La letteratura italiana. Storia e testi. Opere [Vol. 57.1]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME

57

IPPOLITO NIEVO

OPERE A CURA DI SERGIO ROMAGNOLI

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO • NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RESERVED PRINTBD IN ITALY

IPPOLITO NIEVO · OPERE

INTRODUZIONE

IX

I.

LE CONFESSIONI D,uN ITALIANO

II.

ANGELO DI BONTÀ

889

III.

IL VARMO

929

IV.

POESIE

979

v.

TRAGEDIE

101:&

VI.

SCRITTI POLITICI

1033

VII.

LETTERE

1095

NOTA CRITICA AI TESTI

1179

INDICE

u89

3

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«Ieri alla fine ho terminato il mio romanzo; son proprio contento di riposarmi. Fu una confessione assai lunga. » Con queste ormai famose parole, del 17 agosto 1858, Ippolito Nievo annunciava d'aver compiuto Le Confessi.oni d'un Italiano, il grande romanzo che è il suo capolavoro e l'ultima sua opera di narratore. V'è in queste parole il senso di chi s'alza finalmente da tavolino dopo una lunga estenuante fatica che l'abbia tenuto prigioniero, legato con la mente e col cuore in un continuo sforzo, per una intensa giornata, durata ben otto mesi. Un periodo di tempo che è parso a· tutti troppo breve per un romanzo di tanta mole, cosi ricco di personaggi, di casi e di avventure diversi, che abbraccia la storia veneta, lombarda, napoletana, ligure, italiana infine, dal 1775 al 1855, quasi un secolo, pressoché tutta la vita del protagonista, l'ottuagenario italiano Carlo Altoviti. Eppure tanto furore di lavoro non fu eccezionale nel Nievo: eccezionale, se mai, il risultato. Direi quasi che non v'è scrittore italiano che abbia compiuto e abbozzato nel giro di trent'anni tanta dovizia di opere, pur non negandosi la vita, cioè gli affetti familiari, l'amore, lo studio, le amicizie, le passeggiate, il combattimento politico e guerresco. Chiusa in una rapida e intensa stagione, la vita del Nievo ha sempre attratto per la sua nitidezza: non una menda si può trovare in essa; nulla che dispiaccia nell'uomo, sorridente e discreto propugnatore di ideali per i quali era egli stesso il primo pronto al sacrificio, devoto ad una religione del lavoro ravvivata da una calda fiducia nell'umanità, amante appassionato e gentile. Veramente, di fronte all'uomo risentiamo lo stupore dell'Abba che lo vide sfolgorante d'ingegno, diverso dagli altri uomini in tutta la persona, guardare i monti della Conca d'Oro nell'impresa garibaldina, o la suggezione che già provò il Croce innanzi ai pensieri, alle parole e agli atti. di quel giovane. Quella gran corsa ad una splendente maturità che con entusiasmo seguiamo nella sua vita, non la ritroviamo altresl corrispondente nella forma del suo operare letterario. Tutta l'opera del Nievo è protesa verso le Co,ifessioni d'un Italiano, ma esse lasciano ben addietro i romanzi, i racconti, le liriche, le tragedie che a loro

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fanno corona; e nell, Angelo di Bonttl, nel Conte Pecoraio, nelle Lucciole, negli Amori Garibaldini, nei Capuani, nello Spartaco ritroviamo, ancora più gravi, i difetti che fanno delle Con/essioni un grande romanzo, ma un romanzo disuguale. Eppure senza quei tentativi, senza quelle opere mancate (per tanti versi interessanti e non prive di pagine vive e poetiche), senza quella diuturna fatica di scrittore che, iniziata imberbe giovinetto, lo addestrò all'arte dello scrivere, al cercare dentro di sé e nei ricordi altrui e nella natura e nella storia, i sentimenti, i fatti che meglio parlavano alla sua immaginazione fervida e seria, ironica e morale, senza quei tentativi non sarebbero nate da un giovane ventisettenne le Con/essi.ani. Per questo, nella nostra edizione non abbiamo voluto dimenticare le opere minori; dimenticarle sarebbe stato indulgere ad un gusto romantico che fu già di uomini del passato, che vollero vedere nelle Confessi.oni d'un Italiano come un'improvvisa apertura, la rivelazione d'uno scrittore giovane d'anni e di esperienze, un esordio alla grande arte subito troncato, anziché una conclusione; ed esagerarono nel crederle scritte « di getto». Dimenticarle avrebbe anche significato credere o voler far credere ad uno «strappo» tra le opere minori e la grande ultima opera; invece nelle pagine che l'hanno preceduta il lettore troverà le prime fonti del mondo poetico delle Confessi.ani, e i primi toni d'un linguaggio e d'una morale fantasia che già sono singolarmente nie. . v1an1. Angelo di Bontà, scritto tra i primi mesi e l'agosto del 1855, manifesta già la preoccupazione dello scrittore di creare intorno ai personaggi un ambiente, di fedelmente ricostruire un periodo della storia veneziana: gli anni della decadenza avanti la caduta della Repubblica. Egli si avvalse e degli studi eruditi degli storici - e ben sapeva servirsene, con una padronanza del senso storico non inferiore a quella manzoniana - e dei ricordi del nonno materno, il nobile veneziano Carlo Marin, presente, ventiduenne, alle ultime sedute del Maggior Consiglio. Di più: volle entrare nell'intimo di quella società, ridonarcela anche attraverso il linguaggio, fosse pure a discapito dell'arte. Non aveva scritto, parlandone col Fusinato, ancor sotto il calore del primo progetto, che per iscriver bene un romanzo bisogna esser botanici, paesisti, filosofi, economisti, filologi e per di più poeti? E tutto ciò egli vorrà essere, con il « per di più» sempre più presente, nelle Con-

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f essioni. Cosi difendeva il linguaggio di Angelo di Bontà, la prima grande prova, di fronte alle critiche dell'amico Andrea Cassa, nel novembre del '57 (il romanzo era uscito a Milano nel 1856): « Ricordo che parlando del mio Angelo di Bontà ne appunti lo stile di sdolcinatura soverchia, dicendo che a te forse sembra più grave un tal difetto per essere da gran tempo disavvezzo alla musica dei dialoghi veneziani. Capisco per altro come a te, bresciano, rivolti lo stomaco quel vezzeggiare continuo, ma non capisco come a te, scrittore e poeta, sfugga la necessità di adoperarlo come colore attissimo a rappresentare la vita veneziana massime dei tempi dei quali mi piacque discorrere». Tali intenti documentari possono non giovare all'arte, e difatti non giovarono allo Angelo di Bontà, in cui i personaggi rimangono soffocati e deformati dentro la cornice storica, ed essa cornice è talvolta forzata a soggiacere alla vicenda: come se di quando in quando lo scrittore cambiasse registro, incerto se dar maggior peso alla parte di più pura fantasia o alla parte ricostruttiva. La fedeltà al linguaggio del tempo è, in fondo, propugnata ma non affrontata, la grazia del dialetto non si avverte; pesa anzi una certa prolissità e sdolcinatura; ma è già presente l'abbondanza del periodo, quel distendersi lungo e ampio dell'immagine e della frase, che è tanto veneto e tanto nieviano. Le Confessioni porteranno poi a maturazione lo stile ancora impacciato dell'Angelo di Bontà, scompariranno in esse le incertezze del linguaggio ora infarcito di richiami dialettali veneti e lombardi, ora legato ad accattati modi toscani, ora indulgente a modi eccessivamente discorsivi, di prosa parlata. Cosi quell'amore ancora municipale per Venezia, apparso già in una lettera del Nievo quasi ventenne a Matilde Ferrari, vive e alimenta la tragica visione veneziana dell'Angelo di Bontà, ed è già pronto a cedere di fronte al più grande amore nazionale per l'Italia; sembra che il Nievo scrittore, del 1850, del 1855, del 1858, l'anno delle Confe_ssioni, abbia ripercorso le tappe del sentimento patriottico del suo Carlino Altoviti; in questo le Confessioni sono autobiografiche. Quando Ippolito nacque a Padova il 30 novembre 1831, non erano ancor quarant'anni che la millenaria Repubblica di Venezia era caduta sotto i colpi infertile dall'Impero absburgico e dal Bonaparte, uniti, dopo tanta guerra sul suo territorio, nella comune decisione di spegnerne la sovranità; ed egli vide la luce nell'anno dei

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moti di Romagna. Quando nacque alla vita politica e all'arte, vide la lotta di Venezia del '48-49, l'errore di restaurare il simulacro della vecchia Repubblica e l'antico grido di San Marco; più tardi le impiccagioni di Belfiore lo scossero fin nel profondo. Patriota formatosi nei dolori del primo Risorgimento, conservò gli slanci generosi del '48, le istanze progressive della Rivoluzione di quell'anno, la ferma convinzione che il Risorgimento dovesse essere concretamente risorgimento di popolo. Vissuto tra moderati, non lo fu mai: più mazziniano dei mazziniani, più democratico dei democratici. Scrittore senza crisi, senza complicazioni intellettuali, volle essere scrittore popolare e nazionale, e nei pensieri e nella lingua. Romanticamente pensava che i suoi romanzi e i suoi racconti campagnoli potessero essere letti a veglia nelle stalle. Il Varmo è dell'inverno 1855-56 e avrebbe dovuto far parte di un volume, che il Nievo progettava, di novelle campagnole. Esso sarebbe stato senz'altro il miglior pezzo della raccolta. Lasciati i severi e ancor troppo pretenziosi intenti storici e la trama intricata dell'Angelo di Bontà, il racconto qui si stende lineare, lento all'inizio, frettoloso alla fine, ispirato dai lunghi soggiorni di Colloredo nel Friuli tanto amato, da « i colloqui dei villani» che sempre erano andati a genio al giovane fallito notaio. L'idillio fanciullesco della Favitta e dello Sgricciolo prelude a quello dei protagonisti delle Con/essioni: accanto a quel maggiore idillio, questo del V armo serba - come dice Mario Fu bini - un suo proprio incanto, come un disegno o un quadretto in cui compaia un motivo che sarà ripreso in più complessa composizione e che, indipendentemente dall'intei~sse del raffronto, attrae per un suo unico, non ripetibile accento. Questo addentrarsi del Nievo nel mondo dei villani, con Il V armo e con le altre novelle, L' Av-

tJocatino, Il Milione del Bifolco, La Pa:za del Segrino, La Santa di Arra, Le Maghe di Grado, non è soltanto un caso letterario; La nostra famiglia di campagna, dipinture morali e di costume, pubblicata nel 1855 su «La Lucciola» di Mantova, c'illumina non soltanto su una disposizione poetica nuova, sulla scoperta di situazioni poetiche sino allora da lui non affrontate, su un mondo di sentimenti che non lo abbandonerà più, nemmeno nel pieno ritmo delle Confessioni, ma anche su una disposizione morale e politica che avrà la sua chiarificazione in tante pagine di

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riflessione storica e sociale delle Con/essioni e nei Frammenti sulla Rivoluzione nazionale del '59. Per il momento Il Varmo ed alcune altre novelle segnano l'incontro con l'umile Friuli, e segnano l'avvio, attraverso prove rimaste desolatamente soltanto prove, come Il Conte Pecoraio del '57, all'espressione più felice del Nievo, il mondo di Fratta. Questo avvicinamento alle Confessioni potrebbe apparire un po' casuale, il Nievo ci potrebbe apparire uno scrittore alla ricerca di se stesso e in ciò passibile di smarrimenti, se considerassimo da un punto di vista puramente estetico il romanzo, Il Conte Pecoraio, che precede di poco le Confessioni. Lo venne scrivendo a Colloredo nell'inverno e primavera del '56, insieme alle novelle campagnole. Esso risente di una soggezione al modello manzoniano, soggezione non congeniale al temperamento dello scrittore Nievo: lo si è detto un manzoniano, ma a torto, ché le diversità son tante da incriminare d'un subito tale asserzione. Diverso il modo d'affrontare l'arte, diverse le concezioni filosofiche e religiose, diversi il sen~ire patriottico e il vivere gli anni eroici del Risorgimento. L'uno frettoloso, quanto l'altro lento e minuzioso; incapace di misura e di rapporti nella tecnica letteraria l'uno, quanto attento e scrupoloso all'armonia e alla simmetria l'altro; l'uno ottimista e felice di vivere pur tra malumori e tristezze, quanto l'altro tormentato e dubbioso, e consolato soltanto da una fiducia trascendente l'umano. Né gli uomini né gli artisti si assomigliano. Nato nella dichiarata ammirazione per il Manzoni, Il Conte Pecoraio, come romanzo di un epigono, è fallito. Romanzo disarmonico, iniziato con un quadro idilliaco se pur dolente, esso via via si avviluppa in un racconto artificioso; ma la triste vicenda della giovane contadina, vittima delle lusinghe del conte di Torlano, ha senza dubbio accento umanamente più vero della vicenda di Morosina Valiner, l'angelo di bontà. Giova invece indicare nel Conte Pecoraio la fedeltà al mondo del Friuli agreste e pastorale, l'insistenza su motivi sempre più cari, sempre più radicantisi nell'animo dello scrittore: una preparazione all'opera maggiore. Quanto allo stile e al linguaggio, anche qui il manzonismo, il toscanismo e l'idiotismo, mescolati, stridono. Lo scrittore non ha ancora avvertito che è inutile tentar di mettere sulle labbra dei personaggi accenti dialettali quando egli stesso è portato ad adoperare un linguaggio riflesso, lontano da quello

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proprio e naturale, soggetto ancora a un modello « in lingua», accademico. Eppure nel '54 il giovane ventitreenne aveva già trattato questi problemi, e li aveva, sia pur confusamente, avviati ad una conclusione. Gli Studi sulla Poesia popolare e civile massimamente in Italia sono stati a lungo trascurati dai critici. Anche il Mantovani non vi si. sofferma. In essi invece è già tanta parte della poetica del Nievo. In una prosa vibrata che dà nel retorico, in una rapida e, alla fine, piuttosto· confusa rassegna della poesia da Omero ai suoi giorni, il giovane scrittore lamenta la scarsezza della poesia popolare e nazionale in Italia. Con Dante - egli dice- >. E difendeva il giovane Nievo la forza rubesta del dialetto, tanto che nel Parini e nell'Alfieri, nuovi patriarchi delle patrie lettere, credeva ritrovare «un certo dire parco e maschio che somiglia assai davvicino la rustica maniera di dire del dialetto »; che è impressione certamente ardita. E più veniva a dire: « La lingua italiana sta come un gran serbatoio in cui di secolo in secolo si vanno depositando gli elementi più puri di ben dieci vocabolari, vagliati dall'uso di sei o sette generazioni, e ripuliti dalla prudente pratica degli scrittori. Le frasi per avventura illogiche, o troppo rozze e avventate, o prolisse dei dialetti, se sono rifiutate come spurie dal seno della loro gran madre, durano prima per lunghi secoli nei volgari discorsi, poi vanno scomparendo al fondo, sovente per immegliarsi, talora per impeggiare, sempre però tendenti a passare dall'uso provinciale al generale sia per la crescente uniformità delle opinioni italiane, sia per natural attitudine d'ogni segno che vesta acconciamente il concetto. » Queste esigenze, e la « prudente pratica» del dialetto saranno parte essenziale dello stile del romanzo maggiore. Non dunque, come si volle credere

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per tanto tempo, sciatteria dovuta alla fretta, la presenza di forme dialettali nel Nievo scrittore, ma piuttosto programmatica velocità d'espressione, che, senza freddezza e calcolo, s'affidava in lui, veneto-lombardo, al suo naturale linguaggio di italiano del Settentrione. Intanto nel '56 era uscito su « Il Pungolo» Il Barone di Nicastro, racconto che ha per protagonista uno strano personaggio; sono evidenti qui le letture di scrittori francesi dal Lesage del Gil Blas al Voltaire del Candide. Nel '57, tornato da Milano a Mantova, città dei Nievo e dove essi abitavano, scrisse le tragedie Spartaco e I Capuani. « Fecondo come una coniglia» diceva di se stesso in questo periodo. Il Nievo compose le sue due opere drammatiche quasi di seguito; I Capuani nella primavera-estate del 1857, lo Spartaco - come si presume - nell'autunno dello stesso anno. Esse si presentano complete nelle loro linee generali, ma, secondo l'Errante che le pubblicb nel 1914 e 1919, non perfettamente rifinite, e i manoscritti attesterebbero l'intenzione del poeta di riprendere il lavoro. I critici, e per primo il Mantovani, parlando dello Spartaco, ricordano il tentativo manzoniano di comporre una tragedia sul guerriero trace, il dramma Les esclaves del Quinet, e lo Spartaco di Giulio Carcano {il traduttore ottocentesco dello Shakespeare), pubblicato a Milano nello stesso anno in cui il Nievo scriveva la sua tragedia. Ma sono richiami tutti di carattere informativo che poco possono servire ad inquadrare queste tragedie nel loro tempo; se non forse ad indicare come l'argomento fosse vivo negli scrittori della prima e della seconda metà del secolo. È indubbio che il Nievo senti l'influsso della tragedia alfieriana, che non dimenticò l'insegnamento manzoniano; ben poco dovette al Carcano che scrisse opera melodrammatica e fiacca. I Capuani, che pur hanno scene efficaci e forti, sono opera confusa e mancante di un centro drammatico, di rapidità, di scioltezza. Meglio, a nostro avviso, lo Spartaco, in cui la silenziosa figura dello schiavo trace domina maestosa sul tumulto degli odii, delle vendette, degli amori. Nel gennaio del '58 furono pubblicate a Milano Le Lucciole, frutto di un triennale esercizio di poesia. Ma poeta lirico il Nievo non era, e i difetti che si riscontrano nelle Lucciole si ritroveranno negli Amori Garibaldini ( 1860); versi senza musica o con troppo facile musica, immagini forzate che solo di tanto in tanto rir-

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ruenza della fantasia riscatta. S'è voluto vedere una soggezione del gusto poetico del Nievo al Prati, al Giusti e allo Heine. Indubbiamente i settenari del Nievo hanno echi dei settenari giustiani, e il suo umorismo e la sua satira hanno i toni del poeta di Monsummano: più difficile è trovare una discendenza dallo Heine (che pur egli tradusse); e il ricordo del Prati si troverebbe nelle liriche più commosse o melodrammatiche. Ai poeti già ricordati come ispiratori o affini al Nievo si potrebbe anche aggiungere il buon Fusinato. Ma in verità il Nievo non fu mai poeta di limpida voce, e le sue moltissime poesie si leggon oggi quasi soltanto per rispetto al romanziere. Estrema facilità del verseggiare, frettolosa stesura, levità da bozzetto, son le caratteristiche che balzano subito evidenti dalla pagina. E tali difetti sono forse più evidenti negli Amori Garibaldini che nelle Lucciole. Gli Amori Garibaldini hanno in compenso il pregio di una maggiore vivacità, di un più sincero sentire. Mentre nelle Lucciole ( esclusi forse i Bozzetti tJeneziani del resto un po' scialbi) s'avverte spesso un'intenzione letteraria ingeaua e rozza, con un suo pesante linguaggio, negli Amori Garibaldini invece, proprio perché buttati giù in fretta, tra una marcia e un combattimento, si scopre un animo candido ed entusiasta, capace di contegnosi dubbi e di ambasce e di sereni gaudi, « garibaldinamente » pronto a vivere. Spesso allora le sue poesie appaiono come anticipazioni o ricordi, cose che ritornano o che verranno riprese e più fermamente espresse nelle opere di lui non caduche. Ed ecco il tempo più felice e più grande: gli anni delle Confessioni d'un Italiano, della campagna del '59 e della spedizione di Sicilia. Nel dicembre del' 57 il Nievo scriveva le prime pagine delle Con/essioni, e in otto mesi, trascorsi tra Milano, Colloredo e il Mantovano, l'opera era compiuta. Ormai da vent'anni le Confessioni sono tornate al loro vecchio titolo, hanno abbandonato quello prudente, se non vile, di Confessioni d'un ottuagenario; esso piacque ed alcuni vi sono ancora affezionati. Ma l'unico vero titolo, non solo perché dato dall'autore, ma perché anche veramente rispondente allo spirito del romanzo, è Le Confessi.oni d'un Italiano. E, si badi, tale titolo mette l'accento anche su quelle parti che, artisticamente dubbie, si sorreggono però nella moralità e nella passione patriottica, anch'esse strumenti essenziali all'unità del romanzo. In effetti, giunti al ventitreesimo ed ultimo capitolo,

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s'avverte che il Nievo ha voluto, nella varietà della vicenda e nella lunghezza del racconto, narrarci la faticosa e avventurosa affermazione di italianità di un uomo nato in un lembo italiano quando ancor l'Italia non era. S'avverte che il Nievo ha voluto, dopo il ritorno di Carlino da Londra nella Venezia ancora austriaca, non ricominciare il romanzo, non aggiungervi l'appendice - o, se si vuole, un'ennesima appendice-, ma ha voluto, dopo la fremente nascita dell'Italiano tra le glorie e le sconfitte napoleoniche e i patiboli partenopei e la borghese burocrazia della Repubblica e del Regno italici, rappresentarci la naturale e morale conseguenza di quel fenomeno storico, cioè la famiglia italiana fondata su quel nuovo san~e. Famiglia ancor costretta a tributi di smarrimenti e di sangue per la patria nascente. Felice invenzione, generoso proposito che avrebbe dovuto darci il romanzo nazionale. Di qui tante ricchezze e anche molte divagazioni artisticamente inutili, ed eccessi. Tuttavia le Confessioni «sono un libro ben temperato, e le disuguaglianze di esso sono soltanto tecniche, non compromettono la sostanziale unità, che è quella vera e sola, quella che vien dall'unità d'ispirazione». Possiamo far nostre anche altre parole di Riccardo Bacchelli: «io per me non conosco libro in cui la storia di una passione, di quella malattia del sangue e dell'anima che è tanto più cara e preziosa della salute, sia cosi naturale e cosi fatale nelle sue origini, germinate quasi colla vita nell'infanzia, e coi primi sentimenti, col sorger primo della coscienza e della riflessione, e nei suoi annosi andamenti». E certamente la storia dell'amore per Pisana non sta a sé, non è isolabile dalla storia di Carlino italiano. I primi inconsci e nebulosi sentimenti dell'infanzia, i contrasti tra la passione e il dovere e la dignità nella giovinezza s'intrecciano e si svolgono sul cangiante sfondo del quadro: dal vecchio mondo di Fratta - ove tutto è cadente e solo verdeggia l'idillio tra i due bambini, questi pieni di vita, irrequieti, capaci di sensi generosi, di capricci e di fole, quello grave e ridicolo, e lento e sopravvissuto a se stesso e alla sua funzione - si passa al crollo senza solennità d'una Repubblica durata nei secoli, e la cui morte fa soffrire più di tutti proprio coloro che per primi la sentirono ineluttabile e la augurarono. Cosi la morale straordinaria in cui vive quell'amore dalla fuga di Carlino da Venezia al suo matrimonio nel Friuli con l'Aquilina, s'accompagna al periodo straordinario di rischi e d'avventure nel Partenopeo,

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nel Genovesato, e nelle intendenze della vasta Repubblica Cisalpina e poi Italiana. Quell,amore diverrà dolente e corrugata e infine tutta spirituale passione nell, esilio londinese. Amore di natura foscoliana, in cui patria e donna si uniscono, ma senza idealizzazione, anzi consapevolmente espresso con le sue torbidezze e con una sensualità non meno intensa perché pudicamente rappresentata. Molto si è detto intorno a Pisana, molto si è scritto intorno al mondo di Fratta, che, dice acutamente il Russo, ciascuno legge «come le memorie simboliche della propria adolescenza, anche se in ogni particolare la nostra sia stata diversa da quella». La poesia delle Con/essi.oni è già tutta li, in Pisana bambina, nel paesaggio e nelle voci del Friuli settecentesco; il resto del romanzo prolunga quel meriggio poetico. A tratti la luce artistica s'attenua, perde splendore, s'offusca; ma il vigore non viene mai meno. Le bassure, le fontane, i rivi, le lagune, le nebbioline d'una campagna grassa e alberata, i viottoli e le strade campestri; le fiere dei villani e le grottesche «mostre» delle cernide (quasi ritorni a toni che furono già del Folengo e del Ruzzante); .il castello di Fratta con la sua scacchiera a mezza partita di fumaioli e la piccola folla di conti, di baroni, di cancellieri, di monsignori e cappellani e pievani, di cavallanti, di armigeri, di fattori, di cuoche e di sguattere, sono immagini e quadri a lungo vissuti nella mente dello scrittore e che si appalesano nelle pagine con una naturalezza che sa di necessità. Si è parlato di un tono caricaturale un po' troppo insistito nella rievocazione del mondo di Fratta, e, d'altra parte, di una pensosità nieviana straordinaria, veramente da vecchio per un giovane ventisettenne. La rievocazione del mondo di Fratta è invece chiaramente il frutto di un animo giovanile, dove non c, è lode di tempo passato, in cui domina il sorriso superiore di una generazione di nipoti che si china sull'infanzia dei nonni; e l'ottuagenario è un espediente, un'immagine pratica per poter svolgere, partiti da una lontana società oligarchica, il filo di una storia che si vuole quanto più è possibile far giungere sino a tempi immediatamente contemporanei. Lasciamo stare la saggezza della vecchiaia, che nelle Confesn·oni non c, è; e quando c'è, è divagazione prolissa. La poesia del romanzo è tutta giovane; anche se certamente saggia, come era saggio l,uomo Nievo fin dall,adolescenza. Non si può esprimere una passione cosi

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fresca e conturbante come quella di Carlino e di Pisana, se non si è giovani con nel petto sangue ancora in rivolta, non si può rappresentare un personaggio sempre pronto a correre con la spada in mano là dove la passione patriottica lo esige, se la patria non parla ancora più al cuore che alla mente. E non la patria, ideale astratto e retorico, ma patria di popolo da sospingere a civiltà. Di scuola democratica l'avrebbe forse giudicato il De Sanctis, che certamente non lo conobbe; e ci piace pensare che avrebbe sentito Pisana come lontana sorella di quella Francesca che « non è il divino, ma l'umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e per ciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni». I difetti veri del romanzo nascono da un eccesso di calore, da un impeto di natura morale che non è riuscito a calarsi appieno nella misura dell'arte. L'abbandono del mondo di Fratta era necessario all'unità morale del racconto, ma fu, in certo modo, esiziale all'arte. Eppure, ripensiamo ai capitoli sulla caduta della Repubblica veneta, al rinnovato amore di Carlino e di Pisana nella casa lasciata dal padre apparso e riscomparso verso l'Oriente, alla caserma della Milano cisalpina, alla rapidità balenante dell'assalto al convento velletrano, all'intendente Soffia e al cordiale ritratto di Bologna; ripensiamo al quadro dell'Italia durante il primato napoleonico, più efficace e più storico di dieci studi eruditi, alla lettera di Bruto Provedoni, alle vecchie contrade milanesi in cui da poco si sono spenti i passi dei vegliardi illuministi; ripensiamo infine al ritornante Friuli con le aperte distese, alla grama vita di una Venezia ancora una volta austriaca, alle chiacchiere e ai rancori affioranti in Piazza e in Piazzetta, a quella giovine Italia che nei figli diventa giovine Europa, a quell'America selvaggia, in verità non tutta brutta. Osservandovi invece i personaggi minori, quelli soprattutto che recano in sé un problema morale particolarmente sentito e forse sperimentato dal poeta stesso, si ha l'impressione che nello stendere la complicata trama del romanzo egli non sempre regga alla rifinitura di ciascun d'essi: lasciando da parte i più felicemente riusciti (quelli che non escono dal mondo di Fratta), il Nievo par quasi impaziente di fermarne d'un subito il carattere fisico e morale con un'impronta forte, spesso eccessiva, sì che poi la figura, costretta, debba contor-

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cersi e contraddirsi nella procedente rappresentazione. E talvolta, proprio perché mancano di pazienti sfumature all'inizio, essi divengono personaggi di maniera; perciò Lucilio ricorda i palliéli eroi mazziniani del Ruffini, il non riuscito Fantasio; e come si contraddicono il dottorino di Fratta, il gran dottore di Venezia, il Lucilio soldato, il vecchio medico che ritorna per morire in patria, cosi si contraddicono Giulio, irriconoscibile tra Portogruaro e Milano, e poi abbandonato nel Napoletano; cosi Clara che da candida vergine religiosa scade a zitella bacchettona, golosa di caffè; cosi il padre che da impreveduto personaggio gozziano o goldoniano assurge a eroe sognatore, dantescamente forato nella gola. Vogliamo continuare? concludiamo piuttosto che nelle Confessioni mancano spesso i legamenti, che vi difetta l'unità tecnica, che vi si trovano discontinuità, che la fretta ha tarpato le ali al grande volo. E tuttavia quanta abbondanza, quanta ricchezza ancora di fantasia e di riflessione I Romanzo più formativo non conosciamo nella letteratura italiana: ci perdonino i fedelissimi del Manzoni, ai quali, del resto, apparteniamo noi stessi. L'unanime giudizio dei lettori ha già detto che non v'è personaggio femminile più popolare di Pisana, che nell'età giovanile non v'è compagno più simpatico di Carlino, che nessun libro insegna meglio ai figli l'amore per gli anni più belli dell'Italia risorgimentale. Rimarrebbe il pregiudizio dello stile, la creduta imperfezione della lingua: ne abbiamo già discorso. Quando citiamo Riccardo Bacchelli che nella prefazione alle più belle pagine di Ippolito Nievo dice di aver ristabilito, esaminando il manoscritto autografo delle Confessioni, alquanti modi regionali e saporiti che le edizioni correnti avevano mutato senza ragione, e che spesso di quei modi trovò nei dizionari (migliori amici degli scrittori di quanto non si creda) ottimi esempi classici, non ci trinceriamo dietro un giudizio autorevole, ma appoggiamo con esso una nostra ferma convinzione. Inoltre, di contro all'opinione sino ad ora da tutti accettata, affermiamo che il manoscritto autografo delle Con/essioni non è la scrittura di getto del romanzo, ma la ricopiatura, secondo un metodo che fu proprio del Nievo: ce ne danno conferma le lettere ove egli parla della ricopiatura del Conte Pecoraio (al cugino Carlo Gobio del 22 dicembre 1856) e dei Capuani (sempre a Carlo Gobio del 25 luglio 1857). Ricopiava i suoi scritti, faceva rilegare i

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quinterni, e poi, naturalmente, come tutti, o cercava l'editore o li rimetteva nel cassetto, che si ripresentassero a un secondo esame. Purtroppo tra le lettere edite, e quelle inedite che abbiamo potuto leggere, non s'è trovato nulla che accenni a una ricopiatura delle Con/essioni. Ma parla il buon senso: un romanzo tanto vasto, tanto pieno di personaggi seguiti dall'infanzia alla morte, di intrecci e di storia, non può essere stato scritto di getto senza un pentimento, in tre grossi quaderni press'a poco della stessa mole, il che attesta un calcolo preventivo, con le minute correzioni di quegli errori che sfuggono alla penna anche del più attento amanuense; calligrafia chiara e costante, righe fitte e uguali, nessun richiamo o rimando, ma solo qualche rara aggiunta in margine. Piuttosto, al solito, - lo documentano le lettere - fretta e noia nella ricopiatura, forse da includere nelle date dicembre 1857agosto 1858, forse immediatamente successiva alla composizione, forse più tarda. Le dimenticanze, gli errori di memoria che rimangono nel romanzo sono da ascriversi a quella fretta: alcuni l'autore ne corresse, altri ne lasciò. Nell'agosto stesso in cui fini le Confessioni, il Nievo pensava già di pubblicarle e cercava chi gliele stampasse. Nel novembre era a Milano. Il '59 lo trovò ormai nello stato d'animo inquieto e pieno di speranze che gli eventi politici giustificavano. In primavera, nel maggio, era a Torino, di là del confine, e subito arruolato nei Cacciatori a cavallo di quel generale Garibaldi che già aveva descritto difensore di Roma nelle Confessioni d'un Italiano. Il 26 maggio combatté a Varese, il 27 a San Fermo. Fu a Sondrio, combatté con il Bixio a Padenollo; combattevano ancora quando giunse l'annuncio dell'armistizio di Villafranca. Nel settembre tornava, in congedo, alla casa di Fossato non più austriaca. È di questo autunno 1859 un suo opuscolo politico, Venezia e la libertà d'Italia, che dimostra come il Nievo avesse partecipato alla campagna garibaldina non solo con l'animo del soldato, ma con l'occhio vigile del politico. Quello è il primo di un gruppo di scritti politici la cui maturità sembr'i giustificare la domanda e la risposta del Croce: cc Che cosa avrebbe potuto fare ancora un ingegno come il Nievo, il quale, prima dei trent'anni, aveva già prodotto un libro, nonostante i suoi difetti, cosi importante come le Confessioni di un ottuagenario? Forse, dal freddo e risoluto e meditativo soldato delle guerre del Risorgimento, dall'abile capo d'intendenza della spedi-

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zione dei Mille, sarebbe uscito un uomo politico, un competente amministratore della cosa pubblica, un promotore delle armi e dell'agricoltura e dell'economia nazionale e dell'educazione del popolo italiano; e l'opera artistica, con la quale aveva riempito l'ozio costretto, aspettando il momento dell'azione, sarebbe diventata per lui secondaria o addirittura egli l'avrebbe abbandonata.» E dal 1929 furono pubblicate più pagine di quante allora, nel 1911, il Croce poté leggere. Sappiamo che avrebbe scritto Il Pescatore d'Anime, il suo nuovo romanzo del dicembre 1859, di cui ci rimangono una trentina di cartelle, e il cui motivo ispiratore è da ricercarsi non solo nel mondo campagnolo del Friuli, ma soprattutto nei pensieri sulle classi contadine e sul clero povero quali sono esposti nell'abbozzo del saggio sulla Rivoluzione nazionale. L'attività letteraria non languiva dunque in lui anche in mezzo agli avvenimenti tanto grandi e incalzanti del '59 e del '60 e del '61; certamente lavorò nei periodi di ozio che i suoi doveri di soldato e di amministratore militare gli concedettero. Subi anch'egli, e felicemente, l'atmosfera carica di eventi, ransiosa e trepida incertezza delle sorti di tante provincie italiane in quegli anni, fu coinvolto nelle nuove polemiche che si destarono e che non finirono poi tanto presto. S'appassionò e scrisse, più di politica che di letteratura, si dimostrò uomo non solo di lettere, ma anche uomo di grandi virtù pratiche ( e con la modestia dell'uomo sicuro, cosl scriveva alla Bice da Palermo, il 15 luglio 1860: « Hanno scoperto in me dei gran talenti amministrativi. Figuratil ... Ma il non rubare è una gran virtù .•. »). I suoi scritti di questo periodo nascono da un'intelligenza di politico, e il primo, Venezia e la libertà d'Italia, anche da una esperienza patita a lungo nell'animo e nel corpo, di lombardo-veneto: i secondi, cioè le relazioni amministrative, da incarichi ufficiali affidatigli da Giovanni Acerbi, il suo superiore nell'Intendenza dei Mille: il terzo, il Frammento sulla Rivoluzione nazionale, da una lunga consuetudine e da un profondo amore, che aveva sempre tradotto e che si accingeva ancora a tradurre, in termini letterari e poetici, verso il «popolo di campagna» e friulano e veneto e mantovano. L'opuscolo Venezia e la libertà d'Italia fu pubblicato anonimo, a Milano, nel 1859. Scritto tra Villafranca e la cessione di Nizza, risente dell'ansia con cui il Nievo attendeva il responso definitivo

