La letteratura italiana. Storia e testi. Opere [Vol. 54]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI

VOLUME

54

VINCENZO MONTI

OPERE A CURA DI MANARA VALGIMIGLI E CARLO MUSCETTA

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO • NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RESBRVBD PRINTBD IN ITALY

VINCENZO MONTI· OPERE

INTRODUZIONE E NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

a cura di Carlo Muscetta

VII

L1A TRADUZIONE DELLA «ILIADE»

Nota introduttiva di M anara V algimigli I.

LA « ILIADE» DI OMERO

a cura di Manara Valgimigli II.

3 I9

VERSI

a cura di Carlo Muscetta

. III. CAIO GRACCO

a cr,ra di Carlo M1ucetta

821

IV. LA FERONIADE

a rora di Carlo M11scetta V.

PROSE

a a,ra di Carlo Muscetta

999

VI. LETTERE

a cura di Carlo Mruutta

1191

NOTA CRITICA ALLA TRADUZIONE DELLA «ILIADE»

a cr,ra di lginio De Luca

1251

NOTA AGLI ALTRI TESTI

a cr,ra di Carlo 11-frucetta

1253

INDICE DEI CAPOVERSI

1255

INDICE

1257

INTRODUZIONE I

In

una lunga lettera del Monti diciannovenne all'abate Girolamo Ferri, suo maestro di eloquenza a Ferrara, si legge un energico appello che ci lascia intravedere le malinconiche prospettive future, se il giovane non fosse riuscito a fuggire dalla natia Fusignano: Io .•• mi trovo intricato; o risuscitare ed accrescere il disgusto della madre col seguitar medicina, o tradir me stesso e sacrificarmi per studiar legge. Se mio padre fosse capace d'intendimento, non avrei paura; ma la dittatura è passata in mano e potestà dei fratelli, che hanno intenzione risoluta (avverta bene questa prepotenza) di levarmi da Ferrara dove non ho più la compagnia del fratello, e forse e senza forse lasciarmi e confinarmi in casa ad attendere al vantaggio delle cose domestiche, con dar bando ai libri (i quali hanno minacciato di abbruciare, capacissimi di eseguirne il disegno) e girare continuamente su e giù sulla schiena di un cavallo. Non mica per bisogno, perché, lode a Dio, la mia casa ha quanto basta per sguazzare in charitate Domini, ma a castigarmi per non voler io fare a modo loro. Insomma, sono una massa di matti, ed io matto più di tutti se non mi liberassi a qualunque costo dalle loro soperchierie. Signor Maestro, adesso parlo sul sodo, e dopo averci pensato sopra un poco. Se ella scopre per accidente un nicchio, io sono in caso d'entrarvi dentro a piè pari, e in qualità di quel che si vuole, e presso chiunque. In un baleno non posso esser preparato neppur io, ma metterò per impegno alle strette tutto il debole mio spirito per farla in barba ai miei tiranni. Del resto poi, non vi sarà più giustizia in questo mondo?

Nella sua famiglia patriarcale di contadini ricchi e, altro che matti, tutti intesi ad amministrare ed accrescere la loro roba, il Monti non sembrava dunque disposto a campare una sua vita di cadetto, specie dopo che aveva respirato l'aria cittadina. La letteratura, per nulla apprezzata dai suoi, poteva essere l'unico mezzo per conquistarsi una certa indipendenza, che egli concepiva con occhio positivo e che trattava, parlando « sul sodo ,,, con una risolutezza di paesano deciso ad inurbarsi ad ogni costo. Ferrara però doveva essere la meta immediata, non definitiva. Ma qui intanto riusciva subito a conquistarsi rinon1anza e simpatie. Le glorie ferraresi erano allora Alfonso Varano

