincer me, e con nuovi modi feci una tinta che era meglio di quella che io avevo fatto di gran lunga. Di poi mandai a chiamare i gioiellieri

testimonianza dell'opera citata, si ricordi che tre e non quattro erano stati gli orefici a collaborare con Benvenuto: Raffaello del Moro, Gaspare Romanesco e Gaio. 1. Emiliano Targhetta, menzionato pure - con ampia narrazione del fatto - nel Trattato dell'Oreficeria, al citato capo IX, Come si fa la ti11ta a' diama11ti. (Cfr. qui avanti, pp. 1007-10.) 2. Gaio: propriamente chiamato Giovanni Pietro Marliano, stimatissimo come orefice papale, nonostante l1aspro giudizio del Cellini. 3. manco: meno. 4. Sa/viri: si scelga. 5. al suo luogo: si veda appunto nel Trattato dell'Oreficeria, il citato capo IX, Come rifa la tinta a' diamanti: cfr. qui avanti, a p. 1005. (La tinta era • una composizione di stucco colorato che si soleva mettere nel castone del diamanteD, D'Ancona.) 6. awrzato: aguzzato.

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e, tinto con la tinta di Miliano il diamante, da poi ben netto, lo ritinsi con la mia. lVIòstrolo a' gioiellieri, un primo valentuomo di loro, il quale si domandava Raffael del Moro, preso il diamante in mano, disse a Gaio: - Benvenuto à passato la tinta di Miliano. Gaio, che non lo voleva credere, preso il diamante in mano, ~• disse: - Benvenuto, questo diamante è meglio dumila ducati che con la tinta di Miliano. - Allora io dissi: - Da poi che io ò vinto Miliano, vediamo se io potessi vincer me medesimo - ; e pregatogli che mi aspettassino un poco andai in sun un mio palchetto e fuor della presenza loro ritinsi il diamante, e, portatolo a' gioiellieri, Gaio subito disse: - Questa è la più mirabil ·cosa che io vedessi mai in tempo di mia vita, perché questo diamante val meglio di diciottomila scudi dove che appena noi lo stimavamo dodici. - Gli altri gioiellieri, voltisi a Gaio, dissono: - Benvenuto è la gloria dell'Arte nostra,1 e meritamente e alle sue tinte e a lui doviamo fare di berretta. - Gaio allora disse: - Io lo voglio andare a dire al papa, e voglio che gli abbia mille scudi d'oro di legatura di questo diamante. - E, corsosene al papa, gli disse il tutto; per la qual cosa il papa mandò tre volte quel dì a veder se l'anello era finito. Alle ventitré ore poi io portai sù l'anello e, perché e' non mi era tenuto porta,2· alzato così discretamente la portiera viddi il papa insieme col marchese del Guasto, 3 il quale lo doveva istrignere di4 quelle cose che lui non voleva fare, e senti' che disse al marchese: - Io vi dico di no, perché a me si appartiene esser neutro e non altro. 5 - Ritiratomi presto indietro, il papa medesimo mi chiamò; onde io presto entrai e, portagli quel bel diamante in mano, il papa mi tirò così da canto, onde il marchese si scostò. Il papa, in mentre che guardava il diamante, mi disse: - Benvenuto, appicca meco ragionamento che paia d'importanza e non restar mai6 insin che il marchese istà qui in questa camera. - E, mossosi a passeggiare (la cosa che faceva per me), mi I. Arte nostra: gli orefici romani formavano una rinomata Università. z. e' non ••• porta: cioè non mi era fatta fare anticamera. - 3. marcl,ese del Guasto: •Alfonso d'Avalos: nell'impresa di Tunisi fu luogotenente generale di Carlo V e, per lui, governatore del Milanese: nel '44 perdette la celebre battaglia di Ceresole e due anni dopo mori, il giorno stesso della morte di Francesco I di Francia (30 marzo 1547) » (Dacci). 4. istrignere di: costringere per. 5. Io vi .•• altro: il papa volle esser neutrale fra i principi cristiani e non aderl alla guerra che Carlo V intendeva riprendere col re di Francia; si appartie,ie: tocca. 6. non restar mai: non smettere. .

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piacque, e cominciai a ragionar col papa del modo che io avevo fatto a tignere il diamante. Il marchese istava ritto daccanto appoggiato a un panno d'arazzo, e or si scontorceva in sun un piè ed ora in sun un altro. La tema 1 di questo ragionamento era tanto d'importanza, volendo dirla bene, che si sarebbe ragionato tre ore intere. Il papa ne pigliava tanto gran piacere che trapassavaz il dispiacere che gli aveva del marchese che stessi quivi. lo che avevo mescolato in ne' ragionamenti quella parte di filosofia che s'apparteneva in quella professione, di modo che avendo ragionato cosi vicino a un'ora, venuto a noia al marchese, mezzo in collora si parti. Allora il papa mi fece le più domestiche3 carezze che immaginar si possa al mondo, e disse: - Attendi, Benvenuto mio, ché io ti darò altro premio alle tue virtù che n1ille scudi che m'à ditto Gaio che merita la tua fatica. - Cosi partitomi, il papa mi lodava alla presenza di quei suoi domestici,4 in fra i quali era quel Latin Iuvenale che dianzi io avevo parlato. Il quale, per essermi diventato nimico, cercava con ogni studio di farmi dispiacere e, vedendo che il papa parlava di me con tanta affezione e virtù, disse: - E' non è dubbio nessuno_ che Benvenuto è persona di maraviglioso ingegno ma, se bene ogni uomo naturalmente è tenuto a voler bene più a quelli della patria sua che agli altri, ancora si doverrebbe bene considerare in che modo e' si dee parlare di un papa. Egli à avuto a dire che papa Clemente era il più bel principe che fussi mai e altrettanto virtuoso, ma sì bene con mala fortuna; e dice che vostra santità è tutta al contrario e che quel regno vi piagne in testa5 e che voi parete un covon di paglia vestito e che in voi non è altro che buona fortuna. - Queste parole furno di tanta forza, dette da colui che benissimo le sapeva dire, che il papa le credette. Io non tanto non l'aver dette, ma in considerazion mia non venne mai tal cosa. Se il papa avessi possuto con suo onore, mi arebbe fatto dispiacere grandissimo, ma come persona di grandissimo ingegno fece sembiante di ridersene: niente di manco e' riservò6 in sé un tanto grand'odio in verso di me che era inistimabile, ed io me ne cominciai a 'vvedere7 perché non entravo in nelle camere con quella facilità di prima, anzi con grandissima dif1. La tema: il tema, l'argomento. 2. trapassava: superava, vinceva. 3. domestiche: cioè gentili e familiari. 4. domestici: familiari. 5. quel regno "i piagne in testa: quel triregno vi piange (cioè sta malissimo) in capo. 6. ri-.sen"): accumulò. 7. a 'wedere: a avvedere.

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ficultà. E, perché io ero pur molt'anni pratico in queste Corte e m'immaginai che qualche uno avessi fatto cattivo uffizio contro a di me e destramente ricercandone, mi fu detto il tutto ma non mi fu detto chi fussi stato e io non mi potevo immaginare chi tal cosa avessi detto; ché sapendolo io ne arei fatto vendette a misura di carboni.'

[xc111.] Attesi a finire il mio libretto; e, finito che io l'ebbi, lo portai dal papa, il quale veramente non si potette tenere che egli non me lo lodassi grandemente. Al quale io dissi che 1ni mandassi a portarlo come lui mi aveva promesso. Il papa mi rispose che farebbe quanto gli venissi bene di fare e che io avevo fatto quel che s'apparteneva a me.2 Cosi dette commessione che io fussi ben pagato. Delle quale opere in poco più di dua mesi io mi avanzai cinquecento scudi: il diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta scudi e non più; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel libretto, 3 la qual fattura ne meritava più di mille per essere opera ricca di assai figure e fogliami e smalti e gioie. Io mi presi quel che io possetti avere, e feci disegno di andarmi con Dio di4 Roma. In questo il papa mandò il detto libretto allo imperadore per un suo nipote domandato il signore Sforza, 5 il quale, presentando il libro allo imperadore, lo imperatore l'ebbe gratissimo e subito domandò di me. Il giovanetto signore Sforza, ammaestrato,6 disse che per essere io infermo non ero andato. Tutto mi fu ridetto. Intanto messomi io in ordine per andare alla volta di Francia, e' me ne volevo andare soletto; ma non possetti, perché un giovanetto che stava meco, il quale si domandava Ascanio,' questo giovane era di età molto tenera ed era il più mirabil servitore che fussi mai al mondo e, quando io lo presi, e' s'era partito da un suo maestro, che si domandava Francesco,8 ch'era spar. a misura di carboni: cfr. la nota 12 a p. 527. 2. s'apparteneva a me: miriguardava. 3. quel libretto: «non si è più ritrovato» (Bacci). 4. di: da. 5. Sforza Sforza, figlio di Bosio conte di Santa Fiora e di Costanza, figlia naturale di Paolo III. In quell'anno 1536 si arruolò sedicenne nell'esercito di Carlo V, da cui fu nominato capitano generale della cavalleria italiana e spagnola. Militò con coraggio anche sotto Carlo IX, re di Francia. Morì nel 1575. 6. ammaestrato: istruito. 7. Ascanio de' Mari, di Tagliacozzo. Andò col Cellini in Francia e, dopo la partenza di lui, rimase al servizio del ·re Enrico II. Sposò una della Robbia. In un documento si parla di lui come di signore di Beaulieu. 8. Pare che fosse un Fra1icesco di Valenza.

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gnuolo e orefice. Io, che non arei voluto pigliare questo giovanetto per non venire in contesa con il detto Spagnuolo, dissi a Ascanio: - Non ti voglio, per non fare dispiacere al tuo maestro. E' fece tanto che il maestro suo mi scrisse una polizza1 che liberamente io lo pigliassi. Così era stato meco di molti mesi e, per essersi partito magro e spunto,2 noi lo domandavamo il Vecchino, ed io pensavo che fussi un vecchino, sl perché lui serviva tanto bene, e, perché gli era tanto saputo, non pareva ragione che, in nell'età di tredici anni che lui diceva di avere, vi fussi tanto ingegno. Or per tornare,3 costui in quei pochi mesi messe persona,4 e ristoratosi dallo istento divenne il più bel giovane di Roma e, sì per essere quel buon servitor che io ò detto e perché gl'imparava l'arte maravigliosamente, io gli posi un amore grandissimo come figliuolo e lo tenevo 5 vestito come se figliuolo mi fussi stato. Vedutosi il giovane restaurato,6 e' gli pareva avere auto una gran ventura a capitarmi alle mane. Andava ispesso a ringraziare il suo maestro che era stato causa del suo gran bene e, perché questo suo maestro aveva una bella giovane per moglie, lei diceva: - Surgetto, che hai tu fatto che tu sei diventato così bello? - E cosl lo chiamavano quando gli stava con esso loro. Ascanio rispose a lei: - Madonna Francesca, è stato lo mio maestro che m'à fatto così bello e molto più buono. - Costei velenosetta l'ebbe molto per male che Ascanio dicessi così: e, perché lei aveva nome di non pudica donna, seppe fare a questo giovanetto qualche carezza forse più là che l'uso dell'onestà; per la qual cosa io mi avvedevo che molte volte questo giovanetto andava più che 'l solito suo a vedere la sua maestra.7 Accadde che avendo un giorno dato malamente delle busse a un fattorino di bottega, il quale, giunto che io fui che venivo di fuora, il detto fanciullo piagnendo si doleva, dicendomi che Ascanio gli aveva dato sanza ragion nessuna. Alle qual parole io dissi a Ascanio: - O con ragione o senza ragione, non ti venga mai più dato a nessun di casa mia, perché tu sentirai in che modo io so dare, io. - Egli mi rispose; onde io subito mi gli gittai addosso, e gli detti di pugna e calci le più aspre busse che lui sentissi mai. Più tosto che lui mi possette uscir delle mane, una polizza: un biglietto. 2. spunto: smunto. 3. per tornare: s'intende, al nostro ragionamento. 4. messe persona: cioè si ristabilì, prese carne. ·s. lo tenevo: lo mantenevo. 6. restaurato: ristabilito. 7. la sua maestra: la moglie del suo (antico) maestro, la «padrona». 1.

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sanza cappa e sanza berretta fuggi fuora, e per dua giorni io non seppi mai dove lui si fussi né manco ne cercavo; se none in capo di dua giorni mi venne a parlare un gentiluomo spagnuolo, il quale si domandava don Diego. Questo era il più liberale uomo che io conoscessi mai al mondo. Io gli avevo fatte e facevo alcune opere di modo che gli era assai mio amico. Mi disse che Ascanio era tornato col suo vecchio maestro e che, se e' mi pareva, che io gli dessi la sua berretta e cappa che io gli avevo donata. A queste parole io dissi che Francesco si era portato male e che gli aveva fatto da persona malcreata; perché, se lui m'avessi detto, subito che Ascanio fu andato da lui, sì come lui era in casa sua, io molto volentieri gli arei dato licenzia ma, per averlo tenuto dua giorni, poi né me lo fare intendere, io non volevo che gli stessi seco ; e che facessi che io non lo vedessi in modo alcuno in casa sua. Tanto riferì don Diego: per la qual cosa il detto Francesco se ne fece beffe. L'altra mattina seguente io vidi Ascanio, che lavorava certe pappolate di filo accanto al ditto maestro. Passando io, il ditto Ascanio mi fece riverenzia, e il suo maestro quasi che mi derise. Mandommi a dire per quel gentiluomo don Diego che, se a me pareva, che io rimandassi a Ascanio e' panni che io gli avevo donati; quando che no, non se ne curava e che a Ascanio non mancheria panni. A queste parole io mi volsi a don Diego e dissi: - Signor don Diego, in tutte le cose vostre io non viddi mai né il più liberale né il più dabbene di voi; ma cotesto Francesco è tutto il contrario di quel che voi siete, perché gli è un disonorato marrano.1 Ditegli cosi da mia parte: che, se innanzi che suoni vespro lui medesimo non m'à rimenato Ascanio qui alla bottega mia, io l'ammazzerò a ogni modo, e dite a Ascanio che, se lui non si leva di quivi in quell'ora consacrataa al suo maestro, che io farò a lui poco manco. - A queste parole quel signor don Diego non mi rispose niente, anzi andò e messe in opera cotanto spavento al ditto Francesco che lui non sapeva che farsi.· Intanto Ascanio era ito a cercar di suo padre, il quale era venuto a Roma da Tagliacozzi3 di donde gli era, e, sentendo questo scompiglio, ancora lui consigliava Francesco che dovessi rimenare Ascanio a me. Francesco diceva a Ascanio: - Vavvi da te, e tuo padre verrà teco. I.

ma"ano: vedi la nota

cozzi: Tagliacozzo.

14

a p. 164.

2.

co11sacrata: dedicata.

3. Taglia-

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Don Diego diceva: - Francesco, io veggo qualche grande scandolo: tu sai meglio di me chi è Benvenuto; rimenagnene sicuramente, ed io verrò teco. - Io che m'ero messo in ordine, passeggiavo per bottega aspettando il tocco di vespro, dispostomi di fare una delle più rovinose cose che in tempo di mie vita mai fatta avessi. In questo sopraggiunse don Diego, Francesco ed Ascanio ed il padre che io non conosceva. Entrato Ascanio, io che gli guardavo tutti con l'occhio della stizza,1 Francesco di colore ismorto disse: - Eccovi rimenato Ascanio, il quale io tenevo non pensando farvi dispiacere. - Ascanio reverentemente disse: Maestro mio, perdonatemi, io son qui per far tutto quello che voi mi comanderete. - Allora io dissi: - Se' tu venuto per finire il tempo che tu m'ài promesso ? - Disse di si, e per non si partir mai più da me. lo mi volsi allora e dissi a quel fattorino, a chi lui aveva dato,2 che gli porgessi quel fardello de' panni; e a lui dissi: - Eccoti tutti e' panni che io t'avevo donati, e con essi abbi la tua libertà e va' dove tu vuoi. - Don Diego restato maravigliato di questo (ché ogni altra cosa aspettava), in questo, Ascanio insieme col padre mi pregava che io gli dovessi perdonare e ripigliarlo. Domandato chi era quello che parlava per lui, mi disse esser suo padre; al quale, di poi molte preghiere, dissi: - E per esser voi suo padre, per amor vostro lo ripiglio.

[xciv.] Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla volta di Francia, si per aver veduto che il papa non mi aveva in quel concetto di prima (ché per via delle male lingue m'era stato intorbidato la mia gran servitù), 3 e per paura che quelli che potevano non mi facessin peggio, però mi ero disposto di cercare altro paese per veder se io trovavo miglior fortuna, e volentieri mi andavo con Dio, solo.4 Essendomi risoluto una sera per partirmi la mattina, dissi a quel fidel Felice che si godessi tutte le cose mia insino al mio ritorno e, se avveniva che io non ritornassi, volevo che ogni cosa fussi suo. E perché io avevo un garzone perugino 5 il quale mi aveva aiutato finir quelle opere del papa, a questo detti licenzia, con l'occhio della stizza: con occhio pieno di stizza. 2. a chi . .. dato: che lui aveva picchiato. 3. m'era . •. servitiì.: erano stati offuscati ai miei danni tutti i grandi servigi da me resi a lui. 4. solo: da solo. s. un garzone perugitio: Girolamo Pascucci che, per altro, accusò il Cellini di aver sottratto gioie a papa Clemente VII nel tempo del Sacco. Di una contesa, che il Cellini ebbe con lui nel I 538, rimane il documento della pacificazione. 1.

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avendolo pagato delle sue fatiche. Il quale mi disse che mi pre-gava che io lo lasciassi venir meco e che lui verrebbe a sua spese; che, s'egli accadessi che io mi fermassi a lavorare con il re di Francia, gli era pure il meglio che io avessi meco delli mia Italiani, e maggionnente di quelle persone che io cognoscevo che mi areb-bon saputo aiutare. Costui seppe tanto pregarmi che io fui contento di menarlo meco in nel modo che lui aveva detto. Ascanio trovandosi ancora lui alla presenza di questo ragionamento, disse mezzo piangendo: - Di poi che voi mi ripigliasti, i' dissi di volere star con voi a vita, e così ò in animo di fare. - Io dissi al ditto che io non lo volevo per modo nessuno. Il povero giovanetto si metteva in ordine per venirmi drieto a piede. Veduto fatto una tal resoluzione, presi un cavallo ancora per lui e, messogli una mia valigetta in groppa, mi caricai di molti più ornamenti che fatto io non arei; e partitomi di Roma ne venni a Firenze, e da Firenze a Bologna, e da Bologna a Vinezia, e da Vinezia me ne andai a Padova: dove io fui levato d'in su l'osteria1 da quel mio caro amico che si domandava Albertaccio del Bene.2 L'altro giorno appresso andai a baciare le mane a misser Pietro Bembo, il quale non era ancor cardinale.3 Il detto misser Pietro mi fece le più sterminate carezze che mai si possa fare a uomo del mondo; di poi si volse ad Alber-taccio e disse: - lo voglio che Benvenuto resti qui con tutte le sue persone, se lui ne avessi ben cento; sì che risolvetevi, volendo anche voi Benvenuto, a restar qui meco: altrimenti io non ve lo voglio rendere. - E così mi restai a godere con questo virtuosissimo signore. Mi aveva messo in ordine una camera che sarebbe troppo onorevole a un cardinale, e continuamente volse che io mangiassi accanto a sua signoria. Di poi entrò con modestissimi ragiona-menti, mostrandomi che arebbe auto desiderio che io lo ritraessi ;4 e io, che non desideravo altro al mondo, fattomi certi stucchi candidissimi dentro in uno scatolino, lo cominciai; e la prima giornata io lavorai dua ore continue, e bozzai quella virtuosa testa di tanta buona grazia che sua signoria ne restò istupefatta; e (come quello che era grandissimo in nelle sue lettere e in nella poesia in superlativo grado, ma di questa mia professione sua signoria non ... osteria: e, quindi, .menato a casa sua. 2. Albertaccio del Be11e: già ricordato in precedenza, p. 651; cfr. la nota 5. 3. Il Bembo venne creato cardinale da Paolo III il 23 marzo 1539. 4. lo ritraessi: s'intende, in una medaglia. 1. fui

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entendeva nulla al mondo), il perché si è che a lui parve che io l'avessi finita a quel tempo che io non l'avevo appena cominciata; di modo che io non potevo dargli ad intendere che la voleva molto tempo a farsi bene. All'utimo io mi risolsi a farla il meglio che io sapevo col tempo che la meritava: e, perché egli portava la barba corta alla veniziana, mi dette di gran fatiche a fare una testa che mi sadisfacessi. Pure la fini', e mi parve fare la più bella opera che io facessi mai per quanto si apparteneva a l'arte mia. Per la qual cosa io lo viddi sbigottito, perché e' pensava che, avendola io fatta di cera in dua ore, io la dovessi fare in dieci d'acciaro. Veduto poi che io non l'avevo potuta fare in dugento ore di cera e dimandavo licenzia per andarmene alla volta di Francia, il perché lui si sturbava1 molto, e mi richiese che io gli facessi un rovescio a quella sua medaglia almanco,2 e questo fu un cavai pegaseo3 in mezzo a una ghirlanda di mirto. Questo io lo feci in circa a tre ore di tempo, dandogli bonissima grazia. E, essendo assai sadisfatto, disse: - Questo cavallo mi par pure maggior cosa l'un dieci4 che non è il fare una testolina, dove voi avete penato tanto: io non son capace di questa difficultà. - Pure mi diceva e mi pregava che io gnene dovessi fare in acciaro, dicendomi: - Di grazia fatemela, perché voi me la farete ben presto, se voi vorrete. - Io gli promessi che quivi io non la volevo fare, ma dove io mi fermassi a lavorare gliene farei senza manco nessuno. 5 In mentre che noi tenevamo questo proposito, io ero endato a mercatare tre cavalli per andarmene alla volta di Francia e lui faceva tener conto di me segretamente, perché aveva grandissima autorità in Padova. Di modo che, volendo pagare i cavalli, li quali avevo mercatati cinquanta ducati, il padrone di essi cavalli mi disse: - Virtuoso uomo, io vi fo un presente delli tre cavalli. Al quale io risposi: - Tu non sei tu che me gli presenti ;6 e da quello che me gli presenta io non gli voglio, perché io non gli ò potuto dar nulla delle fatiche mie. - Il buon uomo mi disse che, non pigliando quei cavagli, io non caverei altri cavagli di Padova e sarei necessitato a 'ndarmene a piede. A questo, io me ne andai al magnifico misser Pietro, il quale faceva vista di non saper 1. il ••• sturbava: della qual cosa lui si turbava. 2. almanco : almeno. 3. cavai pegaseo: era l'emblema del Bembo. (Il mirto era simbolo d'amore.) 4. l'un dieci: dieci volte più. s. senza manco 11essuno: cioè con piena cer-

tezza.

6. presenti: doni.

BENVENUTO CELLINI

nulla e pur mi carezzava1 dicendomi che io soprastessi2 in Padova. lo, che no' ne volevo far nulla ed ero disposto a 'ndarmene a ogni modo, mi fu forza accettare li tre cavalli; e con essi me ne andai. 3 [xcv.] Presi il cammino per terra di Grigioni, perché altro cammino non era sicuro, rispetto alle guerre.4 Passammo le montagne dell' Alba5 e della Berlina :6 era gli otto dì di maggio, ed era la neve grandissima. Con grandissimo pericolo della vita nostra passammo queste due montagne. Passate che noi le avemmo, ci fermammo a una terra la quale, se ben mi ricordo, si domanda Valdistà:7 quivi alloggiammo. La notte vi capitò un corriere fiorentino, il quale si domandava il Busbacca. Questo corriere io l'avevo sentito ricordare per uomo di credito e valente nella sua professione, e non sapevo che gli era scaduto8 per le sue ribalderie. Quando e' mi vedde ali' osteria, lui mi chiamò per nome e mi disse che andava per cose d'importanza in Lione e che di grazia io gli prestassi dinari per il viaggio. A questo io dissi che non avevo danari da potergli prestare, ma che, volendo venir meco di compagnia9 io gli farei le spese insino a Lione. Questo ribaldo piagneva e facevami le belle lustre,1° dicendomi come, per e' casi d'importanza della nazione11 essendo mancato danari a un povero corrieri - un par vostro è ubbrigato a 'iutarlo.12 - E di più mi disse che portava cose di grandissima importanza di misser Filippo Strozzi ;13 e, perché I. mi carezzava: mi trattava gentilmente. 2.. soprastessi: mi fermassi ancora. 3. Non si ha notizia che il Cellini finisse la medaglia incominciata per il Bembo. Per altro, va ricordata, più che non si faccia, la lettera che il famoso letterato scrisse al Cellini, da Padova, il 17 luglio 1535: lo pregava, difatti, di non disturbarsi a venir fin da lui per fargli la medaglia, e diceva di aver avuto una sua lettera da Lorenzo Lenzi e menzionava anche il Var_chi. Si legga, quindi, anche una lettera al Varchi, da Padova, 28 novembre dello stesso anno, dove si fanno le lodi del Cellini « si raro uomo ». Si vedano queste due significative lettere nelle Opere del BEMBO, tomo Illt Contenente le lettere volgari ecc., Venezia, 1729, presso Francesco Hertzhauser, Librajo all'Insegna della Roma Antica, p. 283. 4. rispetto alle guerre: in quell,anno (1537) in Piemonte combattevano gli Imperiali contro i Francesi. 5. Alba: Albula (Alpi Retiche). 6. Berlina: Bernina (parimente nelle Alpi Retiche). 7. Valdistà: Walenstadt. (Più avanti, a p. 703, il Cellini dice Va/distate.) 8. scaduto: decaduto. (Questo ribaldo era chiamato Busbacca, che cr come pensa il Tassi, può essere soprannome da busbo, cioè truffatore, nomignolo adatto a quel ribaldo», D'Ancona.) 9. meco di compagnia: in compagnia con me. 10. le belle [r,stre: mille complimenti. 1 I. della nazio11e: di Firenze. I 2. ubbrigato a 'iutarlo: MS: ubbrigato aiutarlo. 13. Lo Strozzi in quel momento

LA VITA • LIBRO PRIMO

gli aveva una guaina d'un bicchiere coperta di cuoio, mi disse in nell'orecchio che in quella guaina era un bicchier d'argento, e che in quel bicchiere era gioie di valore di molte migliaia di ducati, e che e' v'era lettere di grandissima importanza le quali mandava misser Filippo Strozzi. A questo io dissi a lui che mi lasciassi rinchiuder1 le gioie addosso a lui medesimo, le quali portereb bon manco pericolo che a portarle in quel bicchiere; e che quel bicchiere lasciassi a me, il quale poteva valere dieci scudi in circa, ed io lo servirei2 di venticinque. A queste parole il corrier disse che se ne verrebbe meco, non potendo far altro, perché lasciando quel bicchiere non gli sarebbe onore. Cosi la mozzammo ;3 e, la mattina partendoci, arrivammo a un lago che è in fra Valdistate e Vessa: 4 questo lago è lungo quindici miglia, dove e' s'arriva a5 Vessa. Veduto le barche di questo lago, io ebbi paura; perché le dette barche son d'abeto, non molto grande e non molto grosse, e non son confitte né manco impeciate; e, se io non vedevo entrare in un'altra simile quattro gentiluomini tedeschi con i lor quattro cavagli, io non entravo mai in questa, anzi mi sarei più presto tornato addietro; ma io mi pensai, alle bestialità che io vedevo fare a coloro, che quelle acque tedesche non affogassino6 come fanno le nostre della Italia. Quelli mia dua giovani mi dicevano pure: - Benvenuto, questa è una pericolosa cosa a entrarci drento con quattro cavalli! - A e' quali io dicevo: - Non considerate voi, poltroni, che quei quattro gentiluomini sono entrati innanzi a noi, e vanno via ridendo? Se questo fussi vino, come l'è acqua, io direi che lor vanno lieti per affogarvi drento; ma, perché l'è acqua, io so ben che e' non hanno piacere d'affogarvi, si ben come noi. - Questo lago era lungo quindici miglia e largo tre in circa; da una banda era un monte altissimo e cavernoso, dall'altra era piano e erboso. Quando noi fummo drento in circa quattro miglia, il ditto lago cominciò a far fortuna7 di sorte che quelli che vogavano ci chiedevano aiuto che noi gli aiutassimo vogare: cosi facemmo un pezzo. Io accennavo, e dicevo che ci gettassino a era a capo dei fuorusciti fiorentini. Catturato a Montemurlo, si uccise (o forse fu fatto uccidere dal duca Cosimo) nel 1539. I. rinchiuder: cucire. 2. lo servirei: lo favorirei (con un prestito). 3. la mozzammo: smettemmo di discutere. 4. Vessa: Weesen sul Walensee. 5. dove e' s'a"iva a: «se si traversa per arrivare a» (Carli). 6. non affogassino: «transitivo: sottinteso, i naviganti» (Carli). 7. far fortuna: agitarsi in tempesta.

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quella proda di là: lor dicevano non esser possibile, perché non v'è acqua che sostenessi la barca e che e' v'è certe secche per le quale la barca subito si disfarebbe e annegheremmo tutti, e pure ci sollecitavano che noi aiutassimo loro. E' barcheriuoli si chiamavano l'un l'altro/ chiedendosi aiuto. Vedutogli io sbigottiti, avendo un cavai savio2 gli acconciai la briglia al collo e presi una parte della cavezza con la n1an mancina. Il cavallo che era, si come sono, con qualche intelligenza, pareva che si fussi avveduto quel che io volevo fare; che, avendogli volto il viso in verso quell'erba fresca,3 volevo che, notando, ancora me istrascicassi seco. In questo venne una onda sì grande da quel lago che la sopraffece la barca. Ascanio, gridando: - Misericordia, padre mio, aiutatemi -, mi si volse gittare addosso; il perché io messi mano al mio pugnaletto, e gli dissi che facessino quel che io avevo insegnato loro, perché i cavagli salverebbon lor la vita si bene com'io speravo camparla ancora io per quella via; e, se più e' mi si gittassi addosso, io l'ammazzerei. Cosi andammo innanzi parecchi miglia con questo mortai pericolo. [xcvi.] Quando noi fummo a mezzo il lago, noi trovammo un po' di piano da poterci riposare, e in su questo piano viddi ismontato quei quattro gentiluomini tedeschi. Quando noi volemmo ismontare, il barcherolo non voleva per niente. Allora io dissi a' mia giovani: - Ora è tempo a far qualche pruova di noi; si che mettete mano alle spade e facciàno 4 che per forza e' ci mettino in terra. - Cosi facemmo con gran difficultà, perché lor fecion grandissima resistenza. Pure, messi che noi fummo in terra, bisognava salire dua miglia su per quel monte, il quale era più difficile che salire su per una scala a piuoli. Io ero tutto armato di maglia5 con istivali grossi e con uno scoppietto in mano, e pioveva quanto Iddio ne sapeva mandare. Quei diavoli di quei gentiluomini tedeschi con quei lor cavalletti a mano facevano miracoli; il perché i nostri cavagli non valevano per questo effetto e crepavamo di fatica a farli salire quella difficil montagna. Quando noi fummo in sù un pezzo, il cavallo d'Ascanio, che era un cavall'unghero mil'11n l'altro: MS: l'ull'altro. 2. savio: ubbidiente. 3. in verso quell'erba fresca: cioè verso il luogo piano e erboso dell'antistante riva, di cui a p. 703. 4. facciàno: facciamo. 5. armato di maglia: fornito di un'armatura di maglia di ferro. 1.

LA VITA • .LIBRO PRIMO

rabilissimo (questo era innanzi un pochetto al Busbacca corriere, e ,1 ditto Ascanio gli aveva dato la sua zagaglia1 che gliene aiutassi portare), avvenne che per e' cattivi passi quel cavallo isdrucciolò e andò tanto barcollone, non si potendo aiutare, che percosse in su la punta della zagaglia di quel ribaldo di quel corriere che non l'aveva saputa iscansare: e, passata al cavallo la gola a banda a banda, quell'altro mio garzone, volendo aiutare ancora il suo cavallo che era un cavai morello, isdrucciolò in verso il lago e s'attenne a un respo2 il quale era sottilissimo. In su questo cavallo era un paio di bisacce, nelle quale era drento tutti e' mia danari con ciò che io avevo di valore: dissi al giovane che salvassi la sua vita e lasciassi andare il cavallo in malora: la caduta3 si era più d'un miglio e andava a sottosquadro,4 e cadeva nel lago. Sotto questo luogo appunto s'era fermato quelli nostri barcheruoli a tale che, se il cavallo cadeva, dava loro appunto addosso. lo era innanzi a tutti, e stavamo a vedere tombolare5 il cavallo il quale pareva che andassi al sicuro6 in perdizione. In questo io dicevo a, mia giovani: - Non vi curate di nulla, salvianci noi e ringraziamo lddio d'ogni cosa; a me mi sa solamente male di questo povero uomo del Busbacca, che à legato il suo bicchiere e le sue gioie, che son di valore di parecchi migliaia di ducati, all'arcione di quel cavallo, pensando quell'essere più sicuro: e, mia son pochi cento di scudi, e non ò paura di nulla al mondo purché io abbia la grazia de Dio. - Il Bus bacca allora disse: - E' non m'incresce de, mia, ma e' m'incresce ben de' vostri. - Dissi a lui: - Perché t>incresc'egli de' mia pochi, e non t'incresce de' tua assai? - Il Busbacca disse allora: - Dirrovelo in nel nome di Dio: in questi casi, e nei termini che noi siamo, bisogna dire il vero. Io so che i vostri son iscudi e7 son da dovero; ma quella mia vesta8 di bicchiere dove io ò detto esser tante gioie e tante bugie,9 è tutta piena di caviale. - Sentendo questo, io non possetti fare che io non ridessi: quei mia giovani risono; lui piagneva. Quel cavallo si aiutò10 quando noi l'avevamo fatto ispacciato. Cosi ridendo ripigliammo le forze, e mettemmoci a seguitare il monte. Quelli quattro gentiluomini tedeschi, eh' erono giunti prima di noi in cima di quella ripida 1. %agaglia: piccola lancia; cfr. p. 578, nota 12. 2. retpo: cespuglio. 3. caduta: precipizio. 4. a sottosquadro: «peggio che a perpendicolo: l'orlo del precipizio sporgeva sul lago» (Carli). 5. tombolare: precipitare. 6. al sicr,ro: sicuramente. 7. e: MS: e'. 8. vesta: la predetta guaina. 9. tante bugie: altre cose tutte inventate.. 10. si aiutlJ: riusci a scampare. 45

BENVENUTO CELLINI

montagna, ci mandorno alcune persone le quali ci aiutorno tanto che noi giugnemmo a quel salvatichissimo alloggiamento. Dove, essendo noi molli, istracchi e affamati, fummo piacevolissimamente1 ricevuti, ed ivi ci rasciugammo, ci riposammo, sodisfacemmo alla fame e con certe erbacce fu medicato il cavallo ferito; e ci fu insegnato quella sorte d'erbe, le quali n'era pieno le siepe. E' ci fu detto che, tenendogli continuamente la piaga piena di quell' erbe, il cavallo non tanto guarire' ,2 ma ci servirebbe come se non avessi un male al mondo: tanto facemmo. Ringraziato i gentiluomini e noi molto ben ristorati, di quivi ci partimmo e passammo innanzi, ringraziando Iddio che ci aveva salvati da quel gran pericolo.

[xcvu.] Arrivammo a una terra di là da Vessa; qui ci riposammo la notte, dove noi sentimmo a tutte l'ore della notte una guardia3 che cantava in molto piacevo} modo, e, per essere tutte quelle case di quelle città di legno di abeto, la guardia non diceva altra cosa, se non che s'avessi cura al fuoco. Il Busbacca, che era spaventato della giornata, a ogni ora che colui cantava, el Busbacca gridava in sogno, dicendo: - Oimè lddio, ché io affogo! - E questo era lo spavento del passato giorno; e arroto4 a quello, che s'era la sera imbriacato (perché volse fare a bere5 quella sera con tutti e' Tedeschi che vi erano; e talvolta diceva: - Io ardo e talvolta: - Io affogo -), gli pareva essere alcune volte in nello 'nferno marterizzato con quel caviale al collo. Questa notte fu tanto piacevole che tutti e' nostri affanni si erano conversi in risa. La mattina, levatici con bellissimo tempo, andammo a desinare a una lieta terra domandata Lacca. 6 Quivi fummo mirabilmente trattati; di poi pigliammo guide, le quale erano7 di ritorno a una terra chiamata Surich.8 La guida che menava, andava su per un argine d,un lago, e non v'era altra strada; e questo argine ancora lui era coperto d'acqua, in modo che la bestiai guida9 sdrucciolò, e il cavallo e lui andorno sotto l'acqua. Io, che ero drieto alla guida appunto,1° fermato il mio cavallo istetti a veder la bestia sortir 1. piacevolissimamente: con somma gentilezza. 2. guarire': guarirebbe. (MS: aguarirebbe, ma bbe è di altro inch. e di altra mano», Bacci.) 3. una guardia: una sentinella. 4. arroto: aggiunto. 5.Jare a bere: fare a gara nel bere. 6. Lacca: Lachen. 7. erano: MS: era- (con dimenticanza del no). 8. Surich: Zilrich (Zurigo). 9. la bestiai guida: quella bestia di guida. I o. appunto: «proprio dietro, senza intervallo» (Cari i).

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dell'acqua; e, come se nulla non fussi stato, ricominciò a cantare e accennavami che io andassi innanzi. lo mi gittai in su la man ritta, e roppi certe siepe: cosi guidavo i mia giovani e 'I Busbacca. La guida gridava, dicendomi in tedesco pure che, se que' populi mi vedevano, mi arebbono ammazzato. Passammo innanzi e scampammo quell'altra furia.' Arrivammo a Surich, città maravigliosa, pulita quanto un gioiello. Quivi riposammo un giorno intero; di poi una mattina per tempo ci partimmo: capitammo a un'altra bella città chiamata Solutorno.z Di quivi capitammo a Usanna,3 da U sanna a Ginevra, da Ginevra a Lione, sempre cantando e ridendo. A Lione mi riposai quattro giornate, molto mi rallegrai con alcuni mia amici; fui pagato4 della spesa che io avevo fatta per il Busbacca: di poi in capo dei quattro giorni presi il cammino per la volta di Parigi. Questo fu viaggio piacevole, salvo che quando noi giugnem.mo alla Palissa5 una banda di venturieri6 ci volsono assassinare, e non con poca virtù7 si salvammo. Di poi ce ne andammo insino in Parigi sanza un disturbo al mondo: sempre cantando e ridendo giugnemmo a salvamento.

[xcviu.] Riposatomi in Parigi alquanto, me ne andai a trovare il Rosso dipintore,8 il quale stava al servizio del re. Questo Rosso io pensavo che lui fussi il maggiore amico che io avessi al mondo, perché io gli avevo fatto in Roma i maggior piaceri che possa fare un uomo a un altro uomo: e, perché questi cotai piaceri si posson dire con brieve parole, io non voglio mancare di non gli dire, mostrando quant'è sfacciata la ingratitudine. Per la sua mala lingua, essendo lui in Roma, gli9 aveva detto tanto male dell'opere di Raffaello da Urbino che i discepoli suoi lo volevano ammazzare a ogni modo: da questo lo campai guardandolo dl e notte con grandissime fatiche. Ancora, per aver detto male di maestro Antonio da San Gallo10 molto eccellente architettore, gli fece tòrI. q11ell' altra furia: cioè il pericolo minacciato dalla guida. 2. Solutorno: è il tedesco Solothum (in francese Soleure e in italiano Soletta). 3. Usanna: Losanna. (Il Cellini deve aver inteso Lausanne come l' Ausanne.) 4. /ui

pagato: da Filippo di Federico Strozzi, soprannominato Picchio. 5. alla Palissa: a La Palice. 6. venturieri: briganti. 7. virtù: coraggio. 8. il Rosso dipintore: è Giovan Battista di Iacopo pittore, già ricordato dal Cellini fra i lieti compagnoni fiorentini con cui si riuniva in Roma. Vedi p. 546 e la nota 3. 9. gli: egli. • Aferesi dell'uso popolare • (Carli). IO. Antonio di Bartolomeo Cordiani, detto Antonio da Sangallo il Giovane (per distin-

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re:t un 'opera che lui gli aveva fatto avere da misser Agnol de Cesi ;a di poi cominciò tanto a far contro a di lui che egli l'aveva condotto a morirsi di fame; per la qual cosa io gli prestai di molte dicine di scudi per vivere. E, non gli avendo ancora riauti, sapendo ch'egli era al servizio del re lo andai, come ò detto, a visitare: non tanto pensavo che lui mi rendessi li mia dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore per mettermi al servizio di quel gran re. Quando costui mi vedde, subito si turbò e mi disse: - Benvenuto, tu se' venuto con troppa spesa in un cosi gran viaggio, massimo 3 di questo tempo che s'attende alla guerra e non a baiuccole4 di nostre opere. - Allora io dissi che io avevo portato tanti dinari da potermene tornare a Roma in quel modo che io ero venuto a Parigi, e che questo non era il cambio 5 delle fatiche che io avevo durate per lui, e che io cominciavo a credere quel che mi aveva detto di lui maestro Antonio da San Gallo. Volendosi mettere tal cosa in burla, essendosi avveduto della sua sciagurataggine, io gli mostrai una lettera di cambio di cinquecento scudi a Ricciardo del Bene.6 Questo sciagurato pur si vergognava e, volendomi tenere7 quasi per forza, io mi risi di lui e me ne andai insieme con un pittore che era quivi alla presenza. Questo si domandava lo Sguazzella :8 ancora lui era fiorentino; anda'mene a stare in casa sua con tre cavalli e tre servitori a tanto la settimana. Lui benissimo mi trattava, ed io meglio lo pagavo. Di poi cercai di parlare al re, al quale m'introdusse un certo misser Giuliano Buonaccorsi9 suo guerlo dall'omonimo zio), aiutò Bramante come architetto della Basilica vaticana, e successe allo zio Giuliano nella fabbrica di San Pietro. Lavorò a Loreto e al pozzo di San Patrizio in Orvieto. Mori in Terni nel 1546: si era recato colà per dirigere il corso della Marmora. Si occupò molto di fortezze con disegni e restauri. Il Cellini lo ricorda nel discorso Della Architettura (qui avanti, pp. uo8-9). 1. tl>"e: cioè disdire. 2. Agnol de Cesi: mecenate, fece avere varie commissioni ad artisti dell'epoca, come anche il Vasari ricorda. 3. massimo: massimamente. (Di solito si diceva- e ancora si dice - massime, dal latino maxime.) 4. baiuccole: sciocchezzuole. 5. il cambio: la ricompensa. 6. Ricciardo del Be11e: della famiglia di Alessandro, già ricordato nella Vita (vedi la nota I I a p. 570). 7. tenere: trattenere (come ospite). 8. lo Sguazzella: u Andrea; probabilmente di cognome Chiazzella: scolaro e imitatore di Andrea Del Sarto, fu da lui condotto in Francia, ove rimase al servizio di Francesco I o (Bacci). 9. Un Giuliano Buonaccorsi è stato ricordato dal Varchi nella Storia fiorentina, XI, 46 (e, quindi, dal Bacci) tra coloro che nel 1530 a Lione sollecitarono presso il re di Francia il pagamento dei debiti contratti con mercanti fiorentini. Il Ccllini lo menziona ancora nella Vita (alle pp. 871-2 e 877) e nel Trattato della Scultura (qui avanti, p. 1104).

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tesauriere. A questo io soprastetti1 assai, perché io non sapevo che il Rosso operava ogni diligenza che io non parlassi al re. Poiché il ditto misser Giuliano se ne fu avveduto, subito mi menb a Fontana Biliò2 e messemi drento3 innanzi al re, 4 da il quale io ebbi un'ora intera di gratissima audienza: e, perché il re era in assetto per andare alla volta di Lione, 5 disse al ditto misser Giuliano che seco mi menassi e che per la strada si ragionerebbe di alcune belle opere che sua maestà aveva in animo di fare. Cosl me ne andavo insieme appresso al traino6 della Corte, e per la strada feci grandissima servitù7 col cardinale di Ferrara, il quale non aveva ancora il cappello.8 E, perché ogni sera io avevo grandissimi ragionamenti con il ditto cardinale, e sua signoria diceva che io mi dovessi restare in Lione a una sua badia, e quivi potrei godere infine a tanto che il re tornassi dalla guerra, che se ne andava alla volta di Grano poli,9 e alla sua badia in Lione10 io arei tutte le comodità. Giunti che noi fummo a Lione, io mi ero ammalato e quel mio giovane Ascanio aveva preso la quartana, di sorte che m'era venuto a noia i Franciosi e la lor Corte e mi pareva mill'anni di ritornarmene a Roma. Vedutomi disposto il cardinale a ritornare a Roma, mi dette tanti dinari che io gli facessi in Roma un bacino e un boccale d'ariento. Cosi ce ne ritornammo alla volta di Roma in su bonissimi cavalli e, venendo per le montagne del Sampione11 e essendomi accompagnato con certi Franzesi con li quali venimmo un pezzo, Ascanio con la sua quartana e io con una febbretta sorda la quale pareva che non mi lasciassi punto : ed avevo sdegnato lo stomaco di modo che io ero stato quattro mesi che io non credo che mi toccassi a mangiare un pane intero la settimana, e molto desideravo di arrivare in Italia, desideroso di morire in Italia e non in Francia. 1. soprastetti: dovetti indugiare. 2. Fontana Bili/J: Fontainebleau. (Del suo soggiorno nella splendida dimora reale il Cellini parlerà ancora al tempo del suo ritorno in Francia: vedi qui avanti alle pp. 788, 825-8 e 841-3. La residenza venne magnificamente decorata dal Rosso e dal Primaticcio.) 3. messemi drento: mi introdusse. 4. al re: a Francesco I. 5. il re ... Lione: vi giunse il 6 ottobre 1537. 6. traino: sèguito (anche treno). 7.feci ••. servitù: entrai in grande dimestichezza. 8. cardinale di Ferrara: Ippolito II d'Este, figlio del duca Alfonso I: era arcivescovo di l\1ilano, ma non ancora cardinale. Ebbe la porpora nel 1539. Fu splendido mecenate. Per sua iniziativa venne edificata Villa d'Este, a Tivoli. Mori nel 1572. 9. Granopoli: Grenoble. 10. badia in Lione: quella di Ainay (allora Esnay). 11. Sampione: Sempione.

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[xcix.] Passato che noi avemmo li monti del Sampione detto, trovammo un fiume presso a un luogo domandato lndevedro.1 Questo fiume era molto largo, assai profondo, e sopra esso aveva3 un ponticello lungo e stretto, sanza sponde. Essendo la mattina una brinata molto grossa, giunto al ponte, che mi trovavo innanzi a tutti, e conosciuto molto pericoloso, comandai alli mia giovani e servitori che scavalcassino, menando li lor cavalli a mano. Cosi passai il detto ponte molto felicemente, e me ne venivo ragionando con un di quei dua Franzesi, il quale era un gentiluomo: quell'altro era un notaro, il quale era restato addietro alquanto e dava la baia a quel gentiluomo franzese e a me, che per paura di nonnulla avevàno 3 voluto quel disagio dell'andar a piede. Al quale io mi volsi, vedutolo in sul mezzo del ponte, e lo pregai che venissi pianamente, perché egli era in luogo molto pericoloso. Questo uomo, che non potette mancare alla sua franciosa natura, mi disse in francioso che io ero uomo di poco animo e che quivi non era punto di pericolo. Mentre che diceva queste parole, volse pugnere un poco il cavallo: per la qual cosa subito il cavallo isdrucciolò fuor del ponte, e con le gambe in verso il cielo cadde accanto a un sasso grossissimo. E, perché lddio molte volte è misericordioso de' 4 pazzi, questa bestia insieme con l'altra bestia e suo cavallo dettono in un tonfano5 grandissimo, dove gli andorno sotto e lui ed il cavallo. Subito veduto questo, con grandissima prestezza io mi cacciai a correre, e con gran difficultà saltai in su quel sasso, e spenzolandomi da esso aggiunsi6 un lembo d'una guarnacca7 che aveva addosso questo uomo, e per quel lembo lo tirai sù, che ancora stava coperto dall'acqua e, perché gli aveva beuto assai acqua e poco stava che saria affogato, io, vedutolo fuor del pericolo, mi rallegrai seco d'avergli campato la vita. Per la qual cosa costui mi rispose in franzese e mi disse che io non avevo fatto nulla; che la importanza si era le sue scritture che valevan di molte dicine di scudi. E pareva che queste parole costui me le dicessi in collora, tutto molle8 e barbugliando. A questo, io mi volsi a certe guide che noi avevamo, e commissi che aiutassino quella bestia, e che io gli pa1. Indevedro: «Forse il fiume Diveria [o Doveria], nella Val di Vedro• (Bacci). 2. aveva: c'era. 3. per paura di nonnulla avevàno: per una vana paura avevamo. 4. de': coi. 5. « Tonfano dicesi quel punto d'un fiume dove l'acqua ha scavato un gran fondo• (Bianchi). 6. aggirmsi: afferrai. 7. guarnacca: veste lunga, specie di zimarra. 8. molle: cioè sudato.

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gherei. Una di quelle guide virtuosamente1 e con gran fatica si mise a 'iutarlo, e ripescògli le sue scritture, tanto che lui non perse nulla; quell'altra guida mai non volse durar fatica nissuna a 'iutarlo. Arrivati che noi fummo poi a quel luogo sopradditto, noi avevamo fatto una borsa, la quale era tocca a spendere a me ;2 desinato che noi avemmo io detti parecchi danari della borsa della compagnia a quella guida che aveva aiutato trar colui del.. l'acqua; per la qual cosa costui mi diceva che quei danari io gliene darei del mio, ché non intendeva di dargli altro che quel che noi eràmo d'accordo d'aver fatto l'uffizio della guida. A questo, io gli dissi molte ingiuriose parole. Allora mi si fece incontro l'altra guida, qual non aveva durato fatica e voleva pure che io pagassi anche lui; e, perché io dissi: - Ancora costui merita il premio per aver portato la croce -, mi rispose che presto mi mostrerebbe una croce alla quale io piagnerei. A lui dissi che io accenderei un moccolo a quella croce, per il quale io speravo che a lui toccherebbe il primo a piagnere. E, perché questo è luogo di confini in fra i Veniziani e' Tedeschi, costui corse per populi,3 e veniva con essi con un grande ispiede4 innanzi. Io, che ero in sul mio buon cavallo, abbassai il fucile 5 in sul mio archibuso; voltomi a' compagni dissi: - Al primo6 ammazzo colui; e voi altri fate il debito vostro, perché quelli sono assassini di strada ed ànno preso questo poco dell'occasione solo per assassinarci. - Quell'oste dove noi avevamo mangiato chiamò un di quei caporali, eh' era vecchione, e lo pregò che rimediasse a tanto inconveniente, dicendogli: - Questo è un giovine bravissimo e, se bene voi lo taglierete a pezzi, e' ne ammazzerà tanti di voi altri, e forse potria scapparvi dalle mani da poi fatto il male che gli arà.7 - La cosa si quietò, e quel vecchio capo di loro mi disse: - Va' in pace, ché tu non faresti una insalata8 se9 tu avessi ben cento uomini teco. Io, che conoscevo che lui diceva la verità e mi ero risoluto di già e fattomi morto, non mi sentendo dire altre parole ingiuriose, scotendo il capo dissi: - Io arei fatto tutto il mio potere, mostrando essere animai vivo e uomo. - E, preso il viaggio, la sera al 1. virtuosamente: animosamente. 2. noi ••• me: avevamo messo insieme i denari, che toccava a me di amministrare. 3. corse per populi: andò a chiamar gente. 4. ispiede: spiedo (un tempo usato come arma da punta). 5. il fucile: l'acciarino. 6. Al primo: per prima cosa. 7. da ••• arà: fatto ch'egli avrà il male. 8. non • •• insalata: cioè non concluderesti nulla (D'Ancona). 9. se: anche se.

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primo alloggiamento facemmo conto della borsa, e mi divisi da quel Francioso bestiale, restando molto amico di quell'altro che era gentiluomo; e con i mia tre cavalli soli ce ne venimmo a Ferrara. Scavalcato che io fui, me ne andai in Corte del duca per far reverenzia a sua eccellenzia per potermi partir la mattina per alla volta di Santa Maria dal Loreto.1 Avevo aspettato insino a dua ore di notte,2 e allora comparse il duca: io gli baciai le mane; mi fece grande accoglienze e commisse che mi fussi dato l'acqua alle mane. Per la qual cosa io piacevolmente dissi: - Eccellentissimo signore, egli è più di quattro mesi che io non ho mangiato tanto che sia da credere che con tanto poco si viva; però, cognosciutomi che io non mi potrei confortare de' reali cibi della sua tavola, mi starò cosi ragionando con quella, in mentre che vostra eccellenzia cena, e lei e io a un tratto medesimo aremo più piacere che se io cenassi seco. - Cosi appiccammo ragionamento. e passammo insino alle cinque ore. Alle cinque ore poi io presi licenzia, e andatomene alla mia osteria trovai apparecchiato maravigliosamente, perché il duca mi aveva mandato a presentare le regaglie3 del suo piatto con molto buon vino; e, per essere a quel modo soprastato più di dua ore fuor della mia ora del mangiare, mangiai con grandissimo appetito, che fu la prima volta che di poi e' quattro mesi io avevo potuto mangiare. [c.] Partitomi la mattina, me ne andai a Santa Maria dal Loreto e di quivi, fatto le mie orazione, ne andai a Roma :4 dove io trovai il mio fidelissimo Filice, al quale io lasciai la bottega con tutte le masserizie ed ornamenti sua, e ne apersi un'altra a canto al Sugherello profumiere, molto più grande e più spaziosa; e mi pensavo che quel gran re Francesco non si avessi a ricordar di me. Per la qual cosa io presi di molte opere da diversi signori, e intanto lavoravo quel boccale e bacino che io avevo preso da fare dal cardinal di Ferrara. Avevo di molti lavoranti e molte gran faccende d'oro e di argento. Avevo pattuito con quel mio lavorante perugino,5 che da per sé s'era iscritto, tutti i danari che per la par1. Santa Maria dal Loreto: il famoso santuario di Loreto, nelle Marche. z. di notte: dal tramonto. 3. le regaglie: i resti. 4. andai a Roma: vi giunse il 1-6 dicembre 1537, come è noto da una lettera di Mattio Fronzesi al Varchi. 5. quel • •• perugino: Girolamo. Pascucci. Vedi a p. 699 e la nota 5.

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te sua si erano ispesi, li quai danari s'erano ispesi in suo vestire ed in molte altre cose. Con le spese del viaggio erano in circa a settanta scudi delli quali noi c'eràmo accordati che lui ne scontassi tre scudi il mese: ché più di otto iscudi io gli facevo guadagnare. In capo di dua mesi questo ribaldo si andb con Dio di bottega mia e lasciommi impedito da molte faccende, e disse che non mi voleva dar altro. Per questa cagione io fui consigliato di prevalermene per la via della iustizia,1 perché m'ero messo in animo di tagliargli un braccio e sicurissimamente lo facevo, ma li amici mia mi dicevano che non era bene che io facessi tal cosa, avvenga che io perdevo li mia denari e forse un'altra volta Roma, perché i colpi non si danno a patti~ e che io potevo, con quella scritta che io avevo di suo' mano, subito farlo pigliare. 3 Io mi attenni al consiglio, ma volsi più liberamente agitare4 tal cosa. Mossi la lite all'auditore della Camera realmente, e quella convinsi ;5 e per virtù di essa (ché v'andb parecchi mesi) io da poi lo feci mettere in carcere. Mi trovavo carica la bottega di grandissime faccende, ed in fra Paltre tutti gli ornamenti d'oro e di gioie della moglie del signor Gerolimo Orsino,6 padre del signor Paulo oggi genero del nostro duca Cosimo. Queste opere erano molto vicine alla fine, e tuttavia me ne cresceva delle importantissime. Avevo otto lavoranti e con essi insieme, e per onore e per utile, lavoravo il giorno e la notte.

[c1.] In mentre che cosi vigorosamente io seguitavo le mie imprese, mi venne una lettera mandatami con diligenza dal cardinale di Ferrara, la quale diceva in questo tenore: «Benvenuto, caro amico nostro. Alli giorni passati questo gran re cristianissimo' si ricordb di te, dicendo che desiderava averti al suo servizio. Al quale io risposi che tu m'avevi promesso che, ogni volta che I. prevalermene • • . iustizia: valermi delle vie legali. 2. i colpi • . . patti: già altra volta (p. 652) Benvenuto ha usato tale espressione, divenuta poi famosa. 3. pigliare: arrestare. 4. agitare: trattare. s. convimi: vinsi. 6. moglie •.. Orsino: Gerolamo Orsini, signore di Bracciano e valente condottiero. Suo figlio Paolo sposò nel 1553 Isabella figlia di Cosimo I de' Medici, e nel 176 l'uccise per gelosia. Il Bacci ricorda che, «tra carte inutili, il Bertolotti ritrovò un Inventario delle robe sequestrate al Cellini il 23 Ottobre 1538 nel quale si vede quali erano gli ornamenti d'oro e le gioie che l'Orsini gli aveva affidato e che volle gli fossero restituite». Moglie di Gerolamo è Francesca Sforza dei conti di Santa Fiora. 7. Francesco I. Il titolo di cristianissimo competeva ai re di Francia.

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io mandavo per te per servizio di sua maestà, subito tu verresti. A queste parole sua maestà disse: - Io voglio che si gli mandi la comodità da poter venire, sicondo che merita un suo pari. E subito comandò al suo amiraglio1 che mi facessi pagare mille scudi d'oro da il tesauriere de 1 rispiarmi. Alla presenza di questo ragionamento si era il cardinale de' Gaddi,2 il quale subito si fece innanzi e disse a sua maestà che non accadeva che sua maestà dessi quella commessione, perché lui disse averti mandato danari abbastanza e che tu eri per il cammino. Ora, se per caso egli è il contrario, si come io credo, di quel che à detto il cardinal de' Gaddi, auto questa mia lettera rispondi subito, perché io rappiccherò il filo e farotti dare li promessi danari da questo magnanimo re». Ora avvertisca il mondo e chi vive in esso quanto possono le maligne istelle coll'avversa fortuna in noi umanil Io non avevo parlato due volte a' miei di a questo pazzerellino · di questo cardi-naluccio de' Gaddi; e questa sua saccenteria lui non la fece per farmi un male al mondo, ma solo la fece per cervellinaggine e per dappocaggine sua, mostrandosi di avere ancora lui cura alle faccende degli uomini virtuosi che desiderava avere il re, si come faceva il cardinal di Ferrara. Ma fu tanto iscimunito da poi che lui non mi avvisò nulla; ché certo io, per non vituperare uno sciocco fantaccino per amor della patria, arei trovato qualche scusa per rat-toppare quella sua sciocca saccenteria. Subito auto la lettera del reverendissimo cardinale di Ferrara, risposi come del cardinal de' Gaddi io non sapevo nulla al mondo e che, se pure lui mi avessi tentato di tal cosa, io non mi sarei mosso di Italia senza saputa di sua signoria reverendissima, e maggiormente che io avevo in Roma una maggior quantità di faccende che mai per l'addietro io avessi aute; ma che a un motto di sua maestà cristianissima, dettomi da un tanto signore come era sua signoria reverendissima, io mi leverei subito, gittando ogni altra cosa a traverso. Mandato le mie lettere, quel traditore del mio lavorante perugino pensò a una malizia, la quale subito gli venne ben fatta rispetto alla3 avarizia di papa Pagolo da Farnese ma più del suo bastardo figliuolo, allora chiamato duca di Castro. 4 Questo ditto lavorante amiraglio: ammiraglio (grande dignitario del regno di Francia). 2. il cardinale de' Gaddi: Niccolò Gaddi fiorentino; vedi p. 57 5 e la nota II. 3. rispetto alla: in grazia della. 4. duca di Castro: è il famigerato e già ricordato Pier Luigi Famese: nel 1530 era stato nominato duca cli Castro da Clemente VII. I.

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fece intendere a un di que' segretari del signor Pierluigi ditto che, essendo stato meco per lavorante parecchi anni, sapeva tutte le mie faccende, per le quale lui faceva fede al ditto signor Pierluigi che io ero uomo di più di ottantamila ducati di valsente e che questi dinari io gli avevo la maggior parte in gioie, le qual gioie erano della Chiesa, e che io l'avevo rubate nel tempo del sacco di Roma in Castel Sant' Agnolo, e che vedessino di farmi pigliare subito e segretamente. Io avevo una mattina in fra !'altre lavorato più di tre ore innanzi giorno in sull'opere della sopradditta isposa,1 ed in mentre che la mia bottega si apriva e spazzava io m'ero messo la cappa addosso per dare un poco di volta; 2 e preso il cammino per strada I ulia, isboccai in sul canto della Chiavica, dove Crespino bargello3 con tutta la sua sbirreria mi si fece incontro e mi disse: - Tu se' prigion del papa. - Al quale io dissi: - Crespino, tu m'ài preso in iscambio.4 - No, - disse Crespino - tu se' il virtuoso 5 Benvenuto, e benissimo ti cognosco, e ti ò a menare in Castel Sant' Agnolo, dove vanno li signori e li uomini virtuosi pari tua. - E, perché quattro di quelli caporali sua mi si gittorno addosso e con violenza mi volevan levare una daga che io avevo accanto e certe anella che io avevo in dito, il ditto Crespino a loro disse: - Non sia nessun di voi che lo tocchi; basta bene che voi facciate l'uffizio6 vostro: che egli non mi fugga. - Di poi accostatomisi, con cortese parole mi chiese l'arme. In mentre che io gli davo l'arme, mi venne considerato che in quel luogo appunto io avevo ammazzato Pompeo. Di quivi mi menorno in Castello, ed in una camera su di sopra in nel mastio mi serrorno prigione. Questa fu la prima volta che mai io gustai prigione insino a quella mia età de' trentasette anni.

[CII.] Considerato il signor Pierluigi figliuol del papa la gran quantità de' danari che era quella di che io ero accusato, subito ne chiese grazia a quel suo padre papa che di questa somma de' danari gliene facessi una donagione. Per la qual cosa il papa volentieri gnene concesse, e di più gli disse che ancora gliene aiuterebbe riscuotere: di modo che, tenutomi prigione otto giorni 1. isposa: il Bacci, seguito da altri, menziona Isabella de' Medici, futura sposa di Paolo Giordano Orsini. Qui siamo nel 1537-8: vedi la nota 7 a p. 713. 2. per .•• volta: per fare unn breve passeggiata. 3. Crespi110 de' Boni. 4. in iscambio: per un altro. s. virtuoso: bravo. 6. l'uffizio: il dovere.

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interi, in capo degli otto giorni, per dar qualche termine a questa cosa, mi mandorno a esaminare.1 Di che2 io fu' chiamato in una di quelle sale che sono in Castello del papa, luogo molto onorato; e gli esaminatori erano il governator di Roma, qual si domandava misser Benedetto Conversini3 pistolese, che fu da poi vescovo de lesi; l'altro si era il procurator fiscale, che del nome suo non mi ricordo; 4 l'altro, ch'era il terzo, si era il giudice de' malifici, qual si domandava misser Benedetto da Cagli. Questi tre uomini mi cominciorno a esaminare prima con amorevole parole, da poi con asprissime e paventose parole, causate perché io dissi loro: - Signori mia, egli è più d'una mezz'ora che voi non restate di domandarmi di favole e di cose che veramente si può dire che voi cicalate o che voi favellate: modo di dire, cicalare, che non à tuono, o favellare, che non voi dir nulla; sì che io vi priego che voi mi diciate quel che voi volete da me, e che io senta uscir delle bocche vostre ragionamenti, e non favole e cicalerie.5 A queste mie parole il governatore, ch'era pistolese, e non potendo più palliare6 la sua arrovellata natura, mi disse: - Tu parli molto sicuramente,' anzi troppo altiero; di modo che cotesta tua alterigia io te la farò diventare più umile che un canino8 ai ragionamenti che tu mi udirai dirti, e' quali non saranno né cicalerie né favole, come tu di', ma saranno una proposta di ragionamenti ai quali e' bisognerà bene che tu ci metti del buono a dirci la ragione9 di essi. - E cosl cominciò: - Noi sappiamo certissimo che tu eri in Roma al tempo del sacco che fu fatto in questa isfortunata città di Roma; e in questo tempo tu ti trovasti in questo Castel Sant' Agnolo, e ci fusti adoperato per bombardiere; e, perché l'arte tua si è aurifice e gioielliere, papa Clemente, per averti conosciuto in primaJ 0 e per non essere qui altri di cotai professione, 1. esaminare: interrogare (dal magistrato). 2. Di che: per la qual cosa. 3. Benedetto Conversini: nominato vescovo di Forlimpopoli nel 1537 e di lesi nel '40; nel '38 era governatore di Roma. Morl nel 1553. 4. l'altro .•• ricordo: era Benedetto Valenti, di Trevi: personaggio già menzionato, per le sue funzioni, dal Ccllini (cfr. p. 629 e la nota 6). 5. favole e cicalerie: si veda nel Trattato dell'Oreficeria un passo dove si insiste sulle differenze di significato fra ragionare, parlare, favellare e cicalare (nl capo IX, Come si fa la tinta a' diamanti) e, quindi, anche nel discorso Sopra la diflere11:;a nata tra gli scultori e pittori circa il luogo destro stato dato alla pittura nelle usequie del gran Miclzelagnolo Buonarroti. Cfr. qui avanti, pp. 1008 e I I 15. 6. palliare: nascondere. 7. sicuramente: baldanzosamente. 8. ca11iP10: cagnolino. 9. la ragione: la spiegazione. 10. in prima: dapprima.

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ti chiamò in nel suo secreto 1 e ti fece isciorre tutte le gioie dei sua regni e mitrie ed anella, e di poi fidandosi di te volse che tu gnene cucissi addosso : per la qual cosa tu ne serbasti per te di nascosto da sua santità per il valore di ottantamila scudi. Questo ce l'à detto un tuo lavorante2 con il quale tu ti se' confidato e vantatone. Ora noi ti diciamo liberamente3 che tu truovi le gioie o il valore di esse gioie: di poi ti lasceremo andare in tua libertà.

[c111.] Quando io senti' queste parole, io non mi possetti tenere di non mi muovere4 a grandissime risa; di poi riso alquanto, io dissi: - Molto ringrazio lddio che per questa prima volta che gli è piaciuto a sua maestà5 che io sia carcerato, pur beato che io non son carcerato per qualche debol cosa,6 come il più delle volte par che avvenga ai giovani. Se questo che voi dite fussi il vero, qui non c'è pericolo nissuno per me che io dovessi7 essere gastigato da pena corporale,8 avendo9 le legge in quel tempo perso tutte le sue autorità; dove che io mi potria scusare dicendo che, come ministro,10 cotesto tesoro io lo avessi guardato per la sacra e santa Chiesa apostolica, aspettando di rimetterlo a buon papa, o si veramente da quello cheu e' mi fussi richiesto, quale ora saresti voi, se la stessi così. - A queste parole quello arrabbiato governatore pistolese non mi lasciò finir di dire le mie ragione, che lui furiosamente disse: - Acconciala in quel modo che tu vuoi, Benvenuto, ché a noi ci basta avere ritrovato il nostro; e fa' pur presto, se tu non vuoi che noi facciamo altro che con parole. - E, volendosi rizzare e andarsene, io dissi loro: - Signori, io non son finito di esaminare; sì che finite di esaminamù e poi andate dove a voi piace. - Subito si rimissono a sedere assai bene in collora, quasi mostrando di non voler più udire parola nissuna che io a lor dicessi, e mezzo sollevatP 2 parendo loro di aver trovato tutto quello che loro desideravono di sapere. Per la qual cosa io cominciai in questo tenore: - Sappiate, signori, che e' sono in circa a venti anni che io abito Roma, e mai né qui né altrove fui carcerato. I. in nel sr,o secreto: segretamente. 2. un tuo lavora,rte: il citato Pascucci. 3. liberamente: u chiaro e tondo• (Carli). 4. muooere: MS: muore. 5. a sua maestà: alla sua divina maestà. 6. debol cosa: debolezza (vizio).· 7. non •.• dovessi: certamente dovrei. 8. corporale: capitale. 9. avendo: pur avendo. 10. ministro: servo, dipendente. 11. da quello che: a quello da cui. 12. mezzo sollevati: e in atto di rialzarsi di lì ad un momento• (Carli).

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A queste parole quel birro di quel governatore disse: - Tu ci ài pure ammazzati degli uomini. - Allora io dissi: - Voi lo dite, e non io; ma se uno venissi per ammazzar voi, cosi prete, voi vi difenderesti, e ammazzando lui le sante legge ve lo comportano: sì che lasciatemi dire le mie ragione, volendo potere referire al papa e volendo giustamente potermi giudicare. Io di nuovo vi dico ch'e' son vicino a venti anni che io abito questa maravigliosa Roma, ed in essa ò fatto di grandissime faccende della mia professione: e, perché io so che questa è la sieda1 di Cristo, e' mi sarei promesso sicuramente che, se un principe temporale mi avessi voluto fare qualche assassinamento, io sarei ricorso a questa santa cattedra ed a questo vicario di Cristo che difendessi le mie ragione. Oimè, dove ò io a 'ndare adunque? e a chi principe che mi difenda da un tanto iscellerato assassinamento? Non dovevi2 voi, prima che voi mi pigliassi, intendere dove io giravo 3 questi ottantamila ducati ? Ancora non dovevi voi vedere la nota delle gioie che à questa Camera apostolica iscritte diligentemente da cinquecento anni in qua? Di poi che voi avessi trovato mancamento, allora voi dovevi pigliare tutti i miei libri, insieme con esso meco. Io vi fo intendere che e' libri, dove sono iscritte tutte le gioie del papa e de' regni, 4 sono tutti in piè, e non troverete manco nulla di quello che aveva papa Clemente che non sia iscritto diligentemente. Solo potria essere che, quando quel povero uomo di papa Clemente si volse accordare con quei ladroni di quelli Imperiali che gli avevano rubato5 Roma e vituperata la Chiesa, veniva a negoziare questo accordo uno che si domandava Cesere Iscatinaro, 6 se ben mi ricordo. Il quale, avendo quasi che concluso l'accordo con quello assassinato papa, per fargli un poco di carezze si lasciò cadere di dito un diamante che valeva in circa quattromila scudi: e, perché il ditto Iscatinaro si chinò a ricorlo, il papa gli disse che lo tenessi per amor suo. Alla presenza di queste cose io mi trovai in fatto e, se questo ditto diamante vi fussi manco, io vi dico dove gli è ito; ma io penso sicurissimamente che ancora questo troverrete iscritto. Di poi a vostra posta vi potrete vergo1. sieda: sedia (sede). 2. dovevi: dovevate. 3. giravo: cioè impiegavo (depositavo a scopo di affari). 4. regni: triregni. 5. r11bato: saccheggiato. 6. Cesere lscatinaro: in realtà si chiamava Giovan Bartolomeo Gattinara, nipote di Mercurio di Gattinara, gran cancelliere di Carlo V. Concluse con Clemente VII la capitolazione del 6 giugno I 527, ma essa non fu osservata.

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gnare di avere assassinato un par mio, che ò fatto tante onorate imprese per questa sieda apostolica. Sappiate che, se io non ero io la mattina che gli Imperiali entrorno in Borgo, sanza impedimento nessuno entravano in Castello; e io, sanza esser premiato per quel conto, mi gittai vigorosamente alle artiglierie che i bombardieri e' soldati di munizione avevano abbandonato, e messi animo a un mio compagnuzzo, che si domandava Raffaello da Montelupo1 iscultore, che ancora lui abbandonato s'era messo in un canto tutto ispaventato e non facendo nulla: io lo risvegliai; e lui ed io soli ammazzammo tanti de' nemici che i soldati presono altra via. Io fui quello che detti una archibusata allo Scatinaro per vederlo parlare con papa Clemente sanza una reverenza, ma con ischerno bruttissimo, come luteriano2 e impio che gli era. Papa Clemente a questo fece cercare in Castello chi quel tale3 fussi stato per impiccarlo. lo fui quello che ferl il principe d'Orangio d'una archibusata nella testa, qui sotto le trincee del Castello. Appresso ò fatto alla Santa Chiesa tanti ornamenti d'argento, d'oro e di gioie, tante medaglie e monete sl belle e sl onorate. È questa addunche la temeraria pretesca remunerazione, che si usa a un uomo che vi à con tanta fede e con tanta virtù servito e amato? O andate a ridire tutto quanto io v'ò detto al papa, dicendogli che le sue gioie e' l'à tutte e che io non ebbi mai dalla Chiesa nulla altro che certe ferite e sassate in cotesto tempo del Sacco, e che io non facevo capitale d'altro che di un poco di remunerazione da papa Pagolo, quale lui mi aveva promesso. Ora io son chiaro e di sua santità e di voi ministri. - Mentre che io dicevo queste parole egli4 stavano attoniti a udirmi e, guardandosi in viso l'un l'altro in atto di maraviglia1 si partirno da me. Andorno tutti e tre d'accordo a riferire al papa tutto quello che io avevo detto. Il papa, vergognandosi, commesse con grandissima diligenza che si dovessi rivedere tutti e' conti delle gioie. Di poi che ebbon veduto che nulla vi mancava, mi lasciavono stare in Castello senza dir altro: il signor Pierluigi ancora a lui parendogli aver mal fatto, cercavon con diligenza di farmi morire. Raffaello da Montelupo de 1 Sinibaldi, figlio di Baccio, scultore e architetto. Lavorò a Loreto con Antonio da Sangallo, a Firenze con Michelangelo alla sagrestia di San Lorenzo. A Roma fu nominato architetto di Castel Sant'Angelo. 2. lt1teriano: luterano. 3. quel tale: colui che aveva sparato contro il Gattinara. 4. egli: essi (eglino). I.