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della politica internazionale sul destino del Veneto. Ritorna qui l'eco di alcune lettere di lui adolescente e giovinetto alla madre e all'amico Attilio Magri, ritorna l'affetto- che assunse forma d'arte nell'Angelo di Bontà, nel Conte Pecoraio e nelle Confessionidel nonno Marin verso la città natia e verso la terraferma dominata un tempo dalla Serenissima. Lette le Confessioni, non ci sorprende il ritorno appassionato del Nievo a un argomento che gli stava a cuore, piuttosto ci sorprende l'atteggiamento retorico di alcune pagine, alcuni ingenui progetti o sogni lontani dalla realtà storica. Più che della maturità dell'autore, lo scritto è preziosa testimonianza della delusione d'un animo garibaldino dopo Villafranca. Di più alto valore sono il Diario della spedizione dal 5 al 28 maggio, il Resoconto amministrativo della prima spedizione in Sicilia e la lettera al direttore della «Perseveranza». Il primo fu pubblicato da Alessandro Luzio su (( La Lettura» del maggio 1910 e ripubblicato dal Bacchelli con gli altri scritti politici nella sua nota antologia, con l'avvertenza che il Nievo lo dettò per uso di uno scrittore francese, il La Varenne, al quale avrebbe dovuto «servir di schema per una sua storia della prima spedizione». Il Resoconto fu steso nel luglio del 1860 per incarico dell'Acerbi; la lettera apparve nella ((Perseveranza», il 31 gennaio 1861; furono riesumati entrambi da Alessandro Luzio, runo ne « La Lettura» del maggio 1910, l'altra nel « Risorgimento Italiano» dell'aprile 1910. Se nel Diario l'elemento narrativo prevale quasi all'intenzione di dare un documento - quanti particolari appariscono come note di colore! - nel Resoconto invece la prosa più distesa e letteraria soggiace infine allo scopo informativo dello scritto. Certo è un singolare resoconto, così lontano dai modelli burocratici consueti anche nell'Ottocento. C'è il tentativo di dare lata interpretazione all'impresa dei 1\tlille, di giustificarne anche economicamente il carattere eccezionale e leggendario, c'è l'intendimento orgoglioso di dimostrare, nonostante tutto, anche l'ordine amministrativo della campagna come cosa da porre tra gli elementi eroici di essa. Il Frammento sulla Rivoluzione nazionale rimase inedito sino a quando Riccardo Bacchelli non lo pubblicò nella sua antologia del 1929. Cosi egli lo presentp: «È inedito. Lo dobbiamo alla generosa cortesia di Alessandro Luzio che molti anni fa lo fece copiare dall'autografo rimasto con le altre carte di Ippolito presso la famiglia ed ora scomparso con esse. Lo scritto era mutilo del principio e

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della fine; gettato giù di foga, qualche rara parola riusci indecifrabile all'amanuense e anche al nipote del poeta, Ippolito Nievo, e al Luzio stesso che collazionarono la trascrizione. Il Mantovani (Il poeta soldato, pagg. 380-81) lo assegna al gennaio del '61, durante la licenza avuta dal Nievo dopo sette mesi di soggiorno in Palermo, e che egli trascorse tra Fossato, dove dimorava la madre, e Milano presso la Bice Melzi. Ma esso è piuttosto da attribuire ai mesi precedenti la campagna di Sicilia, mentre il Nievo abbozzava il suo ultimo romanzo, Il 'Pescatore d'Anime. Vi si è letto bensl un accenno a Quarto, ma la parola letta cosi sull'autografo dal trascrittore, da altri fu interpretata per Trento, lezione che abbiamo adottata.» Anche a noi pare che lo scritto sia del periodo tra la campagna in Valtellina e quella di Sicilia; non foss'altro, apparirebbe strana la completa assenza di qualsiasi riferimento alla Sicilia, alle plebi contadine meridionali, che pur il Nievo conobbe e con le quali, come attestano il Diario e il Resoconto, per i suoi incarichi amministrativi fu anche in particolare contatto. Il Frammento è molto importante, anche se lo si considera nel quadro generale del pensiero politico e sociale del nostro Risorgimento. Innanzi tutto l'attenzione del Nievo si volge a un problema di politica interna, e per la prima volta - benché tanta parte del suo pensiero politico sia ricostruibile attraverso le Confessioni d'un Italiano- egli prende una sua chiara posizione tra moderati e Partito d'Azione. Senza ricercare nuovi programmi politici, egli disapprova con severità l'atteggiamento dei moderati verso le classi contadine, e il loro esclusivo preoccuparsi dell'ingrandimento e dell'unità territoriale italiana; vede giustamente l'attuarsi della rivoluzione nazionale solo nel contatto fiducioso delle grandi masse popolari con lo Stato. È chiaro che per lui « rivoluzione nazionale», in un paese in cui le poche popolazioni industriali erano ancora una eccezione, significava appunto la fusione delle plebi rurali nel grande partito liberale, o meglio, nella vasta corrente politica che era stata, dal '49 in poi, guida all'unità nazionale. Il Nievo rifugge altresl parzialmente dal paternalismo del Partito d'Azione verso «il popolo di campagna», comprendendo l'insufficienza dell'impostazione data da quel partito alla questione agraria, e comprendendo che l'educazione delle masse contadine non poteva avere che un unico presupposto: una loro riabilitazione economica capace di legarle agli interessi della borghesia risorgimentale più progres-

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siva, o per lo meno capace di attenuare l'antagonismo tra città e campagna, tra forze urbane e rurali. Ritorna qui in più ampia esposizione un concetto che ci aveva colpito nelle Confessioni, che non è concetto stretto nella contingenza di un momento, ma determinante di tutta la condotta politica di un uomo: nel XIII capitolo, quando Venezia tragicamente si trova «fra due storie», egli dice: cc Dei beni perduti si sperava almeno di racquistarne alcuno; la libertà è preziosa, ma pel popolo bracciante anche la sicurezza del lavoro, anche la pace e l'abbondanza non sono cose da buttarsi via. È un difetto grave negli uomini di pretendere le uguali opinioni da un grado diverso di coltura; come è errore massiccio e ruinoso nei politici appoggiare sopra questa manchevole pretensione le loro trame, i loro ordinamenti!» Tuttavia, abbiamo detto, parzialmente il Nievo rifugge dal paternalismo del Partito d' Azione, poiché, in fondo, dopo aver rivendicata una miglior condizione economica delle plebi contadine, la precedenza della soluzione economica su quella astrattamente educatrice («Mal si insegna l'abbicì ad uno che ha fame; mal si presenta l'eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi d'un fattore»), la necessità di riconoscere più ampi diritti politici ai ceti poveri (« Possibile che nessuna legge elettorale si degni di scendere fino a lui?»), egli pare attribuire a queste plebi rurali una funzione sempre passiva, di ricezione; spetta ai padroni, ai ricchi, ai letterati rimuovere le cause dell'antagonismo coi contadini, coi poveri, con gli illetterati, cioè l'incuria, l'avarizia, il malo costume, il falso zelo. Non si avverte ancora la possibilità e la necessità che le plebi contadine acquistino la coscienza attiva dei propri diritti civili e sociali. Ma non c'è contraddizione nel pensiero politico del Nievo: perché là dove alla sua domanda: « Siete voi disposti e credete il tempo opportuno e maturo per una rivoluzione sociale che renda l'agiatezza cosa comune nel popolo campagnuolo da togliere la possibilità di ogni discordia, ogni motivo di quell'odio che lo rende avverso a voi, ai vostri costumi, alle vostre opinioni anche giuste, anche sante?» i gruppi politici domi~anti gli rispondono: « Noi il tempo né è maturo né opportuno», il Nievo allora apre con essi una nuova polemica vivace e serrata quanto la prima. Come nelle Confessioni aveva ben visto che nell'immoto mondo feudale della terraferma veneziana il prete era, al postutto, l'unico rappresentante della povera gente, ora li consiglia risoluta-

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mente a non lottare contro le opinioni religiose di quel popolo di cui si rimanda l'emancipazione economica e l'immissione come forza intelligente nel vivo dello stato liberale. È chiaro che il Nievo non è convinto della necessità di rimandare: e non ha torto, ché l'indefinito procrastinare non diciamo la soluzione, ma l'inizio della soluzione d'una rinnovata distribuzione fondiaria, fu l'errore di quei liberali italiani che non capirono dover essere il liberalismo sinonimo di benessere e di prosperità, se non voleva dannarsi a una politica illiberale. Preso atto, dunque, amaramente del diniego delle classi dirigenti a un'equa partecipazione economica delle plebi contadine nell'ambito dello stato borghese, il Nievo non propone né una riforma religiosa a cui il popolo non era affatto disposto, né una politica anticlericale che coinvolgesse tutto il clero dalle sfere più alte e dotate alle più basse e misere, bensl una politica d'appoggio da parte dello Stato liberale al clero povero, al clero campagnolo, solo organo di collegamento, nella situazione di miseria delle plebi rurali, tra esse e la classe dirigente. Non bisogna dimenticare che il Nievo era un lombardo-veneto e come tale ben sapeva quanta importanza era da dare alle forze clericali delle campagne, soprattutto dopo aver visto il pericolo di una politica austriaca in favore dei contadini poveri, quale si venne progettando dal '53 in avanti. Ed egli anche ben conosceva, per lunga consuetudine coi contadini, la miseranda condizione dei maestri comunali, altra piaga italiana che non fu più sanata: non ebbe illusioni su quel punto. Tra l'opuscolo su Venezia e la libertà d'Italia e questo « frammento» noi sentiamo che l'evoluzione del pensiero risorgimentale del Nievo era giunta a un punto risolutivo, in cui si abbandonavano le istanze più lontane e vaghe di impossibili confederazioni di popoli latini, e si fondava il proprio convincimento sulle concrete esigenze di una ricostruzione nazionale. La sua insoddisfazione e la sua irrequietudine in quel tempo appaiono anche da questo stralcio di lettera: « Le darb in quattro tocchi la mia biografia passata, presente e quasi anche futura. Fui letterato a Milano fino all'aprile, soldato con Garibaldi fino ad ora, e d'ora in poi imbecille campagnolo fino a nuovo ordine.» Intanto s'adoprava a far passare al di qua del Mincio gente insofferente del governo austriaco. Trascorse un triste inverno a Milano cominciando il nuovo romanzo, Il Pescatore d' Anime, presto

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interrotto. «Adesso come si fa ad esser letterati? Bisogna sopportare pazientemente questo periodo di prova; e non sentendosi fatti per immischiarsi nei fatti presenti, aspettare i futuri », scriveva alla madre. I fatti futuri vennero presto. Il 5 maggio I 860 partiva da Quarto sul Lombardo verso la Sicilia. Fu nominato, con l'amico Acerbi mantovano, responsabile dell'intendenza militare della spedizione, compito delicato che Garibaldi gli affidb convinto della serietà e dell'intelligenza del giovane scrittore. Le sue lettere alla madre e alla Bice, dalla Sicilia, sono di una freschezza, di una vivacità mirabili. Aveva ritrovato il buon umore nel combattimento e nella vittoria; e aveva dimostrato un eccezionale coraggio. Le lettere che di lui e della Bice Melzi d'Eryl, sposa del cugino Carlo Gobio, ci rimangono, non servono a veder chiaro nel loro affetto; gentile, affettuoso, spigliato nello scrivere alla cugina, pare che il Nievo non sia andato oltre un sentimento fatto di ammirazione e di simpatia congeniale, certamente espresso con qualche arditezza. E se invece fu vero e profondo amore, egli seppe nasconderlo da vero gentiluomo quale era. Le lettere alla Bice come anche quelle alla madre - mostrano una sua rara capacità di comunicare con le donne, non per una inclinazione femminile del suo spirito, ma per una gentilezza nativa, per un gusto di conversazione arguta ed amabile, quasi svago dopo la solitudine del lavoro, cui fu sempre assiduo. Anche le lettere al padre, al fratello Carlo, al cugino Carlo, all'amico Fusinato, ci mostrano come quest'uomo che sapeva vivere solitario per mesi e mesi sui suoi quaderni di romanziere, in muto sodalizio con i suoi personaggi, aveva perb bisogno di non perdere contatto con le persone e la vita vera, effondendosi con cordiale e affettuoso animo. E nell'epistolario ritroviamo l'origine e lo sviluppo di tanti motivi che vivono nell'opera maggiore: l'ironia, l'aggraziata caricatura, il senso del tempo e degli uomini nel tempo, l'attenzione arguta alle persone, quel burlarsi di se medesimo che è gusto tutto veneziano; e il raccontare sempre, la necessità cioè di stendere il fatto, l'impressione, la notizia, nel ritmo della narrazione. Il 2 novembre del '60 fu nominato Intendente di prima classe col grado di colonnello. Nel dicembre ebbe una licenza che passò a Milano, festeggiò il capodanno del '61 con la madre a Fossato. Il 15 febbraio ebbe l'ordine di recarsi a Palermo per raccogliervi

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carte e documenti della contabilità e portarli a Torino. Pensò di restare poco a Palermo; desiderava tornare in alta Italia presso i suoi familiari e presso la Bice, forse. « Meno male che giovedi o alla più lunga domenica questa vitaccia sarà finita e rivedrò Napoli e Genova e Milano», scriveva il 23 febbraio. Il 4 marzo del 1861 l'Ercole, un vecchio piroscafo della Compagnia calabro-sicula, salpava da Palermo diretto a Napoli, ma per non giungervi mai, schiantato da una tempesta. Fra i passeggeri era Ippolito Nievo che chiudeva cosi la sua vita nel profondo del mar Tirreno. Da Caprera, nel settembre, Giuseppe Garibaldi scriveva alla famiglia: «Tra i miei compagni d'armi di Lombardia e dell'Italia meridionale, tra i più prodi, io lamento la perdita del colonnello Ippolito Nievo, risparmiato tante volte sui campi di battaglia dal piombo nemico, e morto naufrago nel Tirreno dopo la gloriosa campagna del '60. » Dodici anni più tardi, a Giosue Carducci, che si proponeva scrivere del Nievo, il compagno d'armi Giuseppe Cesare Abba così (in una lettera rimasta ancora inedita e suggeritami da Pietro Pancrazi) scriveva: « Lo veggo sempre col pensiero, aggirarsi malinconico, cupo, sdegnoso anche nei giorni più lieti di vittoria, fra i giovani che gli furono compagni. Egli era uno di quei pochi, che al grido d'Italia si levarono ritti, e pronti a tutto patire; e forse s'avvedeva che i più non s'erano che destati a mezzo, per dare una voltata sull'altro fianco e riaddormentarsi. Gran perdita ha fatto la patria e la letteratura, quel giorno in cui perivano i naviganti dell'Ercole; ma quel mistero, quella morte, quel lido d'Ischia su cui fu trovato un cadavere che si credé essere stato Nievo, sono un fondo di quadro, che niun poeta poteva immaginare più grande, per collocarvisi e apparire glorioso alla posterità. » SERGIO ROMAGNOLI

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LE CONFESSIONI D'UN ITALIANO

CAPITOLO PRIMO

Ovvero breve introduzione sui motivi di quede mie Confessioni, sul famoso castello di Fratta 1 dooe passai la mia infanzia, sulla cucina del prelodato castello, nonchi sui padroni, sui servitori, sugli ospiti e sui gatti che lo abitavano verso il z780. Prima invasione di personaggi; interrotta qua e là da molte savie considerazioni mila Repubblica Veneta, mgli ordinamenti civili e militari d'allora, e sul significato che si dava in Italia alla parola patria, allo scadere del secolo scorso.

lo nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell'evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l'hanno fatta, cosi mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest'azione dei tempi sopra la vita d'un uomo potesse recare qualche utilità a coloro, che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati. Sono vecchio oramai più che ottuagenario nell'anno che corre dell'era cristiana 1858; 2 e pur giovine di cuore forse meglio che noi fossi mai nella combattuta giovinezza, e nella stanchissima virilità. Molto vissi e soffersi; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e cascaggine umana, pur sollevano l'anima alla serenità della pace e della speranza quando tornano poi alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori 1. castello di Fratta: castello a poca distanza da Teglio, comune nel territorio di Portogruaro, eretto dai vescovi di Concordia nel secolo XII. Affidato alla famiglia che ne prese il nome, fu da questa ceduto agli Squarra nel 1265. Passò nel 1360 ai conti di Valvasone e nel secolo XV fu rifatto dalle fondamenta. Già cadente prima della rivoluzione francese, fu fatto demolire nel 1798 dal conte Eugenio di Valvasone. Oggi non ne rimane quasi più traccia. Il Nievo lo descrive qui attribuendo ad esso molti particolari del castello di Colloredo. Fratta era sede d'una giurisidizione, come si chiamavano quei territori sui quali la Repubblica veneta esercitava un dominio quasi soltanto nominale, avendoli assegnati a feudatari muniti di speciali privilegi. Ciò era frequente soprattutto nel Friuli e nel Bresciano. 2. I858: l'anno medesimo in cui il Nievo compiva le Confessioni (dal dicembre del 1857 all'agosto 1858). Ma la •confessione• arriverà sino al 1855.

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IPPOLITO NIEVO

comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. La mia indole, l'ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di be.ne e di male: e se non fosse sfoggio indiscreto di modestia potrei anco aggiungere che in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto ciò nulla sarebbe di strano o degno da essere narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana. Infatti fu in questo mezzo che diedero primo frutto di fecondità reale quelle speculazioni politiche che dal milletrecento al millesettecento traspirarono dalle opere di Dante, di Macchiavello, di Filicaia, 1 di Vico e di tanti altri che non soccorrono ora alla mia mediocre coltura e quasi ignoranza letteraria. La circostanza, altri direbbe la sventura, di aver vissuto in questi anni mi ha dunque indotto nel divisamento di scrivere quanto ho veduto sentito fatto e provato dalla prima infanzia al cominciare della vecchiaia, quando gli acciacchi dell'età, la condiscendenza ai più giovani, la temperanza delle opinioni senili e, diciamolo anche, l'esperienza di molte e molte disgrazie in questi ultimi anni mi ridussero a quella dimora campestre dove aveva assistito all'ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale. Né il mio semplice racconto rispetto alla storia ha diversa importanza di quella che avrebbe una nota apposta da ignota mano contemporanea alle rivelazioni d'un antichissimo codice. L'attività privata d'un uomo che non fu né tanto avara da trincierarsi in se stessa contro le miserie comuni, né tanto stoica da opporsi deliberatamente ad esse, né tanto sapiente o superba da trascurarle disprezzandole, mi pare debba in alcun modo riflettere l'attività comune e nazionale che la assorbe; come il cader d'una goccia rappresenta la direzione della pioggia. Cosi l'esposizione de' casi miei sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che dallo sfasciarsi dei vecchi ordinamenti politici al raffazzonarsi dei presenti composero la gran parte nazionale italiana. Mi sbaglierò forse, ma meditando dietro essi potranno alcuni giovani sbaldanzirsi dalle pericolose lusinghe, e taluni anche infervorarsi nell'opera lentamente ma durevolmente avviata, e molti poi fermare in non muta1. Filicaia: il Nievo cita Vincenzo da Filicaia (1642-1707) come l'autore

dei famosi sonetti Italia, Italia, o tu, cui feo la sorte, Dov'è, Italia, il tuo braccio, e a ch11 ti serve? Si ricordi il giudizio di Ugo Foscolo sul Filicaia.

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bili credenze quelle vaghe aspirazioni che fanno loro tentar cento vie prima di trovare quell'una che li conduca nella vera pratica del ministero civile. Così almeno parve a me in tutti i nove anni nei quali a sbalzi e come suggerivano l'estro e la memoria venni scrivendo queste note. Le quali incominciate con fede pertinace alla sera d'una grande sconfitta• e condotte a termine traverso una lunga espiazione in questi anni di rinata operosità, contribuirono alquanto a persuadermi del maggior nerbo e delle più legittime speranze nei presenti, collo spettacolo delle debolezze e delle malvagità passate. Ed ora, prima di prendere a trascriverle, volli con queste poche righe di proemio definire e sanzionar meglio quel pensiero che a me già vecchio e non letterato cercò forse indarno insegnare la malagevole arte dello scrivere. Ma già la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la verità della storia mi saranno scusa e più ancora supplemento alla mancanza di retorica: la simpatia de' buoni lettori mi terrà vece di gloria. Al limitare della tomba, già ornai solo nel mondo, abbandonato così dagli amici che dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne, libero per l'età da quelle passioni che sovente pur troppo deviarono dal retto sentiero i miei giudizi, e dalle caduche lusinghe della mia non temeraria ambizione, un solo frutto raccolsi della mia vita, la pace dell'animo. In questa vivo contento, in questa mi affido; questa io addito ai miei fratelli più giovani come il più invidiabile tesoro, e l'unico scudo per difendersi contro gli adescamenti dei falsi amici, le frodi dei vili e le soperchierie dei potenti. Un'altra asseveranza deggio io fare, alla quale la voce d'un ottuagenario sarà forse per dare alcuna autorità; e questa è, che la vita fu da me sperimentata un bene; ove l'umiltà ci consenta di considerare noi stessi come artefici infinitesimali della vita mondiale, e la rettitudine dell'amico ci avvezzi a riputare il bene di molti altri superiore di gran lunga al bene di noi soli. La mia esistenza temporale, come uomo, tocca ornai al suo termine; contento del bene che operai, e sicuro di aver riparato per quanto stette in me al male commesso, non ho altra speranza ed altra fede senonché essa sbocchi e si confonda oggimai nel gran mare dell'essere.2 La pace di cui godo ora, è come quel 1. grande sconfitta: la battaglia di Novara del 21-23 marzo 1849. Dante, Par., 1, 113.

2.

Cfr.

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golfo misterioso in fondo al quale i>ardito navigatore trova un passaggio per l'oceano infinitamente calmo dell'eternità. Ma il pensiero, prima di tuffarsi in quel tempo che non avrà più differenza di tempi, si slancia ancora una volta nel futuro degli uomini; e ad essi lega fidente le proprie colpe da espiare, le proprie speranze da raccogliere, i propri voti da compiere. 1 Io vissi i miei primi anni nel castello di Fratta, il quale adesso è nulla più d'un mucchio di rovine donde i contadini traggono a lor grado sassi e rottami per le fonde dei gelsi ;2 ma l'era a quei tempi un gran caseggiato con torri e torricelle, un gran ponte levatoio scassinato dalla vecchiaia e i più bei finestroni gotici che si potessero vedere tra il Lemene e il Tagliamento. In tutti i miei viaggi non mi è mai accaduto di veder fabbrica che disegnasse sul terreno una più bizzarra figura, né che avesse spigoli, cantoni, rientrature e sporgenze da far meglio contenti tutti i punti cardinali ed intermedi della rosa dei venti. Gli angoli poi erano combinati con si ardita fantasia, che non n'avea uno che vantasse il suo compagno; sicché ad architettarli o non s'era adoperata la squadra, o vi si erano stancate tutte quelle che ingombrano lo studio• d'un ingegnere. Il castello stava sicuro a meraviglia tra profondissimi fossati dove pascevano le pecore quando non vi cantavano le rane; ma l'edera temporeggiatrice era venuta investendolo per le sue strade coperte; e spunta di qua e inerpica di là, avea finito col fargli addosso tali paramenti d'arabeschi e festoni che non si discerneva più il colore rossigno delle muraglie di cotto. Nessuno si sognava di por mano in quel manto venerabile dell'antica dimora signorile, e appena le imposte sbattute dalla tramontana s'arrischiavano talvolta di scompigliarne qualche frangia cadente. Un'altra anomalia di quel fabbricato era la moltitudine dei fumaiuoli; i quali alla lontana gli davano l'aspetto d'una scacchiera a mezza partita e certo se gli antichi signori contavano un solo armigero per camino, quello doveva essere il castello Nel manoscritto delle Con/essioni, a pag. 3 recto, segue un altro periodo, successivamente cancellato con energia dal Nievo, in cui vi è un chiaro richiamo ai Sepolcri del Foscolo: a Nudo, innocente e supplichevole, egli si ricovererà sotto le grandi ali del perdono di Dio, mentre dalle sue spoglie eterne altri pensieri si avviveranno a maturare le opere imperfette ereditate dagli avi. • 2. / onde dei gelsi: fosse che si scavano spesso al piede degli alberi, con un piccolo scolo per l'acqua. Ma qui forse è meglio intendere il pietrame posto a rincalzo e a sostegno del tronco dei gelsi appena piantati. 1.

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meglio guernito della Cristianità. Del resto i cortili dai grandi porticati pieni di fango e di pollerie1 rispondevano col loro interno disordine alla promessa delle facciate; e perfino il campanile della cappella portava schiacciata la pigna2 dai ripetuti saluti del fulmine. Ma la perseveranza va in qualche modo gratificata, e siccome non mugolava mai un temporale senzaché la chioccia campanella del castello non gli desse il benarrivato, cosi era suo dovere il rendergli cortesia con qualche saetta. Altri davano il merito di queste burlette meteorologiche ai pioppi secolari che ombreggiavano la campagna intorno al castello: i villani dicevano che, siccome lo abitava il diavolo, cosi di tratto in tratto gli veniva qualche visita de' suoi buoni compagni; i padroni del sito avvezzi a veder colpito solamente il campanile, s'erano accostumati a crederlo una specie di parafulmine, e cosi volentieri lo abbandonavano all'ira celeste, purché ne andassero salve le tettoie dei granai e la gran cappa del camino di cucina. Ma eccoci giunti ad un punto che richiederebbe di per sé un'assai lunga descrizione. Bastivi il dire che per me che non ho veduto né il colosso di Rodi 3 né le piramidi d'Egitto, la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della terra. Il Duomo di Milano e il tempio di San Pietro son qualche cosa, ma non hanno di gran lunga l'uguale impronta di grandezza e di solidità: un che di simile non mi ricorda4 averlo veduto altro che nella Mole Adriana; benché mutata in Castel Sant'Angelo la sembri ora di molto impicciolita. La cucina di Fratta era un vasto locale, d'un indefinito numero di lati molto diversi in grandezza, il quale s'alzava verso il cielo come una cupola e si sprondavava dentro terra più d'una voragine: oscuro anzi nero di una fuliggine secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde e delle guastade5 appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormi credenze, da armadi colospollerie: luogo dove si tengono i polli. Forse qui il Nievo intende dire la pollina. 2. p,"gna: la punta, il vertice del campanile. 3. colosso di Rodi: gigantesca statua di bronzo dedicata al Sole, collocata all'ingresso del porto di Rodi, crollò nel 22 a. C. per un terremoto. Era considerata una delle sette meraviglie del mondo, insieme alle Piramidi. 4. mi ricorda: forma impersonale. 5. leccarde • .. guastade: la leccarda è il recipiente che serve a raccogliere il grasso che cola dall'arrosto. La guastada è una sorta di caraffa, qui probabilmente di rame o di peltro. 1.

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sali, da tavole sterminate; e solcato in ogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita di gatti bigi e neri, che gli davano figura d'un laboratorio di streghe. - Tuttociò per la cucina. Ma nel canto più buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna ancor più tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, là sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi arcigne e sonnolente. Quello era il focolare e la curia domestica dei castellani di Fratta. Ma non appena sonava l'Avemaria della sera, ed era cessato il brontolio dell'Angelus Domini, la scena cambiava ad un tratto, e cominciavano per quel piccolo mondo tenebroso le ore della luce. La vecchia cuoca accendeva quattro lampade ad un solo lucignolo; due ne appendeva sotto la cappa del focolare, e due ai lati d'una Madonna di Loreto. Percoteva poi ben bene con un enorme attizzatoio i tizzoni che si erano assopiti nella cenere, e vi buttava sopra una bracciata di rovi e di ginepro. Le lampade si rimandavano l'una all'altra il loro chiarore tranquillo e giallognolo; il foco scoppiettava fumigante e s'ergeva a spire vorticose fino alla spranga trasversale di due alari giganteschi borchiati di ottone, e gli abitanti serali della cucina scoprivano alla luce le loro diverse figure. Il signor Conte di Fratta era un uomo d'oltre a sessant'anni il quale pareva avesse svestito allor allora l'armatura, tanto si teneva rigido e pettoruto sul suo seggiolone. l\tla la parrucca colla borsa, la lunga zimarra color cenere gallonata di scarlatto, e la tabacchiera di bosso che aveva sempre tra mano discordavano un poco da quell'attitudine guerriera. Gli è vero che aveva intralciato fra le gambe un filo di spadino, ma il fodero n'era cosi rugginoso che si potea scambiarlo per uno schidione; e del resto non potrei assicurare che dentro a quel fodero vi fosse realmente una lama d'acciaio, ed egli stesso forse non s'avea presa mai la briga di sincerarsene. Il signor Conte era sempre sbarbato con tanto scrupolo, da sembrar appena uscito dalle mani del barbiere; portava da mattina a sera sotto l'ascella una pezzuola turchina, e benché poco uscisse a piedi, né mai a cavallo, aveva stivali e speroni da disgradarne un corriere di Federico II.- Era questa

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una tacita dichiarazione di simpatia al partito prussiano, e benché le guerre di Germania fossero da lungo tempo quietate, egli non avea cessato dal minacciare agli imperiali il disfavore de' suoi stivali. 1 Quando il signor Conte parlava, tacevano anche le mosche; quando avea finito di parlare, tutti dicevano di si secondo i propri gusti o colla voce o col capo; quando egli rideva, ognuno si affrettava a ridere; quando sternutiva anche per causa del tabacco, otto o nove voci gridavano a gara: - viva; salute; felicità; Dio conservi il signor Conte! - quando si alzava, tutti si alzavano, e quando partiva dalla cucina, tutti, perfino i gatti, respiravano con ambidue i polmoni, come si fosse lor tolta dal petto una pietra da mulino. Ma più romorosamente d'ogni altro respirava il Cancelliere, se il signor Conte non gli facea cenno di seguirlo e si compiaceva di lasciarlo ai tepidi ozi del focolare. Convien però soggiungere che questo miracolo avveniva di rado. Per solito il Cancelliere era l'ombra incarnata del signor Conte. S'alzava con lui, sedeva con lui, e le loro gambe s'alternavano con sì giusta misura che pareva rispondessero ad una sonata di tamburo. Nel principiare di queste abitudini le frequenti diserzioni della sua ombra avevano indotto il signor Conte a volgersi ogni tre passi per vedere se era seguitato secondo i suoi desiderii. Sicché il Cancelliere erasi rassegnato al suo destino, e occupava la seconda metà della giornata nel raccogliere la pezzuola del padrone, nel1' au_gurargli salute ad ogni starnuto, nell'approvare le sue osservazioni, e nel dire quello che giudicava dovesse riuscirgli gradito delle faccende giurisdizionali. Per esempio se un contadino, accusato di appropriarsi le primizie del verziere padronale, rispondeva alle paterne2 del Cancelliere facendogli le fiche, ovverosia cacciandogli in mano un mezzo ducatone3 per risparmiarsi la corda,4 il signor Cancelliere riferiva al giurisdicente che quel tale spaventato dalla severa giustizia di Sua Eccellenza avea domandato mercé, e che era pentito del malfatto e disposto a rimediarvi con 1. Il Nievo raccoglie qui un'eco della fama che correva a quei tempi di Federico II, re di Prussia (1712-1786), impegnato dapprima nella guerra di successione austriaca che terminò con la famosa pace di Aquisgrana (1748) e poi in quella dei Sette anni (1756-1763). Gli imperiali sono gli austriaci di Carlo VI e di Maria Teresa d'Absburgo; e il conte di Fratta, da buon veneziano, vedeva di malocchio la potenza absburgica. 2. paterne: paternali. 3. ducatone: forse intende il ducato co"ente, del valore di lire venete 6 e 4 soldi. Per ducatone s'intende spesso anche lo zecchino, del valore di 22 lire venete. 4. corda: la pena corporale dei tratti di corda.

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qualunque ammenda s'avesse stimato opportuna. Il signor Conte aspirava allora tanta aria quanta sarebbe bastata a tener vivo Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di Tito deve mescolarsi alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi veramente si pentiva. Il Cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdruscito nel suo arnese quanto il principale era splendido e sfarzoso; ma la natura gli consigliava una tale modestia perché un corpicciuolo più meschino e magagnato del suo, non lo si avrebbe trovato cosi facilmente. Dicono che si mostrasse guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui il dirittò di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in una volta, era un nodo gordiano di più nasi abortiti insieme; e la bocca si spalancava sotto cosi minacciosa, che quel povero naso si tirava alle volte in su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di bulgaro divergevano ai due lati per dare la massima solidità possibile ad una persona che pareva dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare io credo che detratti gli stivali la parrucca gli abiti la spada e il telaio delle ossa, il peso del Cancelliere di Fratta non oltrepassasse le venti libbre sottili, 1 contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto un immenso collare bianco inamidato. Cosi com'era egli aveva la felice illusione di credersi tutt'altro che sgradevole; e di nessuna cosa egli ragionava tanto volentieri come di belle donne e di galanterie. Com·e fosse contenta madonna Giustizia di trovarsi nelle sue mani io non ve lo saprei dire in coscienza. Mi ricorda peraltro di aver veduto più musi arrovesciati che allegri scendere dalla scaletta scoperta della cancelleria. Cosi anche si buccinava sotto l'atrio nei giorni d'udienza che chi aveva buoni pugni e voce altamente intonata e zecchini in tasca, facilmente otteneva ragione dinanzi al suo tribunale. Quello che posso dire si è che due volte sole m'accadde veder dare le strappate di corda nel cortile del castello; e tutte e due le volte questa cerimonia toccò a due tristanzuoli che non ne aveano certamente bisogno. Buon per loro che il cavallante incaricato dell'alta e bassa giustizia esecutiva, era un uomo di criterio, e sapeva all'uopo sollevar la corda con tanto garbo che le slogature guarivano alla peggio sul settimo giorno. Perciò Marlibbre sottili: cioè libbre scarse. La libbra sottile corrispondeva circa ad un terzo di chilo, a grammi 326. 1.