VIII

INTRODUZIONE

e Onofrio Minzoni, sopravvivenze di un gusto retrivo e controriformistico, nonostante le pretese di novità. Questi pii letterati sembravano volersi ricordare soprattutto del padre Segneri, di Savonarola e di Dante, e le loro prediche in endecasillabi erano assai celebrate e contrapposte alla letteratura moderna, pericolosa di galanterie e :filosofemi. A questo gusto particolarmente diffuso nello stato della Chiesa il giovane Monti pagò il suo tributo con parafrasi bibliche e con una elegia De Christo nato, che mandò in visibilio il Tommaseo, ma che in verità non si solleva dalle zuccherose maniere del seminario: Ah! saltem liceat frigenti in stramine nudum pectoris afflatu te refovere meo. Et sexcenta tuis me figere basia labris, atque oculis dulces dicere blanditias. Donec vieta levi declinans lumina somno materno recubes molliter in gremio.

Tra questi versi giovanili (quasi tutti poi rifiutati), di gran lunga i più scolastici sembrano quelli su temi storici, mitologici, evangelici. Ma l'attenzione del Monti era concentrata ad assimilarsi certe frasi ad effetto che avevano costituito il successo del Minzoni, certa bravura figurativa del Cassiani. Molto lo attraevano le grazie rococò del Savioli, anzi, qui metteva più brio nell'imitazione, e consenso di spirito. Così, tra il profano e il sacro, faceva il suo ingresso in Arcadia: Autonide Saturniano. I versi di genere anacreontico e scherzoso predominavano durante gli anni trascorsi nella venerea città estense. Nel capitolo Ad un amico che prendeva moglie c'è un significativo omaggio a Boiardo lirico (del quale il Monti dimostra una conoscenza allora non comune). Lo imitava inneggiando alPAmore, dio supremo dell'universo, e uscendo nella invocazione: « Datemi a piena man rose e viole». Ma subito dopo non esitava a riportar di peso, da un capitolo del Minzoni, alcune scipitaggini sui figli nascituri, burlescamente messe in bocca al mago Merlino che oracoleggia nel fondo di una caverna. La caverna serviva per dare un certo colorito fosco da «. A ventitré anni il visivo, l'immaginoso, il sonoro erano già per lui un patrimonio tecnico che valeva più d'una porzioncella di terra a Fusignano e a Maiano. Conscio di queste virtù, divorato dall'ambizione, ormai aspirava a successi sempre maggiori. E nelle ultime vacanze di Capodanno passate in campagna ( 1778) scriveva alla marchesa Bevilacqua (in Arcadia Climene Teutonica) certe terzine ariostesche e libertineggianti, dove si rivela la sua insofferenza, la sua irrequietezza, il suo vero animo che non era certo di un bigotto, come poteva sembrare dalla Visfone di Ezeclziello e dalle altre due che scrisse subito dopo, con tutta l'ipocrisia richiesta e conveniente: Passo i gi"orni illibati, e come giglio la coscienza ho bianca, e se il volessi, non saprei come porla in iscompiglio. Lunghe le orazion, devoti e spessi i di'gi11ni: e così f o che s' emende og11i grave peccato cla'io commessi. Sto sempre in casa.· e intanto o clae s'imprende a dir dei salmi, o che della Madonna la coroncina dalle man mi pende.

Ma scherzava troppo per non esser ben sicuro di sé. Ormai sapeva che cc l'avrebbe fatta. Il padre si era piegato. Lo mandava a Roma e per tre anni gli passava un assegno di duecento scudi: dopo di che poteva tornare a casa, senza pretendere la divisione e rassegnandosi a fare il figlio di famiglia, se la prova fosse fallita. Ci si può figurare con quale spirito il Monti, partendo per Roma il 16 maggio 1778, si disponesse alla sua prima, decisiva avventura.