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[civ.] In questo poco dell'agitazion del tempo 1 il re Francesco aveva di già inteso n1inutamente come il papa mi teneva prigione, e a cosi gran torto: avendo mandato per imbasciadore al papa un certo suo gentiluomo, il quale si domandava monsignor di Morluc,2 iscrisse a questo che 1ni domandasse al papa come uomo di sua maestà. Il papa, che era valentissimo e maraviglioso uomo ma in questa cosa mia si portò come dappoco e sciocco, e' rispose al ditto nunzio del re che sua maestà non si curasse di me, perché io ero uomo molto fastidioso con l'arme, e per questo facevo 3 avvertito sua maestà che mi lasciassi stare, perché lui mi teneva prigione per omicidii e per altre mie diavolerie cosi fatte. Il re di nuovo rispose che in nel suo regno si teneva bonissima iustizia e, si come sua maestà premiava e favoriva maravigliosamente gli uomini virtuosi, cosi per il contrario gastigava i fastidiosi; e, perché sua santità mi avea lasciato andare non si curando del servizio di detto Benvenuto e vedendolo in nel suo regno, volentieri l'aveva preso al suo servizio; e come uomo suo lo domandava. Queste cose mi furno di grandissima noia e danno, con tutto che e' fussino e' più onorati favori che si possa desiderare per un mio pari. Il papa era venuto in tanto furore, per la gelosia che4 gli aveva che io non andassi a dire quella iscellerata ribalderia usatami, che e' pensava tutti e' modi che poteva con suo onore di farmi morire. Il castellano di Castel Sant'Agnolo si era un nostro Fiorentino, il quale si domandava misser Giorgio, cavaliere degli Ugo lini. 5 Questo uomo da bene mi usò le maggior cortesie che si possa usare al mondo, lasciandomi andare libero per il Castello a fede mia sola ;6 e, perché gl'intendeva il gran torto che m'era fatto, volendogli io dare sicurtà per andarmi a spasso per il Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avvenga che il papa istimava7 troppo questa I. In .•. tempo: «in questo poco tempo nel quale si agitavano o accadevano tali cose» (D'Ancona). 2. monsignor di Morluc: Jean de Monluc, fratello di Blaise, celebre maresciallo di Francia e memorialista. Venne nominato nel 1553 vescovo di Valenza nel Delfinato, e nel '73 ambasciatore a Varsavia dove favori l'elezione di Enrico d'Angiò a re di Polonia. Morl nel 1579. 3./acevo (come nel manoscritto): faceva. (Qualche altro caso consimile in o è nella Vita.) 4. che: MS: eh'. 5. nzisser ... Ugolini: questo personaggio non è stato identificato con esattezza dagli storici. Il Varchi cita, per altro, sotto l'anno 1500, un Giorgio Ugolini come «giovane amorevole della patria e di buone facultà » (Storia fiorentina, XI, 72). 6. a fede mia sola: cioè sulla parola. 7. istimava: MS: istaua (Bacci: « di mano e d 'inchiostro recente sono cass. le lettere aua e soprar. è imar,a »).

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cosa mia, ma che si fiderebbe liberamente della fede mia, perché da ugnuno intendeva quanto io ero uomo da bene: ed io gli detti la fede mia, e cosi lui mi dette comodità che io potessi lavoracchiare qualche cosa.1 A questo, pensando che questa indegnazione del papa, si per la mia innocenzia, ancora2 per i favori del re, si dovessi terminare, tenendo pure la mia bottega aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello e portavami alcune cose da lavorare. Benché poco io potessi lavorare, vedendomi a quel modo carcerato a cosi gran torto, pure facevo della necessità virtù. Lietamente il meglio che io potevo mi comportavo3 questa mia perversa fortuna: avevomi fatto amicissimi tutte quelle guardie ·e molti soldati del Castello. E, perché il papa veniva alcune volte a cena in Castello e in questo tempo che c'era il papa il Castello non teneva guardie ma stava liberamente aperto come un palazzo ordinario e, perché in questo tempo che il papa stava cosi, tutti e' prigioni si usavono con maggior diligenza riserrare; onde a me non era fatto nessuna di queste cotal cose, ma liberamente in tutti questi tempi io me ne andavo per il Castello e più volte alcuni di quei soldati mi consigliavano che io mi dovessi fuggire e che loro mi arieno fatto spalle, 4 conosciuto il gran torto che m'era fatto: ai quali io rispondevo che io avevo dato la fede mia al castellano, il quale era tanto uomo dabbene e che mi aveva fatto cosi gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e molto ingegnoso; e' mi diceva: - Benvenuto mio, sappi che chi è prigione non è ubbrigato né si può ubbrigare a osservar fede, si come nessuna altra cosa; fa' quel che io ti dico: fùggiti da questo ribaldo di questo papa e da questo bastardo suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo. - Io, che m'ero proposto più volentieri perder la vita che mancare a quello uomo dabbene del castellano della mia promessa fede, mi comportavo questo inistimabil dispiacere insieme con un frate di casa Palavisina, grandissimo predicatore. 5

1. lavoracchiare qualche cosa: fare qualche lavoretto. 2. ancora: e per di più. 3. mi comportavo: sopportavo (MS: coportauo). 4./atto spalle: spalleggiato (coadiuvandolo nel fuggire). 5. un frate •.• predicatore: «Valentissimo oratore, catturato per luteranesimo: la sua prigionia durò sette mesi e diciotto giorni [...]. Il Caro in una lettera al Guidiccioni, in data del 25 Giugno I 540, parla di un Frate Pallavicino arrestato di recente: forse è. questo .stesso, imprigionato di nuovo. nel '40 » (Bacci).

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[cv.] Questo era preso per luteriano: era bonissimo domestico compagno, ma quanto a frate egli era il maggior ribaldo che fussi al mondo, e s'accomodava a tutte le sorte de' vizii. Le belle virtù sua io le ammiravo, e' brutti vizii sua grandemente aborrivo e liberamente ne lo riprendevo. Questo frate non faceva mai altro che ricordarmi come io non ero ubbrigato a osservar fede al castellano per esser io in prigione. Alla qual cosa io rispondevo che sl bene come frate lui diceva il vero, ma come uomo e' non diceva il vero; perché un che fussi uomo e non frate aveva da osservare la fede sua in ogni sorte d'accidente in che lui si fussi trovato: però, io, che ero uomo e non frate, non ero mai per mancare di quella mia simplice e virtuosa fede. Veduto il ditto frate che non potette ottenere il corrompermi per via delle sue argutissime e virtuose1 ragioni tanto maravigliosamente dette da lui, pensò tentarmi per un'altra via; e lasciato cosi passare di molti giorni, in mentre mi leggeva le prediche di fra lerolimo Savonarolo,2 e' dava loro un comento tanto mirabile che era più bello che esse prediche; per il quale io restavo invaghito, e non saria stata cosa al mondo che io non avessi fatta per lui, da mancare della fede mia in fuora si come io ò detto. Vedutomi il frate istupito delle virtù sue, pensò un'altra via; ché con un bel modo mi cominciò a domandare che via io arei tenuto se e' mi fussi venuto voglia, quando loro mi avessino riserrato, a aprire quelle prigione per fuggirmi. Ancora io, volendo mostrare qualche sottigliezza di mio ingegno a questo virtuoso frate, gli dissi che ogni serratura difficilissima io sicuramente aprirrei, e maggiormente quelle di quelle prigione le quale mi sarebbono state come mangiare un poco di cacio fresco. Il ditto frate, per farmi dire il mio segreto, mi sviliva, dicendo che le son molte cose quelle che dicon gli uomini che son venuti in qualche credito di persone ingegnose: ché, se gli avessino poi a mettere in opera le cose di che loro si vantavano, perderebbon tanto di credito che guai a loro. Però sentiva dire a me cose tanto discoste al vero che, se io ne fussi ricerco,3 penserebbe ch'io n'uscissi con poco onore. A questo, sentendomi io pugnere da questo diavolo di questo frate, gli dissi che io usavo sempre prometter cli me con parole molto manco di quello che io sapevo 1. tJirtuose: abili. (D'Ancona: cznel senso di filosofiche».) 2.. lerolimo Savonarola: Girolamo Savonarola. 3. ricerco: ricercato, domandato.

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fare e che cotesta cosa che io avevo promessa delle chiave, era la più debole e con breve parole io lo farei capacissimo che l'era sl come io dicevo; e inconsideratamente, sl come io dissi, gli mostrai con facilità tutto quel che io avevo detto. Il frate, facendo vista di non se ne curare, subito benissimo apprese ingegnosissimamente il tutto. E, sl come di sopra io ò detto, quello uomo da bene del castellano mi lasciava andare liberamente per tutto il Castello; e manco la notte non mi serrava, sl come a tutti gli altri e' faceva; ancora mi lasciava lavorare di tutto quello che io volevo sì d'oro e d'argento e di cera. E, se bene io avevo lavorato parecchi settimane in un certo bacino che io facevo al cardinal di Ferrara, trovandomi affastidito dalla prigione m'era venuto a noia il lavorare quelle tale opere e solo mi lavoravo, per manco dispiacere, di cera alcune mie figurette: la qual cera il detto frate me ne buscò1 un pezzo, e con detto pezzo messe in opera quel modo delle chiave che io inconsideratamente gli avevo insegnato.a Avevasi preso per compagno e per aiuto un cancelliere che stava col ditto castellano. Questo cancelliere si domandava Luigi, ed era padovano. Volendo far fare le ditte chiave, il magnano 3 li scoperse; e, perché il castellano mi veniva alcune volte a vedere alla mia stanza, e vedutomi che io lavoravo di quelle cere, subito ricognobbe la ditta cera e disse: - Se bene a questo povero uomo di Benvenuto è fatto un de' maggior torti che si facessi mai, meco4 non dovev' egli far queste tale operazione, ché gli facevo quel piacere5 che io non potevo fargli: ora io lo terrò istrettissimo serrato6 e non gli farò mai più un piacere al mondo. - Cosi mi fece riserrare con qualche dispiacevolezza, massimo di parole dittemi da certi sua affezionati servitori, e' quali mi volevano bene oltramodo e ora per ora mi dicevano tutte le buone opere che faceva per me questo signor castellano; talmente che in questo accidente mi chiamavano uomo ingrato, vano e sanza fede. E perché un di quelli servitori più aldacemente7 che non si gli conveniva mi diceva queste ingiurie, onde io, sentendomi innocente, arditamente risposi dicendo che mai io non mancai di fede e che tal parole io terrei a sostenere con virtù della vita mia e che, se più e' mi diceva 1. me ne brucii: me ne prese. 2. insegnato: MS: insegniate. 3. il magnano: il serragliere che fa toppe e chiavi. 4. meco: nei miei confronti. 5. quel piacere: un favore. 6. istretti.ssimo serrato: cioè prigioniero in una cella ben chiusa. 7. aldacemente: audacemente (sfrontatamente).

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o lui o altri tale ingiuste parole, io direi che ognuno che tal cosa dicessi se ne mentirebbe per la gola, non possendo sopportare la ingiuria, corse in camera del castellano e portommi la cera con quel model fatto della chiave. Subito che io viddi la cera, io gli dissi che lui ed io avevamo ragione ma che mi facessi parlare al signor castellano, perché io gli direi liberamente il caso come gli stava, il quale era di molto più importanza che loro non pensavano. Subito il castellano mi fece chiamare, e io gli dissi tutto il seguìto; per la qual cosa lui ristrinse1 il frate, il quale iscopersea quel cancelliere che fu per essere impiccato. Il detto castellano quietò3 la cosa, la quale era di già venuta agli orecchi del papa; campò il suo cancelliere dalle forche e me allargò in nel medesimo modo che io mi stavo in prima.4

(cvi.] Quando io veddi seguire questa cosa con tanto rigore, cominciai a pensare ai fatti mia, dicendo:« Se un'altra volta venissi un di questi furori e che questo uomo non si fidassi di me, io non gli verrei a essere più ubbrigato, e vorrei adoperare un poco li mia ingegni, 5 li quali io son certo che mi riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio ». E cominciai a farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice io non le rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro che si stessin cheti, perché io l'avevo donate a certi di quei poveri soldati, che, se tal cosa si sapessi, quelli poveretti portavano pericolo della galera; di modo che li mia giovani e servitori fidelissimamente, massimo Felice, mi teneva tal cosa benissimo segreto, 6 le ditte lenzuola. lo attendevo a votare un pagliericcio, e ardevo la paglia, perché nella mia prigione v'era un camino da poter far fuoco. Cominciai di queste lenzuola a farne fasce larghe un terzo di braccio: quando io ebbi fatto quella quantità che mi pareva che fussi abbastanza a discendere da quella grande altura7 di quel mastio di Castel Sant' Agnolo, io dissi ai mia servitori che avevo donato quelle che io volevo ·e che m'attendessino a portare delle sottile e che sempre io renderei loro le sudice. Questa tal cosa si dimenticò. A quelli mia ristrinse: sottopose a stretta sorveglianza. 2. iscoperse: palesò come complice. 3. quietd: mise a tacere. 4. me ... prima: cioè mi permise come per l'innanzi di andar liberamente nel Castello. 5. ingegni: congegni (per serrature ecc.). 6. segreto: segretamente. 7. altura: altezza.

:1.

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lavoranti e servitori il cardinale Santiquattro1 e Cornaro2 mi feciono serrare la bottega, dicendomi liberamente che il papa non voleva intender nulla di lasciarmi andare e che quei gran favori del re mi avevano molto più nociuto che giovato; perché !'ultime parole, che aveva dette monsignor di Morluc da parte de' re, si erano istate che monsigno' di Morluc disse al papa che mi dovessi dare in mano a' giudici ordinari della Corte e che, se io avevo errato, mi poteva gastigare, ma, non avendo errato, la ragion voleva che lui mi lasciassi andare. Queste parole avevan dato tanto fastidio al papa che aveva voglia di non mi lasciare mai più. Questo castellano certissimamente mi aiutava quanto e' poteva. Veduto in questo tempo quelli nemici mia che la mia bottega s'era serrata, con ischerno dicevano ogni dl qualche parola ingiuriosa a quelli mia servitori e amici che mi venivano a visitare alla prigione. Accadde un giorno in fra gli altri che Ascanio, il quale ogni di veniva dua volte da me, mi richiese che io gli facessi una certa vestetta d'una mia vesta azzurra di raso, la quale io non portavo mai: solo mi aveva servito quella volta che con essa andai in processione; però io gli dissi che quelli non eran tempi, né io in luogo da portare cotai veste. Il giovane ebbe tanto per male che io non gli detti questa meschina vesta che lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze3 a casa sua. lo tutto appassionato4 gli dissi che mi faceva piacere a levarmisi d'innanzi; e lui giurò con grandissima passione di non mai più capitarmi innanzi. Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del castello. Avvenne che il castellano ancora lui passeggiava: incontrandoci5 appunto in suo• signoria, e Ascanio disse: - Io me ne vo, e addio per sempre. A questo io dissi: - E per sempre voglio che sia, e cosl sia il vero: io commetterò6 alle guardie che mai più ti lascin passare. - E voltomi al castellano, con tutto il cuore lo pregai che commettessi alle guardie che non lasciassino mai più passare Ascanio, dicendo a suo' signoria: - Questo villanello mi viene a crescere male al mio gran male; sì che io vi priego, signor mio, che mai più voi lasciate 1. il cardinale Sa11tiquattro: Antonio Pucci, nipote di Roberto, fu nominato cardinale dei • Quattrosanti coronati» nel 1531 : fu ambasciatore a Carlo V e a Francesco I. Mori nel 1544. 2 • .t il già menzionato cardinale Francesco Corna,o, fratello di Marco. Vedi la nota 2 a p. 653. 3. Tagliacozze: Tagliacozzo. 4. appassionato: incollerito. 5. incontrandoci: imbattendoci. 6. commetterò: raccomanderò.

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entrar costui. - Il castellano li incresceva assai, perché lo conosceva di maraviglioso ingegno: appresso a questo egli era di tanta bella forma di corpo che pareva che ognuno, vedutolo una sol volta, gli fussi ispressamente affezionato. Il ditto giovane se ne andava lacrimando, e portavane una sua stortetta1 che alcune volte lui segretamente si portava sotto. Uscendo del castello e avendo il viso cosi lacrimoso, si incontrò in dua di quei mia maggior nimici, che l'uno era quell'Ieronimo perugino2 sopradditto e l'altro era un certo Michele,3 orefici tutt'a dua. Questo Michele, per essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e nimico d'Ascanio, disse: - Che vuol dir che Ascanio piagne? forse gli è morto il padre? dico quel padre di Castello.4 - Ascanio disse a questo: - Lui è vivo, ma tu sarai or morto. - Ed alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua colpi, in sul. capo tutt'a dua, che col primo lo misse in terra, e col sicondo poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli pure in sul capo. Quivi restò come morto. Subito fu riferito al papa; e il papa in gran collera disse queste parole: - Da poi che il re5 vuole che sia giudicato, andategli a dare tre di di tempo per difendere la sua ragione. - Subito vennono e feciono il detto uffizio che aveva lor commesso il papa. Quello uomo da bene del castellano subito andò dal papa e fecelo chiaro6 come io non ero consapevole di tal cosa e che io ravevo cacciato via. Tanto mirabilmente mi difese che mi campò la vita da quel gran furore. Ascanio se ne fuggi a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse chiedendomi mille volte perdonanza:7 ché cognosceva avere auto il torto a aggiugnermi dispiaceri ai mia gran mali, ma, se Dio mi dava grazia che io uscissi di quel carcere, che non mi vorrebbe mai più abbandonare. Io gli feci intendere che attendessi a 'mparare8 e che, se Dio mi dava libertà, io lo chiamerei a ogni modo.

[CVII.] Questo castellano aveva ogni anno certe infermità che lo traevano del cervello affatto e, quando questa cosa gli cominciava 1. stortetta: una piccola arma di taglio (specie di squarcina). 2. lero11imo perugino: Girolamo Pascucci; vedi la nota s a p. 699. 3. un certo Micl,ele: è forse il Micheletto di cui in precedenza nella Vita; vedi la nota 8 di p. 595. 4. quel padre di Castello: cioè che sta in Castel Sant'Angelo. (La frase è certo beffarda.) 5. il re: Francesco I, re di Francia. 6. fece/o chiaro: lo informò. 7. perdonanza: perdono. 8. 'mparare: s'intende, nella professione di orafo.

LA VITA • LIBRO PRIMO

a venire, e' parlava assai, modo che cicalare,1 e questi umori2 sua erano ogni anno diversi, perché una volta gli parve essere un orcio da olio, un'altra volta gli parve essere un ranocchio e saltava come il ranocchio, un'altra volta gli parve esser morto e bisognò sotterrarlo: cosl ogni anno veniva in qualcun di questi cotai umori diversi. Questa volta si cominciò a immaginare d' essere un pipistrello e, in mentre che gli andava a spasso, istrideva qualche volta cosi sordamente come fanno i pipistrelli; ancora dava un po' d'atto alle3 mane ed al corpo, come se volare avessi voluto. Li medici sua, che se ne erano avveduti, cosl4 li sua servitori vecchi, li davano tutti i piaceri5 che immaginar potevano e, perché e' pareva loro che pigliassi gran piacere di sentirmi ragionare, a ogni poco e' venivano per me e menavanmi da lui. Per la qual cosa questo povero uomo talvolta mi tenne quattro e cinque ore intere che mai avevo restato9 di ragionar seco. Mi teneva alla tavola sua a mangiare al dirimpetto a sé, e mai restava di ragionare o di farmi ragionare; ma io in quei ragionamenti mangiavo pure assai bene. Lui povero uomo non mangiava e non dormiva, di modo che me aveva istracco7 che io non potevo più; e, guardandolo alcune volte in viso, vedevo che le luce degli occhi erano ispaventate,8 perché una guardava in un verso e l'altra in un altro. Mi cominciò a domandare se io avevo mai auto fantasia9 di volare: al quale io dissi che tutte quelle cose che più difficile agli uomini erano state, io più volentieri avevo cerco10 di fare e fatte; e questa11 del volare, per avermi presentato lo lddio della natura12 un corpo molto atto e disposto a correre ed a saltare molto più che ordinario, con quel poco dello ingegno poi che manualmente13 io adopererei, a me dava il cuore di volare al sicuro.14 Questo uomo mi cominciò a dimandare che modi io terrei: al quale io dissi che, considerato gli animali che volano, volendogli 'mitare15 con l'arte quello che loro avevano dalla natura, non c, era nissuno che si potessi modo che cicalare: a mo' d 1un parlare a vanvera. 2. umori: stravaganze (che si credevano dovute all'afflusso al cervello di umori maligni). 3. dava un po' d'atto alle: atteggiava un poco le (Carli). 4. con: e cosi pure. 5. i piaceri: le distrazioni (Carli). 6. restato: terminato. 7. istracco: stancato. 8. ispaventate: spaurite, smarrite (fino allo strabismo). 9. / antasia: estro, voglia. 10. cerco: cercato. 11. e q11esta: e quanto a questa. 12,. lo Iddio della natura: definizione già usata nel principio della Vita. Vedi la nota 2 a p. 497. 13. manualmente: con l'opera delle mani (fabbricando strumenti atti al volare). 14. al sicuro: sicuramente. 15. 1mitaf'e: MS:. mitare. 1.

BENVENUTO ~ELLINI

imitare se none il pipistrello. Come questo povero uomo senti quel nome di pipistrello, che era l'umore 1 in quel che peccava quell'an.. no, ·messe una voce grandissima, dicendo: - E' dice il vero, e' dice il vero; questa è essa, questa è essa! - E poi si volse a me e dissemi: - Benvenuto, chi ti dessi le comodità, e' ti darebbe pure il cuore di volare? - Al quale io dissi che, se lui mi voleva dar libertà da poi, che mi bastava la vista di volare insino in Prati,2 facendomi un paio d'alie 3 di tela di rensa4 incerate. Allora e' disse: - E anche a me ne basterebbe la vista; ma, perché il papa m'à comandato che io tenga cura di te come degli occhi suoi, io co .. gnosco che tu sei un diavolo ingegnoso che ti fuggiresti: però io ti vo' fare rinchiudere con cento chiave, acciocché tu non mi fugga. - Io mi messi a pregarlo, ricordandogli che io m' ero5 potuto fuggire, e, per amor della fede che io gli avevo data, io non gli arei mai mancato; però lo pregavo, per l'amor de Dio e per tanti piaceri quanti mi aveva fatto, che lui non volessi arrogere6 un maggior male al gran male che io avevo. In mentre che io gli dicevo queste parole, lui comandava espressamente che mi legassino e che mi menassino in prigione serrato bene. Quando io viddi che non v'era altro rimedio, io gli dissi, presente tutti e' sua: - Serratemi bene e guardatemi bene, perché io mi fuggirò a ogni modo. - Cosi mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa7 diligenza. [CVIII.] Allora io cominciai a pensare il modo che io avevo a

tenere a fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava la prigione dove io ero rinchiuso; e, parendomi aver trovato sicuramente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo iscendere da quella grande altezza di quel mastio (ché cosi si domanda quell'alto torrione): e preso quelle mie lenzuole nuove, che già dissi che io ne avevo fatte istrisce e benis.. simo cucite, andai esaminando quanto vilume8 mi bastava a potere iscendere. Giudicato quello che mi patria servire e di tutto messomi· in ordine, trovai un paio di tanaglie, che io avevo tolto a un

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1. l'itmore: cioè la fissazione. 2. Prati: erano appunto i Prati di Castello. 3. alie: ali. 4. tela di rensa: tela di lino finissima (da Reims). 5. m'ero: sarei. 6. arrogere: aggiungere. 7. maravigliosa: somma. 8. vilt1tne: volume :(•grossezza del rotolo, corrispondente alla lunghezza della striscia », Cadi).

LA VITA · LIBRO PRIMO

Savoino1 il quale era delle guardie dèl castello. Questo aveva cura alle botte ed alle ci terne ;2 ancora si dilettava di lavorare di legname; e, perché gli aveva parecchi paia di tanaglie, in fra queste ve n'era un paio molto grosse e grande: pensando che le fussino il fatto mio, 3 io gliene tolsi e le nascosi drento in quel pagliericcio. Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io cominciai con esse a tentare di quei chiodi che sostenevano le bandelle4 e, perché l'uscio era doppio, la ribaditura delli detti chiodi non si poteva vedere; di modo che, provatomi a cavarne uno, durai grandissima fatica; pure di poi alla fine mi riuscì. Cavato che io ebbi questo primo chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere che loro 5 non se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di rastiatura6 di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del medesimo colore appunto di quelli cappelli d'aguti' che io avevo cavati, e con essa cera diligentemente cominciai a contraffare quei cappei d'aguti in sulle lor bandelle e, di mano in mano, tanti quanti io ne cavavo tanti ne contraffacevo di cera. Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e da piè con certi delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi gli avevo rimessi, ma erano tagliati; di poi rimessi leggermente, tanto che e' mi tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima difficultà, perché il castellano sognava ogni notte che io m'ero fuggito e però lui mandava a vedere di ora in ora la prigione; e quello che veniva a vederla aveva nome e fatti8 di birro. Questo si domandava il Bozza, e sempre menava seco un altro che si domandava Giovanni, per soprannome Pedignone: questo era soldato, e 'l Bozza era servitore. Questo Giovanni non veniva mai volta9 a quella mia prigione che lui non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era cli quel di Prato, ed era stato in Prato allo speziale: 10 guardava diligentemente ogni sera quelle bandelle e tutta la prigione, ed io gli dicevo: - Guardatemi bene, perché io mi voglio fuggire a ogni modo. ·_ Queste parole feciono generare una nimicizia grandissima in fra lui e me I. Savoino: Savoiardo. Questo guardiano delle botti e cisterne era un Enrico de Oziaco, bombardiere; ciò favorì la sua amicizia col Cellini. Ebbe il ritratto negli affreschi che si fecero nel Castello nel 1545. 2. citerne: cisterne. 3. lefiusino il/atto mio: mi facessero comodo. 4. bandelle: son quelle liste di ferro inchiodate alle imposte e terminanti in anelli in cui s'infilano gli arpioni. 5. loro: cioè i guardiani. 6. rastiattlra: raschiatura. 7. cappelli d'aguti: grosse teste di chiodi (e, sotto, cappei). 8.fatti: comportamenti. 9. volta: una volta. 10. allo speziale: cioè garzone di speziale.

73°

BENVENUTO CELLINI

in modo che io con grandissima diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se dire1 tanaglie e un pugnale assai ben grande ed altre cose appartenente,2· diligentemente tutti riponevo in nel mio pagliericcio. Così quelle fasce che io avevo fatte, ancora queste tenevo in questo pagliericcio3 e, come gli era giorno, subito da me ispazzavo : e, se bene per natura io mi diletto della pulitezza, allora io stavo pulitissimo.4 !spazzato che io avevo, io rifacevo il mio letto tanto gentilmente, 5 e con alcuni fiori che quasi ogni mattina io mi facevo portare da un certo Savoino. Questo Savoino teneva cura della citerna e delle botte; e anche si dilettava di lavorar di legname; e a lui io rubai le tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste bandelle. [cxx.] Per tornare al mio letto, quando il Bozza ed il Pedignone venivano, mai dicevo loro altro se non che stessin discosto dal mio letto, acciocché e' non me lo imbrattassino e non me lo guastassino; dicendo loro per qualche occasione, che pure per ischerno qualche volta che cosi leggermente mi toccavano un poco il letto, per che io dicevo : - Ah i sudici poltroni l io metterò mano a una di coteste vostre spade e farovvi tal dispiacere che io vi farò maravigliare. Parv' egli esser degni di toccare il letto d'un mio pari? A questo io non arò rispetto alla vita mia, perché io son certo che io vi torrò la vostra; sl che lasciatemi stare colli mia dispiaceri e colle mia tribulazione, e non mi date più affanno di quello che io mi abbia se non che io vi farò vedere che cosa sa fare un disperato. Queste parole costoro le ridissono al castellano, il quale comandò loro ispressamente che mai non s'accostassino a quel mio letto e che, quando e' venivano da me, venissino sanza spade e che m'avessino benissimo cura del resto. Essendomi io assicurato del letto, mi parve aver fatto ogni cosa: perché quivi era la importanza6 di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra l'altre, sentendosi il castellano molto mal disposto e quelli sua omori cresciuti (non dicendo mai altro se non che era pipistrello e che, se lor sentissino che Benvenuto fussi volato via, lasciassino andar lui, che mi raggiugnerebbe, perché e' volerebbe di notte ancora lui certamente come se dire: quanto a dire. 2. appartenente: opportune. (Sta per appertinente: «pertinenti», e nel manoscritto l'e finale è ridotto a i.) 3. pagliericcio: MS: paglieccio. 4. allora ... pulitissimo: cosi i carcerieri non entravano a far pulizia. 5. tanto gentilmente: con tanta cura. 6. la importanza: il lato più importante. 1.

LA VITA • LIBRO PRIMO

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più forte di me, dicendo: - Benvenuto è un pipistrello contraffatto/ e io sono un pipistrello daddovero; e, perché e' m'è stato dato in guardia, lasciate pur fare a me: ché io lo giugnerò~ ben io), - essendo stato più notti in questo umore, gli aveva stracco tutti i sua servitori; e io per diverse vie intendevo ogni cosa, massimo da quel Savoino che mi voleva bene. Resolutomi questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo, in prima divotissimamente a Dio feci orazione, pregando sua divina maestà che mi dovessi difendere e aiutare in quella tanta pericolosa impresa; di poi messi mano a tutte le cose che io volevo operare,3 e lavorai tutta quella notte. Come io fu' a dua ore innanzi il giorno, io cavai quelle bandelle con grandissima fatica, perché il battente del legno della porta4 e anche il chiavistello facevano un contrasto, il perché io non potevo aprire. Ebbi a smozzicare5 il legno: pure alla fine io apersi e, messomi addosso quelle fasce quale6 io avevo avvolte a modo di fusi di accia7 in su dua legnetti, uscito fuora me ne andai dalli destri8 del mastio e, scoperto per di drento dua tegoli del tetto, subito facilmente vi saltai sopra. Io mi trovavo in giubbone bianco ed un paio di calze bianche e simile un paio di borzacchini,9 in ne' quali avevo misso quel mio pugnalotto già ditto. Di poi presi un capo di quelle mie fasce e l'accomandai10 a un pezzo di tegola antica ch'era murata in nel ditto mastio: a caso questa usciva fuori appena quattro dita. Era la fascia acconcia a modo d'una staffa. Appiccata che io l'ebbi a quel pezzo della tegola, voltami a Dio, dissi: « Signore Iddio, aiuta la mia ragione, perché io l'ò come tu sai e perché io mi aiuto». Lasciatomi andare pian piano, sostenendomi per forza di braccia, arrivai insino in terra. Non era lume di luna, ma era un bel chiarore.11 Quando io fui in terra, guardai la grande altezza che io avevo isceso cosl animosamente, e lieto me ne andai via, pensando d'essere isciolto. Per la qual cosa non fu vero, perché il castellano da quella banda aveva fatto fare dua muri assai bene alti, e se ne serviva per istalla e per pollaio: questo luogo era chiuso con grossi chiavistelli per di fuora. Veduto che io non pocontraffatto: cioè falso. 2. giugnerlJ: raggiungerò. 3. operare: adoperare. 4. il batte11te . .. porta: il regolo su cui batteva la porta (Carli). 5. Ebbi a smozzicare: dovetti scheggiare. 6. quale: le quali. 7. di accia: di filo greggio, dipanato su un legno, donde si svolge nella tessitura (Carli). 8. dal/i destri: dalla parte delle latrine. 9. borzaccliini: erano calzari a mezza gumba, e dovevano giungere sopra il ginocchio. 10. accomandai: legai. 11. Non • .• chiarore: la luna risplendeva dietro le nuvole. 1.

73 2

BENVENUTO CELLINI

tevo uscir di quivi, mi dava grandissimo dispiacere. In mentre che io andavo innanzi e indietro pensando ai fatti mia, detti de' piedi in una gran pertica, la quale era coperta dalla paglia. Questa con gran difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza di braccia la salsi1 insino in cima del muro. E, perché quel muro era tagliente,2 io non potevo aver forza da tirar sù la ditta pertica; però mi risolsi a 'ppiccare3 un pezzo di quelle fasce, che era l'altro fuso, perché uno de' dua fusi io l'avevo lasciato attaccato al mastio del castello: cosi presi un pezzo di quest'altra fascia, come ò detto, e legatala a quel corrente4 iscesi questo muro, il qual mi dette grandissima fatica e mi aveva molto istracco, e di più avevo iscorticato le mane per di dentro che sanguinavano ; per la qual cosa io m'ero messo a riposare, e mi avevo bagnato le mane con la mia orina medesima. Stando cosi, quando e' mi parve che le mie forze fussino ritornate, salsi all'ultimo procinto5 delle mura che guarda in verso Prati e, avendo posato quel mio fuso di fasce, col quale io volevo abbracciare un merlo e in quel modo che io avevo fatto in nella maggior altezza fare in questa minore; avendo, come io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse addosso6 una di quelle sentinelle che facevano la guardia. Veduto impedito il mio disegno e vedutomi in pericolo della vita, mi disposi di affrontare quella guardia; la quale, veduto l'animo mio diliberato e che andavo alla volta sua con armata mano, sollecitava il passo, mostrando di scansarmi. Alquanto iscostatomi dalle mie fasce, prestissimo mi rivolsi indietro; e, se bene io viddi un'altra guardia, talvolta7 quella non volse veder me. Giunto alle mie fasce, legatole al merlo mi lasciai andare; per la qual cosa, o si veramente parendomi essere presso a terra, avendo aperto le mane per saltare, o pure eran le mane istracche, non possendo resistere a quella fatica, io caddi e in questo cader mio percossi la memoria8 e stetti isvenuto più d'un'ora e mezzo, per quanto io posso giudicare. Di poi volendosi far chiaro il giorno, quel poco del fresco che viene un'ora innanzi al sole, quello mi fece risentire, 9 ma si bene stavo ancora fuor della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato il capo e mi pareva d'essere in nel purgatorio. Stando così, 1. salsi: salii. 2. tagliente: in quanto a spigolo. 3. 'ppiccare: appiccare, attaccare. 4. co"ente: probabilmente nel senso di« appiglio». 5. procinto: recinto. 6. mi ... addosso: mi apparve d'un tratto, a brevissima distanza. 7. talvolta: forse, 8. la memoria: la nuca, 9. rise,1tir11: rinvenire.

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a poco a poco mi ritornorno le virtù in nell'esser loro, e m'avviddi che io ero fuora del Castello, e subito mi ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E, perché la percossa della memoria io la senti' prima che io m'avvedessi della rottura della gamba, mettendomi le mane al capo ne le levai tutte sanguinose: di poi cercatomi' bene, cognobbi e giudicai di non aver male che d'importanza fussi; però volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba ritta sopra il tallone tre dita. Né anche questo mi sbigottl: cavai il -mio pugnalotto insieme con la guaina; che, per avere questo un puntale con una pallottola assai grossa in cima del puntale, questo era stato la causa dell'avermi rotto la gamba perché, contrastando l'ossa con quella grossezza di quella pallottola, non possendo l'ossa piegarsi, fu causa che in quel luogo si roppe: di modo che io gittai via il fodero del pugnale e con il pugnale tagliai un pezzo di quella fascia che m'era avanzata, ed il meglio che io passetti rimissi la gamba insieme; di poi carpone con il detto pugnale in mano andavo in verso la porta. Per la qual cosa giunto alla porta, io la trovai chiusa; e, veduto una certa pietra sotto la porta appunto, la quale, giudicando che la non fussi molto forte, mi provai a scalzarla; di poi vi messi le mane, e sentendola dimenare quella facilmente mi ubbidi, e trassila fuora; e per quivi entrai.2 [cx.] Era stato3 più di cinquecento passi andanti4 da il luogo dove io caddi alla porta dove io entrai. Entrato che io fui drento in Roma, certi cani maschini5 mi si gittorno addosso e malamente mi morsono; ai quali, rimettendosi più volte a fragellarmi, 6 io tirai con quel mio pugnale e ne punsi uno tanto gagliardamente che quello guaiva forte di modo che gli altri cani, come è lor natura, corsono a quel cane: ed io sollecitai7 andandomene in verso la chiesa della Trespontina8 cosi carpone. Quando io fui arrivato alla bocca ·della strada che volta in verso Sant' Agnolo, di quivi presi il cammino per andarmene alla volta di San Piero per modo che, facendomisi dì chiaro addosso, considerai che io portavo pericolo; e, scontrato un acqueruolo che aveva carico0 il suo asino e pieno le sue cercatomi: tastatomi in tutto il corpo. 2. entrai: s'intende, in Roma, -dato che il Castello era fuori della cerchia della città. 3. Era stato: c'era ·una distanza di. 4. andanti: ordinari. 5. moschini: mastini. 6. fragellarmi: azzannarmi con furia. 7. sollecitai: m'affrettai. 8. la chiesa della Tres-pontina: Santa Maria della Traspontina. 9. can·co: caricato. .1.

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BENVENUTO CELLINI

coppelle1 d'acqua, chiamatolo a me lo pregai che lui mi levassi di peso e mi portassi in su il rialto delle scalee di San Piero, dicendogli: - Io sono un povero giovane che per casi d'amore sono voluto iscendere da una finestra; cosi son caduto e rottomi una gamba. E, perché il luogo dove2 io sono uscito è di grande importanza e porterei pericolo di non essere tagliato a pezzi, però ti priego che tu mi lievi presto, ed io ti donerò uno scudo d'oro. - E messi mano alla mia borsa, dove io ve ne avevo una buona quantità. Subito costui mi prese e volentieri me si misse addosso, e portommi in sul ditto rialto delle scalee di San Piero; e quivi mi feci lasciare, e dissi che correndo ritornassi al suo asino. Subito presi il cammino cosi carpone, e me ne andavo in casa la duchessa,3 moglie del duca Ottavio e figliuola dello imperadore (naturale, non legittima), istata moglie del duca Lessandro, duca di Firenze; e, perché io sapevo certissimo che appresso a questa gran principessa c'era di molti mia amici, che con essa eran venuti di Firenze; ancora perché lei ne aveva fatto favore, 4 mediante il castellano (ché volendomi aiutare disse al papa, quando la duchessa fece l' entrata in Roma, che io fu' causa di salvare per più di mille scudi di danno che faceva loro una grossa pioggia; per la qual cosa lui disse ch'era disperato e che io gli messi cuore, e disse come io avevo acconcio parecchi pezzi grossi di artiglieria in verso quella parte dove i nugoli eran più istretti, e di già cominciati a piovere un'acqua grossissima; per la qual cosa, cominciato a sparare queste artiglierie, si fermò la pioggia, 5 e alle quattro volte6 si mostrò il sole, e che io ero stato intera causa che quella festa era passata benissimo; per la qual cosa, quando la duchessa lo intese, aveva ditto: - Quel Benvenuto è un di quei virtuosi7 che stavano con la buona memoria del duca Lessandro mio marito, e sempre io 1. coppelle: barili. 2. dove: da cui. 3. la duchessa: Margherita, figlia naturale di Carlo V, vedova di Alessandro de' Medici e rimaritata a Ottavio Farnese, nipote del papa. Essa entrò solennemente in città il 3 novembre 1538, quando il Cellini era prigioniero in Castel Sant•Angelo. Per altre notizie vedi la nota 1 a p. 444 e la nota 1 a p. 667. Figlio di Margherita e di Ottavio è il celebre generale Alessandro Farnese (1545-1592), dal 1578 governatore dei Paesi Bassi e dall'86 duca di Parma e Piacenza: da non confondere con l'omonimo cardinale (1520-1589), figlio del duca Pier Luigi. 4. ne ••• favore: mi s'era mostrata benevola (Carli). 5. cominciato •.. pioggia: con tal sistema (usato anche oggi contro la grandine) il Ccllini avrebbe rotto e stornato il temporale. 6. alle quattro volte: al quarto sparo. 7. virtuosi: valorosi.

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ne terrb conto di quei tali, venendo la occasione di far loro piacere - e ancora aveva parlato di me al duca Ottavio suo marito), per queste cause io me ne andavo diritto a casa di sua eccellenzia, la quale istava in Borgo Vecchio in un bellissimo palazzo che v'è; e quivi io sarei stato sicurissimo che il papa non m'arebbe tocco, ma, perché la cosa che io avevo fatta insin quivi era istata troppo maravigliosa a un corpo umano, non volendo Iddio che io entrassi in tanta vanagloria, per il mio meglio mi volse dare ancora una maggiore disciplina1 che non era istata la passata. E la causa si fu che, in mentre che io me ne andavo così carpone su per quelle scalee, mi ricognobbe subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro,2 il qual cardinale era alloggiato in Palazzo.3 Questo servitore corse alla camera del cardinale, e isvegliatolo disse: - Monsignor reverendissimo, gli è giù il vostro Benvenuto, il quale s'è fuggito di Castello e vassene carponi tutto sanguinoso: per quanto e' mostra, gli à rotto una gamba, e non sappiamo dove lui si vada. - Il cardinale disse subito: - Correte, e portatemelo di peso qui in camera mia. - Giunto a lui, mi disse che io non dubitassi di nulla, e subito mandb per i primi medici di Roma e da quelli io fui medicato: e questo fu un maestro lacomo da Perugia, 4 molto eccellentissimo cerusico. Questo mirabilmente mi ricongiunse l'osso, poi fasciommi e di suo' mano5 mi cavò sangue; ché, essendomi gonfiate le vene molto più che l'ordinario, ancora perché lui volse fare la ferita alquanto aperta, usci si grande il furor6 di sangue che gli dette nel viso e di tanta abbundanzia lo coperse che lui non si poteva prevalere' a medicarmi; e, avendo presa questa cosa per molto male aurio,8 con gran difficultà mi medicava e più volte mi volse9 lasciare, ricordandosi che ancora a lui ne andava non poca pena10 a avermi medicato o pure finito di medicarmi. Il cardinale mi fece mettere in una camera segreta, e subito andatosene a Palazzo con intenzione di chiedermiu al papa.

1. disciplina: castigo. 2. Il cardinale Francesco Con,aro, su cui vedi la nota 2 di p. 653. 3. i11 Pala::zo: in Vaticano. 4. lacomo da Per11gia: Giacomo Rastelli, chirurgo (cerusico) pontificio, oriundo di Rimini: su di lui vedi qui addietro, a p. 601, nota 4. 5. suo' mano: sue mani. 6. il furor: lo spruzzo. 7. non • .• prevalere: non poteva riuscire. 8. aurio: augurio. 9. mi volse: mi avrebbe voluto. 10. pena: punizione. I 1. chiedermi: chieder per me libertà,

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BENVENUTO CELLINI

[cxx.] In questo mezzo s'era. levato un romore grandissimo in Roma; che di già s'era vedute le fasce attaccate al gran torrione del mastio di Castello, e tutto Roma correva a vedere questa inistimabil cosa. Intanto il castellano era venuto in ne' sua maggiori umori della pazzia, e voleva a forza 1 di tutti e' sua servitori volare ancora lui da quel mastio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui con il volarmi drieto. In questo, misser Ruberto Pucci, padre di misser Pandolfo, avendo inteso questa gran cosa, andò in persona per vederla; di poi se ne venne a Palazzo, dove si incontrò nel cardinal Cornaro, il quale disse tutto il segulto2 e sì come io ero in una delle sue camere di già medicato. Questi dua uomini dabbene d'accordo si andorno a gittare in ginocchioni dinanzi al papa; il quale, innanzi che e' lasciassi lor dir nulla, lui disse: - Io so tutto quel che voi volete da me. - Misser Ruberto Pucci disse: - Beatissimo Padre, noi vi domandiamo per grazia quel povero uomo, che per le virtù sue merita avergli qualche discrezione ;3 e appresso a quelle gli à mostro una tanta bravuria4 insieme con tanto ingegno che non è parsa cosa umana. Noi non sappiamo per qual peccati vostra santità l'à tenuto tanto in prigione; però, se quei peccati fussino troppo disorbitanti, 5 vostra santità è santa e savia, e facciane alto e basso6 la voluntà sua; ma, se le son cose da potersi concedere, la preghiamo che a noi ne faccia grazia. - Il papa, a questo vergognandosi, disse che m'aveva tenuto in prigione a riquisizione7 di certi sua - per essere lui un poco troppo ardito -; ma che, - cognosciuto le virtù sue e volendocelo tenere appresso a di noi, avevamo ordinato di dargli tanto bene che lui non avessi auto causa di ritornare in Francia. Assai m'incresce del suo gran male; ditegli che attenda a guarire; e de' sua affanni, guarito che e' sarà, noi lo ristoreremo. - Venne questi due omaccioni,8 e dettonmi questa buona nuova da parte del papa. In questo mezzo mi venne a visitare la nobiltà di Roma, e giovani e vecchi e d'ogni sorte. Il castellano cosi fuor di sé si fece portare al papa; e, quando fu dinanzi a sua santità, cominciò a gridare dicendo che, se lui non me gli rendeva in prigione, che gli faceva un gran torto, dicendo: - E' m'è fuggito sotto la fede 9 che m'aveva I. a forza: nonostante gli impedimenti. 2. il seguito: l'avvenuto. (Il Carli è incerto se intendere il sèguito o.il seguito.) 3. discrezione: favore. 4. bravuria: coraggio. 5. disorbita11ti: esorbitanti, eccessivi. 6. alto e basso: interamente. 7. riquisfaio11e: richiesta. 8. omaccio,ii: personaggi d'importanza. 9. la fede: la paro1a.

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data; oimè, che e' m'è volato via, e mi promesse di non volar vial - El papa ridendo disse: - Andate, andate; ché io ve lo ren• derò a ogni modo. - Aggiunse il castellano, dicendo al papa: - Mandate a lui il governatore, il quale intenda chi l'à aiutato fuggire perché, se gli è de' mia uomini, io lo voglio impiccare per la gola a quel merlo dove1 Benvenuto è fuggito. - Partito il castellano, il papa chiamò il governatore sorridendo, e disse: - Questo è un bravo uomo, e questa è una maravigliosa cosa; con tutto che, quando io ero giovane, ancora io iscesi di quel luogo proprio. A questo2. il papa diceva il vero, perché gli era stato prigione in Castello per avere falsificato un breve, essendo lui abbreviatore di Parco maioris: 3 papa Lessandro4 l'aveva tenuto prigione assai; di poi, per esser la cosa troppo brutta, si era risoluto tagliargli il capo. Ma volendo passare le feste del Corpus Domini, sapendo il tutto il Farnese, fece venire Pietro Chiavelluzzi5 con parecchi cavalli6 e in Castello corroppe con danari certe di quelle guardie; di modo che il giorno del Corpus Domini, in mentre che il papa era in processione, Farnese fu messo in un corbello e con una corda fu collato7 insino a terra. Non era ancor fatto il procinto8 delle mura al castello, ma era solamente il torrione; di modo che lui non ebbe quelle gran difficultà a fuggirne, sl come ebbi io: ancora, lui era preso a ragione e io a torto. Basta che si volse vantare col governatore d'essere istato ancora lui nella sua giovanezza animoso e bravò, e non s'avvedde che gli scopriva le sue gran ribalderie. Disse: - Andate, e ditegli liberamente vi dica chi gli à aiutato: così sie stato chi e' vuole, basta che a lui è perdonato, e prometteteglielo liberamente voi.

[cxu.] Venne a me questo governatore, il quale era stato fatto di dua giorni innanzi vescovo de lesi.9 Giunto a me, mi disse: - Benvenuto mio, se bene il mio uffizio è quello che spaventa gli dove: da cui (calandosi). 2. A qu.esto: in questo. 3. essendo .•• maioris: Collegio degli Abbreviatori di Parco maggiore e minore fu istituito da Pio II e constava di 72 ufficiali scelti fra gli uomini più dotti ed eruditi• (Bacci). 4. papa Lessandro: papa Innocenzo VIII, non Alessandro VI. 5. Pietro C/iiavelluzzi: nella fuga il Famese sarebbe stato invece aiutato (secondo il Panvinio) da un suo parente, Pietro Marganio. 6. cavalli: armati a cavallo. 7. collato: calato. 8. il procinto: la cinta. 9. il quale ••• lesi: egli fu fatto vescovo di lesi nel 1540. Il Ccllini confonde. Il Conversini nel '37 era stato nominato al vescovado di Forlimpopoli. I.

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uomini, io vengo a te per assicurarti, e cosi ò autorità di prometterti per commessione espressa di sua santità, il quale m'à ditto the anche lui ne fuggì ma che ebbe molti aiuti e molta compagnia, ché altrimenti non l'aria potuto fare. lo ti giuro per i sacramenti che io ò addosso (ché son fatto vescovo da dua di in qua), che il papa t'à libero1 e perdonato, e gli rincresce assai del tuo gran male; ma attendi a guarire e piglia ogni cosa per il meglio: ché questa prigione, che certamente innocentissima2 tu ài auto, la sarà istata la salute tua per sempre, perché tu calpesterai la povertà, e·non ti accadrà ritornare in Francia andando a tribulare la vita tua in questa parte e in quella. Sì che dimmi liberamente il caso come gli è stato, e chi t'à dato aiuto; di poi confortati e riposati e guarisci. - Io mi feci da un capo e gli contai tutta la cosa come l'era istata appunto, e gli detti grandissimi contrassegni, insino a dell'acqueruolo che n1'aveva portato addosso. Sentito ch'ebbe il governatore il tutto, disse: - Veramente queste son troppe gran cose fatte da un uomo solo: le non son degne d'altro uomo che di te. Così fattomi cavar fuora la mana, disse: - Istà' di buona voglia e confortati: ché per questa mana che io ti tocco tu se' libero, e, vivendo, sarai felice. - Partitosi da me che aveva tenuto a disagio un monte di gran gentiluomini e signori che mi venivano a visitare (dicendo in fra di loro: - Andiamo a vedere quello uomo che fa miracoli -, questi restorno meco; e chi di loro mi afferiva e chi mi presentava),3 intanto il governatore giunto al papa cominciò a contar la cosa che io gli avevo ditta: e appunto s'abbatté a esservi alla presenza il signor Pierluigi suo figliuolo; e tutti facevano grandissima maraviglia~ Il papa disse: - Certamente questa è troppo gran cosa. - Il signor Pierluigi allora aggiunse, dicendo: - Beatissimo Padre, se voi lo liberate, egli ve ne farà delle maggiori, perché questo è un animo d'uomo troppo aldacissimo. Io ve ne voglio contare un'altra che voi non sapete. Avendo parole questo vostro Benvenuto, innanzi che lui fussi prigione, C(?n un gentilt:1omo del cardinal Santa Fiore, 4 le qual parole vennono da una piccola cosa che questo gentiluomo aveva t'à libero: t'ha fatto libero. 2. innocentissima: del tutto se112a tua colpa. 3. e chi di loro • .. presentava: e chi offriva i suoi servigi, e chi faceva presenti. 4. cardinal Santa Fiore: Guido Ascanio Sforza, cardinale di Santa Fiora. Era figlio di Bosio conte di Santa Fiora e di Costanza Farnese, .figlia naturale di Paolo Hl. Fu fatto cardinale nel 1534, a sedici anni. I.

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detto a Benvenuto; di modo che lui bravissimamente1 e con tanto ardire rispose, insino a voler far segno di far quistione. Il detto gentiluomo referito al cardinale Santa Fiore, il qual disse che, se vi metteva le mani lui, che gli caverebbe il pazzo del capo,2 Benvenuto, inteso questo, teneva un suo scoppietto in ordine, con il quale lui dà3 continuamente in un quattrino; e un giorno affacciandosi il cardinale alla finestra, per essere la bottega del ditto Benvenuto sotto il palazzo del cardinale, preso il suo scoppietto si era messo in ordine per tirare al cardinale. E, perché il cardinale ne fu avvertito, si levò subito. Benvenuto, perché e' non si paressi tal cosa, tirò a un colombo terraiuolo che covava in una buca su alto4 del palazzo, e dette al ditto colombo in nel capo: cosa impossibile da poterlo credere. Ora vostra santità faccia tutto quel che la vuole di lui; io non voglio mancare di non ve lo aver detto. E' gli potrebbe anche venir voglia, parendogli essere stato prigione a torto, di tirare una volta a vostra santità. Questo è un animo troppo afferato5 e troppo sicuro.6 Quando gli ammazzò Pompeo, gli dette dua pugnalate in nella gola in mezzo a dieci uomini che lo guardavano, e poi si salvò,' con biasimo non piccolo di coloro li quali eran pure uomini da bene e di conto. [cxnr.] Alla presenza di queste parole si era quel gentiluomo di Santa Fiore con il quale io avevo auto parole, e affermò8 al papa tutto quel che il suo figliuolo aveva detto. Il papa stava gonfiato9 e non parlava nulla. Io non voglio mancare che io non dica le mie ragione giustamente e santamente. Questo gentiluomo di Santa Fiore venne un giorno a me e mi porse un piccolo anellino d'oro, il quale era tutto imbrattato d'ariento vivo, dicendo: - Isvivami10 questo anelluzzo e fa' presto. - lo, che avevo innanzi molte opere d'oro con gioie importantissime e anche sentendomi cosi sicuramente comandare da uno a il quale io non avevo mai né parlato né veduto, gli dissi che io non avevo per allora isvivatoio e che andassi a un altro. Costui, sanza un proposito al mondo, mi disse I. bravissimamente: con tanta animosità. z. il pazzo del capo: la pazzia dalla testa. 3. dà: colpisce. 4 . .m alto: nella parte alta. 5. afferato: efferato. 6. sicuro: sfrontato. 7. si salvò: trovò scampo fuggendo. 8. affermò: confermò. 9. stava go11fiato: per l'ira. 10. «lsvivare, forse qui vale levar l'argento vivo: oppure sta per avvivare, rendere lo splendore; iroivatoio, per avvivatoio, idiotismo usato dal Cellini, forse per beffarsi di quel1'isvivarmi detto di sopra» (Bianchi).

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che io era un asino. Alle qual parole io risposi eh' e' non diceva la verità e che io ero un uomo in ogni conto da più di lui; ma che, se lui mi stuzzicava, io gli darei ben calci più forte che un asino. Costui riferl al cardinale e li dipinse un inferno.' Ivi a dua giorni io tirai drieto al palazzo in una buca altissima a un colombo salvatico, che covava in quella buca; e a quel medesimo colombo io avevo visto tirare più volte da un orefice che si domandava Giovan Francesco della Tacca,2 milanese, e mai l'aveva colto. Questo giorno che io tirai, il colombo mostrava appunto il capo stando in sospetto per l'altre volte che gli era stato tirato, e, perché questo Giovan Francesco ed io eravamo rivali alle cacce dello stioppo, essendo certi gentiluomini e mia amici in su la mia bottega, mi mostrorno dicendo: - Ecco lassù il colombo di Giovan Francesco della Tacca, a il quale gli à tante volte tirato: or vedi, quel povero animale sta in sospetto, appena che e' mostri il capo. - Alzando gli occhi, io dissi: - Quel poco del capo solo basterebbe a me a ammazzarlo, se m'aspettassi solo che io mi ponessi a viso3 il mio stioppo. - Quelli gentiluomini dissono che e' non gli darebbe4 quello che fu inventore dello stioppo. Al quale io dissi: - Vadine un boccale di grego 5 di quel buono di Palombo oste e che, se m'aspetta che io mi metta a viso il mio mirabile Broccardo - che cosi chiamavo il mio stioppo -, io lo investirò in quel poco del capolino che mi mostra. - Subito postami a viso, a braccia, senza appoggiare o altro, feci quanto promesso avevo, non pensando né al cardinale né a persona altri; anzi mi tenevo il cardinale per molto mio patrone. Sicché vegga il mondo, quando la fortuna vuol tòrre a 'ssassinare un uomo, quante diverse vie la piglia. Il papa gonfiato e ingrognato stava considerando quel che gli aveva detto il suo -figliuolo.

[cxiv.] Dua giorni appresso andò il cardinal Cornaro a dimandare un vescovado al papa per un suo gentiluomo, che si domandava 1nisser Andrea Centano.6 Il papa è vero che gli aveva promesso un vescovado: essendo cosi vacato,' ricordando il cardinale 1. li dipinse un inferno: cioè disse di lui cose spaventevoli. 2. Giovan Francesco della Tacca: u Fu forse fratello di Giovan Pietro della Tacca 11 (Bacci). Cfr. la nota 1 di p. 538. 3. a viso: in mira. 4. non gli darebbe: non lo colpirebbe. 5. grego: vin greco. 6. Andrea Centano: non si sa bene di chi si tratti. 7. vacato: fatto disponibile.

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al papa si come tal cosa lui gli aveva promesso, il papa affermb esser la verità e che così gliene voleva dare, ma che voleva un piacere da sua signoria reverendissima, e questo si era che voleva che gli rendessi nelle mane Benvenuto. Allora il cardinale disse: - Oh se vostra santità gli à perdonato e datomelo libero, che dirà il mondo e di vostra santità e di me? - Il papa replicò: - Io voglio Benvenuto, e ognun dica quel che vuole, volendo voi il vescovado. - Il buon cardinale disse che sua santità gli dessi il vescovado, e che del resto pensassi da sé e facessi da poi tutto quel che sua santità e voleva e poteva. Disse il papa, pure alquanto vergognandosi della iscellerata già data fede sua: - Io manderb per Benvenuto, e per un poco di mia sadisfazione lo metterò giù in quelle camere del giardin segreto,1 dove lui potrà attendere a guarire e non si gli2 vieterà che tutti gli amici sua lo vadino a vedere; e anche li farò dar le spese, insin che ci3 passi questo poco della fantasia. - Il cardinale tornò a casa e mandommi subito a dire, per quello che aspettava il vescovado, come il papa mi rivoleva nelle mane ma che mi terrebbe in una camera bassa in nel giardin segreto, dove io sarei visitato da ugnuno si come io ero in casa sua. Allora io pregai questo misser Andrea che fussi contento di dire al cardinale che non mi dessi al papa e che lasciassi fare a me perché io mi farei rinvoltare in un materasso e mi farei portare fuor di Roma in luogo sicuro perché, se lui mi dava al papa, certissimo mi dava alla morte. Il cardinale, quando e' le intese, si crede che lui l'arebbe volute fare; ma quel misser Andrea, a chi toccava il vescovado, scoperse la cosa. Intanto il papa mandb per me subito e fecemi mettere, si come e' disse, in una camera bassa in nel suo giardin segreto. Il cardinale mi mandò a dire che io non mangiassi nulla di quelle vivande che mi mandava il papa e che lui mi manderebbe da mangiare; e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far di manco; e che io stessi di buona voglia, ché m'aiuterebbe tanto che io sarei libero. Standomi cosi, ero ogni di visitato e offertami da molti gran gentiluomini molte gran cose. Dal papa veniva la vivanda, la quale io non toccavo, anzi mi mangiavo quella che veniva dal cardinal Cornaro 1. camere del giardin segreto: erano stanze che davano su un giardino riservato e privato in Castel SaneAngelo, ma certo finivano per corrispondere a «segrete» vere e proprie. 2. si gli: gli si. 3. ci: gli.

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e cosi mi stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco1 di età di venticinque anni: questo era gagliardissimo oltramodo e giucava2 di spada meglio che ogni altro uomo che fussi in Roma: era pusillo 3 d'animo, ma era fidelissimo uomo dabbene e molto facile al credere. Aveva sentito dire che il papa aveva detto che mi voleva remunerare de' miei disagi. Questo era il vero, che il papa aveva detto tal cose da principio, ma in nell'ultimo da poi diceva altrimenti. Per la qual cosa io mi confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: - Fratello carissimo, costoro mi vogliono assassinare, si che ora è tempo aiutarmi: ché pensano che io non me ne avvegga, facendomi questi favori istrasordinari, gli quali son tutti fatti per tradirmi. - Questo giovane da bene diceva: - Benvenuto mio, per Roma si dice che il papa t'à dato un uffizio di cinquecento scudi di entrata, si che io ti priego di grazia che tu nòn faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene. - ·E io pure lo pregavo con le braccia in croce che mi levassi di quivi, perché io sapevo bene che un papa simile a quello mi poteva fare di molto bene, ma che io sapevo certissimo che lui studiava in farmi segretamente per suo onore di molto male. Però facessi presto e cercassi di camparmi la vita da costui: ché, se lui mi cavava di quivi in nel modo che io gli arei detto, io sempre arei riconosciuta la vita mia da lui; venendo il bisogno, la ispenderei. Questo povero giovane piangendo mi diceva: - O caro mio fratello, tu ti vuoi pure rovinare, ed io non ti posso mancare a quanto tu mi comandi; si che dimmi il modo, ed io farò tutto quello che tu dirai, se bene e' fia contra mia voglia. - Cosi eràmo risoluti, e io gli avevo dato tutto l'ordine, che facilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi per mettere in opera quanto io gli avevo ordinato, mi venne a dire che per la salute mia ini voleva disubbidire, e che sapeva bene quello che gli aveva inteso da uomini che stavano appresso a il papa e che sapevano tutta la verità de' casi mia. Io, che non mi potevo aiutare in altro modo, ne restai malcontento e disperato. Questo fu il dì del Corpus Domini nel millecinquecentotrentanove.

[cxv.] Passatomi, tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino alla notte, dalla cucina del papa venne una abbundante viI.

greco: MS: chreco.

2.

giucava: giostrava ( tirava).

3. pus ilio: debole.

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vanda: ancora dalla cucina del cardinale Cornaro venne bonissima provvisione. Abbattendosi a questo parecchi mia amici, gli feci restare a cena meco; onde io, tenendo la mia gamba isteccata1 in nel letto, feci lieta cera2 con esso loro; cosi soprastettono meco. Passato un'ora di notte di poi si partirno; e dua mia servitori m,assettorno da dormire, di poi si messono nell'anticamera. Io avevo un cane nero quaneuna mora, di questi pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo e mai non istava lontan da me -un passo. La notte, essendomi sotto il letto, ben tre volte chiamai il mio servitore che me lo levassi di sotto il letto, perché e' mugliava paventosamente. 3 Quando i servitori venivano, que.. sto cane si gittava loro addosso per mordergli. Gli erano ispaventati e avevan paura che il cane non fussi arrabbiato, perché continuamente urlava. Cosi passammo insino alle quattro ore di notte. Al tocco delle quattro ore di notte entrò il bargello con molta famiglia4 drento nella mia camera: allora il cane uscì fuora e gittassi addosso a questi con tanto furore, stracciando loro le cappe e le calze, 5 e gli aveva missi in tanta paura che lor pensavano che fussi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello, come persona pratica, disse: - La natura de' buoni cani è questa: che sempre s'indovinano e predicono il male che de'6 venire a' lor padroni; pigliate dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e gli altri leghino Benvenuto in su questa sieda, e menatelo dove voi sapete. - Si come io ò detto, era il giorno passato del Corpus Domini ed era incirca a quattro ore di notte. Questi mi portavano turato e coperto,? e quattro di loro andava innanzi, facendo iscansare quelli pochi uomini che ancora si ritrovavano per la strada. Cosi ini portorno a Torre di Nona,8 luogo detto cosi, e messomi in nella prigione della vita9 posatomi in sun un poco di materasso, e datomi uno di quelle guardie, il quale tutta la notte si condoleva della mia cattiva fortuna dicendomi: - ·oimèl povero Benvenuto, che ài tu fatto a costoro ? - ; onde io benissimo mi avvisai quel che mi aveva a ,ntervenire, si per essere il luogo cotal e anche perché colui me lo aveva avvisato. !stetti un pezzo di quella notte col pensiero 1. isteccata: fasciata su una stecca di legno. 2. feci lieta cera: mangiai abbondantemente (francesismo). 3. mugliafJa patJentosamente: guaiva orribilmente. 4. / amiglia: famigli (sgherri). s. le cappe e le calze: i mantelli e i calzoni. 6. de': deve. 7. t11rato e coperto: imbavagliato e col capo coperto. 8. a To"e di Nona: vi. erano le carceri pontificie. 9. della fJita: cioè dei condannati a morte.

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a tribularmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi cotal penitenzia; e, perché io non la ritrovavo, forte mi dibattevo. Quella guardia s,era messa poi il meglio che sapeva a confortarmi; per la qual cosa io lo scongiurai per l'amor 1 de Dio che non mi dicessi nulla e non mi parlassi, avvenga che da me medesimo io farei più presto e meglio una cotale resoluzione. Cosi mi promesse. Allora io volsi tutto il cuore a Dio; e divotissimamente lo pregavo che gli piacessi di accettarmi in nel suo regno; e che, se bene io m'ero dolto,2 parendomi questa tal partita in questo modo molto innocente per quanto promettevano gli ordini delle legge, e, se bene io avevo fatto degli omicidi, quel suo vicario mi aveva dalla patria mia chiamato e perdonato coll'autorità delle legge e sua: e, quello che io avevo fatto, tutto s'era fatto per difensione di questo corpo che sua maestà mi aveva prestato. Di modo che io non conoscevo, sicondo gli ordini con che si vive in nel mondo, di meritare quella morte; ma che a me mi pareva che m'intrevenissi3 quello che avviene a certe isfortunate persone le quale, andando per la strada, casca loro un sasso da qualche grande altezza in su la testa e gli ammazza. Qual si vede ispresso esser potenzia delle stelle: non già che quelle sieno congiurate contro a di noi per farci bene o male, ma vien fatto in nelle loro congionzione, alle quale noi siamo sottoposti; se bene io cognosco d'avere il libero albitrio: 4 e, se la mia fede fussi santamente esercitata, io sono certissimo che gli angeli del cielo mi porterieno fuor di quel carcere e mi salverieno sicuramente d'ogni mio affanno. Ma, perché e' non mi pare d'esser fatto degno da Dio d'una tal cosa, però è forza che questi influssi celesti adempieno sopra di me la loro malignità. E, con questo dibattutomi un pezzo, da poi mi risolsi5 e subito appiccai sonno.

[cxvi.] Fattosi l'alba, la guardia mi destò e disse: - O sventurato uomo dabbene, ora non è più tempo a dormire, perché gli è venuto quello che t'à a dare una cattiva nuova. - Allora io dissi: - Quanto più presto io esca di questo carcer mondano, più mi sarà grato, maggiormente essendo sicuro che l'anima mia è salva e che io muoio a torto. Cristo glorioso e divino mi fa compagno alli 1. l'amor: MS: l'aamor. 2,. dolto: doluto. 3. m•intrevenissi: mi capitasse (per metatesi popolare da intervenire). 4. albitrio: arbitrio. 5. mi risolsi: m'acquetai (D'Ancona).

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sua discepoli e amici, i quali, e lui e loro, furno fatti morire a torto: cosi a torto son io fatto morire, e santamente ne ringrazio lddio. Perché non viene innanzi colui che m'à da sentenziare? - Disse la guardia allora: - Troppo gl'incresce di te e piange. - Allora io lo chiamai per nome, il quale aveva nome misser Benedetto da Cagli.1 Dissi: - Venite innanzi, misser Benedetto mio, ora che io son benissimo disposto e resoluto; molto più gloria mia è che io muoia a torto che se io morissi a ragione: venite innanzi, vi priego, e datemi un sacerdote, che io possa ragionar con seco quattro parole; con tutto che non bisogni, perché la mia santa confessione io l'ò fatta col mio signore lddio, ma solo per osservare quello che ci à ordinato la Santa Madre Chiesa; che, se bene e' la mi fa questo iscellerato torto, io liberamente le perdono. Si che venite, misser Benedetto mio, e speditemi prima che 'I senso mi cominciassi a offendere.2 - Ditte queste parole, questo uomo da bene disse alla guardia che serrassi la porta, perché sanza lui non si poteva fare quello uffizio. Andossene a casa della moglie del signor Pierluigi,3 la quale era insieme con la duchessa sopradditta, e, fattosi innanzi a loro, questo uomo disse: - Illustrissima mia patrona, siate contenta, vi priego per l'amor de Dio, di mandare a dire al papa che mandi un altro a dar quella sentenzia a Benvenuto e fare questo mio uffizio, perché io lo rinunzio e mai più lo voglio fare. E con grandissimo cordoglio sospirando si parti. La duchessa, che era li alla presenza, torcendo il viso disse: - Questa è la bella iustizia che si tiene in Roma da il vicario de Dio! Il duca già mio marito4 voleva un gran bene a questo uomo per le sue bontà e per le sue virtù, e non voleva che lui ritornassi a Roma, tenendolo molto caro appresso a di sé. - E andatasene in là borbottando con molte parole dispiacevole. La moglie del signor Pierluigi (si chiamava la signora Ierolima) se ne andò dal papa, e gittandosi ginocchioni - era alla presenza parecchi cardinali - questa donna disse tante gran cose che la fece arrossire il papa il quale disse: - Per vostro amore noi lo lasceremo istare, se bene noi non avemmo mai cattivo animo in verso di lui. - Queste parole le disse il papa per essere alla presenza di quei cardinali, i quali avevano sentito le parole che 1. Benedetto da Cagli: Benedetto Valenti, già menzionato in precedenza nella Vita. Era procuratore fiscale. Cfr. p. 629 e la nota 6. 2. speditemi .•• offendere: spacciatemi prima che io perda i sentimenti. 3. moglie . .• Pierluigi: Girolama, figlia di Lodovico Orsini, conte di Pitigliano. 4. Il duca ••• marito: Alessandro de' Medici, duca di Toscana.

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aveva detto quella maravigliosa e ardita donna. Io mi stetti con grandissimo disagio, battendomi il cuore continuamente. Ancora stette a disagio tutti quelli uomini che erano destinati a tale cattivo uffizio, insino che era tardi all'ora del desinare; alla quale ora ogni uomo andò ad altre sue faccende per modo che a me fu portato da desinare. Onde che, maravigliato, io dissi: - Qui à potuto più la verità che la malignità degli influssi celesti; cosi priego Iddio che, se gli è in suo piacere, mi scampi da questo furore. - Cominciai a mangiare e, sì bene come io avevo fatto prima la resoluzione al mio gran male, ancora la feci alla speranza del mio gran bene. Desinai di buona voglia: così mi stetti sanza vedere o sentire altri insino a una ora di notte. A quell'ora venne il bargello con buona parte della sua famiglia,1 il quale mi rimesse in su quella sieda che la sera dinanzi lui m'aveva in quel luogo portato, e di quivi con molte amorevol parole a me che io non dubitassi, e a' sua birri comandò che avessin cura di non mi percuotere2 quella gamba, che io avevo rotta, quanto agli occhi sua. 3 Così facevano, e mi portorno in castello, di donde io ero uscito; e, quando noi fummo sù da alto in nel mastio dov'è un cortiletto, quivi mi fermorno per alquanto.

[CXVII.] In questo mezzo, il castellano sopradditto si fece portare in quel luogo dove io ero, e così ammalato e afflitto disse: - Ve' che ti ripresi? - Si, - dissi io - ma ve' che io mi fuggi' come io ti dissi? e, se io non fussi stato venduto sotto la fede papale un vescovado4 da un Veniziano cardinale e un Romano da Farnese, e' quali l'uno e l'altro à graffiato il viso5 alle sacresante legge, tu mai non mi ripigliavi; ma, da poi che ora da loro s'è messa questa male usanza, fa' ancora tu il peggio che tu puoi, ché di nulla mi cura al mondo. - Questo povero uomo cominciò molto forte a gridare, dicendo: - Oimèl oimèl costui non si cura né di vivere né di morire, ed è più ardito che quando egli era sano: mettetelo là sotto il giardino, 6 e non mi parlate mai più di lui, ché costui è causa della morte mia. - Io fui portato sotto un giardino in una stanza oscurissima, dove era dell'acqua assai, piena di tarantole e di molti I.famiglia: vedi la nota 4 di p. 743. 2. percuotere: urtare. 3. agli occhi sua: ai loro stessi occhi. 4. sotto •• • fJescovado: pur con la parola d'un papa per il prezzo d'un vescovado. 5. à graffiato il viso: cioè ha fatto ingiuria. 6. là sotto il giardino: cioè in una segreta {nell'interrato) •.

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vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro porte: cosi istetti insino alle diciannove ore il giorno seguente. Allora mi fu portato da mangiare: ai quali io domandai che mi dessino alcuni di quei miei libri da leggere: da nessuno di questi non mi fu parlato, ma riferirno a quel povero uomo del castellano il quale aveva domandato quello che io dicevo. L'altra mattina poi mi fu portato un mio libro di Bibbia vulgare1 e un certo altro libro dove eran la cronache di Giovan Villani.2 Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io non arei altro e che io avevo troppo di quelli. Cosi infelicemente mi vivevo in su quel materasso tutto fradicio che in tre giorni era acqua ogni cosa, onde io stavo continuamente senza potermi muovere perché io avevo la gamba rotta e, volendo andare pur fuor del letto per la necessità de' miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per non fare lordure in quel luogo dove io dormiva. Avevo un'ora e mezzo del dì di un poco di riflesso di lume, il quale m'entrava in quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del tempo3 leggevo, e 'l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de' pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio che io potevo, da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dispiacere e' mi saria istato, in nel passare della vita mia, sentire quella inistimabil passione del coltello. 4 Dove istando a quel modo io la passavo con un sonnifero,5 il quale mi s'era fatto molto più piacevole che quello di prima, e a poco a poco mi sentivo spegnere insino a tanto che la mia buona complessione si fu accon1odata a quel purgatorio. Di poi che io senti' essersi lei accomodata ed assuefatta, presi animo di comportarmi quello inistimabil dispiacere insino a tanto quanto lei stessa me lo comportava.6

I. un .•. vulgare: un volgarizzamento della Bibbia. Numerose erano le edizioni dopo la prima stampa fatta a Venezia nel 1481. 2. un certo • •• Villani: « Se era un libro a stampa, comprendeva forse i soli primi dieci libri, che erano stati pubblicati per la prima volta a Venezia nel 1537 » (Carli). 3. di . •• tempo: in quel poco di tempo. 4. quella • •• coltello: quell'inenarrabile patimento ed orrore del supplizio (mannaia). 5. con un sonnifero: forse «con uno stato di torpore». 6. comportava: permetteva.

BENVENUTO CELLINI

[cxvn1.] Cominciai da principio la Bibbia, e divotamente la leggevo e consideravo,1 ed ero tanto invaghito in essa che, se io avessi potuto, non arei mai fatto altro che leggere ma, come e' mi mancava el lume, subito mi saltava addosso tutti i miei dispiaceri e davanmi tanto travaglio che più volte io m'ero resoluto in qualche modo di spegnermi2 da me medesimo; ma, perché e' non mi tenevono 3 coltello, io avevo male il modo a poter far tal cosa. Però una volta in fra !'altre avevo acconcio un grosso legno che vi era e puntellato in modo d'una stiaccia4 e volevo farlo iscoccare sopra il mio capo, il quale me lo arebbe istiacciato al primo.5 Di modo che, acconcio che io ebbi tutto questo edifizio, movendomi risoluto per iscoccarlo, quando io volsi dar drento6 colla mana io fui preso da cosa invisibile e gittato quattro braccia lontano da quel luogo e tanto ispaventato che io restai tramortito: e cosi mi stetti da l'alba del giorno insino alle diciannove ore7 che e' mi portorno il mio desinare. I quali vi dovettono venire più volte che io non gli avevo sentiti, perché, quando io gli senti', entrò drento il capitan Sandrino Monaldi8 e senti' che disse: - Oh infelice uomo; ve' che fine à auto una si rara virtùl - Sentite queste parole, apersi gli occhi: per la qual cosa viddi preti colle toghe9 indosso, i quali dissono: - Oh, voi dicesti che gli era morto I - Il Bozza10 disse: - Morto lo trovai, e però lo dissi. - Subito mi levorno di quivi donde11 io ero e, levato il materasso il quale era tutto fradicio diventato come maccheroni,12 lo gittorno fuori di quella stanza e, riditte queste tal cose al castellano, mi fece dare un altro materasso. E, così ricordatomi che cosa poteva essere stata quella che m'avessi stolto13 da questa cotale impresa, pensai che fussi stato cosa divina e mia difensitrice.14

1. consideravo : meditavo. 2. spegnermi: uccidermi. 3. non mi tenevano: non permettevano che io tenessi. 4. stiaccia: era uno strumento che s'usava per uccidere topi o altri piccoli animali: in genere era fatto d'una pietra che, tenuta in bilico, ad un urto cadeva addosso all'animale e lo schiacciava. 5. al primo: di colpo. 6. dar drento: per togliere il puntello. 7. alle dicia1111ove ore: cinque ore prima di buio (Carli). 8. Sandrino Monaldi: capo delle milizie fiorentine durante l'Assedio; era stato più volte confinato come antimediceo. 9. toghe: piuttosto paramenti per le funzioni. 10. Jl Bozza: il già ricordato birro, che servivo in quelle carceri. u. donde: dove. r2. maccheroni: qui nell'evidente valore di gnocchi (non di maccheroni, di pasta lunga, ignoti al Cinquecento). 13. stolto: distolto. 14. difensitrice: difenditrice.