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chetto cognominato il Conciaossi era tanto amato dalla gente minuta quanto era odiato il Cancelliere. Quanto al signor Conte nascosto, come il fato degli antichi, nelle nuvole superiori all'Olimpo, egli sfuggiva del pari all'odio che all'amore dei vassalli. Gli cavavano il cappello come all'immagine d'un santo forestiero con cui avessero poca confidenza; e si tiravano col carro fin giù nel fosso quando lo staffiere dall'alto del suo bombay' gridava loro di far largo mezzo miglio alla lontana. Il Conte aveva un fratello che non gli somigliava per nulla ed era canonico onorario della cattedrale di Portogruaro, il canonico più rotondo, liscio, e mellifluo che fosse nella diocesi; un vero uomo di pace che divideva saggiamente il suo tempo fra il breviario e la tavola, senza lasciar travedere la sua maggior predilezione per questa o per quello. Monsignor Orlando non era stato generato dal suo signor padre coll'intenzione di dedicarlo alla Madre Chiesa; testimonio il suo nome di battesimo. L'albero genealogico dei Conti di Fratta vantava una gloria militare ad ogni generazione; cosi lo si aveva destinato a perpetuare la tradizione di famiglia. L'uomo propone e Dio dispone; questa volta almeno il gran proverbio non ebbe torto. Il futuro generale cominciò la vita col dimostrare un affetto straordinario alla balia, sicché non fu possibile slattarlo prima dei due anni. A quell'età era ancora incerto se l'unica parola ch'egli balbettava fosse pappa o papà. Quando si riesci a farlo stare sulle gambe, cominciarono a mettergli in mano stocchi di legno ed elmi di cartone; ma non appena gli veniva fatto, egli scappava in cappella a menar la scopa col sagrestano. Quanto al fargli prendere domestichezza colle vere armi, egli aveva un ribrezzo instintivo pei coltelli da tavola e voleva ad ogni costo tagliar la carne col cucchiaio. Suo padre cercava vincere questa maledetta ripugnanza col farlo prendere sulle ginocchia da alcuno de' suoi buli ;2 ma il piccolo Orlando se ne sbigottiva tanto, che conveniva passarlo alle ginocchia della cuoca perché non crepasse di paura. La cuoca dopo la balia ebbe il suo secondo amore; onde non se ne chiariva per nulla la sua vocazione. Il Cancelliere d'allora sosteneva che i capitani mangiavano tanto, che il padroncino poteva ben diventare col tempo un famoso capitano. Ma il vecchio Conte 1. bombay: è il sedile alto dietro la carrozza padronale, su cui siede lo staffiere. 2. buli: arnùgeri al servizio del feudatario.

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non si acquietava a queste speranze; e sospirava, movendo gli occhi dal viso paffutello e smarrito del suo secondogenito ai mostaccioni irti ed arroganti dei vecchi ritratti di famiglia. Egli avea dedicato gli ultimi sforzi della sua facoltà generativa all'ambiziosa lusinga d'inscrivere nei fasti futuri della famiglia un grammaestro di Malta o un ammiraglio della Serenissima; non gli passava pel gozzo di averli sprecati per avere alla sua tavola la bocca spaventosa d'un capitano delle Cernide. 1 Pertanto raddoppiava di zelo per risvegliare e attizzare gli spiriti bellicosi di Orlando; ma l'effetto non secondava l'idea. Orlando faceva altarini per ogni canto del castello, cantava messa, alta bassa e solenne, colle bimbe del sagrestano; e quando vedeva uno schioppo correva a rimpiattarsi sotto le credenze di cucina. Allora vollero tentare modi più persuasivi; si cominciò a proibirgli di bazziccare in sacristia, e di cantar vespri nel naso, come udiva fare ai coristi della parrocchia. Ma sua madre si scandolezzò di tali violenze; e cominciò dal canto suo a prender copertamente le difese del figlio. Orlando ci trovò il suo gusto a far la figura del piccolo martire : e siccome le chicche della madre lo ricompensavano dei paterni rabbuffi, la professione del prete gli parve piucchemai preferibile a quella del soldato. La cuoca e le serve di casa gli annasavano addosso un certo odore di santità; allora egli si diede ad ingrassare di contentezza e a torcer anche il collo per mantenere la divozione delle donne. E finalmente il signor padre colla sua ambizione marziale ebbe contraria l'opinione di tutta la famiglia. Perfino i buli che tenevano dalla parte della cuoca, quando il feudatario non li udiva, gridavano al sacrilegio di ostinarsi a stogliere un San Luigi dalla buona strada. Ma il feudatario era cocciuto, e soltanto dopo dodici anni d'inutile assedio, si piegò a levare il campo e a mettere nella cantera dei sogni svaniti i futuri allori d'Orlando. Costui fu chiamato una bella mattina con imponente solennità dinanzi a suo padre; il quale per quanto ostentasse l'auto1. Cemid~: dirà più avanti il Nievo: • Cernide o milizie del contado, levate dalle comunità o dai feudatari a tutela delle singole giurisdizioni•· Tali milizie, istituite nel 1500, avevano reso ottimi servizi nella guerra contro Massimiliano, ma in seguito erano decadute, sicché nel secolo XVII Giovanni Morosini scriveva che erano ormai composte della gente più disgraziata del paese, non ammaestrata alle armi, indisciplinata, pronta sempre piuttosto a tornarsene a casa che a combattere. È chiaro che la parola cemida deriva da cernere, scegliere.

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revole cipiglio del signore assoluto aveva in fondo il fare vacillante e contrito d'un generale che capitola. - Figliuol mio, - cominciò egli a dire - la professione delle armi è una nobile professione. - Lo credo - rispose il giovinetto con una cera da santo un po' intorbidata dall'occhiata furbesca volta di soppiatto alla madre. - Tu porti un nome superbo - riprese sospirando il vecchio Conte. - Orlando, come devi aver appreso dal poema dell' Ariosto che ti ho tanto raccomandato di studiare ... - Io leggo l'Uffizio della Madonna- disse umilmente il fanciullo. - Va benissimo; - soggiunse il vecchio tirandosi la parrucca sulla fronte - ma anche l'Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un gran paladino che liberò dai Mori il bel. regno di Francia. E di più se avessi scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll'Uffizio della Madonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei Saracini il sepolcro di Cristo. - Sia ringraziato lddio I - sciamò il giovinetto. - Ora non resta nulla a che fare. - Come non resta nulla? - gli diede sulla voce il vecchio. Sappi, o disgraziato, che gli infedeli riconquistarono la Terra Santa e che ora che parliamo un bascià del Sultano governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità. - Pregherò il Signore che cessi una tanta vergogna - soggiunse Orlando. - Che pregarci Fare, fare bisognai- gridò il vecchio Conte. - Scusate - s'intromise a dirgli la Contessa. - Non vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata. - Eh via! non è più bimbo I - rispose il Conte. - Compie oggi appunto i dodici anni l - Compiesse anche il centesimo - soggiunse la signora certo non potrebbe mettersi in capo di conquistare la Palestina. - Non la conquisteremo più finché si avvezza la prole a donneggiare col rosario I - sciamò il vecchio pavonazzo dalla bile. - Sii ci voleva anche questa bestemmiai- riprese pazientemente la Contessa. - Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni!

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- Bei doni, bei doni I - mormorava il Conte. - Un santoccio leccone! .•. un mezzo volpatto e mezzo coniglio( - Infine egli non ha detto questa gran bestialità; - soggiunse la signora - ha detto di pregar lddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine. - Corpo della Serenissima! - gridò il Conte. - Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava le Termopili con trecento boccali di vino! - S'anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico - riprese la Contessa. - Come? - urlò il vecchio signore - arrivate persino a negare l'eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane? - Vial stiamo nel seminato I - disse chetamente la donna io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra .queste rancide fole. - Donne, donnel ... nate per educar i polli- borbottava il Conte. - Marito miol sono una Badoeral 1 - disse drizzandosi la Contessa. - Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono più numerosi che nella vostra i capponi. Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all'occhiata severa ch'ella gli volse. - Vedete? - continuò parlando al marito - finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po' da banda i vostri capricci, giacché lddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l'animo di questo fanciullo. Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sl brutto ch'egli se ne sgomenti2 e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno. 1. Badoera: Badoer, famiglia veneziana fra le più note e gloriose. menti: forma verbale lombarda, ancor viva oggi nel Mantovano.

2.

sgo-

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- Dunque - comincib a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile. - Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d'oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni' alti quattro braccia l'uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre dei Turchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca ? - Voglio cantar messa iol- piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltb a vedere cos'era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe più ritegno alla stizza, e diventb rosso più ancor di vergogna che di collera. - Va' dunque in seminario, bastardo I - gridb egli fuggendo fuori della stanza. Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsi i capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli: - Si, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue de' tuoi fratelli . .... I come Ca1no - Ihl ihl ihl voglio cantar in coro! voglio farmi santo! strepitava Orlando. - Si •.. canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre più degni di lui - gli andava dicendo la mamma. Il fanciullo si consolb a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo e a dispetto della contrarietà patema, era divenuto monsignor Orlando. Ma per quanto la Curia fosse disposta a favorire la divota ambizione della Contessa, siccome Orlando non era un'aquila, cosi non ci vollero meno di dodici anni di seminario e d'altri trenta di postulazione per fargli toccare la mèta de' suoi desiderii; e il Conte ebbe la gloria di morire molti anni prima che i fiocchi rossi gli piovessero 1. Schiavoni: mercenari della Repubblica veneta assoldati in Schiavonia, cioè nella Croazia orientale.

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sul cappello. Peraltro non si può dire che l'abate perdesse alla lettera tutto quel tempo di aspettativa. Prima di tutto ci avea preso intanto una discreta pratica del messale; e poi la gorgiera gli si era moltiplicata a segno da poter reggere a paragone col più morbido e fiorito de' suoi nuovi colleghi. Un castello che chiudeva fra le sue mura due dignità forensi e clericali come il Cancelliere e monsignor Orlando, non dovea mancare della sua celebrità militare. Il capitano Sandracca voleva essere uno schiavone ad ogni costo, sebbene lo dicessero nato a Ponte di Piave. 1 Certo era l'uomo più lungo della giurisdizione; e le dee della grazia e della bellezza non aveano presieduto alla sua nascita. Ma egli perdeva tuttavia una buona ora ogni giorno a farsi brutto tre volte più che non lo avesse fatto natura; e studiava sempre allo specchio qualche foggia di guardatura e qualche nuovo arricciamento di baffi che gli rendesse il cipiglio più formidabile. A udirlo lui, quando avea vuotato il quarto bicchiere, non era stata guerra dall'assedio di Troia fino a quello di Belgradoa dove non avesse combattuto come un leone. Ma sfreddati i fumi del vino, si riduceva colle sue pretese a più oneste proporzioni. S'accontentava di raccontare come avesse toccato dodici ferite alla guerra di Candia ;3 offrendosi ogni volta di calar le brache per farle contare. E Dio sa com'erano queste ferite, poiché ora, ripensandoci sopra, non mi par verosimile che coi cinquant'anni che diceva toccare appena, egli avesse assistito ad una guerra combattutasi sessant'anni prima. Forse la memoria lo tradiva, e gli faceva creder sue le gesta di qualche spaccone udite raccontare dai novellatori di piazza San Marco. Il buon Capitano confondeva assai facilmente le date; ma non dimenticava mai ogni primo del mese di farsi pagar dal fattore venti ducati di salario come comandante delle Cernide. Quel giorno era la sua festa. Mandava fuori all'alba due tamburi i quali fino a mezzogiorno strepitavano ai quattro cantoni della giurisdizione. Poi nel dopopranzo quando la milizia era raccolta nel cortile del castello, usciva dalla Ponte di Pi""e: oggi in provincia di Treviso, sulla riva sinistra del Piave. assedio di Belgrado: del 1717, da parte della Lega cristiana guidata da Eugenio di Savoia; prelude alla pace di Passarowitz del 17 18. 3. guerra di Candia: ultimo atto della lotta per la supremazia del Mediterraneo orientale fra i Turchi e Venezia, conosciuto sotto il nome di guerra di Candia. Dal 1645 al 1669 Venezia difese l'isola che poi dovette abbandonare. La guerra continuò con alterne vicende fino al 1718. 1. 2.

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sua stanza cosi brutto cosi brutto che quasi solamente colla presenza sbaragliava il proprio esercito. Impugnava uno spadone cosi lungo che bastava a regolar il passo d'un'intera colonna. E siccome al minimo sbaglio egli usava batterlo spietatamente su tutte le pancie della prima fila; cosi quando appena accennasse di sbassarlo, la prima fila indietreggiava sulla seconda la seconda sulla terza e nasceva una tal confusione che la minore non sarebbe avvenuta all'avvicinarsi dei Turchi. Il Capitano sorrideva di contentezza, e rassicurava la truppa rialzando la spada. Allora quei venti o trenta contadini cenciosi, coi loro schioppi attraversati sulle spalle come badili, riprendevano la marcia a suon di tamburo verso il piazzale della parrocchia. Ma siccome il Capitano camminava dinanzi con le gambe più lunghe della compagnia, così per quanto questa si affrettasse egli giungeva sempre solo sul piazzale. Allora si rivolgeva infuriato a tempestare col suo spadone contro quella marmaglia indolente: ma nessuno era cosi gonzo da aspettarlo. Alcuni se la davano a gambe, altri saltavano i fossati, altri sguisciavano dentro le porte e si ascondevano sui fienili. I tamburi si difendevano coi loro strumenti. E cosi finiva quasi sempre nella giurisdizione di Fratta la mostra mensile delle Cernide. Il Capitano stendeva un lungo rapporto, il Cancelliere lo passava agli atti, e non se ne parlava più fino al mese seguente. Leggere al giorno d'oggi di cotali ordinamenti politici e militari che somigliano buffonerie, parrà forse una gran maraviglia. Ma le cose camminavano appunto com'io le racconto. Il distretto di Portogruaro, cui appartiene il comune di Teglio colla frazione di Fratta, forma adesso il lembo orientale della provincia di Venezia, la quale occupa tutta la pianura contermine alle lagune, dal basso Adige in Polesine al Tagliamento arginato. 1 A' tempi di cui narro le cose stavano ancora come le avea fatte natura ed Attila le aveva lasciate. Il Friuli ubbidiva tuttavia a sessanta o settanta famiglie, originarie d'oltralpi e naturate in paese da una secolare dimora, alle quali era affidata nei diversi dominii la giurisdizione con misto e mero imperio; e i loro voti uniti a quelli delle Comunità J. distretto di Portogn,aro ••• Tagliamento arginato: ancor oggi sono questi i confini della provincia di Venezia. Il Tagliamento, nella pianura friulana, corre in un larghissimo letto ma nel suo basso corso i Veneziani lo costrinsero entro solidi argini. 2

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libere e delle Contadinanze formavano il Parlamento della Patria che una volta l'anno si raccoglieva con voto consultivo allato del Luogotenente mandato ad Udine da Venezia.' Io ho pochi peccati d,ommissione sulla coscienza, fra i quali uno de, più gravi e che più mi rimorde è questo, di non aver assistito ad uno di quei Parlamenti. L'aveva da essere in verità uno spettacolo appetitoso. Pochi dei signori Giurisdicenti sapevano di legge; e i deputati del contado non dovevano saperne di più. Che tutti intendessero il toscano io non lo credo; e che nessuno lo parlasse è abbastanza provato dai loro decreti o dalle Parti prese,:1 nelle quali dopo un piccolo cappello di latino si precipita in un miscuglio d'italiano di friulano e di veneziano che non è senza bellezze per chi volesse ridere. Tutto adunque concorda a stabilire che quando il Magnifico Generai Parlamento della Patria supplicava da Sua Serenità il Doge la licenza di giudicare intorno ad una data materia, il tenor della legge fosse già concertato minutamente fra Sua Eccellenza il Luogotenente e l'Eccellentissimo Consiglio de' Dieci. 3 Che in quelle conferenze preliminari avessero voce anche i giureconsulti del Foro udinese, io non m'attento di negarlo; massime se quei giureconsulti avevano il buon naso di convenir nei disegni della Signoria.4 S'intende che da tal conIl Parlamento friulano sorse durante la dominazione patriarcale aquileicse (1077-1420). Dapprima formato da baroni ecclesiastici e laici, nel corso del tempo i rappresentanti dei comuni friulani vi acquistarono sempre maggiore importanza. Nel secolo XIV e XV una Giunta parlamentare assisté il Patriarca nel governo. Nel 1420, con l'entrata in Udine dei Veneziani guidati da Tristano di Savorgnan, finiva la dominazione della chiesa aquileiese. Con la conquista veneziana la funzione del Parlamento viene a restringersi sempre più; verso la fine del '700 il Parlamento, osteggiato dai magistrati veneziani, è ormai l'ombra di se stesso, soltanto un nome. L'ultima sua riunione è del 10 agosto 1805. I documenti che il Nievo citerà più avanti son tratti dagli Statuti della Patria del Friuli e dalle Leggi per la Patria e contadinanza del Friuli. Parlando del Friuli in una nota al primo capitolo del Conte pecoraio, il Nievo dice: • passato per estorta dedizione alla Repubblica di Venezia, che sempre lo governò con leggi e consuetudini proprie e con nazionale Parlamento, dandogli il nome venerabile di Patria, comeché da Aquileia si vogliano fuggiti i primi abitatori di Rialto •· 2. Parti prese: vecchio termine giuridico; le decisioni prese. 3. Consiglio de' Dieci: il Consiglio dei Dieci, costituito per i delitti criminali della nobiltà, con tre capi, era investito dell'alta polizia dello Stato, d'ogni cosa attinente al buon costume e alla morale. Fu istituito nel 1310 per giudicare la congiura Querini-Tiepolo. 4. Signoria: supremo organo esecutivo della Repubblica di Venezia, collegio costituito dal Doge, da sei consiglieri, uno per sestiere cittadino, e dai tre capi della Quarantia criminale. 1.

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suetudine restava esclusa ogni materia di diritti privati, e feudali; i quali né i castellani avrebbero forse consentito si ponessero in disputa, né la Signoria avrebbe osato di privarneli pei suoi imperscrutabili motivi che si riducevano spesso alla paura. Il fatto sta che ottenuto il permesso di proporre sopra un dato argomento, il Magnifico Generai Parlamento proponeva discuteva ed approvava tutto in un sol giorno, il quale era appunto l'undici d'agosto. Il perché della fretta e dello aver scelto quel giorno piuttosto che un altro stava in questo, che allora appunto cadeva la fiera di san Lorenzo e offeriva con ciò opportunità a tutte le voci1 del Parlamento di radunarsi ad Udine. Ma siccome durante la fiera pochi avevano voglia di trasandare i proprii negozi per quelli del pubblico, cosi a sbrigar questi s'era stimato piucché bastevole il giro di ventiquattr'ore. Il 1\1:agnifico Generai Parlamento implorava poi dalla Serenissima dominante la conferma di quanto aveva discusso, proposto ed approvato; e giunta la conferma, il trombetta in giorno festivo gridava ad universale notizia e per inviolabile esecuzione la Parte presa dal Magnifico Generai Parlamento. Non viene da ciò, che tutte le leggi per tal modo promulgate fossero ingiuste o ridicole; giacché, come dice l'editore degli Statuti Friulani, esse leggi sono un riassunto di giustizia di maturità e d'esperienza ed ha,zno sempre di fronte oggetti commendabili e salutari; ma ne scaturisce un formidabile dubbio sul merito che potessero vantarne i Magnifici deputati della Patria. Nel 1672 pare che l'Eccellentissimo Carlo Contarini riferisse al Serenissimo Doge sopra la necessità di alcune riforme delle vecchie costituzioni. Pertanto Dominicus Contareno Dei gratia Dux Venetiarum etc. dopo aver augurato al nobili et sapienti viro Caro/o Contareno salutem et dilectionis affectum seguita a dichiarargli i limiti della concessa licenza. Avutosi riflesso non tanto alle istanze di codesta Patria e Parlamento che a quanto esprimete nelle vostre giurate informazioni in proposito etc. risolvemo a consolazione degli animi di codesti amati e fedelissimi sudditi di permetterle che passino devenire alla r,forma di quei capitoli che conoscessimo necessari per il loro servizio. E nell'anno susseguente, lette e meditate che ebbe il Serenissimo Doge le fatte riforme, cosi si piacque di permetterne la pubblicazione con sue lettere al nobili et sapientissimo viro Hyeronimo Ascanio Justiniano. 1.

voci: voci in parlamento, cioè coloro che hanno diritto di parola e di

voto.

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Venendo rappresentata qualche alterazione in alcuno dei susseguenti capitoli che volemo siano ridotti alla vera essenza loro senz'altra aggiunta etc. etc. dovrà omettersi etc. bastando li pubblici Decreti in tale proposito. Nel capitolo centoquarantasette con cui si pretende levar li pregiudicii che dalle ville e comuni sono inferiti ai giurisdicenti, vi è stata aggiu,ita una pena di lire cinquanta al giurisdicente: questa non vi era nel latino, doverà pure esser levata e lasciata di stampare. Con tali metodi le permetterete l'esecuzione conforme l'istanze, ordinando però la conservazione de' vecchi statuti ed altre costituzioni per tutte quelle insorgenze e ricorsi che potessero esser fatti alla Signoria nostra. Datum in nostro ducali palatio, die 20 maii lndictione XI I673. - Dopo tali formalità uscirono finalmente gli Statuti Friulani, i quali seguitarono ad aver corso di legge fino al cominciare del presente secolo; e la ragione del rinnovamento è cosi espressa dai compilatori in un solenne proemio. Si è determinato di rinnooare le costituzioni della Patria del Friuli essendo molte per il lungo corso di tempo fatte impraticabili, altre dubbiose, molti i casi sopra i quali non era stato provvisto. Etc. etc. E perché in esse si tratta di effetti di giustizia che non solamente dal/i giudici stessi deve esser ben conosciuta, ma da tutti, etc. etc. si è risoluto di scrivere il presente libro di Costituzioni in lingua volgare nella più ampia e f acil forma possibile, etc. etc. Per dar poi un principio che sia ben Jondamentato a questa profittevole e lodevole opera, comincieremo colla Prima Costituzione. Si scordarono di chiarire il motivo per cui la prima costituzione e non la seconda doveva essere buon fondamento a quella profittevole e lodevole opera. Ma forse sarà stato, perché nella prima si statuiva intorno all'osservanza della religione cristiana, nonché alle pratiche relative ai giudei ed alle bestemmie. Se anche queste ultime debbano annoverarsi fra gli oggetti commendabili e salutari che, secondo l'editore, stanno sempre di fronte alle leggi, io non potrei crederlo, anche prestando la fede più cieca all'ermeneutica dell'editore suddetto. Continuano poi gli Statuti a stabilire le Ferie introdotte in onore di Dio, e quelle introdotte per li necessarii bisogni degli uomini, perché comodamente e senza alcuna distrazione si possa raccogliere quello che la terra produce irrigata dalla mano divina. Seguitano le disposizioni intorno ai nodari, sollecitatori, patrocinatori e avvocati; a proposito dei quali avendo osservato il legislatore che le armi decorano e le lettere armano gli Stati, soggiunge che, essendo

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l'ufficio loro tanto nobile, gli si devono anche applicare gli opportuni rimedii. Pare che l'attributo di nobile sia qui usato nell'insolito significato d'infermo o pericoloso. Succedono poi molti capitoli di regole processuali nei quali al capitolo del testimonio f al.so si nota la savia disposizione che chi sarà convinto tale in causa civile debba cadere nella pena di 200 lire, o sia mutilato della lingua in caso d'insolvibilità. E se la materia fosse criminale gli si applichi la stessa pena che meriterebbe quello contro cui viene introdotto. I contratti, le doti, i testamenti, gli escomii, i livelli, 1 i sequestri sono argomenti dei paragrafi successivi. Il capitolo centoquarantuno tratta particolarmente degli assassini, ognuno de' quali, se capiterà in mano della giustizia ( accidente allora rarissimo; il che mitigava l'eccessiva generalità della legge) è condannato ad essere appiccato per la gola, in modo che mora. Dal paragrafo concernente gli assassini, si passa alle confiscazioni, ai regolamenti del pascolo e della caccia, e ad uno statuto di buona economia ne' quali è inibito ai comuni il condannare i rei, più che in soldi otto per ogni eccesso. V'è un capitolo intitolato i Castelli, nel quale si rimanda chi ne cercasse notizia alle leggi sopra i Feudi. E finalmente vi è l'ultimo della locazione delle case, nel quale, con paterna provvidenza per la sicura abitazione dei sudditi, è stabilito che chi ha locazione minore d'anni cinquanta debba avere l'intimazione dello sfratto almeno un mese avanti allo spirar della stessa. Nel quale spazio di tempo egli possa provvedersi per altri cinquant'anni; e che il Signore gli conceda la vita di Matusalem, acciocché possa ripeterne molte di tali locazioni. Parrebbe ora affatto miracoloso questo Codice d'un centinaio di pagine che pon ordine a tante materie così disparate; ma i giureconsulti del Magnifico Parlamento ci trovarono tanta agevolezza che ebbero agio qua e là d'inframmettervi leggi e consigli sulle tutele, sulle curatele, sugli incanti, sui percussori ed inquietatori dei pubblici officiali, e di sancire a danno di questi la multa di soldi quarantotto se uomini, e di soldi ventiquattro se sono donne. Vi si contiene di più una tariffa pei periti patentati ed una buona ramanzina pei contadini che osassero carreggiare in giorni festivi. Savissima poi è la consuetudine seguita in tali Statuti di dar sempre ragione del partito preso; come allorquando dopo stabilito 1. livelli: usufrutto di beni terrieri e urbani in base a un canone chiamato censo: oggi va estinguendosi.

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che le citazioni in luogo diverso cadenti nell'egual giorno debbano aver effetto l'una dopo l'altra in ragione d'anzianità, il legislatore soggiunge a motivo di questa sua disposizione: perché una persona non può contemporaneamente in più luoghi essere. I Codici moderni non sono tanto ragionevoli; essi vogliono perché vogliono; ma ciò non toglie che non debba esser lodata la piacevole ingenuità di quelli d'una volta. Il ministero del legale o del giudice parrebbe dover essere stato assai facile colla comodità di statuti tanto sommari. Ma c'era di mezzo un piccolo incaglio. Ove non disponevano le leggi provinciali s'intendeva aver vigore il Diritto veneto; e chi ha conoscenza solo del volume e della confusione di questo, può intender di leggieri come ne fossero intralciate le transazioni forensi. Per giunta v'aveano le consuetudini; ed ultimo capitava a imbrogliar la matassa il Diritto feudale, il quale mescolato colle altre leggi e disposizioni, in un paese ingombro di giurisdizioni e di castelli, finiva col trovar sempre quel posto che ha l'olio mescolato col vino. Gl'infìniti dissesti prodotti nell'amministrazione della giustizia dall'arbitrario attraversarsi di tante leggi e di tanti codici, impietosirono gli animi della Serenissima Signoria, la quale s'accinse a ripararvi colla missione in terraferma d'un magistrato ambulante composto di tre sindaci inquisitori; i quali toccando con mano le piaghe degli amatissimi sudditi e delle povere contadinanze vi mettessero valido e pronto rimedio. Infatti i tre sindaci con minutissima coscienza cominciarono a passeggiare per lungo e per largo la Patria del Friuli; e primo frutto della loro peregrinazione fu un caldissimo proclama sui dazi pubblici, in calce al quale resta eccitato lo zelo de' Nobiluomini Luogotenenti ad incalorire le riscossioni, e non ammetter di tempo in tempo qual si sia esecuzione de' mobili, affitti, entrate e stabili di ragione de' pubblici renitenti debitori, incamerando e vendendo gli effetti e beni medesimi a vantaggio della pubblica cassa,· e ciò sian tenuti a puntualmente eseguire in pena della perdita della carica ed altre, ad arbitrio della giustizia. Di qual giustizia io lo dimanderei loro assai volentieri. Però dopo aver assestato convenevolmente una tale materia con una mezza dozzina di simili proclami, gli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Sindaci volsero la mente ad un oggetto di più caro e diretto vantaggio degli amatissimi sudditi; e pubblicarono un altro decreto

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che incomincia: Noi {a capo). In proposito dei vini d'Istria ed Isola {a capo ancora). Le difficoltà che si frappongono ali' esito dei. vini di questa fedelissima Patria eccitano l'attenzione dei Magistrati etc. etc., e c'inducano col presente a far pubblicamen.te sapere (a capo). Che ferme le leggi etc. resti assolutamente proibito il poter introdurre in qualsiasi loco di questa Patria e Provinda del Friuli qualunque sorta di vini provenien.ti da Sottovento ed lsola,1 se prima non averanno pagato il Dacio in mano del Custode nel luogo di Muscoli 2 e levata la bolletta. Seguitano le pene per un buon paio di facciate. - Ai signori sindaci parve con quel decreto aver sufficientemente operato per l'immediata utilità della fedelissima Patria, laonde tornarono a partorir proclami: in proposito del Dacio Masena3 e Ducato per botte, in proposito dei Prestini, in proposito d'Ogli Sali e Tabacchi, in proposito dei contrabbandi; e non cessarono da questi propositi se non per emanarne un altro affatto paterno e provvidenziale a proposi·to dei. co"otti ;4 secondo il quale per impedire che non si ecceda in occasione dei. çorrotti per morte di congionti con aggravio inuti"/e e superfluo che cagiona la rovina della famiglia e arriva a toglier il modo di supplire ai proprii doveri {intendi di pagare le imposte, etc.) si statuisce fra le altre, che non si possano portare i tabarri _lunghi altrimenti detti gramaglie, in pen.a ai trasgressori di Ducati 600 da esser applicati un terzo al Nobiluomo Camerlengo, un terzo alla cassa della Magnifica città, ed un terzo al denunciante. lo suppongo che in seguito a questa disposizione tutti coloro che aveano perduto un parente nell'ultimo decennio si facessero accorciare il tabarro usuale d'un paio di quarte, 5 per non correre il pericolo di pagarne cosi caro il privilegio. Ma se fu oculata ed attiva la missione del primo Sindacato, assai più proficui riuscirono i susseguenti. Fra i quali merita speciale encomio quello del 1770 che ebbe ad occuparsi del riordinamento delle Cernide o milizie del contado, levate dalle Comunità e dai Feudatari a tutela dell'ordine nelle singole giurisdizioni. Permettono i Signori Sindaci Inquisitori alle Cernide, Caporali e Capi di Cento {il capitano Sandracca era un Capo di Cento,6 o r. Sottovento: per sottovento s'intenda il territorio posto a sud-est del Friuli, cioè l'Istria; Isola d'Istria, famosa per i suoi vini. 2. Muscoli: paese di confine vicino a Cervignano del Friuli. 3. Masena: macina. 4. co"otti: lutto, gramaglie. 5. quarta: è una misura, la quarta parte del braccio. 6. Capo di Cento: comandante delle Cernide di una giurisdizione.

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anche di cinquanta o di venti secondo il buon volere dei subalterni, che si arrogava il titolo di capitano in vista delle sue glorie passate) permettono loro, dico, di portare liberamente il schioppo scarico per le città e terre murate per transito, non niai alle chiese, feste, mercati, né accompagnando cittadini. - Potranno inoltre, così gli Illustrissimi Sindaci, nei casi di Mostre, Mostrini, Mostroni 1 e Pattuglie esser armati oltre al fucile, della bajonetta; restando vietato il pugnale, proibito nelle vecchie Parti, e convertito ora nell'uso impudente di coltelli, arma abominevole ad ogni genere di milizia e condannata da tutte le leggi. - Questo paragrafo colpiva piucché le Cernide i prepotenti castellani i quali, reclutando in esse i famosi buli, armavano fino ai denti i più arrischiati e se li tenevano intorno per le consuete soperchierie. Convien però soggiungere a lode dei Conti di Fratta, che i loro buli erano famosi nel territorio per una esemplare mansuetudine, e che, se ne tenevano, gli era più per andazzo che per tracotanza. Il capitano Sandracca, antico eroe di Candia, vedeva con raccapriccio questa genia, diceva egli, di scorribanda irregolare; e tanto erasi adoperato presso il Conte che gli avevano relegati in un camerotto vicino alla stalla, e lo stesso Marchetto cavallante, che all'occorrenza n'era il capo, non poteva entrare in cucina senza depor prima nell'andito le pistole e il coltellaccio. Il Capitano di questo suo raccapriccio adduceva il motivo stesso introdotto dai signori sindaci, cioè che cotali armi sono abbominevoli ad ogni genere di milizia. Egli diceva di aver più paura d'un coltello che d'un cannone; e questo poteva esser vero a Fratta dove non s'erano mai veduti can. noni. Accomodata un po' all'ingrosso quella difficile materia delle armi, si accinsero i signori sindaci a regolare quella non meno importante delle monete; ma la prima stava loro troppo a cuore ed era turbata da troppi disordini, perché non vi dovessero tornar sopra tantosto. Infatti nello stesso anno tornarono a ribadir il chiodo del divieto di portar armi a chi non fosse munito della voluta licenza, estendendolo anche a questi nelle feste sagre o pubbliche solennità, coll'avvertenza, che intorno a tali mancanze si riceveranno denunzie segrete con promessa di segretezza e premio di ducati 20 al denunciante. - Come si vede questa faccenda premeva 1.

Mostroni: rassegne militari.

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assa1ss1mo al Maggior Consiglio, 1 per cui autorità i signori sindaci buttavano fuori proclami sopra proclami. Ma l'esuberanza appunto era indizio d'effetto mediocre. Infatti non era facile il sindacato delle armi in una provincia divisa e suddivisa da cento giurisdizioni soprapposte e intersecate le une dalle altre; contermine a paesi stranieri come il Tirolo e la Contea di Gorizia; solcata ad ogni passo da torrenti e da fiumane sulle quali scarseggiavano, nonché i ponti, le barche; e fatta dieci volte più vasta che ora non sia da strade distorte, profonde, infamissime, atte più a precipitare che ad aiutare i passeggieri. Da Colloredo a Collalto, che è il tratto di quattro miglia, mi ricorda che fino a vent'anni fa due agili e robusti cavalli sudavano tre ore per trascinare un cocchio tanto ben saldo e compaginato da resistere agli strabalzi delle buche e dei macigni che s'incontravano. Più, v'avea un buon miglio pel quale la strada correva in un fosso o torrente; e per sormontare quel passo richiedevasi indispensabile il soccorso d'un paio di buoi. Le vie carrozzabili non erano diverse da quella del resto della provincia e ognuno si può figurare qual dovesse essere la forza esecutiva delle autorità sopra persone difese d'ogni parte da tanti ostacoli naturali. Fra questi voglio anche tralasciar per ora di metter in conto la pigrizia e la venale complicità dei zaffi, dei cavallanti2 e perfino dei cancellieri; costretti quasi a cotali compromessi per rimediare alla soverchia modicità delle tariffe e alla proverbiale avarizia dei principali. Fra costoro, per esempio, v'avea taluno che, anziché retribuir d'alcuna mercede il proprio cancelliere o nodaro, pretendeva far parte con lui delle tasse percepite, e mi sovviene d'un nodaro costretto a condannar la gente il doppio di quanto avrebbe dovuto, per soddisfare all'ingordigia del giurisdicente e insieme cavarci di che vivere. Un altro castellano, quando era al verde, costumava denunciar egli stesso alla cancelleria un supposto delitto per leccare la sua quota sulla paga dovuta all'officiale pel processo, dalla parte condannata. Certo il giurisdicente e il cancelliere di Fratta non erano di tali sentimenti; ma io peraltro non mi ricordo di aver udito mai levar a cielo la loro giustizia. Invece il Cancelliere, quando era sciolto dal suo ministero di ombra, e non si perdeva a ciaramellare di Maggior Cons,"glio: era l'adunanza generale dei patrizi, supremo organo legislativo. Il Nievo.ne parlerà a lungo nel capitolo decimoprimo. 2. zaffi: sbirri. Per cavallantB s'intenda una specie di messo giudiziario del tempo. I.