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INTRODUZIONE

II

Eccolo nella capitale del mondo cattolico, dove la gloriuzza conquistata a Ferrara appariva ben povera cosa, e c'erano più poeti in Arcadia che ranocchie a Fusignano. Pure, non passa un anno che già questo ignoto pubblica un suo Saggio di poesie, edito a Livorno sotto i torchi dell'Enciclopedia: un volume ben stampato, senza la minima aria di timidezza, anzi con una certa ostentazione di modernità, di letterato à la page. Colpisce innanzi tutto la se·rie delle prose: su trentasei componimenti in verso, sette dedicatorie. L'autore ci teneva a sfoggiare le sue protezioni, le sue amicizie non solo provinciali, ma anche romane e perfino parigine. Si pensa per contrasto al noviziato di Ripano Eupilino, alla presentazione con la quale il Parini offriva il suo libro al lettore, chiudendo il rude commiato con uno cc state sani». Ma l'Arcadia di Roma era alquanto diversa da quella milanese. E Autonide Saturniano, fin dalla prima volta che si era presentato in pubblico, non pensò affatto a nascondere tutti i titoli che poteva ostentare: egli era l'Affidato di Pavia, il Filopone di Faenza, l'Accademico imperiale di Rovereto e (nota bene) l'Intrepido di Ferrara. E i suoi protettori? La vecchia Climene, ma subito accanto a lei il grande archeologo e dittatore della cultura romana Ennio Quirino Visconti, il patrizio ferrarese Francesco Marescalchi (che poi fu il suo maggior protettore durante il periodo napoleonico), e Monsieur Jean Ferry, alias il cosmopolita Giovanni Ferri di Fano, residente a Parigi e ormai più infranciosato che italiano. Queste prose, vero capolavoro di diplomazia letteraria, sono anche da studiare come la prima poetica del Monti. Intanto egli ci fa sapere subito che Climene l'ha prescelto a successore del gran Comante, cioè d'Innocenzo Frugoni. E qui una professione di modestia, altrettanto sincera quanto gli incensi turibolati ai contemporanei più conosciuti e in preferenza ai provinciali: come il grande Odinto, l'autore delle e, portentose Visioni», e l'abate Minzoni a cui è riservata una dedica apposta dove, tra un elogio e l'altro, gli si confessa con la miglior buona grazia del mondo il furto poetico dei versi burleschi, di cui si è già detto. Per colmo di civetteria si leggeva in fondo al volume questo Aooiso finale:

INTRODUZIONE

XIII

Tutti questi errori di ortografia vanno a conto dello stampatore. Uno solo se ne ascriva a conto mio, quello cioè di aver per inavvertenza lasciato correre la stampa della Canzonetta posta alla p. 94 [Allafanciulla inferma], la quale non doveva aver luogo nella presente Raccolta, perché frutto d'una età assai giovanile, in cui troppo facilmente si usurpano gli altrui versi e le altrui idee per mancanza delle proprie. Vizio per altro di cui molti non guariscono mai.

Intrepido, veramente! Ma potete dirgli quel che volete, egli è così transigente, così accomodante che saprà sempre far di tutto per non riuscire antipatico a nessuno. La sua forza era tutta lì: sempre disposto al compromesso e alle più difficili conciliazioni. Stampa all'insegna dell'Enciclopedia, ma ad ogni buon fine ha messo nella raccolta quelr elegia del seminario e altre cose di argomento sacro. «Nemico delle fantasie malinconiche», non esita a compiacere il gusto di umanista attardato dell'abate Vannetti di Rovereto, «giovane di mirabili talenti». A sua richiesta scriveva elegie e gli riservava una dedicatoria tutta per lui, anche perché i giovani vanno coltivati. Non trascurava l'opinione né degli ignoti né degli illustri. Minzoniano col Minzoni, si protestava sviscerato n1etastasiano in una dedica alr« inimitabile» poeta cesareo (che era proprio agli antipodi del suo gusto, ma piaceva tanto a sua Santità, il com provinciale Pio VI Braschi ... ). E che cosa erano i versi? Non saremo più indulgenti del poeta, che qualche tempo dopo ne rifiutò la maggior parte. Anche nel genere che poteva sembrare più nuovo (e che, con la divulgazione di Young, cominciò a diventare di moda), quello elegiaco, è da osservare che il nostro Saturniano caricava troppo le tinte per poter ingannare il lettore. E poi si trattava di cavoli riscaldati, versi già con1posti a Ferrara e ora rimanipolati. Ma era bello l'attacco di alcune terzine intitolate E11tusiasmo malù1co11ico: Dolce de, mali obblìo, dolce dell'alma con/orto se le c11re egre talvolta van de, pensieri a intorbidar la calma, o cara Solit11dine, 11na volta a sollevar, del,/ vieni i miei tormenti, tutta nel velo della notte avvolta.