LA VITA • LIBRO PRIMO

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[cxix.] Di poi la notte mi apparve in sogno una maravigliosa criatura in forma d'un bellissimo giovane e a modo di sgridarmi diceva: - Sa' tu chi è quello che t'à prestato quel corpo, che tu volevi guastare innanzi al tempo suo ? - Mi pareva rispondergli che il tutto riconoscevo dallo lddio della natura. - Addunche mi disse - tu dispregi l' opere sue, volendole guastare? Làsciati guidare a lui,1 e non perdere la speranza della virtù sua - con molte altre parole tanto mirabile che io non mi ricordo della millesima parte. Cominciai a considerare che questa forma d'angelo mi aveva ditto il vero e, gittato gli occhi per la prigione, viddi un poco di mattone fracido. Cosi lo strofinai l'uno coll'altro2 e feci a modo che un poco di savore :3 di poi cosi carpone mi accostai a un taglio4 di quella porta della prigione e co' denti tanto feci che io ne spiccai un poco di scheggiuzza; e, fatto che io ebbi questo, aspettai quella ora del lume che mi veniva alla prigione, la quale era dalle venti ore e mezzo insino alle ventuna e mezzo. Allora cominciai a scrivere il meglio che io poteva in su certe carte che avanzavano in nel libro della Bibbia e riprendevo5 gli spiriti mia dello intelletto isdegnati6 di non voler più istare in vita; i quali rispondevano a il corpo mio iscusandosi della loro disgrazia ed il corpo dava loro isperanza di bene. Cosi in dialago7 1scnss1: - Afflitti spirti miei, oimè crudeli, 8 che vi rincresce vita! - Se contra il Ciel9 tu sei, chi fia per noi? clii ne porgerà aita? Lassa, lassaci andare a tniglior vita. - Deh non partite ancora, ché più felici e lieti promette10 il Ciel, che voi Jussi già mai. - Noi resteren qllalclie ora, purché dal magno Iddio concesso sièti 11 grazia che non si torni a maggior guai.

1. a lui: da lui. 2. l'uno coll'altro: un pezzo con un altro. 3. a modo • •• savore: come un po' di salsa. (Il savore - o sapore, per cui vedasi il Cortegiano, qui addietro alla p. 134 e la nota 7 - era un intingolo cli noci, olio ed altri ingredienti.) 4. un taglio: una fessura. 5. riprendevo: sgridavo. 6. isdegnati: cioè non più desiderosi. 7. dialago: dialogo. 8. crudeli: nel manoscritto si legge chrudeli. (Il Carli corregge - ma senza avvertire - in crudei.) 9. contra il Ciel: cioè inviso al Cielo. 10. promette: permette, sottinteso a a voi, di essere•· I 1. sièti: ti sia.

BENVENUTO ·cELLINI

Ripreso di nuovo il vigore, da poi che da per me medesimo io n1i fui confortato, seguitando di legger la mia Bibbia, e' mi ero di sorte assuefatto gli occhi in quella oscurità che, dove prima io solevo leggere una ora e mezzo, io ne leggevo tre intere. E tanto maravigliosamente 1 consideravo la forza della virtù de Dio in quei semplicissimi uomini2 che con tanto fervore mi credevano3 che Iddio compiaceva loro tutto quello che quei s'immaginavano :4 promettendomi ancora io de l'aiuto de Dio, si per la sua divinità e misericordia e ancora per la mia innocenzia: e continuamente, quando con orazione e quando con ragionamenti volti a Dio, sempre istavo in questi alti pensieri in Dio. Di modo che e' mi cominciò a venire una dilettazione tanto grande di questi pensieri in Dio che io non mi ricordavo più di nessuno dispiacere che mai io per l'addietro avessi auto, anzi cantavo tutto il giorno salmi e molte altre mie composizione tutte diritte a Dio. Solo mi dava grande affanno le ugna5 che mi crescevano, perché io non potevo toccarmi che con esse io non mi ferissi: non mi potevo vestire, perché o le mi si arrovesciavano in drento o in fuora, 6 dandomi assai dolore. Ancora mi si moriva7 e' denti in bocca; e di questo io m'avvedevo perché, sospinti i denti morti da quei ch'erano vivi, a poco a poco sofforavano8 le gengìe9 e le punte delle barbe10 venivano a trapassare il fondo delle lor casse.11 Quando me ne avvedevo gli tiravo, come cavargli d'una guaina, sanza altro 12 dolore o sangue; così me n'era usciti assai bene. Pure accordatomi anche con quest'altri nuovi dispiaceri, quando cantavo, quando oravo e quando scrivevo13 con quel matton pesto sopradditto; e cominciai un capitolo in lode della prigione, ed in esso dicevo tutti quelli accidenti che da quella io avevo auti: qual capitolo si scriverà poi al suo luogo.14

tanto maravi'gliosamente: « con tanta (grande) meraviglia» (Ba cci scol.). quei semplicissimi uomini: gli antichi Patriarchi. 3. mi credevano: mi davano a pensare che. Il passo è controverso. Forse vuol dire: «mi confermavano nel credere». (Bacci scol. pensa ad un mi etico, mentre Carli crede piuttosto si tratti d'una svista di scrittura del giovane amanuense.) 4. s'immaginavano: desideravano. 5. le ugna: le unghie. 6.fuora: MS: fura. 7. mi si moriva: cioè cadevano (per la debolezza della nutrizione e, certo, anche per l'umidità del luogo). 8. sofforavano: foravano di sotto. 9. gengìe: gengive. 10. barbe: radici. II. casse: alveoli. 12. altro: alcun. 13. scrivevo: MS: schriuo. 14. e cominciai ... luogo: lo si veda più avanti alle pp. 766-70. I. 2.

LA VITA • LIBRO PRIMO

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[cxx.] Il buon castellano mandava ispesso segretamente1 a sen... tire quello che io facevo: e perché l'ultimo dl di luglio io mi rallegrai da me medesimo assai, ricordandomi della gran festa che si usa di fare in Roma in ·quel primo dl d'agosto, da me dicevo: - Tutti questi anni passati in questa piacevo! festa io l' ò fatta con le fra .. gilità del mondo; questo anno io la farò oramai con la divinità de Dio. - E da me dicevo: - Oh quanto più lieto sono io di questa che di quelle! - Quelli che mi udirno dire queste parole, il tutto riferirno al castellano; il quale con maraviglioso dispiacere disse: - Oh Dio! colui trionfa e vive in tanto male, ed io istento in tante comodità, e muoio solo per causa sual Andate presto e mettetelo in quella più sotterrania caverna, dove fu fatto morire il predicatore Foiano2 di fame; forse che, vedendosi in tanta cattività, gli potria uscire il ruzzo3 del capo. Subito venne dalla4 mia prigione il capitano Sandrino Monaldi con circa venti di quei servitori del castellano ; e mi trovorno che io ero ginocchioni e non mi volgevo a loro, anzi adoravo un Dio Padre adorno di angeli ed un Cristo risuscitante vittorioso che io mi avevo disegnati in nel muro con un poco di carbone5 che io avevo trovato ricoperto dalla terra di poi quattro mesi che io ero stato rovescio6 in nel letto con la mia gamba7 rotta; e tante volte sognai che gli angeli mi venivano a medicarmela che di poi quattro mesi ero divenuto gagliardo come se mai rotta la non fussi stata. Però vennono a me tanto armati, quasi che paurosi che io non fussi un velenoso dragone. Il ditto capitano disse: - Tu senti pure che noi siamo assai e che con gran romore noi vegnamo a te, e tu a noi non ti volgi. - A queste parole, immaginatomi benissimo quel peggio che mi poteva intervenire e fattomi pratico8 e costante al male, dissi loro: - A questo .lddio9 che mi porta a quello de' Cieli ò volto l'anima mia e le mie contemplazione e tutti i mia spiriti vitali, ed a voi ò volto appunto quello I. segretamet1te: cioè mediante la gente che spiava il Cellini. 2. il predicatore Foia110: Benedetto Tiezzi, nativo di Foiano in Valdichiana, domenicano del convento fiorentino di Santa Maria Novella. Ardente savonaroliano, durante PAssedio predicò con animosità contro la famiglia de' Medici. Tradito dal Malatesta, fu consegnato n Clemente VII, che lo fece morire di fame in Castel Sant'Angelo. 3. il ruzzo: le voglie, le bizzarrie. 4. dalla: alla. 5. adoravo ••. carbo11e: 1 Oggi nella cella già occupata dal Cellini in Castel Sant'Angelo si mostra un frammento d'un Cristo, che è un pasticcio senza dubbio moderno» (D'Ancona). 1\1S: risucitante. 6. rovescio: gettato. 7. gamba: MS: camba. 8.fattomipratico: come esperto che ero (Carli).. 9. A questo lddio: a questa immagine di Dio.

75 2

BENVENUTO CELLINI

che vi si appartiene; perché quello che è di buono in me voi non sete degni di guardarlo né potete toccarlo : si che fate, a quello che è vostro,1 tutto quello che voi potete. - Questo ditto capitano, pauroso, non sapendo quello che io mi volessi fare, disse a quattro di quelli più gagliardi: - Levatevi l'arme tutte daccanto. - Levate che se l'ebbono, disse: - Presto presto saltategli addosso e pigliatelo. Non fussi costui il diavolo, che tanti2 noi doviamo aver paura di lui? tenetelo or forte che non vi scappi. - Io sforzato e bistrattato da loro, immaginandomi molto peggio di quello che poi m'intervenne, alzando gli occhi a Cristo dissi: - O giusto Iddio, tu pagasti pure in su quello alto legno tutti e' debiti nostri: perché addunche à 'pagare3 la mia innocenzia i debiti di chi io non conosco? oppure4 sia fatta la tua voluntà. - Intanto costoro mi portavano via con un torchiaccio 5 acceso; pensavo io che mi volessino gittare in nel trabocchetto del Sammalò6 ( cosi chiamato un luogo paventoso,7 il quale n'à inghiottiti assai cosi vivi, perché vengono a cascare in ne' fondamenti del castello giù in un pozzo). Questo non m'intervenne: per la qual cosa me ne parve avere un bonissimo mercato8 perché loro mi posano in quella bruttissima caverna sopraddetta, dove era morto il Foiano di fame, ed ivi mi lasciorno istare non mi facendo altro male. Lasciato che e' m'ebbono, cominciai a cantare un De profundis clamavit, 9 un Miserere1° ed In te Domine speravi.n Tutto quel giorno primo d'agosto festeggiai 12 con Dio, e sempre mi iubbilava13 il cuore di speranza e di fede. Il sicondo giorno mi trassono di quella buca, e mi riportorno dove era quei miei primi disegni di quelle immagine de lddio. Alle quali giunto che io fui, alla presenza d'esse di dolcezza e di letizia io assai piansi. Da poi il castellano ogni di voleva sapere quello che io facevo e quello che io dicevo. Il papa, che aveva inteso tutto il seguito (e di già li medici avevano isfidato a morte il14 ditto 1. vostro: in vostro potere. (Allude al corpo.) 2. tanti: essendo tanti. 3. à 'pagare: ha da pagare («la preposizione rimane assorbita nella voce verbale», Carli). 4. oppure: e veramente. 5. torchiaccio: grossa torcia. 6. a Era questa una terribile cella del Castello. Il Burckhard chiama questa segreta Sammaracho; il Cellini SammaM; ma in realtà chiamavasi San Marocco da un'immagine di santo o da una cappelletta che ivi esisteva» (D' Ancona). 7. paventoso: spaventoso, orrendo. 8. bonissimo mercato: appunto in cambio di quanto temeva. 9. clamavit: così detta il Cellini in luogo di e/amavi. È l'incipit del Salmo 129. IO. È l'incipit del Salmo 50. u. È l'incipit del Salmo 30. 12.festeggiai: feci festa. 13. iubbilava: giubilava. 14. isfidato a morte il: •tolto ogni speranza di vita al» (Carli).

LA VITA • LIBRO PRIMO

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castellano), disse: - Innanzi che il mio castellano muoia, io voglio che e' faccia morire a suo modo quel Benvenuto eh' è causa della morte sua, acciò che lui non muoia invendicato. - Sentendo queste parole il castellano per bocca del duca Pierluigi, disse al ditto: - Addunche il papa mi dona Benvenuto e vuole che io ne faccia le mie vendette ? Non pensi addunche ad altro, e lasci fare a me. - Sl come il cuore del papa fu cattivo in verso di me, pessimo e doloroso 1 fu in nel primo aspetto quello del castellano. Ed in questo punto quello invisibile,2 che mi aveva divertito3 dal volermi ammazzare, venne a me pure invisibilmente ma con voci chiare, e mi scosse e levommi da iacere e disse: - Oimèl Benvenuto mio, presto, presto ricorri a Dio con le tue solite orazione, e grida forte forte! - Subito spaventato mi posi in ginocchioni e dissi molte mie orazione ad alta voce; di poi tutte, un Qui habitat in aiutorium ;4 di poi questo, ragionai con Iddio un pezzo; ed in un istante la voce medesima aperta e chiara mi disse: - Vatti a riposa>, 5 e non aver più paura. - E questo fu che il castellano, avendo dato commessione bruttissima per la mia morte, subito la tolse e disse: - Non è egli Benvenuto quello che io ò tanto difeso, e quello che io so certissimo che è innocente e che tutto questo male se gli è fatto a torto? O come lddio arà mai misericordia di me e dei mia peccati, se io non perdono a quelli che m'ànno fatto grandissime offese? O perché ò io a offendere un uomo da bene, innocente, che m'à fatto servizio e onore? Vadia,6 che in cambio di farlo morire io gli do vita e libertà, e lascio per testamento che nissuno gli domandi nulla del debito della grossa ispesa che qui gli arebbe a pagare. - Questo intese il papa, e l'ebbe molto per male. [cxxi.] lo istavo intanto colle mie solite orazione e scrivevo il mio capitolo, e cominciai a fare ogni notte i più lieti e i più piacevoli sogni che mai immaginar si possa; e sempre mi pareva essere insieme visibilmente con quello che invisibile avevo sentito e 1. doloroso: « Per Benvenuto, s'intende» (Carli). 2. quello invisibile: quello spirito invisibile (il quale, secondo che asserisce il Cellini, gli aveva salvata la vita). 3. divertito: distolto. 4. in aitltorium: il solito latino ad orecchio del Cellini. (Qui habitat i11 adiutorio Altisnmi è l'incipit del Salmo 90.) 5. a riposa': a riposare (secondo un costrutto popolare, in uso anche oggidl). MS: a riposa. 6. Vadia: vada (nel valore di II suvvia•, come esclamazione).

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BENVENUTO CELLINI

sentivo bene ispesso,- al quale io non domandavo altra grazia, se none1 lo pregavo, e strettamente, che mi menassi dove io potessi vedere il sole, dicendogli che era quanto desiderio io avevo e che, se io una sola volta lo potessi vedere, da poi io morrei contento. Di tutte le cose che io avevo in questa prigione dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche e compagne, e nulla mi disturbava. Se bene quei divoti del castellano che aspettavano che il castellano m'impiccassi a quel merlo dove2 io ero sceso, si come lui aveva detto, veduto poi che il detto castellano aveva fatta un'altra reso-luzione tutta contraria da quella, costoro, che non la potevano pa-tire, 3 sempre mi facevano qualche diversa paura per la quale io dovessi pigliare spavento per la perdita della vita. Si come io dico, a tutte queste cose io m'ero tanto addimesticato4 che di nulla io non avevo più paura, e nulla più mi moveva, solo questo desiderio : che il sognare di vedere la spera del sole. Di modo che seguitando innanzi colle mie grande orazioni, tutte volte collo affetto a Cristo, sempre dicendo: - O vero figliuol de Dio, io ti priego per la tua nascita, per la tua morte in croce e per la tua gloriosa resurressione che tu mi facci degno che io vegga il sole, se none altrimenti, almanco5 in sogno; ma, se tu mi facessi degno che io lo vedessi con questi mia occhi mortali, io ti prometto di venirti a visitare al tuo santo sepulcro. - Questa resoluzione e queste mie maggior prece a Dio io le feci a' di dua d'ottobre nel millecinquecentotrentanove. Venuto poi la mattina seguente che fu a' di tre di ottobre detto, io m'ero risentito alla punta del giorno, innanzi il levar del sole quasi un'ora, e, sollevatomi da quel mio infelice covile,6 mi messi addosso un poco di vestaccia che io avevo perché e' s'era cominciato a far fresco e stando cosi sollevato facevo orazione più divote che mai io avessi fatte per il passato; ché in dette orazione dicevo con gran prieghi a Cristo che mi concedessi almanco tanto di grazia che io sapessi per ispirazion divina per qual mio peccato io facevo cosi gran penitenzia e, da poi che sua maestà divina non mi aveva voluto far degno della vista del sole almanco in sogno, lo pregavo per tutta la sua potenzia e virtù che mi facessi degno che io sapessi quale era la causa di quella penitenzia. 1. none: non (MS: non e'). 2. dove: da cui. 3. patire: sopportare. 4. ad-dimesticato: reso familiare. 5. a/manco: almeno. 6. quel •• . coTJile: il meschino giaciglio, di cui in precedenza.

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[cxxn.] Dette queste parole, da quello invisibile, a modo che un 1 vento, io fui preso e portato via, e fui menato in una stanza dove quel mio invisibile allora visibilmente mi si mostrava in forma umana, in modo d'un giovane di prima barba, con la faccia maravigliosissima, bella, ma austera, non lasciva; e mi mostrava2 in nella ditta stanza, dicendomi: - Quelli tanti uomini che tu vedi, sono tutti quei che insino a qui son nati e poi son morti. - Il perché3 io lo domandavo per che causa lui mi menava quivi. Il qual mi disse: - Vieni innanzi meco e presto lo vedrai. - Mi trovavo in mano un pugnaletto e indosso un giaco di maglia; e cosi mi menava per quella grande stanza mostrandomi coloro che a infinite migliaia, or per un verso or per un altro, camminavano. Menatomi innanzi, uscì innanzi a me per una piccola porticella in un luogo come in una strada istretta; e, quando egli mi tirò drieto a sé in nella detta istrada, all'uscire di quella stanza mi trovai disarmato, ed ero in camicia bianca sanza nulla in testa ed ero a man ritta del ditto mio compagno. Vedutomi a quel modo, io mi maravigliavo, perché non ricognoscevo quella istrada; e, alzato gli occhi, viddi che il chiarore del sole batteva in una pariete di muro, modo che4 una facciata di casa, sopra il mio capo. Allora io dissi: - O amico mio, come ò io da fare che tu mi potessi alzare tanto che io vedessi la propia spera5 del sole? - Lui mi mostrò parecchi scaglioni6 che erano quivi alla mia man ritta, e mi disse: - Va' quivi da te. - Io spiccatomi7 un poco da lui, salivo con le calcagna allo indietro su per quei parecchi scaglioni, e cominciavo a poco a poco a scoprire la vicinità del sole. l\i1'affrettavo di salire e tanto andai in sù in quel modo ditto che io scopersi tutta la spera del sole. E, perché la forza de' suoi razzi,8 al solito loro, mi fece chiudere gli occhi, avvedutomi dell' error mio apersi gli occhi e, guardando fiso il sole, dissi: - O sole mio, che t'ò tanto desiderato, io voglio non mai più vedere altra cosa, se bene i tua razzi mi acciecano. Così mi stavo con gli occhi fermi9 in lui; e, stato che io fui un pochetto in quel modo, viddi in un tratto tutta quella forza di quei gran razzi gittarsi in su la banda manca del ditto sole; e, restato il sole netto sanza i suoi razzi, con grandissimo piacere io lo vedevo,1° 1. a modo che un: come da un. 2. mi mostrava: nù faceva da guida. 3. llperclié: per la qual cosa. 4. modo che: la quale era come. 5. lapropia spera: proprio la sfera (il disco). 6. scaglio11i: scalini. 7. spiccatomi: allontanatomi. 8. razzi: raggi. 9.fermi: fissi. 10. /o vedevo: lo miravo, lo fissavo.

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BENVENUTO CELLINI

e mi pareva cosa maravigliosa che quei razzi si fussino levati in quel modo. Stavo a considerare che divina grazia era stata questa che io avevo quella mattina da Dio, e dicevo forte: - Oh mirabil tua potenziai oh gloriosa tua virtù! quanto maggior grazia mi fai tu di quello1 che io non m,aspettavol - Mi pareva questo sole sanza i razzi sua, né più né manco, un bagno di purissimo oro istrutto.3 In mentre che io consideravo questa gran cosa, viddi in mezzo a detto sole cominciare a gonfi.are e crescere questa forma di questo gonfio, ed in un tratto si fece un Cristo in croce della medesima cosa che era il sole3 ed era di tanta bella grazia in benignissimo aspetto quale ingegno umano non patria immaginare una millesima parte; e, in mentre che io consideravo tal cosa, dicevo forte: - Miracoli, miracoli! o Iddio, o clemenzia tua, o virtù tua infinita, di che cosa mi fai tu degno questa mattinai - E, in mentre che io consideravo e che dicevo queste parole, questo Cristo si moveva in verso quella parte dove erano andati i suoi4 razzi e, in nel mezzo del sole di nuovo gonfiava, sl come aveva fatto prima e, cresciuto il gonfio, subito si converti in una forma d,una bellissima Madonna qual5 mostrava di essere a sedere, in modo molto alto con il ditto figliuolo in braccio in atto piacevolissimo, quasi ridente: di qua e di là era messa in mezzo da duoi angeli, bellissimi tanto quanto lo immaginare non arriva. Ancora vedevo in esso sole, alla mana ritta, una figura vestita a modo di sacerdote: questa mi volgeva le stiene,6 e '1 viso teneva volto in verso quella Madonna e quel Cristo. Tutte queste cose io vedevo vere, chiare e vive, e continuamente ringraziavo la gloria de Dio con grandissima voce. Quando questa mirabil cosa mi fu stata innanzi agli occhi poco più d,un ottavo d'ora, da me si parti ed io fui riportato' in quel mio covile. Subito cominciai a gridare forte, ad alta voce dicendo: - La virtù de Dio m'à fatto degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non à forse mai visto altro occhio mortale: onde per questo io mi cognosco di essere libero e felice ed in grazia a Dio; e voi ribaldi,8 ribaldi resterete, infelici, e nella disgrazia de Dio. Sappiate che io sono I. di quello: in rapporto a quello. 2. istrrltto: liquefatto (fuso), 3. della ••• sole: cioè d'oro fuso. 4. suoi: cioè del sole. 5. qual: la quale. 6. le stiene: le schiene (il dorso), 7./ui riportato: «Ci vuol proprio far credere ad un rapimento in anima e in corpo» (Carli). 8. e voi ribaldi: il Cellini nella sua appassionata perorazione si rivolge in tono profetico al papa Paolo III. a Pier Luigi Famese e a tutti i propri persecutori.

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certissimo che il dl di tutti e' Santi, quale fu quello che io venni al mondo nel millecinquecento appunto, il primo di di novembre,' la notte seguente a quattro ore, quel dl che verrà2 voi sarete forzati a cavarmi di questo carcere tenebroso; e non potrete far di manco, perché io l'ò visto con gli occhi mia ed in quel trono di Dio. Quel sacerdote, qual era volto in verso lddio e che a me mostrava le stiene, quello era il santo Pietro, il quale avvocava3 per me, vergognandosi che in nella casa sua4 si faccia ai Cristiani cosi brutti torti. Sì che ditelo a chi voi volete, che nissuno non ha potenzia di farmi più male; e dite a quel signor che mi tien qui che, se lui mi dà o cera o carta e modo che io gli possa 'sprimere5 questa gloria de Dio che mi s'è mostra, certissimo io lo farò chiaro di quel che forse lui sta in dubbio.6 Il castellano, con tutto che i medici non avessino punto di speranza della sua salute, ancora er.a restato in lui spirito saldo, e si era partito7 quelli umori della pazzia che gli solevano dar noia ogni anno; e, datosi in tutto e per tutto alranima,8 la coscienzia lo rimordeva, e gli pareva pure che io avessi ricevuto e ricevessi un grandissimo torto; e, facendo intendere al papa quelle gran cose che io dicevo, il papa gli mandava a dire come quello che non credeva nulla né in Dio né in altri, dicendo che io era impazzato e che attendessi il più che lui poteva alla sua salute. Sentendo il [CXXIII.]

1. In realtà, egli nacque il 3 novembre. 2. q11el dl che verrà: il giorno dei Defunti. 3. avvocava: intercedeva. 4. in nella casa sua: cioè nel Vaticano. 5. 'sprimere: esprimere. (MS: sprimere.) 6. certissimo .•• dubbio: «Par che voglia dire: gli dimostrerò che Dio c'è, e che si cura dei buoni» (Carli). Questo è il punto culminante delle cosiddette allucinazioni del Cellini; giova perciò tener presente l'importante lavoro, più volte citato, di Arturo Castigliani, Le malattie e i medici di BenfJenuto Cellini (nel volume Il volto di Ippocrate: istorie di medici e medicine d'altri tempi, Milano, Unitas, 1925, pp. 213-51). Lo studioso afferma che il Cellini non deve essere considerato uno psicopatico, ma piuttosto «un millantatore•· Le allucinazioni della prigionia vanno considerate «come visioni o anzi come sogni amplificati e narrati, in connessione cogli avvenimenti posteriori, molti anni più tardi. Tali racconti di sogni importanti o profetici si riscontrano in quasi tutte le narrazioni autobiografiche, a cominciare dalla Vita Nuova. Quindi sarebbe errato dar loro il carattere di allucinazioni, nel senso vero e proprio della parola ». Il Cellini fu soprattutto u un impulsivo violento, ciò che corrisponde anche alla caratteristica della sua produzione artistica, nella quale egli si rivela un dinamico per eccellenza». (Cfr. per queste citazioni, le pp. 215, 237 e 250 del volume predetto.) 7. si era partito: erano partiti. 8. all'anima: alla vita spirituale.

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BENVENUTO GELLINI

castellano queste risposte mi mandò a confortare, e mi mandò da scrivere e della cera e certi fuscelletti 1 fatti per lavorar di cera,2 con molte cortese parole che me le disse un certo di quei sua servitori che mi voleva bene. Questo tale era tutto contrario di quella setta3 di quegli altri ribaldi, che mi arebbon voluto veder morto. Io presi quelle carte e quelle cere, e con1inciai a lavorare; e, 'n mentre che io lavoravo, scrissi questo sonetto indiritto4 al castellano: S'i potessi, signor, mostrarvi il vero del lume eterno, in questa bassa vita, qual e) da Dio, in voi vie più gradita saria mia fede che d'ogni alto impero.S Ahi! se 'l credessi. il gran pastor del chiero6 che Dio s'è mostro in sua gloria in.finita, qual mai vide alma, prima che partita da questo basso regno aspro e si.ncero ;1 le porte di lustizia sacre e sante sbarrar8 vedresti, e 'l tristo impio furore cader legato e al Ciel mandar le voce. S'i' avessi luce, ahi lasso! almen le piante9 sculpir del Ciel potessi il gran valore! non saria il mio gran mal sl greve croce.

[cx.xzv.] Venuto l'altro giorno a portarmi il mio mangiare quel servitore del castellano il quale mi voleva bene, io gli detti questo sonetto iscritto; il quale, segretamente da quelli altri maligni servitori che mi volevano male, lo dette al castellano. Il quale volentieri m'arebbe lasciato andar via, perché gli pareva che quel torto che m'era istato fatto fussi gran causa della morte sua. Prese il sonetto, e lettolo più d'una volta, disse: - Queste non sono né parole né concetti da pazzo, ma si bene d'uomo buono e dabbene. - E subito comandò a un suo secretario che lo portassi al papa e che lo dessi in propia mano pregandolo che mi lasciassi andare. Mentre che il detto segretario portò il sonetto al papa, il castellano mi mandò lume per il di e per la notte, con tutte le comodità che in quel luoco si poteva desiderare; per la qual cosa io cominciai a I. fuscelletti: bacchette, stecchi (per la lavorazione dei modelli di cera o anche di creta). 2. di cera: sulla cera. 3. setta: schiera. 4. i11diritto: indirizzato. 5. che d'ogni alto impero: che quella d'ogni più grande autorità. 6. chiero: clero. 7. sincero: « Se non si voglion riferire i due aggettivi a Dio (nel qual caso aspro vorrebbe dire irritato contro i peccati del mondo e dei suoi ministri in particolare) bisogna supporre, come altri già fece, che sia svista per insi.ncero » (Carli). 8. sbarrar: aprire (togliendo la sbarra che serra). 9. le piante: i piedi, la base (cioè la parte più bassa, più vicina alla Terra).

LA VITA • LIBRO PRIMO

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migliorare della indisposizione della mia vita, quale era divenuta grandissima. Il papa lesse il sonetto più volte: di poi mandò a dire al castellano che farebbe ben presto cosa che gli sarebbe grata. E certamente che il papa m'arebbe poi volentieri lasciato andare; ma il signor Pierluigi ditto, suo figliuolo, quasi contra la voglia del papa, per forza mi vi teneva. Avvicinandosi la morte del castellano, in mentre che io avevo disegnato e sculpito1 quel maraviglioso miracolo,2 la mattina d'Ognissanti mi mandò per Piero Ugolini3 suo nipote a mostrare certe gioie; le quali quando io le viddi, subito dissi: - Questo è il contrassegno4 della mia liberazione. Allora questo giovane, che era persona di pochissimo discorso, 5 disse: - A cotesto non pensar tu mai, Benvenuto. - Allora io dissi: - Porta via le tue gioie, perché io son condotto di sorte6 che io non veggo lume se none in questa caverna buia, in nella quale non si può discernere la qualità delle gioie; ma, quanto all'uscire di questo carcere, e' non finirà questo giorno intero che voi me ne verrete a cavare: e questo è forza che cosi sia, e non potete far di manco. - Costui si parti e mi fece riserrare; e andatosene, soprastette più di dua ore di oriuolo:7 di poi venne per me senza armati, con dua ragazzi che mi aiutassino sostenere,8 e così mi menò in quelle stanze larghe che io avevo prima (questo fu 'l 1538),9 dandomi tutte le comodità che io domandavo. [cx..": MS: midando. 9. re Arrigo: Enrico II. 10. Daniello da Volte"a: è il famigerato Braghettone: cosi chiamato (egli era dei Ricciarelli) per aver coperto le nudità del Giudizio di Michelangelo alla Sistina. Per consiglio del Buonarroti fu incaricato da Caterina de' Medici di far un monumento equestre per il re Enrico II. Ma il cavallo rimase incompiuto e fu poi usato dal cardinal Richelieu per la statua di Luigi XIII che si scoperse nella Piazza Reale di Parigi nel 1639 (e vi stette fino al 1792). II. di quello: rispetto a quello. 12. l'aveva: le aveva.

LA VITA. • LIBRO SECONDO

avessi voglia di servirla. Io dissi al detto misser Baccio che mi chiedessi al mio duca; ché, essendone contento sua eccellenzia illustrissima, io volentieri mi ritornerei in Francia. Misser Baccio lietamente disse: - Noi ce ne torneremmo insieme. - E la misse per fatta. 1 Cosi il giorno di poi, parlando il detto eone 'l duca, venne in proposito il ragionar di me di modo che e' disse al duca che, se e' fussi con sua buona grazia, la regina si servirebbe di me. A questo subito il duca rispose e disse: - Benvenuto è quel valente uomo che sa il mondo, ma ora lui non vuole più lavorare. - E, entrati in altri ragionamenti, l'altro giorno io andai a trovare il detto misser Baccio, il quale mi ridisse2 il tutto. A questo, io che non potetti stare più alle mosse, dissi: - Oh, se da poi che sua eccellenzia illustrissima non mi dando da fare e io da per me ò fatto una delle più difficili opere che mai per altri fussi fatta al mondo (e mi costa più di dugento scudi, che gli b spesi della mia povertà), oh che arei io fatto, se sua eccellenzia illustrissima m'avessi messo in opera!3 Io vi dico veramente che e' m'è fatto un gran torto. Il buono gentile uomo ridisse al duca tutto quello che io avevo risposto. Il duca gli disse che si motteggiava e che mi voleva per sé; di modo che io stuzzicai4 parecchi volte di andarmi con Dio. La regina non ne voleva più ragionare per non fare dispiacere al duca, e così mi restai assai ben malcontento. [cxnr.] In questo tempo il duca se n'andò, con tutta la sua Corte e con tutti i sua figliuoli, dal principe in fuori il quale era in lspagna :5 andorno per le maremme di Siena e per quel viaggio 1. la misse per fatta: considerò la cosa come fatta. 2. ridisse: MS: ridissi. 3. in opera: al lavoro (s'intende, del Nettuno o di altra grande opera). 4. stuzzicai: «Non credo che si debba spiegare come neutro per fui sul punto o mi se11tii voglia: ma piuttosto nel senso di cercai di andarmi con Dio, ingegnandomi di trovare il modo che la Regina facesse ripetere al Duca la richiesta fattagli per mezzo di messer Baccio• (Carli). 5. il quale era in lspa .. gna: Francesco de' Medici parti da Livorno il 23 maggio 1562 e, al ritorno, assunse - per la rinunzia del padre - il granducato (n giugno 1563). Ricorda il Bacci come in questo tempo dovettero cominciare gli amori di lui con Bianca Cappello: anzi il principe si fece fare dal Cellini un piccolo ritratto in cera, ad alto rilievo e colorito, che inviò alla Cappello con un proprio biglietto: 1 Amata Bianca. Fino da Pisa il mio ritratto u'inuio che 'l nostro Maestro Cellina m'à fatto: in esso il mio chore prendete. D. FRANCIESCO ». Dalla collezione del comm. Luigi Vai, dietro segnalazione di G. Guasti, riprodusse il biglietto in fac-simile con nuove indagini, EuGBNB

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BENVENUTO CELLINI

si condusse a Pisa.1 Prese il veleno di quella cattiva aria il cardinale prima degli altri: cosi di poi pochi giorni l'assali una febbre pestilenziale, ed in breve ·1a l'ammazzò.2 Questo era l'occhio diritto3 del duca: questo si era bello e buono, e ne fu grandissimo danno. Io lasciai passare parecchi giorni, tanto che io pensai che fussi rasciutte le lacrime: da poi me n'andai a Pisa.4

Benvenuto Cellini. Nouvel appendice sur son revre et sur les pièces qui lui sont attribuées, Paris, Plon, 1884, sulla p. 4. Il suddetto ritratto si trova attualmente al Museo Nazionale del Bargello. 1. per •.. Pisa: Cosimo era partito da Firenze nell'ottobre 1562 con la moglie e i figli per recarsi al castello di Rosignano passando da Siena e Grosseto. :2. Prese .•• ammazzò: «Il card. Giovanni mori in Rosignano il 21 Novembre 1562: non senza sospetto che fosse avvelenato. Contemporaneamente a lui, si ammalarono i suoi fratelli don Garzia e don Ferdinando: dei quali il primo mori in Pisa il 6 di Dicembre. Dodici giorni dopo moriva anche la madre Eleonora di Toledo [sulla quale vedi la nota I a p. 860]. Le dicerie che queste repentine e simultanee morti fecero nascere furono infinite, ma il Galluzzi nella sua Istoria tentò ristabilire la verità, attribuendole ad una epidemia di febbri violente e mortali che in quell'anno appunto produssero numerose morti in tutta Italia i, (Bacci). Si veda appunto R. GALLUZZI, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della Casa Medici, ed. II, t. 11 cit., pp. :260-71. 3. l'occhio diritto: il prediletto. 4. L'opera rimane interrotta a questo punto. cr Disperato » perché Cosimo I lo faceva restare inattivo e non gli dava licenza, nel Trattato dell'Oreficeria il Cellini afferma di aver passato il tempo dettando la sua vita. Il che fece tra un lavoretto e l'altro. E qualche volta scrisse egli stesso direttamente. D'al.. .tra parte, cr considerato. poi quanto e' principi ànno per male che un lor servo dolendosi dica la verità delle sue ragioni», l'artista aggiunge: « Tutti gli anni che io avevo servito il mio signore il duca Cosimo, quelli con gran passione, e non senza lacrime, io gli stracciai e gitta'gli al fuoco con salda intenzione di non mai più scrivergli». Messa da parte la rievocazione della vita propria, veduto che gli era «impedito il fare», passò a redigere trattati e discorsi sull'arte (non senza indulgere a ricordi e a divagazioni autobiografi.eh~) «solo per giovare al mondo» e «render grazie a Dio». Cfr. qui avanti, pp. 1025-6. Per le ulteriori notizie intorno agli ultimi anni del Cellini si veda la parte della Nota bio-bibliografica che lo riguarda, a pp. LIV-LV. PLON,

APPENDICE TRATTATI E DISCORSI DI BENVENUTO CELLINI

TRATTATO DELL'OREFICERIA'

INTRODUZIONB

Conosciuto quanto e' sia dilettevole agli uomini il sentire qualche cosa di nuovo, questa è stata la prima causa che mi à mosso a scrivere. E la seconda causa (forse la più potente) è stata che, sentendomi fortemente molestare lo intelletto per alcune mie fastidiose cause, le quali in questo mio piacevole discorso modestamente io le farò sentire, sono certo che le moveranno i lettori grandemente a compassione ed a sdegno non piccolo ancora. Con la causa di tal causa in però talvolta si potrà attribuire che un cotal male sia stato espressa cagione di un gran bene; perché, se questo tal male e' non mi fussi addivenuto, io per certissimo non mi saria forse messo a scrivere questo utilissimo bene: il quale si è che, veduto come mai nessuno si sia messo a scrivere i bellissimi segreti e mirabili modi che sono in nella grand'arte della oreficeria, i quali non stava bene a scriverli né a filosafi né ad altre sorte di uomini, se non a quegli che sono della stessa professione, e perché una tal cosa non abbia mai mosso nessun altro uomo, forse la causa è stata che quegli non essere stati tanto animosi al ben dire, si come e' sono stati al ben fare pronti. Avendo io considerato un tale errore di tali uomini, e io, per non

I. Diamo qui in nota la dedica dei Trattati dell'Oreficeria e della Scultura al principe don Francesco de' Medici in occasione delle sue nozze con Giovanna d'Austria (1565); essa venne pubblicata la prima volta nell'edizione dei Trattati, Firenze, Tartini e Franchi, 1731, e quindi, su un abbozzo autografo, dal Tassi, Opere del Cellini, 111, Ricordi, prose e poesie, Firenze, Piatti, 1827, p. 357. «Allo illustrissimo ed eccellentissimo signor principe governante di Firenze e di Siena. Da poi che la fortuna, glorioso e felicissimo signore, per qualche mia indisposizione m'impedi al non potere operare nella maravigliosissima festa nelle nozze di vostra eccellenza illustrissima e di sua altezza; e standomi alquanto malcontento, subito mi sentii svegliare da un nuovo capriccio; e, in cambio di operare di terra o legno, presi la penna e, di mano in mano che la memoria mi porgeva, scrivevo tutte le mie estreme fatiche, fatte nella mia giovinezza, quali sono molte arti diverse l'una dall'altra: ed in ciascuna io cito alcune notabili opere fatte a diversi e grandissimi principi di mia mano. E, per non si esser mai per altri scritta cotal cosa, credo che a molti, per i bei segreti i quali in esse arti si contengono, sarà utile; e ad altri fuori di tale professione, piacevolissima; qual penso doverrà essere a vostra eccellenza illustrissima, perché più d'ogni altro gran principe quella se ne diletta e l'ama. Quella adunque si degni di accettar questa mia buona volontà, quale ho avuta sempre di piacerle; pregando lddio, che quella felicissima lungamente conservi. •

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BENVENUTO CELLINI

stare in cotal peccato, mi sono messo arditamente a una cotale bella impresa, perché avendo la detta bella arte otto modi diversi di lavori (dei quali non si è trovato forse mai, o sl veramente tanto di rado che e' non ce n'è alcuna notizia, che nessuno uomo sia stato tanto animoso di volere intraprendere di esercitarsi in più di uno, o insino in dua, e' quali quel tale si possi giudicare che gli abbia fatti appresso che bene) perché io non fo conto di certi praticonacci, li quali si sono arditamente messi a lavorare di tutti a otto e molte volte sono stati mossi da quegli che non ànno voluto o potuto spendere quello che merita il fargli non tanto bene, ma appresso che bene; in però questi cotali uomini sono stati come certi bottegai che si truovano nei castegli o in nelle pendice delle città, i quali fanno il fornaio ed il pizzicagnolo e lo speziale ed il merciaio, insomma e' tengono di ogni cosa un poco; delle quali non v'è nulla che sia buono: e cosi dico che sono alcuni praticonacci. Ma, volendo noi ragionare del vero modo del far bene questi tali e tanti mirabili esercizi, e' non ci fa mestiero il ragionare se non di quegli uomini, dei quali ci è notizia che ànno operato in essi meglio degli altri. Ora, ricordandomi come nella città di Firenze si cominciò, e fumo i primi che dessino principio a risuscitare tutte quelle arti che sono sorelle carnali di questa; e la prima luce che cominciò a dare lume, ed il vero aiuto si fu il magnifico primo Cosimo de' Medici, sotto il quale si mostrò quel gran Donatello scultore, e quel gran Pippo di ser Brunellesco architettare, e quel mirabile Lorenzo Ghiberti, il quale in quel tempo fece le belle porte del tempio antico allor fatto per Marte ed ora serve per il nostro Santo Giovanni Batista. Lorenzo Ghiberti fu veramente orefice sl alla gentil maniera del suo bel fare, e maggiormente a quella infinita pulitezza ed estrema diligenzia. Questo uomo si può mettere per un eccellente orefice, il quale tutto impiegò e messe il suo ingegno in quell'arte del getto di cotali opere piccole. E, se bene egli alcuna volta si messe anche a fare delle grandi, in però si vede che gli era molto più la sua professione il farle piccole; e per questo noi lo chiameremo veramente un buon maestro di getto: ed a questa tale professione solo attese, e questa fece tanto bene, sl come ancora oggi si vede, che nessun altro uomo ancora non rà aggiunto. Antonio figliuolo d'un pollaiuolo, il quale cosl sempre fu chiamato, questo fu orefice, e fu si gran disegnatore che non tanto che tutti gli orefici si servivano dei sua bellis~imi disegni, i quali erano di tanta eccellenzia che ancora molti scultori e pittori, io dico dei migliori di quelle arti, si servimo dei sua disegni e con quegli ei si feciono grandissimo onore. Questo uomo fece poche altre cose,

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ma solo disegnò mirabilmente, ed a quel gran disegno sempre attese. Maso Finiguerra fece l'arte solamente dello intagliare di niello; questo fu un uomo che mai non ebbe nissuno paragone di quella cotale professione e sempre operò servendosi dei disegni del detto Antonio. Amerigo fece l'arte del lavorare di smalto, ed in quella ei fu il maggiore ed il più eccellente uomo che mai sia stato né prima né poi. Ancora questo grande uomo si servi dei bei disegni del detto Antonio del Pollaiuolo. Michelangiolo orefice, da Pin:lidimonte, fu valente uomo e lavorò molto universalmente, ed assai bene legava gioie. Lavorava di niello e di smalto e di cesello con assai buon disegno; e, se bene egli non fusse di quegli eccellenti uomini, e' fu tale che e' merita d'essere lodato. Questo uomo fu il padre di Baccino, il quale fu fatto da papa Clemente cavaliere di Santo Iacopo e da per sé si cercò del casato de' Bandinelli. E, perché egli non aveva né casata né arme, si prese quel segno, ch'ei si portava del cavalieri, per arme. Di costui al suo luogo si ragionerà a bastanza. Bastiano di Bernardetta Cennini fu orefice, ed ancora costui lavorò molto universalmente. Li sua antichi e lui feciono molti anni le stampe delle monete della città di Firenze insino a che fu fatto duca Alessandro de' Medici, nipote di papa Clemente. Questo Bastiano nella sua giovanezza lavorò molto bene di grosseria e di cesello: e veramente che questo fu un valente praticone. E, se bene io di sopra dico di non volere ragionare dei praticonacci, qui bisogna distinguere da quegli che erano praticonacci a quegli che io chiamo buoni praticoni, perché questi son degni di lode. Piero, Giovanni e Romolo, questi fumo figliuoli di uno che si domandò Goro Tavolaccino; fumo orefici ed erano fratelli. Ancora questi lavoromo molto bene e con buon disegno; ed in fra !'altre cose che loro feciono molto eccellentemente si fu il legare gioie in pendenti, in anella, tanto gentilmente che in quei tempi, che noi eràmo nel millecinquecentodiciotto, loro non avevano pari; e lavoromo ancora d'intaglio, di basso rilievo e di cesello assai bene. Stefano Salteregli fu orefice, ed ancora costui fu in questo tempo valentuomo, quasi simile alli detti molto universali nell'arte; e mori giovane. Zanobi, che fu figliuolo di Meo del Lavacchio, che cosl si chiamava suo padre, ancora costui fu orefice, con una maniera molto bella di lavorare e con buonissimo disegno. Costui morl che appunto cominciava a pugnere la barba, di anni circa venti. Veramente che, in questo tempo che ancora io ero in fra costoro,

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e> ci era molti giovani che, per il loro bel principio, pareva che questi promettessino molto gran bene : dei quali la maggior parte si divorò la morte, e gli altri, chi non à seguitato le disciplinate fatiche e chi la propria natura da sé s'è stracca, di modo che loro si son fermi. lo mi sono sentito chiamare perché io ritorni a dire di quegli eccellenti uomini in una sola professione; ma perché questa di che io voglio ragionare si è, in fra tante bellissime, la manco bella, in però ancora lei è bella, e con grandissimo ingegno bisogna lavorarla, e si chiama il lavorar di filo. Piero di Nino fu orefice, e mai non lavorò di altro che di filo: e certamente che l'arte dimostra molta vaghezza, e non senza gran difficultà. Questa tale opera questo uomo meglio che ogni altri la lavorò. E, perché in questo tempo la città si era molto ricchissima, altanto si era il suo contado, e massimamente e' contadini di piano, i quali usavano di fare alle lor mogli certe cinture di velluto con fibbia e puntale, di un mezzo braccio in circa, e con spranghettini, tutta piena. Questi detti puntali e fibbie erano tutte lavorate di filo, con gran gentilezza; e si facevano di argento di bonissima lega: e, quando io verrò a mostrare il modo come tali opere si facevano, certamente io credo che e' parrà cosa bellissima. Io conobbi questo detto Piero di Nino, ed era divenuto vecchio vicino a' novanta anni. Il detto si morì parte di paura di non si avere a morire di fame, e parte per una paura che gli fu fatta una notte. Quanto al morirsi di fame, fu che la città aveva per nuova legge sbandito che e' non si portassi per e' contadini, né per altri, più tali cinture; e questo povero uomo, il quale non sapeva far altro dell'arte della oreficeria, sempre si doleva, e malediva con tutto il cuore quegli che avevano fatto quella legge. E, perché egli stava vicino a una bottega di fondaco, dove stava un certo giovanaccio sbardellato, il quale era figliuolo di un di quegli ufiziali che avevano fatta la detta legge, sentendosi maledire suo padre, diceva: - O Piero, voi farete tante di coteste maladizioni che il diavolo una volta ne porterà voi in carne e in ossa. Avvenne che questo povero uomo un sabato aveva lavorato insino passato la mezza notte per finire certi di quei sua lavori, i quali andavano in nel contado di Bologna. Avvenne che quel detto giovinaccio pensò di fargli un poco di paura da ridere. Egli appostò che questo povero vecchio se n'andasse a casa, sì come lui fece, che solo solo, serrato che lui ebbe la sua bottega, avendo un certo lumicino in mano e messosi un lembo del suo mantello in capo, cosi pian piano prese la via di casa sua, la quale era in Via Mozza. E, quando egli arrivò al Canto di Mercato Vecchio, quel detto giovane, che lo aspettava, subito vedendoselo presso, ei si messe addosso ed in capo certi panni con certi lumi di zolfo ed altre sue diavolerie

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tanto spaventose che, sopragiunto inaspettatamente il povero vecchio ed affisato il brutto mostro, gli venne tanto spavento che lui subito si venne manco : di modo che, a quel giovane parendogli di avere mal fatto, prese il povero vecchio, ed il meglio che lui potette lo condusse alla sua casa e lo consegnò a certi sua nipoti, in fra e' quali ne era uno che si chiamava Meino corriere, il quale fu poi il bargello d'Arezzo. Basta, che la paura fu tale e tanta che ivi a poco tempo il detto vecchio si morì; e si disse che quella fu la propria causa; e io più volte tal cosa sentii contare al detto Piero. Antonio di Salvi fu orefice ancora lui de' nostri Fiorentini. Questo uomo fu un valente praticone nelle cose delle grosserie; e morl vecchissimo. Salvatore Pilli fu un simile valente uomo, e morì vecchissimo, né mai aperse bottega sopra di sé: sempre stette in bottega di altrui. Salvatore Guasconti fu molto universale, massimo nelle cose piccole. Lavorò assai di niello e di smalto. Questo si può lodare. Sappiate che e' sono stati infiniti di questa arte dell'oreficeria, tutti de' nostri Fiorentini, e' quali da essa arte ànno preso grand'a.. nimo, e di poi si sono volti o alla scultura o all'architettura o ad altre mirabili imprese. Donatello, che fu il maggiore scultore che sia mai stato, sl come ragionerò al suo luogo; il detto stette ali' orefice che gli era giovane grande. Pippo di ser Brunellesco, il quale fu il primo che risuscitò il bel modo della grande architettura, ancor egli stette all'orefice gran tempo. Lorenzo dalla Golpaia stette all'orefice, e sempre si servi di tal arte. Questo mirabile uomo fu un mostro di natura; perché egli si volse a fare degli orivuoli, ed in quella professione, si come lo incitava la propria e vera buona inclinazione, questo uomo in quel1'arte mostrò tanto bene i segreti dei cieli e delle stelle che e' pareva che egli fussi stato lungamente vivo nei cieli: e le sue gran virtù le mostrò in fra l'altre in un orivuolo che lui cominciò al magnifico Lorenzo de' Medici. In questo orivuolo erano li sette pianeti, fatti in forma dell'arme de' Medici, li quali sette pianeti camminavano e volgevansi appunto sl come fanno quei in ne' cieli. Ancora il detto orivuolo è in piede, ma e' non è più di quella eccellenzia per essere stato stracurato. Andrea del Verrocchio, scultore, stette all'orefice insino che gli era uomo fatto. Questo fu maestro del gran Lionardo da Vinci, che fu pittore e scultore ed architettare e filosofo e musico. Questo uomo fu un angelo in carne, che al suo luogo ne ragioneremo quanto ci tornerà in memoria.

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Desiderio, ancora questo stette all'orefice, insino che gli era uomo; di poi si messe allo scultore, e fu un gran maestro in essa arte. Se bene io non fo menzione di tutti quei nostri Fiorentini che stettono a questa bella arte, basta che io ò ragionato· di una buona parte di quegli che si acquistomo gloriosa fama. Ora io ragionerò di alcuni de' forestieri, i quali mi vengono in preposito, e comincerò a ragionare dell'arte del niello. Martino fu orefice e fu oltramontano, di quelle città todesche. Questo fu un gran valentuomo, sì di disegno e d'intaglio di quella lor maniera. E, perché già e' si era sparso la fama per il mondo di quel nostro Maso Finiguerra, che tanto mirabilmente intagliava di niello (e si vede di sua mano una Pace con un Crocifisso dentrovi insieme con i dua ladroni, e con molti ornamenti di cavagli e di altre cose, fatta sotto il disegno di Antonio del Pollaiuolo già nominato di sopra, ed è intagliata e niellata di mano del detto Maso: questa è d'argento in nel nostro bel San Giovanni di Firenze), ora questo valentuomo todesco, nomato Martino, virtuosamente e con gran disciplina si misse a voler fare la detta arte del niello; e fece questo uomo da bene molte opere. E, perché egli benissimo conosceva di non potere arrivarle a quella bellezza e virtù del nostro Finiguerra, pure, come persona virtuosa, volse spendere la sua virtù in qualche cosa che fussi utile agli altri uomini. Egli si misse a intagliare in certe piastre di rame, ed in quelle cominciò a girare il bulino, che così si chiama per nome quel ferrolino con che e' s'intaglia; di modo ch'egli intagliò di molte belle storiette, molto bene composte, e molto bene e virtuosamente osservato le ombre ed i lumi; e, secondo quella lor maniera todesca, ell'erano bellissime. Alberto Duro ancora lui si provò, e molto più gentilmente del detto Martino intagliò: ma ancora costui non si satisfece del suo intaglio per niellare, ma si risolse a fare delle stampe, ed intagliò tanto bene che nessuno poi rà aggiunto a un pezzo. Quest'uomo da bene era orefice; e per il buon disegno, oltre allo intaglio, si misse a fare la pittura, e fe' molto mirabilmente bene; ma dello intaglio mai non à auto pari. In prima aveva intagliato Andrea Mantegni, gran pittore nostro italiano, e non riusci; in però io non ne dico altro; e il simile fece il nostro Antonio del Pollaiuolo: e perché le non satisfeciono, io non dico altro di loro, se bene il detto Mantegna fu eccellente pittore ed il Pollaiuolo eccellente disegnatore. Antonio da Bologna e Marco da Ravenna fumo ancora loro orefici. Antonio fu il primo che cominciò a intagliare a gara di Alberto Duro; ma questo uomo da bene osservò i disegni del gran Raffaello da Urbino pittore e intagliò molto bene e con mirabil disegno

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fatto al buono e vero modo italiano, osservando la maniera e modi degli antichi Greci, i quali seppono più di ogni altri. Molti altri si sono messi a intagliare di questo modo da stampare; ma, perché loro non si sono appressati a quel grande Alberto Duro ed anche poco al nostro italiano Antonio da Bologna, però io non ne parlo: massimamente perché la uscirebbe fuori del nostro preposito, il quale è che noi vogliamo ragionare della bella arte del niello e delle belle di.fficultà che sono in essa arte. E, se bene quando io andai a imparare l'arte della oreficeria (che fu nel millecinquecentoquindici, che così correvano gli anni della mia vita), sappiate che la detta arte d'intaglio di niello si era in tutto dismessa: ma, perché quei vecchi, che ancora vivevano, non facevano mai altro che ragionare della bellezza di quest'arte e di quei buoni maestri che la facevano e sopratutto del Finiguerra e perché io ero molto volonteroso d'imparare, con grande studio mi messi a imparare e con i begli esempli del Finiguerra io detti assai buon saggio di me. E, perché io avevo qualche difficultà, da poi che io avevo intagliato qualche cosa, con la materia del niello, mi messi a imparare come il detto niello si faceva, acciò che io meglio mi contentassi e per potere facilitare la grande difficultà che io trovavo in nel niellare, solo per causa del detto niello, il quale io imparai a fare; e da poi ei mi fu molto più facile cotale opera. Il detto niello si fa in questo modo. I DELL'ARTE DEL NIELLO

E' si piglia un'oncia di argento finissimo e dua once di rame benissimo purgato e tre once di piombo quanto più purgato e netto che sia possibile di averlo; di poi si piglia un coreggioletto da orefice, il quale sia capace a struggervi i detti tre metalli. Ed in prima piglierai l'argento, cioè once una, ed il rame once dua, e mettera'gli in detto coreggiuolo, ed il coreggiuolo metterai in nel fuoco a vento di mantachetti da orefice: e, quando lo argento ed il rame sarà bene strutto e bene mescolato, mettevi drento il piombo e subito tiralo indreto, e piglia un carboncino con le molle e con esso mescola benissimo. E, perché il piombo per sua natura fa sempre un poco di stiurna, levala con il detto carbone il più che tu puoi, tanto che li detti tre metalli sieno bene incorporati e ben netti. Di poi farai d'avere in ordine una boccetta di terra, tanto grande quanto si è un de' tua pugni tenendoli stretti; e la detta boccia vuole avere la bocca stretta quanto un dito che vi entri drento. Di poi empi la detta boccia insino a mezzo di zolfo benissimo pesto e, essendo 1~

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tua materia bene strutta, cosi calda la gitterai nella detta boccia, e subito la turerai con un poco di terra fresca, tenendovi sopra la mana con un buon pezzo di pannaccio lino, com'è dire un saccaccio vecchio; e, in mentre che e' si fredda, dimenerai continuamente la mano tanto che sia freddo; e, come gli è freddo, cavalo di detta boccia, rompendola, e vedrai che per virtù di quel zolfo gli arà preso il suo color nero: e avvertisci che il zolfo vuole essere del più nero che tu potrai trovare, e la boccia potrai provvedere da quelli che partiscono l'oro dall'ariento. Di poi piglierai il tuo niello, il quale sarà in più grani (gli è bene il vero che, quel dimenare con la mana in mentre che gli è caldo in nel zolfo, tutto si fa perché egli si metta insieme il più che gli è possibile); e, come e' sia, lo piglierai mettendolo di nuovo in un coreggioletto, e lo farai fondere con destro fuoco, mettendovi sù un granelletto di borrace: e così lo rifonderai dua o tre volte, ed ogni volta romperai il tuo niello, guardandogli la sua grana, insino a tanto che tu la vedrai benissimo serrata; ed allora il detto niello arà le sue ragioni, e starà bene. Ora conviene che io t'insegni il modo di adoperarlo, il qual modo si domanda niellare, sì come e' s'è ragionato in prima dello intagliare, o in argento o in oro, perché in altro metallo non si niella. Piglierassi quel lavoro che si sarà intagliato; e, perché volendo che il niellato venga senza bucolini e unito e bello, bisogna farlo bollire in nell'acqua con molta cenere che sia nettissima, e sia cenere di quercia: la qual voce si chiama per l'arte il fare una cenerata. Di poi che la tua opera sarà stata in nel calderone a bollire per lo spazio di un quarto d'ora, e' si piglia la detta opera intagliata, e si mette in un vaso o catinella, con acqua freschissima e nettissima, e con un paio di setoline nette strofina benissimo la tua opera acciò che quella sia netta da ogni sorte di bruttura. Di poi vedrai di accomodarla in su una cosa di ferro lunga tanto che tu la possi maneggiare al fuoco; la quale lunghezza dee essere tre palmi in circa, o quel più o manco che ti si mosterrà il bisogno, secondo la qualità della tua opera; ma avvertirai che il ferro, dove tu la leghi, non sia né troppo grosso né sottile: vuole essere di sorte che, quando ti metterai per niellare la tua opera al fuoco, bisogna che il caldo sia eguale, perché, se gli scaldassi prima o l'opera o il ferro, tu non faresti cosa buona; in però avvertirai a tal cosa bene. Di poi piglierai il detto niello, e pestalo in su l'ancudine o in su il porfido, tenendolo in una gorbia o cannone di rame, perché quando tu lo pesti quello non schizzi via: avvertirai che il detto sia pesto e non macinato; e vorria essere pesto molto eguale, e farai che e• sia grosso come granella di miglio o di panico, e non manco niente.

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Di poi metti il detto niello pesto in certi vasetti, o ciotoline invetriate, e con acqua fresca e netta lo laverai molto bene, acciò e' sia pulito e netto da polvere e da ogni altro imbratto che lui avessi acquistato in nel pestarlo. Fatto questo, piglia una palettina di ottone o di rame, e distendilo sopra quella opera che tu arai inta.. gliata, e farai che e' vi sia sopra detta opera alto quanto è una costa di un coltelletto da tavola. Di poi vi gratterai sopra un poco di borrace ben pesta; avertisci che la non fussi troppa; di poi metterai certe legnette sopra ad alcuni pochi carboncini, le quali sieno fatte accendere dal vento del tuo mantice alla fabbrica: e, fatto questo, accosta pian piano la tua opera al detto fuoco di legne, e comincia a dargli il caldo destramente tanto che tu vedrai comin.. ciare a struggere il niello. A vvertisci che, come il niello si comincia a struggere, abbia avvertenza a non gli dare tanto caldo che la tua opera s'infocassi tanto che la si facessi rossa, perché, facendosi troppo calda, la viene a perdere le sue forze naturali e diviene molle in modo che il niello che à la maggior parte di piombo, quel piombo comincia a divorare la tua opera, la quale sarà fatta di ar... gento o sì veramente d'oro, e per questa via tu perderesti le tue fatiche: in però abbia ben cura a questo, perché questo importa quasi quanto lo averla bene intagliata. Ora torniamo un poco indietro, e poi seguiteremo insino al fine. Io ti dico che, quando tu arai la tua opera sopra le fiamme e che tu vedrai cominciare a disfarsi il detto niello, farai d'avere un filo di ferro un poco grassetto e farai che il detto sia stiacciato dalla testa dinanzi, la quale testa tu terrai nel fuoco; e, quando il detto niello comincerà a volersi struggere, piglia subito il tuo fil di ferro caldo, e strofinalo sopra il detto niello, perché, essendo l'uno e l'altro caldo, tu ne farai come se e' fussi cera strutta, ed in quel modo avvertirai a distenderlo bene, acciò che gli entri a riempiere benissimo il tuo intaglio. Di poi che la tua opera sarà fredda, comincierai con una lima gentile a limare il niello; e, come tu n'arai limato una certa quantità (la quale non sia tanta però che tu scuopra il tuo intaglio, ma farai d'esservi presso lo scoprirsi), piglia la tua opera e mettila in su le cinigie, o sl veramente in su un poco di brace accesa; e, come la detta opera sarà calda tanto quanto la mano non la sopporti, anzi penda più presto in nel troppo caldo, allora piglierai un brunitoio di ferro, cioè di acciaio temperato, e con un poco di olio brunirai il tuo niello, aggravando tanto la mano quanto com.. porta la opera, usando quella discrezione che ti si appresenta secondo le occasione. Questo brunire si fa solamente per riturare certe spugnuzze che alcune volte vengono in nel niellare; ed il brunire in nel modo detto le riserra benissimo a chi arà pazienzia con qualche

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poco di pratica. Da poi piglia il tuo rasoio, e finisci di scoprire il tuo intaglio. Di poi piglia tripolo e carbone pesto e, con una canna, fatta piana dal midollo, con dell'acqua tanto strofinerai la tua opera che tu la farai unita e bella. Discretissimo lettore, non ti maravigliare se io mi sono allungato troppo con lo scrivere: sappi che io non ò detto alla metà di quel che importa a questa arte, che veramente la vuole tutto un uomo il quale non intraprenda di voler fare altra arte che questa detta. Io in nella mia giovinezza di quindici insino a diciotto anni lavorai molto di questa arte del niello, e la feci sempre con i mia disegni, ed erano molto lodate le mie opere. II IL LAVORAR DI FILO

Il modo del lavorare di filo (se bene io non feci molte opere, io ne feci alcuna del modo più difficile e più bello, e così io mi metterò a ragionare), l'arte è molto bella; e, quando elPè ben fatta e bene intesa, l'apparisce tanto piacevole all'occhio dell'uomo quanto altr'arte che si facci in fra le oreficerie. E, quegli uomini che l'ànno fatta meglio degli altri, ànno avuto lume di buon disegno di fogliami e trafori; perché, tutto quello che si à da mettere in opera, bisogna prima risolversi con il disegno e, se bene i più ànno fatta quest'arte senza fare il disegno per la facilità ed ubidienza che in essa si interviene, niente di manco tutti quegli che l'ànno fatta con il disegno, l'ànno fatta molto meglio degli altri. Ora intenderai il modo di essa arte. Elle sono molte cose quelle in che l'uomo si può servire del lavorare di filo. Adunque noi cominceremo alle prime, le quali sono usate cotidianamente, e poi ritroverremo alcune cose di questa bell'arte, le quali faranno maravigliare gli uomini. Il lavorare di filo, il quale si sa per i più, si è il fare puntali e fibbie a cinture, sì come io dissi in prima in nel principio di questo mio libro. Ed ancora si usa in fare crocette e pendenti e scatolini e bottoni ed alcuna altra maniera di mandorlette e molte diverse maniere di brevi, i quali si riempiono di musco, ed èssi fatto ancora delle maniglie, e molt'altre infinite opere. Tutte quelle opere che ti occorrerà di fare della detta arte, in prima bisogna che le si facciano di una piastra o di oro o di argento in quel proprio modo che dee essere quella cosa che tu vorrai fare. E, fatto questo, tu doverrai aver fatto il tuo bel disegno; di poi arai tirato tutta la sorte del filo che ti farà di bisogno, cioè grosso e sottile e mezzano, le quali sono tre grossezze, tutte a tre diminuendo per ordine; ed ancora se ne può fare insino a quattro grossezze.

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Appresso farai di avere della granaglia, che cosl si chiama: la quale volendola fare, tu piglierai il tuo o oro o argento, e lo farai fondere; e, quando ei si mostra benissimo strutto, farai cli gittarlo in un vasetto, il quale sia pieno di carbone pesto: e cosl vien fatta la granaglia di ogni sorte. Ancora ti bisogna di aver fatto la saldatura, la quale si dee fare saldatura di terzo, la quale si chiama di terzo perché e' si piglia dua once di argento ed una di rame: e, se bene molti ànno usato di fare le saldature con l'ottone, sappi ch'ella è migliore a farla con il rame ed è manco pericolosa. A vvertisci che tu debbi limare la tua saldatura pulitamente; di poi metterai in su tre parte di saldatura una parte di borrace benissimo macinata, e la detta saldatura ben mescolata con la detta composizione farai di metterla in un borraciere, come si usa in fra gli orefici. Ancora farai di avere del dragante, il quale si è una certa gomma che ne vende tutti gli speziali, ed il detto farai cli metterlo in molle in una ciotolina o in altro vasetto, come meglio e' ti torna commodo. E, quando tu arai tutte le dette cose, ancora tu doverrai aver messo in ordine due paia di mollette, le quali vogliono essere assai ben gagliardettc; ed ancora bisogna avere uno scarpelletto augnato come usano e' legnaiuoli, ma e' vuole avere la sua asta della lunghezza e grandezza come quella dei bulini, perché questo scarpelletto t'à a servire per tagliare e' fili più volte, ché, in mentre che tu gli volgi per un verso e per l'altro, secondo il tuo disegno e la tua volontà, e' bisogna avere una piastra di rame della grandezza della palma della mana, e la detta piastra vuole essere di buona grossezza e benissimo spianata. E, quando tu arai vòlto il tuo filo secondo la tua volontà, tu lo ài di mano in mano a mettere in su la piastra del tuo lavoro, e di mano in mano piglierai il tuo pennellino e lo imbratterai con quell'acqua di dragante, mettendovi i fili e quelle gallette grosse e piccole secondo la tua volontà: e, in mentre che tu componi il tuo fogliame, o altro partimento, quell'acqua di dragante lo tiene benissimo che egli non si muove: perché, avvertisci, ogni volta che tu arai composto una parte del tuo fogliame, innanzi che quell'acqua di dragante si rasciughi, gettavi sù con il tuo borraciere della detta limatura di saldatura e mettivene a punto tanta quanto la sia bastante a saldare il tuo fogliame, e non più. E, perché la tua opera sia, di poi che l'arai salda, più pulita e più bella (perché la troppa saldatura fa brutta l'opera), fa' che solo la basti. Avvertisci che, quando tu vuoi saldare il tuo lavoro, bisogna avere in ordine un fornelletto come quegli che servono a smaltare. E, perché gli è gran differenza dal modo del far correre lo smalto al modo di saldare i lavori di filo, e' vuole adunque essere il detto fornello con molto meno furore di fuoco. Di poi lo accommoderai in su una piastretta

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di ferro, in su la quale e' vi stia sospeso, ed a poco a poco lo acco-sterai al caldo del tuo fornello insino a tanto che la borrace abbia ribollito e fatto lo effetto della sua natura, perché il troppo caldo ti farla muovere quei fili che tu avessi tessuti: in però è di necessità lo avere una gran discrezione, la quale non si può insegnare con lo scrivere, ma e' se n'è buona parte con le parole vive e con la sperienzia detta; pure noi seguiteremo il nostro modo di ragionare. Ora abbi avvertenza che, quando tu ti risolvi di saldare, cioè che la tua saldatura scorra, avendo messo il tuo lavoro in fuoco, e' si usa di mettere qualche poco di legnuzzi ben secchi, non mancando di un poco di vento di mantacuzzo, secondo che ti si mosterrà il bisogno; ed ancora si può soccorrere con un poco di crusca grossa (ché anco quella, quando l'è adoperata al suo tempo, la fa molto bene): ma la pratica e la sperienzia insieme con la discrezione si è quella che insegna a ogni cosa bene. Quando il tuo lavoro sarà saldo, la prima volta, se e' sarà lavoro di argento, tu Io farai bollire in nella gomma di botte insieme con altrettanto sale; e tanto vi bollirà che il tuo lavoro sarà sborraciato: la qual cosa sarà il termine di un quarto d'ora, ed in detto tempo sarà benissimo netto e purgato dalla borrace. Ma avvertisci che, se la tua opera sarà d'oro, bisogna che tu la metta nello aceto forte, in tanto che la sia ricoperta con un poco di sale, per spazio di un dl ed una notte; di poi potrai comin• ciare a traforare alcuna rosetta che sarà ordita in nella tua opera: la qual cosa io ne ò vedute e fatte che mostrano molto vaga la opera, quando in nel tuo lavoro di filo tu compartirai parecchi traforetti messi con disegno a' sua luoghi. Io non voglio tacere ancora, per la vaghezza di questa bell'arte, una mirabile e rarissima opera che mi fu mostra in Francia nella bellissima e ricchissima città di Parigi (il qual Parigi li Franzesi nella lor lingua costuman dire Pari.s simparì, che vuol dire «Parigi senza pari»), essendo io al servizio del re Francesco nel millecinque-centoquarantuno. Il qual dignissimo e maraviglioso re mi teneva in detto Parigi, e quivi mi aveva liberamente donato un castello, il quale si è in detta città ed il nome di esso si chiamava e si chiama il Petitte Nelles, ed in esso io lavorai quattro anni, che al suo luogo mi verrà in preposito il ragionare delle grandi opere che a quel di-gnissimo re io facevo. Ora seguiterò il mio ragionamento del modo del lavorare di filo; e, sl come io ò promesso, dirò di una rarissima opera forse non mai più fatta, la quale io vedd.i in detta città. Essendo andato un giorno di festa solenne il detto re al vespro nella sua santa cappella in detto Parigi, egli mi fece intendere come io do-vessi trovarmi a tal vespro, perché ei mi voleva mostrare alcune belle cose. Quando e' fu detto il vespro, sua maestà mi fe' chiamare dal

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suo conestabile, il quale rappresenta la stessa persona del re. Venne il detto signore a chiamarmi, e mi prese per la mana e mi condusse innanzi al detto re; il quale con tanta benignità e grazia ivi mi cominciò a mostrare alcune bellissime gioie, ma non molte, né anco mi domandò troppo a lungo. Di poi le dette, mi mostrò parecchi cammei antichi della grandezza di più di una gran palma di mano, e sopra e' detti mi domandò di molte cose, alle quali io dissi il mio parere. Eglino mi avevano messo in mezzo, il detto re e il re di Navarra suo cognato, e la regina di Navarra, con tutto quel primo fiore di quei gran signori più appresso a sua corona; e cosi sua maestà mi mostrò di molto belle e ricchissime cose, sopra le quali si ragionò molto a lungo, e con suo molto gran piacere. Da poi queste tante ricchissime cose, egli mi mostrò una tazza senza piede da bere, ed era di una certa ragionevole grandezza. Questa tazza si era lavorata di filo con molti bellissimi fogliametti ed altri compartimenti con detti fogliami molto bene accomodati. Ora intendetemi bene: ella era in fra i fogliami ed i partimenti ripiena di bellissimi smalti di più vari colori; e, quando questa tazza si alzava all'aria, tutti quegli smalti trasparivano di modo che la dimostrava di essere cosa impossibile da potersi fare, ed altanto pensava quel gran re che quella fussi: e così piacevolmente mi di.mandò se io mi potevo immaginare in che modo quella fussi fatta, e tanto maggiormente quanto io grandissimamente gnele avevo lodata. Ora alla sua domanda io gli dissi: - Sacra maestà, io vi dirò in che modo l'è fatta appunto, a tale che voi stesso, che siate uomo di cosi raro ingegno, il detto modo voi ne saprete tanto quanto il proprio maestro che la fece; ma io non vi posso già insegnare con tanta brevità quel bel disegno che è in detta opera. - A queste mie parole mi si ristrinse addosso tutto quel restante di quella gran nobiltà che ivi era con sua maestà, e il detto re disse che non conosceva altro di maraviglioso che quel modo che l'era fatta, il quale io così facilmente promettevo d'insegnare. Allora io dissi: - Volendo fare una tal opera, bisogna fare una tazza di piastra di ferro sottile, la qual sia una costa di coltello maggiore della tazza che si à da fare; di poi si pigli la detta tazza di ferro, e con un pennello si dia un loto di terra sottile dentro a detta tazza; il quale loto vuole essere fatto di terra e cimatura e tripolo molto bene macinato; e di poi si piglia il filo tirato sottile di oro, di quella qualità di grossezza che quello intelligente maestro vorrà che la sua tazza sia grossa: in però il detto filo sarà ben fatto che e' sia un poco grossetto, tanto che, quando e' si stiaccia con il martello in sul tuo pulitissimo tassetto, egli penda più presto nel larghetto che altramente, di modo che e' sia da poi stiacciato della larghezza di un nastretto quanto dua co-

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ste di un coltelletto e sia sottile quanto un foglio di carta reale: e bisogna aver cura di stiacciarlo molto eguale e da poi benissimo farlo ricuocere, perché e' sia tanto più facile a volgerlo con le mol... lette. E, avendo il suo bel disegno innanzi, si cominci a comporre del detto filo stiacciato di dentro in. detta tazza di ferro li primi ordini di quegli partimenti, di mano in mano appiccandogli con acqua di dragante sopra quel loto detto: e, messo che l'uomo arà tutti quei primi e partimenti e proffili, si à da poi a fare e' fogliami, mettendovegli per ordine come mostra il disegno, appiccandoveli foglia per foglia, a una a una nel modo detto. Di poi che tutta la detta opera si sarà messa in nel detto modo, bisogna avere gli smalti di tutti e' colori, benissimo pesti e benissimo lavati. Gli è il vero che la si potrebbe saldare in prima che metter lo smalto in quel modo che io ò insegnato sopra che si saldano i lavori di filo; ma in nel vero nell'uno e altro modo (cioè con saldarla e senza saldarla) si può fare. E, fatto tutte queste prime diligenzie, e' si piglia il detto smalto e tutta si riempie di diversi colori; di poi si mette in nel fornello e si fa scorrere il detto smalto; e la prima volta bisogna dargli poco fuoco e di nuovo bisogna riempiere il detto smalto tanto che gli avanzi e se gli dia il fuoco alquanto maggiore e, rivedendo la detta opera, se l'arà bisogno di caricarla in qualche luogo del detto smalto: e, fatto questo, bisogna dargli un gran fuoco tanto quanto Parte promette che tale opera e tali smalti possino sopportare. Da poi si caverà della tazza del ferro: la qual cosa sarà facile per amor di quei primi loti che aranno difesi gli smalti che e' non si ·saranno attaccati. Di poi si piglia certe pietre, che si chiamano frassinelle, e con le dette pietre con l'acqua fresca si cominciano a spianare e si fanno unitamente eguali, conducendola a quella grossezza che e' parrà che la stia bene. E cosi si fa tanto con quelle frassinelle che la viene al termine suo egualmente tutta. Di poi la si pulisce con altre pietre molto gentili, e l'ultima cosa si fa con il tripolo e con una canna, come si è detto al niello; tanto che la viene pulitissima e bella. - Quando quel mirabil re Francesco intese questo modo, ei disse che tutti quegli uomini che sapevano bene insegnare gli era forza che e' sapessino benissimo operare e che io avevo tanto ben detto quel modo di quella opera, la quale gli pareva che fussi impossibile e che per le mie parole e' gli saria bastato la vista di farla a lui medesimo: e mi crebbe di tanta beni... volenzia quanto mai immaginare si possa al mondo.