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donnicciuole e di tresche, moveva sempre lunghissime lamentazioni sulla strettezza delle tariffe; le quali, secondo lui, proibivano assolutamente l'entrata del paradiso ad ogni officiale di giustizia che non provasse categoricamente a san Pietro di esser morto di fame. Con quanto diritto egli si dolesse, io non voglio giu .. dicare; so peraltro che l'inquisizione di uno o più rei portava in tariffa la paga di lire una, equivalente a centesimi 50 di franco. Io credo che non si potesse assicurare ai sudditi una giustizia più a buon mercato; ma l'è della giustizia come dell'altra roba, che chi più spende meno spende; ed i proverbi rade volte hanno torto. Cosi anche avveniva delle lettere, che il porto di una di esse nei confini del Friuli si pagava soldi tre; e l'era una bazza con quella diavoleria di strade. Ma cosa importa se si doveva seri .. verne dieci per farne arrivar una; ed anco questa non giungeva che per caso, e spesse volte inutile per la tardanza? In fin dei conti, sotto un certo aspetto che m'intendo io, non hanno torto coloro che benedicono San Marco; ma sotto mille aspetti diversi da quell'uno io benedico tutti gli altri santi del paradiso e lascio in tacere il quarto evangelista col suo leone. Son vecchio ma non innamorato della vecchiaia; e dell'antichità venero la lun .. ghezza ma non il colore della barba. Certo, per coloro che aveano ereditato molti diritti e pochi doveri e intendevano continuare l'usanza, San Marco era un comodissimo patrono. Nessun conservatore più conservatore di lui: neppur Metternich o Chateaubriand. Quale il Friuli gli era stato legato dai patriarchi d'Aquileia, tale l'avea serbato colle sue giurisdizioni, co' suoi statuti, co' suoi parlamenti. Fantasma di vita pubblica che covava forse dapprincipio un germe di vitalità, ma che sotto le ali del Leone fini da ultimo a non altro, che a nascondere una profonda indifferenza, anzi una stanca rassegnazione agli ordini invecchiati della Repubblica. Le effimere scorrerie dei Turchi, sul finire del Quattrocento, aveano empiuto quella estrema provincia d'Italia d'una paura sterminata, quasi superstiziosa; sicché la dedizione a Venezia parve una fortuna; come antica trionfatrice che quella era della potenza ottomana. Ma l'astuta negoziatrice conobbe che per mantenersi senz'armi nel nuovo dominio le bisognava il braccio dei castellani, sorti a nuova prepotenza pel bisogno che il contado aveva avuto di loro nelle ul .. time invasioni turchesche. Da cib la tolleranza dei vecchi ordi-

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namenti feudali; la quale si perpetub come tutto si perpetuava in quel corpo già infermo e paludoso della Repubblica. I nobili continuarono lor dimora nei castelli tre secoli dopo che i loro colleghi connazionali s'eran già fatti cittadini; e le virtù d'altri tempi in parte diventarono vizii, quando il mutarsi delle condizioni generali tolse loro l'aria di cui vivevano. Il valore diventb ferocia, l'orgoglio soperchieria; e l'ospitalità cambiossi a poco a poco nella superba e illegale protezione dei peggiori capi da forca. San Marco sonnecchiava; o se vegliava e puniva, la giustizia si faceva al buio; atroce pel mistero, e inutile pel nessun esempio. Intanto il patriziato friulano cominciava a dividersi in due fazioni; l'una paesana, più rozza, più selvatica, e meno propizia alla dominazione dei curiali veneziani; l'altra veneziana, cittadinante, ammollita dal diuturno consorzio coi nobili della dominante. Le antiche memorie famigliari e la vicinanza delle terre dell'Impero attiravano la prima al partito imperiale; la seconda per somiglianza di costumi piegavasi sempre meglio a una pecorile obbedienza dei governanti; ribelle la prima per istinto; impecorita la seconda per nullaggine, ambidue piucché inutili nocive al bene del paese. Cosi veggiamo parecchi casati magnatizi durare per molte generazioni al servizio della Corte di Vienna, e molti altri invece imparentati coi nobiluomini di Canalazzo 1 ed esser onorati nella Repubblica da cariche cospicue. Ma i due partiti non s'aveano diviso fra loro le costumanze e i favori per modo che non fosse qualche parte promiscua. Anzi alcuno fra i più petulanti castellani fu veduto talvolta andarne a Venezia per far ammenda dei soprusi commessi, o comperarne da i senatori la dimenticanza con delle lunghe borse di zecchini. E v'avevano anche dei nobiluzzi, venezievoli in città pei tre mesi d'inverno, che tornati fra i loro merli inferocivano peggio che mai; sebbene tali gradassate somigliassero più spesso truffe che violenze, e sovente anche prima di commetterle se ne fossero assicurati l'impunità. Quanto a giustizia io credo chC? la cosa stesse fra gatti e cani, cioè che nessuno la pigliasse sul serio, eccettuati i pochi timorati di Dio che anco erano soggetti a pigliar di gran granchi per ignoranza. Ma in generale quello era il regno dei furbi; e soltanto colla furberia il minuto popolo trovava il bandolo di ricattarsi delle sofferte prepotenze. - Nel diritto fo1.

Cana/a:,:.o: Canal grande, cioè di Venezia.

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rense friulano l'astuzia degli amministrati faceva l'uffizio dell'equitas nel diritto romano. L'ingordigia e l'alterezza degli officiali e dei rispettivi padroni segnavano i confini dello strictum jus. 1 Comunque la sia, se al di qua del Tagliamento predominava fra i castellani il partito veneziano, al quale si vantavano di appartenere da tempo immemorabile i Conti di Fratta; al di là invece la fazione imperiale padroneggiava sfacciatamente, la quale, se cedeva all'emula in popolarità ed in dovizia, le era di gran lunga soprastante per operosit~, e per audacia. Tuttavia anche in essa v'avea chi la prendeva calda e chi fredda; chi stava nel tiepido; e questi come sempre erano i dappoco e i peggiori. La giustizia sommaria esercitata spesse volte dal Consiglio dei Dieci sopra alcuni imprudenti, accusati di congiurare in favor degli imperiali e a detrimento della Repubblica, non era fatta per incoraggiare le mene dei sediziosi. Sebbene cotali scoppii erano troppo rari perché ne durasse a lungo lo spavento; e le trame continuavano tanto più frivole ed innocue quanto più i tempi si facevano contrari e il popolo indifferente ad artificiali e non cercate innovazioni. Al tempo di Maria Teresa tre castellani del Pedemonte,2 un Franzi, un Tarcentini e un Partistagno furono accusati di fomentare l'inquietudine del paese e di adoperarsi a volger l'animo dell~ Comunità in favor dell'Imperatrice. Il Consiglio dei Dieci li fece spiare diligentemente, e n'ebbe che le accuse fatte non erano false. Più di tutti il Partistagno, posto col suo castello quasi sul confine illirico, 3 parteggiava scopertamente per gli imperiali, diceva beffarsi di San Marco, e trincava in fin di mensa a quel giorno che il signor Luogotenente, ripeto le parole del suo brindisi, e gli altri caca in acqua4 sarebbero stati cacciati a piedi nel sedere di là del Tagliamento. Tutti ridevano di questi augurii; e la baldanza del feudatario era ammirata e imitata anche, come si poteva meglio, dai vassalli e dai castellani all'intorno. A Venezia si tenne Consiglio Segreto; e fu deciso che i tre turbolenti fossero citati a Venezia per giustificarsi; ognuno sapeva che le ltrictum jus: qui il Nievo intende con ironia per equitas la giustizia accomodante, per ltrictum jus invece quella inesorabile e severa, ma sempre interessata. 2. Pedemonte: ultimi contrafforti delle prealpi udinesi e goriziane. Le zone del Friuli al piede delle Alpi. Maria Teresa d'Austria fu imperatrice dal 1740 al 1780. 3. sul confine illirico: tra i paesi di Attimis e Faedis, a nord-est di Udine. 4. caca in acq"a: espressione sprezzante verso gli abitanti di una città lagunare come Venezia. 1.

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giustificazioni erano la scala più infallibile per salire ai piombi. 1 Il temuto Messer Grande2 capitò dunque in Friuli con tre lettere sigillate, da disuggellarsi e leggersi cadauna in presenza del rispettivo imputato; nelle quali era contenuta l'ingiunzione di recarsi ipso facto a Venezia per rispondere sopra inchieste dell'Eccellentissimo Consiglio dei Dieci. Tali ingiunzioni erano solite obbedirsi alla cieca; tanto ai lontani e agli ignoranti appariva ancora formidabile la forza del Leone, che era stimato inutile tentar di sfuggirgli. Il Messer Grande adunque fece la sua solenne imbasciata al Franzi e al Tarcentini; ambidue i quali chinarono uno per volta il capo e andarono spontaneamente a porsi nelle segrete degli Inquisitori. 3 Indi passò colla terza lettera al castello del Partistagno, il quale avea già saputo dell'umiltà dei compagni e lo attendeva rispettosamente nella gran sala del pianterreno. Il Messer Grande entrò col suo gran robone rosso che spazzava la polvere, e con atto solenne cavata di petto la lettera ed apertala, ne lesse il contenuto. Egli leggeva con voce nasale, qua/mente che, il Nobile ed Eccelso Signore Gherardo di Partistagno fosse invitato entro sette giorni a comparire dinanzi all'Eccellentissimo Consiglio dei Dieci, etc. etc. - Il nobile ed eccelso signore Gherardo di Partistagno gli stava dinanzi colla fronte curva sul petto e la persona tremolante, quasi ascoltasse una sentenza di morte. La voce del Messer Grande si faceva sempre più minacciosa nel vedere quell'attitudine di sgomento; e da ultimo quando lesse le sottoscrizioni pareva che tutto il terrore di cui si circondava il Consiglio Inquisitoriale spirasse dalle sue narici. Rispose il Partistagno con voce malsicura che avrebbe incontanente obbedito, e volse ad un servo la mano con cui s'era appoggiato ad una tavola, quasi comandasse il cavallo o la lettiga. Il Messer Grande superbo di aver fulminato secondo il suo solito quell'altero feudatario volse le calcagna, per uscire a capo ritto dalla sala. Ma non avea mosso un passo che sette od otto buli fatti venire il giorno prima da un castello che il Partistagno possedeva nell'Illirico, gli 1. piombi: le carceri del Consiglio dei Dieci poste a tetto del Palazzo Ducale. Erano chiamate piombi perché il tetto del palazzo era ricoperto da lastre di piombo. 2. Messer Grande: ufficiale di giustizia della Repubblica veneta, e particolarmente del Consiglio dei Dieci. 3. Inquisitori: ~ il tribunale degli Inquisitori di Stato, composto di tre membri del Consiglio dei Dieci, due scelti dal Consiglio, membri • in toga nera•, uno dai consiglieri del Doge, • in toga rossa•·

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si avventarono addosso: e batti di qua e pesta di ]à gliene consegnarono tante che il povero Messer Grande non ebbe in breve neppur voce per gridare. Il Partistagno aizzava quei manigoldi dicendo di tratto in tratto : - Si, da senno; son pronto ad obbedirei Dagliene, Natale! Giù, giù su quel muso di cartapecora! Venir qui nel mio castello a portarmi cotali imbasciate I ••• Furbo per diana! ... Uh come sei conciato I • • • Bravi, figliuoli miei! Ora, basta, ora: che gli avanzi fiato da tornare a Venezia a recar mie novelle a quei buoni signori! - Ohimè! tradimento! pietàl son morto!- gemeva il Messer Grande dimenandosi sul pavimento e cercando rifarsi ritto della persona. - No, non sei morto, ninino - gli veniva dicendo il Partistagno. - Vedi? ... Ti reggi anche discretamente in piedi, e con qualche rattoppatura nella tua bella vestaglia rossa non ci parrà più un segno del brutto accidente. Or va' - e cosi dicendo lo conduceva fuor della porta. - Va, e significa a' tuoi padroni che il capo dei Partistagno non riceve ordini da nessuno, e che se essi hanno invitato me, io invito loro a venirmi a trovare nel mio castello di Caporetto sopra Gorizia, ove riceveranno tripla dose di quella droga che hai ricevuto tu. Con queste parole egli lo avea condotto saltellone fin sulla soglia del castello, ove gli diede uno spintone che lo mandò a ruzzolare fuori dieci passi sul terreno con gran risa degli spettatori. E poi mentre il Messer Grande palpandosi le ossa ed il naso scendeva verso Udine in una barella requisita per istrada, egli co' suoi bu.li spiccò un buon volo per Caporetto donde non si fece più vedere sulle terre della Serenissima. I vecchi contavano che de' suoi due compagni imbucati nelle segrete non si avea più udito parlare. Queste bazzecole succedevano in Friuli or sono cent'anni e le paiono novelle dissotterrate dal Sacchetti. Cosi è l'indole dei paesi montani che nelle loro creste di granito serbano assai a lungo l'impronte degli antichi tempi; ma siccome il Friuli è un piccolo compendio dell'universo, alpestre piano e lagunoso in sessanta miglia da tramontana a mezzodi, cosi vi si trovava anche il rovescio della medaglia. Infatti al castello di Fratta durante la mia adolescenza io udiva sempre parlare con raccapriccio dei castel-

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lani dell'alta; 1 tanto il venezianismo era entrato nel sangue di quei buoni conti. E son sicuro che questi furono scandolezzati più che gli stessi Inquisitori del rinfresco servito al Messer Grande per opera del Partistagno. Ma la giustizia alta, bassa, pubblica, privata, legislativa ed esecutiva della Patria del Friuli mi ha fatto uscire di mente il grandioso focolare, intorno a cui al lume delle due lucernette e allo scoppiettante fiammeggiar del ginepro io stava ricomponendo le figure che vi solevano sedere i lunghi dopopranzi della vernata al tempo della mia infanzia. Il Conte colla sua ombra, monsignor Orlando, il capitano Sandracca, Marchetto cavallante e ser Andreini il primo Uomo della Comune di Teglio. Questo è un nuovo personaggio di cui non ho ancora fatto parola, ma bisognerebbe discorrerne a lungo per dare un'idea del cosa fosse allora questo ceto mezzano campagnuolo fra la signoria e il contadiname. Cosa fosse davvero, sarebbe un intruglio a volerlo capire; ma cosa volesse sembrare, posso dirlo in due tratti di penna. Voleva sembrare umilissimo servitore nei castelli e confidente del castellano e perciò secondo padrone in paese. Chi aveva buona indole volgeva a bene questa singolare ambizione, e chi era invece taccagno, scroccone o cattivo, ne era tirato alla più bassa e doppia malvagità. Ma ser Andreini andava primo fra i primi; poiché se era accorto e chiacchierone, aveva in fondo la miglior pasta del mondo, e non av.rebbe cavata l'ala ad una vespa dopo esserne stato beccato.a I servitori, gli staffieri, il trombetta, la guattera e la cuoca erano pane e cacio con lui ; e quando il Conte non gli era fra i piedi, scherzava con esso loro e aiutava il figliuolo del castaldo a spennar gli uccelletti. Ma appena capitava il Conte, si ricomponeva per badare solamente a lui, quasiché fosse sacrilegio occuparsi d'altro quando si godeva della felicissima presenza d'un giurisdicente. E secondo i probabili desiderii di questo, egli era il primo a ridere, a dir di sì, a dir di no, e perfino anche a disdirsi se aveva sbagliato colla prima imbroccata. C'era anche un certo Martino, antico cameriere del padre di Sua Eccellenza, che bazzicava sempre per cucina, come un vecchio cane da caccia messo fra gli invalidi: e voleva ficcare il naso nelle credenze e nelle cazzeruole, con gran disperazione della cuoca, 1.

dell'alta: dell'alta valle del Tagliamento.

z. beccato: punto.

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brontolando sempre contro i gatti che gli si impigliavano nelle gambe. Ma costui essendo sordo e non piacendosi troppo di ciarlare, non entrava per nulla nella conversazione. Unica sua fatica era quella di grattare il formaggio. Gli è vero che colla flemma naturale tirata ancor più in lungo dall'età, e collo straordinario consumo di minestra che si faceva in quella cucina, una tale fatica lo occupava per molte ore del giorno. Mi par ancora d'udire il romore monotono delle croste menate su e giù per la grattugia con pochissimo rispetto delle unghie; in premio della qual parsimonia il vecchio Martino aveva sempre rovinate e impiastricciate di ragnateli le· punte delle dita. Ma a me non istarebbe il prendermi beffa di lui. Egli fu, si può dire, il mio primo amico; e se io sprecai molto fiato nel volergli scuotere il timpano colle mie parole, n'ebbi anche per tutti gli anni che visse meco una tenera· ricompensa d'affetto. Egli era quello che mi veniva a cercare quando qualche impertinenza commessa mi metteva al bando della famiglia; egli mi scusava presso Monsignore, quando invece di servirgli messa scappava nell'orto ad arrampicarmi sui platani in cerca di nidi; egli testimoniava delle mie malattie, quando il Piovano davami la caccia per la lezione di dottrina; e se mi cacciavano a letto, era anche capace di prender l'olio o la gialappa in mia vece. Insomma fra Martino e me eravamo come il guanto e la mano, e s'anco entrando in cucina non giungeva a discernerlo pel gran buio che vi regnava in tutta la giornata, un interno sentimento mi avvertiva se egli vi era, e mi menava diritto a tirargli la parrucca o a cavalcargli le ginocchia. Se poi Martino non vi era, tutti mi davano la baia perché restava cosi mogio mogio come un pulcino lontano dalla chioccia; e finiva col darla a gambe indispettito, a menoché una raschiata del signor Conte non mi facesse prender radici nel pavimento. Allora io stava duro duro che neppur la befana m'avrebbe fatto muovere; e soltanto dopo eh' egli era uscito riprendeva la libertà del pensiero e dei movimenti. Io non seppi mai la ragione di un si strano effetto prodotto sopra di me da quel vecchio lungo e pettoruto; ma credo che le sue guarnizioni scarlatte mi dessero il guardafisso1 come ai polli d'India. Un'altra mia grande amicizia era il cavallante che a volte mi guardafisso: avere il guardafisso: rimanere incantato, immobile come i polli d'India quando vedono un oggetto rosso. 1.

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toglieva in groppa e menavami seco nelle sue gite di piacere per l'affissione dei bandi e simili faccende. lo poi non aveva pei coltelli e per le pistole un odio simile a quello del capitano Sandracca; e durante la via frugava sempre per le tasche a Marchetto per rubargli il pugnale e far con esso mille attucci e disfide ai villani che s'incontravano. Una volta fra le altre che s'andava a Ramuscello a recar una citazione al castellano di colà, e il cavallante avea preso seco le pistole, frugandogli per le tasche ad onta delle pestate di mani eh'egli mi avea dato poco prima, feci scattare il grilletto, e n'ebbi un dito rovinato; e lo porto ancora un po' curvo e monco nell'ultima falange in memoria delle mie escursioni pretoriali. Quel castigo peraltro non mi guari punto della mia passione per le armi; e Marchetto asseverava che sarei riescito un buon soldato, e diceva peccato che non dimorassi in qualche paese dell'alta ove si avvezzava la gioventù a menar le mani, non a dar la caccia alle villane e a giocar il tresette coi preti e colle vecchie. A Martino peraltro non andavano a sangue quelle mie cavalcate. La gente del paese, benché non fosse rissosa e manesca al pari di quella del pedemonte, aveva muso franco abbastanza per imbeversi spesse volte delle sentenze di Cancelleria, e per dar la berta al cavallante che le intimava. E allora col sangue caldo di Marchetto non si sapeva cosa potesse succedere. Questi assicurava che la mia compagnia gli imponeva dei riguardi e lo impediva dall'uscire dai gangheri; io mi vantava alla mia volta che ad una evenienza gli avrei dato mano ricaricando le pistole, o menando colpi da disperato colla mia ronca; e cosi briciola com'era, mi sapeva male che altri ridesse di queste spampanate. Martino crollava il capo; e intendendo ben poco dei nostri ragionamenti seguitava a borbottare che non era prudenza l'esporre un ragazzo alle rappresaglie cui poteva andar incontro un cavallante, andando a levar pegni o ad affiggere bandi di dazi e di confische. Al fatto quei villani stessi che facevano sl trista figura nelle Cernide e tremavano nella cancelleria ad un'occhiata dell'officiale, sapevano poi adoperar per bene il fucile e la mannaia in casa loro o nelle campagne; e per me, se dapprincipio mi faceva meraviglia una tale sconcordanza, mi sembra ora di averne trovato la vera ragione. Noi Italiani ebbimo sempre una naturale antipatia per le burattinate; e ne ridiamo sl, assai volentieri; ma più volentieri anco ridiamo di coloro che vogliono darci ad in3

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tendere che le sono miracoli e cose da levarsi il cappello. Ora quelle masnade d,uomini, attruppati come le pecore, messi in fila a suon di bacchetta e animati col piffero, nei quali il valore è regolato da una parola tronca del comandante, le ci parvero sempre una famosa comparsa di burattini; e questo accadde, perché tali comparse furono sempre a nostro discapito e radissime volte a vantaggio. Ma stando così le cose pur troppo, l'idea di entrare in quelle comparse e di farvi la figura del bambolo ci avvilisce a segno che ogni volontà di far bene e ogni sentimento di dignità ci scappa del corpo. Parlo, s'intende, dei tempi andati; ora la coscienza d,un gran fine può averci raccomodato ttindole in questo particolare. Ma anche adesso, filosoficamente non si avrebbe forse torto a pensare come si pensava una volta; e il torto sta in questo, che si ha sempre torto a incaparsi di restar savi e di adoperare secondo le regole di saviezza, allorché tutti gli altri son pazzi ed operano a seconda della loro pazzia. Infatti l'è cosa detta e ridetta le cento volte, provata provatissima, che petto contro petto uno de' nostri tien fronte e fa voltar le spalle a qualunque fortissimo di ogni altra nazione. Invece pur troppo non v'è nazione dalla quale con più fatica che dalla nostra si possa levare un esercito e renderlo saldo e disciplinato come è richiesto dall'arte militare moderna. Napoleone peraltro insegnò a tutti, una volta per sempre, che non fallisce a ciò il valor nazionale, sibbene la volontà e la costanza dei capi. E del resto, di tal nostra ritrosia ad abdicare dal libero arbitrio, oltre all'indole indipendente e raziocinante abbiamo a scusa la completa mancanza di tradizioni militari. Ma di ciò basta in proposito ai giurisdizionali di Fratta; e quanto al loro tremore nel cospetto delle autorità non è nemmen d'uopo soggiungere che non tanto era effetto di pusillanimità, quanto della secolare reverenza e del timore che dimostra sempre la gente illetterata per chi ne sa più di lei. Un cancelliere che con tre sgorbi di penna poteva a suo capriccio gettar fuori di casa in compagnia della miseria e della fame due tre o venti famiglie, doveva sembrare a quei poveretti qualche cosa di simile ad uno stregone. Ora che le faccende in generale camminano sopra norme più sicure, anche gli ignoranti guardano la giustizia con miglior occhio, e non ne prendono sgomento come della sorella della forca o dell'oppignorazione. In compagnia delle persone di casa che ho nominato fin qui,

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il piovano di Teglio, mio maestro di dottrina e di calligrafia, usava passar qualche ora sotto la cappa del gran camino, rimpetto al signor Conte, facendogli delle gran riverenze ogni volta eh' esso gli volgeva la parola. L'era un bel pretone di montagna poco amico degli abatini d'allora e bucherato dal vaiuolo a segno che le sue guancie mi fecero sempre venir in mente il formaggio stracchino, quando è ben grasso e pieno di occhi, come dicono i dilettanti. Camminava molto adagio; parlava più adagio ancora, non trascurando mai di dividere ogni sua parlata in tre punti; e questa abitudine gli si era ficcata tanto ben addentro nelle ossa che mangiando tossendo o sospirando pareva sempre che mangiasse tossisse o sospirasse in tre punti. Tutti i suoi movimenti apparivano così ponderati, che se gli accadde mai di commettere qualche peccato, ad onta della sua vita generalmente tranquilla ed evangelica, dubito che il Signore siasi indotto a perdonarglielo. Perfino i suoi sguardi non si movevano senza qualche gran motivo; e pareva che stentatamente s'inducessero a traforare due siepaie di sopraccigli che proteggevano i loro agguati. Era desso l'ideale della premeditazione, sceso ad incarnarsi nel grembo d'una montagnola di Clausedo ; 1 tonsurato dal vescovo di Porto, 2 e vestito del più lungo giubbone di peluzzo che abbia mai combattuto coi polpacci d'un prete. Egli tremolava un pochino nelle mani, difetto che nuoceva alquanto alla sua qualità di calligrafo, ma che non lo impediva dall'appoggiarsi saldamente alla sua canna d'India col pomo di vero corno di bue. Circa le sue facoltà morali, per esser nato nel Settecento lo si potea vantare per un modello d'indipendenza ecclesiastica; giacché le riverenze profondissime che faceva al Conte non lo impedivano dal condursi a proprio talento nella cura d'anime: e forse anco, esse equivalevano a questo modo di dire: « Illustrissimo signor Conte, io la venero e la rispetto; ma del resto a casa mia il padrone sono io. » Il cappellano di Fratta invece era un salterello allibito e pusillanime che avrebbe dato la benedizione col mescolo di cucina, nulla nulla che al Conte fosse saltato questo grillo. Non per poca 1. Clausedo: don Lorenzo Foschiani, il protagonista del romanzo rimasto interrotto del Nievo, Il pescatore d'anime, prete liberaleggiante, sarà dì Clausedo, il Clauzetto d'oggi, paese di montagna sotto i monti Taiet e Ciaurlec, a nord di S. Daniele del Friuli, un tempo noto per aver dato al clero friulano un gran numero di sacerdoti e di religiosi. 2. Porto: cio~ Portogruaro.

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religione, no; ma il poveruomo si smarriva tanto al cospetto della signoria, che non sapeva proprio più cosa si facesse. Per questo quando gli bisognava stare in castello pareva sempre sulle spine; e credo che se ora che è morto gli si volesse dare un vero purgatorio, non occorrerebbe altro che rimetterlo a vivere in corpo d'un maestro di casa. Nessuno più di lui era capace di durare seduto le ore colle ore senza alzar gli òcchi o batter becco quando altri lo osservava; ma del pari possedeva un'arte miracolosa di sparir via senza esser veduto, anche in una compagnia di dieci persone. Soltanto quand'egli veniva in coda al piovano di Teglio qualche barlume di dignità sinodale gli rischiarava la fisonomia; ma ben si accorgeva che era uno sforzo per tener dietro al superiore, e in quelle volte era tanto occupato di tener a mente la sua parte che non ascoltava né vedeva più, ed era capace di metter in bocca bragie per nocciuole, come il fattore per iscommessa ne aveva fatto l'esperimento. Il-signor Ambrogio Traversini, fattore e perito del castello, era il martello del povero Cappellano. E tra loro due correvano sempre quelle burle quelle farsette, che erano tanto in moda al tempo andato e che nei crocchi di campagna tenevano allora il posto della lettura dei giornali. Il Cappellano, com'era di dovere, pagava sempre le spese di cotali trastulli; e ne veniva rimeritato con qualche invito a pranzo, ricompensa più crudele dello stesso malanno. Senonché il più delle volte la preoccupazione di quegli inviti gli metteva addosso la quartana doppia ed egli cosi non avea d'uopo di bugie per iscusarsene. Quando poi gli veniva fatto di metter piede al di là del ponte levatoio, nessun uomo, credo, si sentiva più felice di lui; ed era questo il compenso de' suoi martirii. Saltava correva si stropicciava le mani il naso i ginocchi; prendeva tabacco, bisbigliava giaculatorie, passava il bastoncino da un'ascella all'altra, parlava, rideva, gesticolava con tutti, e accarezzava ogni persona che gli capitasse sotto mano, fosse un ragazzo, una vecchia, un cane o una giovenca. Io pel primo ebbi la gloria e la cattiveria di scoprire le strane giubilazioni del Cappellano ad ogni sua scappata dal castello; e fatta ch'io ebbi la scoperta, tutti, quand'egli partiva, si affollavano alle finestre del tinello per goder lo spettacolo. Il fattore giurò che una volta o l'altra per la soverchia consolazione egli sarebbe saltato nella peschiera; ma convien dire a lode del povero prete che questo accidente non gli avvenne mai. Il maggior

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segno di contentezza che diede fu una volta quello di mettersi coi birichini a scampanare a festa dinanzi la chiesa. Ma in quel giorno l'avea scapolata bella. C'era in castello un prelato di Porto, chiamato il Canonico di Sant'Andrea, grande teologo e pochissimo tollerante dell'ignoranza altrui, che avea onorato in addietro e seguitava ad onorar la Contessa del suo patrocinio spirituale. Costui con monsignor Orlando e il Piovano s'era impancato vicino al focolare a dogmatizzar di morale. Il cappellanello che veniva a domandar conto della digestione del signor Conte, come voleva la prammatica di ogni dopopranzo, era stato li lì per cascare nel trabocchetto; ma a metà della cucina aveva orecchiato la voce del teologo e protetto dalle tenebre se l' avea data a gambe, ringraziando tutti i santi del calendario. Figuratevi se non avea ragione di scampanar d'allegrezza! Oltre a questi due preti e ad altri canonici e abati della città che venivano a visitar di sovente monsignor di Fratta, il castello era frequentato da tutti i signorotti e castellani minori del vicinato. Una brigata mista di beoni, di scioperati, di furbi e di capi ameni, che spassavano la loro vita in caccie in contese in amorazzi e in cene senza termine; e lusingavano del loro corteo l'aristocratico sussiego del signor Conte. Quand'essi capitavano era giorno di gazzarra. Si spillava la miglior botte; molti fiaschi di Picolit e di Refosco 1 perdevano il collo; e le giovani aiutanti della cuoca si rifugiavano nello sciacquatoio. La cuoca poi non conosceva più né amici né nemici; correva qua e là, dava dei gomiti nello stomaco a Martino, pestava i piedi a Monsignore, scannava anitre, sbudellava capponi; e il suo affaccendamento non era superato che da quello del girarrosto, il quale strideva e sudava olio per tutte le carrucole nel dover menare attorno quattro o cinque spedate di lepri e di selvaggina. Si imbandivano mense nella sala e in due o tre camere contigue; e s'accendeva il gran focolare della galleria, il quale era tanto grande che a saziarlo per una volta tanto non si richiedeva meno d'un mezzo passo2 di legna. Si noti peraltro che dopo la prima vampata la comitiva doveva rifugiarsi dietro le pareti più lontane e nei cantoni per non rimanerne abbrustolita. Lo scalpore più indiavolato era fatto da questi signori; ma le parti di spirito erano in tali circostanze affidate a qualche Pico/it, Re/osco: son vini friulani. legna, di palmi I 4 per 5 per 4 ½. 1.

2.

passo: misura per le cataste cli

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dottorino, a qualche abatucolo, a qualche poeta di Portogruaro che non mancava mai di accorrere all'odor della sagra. In fin di tavola si usava improvvisare qualche sonetto, di cui forse il poeta aveva a casa lo scartafaccio e le correzioni. Ma se la memoria gli falliva non mancava mai la solita chiusa di ringraziamenti e di scuse per la libertà che la compagnia s'era permessa, di correre in frotta a bere il vino e a lodar i meriti infiniti del Conte e della Contessa. Quello che più di sovente cascava in questa necessità, era un avvocato lindo e incipriato che nella sua gioventù avea fatto la corte a molte dame veneziane, e viveva allora di memorie e di cavilli in compagnia della massaia. Un altro giovinastro chiamato Giulio Del Ponte che capitava sempre insieme con lui e si piccava di misurar versi più pel sottile, si godeva di fargli perdere la bussola empiendogli troppo sovente il bicchiere. La commedia finiva in cucina con grandi risate alle spalle del dottore, e il giovinotto ch'era stato a Padova 1 se ne intendeva tanto bene che gli restava in grazia meglio di prima. Costui e un giovine pallido e taciturno di Fossalta, il signor Lucilio Vianello, sono i soli che fin d'allora mi rimangono in memoria di quella ciurma semiplebea. Fra i cavalieri, un Partistagno, parente forse di quello del Messer Grande, mi sta ancora dinanzi colla sua grande figura ardita e robusta, e un certo altiero riserbo di modi che assai contrastava coll'avvinazzata licenza dei più. E fin d'allora mi ricorda aver notato fra costui e il Vianello certi sguardi di sbieco che non dinotavano esser fra loro molto buon sangue. E tuttavia erano i due che meglio avrebbero dovuto intendersela fra loro, essendo tutto il resto un' egual feccia di spensierati e di furbacchioni. Quand'io cominciai ad aver ragione di me stesso e a far istizzire i polli nel cortile di Fratta, l'unico figliuolo maschio del Conte era già da un anno a Venezia presso i padri Somaschi ov'era stato educato suo padre: perciò di lui non mi rimane memoria, riguardante quel tempo, se non per qualche scappellotto ch'egli mi avea dato prima di partire, per farmi provare la sua padronanza; e si che allora io era un bambino che a stento rosicchiava il pane. Il vecchio Martino pigliò fin d'allora le mie difese; e mi sovviene ancora d'una tirata d'orecchie da lui data di soppiatto al padroncino, per la quale questi tirò giù strillando i travi della casa: e 1.

a Padova: all'Università di Padova.

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Martino n'ebbe dal Conte una buona lavata di capo. Fortuna ch'era sordo! Quanto alla Contessa ella non compariva mai in cucina se non due volte il giorno nella sua qualità di suprema direttrice delle faccende casalinghe; la prima il mattino a distribuire la farina, il butirro, la carne e gli altri ingredienti bisognevoli al vitto della giornata; la seconda dopo l'ultima portata del pranzo a far la parte della servitù dalle vivande rimandate dalla mensa padronale e a riporre il resto in piatti più piccoli per la cena. Ella era una N avagero 1 di Venezia, nobildonna lunga arcigna e di breve discorso, che fiutava tabacco una narice per volta e non si rnoveva mai senza il sonaglio delle sue chiavi appeso al traversino. z L'aveva sempre in capo una cuffietta di merlo bianco fiocchettata di rosa alle tempie come quella d'una sposina; ma io credo non la portasse per vanagloria ma unicamente per abitudine. Una smaniglia di spagnoletto3 le pendeva dal collo sul fazzoletto nero di seta, e sosteneva una crocetta di brillanti, la quale a dir della cuoca avrebbe fornito la dote a tutte le ragazze del territorio. Sul petto poi, legato in uno spillone d'oro, aveva il ritratto d'un bell'uomo in parrucchino ad ali di piccione, che non era certo il suo signor marito; poiché questo aveva un nasone spropositato e quello invece un nasino da buffetti, un vero ninnoletto da fiutar acqua di rose ed essenze di Napoli. A dirla schietta come l'ho saputa poi, la nobildonna non si era piegata che a malincuore a quel matrimonio con un castellano di terraferma; ché le sembrava di cascare nelle mani dei barbari, avvezza com'era alle delicature ed agli spassi delle zitelle veneziane. Ma obbligata a far di necessità virtù, l'aveva cercato rimediare a quella disgrazia col tirare di tempo in tempo suo marito a Venezia; e là si era vendicata del ritiro provinciale cogli sfoggi, colle galanterie, e col farsi corteggiare dai più avvenenti damerini. Il ritratto che portava al petto doveva essere del più avventurato fra questi; ma dicevano che quel tale le fosse morto d'un colpo d'aria buscato di sera andando in gondola con lei; e dopo non ne avea più voluto sapere Navagero: nobile e antica famiglia veneziana che dette una lunga serie dì uomini politici, di guerrieri, dì magistrati alla Repubblica. La famiglia si estinse intorno alla metà del '700. 2. traversino: grembiule. 3. smanig/ia di spagnoletto: monile di fili d'oro intrecciati. Spagnoletto perché d'oro importato dall'America spagnola. 1.