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Ma chi può mai credere al finale fosco e tragediante? Gli unici versi dove lo possiamo prender sul serio è quando scherza: la deliziosa Canzonetta A Fille (Il consiglio), che insieme con la lettera dedicatoria al Ferri esprime uno degli aspetti più autentici del giovane Monti. Nella prosa dichiara le sue preferenze per l'amore alla francese, tanto più comodo dell,amore all'italiana. E svolge una sua teoria, piaciuta probabilmente a Stendhal che, non a caso, proprio su di un esemplare di Monti ha abbozzato il De l'amour, dando la sua preferenza romantica all'amore all'italiana, l' amour-passion. I versi del Monti s'ispiravano invece al più settecentesco amour-gout. « Quel volteggiare» ha scritto con grande finezza il Flora « destramente sulle scabrose proposte; e quella non so se ingenua o scaltra onestà, con la quale il poeta insinua di che natura è il suo amore, disposto a tante concessioni: tutto è bene accordato al motivo generatore della canzonetta». Ma non solo la strofa in cui accenna al suo viso fosco pallido e infelice, l'intera lirica è detta con un tono di cc declamazione ironica». L'ironia era comune al genere e al secolo: tutto di Monti era il declamato, la volubilità del canto sopra un fondo di prosaica fermezza. Cantava Fille e cantava se stesso contemporaneamente: le in1magini dei due amabili e disponibili personaggi fanno tutt'uno: Quel vivace tuo talento, qualche volta un po' incostante, che tifa con bel portento presto irata e presto amante.

Al volume non mancò il successo. Faceva colpo tanta varietà d'interessi e tanta pieghevolezza d'ingegno, piaceva quell'intrepidezza mista a tanta prudenza. Le cc Effemeridi letterarie» di Roma lodarono specialmente (e naturalmente) la Visio11e d' Ezechiello. Il cc Giornale dei letterati» di Modena, il giornale del Tiraboschi, dedicò al libro sessanta pagine, lodandolo soprattutto perché si « opponeva alla corrente impetuosa di uno scrivere pestilenziale che inondava l'Italia» e prometteva di difendere il Monti con energia, se qualcuno avesse osato « per avventura dargli la taccia d'essere arido e vuoto di filosofia». La recensione era stata ispirata dal Monti stesso attraverso il Vannetti amico del Tiraboschi, ma tutt'altro che amico di novità in

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letteratura. Il Monti sapeva bene quel che voleva e quel che faceva. Ognuno di quei nomi che aveva citato nelle prose era stato messo, nonostante il tono scanzonato ed estemporaneo, con l'abilità calcolatrice di un giocatore di scacchi. Citava Montesquieu, Voltaire epico, accennava in un verso alla Julie rousseauiana, ma non mancava di scagliarsi contro la «filosofaglia d'oltre monti» che guardava con disprezzo al Vangelo. E quando sfoggiava la sua predilezione per gli « anacreonti della Senna» (in particolare quelli che, libertini in giovinezza, erano finiti bigotti in vecchiaia), non scriveva a caso, anche se scriveva ad orecchio. Era tutta una indiretta e perciò tanto meglio diretta adulazione al ministro di Luigi XVI a Roma, quel cardinale De Bernis che si pseudonominava Bernard, futuro coordinatore di tutti gli intrighi controrivoluzionari. Il Monti lo salutava come « nuovo ma più fortunato precettore dell'arte di amare». Quale aura di beato ancien régime spirava in quella Roma di Pio VI, dove il papa romagnolo, così gioviale e così an1ante della sua bella persona, era considerato dai viaggiatori stranieri (e forse non solo da loro) un «commediante»l Non è da escludere che il Monti sognasse già un viaggio a Parigi su le orme di quel cavalier Marino le cui «lucciole» tanto affettava di aborrire, ma che, col Metastasio, rappresentava per lui un esemplare modello di poeta augusto e cesareo, a cui ambiva profondamente di somigliare. In apparenza sembrava e si dichiarava soddisfatto: · lo d'Elicona abitator tranquillo, solo del re::::::o d'rm a/lor co11te11to, e d',m f 011te che dolce abbia il zampillo, non mi rattristo se per me no11 sento muggir 111il/e giove11che, e la ca111pag11a rotta 11011 va da ce11to aratri e ce11to. No11 mi ca/ che di Francia o di Brettag11a sul lido America11 prevaglia il fato, e che tutta di guerre arda Lamag11a.