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III DELL'ARTE DELLO SMALTARE

Ora cominceremo a ragionare della bellissima arte del lavorare di smalti, e cosi in detto modo ricorderemoci di quei valentuomini che meglio l'ànno fatta, e con la sperienzia delle loro belle fatiche si mosterrà quanto tale arte sia bella e difficile, e la differenza che gli è dal modo che lei si fa veramente bene ed a quest'altro che la si fa manco bene. Sì come io dicevo al principio di questo mio libro, in Firenze questa arte s'è fatta molto bene: ed ancora io credo che in tutte quelle provincie dove ella si è usata assai (come è stato in nella Francia e in nella Fiandra, le quali provincie l'ànno fatta molto bene) certamente che il vero modo, ed il più bello, loro l'ànno imparato dai Fiorentini. E, perché loro cognobbero che il vero modo si era tanto profondo, e loro, conosciutosi di non essere a bastanza di potere aggiungere a quel vero modo, ne andomo cer-cando di un altro modo, il quale fussi di manco fatica; ed in quello vi feciono tanta praticaccia che loro in fra il maggior vulgo si ac-quistomo il nome di bene smaltare. Gli è bene il vero che il fare assai di tutte le cose, in che l'uomo si eserciti, quella tanta pratica fa una gran sicurtà nell'arte, e per virtù di quella si viene anche alla teoria delle belle arti, come ànno fatto in gran parte li detti ol-tramontani. Quel vero e bel modo di che io mi sono messo a ragionare si fa in questo modo. Ei si fa una piastra o di oro o di argento, e vuole essere grossetta e sia condotta in quella forma che arà da essere la tua opera. Di poi si attacca in su quello stucco, che si fa di pece greca e matton pesto sottilissimo, ed un poco di cera, secondo la stagione in che tu ti truovi: se egli sarà di vemo, vi si mette più cera e, se e' sarà di state, assai manco cera. E il detto stucco si appicca in su una stecca o grande o piccola, secondo la grandezza del tuo lavoro, e poi si piglia la detta piastra e si scalda; e, poi che la sarà calda, la si attacca in su la detta pece e di poi si segna con le tue sestoline un proffilo manco di una costa di coltello; e, fatto questo, con una ciappola quadra si abbassa tutta la detta piastra a punto quanto à da essere la grossezza dello smalto: e si debbe fare con molta diligenzia. Di poi si disegna nella detta piastra tutto quello che l'uomo vuole intagliare, o figura o animale o storia di più figure, e poi si intaglia con il bulino e con le ciappolette con tutta quella pulitezza che sia possibile al mondo. E debbesi fare un basso rilievo, il quale sia della grossezza di dua fogli di carta ordinaria, e questo det-to basso rilievo vuole essere intagliato con ferri sottili, massimamente

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li sua proffi.li; e, se le saranno figure vestite con panni, sappi che e' panni sottili mostrano bene per le assai pieghe che si fa in essi. Il tutto importa che il tuo lavoro sia spesso di intagli o pieghette o fioretti, i quali si fanno in su e' panni grossi, volendo dimostrare dommasco: e questa diligenzia si fa acciò che, finito il tuo smalto, egli non schizzi, cioè che e' non si spicchi; e, quanto più pulitamente farai il detto intaglio, tanto più bella verrà la tua opera. Ma avvertisci che e, non ti venissi tocca la tua opera con i cesellini e con il martello, pensando di fare più bello il tuo basso rilievo, perché gli smalti o e' non si appiccano o e' fanno brutto lo smaltato e perché quando l'uomo intaglia e' gli è forza di fregare il suo intaglio con un poco di carbone dolce, il quale sia di salcio o di nocciuolo, e si strofina con un poco di sciliva o di acqua con il dito (la qual cosa si fa per poter meglio scorgere quello che l'uomo intaglia, perché il lustro che lascia i ferruzzi non ti lascerebbono veder bene la tua opera); in però la detta opera diviene a essere alquanto unticcia e lorda, bisogna, finito che e' sia, bollirlo in una cenerata in nel modo che e' s'è insegnato a lavorare di niello. Di poi volendo smaltare la tua opera, essendo di oro (ché di questo io voglio ragionare in prima che dello smaltare in argento), con tutto che all'oro ed all'argento si usi la medesima pulitezza e quasi tutto il medesimo ordine, solo è qualche diversità in nel modo dello smaltare ed in nella stagione degli smalti, perché lo smalto rosso trasparente non si può adoperare a smaltare in argento, e la causa si è che ),argento non lo piglia: e, volendo dire la causa di questo, e' saria troppo lungo discorso, il quale non ci servirebbe di nulla; in però attenderemo a ragionare di quelle cose che più faranno al nostro proposito. Ancora io non voglio ragionare del modo che son fatti gli smalti, perché quella si è una certa arte molto grande, la quale ancora la facevano gli antichi ed è stata trovata da uomini soffi.stichi; e, per quello che noi possiamo ritrarre di vero, di quella sorte di smalto rosso trasparente gli antichi non avevano cognizione e si dice che questo smalto fu trovato da un archimista, il quale era orefice, e, per quello poco che si ritrae, dicono che questo archimista aveva messo insieme una certa composizione cercando di fare oro e, quando gli ebbe finito di fare la sua opera, oltre alla materia del suo metallo restò in nel coreggiuolo una loppa di vetro rosso tanto bello quanto ancor si vede; di modo che il detto orefice fece di esso sperienzia, accompagnandolo con gli altri smalti, e con grandissima diffi.cultà e molto tempo al fine pure egli trovò il modo. Questo smalto si è il più bello di tutti gli altri, e si domanda in fra l'arte degli orefici smalto roggio, e in Francia si. domanda rogia chlero, di modo che questo suo nome si è voce franzese, la quale vuol dire acqua quanta merita la quantità della materia, la quale si à da condurre in modo d'un savore, il quale non sia né troppo duro né troppo tenero, ma vuol essere mescolato bene. Di poi piglia un pennelletto di vaio, e quel gesso con il quale tu arai formato la tua cera, cioè la tua storia del suggello, ungilo con quel pennelletto di vaio, e con un poco d'olio d'uliva farai che sia benissimo unto. Di poi trattienti alquanto, tanto che sia rasciutto, perché la natura del gesso si è berselo. E, veduto che e' sia rasciutto da per sé, a modo che usiamo dire noi Fiorentini verdemezzo, qual vuol dire che e' non sia troppo rasciutto né poco rasciutto, di poi fara'gli una spalletta di terra allo intorno, che sia alta dua dita il manco. Fatto questo, piglierai il tuo gesso liquefatto, dico quel gesso che io ti ò insegnato, con il tripelo e con l'olio, e questo lo verserai sopra il gesso unto, e con un pennelletto di vaio asciutto destramente lo pignerai in quella storia del gesso unto; di poi ve ne metterai su tanto che sia grosso dua dita o più, e farai che in verso il disopra gli abbi fatto una forma di quattro dita più grande, pure a foggia di mandorla, come mostra la forma del suggello: questa grandezza voglio che ti serva per far la bocca per gittarlo di argento o del metallo che tu vorrai. Come tu vedrai che il tuo gesso sia ben secco, con il termine di quattro ore di tempo il manco, farai di spiccare l'un gesso dall'altro con quanta più destrezza ti sia possibile, perché nulla non si rompa della tua storia delle figurine; ché, in questo modo che io t'insegno, io me ne sono servito più che in altro modo; in però e' bisogna essere diligente. Ed avvertisci che gli è più facile quello ispiccare il primo gesso dalla cera, perché egli à più nerbo che non à questo altro che si fa con composizione. E, quando e' non ti venissi bene in qualche braccino o

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testa e rimanessino in nel cavo, ci è dua modi: il primo si è che, se tu puoi cavare quei pezzi, piglia un poco di tripolo macinato bene e con un pennelletto di vaio ti verranno rappiccati e, per essere la tua storia di rilievo, tu vedrai meglio il fatto tuo che se la fussi di cavo. L'altro modo si è che tu potrai nettare benissimo il tuo cavo di gesso e di nuovo ugnerlo in nel modo detto, e con il medesimo gesso composto farai il medesimo modo che ti si è insegnato: ché, non essendo venuto bene alla prima, potrà essere che alla seconda ti verrà benissimo. Ora avvertisci bene a quello che io ti dico. Farai una forma di cera, della grandezza a punto che à da essere il tuo suggello, in forma di mandorla; e farai che la sia vota, e mettera'la sopra la tua storia del suggello, ed avvertisci di dargli quella grossezza che ti à da restare poi il suggello di argento. Fatto questo, farai le tue spalle di terra d'intorno a questa cera, avvertendo che quella lunghezza della bocca vi resti tanto lunga secondo che la tua discrezione ti mostra; alle quale io non voglio mancare di non ti avvertire che, quanto più lunga sarà la tua bocca, molto meglio verrà la tua opera. E' ci sarebbe da dire molte infinite minuzie, le quali sarebbono troppo lunghe né più né manco come insegnare l'alfabeto della tavola; ma, perché io so che quelli che si serviranno di queste mie fatiche ànno da esser persone che aranno passato e' primi principi dell'arte, e con quelli ragiono. Avvertirai ancora di fare la tua bocca di cera e appiccarla alla tua mandorla del suggello, e medesimamente gli sfiatatoi, i quali tu appiccherai di sotto e dieno la volta intorno al suggello, e farai che arrivino su alla bocca: in però non accozzerai con la bocca, perché e' passino sfiatare e fare l'ufizio loro. E, fatto questo, legherai il tuo suggello con filo di ferro e di rame ben ricotti; di poi lascialo stare al sole o in luogo dove gli abbi caldo tanto che tu vegga che la tua forma sia bene asciutta; e, poi che la sia bene asciutta, mettera'la in tra certi mattoni, facendogli un fornelletto con fili di ferro, e cose legate, e dara'gli fuoco destro tanto che tu ne cavi la tua cera: e avvertisci che quella cera vuol essere pura, non mescolata con nulla, perché altrimenti la ti farebbe danno; dove che, essendo pura, la ti farà utile. E, quando con le dette diligenzie tu arai cavato la tua cera, comincerai a crescere il fuoco con gran destrezza alla tua forma, la quale tu cocerai: farai che la sia cotta bene, perché tanto meglio ti verrà l'opera tua. Di poi farai che la sia fredda, perché più volentieri se gli accosta lo argento essendo fredda che quando l'è calda; dico fredda, ma non umida; gitterai drento il tuo argento, il quale sia benissimo strutto. E, perché e' non si riarda, gittera'gli un poco di borrace sopra, e sopra la detta borrace gitterai un pugnelletto di gromma di botte ben macinata: e, fatto che tu arai queste diligenzie, gitterai nella

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tua forma il detto argento, con il quale ti verrà benissimo la tua opera. E, fatto questo, sciogli la tua forma e aprila, o vuo'la mettere nell'acqua: ché così meglio si spiccherà la tua forma dallo argento. Fatto che tu hai questo, netterai il tuo argento dalla bocca e dal .. li sfiatatoi, e con la lima lo condurrai a sua bella forma. Aven .. dolo condotto alla sua bella forma, e' si usa appiccarlo in su quei sopradetti stucchi; e, fatto questo, fa' di avere innanzi quella prima forma di gesso, la quale è in cavo; di poi con i tua ceselletti, bulini e ciappoline tu andrai riserrando il tuo argento e finendo la tua istoria, cioè l'una figurina a canto all'altra e tutti i panni, braccia, corpi e gambe con bella virtù con i detti tua ferruzzi ritraendole dal tuo cavo. E, per meglio vederle, e' si usa con un poco di cera nera o di che colore più ti aggradi, formare spesso quel che tu lavori. Or intendimi bene : le teste delle figure, le mane ed i piedi sem.. pre abbiamo usato di intagliargli in punzonetti di acciaio; ché in que .. sto modo si vede meglio il vero e con maggiore onore di quel che ope.. ra. Di poi che arai intagliato e condotto bene le tue testoline, piedi e mane, elle si mettono con un martelletto, con destri colpi in nel tuo suggello, e molte altre minuzie che la bella discrezione t'insegni. Ed ancora ti bisogna fare un alfabeto di lettere di acciaio, intagliate in nel modo diligente che tu ài fatto le testoline e !'altre cose. E perché, quando io ò in Roma, o in altro luogo, lavorate cotai opere, volentieri ò sempre rifatto il mio alfabeto di lettere di nuovo, e così mi sono fatto onore, perché le si logorano: e le lettere vogliono es.. sere belle, fatte con quella bella ragione che ti mostra una penna tagliata alquanto grossa, cioè larga; e, secondo che la penna si gira nella mana, quei corpi che da essa ti vengon fatti, quella è la vera ragione, avvertendo che le non sieno troppo grosse, o cortacciuole, perché sono dispiacevoli da vedere, ed anche le troppo lunghe e sottili: con tutto che l'uno e l'altro sia peccato, pure il pendere nello svelto le sono più grate agli occhi. Non voglio mancare di finirti il suggello affatto: quelli ornamenti che di più se gli fanno, si è l'arme del cardinale, o di che e' sia. Io l'ò sempre fatte ricche di figurine con piacevoli ornamenti; di poi ò usato per il manico, con che si piglia il suggello, far qualche bello animale, o sì veramente figure secondo la impresa che ànno auto e' signori che io ò serviti. E queste piacevoli diligenzie di fine non si debbono mancare, perché le fanno maggiore onore al mastro e gratissimo piacere al signore che si serve. Io ne feci un d'oro, mezzanotto, al duca di Mantova, fatto ch'io ebbi il suo al cardinale suo fratello, e, oltra tutte le diligenzie che io usai, come ò detto, io gli feci un manico, il quale era un Ercoletto a sedere con la sua pelle del leone sotto e con la sua clava in mano. Questa figurina io la studiai grandemente; e

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fra gli scultori e pittori (che in fra quelli vi era messer Giulio romano) la mi fece grandissimo onore, e di quei pittori e scultori se ne servirono a metterla in opera; e io ne fui ben pagato. Altri sono stati che animosamente si sono messi a intagliare i suggelli senza gittarli; ma, fatto il lor modelletto o disegno con propria virtù d'arte, ànno ben condotto le opere loro, sempre però facendo i punzoni detti; e in tutti questi modi ancora io ne ò fatti, ma io ò trovato più facilità in nel gittarli: l'uno e l'altro è bello e buon modo, purché e' si conduca a bella fine. XIV IL MODO DI FAR MEDAGLIE PER STAMPARE IN ACCIAIO,

E

cosi

IL MODO DELLO STAMPAR MONETE

Per essere le monete la prima disciplina la quale insegna meglio il far da poi quelle che sono state domandate medaglie, sì come si veggono ancora degli antichi, al suo luogo ne ragioneremo. E' si deve sapere che questi antichi detti senza dubbio nessuno feciono le medaglie per pompa, e le monete erano diverse dalle medaglie, le quali eglino femo per necessità. Ragionando di queste monete, si debbono gloriare e' moderni averle fatte con più facilità; il qual modo è stato trovato da loro stessi, si come la stampa delle lettere e molte cotai cose, che non facendo a proposito le lascerò infino a tanto che mi verranno in proposito in fra qualche arte diversa da queste; della quale al suo luogo ragioneremo. Quanto al tornare alle monete, io ò promesso in questo mio discorso di ognuna di queste opere di che io ragiono ed insegno; e, perché meglio si creda che sicuramente io ne possa ragionare ed insegnarle, però mostro di aver fatto di esse opere di ciascune a diversi gran principi. Le prime monete ch'io feci mai, io le feci a papa Clemente settimo in Roma, il quale mi mandò a chiamare di Firenze diciotto mesi di poi il gran sacco che fu fatto a Roma da monsignor di Borbone. E, perché in Firenze gli avevono cacciato via la Casa de' Medici, il detto papa mi fece chiamare da maestro lacopino dello Sciorina, il quale teneva la barca in su il Tevero, che con essa passava di Banchi in Tresteveri, rasente il palazzo di messer Agostino Chigi. Questo maestro Iacopino mi scrisse dua volte da parte del papa detto. Alla seconda volta io subito mi cacciai a correre, perché se quella lettera fussi stata trovata, questi terribilissimi popolani mi arebbono impiccato. Per tanto partitomi, giunsi a papa Clemente; il quale, fattomi grandissime carezze, appresso mi comandò che io gli facessi le monete della sua città e Zecca di Roma; e le prime furono monete di dua ducati d'oro larghi l'una, nelle quali era stampato dua

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sorte di figure diverse l'una dall'altra: la prima si era figurato un Cristo ignudo, con le mani legate dinanzi, fatto con tutta quella virtù e studio che io sapevo, con un certo motto di lettere a tra-verso a fianchi del detto Cristo, le quali dicevano: «Ecce homo »; ed all'incontro della circunferenza della moneta le lettere dicevano: «Clemens VII, Pont. Max.»; dall'altra banda si era stampato la testa del detto papa. Da poi venutogli nuova occasione, con tutto che io non abbia a scrivere cronache ed a me non si attenga cotai cose, in però io non posso mancare di non scrivere, venendo al mio proposito, qualche una di queste cotai faccende. (Gli è ben vero che io non mi voglio distendere a dir quello che in quel tempo a Roma si diceva, ma e' sarà ben facile per certo ai buoni ingegni lo immaginarselo.) L'altra bella moneta si fu medesimamente d'oro, di valuta di dua ducati d'oro in oro, e da una banda era stampato un papa con il suo ammanto papale addosso, ed un imperatore similmente: e' quali dua dirizzavano una croce la qual figurava essere in atto di cadere a terra. In questa banda io non mi ricordo che ci fussi lettera alcuna, ma dall'altra banda era stampato un san Pietro ed un san Pagolo fatti da più che il mezzo in sù, con lettere intorno, quali dicevano: «Unus spiritus, una fides erat in eis ». Queste monete mi feciono grandissimo onore, perché io le feci con grandissimo studio; e, perché il papa le fece a troppo suo disavvantaggio, ben presto gli fumo disfatte. Un'altra sorte di monete gli feci di argento, di valuta di dua carlini l'una, che da una banda era la testa del papa ed all'altra banda era un san Piero figurato, il quale, uscito dalla barca e gittatosi in mare alla voce di Cristo, mostrava sommergersi nel mare, e Cristo lo pigliava per la mana con piacevole attitudine; e le lettere dicevano: « Quare dubitasti ? » In Firenze poi io feci tutte le monete del duca Alessandro, duca primo di Firenze; fumo monete di quaranta soldi l'una, e, per essere il duca ricciuto, si domandavano e' ricci del duca Alessandro: da una banda era la testa del detto duca e dall'altra un san Cosimo ed un san Damiano. Di poi gli feci il barile e il grossone. Sì come di sopra io dissi, gli antichi non ebbeno il modo di stampare le monete con quella facilità che noi facciamo, e però mai se n'è viste di quelle che sieno belle; perché la moneta vuole essere fatta, cioè la stampa di essa moneta, con altri modi di stampe, le quali stampe con quella facilità che io mostrerrò le dette stampe di monete si stampano. In prima e' sono dua ferri, e' quali stampano le monete, che l'un de' dua è chiamato pila e l'altro è domandato torsello. La pila è in forma d'una ancudinetta, in su la quale s'intaglia quel che tu vuoi che la moneta getti; e, l'altra parte che si domanda torsello, questo è cinque dita alto, ed è della gros-

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sezza, in nella testa sua, che à da essere la moneta che tu vuoi stampare. Tutto il resto in verso la coda sua viene alquanto diminuendo con bella grazia e forma. Questa pila e torsello ambedui si fanno di ferro stietto, salvo che in su le lor teste vi si attacca la grossezza di un dito di finissimo acciaio. E, fatto questo, il maestro con la lima dà quella forma che e' vuole, cioè che deve avere la grandezza della moneta che egli vuole stampare. Di poi si fa un loto con terra, vetro pesto e filiggine di cammino e terra di bolo annenio; mettevisi alquanto un poco di sterco di cavallo e, mescolato bene queste dette cose con l'orina d'uomo, faccinsi liquide come la pasta da fare il pane. Di poi si mettono in su le teste della detta pila e torsello grosse un buon dito, ed in questo modo si mettono nel fuoco, il quale sia tanto che elleno si ricuocano benissimo e freddinsi in nel medesimo fuoco da per loro, il quale vorria essere tanto che le tenessi calde una notte di vemo intera e non manco. Di poi si pigliano e dàsseli la sua forma affatto, lasciando da vantaggio la grossezza d'una mezza costa di coltello. E, fatto questo, si arruotano in su una pulita pietra, facendo che la detta pietra sia gentile, perché non vuol restare nessuna impulizia in su dette pile e torsello. Di poi farai di avere le tue seste, con che tu ài da segnare il circuito della granitura della moneta, che viene a essere appunto la grandezza che à da essere la detta moneta. Di poi si piglia un altro paio di seste, con le quali tu segnerai dove ànno a stare le lettere, che vanno intorno alle monete. Avvertirai che queste seste vogliono essere fatte d'un filo d'acciaio grassetto, il qual si torce in forma di sesta, e mettesi alla grandezza che tu vuoi che ti serva, e quello mai più si muove: e di questa sorte gli è di necessità di averne dua para il manco, ed un altro paro poi che sieno mobili che si aprino e serrino, ché vogliono essere gagliarde. Fatto che tu ài queste diligenzie, cioè segnato per le tue graniture il sito delle lettere, metti la tua pila in un grosso tassello di piombo, il qual pesi cento libbre al manco; e fermo che tu arai la pila in nel detto tassello, volendo cominciare a stampare la tua moneta in nella stampa per la moneta, tu piglierai la testa intagliata in acciaio finissimo di quel principe che tu servi, la qual testa innanzi che tu la intagli gli è di necessità l'avere indolcito prima il tuo acciaro nel fuoco, in nel modo che io ti ò insegnato la pila ed il torsello; ma avvertisci che questo ferro vuol essere tutto di acciaio finissimo. E, perché gli è di necessità di fare questi ferri secondo il bisogno che t'insegna l'opera che tu vuoi fare, volendo fare una testa fara'la di dua pez.. zi; e, volendo fare un riverso poi alla tua moneta dove vadino più figure, queste si fanno di molti pezzi secondo il buon giu.. dizio di quello che opera, perché sono stati alcuni che l'ànno

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fatte di pochi pezzi. In questo modo le sono più difficili a mettere nelle tue stampe, dove, se le sono di più pezzi, elle si mettono molto più facilmente; ma bisogna avere grandissima avvertenzia a commetterle bene. E questo si fa quando il maestro le intaglia e le prova in su uno stagno pulito, al quale con la sesta se gli dà la forma della moneta, e con questa diligenzia vien ben fatto quanto uno desidera. Questi ferruzzi ànno duoi nomi: ordinariamente si do-mandano punzoni, ed altrimenti si domandano madre, perché veramente questi ferretti sono le madri che partoriscono quelle opere di figure e d'ogni altra cosa che tu vuoi intagliare nelle stampe delle tue monete. Ed avvertisci che quelli uomini che ànno fatto me-glio le monete, quelli ànno fatto sempre tutto quello che gli ànno voluto mettere nelle dette stampe di monete in questi punzoncini, cioè madre, e nulla mai ànno auto a toccare con ciappole o bulini, perché questi ferri con essi si farebbe dua errori: il primo si è che l'una moneta dall'altra farebbe qualche poco di varietà, la qual varietà dà commodità ai falsatori di monete, dove che quando le sono ben fatte e con questa osservanza appresso, e' ladri falsatori non le sanno contraffare. Io ritorno a te, che ti lasciai con la pila commessa nel piombo. Piglierai le tua madri, o punzoni che noi diciamo, e, perché sempre in queste dette pile s'intaglia le teste di quel principe, come di sopra dissi, piglierai la tua testa, cioè i primi pezzi che tu vuoi commettere, e, avendola situata al suo luogo, dara'gli un colpo con il martello e avvertisci che con quella prestezza che tu ài dato col tuo martello in su la detta madre,. con quella prestezza e destrezza subito sollieva la mano ed il ferro, cioè la tua madre, perché ogni poco che la ribattessi, quello che tu vuoi fare ti verrebbe macchiato, e farebbeti brutta la tua opera. Così in questo modo medesimo tu commetterai le figure con alcune manine, con alcune testoline, secondo il modo che t'insegna l'arte e la esperienzia. Di poi commetterai tutte le altre cose, come s'è dire arme, contrassegni, facendo di aver fatto il tuo alfabeto di lettere bellissime, ed il medesimo il tuo granito per far la grani-tura: e cosi tutte queste cose con grandissima diligenzia si intagliano in su le dette pile e torselli. E, perché io non voglio mancare cli non dire quanto io ò imparato, avvertisci che il martello con che tu stampi quelle maggior madre, come s'è dire le teste e cotai cose, questo martello vuol essere di peso di quattro libbre in circa, più presto manco; e quell'altre madre poi, che sono minori, vuole essere il martello assai minore di mano in mano insino alla granitura, che vuol esser piccoletto. Finito che tu ài d'intagliare la tua pila e torsello, avvertisci a limare intorno tanto che tu ti accosti alla granitura appunto; e fa' che sia bolso forte quel che tu limi in 66

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verso la granitura, perché sendo altrimenti e' si svèrzerebbe la stampa, e subito sarebbe guasta, dove che, essendo quanto più e' può bolso, la non si può mai sverzare. Fatto questo, farai di temperarle, facendole rosse non troppo e non poco, basta che le sieno infocate tanto che basti a temperarsi; e avvertisci che, essendo poco infocate, le non piglierebbono la tempera, e cosi .essendo troppo infocate. Sappi che nel temperare le gettano una scaglietta, la quale ti guasta la tua bella stampa di modo che qui bisogna averci una bella avvertenzia: e, per parlarti come si usa dire per l'arte, questo ferro vuol esser rosso appunto, e non sia troppo né poco. Fatto questo, piglia della scaglia del ferro netta, che non vi sia altro che la detta scaglia, e mettila in su un legno; di poi piglia la tua pila ed il tuo torsello, e strofinale benissimo in su quel legno con quella detta scaglia: la qual cosa fa venire la tua pila e torsello lustranti, ed in questo medesimo modo vengono lustrante le tue monete. E, perché io non ti voglio lasciar nulla indietro, avvertisci che da poi che tu arai strofinato in su la detta scaglia, essendo la stampa piena di quegli intagli più profondi e manco profondi, si piglia un poco di sughero e con il canto di esso sughero con un poco della detta scaglia si strofina tutte le dette profondità: e cosi è finita e puossi dare allo stampatore alla Zecca. Non voglio mancare di non finir di dirti quel che prima io ti promessi, quando io dissi che gli antichi non feciono mai bene le monete. La causa si era che loro le intagliavano con i ferruzzi che adoperano gli orefici, i quali si domandano bulini, ciappolette, cesellini: questa a loro era una difficultà grandissima. E, perché le zecche adoperano assai di questi ferri, cioè pile e torselli, e perché io ti ò sempre promesso, benignissimo lettore, di darti qualche esempio, acciò che con più sicurtà tu sappi che io bene ne so ragionare, dico che fu tal giorno, quando io facevo le stampe a papa Clemente in Roma, che mi fu di necessità di stampare trenta di questi ferri, cioè pile e torselli, che, avendoli avuti a fare in nel modo che li facevano gli antichi, e' non se ne sarebbe potuto fare dua in tutto un giorno, e manco non sarebbono stati bene a gran presso come stavano questi; in però gli antichi era loro di necessità di avere assai quantità di questi intagliatori, i quali non potevano far bene, se bene gli avessino voluto, non avendo trovato la sopradetta facilità. Ora ti parlerò delle medaglie, le quali i detti antichi feciono in superlativo grado bene; e, quel che si è mancato di dire sopra le monete, con facilità si potrà intendere per quei modi che noi insegneremo nelle medaglie di sorte che con l'uno e con l'altro benissimo si potrà intendere.

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xv DELLE MEDAGLIE

Di queste belle opere noi mostrerremo il modo che usavano gli antichi, ed appresso a questo diremo il modo che abbiamo usato noi. Per quel che noi possiamo ritrarre secondo la ragione che l'ar.. te ci mostra, si vede espresso che, quando tale arte del far medaglie cominciò a fiorire in Egitto, in 'Grecia ed in Roma ancora, si vede che quelli imperatori, mediante quelle medaglie dove era impresso la lor testa e ne' rovesci di esse facevano qualche impresa, secondo le loro opere che avevano fatte notabili. Ma, per tornare un passo a dietro, noi di tal professione veggiamo, per quel che ci si dimostra, la quantità delle medaglie fatte a un medesimo imperatore da molti diversi maestri: di modo che, creato che era un nuovo im.. peratore, quei maestri di tale professione, cioè delle medaglie, che si trovavano nel suo tenitoro, e maggiormente in quel luogo dove il detto imperatore faceva residenzia, tutti questi detti maestri che ci si trovavano nelle dette provincie e città facevano una medaglia per uno, da una banda con la testa dello imperatore, dall'altra banda con qualche onorato rovescio, degno delle virtù di quello imperatore. E, fatto questo, tutte queste opere si mostravano ed allo imperatore ed ai suoi ministri: e, subito che gli avevano conosciuto qual era il miglior maestro di questi, a quello egli consegnavano la Zecca, cioè le stampe delle monete della Zecca. Or per tornare alle medaglie, il maestro debbe fare la testa ed il rovescio, di che e' vuol fare in medaglia, primamente di cera bianca, di quel basso rilievo che tu vuoi che la sia e della grandezza appunto che à da essere la tua opera: cosi conosciamo che gli antichi facevano. Questa cera si fa: pigliasi cera bianca pura e si mescola con la metà di biacca ben macinata con un poco di terementina chiarissima; questa vuol essere più o manco, secondo in che stagione l'uomo si truova, perché, essendo di verno, tu gli puoi dare più trementina la metà che la state. Di poi con certi fuscelletti di legno questa cera si lavora in su un tondo di pietra o d'osso o di vetro nero: cosl, fatto questo (che tanto lo facevano gli antichi quanto lo facciamo noi moderni in un medesimo modo), di poi si forma di gesso sl come io ti insegnai di sopra volendo far suggelli da cardinali. E, fatto questo, tu arai i tua tasselli, che così si domandano e' ferri con che si stampano le medaglie, perché quei delle monete si domandano pile e torselli, per essere l'uno differente dall'altro, e questi si domandano tasselli, perché sono egualmente l'un fatto come l'altro. Ma avvertisci che non è come far delle monete: quei

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si fanno di ferro e di acciaio, questi si fanno di acciaio tutto stietto e vogliono essere di forma quadra ed eguali l'uno e l'altro a un medesimo modo; e di poi che tu gli arai indolciti nel fuoco, sl come t'insegnai a quei delle monete, ispianera'gli pulitamente con pietre delicate. E, fatto che tu arai questo, farai di avere fatte dua o tre para di seste immobili come quelle che io t'insegnai alle monete; e, condotte che tu l'arai a quella grandezza che tu ti vuoi servire, con esse segnerai la granitura e la distanzia delle lettere in nel modo medesimo che si è fatto· alle monete. Di poi con le tue ciappole, con bellissima avvertenzia si comincia a lavorare, levando dello acciaro per far la forma della testa, secondo che ti mostra la fonna che tu arai fatta di gesso in su la cera; e cosi pian piano si va incavando con i detti ferri, guardandosi che il manco che sia possibile si adoperi ceselletti da ammaccare, perché questo modo farebbe indurire lo acciaio, e non potresti poi levarne con i ferri da tagliare: basta che con questa diligenzia e pazienzia quei mirabili antichi facevano le lor medaglie; e medesimamente le lettere, che eglino mettevano in su le medaglie, eglino le facevano con le ciappolette e con e' bulini di modo che io non viddi mai in nessuna medaglia degli antichi lettere che fussino belle: gli è bene il vero che se n'è viste di quelle che sono manco peggio fatte l'una che l'altra. Questo è quanto al modo che usavano gli antichi. E, perché io seguiterò l'ordine promesso, benignissimo lettore, dando gli esempli fatti con le mie mane, io feci a papa Clemente settimo una medaglia con dua rovesci: in una banda feci intagliato la testa di sua santità e dall'altra banda feci un rovescio figurato quando Moise era nel deserto con i sua popoli e, avendo carestia dell'acqua, lddio lo soccorse insegnandogli che Aron, fratello di Moise, percotessi con la verga una pietra, della quale saltava vivissima acqua. E questa io feci ricchissima di cammelli, di cavalli, di moltissimi animali a proposito di essa moltitudine di populi, con un piccol motto di lettere a traverso che diceva: «Ut bibat populus ». L'altro rovescio avevo figurato una Pace, cioè una figura giovane bellissima con una facella in mano, che ardeva un monte di diverse armi, ed a canto a questa vi era figurato il tempio di Iano con il Furore legato al tempio, con un motto di lettere all'intorno, le quali dicevano: «Clauduntur belli portae ». Queste medaglie fumo intagliate con quelle sopradette madre e punzoni che io ti dimostrai di sopra nel modo che io facevo le monete. Ma, se ben ti ricorda, io dissi che alle stampe delle monete non si doveva toccarle con ferri da tagliare; ma queste è tutto il contrario, ché, da poi che tu arai messo le tue madre con tutti e' suoi punzonetti, è di necessità con le ciappole, con i bulini e con tutta quella diii-

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genzia che si possa al mondo, veder di finirle bene. Di poi si mette le sue lettere all'intorno, fatte in punzonetti di acciaio, sl come io t'insegnai alle monete. E debbi avere avvertenzia che questa sorte di medaglie vogliono essere messe in su un grosso tassello di piombo; ché, se bene alle monete alcuni ànno usato di metterle in certi ceppi di legno bucati, questo non si può fare alle medaglie, perché à da essere molto più profondo lo incavo, per far molto maggior rilievo che non è quello delle monete. E, si bene come ancora alle monete si usa, in mentre che tu le intagli, stampare di mano in mano che tu lavori con un poco di cera nera, perché meglio si vede quel che l'uomo fa, che tanto promette l'arte ora alle medaglie. Oltra questo, innanzi che tu le temperi, vedi di stamparle con il piombo, acciò che tu vegga il tutto insieme, e cosi lo potrai meglio correggere tante volte quanto ti farà di bisogno. E, fatto che tu arai questo e che tu ti sia satisfatto, temperale nel medesimo modo che io t'insegnai alle monete; ma abbi avvertenzia di avere un vaso dove sia almanco dua barili d'acqua. Quando tu l'arai fatta rossa con quella discrezione che io t'insegnai alle monete, pigliala con la tua tanaglia e tuffala subito ricoperta nell'acqua e non la tener mai ferma, cioè girala allo intorno, sempre ricoperta insino a tanto che tu senti quel rumore del friggere: di poi cavala e puliscila in quel modo medesimo con la scaglia del ferro macinata, ch'io t'insegnai alle monete. XVI

COME SI DEBBONO STAMPARE LE DETTE MEDAGLIE

Le medaglie si stampano in più diversi modi: e perché universalmente si sente una certa voce, la qual dice coniare, io ò trovato che questa voce viene da un uso, il quale è un de' modi con che si stampa le medaglie; e, con tutto che le si stampino in più modi, noi diremo quelli stessi di che noi ci siamo serviti, cominciando al coniare. E' si è usato fare modo che una staffa di ferro larga quattro dita, e vorrebbe essere grossa dua e di lunghezza di un mezzo braccio, ed il vano della sua larghezza vuole essere a punto come sono e' tua tasselli dove sono intagliate le medaglie. Ché, si come noi ragionammo, questi tasselli si debbono fare quadri ed eguali, perché mettendoli dentro alla tua staffa, e' vi vorrebbono entrare drento a punto; nel coniare poi la tua medaglia o di oro o di argento o di ottone che tu vuoi che la sia, standovi drento a punto, la non si può trasporre. Ora avvertisci che, volendole stampare in questo modo, e' ti è di necessità d'avere stampato in prima una medaglia di piombo della grossezza che tu vuoi che da poi la sia o di oro o di argento. E, fatto

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questo, bisogna formarle in quella terra in nelle staffe .come io t'insegnai in prima; il qual modo, per ricordartelo, si è quello che fanno tutti li ottonai, cioè quelli che lavorano fornimenti da cavalli o da mule, di ottone: in questo modo ti conviene formarla e gittarla appresso. Da poi fatto questo, bisogna nettar bene le sua bavette con una lima, e avvertirai a non vi lasciare e' colpi della lima, ma radila bene. Da poi la metterai in mezzo ai tuoi tasselli, ché per averle gittate e' ti viene a facilitare assai allo stamparle, perché non sì dà tanta fatica alle tua stampe. Di poi che tu l'ài in mezzo alla staffa e diretta la staffa in terra, farai che da una banda i tua tasselli si posino in nel fondo della staffa e dalla banda di sopra che vi deve esser tre dita di vacuo il manco: in quel vacuo vi si mette dua coni di ferro, cioè dua biette, le quali vogliono essere grosse da una banda e dall'altra, manco grosse per metà o più. Queste vogliono esser lunghe per dua volte la larghezza della tua staffa; e, quando tu vuoi stampare, mettile sopra i· tuoi tasselli le punte dell'una e dell'altra, le quali si vengano a sopraporre. Di poi piglia dua martelli grossi, e uno se ne fa tenere da un tuo garzone alla testa dei detti coni, e con l'altro martello si percuota l'altro conio contrario tre o quattro volte, destramente scambiando l'una parte e l'altra dei coni. Fatto che arai questa diligenzia, la qual si fa solo perché non trasponga e per agevolare i ferri, e similmente il metallo di che deve essere la tua medaglia, piglia poi la tua staffa, e posala in su una pietra grossa con una di quelle teste de' coni, ed in su la testa di sopra percuoti con un grosso martello a due mane (il qual martello in nell'arte si domanda mazzetta); percotera'lo tre o quattro volte il più, scambiando a ogni dua colpi il conio di sotto in sopra. Di poi fatto questo, caverai la tua medaglia; e, se l'è di ottone, per avventura e' ti è di necessità ricuocerla, perché, essendo sì dW'o il metallo di questa sorte, la non si può essere stampata; gli è di necessità il ricuocerla e di poi rifare le medesime diligenzie dua o tre volte tanto che la ti verrà bene stampata. Egli è il vero che io ti potrei dire cento minuzie; ma, per non esser lungo e conosciuto che di queste cose non si può parlare se non con quelli che ànno qualche cognizion dell'arte (perché quei tali che non avessino cognizione dell'arte, io credo che durarieno troppa gran fatica a intendere}, questo è uno dei modi da coniare medaglie. XVII ALTRO MODO DA STAMPAR MBDAGLIB CON LA VITE

Si deve fare una staffa di ferro grossa e larga nel modo sopradetto, ma tanto più lunga quanto la sia atta a nascondere in sé e' dua

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tasselli dove sarà intagliato la medaglia e la vite femmina di bronzo, la qual vite si getta in su il mastio di ferro: questo detto mastio si è quello che veramente si domanda vite, e la femmina si domanda chiocciola. Vuole essere il detto mastio grosso tre dita, e i pani della vite vogliono essere fatti quadri, perché ànno più forza che nell'altro modo che si usa. Avvertisci che la staffa si deve far bucata di sopra. E, di poi che tu arai messo i tua tasselli ed in fra essi quel metallo che tu vuoi stampare, gli è di necessità che per la grandezza della chiocciola di bronzo, la quale à da essere fatta in modo che la non balli nella staffa; e, perché i tasselli devono essere alquanto minori per la detta cagione, avvertisci a calzarli con biette di ferro, fermandoli bene acciò che non si muovino punto. Di poi arai fatto un pezzo di trave di dua braccia o più, ed a quella si attacca nella testa di sotto un pezzo di corrente assai ben grosso, di lunghezza di dua braccia, e bisogna che sia commesso in nella testa di sotto nella detta trave; di poi nella testa di sopra commetterai la tua staffa con una intaccatura che la vi entri a punto: e, perché alla staffa bisogna fare certe aliette di ferro gagliarde, le quale fanno forza e sostengono la testa del detto trave dove è commessa la tua vite, quelle aliette la sostengono che la non si spacca. Di poi la testa di sopra della vite vuole essere stiacciata, e in quella parte stiacciata vi si commette un grosso anellone di ferro, il quale deve avere dua code, le quali ànno a essere bucate e confitte a una lunga stanga, cioè a un lungo corrente, il quale sia almanco sei braccia, e con quattro uomini con bella destrezza tenendo diritto e' tua ferri da stampare, ed il sopradetto metallo che tu stampi. E con questa forza sopradetta io stampai più .di cento medaglie, di quelle ch'io feci a papa Clemente, di purissimo ottone, senza averle gittate, sì come io ti dissi di sopra eh' era di necessità il gittarle prima, volendole coniare in nel sopradetto modo. Ma questa forza della vite, se tu artista la intenderai bene, questa è di alquanto più spesa, ma e' si stampa meglio con essa e i tuoi ferri si affaticano manco: e, quanto all'oro e all'argento, io ne stampai una gran quantità senza mai ricuocerle; e, se bene gli apparisce di più spesa, io ti voglio provare che l'è di manco spesa assai, perché in questo modo della vite, a dua stretture di vite ti verrà stampato la tua me-daglia; dove che a cento colpi di conio, nel modo detto di sopra, a pena che tu ne abbi stampato una, cli modo che per ognuna di quelle tu ne stamperai venti con la vite.

BENVENUTO CELLINI XVIII DEL MODO DI LAVORARE DI GROSSERIE DI ORO, DI ARGENTO,

E DI OGNI SORTE DI COTALE ARTE

Io ragionerò del modo ch'io imparai a Roma, e da poi ragionerò d'un modo diverso alquanto, che si usa in Parigi di Francia. E, perché questo Parigi io penso che e' sia la più mirabil città del mondo e dove si facci più faccende d'ogni sorte, e io vi lavorai quattro anni interi al servizio di quel gran re Francesco, il quale mi dette occasione che io lavorai di tutte queste arti sopradette oltra la scultura, che al suo luogo ne ragioneremo. XIX IL MODO COME SI COMINCIA UN VASO

Volendo fare un vaso di argento, ei si fanno di diverse sorte, ed a tutti questi diversi modi di vasi e' si usa tanti diversi modi di lavorare l'un dall'altro che è cosa mirabile. Cominceremo al fondere dello argento, e di mano in mano verremo ragionando il tutto con quella più facilità che per noi si potrà. Volendo che lo argento non si riarda e che meglio e' si liquefaccia, e' ci sono tre modi. Il primo si è il fonderlo per virtù del vento del mantaco, che, facendo intorno alla bocca del mantaco un fornelletto di mattoni, dove sia coperto bene il coreggiuolo, voglio dire che sia tanto alto il detto fornello che e' soprafaccia el coreggiuolo di quattro dita, si debbe pigliare il tuo coreggiuolo e di drento e di fu.ora ugnerlo benissimo con l'olio di uliva; di poi, avendolo pieno del tuo argento, si debbe mettere nel fornello e nel fondo di esso fornello siano certi pochi carboncini accesi: io dico pochi, perché non sia tanto il calore subito che faccia rompere il coreggiuolo, ma dandogli un caldo adagio adagio, senza mai toccare il mantico, insino a tanto che il coreggiuolo sia infocato e rosso, con questa pazienzia detta. E, subito che gli è infocato e rosso, si può cominciare pianamente a fare alitare il mantaco; e, cosi con destro modo sempre soffiando pian piano, tu vedrai ridurre il tuo argento liquefatto come acqua. Quando è fatto questo, metti tanto quanto tu puoi pigliare nascosto in una mana un poco di gromma di botte, e, in mentre che la si sta cosi un poco, piglia uno straccio di panno lino, che sia bene unto con l'olio, e fa' che sia tanto che e' si faccia in quattro o in cinque doppi. E, fatto questo, scuopri il tuo coreggiuolo dai carboni e metti vi su quel cencio lino; di poi subito piglia il coreggiuolo con le tue imbracciatoie: queste sono un paio di tanaglie, le quale sono fatte di modo che le abbracciano

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il coreggiuolo, perché, se le lo pigliassino come si piglia i coreggiuoli di ferro, essendo il coreggiuolo di terra, e' si spezzerebbe al primo; però queste lo sostengono, e non porta pericolo di rompersi. Farai di avere acconce le tue staffe per gittarvelo drento : queste si fanno di dua piastre di ferro, secondo la grandezza che tu te ne vuoi servire o che ti porge la occasione; e in fra loro si mette certi bastoncini quadri della grossezza del tuo dito piccolo, e più e manco secondo l'opera che tu vuoi fare; di poi si serrano allo intorno con certe molle fatte di ferro grossette, e col martello si pingono innanzi di sorte che le serrino tutte egualmente le dette staffe: e di queste molle se ne fa sei o otto, secondo la grandezza delle staffe. Di poi si piglia un poco di terra liquida, e stuccasi bene intorno alle staffe per cagione che lo argento non versi; e farai di aver le staffe che sieno ben calde e, gittatovi drento un poco di olio, avendole ferme in un catinotto di cenere spenta o sl veramente fra quattro mattoni in terra, gettavi drento il tuo argento: e questo si è un modo di fondere. xx UN ALTRO MODO MIGLIORE DI FONDERE

E' si usa in Firenze nell'arte dei battitori fondere nel mortaio, che così è domandato questo fornello in che si fonde, il quale è fatto in questo modo. Pigliasi lame di ferro stietto, grosse un mezzo dito e larghe un dito pollice, e con queste lame si tesse uno strumento di forma tonda, il quale si fa alto un braccio e un terzo, e molte volte si è usato fare minore, sì bene come maggiore, secondo le occasioni del più o manco che ti bisogni fondere. Vuole essere tessuto di forma ritonda insino a dua terzi del tutto, e da quei dua terzi in giù si lascia quattro gambe alquanto più grosse di ferro che non è il resto del tessuto, in su le quali quattro gambe il detto fornello si posa. A vvertisci che, dove cominciano le gambe, e' si fa una graticola, la qual sia tanto larga che e' vi passi un dito e mezzo, e non più: questa graticola serve per il fondo del fornello, e al detto fornello si fa una crosta di terra mescolata con cimatura, e vuole essere terra di quella che si adopera alle fornace de' bicchieri. E, fatto tutte queste diligenzie, e' si piglia un mattone di terra cotta e posasi nel fondo del detto fornello; di poi e' si mette in su il detto mattone un poco di cenere, ed in su quella detta cenere sopra il mattone da poi si mette il tuo coreggiuolo, dentrovi quello argento che sia a bastanza a empiere il detto coreggiuolo, facendogli tutte le diligenzie che si sono dette all'altro fornello. Di poi si empie di carbonetti con un poco di fuoco, lasciandosi far rosso da per sé, perché da per se stesso e' piglia un vento terribilissimo; e in questo

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modo si fonde meglio che non si fa con altro vento di mantaco. Ancora ti si fa intendere che si usa fare dei coreggiuoli di ferro stietto per causa che quei di terra si rompono molto spesso; ma a questi di ferro bisogna fare un loto, il quale si domanda una cenerata e si fa di cenere pura. Da poi si mette in detto coreggiuolo dentro e fuori grossa un mezzo dito, e di poi si rasciuga bene innanzi che vi si metta lo argento; ed alcuni usano far questo loto di terra con cimatura, e l'uno e l'altro serve benissimo: facendo da poi il resto delle diligenzie al gittare, che si sono insegnate di sopra. XXI

UN ALTRO FORNELLO ANCORA, IL QUALE IO FECI IN CASTELLO SANT• ANGIOLO PER IL SACCO DI ROMA

Questa sorte di fornelli sono buoni in superlativo grado: e la necessità me lo insegnò fare, perch'io non avevo cosa nessuna al mondo atta da far simil cose. E trovandomi in un luogo ristretto, dove mi convenne pensare servirsi dello ingegno, facendo della necessità virtù, così ismattonai una stanza, e con quei mattoni io andai tessendo un fornello a foggia di una mèta, lasciando in fra l'un mattone e l'altro in nell'attestarli larghi dua dita i conventi, e così lo andai ristringendo. Quando io fui un palmo sollevato da terra, io lo avevo congegnato drento di modo che io vi accommodai su una graticoletta di manichi di palette, e di certi stidioni ch'io roppi. E, fatto questo, alzai il mio fornello tuttavia ristringendolo più di un palmo e un quarto, di poi presi una ramaiuola di ferro, che a caso vi era per servizi della cucina. Questa era assai grande, ed in essa feci un loto di cenere e terra mescolata; di poi vi messi drento quell'oro che vi poteva andare, e gli cominciai a dare il fuoco grande a un tratto per non essere sottoposto al pericolo dello spezzarsi il coreggiuolo. Di poi che fu fonduto la prima quantità, io rimbottai tante volte che io vi messi cento libbre d'oro, e con grandissima facilità si fonderno. E questo è un modo il migliore ed il più facile che si possa usare. E, se bene e' pare che il dovere promettessi che io lo dovessi mostrare in questo mio. volume disegnato, conosciuto che chi arà qualche cognizione dell'arte, per virtù di queste mie parole io credo che tal cosa quel tale intenderà benissimo, come se io disegnata gnene mostrassi. E questo basti quanto ai fornelli.

TRATTATO DELL'OREFICERIA XXII PER TIRARE VASELLAMI DI ORO B D'ARGENTO, TANTO FIGURE QUANTO VASI, E TUTTO QUELLO CHE SI LAVORA DI QUESTA ARTE, CHIAMATA PER NOME GROSSERIA

Sl come noi dicemmo al primo fornello, gittato che tu arai il tuo argento nelle sopradette piastre di ferro, e' si debbe lasciar freddare, perché meglio e' si condensa insieme lasciandolo freddare nelle dette piastre di ferro; e, di poi che gli è freddo, se gli leva intorno le sue bave. E, fatto che tu ài questo, si fa un rasoio, il quale è largo più di dua dita e mezzo e vuole essere bolso; di poi si attacca in su un bastone, il qual bastone à da avere dua manichi, i quali sieno discosto dalla punta del rasoio wi mezzo braccio in circa: ed avvertisci che il detto rasoio vuole essere piegato tre dita e stia a uso di graffiare; e con questo rasoio si debba rader la piastra in questo modo, cioè: farai la tua piastra di argento rossa come di fuoco e, cosi calda mettendola sopra una di quelle piastre di ferro che tu ti sei servito a gittarvela drento, la fermerai con certi ferri da conficcare o congegnare; di modo che la detta piastra di argento, posata che la sia in su quella di ferro, avendoti messo la manica del rasoio in su la spalla, e con le due mane a quei duoi manichi che tu arai fatto al rasoio, il qual viene a stare in foggia di una croce, con bonissuna forza raderai la tua piastra di argento tanto quanto si scuopra la pelle dello argento netta. Io non voglio mancare di non dire quanto io ò imparato. Io lavorai in Parigi opere di argento le maggiori che mai di tale arte si possa fare, e le più difficili; e, perché io mi servivo di molti lavoranti e, sì bene come loro volentieri imparavano da me, ancora a me giovava lo unparare qualche cosa da loro; vedendomi questi lavoranti radere quelle mie piastre con tanta virtuosa diligenzia, certamente e' parve loro cosa mirabile e molto sicura: nientedimanco un valente giovane, di chi io facevo assai conto, con molta modestia mi disse che in Parigi e' non si usava di radere le piastre in quel modo che noi facevamo e, con tutto che gli paressi modo mirabile, gli incresceva che, potendo fare senza quel radere, e' si avanzerebbe quel tempo. A questo io gli risposi che molto mi giovava il rispiarmiare quel tempo: e così gli detti a fare un paio di vasi, che pesavano venti libbre l'uno, con e' mia modelli; ed alla presenzia delli occhi mia continui questo giovane da bene fondé il suo argento in nel modo che si è detto di sopra, gittandolo nelle sue piastre di ferro. Di poi levatogli alcune bavucce, si messe a batterlo senza raderlo o altro, e cominciò a dargli la forma rotonda, la qual diremo al suo luogo un poco più sotto. Sì come io dico, egli

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tirò e' dua vasi benissimo senza radere e senza altro, con bellis-sima diligenzia ed una virtuosa pratica, la qual pratica si face-va in Parigi, perché in quella città si lavora più che in dieci al-tre città del mondo e dove si fa assai faccende. Quella pratica assicura tanto quelli che lavorano che cli essa pratica nasce cose maravigliose, come io veddi, le quali io non arei mai credute. E, se bene noi demmo il vanto alla proprietà dello argento, perché in quella città si lavora più fine argento che in altra parte del mondo, a questo mi rispose il mio lavorante che d'ogni bassa lega di argento gli bastava la vista di fare il medesimo. E così ne facemmo la pruova e trovammo essere vero: tale che noi concludiamo che senza perder quel tempo e' si può tirare lo argento e fame che opera l'uo-mo vuole, non mancando però di certe diligenzie cli levare al-cune sfogliette, volta per volta, secondo che le si dimostrano. In però io non voglio dire che e' sia male il raderle, anzi ho trovato che gli è il meglio in ogni modo. Cominceremo a ragionare del modo di fare un vaso in forma di uovo. E, perch'io seguiterò l'ordine promesso di sopra, alle-gando delle opere mie fatte a diversi principi e signori, in Roma in fra molti altri vasi io ne feci dua grandi in forma cli uovo, alti più cli un braccio qualcosa, con le bocche strette di sopra, e con i lor manichi. Uno se ne fece il vescovo Salamanca spagnuolo ed un altro ne feci al cardinale Cibo: tutti a dua ricchissimamente lavorati di fogliami e di animali diversi. Questi si domandavano acquereccie, che per pompa di credenza di cardinali servivano. Ma, per averne fatti assai al re Francesco in Parigi e per esser questi con molte più grande opere cesellati, di questi intendo ragionare. Il modo di fare un vaso tale. Si debbe pigliare la piastra e, pulita dalle bave e alquanto scantonata un poco, debbesi radere da tutte a dua le bande in nel modo ch'io insegnai di sopra; di poi fatto questo, perché le piastre che si gettano sono alquanto lunghe per un verso più che per l'altro, si debbe per virtù del martello ridurla tonda; la qual cosa si fa in questo modo. Pigliando la tua piastra calda, cioè rossa, ma non troppo rossa, perché si spezzerebbe, solamente a dimostrare di ardere certi piccoli atomi o polvere che vogliamo dire, e, messa in su l'ancudine, con la penna del martello si debbe batterla dall'un angulo all'altro gagliardissimamente e far che l'entri bene; di modo che, avendo fatto da tutti a quattro i cantoni della piastra, verrà ferito in riscontro di croce. E, fatto che sarà questo, si tira poi con la penna del martello in verso le faccie di modo che, osservando di· scaldare la detta piastra quattro volte e dandogli nel sopradetto modo, la detta piastra con la discrezione del buon artefice sarà divenuta tonda. E, di poi che l'è fatta tonda per un

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vaso cosi grande, si debbe avere la misura di quanto è largo il suo corpo e bisogna che la detta piastra si tiri tre dita di più che la grandezza del corpo, che à da essere il detto vaso, avendo sempre avvertenzia di lasciare la detta piastra più grossa in mezzo che sia possibile. Ma, innanzi che tu arrivi a questa tal grandezza, e' si piglia un ferro, il quale è grosso un dito e lungo sei, e vuole essere appuntato bolso quanto sia possibile e non vuole essere pungente. Questo si mette diritto col culo in su l'ancudine, di poi vi si congegna su la piastra dello argento pazientemente insino a tanto che la si tenga diritta, cioè pari in su quel detto punto. E, quando questo si vede fatto, e' bisogna che un garzone pratico le dia con la bocca del martello al diritto di quel punto, tantoché e' si segni in nella detta piastra. E sono molti maestri che da per loro, senza altro aiuto, fanno. benissimo questo effetto, massimamente alle piastre. piccole; ma alle piastre grandi io ò sempre usato il servinni dello aiuto sopradetto. E, fatto questo, e' si piglia la piastra e, rivolta in su l'ancudine, con quel medesimo ferro e' si percuote col martello di modo che quel punto, che deve essere poco segnato, si fa segnato gagliardissimo. E, fatto questo, si piglia le seste e, girando attorno alla piastra, si vede la inegualità dell'argento e, sempre ricocendo di nuovo, alla piastra si fa col martello andare lo argento a ritrovare dove era il mancamento; e, osservando questo modo, bisogna aver cura di non lasciar mai perdere il punto: e si tiri tanta grande quanto io dissi di sopra, cioè tre dita da vantaggio del corpo del vaso. Da poi si piglia le seste, e si segna la detta piastra a punto tanto quanto à da essere il corpo del vaso; e con la medesima sesta si va segnando un mezzo dito l'un circulo a canto all'altro, insino che si arrivi al centro, cioè al punto di mezzo. E, fatto questo, si piglia una sorte di martelli, i quali hanno la penna grossa un dito, e un dito e mezzo dall'altra parte; e questa detta penna deve essere scantonata e tonda in foggia che sta la polpa di un dito, e con questo martello · si comincia a percuotere nel mezzo della piastra, dico nel suo centro a punto; avendo sempre avvertenzia che quel segnato punto non si perda, dando spesso col medesimo punzone con che si era fatto il detto punto. E col detto martello si va battendo a uso di chiocciola intorno a quei segni fatti dalla sesta, e tante volte si ricuoce, e in questo medesimo modo si batte che questo detto argento cresce in modo di un cappello, voglio dire in modo di una coppa: la quale forma à da essere nel modo del corpo del vaso, avvertendo sempre che il detto punto resti in mezzo e che lo argento si tiri su eguale, perché s'egli si tirassi più da una banda che da un'altra, lo argento verrebbe diseguale; così s'à tirare tanto in sù, dandogli in questo modo: che egli sia tanto profondo quanto è alto il corpo

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del tuo modello. Di poi si comincia con diverse ancudine fatte a proposito di questa forma, e quando con la bocca e quando con la penna si dà tanto, ed a voto ancora, che e' se gli fa pigliare a punto la forma di tutto el corpo del tuo vaso. E quando questo si è condotto, con quella diligenzia che sempre noi aviamo ragionato, in su le dette ancudini (le quali ancudini si domandano per l'arte lingua di vacca), ed in su queste pure quell'orlo si dirizza sù, il qual diritto che gli è, viene a essere cresciuto la coppa, cioè il corpo del vaso, quelle tre dita che quell'orlo era a diacere. Questo detto orlo in su un'altra sorte di ancudini torte a proposito a poco a poco si comincia a battere, sostenendolo a vantaggio alquanto, di modo che si viene a ristringere, e con diligenzia tanto si seguita questo modo, levandogli se alcuna sfogliettina apparissi: cosi ti verrà ristretto di quella sorte che tu vorrai che sia la gola del tuo vaso. Avendo condotto la detta gola del vaso in nel modo stretta che ti mostri il modello che tu arai fatto e volendo lavorarlo di basso rilievo il corpo del vaso sl come fu quello che io feci al re Francesco, il qual fu in fra molti altri il più bello, io lo empiei di pece negra fatta di quella sorte e con quella discrezione che s'è insegnato di sopra. Di poi compartii in sul corpo del detto vaso tutte le figure che io volevo fare e, con tutti li animali e fogliami, gli disegnai con uno stiletto di acciaro brunito. E, fatto questo, ridisegnai con la penna e con lo inchiostro con tutta quella pulitezza che al bel disegnare si conviene; da poi presi e' miei ceselletti : questi sono ferri di lunghezza di un dito e di grossezza d'una penna d'oca, crescendo per dua grossezze di penne. Questi cotai ferri sono acconci in diverse maniere; cioè alcuni sono fatti come un C, cominciando da un c piccolo insino a un grande; ed alcuni sono più volti ed alcuni manco volti, tantoché e' si viene a quei che sono diritti a punto della detta grandezza. In però facciasene de' maggiori, cioè grandi, venendo diminuendo dalla grandezza dell'ugna del dito grosso d'un uomo insino a sei grandezze di diminuizione, e cosi ve ne à da essere delli appuntati grossi nella medesima dicrescenzia. E con questi detti ceselletti, con un martelletto di tre o di quattro once battendo destramente, si viene a profilare tutto quello che uno à disegnato. E, fatto tutte queste sopradette cose, si pigli il vaso e con un lento fuoco, mettendognene allo intorno, si caverà la pece che vi è drento e, cavato ch'ei sarà la pece, si debbe ricuocere il vaso facendolo bianco col bollirlo nella gromma di botte e nel sale, tanto dell'uno quanto dell'altro, sl come si è detto di sopra. E, fatto bianco il detto vaso, bisogna avere certi ferri a foggia di ancudine con le coma lunghe; questi si domandano per l'arte caccianfuori e fannosi di puro ferro, più lunghi e più corti, secondo la discrezione di quello che

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opera e secondo il bisogno che gli accade. E questi caccianfuori si ànno da fermare in un ceppo a uso cli ancudine; di poi si mette dentro in nel vaso uno cli quei cornetti, il quale sta rivolto con la punta allo in sù, e la sua punta si usa fare nella forma di un dito piccolo della mana, tondo a quel modo, e avendolo dentro in nel vaso si comincia a mettere in quei luoghi dove bisogna rinalzare; e cosi pian piano si percuote col martello l'altro cornetto del cac.. cianfuori, il qual viene a sbattere, facendo brandire quel che è nel corpo del vaso, ed in questo modo viene a rinalzare lo argento tanto quanto fa cli bisogno in tutti quei luoghi che il discreto e intelli .. gente maestro vede che gli fa mestiero. Di poi, fatto che arà questo a tutte le figure, e cosi alli animali e ai fogliami, di nuovo lo dee ricuocere e farlo bianco nel detto modo, e da poi rimetterlo nella detta pece e con un'altra maniera di cesellini fatti nel medesimo modo di quelli, ma le punte loro in diverse forme, come sarebbe a dire la forma di un fagiuolo grande, mezzano e piccolo, e certi altri poi in altre diverse forme secondo il modo e usanza di quel maestro, perché io ò veduto che gli è diversi modi di cesellare in ne' maestri: questo non importa, solo basta che i ceselli non taglino lo argento, ma solo Io ammacchino. E questo è quanto in questo caso si cognosce nell'arte. Ben si deve cavare di pece e ricuocere due o tre volte secondo il bisogno che si dimostra. Condotto che tu arai le tue figure e' fogliami con la pulizia del cesello tanto innanzi che ti paia essere arrivato appresso alla fine {cioè alla penultima pelle, che cosi veramente si chiama), trarra'lo di pece; e, ricotto e netto pulitissimamente, comincerai con la cera a farvi quelle galanterie che si 'ntervengono alla bocca ed al manico, migliorando dal modello o disegno che arai fatto in prima. E, finito bene con la cera detta tutti li sopradetti ornamenti, questi si forano in diversi modi; e' quai" modi non ci parrà fatica a dirli tutti. Il più facile che io ò sempre usato, e maggiormente in quel gran vaso che io dico aver fatto al re Francesco, pigliavo di quella terra che adoperano i maestri di artiglierie; essendo secca, la stacciavo benis.. simo, di poi la mescolavo con cimatura di panni fini, e con un poco di sterco di bue passato per staccio; di poi la battevo bene insieme tutta con grandissima diligenzia. E, fatto questo, pigliavo del tripolo che adoperano e' gioiellieri a pulir le gioie, e questo tripolo benissimo lo macinavo e, avendolo condotto come un colore da colorire, Io davo sopra a quelle mie cere, alle quali io avevo fatto tutte le sue bocche con la medesima cera e tutti gli sfiatatoi; li quali sfiatatoi sempre ò usato metterli per di sotto, arrivando alla bocca di sopra, tenendo alquanto lontano dalla bocca, acciò che l'argento non si versassi nelli sfiatatoi, perché impedirebbe che non potrie-

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no fare rufizio loro. E, dato che io avevo di questo detto tripolo una sola pelle, io lo lasciavo seccare; di poi pigliavo la terra sopradetta e la ponevo grossa una costa di coltello sopra le dette opere, lasciandola ogni volta seccare tanto che la venissi alla grossezza di un dito; di poi l'armavo con e' fili di ferro per tutto all'intorno tan .. to che con quelli la si potessi tenere. Sopra e' fili di ferro metterai la medesima terra mescolata con alquanto di cimatura di più, acciò che l'abbia forza di tenere l'altra, e questa sia di grossezza quanto una costa di coltello. Fatto tutte queste diligenzie, si debbe accostare al fuoco, e con poco del detto fuoco tenendo la bocca della cera allo ingiù, la quale si riceve in una catinelletta, e dandogli quel caldo temperato a poco a poco, la cera si scola: e si debbe aver cura che, sì come io dico, il fuoco non sia troppo, perché farebbe ribollire la cera drento nella forma, causa che la forma si guastarebbe. Cavato che sia la cera, la detta forma si verrà a spiccare dal vaso da per sé: cosi finirai di rasciugarla bene dalla cera; di poi con la medesima terra chiuderai quella parte che era appiccata al vaso. E, fatto questo, e rilegato in alcuni luoghi con il filo di ferro sottile, dan.. dogli di nuovo un poco del detto loto di sopra, acciò che il filo del ferro non resti scoperto; da poi si debbe cuocere con i carboni, i quali si accendano insieme con la tua forma in un fornelletto ristretto di mattoni: e debbasi avvertire che la sia ben cotta, perché a questa sorte di terra se gli può dare tutto el fuoco a un tratto, la qual cosa non si può fare alle altre terre. Pure, quando questa sia ben cotta, come io dico di sopra, fa di avere il tuo argento che sia ben fonduto, o strutto che vogliamo dire; e, in questo mentre che lo argento si strugge, metterai la tua forma dentro in una pi .. gnatta capace a riceverla largamente, e impiendola di rena non molle, ma umidetta, ed in quella serrerai la tua forma come si fanno le forme delle artiglierie nelle lor fosse, ma con quella più destrezza che si conviene a questo manco peso di metallo. E, quando il tuo argento sarà ben fonduto, rinfreschera'lo con la gromma di botte ben pesta; di poi farai di avere uno straccio di lino, il qual sia in tre o in quattro doppi, acconcio appunto alla grandezza della bocca del coreggiuolo, e farai che sia unto bene o con grasso o con olio, e questo straccio gittera'lo in su lo argento sopra quella gromma arsa, pigliando poi il tuo coreggiuolo con quelle tanaglie le quale si chiamano imbracciatoie; che di questa sorte se ne doverria avere as .. sai para, piccole, mezzane e grandi, per adoperarle secondo la quantità dello argento che l'uomo vuol fondere, perché queste mantengono il coreggiuolo insieme e lo difendono dal rompersi e che avvenga, si come mi è intervenuto assai volte, che nell'aver cominciato a gittar il tuo argento drento alla tua forma, essendovene entrato

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alquanto in essa forma, il coreggiuolo si è rotto, e vien perso il tempo di tante belle sopradette fatiche; dove, faccendo queste diligenzie, e' si avanza il tempo e dà causa a non avvilire quello che à operato. Avvertisci che, in mentre che tu versi lo argento nella forma, farai di avere un fattoretto, che con un paio di molle tenga che quello straccio non caschi del coreggiuolo; perché, tenendo cosi quello straccio sopradetto, e' viene a fare parecchi effetti buoni: il primo si è che e' mantiene lo argento caldo e l'altro si è che non casca carboncini o bruscoli drento alla forma. Ancora avvertirai che, avendo fatto maschere in sul tuo vaso, quando tu arai fatto le sopra dette diligenzie alla tua cera e spiccata che l'arai dal tuo vaso, piglierai la tua forma di maschera, ed in quel cavo della maschera metterai una grossezza di cera quanto una sottil costola di coltello, o più o manco che tu vorrai che la sua maschera venga grossa. A vvertisci che questa vuole essere distesa eguale ed è domandata per l'arte la lasagna; e sopra questa detta avendo fatto di cera la tua bocca ed i tua sfiatatoi, sì come di sopra ti ò insegnato che sempre sieno appiccati da basso rigirando sù alla bocca, ricuopri ogni cosa con la medesima terra ed armala con i medesimi fili sopradetti e gettala nel medesimo modo sopradetto: e questa medesima maniera di fare te ne servirai a' manichi del vaso ed al piede di detto vaso, non ti venendo bene il tirarlo di martello; la qual cosa io ti consiglierò che ai vasi grandi sempre tu la debbi fare di getto in ne' modi sopradetti. XXIII

UN ALTRO MODO DI ARGENTO O ORO PER COTAI COSB

Volendo fare un altro modo diverso per gittare simil cose dette, è questo (ancora l'ò provato e riesce benissimo): piglisi del gesso fresco da formare, ben pesto e bene stacciato; di poi si pigli un mattone di terra cotta ben pesto e stacciato simile, e si dee mettere e' dua terzi di questo mattone detto, e sieno i dua terzi della quantità del gesso sopradetto e molto bene mescolati insieme; di poi si bagnino, cioè si disfaccino con l'acqua fresca pura in modo di un savore; di poi si pigli un pennello di setole di porco, adoperandolo da quella parte che la setola è più morbida, e con questo pennello si mette in su la tua opera di cera in quel modo che si era fatto con la terra. Ma vuolsi mettere tutto in una volta, perché di mano in mano che tu verrai mettendo col tuo pennello, la natura del gesso si viene a rappigliare di modo che si può poi mettere con una mestoletta di legno fatta a proposito tanto che e' sia grosso un dito intero; di poi si lasci rappigliare. E, fatto questo, si legherà la det67

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ta forma con fil di ferro sottile ben ricotto, intersegandolo su per la detta forma tanto che sia benissimo legata; di poi si pigli quel gesso e quel mattone che non è passato per lo staccio, e facciasi liquefare con l'acqua nel sopradetto modo; di poi si metta sopra la detta forma della grossezza d'una costa di coltello tanto che e' sia ricoperto bene il detto filo di ferro. Ed avvertiscasi che, quanto la forma è maggiore, tanto più grossa si debbe fare questa spoglia: e debbesi fare una diligenzia, quando l'uomo non sia cacciato dall'aver a spedir presto Wl 'opera, si lasci seccare il gesso da per sé al sole, o in luogo asciutto appresso dove si faccia fummo, o simil cose, infino a tanto che ne sia fuora tutta l'umidità; da poi si debbe pigliare la detta forma, e con temperato fuoco se ne cava la cera in quel modo che si è detto a quella di terra sopradetta di prima; e crescasi il fuoco, uscito che e' n'è la cera, destramente tanto che si ricuoca la detta forma in quel modo che si è cotto quella di terra detta. Questo è un modo molto buono e spacciativo, secondo che uno più o manco abbi bisogno di far presto. XXIV UN ALTRO MODO PER SIMIL COSE SOPRADETTE

Le sopradette cere in quest'altro modo si tagliano in più pezzi, da poi si formano nella terra, in polvere, in staffe, come si è insegnato per le altre. E, formate che le sieno in quel modo che sia possibile rispetto a' sottosquadri (però dico in quel modo che si può), queste si gettano di piombo, e da poi si rinettano ed assottigliansi in quel modo che torna bene al maestro; di poi si formano e gettansi d'argento in nelle medesime staffe. E questo modo è bonissimo, perché, quando il maestro l'à di piombo, e' la può assottigliare nel modo sopradetto a suo proposito; e le dette forme di piombo possono servire da poi tutte le volte che uno se ne voglia servire. xxv DELLE FIGURE CHE SI SONO FATTE D'ARGENTO MAGGIORI DEL VIVO

Questo modo di fare una statua grande di argento, dico grande quanto un uomo vivo o maggiore, perché delle grandi di un braccio e mezzo io ne ò viste fare assai in Roma per l'altare di San Piero e, con tutto che e' sia cosa mirabile e difficile il farle di cotale grandezza, pure se n'è fatte assaissime, e si sono fatte con assai bel modo e ben condotte dai buoni maestri ; ma, per essere di questa piccola grandezza, non è parso gran difficultà a condurle rispetto al

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saldarle, perché queste piccole si possono maneggiare intorno al fuoco ed anche si fanno di lamine di argento più sottili che non si fanno le grandi; ché, con tutto che ei s'usi quasi un medesimo modo alle piccole che alle grandi, gli è tanta differenza al condurre le grandi che io per me non ne viddi mai che fussino condotte da potersi mostrare. E, avendo io promesso di voler dare li esempli di opere viste da altrui e delle fatte da me propio, passando Carlo quinto imperatore per la Francia a tempo del primo re Francesco, di poi le gran guerre avute insieme essendosi appacificati, quel maraviglioso re Francesco, in fra gli altri gran presenti che egli donò all'imperatore, gli donò una statua d'argento :figurato Ercole con due colonne, la quale era di grandezza di tre braccia e mezzo in circa. E, se bene, come per adietro io ò detto, per le tante faccende che si fanno in quel gran Parigi, io non viddi mai lavorare in altra parte del mondo con più sicura pratica di tirare di martello che si fa in questa detta città, e con tutta questa loro bella pratica, mettendosi tutti quei migliori maestri a fare la detta statua, mai la condussero che l'avessi grazia o bellezza o arte; il perché non la seppono mai saldare, di modo che nel commettere le gambe, le braccia e la testa al corpo furno necessitati a legarla con fili di argento. Il perché, volendo il re Francesco che io gli facessi dodici statue d'argento di quella grandezza, si dolse grandemente meco del non aver saputo questi sua uomini condurre una cotale impresa, e mi domandò se l'arte prometteva di farla e se a me ne bastava la vista. Alle qual parole io dissi che a me ne bastava la vista e che io ne lo farei capacissimo con le parole, e l'un cento gli riuscirei meglio con i fatti. Io cominciai a ragionare con questo gran re in questo modo e dissi che e' ci era più diversi modi atti a fare tali opere, e secondo la sicurtà dell'arte dei maestri, e' quali si servirebbono d'un di quei modi che più andassi loro a fantasia. In prima si era di necessità di fare una statua di terra di quella grandezza appunto che si aveva a fare la detta statua d'argento; e di poi, fatto la detta statua di terra, la si formava col gesso in molti pezzi, e' quali sono questi: tutto il petto, insino alla metà delle costole ed alla appiccatura della gola, insino alla appiccatura della inforcatura delle gambe, questo aveva a essere un pezzo; tutto l'altro pezzo si era le stiene insino sù alla appiccatura del collo, con tutte le spalle insino quanto arriva giù alle natiche: questi sono i dua pezzi principali. Così le braccia si fanno di dua pezzi; il medesimo le gambe di dua altri pezzi, e la testa similmente di dua pezzi. E per amore dei sottosquadri, che darebbono noia, tutti si riempiono di cera, perché i detti sottosquadri non impediscano a cavare il pezzo; di poi si piglia queste forme di gesso tutte, ed ognuna da per sé si fa gittar di bronzo. E, fatto questo, si