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ed erasi ritirata per sempre a Fratta con grande compiacenza del signor Conte. Quando questo atroce caso avvenne la nobildonna volgeva alla quarantina. Del resto la Contessa passava le lunghe ore sul genuflessorio, e quando mi incontrava o sulla porta della cucina o per le scale, mi tirava alcun poco i capelli nella cuticagna, unica gentilezza che mi ricorda aver ricevuto da lei. Un quarto d'ora per giorno lo impiegava nell'assegnar il lavoro alle cameriere, e il restante del suo tempo lo passava in un salotto colla suocera e le figlie, facendo calze e leggendo la vita del santo giornaliero. La vecchia madre del Conte, l'antica dama Badoer, viveva ancora a que' tempi; ma io non la vidi che quattro o cinque volte, perché la era confitta sopra una seggiola a rotelle dalla vecchiaia e a me era inibito entrare in altra camera che non fosse la mia ove dormiva allora colla seconda cameriera o come la chiamavano colla donna dei ragazzi. La era una vecchia di quasi novant'anni piuttosto pingue e d'una fisonomia dinotante il buon senso e la bontà. La sua voce, soave e tranquilla in onta all'età, aveva per me un tale incanto che spesso arrischiava di buscar qualche schiaffo per andarla ad udire postandomi coll'orecchio alla serratura della sua porta. Una volta che la cameriera aperse la porta mentre io era in quella positura, ella s'accorse di me e mi fe' cenno di avvicinarmi. Io credo che il mio cuore balzasse fuori del petto per la consolazione, quando essa mi mise la mano sul capo dimandandomi con severità, ma senza nessuna amarezza, cosa io mi facessi dietro l'uscio. Io le risposi ingenuamente ma tremolando per la commozione che mi stava là, contento di udirla parlare, e che la sua voce mi piaceva molto e mi pareva che non dissimile l'avrei desiderata a mia madre. - Bene, Carlino, - mi rispose ella - io ti parlerò sempre con bontà finché meriterai di essere ben trattato pei tuoi buoni portamenti; ma non istà bene a nessuno e meno che meno ai fanciulli origliare dietro le porte; e quando vuoi parlare con me, devi entrar in camera e sedermiti vicino, ché io ti insegnerò, come posso, a pregar lddio e a diventare un buon figliuolo. Nell'udire queste cose a me poveretto venivan giù le lagrime quattro a quattro per le guancie. Era la prima volta che mi parlavano proprio col cuore; era la prima volta che mi si faceva il dono d'uno sguardo affettuoso e d'una carezzai e un tal dono mi ve-

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niva da una vecchia che aveva veduto Luigi XIV!' Dico veduto, proprio veduto; perché lo sposo della nobildonna Badoera, quel vecchio Conte così ghiotto dei grammaestri e degli ammiragli, pochi mesi dopo il suo matrimonio era andato in Francia ambasciatore della Serenissima e vi aveva condotto la moglie che per due anni era stata la gemma di quella Cortei Quella stessa donna poi tornata a Fratta avea serbato l' eguali grazie dei modi e del parlare, l'egual rettitudine di coscienza, l'eguale altezza e purità di sentimenti, l'uguale spirito di moderazione e di carità, sicché anche perduto il fiore della bellezza avea continuato ad innamorare il cuore dei vassalli e dei terrazzani, come prima aveva innamorato quello dei cortigiani di Versailles. Tanto è vero che la vera grandezza è ammirabile ed ammirata dovunque, e né diventa né si sente mai piccola per cambiar che faccia di sedile. Io piangeva dunque a cald'occhi stringendo e baciando le mani di quella donna venerabile, e promettendomi in cuore di usare sovente della larghezza fattami di salire ad intrattenermi con lei, quando entrò la vera Contessa, quella delle chiavi, e diede un guizzo d'indignazione vedendomi nel salotto contro i suoi precisi ordinamenti. Quella volta la strappata della cuticagna fu più lunga del solito e accompagnata da un rabbuffo solenne e da un divieto eterno di mai più comparire in quelle stanze se non chiamato. Scendendo le scale dietro il muro,3 e grattandomi la coppa e piangendo questa volta più di rabbia che di dolore, udii ancora la voce della vecchiòna che sembrava insoavirsi oltre all'usato per intercedere in mio favore, ma una strillata della Contessa e una violentissima sbattuta dell'uscio serratomi dietro mi tolse di capire la fine della scena. E così scesi una gamba dietro l'altra in cucina a farmi consolar da Martino. Anche questa mia domestichezza con Martino spiaceva alla Contessa ed al fattore che era il suo braccio destro; perché secondo loro il mio pedagogo doveva essere un certo Fulgenzio, mezzo sagrista e mezzo scrivano del Cancelliere, che era nel castello in odore di spia. Ma io non poteva sopportare questo Fulgenzio e gli giocava certi tiri che anche a lui dovevano rendermi poco sopportabile. Una volta per esempio, ma questo avvenne più tardi, essendo io ai mattutini di giovedl santo in coro dietro di lui, colsi 1. Lu1'gi XIV: re di Francia dal 1643 al 1715. il muro.

z. dietro il muro: lungo

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il destro del suo raccoglimento per dispiccar dalla canna con cui si accendono le candele il cerino ancor acceso, e glielo attortigliai intorno alla coda. Laonde quando il cerino fu quasi consumato il foco si appiccò alla coda e da essa alla stoppa della perrucca, e Fulgenzio si mise a saltare pel coro, e i ragazzi che tenevano le ribebe1 in mano a corrergli intorno gridando acqua acqua. E in quel parapiglia le ribebe andavano attorno, e ne nacque un tal subbuglio che si dovette tardare d'una mezz'ora la continuazione delle funzioni. Nessuno seppe mai pel suo dritto la ragione di qùello scandalo, eQ io che ne fui sospettato l'autore ebbi la furberia di far l'indiano; ma con tutto ciò mi toccò la sportula2 d'un giorno di camerino a pane ed acqua, il che non contribui certo a farmi entrar in grazia Fulgenzio: come l'incendio della parrucca non avea contribuito a render costui più favorevole a me. Io dissi che la Contessa occupava la maggior parte del suo tempo facendo calze nel salotto in compagnia delle sue figlie. Ma l'ultima di queste, nei primi anni di cui mi ricordo, era bambina affatto, minore di me d'alcuni anni, e la dormiva nella mia stessa camera colla donna dei ragazzi che si chiamava Faustina. La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castani e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a coloro che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l'altro arrotondato sopra la fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco eh' ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi corbellato col far le viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l'occhio, o si dimenticava del precetto avuto; poiché del resto la Contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza dalla sua puttina, e di non 1. ribebe: ribeba o ribeca, strumento a corda: ma qui il Nievo sembra intendere le raganelle che si suonano in chiesa durante la settimana santa. z. sportula: onorario che si dava al giudice che emetteva la sentenza. Qui vale per castigo.

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lasciarmi prender con lei eccessiva confidenza. Per me e' erano i figliuoli di Fulgenzio, i quali mi erano abbominevoli più ancora del padre loro, e non tralasciava mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi si affaccendavano di spifferare al fattore che mi aveano veduto dar un bacio alla contessina Pisana, o portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della peschiera. Peraltro la fanciulletta non si curava al pari di me delle altrui osservazioni, e seguitava a volermi bene, e cercava farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa, che era l'altra cameriera, o la donna di chiave che or si direbbe guardarobbiera. Io era felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile; e prendeva un certo piglio d'importanza quando diceva a Martino: - Dammi un bel pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisanal Così la chiamava con lui; perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la Contessina. Queste contentezze peraltro non erano senza tormento poiché pur troppo si verifica così nell'infanzia come nell'altre età il proverbio, che non fiorisce rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del vicinato coi loro ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e berrettini colla piuma, la Pisana lasciava da un canto me per far con essi la vezzosa; e io prendeva un broncio da non dire a vederla far passettini e torcer il collo come la gru, e incantarli colla sua chiaccolinaI dolce e disinvolta. Correva allora allo specchio della Faustina a farmi bello anch'io; ma ahimé che pur troppo m'accorgeva di non potervi riescire. Aveva la pelle nera e affumicata come quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e di macchie, i capelli scapigliati e irti intorno alle tempie come le spine d'un istrice e la coda scapigliata come quella d'un merlo scappato dalle vischiate. Indarno mi martorizzava il cranio col pettine sporgendo anche la lingua per lo sforzo e lo studio grandissimo che ci metteva; quei capelli petulanti si raddrizzavano tantosto più ruvidi che mai. Una volta mi saltò il ticchio di ungerli come vedeva fare alla Faustina; ma la fatalità volle che sbagliassi boccetta e invece di olio mi versai sul capo un vasetto d'ammoniaca ch'essa teneva per le convulsioni, e che mi lasciò intorno per tutta la settimana un profumo di letamaio da 1.

chiaccolina: venetismo da ciacolare, per chiacchiera.

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rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime vanità fui ben disgraziato e anziché rendermi aggradevole alla piccina, e stoglierla dal civettare coi nuovi ospiti, porgeva a lei e a costoro materia di riso, ed a me nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d'avvilirmi. Gli è vero che partiti i forestieri la Pisana tornava a compiacersi di farmi da padroncina, ma il malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza sapermene liberare, trovava troppo varii i suoi capricci, e un po' anche dura la sua tirannia. Ella non ci badava, la cattivetta. Avea forse odorato la pasta di cui era fatto, e raddoppiava le angherie ed io la sommissione e l'affetto; poiché in alcuni esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per chi li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni cotali esseri; so che io ne sono un esemplare; e che la mia sorte tal quale è l'ho dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza non è malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti; almeno a casa mia. - Devo peraltro confessare a onor del vero che per quanto volubile, civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni, ella non mancò mai d'una certa generosità; qual sarebbe d'una regina che dopo aver schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino, intercedesse in suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciuzzava come il suo cagnolino, ed entrava con me nelle maggiori confidenze; poco dopo mi metteva a far da cavallo percotendo con un vincastro senza riguardo giù per la nuca e traverso alle guancie; ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad interrompere i nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della Contessa, ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo più che a tutti gli altri, che voleva stare con me e via via; finché dimenandosi e strillando fra le braccia di chi la portava, i suoi gridari si ammutivano dinanzi al tavolino della mamma. Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che l'era più orgoglio ed ostinazione che amore per me. !Via non mescoliamo i giudizi temerari dell'età provetta colle illusioni purissime dell'infanzia. Il fatto sta che io non sentiva le busse che mi toccavano sovente per quella mia arroganza di volermi accomunar nei giochi alla Contessina, e che contento e beato mi riduceva nella mia cucina a guardar Martino che grattava formaggio.

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L'altra figliuola della Contessa, che avea nome Clara, era già zitella quando io apersi gli occhi a guardare le cose del mondo. Era dessa la primogenita, una fanciulla bionda, pallida e mesta, come l'eroina d'una ballata o l'Ofelia di Shakespeare; pure ella non avea letto nessuna ballata e non conosceva certo l'Amleto neppur di nome. Pareva che la lunga consuetudine colla nonna inferma avesse riverberato sul suo viso il calmo splendore di quella vecchiaia serena e venerabile. Certo non mai figliuola vegliò la madre con maggior cura di quella ch'essa adoperava nell'indovinare perfin le brame della nonna: e le indovinava sempre perché la continua usanza fra di loro le aveva avvezzate ad intendersi con un sol giro di occhiate. La contessa Clara era bella come lo potrebbe essere un serafino che passasse fra gli uomini senza pur lambire il lezzo della terra e senza comprenderne l'impurità e la sozzura. Ma agli occhi dei più poteva parer fredda, e questa freddezza anche scambiarsi per una tal qual alterigia aristocratica. Eppure non v'aveva anima più candida, più modesta della sua; tantoché le cameriere la citavano per un modello di dolcezza e di bontà; e tutti sanno che negli elogi delle padrone il suffragio di due cameriere equivale di per sé solo ad un volume di testimonianze giurate. Quando la nonna abbisognava d'un caffè, o d'una cioccolata, e non era alcuno nella stanza, non s'accontentava ella di sonar la campanella, ma scendeva in persona alla cucina per dar gli ordini alla cuoca; e mentre questa approntava il bisognevole, stava pazientemente aspettando coi ginocchi un po' appoggiati allo scalino del focolare; od anche le dava mano nel ritirar la cocoma dal fuoco. Vedendola starsi a quel modo, la cucina mi pareva allor rischiarata da una luce angelica; e non la mi sembrava più quel luogo triste ed oscuro di tutti i giorni. E qui mi dimanderanno alcuni perché nelle mie descrizioni io torni sempre alla cucina, e perché in essa e non nel tinello o nella sala io abbia introdotti i miei personaggi. Cosa naturalissima e risposta facile a darsi! La cucina, essendo la dimora abituale del mio amico Martino e l'unico luogo nel quale potessi stare senza essere sgridato, (in merito forse del buio che mi sottraeva all'attenzione di tutti) fu il più consueto ricovero della mia infanzia: sicché come il cittadino ripensa con piacere ai passeggi pubblici dov'ebbe i suoi primi trastulli, io invece ho le mie prime memorie contornate dal fumo e dall'oscurità della cucina di Fratta. Là vidi e conobbi

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i primi uom1n1; là raccolsi e rimuginai i primi affetti, le prime doglianze, i primi giudizi. Onde avvenne che se la mia vita corse come quella degli altri uomini in varii paesi, in varie stanze, in diverse dimore, i miei sogni invece mi condussero quasi sempre a spaziare nelle cucine. È un ambiente poco poetico; lo so; ma io scrivo per dire la verità, e non per dilettare la gente con fantasie prettamente poetiche. La Pisana aveva tanto orrore di quel sitaccio scuro profondo mal selciato, e dei gatti che lo abitavano, che rade volte vi metteva _piede se non per inseguirmi a colpi di bacchetta. Ma la contessina Clara all'incontro non ne mostrava alcun disgusto, e ci veniva quando occorresse senza torcer la bocca o alzar le gonnelle come facevano persino quelle schizzinose delle cameriere. Laonde io gongolava tutto di vederla; e se la chiedeva un bicchier d'acqua era beato di porgerlelo, e di udirmi dire graziosamente: - Grazie Carlino!- Ed io poi mi rintanava in un cantuccio pensando: uomo, religioso al memoriale delle sue fortune, non perde il tempo che scorre; ma riversa la gioventù nella virilità e le raccoglie poi ambedue nello stanco e memore riposo della vecchiaia. È un tesoro che s'accumula, non son monete che si spendono giorno per giorno. Del resto questa pietosa abitudine mi parve sempre indizio d'animo dabbene; il tristo nulla ha da guadagnare e tutto da perdere nel ricordarsi; egli s'affanna a distruggere non a conservare le traccie delle sue azioni, perché i rimorsi pullulano da ognuna di esse, come gli uomini dai denti seminati da Cadmo.2 Alle volte io temetti che con tale usanza si venisse a porre nella vita un soverchio affetto, e che il culto del passato significasse avidità del futuro. Ma se è cosi in taluno, non è certo sempre né in tutti; del che sono io la prova. Chi raccolse nel suo pellegrinaggio e tenne sol conto delle gemme e dei fiori, si avvicinerà forse tremando a quel varco dove i gabellieri inesorabili lo spoglieranno per sempre dell'allegro bottino; ma se si affidarono al sacrario delle rimembranze i sorrisi e le lagrime, le rose e le spine, e tutta la varia vicenda della sorte nostra ci si schiera dinanzi per via di figure e d' emblemi, allora lo spirito s'adagia rassegnato nel pensiero dell'ultima necessità; e i gabel1. Mahmud II (1785-1839). Durante il suo sultanato la Grecia ottenne, dopo strenua lotta, l'indipendenza. 2. Cadmo: personaggio mitologico, fondatore di Tebe; dopo aver ucciso un drago, ne seminò i denti e da questi nacquero guerrieri.

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lieri gli sembrano inesorabili insieme e pietosi. La va secondo l'indole di chi ha raccolto ed ordinato il museo; poiché mio pensiero è che la fortuna nostra sia scritta profeticamente nell'indole. Essa è la regola interna secondo cui le cose esterne hanno questo o quel valore; e che dai propri modi di essere giudica la vita o un ozio, o un piacere, o un sacrifizio, o una battaglia, o una modalità. Chi falla nel giudizio deve o rimediarvi colla convinzione nel1'errore, o espiare la propria cecità col disperarsene. E molto facilmente chi stimi la vita un'occasione di piaceri non la stimerà più tale al momento d'andarsene. Quella ciocca di capelli neri ineguali e avviluppati, che serbano ancora i segni dello strappamento, furono come la prima croce appesa a segnare lo spazio vuoto d'un giorno nel sacrario domestico della memoria. E sovente venni poi a pregare, .a meditare, a sorridere, a piangere dinanzi a quella croce, dal cui significato misto di gioia e d'affanno potevasi forse pronosticar fin d'allora il tenore di quei godimenti acuti, scapigliati e convulsi che mi dovevano poi logorar l'anima e fortunatamente rinnovarla. Quella ciocca di capelli restò l'A del mio alfabeto, il primo mistero della mia Via Crucis, la prima reliquia della mia felicità; la prima parola scritta insomma della mia vita; varia com' essa, e quasi inesplicabile come quella di tutti. Certo fin dal primo istante io ne presentii l'importanza perché non mi pareva aver ripostiglio tanto sicuro ove nasconderla. L'avvoltolai per allora in una pagina bianca strappata dal mio libro di messa e la misi fra il letto ed il pagliericcio. Cosa strana assai! poiché mi si parò alla mente il valore inestimabile di quei pochi capelli, essi mi bruciavano le dita. Non so se fosse paura di perderli e di esserne privato, o ribrezzo istintivo dalle tremende promesse che significarono poi. - Io li aveva già nascosti, e stava cheto cheto fingendo di dormire, quando capitò su Martino, il quale vedendomi addormentato tolse la lucernetta per sé, e si ritrasse nella sua stanza. Poi a poco a poco la finta di dormire mi si volse in sonno vero, ed il sonno in un ghiribizzo continuo di sogni, di fantasmagorie, di trasfiguramenti, che mi lasciò di quella notte l'idea lunga lunga d'un'intera vita. Che il tempo non si misurasse, come pare, dai moti del pendolo, ma dal numero delle sensazioni? Potrebbe essere; e potrebbe esser del pari che una tal questione si riducesse a un gioco di parole. Io certo vissi alle volte nel sogno di un'ora lunghissimi

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anni; e mi parve poter spiegare questo fenomeno assomigliando il tempo ad una distanza ed il sogno ad una vaporiera. I prospetti sono gli stessi ma passano più rapidi; la distanza non è diminuita ma divorata. La mattina mi svegliai con tanta gravità addosso, che mi invogliava di credermi un uomo addirittura, così lunga età mi pareva essersi condensata nelle ultime ventiquattr'ore da me vissute: e le memorie del giorno prima mi passarono innanzi chiare ordinate e vivaci come i capitoli d'un bel romanzo. I dispetti della Pisana, le smorfie dei bei cugini, il mio abbattimento, la fuga, il risvegliarsi in riva al canale, il guazzo periglioso di questo, la gran prateria, il giungere sull'altura, le meraviglie di quella scena stupenda di grandezza, di splendore, e di mistero; il cader delle tenebre, i miei timori, e il correre traverso la campagna, e lo scalpitarmi a tergo del cavallo, e l'uomo dalla gran barba che m'avea tolto in groppa; il galoppo sfrenato traverso l'oscurità e la nebbia, le sculacciate di Germano sul primo giungere a Fratta, quegli altri martirii della cucina, e quello spiedo e quella Contessa, e la mia fermezza di non voler disobbedire alla raccomandazione di chi m'avea reso un servigio ad onta del tremendo castigo minacciatomi; la carezza della Clara e le parole del signor Lucilio, le mie smanie, le disperazioni poiché fui coricato, e l'apparimento in mezzo a queste della Pisana, della Pisana umile e superba, buona e crudele, sventata bizzarra e bellissima secondo il solito, non vi pare che ce ne fossero troppe pel cervello d'un bambino? E lì in un foglietto di carta sotto il pagliericcio io aveva un talismano che per tutta la vita mi avrebbe ravvivato a mio grado tutto quel giorno così vario così pieno. Allora, risovvenendomi specialmente della parlata del signor Lucilio, divisai trame profitto, e presi a chiamar Martino con quanta voce aveva in gola. Ma il vecchio m'avrebbe fatto squarciare, senza che il suo timpano si risolvesse ad avvertirlo delle mie grida; balzai dunque dal letto, e andai nella sua camera che appunto l'era sul finir di vestirsi, e gli dissi che io mi sentiva un gran mal di capo, e che per tutta la notte non avea chiuso occhio, e che mi chiamassero il dottore perché avea gran paura di morirne. Martino mi rispose ch'era pazzo, e che mi ricoricassi quietino e che egli andrebbe intanto pel dottore: ma prima scese in cucina a rubarmi un po' di brodo; impresa nella quale, protetto dall'oscurità del locale, riusci a meraviglia; e io be-

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vetti il brodo con gran pazienza benché avessi dentro una grandissima voglià di panetti, e poi m'adagiai sotto le coltri promettendo che avrei cercato di sudare. Credo che tra le botte della testa, la sfinitezza della fatica e del digiuno, e il sudore promossomi da quella bevanda calda, io arrivai a compormi una bellissima febbre; tantoché quando il signor Lucilio capitò di li a un'ora, la fame erami passata e le era succeduta una sete ardentissima. Mi tastò il polso, mi guardò la lingua, e mentre mi domandava conto di quelle graffiature che mi screziavano la fronte, sorrise in modo più benevolo di prima, udendo nel corritoio il fruscìo d'una gonna. La Clara entrò nel bugigattolo per ascoltare dal medico la ragion del mio male e confortarmi con dire che la Contessa in vista della mia malattia non si sarebbe ostinata nel castigarmi tanto severamente, e purché dicessi a lei la verità circa alla sera prima, mi avrebbe anche perdonato. Io le risposi che la verità l'aveva già detta, e sarei tornato a ripeterla; e che se pareva strano a loro che andando a zonzo senza saper dove avessi passato quasi un'intera giornata, lo stesso sembrava anche a me, ma non sapeva che farci. La Clara allora m'interrogò su quel luogo cosi maraviglioso e così pieno di luce di sole e di colori ove diceva essere stato; e ripetutane ch'io n'ebbi con grand'enfasi la descrizione, la soggiunse che forse Marchetto aveva ragione e che io poteva essere stato al Bastione di Attila, che è un'altura presso la marina di fianco a Lugugnana dove la tradizione paesana vuole che venendo da Aquileia abbia tenuto suo campo il re degli Unni prima di essere incontrato dal pontefice Leone. 1 Peraltro da Fratta a là correvano sette buone miglia pei traghetti più spicci, e non sapeva capacitarsi che nel ritorno non mi fossi smarrito. E la mi disse per giunta che quella tal bella cosa immensa azzurra e di tutti i colori nella quale si specchiava il cielo era per l'appunto il mare. - Il mare! - io sciamai- oh qual felicità menar la propria vita sul mare! - Davvero? - disse il signor Lucilio. - Eppure io ci ho un cugino che gode da molti anni di questa felicità e non ne è gran fatto contento. Egli afferma che l'acqua è fatta pei pesci e che 1. re degli Unni • .. Leone: l'incontro tra Attila e papa Leone I avvenne nel 452, sul Mincio.

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un gran controsenso fu quello dei vecchi Veneziani di piantarvisi entro. - Sarà un controsenso ora; ma non lo era una volta; - soggiunse la Clara - quando al di là del mare c' eran Candia la Morea e Cipro e tutto il Levante. - Oh per me, - ripresi io - starei sempre sul mare senza occuparmi di quello che possa essere di là. - Ma intanto pensa a star ben coperto e a guarire, demonietto - aggiunse il signor Lucilio. - Martino ti porterà dalla spezieria una boccettina d'acqua, buona come la conserva, e tu la prenderai un cucchiaio per volta ad ogni mezz'ora, hai capito? - Intanto ti aggiusteremo le cose colla mamma pel minor danno, - continuò la Clara - e giacché mi hai ripetuto che quella era la verità come l'avevi detta ieri sera, io spero che la ti perdonerà. Lucilio e la Clara uscirono, Martino uscì con l~ro per andarne alla spezieria; io mi rimasi col mio sudore colla mia sete e con una voglia sfrenata di veder la Pisana, ché allora non mi avrebbe più importato se mi perdonavano o meno. Ma la fanciulletta non si fece vedere, e soltanto nel cortile udii la sua voce e quella degli altri ragazzi che strimpellavano ne' loro giochi; e siccome io aveva paura di esser veduto o prevenuto da Martino, o denunziato da alcuno dei fanciulli, non mi cimentai a vestirmi e scender nel cortile come ne aveva quasi volontà. Io stetti coll'orecchie intese e il cuore in tumulto che mi impediva quasi di udire. - Tuttavia di lì a un'ora intesi la Pisana gridare a perdifiato: - Martino, Martino, come sta dunque Carletto? Martino dovette aver capito e le avrà anche risposto, ma io non ne intesi nulla; solamente Io vidi entrar di lì a poco colla boccetta della medicina e mi disse che la Contessa lo aveva incontrato per la scala e domandatogli se era vero che mi fossi spaccata la fronte contro la parete per la disperazione. - È vero questo? - soggiunse il buon Martino. - Non so, - io gli risposi- ma ieri sera era cosi scaldato che posso aver fatto delle sciocchezze senza c~e ora me ne ricordi. - Non te ne ricordi?- soggiunse Martino che poco m'aveva capito. - No, no, non me ne ricordo - ripresi io. Ed egli non rimase affatto contento d'una tale risposta poiché gli pareva a lui che do-

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po aversi conciato il muso a quel modo per un pezzo dovesse durarne buonissima memoria. La medicina fece il suo effetto, migliore forse e più improvviso che nessuno si sarebbe aspettato, perché il giorno stesso m'alzai; e quanto al castigo inflittomi dalla Contessa non se ne parlò più. Gli è vero peraltro che non si parlò neppure di ristabilirmi nella camera della Faustina, e che il mio canile rimase definitivamente nell'appartamento di Martino. Come si può immaginare, la voglia di riveder la Pisana dopo quelPimprovvisata della notte scorsa ci ebbe un gran merito nella mia repentina guarigione; e quando discesi in cucina, mia prima cura fu quella di cercarla. La famiglia avea finito il pranzo allora allora; e Monsignore incontrandomi per la scala mi accarezzò il mento contro ogni suo solito, e mi guardò le ammaccature della fronte, le quali poi non erano quel gran malanno. Egli mi disse che non doveva essere quella peste che mi credevano se il dolore di esser reputato bugiardo mi faceva dare in simili violenze contro me stesso; ma mi raccomandò di usar più discrezione in avvenire, di offerire a Dio le mie tribolazioni, e di imparare la seconda parte del Confiteor. Nelle benigne parole di Monsignore io riconobbi il buon animo della Clara, la quale aveva dato quell'edificantissima ragione delle mie stramberie, e così, se non il perdono completo, mi fu almeno concessa una clemente dimenticanza. Seppi in seguito da Marchetto che il signor Lucilio mi aveva dipinto come un ragazzo molto timido e permaloso, facile ad esser abbattuto anche nelle forze e nella salute da un qualunque dispiacere; e tra lui e la Clara tanta malleveria diedero della mia sincerità che la Contessa non volle insistere ad accusarmi di doppiezza. Peraltro ella si tolse la briga di interrogare Germano; ma questi, imbeccato forse da Martino, rispose che avea bensl udito la notte prima lo scalpitar d'un cavallo, ma buona pezza dopo il mio ritorno a Fratta, sicché non era possibile che con quel cavallo io fossi venuto. Allora la testimonianza di Fulgenzio fu lasciata là, ed io rimasi colla mia pace, e non caddi più nella necessità di dover mentire per delicatezza di coscienza. Debbo tuttavia soggiungere che quella che parrà a taluni frivola e cocciuta ostinazione di fanciullo, a me sembrò fin d'allora e la sembra tuttavia una bella prova di fedeltà e di gratitudine. Fu allora la prima volta che l'animo mio ebbe a lottare fra piacere e dovere; né io titubai un istante ad

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appigliarmi a quest'ultimo. Se il dovere in quel caso non era poi tanto stringente, poiché né la raccomandazione dello sconosciuto pareva fatta sul serio, né io avea promesso nulla, né potea capire a che gli potesse giovare il mio silenzio sopra un fatto cosl comune com'è quello del passaggio d'un uomo a cavallo, tuttociò prova a tre tanti la rettitudine de' miei sentimenti. Fors'anco quel primo sacrificio, cui mi disposi tanto volonterosamente e per sl frivolo motivo, diede alla mia indole quell'avviamento che non ho poi cessato dal seguir quasi sempre in circostanze più gravi e solenni. A lungo si è disputato se la fortuna faccia l'uomo o se l'uomo governi la fortuna. Ma nella disputa non si badò forse troppo fin qui a distinguere quello che è, da quello che dovrebbe essere. Certo la filosofia solleva l'uomo sopra ogni influsso di astri o di comete; ma gli astri e le comete gravitano sopra di noi molto tempo innanzi che la filosofia ci insegni a difendercene. È spesso la sola fortuna che viene apparecchiando i nutrimenti alla ragione prima ancora che questa non sia nata. E così le circostanze dell'infanzia, se non governano l'intero tenore della vita, educano sovente a modo ioro quelle opinioni che formate una volta diventano per sempre gli incentivi delle opere nostre. Perciò badate ai fanciulli, amici miei; badate sempre ai fanciulli, se vi sta a cuore di averne degli uomini. Che le occasioni non diano mala piega alle loro passioncelle; che una sprovveduta condiscendenza, o una soverchia durezza, o una micidiale trascuranza non li lascino in bilico di creder giusto ciò che piace, e abbominevole quello che dispiace. Aiutateli, sorreggeteli, guidateli. Preparate loro col maggior accorgimento occasioni da trovar bella, santa, piacevole la virtù; e brutto e spiacevole il vizio. Un grano di buona esperienza a nove anni val più assai che un corso di morale a venti. Il coraggio, l'incorruttibilità, l'amor della famiglia e della patria, questi due grandi amori che fanno legittimi tutti gli altri, somigliano allo studio delle lingue. La prima età vi si presta assai ; ma guai a chi non li apprende. Guai a loro, e peggio che peggio a chi avrà che fare con loro, od alla famiglia ed al paese che da essi attende aiuto decoro e salvamento. Il germoglio è nel seme, e la pianta nel germoglio; non mi stancherò mai dal ripeterlo; perché l'esperienza della mia vita confermò sempre in me ed in altri la verità di questa antica osservazione. Sparta, la dominatrice degli uomini, e Roma, la regina del mondo, educavano dalla culla

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il guerriero e il cittadino: perciò ebbero popoli di cittadini e di guerrieri. Noi che vediamo nei bimbi i vezzosi e i gaudenti, abbiamo plebaglie di gaudenti e di vezzosi. Ora sarò forse allucinato dall'amor proprio, ma pur non veggo nel mio passato memoria che più mi sia confortevole e buona, di quel primo castigo così valorosamente sfidato per mantenere un segreto raccomandatomi e per mostrarmi grato d'un beneficio ricevuto. Credo che dappoi moltissime volte mi sia condotto colla stessa regola, per la vergogna che altrimenti avrei provato di mostrarmi uomo più dappoco che stato non lo fossi da ragazzo. Ecco in qual modo le circostanze fanno sovente l'opinione. Io era salito; e non volli più scendere. Se precipitai in qualche occorrenza, fu pronto il pentimento; ma non iscrivo per iscusarmene, e la mia penna sarà sempre pronta a riprovare come a benedire le mie azioni secondo il merito. Tanto più colpevole alle volte, in quanto non doveva esserlo né per abitudine né per coscienza. Però chi è puro affatto tra noi mortali?- lVIi conforta la parabola dell'adultera e la sublime parola di Cristo: Chi non ha peccato scagli la prima pietra! Quel dopopranzo, come vi diceva, mi~ prima cura fu di andar in traccia della Pisana, ma con sommo mio rammarico non mi venne fatto di trovarla in nessun luogo. Ne domandai alle cameriere, le quali, siccome colte in fallo per la loro sprovvedutezza verso la fanciulla, si svelenirono contro la mia petulanza. Germano, Gregorio e Martino a' quali ne chiesi conto del pari, non mi seppero dare nessun ragguaglio, e finalmente scorrucciato passai oltre le scuderie e interrogai l'ortolano se non l'avesse veduta uscire da quelle bande. Mi rispose che l'aveva veduta in fatti prender verso la campagna col figliuoletto dello speziale, ma che la cosa era vecchia di due ore e probabilmente la padroncina doveva esser rientrata, perché il sole scottava assai e il farsi abbrustolire non le piaceva. Io però, conoscendo l'umor balzano della fanciulla, non mi fidai di questa conghiettura, ed uscii io pure nei campi. Il sole mi dardeggiava cocentissimo sul capo, la terra mi si sfregolava sotto i piedi per la grande arsura, ed io di nulla mi accorgeva per la grande ambascia che mi tumultuava dentro. Trovai in riva d'un fosso un legacciolo da scarpe. L'era della Pisana, ed io seguitai oltre persuaso che il gran desiderio me l'avrebbe fatta trovare in qualunque luogo. Spiava le macchie, i riva-

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li, 1 e le ombre dove eravamo usati posare nelle nostre scorrerie: gli occhi miei correvano d'ogni lato sferzati dalla gelosia, e se mi fosse capitato alle mani quel figliuoletto dello speziale, credo che l'avrei unto ben bene senza darmene un perché. Quanto alla Pisana, la conosceva a fondo, mi ci era avvezzato stupidamente, ed avea cominciato quasi ad amarla in ragione de' difetti, come appunto l'eccellente cavallerizzo predilige fra' suoi cavalli quello che più s'impenna e resiste agli speroni ed alle redini. Non è qualità che tanto renda pregevole e cara alcuna cosa, come quella di vederla pronta a sfuggirci; e se cotal abitudine di timore e di sforzo affatica gli animi deboli, essa arma e ribadisce i costanti. Si direbbe che la Pisana m'avesse stregato, se la ragione dello stregamento io non la leggessi chiara nell'orgoglio in me continuamente stuzzicato a volerla spuntare sugli altri pretendenti. Mi vedeva il preferito più di sovente e sopra tutti; voleva esserlo sempre. Quanto al sentimento che mi portava a voler ciò, era amore del più schietto; amore che crebbe poi, che mutò anche tempra e colore, ma che fin d'allora mi occupava l'anima con ogni sua pazzia. E l'amore a dieci anni è tanto eccessivo come ogni altra. voglia in quella età fiduciosa che non conobbe ancora dove stia di casa l'impossibile. Sempre d'accordo che qui la carestia delle parole mi fa dir amore in vece di quell'altro qualunque vocabolo che si dovrebbe adoperare; perché una passione tanto varia, che abbraccia le sommità più pure dell'anima e i più bassi movimenti corporali, e che sa inchinar quelle a questi, o sollevar questi a quelle, e confonder tutto talvolta in un'estasi quasi divina e tal altra in una convulsione affatto bestiale, meriterebbe venti nomi proprii invece d'un solo generico, sospetto in bene o in male a seconda dei casi, e scelto si può dire apposta per sbigottire i pudorati e scusare gli indegni. Dissi dunque amore e non potea dir altro; ma ogniqualvolta mi avverrà di usare un tal vocabolo nel decorso della mia storia, mi terrò obbligato ad aggiungere una riga di commento per supplire al vocabolario. A quel tempo pertanto io amava nella Pisana la compagna de' miei trastulli; e poiché a quell'età i trastulli son tutto, ciò vien a dire che la voleva tutta per me; il che se non costituisce amore e di quel pretto, come notava più sopra, prendetevela coi vocabolaristi. 1.

rivali: qui sta per rive. Il rivale è una sorta di rete da pesci.