Tuttavia il pacifico pastorello non nascondeva la sua energia: ben capace di menar la penna (e la menò sempre con vigore) contro chiunque volesse sbarrare il passo alla sua carriera, lottatore mai disposto a darsi per vinto quando si trat-

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tava cli difendere il partito di se stesso e la bandiera della sua gloria: · Corbi di Pindo, che d'invidia macri, disonor del santissimo Elicona, mordete i cigni con rostri empi ed acri, come il villan desio vi punge e sprona, tentate indarno di strapparmi i sacri lauri che al crin mi fanno ombra e corona. So che inerme mi dite, e sol dell'arco, sol della lira altrui sonante e carco. Ma se inferma è l'etade ed il consiglio, il tergo è armato di robuste penne, né fia ch'indi le svella il vostro artiglio, che temerario a minacciar mi venne ...

Era questo l'intrepido ferrarese venuto a Roma (come ha detto argutamente un biografo) «non per vedere, ma per mostrarsi». E che le sue non fossero millanterie, lo provarono i versi che gli decretarono subito il trionfo e gli assicurarono la permanenza nell'urbe per circa vent'anni. Capitava in un momento che la vita e la cultura romana sembravano in succhio e in ripresa: rinnovamento edilizio, scavi archeologici, bonifiche delle paludi pontine. Ma che cos'era questa vita e questa cultura se la paragoniamo a quella di Milano e di Napoli, dove il Terzo stato italiano, rispetto alle vecchie classi feudali dimostrava, pur infrenato dal riformismo dei principi, un autentico vigore? Lasciamo stare quel superbo scatto di bile del conte Alfieri, dovuto a disillusioni letterarie: « Vasta insalubre region, che Stato - ti vai nomando ... ». Leggiamo le impressioni di uno che era venuto a Roma per vedere e non per mostrarsi, « per vedere la Roma che resta, non quella che passa», epperò sapeva comprenderla con l'occhio aquilino del genio. In questa città cosmopolitica la cosa che più colpi il Goethe, proprio dopo la rappresentazione dell'Aristodemo di Monti, fu la meschinità dell'ambiente letterario: « I molti piccoli circoli ai piedi di questa regina del mondo mi hanno un po' l'aria del provinciale». Innumerevoli i valentuomini, ma si tenevano « l'uno dall'altro in disparte, per non so qual diffidenza pretesca». « Anche il movimento letterario non agevolava alcuna relazione e le novità letterarie di solito non avevano importanza». Si avvertiva un'atmosfera stagnante in modo particolare dopo i giorni agi-