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debbe avere le piastre di argento tirate di quella grandezza che piace e che pare al maestro che stia bene; di poi con martelli di legno si comincia a battere in su le dette forme di bronzo facendovi rivolgere lo argento: con ricuocerlo più volte si viene a fargli pigliare benissimo la forma del detto cavo. Di poi fatto questo, il discreto e virtuoso maestro lo debbe aiutare con qualche colpo di martello, secondo che promette lo attestarsi bene insieme; ma non tanto attestarsi, quanto bisogna che sia da vantaggio dua coste di coltello ognuno de' pezzi; le qual dua coste si intaccano con una cesoia dua dita l'uno discosto dall'altro; di poi si fa entrare l'una intaccatura nell'altra e con bella discrezione si stringe con il martello, tenendo di dentro una ancudine tonda o altri pezzi di ferro di modo che il colpo del martello non percuota invano: e cosi si deve fare a tutti e' pezzi. E primamente dee essere il corpo, di poi seguitano le gambe e le braccia e la testa similmente. E saldato che uno arà tutti questi membri, in prima che e' si saldino insieme, ei si empiano di pece, e con martelli e con ceselli si conducano tanto innanzi quanto mostra il modello fatto di terra. Detto che io ebbi queste ragioni al re, ei disse che ne era tanto capace e che le aveva tanto bene intese che gli sarebbe dato il cuore di farla a lui stesso. Appresso dissi a sua maestà che e' ci era altri modi, e' quali, a metterli in opera a un sicuro maestro che intendessi l'arte bene, quegli erano molto più facili che il detto modo, ma che a dirli apparirieno molto più difficili. E cosi gli dissi a sua maestà; ma, perché gli era grandemente amatore delle virtù, disse che di quel primo ne era· certissimo e che dell'altro veramente me lo credeva. El modo fu questo: che avuto lo argento da sua maestà, fatto le piastre che io ebbi di argento ne' sopradetti modi gittate, avevo di già fatto il mio modello di terra nel modo promesso della grandezza appunto che e' doveva essere di argento; da poi tirai le piastre di quella grandezza e grossezza che mi faceva di bisogno, e con la virtù del martello, accompagnata con l'arte che io intendevo, percotendo or da ritto or da rovescio, rilevavo ed abbassavo secondo che l'arte mi richiedeva. Ed in questo modo mi venne fatto più presto assai che io non avevo detto in quel primo modo; e condotto le braccia e le gambe ed il corpo, la testa io la feci tutta di un pezzo tirata in quel modo come se io avessi avuto a tirare un vaso in nei passati modi detti. E, dato che io ebbi la sua fonna a tutti questi membri, io li cominciai a saldare insieme in nel detto modo, cioè intaccato e sopraposto come s'è detto. E le saldature che io facevo si erano di ottavo, cioè mettevo l'ottava parte di un'oncia di rame in su una oncia di argento. E cominciando al corpo col soffio del gran inantaco, avendo fatte certe cannelle al mantaco lunghe quanto mi

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faceva di bisogno, le dette cannelle venivano a soffiar sotto dove era fatto un letto di carboni, i quali io avevo fatto accendere in mentre che la mia opera era loro addosso, la quale insieme con essi si era divenuta rossa, cioè di fuoco come l'oro; di poi, soffiando a poco a poco, facevo correre le dette saldature e nulla spegnevo, perché di mano in mano io mandava innanzi e indietro secondo il mio bisogno, tanto che arrivavo dall'una testa all'altra. E, perché noi non aviamo detto della borrace, di queste cotai cose non si può ragionare con quelli che non ànno cognizione alcuna: il perché si è che benissimo s'intende che nulla si salda senza borrace. Ora, avvenga che in qualche parte questa lunghezza di tal pezzo non fussi venuto ben saldo e essendo di necessità di mettere nuova saldatura e borrace, in cambio di acqua, io pigliavo un poco di candela di sevo per non avere a freddare tutto il mio gran pezzo, ed in su questo untume mettevo nuova saldatura e nuova borrace, la quale mi faceva quello effetto medesimo che mi arebbe fatto l'acqua. Ed in questo modo saldai tutti questi membri separati l'uno dall'altro, ed alla testa,. alle mane ed ai piedi, mettendoli in pece, con e' mia ceselli detti una penultima mana a tutta la detta opera. Di poi, volendola saldare insieme, essendo questa quella gran difficultà che non avevono saputa fare quei gran pratichi franzesi, io feci in mezzo a una mia grande stanza, dico in mezzo appunto, in modo che un muricciuolo alto da terra un braccio, lungo quattro e largo uno e mezzo; e, avendo cominciato appiccare le gambe al corpo sopradetto, io le legai con fili di argento, in cambio di fil di ferro che si usa, e di tre dita in tre dita io legai le due gambe al corpo non sanza gran fatica; di poi le messi in su il detto muricciuolo con ordine di un buon fuoco, e vi avevo messo saldature di quinto, cioè la quinta parte per oncia di rame; dico rame e non ottone, perché il rame lascia meglio cesellare e tiene meglio, benché e' sia un poco più difficile a correre; ma lavorando argento di undici leghe e mezzo, come era quello, nulla mi spaventava. Ed ognuno sappia che, volendo fare di queste cotai imprese, le non riuscirieno a farle di argenti bassi. Ora, avendo messo il mio pezzo in nel modo sopradetto facendomi aiutare da quattro giovani, cominciammo a dar fuoco al pezzo con virtù di roste e mantachetti a mano; e, vedendo correre le sue saldature, a poco a poco gittavamo sù della cenere molle dove la saldatura correva; perché, faccendo con l'acqua, noi non ci saremmo potuti aiutare dove la saldatura non correva; ed in questo modo seguitando via innanzi, felicemente saldammo tutto il nostro pezzo, appiccando le gambe, le braccia e similmente la testa. E, innanzi che mai si freddassi, sempre si finiva di attaccare una delle detti parti: il qual modo fu tenuto maravigliosissimo e ottimo e bello. Cosi tutta questa statua, la

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quale era di grandezza circa quattro braccia, si cavò di fuoco be.. nissimo salda; da poi si bianchì con e' sopradetti bianchimenti ed empiessi di pece ne' sopradetti modi, e con i ceselli sopradetti se gli dette l'ultima sua fine. Questa fu messa in su una basa di bronzo, la quale era alta più di dua terzi di braccio, con alcune istoriette di basso rilievo dorate e benissimo condotte: e la detta statua si era figurato un Giove, il quale aveva il suo fùlgure nella mano destra, nel qual fùl .. gure si commetteva una torcia, e nella sinistra mano ei teneva una palla figurata per il mondo. E, perché egli aveva molti ornamenti ai piedi ed alla testa, tutti questi ornamenti furono ben dorati: il qual dorare ci fu difficilissimo a fare. Non voglio lasciare indreto che, se bene noi abbiamo insegnato il modo del bianchire lo ariento e J>opere che si fanno, questa in fra !'altre, per essere tanto grande opera, ebbe certe difficultà grandissime a bianchirla, le quali si fe .. ciono in questo modo, cioè : ei mi fu di necessità di andare a bottega di un tintore di pannilani, e quivi empiei una di quelle lor gran caldare capace a mettervi drento la mia figura, la quale era di quattro braccia in circa, come si è detto, e di peso di trecento libbre in circa. Pigliammo quattro verghe di ferro di quattro braccia l'una e quattro pali di castagno di più lunghezza che non erano le verghe del ferro, e, avendo la mia figura pulitamente netta dalle saldature e fatta piana e pulita e appresso appomiciata diligentissimamente, con le quattro verghe di ferro la messi in su un gran letto di carboni, e' quali erano distesi in terra capaci alla detta figura; e, avendoli fatti bene accesi, dipoi benissimo consumati tanto che e' perdessino il vigore e fussino bene stracchi, cosi vi messi sù la mia detta figura, e con pale di ferro bene la ricopersi dei detti carboni, che con grandissima di.fficultà si faceva tal cosa per lo smisurato fuoco che im.. maginar si può che questo era; e con questo fuoco la andavamo coprendo e scoprendo, dove il bisogno ci si mostrava, tanto che egualmente la facemmo divenire tutta rossa. Da poi la lasciammo freddare; e poi che la fu fredda, avendo noi in ordine la nostra caldara piena di bianchimento, cioè di acqua, gromma e sale, composto in nel modo che si è detto per a dietro, avendo levato la nostra figura di in su le brace con le dette quattro verghe di ferro, di poi essendo fredda la pigliammo con le quattro stanghe di legno, perché non si può toccar con ferro il bianchimento ; in però si ebbe a fare questa diligenzia con le dette verghe e stanghe. E, avendola messa nel.. la nostra caldara, in quella si rivoltava e si strofinava con certi gran pennelli fatti di setole di porco, acconci nel modo che si fa a imbian-care le mura e di quella medesima grandezza. Da poi che noi la vedemmo fatta bianca, con grandissima diligenzia e fatica la cavammo dalla detta caldara, e mettemmola nell'acqua fresca in un'altra si-

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mile caldara, ed in quella si lavò benissimo dei bianchimenti. Da poi la cavammo della detta acqua e con grandissima diligenzia la rasciugammo: e, rasciutta che la fu, demmo ordine a dorare quelle parte che volevamo che fussino dorate. E, con tutto che questa fussi una delle gran dificultà a dorarla che si possa immaginare al mondo, io non voglio entrare in ragionare di cotal dificultà, ma bene ne dirò qualche piccola cosa in mentre che io insegnerò tutto il modo del dorare: il quale è cosa bella e maravigliosa, ed agli eccellenti maestri di queste grandi arti sta bene il saperla, per farla fare a quelli che attendono a tale professione, che in Francia ed in Roma ne ò conosciuti assai, i quali non attendono ad altro che a dorare. E, per• ché io dico che gli eccellenti maestri non la debbono mai far loro stessi, questo si è perché lo argento vivo è un veleno smisurato, il qual guasta gli uomini talmente che pochi anni servono a questa professione e ad altro. XXVI MODO DI DORARE

Volendo dorare, si piglia l'oro del più purgato e netto, il quale vorria essere puro di ventiquattro carati; e, avendolo di questa finezza, si batte col martello in su una ancudine e' martelli che sieno netti, e si debbe condurre di tanta sottigliezza quanto sia un foglio di carta da scrivere. Di poi si piglia un paio di forbice che taglino bene; e, tutto l'oro che tu vuoi macinare, tritalo in piccoli pezzuoli. E, fatto questo, piglierai un coreggiuolo nuovo, dove gli orefici fondono lo argento e l'oro: questo non vuole essere stato mai adoperato a nulla; ed in questo coreggiuolo metterai tanto argento vivo, netto da ogni impulizìa, quanto comporti l'oro che tu vuoi macinare; la qual proporzione si usa dare un'oncia per peso di scudo, cioè l'ot• tava parte di oro in su otto parte di argento vivo, più presto sia scarso che altrimenti, cioè lo argento vivo. Ed avvertisci che e' si mescola insieme il detto argento vivo e il detto oro in uno scodellino o di terra o di legno netto; e, quel coreggiuolo che io ti dissi, si mette nel fuoco senza vento di mantaco, coperto di carboni accesi e consumati. E, da poi che gli è fatto rosso, vi si versa drento quello argento vivo, e quell'oro mescolato insieme; e, tenendolo nel fuoco, con un paio di mollette avendo preso un carboncino acceso lunghetto, capace a poter mescolare detto argento vivo ed oro insieme, e con l'occhio e con la discrezione della mana sentirai e vedrai che il tuo oro sarà disfatto, e unito con lo argento vivo. A questo bisogna aver grandissima discrezione aiutarlo macinare col dimenarlo presto; perché, chi lo tenessi troppo, verrebbe troppo sodo l'oro,

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cioè questa detta pasta di detto mescuglio; e, chi ve lo tiene poco, verrebbe troppo tenero e non sarebbe ben macinato: qui bisogna averci una gran discrezione, la quale si fa con la pratica. Di poi che l'ài sentito e veduto ben macinato, ben mescolato e ben disfatto l'oro, essendo la pasta in quel ragionevol modo che noi aviam detto, questo si piglia così caldo e si vuota in una piccola catinella, o vasetto, secondo la quantità dell'oro che tu ài macinato; il qual vasetto sia pieno di acqua fresca, così in nel vuotarlo si sente stridere. Di poi si piglia un'altra acqua nettissima, e dua o tre volte si lava tanto che la tua acqua resti chiara e bella. E, fatto questa diligenzia, con esso ti metti a dorare in questo modo. Fa' che la tua opera, dove tu vuoi dorare, sia benissimo pulita e grattapugiata, che cosi si dice nell'arte: le qual grattapuge si fanno di fila di ottone, il quale è grosso quanto un fil di refe da cucire, e fassi un volume grosso quanto un dito di un uomo, e più e manco secondo l'opera che tu vuoi grattapugiare; e questo si lega medesimamente con filo di ottone, o di rame, assai più grosso. E, con tutto che di queste grattapuge gli merciai ne vendano, loro le fanno tutte di una medesima grandezza di sorte che il valentuomo, che vuol far bene le sue opere, si è necessitato, per l'opere grandi e d'importanzia, ad acconciare le dette grattapuge da per sé, secondo il bisogno che se gli porge innanzi. Or, tornando all'opera dove tu vuoi dorare, avendo ben grattapugiato, mettivi l'oro tuo macinato con un avvivatoio; che così si domanda una verghettina di rame, la quale si mette in un manico di legno e si fa della grossezza e lunghezza che una forchetta da mangiare a tavola, e più e manco che l'occasione ti si porge innanzi. E con questo e con quella pasta di quello detto oro macinato pazientemente si distende in su l'opera che tu vuoi dorare. E, se bene alcuni usano far con lo argento vivo stesso e di poi vi distendono sù l'oro macinato, questo non è il buon modo, perché quel troppo argento vivo toglie il colore e la bellezza dell'oro. E, perché alcuni hanno usato, pensando di far meglio, mettere l'oro in più volte, alla qual cosa io dico che ò visto fare e messo in opera che in una volta sola vi si mette tutto l'oro che tu vuoi per ben dorarla, e poi con dolce fuoco si rasciuga tanto che lo argento vivo, per virtù di un dolce fuoco, tutto se ne va in fummo. E veduto questo, dove non fussi eguale il tuo oro in su l'opera, essendo cosi calda, con gran facilità ne puoi rimettere tanto che la . venga tutta eguale e carica a un modo, cioè coperta d'oro. Di poi la lascia da per sé freddare. E' mi s'era scordato di dire che, dove questo oro non si appicca, e' si avvertisce di avere un poco di acqua di bianchimento da bianchire argento detto di sopra, e intingere il tuo avvivatoio con l'oro in detta acqua. E, quando questa ancora

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non facessi a tuo modo bene, piglia dell'acqua forte, la qual sia bene sfummata che abbi consumato il suo vigore, e questa ti servirà, seguitando e' sopradetti modi. XXVII RICETTA DA FAR COLORI PER COLORIRE DOVE SARÀ DORATO

Primo modo di colore. Il primo colore per i deboli dorati. Si piglia tanto zolfo quanto gromma di botte ben pesto, e altrettanto sale, pesto separatamente l'uno dall'altro; ancora piglia la metà di una di queste parti di cuccuma, e tutte e quattro le dette cose si mescolano insieme. Da poi farai di avere il tuo dorato netto benissimo e grattapugiato, come si è detto di sopra; di poi si piglia dell'orina, vorrebb'essere di fanciullo o di giovane; di poi così tiepida, con le setoline di porco in una catinella netta pulitamente, si spanna con quelle setoline, ché questa orina insieme con le setoline ànno virtù di levare ogni ontuosità o sucidume che avessi preso il tuo dorato. E, fatto questo, farai di avere un calderone di rame, o sì veramente una pignatta di terra, ed in uno delle due dette metti la composizione del tuo colore, avendo prima pieno di acqua uno dei detti vasi. E, quando l'acqua bolle, si mette la detta composizione; di poi fa' di avere l'opera tua legata con uno spaghetto sufficiente a tenerla, avendo con una scopetta, o frasconcino, prima bene diguazzato e mescolato il detto colore. Di poi si mette dentro l'opera, e tiensi del dire manco di una avemaria, e poi si cava tuffandola in un vaso di acqua fresca chiara; e guardandola, non avendo preso tanto colore che sia a bastanza, si rimetta nel detto vaso bollente quelle due o tre volte tanto che basti avendo avvertenzia di non lasciare troppo soprastare, perché diventerebbe nera e guasterebbesi il dorato. · Questo dorato si è il più debole che si faccia; ed il detto colore non serve più che una volta. XXVIII RICETTA PER FARE UN'ALTRA SORTE DI COLORE

Secondo modo. Piglia matita rossa, verderame e salnitro e vetrivuolo e sale ar-moniaco; ma vuole essere sempre la metà più matita che !'altre so-pradette cose; pigliando a peso ogni cosa, e di poi pestare cosa per cosa: ma bisogna che sieno peste sottilissime; e, di poi peste, stem-perarle con l'acqua chiara e farle liquide quanto un savore; e, di mano

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in mano che stemperi il detto colore, bisogna macinarlo a quel modo liquido tanto che sieno incorporate l'una cosa con l'altra. E, di poi fatto, bisogna metterlo in un vaso un poco grandetto, perché il detto colore rigonfia; e bisogna che il detto vaso sia invetriato, e saria meglio di vetro, e tenerlo turato. E, a mettere in opera il detto colore sopra il dorato, bisogna che il lavoro sia dorato bene, altrimenti farebbe nero il lavoro, perché il detto colore in sé è gagliardo; ma, essendo ben dorato, fa colore bellissimo. A mettere detto colore nel dorato, si distende con un pennello tanto che cuopra il dorato, e bisogna avvertire che il colore non tocchi lo argento, perché lo fa nero; di poi bisogna pigliare il lavoro imbrattato col colore e metterlo in sul fuoco; e, quando il lavoro fummica più forte, allora bisogna gittarlo nell'acqua chiara, ma avvertire di non lo lasciare sfummare a fatto, perché mangerebbe l'oro e non piglierebbe. XXIX A FARE UN ALTRO COLORE PER IL DORATO CHE SIA ABBONDANTEMENTE CARICO D'ORO

Terzo modo. Piglia l'opera tua che vuoi dorare, e al medesimo modo che per gli altri si usa, come cli sopra si è insegnato, la ristiara e dora. Di poi destramente la rasciuga, e non ti curare di rasciugarla troppo, solo che resti senza argento vivo; di poi la ristiara leggermente e, ristiarata che tu l'ài, scaldala in su la brace di fuoco tanto che vi distenda sù una cera bene con commodo caldo, la qual cera qui di sotto sarà il modo di farla. Di poi che vi ài disteso sù la cera, lascia freddare la tua opera; da poi farai di avere del fuoco commodamente, e metti la tua opera in su il fuoco tanto che arda la cera, ed abbi cura che la tua opera non doventi rossa, solo che la cera si arda appunto. Di poi così calda la detta opera spegnila in gromma di botte ed acqua, che fra gli orefici si chiama grommata; e, quando tu l'arai spenta, lasciala stare del dire un'avemaria. Di poi la spanna con una setola nell'acqua fresca, appresso la ristiara di buon vantaggio : e, se il tuo lavoro è ben dorato, gli darai questo colore, quale qui di sotto s'insegnerà fare. Ma perché primieramente si à da dare la cera, come dinanzi si è detto, però par conveniente che prima insegniamo il modo di far la detta cera; quale si fa in questo modo.

TRATTATO DELL,OREPICERIA

xxx MODO DI FARE LA CERA PER IL DORATO

Piglia cera nuova once cinque, amatita rossa, cioè lapis rosso da disegnare, una mezza oncia; vetrivuolo romano una mezza oncia; ferretto di Spagna denari tre, cioè il peso d'un ducato, che è l'ottava parte di un'oncia, più tosto vuole essere scarso; verderame una mezza oncia; borrace denari tre. Tutte le dette cose metterai insieme, struggendole con la detta cera, e diensi nel modo sopra detto; ed appresso se gli dà quest'altro colore di poi che sia netto dalla cera, il quale è questo: XXXI

PER FARE UN ALTRO COLORE

Quarto modo. Piglia vetrivuolo romano una mezza oncia, salnitro una mezza oncia, sale armoniaco denari sei, verderame una mezza oncia, e tutto pesta in su una pietra (e non adoperar ferro): prima benissimo il sale annoniaco, di poi rimacina insieme tutte le dette. Ed abbi un pentolino invetriato, e mescola con tant'acqua come se fussi una salsa, e dal principio che la metti al fuoco sempre la rimena con un legno e falla bollire tanto che sia detto dua paternostri. Non gli dare gran fuoco, perché cresce assai e si guasterebbe: tutto moderatamente. Di poi lasciala freddare e, come è scritto, l'adopera; e si adopera in questo modo, cioè: XXXII

MODO DI DARE IL DETTO COLORE

Farai che la tua opera sia rasciutta con un panno bianco, di poi piglia una penna o dua, ed imbratta la tua opera al modo che se tu colorissi col verderame l'oro. Di poi la metti in sul fuoco; e, quando vedrai che gli è rasciutto che e' fummerà forte, non lo lasciare fornire di sfu.mmare, e cosi caldo lo spegni in acqua fresca; di poi lo spanna, ed ancora un'altra volta lo fa' bollire freddo nella grommata per il dire di una avemaria; ispanna di nuovo in acqua e lo brunisci dove vuoi. Questo è il più bel dorato e il più bel colore che si possa fare, e dura sempre.

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BENVENUTO CELLINI XXXIII

VOLENDO LASCIARE BIANCO LO ARGENTO IN ALCUNI LUOGHI

Da poi che tu arai rischiarato dove tu non vuoi che si appicchi l'oro, si piglia un fiore di farina, il quale si ricoglie a' mulini su per le mura e cornice, e questo in Firenze si domanda fuscello. Que.. sto si stempera con acqua a guisa di un savore, da poi con un pennellino di vaio si distende grossetto in tutti quei luoghi dove tu non vuoi che si appicchi l'oro; e, fatto questo, si rasciuga bene a lente fuo .. co, e poi si può dorare sicuramente. Un altro modo ancora si usa dove non è il costume di adoperare questo fiore di farina. Si piglia del gesso in pane che adoperano i calzolari, e questo si pesta bene; di poi se ne fa come un savore con colla cervona, o sì veramente colla di pesce, che sarebbe migliore; ma avvertisci che dell'una e dell'altra colla vuole essere mescolata con assai acqua, acciò che la colla non sia tanto gagliarda. E, perché non voglio lasciar nulla indietro, ò visto usare ed ò usato fare col sopradetto gesso, quando voglio dorare e lasciar bianco lo argento, e da poi, quando ò voluto colorire ne' modi sopradetti, ò adoperato il fuscello sopradetto. E questo è quanto si intende e si può dar notizia di cotai cose. Con tutto che la principale virtù di tali arti consiste in nel bene sapere lavorare, e questo modo sopradetto di dorare si debbe lasciar fare a certi che non attendono ad altro, perché è cosa perniziosissima, come di sopra si è detto; ed è assai il saperla fare, e basta. XXXIV PER FARE ACQUA FORTE DI DUE SORTE, CIO:à DA PARTIRE E DA INTAGLI ARE

E prima si dirà di quella con la quale s'intagliano le piastre di rame in cambio di fare con il bulino, e si è trovato questo facil modo che è bellissimo. L'acqua forte da intagliare si fa in questo modo, cioè: piglia una mezza oncia di solimato, una oncia di vetrivuolo, una mezza oncia di allume di rocca, una mezza oncia di verderame e sei limoni; e con il sugo delli detti limoni incorpora le sopradette cose, quali arai avvertenzia che in prima sieno bene polverizzate; e farai le dette cose bollire alquanto, cioè poco, perché non riseccassi troppo. Fa' che bolla in una pignatta invetriata; e, non avendo limoni, piglia aceto forte, che farà il simile. Quando arai bene spianato il tuo rame, piglia vernice ordinaria, cioè di quella che si vernicia i forni .. menti da spada, ed altri. ferri, e la metterai a scaldare dolcemente, e

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farai struggere con essa vernice un poco di cera, quale si fa perché, disegnando sopra, la vernice non schizzi. Di poi che la metterai in su il tuo rame, avvertisci che la non sia troppo cotta; e di poi che tu arai intagliato, quando vorrai mettere la tua acqua, farai un orlo di cera alla tua stampa. Quando vi metterai l'acqua, non la lasciare stare più che mezza ora; e, se non fussi tanto profondo a tuo modo, rimettila di nuovo; e, di poi levatola, nettala bene con una spugna. Si disegna sopra la vernice con uno stiletto di acciaio temperato, cioè un ferro aguzzo che si domanda per l'arte stile. Levasi la vernice d'in su la detta stampa con olio caldo e con una spugna gentilmente, acciò che lo intaglio non si consumi. Da poi si adopera la detta stampa, stampando con essa in carte nel medesimo modo che si fa con quelle che sono intagliate di bulino; ma gli è ben vero che, se ben questa opera si fa con gran facilità, ella basta quel tanto manco che non fanno quelle che sono intagliate di bulino.

xxxv PER FARE L'ACQUA DA PARTIRE

L'acqua da partire si fa in questo modo, cioè: piglia otto libbre di allume di rocca arso, e altrettanto di bonissimo salnitro e quattro libbre di vetrivuolo romano, e tutto metti nella boccia; mettera'vi con le dette cose un poco a tua discrezione di acqua forte, che sia stata adoperata. Ed a fare il loto alla tua boccia, che sia buono, piglia sterco di cavallo, scaglia di ferro e terra da mattoni, tanto dell'uno quanto dell'altro, ed incorpora con tuorla di uova di gallina; di poi la distendi sopra la tua boccia tanto quanto ne piglia il fornello; di poi le dai il suo fuoco temperato, secondo il modo che s'usa. XXXVI

PER FARE IL CIMENTO REALE

Si piglia l'oro che tu vuoi affinare, e si batte sottile e se ne fa pezzuoli della grandezza di uno scudo d'oro, e debbe farsi di quella grossezza dello scudo, ed alcune volte si è preso gli stessi scudi e se n'è fatto cimento, affinatili di ventiquattro carati: ed è di tanta virtù questo semplice cimento, che gli à tratto tutta la lega del detto scudo, e non à levato il segno della stampa di esso, ma solo à tolto quel che gli aveva di brutto in sé, cioè di lega. Il cimento si fa in questo modo. Si piglia gromma di botte e mattone pesto, di poi si fa in modo che un savore e, facendo un fornello tondo, nelle commessure del detto fornello, fra l'uno e l'altro mattone, si mette il

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loto disteso e di poi si mette i pezzuoli dell'oro, o veramente scudi, e sopradetto oro, o scudi, si mette altrettanto della detta composizione; da poi se gli fa per ventiquattro ore di fuoco, e diviene finissimo di ventiquattro carati. Avvertisci, benigno lettore, che questo mio scritto non è fatto a fine di insegnare far l'acqua forte a quelli che vogliono far professione di partitore; né manco il cimento non lo insegno se non per tanto quanto se ne serve l'arte della oreficeria: perché, avendo fatto alcune figurette al re Francesco di oro, di un mezzo braccio grandi, essendo vicino alla fine, nel ricuocerle, come occorre, presono una fummosità di piombo, e si sarebbono rotte come vetro, dove io le vestii del sopradetto loto di cimento e detti loro fuoco sei ore temperatamente ed in questo modo le liberai da tal cattività.

TRATTATO DELLA SCULTURA

I DELL'ARTE DEL GETTO DEI BRONZI

E si come negli altri luoghi io ò detto, ancora di nuovo dico che, per far meglio certezza e sicurtà di credito a chi leggerà questo mio scritto, io allegherò lo aver fatto al gran re Francesco di Francia, nella mirabil città di Parigi, alcune grandi opere di bronzo, delle quali una parte ne finii ed un'altra parte maggiore io ne lasciai imperfetta. Quella che si finl fu un mezzo tondo di otto braccia in circa, il quale si fece per la porta di Fontana Beliò. Questo mezzo tondo detto io vi feci una statua di più che sette braccia, di più che mezzo rilievo, la quale era figurata per la propia fontana ed aveva sotto il braccio sinistro più vasi, i quali mostravano di versare acqua, e con il braccio destro si posava in su una testa di cervio, tutta tonda con gran parte del suo collo; e da una banda del mezzo tondo erano parecchi cani, cioè bracchi e levrieri; dall'altra banda era fatto cavrioletti ed alcuni porci selvatici. E sopra il mezzo tondo avevo fatto dua angioletti con certe facelle in mano a guisa di vittorie, con la sua salamandra, impresa del re, sopra ogni cosa, con molta quantità di ricchi festoni e dua gran satiri ne' pilastri della porta. Questi solamente non fumo gittati, ma si lasciomo finiti da poterli gittare. Il sopradetto mezzo tondo fu gittato di più pezzi, ed il primo e più grande fu la sopradetta Fontana Beliò, quale era la detta femmina, la quale aveva la testa tutta tonda e molti altri membri del corpo, ed alcuni altri erano di mezzo rilievo. Il modo del farla, io la feci di terra della grandezza a punto che Jlaveva da essere: di poi, quando lei fu soppassa, io la veddi essere ritirata la grossezza d'un dito della mano, cosi discretamente l'andai ritoccando e misurando come promette l'arte. Di poi la ricossi gagliardissimamente e, quando questa fu ricotta, io messi sopra essa una grossezza di cera di manco di un dito tutta eguale; da poi con cera medesimamente andavo accrescendo dove io vedevo il bisogno, non mai levando, o poco, di quella prima camicia che io avevo messo di cera. Ed in questo modo seguitai tanto che la finii con quella diligenzia e studio grandissimo che mi fu possibile. Di poi che io l'ebbi finita, io macinai dell'osso di castrato, cioè midollo di coma di castrato arso; il qual midollo è fatto come una spugna e si arde facilissimamente, e non è osso migliore al mondo che questo; e con esso macinai la metà di gesso di tripolo; insieme con una metà del detto gesso, scaglia di ferro; e, macinato bene queste tre

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cose, io le mescolai insieme con un poco di loto di sterco di bue o di cavallo, passato per uno staccio sottilissimo con acqua pura, il qual fa l'acqua tinta di quello sterco; e, cosl mescolando le sopradette cose e fatte liquide come un savore, presi un pennello di setole di porco e, adoperato da quella parte che sta fuor della carne, perché è più morbido, e con il detto pennello detti alla mia statua di cera con il detto savore una volta mettendolo egualmente, di poi ·Io lasciai seccare, e gnene detti dua altre volte, sempre lasciandolo seccare. Questo era grosso quanto è una costa d ,un coltello ordinario da tavola. E, fatto questo, gli feci una camicia di terra grossa un mezzo dito; e, lasciatola seccare, gli feci un'altra camicia grossa un dito; e, secca questa ancora, gli feci un'altra camicia di altrettanta grossezza. II COME SI FA LA TERRA SOPRADETTA

La terra che si adopera si fa in questo modo. Si piglia quella terra che serve per i maestri di artiglierie, la qual si cava in diversi luoghi: alcuna se ne piglia appresso ai fiumi, perché è alquanto renosa, ma non vuole essere troppo renosa, basta che la sia magra, perché la terra grassa è quella dilicata e gentile che si adopera a far figure e vasellami, cioè vasi e piatti, che di questa sorte non è buona. Ancora si truova in certi monti o grotte, massime in Roma ed in Firenze, ed in Francia in Parigi: questa è la migliore che io vedessi al mondo. Questa terra di dette grotte è migliore che non è quella che si piglia vicino a' fiumi. Chi vuol farla buona, bisogna lasciarla seccare; di poi secca, si stacci diligentemente con uno staccio alquanto grossetto, perché n' esce pietruccole e barbucce e vetri ed altri cotai cose che la impedirebbono assai. Di poi si mescola con essa cimatura di panni, la quale si può mettere per metà manco della detta terra: ed avvertiscasi che questo è un segreto mirabile, che non è stato mai usato, il qual si è questo: mescolisi la terra con la cimatura, di poi si bagni bene con l'acqua di sorte che lascia come pasta da fare il pane, e con una verga di ferro grossa dua dita battasi diligentemente. Ed il segreto si è questo: che la vorrebbe essere mantenuta molle quattro mesi il manco e, quanto più sta, è tanto meglio, perché la cimatura marcisce e, per essere cosl marcia, la terra diviene come un unguento: ed a quelli che non ànno fatto tale sperienzia, parrebbe loro che la fussi troppo grassa; il perché questa grassezza non la impedisce lo accettare il metallo, anzi Paccetta meglio senza comparazione che non essendo marcia, e cento volte meglio si tiene insieme che la non farebbe. Questa sorte di

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terra io l' ò sperimentata in assai opere difficilissime, le quali si

diranno al suo luogo. III UN ALTRO MODO SI USA PER FARE FIGURE DI BRONZO DI GETTO, QUANDO LE FIGURE SIENO GRANDI QUANTO IL VIVO O POCA COSA PIÙ

Si debbe fare quella figura che tu ài da fare di terra pur con la sopradetta cimatura; e nel detto modo fatta la detta terra, cioè infradiciata la cimatura, che cosi come ò detto si lavora meglio, facciasi finita con tutta quella bella proporzione e disegno, appressandosi quanto si può alla fine che il maestro intende di fare. Di poi finita che sarà la figura, la quale parte si lavora fresca e parte si lavora secca, che cosi promette l'arte a chi vuole operare bene; e fatto questo, volendola gittar di bronzo, si debbe dare alla detta figura di terra una coperta di stagnuolo da dipintori. E, per appiccare detto stagnuolo in su la detta figura di terra, pigliasi tanta cera quanto trementina, e faccisi struggere in un calderone o in un paiuolo; e, quando l'è bene strutta e così bollente, si dia sopra la detta figura di terra con un pennello di setole di porco a tutta la detta figura sottilissimamente, acciò non si guasti i muscoli o vene o altre sottigliezze; e sopra quello da poi si appiccherà benissimo il detto stagnuolo: la qual cosa si è stagno battuto sottilissimo, che li detti dipintori l'adoperano in alcuni luoghi, come è sopra le tele per dipignere arme: di modo che questo stagnuolo è molto noto al mondo. Questo detto stagnuolo si debbe appiccare, come ò detto, sopra la detta figura finita di terra, perché gli è di necessità il fargli un cavo di gesso sopra; e, volendogli fare il detto cavo, bisogna ugnere con olio tutta la figura; ché, essendo scoperta senza lo stagnuolo, mal volentieri la si difende dalla umidità e forza del gesso, e con il detto stagnuolo si difende benissimo: ed in questo modo si guadagna un gran vantaggio, perché, da poi che è gittata la figura di bronzo, avendo quel bel modello innanzi finito, molti giovani ed altri bonissimi lavoranti possono aiutare rinettare la detta figura, che, non avendo il modello innanzi, con mala satisfazione del povero maestro rinettano quelle tale opere di modo che vi si mette più tempo e si conducono manco bene: sl come intervenne a me quando io feci il Perseo allo illustrissimo ed eccellentissimo signor duca Cosimo, il quale si vede ancora in su la piazza di sua eccellenzia. Questo, per essere figura di più di cinque braccia, fu fatto nel primo modo che s'è insegnato, cioè fu fatto di terra e finito magro in circa un dito; e, di poi benissimo cotto, vi si messe la cera sopra in nel modo detto del68

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la Fontana Beliò. Di poi fu gittato tutto di un pezzo; e, per cavarne l'a.. nima acciò che restassi più leggeri, avevo fatto parecchi buchi in ne' fianchi, nelle spalle e nelle gambe; le qual buche, di poi che io ebbi finito tutta la sua tonaca di cera, io levai di quella detta cera in nei detti luoghi tanto quanto io volevo che mi restassi aperto; la qual cosa fu causa di tenermi l'anima in mezzo a punto, perché mettendovi sopra la detta cera quei loti che si sono detti prima alla Fontana Beliò e di poi quelle dua o tre veste di terra, armatola con i ferri che appresso si diranno, io la gittai; il qual getto fu per la grandezza sua il più difficile che mai si sia fatto. ~a, perché io mi sono mosso a ragionare del modo del gittare una figura minore, non volendo lasciare la tèma per non azzuffare troppe cose insieme, seguiterò questa, e da poi innanzi non mancherò di fare un poco di discorso sopra il mio Perseo. Ora io dico che e' se le debbe dare alla detta figura finita di terra una pasta di sopra, la quale si distende col pennello sottilissima, e di poi a poco a poco vi si appicca il sopradetto stagnuolo; la qual pasta si fa di fior di farina e cuocesi in quel modo che l'adoperano i calzolai ed i merciai che fanno le berrette e scarselle ed altre tali arti; e con questa pasta fatta sottilissima e fine, di mano in mano che l'uomo vuol por sù il detto stagnuolo, si debbe distendere nel sopradetto modo. E, messovi sù tutto lo stagnuolo (cioè coperta affatto) in su la detta figura, si deve fare un cavo di gesso. Ed il modo del cavo si fa in diversi modi; ma il più bello che io ò mai veduto e di quello che io più mi son servito si è il fare pezzi piccoli quanto comporta quel che l'uomo forma, come sono piedi, mane e la testa, dove interviene molti sottosquadri. Questi pezzi piccoli si debbono fare con gran diligenzia; e, in mentre che il gesso è fresco, vi si mette un fil di ferro doppio in ciascuno dei detti pezzi, il quale avanzi fuora tanto quanto comporti il mettervi uno spaghetto, mostrandosi a foggia di un piccolo anello: e, ogni volta che e' si fa uno di questi piccoli pezzi, sempre si debbe provare, rappreso che e' sia il gesso bene, se il detto pezzo esce. Di poi, provato che e' sia e veduto che gli esca senza guastare nessuna delle sottigliezze della tua opera, il detto pezzo si rimetta al suo luogo e bene s'ingegni il maestro di accostarlo, acciò che e' non vi resti qualche vacuo, il quale farebbe venire l'opera scorretta: e cosi si seguiti di mano in mano facendo tutta la quantità dei detti pezzi, non tanto quelli che sono a sottosquadri ma in molti altri luoghi, dove richiede, nella testa, nelle mani e nei piedi. E con questi pezzi si va compartendo bene tanto che e' si pigli la metà della figura; i' dico la metà per lunghezza, la quale s'intende coperto il bellico e le poppe insino ai fianchi, e da basso insino alla metà de' talloni. Ma

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è d'avere avvertenzia che con questi pezzi piccoli la figura non si

cuopre tutta, anzi si lascia parte delle poppe, parte del corpo, gran parte delle cosce ed altrettanto delle gambe; e debbesi avere avvertenzia che quei pezzi che vi si mettono sieno accomodati in un certo modo unito, il quale non facci sottosquadri, perché sopra questa metà di figura vi si debbe gittare di sopra una camicia di gesso tenero, grosso più che dua dita. Ma avvertisci che, innanzi che tu getti questa camicia sopra, e' si debbe vestire quel poco di quelle magliette di ferro che io t'insegnai in prima che si debbono mettere ai piccoli pezzi : a queste dette magliette si deve porre un poco di terra, acciò che mettendo la camicia e' non impedisca al volerla cavare. E, messo che tu ài la terra, si deve ugnere molto bene con un pennello con olio di uliva tutta quella parte che à da abbracciare la camicia. E fatto questo, rappreso che sia bene il tuo gesso, con molta facilità uscirà la detta camicia: di poi che ài provato una volta che l'esca, rimettila nel suo luogo e finisci l'altra metà della figura in nel medesimo modo che si è insegnato questa parte dinanzi; così seguiterai quella di dietro. Ed è da avere avvertenzia grandissima che, finito che ài il detto cavo con tutte le dette diligenzie, piglierai una corda rinforzata grossetta e da capo a piè lega tutta la fi .. gura con molte involture della detta corda; e, fatto questo, mettivi assai quantità di biette piccolette di legno, avvenga che la corda non fussi ben serrata: e questo si fa perché il gesso si torce e verrebbe sbiecata; e, per riparare a questo inconveniente, si lega in nel modo sopradetto e si tiene tanto legata che il gesso abbi rasciutto una gran parte della sua umidità, la quale arebbe causato il farlo torcere. Da poi che tu lo vedrai asciutto, svolterai la tua corda e aprirrai la detta forma che viene a essere quella prima camicia, la quale alle figure piccole si può fare di dua pezzi soli: dico le figure piccole quanto al vivo, e maggiormente essendo più piccole del vivo saria più facile il farle di dua pezzi ma, essendo qualche cosa maggiore che il vivo, gli è di necessità il farle di quattro pezzi, cioè un pezzo insino alla appiccatura della natura ed un altro dalla appicca tura della natura in giù. I quali pezzi si fanno sopraposti dua dita l'uno sopra l'altro, perché meglio si congiungono da poi insieme. E, fatto tutte queste diligenzie, apri la tua camicia e mettila a rovescio in terra, cioè che il concavo venga in verso il disopra; di poi piglia a uno a uno tutti quelli pezzetti spiccandoli dalla detta figura, e si mettano nelle casse loro, che si è fatto nella detta camicia: e, levato da loro quel poco della terra che si messe in su la maglia di ferro, vedrai quel luogo dove la terra à lasciato quel poco della margine o rilievo che si mostri, ed in quel luogo a punto farai un buco con un succhiellino nella detta camicia, appiccando a

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ognuna di quelle magliette di ferro un pezzo di cordicella rinforzata, la quale si mette in quel buco che tu ài fatto nella detta camicia e con un pochetto di fuscello di legno si lega il detto pezzo; e cosi si vada facendo a tutti. Per che da poi che tu arai vestito tutta la tua camicia di tutti quei pezzi che ti tenevano i sottosquadri e avendo con un poco di lardo sottilissimo dato a tutto il cavo, vi commetterai una grossezza d'una buona costa di coltello, la qual grossezza si domanda nell'arte la lasagna; la qual si fa di una di queste tre cose che io dirò: o di cera o di terra o di pasta, da quel che deriva il nome della lasagna. E fassi in questo modo. Si piglia un legno, e con li scarpelli vi s'intaglia un quadro di cavo quanto è grande la palma della mana e di quella grossezza che si è detta di una buona costa di coltello, più o manco secondo che tu vuoi che la figura venga o più grossa o più sottile; e, di mano in mano che tu ài formato la tua lasagna nel detto legno, andraila commettendo nel detto cavo della tua figura che l'un pezzo tocchi l'altro. E, quando arai pieno il tuo cavo da imo a sommo, gli metterai distesi in terra a canto l'uno all'altro: di poi si fa una armadura di ferro, la quale serve per l'ossatura della tua figura, e la detta armadura bisogna farla tortuosa secondo il modo che ti mostra le gambe, braccia, corpo e testa della tua figura. Di poi fatto questo, piglierai della terra battuta con la cimatura, sia terra magra, come s'è detto in prima, ed a poco a poco l'andrai mettendo sù in su questa ossatura, seccandola o con la pazienzia del tempo o si veramente col fuoco, tanto che la sia piena quanto tiene il cavo che con gran diligenzia si prova molte volte ora da una banda e ora dall'altra. E, come l'è piena che la tocca tutta la tua lasagna, la si debbe cavare e fasciarla d'un sottil fil di ferro tutta quanta da alto a basso; di poi si debbe ricuocere tanto che la detta terra sia ben cotta, la qu?l parte si domanda il nòcciolo della tua figura. Di poi che la sia ben cotta, se gli dia sopra un sottilissimo loto, fatto d'osso macinato e matton pesto magro, mescolato con un poco di terra con la cimatura. E, di poi fatto questo, se gli dà un altro poco di caldo di fiamma di fuoco, tanto che questo loto ancora egli sia cotto ; da poi si cava la lasagna del tuo cavo, e bene sarai avvertito d'aver lasciato in quattro luoghi almanco alcuni ferri legati alla detta ossatura, e' quali mantengono tutto il nòcciolo che non si può muovere, e cosi in nel cavo di gesso bisogna fare il suo posamento delli detti ferri che avanzano. Di poi, come s'è detto, caverai tutta la lasagna e metterai nei detti cavi del gesso, avendoli di nuovo unti col grasso, cioè lardo vergine di porco: questo vuole esser messo sottile; e, mettendolo alquanto caldo, incorpora meglio nel gesso. Da poi avendo fatto le tue bocche, dove tu vuoi mescere la cera, serrarai il nòcciolo drento nel tuo cavo;

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e, serrato che tu l'ài, dirizza la tua figura, e fagli quattro sfiatatoi per lo manco, dua ai piedi e dua alle mane; e, quanto più ne facessi, tanto sarai più sicuro che la tua figura si empirà di cera. E gli sfiatatoi si fanno in questo modo. E' primi dua sfiatatoi si debbono fare nella più bassa parte dei piedi; e, maggiormente avendo collocato la tua figura su qualche poco di posamento, con più facilità ti verrà fatto i detti sfiatatoi. Debbesi pigliare un succhielletto grosso e con gran diligenzia fare il buco; ché, facendolo a vantaggio che penda in verso il basso, non verrà a restare nessuno imbratto dentro nella tua forma; e nelli detti buchi fatti vi si mette cannei di canna, li quali con ingegno si vadino rivolgendo, legando l'un cannello nell'altro, che, per esser messo per la parte di sotto, ci si rivolga in modo che sia volto allo insù in verso il diritto della figura; e cosi a tutti gli altri, quanti uno ne vorria mettere, si usi il medesimo modo: e, dove si lega il cannello e in nel buco dove ei si mette, abbisi avvertenzia di imbrattarlo bene con un poco di terra liquida, la quale lo difenda a non lasciar versare la cera. Di poi arditamente si può mescere la cera calda e bene strutta, che sicurissimamente ogni difficile attitudine di figura, per virtù di questi ordini insegnati, e sopratutto gli sfiatatoi per da basso, la detta figura facilissimamente verrà piena. Di poi che la sia piena, lascisi per un giorno intero benissimo freddare; ma, essendo giorni di state, avvertisci a lasciarla per dua giorni freddare. Di poi che la forma sarà raffredda, scioglila dal legame con grandissima diligenzia; di poi sciogli tutti quei piccoli spaghetti che tengono quei pezzi di dentro, che sono fatti per i sottosquadri, si come prima diligentemente si sono insegnati; e, avendone sciolto la metà, comincerai con piacevolezza a tentare questa prima parte, o dinanzi o di dietro, qual si sia: e ti dico, per aver dato quel riposo alla cera di quella giornata o di dua, secondo la stagione del tempo, sappi che la cera sarà ritiratasi la grossezza d'un pelo di cavallo il manco; e, per questa ragione, ti sarà molto facile lo spiccare dalla tua figura questa prima vesta, la quale tu poserai in terra, e di poi farai all'altra parte le medesime diligenzie, posandola anch'essa in terra: e si debbono queste due veste posarle in su dua caprette basse tanto che tu vi possa correre sotto con le mane. Da poi comincerai a spiccare dalla tua figura tutti quei pezzi che saranno con quella maglietta di ferro e con quello spago attaccati alla detta maglietta, e a uno a uno si debbono spiccare dalla tua figura con mirabil diligenzia di modo che, fatto questo, alcune bavette che restano nella tua figura, causate dalle quantità de' pezzi, pulitamente si rinettano e benissimo si rivede tutta la tua figura. E, se bene tu le voglia accrescere qualche diligenzia o leggiadria che ti prometta l'arte, facilissimamente lo puoi fare: e, di poi che tu

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ti sei resoluto, tutti quelli sfiatatoi che tu vuoi fare alla tua figura, in prima che tu le faccia la tonaca di terra, fara'li di cera: e avvertisci che tutti li detti sfiatatoi pendino in verso il basso, perché di poi in nella sua tonaca, cioè veste ultima, facilissimamente con la terra si fanno rivolgere allo in sù. La qual cosa si dirà tutto diligentemente il modo, di poi che si sarà insegnato dar tutti e' primi loti insino agli ultimi, e armata la detta forma e cavatone la cera. E però ti dico che gli sfiatatoi vogliono esser fatti pendente in verso il basso, perché, essendo fatti così, con maggior facilità se ne cava la cera: ché, se gli stessino altramente, ti saria di necessità di volgere e rivolgere la tua forma, per la qual cosa la detta patisce e va a pericolo di guastarsi; e in questo modo detto ella non porta un pericolo al mondo. A vvertisci a questo, che è di grandissima importanzia, che nel cavare la tua cera fa' che il fuoco sia temperato tanto che la cera non ribolla nella forma, anzi esca con grandissima pazienzia; e, quando la detta cera è tutta uscita, ancora dàgli temperatissimo fuoco, insino a tanto che tu sia sicuro che tutta l'umidità della cera sia fuora. Di poi arditamente tu gli puoi dare buon fuoco, facendogli intorno una vesta di mattoni l'uno sopra l'altro, che sieno presso alla forma a tre dita; ed il fuoco che tu gli fai sia di legne dolce, come è ontano, carpino e faggio e sermenti ed altri cotai legni. Guàrdati dal cerro e dalla quercia, e non adoperare manco carboni, perché ti farebbono colare la terra; la qual terra diventa come vetro, eccetto che certe terre che ànno propietà di non colare, le qual son quelle che si adoperano alle fornace dei bicchierai ed alle fornace dei bronzi. Ed al luogo suo non mancheremo di ragionare con quella diligenzia che ci si appresenta innanzi: per ora seguiteremo innanzi a condurre al getto del bronzo questa nostra forma. Caverai una fossa appresso alla tua fornace dinanzi alla spina; la qual fossa sia tanto profonda che la tua figura si nasconda in detta fossa, e più bassa ancora un mezzo braccio, acciò che tu le possa dare il suo pendio; ed un quarto di braccio deve essere il manco la bocca, la qual verrà sopra la testa della tua figura. Di poi che tu arai fatto la tua fossa con le dette misure d'altezza, e similmente di larghezza d'un mezzo braccio intorno, piglierai la tua forma, la quale sarà sfasciata da quei mattoni dove la sarà cotta, e, avendola lasciata freddare, bisogna legarla con gran diligenzia con un canapo, il quale sia abbastante a reggerla; di poi arai attaccato una tua taglia a un trave del palco; e, mettendo il canapo dentro nella tua taglia, bisogna avere un argano, il quale sia recipiente a sostenere la detta forma. E, perché e' non bisogna passare certe cose, le quali insegnano grandemente per virtù della sperienzia, quando io feci il Perseo, per esser opera tanto grande io la messi nella fossa

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con dua argani, i quali erano caricati con più di duamila libbre di peso tutti a dua; ma a una figura piccola di tre braccia sarà abbastante un argano solo. Egli è ben vero che e' si potrebbe fare senza argano a una figura di tre braccia; ma perché e' si porta grandissimi pericoli, i quali sono atti a far muovere il suo nòcciolo, cioè l'anima di dentro, e anche percuotere la spoglia di fuora (ché facendo con l'argano non si porta cotai pericoli), e così levatala con il detto argano pian piano e conduttola alla bocca della sua fossa, con la medesima diligenzia si debbe allentare l'argano tanto che la discenda nel fondo della fossa. E, di poi che la sarà ben posata diritta e situata la sua bocca dove à da entrare il metallo al diritto della sua spina, la prima cosa che si deve fare, trovisi li sua sfiatatoi che sono nella più bassa parte, e quelli si imboccano con certi cannonetti che si fanno di terra cotta, i quali sogliono servire per acquai: e di questi cotai cannoni in Firenze n·e ò trovati quantità di modo che con gran facilità io mi sono accommodato; e, perché e' se ne usa con alcune rivolte, questi tai rivolti io me ne sono servito; e servono nelle parti più basse ed in tutti quegli altri luoghi dove gli sfiatatoi sono forati allo ingiù, che con quella rivolta si imboccano l'uno nell'altro e vengono diritti allo in sù. Or, come io ò detto, messo questi dua sfiatatoi, si debbe pigliare di quella terra che tu ài cavata della fossa; la qual terra vuole essere ben crivellata e vorrebbesi mescolare con altrettanta rena, la qual non fussi troppo molle; e, mescolata bene la terra con la rena, si comincia a riempiere la tua fossa. A vvertisci che quella terra che io dico mescolata con la rena basta che la sia appresso alla tua forma della grossezza d'un quarto di braccio, e da quel quarto di braccio in là si debbe riempiere di quella pura terra che tu arai cavato della tua fossa, la quale non importa che sia crivellata. E, quando tu ve ne arai l'altezza d'un terzo di braccio, allora si debbe entrare nella tua fossa con dua mazzapicchi, i quali sono dua legni di tre braccia l'uno e larghi di sotto d'un quarto di braccio; e così si picchia la terra tanto che la si condensi bene insieme, avendo avvertenzia a non percuotere mai la forma, ma basta appressarsi a quattro dita alla forma, e, scambio del mazzapicchio, serrala con i tua piedi propri, con quella diligenzia che ti promette il pericolo del non percuotere la forma. E, così di mano in mano a ogni terzo di braccio che tu arai messo la tua terra nel detto modo, così la mazzapicchia nel detto modo. E, perché quelli sfiatatoi vengono a essere raggiunti dalla terra, mettivi volta per volta di quelli cannonetti che si è detto di terra cotta, i quali entrano l'uno nell'altro; e, ogni volta che tu ài messo i tua cannoni, turali molto bene con un poco di stoppa netta, la quale ripari che, in mentre che tu riempi la tua fossa, la terra non n'entrassi dentro agli

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sfiatatoi, perché impedirebbe loro tanto la virtù del soffiare che sarebbe causa a non ti lasciar venire la tua figura. Ora, seguitando di empierla nel detto modo, ogni volta che tu trovi delli sfiatatoi, sl come tu ài fatto nel fondo, così ti è di necessità seguitare nelle gambe, ne' fianchi e nelle braccia, insino a tanto che tu sia arrivato al pari della tua fossa, cioè che la sia tutta piena con le medesime diligenzie. E, fatto questo, si debbe cominciare a far la via dove à da correre il bronzo. Ben si vuole avere grandissima avvertenzia che, quando tu cominci a mettere la tua figura nella fossa, bisogna aver pieno la fornace del tuo bronzo e a un medesimo tempo cominciare a dar fuoco alla fornace che tu cominci a empier la fossa, perché la tua forma non pigliassi troppa umidità; le quali cose sono che, chi manca di queste gran diligenzie, sono quelle cause che molte volte impediscono il non empiere la tua forma. Avendo ripiena tutta la fossa al pari della bocca principale dove debbe entrare il bronzo e avendogli lasciato quella parte di caduta dalla bocca della spina dove debbe uscire il bronzo della fornace e avendo tirati sù tutti gli sfiatatoi nel modo che si è insegnato, con tanta diligenzia sempre tenendoli chiusi con un poco di stoppa, e similmente la bocca principale della tua figura; di poi si piglia tante mezzane cotte e si fa un pavimento, sempre lasciando scoperto li sfiatatoi. E, perché la tua figura talvolta arà più d'una bocca principale dove debba entrare il tuo bronzo, si debbe avvertire che il detto ammattonato venga appunto al pari delle tue bocche donde à a entrare el bronzo. Da poi fatto questo, si piglia de' mattoni di terra cruda secchi e spezzansi lasciandoli della larghezza di tre dita e più, secondo la discrezione del perito maestro e secondo la caduta che vuol dare al suo bronzo: e questi detti mattoni per coltello si murano con terra liquida con la cimatura, in cambio di calcina, in su il detto ammattonato o pavimento che s'intende. Ed è da avvertire che per la parte di fuora, avendo tu tirato insino alla pariete della fornace un canale fatto dei detti mattoni crudi e riserrato intorno le bocche dove à a entrare il metallo nella figura, da poi si pigli de' mattoni, o crudi o cotti (che meglio sono i crudi, con tutto ci sia poca differenzia), e per piano si muri il canale tanto quanto il canale detto verrà alto, e sarà assai la larghezza d'un mattone, mettendo l'un sopra l'altro, accommodandoli intorno al tuo canale tanto quanto viene alto. Essendo giunto al pari e bene stuccato con la tua terra fresca, in cambio di calcina, tutte quelle parti dove il metallo potessi uscire, avendo fatte tutte queste diligenzie, leverai la stoppa d'in su le tua bocche, dove à da entrare il bronzo e in cambio di stoppa vi farai turaccioli di terra fresca fatti in forma da poterli cavare; perché subito tu debbi metter de' carboni accesi

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nel tuo canale e coprir tutte quelle parti che tu ài murate di terra fresca, acciò che ogni cosa sia bene asciutta; però rinnoverai il fuoco più volte, perché non tanto vuole essere asciutta la detta terra, ma vuole essere benissimo cotta. Da poi seguitando tutte le dette diligenzie e avendo il tuo metallo ben fuso, si leva tutte le cenere e carboni soffiandovi diligentemente con un mantacuzzo, che nulla vi resti che possa impedire il tuo metallo. Da poi si debbe levare tutte quelle stoppe che chiudevano Ii sfiatatoi ed appresso quei turaccioli di terra dove à a entrare il tuo bronzo strutto: e, fatto questo, si debbe mettere su per il detto canale due candele di sevo insino in tre, le quali non arrivino a una libbra di peso. Di poi corri alla bocca della tua fornace e rinfrescala con una certa quantità di stagno di più della lega ordinaria, la quale vuole essere circa una mezza libbra per cento di più della lega che vi arai messa. E, fatto questo con prestezza, facendo mantener continuamente fuoco di fresche legne nella tua fornace, arditamente con il tuo mandriano (che cosi si chiama quel ferro con il quale si percuote la spina) e cosl percuoti la spina e modestamente lascia correre il bronzo, sempre tenendo una punta del mandriano drento nella spina, insino a tanto che tu vegga uscito una certa quantità del tuo metallo, il qual abbi passato quella prima furia, la qual saria stata causa talvolta a far pigliar vento all'entrata della tua forma. Di poi che tu vedrai allentato questa pri-ma furia, tu potrai liberamente levare il tuo mandriano dalla spina della fornace, lasciando versare il bronzo tutto, acciò che la fornace resti netta: la qual cosa è di necessità d'avere un uomo a ciascuna delle bocche della fornace, il quale con i rastiatoi che si usano a tale professione, con quelli scaccino il bronzo in verso la spina tutto, acciò che la fornace resti netta; e, quel che avanza di poi che arai pieno la tua forma, si usa ritenerlo con quella terra che ti è avanzata della fossa, la quale si piglia con le pale e gettasi in su il bronzo che corre fuor della forma. E così ti verrà pieno la tua forma. Non è da passare per i casi diversi e terribili che avvengono in tali parti, e' quali molte volte sono causa di far perdere le estreme fatiche durate dai poveri maestri, il perché è bene imparare alle spese di altrui; le qual cose avvengono bene spesso. E, perché e' maestri d'artiglierie il più delle volte sono chiamati da quelli che fanno le figure e, venendo alcuni casi terribili che promette l'arte, quei tali maestri d'artiglierie non avendo cotai sperienzie, e scarsi di diligenzie, sono causa che le dette fatiche si perdono. Sì come sarebbe avvenuto a me, che arei perso il getto del mio Perseo, perché, venendomi una di queste avversità e chiamandoli per consiglio, io li trovai tanto scarsi di intelligenzia che, avviliti, tutti mi dissono che la mia forma era guasta e non vi era più rimedio, mediante il

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disordine che occorse per la loro stessa causa al mio metallo. Per essere stata la figura di grandezza di più di cinque braccia e con difficile attitudine per avere una testa nella mano mancina levata in alto, figurata per la testa di Medusa, con molti ricchi ornamenti di capelli e di serpi, ed il braccio ritto del mio Perseo tirato in dietro con attitudine ardita e la gamba mancina piegava assai: queste tutte diversità di membri fanno difficilissimo il getto; e, per questa causa essendo io desideroso che il mio getto venissi bene, si per essere la prima opera ch'io facevo in Italia e nella mia patria, scuola vera di cotale professione, queste cause mi mossono a metter tanto studio e tanta diligenzia di più di quello che io avevo fatto prima a condurre la mia figura che, mettendomi a fare una quantità di sfiatatoi, la qual fu grandissima, e molte bocche, le quali dependevano da una sola che io avevo fatto che dalla altezza della testa per di dietro della figura veniva insino ai calcagni di tutti a dua i piedi, appiccandone su per le polpe delle gambe in tutti quei modi che m'insegnava l'arte, e quella grande esperienzia delle grandi opere che io avevo fatte in Francia. Mi convenne far quasi ogni cosa di mia propria mano: per il che soprafatto dalla fatica, la qualità ed organo del corpo mio, mi saltò addosso una tanta violente febbre che io fui forzato, da poi che io l'avevo sopportata parecchi ore, dico che quella mi gettò a letto. E, avendo pure parecchi maestri di quei pratichi d'artiglierie e di figure, io mostrai loro,· innanzi che io mi gettassi a letto, tutto il modo che io avevo cominciato, e benissimo si poteva intendere, perché di già io avevo coperto più che mezza la mia figura e tutte le maggior difficultà erano passate; solo si aveva a seguitare quell'ordine che si vedeva, il qual mostrava di essere molto facile: ché, non vi conoscendo molte estreme difficultà, io volentieri, per non poter più resistere, me ne andai, si come ò detto, a letto. E, mentre che costoro lavoravano la mia fornace che io avevo tanto ben fatta, con molta facilità aveva condotto il mio bronzo in bagno, cioè fuso presso che al suo termine; e ben si poteva trattenere sei ore ancora, secondo che io avevo insegnato: la qual cosa era forza di farlo, perché bisognava che coloro seguitassero il mio ordine, e, per non avere quella sicurtà di pratica e anche per parer loro cosa diversa da quel che eglino avevano mai veduto, basta che eglino se la trastullomo di sorte che, avendo straccurato la fornace, ei si rapprese il metallo ; alla qual cosa loro non mai ànno avuto modo di risuscitare un tale errore, e domandanlo in lor linguaggio un migliaccio, cioè il nome che cosi s'usa per l'arte. E questo viene perché la fornace è tonda ed il fuoco che si dà a detto metallo viene per di sopra: e certamente che e' vi si vede poco rimedio, perché, se il fuoco potessi venire di sotto, sarebbe facile a riavere il metallo

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rappreso, dove per la detta causa loro non mai vi ànno trovato rimedio. Ora, essendo io con la gran febbre prostrato nel letto, venne uno di questi nel quale io avevo più fede e in un certo suo bel modo mi disse: - Benvenuto, abbiate pazienzia, che per essere la fornace stata a disagio ei s'è fatto un migliaccio. - Onde io mi volsi a lui e feci chiamare tutti quelli altri pratichi in chi io avevo fede, e domanda'li se e' vi sapevano alcuno rimedio. I detti valentuomini mi dissono che e' non vi era altro rimedio se non disfare la fornace: ed in quel mentre che la fornace si disfarebbe, per esser la mia figura sei braccia sotterrata in terra, loro non vedevano modo nessuno che la non si guastassi; e che, se bene io volevo cavare la terra d'intorno alla mia figura, quella era tanto ben serrata intorno, e con tanta quantità di bocche e di sfiatatoi, che gli era forza che la detta forma si guastassi, e non vi conoscevano altro rimedio al mondo. Or sappia, benigno lettore, che con il male che io avevo e con la cattiva nuova, la qual m'importava tutto l'onor mio, io sentii uno de' maggiori dolori che mai uomo al mondo si possa immaginare. Ma non soprastetti a dar campo al dolore; subito ricorsi a quella natural virtù dell'animosità, la qual non s'impara per studio nessuno, ma bisogna che la sia naturale; e furioso con essa saltai del letto, e spaventato quella smisurata febbre con alcune mordace parole che io dissi a quei detti maestri, in fra le quali fumo che io dissi: - Da poi che voi non avete saputo fare, anzi mi avete guasto le mie onorate fatiche, avvertite adunque e state in cervello a ubbidirmi, perché per tutto quello che io intendo dell'arte, io mi prometto certo di risuscitare questo che voi mi avete dato per morto, purché il mal che io ò addosso non sforzi la virtù del corpo più che tanto. - E così brontolando corsi con loro in bottega e comandai a sei a un colpo tutte diverse cose: e la prima fu che io dissi a un di loro che mi facessi condurre una catasta di legne di quercia secche, le quali erano appunto al dirimpetto, in casa el Capretta beccaio; e, in mentre che quelli ne portavano, cominciai a metterne nella fornace parecchi pezzi per volta. E perché, se bene io l'avessi detto, per esser cosa di tanta importanzia io lo voglio replicare ancora, dico che nelle fornace del bronzo non si mette mai altre legne che di ontano, di salcio e di pino, che questi sono tutti legnami dolcissimi; e però presi la quercia per essere legname in superlativo grado fortissimo. Or, con la forza di questo legno e di questo fuoco, subito il metallo si cominciò a muovere. A dua altri comandai che con certe lunghe verghe di ferro Io pugnessino per l'una e per l'altra buca della fornace; e, perché e' traeva vento e pioveva quanto il cielo ne sapeva mandare, ed il vento e l'acqua mi imboccavano la mia fornace di modo che quelli dua con quelli artifizi che io avevo insegnato

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loro riparavano al vento e alPacqua. E dua altri messi in opera perché la violenza del gran fuoco per la parte di drento di bottega aveva appiccato fuoco a certe finestre grandi di legno, le quale ardevano con tanta veemenzia che mi dava spavento che non si appiccassi fuoco al palco della bottega, sì come ne dimostrava la furia di detto fuoco. Con gli altri, che erano assai, io mi messi a pulire e' canali, dove aveva a correre il mio metallo, e scoperti tutti e' mia sfiatatoi ed aperto tutte le bocche; e, in mentre che io avevo condotto tutta la mia opera alla sua fine, in un momento viddi alzare tutto il coperchio della fornace, e questo avvenne per quel terribil fuoco di legne di quercia, di modo che il metallo si versava per tutti e' versi, dove io viddi sbigottito di nuovo tutti quelli che con tanta ubbidienzia e timore mi avevono servito, ed erano pieni di maraviglia di vedere che io avevo risuscitato e fatto liquido il migliaccio. E, perché il valore di quel gran fuoco mi aveva consumata tutta la lega, io avevo dato ordine di rimetter la lega nella fornace con un pane grosso di stagno fine, il quale era quivi presente. Or veduto di non la poter fare, perché il mio metallo si fuggiva e andavasi con Dio dilatandosi per tutta la fornace intorno, subito comandai a dua altri uomini che corressino in casa mia, e portassino dugento libbre di piatti e scodelle di stagno; e, gittatone subito una parte, feci a un di loro pigliare il mandriano e percuotere la spina, la quale fu durissima, e cosi all'altra spina, perché ne feci dua: e, di mano in mano che il metallo correva per i canali, io gittavo quei piatti sottili sopra i detti canali e, per essere il metallo tanto disordinatamente caldo, in un tratto correva insieme con il detto stagno di modo che in brevissimo tempo io viddi pieno la mia forma. E, perché io vi viddi entrar dentro tanto metallo e con tanta virtù sanza soffiare e sanza fare nessuna stranezza, e vedevo che tutti e' mia sfiatatoi lavoravano. A punto mi era restato tanto metallo di più di quello che si era versato che la mia forma si empiè appunto e non avanzò nulla. Fatto questo, io subito ringraziai Dio, e poi mi volsi a coloro, e dissi : - Vedete voi, ora, che a ogni cosa è rimedio ? E fu tanto il dolore insieme con tanta allegrezza che la fatica non si senti e la febbre si andò subito con Dio, e mangiai e bevei lietamente con tutta quella turba di quei cotali uomini, ed ognuno restò maravigliato. Ancora in Francia, quando stavo al servizio del re Francesco, volendo gittare un mezzo tondo cli più di sei braccia di larghezza, dove era quantità di figure insieme con animali ed altre cose, per il medesimo difetto di quelli che mi aiutavano, con tutto che ei sieno in cotai professioni sicuri di maggior pratica che tutti gli altri uomini del mondo, perché in quella provincia, massime della Lutezia, vi si

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lavora più di queste cose di bronzo che non si fa in tutto el resto del mondo; in però quando cotai maestri escono un poco della loro gran pratica per non avere i fondamenti della vera teorica dell'arti, venuto loro qualche stravaganzia, subito si gettano per perduti e disperati affatto. E cosi io li viddi in un grandissimo accidente, quasi simile a quello che io ò scritto del mio Perseo, se bene in alcune cose molto diverso, basta che l'era una cosa la quale usciva di quella ordinaria praticaccia; per la qual cosa vedendoli io disperati, non senza mio gran dolore restai di loro maravigliato, e con la mia solita animosità, accompagnata dal fondamento dell'arte, subito dètti modi a risuscitare un morto quasi simile al sopradetto. Il perché veduto questo quei vecchi maestri, benedicevano l'ora e il giorno ch'e' mi avevano conosciuto: e io, che imparavo da loro, ben conoscevo che la maggior parte dipendeva da quel che io avevo imparato da loro. Ma loro operavano per una continova pratica, e io imparai quella pratica e gli detti regola: e così me ne sono servito, e volentieri la insegno. Ora ritorneremo alquanto indietro per non mancare di continovare la nostra ordita tela. E, se bene noi siamo usciti alquanto, non per questo ci siamo scostati dall'ordine dell'arte, il quale conosciamo esser facile il rappiccarlo. Avendo mostro il modo del formare e del gittare (il qual modo sopradetto d'una statua di tre braccia in circa è quello abbiamo sperimentato), ancora ci è un altro modo, il qual è alquanto più facile, ma non è così sicuro come il sopradetto. E questo si è che, in cambio di far quel nòcciolo alle figure di terra, ei si può fare di gesso mescolato con osso arso e con mattone cotto pesto. E, se gli avviene che il gesso sia di buona sorte, questo detto modo è più facile da fare, perché in cambio di dare quelle vesti a poco a poco, che si fa alla terra, il gesso può farsi liquido con le dette cose mescolate insieme, pigliando una parte di gesso, ed altrettanta in fra osso e mattone; ed in questo modo si fa come un savore, il quale si getta in quel cavo sopra la lasagna e questo si rappiglia subito. Di poi sciolto il suo cavo, nel modo sopradetto si debbe legare tutto il detto nòcciolo con il filo di ferro e di poi coprire sottilissimamente il detto fil di ferro con un snvore alquanto più liquido, della medesima sorte del sopradetto. E, fatto questo, si debbe cuocere questo detto nòcciolo in nel modo che si è fatto quel di terra; e da poi ben cotto, vi si getta sopra la cera in nel modo sopradetto con quelle diligenzie di tutto il cavo di gesso. E cavato il detto cavo e avendo rinetto la cera della tua figura nel detto modo, avendovi ordinato li sfiatatoi in nel modo insegnato primo, si può nel medesimo modo e in nella medesima composizione del gesso fare la spoglia sopra la cera; e, di poi che l'è

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fatta di quelle dua dita e mezzo di grossezza, quella si debbe armare con le medesime listre di ferro larghe dua dita; e, di poi che l'è armata, di nuovo si debbe coprire con il gesso tutta la detta armadura. E, fatto questo, si debbe restrignere in un fornello fatto di mattoni tutto, e allo intorno accommodato di sorte che, dandogli il suo fuoco per cavarne la cera, quella si possa trame, facendo una buca in terra sottovi un calderone capace a ricevere la detta cera, la quale si debbe trarre per li sfiatatoi, i quali sfiatatoi debbono stare nel modo sopradetto. E, trattone la cera, si debbe dargli buon fuoco di legne e carboni, tanto che la tonaca della tua figura sia ben cotta; ma si debbe avvertire che il gesso si contenta di molto manco fuoco che della metà che non fa la terra. Gli è bene il vero che, in questa nostra parte di Toscana, il gesso non è tanto a proposito per far simili opere, si come gli è in Mantova, e in Milano, e in Francia, eccellentissimo. E, che sia il vero questo modo di far di gesso, à fatto restar ingannato alcuni valenti giovani, i quali facendo alcune opere allo illustrissimo signor duca di Firenze, non tanto restomo ingannati alla prima volta, ma insino alle tre volte. Il discretissimo duca, veramente amatore delle virtù, ebbe pazienzia; ma il detto giovane non conosciuto la differenzia del gesso da quelli a questo, avendo tenuto sempre il medesimo modo, ei ne restò ingannato; in però si debbe considerare, quando un maestro vuol fare un'opera, ei si debbe fare esperienzia delle terre e dei gessi e di tutte quelle cose che il maestro si vuole servire. Ed a questo modo benissimo si conosce la natura e propietà loro di sorte che di ogni opera e' maestri ne riescono a onore: ché, facendo altrimenti, si fa il contrario. Ei non si debbe mancare a questo proposito di dare un esempio delle calcine, sì come io ò visto in Roma e in Francia e in altre parti del mondo. Le calcine quanto più si tengono spente, tanto più sono migliori e fanno miglior presa. E queste nostre del dominio di Firenze vogliono essere spente e subito messe in opera; e così sono le migliori calcine del mondo, e fanno miglior presa; e, soprastando, le perdono la lor gran virtù, dove le altre calcine, quanto più soprastanno, maggior virtù acquistano. IV DEL MODO DEL FAR LE FORNACI PER FONDERE IL BRONZO, O PER FIGURE O PER ARTIGLIERIE E PER ALTRE COTAI COSE

Le fornaci da fondere il bronzo si ànno da fare secondo le occasioni dell'opere che alla giornata occorrono ai maestri che si ànno da servire di esse. E, sl come io dissi nel principio del mio libro di