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Ad onta peraltro del mio furore a cercarla, ella quel dopopranzo non si lasciava trovare; e cerca di qua e guarda di là, e corri e salta e cammina, io presi senza avvedermene la piega che m'avea menato così lontano il giorno prima. Quando m'accorsi di ciò, mi trovava appunto in un crocicchio di strade campestri, dove sur un muricciuolo scalcinato un povero san Rocco 1 mostrava la piaga della sua gamba ai devoti passeggieri. Il fido cane gli stava a fianco colla coda bassa e il muso innalzato, quasi per osservare cos' egli stesse facendo. - Tutto questo io vidi nella prima alzata d'occhi; ma nel ritirarli poi, m'addiedi d'una vecchia curva e pezzente, che pregava con gran fervore davanti a quel san Rocco. E la mi sembrò la Martinella, una povera accattona così chiamata in quel contado, che soleva fermarsi a prender una presa dalla scatola di Germano, ogniqualvolta la passasse dinanzi al ponte di Fratta. Me le accostai allora con qualche soggezione, perché i racconti di Marchetto mi avevano messo tutte le vecchie in sospetto di streghe; ma la conoscenza e il bisogno mi spronavano a non dar addietro. Ella mi si volse incontro con una cera fastidiosa, benché fosse per costume la poveretta più paziente e affabile di quante ne giravano: e mi chiese borbottando cosa facessi io in quel luogo ed a quell'ora. Le risposi che andava in cerca della Pisana, la figliuoletta della Contessa, e che mi preparava appunto a domandarne a lei se per avventura non l'avesse veduta passare col ragazzetto dello speziale. - No, no, Carlino; non l'ho veduta- rispose con molta fretta e alquanta stizza la vecchia, benché volesse mostrarmisi benevola. - Mentre tu la cerchi ella è già forse tornata a casa da un'altra banda. Va, va in castello; son sicura che la troverai. - Ma no, - soggiunsi io - l'ha appena finito di pranzare or ora •.. - Ti dico che tu vada là e che non puoi sbagliare di raggiungervela; - mi interruppe la vecchia- anzi un cinque minuti fa, ora che mi ricordo, devo averla veduta che la svoltava giù dietro il campo dei Montagnesi. - Ma se ci son passato io cinque minuti fai - ribattei alla mia volta. - Ed io ti dico che l'ho veduta. 1. 1an

Rocco: san Rocco

~

il protettore dei mendicanti e degli appestati.

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- Ma no, che non può essere. Mentre io voleva pur soffermarmi a ragionare, e la vecchia s'affaccendava a farmi dar addietro, ecco che si senti per una delle quattro strade il galoppo d'un cavallo che s'avvicinava. E la Martinella allora mi piantò lì con una scrollata di spalle, movendo incontro a quello, come per domandar la limosina. Il cavallo sbucò fuori dopo un istante dall'affossamento di quella stradaccia, e l'era un puledro focoso e robusto colle nari tremolanti e la bocca coperta di schiuma. Sopra poi stava un uomo lacero e grande con una barbaccia grigia sperperata ai quattro venti e un cappellaccio appassito dalle pioggie che gli batteva sul naso. Non aveva né staffe né sella né briglia e solamente stringeva i capi della cavezza coi quali batteva le spalle della cavalcatura per animarne la corsa. Così a prima giunta egli mi svegliò una lontana idea di quel barbone che m'avea ricondotto a casa la sera prima; ma il sospetto divenne certezza quando colla sua voce rauca e vibrata corrispose al saluto dell'accattona. Costei si volse accennando me dello sguardo, ed egli allora, fermato il puledro vicino alla vecchia, le si piegò all'orecchio, per bisbigliarle alcune parole. La Martinella si rasserenò tutta levando le braccia al cielo, e poi aggiunse a voce alta: - Dio e san Rocco rimeritino voi della vostra buona azione. E quanto alla carità io mi fido, e ricordatevi in fin di settimana! - Si, sì, Martinella! e non mancatemi!- soggiunse quell'uomo stringendo colle gambe il ventre del puledro e prendendo di gran corsa per la strada della laguna. Quando fu lontano egli si volse per far alla vecchia un segno verso la strada per la quale era venuto; poi cavallo e cavaliero scomparvero nella polvere sollevata dalle zampe di quello. Io stava tutto intento a quella scena quando, togliendo gli occhi dal luogo ove era scomparso il cavallo, li portai sulla campagna dirimpetto dove vidi appunto la Pisana e il fanciullo dello speziale che correvano molto affannati alla mia volta. Io pure mi diedi a correre verso di loro, e la Martinella mi gridava: - Oh dove corri ora, Carlino ? - ed io a risponderle: - La è là, la è là la Pisana I Non la vedete?- Infatti raggiunsi la ragazzetta, ma la era tanto pallida e smarrita, poverina, da far compassione. - Per carità, Pisana, cos'hai, ti senti male? - le chiesi sostenendola pel braccio. - Ohimè, che paura .•. che correre ••• son là con gli schioppi .••

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che voglion passar racqua- rispondeva trafelando la ragazzetta. - Ma chi sono quelli là cogli schioppi che voglion passare? - Ecco - entrb a rispondermi Donato il ragazzo dello speziale che s'era un po' rimesso da quell'ansa1 spaventata- ecco come la è ••• Eravamo a giocare sul rio del mulino, quando sboccano sull'altra sponda quattro o cinque uomini con certi ceffi e certe pistole in mano da far paura, i quali parevano cercar qualche cosa ed accingersi benanco a guazzare. E la Pisana si diede a correr via, ed io a tenerle dietro con quante gambe aveva; ma due o tre di loro si misero a gridare: « Oh non avete veduto un uomo a cavallo scappare qui a traverso I?» Ma la Pisana non avea voglia di rispondere ed io neppure; e continuammo a fuggire ed eccoci qui; ma quegli uomini verranno anch'essi certamente, perché, quantunque l'acqua sia alta, il ponte del mulino non è lontano. - Oh scappiamo, scappiamo! - sclamb tutta sbigottita la fanciulletta. - Datevi animo, signorina - entrb allora a dire la vecchia che avea posto mente a tutti questi discorsi. - Quelle Cemide non cercano di voi, ma d'un uomo a cavallo; e quando qui io e Carlino avremo risposto che di uomini a cavallo non vidimo altro che il guardiano di Lugugnana che andava a guardar il fieno a Portovecchio ... - No, noi voglio andarmene! ho paura io!- strillava la pazzerella. Ma d'andarsene non era ornai tempo poiché quattro buli sbucarono in quell'istante dalla campagna, e, guardatisi intorno per le quattro vie, si volsero alla vecchia colla stessa domanda che avevano fatta un momento prima ai due fanciulli. - Non vidi altro che il guardiano di Lugugnana che volgeva a Portovecchio - rispose loro Ja Martinella. - Eh che guardiano di Lugugnanal sarà stato lui! - disse uno della banda. - Sentite Martinella; - domandò un altro di coloro - non conoscete voi lo Spaccafumo? - Lo Spaccafumo ! - sclamb la vecchia con due occhiacci brutti brutti. - Quel ribaldo, quel bandito che vive senza legge e senza timor di Dio, come un vero Turco! No per grazia cli Dio 1. ansa: per ansamento, affanno. Non penso che il Nievo avesse voluto scrivere da quell'ansia spaventata.

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che non lo conosco: ma lo vidi peraltro una domenica sulla berlina di Venchieredo che saranno due anni. - E oggi non lo avete veduto per questa banda? - chiese ancora colui che avea parlato il primo. - Se l'ho veduto oggi? ma se dicevano che fosse morto annegato fin dall'anno scorso! - ripigliò la vecchia. - E poi confesso alle Loro Eccellenze che patisco un po' negli occhi ... - Udite pure! era lui! - tornò a dire lo sgherro. - Perché non dircelo prima che sei orba come una talpa, vecchiaccia grinza? Su in gamba, a Portovecchio, figliuoli! - soggiunse rivolto ai suoi. E tutti quattro presero per la strada di Portovecchio, che era l'opposta a quella battuta un quarto d'ora prima dal barbone. - Ma sbagliano per di là - volli dir io. - Zitto; - mi bisbigliò la Martinella - lascia andare quella cattiva gente, e diciamo invece un pater noster a san Rocco che ce ne ha liberati. La Pisana durante il colloquio cogli sgherri avea riavuto tutto il suo coraggio, e mostrava da ultimo un contegno più sicuro di tutti noi. - No, no; - diss'ella- prima di pregare bisogna correre a Fratta ad avvertire il Cancelliere e Marchetto di quei brutti musi che abbiamo veduto. Oh non tocca al Cancelliere a tener lontano dal feudo del papà i malviventi? - Sì certo; - risposi io - ed anco li fa metter in prigione a suo talento. - Or dunque andiamo a far mettere in prigione quei quattro brutti uomini; - riprese ella trascinandomi verso Fratta - non voglio, no, non voglio che mi spaventino più. Donato ci seguiva posto affatto in non cale dalla capricciosa fanciulletta; e la Martinella erasi rimessa in ginocchione dinanzi a san Rocco, come s_e nulla fosse stato.

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CAPITOLO QUARTO Don Chisciotte contrabbandiere e i signori Provedoni di Cordovado. Idillio pastorale intorno alla fon tana di V enchieredo con qualche riflessione sul1•amore e mila creazione continua nel mondo morale. La chierica del cappellano di Fratta, e un colloquio diplomatico tra due giurisdicenti.

Lo

Spaccafumo era un fornaio di Cordovado, pittoresca terricciuola tra Teglio e Venchieredo, il quale, messosi in guerra aperta colle autorità circonvicine, dal prodigioso correre che faceva quando lo inseguivano, avea conquistato la gloria d'un tal soprannome. 1 La sua prima impresa era stata contro i ministri della Camera2 che volevano confiscare un certo sacco di sale trovato presso una vecchia vedova che abitava muro a muro con lui. Mi pare anzi che quella vecchia fosse appunto la Martinella, che a quei tempi per essere capace di lavorare, non accattava ancora. Condannato al bando per due anni, il signor Antonio Provedoni, Uomo di Comune, gliel'avea accomodata colla multa di venti ducati. Ma dopo la rissa coi doganieri pel sacco di sale, egli ne appiccò un'altra col Vice-capitano delle carceri, che voleva imprigionare un suo cugino per averlo trovato sulla sagra di Venchieredo colle armi in tasca. Allora gli toccarono tre giorni di berlina sulla piazzuola del villaggio, e per giunta due mesi di carceri, e il bando di vent' otto mesi da tutta la giurisdizione della Patria. Il fornaio piantò lì di far il pane; ed ~eco a che si ridusse la sua obbedienza al decreto della cancelleria criminale di Venchieredo. Del resto continuò a far dimora qua e là nel paese; ed ad esercitare a pro' del pubblico il suo ministero di privata giustizia. La sbirraglia di Portogruaro gli era stata sguinzagliata addosso due volte; ma egli sbatteva la polvere con tanta velocità e conosceva sì bene i nascondigli e i traghetti della campagna, che di pigliarlo non ne avean fatto nulla. Quanto al sorprenderlo nel covo era faccenda più difficile ancora: tutti i contadini erano dalla sua, e nessuno sapeva dire ov' egli usasse dormire o ripararsi nei rovesci del tempo. Del resto, se la sbirraglia di Portogruaro si moveva con troppa Spaccafumo, nel friulano un po' invenezianato di quei paesi, equivale a $battipolvere; ma traducendo cosl. mi sarebbe sembrato di sbattezzarlo: il suo vero nome non mi ricordo averlo saputo mai. (Nota del1'Autore). 2. Camera: il fisco. 1.

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solennità per arrivargli improvvisa alle costole, i zaffi e le Cernide dei giurisdicenti avevano troppo buon sangue coi paesani, per corrergli dietro sul serio. Alle volte, dopo settimane e settimane che non s'era udito parlare di lui, egli compariva tranquillo tranquillissimo alla messa parrocchiale di Cordovado. Tutto il popolo gli faceva festa; ma egli la messa non l'ascoltava che con un orecchio solo; e l'altro lo teneva ben attento verso la porta grande, pronto a scappare per la piccola, se si udisse venir di colà il passo greve e misurato della pattuglia. Che questa usasse la furberia di appostarsi alle due porte non era prevedibile, stante la perfetta buona fede di quella milizia. Dopo messa egli crocchiava1 cogli altri compari sul piazzale, e all'ora di pranzo andava difilato colla sua faccia tosta nella casa dei Provedoni che era l'ultima del paese verso Teglio. Il signor Antonio, Uomo di Comune, chiudeva un occhio; e il resto della famiglia si raccoglieva con gran piacere in cucina dintorno a lui a farsi raccontare le sue prodezze, e a ridere delle facezie che infioravano il suo discorso. Fin da fanciullo egli avea tenuto usanza di buon vicino in quella casa; e allora la continuava alla meglio, come se niente fosse; tantoché il vederlo capitar ogni tanto a mangiare- daccanto al fuoco la sua scodella di brooada2 la era diventata per tutti un'abitudine. La famiglia dei Provedoni contava in paese per antichità e per reputazione. Io stesso mi ricordo aver letto il nome di ser Giacomo della Provedona nel protocollo d'una vicinia3 tenuta nel 1400 e d'allora in poi l'era sempre rimasta principale nel Comune. Ma se la sorte delle povere Comuni non era molto ridente in mezzo alle giurisdizioni castellane che le soffocavano, più meschina era l'importanza dei loro caporioni appetto dei feudatari. San Marco era popolare, ma alla lontana, e piuttosto per pompa; e in fondo gli stava troppo a cuore, massime in Friuli, l'ossequio della nobiltà perch'egli volesse alzarle contro questo spauracchio delle giurisdizioni comunali. Sopportava pazientemente quelle già stabilite e pazienti a segno da non dar appiglio ad essere decapitate 1. crocchiava: conversava in crocchio. 2. brovada: è una minestra di rape tenute in salamoia, grattugiate, e poste a bollire con pesto di presciutto. Martino grattava molte di queste rape, e mi ·sovviene che io era ghiotto di mangiarne così crude per antipasto. (Nota dell'Autore). 3. vicinia: complesso di abitanti legati fra loro dalla contiguità delle case, da parentela e da comunanza di interessi. Alla vicinia presiedevano l'assemblea dei partecipanti e i consoli che la rappresentavano di fronte al Comune.

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con soverchie pretese di stretto diritto; ma le teneva in santa umiltà con mille vincoli, con mille restrizioni; e quanto allo stabilirne di nuove se ne guardava bene. Se una giurisdizione gentilizia, per ragioni d'estinzione di sentenza o di fellonia, ricadeva alla Repubblica, anziché costituirla in comunale, usavasi infeudarne qualche magistratura o, come si diceva, qualche carica della Provincia. Così si otteneva sott'acqua il doppio scopo, di rintuzzare almeno nel numero i signori castellani, ai quali l'appoggiarsi era necessità, non bramata tuttavia; e di mantenere le popolazioni nell'usata e cieca servitù, aliene piucché si poteva dai pubblici impasti. Del resto, se le Comuni nelle loro contese coi castellani avevano spesso torto sul libro delle leggi, lo avevano poi sempre dinanzi ai tribunali, e ciò, oltreché pel resto, anche per la connivenza privata dei magistrati patrizi, mandati anno per anno dalla Serenissima Dominante a giudicare nei Fori Supremi di Terraferma. V'avea sì un mezzo ad uguagliar tutti i ceti dinanzi la santa imparzialità dei tribunali; e questo era il danaro: ma se si ponga mente alla combattività italiana che congiurava in quei Comuni colla prudentissima economia friulana, è facile capire come ben rade volte essi fossero disposti a cercare e ad ottenere giustizia per quella via. Il castellano avea già pagato lo zecchino, che le Comunità litigavano ancora sul bezzo e sulla petizza; 1 quegli avea già in tasca la sentenza favorevole e queste contendevano sopra una clausola della risposta o della duplica. 2 Così la taccagneria, che si è osservata abbarbicarsi quasi sempre nel governo dei molti e piccoli, menomava d'assai quella debolissima forza che era consentita ai Comuni. Perché inoltre, mentre i castellani tenevano armate alla meglio le loro Cernide e assoldavano per birri i capi più arrisicati del territorio, le Comunità all'incontro non ricevevano che i loro rifiuti, e in quanto alle Cernide non era raro che un drappello intero si trovasse con quattro archibugi tarlati e sconnessi, ogni colpo dei quali era piucché altro pericoloso per chi lo tirava. Infatti si guardavano bene dal commettere simili imprudenze; e nelle maggiori scalmane di coraggio combattevano col calcio. Quello che succedeva delle giurisdizioni rispetto allo Stato, che cioè ognuna faceva e pensava 1. petizza: moneta dell'Impero absburgico e anche veneziana del valore di I s soldi. 2. duplica: termine giuridico che indica la risposta del convenuto alla replica dell'attore.

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per sé, non vedendo né provando utile alcuno dal gran vincolo sociale, lo stesso avveniva nelle persone singole rispetto al Comune, che diffidando e non a torto dell'autorità di questo, ognuno s'ingegnava a farsi o giustizia o autorità per sé. Da ciò rappresaglie private continue, e servilità nei Comuni ai feudatari vicini, più dannosa e codarda perché non necessaria; ma necessaria in questo, che una legge naturale fa i deboli servi dei potenti. Non sempre a torto fummo tacciati noi Italiani di dissimulazione, d'adulazione, e d'eccessivo rispetto alle opinioni e alle forze individuali. Gli ordinamenti pubblici di cui accenno, fomentarono cotali piaghe dell'indole nazionale. Tartufi/ parassiti e briganti pullularono come male erbe in luogo ferace ed incolto. L'ingegno l'accortezza l'audacia volte a frodar quelle leggi da cui non era assicurato con ugualità nessun diritto, diventavano stromenti di malizia, e di perversità; e il suddito colla frode o col delitto s'adoperava a conseguire quello che gli era negato dalla giustizia obliqua, o ignorante o vendereccia del giudice. V'aveva per esempio uno statuto che accordava piena fede in causa ai libri dei mercanti e dei gentiluomini; ma come dovevano afforzar gli avversari le loro prove se non avevano la ventura di possedere tutti i quarti in regola o d'essere iscritti alla matricola dei negozianti? - Regali e protezioni; ecco i due articoli suppletorii che compensavano l'imperfezione dei codici. Alle volte anco il giudice dalla multa inflitta al reo percepiva la sua porzione; e contro quei giudici che si mostrassero un po' corrivi a tale specie di entrata, non soccorreva altro rimedio che la minaccia, o diretta del reo se questi era potente, o invocata da un più potente se il reo era umile. Spesso anche il giudice s'accontentava d'intascar la sua parte sotto la tavola, e firmava un decreto d'innocenza, beato di schivare fatica e pericolo. Ma questa felice abitudine, che colla venalità privata risparmiava almeno la giustizia pubblica, non veniva sofferta che da quei giurisdicenti tagliati alla veneziana, che non erano tanto rapaci da far a metà coi loro ministri della lana tosata ai colpevoli. Il signor Antonio Provedoni era ossequioso alla nobiltà per sentimento, non servile per dappocaggine. La sua famiglia avea camminato sempre per quella via, ed egli non pretendeva di cambiare l'usanza. Però quel suo ossequio, prestato ma non profuso, lo Tartufi: ipocriti, impostori. Si ricordi la commedia L'imposteur, ou le Tartuffe del Molière.

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facea guardar dalla gente con occhio di rispetto; e così l'andava allora, che il non far pompa di vigliaccheria era riputato grande valore di animo. Pure con ciò non voglio dire ch'egli resistesse alla smoderatezza dei castellani vicini; solamente non le andava incontro colle offerte, ed era molto. Lamentava poi fra sé quelle soperchierie come un segno secondo lui che la vera nobiltà mista di grandezza e di cortesia precipitava a capitombolo: sorgevano le avarizie e le prepotenze nuove a confonderla colla sbirraglia. Ma mai che uno di questi lamenti sbucasse da quella sua bocca silenziosa e prudente; egli s'accontentava di tacere, e di chinar il capo; come fanno i contadini quando la Provvidenza manda loro la gragnuola. Il sole, la luna e le stelle egli e i suoi vecchi le avevano vedute sempre girare ad un modo, fosse l'anno umido, asciutto, o nevoso. Dopo un anno cattivo ne eran venuti molti di buoni, e dopo un buono molti di cattivi: e l'egual ragionamento egli adoperava nel considerare le cose del mondo. Giravano prospere od avverse sempre pel loro verso: a lui era toccato un brutto giro; ecco tutto. Ma aveva gran fede che le si sarebbero accomodate pei figli o pei nipoti; e bastava a lui averne procreati in buon dato perché la famiglia non andasse frodata nel futuro della sua parte di felicità. Soltanto il secondogenito della sua numerosa figliuolanza, a cui gli era piaciuto imporre il nome di Leopardo, gli dava qualche cagione di amarezza. Ma come si fa ad esser docili e mansueti, con un nome simile? - Il buon decano di Cordovado s'era diportato in tale faccenda con assai poco accorgimento. I nomi de' suoi figli erano tutti più o meno eroici e bestiali, lontani affatto dal persuadere la pratica di quelle virtù tolleranti, mute e compiacenti che egli sapeva convenir meglio agli uomini del suo ceto. Il primo si chiamava Leone, il secondo, come dissimo, Leopardo: gli altri via via Bruto, Bradamante, Grifone, Mastino ed Aquilina. Insomma un vero serraglio; e non capiva il signor Antonio che con cotali nomi alle spalle la solita dabbenaggine paesana diventava burlesca o impossibile. Se allora come ai tempi dei latini s'avesse osato adoperare il prenome di Bestia, certo il suo primogenito lo avrebbe ricevuto in regalo: tanto era egli frenetico per la zoologia. Ma nell'impossibilità di porre in opera il nome generico, lo avea supplito con quello forse più superbo e minaccioso del re degli animali, secondo Esopo. Leone peraltro non si mostrava meno pecora di quanto richie-

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dessero i tempi, o almeno almeno gli esempi paterni. Egli era venuto su sopportando molto, e sospirando alquanto; e poi come suo padre s'era messo a prender moglie e a far figliuoli, e n'avea già una mezza dozzina, quando Leopardo cominciò a bazzicar colle donne. Ecco il punto donde cominciarono i dissapori famigliari fra il signor Antonio e quest'ultimo. Leopardo era un giovine di poche parole e di molti fatti; cioè anche di pochi fatti avrei dovuto dire, ma in quei pochi si ostinava a segno che non c'era verso da potemelo dissuadere. Quando lo si rampognava d'alcun che, egli non rispondeva quasi mai; ma si volgeva contro al predicatore con un certo rugghio giù nella strozza e due occhi così biechi che la predica di solito non procedeva oltre l'esordio. Del resto buono come il pane e servizievole come le cinque dita. Faceva a suo modo due ore per giorno e in quelle avrei sfidato il diavolo ad impiegarlo altrimenti; le altre ventidue potevano metterlo a spaccar legna, a piantar cavoli od anche a girar lo spiedo con1e faceva io, che non avrebbe dato segno di noia. Era in quelle occasioni il più docile Leopardo che vivesse mai. Così pure attentissimo ai proprii doveri, assiduo alle funzioni e al rosario, buon cristiano insomma come si costumava esserlo a quei tempi; e per giunta letterato ed erudito oltre ad ogni usanza de' suoi coetanei. Ma in punto a logica, ho tutte le ragioni per credere che fosse un tantino cocciuto. Merito di razza forse; ma mentre la cocciutaggine degli altri si appiattava spesso nella coscienza, e lasciava libero il resto di compiacere fin troppo, egli invece era, come si dice, mulo dentro e fuori, e avrebbe scalciato nel muso, io credo, anche al Serenissimo Doge, se questo si fosse sognato di contraddirlo nelle sue idee fisse. Operoso e veemente che era nel suo fare, spostato da quello diventava inerte e plumbeo davvero; come la ruota d'un opificio cui si tagliasse la coreggia. La sua coreggia era il convincimento, senza del quale non l'andava più innanzi d'un passo di formica; e quanto al lasciarsi convincere Leopardo aveva tutta l'arrendevolezza d'un Turco fanatico. Ma di cotanta tenacità era forse ragione bastevole 1'essersi egli maturato nella solitudine e nel silenzio: i pensieri nel suo cervello non s'insaldavano colla fragile commettitura d'un innesto ma colle mille barbe d'una radice quercina, cresciuta lentamente prima di germogliare o di dar frutto. Ora, sopra un innesto sfruttato attecchisce un altro innesto; ma le radici o non

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si spiantano, o spiantate disseccano: e Leopardo aveva la testa informata a modo che non la potea reggere sul collo che ad un magnanimo o ad un pazzo. O così o nulla. Ecco il significato formale e il motto araldico della sua indole. Leopardo visse beatamente fino a ventitré anni senza fare o soffrire interrogazioni da chicchessia. I precetti dei genitori e dei maestri collimavano cosi finitamente colle sue viste che né a lui era mestier domandare a loro, né ad essi domandar nulla a lui. Ma l'origine di tutti i guai fu la fontana di Venchieredo. Dopo che egli prese a bere l'acqua di quella fontana, cominciò da parte di suo padre il martello delle interrogazioni dei consigli e dei rimbrotti. Siccome poi tutti questi discorsi non secondavano per nulla i pensieri di Leopardo, cosi egli si diede per parte sua a ruggire ed a guardare in cagnesco. Allora, direbbe Sterne, l'influsso bestiale del suo nome prese il disopra; e se è così, al signor Antonio dovrebbe esser costata piuttosto cara la sua passione per le bestie. Mettiamo ora un po' in chiaro questo indovinello. - Tra Cordovado e Venchieredo, a un miglio dei due paesi, v'è una grande e limpida fontana 1 che ha anche voce di contenere nella sua acqua molte qualità refrigeranti e salutari. Ma la ninfa della fontana non credette fidarsi unicamente alle virtù dell'acqua per adescare i devoti e si è recinta d'un così bell'orizzonte di prati di boschi e di cielo, e d'una ombra così ospitale di ontani e di saliceti che è in verità un recesso degno del pennello di Virgilio questo ove le piacque di porre sua stanza. Sentieruoli nascosti e serpeggianti, sussurrio di rigagnoli, chine dolci e muscose, nulla le manca tutto all'intorno. È proprio lo specchio d'una maga, quell'acqua tersa cilestrina che zampillando insensibilmente da un fondo di minuta ghiaiuolina s'è alzata a raddoppiar nel suo grembo l'immagine d'una scena così pittoresca e pastorale. Son luoghi che fanno pensare agli abitatori dell'Eden prima del peccato; ed anche ci fanno pensare senza ribrezzo al peccato ora che non siamo più abitatori dell'Eden. Colà dunque intorno a quella fontana, le vaghe fanciulle di Cordovado, di Venchieredo e perfino di Teglio, di Fratta, di Morsano, di Cintello e di Bagnarola, e d'altri villaggi circonvicini, costumano adunarsi da tempo immemorabile le sere festive. fontana: « Esiste ancora la fontana di Venchieredo cd oggi ancora vi si dà convegno la gioventù dei dintorni.» (A. BERLAM, Il paesaggio nelle Confessioni e# Ippolito Nievo, in u Le vie d'Italia», dicembre 1937). J.

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E vi stanno a lungo in canti in risa in conversari in merende finché la mamma l'amante e la luna le riconducano a casa. Non ho nemmeno voluto dirvi che colle fanciulle vi concorrono anche i giovinotti, perché già era cosa da immaginarsi. Ma quello che intendo notare si è che, fatti i conti a fin d'anno, io credo ed affermo che alla fontana di Venchieredo si venga più per far all'amore che per abbeverarsi; e del resto anche, vi si beve più vino che acqua. Si sa; bisogna in questi casi obbedire più ai salsicciotti ed al prosciutto delle merende che alla superstizione dell'acqua passante. Io per me ci fui le belle volte a quella incantevole fontana; ma una volta una volta sola osai profanare colla mano il vergine cristallo della sua linfa. La caccia mi ci aveva menato, rotto dalla fatica e bruciato di sete; di più la mia fiaschetta del vin bianco non voleva più piangere. Se ci tornassi ora forse che ne berrei a larghi sorsi come per ringiovanirmi; ma il gusto idropatico della vecchiaia non mi farebbe dimenticare le allegre e turbolente ingollate del buon vino d'una volta. Or dunque, qualche anno prima di me, Leopardo Provedoni avea stretta dimestichezza colla fontana di Venchieredo. Quel sito romito calmo solitario gli si attagliava bene alla fantasia, come un abito ben fatto alla persona. Ogni suo pensiero vi trovava una corrispondenza naturale; o almeno nessuno di quei salici s'intrometteva a dire di no su quanto ei veniva pensando. Egli abbelliva, coloriva e popolava a suo modo il deserto paesaggio; e poiché, senza essere in guerra ancora con nessuno al mondo, pur si sentiva istintivamente differente da tutti, là gli pareva di vivere più felice che altrove per quella gran ragione che vi restava libero e solo. L'amicizia di Leopardo per la fontana di Venchieredo fu il primo suo / atto che non avrebbe ammesso contraddizione; il secondo fu l'amore da lui preso, più assai che per la fontana, per una bella ragazza che vi veniva sovente e nella quale egli s'incontrò soletto una bella mattina di primavera. A udirla narrare da lui come fu quella scena, mi pareva di assistere ad una lettura dell'Aminta; ma Tasso torniva i suoi versi e li leggeva poi; Leopardo si ricordava, e ricordandosi improvvisava, che a vederlo e ad ascoltarlo venivano proprio alle tempie i sudori freddi della poesia. L'era uscito di casa con un bel sole di maggio e il fucile ad armacollo, più per soddisfazione alla curiosità dei viandanti che

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per ostile minaccia ai beccaccini o alle pernici. Passo dietro passo, col capo nelle nuvole, egli si trovò in orlo al boschetto che circuisce dai due lati la fontana, e lì tese le orecchie per raccogliervi il consueto saluto d'un usignuolo. L'usignuolo infatti vegliava la sua venuta e gorgheggiò il solito trillo; ma non dal solito albero; quel giorno il suono veniva timido e sommesso da un ramo più riposto: e pareva sì ch'egli salutasse, il semplice augellino, ma un po' diffidente di quell'arnese che l'amico portava in ispalla. Leopardo porse l'occhio tra le frasche a spiare il nuovo rifugio dell'ospite armonioso, ma cercando qua e là ecco che i suoi sguardi capitarono a trovare più assai che non cercavano. - Oh perché non fui io l'innamorato della Doretta! Vecchio come sono, scriverei una tal pagina da abbacinare i lettori, e prendere d'assalto uno dei più alti seggi della poesia! Vorrei che la gioventù profilasse i disegni, il cuore vi spandesse le tinte; e che gioventù e cuore splendessero per ogni parte della pittura con tanta magia che i buoni per tenerezza e i cattivi per invidia riporrebbero il libro. Povero Leopardo! Tu solo saresti da tanto; tu che per tutta la vita portasti dipinto negli occhi e scolpito in petto quello spettacolo d'amore. Ed anche ora la vaga memoria delle tue parole mi traluce al pensiero così amorosa ed innocente che io non posso senza pianto vergar queste righe. Egli cercava adunque l'usignuolo e vide invece seduta sul margine del ruscelletto che sgorga dalla fontana una giovinetta che vi bagnava entro un piede, e coll'altro ignudo e bianco al pari d'avorio disegnava giocarellando circoli e mezze curve intorno alle tinchiuole che guizzavano a sommo d'acqua. Ella sorrideva, e batteva le mani di quando in quando allorché le veniva fatto di toccar colla punta del piede e sollevar dall'acqua alcuno di quei pesciolini. Allora la pezzuola che le sventolava scomposta sul petto s'apriva a svelar il candore delle sue spalle mezzo discinte, e le sue guancie arrossavano di piacere senza perdere lo splendore dell'innocenza. I pesciolini non ristavano perciò dal tornarle vicini dopo una breve paura; ma ella aveva in tasca il segreto di quella familiarità. Infatti poco stante tuffò cheto cheto nel ruscello anche quel piedino sollazzevole, e cavata di sotto al grembiule una mollica di pane, si diede a sfregolarne le briciole pei suoi compagni di trastullo. L'era un andare un venire un correre un guizzare un gareggiare e un rubarsi a vicenda di tutta

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quella famigliuola d'argento vivo; e la giovinetta si curvava sopra di loro come a riceverne i ringraziamenti. E poi quando l'imbandigione era più copiosa, diguazzava coi piedi sott'acqua per godere di quell'avidità spaurita un momento ma presta a rifarsi temeraria per non perdere i migliori bocconi. Questo rimescolamento più in su de' suoi piedini faceva intravvedere i dilicati contorni d'una gamba ritondetta e nervosa; e i capi della pezzuola le si scomponevano affatto sulle spalle: onde il suo petto pareva esser contenuto a fatica dalla giubberella di pannolano, tanto l'allegrezza lo rigonfiava e lo commoveva. Leopardo, di tutto orecchi ch'era prima nell'ascoltar l'usignuolo, s'era poi fatto tutt'occhi, che della metamorfosi non erasi neppur accorto. Quella giovinezza innocente semplice e lieta, quella leggiadria ignara e noncurante di sé, quell'immodestia ancor fanciullesca e che ricordava la nudità degli angeletti che scherzano nei quadri del Pordenone, 1 quei mille vezzi della persona snella e dilicata, dei capelli castano dorati e ricciutelli sulle tempia come fossero d'un bambino, del sorriso fresco e sincero fatto apposta per adornare due fila di denti lucidi piccioletti ed uniti come i grani d'un rosario di cristallo; tutto ciò, dico, si dipingeva con colori di meraviglia nelle pupille del giovine. Avrebbe dato ogni cosa che gli domandassero per essere uno di quei pesci tanto dimestici con lei; si sarebbe accontentato di rimaner là tutto il tempo di sua vita a contemplarla. Ma ~gli era piuttosto sottile di coscienza, e quei piaceri goduti di furto, anche nel rapimento dell'estasi, gli stuzzicarono entro una specie di rimorso. Si diede dunque a fischiare non so qual arietta, con quanta aggiustatezza ve lo potete immaginare voi che sapete per prova l'effetto prodotto nella voce e sulle labbra dai primissimi blandimenti dell'amore. Fischiando senza tono e senza tempo, e movendo qua e là le frasche come capitasse allora, egli giunse traballando più d'un ubbriaco sul margine della fontana. La giovinetta s'era assestata il fazzoletto intorno alle spalle, ma non avea fatto a tempo a trarre i piedi dall'acqua, e rimase un po' vergognosa un po' meravigliata di quella visita inopportuna. Leopardo era un bel giovine; di quella bellezza che è formata di avvenenza, insieme, di forza e di pace; la bellezza più grande che si possa vedere e che meglio riflette l'idea della perfezione 1. Giovanni Antonio de Sacchis, detto il Pordenone (1483-1539), pittore della scuola veneziana.