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tati del Carnevale, dopo un'artificiosa allegria: «È spiacevole aver la sensazione che a tutta questa gente la gioia vera sia estranea e che le manchi il denaro per dar la stura a quel po' di divertimento che ancora potrebbe procurarsi. I gran signori vivono economicamente. e si tengono indietro, la borghesia è povera, il popolo indolente. In questi ultimi giorni c'è stato un baccano inverosimile, ma di letizia sincera nemmen l'idea. Il cielo, inesprimibilmente sereno, guardava queste stravaganze sempre pieno di nobiltà e di purezza>>. Queste righe di Goethe s'incidono con lapidaria eleganza settecentesca su questa società romana alla fine del secolo, su questo vecchio regime senza Terzo stato cosciente e combattivo. Eppure tutti avevano l'impressione che fosse una società piena di vita. Papa Braschi, continuando la politica dei suoi predecessori, dava un certo impulso superficiale e si circondava di fasto, sicché tutti parlavano di un nuovo Rinascimento. Da un punto di vista culturale, questo preteso Rinascimento si sviluppava sotto l'insegna platonica del bello ideale che conciliava un'esanime forma antica a un generico ed esausto contenuto cattolico. Non erano più i tempi in cui fu fondata l'Arcadia, quando per l'ultima volta la Chiesa riuscì a dare un indirizzo unitario alla cultura italiana. Ora si trattava di organizzare la resistenza all'avanzata della cultura moderna: e la linea era stata scelta sui ruderi antichi, in nome di una tradizione rinascimentale epurata e corretta. \iVinckelmann e Mengs, l'abate Zanotti e l'abate Milizia furono i teorici di questo classicismo o piuttosto controclassicismo, archeologico e platonizzante, destinato a edulcorare il neoclassicismo di contenuto illuministico e a ostacolare il progresso verso l'arte moderna che fuori d'Italia era guidato da Lessing e da Diderot, mentre i minori illuministi italiani partecipavano con tutto l'impegno di cui erano capaci. A confondere le idee, non mancavano i gesuiti di sinistra co1ne il Bettinelli, che auspicava Roma come centro di cultura italiana, con blande riforme e illuminato mecenatismo. Ma l'indirizzo cosmopolitico era predominante. Si contrapponeva opera ad opera, autore ad autore, nazione a nazione. Rolli era celebrato come traduttore di Milton, e si applaudiva all'ex frate Aurelio Bertòla che traduceva Gessner e Klopstock e si faceva propagandista della letteratura alemanna. L'irlandese

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Sherlock amico del Monti, come gli fu amico l'abate Bertòla, correva la penisola esaltando Shakespeare. Inglesi e Tedeschi erano contrapposti ai Francesi. Il deista Rousseau era preferito ai materialisti. Al gusto epicureo e libertino si voleva sostituire il gusto idillico, elegiaco e sepolcrale, che andò prevalendo quando Alessandro Verri, strappato dall'ambiente illuministico di Milano, cominciò a scrivere· le sue Notti romane, ispirate dalla scoperta della tomba degli Scipioni sulla via Appia. Non era un caso se la festa dei morti (come notò il Goethe) «era nel tempo stesso la festa di tutti gli artisti di Roma». Tutto ciò che interessava i vari circoletti accademici della capitale trova un'eco nella dedicatoria del Monti a monsignor Visconti. In queste pagine si parla più del passato e della letteratura europea che del presente e dell'Italia. L'unico avvenimento romano contemporaneo a cui il Monti può attaccarsi, riguarda l'archeologia e la scoperta dell'erma di Pericle. E se ne serve per terminare con un accorto passaggio oratorio la sua lettera. Anzi, per suggerimento di Monsignore, appena è uscito il volume, scrive la Prosopopea, quasi a riparare una · grossa dimenticanza di aspirante cortigiano. Pericle non era venuto a trovare e a farsi conoscere di persona solo da un monsignore ellenizzante, ma dal papa e dal suo secolo, diamine! Visconti traduceva Pindaro: non ci voleva un'ode pindarica per celebrare i fasti di papa Braschi? Spettava anzi a Pericle stesso, come se fosse stato redivivo, di parlare e di ammettere che la sua « bella età» era « ignobile e mesta» al paragone di questa che aveva in fronte l'augusto nome di Pio. La Prosopopea fu improvvisata in due giorni. Pur nella forma misera della prima stesura, abbondante di epiteti banali e ancor pigramente ricalcata sulle parole della dedicatoria, non ci fu cosa che destasse