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voler sempre citare in tutte le occasioni che ei mi veniva a ragionare dell'arti, volendo allegare sl come io ò fatto delle opere fatte da me, e altanto dico nelle fornaci. Per aver io lavorato a quel mirabil re Francesco di Francia, sì come di sopra si è detto, avendogli fatto una gran porta di bronzo, per la quale mi convenne fare una fornace in Parigi, e questa io feci nel propio castello che sua maestà mi aveva donato con regie patenti, dove quattro anni io fidelissimamente lo servii; e le dette patenti quando io venrii a Firenze io le portai con esso meco, solo per mostrare nell'Italia e nella patria mia quanti gran tesori si guadagnava; avendo imparato nell'Italia, di poi era bene scostarsi da essa, perché se ne cavava di quei utili ed onorati frutti. In però, convenendomi fare la fornace, io la feci in questo modo, cioè: il vano di drento si era tre braccia fiorentine di latitudine, che vengono a essere nove braccia di circunferenza; l'altezza della volta di detta fornace si era il mezzo tondo della pianta della sua rotondità. Questa pianta, benignissimo lettore, si debbe intendere con grandissima discrezione, perché, non volendo fame disegno rispetto a molti disegni che io ò visti nelle cose d'architettura, i quali sono molte volte alterati e guasti, però non mi sono voluto ristringere con altro che con le parole, con le quali io mi affaticherò a darle ad intendere; e spero che bastaranno assai. Tornando al detto piano del fondo della fornace, dove si deve mettere il metallo, cioè il bronzo, questo si deve fare a pendio, sì come io feci a questa piccola fornace. Una fornace di cotal grandezza sopradetta, si deve dare al suo fondo il pendio d'un sesto di braccio, cioè della sesta parte d'un braccio; e debbasi avere avvertenzia che il detto fondo si deve fare nel modo che stanno le strade dove si cammina, le quali ànno in mezzo quello che toscanamente si domanda rigagnolo, il quale rigagnolo debbe correre diritto alla bocca della spina di dove à da uscire il metallo; di modo che queste spalle vanno montando sù dolce dolce, tanto che le arrivino presso a un terzo di braccio alle due porte, dove si mette il bronzo: e quel terzo di braccio si debbe fare andare tanto più ardito quanto il maestro vorrà che la fornace abbia più o manco fondo: la qual cosa consiste in manco d'un mezzo ottavo di braccio del più o del meno·. La terza porta di dove entra le fiamme del fuoco la quale non importa di fargli questa diligenzia per non essere ella affaticata dal bronzo, ma solo se gli usa fare un poco di spalletta della altezza di tre dita. Debbe farsi il detto fondo di fornace di certi mattoncelli fatti a posta, i quali si fanno piccoli, e larghi da una banda più che dall'altra; vogliono essere di un sesto di braccio grossi; e, facendoli di cotal grossezza per tutti e' versi, molto meglio servono che non fanno quelli delle fornace de' bicchieri,

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e' quali son fatti in nel modo che si fanno li altri mattoni. E, se bene alcuni ànno usato murarli mettendoli in opera per coltello, avendo io sperimentato l'uno e l'altro modo, trovo che facendoli della medesima grossezza per tutti e' versi ei fanno molto migliore operazione che in tutti gli altri modi. Debbesi avvertire grandemente a fare e' detti mattoni di quella sorte terra, la quale non cola al fuoco, che in Firenze patria mia si adopera una certa terra bianca, la quale dicono che viene da Montecarlo, e di questa tale se ne fa tutte le fornaci dei bicchieri. In Francia io l'ò trovata in altro modo, e migliore, e fa grandissima operazione da vantaggio più di queste: ed i mattoni loro sono fatti di un quarto di braccio lunghi, e della grossezza sopradetta: e questi tali li domandano ciment, e li fanno di coreggiuoli adoperati a ottone, che in quelle parti se ne adopera quantità infinitissima. Di poi li pestano, e fannone questa sorte di mattoni sopradetta. Si debbe però accomodare il maestro di quelle cose eh' ei trova in quella parte dove gli occorra lavorare. A vendo fatti i tua mattoni della sopradetta terra, si debbono con grandissima diligenzia, di poi che sono ben secchi, con i ferri, cioè asce e scarpelloni larghi fatti a posta, lavorargli pulitamente, di modo che si congiunghino insieme il meglio che sia possibile; e di mano in mano si vanno murando in su il fondo della fornace, il qual fondo vuole essere fatto di pietre morte e levato dal piano della terra un mezzo braccio. E le dette pietre morte vogliono essere grosse un terzo di braccio il manco, e benissimo congiunte insieme. E questo detto primo fondo, a una fornace della sopradetta grandezza, deve essere più grande dua terzi di braccio che non à da restare il vano del fondo della tua fornace. Questi si possono murare con calcina ordinaria, purché sia buona: di poi si debbe murar sopra di questo fondo l'altro fondo della fornace, dove si à da posare il bronzo. E, avendo ben lavorato i detti mattoni della detta terra, della medesima terra si deve pigliare facendola liquida in modo di calcina, e avvertire che la sia bene stacciata e netta; e con questa detta si à da murare tutto il fondo della fornace. E, sì come io dissi, quei mattoni debbono essere ben lavorati con li scarpelli, di poi arrotati bene, acciò che meglio si congiunghino insieme; e nel murare con la detta terra liquida si debbe avere grandissima avvertenzia a mettervene quanto manco sia possibile; perché quando alcune volte gli avviene che per poca diligenzia del maestro che la mura, avvenga che questa terra liquida vi sia messa alquanto grassetta (perché tutta la natura della terra si è di ritirare alquanto), cosi nel seccare la viene a fare qualche sottilissima screpolatura, la quale, per piccola che la sia, si è oltre a modo perniziosissima e fa grandissimo danno, perché, quando il bronzo viene

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in acqua, gli è tanta la sua estenninata forza che egli penetra per quei piccolissimi fessi, e io ò visto che ei si à levato il fondo in capo; dove che, facendolo con le sopradette diligenzie, cioè murarlo con la terra liquida quanto più sottile sia possibile al mondo, non gli dà occasione di poter fare crepature: e cosi sicuramente si può fondere il suo bronzo, e senza pericolo della fornace vengono me• glio tutte le opere. Di poi che sarà fatto il detto piano, si debbe tirare la sua volta con i medesimi mattoni, in nel sopradetto modo murati. Debbesi av• vertire a fare alla detta volta dua entrate, si come prima si disse, da mettere il bronzo, le quali basta che sieno della grandezza di dua terzi di braccio larghe e tre quarti di braccio alte, e sieno mezze tonde di sopra. La terza parte, di dove à da entrare le fiamme del fuoco, si debbe fare di dua terzi di braccio larga ed un braccio alta, perché si fa questa più altezza, acciò che la fiamma che entra, per la natura del fuoco, va allo in sù gagliarda girando nel vòlto del-la fornace e, da poi sforzata dalla detta rotundità del vòlto della fornace, la fa girare di sotto e con quel gran furore scalda il metallo ed in brevissime ore lo liquefà in acqua. Si debbe fare quattro sfiatatoi, compartiti nella volta della fornace, in su l'estremità della volta, dove la muove, ciascuno dei quattro. Si debbe fare al diritto del rigagnolo, in uno di quei mattoni della volta, un buco, il quale sia tanto largo che agiatamente vi entri dua dita, e della larghezza medesima si debbono fare i quattro sfiatatoi. E il detto buco, il quale serve per versare il metallo, si debbe fare in uno mattone acciò che e' non sia contaminato da parte nessuna: e il detto mattone va murato con gli altri in nel modo sopradetto, e così si seguiti insino a tanto che la volta sia raggiunta tutta. Per non mancare di diligenzia, il sopradetto buco che si fa nel mattone, si domanda el buco della spina, il quale à da esser largo per di dentro un mezzo dito da vantaggio di più che la parte che esce di fuora, perché vi si mette un zaffo di ferro prima che e' si metta metallo o altro, il quale s'imbratta con un poco di cenere bene stacciata e liquefatta come un savore; di poi si mette nel buco della fornace, come s'è detto, per la parte di dentro. Di poi si debbe fare una pietra morta di grossezza d'un mezzo braccio per ogni verso, e in questa si à da fare un buco nel mezzo, il quale sia grande appunto quant'è il buco che si è fatto nel mattone, dico da quella parte che ei si appoggia al mattone. Ma la parte ch'è di fuora della fornace, il detto buco si deve fare largo per sei volte quanto è quella parte sopradetta che si appoggia al mattone, e così deve venire pulitamente sbavato in fuora. Di poi si muri appiccato al mattone della fornace con la terra nel modo sopradetto: ma, perché e' si viene 60

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·a posare in su quel fondamento e spalle della fornace, come si è detto di sopra, quella parte che posa in su il detto fondamento del piano della fornace si debbe murare con buona calcina ordinaria. E cosl tutte le pietre morte devono essere grosse come si è detto del primo pezzo; e si debbono murare nel medesimo modo che il detto pezzo, e si deve far tanto questa altezza quanto sia alto la volta appunto; la quale altezza si deye fare diritta, acciò che la volta, venendoli qualche accidente, sì come promette l'arte, quella si possi acconciare o rifare sì come accade. E, ricinto che l'uomo arà la detta fornace nel sopradetto modo, si debbe avvertire che, quando l'uomo sarà giunto alle spalle della buca maggiore per la quale entra le fiamme, accanto a questa buca si deve fare un fornello, il qual sia dua terzi di braccio per ogni verso di larghezza e pro.fondo dua braccia appunto dal piano della buca in giù; e nel fondo di questa buca si mette sei o sette ferri, i quali sieno grossi più di dua dita grosse della mana per ogni verso, e sieno cli tanta lunghezza che gli avanzino da ogni banda quattro dita, e sieno posati in su le pietre morte, e sieno l'uno dall'altro tre dita della mano lontano. Ed il fornello che si mura sopra questi ferri vuole essere fatto nel medesimo modo e con i medesimi mattoni e murato con la medesima terra, in cambio di calcina, sl come si è fatto tutto il cli dentro della fornace con la sua volta sopradetta. E questo detto fornello debbe montar sù alto il suo piano quanto egli arrivi alla metà della buca della fornace dove deono entrare le fiamme. E, di poi che l'è arrivata a questo segno, si debbe strignere la sua parte di sopra un ottavo di braccio per ogni verso; e per questa buca si mettono le legne per diritto. E sotto alla detta graticola si deve fare una fossa, la qual sia larga un braccio e mezzo, e profonda dua braccia, e di lunghezza cinque o sei braccia in verso quella parte che la detta volta deve porgere il vento per la graticola al fornello della sopradetta fornace. E si debbe avere avvertenzia che questo non à da entrare se non per una banda, e così seguiti la profondità di questa fossa quanto tiene la fine del detto fornello per di sotto: e questa detta fossa si domanda la braciaiuola fra gli artisti, perché tutte le brace cascano in essa. Di poi che le legne sono arse (ed alcune volte avviene che, per qualche diligenzia che il maestro arà alla sua forma della figura e avendo messo fuoco più per tempo che il dovere quattro o sei ore, la qual cosa non si può giudicare appunto), avvenga che le brace che cascano fanno sì gran monte sotto alla detta graticola che alcune volte le sono cresciute ·tanto in sù che l'ànno tenuto la virtù del vento al fornello, il quale non à potuto fare la sua operazione; in però bisogna avvertire che, quando questo detto monte di brace comincia a crescere, e' si

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à da aver fatto un ferro lungo un mezzo braccio e largo un ottavo di braccio, ed in nel mezzo a questo ferro da una delle bande della sua larghezza, la qual si dice per di sopra, à da esser saldo una verga di ferro di grossezza di dua dita, e di lunghezza di dua braccia, alla quale per la testa contraria sua se gli fa una gorbia, nella quale si commette una stanga di quattro braccia al manco; e con questo strumento, il quale si chiama il rastrello, con essa si tira le braci, le quali darebbon noia al vento di mano in mano che le crescono. Avvertisci che, di poi che tu ài fatto la tua fornace con tutta quella diligenzia che io ti ò insegnato, la si debbe ricignere intorno con buone catene di ferro, le quali vorrebbono essere dua almanco: ché una se ne deve mettere al rincontro del fondamento della fornace e l'altra un terzo di braccio lontano dalla detta, per di sopra; e quanto più grosse e più larghe le si fanno tanto meglio operano, perché questa violenzia di questo fuoco si è grandissima, sì come ti può essere per esempio quell'accidente detto nel getto del mio Perseo. La bocca del fornello, dove si mette le legne, bisogna tenerla coperta: il qual coperchio si fa nel modo di una paletta di ferro, di tanta grandezza che cuopra bene la sopradetta buca; ed a questa paletta se gli fa un manico, il qual sia tanto lungo che, avendola a maneggiare volta per volta, rispetto al metter delle legne e molti altri accidenti che accàggiono, il detto manico sia tale che, maneggiandolo, uno non si cuoca. Benissimo si può intendere che di già è messo il metallo dentro; il quale bisogna avere avvertenzia a metterlo in un modo sollevato l'un pezzo dall'altro, acciò che le fiamme più facilmente entrino: la qual cosa causa che molto più presto viene a fare la operazione la virtù del tuo fornello. A vvertisci, benigno lettore, che, se bene io mi ero scordato che fatto che tu ài il tuo fornello con tutte le dette diligenzie, in prima che tu vi metta il tuo metallo ei si debbe ricuocere con ventiquattro ore di fuoco, cioè un giorno ed una notte; perché, non lo ricocendo bene, il metallo non viene alla sua fusione, anzi agghiada e piglia certi fummi dalla terra, i quali impediscono di sorte che chi dessi al metallo fuoco per otto giorni interi non lo struggerebbe. Sl come mi avvenne in Parigi, avendo fatto un piccol fornelletto; e mi fidai di un uomo eccellente, il primo che vi fussi, vecchio di ottanta anni; e, per non aver ben cotto il fornello, usci li detti fwnmi della terra a punto quando il metallo era per fondersi, e tutta la forza del fuoco che si può immaginare al mondo se gli diede. _E, veduto il vecchio maestro che il metallo più presto si agghiadava che egli si scaldassi, questo detto buon uomo venne in tanta maraviglia di travaglio insieme con la grande stracchezza che egli facev9t

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per vincer cotal pugna che, se io non riparavo, e' cascava morto certissimo. Ma io subito feci portare un gran boccale di vino eccellentissimo, si perché l'opera mia non portava il pericolo sopradetto del Perseo e perché io servivo il più mirabil re del mondo, dove non era tenuto conto della meschinità di cotai spese, per grandissime che le fussino; ed al vecchio che piangeva io mescei un gran bicchieri di vino e per amor suo dissi che lo beevo, ed altrettanto subito ne porsi di mia mano a lui e gli dissi: - Mio padre, beete, perché qui è entrato in questo fornello un diavolo, il quale c'impedisce; lasciamolo stare dua giorni tanto che gli verrà a noia, e da poi verremo voi e io qui, e con tre ore di fuoco noi faremo venire questo metallo strutto come burro senza una fatica al mondo. - Questo buon vecchio bevve ed appresso io gli porsi alcune cose piacevoli da mangiare, e questi si erano pasticci fatti con buone vivande con il pepe; e così lo feci raffibbiare quattro volte di quei gran bicchieroni. Questo era uomo grande più che l'ordinario assai ed era amorevolissimo; e, per le carezze che io gli feci e con quella virtù del vino, io lo veddi piangere altrettanto per letizia, sl come gli avevo fatto prima per dolore. Di poi ritornò il determinato giorno, e la terra che aveva ripreso i sua fummi e svaporati, e la fomacetta era stagionatissima e ben cotta: in due ore si fondé millecinquecento libbre di metallo, con il quale io finii di empiere una certa parte che era mancata al mio mezzo tondo della Fontana Beliò. Così dico che si deve cuocer bene il fornello, ed alle bocche dove si mette il metallo si deve fare dua sportelletti di pietra morta, ne' quali sportelli si fa in ciascuno dua buchi larghi un dito e mezzo l'uno e quattro dita lontani l'uno dall'altro, e' quali servono a mettervi una forchetta fatta a proposito di ferro, con la quale, volta per volta che gli è di bisogno, si lieva e pone i detti sportelli. Si deve avvertire che ogni volta che si metta nuovo metallo nella fornace, si debbe tenere in su li sportelli di detta fornace, acciò che e' diventi rosso quasi che sia per colare, e di poi si può mettere tra l'altro metallo dentro nella fornace; perché, chi ve lo mettessi altramente, porteria pericolo di freddare quel metallo prima della fornace, qual saria causa di fare un migliaccio, come si è detto di sopra; in però è di necessità lo averci grande avvertenzia. Io ò visto in Parigi fare da quelli pratichi uomini le più mirabil cose che si possa immaginar al mondo, e con esse alcune volte i maggiori errori, simili a quella lor gran pratica e virtù. E questo avviene perché la pratica serve sino a un certo segno; ma, venendo alcuno strano accidente, non avendo la vera intelligenzia dell'arte, la quale è quella profonda scienzia che lascia da canto la pratica; la qual cosa noi abbiamo mostrata di sopra in quelle occa-

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sioni avvenuteci, dico che io ò visto fondere centomila libbre di metallo con tanta facilità che io stetti maravigliato; però era tutta virtù di pratica: ed una volta in fra le altre, in una cotale infusione, viddi fare un piccolo errore, il quale era facile a rimediare e io ero alla presenzia e stetti a vedere se loro avevano rimedio a tal cosa. Gli vidi tutti abbandonare e gittar via l'opera e la fatica loro, con perdita di molte centinaia di scudi, e volentieri io arei insegnato loro il rimedio; ma l'arroganzia loro è tanto grande che, se eglino non avessino saputo mettere in opera quel mio rimedio, volentieri eglino arebbon detto che io fussi stato la stessa causa di quella gran rovina: in però mi stetti, ed imparai alle loro spese. Sia detto, benigno lettore, de' fornelli e del bronzo a bastanza. Passeremo innanzi con altre diverse invenzioni d'arti. V

PER FAR FIGURE ED INTAGLI ED ALTRE OPERE, COME SONO ANIMALI DIVERSI, IN MARMO ED ALTRE PIETRE

E i marmi bianchi sono di più diverse sorte: e, perché quelli della Grecia sono più orientali e più belli, parleremo prima di questi. Avendo abitato venti anni nella mirabil città di Roma e se bene io attesi all'arte della oreficeria, sempre in quel tempo ebbi volontà di far qualche opera di marmo, e sempre praticavo con sculto-ri i migliori che a quei tempi vivevano; in fra i quali conobbi per il migliore il nostro gran Michelagnolo Buonarroti fiorentino, il quale uomo à meglio lavorato il marmo che tutti gli altri uomini di che mai ci fussi notizia; ed il perché si dirà al suo luogo. Ora per parlare della qualità dei marmi, come prima cominciammo, io ò visto di cinque o più diversità di sorte di marmo: e la prima si è una qualità di marmo con una grana grossissima; la qual grana dimostra certi lustri a canto l'uno all'altro unitamente; e questo marmo è il più difficile a lavorare, perché gli è il più duro, e con gran di.fficultà si può mantenere cose sottilissime, che il ferro non le offenda e stianti; nientedimanco, condotto con la fatica e diligenzia !'opere, le si mostrano bellissime in esso. E così di mano in mano ò trovato assottigliarsi la grana del marmo insino alle cinque sorte sopradette, e questa ultima sorte di marmo io l' ò trovato alquanto più gittarsi allo incarnato che al candido; e di questo io ne ò lavorato, e questo è il più unito, il più bello ed il più gentile che si possa lavorare al mondo.

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BENVENUTO CELLINI VI

DE' MARMI DI CARRARA

I detti marmi ancora loro sono di diverse sorte, le quali sono mesco-late alcune di grossa grana con assai smerigli, e molto macchiati di nero; e questi sono molto difficili da lavorare, perché la sorte delli smerigli che gli ànno in corpo, si mangiano e' ferri d'ogni sorte, che chi per disgrazia s'abbatte a un di questi marmi macchiati, i quali molte volte ingannano altrui per essere la scorza di fuora bellissima, e da poi nel dentro nel marmo si trova le dette magagne; in però in Carrara e nella detta montagna di Carrara vi sono molte diverse cave, in fra le quali il nostro gran Michelagnolo, essendo in persona propia fra le dette cave, con grandissima difficultà e tempo ei ne scelse una, dalla quale ei ne cavò tutte le belle figure che si veggono di sua mano nella sagrestia di Santo Lorenzo, la qual gli fece far papa Clemente. Or sopra questa sorte di marmo intendo ragionare. Avendo io promesso per lo a dreto in tutte le altre arti, di che io ò ragionato, lo avere operato in esse alcune opere notabili, così di questa nobilissima arte, la quale mi pare che sia maravigliosa e bel-la, e veramente ò conosciuto esser la più facile di tutte l'altre; e per cotal cagioni io cercai di scerre di detta arte una opera la più difficile, la qual opera mai per altro uomo in prima si era fatta. E questa si è un Crocifisso di marmo, il quale io mi messi a fare della grandezza d'un uomo vivo, di bella statura, e lo posi in su una croce di marmo nero, pur di Carrara medesimamente, il qual marmo è molto difficile da lavorare, sì per esser duro e molto fragile, che volentieri si stianta. Questa difficile opera io l'avevo destinata per un mio sepulcro e meco medesimo mi scusavo che, se l'opera non mi fussi riuscita in quel bel modo ch'era il mio de-siderio, almanco arei mostro la mia buona volontà. E potette tanto la gran volontà che io avevo di far tal opera insieme con i grandi studi che questi soprafecero le difficultà grandissime che erano in tale opera; di modo ch'io satisfeci di sorte al mondo, ch'io mi contento di non allegare altra opera, se bene ne ò fatto qualcun'altra che questa, quanto al marmo. Volendo condur bene una figura di marmo, l'arte promette che un buon maestro debba fare un modello piccolo di dua palmi il manco ed in quello risolva l'attitudine con la bella invenzione, o vestita o ignuda che l'abbi da essere. Da poi si debbe farla grande a punto quanto la possa uscire del marmo; e, quanto uno desi-deri di farla meglio, si debbe finire il modello grande meglio del

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piccolo; ma, se un fussi cacciato dal tempo o dalla volontà d'un suo patrone che desiderassi avere tale opera presto, e' basterà che il modello grande sia condotto di una bella bozza, perché questo porta poco tempo il far tal bozza e risparmia un gran tempo al lavorare il marmo; ché, se bene molti valentuomini resoluti corrono al marmo con fierezza di ferri, prevalendosi del modellino piccolo con buon disegno, alla fine ei non si trovano poi satisfatti di gran pezzo, si come quando gli ànno fatto il modello grande. E questo si è visto per il nostro Donatello, che fu grandissimo, e poi per il maraviglioso Michelagnolo Buonarroti, il quale à fatto di tutti a dua e' modi, ma, conosciuto non si essere satisfatto di gran lunga al suo buono ingegno con i piccoli modelli, sempre da poi si è messo con grandissima ubbidienzia a fare i modelli grandi quanto gli ànno a uscire del marmo a punto: e questo l'abbiamo visto con gli occhi nostri nella sagrestia di San Lorenzo. E, da poi che uno si sia satisfatto nel sopradetto modello, si debbe pigliare il carbone e disegnare la veduta principale della sua statua di sorte che la sia ben disegnata; perché chi non si risolvessi bene al disegno, talvolta si potria trovare ingannato da' ferri. Ed il miglior modo che si sia mai visto è quello che à usato il gran Michelagnolo: il qual modo si è, di poi che uno à disegnato la veduta principale, si debbe per quella banda cominciare a scoprire con la virtù de' ferri come se uno volessi fare una figura di mezzo rilievo, e così a poco a poco si viene scoprendo. E i ferri da scoprirla sono i migliori alcune subbiette sottili; dico sottilissime le loro punte, e non l'aste, perché l'asta vuole alquanto esser grossetta come il dito piccolo della mana il manco; e con la detta subbia si va appressando a quella che si domanda la penultima pelle a un mezzo dito o manco; e da poi si pigli uno scarpello con una tacca in mezzo, e con questo scarpello la detta opera si conduce insino alla lima (la qual lima si domanda lima raspa, o altrimenti scuffina); e di questa se ne fa di tutte la sorte, le quali si domandano a coltello e mezze tonde, ed altre son fatte come sta il dito grosso della mana, le quali si fanno dua dita larghe, e si viene a diminuire in cinque o sei tanto quanto è una sottil penna da scrivere. Di poi si piglia e' trapani, e' quali si adoperano in mentre che si adopera le lime, salvo che se uno avessi a cavare in qualche difficile sottosquadro di panni, o in qualche attitudine che stessi la figura difficile, dove bisognassi alcuni grossi trapani; e' quali si usano di dua sorte: uno si è quello che gira per virtù d'un coreggiuolo e d'un'asta a traverso bucata, che con questo si conduce ogni grandissima minuzia e sottigliezza cli capelli e cli panni; un'altra sorte di trapano più grosso si domanda trapano a petto, il quale si adopera in quei luoghi dove quel detto primo non può

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operare. Di poi fatto tutte queste diligenzie, delle subbie, delli scarpelli, delle lime e dei trapani (che cosi vien finita la figura), poi si pulisce con pomice, la quale sia bianca, unita e gentile. Non voglio mancare di non avvertire quelli che non sono pratichi al marmo, per quel che la subbia si adopera, confortando che quanto più si può si vadia in là con essa presso alla fine. Questo si è perché la detta sottilissima subbia non introna il marmo, ché non la ficcando per diritto nella pietra l'uomo spicca dal detto marmo tutto quello che e' vuole gentilissimamente; e di poi con lo scarpello a una tacca si viene a unire, e con quella si intraversa come se propio uno avessi a disegnare. E questo è il vero modo che à usato il gran Michelagnolo; perché questi altri che ànno voluto fare altrimenti, come s'è dire cominciando a levare ora in un luogo ed ora in un altro, ritondando la figura, pensando di far più presto, a questi tali è riuscito il far più tardo e manco bene, perché ànno avuto di poi (conosciuto i grandi errori) a rappezzare le lor figure, e non tanto i pezzi, che non ànno potuto rimediare a di grandi errori, sì come si vede in molte figure d'uomini, quali non ànno usato la detta ubbidienzia e pazienzia. Volentieri mi sarei messo a descrivere il modo delle subbie, delli scarpelli e dei trapani, e similmente dei mazzuoli, quali si fanno tutti di ferro stietto e gli altri ferri di acciaio finissimo; ma, per esser tanto noto oggi al mondo il modo dei detti ferri, non mi occorre dirne altro, massimamente essendo in Italia; perché, se io fussi in Francia, io discorrerei d'una sorte cli pietra la quale è molto gentile da lavorare, ed è bianca, ma non candida come i marmi, anzi è un bianco turbido. Questa detta pietra, quando la si cava dalla sua cava, l'è tanto tenera e facile da lavorare che quelli maestri di là, e io essendo là, massime in Parigi, io la viddi lavorare, e similmente ne lavorai con i ferri da legno, salvo che facevano a' detti ferri alcune tacche, le quali mostravano bene l'opera intraversando si come si disegna. Di poi si finiva con ferri delicati ed uniti, cioè gorbie e scarpelli di tutte le sorte; ed in spazio cli tempo questa detta pietra pigliava una durezza quasi come il marmo, massimamente nella superficie della pelle sua. Ma certamente io non ò mai visto pietra che paragoni il marmo quando gli è netto. Gli antichi nostri, che si dilettomo di quelle maggior virtù, premiando li scultori con tanta liberalità che eglino andavano investigando ogni ora le più difficil cose che loro potevano immaginare: e questo si era che eglino lavoravano alcune sorte di pietre verdognole, le quali oggidì l'ò sentite chiamare greche; queste sorte di pietre sono della durezza dell'agate e de' calcidonii. E, perché se n'è viste figure assai grandi, noi non abbiamo potuto immaginare con che modo le si lavorassino; perché, volendo lavorarle con

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il piombo e lo smeriglio, che in questo modo se ne lieva, quando si sono adoperati per pavimenti e cotai cose; ma, volendone fare figure, gli è di necessità che i maestri di quel tempo avessino un segreto di tempera per i lor ferri, con i quali e' lavoravano le dette figure con gran facilità, quanto promette una tanto gran difficil pietra. Un'altra sorte di pietre ci sono, le quali si domandano serpentini e porfidi, delle qual pietre io ne ò viste in Roma figure grandi, ed assai; ma più di porfido che di serpentino, perché il porfido è alquanto più tenero: ed insino a questa età dal dì d'oggi non s'è mai trovato nessuno che lo lavori, salvo che, in questa nostra felice età, un nostro scarpellino intagliatore da Fiesole, domandato Francesco del Tadda. Questo tale con il suo bello ingegno à trovato il modo del lavorare el porfido, e con grandissima pazienzia con certi martelletti fatti aguzzi nel modo di subbie e con altri scarpelletti pur fatti con sue tempere. Questo detto uomo à condotto parecchi teste di porfido sopradetto, tanto ben finite quanto le facessero gli antichi; e, se gli avessi auto più forza di disegno, egli arebbe fatto figure grandi maggior che il naturale: basta che e' si debbe lodare per essere lui stato il primo nei moderni, che è causa di dare animo a quelli che aranno volontà di far tal cosa si a' principi come agli artisti. Un'altra sorte di pietre ci aviamo, la qual si domanda granito. Questo è alquanto più tenero che il porfido; e di questo granito ce n'è di dua sorte; uno è rosso, che viene d'Oriente; l'altro è bianco e nero: questo ancora è difficile a lavorare, e di questo bianco e nero ne aviamo la cava nell'Elba, ed è della sorte che è la colonna a Santa Trinità, la qual venne di Roma. Questa pietra ancora è durabile e bella, ma a' nostri dì non se n'è usato far figure. Non voglio lasciare indreto certe pietre che noi aviamo qui vicino a Firenze, le quali sono a Fiesole, a Settignano ed in altri luoghi. Di questa sorte di pietre ce n'è una di colore azzurro, la quale è molto delicata, e piacevole da lavorare e da vedere; ed i paesani la domandano pietra serena. Di questa se n'è fatte colonne grandi, perché si trova gran saldezza nella sua cava, ed ancora se n'è fatte delle figure; ma, mettendo questa sorta di pietre allo scoperto, l'è bella e non durabile. Un'altra sorte di pietre, la quale è pietra morta veramente ed è di colore tanè, questa sorte di pietra è dolce da lavorare e se n'è fatte delle figure, e questa resiste a tutte le ingiurie dell'aria e del tempo, a tal che l'è durabile. Un'altra sorte di pietre (questa è del medesimo color tanè), quale è domandata pietra forte, e veramente l'è forte, perché l'è dura da lavorare; e di questa se n'è fatte figure, anne, maschere e molt'altre cose. Di questa pietra non si trova troppo gran saldezza, sl come è di quella da Fiesole e di quella di Settignano.

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Io ò parlato di queste tre sorte di pietre, perché di queste s'è usato fare delle figure; e perché dell'altre pietre che sono in su lo Stato di Firenze, le quali sono di bellissimi misti, e duri e teneri; ma, poiché non se n'è usato far figure, non ne dirò altro. VII

PER RAGIONARE DEI COLOSSI MEZZANI E GRANDI

Benignissimo lettore, perché io ò promesso di tutte le cose che io ragiono mostrarlo per l'autorità di mia opere fatte, cosi volendo ragionare d'una opera la più difficile e la mirabile di tutte le passate, in però ò fatto questo poco della digressione per dar causa a quelli che leggeranno che debbino considerarla bene; e questa opera si è il fare i gran colossi, dei quali io ne ò visti assai; dico colossi, ma non grandi, perché ogni volta che una statua passa tre volte la grandezza di un uomo vivo, questo si può domandare colos. E ben dico di questa sorte averne visti assai, e antichi e moderni. Solo ò visto uno de' grandi in Roma, quale era in di molti pezzi, e viddi la testa, e piedi e parte di gambe, ed altre sue gran parti di membra. Avendo misurato la sua testa, essendo ritta, senza il suo collo ed accostatomi a essa, la detta mi arrivava sino a' capezzoli delle poppe, la qual misura si è più di dua braccia e mezzo fiorentine: ché la detta statua veniva da essere venti braccia in circa. Essendo io al servizio del gran re Francesco re di Francia, quale andai a servirlo nel millecinquecentoquaranta a punto; in mentre che io gli facevo le tante diverse opere che per lo a dietro si sono dette, conosciuto quel suo maraviglioso animo e tanto ei dilettarsi delle più rare virtù per esser questa cosa ne' moderni nuova e non mai più fatta, io gli feci un modello d'una fonte, la quale si era Fontana Beliò, qual vuol dire fontana di bella acqua. Questo modello era di forma quadra, ed in mezzo a questa gran forma quadra ci era un sodo pur di forma quadra, il quale appariva di sopra l'acqua per l'altezza di quattro braccia, e questo imbasamento era riccamente lavorato di molte piacevolissime opere, a proposito delle imprese del re e della fonte. Ed in su questo imbasamento era fatto una figura, la quale dimostrava esser fatta per uno dio Marte, ed in su i quattro cantoni della fonte avevo fatto quattro figure a proposito e appropiate tutte a sua maestà. Quando io le mostrai al re erano le misure piccole; ché, tirandole a braccia grande, la principal figura veniva a essere della grandezza di quaranta braccia in circa, l'altre figure d'in sui canti erano assai minori. E vedendo questo tal modello sua maestà, avendolo assai considerato con grandissima sua satisfazione, mi domandò della prima figura.

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Per la quale io gli dissi, quella esser fatta per un dio Marte, il quale io appropiavo a sua maestà. Appresso mi domandò delle altre figure: il perché io gli dissi che quelle quattro figure erano le quattro gran virtù di che lui tanto si dilettava; e la prima era la sopradetta, che venivano a essere cinque. La qual prima si era fatta per la virtù dell'Arme; quest'altra di questo canto è per la virtù delle Lettere di tutte le sorte; quest'altra terza figura si è figurata per la Scultura, Pittura ed Architettura; la quarta figura è fatta per dimostrar la Musica con tutte le sorte d'armonie musicali; la quinta figura dimostrava esser fatta per la Liberalità, la quale è causa di far nascere le sopradette virtù e di poi nutrirle: e questa cognoscevo essere grandissima in sua maestà. E sua maestà mi dette subito ordine che io mettessi in opera, e con grandissime accoglienzie e con grande abbundanzia d'ogni cosa, tale e tanta che subito cominciai. Avevo di già fatto il piccol modello sopradetto con un grandissimo studio. Volendo farlo di quella grandezza che aveva da essere il gran colos, non mi parendo possibile il poter ricrescere da braccia piccole a braccia grande che fussi venuta con buona regola per quella bella proporzione che in quel piccolo si vedeva, io mi risolsi di farlo grande di tre braccia a punto, la qual misura si è d'un uomo vivo di bella taglia; e così messi mano, e lo feci di gesso, acciò che meglio ei potessi resistere alla fatica che se gli aveva a dare per il tanto misurare. E, avendo fatto la sua annadura di ferro, subito io messi il gesso sopra a essa, e lo finii benissimo con più studio ancora che io non avevo fatto il piccolo. E sappi, benigno lettore, che tutti e' buoni maestri tutti ritraggono il vivo, ma la consiste in avere un bel1'iudizio di sapere il bel vivo mettere in opera, e saper cognoscere fra i bei vivi il più bello, e vederne assai, e da tutti pigliare quelle più belle parti che si veggono in essi, e di quelle da poi fame una bella composizione tutta ristretta in quell'opera che tu vuoi fare. Da poi si vede l 'opere di quei maestri, in fra le quali si conosce quelli che ànno buona maniera, cioè graziosa e ubbidiente all'arte: e questi sono rari. E, per avere io tanta commodità da quel liberalissimo re Francesco, io condussi questo mio modello di tre braccia con tanto studio e con tanta mia satisfazione che mostrandolo ei piacque a quei che sapevano assai. E, se bene l'arte è infinita ed uno quanto più opera con grande studio, tanto manco si contenta degli altri; ma perché gli è bene il cavar le mane delle opere, cosi mi contentai e messimi in ordine per voler ricrescerlo con virtuosa regola alla grandezza delle quaranta braccia: il qual modo io tenni cosi.

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BENVENUTO CELLINI VIII

SEGRETO PER FARE I GRAN COLOSSI

Primieramente compartii in quaranta braccia piccole il detto modello, che di tre braccia divenne partito in quaranta, e il braccio io partii in ventiquattro parte. E conosciuto da poi che a quella grandezza che io l'avevo a ridurre, questa regola sola non mi arebbe servito, io trovai un'altra regola con questa, la quale fu fatta da me propio, né mai intesa da altri, nata da' mia grandi studi: cosi l'insegno, come liberale, a quegli che aranno voglia di far bene. Ora la regola è questa. Presi quattro legni quadri della grossezza di tre dita per ogni verso, i quali erano dirittissimi, e ben lavorati piani, ed erano dell'altezza a punto della mia figura. Li detti quattro legni erano fitti in terra, dirittissimi per archipenzolo, ed erano discosto dalla figura tanto quanto un uomo poteva entrar drento in nella manica, la quale era soppannata e vestita d'asse dirittissime, e lasciatovi per didreto un poco di uscetto da entrare in essa. Cominciai a misurare ed in una mia lunga stanza in terra disegnai un proffilo di tutte le dette quaranta braccia; e, veduto che la regola mi riusciva graziosissima e giusta, messi mano a fare un'armadura della grandezza di tre braccia, la quale io traevo dal detto modello. E questa armadura era tessuta tutta di legni che si giravano intorno a un dirittissimo stile, che serviva per la gamba manca in su la quale la mia figura posava. Cosi andava tessendo la detta annadura, pigliando le misure dalla manica al corpo della figura, dandogli quel vantaggio che io volevo che servissi per carne di vestire detta armadura, cioè ossatura della detta figura. E, fatto questo, subito mi messi a dirizzare uno stile grande nel mio cortile del mio castello, nel mezzo appunto; il quale stile usciva fuor della basa quaranta braccia; e da poi feci gli altri quattro stili intorno, sì come io avevo fatto al modello, e gli vestii d'asse con la medesima diligenzia che avevo fatto il piccolo. Di poi cominciai a tessere la mia ossatura con le medesime misure sopradette, pigliando sempre dalla ossatura piccola, ricrescendole da braccia piccole a braccia grande, sempre pigliando le misure dalle pariete intorno della manica al corpo della mia figura ed al tutto il dinanzi, e similmente a tutto el didreto, sempre per la distanzia delle dette pariete; e ancora riscontravo per lo intorno e trovavo che, sendomi fidato di ricrescere da braccia piccole a braccia grande, solamente per misurare la figura piccola e grande mi sarebbe venuti di grandi inconvenienti, che per questo altro modo non ne venne nessuno, anzi venne fatta bene a proporzione come era la piccola. E, perché la mia figura posava in su

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IIOI

il piè manco ed il piè ritto era levato, il qual posava in su '1 suo cimiere, o per dir meglio elmetto, la detta ossatura era accornmodata che si entrava per detto elmetto e per il piè manco, e con facilità si saliva insino drento alla testa; e da poi che io ebbi finito la detta ossatura, cominciai a metter di sopra la carne, quale era gesso, e con la medesima regola s'andò finendo in breve tempo. E, quando io l'ebbi posto e condotto alla penultima pelle, io feci aprire la parte dinanzi della manica, in che io l'avevo rinchiuso, e da poi mi scostai per lo spazio di più di quaranta braccia, che tanto per quella parte era largo il mio cortile: e viddi tanta satisfazione in molti virtuosi che lo vennono a vedere, e maggiormente in me medesimo, perché vi avevo durato le più estreme fatiche: e la mia maggior satisfazione si fu che da quel piccolo a quel grandissimo io non vi veddi cosa nessuna che, per minuta che la fusse, che mi desse alterazione. E con questa sopradetta regola io feci lavorare la maggior parte a manovali e uomini fuor della professione, i quali non sapevano nulla quel che si facevano; ma quella virtuosa regola, usata con pazienzia e con diligenzia, se ben loro ignoranti dell'arte, quella gli guida di sorte che le mane di un Michelagnolo non ne fariano più. Il perché si è che i muscoli sono di tanta smisurata grandezza ed il giudizio di chi opera non si può istendere a pena dua volte quanto un uomo è lungo: perché, accostando con la lunghezza d'un braccio che l'uomo mette su la materia per far la figura, non si vede nulla; e discostandosi poi, se bene si vede qualche poco di qualche cosa, la non è abbastante a rimediare alli grandi inconvenienti che si fanno; di modo che senza questa regola e senza i detti modi non è possibile condur mai un gran colos, che possa star bene. E, se bene tanti che se ne sono fatti di dieci braccia in circa, tutti si veggono macchiati di qualche errore, si che dalle sei braccia in sù io non penso che si possa far bene senza la detta regola, e potria bene essere che, si come questa è trovata da me, e' venissi qualche altro migliore ingegno del mio, il quale ne patria trovar forse una migliore; in però gli è facile aggiugnere alle cose fatte. Venendo da poi il re a Parigi e perché sempre egli si posava al dirimpetto al castello che sua maestà mi aveva donato, e ci era il fiume della Senna in mezzo (il qual castello si domanda il Logro ed il mio si domanda il Piccol N elio), talché passato la Senna io andai a visitare sua maestà, il qual mi fece gran carezze, da poi mi domandò se io avevo qualche cosa di bello da mostrargli. Io risposi a sua maestà che di bellezza io non ero certo, ma si bene l' opere che io avevo fatto erano con grandissimo studio e con tutta amorevolezza che richiede una cotale nobilissima arte, non punto oppresso da avarizia, la quale è causa di far le opere men belle. A que-

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ste parole ei disse che io dicevo il vero: e l'altro giorno appresso venne a casa mia; e, da poi che io gli ebbi mostro molte opere, io lo feci venire in nel cortil mio, mettendolo a quella veduta che richiedeva la mia grande statua: il qual con tanta pazienzia e virtù m'ubbidì che mai viddi altro principe, di tanti che io ne ò serviti, più amator delle virtù di quello. Da poi, in mentre che io ragionavo con sua maestà, ordinai a Ascanio, mio allevato, che facessi cadere la tenda; e, subito caduto la tenda, il re alzò le mani amendua, e disse in mia lode le più onorate parole che mai sciogliesse lingua umana. Di poi voltosi a monsignor d' Aniballe, disse: - lo vi comando, per mia ultima parola, che la prima buona pezza di badia che vaca si dia al nostro Benvenuto, perché non voglio che il mio regno si privi di un uomo tale. - Alle qual parole io feci quelle reverenzie umilmente ringraziandolo: e così satisfatto si ritornò al suo castello. Conosciuto quanto le mie fatiche erano piaciute a quel gran re, mi crebbe tanto gagliardissimo animo che io mi messi a maggior fatiche ed operai più della metà che io non avevo sì maggiormente delle fatiche. Così presi trenta libbre d'argento di mia danari, e queste detti a dua miei lavoranti con disegni e modelli, dei quali se ne fece dua vasi grandi. E, perché le guerre erano grandissime, io non gli arei domandato denari; ché ne restavo d'avere di più di sei mesi di mia provisioni. Cosi attesi sollecitissimamente a tirare innanzi i dua gran vasi, e' quali in un mese gli ebbi finiti e con essi me ne andai a trovare sua maestà, il quale era a una città vicina al mare, che si domandava Argentana. E, presentato a sua maestà li dua vasi, ei mi fece gran carezze, e mi disse: - State di buon cuore, Benvenuto mio, ché io sono uomo per premiare le vostre fatiche meglio e più volentieri che tutti gli uomini del mondo. - A questo io risposi a sua maestà che le maggior fatiche che io avevo durato mai, da poi che io conoscevo esser uomo, era stato il trovar la regola, di poi metterla in opera al gran colos, e così la lddio grazia mi era riuscita a molta mia satisfazione: ché ora bisognava pensare a formarlo di più di cento pezzi, e quelli commettere da poi insieme con code di rondine; la qual cosa non mi saria molto difficile, avendo prima fatto e ben trovato una ossatura di ferro, dove io potessi accommodare su quei pezzi che io gitterei del colos, cominciandomi da' piedi, ed a pezzo a pezzo le commetterei sino alla testa. Solo m'era difficile alquanto il condurre e mettere insieme la detta armadura di ferro, la quale io mi vantavo di fare, osservando la medesima regola che io avevo fatta a quella prima di legno; in però mi bisognava porre i primi stili della detta ossatura e armadura in su il proprio luogo dove aveva a essere la sua residenzia, qual luogo era Fontana

TRATTATO DELLA SCULTURA

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Beliò, dove mi bisognava essere accommodato di grande stanze da potere mettere insieme una cosl grande opera. A questo mi rispose sua maestà che, quando io non avessi altre stanze a mio proposito, che mi darebbe la sua propria camera, tanto aveva desiderio che una tal opera si finissi. Sì che pertanto io potevo star di buon coraggio e con lieta cera. Mi disse che io me ne tornassi a Parigi a far buona cera. E, perché quei dua gran vasi erano in su la tavola dinanzi a sua maestà, e' quali continuamente egli toccava e lodava, io lo pregai che, per esser tempo da riposarsi mediante le gran guerre, io chiedevo licenzia per quattro mesi per poter venirmene insino in Italia a rivedere la mia patria, e li mia parenti ed amici. A queste parole sua maestà subito divenne in aspetto cruccioso, e mi si volse dicendo: - Io voglio che voi mi doriate questi dua vasi tutti da imo a sommo d'oro matto. - E queste parole stesse replicò dua volte, e subito si levò da tavola, e non mi disse altro. L'oro matto volse dire dua cose: la prima dimostra che mi volse dir che io era matto a dimandar cotal licenzia; l'altra si è che si dice oro matto quando ei si lascia l'oro senza brunire. Levato che fu sua maestà e ritiratosi, io pregai il cardinal di Ferrara (il quale aveva commessione da sua maestà di tener conto di me); cosl pregai che mi facessi aver licenzia. Ei disse che io me ne andassi a Parigi e che mi farebbe intendere quel che io avessi a fare. In capo di quindici giorni ei mi fece intendere per un suo ministro che io potevo andare, ma che io ritornassi il più presto che io potevo. Cosl, laudato lddio, mi partii di là. Del mio castello non mossi nulla al mondo di quello che io vi avevo; le qual robe erano, oltra le gran masserizie di casa, argento e oro, di vasetti bozzati ed altre opere, le quale erano fatte fuor dell'obbrigo che io avevo con sua maestà. Queste avevo fatte con e' mia lavoranti, pagati di mio. Appresso tutte le grand'opere rietroscritte fatte a sua maestà, sua maestà me l'aveva egli stesso pregiate, il qual pregio passava più di sedicimila scudi ; di modo che io mi pensavo che, per non aver mosso nulla e per essere creditore di tanto tesoro, ritornare tanto più presto. E così me ne venni in Italia; e giunto in Firenze, patria mia, andai al Poggio a Caiano a baciar le mane al granduca Cosimo, il qual mi fece grandissime carezze. Di poi dua giorni appresso mi comandò che io gli facessi un modelletto d'un Perseo; la qual cosa mi fu gratissima che sua eccellenza mi comandassi. El detto modello io l'ebbi fatto in dua mesi. Quando sua eccellenza lo vedde, oltre al piacergli grandemente, mi disse, presente una quantità di signori: - Se a te dessi il cuore di farlo grande di questa bontà che tu l'ài condotto piccolo, questa sarebbe la più bella opera che fussi in piazza. - Alle quali onorate paro-

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le, io risposi: - Signor mio, in piazza si è l'opere di Donatello e del gran Michelagnolo, i quali sono quei dua uomini che ànno superato gli antichi, e coteste son lor opere bellissime. Quanto a me, e' mi dà el cuore di fare l'opera mia, cioè Perseo, di cinque braccia meglio che non è il modello. - A questo le dispute fumo grandi. E, perché le guerre seguivano ancora grandissime nella Francia, io mi credetti aver tanto agio che io gittassi una delle due figure almanco. In però sentendosi in Francia che io lavoravo in Firenze per il granduca Cosimo, sua maestà l'ebbe tanto per male che gli usò dire: - Io dissi bene a Benvenuto che gli era matto. - Dove che il cardinal di Ferrara, trovandosi alla presenzia, usò far male ufizio per me; al qual male ufizio il re disse che mai più mi chiamerebbe. Questo tutto mi fu scritto da parte di sua maestà. Alle qual parole io risposi che a me rincresceva solo a avere a lasciare imperfetta una tanto grande opera, ma che io non ero mai per andare dove io non ero chiamato. E così, con gran carezze che mi faceva sua eccellenza, attendevo a tirare innanzi il Perseo. Ed in ispazio di tempo, che furono parecchi mesi, il re si risentì, e ragionando con il cardinal di Ferrara gli disse che lui aveva fatto un grande errore a lasciarmi partire. Il cardinal rispose che gli bastava la vista subito di farmi tornare. A questo il re disse che l'ufizio suo era il non mi lasciar partire. E voltasi subito a uno de' sua tesaurieri, il qual si chiamava messer Giuliano Buonaccorsi nostro fiorentino, disse: - Rimettete a Benvenuto settemila scudi, e ditegli che se ne torni a finire il suo gran colos e che io lo contenterò. - Il detto tesauriere mi scrisse tutto il contenuto che aveva detto sua maestà, ma non mi rimesse denari, dicendo che alla risposta mia subito si darebbe ordine. Alle qual cose io risposi esser paratissimo e contento. In mentre che si negoziava innanzi e indreto, quel buon re passò di questa vita; onde io restai privo della gloria della mia grande opera e del premio di tutte le mie fatiche e di tutto quello che io vi avevo lasciato; e mi attesi a finire il mio Perseo.

SOPRA L'ARTE DEL DISEGNO

II

disegnare si fa con il carbone e con la biacca, altrimenti con la penna stietta, intersegando l'una linea sopra l'altra; e dove si vuol fare scuro si soprappone più linee e dove manco scuro con manco linee, tanto che e' si viene a lasciar la carta bianca per e' lumi. Il qual modo di disegnare si è difficilissimo, e sono pochissimi quei che ànno disegnato ben di penna. E questo disegnar così fatto è stato causa al fare gli intagli col bulino in sul rame, si come oggi si vede per tante stampe che vanno per el mondo; in fra le quali le meglio fatte che si sieno mai viste, cioè le meglio intagliate, sono state quelle di Alberto Duro di Germania. Altrimenti si disegna avendo fatto li dintorni con la detta penna, di poi si piglia i pennelli come i dipintori, facendo lo inchiostro bianco con l'acqua ed a poco a poco crescendoli il colore, a tale che nelle profondità, cioè nelle parti più scure, si adopera lo inchiostro puro stesso. Questo è ancora bellissimo modo di disegnare. Altro modo si è usato in su e' fogli tinti di tutti e' colori, con alcune pietre nere, domandate matite. Con queste si è disegnato, dando poi di biacca per dare i lumi, la qual biacca si è data in questo modo. Alcune volte si è fatto pastelli grossi quanto una penna da scrivere, i quali si fanno di biacca con un poco di gomma arabica. Altrimenti si disegna con una pietra rossa e nera, la quale viene di ponente; questa s 1 è trovata a' tempi nostri, il nome suo si domanda lapis amatita. Questo modo di disegnare è bellissimo ed utile sopramodo e meglio che tutti gli altri. Se ne servono i buoni disegnatori per ritrarre dal vivo, perché nel fare il buon iudizio di quel che bisogna, avendo posto una gamba o un braccio, così la testa e gli altri membri, e conoscendo per muoverlo più alto o più basso, tirandogli innanzi o indietro per dar più grazia alla sua figura, questa detta amatita con un poco di midolla di pane facilmente si cancella, di modo che questo è stato approvato. Perché i buon maestri che vogliono studiosamente disegnare, questo dicono essere il miglior modo di tutti gli altri. Il vero disegno non è altra cosa che l'ombra del rilievo, di modo che il rilievo viene a essere il padre di tutti e' disegni; e quella tanto mirabile e bella pittura si è un disegno colorito con i propri colori che dimostra la natura. In però si dipinge in dua modi: l'uno è quello che immita con tutti i colori quel che la stessa natura dimostra; l'altro si è quello che si domanda dipingere di chiaro e scuro, il qual modo risuscitò in Roma a' nostri tempi dua giovani da bene gran disegnatori, che uno si chiamò Pulidoro e l'altro Matturino. Questi feciono tante infinite opere in Roma di chiaro e di scuro, non si volendo

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mai sottomettere a nessuna sorte di altri colori. Gli è ben vero che, per compiacere alla richiesta di alcuni lor cari amici, ei dipinsono con i colori, come fanno gli altri pittori; dove si vede alcune opere di loro in Roma ed in Napoli. Ma non sono di quella grande eccellenzia di gran lunga che era il lor far di chiaro e di scuro. Questi fumo grandissimi pratici e valenti uomini, e per poco prezzo conducevano grandissime opere, né mai si è trovato da quel tempo in qua, che fu negli anni di papa Lione, Adriano e Clemente, maestri che a gran lunga s'appressino a cotal bella maniera che essi avevano. Sono stati molti pittori, e' quali non tanto ànno immitato il modo che quei facevano, ma ànno messo in opera e copiate quelle gloriose fatiche, né manco si sono appressati a quel bel modo di Pulidoro e Matturino. Tornando a proposito della virtù del disegno, dico avere veduto fare e fatto nella forza de' grandi studi per vedere iustamente le virtù degli scorci. Noi pigliavamo un uomo giovane di bella fatta, di poi in una camera, dove fussi imbiancato, posto il detto giovane a sedere o ritto con diverse attitudini, con le quali noi potessimo vedere e' più difficili scorci; da poi messogli un lume a ragione didietro non troppo alto, né basso, né troppo discosto da lui, lo mettevamo con quella discrezione che ci mostrava il più bello ed il più vero. E veduto quell'ombra che esso faceva nel muro, facendolo star fermo, prestamente si proffilava la detta ombra; da poi facilmente si faceva passare alcune linee, le quali non mostrava r ombra, perché nella grossezza del braccio alcune pieghe che sono nella piegatura del gomito, così nella spalla drento e fuora, cosi nella testa, in alcune parte del corpo, nelle gambe, nelli piedi e nelle mani non si possono vedere. Adunque questo modo del disegnare è quello che ànno usato i miglior maestri, con il qual si fa la mirabil pittura: e fra i migliori pittori che noi aviamo mai conosciuti, Michelagnolo Buonarroti, nostro fiorentino, è stato il maggiore. E non per altra cosa è stato quel gran pittore che io dico, solo per essere il maggiore scultore di che noi aviamo avuto notizia: e le maggior lode che si dà a una bella pittura e' se gli dice: - La par propiamente di rilievo. - Adunque il rilievo è il vero padre della scultura, e la pittura è un de' sua figliuoli. La pittura è una parte delle otto parti principali a che è obbligata la scultura. E questo interviene che, volendo fare un ignudo di scultura o qualsivoglia altra figura vestita o in altro modo (ma sol voglio ragionare dello ignudo, perché sempre si fanno prima ignudi e poi si vestono), e' piglia un valentuomo terra o cera, e comincia a imporre una sua graziata figura; dico graziata perché, cominciando alle vedute dinanzi, prima che ei si risolva, molte volte alza, abbassa, tira innanzi e indietro, svolge e dirizza tutti e' membri della sua d_etta figura.

SOPRA L'ARTE DEL DISEGNO

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E da poi che quella prima veduta dinanzi ei se n'è satisfatto, quando ei volge poi la sua figura per canto (che è una delle quattro vedute principali), il più delle volte si vede tornar l'opera con molto minor grazia, di modo che gli è sforzato a guastar di quella bella veduta che ei si era resoluto, per accordarla con questa nuova veduta: e così tutte e quattro, ogni volta che ei le volge, gli danno queste dette difficultà. Le quali non tanto otto vedute le sono più di quaranta, perché un dito solo che un volge la sua figura, un muscolo si mostra troppo o poco, talché si vede le maggior varietà che immaginar si possa al mondo ; cli modo che gli è di necessità di levar di quella bella grazia di quella prima veduta per accordarsi con tutte !'altre prestandole allo intorno: la qual cosa è tanta e tale che mai si vidde figura nissuna che facessi bene per tutti e' versi. Ancora si è visto e vede che un pittore valente uomo come era il detto Michelagnolo conduceva un ignudo grande quanto il vivo di pittura con tutti quelli studi e quelle virtù che in esso poteva operare. Il più tempo che e' vi mettessi si era una settimana, ché molte volte io viddi dalla mattina alla sera aver fatto un ignudo finito con tutta quella diligenzia che promette l'arte; ma io non mi voglio ristringere a sì breve tempo, perché sono certi furori che negli uomini sua pari virtuosissimi qualche volta gli avvenivano; ma basta che in una settimana si sbrigava d'un ignudo o vestito, con gran sua satisfazione e avendovi messi quelli studi che promette la grande arte; per la qual cosa volendo fare una figura di marmo, per la difficultà delle vedute e della materia, non mai la faceva in manco di sei mesi. E altrettanto dico del gran Donatello, che gli fu maestro, il quale non ebbe mai uomo che l'aggiungessi di graziosità d'arte: e similmente il detto Donatello dipinse bene, solo per virtù della scultura. Tornando al gran Michelagnolo, gli à fatto più figure di pittura per ogni un mille che ei non à fatto cli scultura; per essere la pittura tanto più facile, per non essere obbligata alla difficultà delle tante vedute: di modo che io cognosco che, volendo parlarne onestamente, dico essere venti volte maggiore e più degna la scultura della pittura. E quelli uomini che ànno altre volte scritto in lode della pittura, talvolta si sono dimenticati di non essere loro stessi cli scultura; e come uomini dipinti, e non di rilievo, ànno parlato. Siene detto assai: ed i benigni virtuosi mi abbino per scuso, perché, essendo nato di rilievo, io sono necessitato a inalzarlo più e lodarlo per essere cosa più mirabile di tutte l'altre.

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L'architettura si è arte all'uomo di grandissima necessità, si come sua vesta e armadura, e ancora per i bei suoi ornamenti la diviene cosa mirabile e perché ancora essa è figliuola seconda della grande scultura: di modo che quelli che saranno grandi scultori, tanto con maggiore ragione faranno utile e bella l'architettura. Gli è bene il vero che l'è tanto più facile della pittura quanto è differente la detta pittura dalla sua gran madre scultura. E, che sia il vero di questa sua facilità, io non voglio ascondere al mondo, né mi voglio ritenere di non dire che e' sono stati alcuni fuor della professione del disegno, e, sentendosi inclinati a questa degna arte dell'architettura, ei si sono messi a operare di essa, e con buona lor fortuna da gran signori sono stati messi in opera. E per mostrare che questo è il vero, al tempo del duca Ercole, duca di Ferrara, nel millecinquecentotrentacinque, si risenti in Ferrara un suo vassallo, il quale era merciaio e l'arte sua propia si era il fare bottoni moreschi e cotai cose appartenenti alla merceria. E, sì come io dico, sentendosi chiamare da questa arte, e con il leggere e con l'operare qualche poco in disegno mostrandosi all'eccellenza del duca, e sua eccellenza amatore delle virtù volentieri lo messe in opera, dandogli grandissimo animo. Per la qual cosa fu tale e tanto che e' si vede dell'opere sue assai, il detto venne in tanto ardire che ei si accomodò di un nome, con il quale lui continuamente si faceva chiamare. Il nome che lui si faceva chiamare si era maestro Terzo. Essendo domandato perché si faceva domandare maestro Terzo, disse, non aver conosciuto in fra i moderni il maggiore architetto di maestro Bramante, e per il secondo maestro Antonio da Sangallo; tal che lui veniva a essere il terzo. Così ò conosciuto molti altri uomini di bassa arte, i quali si sono dati alla architettura e di quella ànno dimostro qualche cosa. E questo avviene perché l'arte è piacevolissima, sì come seconda figliuola della sopradetta scultura, di modo che la viene a essere la terza arte. Noi troviamo altrimenti che non disse maestro Terzo; perché, da poi che la fu smarrita dagli antichi quella vera e bellissima maniera fatta da quei maggiori scultori virtuosi, corse per il mondo una maniera di Todeschi, sì come si vede per tutta la Italia, non tanto la Francia e la Spagna e la Germania; ed in Firenze, mia patria, si edificò per le mani di costoro il nostro gran tempio di Santa Reparata, principal duomo della città, nel quale si è speso presso a dua milioni d'oro: di sorte che, avendo a coprire con la sua gran tribuna il detto duomo, in questo tempo si era cominciato a risentire

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nella detta città alcun bello ingegno, e' quali abborrivano a quella secca maniera tedesca: ed il primo, che si destassi con virtuosissimo ardire, si fu un nostro eccellente scultore, il quale si domandava per nome Pippo di ser Brunellesco. E, sì come gli aveva la bella maniera nello scolpire, cosi piacevolmente cominciò a mostrare a quegli uomini, che erano operai in quel tempo di tal gran macchina, come quella maniera non era secondo il bel modo degli antichi, anzi era cosa barbara e discosto da ogni buona regola: di modo che questi uomini da bene gli dettono animo e fecionlo operare; e con i belli sua modelli invaghì tanto quei nobilissimi cittadini che subito lo messero in opera: qual fu causa di fare quella bellissima tribuna al tempio, che oggi si vede. E appresso a questa con i sua modelli si edificò San Lorenzo e Santo Spirito ed il tempio di Pippo Spana, il quale è cosa maravigliosissima ma fu lasciato imperfetto. Questo fu il primo architetto dagli antichi in qua e, sì come io dico, era eccellente scultore. Da poi si destò Bramante, il quale era assai buon pittore. Questo uomo fu messo in opera da papa Giulio secondo nel millecinquecento. Il detto papa Giulio gli dette grandissima e bellissima occasione, perché gli fece dar principio a una gran muraglia, la quale ancora oggi si vede in essere, a Belvedere di Roma. Ancora messe mano nella gran chiesa di San Piero con tanta bella maniera degli antichi, sì per esser lui pittore e sì per vedere e cognoscere le belle cose, che ancor si veggono, degli antichi, benché gran parte rovinate. Questo uomo veramente fu il secondo, che aperse gli occhi al vero bello della architettura. Venendo a morte e non avendo possuto finire la sua bella tribuna di San Piero, se bene aveva gittato tutti gli archi, e per non si vedere resoluto modello di detta tribuna, e avendosi fatto un discepolo, il quale era divenuto valentissimo uomo ; e questo si fu maestro Antonio da Sangallo nostro fiorentino. Ma per non essere stato né scultore, né pittore, anzi maestro di legname solamente, però non si vidde mai di lui nelle sue opere di architettura una certa nobil virtù, come s'è vista nel nostro vero Terzo, qual si può domandare primo di tutti, Michelagnolo Buonarroti, al quale fu dato ordine di far la tribuna di San Piero. E così, messo mano con quella forza della sua mirabile scultura, racconciò parecchi cose del gran Bramante e assai di maestro Antonio detto con un tanto virtuoso modo che per essere l'arte dell'architettura, sì come io ò detto di sopra, la terza arte, questo detto uomo l'à tanto maravigliosamente agitata e messa in opera che, non tanto che gli abbia trapassato tutti quei grandi uomini moderni che io ò detto, ancora le virtù sua mostrano che gli à trapassato gli antichi~ Perché l'architettura richiede tre parti, le quali sono queste: La infinita bellezza, che chiami gli occhi degli uomini a vedere, anzi

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gli sforzi. La seconda, che la dimostri che cosa ell'è senza averne a domandare, con le sue commodità che si appartiene a un tempio o a un palazzo o anfiteatro o fortezze o città e cotai cose, che ce ne saria assai da dire. La terza si è che la sia fatta con arte e con quella vera regola che si appartiene ai tre principali ordini datici dagli antichi, e, quali antichi ancora ne aggiunsono un altro, il quale si domandò composito, cioè fatto un mescuglio o vero una composizione virtuosamente dell'ordine dorico, ionico e corinzio. Questo nostro Michelagnolo quasi in tutte le sue opere si è servito di quel quarto ordine, cioè il composito; il qual ordine si è veramente fatto da lui stesso differente da tutti gli altri degli antichi; e questo si è tanto bello, tanto commodo e tanto utile quanto immaginar si possa al mondo: di modo che questo è stato il maggiore architetto che fussi mai, solo perché gli è stato il maggiore scultore ed il maggiore pittore. Già Liombatista degli Alberti nostro fiorentino scrisse degli ordini della architettura, dati dal mirabile e studioso Vitruvio ingegnosissimamente e discretamente, non levando nulla dalli belli ordini dati dal detto Vitruvio, ma sì bene accrebbe di molte belle ed utilissime cose di più che non aveva detto Vitruvio, le quali sono veramente mirabili: ed uno che vuol fare professione d'architettura, gli è di necessità il vederle; in però vegga il libro del detto Leombatista che lo troverrà utilissimo e bello. Di poi si è scoperto il magnifico messere Daniello Barbaro, patriarca d' Aquilea. Questo nobilissimo e virtuosissimo gentiluomo à comentato Vitruvio con tanta virtuosa ubbidienzia che, tutte le cose difficili che a molti si trovavano oscure, questo col suo virtuoso ingegno l'à mostre chiare ed aperte, e non à atteso ad altro se non a comentare puramente Vitruvio e scoprirci le belle ed ammirabil sue fatiche in questo nostro idioma. Baldassarre da Siena, eccellentissimo pittore, cercò della bella maniera della architettura e, per meglio chiarirsi qual fussi la migliore, si sottomesse a ritrarre tutte le belle maniere che egli vedeva delle cose antiche in Roma; e non tanto in Roma, che ei cercò per tutto il mondo dove fusse delle cose antiche, con mezzo di quelli uomini che si trovavano in diversi paesi. E, avendo ragunato una bella quantità di queste diverse maniere, molte volte disse che cognosceva che Vitruvio non aveva scelto di queste belle maniere la più bella, sì come quello che non era né pittore né scultore; la qual cosa lo faceva incognito del più bello di questa mirabile arte. Il detto Baldassarre aveva per strettissimo amico suo un Bolognese, che si domandava Bastianino Serlio. Questo detto Bastiano era maestro di legname e, per essere tanto intrinseco di Baldassarre, quasi più del tempo si trovava seco a ritrarre le sopradette opere. E avendo il detto Bai-

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dassarre assai ragionamenti con il detto Bastiano, mostrandogli per chiarissime ragioni che Vitruvio non aveva dato la regola a quel più bello delle cose degli antichi; di modo che in su quelle fatiche copiate dagli antichi il detto Baldassarre aveva fatto una scelta, secondo il suo buon giudizio, sì come eccellente pittore; e, avendo messo tutto in ordine, sopravvenne la morte al povero virtuoso, qual fu gran danno al mondo: e, restando queste fatiche in mano al sopradetto Bastiano, egli le fece stampare: ché, se bene le non sono con quello virtuoso ordine che voleva dar loro il detto Baldassarre, a ogni modo se ne cava grandissimo frutto, massimamente quelli uomini che ànno buon disegno e cognizione dell'arte. Il detto Bastiano promesse cinque libri al mondo sopra gli ordini della architettura, ed ancora sopra le regole della prospettiva. In fra i cinque libri egli ne fece uno in fra gli altri al servizio del re Francesco nel millecinquecentoquarantadua, dove io ero al servizio del detto re. E, perché io mi affaticavo volentieri, ancora io avevo ritrovato alcune belle cose, fra le quali era un libro scritto in penna, copiato da uno del gran Lionardo da Vinci. Il detto libro avendolo un povero gentiluomo, egli me lo dette per quindici scudi d'oro. Questo libro era di tanta virtù e di tanto bel modo di fare, secondo il mirabile ingegno del detto Lionardo (il quale io non credo mai che maggior uomo nascessi al mondo di lui), sopra le tre grandi arti, scultura, pittura ed architettura. E, perché gli era abbundante di tanto grandissimo ingegno, avendo qualche cognizione di lettere latine e greche, il re Francesco essendo innamorato gagliardissimamente di quelle sue gran virtù, pigliava tanto piacere a sentirlo ragionare che poche giornate dell'anno si spiccava da lui: qual fumo causa di non gli dar facoltà di poter mettere in opera quei sua mirabili studi fatti con tanta disciplina. Io non voglio mane.are di ridire le parole che io sentii dire al re di lui, le quali disse a me, presente il cardinal di Ferrara e il cardinal di Loreno e il re di Navarra; disse che non credeva mai che altro uomo fusse nato al mondo che sapessi tanto quanto Lionardo, non tanto di scultura, pittura e architettura, quanto che egli era grandissimo filosofo. Or tornando al libro che io ebbi del detto Lionardo, in fra l'altre mirabil cose che erano in su esso, trovai un discorso della prospettiva, il più bello che mai fusse trovato da altro uomo al mondo, perché le regole della prospettiva mostrano solamente lo scortare della longitudine e non quelle della latitudine e altitudine. Il detto Lionardo aveva trovato le regole, e le dava ad intendere con tanta bella facilità e ordine che ogni uomo che le vedeva ne era capacissimo. E, sì come io dico di sopra, mentre che io servivo quel re Francesco, essendovi il sopradetto Bastiano Serlio, avendo lui volontà di trar fuora questi libri di

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prospettiva, mi richiese che io gli mostrassi quel mirabil discorso del gran Lionardo da Vinci, il quale io fui contento; e il detto ne messe in luce un poco, tanto quanto il suo ingegno potette capire. E io, che tanto ero occupato nelle opere che io facevo al re, non pensai mai che mi avessi a venir voglia, o cli aver commodità, di poter scrivere, la qual lddio sia ringraziato, che di poi che io ebbi finito l'opera in piazza di sua eccellenzia, cioè Perseo, e fatto un mio Crocifisso di marmo grande quanto il naturale, se bene ei mi fu più volte dato intenzione di mettermi in grandi opere, non venendo poi a fine di cotal cosa, per non stare in ozio affatto, non avendo potuto aver licenzia da sua eccellenzia illustrissima, mi sono messo a scrivere questo poco del discorso di queste arti; in fra le quali io spero di questa prospettiva mettere in luce, secondo e' capricci del gran Lionardo da Vinci, pittore eccellentissimo, cosa che sarà utilissima al mondo : ma voglio che sia libro appartato da questo, perché non voglio mescolare tante cose insieme ; e questo voglio che basti. Ancora non voglio mancare di non dare grand'animo a tutti quegli che con grande studio si dilettano di operare; avvenga che nella fine del mio Perseo, quale io avevo fatto con tutte quelle maggior discipline di studio che per me si possette; ed il maggior desiderio che io avessi al mondo, ed il più glorioso premio che io ne desideravo, si era il piacere più che per me si poteva alla maravigliosa scuola fiorentina e, trovando l'opera mia messa in mezzo di quel mirabil Donatello e di quel meraviglioso Michelagnolo Buonarroti; conosciuto le grandissime lor virtù, non già che io aspettassi che la detta scuola mi sgraffiassi il viso tanto quanto l'aveva fatto all'Ercole e al Cacco del Bandinello, ma si bene aspettavo qualche punzecchiata, si come s'usa nelle grandi scuole, se bene un'opera s'accosta al meglio, alla scuola non manca mai che dire. In però a me avvenne tutto il contrario, perché non tanto i valorosi e dotti poeti m'empierono la basa di versi latini e vulgari, che ancora quei più eccellenti di mia professione scultori e pittori scrissono tanto onoratamente in lode della detta opera che io mi domandai satisfattissimo lo averne ritratto il maggior premio che io desideravo. E qui di contro seguiterò di scrivere una piccola parte che fra e' mia disegni io ò ritrovato dei sopradetti virtuosi ingegni [ ...].