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divina. Aveva del bambino nella guardatura, del filosofo nella fronte e dell'atleta nella persona; ma la modestia del vestire affatto contadinesco moderava di molto l'imponenza di quell'aspetto. Perciò a prima giunta la fanciulla non ne fu tanto turbata come se il sopraggiunto fosse stato un signore; e più si rassicurò al levar gli occhi nel suo volto, che certo lo riconobbe e mormorò con voce quasi di contento: - Ah è il signor Leopardo! Il giovine udì quella sommessa esclamazione e per la prima volta il suo nome gli parve non abbastanza grazioso e carezzevole per albergar degnamente in labbra tanto gentili. Peraltro gli gioi il cuore d'essere conosciuto dalla fanciulla, trovandosi così avviato a stringer conoscenza con lei. - E voi chi siete, bella ragazza? - domandò egli balbettando, e guardando nell'acqua della fontana il ritratto, ché non gli bastava ancor l'animo di fisar l'originale. - Sono la Doretta del cancelliere di Venchieredo - rispose la fanciulla. - Ah lei è la signora Doretta! - sciamò Leopardo che con una doppia voglia di guardarla se ne trovò doppiamente impedito per la confusione di averla trattata alle prime con poco rispetto. La giovinetta alzò gli occhi come per significare - Sì, son proprio io quella, e non capisco perché se ne debba stupire. - Leopardo restrinse intorno al cuore tutta la riserva del suo coraggio per tornare alla carica; ma l'era così novizio lui nell'usanza delle interrogazioni, che non fu meraviglia se per la prima volta vi fece una mediocrissima figura. - N'è vero che fa molto caldo oggi? - riprese egli. - Un caldo da morire - rispose la Doretta. - Ma crede che continuerà? - domandò l'altro. - Eh, secondo i lunari! - soggiunse malignamente la fanciulla. - Lo Schieson dice di sì, e il Strolic promette di no. 1 - E lei mo cosa ne pronostica? - seguitò Leopardo andando di male in peggio. - Io per me sono indifferente!- rispose la fanciulla che cominciava a prender qualche sollazzo di quel dialogo. - Il piovano di Venchieredo fa i tridui tanto per l'arsura che per la brina, e a I. Lo Schieson era un lunario veneto d'origine trevigiana e prendeva nome dal suo autore. Lo Strolic (si pronunci duro il e), che significa astrologo, è un lunario scritto in dialetto friulano, tuttora stampato e diffuso.

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me il pregare per questa o per quella non cresce minimamente I' incommodo. - Come è vivace e piacevolel- pensò Leopardo; e questo pensiero gli distolse il cervello da quella faticosa inchiesta d'interrogazioni così ben riuscita infi.n allora. - Ha preso molto selvatico? - si decise a dimandar la Doretta vedendolo tacere e non volendo trascurare una sì peregrina occasione di trastullarsi. - Oh! - sciamò il giovine, come accorgendosi solo in quel momento di aver il fucile ad armacollo. - L'avverto che ha dimenticato a casa la pietra! - continuò la furbetta. - O sarebbe un'arma di nuovo stampo? L'archibugio di Leopardo rimontava alla prima generazione delle armi da fuoco, e converrebbe averlo veduto per capire tutta la malizia di quella finta ingenuità. - È un antico schioppo di famiglia - rispose gravemente il giovine che ci avea meditato sopra assai e ne conosceva per tradizione nascita vita e miracoli. - Esso ha combattuto in Morea col mio trisarcavolo; mio nonno ha ucciso col medesimo ventidue beccaccini in un giorno; cosa che potrebbe fin sembrare incredibile, ove si osservi che bisognano dieci buoni minuti a caricarlo, e che dopo l'accensione della polvere nel bacinetto,1 lo sparo tarda mezzo minuto ad uscire. Infatti mio padre non arrivò mai a colpirne più di dieci ed io non oltrepassai fin'ora il numero di sei. Ma i beccaccini si vengono educando alla malizia, e in quel mezzo minuto che lo sparo s'incanta, mi scappano un mezzo miglio lontano. Verrà tempo che si dovrà correr loro dietro colla spingarda. Intanto io tiro innanzi col mio schioppo; ma il male si è che la morsa2 non stringe più, e alle volte prendo la mira e scocco il grilletto, ma dopo mezzo minuto, quando lo scoppio dovrebbe avvenire, m'accorgo invece che manca la pietra. Bisognerà che lo porti a Fratta da mastro Germano perché lo raccomodi. È vero che potrei anche dire al papà che ne provvedesse un nuovo; ma son sicuro che mi risponderebbe di non mettermi a far novità in famiglia. Infatti questa è anche la mia idea. Se lo schioppo è un po' malandato dopo aver fatto le campagne di Morea ed aver ucciso ventidue beccaccini in un giorno, bisogna proprio compabacinetto: scodellino nelle arnù da fuoco ove era riposta la polvere dell'innescatura. 2. morsa: la morsa del grilletto. 1.

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tirlo. Tuttavia, dico, lo porterò a mastro Germano perché lo raccomodi. Non è vero che ho ragione io, signora Doretta? - Sì certo - rispose la fanciulla ritraendo i suoi piedi dal ruscello e asciugandoli nell'erba. - I beccaccini poi gli daranno ragione mille volte. Leopardo frattanto guardava amorosamente lo schioppo e ne puliva la canna colla manica della giacchetta. - Per ora rimedieremo così - riprese egli cavando di tasca una manata di pietre focaie e scegliendo la più acconcia per metterla nella morsa. - Vede, signora Doretta, come mi tocca munirmi contro i casi fortuiti? Devo sempre avere una saccoccia piena di pietre; ma non è colpa dello schioppo se la vecchiaia gli ha limato i denti. Si porta la fiaschetta della polvere e la stoppa e i pallini; si possono ben portare anche le pietre. - Sicuro: lei è robusto e non si sgomenta per ciò - soggiunse la Doretta. - Le pare? per quattro pietruzze? non so nemmeno d'averle - riprese il giovine riponendole in tasca.- Io poi potrei portar arico lei di gran corsa fino a Venchieredo, che non sfiaterei più della canna del mio schioppo. Ho buone gambe, ottimi polmoni, e vo e torno in una mattina dai paludi di Lugugnana. - Caspita, che precipizio l - sciamò la fanciulla. - Il signor Conte quando scende colà a caccia non ci va che a cavallo e resta fuori tre giorni. - lo poi sono più spiccio; vo e torno come un lampo. - Senza prender nulla però I - Come senza prender nulla? Le anitre per fortuna non impararono ancora la malizia dei beccaccini; e aspetterebbero il comodo del mio fucile non un mezzo minuto ma una mezz'ora. lo non vengo mai di là che colla bisaccia piena. Gli è vero che vado a cercare il selvatico dove c'è; e che non mi spavento di sprofondarmi nel palude fino alla cintola. - Misericordia I - sciamò la Doretta - e non ha paura di rimanervi seppellito? - lo non ho paura altro che dei mali che mi son toccati davvero; - rispose Leopardo - ed anco di quelli non mi prendo gran soggezione. Agli altri poi non penso nemmeno; e siccome fino ad ora non son morto mai, così non avrei la menoma paura di morire, anco se mi vedessi spianata in viso una fila di moschetti I

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Bella questa di farsi paura d'un male che non si conosce! Non ci vorrebbe altro! La Doretta, che fino allora si avea preso beffa della semplicità di quel giovane, cominciò a guardarlo con qualche rispetto. Di più Leopardo, vinto il primo ostacolo, si sentiva proprio in vena di aprire l'animo suo forse per la prima volta; e le confessioni che spontanee e sincere gli venivano alle labbra non movevano meno la sua curiosità che quella della ragazza. Egli non s'era mai impacciato a far il sindaco di se stesso; e perciò ascoltava le proprie parole come altrettante novelle molto interessanti. - La mi dica la verità; - continuò egli sedendo rimpetto alla giovane che ristette allora dal mandar gli occhi attorno in cerca dei zoccoletti - mi dica la verità, chi le ha insegnato a voler tanto bene alla fontana di Venchieredo ? Questa domanda angustiò un poco la Doretta e l'imbrogliarsi toccò allora a lei. Ciarlare e scherzare sapeva assai oltre al bisogno; ma render conto di checchessia non poteva che con un grandissimo sforzo d'attenzione e· di gravità. Tuttavia, cosa strana! appetto di quella buona pasta di Leopardo non le riusci di buttarla in ridere e la dovette rispondergli balbettando che la vicinanza della fontana al casale di suo padre l'avea adescata fin da fanciulletta a giocarvi entro; e che allora continuava perché ci prendeva gusto. - Benissimol - riprese Leopardo ch'era troppo modesto per accorgersi dell'impiccio della Doretta come era anco troppo dabbene per essersi prima accorto delle sue beffe- ma non l'avrà paura, m'immagino, di scherzare coll'acqua del ruscello! - Paura!?- disse la giovane arrossendo- non saprei il perché! - Ecco; perché sdrucciolandovi entro si potrebbe annegarerispose Leopardo. - Oh bella! non ci penso io a questi pericoli!- soggiunse la Doretta. - Ed io non penso né a questi né a nessuno - riprese il giovine fisando i suoi grandi e tranquilli occhi turchini in quelli piccioIetti e vivissimi della zitella. - Il mondo va innanzi con me, e potrebbe andare senza di me. Questo è il n1io conforto, e del resto il Signore pensa a tutto. Ma la ci viene sovente, ella, alla fontana? - Oh spessissimo; - rispose la Doretta- massime quando ho caldo.

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Leopardo pensò che come si erano incontrati quella volta potevano incontrarsi altre volte ancora; ma un tal pensiero gli parve troppo ardito e lo confinò in una lunga occhiata di desiderio e di speranza. Invece colle labbra tornò a favellare del caldo e della stagione; e diceva che per lui estate inverno e primavera era tutt'uno. Non se ne accorgeva che per le foglie che nascevano o cascavano. - lo poi amo sopratutto la primavera! - soggiunse la Doretta. - Ed anch'io lo stesso!- sciamò Leopardo. - Come? -ma per lei non è tutt'uno? - disse la fanciulla. - È vero: mi pareva ... ma ... Oggi è una così bella giornata che mi fa dar la palma a quest'età prima dell'anno. Credo poi che dicendo che per me era tutt'uno, intendessi parlare riguardo al caldo od al freddo. In quanto al piacere degli occhi, sicuro che la primavera è la prima! - C'è quel birbo di Gaetano a Venchieredo che difende sempre l'inverno- soggiunse la ragazza. - In verità quel Gaetano è proprio un birbo- ripeté l'altro. - Che? lo conosce anco lei ? - chiese Doretta. - Sì ... cioè .•. oh non è il guardiano? - balbettò Leopardo. - Mi pare, ho un'idea confusa di averlo udito nominare! - No, non è il guardiano; è il cavallante, - soggiunse la giovane- con lui c'è sempre da venir ai capelli per questa inezia. Io non voglio mai sentir a parlare dell'inverno ed egli me lo porta sempre a cielo per dispetto! - Oh io lo ridurrei a tacerei- sciamò Leopardo. - Sì? ... venga dunque una volta o l'altra- riprese Doretta levandosi in piedi ed infilando i zoccoletti. - Ma badi di recar seco una buon'a dose di pazienza perché quel Gaetano è testardo come un asino. - Verrò, verrò - soggiunse Leopardo. - Ma lei verrà ancora alla fontana, n'è vero? - Sì certo; quando me ne salta l'estro, - rispose la fanciulla - e le feste poi non manco mai insieme alle altre zitelle dei dintorni. - Le feste, le feste ... - mormorò il giovine. - Oh la ci venga, la ci venga, - gli diede sulla voce la giovine - e vedrà che bel paradiso qui tutto all'intorno. Leopardo andava dietro alla Doretta che volgeva a Venchieredo,

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come un cagnolino che tien dietro al padrone anche dopo esserne stato cacciato. La Doretta si volgeva di tratto in tratto a guardarlo sorridendogli: egli sorrideva anche lui, ma il cuore gli scappava troppo innanzi perché non si sentisse tremar sotto le gambe; e finalmente quando fu al cancello del casale: - A rivederlo, signor Leopardo! - gli disse la giovinetta alla lontana. - A rivederla, signora Doretta!- rispose il giovine con un'occhiata così lunga ed immobile che parve le volesse mandar dietro l'anima; e si sbassò, arrossendo, a raccogliere alcuni fiori ch'ella aveva perduti, credo, col suo buon fine di malizia. Poi quando il pergolato delle viti frondose gli tolse di scemere il corpicciuolo svelto e grazioso della Doretta che s'affrettava verso il castello, allora quell'occhiata ricascò a terra cosi grave così profonda che parve vi si volesse seppellire in eterno. Indi a un buon tratto la risollevò faticosamente con un sospiro, e riprese verso casa, pieno il capo se non di nuovi pensieri certo di novissime e strane fantasticherie. Quei pochi fiorellini se li pose sul cuore, e non li abband~nò mai più. Leopardo s'era innamorato di quella giovine, ecco tutto. Ma come e perché se n'era innamorato? Il come fu certamente col guardarla e coll'ascoltarla; il perché, nessuno lo saprà mai; come non si saprà mai perché a taluno piaccia il color aierino, 1 ad altri lo scarlatto e il giallo d'arancio. Di belle come la Doretta e di belle tre volte tanto, egli ne avea vedute a Cordovado a Fossalta e a Portogruaro; giacché la figlia del cancelliere di Venchieredo era assai più vispa che perfetta; e pure non s'era invaghito di quelle, benché avesse grande comodità di starsene e di conversar con loro, s'era invece cotto di questa alla prima occhiata alla prima parola. Forse che l'usanza e la conversazione tolgono piucché non aggiungano forza d'incanto ai pregi femminili?- Io non dico ciò; farei troppo grave torto alle donne. Fra esse ve n'hanno che non colpiscono alla prima; ma avvicinate poi con lunga abitudine riscaldano appoco appoco, e mettono un tal incendio nei cuori che più non s'estingue. Altre ne sono che abbruciano al solo vederle, e spesso poi della fiamma così destata non riman che la cenere. Ma come vi sono uomini di paglia che 1.

aierino: dell'aria.

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anche scaldati lentamente finiscono in nulla; così si trovano cuori di ferro che arroventati d'un subito non raffreddano più. L'amore è una legge universale che ha tanti diversi corollari, quante sono le anime che soggiacciono a lui. Per dettarne praticamente un trattato completo converrebbe formare una biblioteca nella quale ogni uomo ed ogni donna depositasse un volume delle proprie osservazioni. Si leggerebbero le cose più magnanime e le più vili, le più celesti e le più bestiali che possa immaginare fantasia di romanziero. Ma il difficile sarebbe che cotali scritture obbedissero al primo impulso della sincerità; poiché molti entrano nell'amore con un buon sistema preconcetto in capo, e vogliono secondo esso, non secondo la forza dei sentimenti, spiegare le proprie azioni. Da ciò deriva l'abuso di quella terribile parola sempre, che si fa con tanta leggerezza nei colloqui e nella promesse amorose. Moltissimi credono, e a buon dritto, che l'amore eterno e fedele sia il migliore; e perciò solo s'appigliano a quello. Ma per radicarsi stabilmente nel petto un gran sentimento, non basta saperlo e crederlo ottimo, bisogna sentirsene capaci. I più, se ponessero mente a ciò, non porgerebbero nei fatti loro tante buone ragioni di calunniare la saldezza e veracità degli umani propositi. Gli è come se io scrittorello di ciance pensassi: « Ecco che il sommo vertice dell'umana sapienza è la filosofia metafisica; io dunque sono filosofo come Platone, e metafisico al pari di Kant. » In vero bel ragionamento e proprio da schiaffi!- Ma l'arroganza che non si permetterebbe ad alcuno negli ordini intellettuali, la permettiamo poi molto facilmente a noi ntedesimi nella stima dei sentimenti nostri; benché la paia ancor meno ragionevole perché il sentimento più che l'intelletto sfugge al predominio della volontà. Nessuno oserebbe uguagliarsi a Dante nell'altezza della mente; tutti nell'altezza dell'amore. Ma l'amore di Dante fu anche più raro che il suo genio; e pazzi sono gli uomini a stimarlo facile a tutti. La grandezza vera dell'anima non è più comune della grandezza vera dell'ingegno; e per sentire e nutrire l'amore nel1' esser suo più sublime bisogna staccarsi dalla fralezza umana più che non se ne stacchi la mente d'un poeta nelle sue più alte immaginazioni. Cessate, cessate una volta, o pigmei, dall'uguagliarvi ai giganti, e applicate l'animo alla favola della rana e del buel Che serve adulare noi stessi, e l'umana natura, per accrescere le stesse sciagure col disdoro della falsità e coi rimorsi del tradi-

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mento? Meglio sarebbe picchiarsi il petto e arrossire; anziché alzar la mano a imprudenti giuramenti. Giurare si lasci a chi frugò se medesimo e si conobbe atto a mantenere, senzaché a costoro giurare diventa superfluo. Quanto a quelli che promettono e giurano col fermo intento di gabbare, son troppo frivoli o malvagi perché vi debba spender dietro una parola. Se è ridicolo in un matto il farla da santo, sarebbe sacrilegio in un tristo. Io poi ne ho conosciuti altri che scambiavano per virtù e sentimenti proprii la forza e l'ardore momentaneo instillato in loro dal contatto di qualche anima infervorata. Credono essi, come quel ragazzo, che la luna sia cascata nel pozzo perché ne veggono entro l'acqua l'immagine. Ma la luna tramonta, e l'immagine sparisce. Allora essi si sbracciano per restare incaloriti come prima erano, e sbruffano e sospirano con perfetta buona fede. Quell'anima infervorata guarda compassionando all'inutile fatica, e l'amore misto di pietà di sfiducia di memoria e di sprezzo diventa martirio. È inutile tentarlo: il cielo non si scala coi superlativi, e la volontà non basta a tener accesa una lucerna cui vien mancando l'olio. Le anime piccole debbono diffidare di sé, e più delle proprie passioni quanto sono più intense; in esse l'amor tiepido può durare a lungo fausto a sé e ad altrui; l'amor veemente è una meteora è un lampo che più infelicità produce quanto maggiori speranze avea suscitato. Ma la infelicità così prodotta è tutta per gli altri, giacché i frivoli non son tali da sentirla. Per questo non si danno eglino cura alcuna di schivar le occasioni ond'essa deriva; e da ultimo si oppone a ciò la estrema difficoltà di obbedire quell'antico precetto: Conosci te stesso I - Chi osa confessare od anche solo creder sé piccolo di cuore? Bisogna in verità uscire con un salto da questi ragionamenti che sono un perpetuo laberinto di circoli viziosi, e dai quali null'altro è messo in chiaro, senonché per le indoli forti e superiori sono più numerose e fatali le occasioni di sventure pei disinganni e le miserie preparate loro dalla vana fiducia degli inferiori. Pieghiamo sì il capo adorando dinanzi a questi misteri dai quali rifugge il sentimento della giustizia. Ma pensiamo che dentro di noi la giustizia ha un altare senza misteri. La coscienza ci assicura che meglio è la generosità colla miseria che la dappocaggine colla contentezza. Soffriamo adunque, ma . amiamo. La Doretta di Venchieredo non sembrava certamente fatta per IO

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appagare l'animo grave caloroso e concentrato di Leopardo. Tuttavia fu essa la prima che comandò al suo cuore di vivere e di vivere tutto e sempre per essa. Altro mistero non meno oscuro né doloroso degli altri. Perché chi meglio di lei poteva appagarlo non mosse invece nell'animo di lui alcuno di quei desiderii che compongono o menano all'amore? Sarebbe forse così fatto l'ordine morale, che i simili vi si fuggissero e i contrari vi si cercassero a vicenda? Nemmen questo può affermarsi pei molti esempi che vi si oppongono. Solo si può sospettare che se le cose materiali vaganti confusamente nello spazio soggiacquero da molti secoli ad una forza ordinatrice, il mondo spirituale ed interno aspetti forse ancora nello stato di caos la virtù che lo incardini. Intanto è un contrasto di sentimenti di forze di giudizi; un'accozzaglia informe e tumultuosa di passioni, di assopimenti, e d'imposture; un sobbollimento di viltà, di ardimenti, di opere magnanime, e di lordure; un vero caos di spiriti non bene sviluppati ancora dalla materia, e di materia premente a sbaraglio sugli spiriti. Tutto si agita, si move, si cangia; ma torno ancora a ripeterlo, il nocciuolo dell'ordine futuro si è già composto, e ad ogni giorno agglomera intorno a sé nuovi elementi, come quelle nebulose che aggirandosi ingrandiscono, spesseggiano e diminuiscono densità e confusione all'atmosfera atomistica che le circonda. Quanti secoli bisognarono a quella nebulosa per crescere da atomo a stella? Ve lo dicano gli astronomi. Quanti secoli ci vollero al sentimento umano per concertarsi in coscienza? Lo dicano gli antropologi. - Ma come quella stella matura forse agli ultimi e scomposti confini dell'universo un altro sistema solare, così la coscienza promette al disordine interno dei sentimenti un'armonia stabile e veramente morale. Vi sono spazii di tempo che si confondono coll'eternità nel pensiero d'un uomo: ma ciò che si toglie al pensiero non è vietato alla speranza. L'Umanità è uno spirito che può sperar lungamente, e aspettar con pazienza. Ma anche il povero Leopardo, benché non avesse dinanzi la vita dei secoli, dovette aspettar con pazienza primaché la Doretta mostrasse accorgersi delle sue premure e sapergliene grado. La vanità, io credo, fu quella che la persuase. Prima di tutto Leopardo era bello; poi era uno dei più agiati partiti del territorio, e infine le dava tante prove di amore quasi devoto che sarebbe stata vera sciocchezza il non approfittarne. Del resto se egli la divertiva assai

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volte colla sua semplicità, la ammaliava anche sovente con quel suo fare di animo valoroso e sereno. La si era accorta che mite e tollerante colle donne anche quando si prendevano giuoco di lui, non lo era poi niente affatto verso ai giovinastri Il intorno. Una sua occhiata bastava a far loro calare le ali, e a lei non era piccola gloria l'aver pronto a' suoi cenni chi tanto facilmente frenava la caparbietà degli altri. La Doretta adunque si lasciò trovare sempre più spesso alla fontana; s'intrattenne sempre più amichevolmente con essolui nelle ragunanze festive, e dall'accogliere le sue cortesie al ricambiarle, il tratto fu si abbastanza lungo, ma dàlli e dàlli ne vennero a capo. Allora Leopardo non si accontentò più di vederla il mattino quando capitava, o le feste in mezzo alla baraonda della sagra, ma tutte le sere andava a Venchieredo e là o passeggiando nel casale o sulla scaletta della cancelleria, s'intratteneva con lei fino all'ora di cena. Allora la salutava più col cuore che colle labbra, e tornavasene a Cordovado fischiando con miglior sicurezza la solita arietta. Così si aveano composto fra loro la vita i due giovani. Quanto ai vecchi era un altro conto. L'illustrissimo dottor Natalino cancelliere di Venchieredo lasciava correre la cosa, perché ce ne avea veduti tanti dei mosconi intorno alla sua Doretta che uno di più uno di meno non lo sgomentiva per nulla. Il signor Antonio poi, non appena se ne accorse, cominciò a torcer il naso e a dare cento altri segni di pessimo umore. Era egli di ceppo paesano e di pasta paesana affatto; né gli potea garbare quel veder suo figlio bazzicare con gente d'altra sfera. Cominciò dunque dal torcer il naso, manovra che lasciò affatto tranquillo Leopardo; ma vedendo che non bastava, si diede a star con lui sul tirato, a tenergli il broncio, e a parlargli con un certo sussiego che voleva dire; non son contento di te. Leopardo era contentissimo di se stesso, e credeva dar esempio di cristiana pazienza col sopportare la burbanza di suo padre. Quando poi questi venne, come si dice, a romper il ghiaccio, e a spiattellargli netta e tonda la causa del suo naso torto, allora egli si credette obbligato a spiattellargli netta e tonda di rimando la sua incrollabile volontà di seguitar a fare come avea fatto in fin allora. - Come? tu, vergognoso, seguiterai a grogiolare dietro quei begli abitini? E che cosa ne diranno in paese? E non t'accorgi che i buli di Venchieredo si prendono beffa di te? E come credi che andrà a finire questo bel giuoco? E non temi che

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il castellano una volta o l'altra ti faccia cacciare dai suoi servitori? E vorresti forse mettermi in mal sangue con quel signore che sai già quanto sia schizzinoso? ... - Con queste e simili interrogazioni il prudente uomo di Comune andava tentando e bersagliando l'animo del suo Assalonne; 1 ma questi se ne imbeveva2 di cotali ciancie, com'ei le chiamava; e rispondeva che era pur un uomo come gli altri, e che se voleva bene alla Doretta non era certo per ridere o per piantarla lì al motteggio del primo capitato. Il signor Antonio -alzava la voce, Leopardo alzava le spalle, e ognuno rimaneva della propria opinione; anzi io credo che questi diverbi stuzzicassero non poco l'animo già abbastanza incalorito del giovine. Peraltro indi a poco si venne a capire che il vecchio scrupoloso poteva non aver torto. Se la Doretta faceva sempre al suo damo le belle accoglienze, tutti gli altri abitanti di Venchieredo non si mostravano dell'ugual parere. Fra gli altri quel Gaetano, che capitanava i buli del castellano e vantava forse qualche vecchia pretesa sulla zitella, non poteva proprio digerire il bel giovine di Cordovado e le sue visite giornaliere. Si cominciò cogli scherzi, si venne poi agli alterchi e finirono una volta col misurarsi qualche pugno. Ma Leopardo era cosi calmo così deliberato che toccò al buio il voltar via colla coda bassa; e questa sconfitta sofferta sul pubblico piazzale non cooperò certo a fargli smettere la sua inimicizia. S'aggiunga che la Doretta, più vanagloriosa di sé che innamorata di Leopardo, godeva di quella guerra che le si accendeva intorno, e nulla certo faceva per sedarla. Gaetano soffiò tanto alle orecchie del suo padrone, e della petulanza del giovine Provedoni, e della sua poca reverenza alle persone d'alto grado e in particolare al signor giurisdicente, che questi finalmente dovette accontentarlo col guardar Leopardo con occhio più bieco assai che non guardasse la comune della gente. Quella guardatura voleva dire: « Statemi fuor dai piedi!», e la intendevano tanto per dieci miglia all'intorno, che un'occhiata bieca del castellano di Venchieredo equivaleva ad una sentenza di bando almeno per due mesi. Leopardo invece fu guardato, guardò, e proseguì tran1. Assalonne: bellissimo figlio di David, ma alla perfezione del corpo non corrispondeva la perfezione dell'anima, e Assalonne mori di morte violenta, ribelle al padre. a. se ne imbeveva: non dava importanza, se ne infischiava.

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quillamente nel suo mestiero. Gaetano non chiedeva di più; e sapeva benissimo che quella tacita sfida avrebbe contato per cento delitti nell'opinione del prepotente castellano. Infatti costui si stizzì assaissimo di veder Leopardo far così basso conto delle sue occhiate; e dopo averlo incontrato due tre e quattro volte nel cortile del castello, una volta lo fermò colla voce per dirgli risentitamente che egli si stava troppo in ozio e che quel tanto passeggiare da Cordovado a Venchieredo potea dargli il male delle reni. Leopardo s'inchinò, e non comprese o finse di non comprendere; ma seguitò a passeggiare come prima senza paura di ammalarne. Il signore principiò allora, come si dice, ad averlo proprio sulle corna, e vedendo di non cavarne nulla colle mezze misure, un bel dopopranzo lo fece chiamare a sé e gli cantò chiaramente che egli il suo castello non lo teneva per comodo dei signorini di Cordovado, e che, se andava in amore, cercasse guarirsene con altre donzelle che con quelle di Venchieredo; se poi volesse arrischiar le spalle a qualche buona untata; capitasse la sera alla solita tresca e sarebbe servito a piacere. Leopardo si inchinò anche allora, e non rispose verbo; ma la sera stessa non mancò di andare dalla Doretta la quale, bisogna pur dirlo, superba di vederlo sfidare per lei una tanta burrasca, ne lo ricompensò con doppia tenerezza. Gaetano fremeva, il signorotto guardava bieco perfino i suoi cani, e tutto dava indizio che tramassero fra loro qualche brutto tiro. Infatti una bella notte (quella stessa in cui io ricevetti la visita notturna della Pisana, dopo esser tornato a Fratta in groppa al cavallo dello sconosciuto), 1 mentre Leopardo si partiva dalla sua bella e scavalcava la siepe del casale per tornare a Cordovado, tre omacci scellerati gli si buttarono addosso coi manichi dei coltelli e cominciarono a dargli contro a tradimento che egli sopraffatto dall'improvviso assalto ne andò rotolone per terra e stava assai a mal partito. Ma in quel momento un'anima negra e disperata saltò fuori dalla siepe e cominciò a martellar col calcio del fucile i tre sicari e a pestarli tanto, che toccò ad essi difendersi, e Leopardo, riavutosi dalla prima sorpresa, si mise a tempestare a sua volta. 1. sconosciuto. Il manoscritto (1, 71 verso) ha: di quel barbone sconosciuto, corretto successivamente in: dello barbone sconosciuto. Penso che il Nievo, concordata la preposizione articolata con l'aggettivo sostantivato, abbia dimenticato poi di cancellare barbone.

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- Ah canil ve la darò iol- gridava quel nuovo arrivato inseguendo i tre manigoldi che correvano verso il ponte del castello. Ma costoro, schivati i colpi dei due indemoniati, correvano tanto leggieri che non venne lor fatto di raggiungerli che proprio sulla porta. Per fortuna che questa era serrata, onde, per quanto gridassero di aprire di aprir subito, ebbero commodamente il tempo di buscar qualche cosa. Appena però il guardiano ebbe socchiuso lo sportello vi si precipitarono entro che sembravano fuggiti alle mani del diavolo. - Va làl t'ho conosciuto!- disse allora volgendosi un di coloro che era proprio Gaetano. - Sei lo Spaccafumo, e me la pagherai salata questa soperchieria, di volerti immischiare in ciò che non t'appartiene. - Sì, sì, sono lo Spaccafumo! - urlò l'altro di fuori. - E non ho paura né di te, né del tuo malnato padrone, né di mille che ti somiglino I - Avete udito, avete udito!- riprese Gaetano mentre si rinchiudeva la porta a gran catenacci. - Come è vero Dio che il padrone lo farà impiccare I - Si, ma prima io appiccherò tel - gli gridò di rimando lo Spaccafumo allontanandosi con Leopardo che a malincuore si partiva da quella porta serratagli in faccia. E poi il contrabbandiere tornò dietro la siepe, vi tolse il suo puledro, e volle scortare il giovine fino a Cordovado. - Oh com'è che sei capitato così in buon punto? - gli chiese Leopardo che avea più vergogna che piacere di dovere all'altrui soccorso la propria salute. - Oh bella! io avea già avuto sentore di quello che doveva succedere, e stava Il alla postai - riprese lo Spaccafumo. - Birbanti! manigoldi! traditoril- imprecava sbuffando il giovane. - Zitto I è il loro mestiero - riprese lo Spaccafumo. - Parliamo d'altro se ti piace. Oh che ti pare di vedermi oggi cavaliero? Saprai che da poco in qua ho deciso di dar riposo alle mie gambe che non son più tanto giovani, e mi valgo per turno dei puledri di razza che pascolano in laguna. Oggi toccava questo; e son venuto di sotto a Lugugnana a qui in meno di un'ora ed anco ho portato in groppa fino a Fratta un ragazzetto che si era smarrito nel palude.