SOPRA LA DIFFERENZA NATA TRA GLI SCULTORI E' PITTORI CIRCA IL LUOGO DESTRO STATO DATO ALLA PITTURA NELLE ESSEQUIE DEL GRAN MICHELAGNOLO BUONARROTI Tutte le opere, che si veggono fatte dallo Iddio della natura in cielo ed in terra, sono tutte di scultura: e, per poterne più presto venire alla dimostrazione di questa arte della Scultura, lasseremo il ragionare dei cieli e solo ragioneremo di queste cose terrestri, fatte dal medesimo Dio che fece i cieli. La più mirabil cosa, che si vegga in questa bella macchina della terra, si è l'uomo; il quale fu fatto, nel modo che si vede, di rilievo tutto tondo, che si chiama Scultura: così sono tutti gli animali, tutte le piante e tutte l'altre cose infinite, come sono i fiori, l'erbe ed i frutti. Ci dimostra la natura d'aver fatto in prima acerbe tutte queste cotali belle opere, e da poi, per dimostrarle con più vaghezza e variate l'una dall'altra, ella dette loro i colori; e così si domandano sculture colorite. Non è da passare di non dire quei nomi che si ha preso la Scultura che vuol dire sculpire veramente; qual voce non contiene altro che mostrare l'essere opere tonde, palpabili e visibili. La Pittura non vuol dir altro che bugia, perché il nome suo vero si è il colorire, e colorire si arìa a domandare; ma questo mirabile uomo à fatto una bugia sì bella e sì dilettevole che certamente pare la verità; e, se .bene questa è bugia, questa è cosa laudabilissima, perché l'è grandemente bella e grandemente diletta, essendosi dilettata e compiaciuta troppo a se stessa; di sorte che dalli occhi ignoranti ella si è voluta fare madre e padre, solo per la ignoranza di questi tali che l'ànno favorita. Egli è ben il vero che questi che sono i veri pittori, come è stato Donatello, Lionardo da Vinci ed il maraviglioso Michelagnolo Buonarroti, questi in voce e con gli loro scritti ancora ànno chiarito che la Pittura non sia altro che l'ombra della sua madre Scultura; e, per essere stati questi tre grandi uomini li maggiori scultori di che ci sia notizia nei moderni, da quella gran virtù della Scultura ànno tratto tanto bene quella bugia della Pittura che mai altri uomini non si sono potuti appressare a loro per non essersi prima fatti dottissimi nella Scultura. Ora si verrà a mostrare certe chiare ragioni, che una parte di esse potranno intendere quelli non professori di tali arti, e l'altre parti intenderanno quelli peritissimi di tali arti: di sorte spero non dare loro campo di potere contraddire nulla. Io m'ingegnerò, quan-

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to sia possibile, di essere brevissimo, avvenga che la verità dalla bugia troppo da se stessa, senza il mio aiuto, chiaramente si difende. Tutte le pitture che fanno questi virtuosissimi pittori con grandissima sommessione le copiano dalla loro gran madre Scultura; e, per dar loro poi quelle maggior lode, vien detto a quelli che le veggono: Questa cotal pittura veramente pare di rilievo. Oh debbes'egli cercare di assomigliarsi con tante e si grandi difficultà a una cosa che sia da manco di quella che egli opera, volendola far maggiore di ogni altra cosa tale ? Questa ragione sola doverria bastare ; ma, per non voler mancare di dar piacere a que' virtuosi che sono di diverse professioni, ci stenderemo in più chiare ragioni; tal che, con questa insieme, averemo speranza di sadisfarli affatto, facendoli di un cotal dubbio chiarissimi e certi. Un pittore eccellentissimo, sì come un bugiardo, s'ingegna di somigliare la verità, volendo che la sua bugia sia più bella e più piacevole; cosi questo pittore con la sua mirabil virtù farà una figura, con tutte quelle discipline e studi che se le pervengono, in otto giornate; e s'intende una figura ignuda, o mastio o femmina, che a fare egli si metta. A questo, un eccellentissimo scultore, simile nella sua professione al pittore, volendo egli fare una figura, cioè un ignudo, o mastio o femmina, volendo che sia ben fatto, ne porta, o di marmo o di bronzo, un anno intero di tempo. Ancora si vede, che una Pittura vive molti pochi anni, e quella di Scultura è quasi eterna. La Pittura è solo obligata a una sola veduta, e con un piccol proffilo, con grandissima facilità, accresce la sua opera di bellezza infinita, e la purga di ogni spiacevolezza che potesse avvenire agli occhi de' riguardanti. La Scultura si comincia ancora ella per una sol veduta, di poi s'incomincia a volgere a poco a poco; e trovasi tanta clifficultà in questo volgersi che quella prima veduta, che arebbe contento in gran parte il valente scultore, vedutola per l'altra parte, si dimostra tanto differente da quella quanto il bello dal brutto; e così gli vien fatto questa grandissima fatica con cento vedute o più, alle quali egli è necessitato a levare di quel bellissimo modo, in che ella si dimostrava per quella prima veduta, e accordarlo con quello altro modo bruttissimo, per ingegnarsi ch,ella faccia il manco male che sia possibile, unitamente per tutti i versi che la si dimostri: e queste sono cento vedute o più; dove quelle della Pittura sono solamente una e non più. E di questo ne possano essere tanto capaci i professori quanto i non professori di tale arte. Concludiamo alla fine che la Pittura sia veramente ·l'ombra della Scultura con diligenza pulita e assettata. E, se bene noi sapremmo dire molte e infinite cose bellissime, conosciuto che questa verità

PRECEDENZA TRA LA SCULTURA E LA PITTURA

IIIS

da per se stessa tanto mirabilmente si difende e prova, per non imbrattarla lasceremo la fatica a quelli che vogliono dire contro di lei; li quali dicono che, volendo fare un'opera di scultura, alli scultori essere di necessità il farla prima in disegno. A questa cicalata rispondono gli scultori che, quando essi ànno sculpito, come valenti e sicuri uomini nell arte, quello che e' voglion fare, pigliano, per esprimere il loro concetto, terra o cera, e con quella più facilmente e con più brevità si purgano delle diflìcultà delle vedute sopradette. Sì come io dico di sopra, a mille loro false proposte io potrei rispondere e chiarirle; ma perché noi abbiamo tre voci diverse l'una da l'altra; delle quali tre io non mi voglio servire se non della prima, la quale si è il ragionare, cioè dar la ragione di quello che io ò voluto dire. L'altre due voci sono favellare e cicalare: l'una si è dir favole; e cicalare si è il cigolare degli uccelli, il quale non à tuono nessuno né con nulla si accorda, se bene e' non si discorda; questo si è un mormorio, il quale se bene non consuona, ancora non dissuona: di modo che quelle sono favole, cioè favellare; e questo cicalare è una armonia di sogni. E con queste due armi io so che questi difensori della Pittura, cioè della bugia, lungamente si dilateranno. Prestisi fede alla verità, sotto la quale io mi ricopro, e con essa mi difendo. 1

SOPRA I PRINClPI E ,L MODO D'IMPARARE L'ARTE DEL DISEGNO (FRAMMENTO)

In fra l'altre maravigliose professioni che à avute questa nostra città di Firenze, dove certamente ella non solo à aggiunto gli antichi, ma anco passati, questo è stato nella nobilissima scultura e pittura e architettura: e, che questo sia il vero, per viva ragione si mostrerà al suo luogo. Ma, perché il mio primo intento si è ragionare dell'arte e del vero modo de' suoi princìpi sì come meglio ella si debbe apparare (del che fare si è stata voglia grandissima in questi miei maggiori, né mai si sono resoluti di dare principio a una tanta utile e piacevole impresa, se bene io sono il minore di tanti e sì sublimi ingegni), perché tale utile ai vivi non si perda, in quel meglio modo che natura mi porgerà, mi piglierò questo carico volentieri, non senza gran fatica, a mostrare e dare ad intendere e esprimere, con più facilità che io sappia e possa, un tanto glorioso concetto. Egli è vero che, volendo cominciare una tanta impresa, molti sarieno che in prima farebbono un gran discorso, perché, volendo muovere una tanto smisurata macchina, è di necessità l' adoperare moltissimi stromenti; ma, perché molte volte più presto affastidisce che e' porga piacere il vedere fare tante preparazioni, piglieremo questo miglior modo, cioè che, cominciando a ragionare di tali arti, quello che noi vedremo cli mano in mano, secondo le occasioni che ci farà mestiero, lo porremo in atto in modo che, mettendolo nel proposito dov'egli accaggia, molto meglio si terrà a memoria che se e' si fosse con altro ordine proposto in prima: e così piacevolmente cominceremo a dar principio a tal ragionamento. Voi, principi e signori, che di tali arti vi dilettate, e voi, artisti eccellenti, e voi, giovani, che apprendere le volete, per certo dovete sapere che 'l più bello animale che mai abbia fatto la umana natura si è stato l'uomo; e la più bella parte che abbia l'uomo si è la testa; e la più bella e maravigliosa cosa che sia nella testa si sono gli occhi: in modo che volendo l'uomo imitare gli occhi, per essere tali quali noi diciamo, è forza che con assai maggior fatica vi si metta che in altre parti d'esso corpo non faria. Si che a me pare che e' sia stato un grande inconveniente per infino a oggi, per quanto io ò veduto, li maestri mettere innanzi ai poveretti tenerissimi giovani per Ii loro principi a imitare e ritrarre un occhio wnano; e, perché il simile intervenne a me nella mia puerizia, cosi penso che agli altri avvenuto sia. Io tengo per certo che questo modo non sia buono per le ragioni dette disopra e che il vero e miglior modo

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sarebbe di mettere innanzi cose più facili, le quali non solo più facili, ma sarieno ancora molto più utili che non è il cominciare a ritrarre un occhio. Io so bene certissimo che qualche dappoco pedante e qualcheduno di questi imbrattamondi mi verranno arguendo contro col dire che un buon maestro schermidore mette ai suoi discepoli ne' princìpi in mano le armi più gravi, perché poi le vere paiano più leggeri: a questo io arei il campo larghissimo da poter fare un bellissimo ragionamento in mia difesa; ma, perché non servirebbe ad altro che al vento e io sono amico delle conclusioni, solo mi basta di avere a questi tali tagliato la strada con questo poco esempio; e così comincerò a mostrare il mio buon modo essere più facile che ritrarre un occhio, ed infinitamente più utile. Ora, perché tutta la importanza di queste tali virtù consiste nel fare bene un uomo e una donna ignudi, a questo bisogna pensare che, volendogli poter far bene e ridursegli sicuramente a memoria, è necessario di venire al fondamento di tali ignudi, il qual fondamento si è le loro ossa: in modo che, quando tu arai recatoti a memoria una ossatura, tu non potrai mai fare figura, o vuoi ignuda o vuoi vestita, con errori; e questo si è un gran dire. Io non dico già che tu sii sicuro per questo di fare le tue figure con meglio o peggio grazia; ma solo ti basti il farle senza errori, ché di questo io te ne assicuro. Ora considera se sia più facile il ritrarre un solo osso, per cominciare, o sì veramente il ritrarre un occhio umano. Voglio che tu cominci a ritrarre il primo osso dello stinco della gamba, qual si chiama il fucile maggiore, a tal che, mettendo innanzi questo tal principio a un tuo giovanetto di tenera età, è certissimo che a quello gli parrà ritrarre un bastoncello. E, perché in tutte le nobilissime arti la maggiore importanza che è in esse, volendole vincere e dominare, non in altro consiste che nel pigliare animo sopra di loro, e' non sarà cosi pusillo animo di fanciullo che, cominciando a ritrarre un tal bastoncello d'osso, che non si prometta di farlo, se non alla prima, alle due benissimo; che così non interverrebbe quando lo mettessi a ritrarre un occhio. Dipoi aggiugnerai a quello l'altro fucile minore, il quale si è un osso che è più che la metà più sottile, e lo metterai insieme col suo principale al luogo suo. Appresso a questo, cioè sopra per diritto, metterai l'osso della coscia, il quale è un solo ed è più grosso assai che ciascuno di questi due; che si chiama ... Dipoi metterai in mezzo la patella del ginocchio; e cosi gli farai benissimo recare a memoria questi quattro pezzi d'osso insieme, ritraendogli per tutti i versi, cioè in faccia, di dietro, e co.. sì per i due suoi proffili; ed a poco a poco gli comincerai a dispiegare una certa parte degli ossi del piede, li quali il detto giovane, o di qualsivoglia età uomo, gli verrà a annoverare e se gli recherà benissi-

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mo a memoria; e ne nascerà questo: che, quando uno si arà fatta familiare questa ossatura della gamba, innanzi che e' si venga alla testa, tutti quegli altri ossi gli parranno facili: e così a poco a poco verrai tessendo questo bellissimo stromento, il quale si è tutta la importanza di questa nostra arte. Comincerai dipoi a fargli ritrarre uno di quegli bellissimi ossi delle anche, li quali fanno in modo d'un catino, che altrimenti si domandano ... ; li quali incastra con bellissimo ordine in sull'osso della coscia, il quale si assomiglia a una palla appiccata in su uno bastone; e quell'osso detto anca à la sua cassa ben fatta ed ordinata, dove il detto osso della coscia gira per tutti i versi; benché la natura à ordinato che e' non passi certi termini che gli ritiene co' nervi ed altri suoi belli ordini, li quali si diranno di poi al luogo loro. Da poi che tu arai ritratto e fattoti memoria di detti ossi, comincerai a ritrarre un osso bellissimo, il quale va in mezzo alli due ossi dell'anche; questo osso è molto bello, e lo domandano il codione, altrimenti si domanda ... Questo osso à otto buchi, per i quali virtuosamente la maestra natura coi nervi ed altre belle cose lega tutta questa ossatura dell'uomo insieme; e di bocca a questo osso, in verso la terra, esce il fine della stiena, che pare, si come veramente ell'è, una piccola codina, la quale è composta di cinque ossicini. Cosi ritra'lo assai volte, tanto che facihnente ti verrà fatto a memoria. Sappi che questa codina in queste nostre parti calde volge allo indentro, ma nelle parti freddissime, più sotto la tramontana, il freddo la fa torcere in fuori; ed io Pò veduta che ella apparisce lunga quattro dita a quella sorte di uomini che si dicono gli Iberni, e paiono cosa mostruosa ma e' non è altro che quello che ti dico: ché, dove da noi ella volge in dentro, a loro la natura del gran freddo la fa volgere in fuora. Di poi novererai la maravigliosa spina dalla stiena, che si chiama ... , la quale sopra l'osso del codione detto è composta di ventiquattro ossa, che sedici ne va insino all'appiccatura delle spalle e otto insino che si congiugne colla testa, dove si chiama la nuca; che questo osso ultimo è tondo (come quello della coscia): dove la testa benissimo gira. Tu debbi alcuno di questi ossi pigliarti piacere di ritrarre, perché è molto bello; ed à un gran buco, dove passa il filo delle rene, o schiena che la diciamo. Con questa ossatura della stiena si sono appiccate ventiquattro costole, dodici per banda, che pare il corpo d'una galea; e questa detta costolatura ritra'la assai, e fattela bene familiare, così in proffilo come in faccia, cioè dinanzi e didietro: troverai che le costole cominciano sopra ,1 codione, passato cinque ossi della schiena; al sesto osso si comincia a appiccare le costole, tra le quali le prime quattro sono spiccate, e le prime due sono molto piccole e sono tutte di osso; e la prima è piccola, la se-

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conda è assai maggiore, la terza à appiccato un poco di tenerume in cima, la quarta ne à appiccato un pezzo molto maggiore: queste prime quattro si chiamano ... Ancora la quinta non è appiccata all'osso dello stomaco, sl come sono l'altre sette, che sono appiccate a un osso dello stomaco (questo intendi, che è solo una parte del costolame), il quale osso si è di tre pezzi, ed è lungo ... Questo osso si è, come una pommice, poroso, e si chiama .•. Le dette sette costole ànno qual la terza e qual la quarta parte, di esse costole, di tenerume: ché tenerume non è altro che un osso tenero senza midollo, e meglio si può assomigliare a un osso che al nervo; avvegnaché l'osso è frangibile e così è questo tenerume, ed il nervo non è frangibile. Ora intendi bene: quando tu ti arai recato bene a memoria questo costolame, avvengaché poi tu gli porrai la sua carne e pelle sopra, sappi che quelle cinque costole sciolte, nel torcersi il corpo e nel piegarsi indietro ed innanzi, fanno apparire nella pelle molti bei rilievi e cavi, che sono delle belle cose che sieno nel corpo umano, intorno al bellico; e quelli, che non ànno benissimo a memoria queste tali ossa, fanno le più diavole cose del mondo: le quali cose io ò veduto fare a certi pittori, anzi impiastratori prosuntuosi, che fidandosi di un poco di lor buona memoriuccia, senza altro studio se non quello ch'egli ànno fatto ne' lor cattivi princìpi, corrono a mettere in opera, e non fanno nulla di buono, e di poi si fanno un abito tale che, quando e' volessero, non potrebbono far bene; e con quella lor praticaccia accompagnata dall'avarizia fanno danno a quegli che sono per la buona via degli studi e vergogna ai principi, che, abbagliati da quella prestezza, mostrano al mondo di non intendere nulla. I valenti scultori e pittori fanno le loro opere per molte centinaia d'anni, e sono fatte per gloria de' principi e vago ornamento alle loro città. Adunque, poiché elle ànno a avere così lunga vita, perché, tu valoroso e degno principe, non aspetti ch'elle si facciano bene? essendo la maggior parte della gloria la tua? ché dal far bene e far male non importa due o tre anni; e considera se lo merita una tal opera, avendo di poi tanta vita. Se bene io mi sono un poco scostato dai segni del mio bel ragionamento, ecco che io ritorno. Di sopra alla detta costolatura sono due ossa fuori dell'ordine del costolame, che ciascuno de' due si posa in sull'osso del petto e tortuosamente vanno a posarsi in sull'ossa delle spalle. Questi tali ossi non accade ritrarli separati, come molti degli altri, ma insieme col costolame farai d'avergli bene a memoria: questi si domandano per nome iugulum. Appiccati a questo detto osso appariscono due altri ossi per di dietro, che paiono due palette: questi sono belli ossi e, perché egli ·ànno certe costole,

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le quali si mostrano di poi sopra la pelle, dandogli innanzi al tuo discepolo in iscambio di un occhio, se gli recherà bene a memoria, perché egli importa assai ; ché, quando un braccio fa qualche forza, questo tale osso fa diverse e bellissime azioni, il che (chi lo intende bene) fa molto bel vedere in sulla schiena, perché si mostra molto sopra i muscoli di detta stiena; ed à nome os scapularis. A questo sono appiccate l'ossa delle braccia, che ànno il medesimo ordine che quelle delle gambe, benché sieno assai minori ; e così questa ossatura delle braccia si debbe mettere benissimo sicura alla memoria. Io non ti dico che usi il modo medesimo appunto che tu ài fatto nelle gambe, perché quando tu sarai, con gli ordini che io ti ò mostro, arrivato alle braccia, sicuramente tu potrai ritrarre la ossatura di un braccio tutta insieme colla mano, che è cosa molto artifiziosa e bella; bene è il vero che e' si debbe ritrarla assai volte per tutti i versi, e sì l'una man ritta come la mancina: e, in parte che tu conduci queste braccia sicure a memoria, potrai qualche volta cominciare, come per piacere, a provarti alle maravigliose ossa del teschio: alle quali, di poi che tu arai fatto quel diligente e assiduo studio in quella sottossatura, al detto teschio ti metterai intorno; e, sempre che tu ne arai, per quel verso che ti verrà fatto, ritratto qualcuno che ti cominci a piacere, ti ingegnerai d'appiccargli l'altre sottossa: benché questo teschio vuole essere ritratto per moltissimi versi, acciò che benissimo te lo metta nella memoria; perché sappi per cosa certissima che, chi non intende né abbia bene a memoria quest'ossa della testa, non può mai fare testa, in qualsivoglia modo né di che sorte ella si sia che abbia una grazia al mondo. Sarebbe il meglio che, in mentre che tu ritrai questa ossatura dell'uomo, che tu non disegnassi altra cosa di sorta alcuna, per non ti aggravare la memoria in altro. Innanzi che io mi scosti da questo importantissimo fondamento per entrare in altro, voglio che tu sappi prima tutte le misure di questa umana ossatura, perché meglio tu possa di poi con più sicurtà comporci sopra la sua carne, cioè i nervi, co' quali con tanta arte la divina natura lega questo bello strumento, ed i suoi muscoli di carne, insieme colle dette ossa dai nervi legati. In questo mezzo che tu verrai misurando queste ossa, tu ritrarrai questa ossatura nel modo proprio come se e' fosse un uomo vivo, cioè acconcerai la detta ossatura che posi, per vedere la gamba che posa, come e quanto ell'entra nella sua anca ed il modo ch'ella fa a torcersi: così la acconcerai ardita, che posi in su due gambe aperte, volgendo la testa e dando attitudine ancora alle braccia: di poi la acconcerai a sedere, alta e bassa, facendola storcere per diversi modi; e cosi facendo ti verrà fatto un fondamento tanto maraviglioso, il quale ti faciliterà tutte le gran difficultà che sono in

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questa nostra divina arte. E, per mostrartene un esempio ed allegarti un autor grandissimo, vedi le opere di maestro Michelagnolo Buonarruoti; ché la sua alta maniera è tanto diversa dagli altri e da quella che per l'addietro si vedeva, ed è tanto piaciuta, non per altro che per avere tenuto questo ordine delle ossa: e, che sia il vero, guarda tutte le opere sue tanto di scultura quanto di pittura, che non tanto i bellissimi muscoli ben posti ai luoghi loro gli abbian fatto onore quanto il mostrare le ossa [...].

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NOTA CRITICA AI TESTI

* BALDASSARE CASTIGLIONE

La presente edizione del Cortegiano è stata condotta inizialmente sul testo de Il libro del cortegiano, a cura di Vittorio Cian (Firenze, Sansoni, 19474). Tale edizione era «riveduta e corretta» (in particolare, rispetto alla prima del 1894, cr Biblioteca scolastica di classici italiani» diretta da Giosue Carducci) in quanto curata u dopo una più scrupolosa collazione del testo eseguita sullo stesso manoscritto originale sul quale nel 1528 fu fatta in Venezia l'edizione principe•. Si trattava appunto del Laurenziano-Ashbumhamiano 409 della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, che venne esaminato dallo studioso, durante il recente periodo bellico, mediante copie fototipiche messe a sua disposizione dal suo antico discepolo, prof. Franco Antonicelli (Cfr. V. C1AN, La lingua di B. Castiglione, Firenze, Sansoni; 1942, cc Biblioteca di "Lingua nostra"», III, p. 64, nota 1). Nel frattempo era annunciata, a cura del Cian e di Augusto Vicinelli, la raccolta degli scritti del Castiglione per i cr Classici Mondadori », mentre da tempo era altrove attesa un'edizione critica dello stesso Antonicelli. Un confronto dell'edizione principe e dell'edizione Cianci aveva convinto della necessità di procedere a nuove ricerche, appena ci fosse stato possibile. Intanto sul codice predetto (apografo con valore di autografo, perché steso da un copista e riveduto e corretto dall'autore che vi scrisse parecchie carte, oltre alcune note) e sulla principe condusse nuove indagini BRUNO MAIER. Importanti apparvero subito le risultanze della sua collazione del testo Cian con la suddetta aldina e con l'apografo comunicate nello scritto Sul testo del cr Cortegiano •, in cr Giom. stor. d. lett. it. », voi. cxxx (1953); pp. 226-48. Nell'attesa della sua edizione inserimmo nel nostro testo le rettifiche e le integrazioni dello studioso contrassegnandole nelle note del commento con la lettera 1\11, seguìta dalla pagina del predetto scritto: in tal modo sarebbe rimasto chiaro anche ai nostri lettori il probo lavoro condotto da lui. Uscito, poi, a cura del medesimo, Il Cortegia110 con una scelta delle opere minori del Castiglione (Torino, U.T.E.T., 1955, «Classici italiani•, collana diretta da Ferdinando Neri e da Mario Fubini, J 1) abbiamo tenuto conto anche di questa notevole edizione contrassegnandola nelle nostre note con la lettera U. È da tener presente del Maier anche la Nota ai testi premessa alla sua edizione, pp. 59-63. Al pari dello studioso, nelle nostre note indichiamo con A l'aldina principe e con l\tIS l'apografo suddetto. Indichiamo a nostra volta con C il Cortegiano, curato dal Cian, IV ed. cit. Per esemplificazione nel commento, quando riportiamo la lezione di A, specie se con quella di altre, facciamo quasi sempre gli scioglimenti. Cosi per analogia col nostro commento diamo in corsivo, anziché tra virgolette, le lezioni riportate dal Maicr nel suo studio e nella sua Nota ai testi. Seguiamo l'edizione Cian per la divisione dei libri in capitoli, ma li diamo

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NOTA CRITICA AI TESTI

fra parentesi quadre non risultando essi né dall'autografo né dall'edizione principe. Un'edizione critica del Cortegiano è annunciata per le cure di Ghino Ghinassi. GIOVANNI DELLA CASA Manca un'edizione critica del Galateo: dato che nessuna ristampa moderna offre garanzia di completezza e, insieme, di fedeltà al testo, ci siamo basati sull'edizione principe del 1558 a cura di Erasmo Gemini de Cesis (In Vinegia, Per Nicolo Bevilacqua, Nel mese d'ottobre MDLVIII). Tenendo presenti i moderni criteri di grafia e di punteggiatura (ma senza esagerare nello snellimento di una interpunzione collegata con un ritmo tutto classicheggiante di stile) si sono corretti gli evidenti errori di stampa e si sono apportate le necessarie modificazioni per raddoppiamenti e scioglimenti. Si è tenuto conto che l'edizione è stata stampata a Venezia e, quindi, ha subito i modi della tecnica dei tipografi locali. Alcuni luoghi del testo sono stati chiariti nelle note illustrative. Non si sono accolti, con la divisione in trenta capitoli, gli a: argomenti• introdotti per la prima volta, gli uni e gli altri, nell'edizione Pasinello del 1728 (Opere di monsignor GIOVANNI DELLA CASA, Edizione Veneta Novissima, Tomo terzo Contenente le Prose volgari sì stampate, che inedite; ed alcune accresciute di Annotazioni da Autore Anonimo, in Vinezia, Appresso Angiolo Pasinello, In Merceria all'Insegna della Scienza, MDCCXXVIII); a p. 2 non numerata si veda Angiolo Pasinello a' lettori: cr ••• il Galateo, ovver Trattato de' costumi: ch'io a maggior facilità di lettura ho voluto distinguere in Capi, ed ogni Capo illustrare co' suoi Argomenti». Per comodità dei lettori è stata nondimeno conservata, fra parentesi quadre, la divisione in capitoli. (Non abbiamo seguìto comunque l'edizione Ferrari che divide in ventisette capitoli e sposta gli •argomenti», mentre seguono la divisione in trenta capitoli - tra le altre - le edizioni dello Steiner, del Prezzolini e, dichiaratamente in dipendenza da quest'ultima, quelle del Pancrazi e del Provenza).) Per l'Orazione per la lega abbiamo seguito il testo dato dalle Prose di Monsignor GIOVANNI DELLA CASA, In Parigi, Appresso Tomaso Jolly, Mercatante di Libri nel Palazzo, à la Palma, & al Scuto d'Hollanda, MDCLXVII, pp. 213-69; in tale edizione, curata da Gilles Ménage, l'orazione comparve per la prima volta. Suo titolo era il seguente: Oratione di Monsignor Della Casa per mvovere i Veneziani à collegarsi co 'l Papa, co 'l Rè di Francia, e con gli Sui%zeri, Contro l'Imperatore Carlo Quinto. (Era preceduta - alle pp. 209-13 - da una Lettera del signor Giovanni Capellano al signor Egidio Menagio, in data 19 gennaio 1659.) Ci siamo serviti per il commento e anche per luoghi del testo (basato sulla suddetta edizione parigina e su un manoscritto chigiano) sull'edizione delle Orazioni scelte del secolo XVI, ridotte a buona lezione e commentate da Giuseppe Lisio, Firenze, Sansoni, 1897, « Biblioteca scolastica di classici italiani» (cfr. l'edizione anastatica con nuova presentazione di Gianfranco }è'olena, ivi, 1957, «Biblioteca carducciana», XI), pp. 195-247.

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Per l'Orazione a Carlo Quinto ci siamo fondati sulla lezione della citata edizione principe curata dal Gemini, pp. 57-8 I. Il Lisio segue il testo di tale edizione e quello della Giuntina del 1564 1 e ricorda come la prima redazione dell'orazione fosse stata pubblicata da Giuseppe Cugnoni negli Scritti inediti del Della Casa, Roma, Forzani e C., 1889, pp. 35-54, secondo il manoscritto chigiano C, carte 34-43. Sul testo delle due orazioni e per altre redazioni si veda la Nota critica del Lisio alla sua citata silloge, pp. xiv-xv. (Da tale edizione abbiamo accolto la divisione in capitoli per le due orazioni - li abbiamo segnalati fra parentesi quadre -, e in vari luoghi una più svelta punteggiatura.)

BENVENUTO CELLINI Sottoponendolo ai criteri della presente collezione in merito alla grafia e all'interpunzione, è stato tenuto per base l'ottimo testo critico della Vita curato da Orazio Bacci, Firenze, Sansoni, 1901: molti dati dell'apparato sono stati riferiti nelle nostre note illustrative al fine di chiarire al lettore alcuni punti del non sempre facile stile di Benvenuto. Il manoscritto originale della Vita (il codice Mediceo-Palatino 2342 della Biblioteca Mediceo-Laurenziana che indichiamo con MS) non reca alcuna divisione in parti o in capitoli. Per comodità del lettore abbiamo accolta quella apprestata da Brunone Bianchi nella sua edizione della Vita, ivi, Le Monnier, 1852 (e ristampe): è indubbiamente molto razionale. L'abbiamo contraddistinta fra parentesi quadre. Nel 1944 1 fra le difficoltà del momento, avevamo curato un testo della Vita nella collezione • I classici del Filarete•, da noi diretta (lVIilano, Martello: con introduzione di Leonardo Borgese): la presente edizione del capolavoro celliniano ha, per altro, richiesto nuove cure per il testo e reca in più un breve commento illustrativo. Per i Trattati e i Discorsi sopra l'arte riprodotti in appendice abbiamo seguito, con gli stessi nostri criteri per la grafia e l'interpunzione, I trattati dell'Oreficeria e della Scultura di BENVENUTO CELLINI novamente messi alle stampe seco,ido la origi11ale dettatura del Codice Marciano per cura di Carlo Milanesi. Si aggiungano: I Discorsi e i Ricordi intorno alrarte. Le Lettere e le Suppliche. Le Poesie, Firenze, Le Monnier, 1857, complessivamente alle pp. 1-242: tale silloge è stata ristampata dalla stessa Casa nel 1893. Quest' edizione, indubbiamente la più ragguardevole a tutt•oggi, non è stata condotta con criteri filologici, e, quindi, è auspicabile un'edizione critica fotta sul Codice Marciano (Mss. italiani, Cl. 4, n. 44), dato che il Milanesi non riproduce con fedeltà il codice preso a fondamento, come anche faceva osservare di recente Bruno Maier, sulla a Rass. d. lett. it. •, a. LXIII, ser. VII (1959), p. 452, nota 3. L'ampia prefazione del Milanesi (pp. I-LXIII) è, per altro, da consultare con utilità in merito alla storia del testo dei trattati e dei discorsi sopra l'arte, dalle prime stampe dei Trattati (di cui abbiamo dato ragguaglio nella Nota bio-bibliografica) alla pubblicazione di singole parti, in raccolte varie. Ne teniamo conto, senz'altro, confrontando a volta a volta i singoli testi.

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NOTA CRITICA AI TESTI

Per il Codice Marciano giova tener presente la precisa descrizione fatta dal Morelli (J codici 111a11oscritti volgari della Libreria Naniana riferiti da don Jacopo Morelli. S'aggiu11gono alcune operette inedite da essi tratte, In Venezia, Nella Stamperia d'Antonio Zatta, MDCCLXXVI), alle pp. 20-2. Bartolomeo Gamba, vice-bibliotecario della Marciana, collazionò una copia di tale Codice nel 1829 per Francesco Tassi che ne fece nuovo riscontro nel 1847 e intendeva pùbblicarla, ma impedito da altri lavori, poco prima della morte, offerse i frutti delle sue ricerche a Carlo Milanesi. Questo studioso se ne valse per la sua edizione lemonnieriana e con gratitudine ne tenne conto nella Prefazione al suo testo (alle pp. XVII-XVIII). Per i due Trattati il Milanesi s'è anche valso della nota pubblicazione, fatta dallo stesso Cellini, Dve trattati ecc., cit., In Firenze per Valente Panizzij, & Marco Peri, MDLXVIII, dove, per altro, la dedicatoria risultava indirizzata, per l'occasione, al cardinale Ferdinando de' Medici. Col Milanesi diamo in nota, quale dedica originaria, la lettera indirizzata al principe don Francesco de' Medici (in occasione delle sue nozze con Giovanna d'Austria avvenute nel 1565) e uscita per la prima volta, con la completa soscrizione, nell'edizione dei Due Trattati fatta in Firenze, MDCCXXXI, Nella Stamperia di S.A.R. per li Tartini, e Franchi, Con Licenza de' Superiori, a p. x, e riprodotta, sopra un abbozzo autografo da Francesco Tassi nel vol. III delle citate Opere celliniane (Firenze, Piatti, I 829, da noi menzionato col suo titolo di Ricordi, prose e poesie), pp. 357-8. . La dedica dei Due trattati al cardinale Ferdinando de' Medici è stata ristampata da Arturo Jahn Rusconi e da A. Valeri nella loro già ricordate silloge degli scritti del Cellini, da L. De-Mauri nella sua edizione dei Trattati e, quindi, da G. Cattaneo nella sua edizione degli scritti. Con ammodernamenti nella grafia e nella punteggiatura la riproduciamo dal testo dell'edizione principe dei Due trattati del I 568, in realtà 1569, carta A ij, recto e verso: « All'illustrissimo e reverendissimo signor don Ernando cardinale de' Medici, signore e padrone suo osservandissimot BENVENUTO CELLINI. - A gran ragione s'è destato negl' animi di ciascun illustrissimo signore mio una nobile aspettazione del valore e della virtù sua, essendo che in quegl'anni che comunemente i giovani sogliono del tutto far serva la ragione, ella con senile prudenza, d'ogni sua operazione l'à fatta interamente governatrice. Il che chiaramente vien manifestato per lo testimonio di molti personaggi d'autorità e d'ottimo giudicio che talora, sentendola con prontezza disputare, con ragione giudicare e ornatamente e con facilità esprimere i suoi concetti, ànno affermato di non aver conosciuto né ingegno più fiorito né animo vestito di più signorile e moderata costumatezza. A queste sue rare parti s'aggiugne ancora uno stimolo che la sprona continovamente a desiderio di gloria per mezzo degli studi e per mezzo d'una universale protezione che ella prende in favorire ogni virtuosa facultà e particolarmente so che non tiene nell'infimo grado fra le pregiate arti quella della scultura e del gettare de' bronzi, come più volte ragionando m'è stato fatto fede dal virtuosissimo messer Gherardo Spini, suo segretario e giovane che oltre all'essere ornato di belle lettere (sl com'è noto a vostra signoria illustrissima) è ancora intendentissimo dell'arte del disegno e dell'architettura. Il che sentendo e parendomi che perciò mi si

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porgessi occasione di poterle dimostrare in parte quant'io mi senta obbligato alla sua illustrissima Casa, mediante i beniflci infiniti che da quella ò ricevuto e ricevo continovamente facendole dono d'alcune mie fatiche ch'io già composi intorno alle dette arti ed altre simili le quali furono già vedute scritte in penna dall'illustrissimo signor principe di Fiorenza suo fratello, col consiglio del detto messer Gherardo (del quale fo non piccola stima) mi deliberai, ponendole in luce, farne umilmente dono a vostra signoria illustrissima. Né qui intendo altrimenti di scusare il picciolo presente o il poco valore di esso perciocché a me parrà d'aver ottenuto assai se ella (come è suo solito) avrà riguardo solamente all'affetto della servitù mia verso lei che nel resto io son sicuro che giudiciosi riprenditori dell'altrui fatiche sono tenuti quelli, che in cotal guisa perdonano gl'errori commessi come se essi avessero sempre ad errare e si guardano d'errare come se non perdonassero mai gl'errori di nessuno. Degnisi adunque vostra signoria illustrissima di ricevere il picciolo presente con la sua solita benignità ed a me far dono della sua grazia tenendomi nel numero de' suoi umilissimi servidori. - Di Fiorenza, addì 26 di febbraio I 568 [1569] •· Si aggiunga, per il Trattato dell'Oreficeria, che l'Introduzione venne edita con alcune note da Bartolomeo Gamba nei Racconti di BENVENUTO CELLINI per la prima volta pubblicati in Venezia l'anno MDCCCXXVIII. Edizione seconda (Venezia, 1829, presso Pietro Molesi Editore, Dalla Tip. di Alvisopoli: la I edizione dichiaratamente era stata fatta per le nozze CittadellaMaldura ad istanza d'Adriano Dondiorologio Amai), pp. 5-15 e 17-9, con una parte chiamata Racconto I, e quindi ristampata dal Tassi in Ricordi, prose e poesie, pp. 265-76 e 277-8, quest'ultima parte pure come Racconto I. A sua volta il cap. 1, Dell'arte del niello, per la prima volta - secondo il Codice Marciano - fu pubblicato da Leopoldo Cicognara nella sua Esercitazione dell'origine, composizione e decomposizione dei nielli, Venezia, 1827, e poi nella parte prima delle sue Memorie spettanti alla calcografia, Prato, Per i frat. Giachetti, MDCCCXXXI, pp. 217-21, e inoltre dal Tassi in Ricordi, prose e poesie, pp. 374-81. Vari altri brani dei trattati e dei discorsi, con note, modificazioni linguistiche e qualche intervento nella presentazione dei brani, erano apparsi per la prima volta a cura del Gamba nel citato opuscolo e, quindi, erano stati raccolti dal Tassi nel predetto volume III delle opere celliniane da lui curate. Per comodità del lettore diamo alcune indicazioni di ragguaglio per tali brani secondo la presente edizione, il testo Milanesi, la pubblicazione del Gamba e la ristampa del Tassi. Cap. UI (da «E da quella città e suo tenitoro• a •si ragionerà di lui•), qui addietro pp. 987 (cfr. MILANESI, edizione citata, pp. 30-1): GAMBA, pp. 1920, quale Racconto Il, con nota illustrativa che prosegue a p. 21; TASSI, pp. 279-80. Cap. 1x (da • .•• e di tutte le spezie de' diamanti• a •si partimo amicissimi»), qui addietro pp. 1007-10 (cfr. MILANESI, pp. 60-5): GAMBA, pp. 22-8, quale Racconto lii; TASSI, pp. 281-6. Cap. XI (da •E' capitò in Roma• a •se ne lo portò a Vinezia•), qui addietro, pp. 1012-4 (cfr. MILANESI, pp. 68-71): GAMBA, pp. 28-33, quale Racconto IV; TASSI, pp. 287-91.

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Cap. xn: 1. da «mi venne n trovare » a « perché passò di molti anni da poi», qui addietro, pp. 1018-20 (cfr. MILANESI, pp. 77-80): GAMBA, pp. 34-7, quale Racconto V; TASSI, pp. 292-5. 2,. da « ••• innanzi che io mi partissi della Italia » a « non mai più scrivergli», qui addietro pp. 1024-6 (cfr. MILANESI, pp. 87-9): GAMBA, pp. 414, quale Racconto VII; TASSI, pp. 299-301. 3. da «Sua maestà mi aveva dato», con un capoverso di raccordo, a «domandar maggiore•, qui addietro a pp. 1031-2 (cfr. MILANF.SI, pp. 98-9): GAMBA, pp. 37-9, quale Racconto VI, con nota che segue a p. 40; TASSI, pp. 296-8. Si noti per curiosità che il Gamba, alle pp. 44-6, riprodusse, quale Racconto VIII e col titolo Curiosa interpretazione data da Benvenuto al verso di Dante • Pape Satan, pape Satan aleppe », un brano che si trova nella stessa vita (qui addietro alle pp. 818-9 da u ••• comparsi alla gran sala di Parigi• a «non pensò mai») e lo accompagnò della seguente nota (a p. 46): «Questo racconto sta nella Prefazione fatta dall'editore del Trattato dell'Oreficeria ec. Fir. 1731, in 4.to a c. XIX. L'ho qui inserito quantunque nel Codice non si trovi, tale essendo da non istarsene mai accompagnato cogli antecedenti né leggendosi nella Vita di Benvenuto». Naturalmente il Tassi non ristampava tale «racconto», e avvertiva nei Ricordi, prose e poesie, p. 301, nota 1, che tale «interpretazione» era già stata « riportata letteralmente in tutte le precedenti edizioni, malgrado che l'Editore di questi Racconti francamente asserisca che in quella non leggesi ». In compenso a pp. 303-7 il Tassi fa seguire, di Antonio Magliabechi, le Notizie di scrittori fiorentini (Cod. Magliabechiano CV, Cl. IX) con utili ragguagli di su un codice dell'Oreficeria da lui prestato all'abate Iacopo Caffarelli: è probabilmente il medesimo che ora trovasi alla Marciana o copia di esso. Di queste Notizie del dotto bibliotecario fiorentino il Tassi si vale utilmente anche a p. 3741 nota I, dei Ricordi, prose e poesie. Le dette Notizie, erano, fra l'altro, già state riportate in prefazione al Trattato dell'Oreficeria, da Gio. Palamede Carpani nel volume 111 delle opere celliniane (Due Trattati di BENVENUTO CELLINI, scultore.fiorentino, uno dell'Oreficeria l'altro della Scultura. Coli'aggiunta di altre operette del medesimo, Milano, Dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, Contrada del Cappuccio, Anno 181 1, collezione • Opere di B. Cellini •, III), p. xxi. In derivazione dai Racconti del Gamba si può ricordare una pubblicazione a sé delle pagine del Cellini col titolo Curiosa interpretazione data al verso di Da11te •Pape Satan, pape Satan Aleppe», Venezia, Tip. G. Grimaldo, 24 aprile 1865, «Per le Nozze Pendini-Volpi•, cfr. O. BACCI, Introduzione alla Vita del Cellini, testo critico citato, p. XLIX. Il discorso Della Architettura venne stampato per la prima volta dal Morelli (I codici manoscritti volgari della Libreria Naniana, cit., alle pp. 2232: dichiaratamente tratto dal Codice Marciano) e, quindi, riprodotto nel voi. 111 dal Carpani nel volume 111 delle opere celliniane da lui curate, pp. 245-55, e quindi dal Tassi, in Ricordi, prose e poesie, pp. 364-73. Il discorso Sopra la differenza nata tra gli Scultori e' Pittori circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle essequie del gran' Michelagnolo Buonarroti

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apparve presumibilmente per la prima volta nell'Oratione o vero Discorso di M. GIOVAN MARIA TARSIA. Fatto nell'esseqvie del divino Michelagnolo Bvona"oti. Con alcuni Sonetti, e prose latine e volgari di diuersi, circa il disparere occorso tra gli Scultori e Pittori (In Fiorenza, Appresso Bartolomeo Sermartelli, MDLXIIII), ai quaderni D mr e sgg. Per svista il discorso del Cellini è dato come di « M. Benvenvto Cennini cittadino fiorentino scvltore eccellente». Il Frammento di un discorso di BENVENUTO CELLINI sopra i principj E 'l modo d'imparare l'arte del disegno fu stampato per la prima volta nell'edizione dei Due trattati fatta nel 1731 pei Tartini e Franchi, già citata, pp. 155-62, sopra l'unico esemplare autografo comunicato agli editori da Carlo Tommaso Strozzi e su tale testo a stampa venne riprodotto anzitutto da G. P. Carpani nella sua citata edizione, voi. III, pp. 219-29. Il nostro commento non illustra opere e personaggi di larga risonanza, presupponendo che di per sé il lettore, in caso di necessità, possa ricorrere a manuali ed enciclopedie. Per i testi classici greci e latini le dovute abbreviazioni in uso facilitano la ricerca. Ovviamente con l'indicazione «Tommaseo-Bellini,, si fa riferimento a NICOLÒ TOMMASEO e BERNARDO BELLINI, Dizionario della lingua italiana ecc., Torino, U.T.E.T., 1865-'79, in 8 voli., e ristampe. E, quanto al Fanfani citato dal Tommaseo-Bellini, si intenda: PIETRO FANFANI, Vocabolario della lingua italiana per uso delle scuole: seconda edizione accresciuta più che di un terzo e quasi tutta rifatta, Firenze, Le Monnier, 1865. Per la Crusca si son seguite le varie edizioni del Vocabolario, dalle prime alla più recente ( Vocabolario degli accademici della Crusca. Quinta impressione: dal voi. I, in Firenze, nella Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., 1863, al voi. XI, fase. 11, ivi, Le Monnier, 1920, interrotto alla voce «Opinato»): abbiamo, comunque, citato sovente le antiche edizioni anche allo scopo di conservare all'illustrazione dei singoli vocaboli un «colore del tempo» più letterario che filologico. Per il commento alla Vita del Cellini si presuppone la conoscenza delle Vite del Vasari per ogni allusione alla storia dell'arte del Cinquecento. Comunque è sempre consigliabile, anche mediante gli indici dei nomi, la consultazione de Le opere di GIORGIO VASARI « con nuove annotazioni e commenti» di Gaetano Milanesi (Firenze, Sansoni, MDCCCLXXVIIIMDCCCL'CXXII, tomi 8, di cui I-VII, con le Vite e l'vxn, con I ragionamenti e le lettere edite e inedite, con l'aggiunta de La descrizione dell'apparato per le nozze del principe Francesco de' lvledici: chiude la raccolta il t. IX, del 1906, con gli indici delle Vite). Molto utile, anche per la sua maneggevolezza, la pubblicazione de Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, a cura di Carlo L. Ragghianti, Milano, Rizzoli, 1942-'49, • I classici Rizzoli », in 4 voll.: il IV è costituito dai Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte del Vasari stesso, dal commento delle Vite e da un prezioso Indice dei nomi degli artisti: all'edizione, alle note illustrative e al predetto Indice Licia Collobi Ragghianti ha prestato la sua collaborazione. Una segnalazione a parte va fatta per la Vita di Michelangelo di Ascanio Condivi. Si vedano utilmente, in particolare per il commento: CONDIVI, Michelangelo, La vita raccolta dal suo discepolo. Revisione introduzione e note per cura di Paolo D'Ancona, Milano :Cogliati, 1928, «Libri di vita

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e d'arte illustrati nel tempo, nei luoghi, nelle persone», 2, e Das Leben des Michela,rgelo Br1011a"oti von seine,n Schiller ASCANIO CONDIVI, zum ersten Male in deutsche Sprache ilbersetzt durch Rudolph Valdek mit der Ergiinzung von G. Ticciati und Mittheilung des Wissenswiirdigstcn aus B. Varchi's Leichenrede iibersetzt von Albert Ilg, mit Noten und einer chronologischen Obcrsicht, herausgegeben von R. [Eitelberger] v. E[delberg], Wien, Braumiiller, 1874 1 « Quellenschriften filr Kunstgeschichte und Kunstechnik des Mittelalters und der Renaissance », VI. Si aggiunga, per il commento al Cortegiano, p. 20, nota 8, che, oltre che dei •Motti• inediti e sconosciuti di M. P. Bembo pubblicati e illustrati con introduzione da Vittorio Cian (Venezia, Tip.dell'Ancora, 1888), si deve ora tener conto del manoscritto di cui nella comunicazione di MARIO MARTI, Un nuovo manoscritto dei «Motti» di Pietro Bembo, nel uGiorn. stor. d. lett. it••, voi. CXXXVI (1959), pp. 82-90. Per p. 430, nota 1. Sul rigagnolo si veda la diretta testimonianza del Cellini nel Trattato della Scultura, qui addietro a p. 1087: • ••• le strade dove si cammina, le quali ànno in mezzo quello che toscanamente si domanda rigagnolo•. Per p. 503, nota 1. Una targa in bronzo fu posta «nel IV centenario della nascita» dall'Accademia fiorentina delle arti del disegno il giorno • III novembre MCM». Le abitazioni prospicienti su parte della Via Chiara, allora popolarissima, furono abbattute verso il 1875 per fare il Mercato Centrale: la •casetta» del Cellini fu evidentemente sovraelevata di due piani fin dai secoli addietro. Nella parte, che attualmente sussiste col nome di Via Chiara e sbocca in Via Nazionale, si ricorda, con una targa marmorea, che era «già Via delle Marmerucole» (certo dal nome delle piante, più comunemente chiamate «marruche »). Per indicazioni sull'antica topografia fiorentina si vedano sempre utilmente: Gurno CAROCCI, Firenze scomparsa: ricordi storico-artistici, Firenze, Galletti e Cocci, 1898; Die Gebiiude von Floren:z. Architekten, Strassen und Pliit:ze in alphabetischen V er:zeichnissen von WALTER LIMBURGER mit einem Piane des gegenwartigen Florenz und einem Piane vom Jahre 1783, Leipzig, F. A. Brockhaus, 1910, e DEMETRIO GuccERELLI, Scl,edario storico-biografico della città di Firenze, Firenze, Vallecchi, 1929. Per p. 567, nota 1. Il nome di marmerucole (in luogo di n,arrr,che) sarà certo stato familiare al Cellini dal ricordato nome di Via Chiara • già via delle Mannerucole •, di cui immediatamente qui addietro. Per p. 609, nota 2. Si citi in modo specifico la trattazione di CORRADO :R1cc1, I Cellini di Ravenna, nel numero commemorativo de • Il Marzocco» per il IV centenario della nascita dell'artista, a. v, n. 44, 4, novembre 1900, pp. [1-2]. Per p. 678, nota 7. Il sonetto del Varchi, per quanto di scarso valore letterario, si. sarebbe forse potuto raccogliere come testimonianza storica intorno al Cellini nelle più recenti ristampe di componimenti poetici del Varchi stesso; cfr. appunto, per una scelta di poesie di lui, le citate sillogi di Lirici del Cinquecento commentati da Luigi Baldacci, Firenze, Salani, 1957, pp. 323-31, e Lirici del Ci11quecento, a cura di Daniele Ponchiroli, Torino, U.T.E.T., 1958, pp. 237-42.

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IIJI

Per p. 709, nota 10. Dato che gli studiosi italiani continuano a parlare di Esnay, si dica coi critici francesi (ad es., JEAN TRicou, Un archeueque de Lyon au XVJe siècle: Hippolyte d'Este, nella •Revue des études italiennes», N.S., v, 1958, pp. 147-66, e Hippolyte d'Este archeueque de Lyon et la Règle de r56z, nei «Cahiers d'histoire •, 1959, 4, pp. 323-38) che si tratta di Ainay, appunto presso Lione. Per opportuni riferimenti si veda il Ré-pertoire topo-bibliographique des abbayes et prieuré-s par Dom L. H. CoTTINEAU, O.S.B., Moine bénédictin, [voi. I], Macan, Protat frères, 1935, colonne 36-8, con ampia bibliografia. Per p. 864, nota 6. Su questo orologio, già deteriorato ai tempi del Cellini, si veda una testimonianza del Trattato dell'Oreficeria, qui addietro, p. 975. Nel suo commento ai Trattati dell'Oreficeria e della Scultura, Firenze, Le Monnier, 1875, cit. - con ristampa 1893 -, p. 12, CARLO MILANESI diceva: a Questo mirabile oriuolo non esiste più•· Il CAMESASCA, commento alla Vita già menzionato, p. 450, dice per erronea informazione che esso è stato « trasferito nel Museo nazionale di Firenze•· Per p. 869, nota 6. Nell'edizione originale dei Due trattati del Cellini, In Fiorenza, Per Valente Panizzij, & Marco Peri, MDLXVIII, in realtà 1569, tra le Poesie toscane et latine sopra il Perseo statva di Bronzo e il Crocifisso Statua di Marmo fatte da Messer Benuenuto Cellini, aggiunte alla fine del volume, si legge alla carta S [i]' il sonetto Sì come 'l Ciel di vaghe stelle adorno, di Domenico Poggini • orefice e scvltore •· Per p. 894, nota 4. Questa statua, menzionata dall'inventario di cui nel precedente nostro commento, è stata considerata perduta per lungo tempo. Per fortuna a Firenze, con larghezza di prove storiche, essa è stata individuata fra le statue del giardino di Boboli e quindi sagacemente illustrata da FRIEDRICH KRIEGBAUM, Marmi di Benvenuto Cellini ritrovati, in «L'arte: rivista di storia delrarte medievale e moderna•, a. XLIII N.S., voi. XI -, 1940, pp. 3-25. Cfr. le tavole 1, 2 e 6, e anche la tavola 15 con un celliniano Disegno d'Apollo dal Gabinetto delle stampe di Monaco di Baviera. Per p. 895, nota 6. Anche la statua di Narciso è stata individuata fra le statue del giardino di Boboli dal KRIEGBAUM, art. cit. Cfr. le tavole 3, 4, 5 e 7, e inoltre la tavola 9 con un bozzetto celliniano per il Narciso (Londra, Victoria and Albert Museum) e fig. 11 con un'antica incisione di Stefano della Bella, Veduta del giardino di Pratolino (dove si nota la statua del Narciso: essa venne trasferita nel Settecento nel giardino di Boboli). Spiace che, a corredo delle citate silloge della Vita e di altri scritti, con introduzione di Giulio Cattaneo (Milano, Longanesi & C., 1958), la tavola 66, nel riprodurre il Narciso, lo dichiari ancora conservato nel Giardino di Boboli. Per p. 903, nota 5. Per importanti rettifiche tecniche intorno alla fusione della statua, si vednno le Notizie storiclie sulla fusione del «Perseo• con alcrmi documenti inediti di Benvenuto Cellini, a cura di GUGLIELMO SOMIGLI, Milano, Associazione Italiana di Metallurgia, 1958. Per p. 904, linea s dal fondo, in merito al Cellini che asserisce essersi a consumata la lega• per virtù del I terribile fuoco• si leggano invece le ragguardevoli risultanze del SOMIGLI, studio sopra citato: lo stagno del-

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la lega era andato in gran parte disperso attraverso successive riduzioni (l'artista aveva avuto vari pezzi di metallo dal duca per usarli in nuove fusioni) e attraverso altre eventuali operazioni. Per p. 918, linee 3-10. Delle porte qui citate di Firenze alcune sono già state menzionate: cfr. p. 511, [libro 1, cap. VIII], linea 6, per la porta di San Gallo e la Porta a Pinti, e p. 522 1 nota :z, per la Porta a San Piero Gattolini. Si tenga conto che sono ancora conservate quelle di San Gallo, della Croce, al Prato, di San Frediano e di San Giorgio (o del Belvedere). La Porticciuola delle Mulina era nei pressi dell'attuale Via Curtatone; la Porta a San Niccolò si trovava nella zona dell'attuale Piazza Francesco Ferrucci. La Porta alla Croce aveva anche nome della Croce al Borgo o di Sant' Ambrogio (e anche di Santa Candida). A sua volta la Porta a Pinti o Fiesolana era sita nell'estremo di Borgo Pinti verso la campagna, nei pressi dell'attuale Piazza Donatello. La Porta a San Piero Gattolini (oggi Porta Romana) era anche chiamata Porta a San Felice o Porta a piazza. Qualche cenno sui mutamenti storici reca la rievocazione del citato studio di GUIDO CARoCCI, Firenze scomparsa: ricordi storico-artistici, Firenze, Galletti e Cocci, 1898, pp. 19-25, Le mura e le porte. Per p. 933 1 linea 5. La «Via del palagio del podestà• corrisponde al prolungamento alla parte iniziale della Via Ghibellina. Il Palagio del Podestà o del Bargello è ora il famoso Museo Nazionale, dove sono conservate - in una sala a sé nel secondo piano - varie opere del Cellini orafo e scultore. Per p. 957, nota 6. Di Laura Battiferra, moglie dell'Ammannati (sulla quale si noti anche un riferimento del Cellini alla p. 949 1 nota 4), si veda una scelta delle poesie nei Lirici del Cinquecento, a cura di Luigi Baldacci, ed. cit., pp. 354-7, e nei Lirici del Cinquecento, a cura di Daniele Ponchiroli, ed. cit., pp. 435-41: ambedue le raccolte recano notizie biografiche e bibliografiche. La poetessa (nata a Urbino nel 1523 e morta a Firenze nel 1589) era stata vedova, in prime nozze, del bolognese Vittorio Sereni. Note sono le relazioni letterarie di lei con Bernardo Tasso, Annibal Caro, Anton Francesco Grazzini, Lelio Capilupi e altri.

INDICI

IN.DICI DEI NOMI

* INDICE DEI NOMI DEL « CORTEGIANO» DI BALDASSARE CASTIGLIONE Absburgo (Margherita d'): 240 Accolti (Bernardo), l'Unico aretino: 21, 26-7, 98-9, 212, 271-4 Achille (eroe d'Omero): 77-8, 80, 334 Acuii a (Pietro [o Giovan Pietro] d '), capitano spagnolo, da identificare probabilmente col priore di Messina: 180 Agesilao: 295 Agnello (Antonio): 148 Alamanni (un), originariamente nel codice mediceo-laurenziano Antonio: 179 Alcibiade: 42, 73 1 108, 253 Aldana (capitano spagnolo): I 82 Alessandra: 226 Alessandro VI Borgia, papa: I 8, 148-9, 176, 258 Alessandro Gianneo (re dei Giudei): 226-7 Alessandro Magno: 39, 73-4, 77-9, 85, 87, 122, 129, 169-70, 175, 245,247,249,252, 322-4, 334-5 Alfonso I d'Aragona, re di Napoli: 174, 184 Alfonso II d'Aragona, re di Napoli: 18, 153, 187 (probabilmente) Alidosi (Francesco), « cardinale di Pavia»: 174,181 Altoviti (un), originariamente - nel codice mediceo-laurenziano Francesco : 179 Amadis de Ga11la: 26 S Amalasunta: 239 Amore (mitol.): 347, 357 Ancille: 237 Angoul@me (Francesco d'), ved.: Francesco I di Valois, re di Francia Anichino (personaggio del Decameron): 197

Anna di Bretagna: 240 Annibale: 73-41 323

Anteo (mitol.): 323 Antonio (Marco), oratore: 57, 65 Antonio (Marco), triumviro: 226 Apelle: 50, 85-7 Aquilano (Serafino Ciminelli, detto): 169 Aragona (Eleonora d'), ved.: Este (Eleonora d'), duchessa di Ferrara Aragona (Isabella d'), ved.: Sforza (Isabella), duchessa di Milano Aragona (Luigi d'), monsignore: 191

Aretino (l'Unico), ved.: Accolti (Bernardo), l'Unico aretino Argentina (madonna), moglie di messer Tommaso, gentiluomo pisano: 233 Arione (mitol.): 80 Ariosto (Alfonso): 9, 14, 204, 287 -Aristippo: 75 Aristodemo d'Argo: 311 Aristotele: 73, 79, 220, 334-7 Armonia (figlia di Gelone, tiranno di Siracusa): :228 Artemisia: 244 Asdrubale (generale cartaginese, di famiglia diversa da quella di Asdrubale Barca): 227 Assisi (Francesco d'), santo: 359-60 Asti (Bidon da): 64 Augusto (Gaio Giulio Cesare Ottaviano): 226 Avalos (Vittoria d'), marchesa del Vasto [o del Guasto], nata Colonna: 6 Baccanti (mitol.): 200 Barbarelli da Castelfranco (Giorgio), ved.: Giorgione -Barletta (musico e danzatore): 901 105 Barozzi (Pietro), arcivescovo, probabilmente il «vescovo di Padoa »: 161-2

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INDICE DEI NOMI

Beatrice (personaggio del DecameTon): 197-8 Beatrice d'Aragona, regina d'Ungheria: 243 Beazzano (Agostino), ved.: Bevazzano (Agostino) Bcccadelli (Cesare): 192-3 Belcolore (monna), personaggio del DecameTon: 150 Bembo (Pietro), cardinale: 21, 28-9, 76-8, 123, 126, 142, 153-4, "288, 301, 306-7, 337-8, 342-4, 347, 349-51, 358-60 Beroaldo (Filippo), il Giovane: 164-5 Berto (probabilmente un buffone della Corte papale): 37, 150 Bevazzano [o Beazzano] (Agostino): 172 Biante: 310 Bibbiena (Bernardo Dovizi, detto il), ved.: Dovizi (Bernardo), detto il Bibbiena, cardinale Boadilla (signora), ved.: Bobadilla (Beatrice), marchesa di l\iloya Bobadilla (Beatrice), marchesa di Maya: 177, 196-7 Boccaccio (Giovanni): 8-10, 54-5, 62-3, 66-7, 149, 193, 197, 199 Borgia (Cesare), il duca Valentino: 176 Borgia (Francesco), cardinale: 188 Borgogna (Casa di): 206 Bruno (personaggio del DecameTon): 193 Bruto (Marco Giunio): 73, 226 Buffalmacco (personaggio del DecameTon): 193 Buonarroti (Michelangelo): 8, 64, 84

Caco (mitol.): 323 Calabria (Alfonso, duca di), ved.: Alfonso II d'Aragona, re di Napoli Calandrino (personaggio del DecameTon): 150, 193 Calfurnio (Giovanni): 162 Callistene : 33S Calrneta (Vincenzo Colli, detto): 88, 90, u6-8, 137 Calogero (o Caloria] (Caio), identificabile con un Ponzio siciliano: 193-4

Camma: 230-2 Campaspc: 87 Canossa (Ludovico da), conte: 21, 30,35,38-40,45,48-50,54-5,59, 63-4, 67-8, 72, 76-9, 81, 83-4, 86-90,98-101, 103,143,163,181, 201, 203, 209, 240, 277, 280-1, 288, 290, 296, 329, 343, 347 Canossa (Matilde), contessa: 240 Cara (Marchetto) : 64 Carbone (Papirio) : 6 5 Cardona (Giovanni di), don: 174 Cardona (Ugo di), don: 175 Cariglio (Alonso), ved.: Carillo (Alonso) Carillo (Alonso): 177, 180, 196-7 Carlo V, imperatore: 325 Carlo VIII, re di Francia: 138, 240

Carmenta (Nicostrata, personaggio leggendario più noto sotto il nome di): 234 Castagneto (contessa di): I 97 Castiglio (Andrea), ved.: Castillo (Andrea, probabilmente) Castiglione (Baldesar): 325 (citazione fatta in terza persona) Castillo (Andrea, probabilmente): 187-8 Catilina (Lucio Sergio): 237 Catone (Marco Porcio), il Censore: 57, 174, 178, 215 Catone (Marco Porcio), l'Uticense:

226

Cattanei (Tommaso), vescovo di Cervia: 184 Cattani (Francesco), da Diacceto: 66 Catullo (Gaio Valerio) : 148 Cecilia (Gaia), ved.: Tanaquilla Cerbellione [o Cervillon] (Pietro): 175 Cerere (mitol.): 234 Cesare (Gaio Giulio): 68, 73-4, 139, 245

Cesena (Botton da), non identificato: 183 Ceva (Febus, marchese di): 88, 135 Ceva (Ghirardino, marchese di): 88 Chirone (mitol.): 80 Cicerone (Marco Tullio): 12, 57, 63, 65-8, 151, 237 Cimone: 295 Circe (mitol.): 320

BALDASSARE CASTIGLIONE • IL CORTEGIANO

Ciro il Grande: 73, 238 Clearco (tiranno di Ponto): 311 Cleopatra (citazione generica): 245 Colli (Vincenzo), ved.: Calmeta (Vincenzo Colli, detto) Colonna (Marcantonio): 167 Colonna (Vittoria), ved.: Avalos (Vittoria d'), marchesa del Vasto [o del Guasto] Corinna (poetessa greca): 234 Cornelia: 226 Corvino (Mattia), re d'Ungheria: 243 Coscia (Andrea), ved.: Cossa (Andrea) Cossa [o Coscia] (Andrea): 183 Cotta ( Caio Aurelio) : 6 s Crasso (L. Licinio): S7, 63, 65 Crasso Muziano (Publio), più spesso citato come Publio Licinio Crasso: 121 Crivelli (Biagino): 184 Dalla Colonna (Vittoria), ved.: Avalos (Vittoria d 1 ) , marchesa del Vasto [o del Guasto] dalla Porta (Domenico): 182 dalla Torre (Marc'Antonio): 161 Dario: 122, 247, 252 da Sylva (Miguel), don: 5 della Rovere (Eleonora), duchessa d'Urbino: 289 della Rovere (Felice), figlia naturale di Giulio Il, papa: 258 della Rovere (Francesco Maria), prefetto di Roma e quindi duca d'Urbino: 5, 88-9, 98, 140, 142, 163-4, 183, 288, 361 della Rovere (Galeotto), cardinale dal titolo di San Pietro in Vincoli: 144, 191-2 Demetrio I Poliorcete: 85 Democrito: 146 Demostene: 68 Deodata, ved. : Teodoro Després (Josquin): 133 Diacceto (Francesco Cattani da), ved.: Cattani (Francesco), da Diacceto Diana (mitol.): 231 Diomede (mitol.): 323 Diane siracusano: 335 Dionisio il Giovane, tiranno di Siracusa: 335 72.

1137

Diotima: 234, 360 Donato (Girolamo): 160 Dovizi (Bernardo), detto il Bibbiena, cardinale: 7-8, 21, 39, 48, 55, 130, 143-4, 150, 153-6, 158, 16971, 186-7,192,195-201,203,274, 277, 281-2, 288, 325, 328 Egano (personaggio del Decam4ron): 197-8 Egnazio (personaggio catulliano): 70 Elia: 356 Ennio (Quinto): 57, 63, 177 Enrico VIII, re d'Inghilterra: 325 Epaminonda: 80,295 E picari (libertina romana): 228 Epimeteo (mitol.): 298 Ercole {mitol.): 204, 323-4, 356 Ermo (sant'): 175 Eschine: 65, 68 Esiodo: 63 Esopo: 95 Este (Casa d'): 240 Este (Beatrice d'), ved.: Sforza (Beatrice), duchessa di Milano Este (Borso d'): 94 Este (Eleonora d'), duchessa di Ferrara: 243 Este (Ercole I d'): 152 Este (Ippolito I d'), cardinale di Ferrara: 33 Este (Isabella d'), marchesa di Mantova, ved.: Gonzaga (Isabella), marchesa di Mantova Ettore romano (forse un Giovenale): 88 Eva: 223 Evandro (personaggio dell'Eneide): 57, 2 34

F abii (famiglia romana): 82 Fabio Pittore: 82 Federico I d'Aragona, re di Napoli: 244 Fedra (Tommaso lnghirami, detto): 163 Fenice (personaggio d'Omero): 334 Ferdinando il Cattolico, re di Spagna: 177,196,241,262 Ferdinando d'Aragona, duca di CaJabria: 244 Ferdinando li d'Aragona, re di Napoli: 18, 47, 139, 168, 243

1138

INDICE DEI NOMI

Ferrando Consalvo, ved.: Hernandez y Aguilar (Gonzalo), il Gran Capitano Fetti (Mariano), fra: 25, 144, 194 Filippello (personaggio del Decameron), ved.: Sighinolfo (Filippello) Filippo, re di Macedonia: 46, 170 Filippo di Demetrio, re di Macedonia: 238 Florido (Orazio): 88 Foglietta (Agostino): 173 Folco (Roberto) : 168 Forli (Antonello da), capitano di ventura: 176 Francesco I di Valois, re di Francia: 72, 325 Francia (Casa di): 206 Fregosa (Costanza), ved.: Fregoso (Costanza) Fregoso (Costanza): 23-4, 69, 90 Fregoso (Federico): 21, 29-30, 51, 53, 55-6, 63, 66-9, 89-90, 98-9, 101, 104-5, 107, 109-10,

I

12-3,

115, 117-20, 122-30, 133, 135, 137, 139, 141, 143, 148, 186, 201, 203, 205-6, 264-6, 278, 287, 290, 296, 343-4 Fregoso (Ottaviano): 7, 21, 27-8, 195-6, 200-1, 208,

215, 221,

237, 261, 285-7, 289-90, 297-8, 300-5,307-8,311-2,314-7,320-1, 323, 326-3 I, 335·7 Frisio [o Frigio] (Niccolò): 21, 202, 205, 207, 223, 229-30, 232, 233, 245, 253, 259, 328-9

Gal ba (Sergio) : 57 Galba (Servio Sulpicio): 65 Galeotto (Giovan Tommaso): 163 Gallego de Peralta (Lu(s), ved.: Peralta (Luis Gallego de) Galles (Enrico, principe di), ved.: Enrico VIII, re d'Inghilterra Garda de Paredes (Diego): 167-8 Garzia (Diego), ved.: Garcia de Paredes (Diego) Gein [Gem, Djem o Zizim] Ottomani: 168. Gelone siracusano: 228 (per errore del Castiglione: leron, in luogo di: Ielon o Ielone) Gerione (mitol.): 323 Gerolamo (san): 22.3

Giorgio (snn): 206 Giorgione (Giorgio Barbarelli, da Castelfranco) : 64 Giovanna III d'Aragona, regina di Napoli: 243 Giovanna IV d'Aragona, regina di Napoli: 243 Giove (mitol.): 204, 219, 298, 304 Giovenale (Ettore), ved.: Ettore romano Giovenale (Latino), de' Manetti: 182 Giulio II della Rovere, papa: 18, 22, 88, 162, 182, 184-5, 322 Giunone (mitol.): 205 (fra le «tre Dee II del giudizio di Paride) Golpino (servitore), ved.: Volpino Gonella (buffone): 194 Gonzaga (Casa): 240 Gonzaga (Alessandro): 169-70 Gonzaga (Cesare): 21, 24, 31, 39, 42, 44, 50, 55, 76, 86-7, 105, II5, 123, 151, 154, 157, 207, 213, 248-9, 253-5, 257, 259, 261, 274, 279-81, 285, 287, 290, 303, 316, 321, 326-7, 346, 359-60 Gonzaga (Eleonora), duchessa di Urbino, ved.: della Rovere (Eleonora), duchessa d,Urbino Gonzaga (Elisabetta), ved.: Montefeltro (Elisabetta di), duchessa d'Urbino Gonzaga (Federico I), marchese di Mantova: 172, 176-7, 322 Gonzaga (Federico Il), marchese di Mantova: 329 Gonzaga (Francesco), IV marchese di Mantova: 256, 322 Gonzaga (Giovanni): 169-70 Gonzaga {Ippolito), cardinale, ved.: Este (Ippolito I d'), «cardinale di Ferrara » Gonzaga (Isabella), marchesa di Mantova: 243 Gonzaga (Ludovico), vescovo di Mantova: 256 Gonzaga (Margherita): 90, 229-30 Gracco (Caio Sempronio): 65 Granata (re di), vinto nel 1492: 262

Hernandez y Aguilar (Gonzalo), il Gran Capitano: 164, 167, 175, 242

BALDASSARE CASTIGLIONE • IL CORTEGIANO

Iacopo di Nino d'Ameria (probabile identificazione di un • vescovo di Potenza»): 159 Inghilterra (Casa d'): 206 lnghirami (Tommaso), ved.: Fedra (Tommaso Inghirami, detto) loan Cristoforo romano: 2.1, 83, 153, 159 lpsicrate (moglie di Mitridate IV, re del Ponto): 2.27 Isabella d'Aragona, regina di Napoli: 244 Isabella di Castiglia, regina di Spagna: 180, 187, 241, 262 Isocrate: 65

Josquin

des Prés, ved. : Després (Josquin)

Lattanzio di Bergamo (da identificare con un castellano di San Leo): 176 Laura (madonna), cantata da F. Petrarca: 263 Lavinello (personaggio degli Asolani del Bembo): 338 Lelio (citazione generica quale esempio di amicizia) : 126 Lelio (Gaio): 65 Leona: 228 Leone X de' Medici, papa: 184 (citato in qualità di cardinale): 288 Leonico Torneo (Niccolò): 173 Licurgo: 80 Lisia: 65 Lisia pitagorico, ved.: Liside Liside (Lisia pitagorico, piuttosto da chiamare): 295 Livio (Tito): 61 Lucca (Proto da), buffone della Corte papale: 162 Lucullo: 73, 245, 295 Luigi XII, re di Francia: 168, 240 Maffei (Mario), dn Volterra, ved.: Volterra (Mario da) Manlio Torquato: 120 Mantegna (Andrea): 64 Maometto: 324 Marco Antonio (maestro), probabilmente medico: 183 Maria, madre di Gesù Cristo: 223 Maria Maddalena (santa): 360

1139

Mariano (fra), buffone, ved.: Fctti (Mariano), fra Mario: 239 Mario (Maffei) da Volterra, ved. : Volterra (Mario da) Marzi (Galeotto), da Narni: 160 Massimiliano I d'Absburgo (imperatore): 240 Massimo (Roberto), da Bari: :u, 48, 150-1, 258-9, 271, 288 Medici (Andrea, detto il Grasso de'): 78 . Medici (Cosimo de'): 1661 181 Medici (cardinal Giovanni de'), ved. : Leone X Medici (Giuliano di Lorenzo de'), duca di Nemours: 7-8, 21, 49, 54-5, 62,72,81, 89-90, 109,122, 155, 169, 171, 200-3, 205, 207-8, 212-3, 215-7, 220-1, 223, 225-30,

232-7, 2.39-40, 245, 248, 261, 264-6, 268-71, 274-5, 277-9, 281-3, 285,288, 302-3, 325,328, 330-1, 350-1, 360-1 Medici (Lorenzo di Piero de'), il Magnifico: 66, 172-3, 232 Meliolo (Ludovico): 194 Mercurio (mitol.): 298 Messina (prior di), capitano spagnolo, ved.: Acuiia (Pietro [o Giovan Pietro] d') Metrodoro: 86 Michelangelo, ved.: Buonarroti (Michelangelo) Michele (san): 206 Minerva (mitol.): 108 1 205 (fra le • tre Dee• del giudizio di Paride), 298 Minutolo (Ricciardo), personaggio del Decameron: 196-9 Mirti (o l\llirtide), poetessa greca: 234 Mitridate IV, re del Ponto: 227 Molard (capitano francese): 182 Monte (Pietro) : 21, 46, II 1, 2.07 Montefeltro (Casa): 240 Montefeltro (Elisabetta di), duchessa d'Urbino: 7-8, 19-20, 22-24, 26, 29, 30, 44, 55, 88, 90-1, 98, 124, 143-4, 148, 159, 173, 187, 196, 200, 202-3, 205-8, 2,39, 256, 258-9, 264, 271-2, 280, 285-7, 312, 316, 321, 330, 337, 342, 347, 359-61

INDICE DEI NOMI

1\1:ontcfeltro (Federico di), duca d'Urbino: 16-7, 152, 187, 313 Montefeltro (Guidubaldo di), duca d'Urbino: 5, 17, 98, 152, 164, 176, 180, 184 Moscovia (duca di), citazione generica: 156 Mosè: 356 Muziano (Publio Crasso), ved.: Crasso Muziano (Publio) Napoli (Pietro da): 21, 78, 112 Nerone: 228 Niccolò V Parentucelli, papa: 149 Nicoletto, ved.: Vernia (Paolo Nicola), detto Nicoletto Nicostrata, ved.: Carmenta Omero: S4, 57, 63, 68, 73, 77-8, 334 Orazio Fiacco {Quinto): S7 Oreste (citazione generica): 126 Orfeo {mitol.): 200, 219 Ortensio Ortalo (Quinto): S7 Ortona {Morello da), vecchio cavaliere (forse un Morello Riccardi [o Rizzardi] da Ortona a mare): 21, S9, 101, 103, 109-10, 112, 338, 342-4, 346, 349-50 Orvieto (Nicoletto da), cortigiano di Leone X: 169 Ottavia: 226 Ovidio Nasone (Publio): 260, 282 Padova (vescovo di), ved.: Barozzi (Pietro), arcivescovo Paleotto (Annibale): 158 Paleotto (Camillo): 163 1 176 Pallade {mitol.): 234 Pallavicino (Gaspare): 21-2, 34, 38, 42, S4, 79, 81, 104, 107, I 19, 124-5, 127-9, 132-3, 139, 152, 169, 171, 195-202, 205, 207-9, 212, 214-7, 221, 225-6, 229-30, 232, 236-8, 241-2, 246, 248-9, 252, 254-5, 259, 261, 263-4, 267, 269, 274-5, 281, 283, 285-7, 289-90, 297-8, 300-1, 305, 308, 311-2, 314-6, 320, 327, 330, 335-7, 346, 359-61 Panezio: 295 Paolo (figlio di un messer Tommaso, gentiluomo pisano): 233 Paolo (san), di Tarso: 152, 178, 360

Paolo Emilio (Lucio): 86 Paride (mitol.): 205 Pazzi (Giannotto de'): 181 Pazzi (Raffaello de'): 180 Peleo (mitol.): 334 Pepoli (conte de'), non identificato: 165 Peralta (Luis Gallego de): 182 Pericle: 247, 254 Petrarca (Francesco): 54-6, 62-3, 66-7, 263 Pia (Emilia), ved.: Pii (Emilia de') Pianella (conte di), ved.: Probo (Iacopo d'Atri, della famiglia dei) Piccinino (Niccolò): 94 Pierpaolo (paggio): 48 Pietro (san), apostolo: 178 Pigmalione (mitol.): 208 Pii (Casa de'): 240 Pii (Emilia de'): 19, 22-3, 26-30, 44-5, 68-9, 83, 89-90, II2, 140, 143-4, 153-4, 160, 171, 200, 202, 221, 225, 227, 237, 254, 269, 272-4, 285, 316, 321, 330, 338, 359, 361 Pii (Ludovico de'): 21, 78, 119, 135 Pilade (citazione generica): 126 Pindaro: 234 Pio III Todeschini, papa: 148 Piritoo (citazione generica): 126 Pistoia (Antonio Cammelli, detto il): 169 Pitagora: 109, 204 Platone: 12, 79, 215, 328, 334-6, 359 Plauto: 57 Plotino: 3 59 Polifito ( con riferimento ali' Hypnerotomachia Polipliili): 279 Poliziano (Angelo Ambrogini, detto): 66 Polonia (re di), citazione generica: 156 Pompeo (Sesto): 229 Pompeo Magno (Gneo): 73 Pontremoli (Giovan Luca da): 182 Ponzio (studente), ved.: Calogero [o Caloria] (Caio) Porzia (o Porcia): 226 Porzio [Porcaro] (Antonio): 163 Porzio [Porcaro] ( Camillo) : 167 Potenza (vescovo di), ved.: Iacopo di Nino d'Ameria Prelibato (nome fittizio): 153

BALDASSARE CASTIGLIONE • IL CORTEGIANO

Probo (Iacopo d' Atri, della famiglia dei), conte di Pianella: 170 Procuste [o Procruste] (mitol.): 323 Prometeo (mitol.): 298 Protogene: 50, 85 Quifiones (Diego de): 164 Rangone (Ercole): 165 Riccardi [o Rizzardi] da Ortona a mare (Morello), ved.: Ortona (Morello da) Rizzo (Antonio), non ben identificato: 181 Roberto da Bari, ved.: Massimo (Roberto), da Bari Romolo: 235 Sadoleto (Iacopo): 164-5 Saffo: 234 Salazar de la Pedrada: 166 Salii: 57 Sallaza della Pedrada, ved. : Salazar de la Pedrada Sallustio (Gaio Crispo): 68 Salomone: 263, 351 Salute: 82 San Bonifacio (conte Ludovico da): 185 San Giorgio (Giovanni Antonio di), da identificare con un «cardinale alessandrino»: 168 Sannazzaro (Iacopo): 133 San Secondo (Iacopo da): 144 Sanseverino (Galeazzo): 46 Santa Croce [probabilmente Santa Cruz] (Alfonso), capitano spagnolo: 174 Sanzio (Raffaello): 8, 64, 84, 178 Sardanapali (citazione generica): 245 Scilicco (Wolfango), probabilmente citato come «un Tedesco»: 164 Scipione (Publio Cornelio), l'Africano: 65, 73-4, 226, 245, 247, 250, 252, 295

Scipione Enùliano (Publio Cornelio), l'Africano minore: 174 Scipione N asica: I 77 Scipioni (citazione generica): 126 Scirone (mito!.): 323 Semiramide: 245 Senocrate: 247, 253-4 Senofonte: 12, 73, 295, 317

1141

Serafino (fra), buffone: 25, 128, 194-5 Serafino (maestro), medico urbinate: 179-80 Sforza (Beatrice), duchessa di Milano: 243 Sforza (Isabella) duchessa di Milano: 243 Sforza Riario (Caterina): 37 (probabile allusione) Sibille (mitol.): 234 Sicilia (tiranni di): 334 Sighinolfo (Filippello), personaggio del Deca111ero11 : 196-9 Silio Italico (Caio): 67-8 Silla: 73 Silva (Miguel de), don, ved.: da Sylva (Miguel), don Simone (maestro), personaggio del Decameron: 193 Sinatto: 231-2 Sinorige: 231-2 Socrate: 73, 79, 95, 109, 174, 215, 253, 359-60 Sofà (lsmail), re di Persia: 206 Spagna (Carlo, principe di), ved.: Carlo V, imperatore Stalla (maestro), citato burlescamente: 18r Stefano (santo), protomartire: 360 Stesicoro: 344 Strascino (Niccolò Campani, detto): 150 Strozzi (Palla): 166-7 Sulpicio Rufo (Publio), oratore: 65 Tacito (Cornelio): 67-8 Tanaquilla (Gaia Cecilia, detta): 226 Tarpea: 236 Tarquinio Prisco: 226 Temistocle: 80 Teodolinda: 239 Teodora (da identificare con la moglie di Teofilo, imperatore d'Oriente, o forse piuttosto con la moglie di Giustiniano): 239 Teodoro: 103 Teofrasto: 11 Terpandro (Anton Maria): 21 Teseo (mitol.): 126 (citazione generica), 323 Tito Tazio: 235-6 Tolosa (Paolo): 180

INDICE DEI NOMI

Tomiri, regina di Scizia: 244 Tommaso (messer), gentiluomo pisano: 232-3 Torello (Antonio): 181 Turno (personaggio delP Eneide): 57 Ubaldini (Ottaviano): 176 Ulisse (eroe d'Omero): 334 Unico (L') aretino, ved.: Accolti (Bernardo), l'Unico aretino Vangelo: 115, 162 Varlungo (prete da), personaggio del Decameron: 150 Varrone (Marco Terenzio), reatino: 68

Venere (mitol.): 205 (fra le «tre Dee• del giudizio di Paride), 253, 361 Venere Annata (mitol.): 237 Venere Calva (mitol.): 237 Vernia (Paolo Nicola), detto Nicoletto: 137 Vinci (Leonardo da): 64 Virgilio Marone (Publio): 54, 57, 61, 63, 67-8 Visconti (Filippo Maria): 94 Volpino [o Golpino], servitore: 172 Volterra (Mario da): 172 Vulcano (mitol.): 298 Zenobia: 245 Zeusi: 87

INDICE DEI NOMI DEL a GALATEO» DI GIOVANNI DELLA CASA Agabito (maestro), nome fittizio: 420

Agnolo (messer), nome fittizio: 419 Agostino (messer), nome fittizio: 419 Alamanni (Antonio), citato per un suo Sonetto alla burchiellesca: 41 3 Aldruda (madonna), di cui nella Canzone del nicclzio menzionata dal Decameron: 409 Alighieri (Dante): 411-6, [417-8, 420]

Arabico (maestro), nome fittizio: 420 Aragona (Pietro d'): 395 Argenti (Filippo), personaggio del Decameron: 406 Aristofane: 436 Arrigo (maestro), nome fittizio: 420 Aurora (mitol.): 417 (citazione dalla Divina Commedia) Avarizia (madonna), ved.: Grimaldi (Erminio) Avvcnentezza (raffigurazione poetica): 439 Bandinelli (Ubaldino): 380-1 Beatrice {personaggio della Divina Commedia): 418 Belcolore (monna), personaggio del Decameron: 417

Bernardo (messer), nome fittizio: 4 19 Biondello (personaggio del Decameron): 406 Boccaccio (Giovanni): 372, 385, 407, 410, 417, 421 Boccadoro (Giovanni), san: 408 Borsiere (Guglielmo), personaggio del Decameron: 41 I Brufaldo (mastro), non identificato: 415 Brunetta (personaggio del Decameron): 382 Castiglione (sire di), personaggio del Decameron: 389 Castracani (Castruccio): 433 Cecchina (personaggio fittizio): 386 Chatillon (abate di), ved.: Castiglione (sire di) Chiarissimo (cioè Policleto, scultore) : 424, 428 Chichibio (personaggio del Decameron): 381-2 Cicerone (Marco Tullio): 422 (citazione dalla Divi11a Commedia) Contrapponi (ser), soprannome scherzoso: 402 Corbaccio (protagonista del), personaggio del Boccaccio: 372 Cupido (mitol.): 433

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GIOVANNI DELLA CASA • IL GALATEO

Dante, vcd.: Alighieri (Dante) dell'Oria (Ruggcr), ved.: Lauria (Ruggero) Diodato (cioè Teodoro, istrione):

Manfredi (re): 433 Mizione (personaggio di Terenzio): 405

Momo (personaggio .fittizio): 386

428

Dioneo {personaggio del Decameron): 408-9 Domeneddio (come personaggio fittizio): 387-8 Domenico di Guzman (san): 418 (citazione dalla Divina Commedia) Dottor Sottile (il), soprannome scherzoso: 402 Edipo (mitol.): 400 Eschino (personaggio di Terenzio): 405

Filostrato (personaggio del Decameron): 386 Florimonte (Galeazzo), ved.: Galateo (Galeazzo Florimonte) Galateo (Galeazzo Florimonte): 373-4

Ganimede (mitol.): 433 Gianfigliazzi (famiglia): 410 Gianfigliazzi (Currado), personaggio del Decameron: 381-2 Giberti (Giovanni Matteo): 372-4 Giotto: 390, 404 Grimaldi (Erminio), personaggio del Decameron: 411 Grisostomo (Giovanni), ved.: Boccadoro (Giovanni), san lsmene (figlia di Edipo): 400 Lauretta (personaggio del Decameron): 407 Lauria (Ruggero), di cui nel Decameron: 395 Leggiadria (raffigurazione poetica): 439

Lino (mitol.): 422 (in citazione dalla Divina Commedia) Lodovico IV il Bavaro: 433

Oretta (madonna), personaggio del Decameron: 407, 410 Pallade (mitol.): 438 Pindaro: 439 Policleto (scultore), ved.: Chiarissimo Prato (madonna Filippa da), personaggio del Decameron: 406 Rabatta (Forese da), personaggio del Decameron: 404 Restagnone (personaggio del Decameron): 419 Ricciardo (conte), personaggio allusivo: 373-4, 432 Rucellai (Annibale), a cui sembra sia indirizzata l'opera: 367 Seneca (Lucio Anneo): 422 (in citazione dalla Divina Commedia) Socrate: 436-7 Taide (personaggio di Terenzio): 417 (in citazione dalla Divina Commedia) Teodoro, istrione, ved. : Diodato Teseo (mitico re d'Atene): 400 Titone (mitol.): 417 (in citazione dalla Divina Commedia) Tommarozzo (Flaminio): 387-8 Tuttesalle (ser), soprannome scherzoso: 402

U berti (Lapo degli):

406

Venere (mitol.): 429 Villani (Giovanni), citato per la sua Cronica: 413 Vinciguerra (messer), soprannome scherzoso: 402 Zeusi (pittore): 429 (allusione)

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INDICE DEI NOMI

INDICE DEI NOMI DELLE ORAZIONI DI GIOVANNI DELLA CASA Alessandro Magno: 474 Assia (Filippo d,), langravio: 468 Attila: 484 Augusto (Gaio Giulio Cesare Ottaviano): .455 Barbarossa, ved.: Federico I di Hohenstaufen, imperatore Borbone (connestabile di), ved.: Bourbon (Charles de), connestabile Bourbon (Charles de), connestabile: 452 Camillo (Marco Furio): 479 Carlo V d'Absburgo, imperatore: 443-73, 474-91 Catone (Marco Porcio), il Censore: 474 Cesare (Gaio Giulio): 453, 474 Ciro: 474 Clemente VII Medici, papa: 452 Gorrado IV di Svevia, imperatore: 455 Cosimo I (duca e poi granduca di Toscana): 448 Cristo (Gesù): 449 Dario: 474 Doge di Venezia: 443, 445-51, 455-6, 458-9, 461, 465, 467, 470-2 Doria (Andrea): 449

Eco (mitol.): 468 Enrico II di Valois, re di Francia: 443, 445, 456, 464, 467, 470-2

Farnese (Alessandro), generale imperiale, poi duca di Parma e Piacenza: 482 (allusione), 483 (c.s.), 490 (c.s.) . Famese (Ottavio), duca di Parma e Piacenza: 480, 482, 488 Famese (Pier Luigi), duca di Castro e quindi di Parma e Piacenza: 453, 471, 487 (allusione), 489 (c.s.)

Federico I di Hohenstaufen, imperatore: 455 Federico d'Aragona, re di Napoli: 455 Filippo d' Absburgo, principe di Spagna (poi Filippo II, re di Spagna): 448 (allusione), 454 (c.s.), 462-3 (c.s.) Filippo II, re di Macedonia: 474 Francesco I di Valois, re di Francia: 452, 468 Giulia (figlia di Giulio Cesare): 453 (allusione) Gesù, ved.: Cristo (Gesù) Gonzaga (Ferrante), don: 482 (probabile allusione) Lannoy (Carlo di), principe di Sulmona, viceré di Napoli: 452 Lutero (Martin): 454 Manfredi (re di Puglia e Sicilia): 455 Marcello (Marco Claudio): 474 Margherita d'Austria, e quindi di Parma: 453, 482-3, 489 Mario (Gaio): 474 Massimiliano I d' Absburgo, imperatore: 455 Medea (mitol.): 453 Medici (Alessandro de'), duca di Civita di Penne e, poi, di Firenze: 448 Metello (Quinto), probabilmente: 474 Milziade: 4 74 Napoli (regina di), moglie di Ferdinando II : 448 Ottaviano (Gaio Giulio Cesare), ved.: Augusto Paolo III Famese, papa: 443, 44S (allusione), 456, 467, 470-2, 481 Pericle: 474 Pirro, re dcll'Epiro: 474 Pompeo Magno (Gneo): 453 (allusione)

GIOVANNI DELLA CASA • ORAZIONI

Scipione (Publio Cornelio), l'Africano: 474 Serse: 474

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Temistocle: 479 Tereo (mitol.): 453

INDICE DEI NOMI DELLA «VITA» DI BENVENUTO CELLINI Acciaiuoli (Carlo di Roberto), maestro della Zecca pontificia: 666 Accolti (Benedetto), cardinale: 575, 787 Adriano VI, papa: 560 Agazzari (Porzia), nata Petrucci, confusa dal Cellini con la sorella Sulpizia: 533 Agostiniani di Parigi [Grands-Augustins], frati: 801 Agostino, sarto di Alessandro de' Medici: 683-4 Alamanni (Luigi)·: 591, 595, 772-4, 790, 814, 835 Alamanni (Maddalena), nata Bonaiuti: 835 Albizzi (Gerolamo di Luca degli): 935-7 Albret (Enrico II d'), re di Navarra, ved.: Enrico li d'Albret, re di Navarra Aldobrandi (Bertino): 588, 604-5 Alessandri (uno degli): 659-60 Alessandro VI Borgia, papa: 737 Alicomo (Traiano), chierico e notaio nùlanese: 596-7, 627, 653, 656 Alighieri (Dante): 675, 819 Aliotti (Pier Giovanni), vescovo di Forll: 626, 628 Allegretti (Antonio), letterato: 602, 673, 676 Alli (Gianstefano), cameriere di Cosimo I de' Medici: 951 Allori (Alessandro), nipote del Bronzino: 928 Allori (Angelo di Cosimo), detto il Bronzino, ved.: Bronzino (Angelo di Cosimo Allori, detto il) Almeni (Sforza), cameriere di Cosimo I de' Medici: 888, 912, 929, 931-2 Altoviti (Bindo d'Antonio), mercante: 764, 907-12

Alvarez (Pedro), viceré di Napoli: 644-5 Amalfi (duca d'), ved.: Piccolomini (Alfonso), duca di Melfi (Amalfi) Amatori (Francesco di Guido), da Castel Durante, ved.: Urbino (Francesco di Guido Amatori da Castel Durante, detto) Ambrogio (messer), ved.: Recalcati (Ambrogio) Ambrogio (sant'): 772 Amerighi (Amerigo), smaltatore fiorentino: 548 Ammannati (Bartolomeo): 943, 94950, 957-8 Arnmannati (Laura, nata Battiferra): 957 Anfitrite (mitol.): 773 Angelica, cortigiana: 635-6, 639, 643-5 Anguebò (ammiraglio), ved.: Annebaut (Claude), ammiraglio di Francia Anguillara (Flaminio), da Stabbia, ved.: dell'Anguillara (conte) Aniballe (monsignor d'), ved.: Annebaut (Claude), ammiraglio di Francia Annebaut (Claude), ammiraglio di Francia: 838, 845 Antea, cortigiana romana: 6 xo Anterigoli (Filippo Richi da), prete: 952-5, 963 Anterigoli (Pier Maria Richi d'), detto lo Sbietta o Sbetta, ved.: Sbietta o Sbetta (Pier lVIaria Richi d'Anterigoli, detto lo) Antinoo, favorito dell'imperatore Adriano: 557 Antonio, musico bolognese: 513 Antonio, degli Otto di Pratica: 531, 584 Antonio di Sandro, orafo, ved.:

INDICE DEI NOMI

Ginmberti (Antonio di Sandro di Paolo), detto lVIarcone orafo Apollo (mitol.): 793, 834, 894 Architettura (personificata): 811 Ariani: 772 Arsago (Paolo), ved.: Arzago (Paolo d') Arzago (Paolo d'): 524-5 Ascanio, garzone del Cellini, ved. : Mari (Ascanio de 1) Ascoli (Eurialo d'), improvvisatore: 559 (probabile allusione) • Asino Bue» (monsignor), ved.: Annebaut (Claude), ammiraglio di Francia: 845 Atlante (mitol.): 590 Aurelio Ascolano, ved. : Ascoli (Eurialo d') Aurora (mitol.): 834 Avalos (Alfonso d'), marchese del Vasto [o del Guasto]: 694-5 Baccio d'Agnolo, di casato Baglioni: 940 Bachiacca (il), ved.: Ubertini (Francesco) Bachiacca «ricamatore» (il), ved.: Ubertini (Antonio) Baglioni (Baccio d'Agnolo), ved.: Baccio d' Agnolo, di casato Baglioni Baglioni (Giuliano di Baccio d' Agnolo), ved.: Giuliano di Baccio d'Agnolo, di casato Baglioni Baglioni (Orazio di Giovan Paolo), capitano di ventura: 572 1 576-8, 783-4 Balbo (Girolamo), vescovo di Gurck: 564 Baldini (Baccio, chiamato Buaccio dal Cellini) : 926 Baldini (Bernardo), orafo, dal Cellini chiamato Bernardone, Bernardonaccio e Bernardaccio: 667 1 873, 875, 881-3, 916-7, 925-6, 929, 949

Balducci (Iacopo), zecchiere: 615 Baldinelli (Baccio, chiamato Buaccio dal Cellini): 510, 599, 863, 867-9, 879-80, 885-7, 889-91, 893-4, 918, 927-9, 938-40, 943-6, 948-9, 957 Bandini (Giovanni), soldato mediceo: 6n

Bartolini (Onofrio), arcivescovo: 939 Bartolomeo, scultore e orafo, primo marito di Liperata (originariamente Reparata) Cellini: 585 Barucco, cane del Cellini: 686 Battiferra (Laura), ved.: Ammannati (Laura), nata Battiferra Battista del Tasso, ved. : Tasso ( Giovambattista) Beatrice, cortigiana siciliana: 643 1 645 Beatrice, serva del Cellini a Roma: 679-80 Bellacci (monna Andrea de'): 588 Bella Franceschina (La), ved.: Franceschina (La bella) Bellarmati (Gerolamo), architetto senese: 846 Bembo (Pietro), cardinale: 700-1 Bendidio (o Bendedei), Alberto: 552, 783, 785-7 Benedetto (ser), notaio, conoscente del Cellini: 640- 1 Benintendi (Niccolò): 659-61 Benintendi (Piero): 659, 661-3 Benvegnato perugino, cameriere di Clemente VII: 567-9 Berardini (Giangiacomo), da identificare probabilmente con Giangiacomo da Cesena, piffero: 539-40

Berengario (Iacopo), da Carpi, cerusico: 551-3, 586 Berlinghieri (Berlinghiero): 606 Bernardaccio o Bernardone, ved. : Baldini (Bernardo) Bernardi (Giovanni), intagliatore di gemme e incisore alla Zecca pontificia: 639 Bemardini (maestro), ved.: Lilli (Bernardino) Bernardino di Mugello, garzone del Cellini, ved.: Mannellini (Bernardino) Bertoldi (Pierfrancesco), notaio: 952

Bettini (Baccio) : 687-8 Bevilacqua (forse milanese), spadaccino: 546-7 Bibbia vulgare: 747-50 Biliotti (Zana de'), contabile: 614 Bini (torre dei, in Roma): 576

BENVENUTO CELLINI • LA VITA

'Bologna (il), ved.: Primaticcio (Francesco) Boni (Crespino de'), bargello di Roma: 715 Boni (Pasqualino), d'Ancona: 918 Borbone (connestabile di), ved.: Bourbon (Charles de) Boreò (Lemmonio), spirito folletto, ved. : Lemmonio Boreò Boulogne (Jehan), ved.: Giambologna Bourbon (Charles de), connestabile: 570-2 Bourbon (François de), conte di Saint-Paul, ved.: Saint-Paul (François de Bourbon, conte di) Bozza, birro: 729-30, 748 Braghettone (Daniele da Volterra, detto il): 966 Bramante (Lazzero Donati, detto il): 619 Brandini (Giovambattista): 938 Brandini (Michelangelo di Viviano), orefice: 510 Broccardo, nome dello schioppo del Cellini: 740 Bronzino (Angelo di Cosimo Allori, detto il): 928, 938 Bugiardini (Giuliano), pittore fiorentino: 590 Buonaccorsi (Giuliano), tesoriere di Francesco I: 708-9, 871, 877 Buonarroti (Michelangelo): 519-21, 532, 551, 563, 589-90, 663, 861, 880,891,908-12,928,938,944-5, 947 Bus bacca (il), corriere fiorentino: 702, 705-7 Buti (Cecchino): 955 Cabresa ( don Francesco), vescovo di Salamanca: 532, 537-8, 541-2, 544-5 Caco (mitol.): 891-2, 928, 944 Cagli (Benedetto da), giudice: 716 Canida, serva: 566 Capitaneis (Pompeo de), gioielliere, da identificare col Pompeo milanese della Vita: 596, 627-8, 632-3, 641, 643, 650-2, 654-5, 657, 715, 739 Capretta beccaio (il): 903

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Capua (arcivescovo di), ved.: Scombcrg (Nicola) Capua (priore di), ved.: Strozzi (Leone di Filippo) Caradosso (Cristoforo Foppa, detto il): 548, 562-3, 595, 616 Carità (personificata): 689 Carlo V, imperatore: 689-92, 696, 734, 808, 836-8 Carnesecchi (Pietro), già segretario di Clemente VII : 648 Caro (Annibal): 602, 641, 673, 676 Caronte (mitol.): 675, 680 Carpani (Giovampiero), ved.: della Tacca (Giovampiero) Carpanis (Giovampiero de), ved.: della Tacca (Giovampiero) Carpi (Iacopo da), ved.: Berengario (Iacopo), da Carpi Carrucci (Iacopo), ved.: Pontormo (Iacopo Carrucci da) Castel Bolognese (Giovanni da), ved.: Bernardi (Giovanni) Castori (Francesco), orafo: 512 Castro (duca di), ved.: Famese (Pier Luigi) Caterina, modella e amante del Cellini a Parigi (da lui detta anche Caterinaccia): 821, 824-5, 82.8-

31, 835

Caterina de' Medici, regina di Francia: 798, 842, 966-7 Cattani (Francesco), da Montevarchi, medico: 683, 958 Cavalierino (il), servitore di Clemente VII: 581, 583, 593 Cavalletti (Scipione di Giovanni), miniatore bolognese: 513 Cecchino del Piffero, ved.: Cellini ( Giovanfrancesco) Cellini (famiglia): 609, 829 (indicazione generica) Cellini di Ravenna (presunto ramo, secondo il Cellini): 501, 609 Cellini (Andrea): 503-5 Cellini (Bartolomeo): 503 Cellini (Cosa, originariamente Nicolosa), sorella di Benvenuto: 504, 585 Cellini (Costanza), figlia naturale di Benvenuto: 835-6 Cellini (Cristofano): 502-3 Cellini (Elisabetta, originariamente Maria Elisabetta): 500, 503-4

INDICE DEI NOMI

Cellini (Francesco d'Andrea): 503 Cellini (Giovanfrnncesco), detto Cecchino del Piffero: 51 1-2, 5 15, 584, 588, 603-10 Cellini (Giovanni d'Andrea di Cristofano), maestro: 500, 503-17, 524, 530-1, 538, 540-1, 578, 584-5, 587-8, 594 Cellini (Girolamo): 503 Cellini (Lipernta, originariamente Reparata), sorella di Benvenuto: 505-6, 585, 588, 677-8, 681, 855, 868, 878 Cellini (Luca): 502 Cencio, figlio di Gambetta meretrice: 868, 875-6 Cencio, ved.: Romoli (Vincenzo) e, anche, Vincenzo mantovano Cennini (Bastiano), maestro alla Zecca pontificia: 667 Centano (Andrea): 740-1 Cerbero (mitol.): 551 Ceri (Lorenzo da), capitano di ventura: 546, 572 Cesano (Gabriele), giureconsulto: 772-4 Cesare (messer), «guardaroba» di Cosimo I: 942 Cesare (Gaio Giulio): 500-1, 803 Cesarini (Gabriele), gonfaloniere di Roma: 545 Cesena (capitano da), forse Giustiniano da Cesena o Giovanni Masini: 920 Cesena (Giangiacomo da), piffero, ved.: Berardini (Giangiacomo) Cesena (Giustiniano da), ved.: Cesena ( capitano da) Cesi (Agnolo da), mecenate: 708 Chalons (Filiberto di), ved.: Orangc (Filiberto di Chilons, principe d') Cherubino (maestro), ved.: Sforzani (Cherubino), chierico Chiavelluzzi (Pietro): 737 Chiazzella (Andrea), pittore, ved.: Sguazzella (lo) Chigi: 640 (riportato erroneamente come Figi) Chigi (Agostino): 532 Chigi (Gismondo): 532 Chigi (Sulpizia), nata Petrucci, confusa dal Cellini con la sorella Porzia: 532-7, 545

Chimera (mitol.): 921 Chioccia (Bartolomeo), di cognome Perini, garzone del Cellini: 820, 822, 829-30 Cigno di Leda (mitol.): 807 Cisti, capitano lombardo: 604 Clemente VII Medici, papa: 512-3, 531, 539, 543-4, 552, 567, 570, 573, 575, 578-9, 581-3, 591, 593-4, 596-600, 603, 609-34, 641-3, 647-50, 667, 669, 682, 685, 689, 691-2, 695, 716-9, 883 Cleopatra: 834 Colonna (Stefano), dei principi di Palestrina: 889 Colonnesi (genti del cardinale Pompeo Colonna) : 570 Commodo Antonio (Marco Aurelio): 834 Concini (Bartolomeo), conte di Penna: 961 Conegrano (cavalier), ambasciatore di Ercole II d'Este: 947 Conversini (Benedetto), governatore di Roma: 716-8, 737-8 Cordiani (Antonio di Bartolomeo), ved. : Sangallo il Giovane (Antonio da) Cornaro (Francesco), cardinale: 653-4, 662, 681, 725, 735-6, 740-2, 746 Cornaro (Marco), cardinale: S4S Cortesi (Tommaso), giureconsulto, e poi datario cli Clemente VII: 598-9 Cortona (Giorgio da): 881 Cosimo (san): 665 Crepuscolo (mitol.): 834 Crespino, bargello di Roma, ved.: Boni (Crespino de'), bargello di Roma Cristo (Gesù): 586, 599, 603, 618, 628, 630-1, 689, 718, 744, 751-2, 754, 756, 768 (allusione), 769, 792, 805, 821, 856, 928 Crivelli (Giovampiero), ved.: della Tacca (Giovampiero) Cupido (mitol.): 773 Cybo [e anche Cibo] (Lorenzo), uomo d'arme: 658 Cybo [e anche Cibo] (Ricciarda), nata Malaspina: 658 Cybo [e anche Cibo] Malaspina (Innocenzo), cardinale: 544-5

BENVENUTO CELLINI • LA VITA

Damiano (san): 665 Danae (mitol.): 924 Dante, ved.: Alighieri (Dante) Danti (Vincenzo): 950 Davide: 928 del Bene (Albertaccio): 651-2, 700 del Bene (Albizzo): 651 del Bene (Alessandro di Piero): 570-2, 640, 651 del Bene (Baccio): 966-7 del Bene (Ricciardo), mercante: 708, 835 della Casa (Cecchino): 571 della Chiostra (Ulivieri di Filippo), orefice: 5 I 6-8 della Croce (Baccino o, piuttosto, Bernardino): 603-4, 634 della Fa [o della Pa] (Giacomo, monsignor), ved.: La Fa [o La Pa] (Giacomo, monsignor de) della Mirandola (Galeotto Pico, conte): 807, 853, 857 dell'Anguillara (conte), forse Flaminio Anguillara da Stabbia: 807 dell 'Anguillara (Averso di Flaminio), conte: 555 {probabile identificazione) della Rovere (Guidubaldo), duca d'Urbino: 933 della Stufa (Pandolfo): 639 della Stufa (Prinzisvalle): 527 della Tacca (Giovanfrancesco), orefice, forse fratello di Giovampiero: 740 della Tacca (Giovampiero), originariamente de Carpanis (o Carpani) o Crivelli: 537-8 del Moro (Raffaello), orefice e gioielliere: 592-3, 600-2, 612 del Nazaro [o del Nasaro] (Mattio), intagliatore di gemme: 821, 830 del Nero (Francesco), tesoriere pontificio: 614 del Piombo (Sebastiano), ved.: Sebastiano del Piombo del Verrocchio (Andrea di Michele di Francesco de' Cioni, detto del): 928 Diego (don), gentiluomo spagnolo: 698-9 Diego, giovane spagnolo (anche sotto il nome fittizio di Pomona): 557-8, 560

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Donatello (Donato di Betto di Bardo, detto): 861, 878-80 Donati (Lazzero), da Urbino, ved.: Bramante (il) Donnino orefice, ved. : Rippa (Donnino di Lorenzo) Durante (messer), ved.: Duranti (Durante) Duranti (Durante), poi cardinale: 691-2, 759-61, 770 Enrico II d'Albret, re di Navarra: 798-9, 842 Enrico II di Valois, re di Francia: 798, 816, 842, 966 Ercole (mitol.): 581, 589, 838, 891-2, 928, 944 Ercole del Piffero : 5 13 Este (Alfonso I d'), duca di Ferrara: 552, 782 Este (Ercole Il), duca di Ferrara: 659, 782-5, 787, 947 Este (Ippolito II d'), cardinale di Ferrara: 709, 712-4, 723, 763-4, 771-6,780-1,783,785-6,788-90, 793, 796-7, 799-800, 807, 809, 836-8, 846, 850-3, 855,857,873 Estouteville (J ean d'), signore di Villebon, luogotenente di Francesco I in Normandia e prevosto di Parigi: 793-4 Étampes (Anne de Pisseleu, madame d'): 798, 807-8, 812-7, 826, 839, 841-3, 845-8, 850-1, 854

F agiuolo

(Tommaso d'Antonio, detto), stampatore della Zecca pontificia: 627 Falgano (ser Giovanni di ser Matteo da), ved.: Giovanni (ser) di ser Matteo da Falgano, notaio Fano (Lodovico da), letterato: 602, 672-3, 676 Famese (Casa): 769 Famese (Alessandro), cardinale, poi papa, ved.: Paolo III Farnese Fnrnese (Alessandro di Pier Luigi), cardinale: 763 Farnese (Girolama), moglie del duca Pier Luigi: 74S Farnese (Ottavio), duca di Parma e Piacenza: 734-5 Farnese (Pier Luigi), duca di Castro e quindi di Parma e Piacen-

1150

INDICE DEI NOMI

655-7, 671, 714-5, 719, 738, 740, 745, 753, 759, 764-5, 769 (probabile allusione), 857-9 Fattore (il), ved.: Penni (Giovanfrancesco) Faustina, moglie dell'imperatore l\llarco Aurelio: 539 Faustina bolognese, meretrice: 553 Faustina romana: 539 Fede (personificata): 689 Federigi (Cesare di Niccolò di Mariano de'): 932 Felice, compagno e già garzone del Cellini, ved.: Guadagni (Felice) Ferrara (cardinale di), ved.: Este (Ippolito Il d') Fiaschino, cameriere di Girolamo Giliolo: 784, 787 Figi (erroneo), ved.: Chigi Filippo II, re di Spagna: 888 Fiore (monna), di Castel del Rio, serva e governante del Cellini in Firenze: 902, 905 Fiorino (leggendario fondatore di Firenze, che Benvenuto chiama « da Cellino »): 501 Firenzuola (Giovanni da), ved.: Giorgis (Giovanni de') Foiano (Benedetto Tiezzi da), fra: 651-2 Fontana (Domenico), gioielliere: 644 Fontanabeliò [Ninfa di Fontainebleau]: 804, 808-11, 835 Foppa (Cristoforo), ved.: Caradosso Forlì (vescovo di), ved.: Michelozzi (Bernardino di Michelozzo) Fortuna (mitol.): 507 Francesca (madonna), moglie di maestro Francesco da Valenza: 697 Franceschina (La bella), antica canzone popolare: 917 Francesco (maestro), ved.: Valenza (Francesco da) Francesco I, di Valois, re di Francia: 595, 625, 700, 708-9, 712-4, 720, 726, 763-4, 775, 783, 786, 788-90, 792-800, 804, 806-13, 815-7,820-1,824-8,834-40,8423, 846-52, 854, 867, 870-2, 877, 884-5, 897, 930 Francesco di Filippino Lippi di fra Filippo, ved.: Lippi (Francesco) ZR:

Francesco di Filippo, ved.: Lippi (Francesco) Francesco di Matteo: 887, 894 Franzesi (Mattio): 675-6, 678 Furore (personificato): 647, 783 Fusconi (Francesco), medico: 674, 677-80 Gaddi (Agnolino): 635-7 Gaddi (Giovanni), chierico di Camera: 602-3, 617, 641-2, 670, 672, 675-6, 678 Gaddi (Niccolò), cardinale: 575, 714 Gaio, gioielliere, ved.: Marliano (Giovan Pietro) Galeno: 672 Galeotti (Pietro Paolo), incisore di conii alla Zecca pontificia: 667, 670, 684 Galluzzi (Bernardo), cassiere di Bindo Altoviti: 764-5 Gambetta (Margherita di Maria di Iacopo, da Bologna, detta), meretrice: 868, 875-6 Ganimede (nùtol.): 807, 889, 893, 897 Gatta (il), di casato Micceri: 820 Gattinara (Giovan Bartolomeo), dal Cellini chiamato Cesere Iscatinaro: 718-9 Gesù Cristo, ved.: Cristo (Gesù) Giacinto (mitol.): 894 Giamberti (Antonio di Sandro di Paolo), detto Marcone orafo: 510-1, 519, 525 Giambologna (Jehan Boulogne): 950 Gianfrancesco, piffero romano: 574 Gianna, fanciulletta modella del Cellini a Parigi e da lui soprannominata Scorzone: 835 Giannotti (Giannotto): 523 Gianstefano (messer), ved.: Alli (Gianstefano) Giliolo (Girolamo), tesoriere di Ercole II d'Este: 782, 784-5 Ginevra (madonna), moglie del Capretta beccaio: 903 Ginori (Carlo di Lionardo): 643 Ginori (Federigo): 589-91, 595 Giorgis (Giovanni de'), detto il Firenzuola, orefice: 522-5 Giorno (mitol.): 834

BENVENUTO CELLINI • LA VITA

Giotto di Bondone: 819 Giovannagnolo da Montorsoli, fra, ved. : Montorsoli (fra Giovannagnolo da) Giovanni (san), apostolo: 666 Giovanni, detto Pedignone, ved.: Pedignone (Giovanni, detto), birro Giovanni fiammingo, ved.: Giambologna Giovanni, gentiluomo veneziano, nipote di Girolamo Balbo: 564-5 Giovanni, giovinetto: 605 Giovanni greco (forse Giovanni Vergezio o Giovanni Lascaris), letterato: 602, 673 Giovanni, speziai da Prato, ved.: Pedignone ( Giovanni detto), birro Giovanni da Castel Bolognese, ved.: Bernardi (Giovanni) Giovanni di Baldassarre, detto il Piloto, orefice fiorentino: 564, 652 Giovanni (ser) di ser Matteo da Falgano, notaio: 963-4 Giovanni Battista (san): 659, 666 (san Giovannino), 772, 926 Giovannino (san), ved.: Giovanni Battista (san) Giove (mitol.): 533, 793, 796-8, 800, 803-5, 807, 833-4, 836-8, 841-3, 849, 893, 924 Giovenale (Latino), ved.: Manetti (Latino Giovenale) Girolamo del Piffero: 5 13 Giuliano (san): 822 Giuliano bombardiere, fiorentino: 572-3 Giuliano di Baccio d 'Agnolo, di casato Baglioni: 918, 940 Giulio II della Rovere, papa: 509, 520, 600, 619 Giulio III Ciocchi, papa: 907 Giulio de' l\1onti, papa, ved.: Giulio III Ciocchi, papa Giulio Romano, pittore: 556, 55860, 585-6 Giunone (mitol.): 793, 807, 889 Giustizia (personificata): 758 Gonzaga (Ercole), cardinale: 586-7 Gonzaga (Federico Il), duca di Mantova: 560, 585-7 Gonzaga (Ippolito): 853, 857 Gorini (Lattanzio): 863-5, 918

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Granacci (Elisabetta di Stefano), ved.: Cellini (Elisabetta) Granacci (Liperata, originariamente Reparata), nonna del Cellini: 5o5 Granacci (Stefano): 503-4 Graprusco [deformazione popolare per: Crepuscolo] (mitol.), ved.: Crepuscolo Grassuccio (il), ved.: Varchi («il Grassuccio da Montevarchi») Graziadio giudeo: 513 Grolier (Jean), tesoriere di Francia: 839-40 Guadagni (Felice), compagno del Cellini e già suo garzone: 634, 640-1, 670, 675-7, 679-81, 683, 685-6, 699, 712, 724 Guadagni (Tommaso), mercante: 820 Guasconti (Gherardo): 526-8 Guasconti (Michele): 526 Guasconti (Salvatore): 526 Guasto (marchese del), ved.: Avalos (Alfonso d'), marchese del Vasto [o del Guasto] Guidi (Guido), medico: 814-5, 835, 854, 867, 952 Guidi (Iacopo): 933 Guido (messer), ved.: Guidi (Guido), medico lacobacci (Domenico di Cristofano ), cardinale: 553 Iacomo perugino, cerusico, ved. : Rastelli (Iacopo), cerusico Iacopino della Barca (o della Sciorina): 591-3 lesi (Luca Agnolo da): 531, 534-7, 541, 547 Ippocrate: 672 Iscatinaro (Cesere), ved.: Gattinara (Giovan Bartolomeo) !strozzi (Piero), ved.: Strozzi (Piero di Filippo) La Fa [o La Pa] (Giacomo, monsignor de): 825, 849 Lallemant (Jean), signore di Marmaignes, ved.: Marmaignes (J ean Lallemant, signore di) Lamentone, procaccia di Venezia: 659-62 Landi (banco dei), in Firenze: 525

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INDICE DEI NOMI

Landi (casata dei), di Piacenza: 858 Landi (Antonio di Vittorio): 873-5, 881-2 Landi (Piero di Giovanni): 530, 589, 592, 681 Laocoonte (mitol.): 834 La Pa (Giacomo, monsignor de), ved.: La Fa [o La Pa] (Giacomo, monsignor de) Lapaccini (Raffaello): 525 Lascaris (Giovanni), ved.: Giovanni greco Lastricati (Alessandro): 903 Lautizio, ved.: Rotelli (Lautizio di Bartolomeo) Lazzeri (Donato), ved.: Bramante (Lazzero Donati, detto il) Leda (mitol.): 545, 807 Le Maçon (Antoine), segretario di Margherita di Navarra: 806 Lemmonio Boreò (spirito folletto):

844

Leone X Medici, papa: 509- 10, 600 Leoni (Leone), orefice e scultore: 760-1 Liberalità (personificata): 811 Librodori (Annibale), cerusico: 528 Librodori (Librodoro): 528 Lilli (Bernardino), medico della Curia pontificia [attribuzione]: 672, 680 Lippi (Francesco [originariamente Giovanfrancesco] di Filippino di fra Filippo): 521, 525 Longino, centurione romano: 586 Lorena (Giovanni di Renato II di), cardinale: 798-9, 813 Loreno (cardinal di), ved.: Lorena (Giovanni di Renato II di), cardinale Lorenzo, trombone lucchese: 539 Lotti (Pier Maria), notaio della Signoria di Firenze: 584 Lucca (Anguillotto da) : 604 Lucca (Francesco da), detto Pretino: 666 Lucca (Pretino da), ved.: Lucca (Francesco da), detto Pretino Lucchesini (Girolamo), ambasciatore di Lucca: 947-8 Lucia (santa): 896 Luigi, padovano, cancelliere in Castel Sant'Angelo: 723-4

Macaroni (Paolo), garzone romano del Cellini: 820, 824 Macheroni (Cesare): 616-7 Madonna, ved.: Maria, madre di Gesù Cristo Maffio di Giovanni, bargello romano: 606 Maga lotti (uno dei): 662-3 Magalotti (Gregorio), governatore di Roma: 615, 629-32, 641 Manetti (Latino Giovenale): 6545, 689-90, 695 Mannellini (Bernardino), garzone del Cellini: 869, 877, 901 Manno, garzone del Cellini, ved.: Sbarri (Manno) Marcone orafo, ved.: Giamberti (Antonio di Sandro di Paolo) Mare (personificato in Nettuno): 774, 833-4 Margherita d'Austria e, quindi, di Parma: 667, 734, 745 Margherita di Maria di Iacopo da Bologna, ved.: Gambetta, meretrice Margherita di Valois, regina di Navarra: 798, 852 Margolla (il), ved.: Sangallo (Francesco di Giuliano), detto il Margolla Mari (Ascanio de'), garzone del Cellini: 696-7 (anche col soprannome di Vecchino), 698-700, 7045, 709, 721, 725-6, 771, 775, 777-9, 783, 787, 791-3, 796, 820, 822, 842, 844, 853-4, 867 Maria, madre di Gesù Cristo: 756 Marliano (Giovan Pietro), detto Gaio, gioielliere: 693-5 Mannagna (monsignor di), ved. : Marmaignes (J ean Lallemant, signore di) Marmaignes (J ean Lallemant, signore di): 795-6, 849 Marretti (Gerolamo), orefice senese: 589 Marte (mitol.): 500, 547, 796-7, 811, 844 Martini (Luca): 683, 765-6, 768 Masaccio (Tommaso di ser Giovanni di Monte Guidi): 520 Masini ( Giovanni), ved. : Cesena (capitano da)

BENVENUTO CELLINI • LA VITA

Massone (Antorùo), ved.: Le Maçon (Antoine) Maurizio (ser), ved.: Milano (Maurizio da) Medici (cardinale de'), poi papa: ved. : Clemente VII Medici, papa Medici (Alessandro de'), duca di Civita di Penne e, poi, di Toscana: 589, 603, 607, 6n-2, 658, 665-70, 674, 682-3, 685, 687, 734, 745, 877, 883 Medici (Caterina de'), regina di Francia, ved. : Caterina de' Me. dici, regina di Francia Medici (Cosimino de'), ved.: Medici (Cosimo I de') Medici (Cosimo I de'), duca e, quindi, granduca di Toscana: 511,658,660,688,712-3,859-63, 866, 868-75, 877-85, 887-91, 893-9, 905-9, 9u-29, 931-51, 958-68 Medici (Eleonora de'), duchessa: 870-1, 888, 913-6, 922-6, 935, 936, 943-7, 939, 964, 968 Medici (Ferdinando I), granduca di Toscana: 924 Medici (Francesco de'), principe di Firenze: 924, 943, 959, 963, 967 Medici (don Garzia): 923-4 Medici (Giovanni di Cosimo I de'), cardinale: 924, 968 Medici (Giovanni di Giovanni di Pierfrancesco de'), detto delle Bande Nere: SII, 516, 570, 587, 603, 608, 688 Medici (Giovanni di Lorenzo de'), cardinale, ved.: Leone X Medici (Giovannino de'), ved.: Medici (Giovanni de'), detto delle Bande Nere Medici (Giulio di Giuliano de'), ved. : Clemente VII Medici, papa Medici (Ippolito de'), cardinale: 589, 643, 645, 647-8, 653-4, 657, 682, 690 Medici (Lorenzino di Pier Francesco): 667, 669-70, 685, 687, . 877-8 . Medici (Lorenzo di Piero de'), il Magnifico: 507 Medici (Ottaviano de'): 667-8, 682, 684, 950 73

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Medici (Piero di Lorenzo de'): 507-8, 642 Medusa (mitol.): 868, 875, 879, 887, 896, 898-9, 906 Melfi (duca di), ved.: Piccolomini (Alfonso), duca di Melfi (Amalfi) Mercurio (mitol.): 924 Micceri (casata): 829 Micceri, detto il Gatta, ved.: Gatta (il), di casato Micceri Micceri (Paolo), garzone del Cellini: 820-2, 828, 830 Michelangelo orefice, ved.: Brandini (Michelangelo di Viviano) Michelangelo di Bernardino di Michele, scultore senese: 556, 55860, 565 Michele orefice, forse da identificare col Micheletto, intagliatore di gemme, ved.: Naldini [o Nardini] (Michele) Michele di Goro, ved. : Vestri (Michele di Goro) Micheletto, intagliatore di gemme, ved.: Naldini [o Nardini] (Michele) Michelozzi (Bernardino di Michelozzo), vescovo di ForU: 653 Milano (Maurizio da), cancelliere degli Otto a Firenze: 659 Milano, gioielliere, ved.: Targhetta (Emiliano) Minerva (mitol.): 551, 924 Monaldi (Sandrino), capitano di Castel Sant'Angelo: 748, 751-2, 770 (probabile allusione) Mondo (persorùficato): 842 Monluc (J ean de), ambasciatore francese: 720, 725, 763 Monte Aguto (Niccolò da): 658, 682, 684-5 Montelupo (Raffaello de' Sinibaldi, detto Raffaello da), scultore: 719 Monterotondo (Pietro Paolo da), ved. : Galeotti (Pietro Paolo) Montevarchi (Benedetto da), ved.: Varchi (Benedetto) Montevarchi (Francesco da), ved.: Cattani (Francesco) Montevarchi (il Grassuccio da), ved. : Varchi (il «Grassuccio da l\1ontevarchi ») Montorsoli (fra Giovannagnolo da), scultore:_ 9JQ

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INDICE DBI NOMI

Morluc (monsignor di), ved.: Monluc (Jean de) Mosca (Francesco di Simone), ved.: Moschino (Francesco di Simone Mosca, detto) Moschino (Francesco di Simone Mosca, detto): 950 Mosè: 649-50 Musica (personificata): 811 Naldini [o Nardini] (Michele), intagliatore di gemme fiorentino, da identificare con un Micheletto: 595-6, 726 (attribuzione) Narciso (mitol.): 895-6 Nardi (Iacopo): 659-60 Nardini (Michele), ved.: Naldini [o Nardini] (Michele) Nettuno (mitol.): 773-4, 943-4, 947, 950, 952-3, 957-8, 965-6 Neufville (Nicolas de), signore di Villerois, ved.: Villerois (Nicolas de N eufville, signore di) Niccolò milanese, orefice in Mantova: 585 Niccolò di Raffaello, ved.: Tribolo (il) Nobili (Antonio de'), depositario generale di Cosimo I: 936-7 Norcia (Francesco da), ved.: Fusconi (Francesco), medico Notte (mitol.): 834 Orange (Filiberto di Chalons, principe d'): 582 Orbec (visconte d'): 796 1 800 Orbech (iscontro d'), ved.: 0rbec (visconte di) Orsini (Francesco o Franciotto), cardinale: 583 Orsini (Gerolamo), signore di Bracciano: 713 Orsini (Girolama di Lodovico), ved.: Famese (Girolama), moglie del duca Pier Luigi Orsini (Paolo Giordano): 713 Orsino (cardinale), ved.: Orsini · (Francesco o Franciotto) Oziaco. (Enrico de), savoiardo, guardiano delle botti e cisterne di Castel Sant'Angelo: 729-30 Paccalli (Giuliano), notaio: 909 Pace (personificata) : 647, 782

Palestrina (Stefano di), ved.: Colonna (Stefano), dei principi di Pallnvicini (fra): 721-4 Pallone (Marcello), capitano al servizio dei Medici: 572 (probabile attribuzione) Pallone de' Medici, ved. : Pallone (Marcello) Palombo, oste romano: 740 Pandora (mitol.): 926 Pantassilea, meretrice, amante del Cellini a Roma: 556-7, 559, 563-9 Paolino fattorino: 538-9, 541, 544, S49, 553 Paolo (san), apostolo delle genti: 655 Paolo romano, garzone del Cellini: 771, 775, 777-81, 783, 787, 791, 793, 796, 820-22, 853 Paolo [II], altro garzone romano di Cellini, ved. : Macaroni (Paolo) Paolo III Famese, papa: 576-8, 654-6, 674, 689-92, 694-6, 699, 714-5, 719-21, 724-6, 728, 73542, 745-6, 752-3, 757-9, 762-4, 778, 781, 910 Particini (Antonio): 918 Pascucci (Girolamo), garzone del Cellini: 699-700, 712-3, 717, 726 Pasqualino d'Ancona, ved.: Boni (Pasqualino), d'Ancona Pavia (vescovo di), ved.: Rossi (Giovan Gerolamo de') Pazzi (cappella de'), nella Chiesa della Santissima Annunziata di Firenze: 949 Pazzi (palazzo de'), in Firenze: 658 Pecci (Pierantonio), senese: 647 Pedignone (Giovanni, detto), birro, e già garzone di speziale a Prato: 729-30, 760, 762, 766 Penni (Giovanfrancesco), il Fattore: 532, 537, 544, 546, 556, 558 Pentesilea, meretrice, ved.: Pantassilea Perini (Bartolomeo), ved.: Chioccia (Bartolomeo) Perseo (mitol.): 860-1, 864, 867, 870, 878-9, 884-5, 888, 895-6, 898-9, 906-7, 915-6, 921-2, 9246, 930, 934-5, 937-9, 949, 961 Perugia (lacomo da), cerusico, ved.: Rastelli (Iacopo), cerusico

BENVENUTO CELLINI • LA VITA

Picchio, ved.: Strozzi (Filippo di Federigo) Piccolomini (Alfonso), duca di Melfi (Amalfi): 780 Pico (Galeotto), conte della Mirandola, ved.: della Mirandola (Galeotto Pico, conte) Pier Maria di Lotto, notaio della Signoria di Firenze, ved.: Lotti (Pier Maria) Piero [detto anche Pierino] del Pif-. fero: 513-5 Piero di Martino, orafo: 884 Pietro (san), apostolo: 509 (simbolo del papato): 603, 608, 618, 769 Pilestina (Stefano di), ved.: Colonna (Stefano), dei principi di Palestrina Pilli (Raffaello de'), cerusico: 895-6, 958 Piloto (il), ved. : Giovanni di Baldassarre Pitigliano (conte di), con probabile allusione a Nicola da Pitigliano: 807 Pitigliano (Nicola da), ved.: Pitigliano (conte di) Pittura (personificata): 811 Plutone (mitol.): 818 Poggini (Domenico), orefice: 869, 874, 881-3 Poggini (Giampaolo), orefice: 869, 874, 881-3 Polverini (Iacopo), fiscale: 938 Pomona (nome fittizio): 559-60 Pompeo, milanese, gioielliere in Roma, ved.: Capitaneis (Pompeo de) Pontormo (Iacopo Carrucci da): 928 Portigiani (Zanobi di Pagno), ved. : Zanobi di Pagno (dei Portigiani di Fiesole) Prato (Giovanni, speziai da), ved.: Pedignone (Giovanni, detto), birro Prato (Tommaso da), ved.: Cortesi (Tommaso) Primaticcio (Francesco), pittore: 816-7, 825-8, 830, 834, 841, 852 Proudhomme (Guillaume), signore di Fontenay-en-Brie, tesoriere dei risparmi di Francia: 714, 793

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Pucci (Antonio), cardinale dei «Quattrosanti coronati•: 725 Pucci (Pandolfo di Roberto): 736 Pucci (Roberto d'Antonio), poi cardinale: 620, 736 Pulci (Luigi di Iacopo), nipote del poeta: 563-9 Quistelli (Antonio), funzionario di Cosimo I de' Medici: 938, 959 Raffaello di Domenico, a ovolatore di Zecca• in Roma: 616-7 (allusione) Rastelli (Iacopo) cerusico: 601, 735 Ravenna (cardinale), ved.: Accolti (Benedetto), cardinale Recalcati (Ambrogio): 6S4, 673 Ricci (Federico di Roberto de'): 659-60, 962 Ricci (Pier Francesco), maggiordomo di Cosimo I de' Medici: 863.: 6, 875-7, 905-7, 911-2 Ridolfi (Niccolò), cardinale: S45 Righi (Amerigo), ved.: Amerighi (Amerigo) Rigogli [o piuttosto: Rigoli] (Giovanni): 554, 588 Rippa (Donnino di Lorenzo), orefice da Parma, orefice: 616 Roberta, serva del Cellini a Parigi: 831-2 Romoli (Vincenzo), sensale della Zecca di Roma: 635-7, 671 (in questa e nelle due referenze che seguono sarebbe, per alcuni, un Vincenzo Mantovano, poi orefice), 673, 679 Romolo, oste: 567 Rosegli (Mariano), contadino: 954 Rossi (Giovan Gerolamo de'), vescovo di Pavia: 76_1-2, 814, 853-4 Rosso (Giovambattista di Iacopo), pittore: 546, 707-9, 817, 841 Rotelli (Lautizio di Bartolomeo), orefice perugino: 547-8, 772-3 Rucellai (Luigi): 652 Saint-Paul (François de Bourbon, conte di): 850-1 Salamanca (vescovo di), ved.: Cabresa (don Francesco) Salimbene (Francesco): 521, 52,3 Saliti (Bernardo): 784

INDICE DEI NOMI

Salviati (Alemanno), zio materno di Cosimo I de' Medici: 936 Salviati (Giovanni), cardinale: 545, 623, 625, 787 Salviati (Iacopo), gonfaloniere: 510, 570, 576, 578, 593-4 Salviati (Piero di Alamanno di Ave• rardo): 941-2, Sammalò (trabocchetto del) [cosi detto da un San Marrocco], in Castel Sant' Angelo: 752 Sandrino, ved.: Allori (Alessandro) Sanga (Giambattista), segretario di Clemente VII: 603 Sangallo (Francesco di Giuliano), detto il Margolla: 9 I 8 Sangallo il Giovane (Antonio di Bartolomeo Cordiani, detto Antonio da): 707-8 San Marino (Antonio da), orefice: 524 San Polo (monsignor di), ved. : Saint-Paul (François de Bourbon, conte di) San Secondo (conte di), di casato Rossi: 761, 814 Sansovino (Iacopo Tatti, detto il): 658, 662-3, 677 Santacroce (Antonio), capitano romano: 573-4, 582-3 Santafiora (cardinale), ved.: Sforza (Guido Ascanio), cardinale di Santafiora Santi di Cola, orefice: 531 Santini (Giovambattista): 955-6 Santiquattro (cardinale), ved.: Pucci (Antonio), cardinale dei« Quattrosanti coronati• Sanzio (Raffaello): 532-3, 537, 707 Sardella [o Sardelli] (Giovanni): 955-6 Satana (mitol.): 818 Savello (Giovambattista), gentiluomo romano: 642 Savoia (Margherita, ·duchessa di), moglie di Emanuele Filiberto: 842 Savoino [ = Savoiardo] (un), ved.: Oziaco (Enrico de) · Savonarola (Girolamo), fra: 527, 722 Sbarri (Manno), garzone del Cellini: 682 Sbietta o Sbetta (Pier Maria Richi

d' Anterigoli, detto lo): 952-7, 959-64 Scatinaro (Cesere), ved.: Gattinara (Giovan Bartolomeo) Scheggia (Raffaellone), tessitore di drappi d'oro: 962-3 Schio (Girolamo), vescovo di Vaso• na [Vaison]: 614, 619 Scienza di tutte le Lettere (personificata): Su Scomberg (Nicola), arcivescovo di Capua: 593-4 Scorzane, ved. : Gianna Scultura (personificata): 81 I Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani, detto anche Sebastiano Veneziano): 602,, 617, 619-20 Sebastiano Veneziano, ved.: Sebastiano del Piombo Serristori (pinete dei) : 899 Serristori (Averardo), ambasciatore di Cosimo I de' Medici: 907, 910, 959-60 Servi (Giovannagnolo de'), ved.: Montorsoli (fra Giovannagnolo da) Settignano (Antonio da), ved. : Solosmeo (il) Sforza (misser), ved. : Almeni (Sforza), cameriere di Cosimo I de' Medici Sforza (Guido Ascanio), cardinale di Santafiora: 738-40, 946 Sforza (Sforza): 696 Sforzani (Cherubino), chierico: 776, 778-80 Sguazzella (lo),pittore [Andrea,probabilmente di cognome Chiazzella]: 708 Sicilia (viceré di), ved.: Vega (don Giovanni de), viceré di Sicilia Sinibaldi (Raffaello di Baccio de'), scultore, ved. : Montelupo (Raffaello da) Soderini (Francesco): 684-5, 687 Sederini (Piero), gonfaloniere di Firenze: 508-9 Sogliani (Giovambattista): 525 Solosmeo (Antonio da Settignano, detto il): 642-3, 646 Speranza (personificata) : 689 Strozzi (Alessio), fra: 529 Strozzi (Bernardo, detto Cattivanza): 604

BENVENUTO CELLINI • LA VITA

Strozzi (Filippo), ambasciatore fiorentino: 581, 702-3 [Strozzi (Filippo di Federigo), detto Picchio] : 707 Strozzi (Leone di Filippo), priore di Capua: 831, 877-8 Strozzi (Piero di Filippo), maresciallo di Francia: 806-7, 83 1, 851, 877, 920, 932 Sugherello (il), profumiere: 712

T ampes (madama de), ved.: Étampes (Anne de Pisseleu, madame d') Targhetta (Emiliano), gioielliere: 693-4 Tassi (Raffaello), secondo marito di Liperata (originariamente Reparata) Cellini: 588, 678, 859, 868 Tasso (Giovambattista), figlio di Marco del Tasso: 521-2, 864, 918 Tedaldi (Leonardo): 853 Terra (mitol.): 774, 833-4 Tiezzi (Benedetto), fra, ved.: Foiano (Benedetto Tiezzi da), fra Tobia « milanese D (in realtà di Camerino), orefice: 625-6, 628, 631, 633, 641, 643 Tommaso (san), apostolo: 928 Tommaso d'Antonio, detto Fagiuolo, ved.: Fagiuolo Torelli (Lelio), senatore: 940 Tornon ( = Toumon), cavallo del Cellini: 775-6 Torrigiani (Pietro): 519 Toumon (François de), cardinale: 775 Traiano (messer), ved.: Alicorno (Traiano) Tribolo (Niccolò di Raffaello, detto il), scultore e architetto fiorentino: 658-65 Trotti (Alfonso de'), ministro di Alfonso I d'Este: 785-7 Ubertini (Antonio), originariamente Antonio di Ubertini Lippini poi Verdi : è detto il Bachiacca a ricamatore •: 87 4-5 Ubertini (Francesco), originariamente Francesco di Ubertino Lippini poi Verdi: è detto il Bachiacca: 556-7, 565, 567

1157

Ugolini (Antonio), castcilano di Castel Sant'Angelo dal I dicembre 1539: 759, 762-4 Ugolini (Giorgio), capitano di Castel Sant'Angelo: 720, 723-8, 730-1, 734, 736-7, 746, 751, 753-4, 757-9, 762-4 Ugolini (Piero di Antonio): 759 Urbino (Francesco di Guido Amatori da Castel Durante, detto), garzone di Michelangelo: 91 o- 1 Urbino (Giovanni d'), capitano spagnolo: 580 Valenti (Benedetto), di Trevi, procuratore fiscale di Roma: 629-31, 716, 745 Valenza (Francesco da), orefice spagnolo, [attribuzione]: 696-9 Valori (Bartolomeo o Baccio): 619-20 Varchi (Benedetto): 531, 676, 678 Varchi (il «Grassuccio da Montevarchi»): 531 Vasari (Giorgio): 682-4, 950-1 Vasona [Vaison] (vescovo di), ved.: Schio (Girolamo) Vassellario (Giorgetto), ved.: Vasari (Giorgio) Vasto (marchese del), ved.: Avalos (Alfonso d'), marchese del Vasto [o del Guasto] Vecchino (il), soprannome, ved.: Mari (Ascanio de') Vecellio (Tiziano) : 877 Vega (don Giovanni de), viceré di Sicilia : 929 Venere (mitol.): 773, 834 Vergezio (Giovanni), ved.: Giovanni greco Vestri (Michele di Goro): 497-8 Vicorati (Francesco): 502 Villa (il), paggio del cardinale Ippolito II d'Este: 846 Villani (Giovanni): 500, 747 Villerois (Nicolas de Neufville, signore di): 795, 849 Villurois (monsignor di), ved.: Villerois (Nicolas de Neufville, signore di) Vincenzo mantovano, orefice: 671 (da identificare con un Cencio) Vinci (Leonardo da): s19-20, 792, 880

INDICE DEI NOMI

Virgilio Marone (Publio): 819 Virtù (personificata): 811 Vitruvio Pollone: 503 Vittoria (mitol.): 809-10, 835, 841 Vittorio, bargello a Roma nel 1535 (secondo la testimonianza, certo inesatta, del Cellini): 671-2, 746 Volterra (Daniele da), il Braghet-

tone, ved.: Braghettone (Daniele da Volterra, detto il) Volterra (Niccolò da), trombetto della Signoria : s15 Vulcano (mitol.): 793, 796-7 Zanobi di Pagno (dei Portigiani di Fiesole): 879

INDICE DEI NOMI DEI TRATTATI E DEI DISCORSI DI BENVENUTO CELLINI Adriano IV, papa: 1014, no6 Alamanni (Luigi): 1019 Alberti (Leon Battista): 11 xo Ambrogio (sant'): 1032-3 Amerighi (Amerigo), smaltatore fiorentino: 973 Amerigo, smaltatore, ved. : Amerighi (Amerigo) Aniballe (monsignor d'), ved.: Annebaut (Claude), maresciallo di : Francia Annebaut (Claude), maresciallo di Francia: I 102 Antonio di Salvi, orefice: 97 S Architettura (personificata) : 1099 Ariani: 1032 Armi (personificate): 1099 Aronne, fratello di Mosè: 1044 Ascanio, garzone del Cellini, ved. : Mari (Ascanio de') Atlante (mitol.): 1018-9 Aurora (mitol.): 1031 Autunno (personificazione): 1031 Baldassarre da Siena, ved. : Peruzzi (Baldassarre), da Siena Bandinelli (Baccio): 973, 1112 Barbaro (Daniello), patriarca d'Aquileia, I I I 0 Biagio di Bono, di Ragusa: 1012 Bologna (Marcantonio Raimondi, detto Antonio da), orefice: 976-7 Borbone (connestabile di), ved.: Bourbon (Charles de), connestabile Bourbon (Charles de), connestabile: 1038 Bramante (Lazzero Donati, detto il): 1022, no8-9

Brandini (Michelangelo di Viviano), orefice: 973 Brunelleschi (Filippo), orefice in gioventù: 972, 975, 1022, 1109 Buonaccorsi (Giuliano, tesoriere di Francesco I: 1104 Buonarroti (Michelangelo): 1017, 1022, 1025-6, 1093-5, 1101,1104, no6-7, I 110, I l 12-3, II2I

Cabresa (don Francesco), vescovo di Salamanca: 1052 Caco (mitol.): 1112 Capretta beccaio (il): 1083 Caradosso (Ambrogio Foppa detto il): 987, 1014, 1017, 1020-1, 1026, 1029

Carità (personificata): 1003 Carlo V imperatore: 1002-3, 1059 Cennini (Bastiano di Bemardetto), orefice: 973 Chigi (Agostino): 1038 Clemente VII Medici, papn: 973, 1000-1, 1012, 1014, 1020-23, 1026, 1038-9, 1042, 1044, 1047, 1094, I I06 Cola (Iacopo): 1012

Cosimo (san): 1039 Crepuscolo (mitol.): 1031 Cristo (Gesù): 1002, 1030, 1039 Cybo [o anche Cibo] Malaspina (Innocenzo), cardinale: 1052 Damiano (san): 1039 dalla Golpaia [o dalla Volpaia] (Lorenzo), orefice: 97S del Lavacchio (Salvestro): 998 del Lavacchio (Zanobi di Meo), orefice: 973

BENVENUTO CELLINI • TRATTATI E DISCORSI

del Moro (Raffaello), orefice e gioielliere: 1004, 1007-10 del Pollaiolo (Antonio di Iacopo Benci, detto del): 972-3, 976 del Tadda (Francesco), scalpellino: 1097

del Verrocchio (Andrea di Michele di Francesco de' Cioni, detto del), orefice in gioventù: 975 Desiderio, orefice in gioventù, ved. : Settignano (Desiderio da) Donatello (Donato di Betto di Bardo), citato come orefice in gioventù e - con strana testimonianza isolata - come pittore: 975, 1024-5, 1095, II07, Ill2-3

Duro [Dilrer] (Alberto): 1105 Enrico II d'Albret, re di Navarra: 983,

llll

Ercole (rnitol.): 1017, 1037, 1u2 Estate (personificata): 103 I Este (Ercole II d'), duca di Ferrara: 1032, no8 Este (Ippolito II d'), cardinale di Ferrara: 1032-3, I 103, I 111 Febo (mitol.): 1000 Fede (personificata): 1003 Ferrara (cardinale di), ved.: Este (Ippolito II d') Fetonte (mito!.): 1000 Finigucrra (Maso): 973, 976-7 Fontanabeliò [Ninfa di Fontainebleau]: 1074, 1092, 1098 Francesco I di Valois, re di Francia: 982-4, 990, 1019, 1022-4, 1030-3, 1052, 1055, 1059-60, 1070-1, 1084, 1087, 1098-9, IIOI-3, I I I I

Furore (personificato): 1044 Gaio, gioielliere, ved. : Marliano (Giovan Pietro) Gaspare romanesco, gioielliere: 1004, 1007-10

Gesù Cristo, ved.: Cristo (Gesù) Ghiberti (Lorenzo): 972, 1022 Ginori (Federigo): 1018 Giorno (personificato): 103 I Giovanni di Goro Tavolaccino, orefice: 973 Giovanni Battista (san): 972, 1033 Giulio II della Rovere, papa: 1000, 1022, 1109

1159

Giulio Romano, pittore: 1038 Gonzaga (Ercole), cardinale: 1032, 1037, 1104

Gonzaga (Federico II), duca di Mantova: 1032, 1037 Gonzaga (Giulia): 1003 Guasconti (Salvatore): 975 lacopino della Barca (o della Sciorina): 1038 Inghilterra (re d'): 997 Inverno (personificato) : 1031 Lautizio, ved.: Rotelli (Lautizio di Bartolomeo) Leone X de' Medici, papa: 1014, 1022, 1106

Lettere (personificate): 1099 Libertà (personificata): 1099 Lorena (Giovanni di Renato Il), cardinale: 1 1 11 Loreno (cardinale di), ved.: Lorena (Giovanni di Renato Il) Macaroni (Paolo), garzone romano del Cellini: 1024 Mantegna (Andrea): 976 Mare (personificato): 1030 Margherita di Valois, regina di Navarra: 983 Mari (Ascanio de'), garzone del Cellini: 1024, uo2 Marliano (Giovan Pietro), gioielliere, detto Gaio: 1004, 1007, 1009-10

Marmaignes Oean Lallemant, signore di) : 1031-2 Marretti (Gerolamo), orefice senese, chiamato Marretta dal Cellini: 1017-18 Marte (mitol.): 972, 1098-9 Martino tedesco, orefice, ved.: Schon [o Schongauer] (Martino) Maturino, disegnatore: nos-6 Medici (Casa de'): 975, 1038 l\lledici (Alessandro de'), duca di Civita di Penne e, poi, di Firenze: 973, 1039 Medici (Cosimo il Vecchio): 972, 1022

Medici (Cosimo I de'), duca di Firenze e, poi, granduca di Toscana: 1024-5, 1073, 1112 Medici (don Francesco de'): 971

1160

INDICE DEI NOMI

Medici (Ippolito de,), cardinale: IOOJ

Medici (Lorenzo di Piero), il Magnifico: 97 5, I 022 Medusa (mitol.): 1082 Meini, corriere, poi bargello di Arezzo: 975 Mercurio (mitol.): 1031 Micheletto, intagliatore di gemme, ved.: Naldini [o Nardini] (Michele) Miliano, gioielliere, ved. : Targhetta (Emiliano) Mosè: 1044 Musica (personificata): 1099 Naldini [o Nardini] (Michele), intagliatore di gemme: 1023 Nettuno (mitol.): 1030-1 Notte (mitol.): 1031 Pace (personificata): 976, 1044 Paolo romano, garzone del Cellini, ved.: Macaroni (Paolo) Paolo (san), apostolo delle genti: 1039 Paolo III Famese, papa: 1002-4 Perseo (mitol.): 1024, 1073-4, 1078, 1081-2, III2

1085,

1091-2,

IIOJ-4,

Peruzzi (Baldassarre), da Siena: II IO-I

Piero di Gora Tavolaccino, orefice: 973 Piero di Nino, orefice: 974-5 Pietro (san), apostolo: 1039 Pilli (Salvatore), orefice: 975 Pinzidimonte (Michelangelo di Viviano, da), orefice, ved.: Brandini (Michelangelo di Viviano) Pittura (personificata): 1099 Polidoro (disegnatore): 1005-6 Primavera (mitol.): 103 1

Raffaello, gioielliere, ved. : del Moro (Raffaello) Raimondi (Marcantonio), ved.: Bologna (Antonio da) Ravenna (Marco da), orefice: 976 Romolo di Goro Tavolaccino, orefice: 973 Rossi (Giovan Gerolamo de'), vescovo di Pavia: 1024 Rotelli (Lautizio di Bartolomeo), orefice perugino: 1032-3 Salamanca (vescovo di), ved.: Cabresa (don Francesco) Salterelli (Stefano), orefice: 973 Sangallo il Giovane (Antonio di Bartolomeo Cordiani, detto Antonio da): no8-9 Schon [o Schongauer] (Martino), intagliatore di stampe in rame: 976 Scolari (Filippo degli), ved.: Spano (Pippo) Scultura (personificata): 1099 Serlio (Basti ani no): II I o- 1 Settignano (Desiderio da), orefice in gioventù: 976 Siena (Baldassarre da), ved.: Peruzzi (Baldassarre), da Siena Sole (carro del), mitol.: 1001 Spano (Filippo degli Scolari, detto Pippo): no9 Speranza (personificata): 1003 Targhetta (Emiliano), gioielliere: 1004, 1007-8 Terra (mitol.): 1030 «Terzo» (maestro): I 108

Vescavo di Pavia, ved. : Rossi (Giovan Gerolamo de') Vinci (Leonardo da): 975, 1 II 1-3 Vitruvio Pollone: 1110-1

INDICE GENERALE

INTRODUZIONE

VII

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

XXXVII

BALDASSARE CASTIGLIONE IL LIBRO DEL CORTEGIANO

Al reverendo ed illustre signor don Michel de SiltJa vescofJO di Viseo

S

IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO

I4

IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO

9Z

IL TERZO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO

204

IL QUARTO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO

z87

GIOVANNI DELLA CASA GALATEO OVVERO DE' COSTUMI TRATTATO NEL QUALE, SOTTO LA PERSONA D'UN VECCHIO IDIOTA AMMAESTRANTE UN SUO GIOVANETTO, SI RAGIONA DE' MODI CHE SI DEBBONO O TENERE O SCHI .. FARE NELLA COMUNE CONVERSAZIONE, COGNOMINATO

GALATEO OVVERO DE' COSTUMI

ORAZIONI ORAZIONE PER MUOVERE I VENEZIANI A COLLEGARSI COL PAPA, COL RE DI FRANCIA E CON GLI SVIZZERI CONTRO L'IMPERATOR CARLO QUINTO

443

ORAZIONE SCRITTA A CARLO V IMPERADORE INTORNO ALLA RESTITUZIONE DELLA CITTÀ DI PIACENZA

474

INDICE GENERALE

1162

BENVENUTO CELLINI LA VITA

497

[Sonetto] LA VITA DI BENVENUTO DI M 0 GIOVANNI CELLINI FIO-RENTINO SCRITTA (PER LUI MEDESIMO) IN FIRENZE

499

[LIBRO PRIMO]

499

[LIBRO SECONDO]

771

APPENDICE: TRATTATI E DISCORSI DI BENVENUTO CELLINI

TRATTATO DELL'OREFICERIA

Introduzione I. II.

III.

IV.

v. VI. VII. VIII. L'IC.

X.

XI. XII. XIII. XIV.

xv. XVI. XVII.

XVIII. XIX.

xx. XXI. XXII.

XXIII.

DeWarte del niello Il lavorar di filo DeWarte dello smaltare Gioiellare Come si. debbe acconciare un rubino Come si. debbe acco11ciare lo smeraldo ed il zaffiro Come si. fa la foglia che serve a tutte le gioie trasparenti Come s'acconcia il diamante Come si. fa la tinta a' diamanti Come si fa lo specchietto che si dà a' diamanti De' rubini bianchi e carbonculi Lavorare di minuteria De' suggelli cardinaleschi Il modo di far medaglie per stampare in acciaio, e così il modo dello stampar monete Delle medaglie Come si. debbono stampare le dette medaglie Altro modo da stampar medaglie con la vite Del modo di lavorare di grosserie di oro, di argento, e di ogni sorte di cotale arte Il modo come si. comincia un vaso Un altro modo migliore di fondere Un altro fornello ancora, il quale io feci in Castello Sant' Angiolo per il sacco di Roma Per tirare vasellami di oro e d'argento, tanto figure quanto vasi, e tutto quello che si. lavora di questa arte, chiamata per nome grosseria Un altro modo di argento o oro per cotai cose

971 977 980

985 991 994 995

998 1001

1005 1010 1011

1014 1032 1038

1043 1045 1046

1050

1051 1057

INDICE GENERALE

xxiv.

Un altro modo per simil cose sopradette 1058 xxv. Delle figure che si sono fatte d'argento maggiori del vivo 1058 XXVI. Modo di dorare 1063 XXVII. Ricetta da far colori per colorire dove sarà dorato. Primo modo di colore 1065 XXVIII. Ricetta per fare un'altra sorte di colore. Secondo modo 1065 XXIX. A fare un altro colore per il dorato che sia abbondantemente carico d'oro. Terzo modo 1066 xxx. Modo di fare la cera per il dorato 1067 XXXI. Per fare un altro colore. Quarto modo 1067 XXXII. Modo di dare il detto colore 1067 XXXIII. Volendo lasciare bianco lo argento in alcuni luoghi 1068 xxxiv. Per fare acqua forte di due sorte, cioi da partire e da intagliare 1068 xxxv. Per fare l'acqua da partire 1069 XXXVI. Per fare il cimento reale 1069

TRATTATO DELLA SCULTURA I. Il. Ili.

IV.

v. VI. VII. VIII.

Dell'arte del getto dei bronzi Come si fa la terra sopradetta Un altro modo si usa per Jare figure di bronzo di getto, quando le figure sieno grandi quanto il vivo o poca cosa più Del modo del far le fornaci per fondere il bronzo, o per figure o per artiglierie e per altre cotai cose Per f or figure ed intagli ed altre opere, come sono animali diversi, in marmo ed altre pietre De' marmi di Carrara Per ragionare dei colossi mezzani e grandi Segreto per fare i gran colossi

1071 1072 1073 1086 1093 1094 1098 1100

SOPRA L'ARTE DEL DISEGNO

II05

DELLA ARCHITETTURA

II08

SOPRA LA DIFFERENZA NATA TRA GLI SCULTORI E' PITTORI CIRCA IL LUOGO DESTRO STATO DATO ALLA PITTURA NELLE ESSEQUIE DEL GRAN MICHELAGNOLO BUONARROTI

IIIJ

SOPRA I PRINCÌPI E 'L MODO D'IMPARARE L'ARTE DEL DISEGNO (FRAMMENTO)

I I

16

INDICE GENERALE

II23

NOTA CRITICA AI TESTI INDICE DEI NOMI DEL « CORTEGIANO » DI BALDASSARE

IIJS

CASTIGLIONE INDICE DEI NOMI DEL

C