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- IVI i dirai poi come hai saputo la trama - lo interruppe Leopardo che ruminava sempre il brutto gioco che gli era toccato. - Anzi non ti dirò nulla; - rispose lo Spaccafumo - ed ora che sei all'uscio di tua casa ti saluto di cuore e ci rivedremo presto. - Come ? non entri, non dormi in casa nostra? - No, no, non ci fa buon'aria qui pei miei polmoni. In ciò dire lo Spaccafumo col suo cavallo era già lunge ed io non vi saprei dire dove esso abbia passata quella nottata. Certo al mezzogiorno del dì appresso egli fu veduto entrare presso il cappellano di Fratta, che era il suo padre spirituale, e si diceva che lo accogliesse con molto rispetto per la gran paura che ne aveva. Ma più tardi capitarono a Fratta a chieder di lui quattro sgherani di Venchieredo; e saputo che l'era presso il Cappellano andarono franchi alla canonica. Picchia, ripicchia, chiama e richiama, finalmente il Cappellano tutto sonnacchioso venne ad aprire facendo il gnorri e domandando cosa chied~ssero. - Ah cosa chiediamo!- rispose furiosamente Gaetano lanciandosi verso la campagna che s'apriva dietro alla canonica e nella quale si vedeva un uomo a cavallo che se la batteva di gran galoppo. - Eccolo chi cerchiamo! Venite, venite voi altri! Il signor Cappellano ce la pagherà in seguito! Il povero prete cascò sopra una seggiola sfinito dallo spavento e i quattro buli si diedero a correr traverso i solchi sperando che le piantate ed i fossi rallentassero la corsa del fuggitivo. Ma la gente era d'avviso che se lo Spaccafumo non si lasciava prendere correndo a piedi, meno che meno poi questa disgrazia gli sarebbe avvenuta allora che fuggiva a cavallo. I signori buli ci avrebbero rimesso il fiato per nulla. Queste cose si sapevano già nel castello di Fratta e se ne discorreva come di gravi e misteriosi avvenimenti, quando ci tornammo noi tre, la Pisana, il figliuolo dello speziale, ed io. Il Conte ed il Cancelliere correvano su e giù in cerca del Capitano e di Marchetto; Fulgenzio era volato al campanile e sonava a stormo come se il fienile avesse preso fuoco; monsignor Orlando sfregolandosi gli occhi domandava cos'era stato, e la Conte~sa si affaccendava nell'ordinare che si sbarrassero porte e finestre e si ponesse insomma la fortezza in istato di difesa. Quando Dio volle il Capitano ebbe in pronto tre uomini i quali con due moschetti ed un trombone si schierarono nel cortile ad aspettar gli ordini di Sua Ec-

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cellenza. Sua Eccellenza comandò andassero in piazza a vedere se la quiete non era turbata, e a prestar man forte alle altre autorità contro tutti i malviventi, ed in ispecialità contro il nominato Spaccafumo. Germano calò brontolando il ponte levatoio, e la prode soldatesca uscì in campagna. Ma lo Spaccafumo non avea voglia per nulla di farsi vedere in quel giorno sulla piazza di Fratta; e per quanto il Capitano mostrasse il brutto muso e s'arricciasse i baffi sull'uscio dell'osteria, nessuno gli capitò innanzi che osasse sfidare un sì minaccioso cipiglio. Fu un gran vanto pel Capitano; e quando i buli di Venchieredo tornarono verse sera dalla loro inutile caccia, sfiancati e trafelati come cani da corsa, egli non mancò di menarne scalpore. Gaetano gli sghignazzò sul muso con pochissima creanza; tantoché le tre Cernide di Fratta ne pigliarono sgomento e s'intanarono nell'osteria piantando il loro caporione. Ma costui era uomo di spada e di toga; per cui non gli riuscì difficile schermirsi pulitamente dalle beffe di Gaetano: e finse di sapere allora soltanto che lo Spaccafumo se l'avesse battuta a cavallo traverso i campi. A udirlo lui, egli aspettava che quel disgraziato sbucasse di momento in momento dal suo nascondiglio, e allora gliel'avrebbe fatto pagar salato lo sfregio recato all'autorità del nobile giurisdicente di Venchieredo. Gaetano a codeste smargiassate rispose che il suo padrone era piucché capace di farsi pagare da sé: e che del resto dicessero al Cappellano che per la nottata dello Spaccafumo essi avrebbero pensato a saldare lo scotto. In quel dopopranzo nessuno pensò di moversi dal castello; e io e la Pisana passammo un'assai brutta e noiosa giornata litigando nel cortile coi figliuoli di Fulgenzio e del fattore. La sera poi, ad ogni visita che capitava, Germano dalla sua camera dava la voce; e solamente quando avevano risposto di fuori, egli abbassava il ponte levatoio perché avanzassero. Le catene rugginose stridevano sulle carrucole quasi pel rammarico di esser rimesse al lavoro dopo tanti anni di tranquillissimo ozio; e nessuno passava sullo sconnesso tavolato senza mandar prima un'occhiata di poca fede alle fessure che lo trapanavano. Lucilio ed il Partistagno si fermarono quella sera al castello più tardi del solito; e non ci volle meno delle loro risate per metter in calma i nervi della Contessa la quale per quella inimicizia tra lo Spaccafumo e il Conte di Venchieredo vedeva già in fiamme tutta la giurisdizione di Fratta. Il giorno dopo, che era domenica, furono ben altre novità in

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paese. Alle sette e mezza, quando la gente tornava dalla prima messa di Teglio, s'udi un grande scalpito di cavalli: e poco stante il signore di Venchieredo con tre de' suoi buli comparve sul piazzale. L'era un uomo rosso, ben tarchiato, di mezza età; nei cui occhi non si sapea bene se prevalessero la furberia o la ferocia; superbo poi ed arrogante più di tutto, e questo lo si indovinava dal portamento e dalla voce. Fermò il cavallo di pianta, e chiese con malgarbo ove abitasse il reverendo cappellano di Fratta: gli fu additata la canonica, ed egli vi entrò con piglio da padrone dopo aver affidato il palafreno al Gaetano che gli veniva alle coste. Il Cappellano aveva finito poco prima di farsi la barba; e stava allora in balìa della fantesca che gli radeva la chierica. La cucina era il loro laboratorio; e il pretucolo, riavuto un poco dalla paura del giorno prima, scherzava colla Giustina raccomandandole di tondergli bene il cucuzzolo, non come all'ultima festa, che tutta la chiesa crasi messa a ridere quand'egli s'avea tolto di capo la berretta quadrata. La Giustina dal suo lato ci adoperava tanto studio che non le rimaneva tempo da rispondere a quei motteggi; ma tondi di qua e radi di là, la chierica s'allargava come una macchia d'olio su quella povera testa da prete; e benché egli le avesse dato il precetto di non tenerla più grande d'un mezzo ducato, oggimai non v' avea più moneta di zecca che bastasse a coprirla. - Ah Giustina! Giustina!- sospirava il Cappellano, palpandosi della mano i limiti della nuova tonsura - mi pare che siamo andati un po' vicini a quest'orecchio. - Non la ne dubiti! - rispondeva la Giustina che era una dabbene e maldestra contadinaccia sui trent'anni, sebbene ne dimostrava quarantacinque. - Se siamo vicini a quest'orecchio andremo poco lontani anche dall'altrol - Cospetto! mi vorresti pelar tutto come un frate!- sciamò il paziente. - Eh no, che io non l'ho mai pelato I - soggiunse la fantesca - e non lo pelerò neppur oggi. - No, no ti dico ..• lascia stare, bastai - Tutt'altro •.. mi lasci finire ... stia zitto, non si mova per un momento. - Eh giàl voi altre donne siete il diavolo!- mormorò il Cappellano - quando si tratta di andar innanzi a modo, ci persuadereste anche a lasciarci tosare ...

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Chi sa cosa avrebbe aggiunto a quel verbo tosare; ma s'interruppe udendo sulla porta un sussurro come di speroni. Balzò allora in piedi, respinse la Giustina, si tolse dal collo lo sciugamani, e rivolgendosi tutto in un punto, si trovò faccia a faccia col signore di Venchieredo. Che viso che occhi che figura facesse allora il povero prete, voi lo potete immaginarci Rimase in quella malferma posizione di curiosità di paura di stupore nella quale lo avea colto il minaccioso apparimento del castellano; il mantino 1 gli cascò per terra, e tra le falde del giubbone e le coscie faceva colle mani un certo armeggio che voleva dire: - Siamo proprio fritti! - Oh Cappellano amatissimo! come va la salute? - cominciò il feudatario. - Ehi ... non saprei ..• anzi ... s'accomodi ... il piacer è il mio - balbettò il prete. . - Non pare che sia un gran piacere- prosegui il castellano. - Ella ha il viso più sparuto del suo collare, reverendo. O forse, - continuò volgendo un'occhiata beffarda alla Giustina - son io venuto a distrarlo da qualche sua occupazione canonica? - Oh, si figuri!- bisbigliò il Cappellano- io mi occupo ... Giustina, metti su dunque l'acqua pel caffè; oppure la cioccolata? Vuole la cioccolata, signor Conte? ... Eccellenza? - Andate a curare i polli, ché ho da parlar da solo al reverendo - ripigliò il castellano rivolto alla Giustina. Costei non se lo fece dire due volte e sguisciò nel cortile tenendo ancora in mano il rasoio. Egli allora s'accostb al Cappellano, e presolo per un braccio, lo trasse fin sotto il focolare, ove senza pur pensarvi l'abate si trovò seduto sopra una panca. - Ed ora a noi - prosegui il castellano, sedendogli rimpetto. - Già una fiammata appena alzati non guasta la pelle neppur d'estate, dicono. Mi dica in coscienza, reverendo! Fa ella il prete o il contrabbandiere? Il poveretto ebbe un brivido per tutta la persona, e gli si torse talmente il grugno, che per quanto si racconciasse il collare e si grattasse le labbra, non gli venne più fatto di rimetterlo in sesto per tutto il dialogo susseguente. - Son due mestieri ambidue e non faccio confronti - andò 1.

montino: asciugamani.

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innanzi l'altro. - Domando solamente per mia regola quale ella intende esercitare. Pei preti ci sono le elemosine, i capponi e le decime: pei contrabbandieri le fucilate, le prigioni, e la corda. Del resto ognuno è libero della scelta; e nel caso io non dico che avrei fatto il prete. Solamente mi pare che i canoni debbano proibire il far un cumulo di queste due professioni. E lei cosa ne dice, reverendo? - Si, signore . . . Eccellenza . . . son proprio del suo parere! balbettò il prete. - Or dunque mi risponda a tono, - riprese il Venchieredo fa ella il prete o il contrabbandiere ? - Eccellenza .•• ella ha voglia di scherzare I - Di scherzare io? Si figuri, reverendo! ... Mi sono alzato all'alba; e quando ciò mi succede, non è già per voglia di scherzare! ..• Vengo a dirle netto e tondo che se il signor Conte di Fratta non è capace di tutelare gl'interessi della Serenissima, ci son qua io poco lontano, che me ne sento in grado. Ella accoglie in casa sua contrabbandi e contrabbandieri ... No, no, reverendo I••• non serve il diniegare col capo ... Ci abbiamo anche i testimoni, e all'uopo si potrà citarlo in giudizio, o andare intesi colla Curia. - Misericordia! - sciamò il Cappellano. - Or dunque, - proseguì il feudatario - siccome non mi garba per nulla a me la vicinanza di cotali combriccole, sarei a pregarla di cambiar aria a suo talento, prima che si possa essere indotti a fargliela cambiare per forza. - Cambiar aria? Cosa vuol dire? ... cambiar aria io? come? si spieghi Eccellenzal - Ecco, voglio dire, che se la potesse ottenere una prebenda in montagna, la mi userebbe una vera finezza! - In montagna? - continuò sempre più stupefatto il Cappellano. - Io in montagna? Ma non è possibile, Eccellenza I lo non so nemmeno dove sieno le montagne! - Eccole là- soggiunse il signore accennando fuori della finestra. Ma il castellano avea fatto i conti senza valutar la timidità eccessiva del prete. In alcuni esseri rozzi semplici modesti ma interi e primitivi, la timidità tien luogo alle volte di coraggio; e allora al Cappellano quel dover incominciare una vita nuova in paese nuovo con gente a lui sconosciuta, sembrò una fatica più

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grave e formidabile di quella di morire. Era nato a Fratta, lì aveva le sue radici e sentiva che a sbarbicarlo di quel paese lo si avrebbe addirittura ammazzato. - No, Eccellenza- rispose egli con intonazione più sicura che non avesse mai avuto per lo addietro. - Bisogna ch'io muoia a Fratta come vi sono vissuto; e quanto alla montagna se mi vi manderanno, dubito di giungervi vivo. - Or bene; - riprese alzandosi il tirannello - La vi arriverà morto; ma o in un modo o nell'altro io l'assicuro che il manutengolo dello Spaccafumo non resterà cappellano a Fratta. Questo le serva di regola. Ciò dicendo il nobile personaggio diede una grande scrollata di sproni sullo scalino del focolare, e uscì dalla canonica seguitato a capo basso dal prete. Costui gli fece un ultimo inchino quando lo vide salire a cavallo, e poi tornò dentro a sfogarsi colla Giustina che aveva origliato tutti i loro discorsi dietro la porta del cortile. - Oh, no, no che non la ficcheranno in montagna!- piagnucolava la donna. - È certo che gli capiterebbe male di andar tanto lontano! .•. E poi non sono qui le sue anime? ..• E cosa risponderebbe poi al Signore quando gli toccherà rendergliene conto? ... - Fatti in là con quel rasoio, figliuola mia! - le rispose il prete- e sta' pur quieta che in montagna non vi andrò di sicuro I ... Mi metteranno in berlina, ma in un'altra canonica no per certol ... Figurati se nella tenera età di quarant'anni voglio trovarmi fra musi tutti nuovi, e ricominciar daccapo quello stento che provai a venir su da bambino fino ad ora! ... No, no, Giustina! ... L'ho detto e lo ripeto, che io morirò a Fratta; e contuttociò è una gran croce questa che mi piomba ora sul collo; ma bisognerà portarla in santa pace. Uffl ... quel signor giurisdicentel ... Che brutto grugno mi faceva! ... Ma tant'è, piuttosto di movermi sopporterò anche questo; e se mi giuocherà qualche brutto tiro, meno male! .•. Meglio esser alle prese coi suoi buli che con altri! ..• Almeno li conosco, e ne prenderò minor soggezione nel farmi bastonare. - Oh cosa dice mail- soggiunse la fantesca.- I buli anzi avranno soggezione di lei. Oh che, le pare, che un prete sia un capo di chiodo ?

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- Poco più, poco più, figliuola mia, ai tempi che corronol ... Ma . . I.. . c1 vuo1 pazienza. In quella entrò il sagrestano ad avvertire che tutta la gente aspettava per la messa; e il poveruomo risovvenendosi di aver tardato anche troppo, corse fuori per celebrar le funzioni colla chierica mezzo fatta. - Indarno la Giustina gli tenne dietro col rasoio in mano fino sulla piazza : la chierica irregolare del Cappellano e la visita del signore di Venchieredo, aggiungendosi alle vicende del giorno prima, diedero materia ai più strani commenti. Il giorno dopo capitò al Conte di Fratta un gran letterone del signore di Venchieredo, nel quale costui senza tanti preamboli pregava il suo illustre collega di dar lo sfratto al Cappellano nel più breve spazio di tempo possibile, accusandolo di mille birberie, fra le altre di dar mano a frodare le gabelle della Serenissima tenendo il sacco ai contrabbandieri più arrisicati della laguna. « E quanto un tal delitto sia inviso ali' Eccellentissima Signoria (cosi diceva la lettera), e quanto grande il merito di coloro che si affrettano a punirlo, e quanto capitale il pericolo degli sconsigliati che per mire private lo lasciano impunito, Ella, Illustrissimo Signor Giurisdicente, lo defJe sapere al pari di chiunque. Gli statuti ed i proclami degli Inquisitori parlano chiaro; e ne pu/J andar di mezzo la testa, perché i denari sono come il sangue dello Stato, ed è reo di Stato colui che colla sua negli"gen:za cospira a dissanguarlo di questo fJeTO fluido 'Vitale.» Come si vede, il castellano avea trovato la vera strada; e infatti il Conte di Fratta, al sentirsi legger dal Cancelliere questa antifona, si dimenò tanto sul seggiolone che ne restò un pochino offesa la sua solita maestà. Si vollero tener secrete le pratiche in proposito; ma la chiamata del Cappellano, la visita ricevuta da costui la mattina antecedente, il suo smarrimento, le sue chiacchiere colla Giustina diedero contezza in paese dell'avvenuto e ne successe un vero tafferuglio. Il Cappellano era amato da tutti come un buon compare; più anche, la popolazione di Fratta, avvezza al governo patriarcale e venezianesco de' suoi giurisdicenti, aveva il ticchio di non volersi lasciar mettere il piede sul collo. Si fece un gran sussurrare contro la prepotenza del castellano di Venchieredo; e con grande rammarico del signor Conte gli stessi abitanti del castello col loro contegno caparbio e immodesto mostravano di volergli tirar addosso qualche brutto temporale. Mai io non avea veduto come a quei giorni il signor Conte ed il suo

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cancelliere più appiccicati l'uno coll'altro: sembravano due travicelli malconci che si fossero appoggiati l'uno contro l'altro per resistere ad una ventata; e se uno si moveva, tosto l'altro si sentiva cadere e gli andava dietro per non uscir di bilico. Furono anche messi in opera molti argomenti per sedare quella pericolosa esasperazione di animi; ma il rimedio era peggiore del male. Si addentava con miglior gusto al frutto proibito; e le lingue, frenate in cucina, si scatenavano più violente sulla piazza ed all'osteria. Più di tutti mastro Germano strepitava contro l'arroganza del suo vecchio padrone. Egli, per la virulenza delle sue filippiche e per l'audacia con cui difendeva il Cappellano, era diventato quasi il caporione del subbuglio. Ogni sera impancato alla bettola predicava ad alta voce sulla necessità di non lasciarsi togliere anche quell'unico rappresentante della povera gente che è il prete. E i prepotenti tempestassero pure, egli diceva, ché giustizia ce n'era per tutti e potrebbero saltar fuori certi peccati vecchi che avrebbero mandato in prigione i giudici, e in trionfo gli accusati. Fulgenzio, il sagrestano, barcamenava colla sua faccia tosta in tutto quello scombuglio; e benché serbasse nel castello un piglio officiale di prudenza, fuori poi non si stancava dal pizzicare con ogni accorgimento Germano, per sapere quanta verità si ascondesse in quelle minacciose amplificazioni. Una sera che il portinaio avea bevuto oltre il dovere, lo tirb tanto in lingua che uscì affatto dai gangheri, e cantò e gridb su tutti i toni che il signor castellano di Venchieredo la mettesse via, se no egli, povero spazzaturaio, avrebbe messo fuori certe storie vecchie che gli avrebbero dato la mala pasqua. Fulgenzio non chiedeva forse di più. Egli si studib allora di divertire il discorso da quella faccenda, tantoché le parole del cionco o non fecero caso o le parvero mattie da ubbriacone. Egli poi si ritrasse a casa a recitar il rosario colla moglie ed i bimbi. Ma il giorno seguente, essendo mercato a Portogruaro, vi andb di buon mattino, e ne tornò più tardi del solito. Fu veduto anche colà entrare dal Vicecapitano di giustizia; ma essendo egli, come dissi, un mezzo scriba di cancelleria, non se ne fecero le maraviglie. Il fatto sta che otto giorni dopo, quando appunto s'erano incominciate colla Curia le pratiche per mandar il Cappellano a respirar l'aria montanina, la cancelleria di Fratta ricevette da Venezia ordine preciso e formale di desistere da ogni atto ulteriore, e di istituire invece un processo inquisitorio e segreto sulla persona di mastro Germano, intorno a

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certe rivelazioni importantissime alla Signoria ch'egli poteva e doveva fare sulla vita passata dell'illustrissimo signor giurisdicente di Venchieredo. Un aereolito che piombasse dalla luna ad interrompere le gaie gozzoviglie d'una brigata di buontemponi non avrebbe recato più stupore e sgomento di quel decreto. Il Conte e il Cancelliere perdettero la bussola e si sentirono mancar sotto la terra: e siccome nel primo sbigottimento non avean pensato a rinchiudersi nel riserbo abituale, cosi la paura della Contessa e di Monsignore e la gioia del resto della famiglia dimostrata per mille modi a quell'annunzio, peggiorarono di tre doppi lo stato deplorabile del loro animo. Pur troppo la posizione era critica. Da un lato la vicina e provata oltracotanza d,un feudatario, avvezzo a farsi beffe d'ogni legge divina ed umana; dall'altro l'imperiosa inesorabile arcana giustizia dell'Inquisizione veneziana: qui i pericoli di una vendetta subitanea e feroce, là lo spauracchio d'un castigo segreto, terribile, immanchevole: a destra una visione paurosa di buli armati fino ai denti, di tromboni appostati dietro le siepi; a sinistra un apparimento sinistro di Messer Grande, di pozzi profondi, di piombi infocati, di corde, di tanaglie e di mannaie. I due illustri magistrati ebbero le vertigini per quarantott'ore; ma alla fin fine, com'era prevedibile, si decisero a dar l'offa al cane più grosso, giacché l'accontentarli tutti due o il rappattumarli non era neppur cosa da tentarsi. Non posso neppur nascondere che gli incoraggiamenti del Partistagno ed i savi consigli di Lucilio Vianello cooperarono assai a far traboccar la bilancia da questo lato; e al postutto il signor Conte si senti un tantin più sicuro nel vedersi spalleggiato da gente così valorosa ed assennata. Ciò non tolse peraltro che il processo di Germano non si tenesse avvolto nelle più imperscrutabili ombre del mistero; come anche queste ombre non furono tanto imperscrutabili da impedire agli occhi più pettegoli di volerci veder entro per forza. Infatti si buccinò tantosto che il vecchio buio del Venchieredo, spaventato dal decreto degli Inquisitori, avea deposto contro il suo antico padrone certe carte di vecchia data che non provavano una specchiata fedeltà al governo della Serenissima; e se sopra queste ipotesi (non erano piucché ipotesi, intendiamoci bene, perché dopo aperto il processo, il Conte, il Cancelliere e mastro Germano, che soli vi avevano parte, erano diventati come sordomuti) se sopra queste ipotesi, dico, se ne fab-

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bricarono dei castelli in aria, lo lascio a voi immaginare. Come si può credere, uno dei primi ad aver sentore di ciò fu il castellano di Venchieredo, e convien dire che non si sentisse la coscienza affatto candida, perché a prima giunta mostrò aver della cosa maggior dispiacere e spavento che non volesse dimostrarne in seguito. Egli pensò, guardò, pesò, ripensò ancora: e finalmente un bel giorno che a Fratta s'erano alzati da tavola, fu annunciata al signor Conte la sua visita. Il Cappellano, che era in cucina, credo che all'annunzio di quel nome stesse lì li per andare in deliquio; quanto al signor Conte, dopo aver cercato consiglio negli occhi de' suoi commensali che non erano meno stupiti né più sicuri dei suoi, egli rispose balbettando al cameriere che introducesse pure la visita nella sala di sopra; e che egli col Cancelliere sarebbe salito incontanente. Erano troppe le minaccie, i rischi, e le spiacevolezze di quella visita perché si potesse neppur sperare di ripiegarvi con una consulta preventiva; e d'altronde i due pazienti non erano tanto aquile da sbrigare in due minuti una tale deliberazione. Perciò misero rassegnatamente la testa nel sacco; e salirono di conserva ad affrontare la temuta arroganza e la non men temuta furberia del prepotente castellano. La famiglia rimase nel tinello coll'egual batticuore della famiglia di Regolo, quando si trattava nel Senato se si dovesse trattenerlo a Roma o rimandarlo a Cartagine. - Servo di Sua Signorial - disse lestamente il Venchieredo come appena il Conte e la sua ombra ebbero messo piede nella sala. E volse insieme a quest'ombra una certa occhiata che la rese livida e oscura a tre tanti. - Servo umilissimo di Vostra Eccellenza!- rispose il Conte senza alzar gli occhi dal pavimento ove pareva cercasse una buona ispirazione per cavarsela. Poi siccome l'ispirazione non veniva, si volse a domandarne conto al Cancelliere, e fu molto inquieto di veder costui indietreggiato fino alla parete. - Signor Cancelliere ... - si provò a soggiungere. Ma il Venchieredo gli soffocò le parole in bocca. - È inutile, - diss'egli- è inutile che il signor Cancelliere si distolga dalle sue solite incombenze per perdersi nelle nostre ciarle. Si sa che egli ha per le mani processi molto importanti e che esigono pronta trattazione e diligentissimo esame. Il bene della Serenissima Signoria prima di tutto, dovesse anche andarne la vital non è vero, signor Cancelliere? Intanto ella può lasciarci

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qui a quattr'occhi, che il nostro colloquio non è null'affatto curiale, e ce ne sbrigheremo tra noi. Il Cancelliere ebbe appena appena la forza necessaria per trascinare le gambe fin fuori della sala; e il suo occhietto bieco era in quel momento cosi fuori di strada, che nell'uscire gli lasciò batter il naso contro la merletta. Il Conte mosse verso di lui un tacito e impotente gesto di preghiera di paura e di disperazione; uno di quei gesti che annaspano per aria le braccia d'un annegato prima di abbandonarsi alla corrente. Indi, quando l'uscio fu rinchiuso, si rassettò la veste gallonata, e alzò timidamente gli occhi come per dire: portiamola con dignità I - Ho piacere ch'ella mi abbia accolto con tanta confidenza,riprese allora il Venchieredo - ciò dimostra chiaro che finiremo coll'intenderci. E in fin dei conti l'ha anche fatto bene, perché debbo appunto intrattenerla d'un affare di confidenza. N'è vero che ci intenderemo, signor Conte? - aggiunse il volpone avvicinandosegli per stringergli furbescamente la mano. Il signor Conte fu discretamente consolato di quel segno d'affetto; si lasciò stringer la mano con una leggiera impazienza, e non appena la sentì libera se la nascose frettolosamente nella tasca della zimarra. Credo che gli tardasse l'ora di correre a lavarsela, perché il Vice-capitano non fiutasse da Portogruaro l'odore di quella stretta. - Sì, signore; - rispose egli impiastricciando un sorrisetto che per la fatica gli cavò dagli occhi due lagrime - sì signore, credo ..• anzi ... ci siamo intesi semprel - Ben parlato, giuraddiol - soggiunse l'altro sedendogli allato sopra una poltroncina. - Ci siamo sempre intesi e c'intenderemo anche questa volta in barba a chiunque. La nobiltà, per quanto diversa di costumi, d'indole, e di attinenze, ha pur sempre interessi comuni; e un torto fatto ad uno de' suoi membri ricade sopra tutti. E così è necessario star bene uniti e darsi mano l'un l'altro e aiutarsi in quello che si può per mantenere inviolati i nostri privilegi. La giustizia va bene, anzi benissimo ... per quelli che ne abbisognano. Io per me trovo che di giustizia ne ho il mio bisogno in casa mia, e chi vuol farmela a mio dispetto mi secca a tutto potere. N'è vero che anche a lei, signor Conte, non garba per nulla questa pretesa che hanno taluni di volersi immischiare nei fatti nostri ? Il

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- Eh ... anzi ... la cosa è chiara!- balbettò il Conte, che s'era seduto macchinalmente anche lui, e di tutte quelle parole non altro avea udito che un suono confuso, e un intronamento, come d'una macina che gli girasse negli orecchi. - Di più, - continuò il Venchieredo - la giustizia di quei cotali non è sempre né la più pronta, né la meglio servita; e chi volesse obbedire pecorilmente a lei, potrebbe trovarsi alle prese con chi è di diverso parere, ed ha ai suoi comandi un'altra giustizia ben altrimenti spiccia ed operativa! Queste frasi pronunciate una per una, e sarei per dire sottosegnate dall'accento fermo e riciso del parlatore, scossero profondamente il timpano del Conte, e fecero ch'egli alzasse un viso non so se più scandolezzato o impaurito dall'averle comprese. Siccome peraltro il dimostrarsene offeso poteva esporlo a qualche spiacevole schiarimento, così fu abbastanza diplomatico per ricorrere una seconda volta al solito sorriso che gli ubbidì meno ritroso di prima. - Veggo ch'ella mi ha capito; - tirò innanzi l'altro - ch'ella è in grado di pesare la forza delle mie ragioni, e che il favore ch'io vengo a chiederle non sembrerà né strano, né soverchio. Il Conte allargò bene gli occhi, e trasse una mano di tasca per mettersela sul cuore. - Qualche mala lingua, qualche pettegolo sciagurato e bugiardo che io farò punire colle frustate, non la ne dubiti, - proseguì il Venchieredo - mi ha usato la finezza di mettermi in mala vista della Signoria per non so quali freddure 1 di vecchia data che non meritano nemmeno di essere ricordate. Son birberie, sono freddure, tutti lo consentono; ma a Venezia si dovette dar corso all'affare per non far torto al sistema. Ella mi capisce bene; se si trascurassero le denunzie nelle cose frivole, mancherebbero poi nelle grandi, e, adottata una massima, bisogna accettarne tutte le conseguenze. Insomma io lo so di sicuro, che a malincuore si comandò di colassù l'istituzione di quel tal processo ... ella intende bene ... quel protocollo segreto ..• a carico di quel mastro Germano ..• - Se fosse qui il Cancelliere ... - mormorò con un raggio di speranza in volto il conte di Fratta. 1. freddure:

qui è per inezie.

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- No, no; non voglio ora né pretendo che mi si spiattelli il processo- riprese il Venchieredo. - Mi basta ricordarglielo, e avergli dimostrato che non per diffidenza contro di me, né per l'entità della cosa, ma che per un solo costume di buon governo si venne a quel tal decreto ... Già è inutile che mi dilunghi di più. Al fatto, anche a Venezia non sarebbero malcontenti di veder troncato l'affare: e così succede sempre che nell'applicazione conviene ammorbidire e correggere ciò che v'ha di troppo ruvido e generale nelle massime di Stato. Ora, signor Conte, tocca a noi tra buoni amici interpretare le nascoste intenzioni dei Serenissimi Inquisitori. Lo spirito, ella lo sa meglio di me, va sopra la lettera; ed io la assicuro, che se la lettera le comanda di andar innanzi, lo spirito invece le consiglia di dar un frego su tutto. In confidenza ebbi anche da Venezia comunicazioni di questo tenore; e lei già indovina il mezzo ... con un onesto compromesso ... con un buon mezzo termine, si potrebbe ... Il Conte allargava sempre più gli occhi, e si stracciava colle dita i merletti della camicia; a questo punto tutto il respiro, che gli si era compresso nel petto per la grande agitazione, uscì romorosamente in una sbuffata. - Oh non pigli soggezione di ciò!- soggiunse l'altro. - La cosa è più facile ch'ella non crede. E fosse anche difficilissima, bisognerebbe tentarla per ubbidire allo spirito del Serenissimo Consiglio dei Dieci. Allo spirito, si ricordi bene, non alla lettera! ... P,oiché del resto la giustizia della Serenissima non può volere che un eccellentissimo signore, com'ella è, si trovi quandocchessia in gravi imbarazzi per essere stato troppo ligio alle apparenze d'un decreto. Si figuri! metter un giurisdicente in lotta con tutti i suoi colleghi! ... Sarebbe ingratitudine, sarebbe una nequizia imperdonabile contro di lei I ••• Al povero giurisdicente, che coll'acume della paura intendeva meravigliosamente tutti questi discorsi, i sudori freddi venivano giù per le tempie, come gli sgoccioli d'una torcia in un giorno di processione. Il dover rispondere, il non voler dire né sì né no, era tal tormento per lui che avrebbe preferito di cedere tutti i suoi diritti giurisdizionali per esserne liberato. Ma alla fin fine gli parve aver trovato il vero modo di cavarsela. Figuratevi che talentane I ... Avea proprio trovato una gran novità I - Ma ... col tempo ... vedremo ... combineremo ...

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- Eh, che tempo d'Egitto!- saltò su con una bella stizza il Venchieredo. - Chi ha tempo non aspetti tempo, Conte carissimo! Io per esempio se fossi in lei vorrei dire subito e per le mie buone ragioni: « Domani non si potrà più parlare di questo processo!• - Per esempio! Come è possibile? - sciamò il Conte di Fratta. - Ah, vedo chè torniamo a raccostarci; - soggiunse l'altro chi cerca il mezzo è già persuaso della massima. E il mezzo è bello e trovato. Tutto sta che lei, signor Conte, sia disposto ad accontentare, com'è di dovere, i desiderii segreti del Consiglio dei Dieci ed i miei! Quel miei fu pronunciato in maniera che ricordò lo scoppio d'una trombonata. - Si figuri! ... Son dispostissimo io!- balbettò il poveruomo. - Quando ella mi assicura che anche quelli di sopra vogliono così! ... - Sicuro, pel minor male - prosegui il Venchieredo. - Sempre intesi che tutto debba succedere per caso, e qui è il bandolo della matassa. Una buona parola a Germano, mi capisce! ... un po' di esca e un acciarino battuto su quelle carte, e non se ne parla più. - Ma il Cancelliere? - Non parlerà, stia quieto! ho una parola anche per lui. Cosi si desidera da quelli che stanno in alto, e cosi desidero anch'io: non che la cosa possa aver conseguenze a mio danno; ma mi dorrebbe dover fare qualche rappresaglia a un uomo del suo merito. Il castellano di Venchieredo subir un processo da un suo pari l ..• S'immagini! il decoro non me lo permette. Insterò 1 io stesso perché quel processo lo si istituisca altrove: a Udine, a Venezia, che so io, allora mi purgherò, allora mi difenderò. Qui, ella vede bene, è impossibile; io non devo sopportarlo a costo d'ammazzarne, non che uno, mille! Il Conte di Fratta tremò tutto da capo a piedi; ma oggimai si era avvezzato a quei sussulti importuni e trovò fiato da sog. giungere: - Ebbene, Eccellenza; e non si potrebbe addirittura mandarle a Venezia quelle carte inconcludenti? ... - Oibò - s'affrettò ad interromperlo il Venchieredo. - Non 1.

J,uterò: da instare, per insistere.

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le ho detto ch'io voglio che le sieno abbruciate? ... Cioè, m'intendeva dire, che essendo inconcludenti non c'è ragione da incommodarne il messo postale. - Quand'è così; - rispose a voce bassa il Conte - quand'è così le abbrucieremo ... domani. - Le abbrucieremo subito - ripigliò alzandosi il castellano. - Subito? ... subito, vuole? ... - Il Conte alzò gli occhi, ché di togliersi da sedere non si sentì in quel punto la benché minima volontà. Convien supporre peraltro che la faccia del suo interlocutore fosse molto espressiva, perché immantinente soggiunse: - Sì, sì, ella ha ragione! ... Subito vanno abbruciate, subito! ... E allora con gran fatica si mise in piedi, e mosse verso l'uscio che non sapeva più in qual mondo si fosse. Ma appunto mentre toccava il saliscendi, una voce modesta e piagnolosa domandò - Con permesso - , e l'umile Fulgenzio con un piego tra mano entrò nella sala. - Cos'hai, cosa c'è, chi ti ha detto d'entrare?- chiese tutto tremante il padrone. - Il cavallante porta da Portogruaro questa missiva pressan-tissima della Serenissima Signoria - rispose Fulgenzio. - Eh via! affari per domattina!- disse il Venchieredo un po' impallidito, e movendo un passo oltre la soglia. - Scusino le Loro Eccellenze; - rispose Fulgenzio - l'ordine è perentorio. Da leggersi subito! - Ohimè sì ... leggerò subito - soggiunse il Conte inforcando gli occhiali e disuggellando il piego. Ma non appena vi ebbe gettati sopra gli occhi, un brivido tale gli corse per la persona che dovette appoggiarsi alla porta per non perder le gambe. Allo stesso tempo anche il Venchieredo avea squadrato all'ingrosso quella cartaccia, e ne avea odorato il contenuto. - Veggo che per oggi non ci intenderemo, signor Contel diss'egli colla solita arroganza. - Si raccomandi alla protezione del Consiglio dei Dieci e di sant'Antoniol Io resto col piacere di averla riverita. Così dicendo andò giù per la scala lasciando il giurisdicente di Fratta affatto fuori dei sensi. . - E così? ... se n'è andato?- disse costui quando nnvenne dal suo smarrimento. - Si, Eccellenza( se n'è andato(- ripeté Fulgenzio.

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- Guarda, guarda, cosa mi scrivono? - riprese egli porgendo il piego al sagrestano. Costui lesse con nessuna sorpresa un mandato formale di arrestare il signor di Venchieredo ove se ne porgesse il destro senza pericolo di far baccano. - Ora è partito, è proprio partito, e non è mia colpa se non posso farne il fermo - rispose il Conte. - Tu sei testimonio che egli se n'è ito prima ch'io avessi compreso a dovere il significato dello scrittoi - Eccellenza, io sarò testimonio di tutto quello che comanda lei l - Pure sarebbe stato meglio che il cavallante avesse tardato una mezz'ora! ... Fulgenzio sorrise da par suo; e il Conte andò in cerca del Cancelliere per partecipargli il nuovo e più terribile imbroglio nel quale erano invischiati. Chi fosse Fulgenzio, e quale il suo uffizio, voi ve lo immaginerete come me lo immagino io; ed erano frequenti simili casi, nei quali la Signoria di Venezia adoperava il più abietto servidorarne per invigilare la fedeltà e lo zelo dei padroni. Quanto al Venchieredo, in onta alla sua apparente tracotanza, ne ebbe una gran battisoffia dalla lettura di quella nota, perocché comprese di volo che gli si voleva far la festa senza misericordia: perciò sulle prime vinsero gli argomenti della paura. Poco appresso tornò a confidare nella propria furberia, nelle potenti attinenze, nella mollezza del governo; e così tornò daccapo a tentare le scappatoie. La prima ispirazione sarebbe stata di saltar sull'Illirio; e vedremo in seguito se ebbe torto o ragione a non darle retta. Ma poi pensò che non sarebbe stato si facile il catturar lui senza qualche gran chiasso, e alla peggio per fuggire di là dall'Isonzo ogni ora gli pareva buona. Il desiderio di vendicarsi ad un colpo di Fulgenzio, del Cappellano, dello Spaccafumo e del Conte, e di imporre le ragioni della forza anche sulla Serenissima Signoria la vinse a lungo andare in quel suo animo feroce e turbolento. Rimase dunque, trascinato dalla paura a maggiori temerità.

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CAPITOLO QUINTO L'ultimo assedio del castello di Fratta nel z786, e le prime mie gesta. Felicità di due amanti, angosciose trepidazioni di due monsignori, e strano contegno di due cappuccini. Germano, portinaio di Fratta, è ammazzato; il castellano di V enchieredo va in galera, Leopardo Provedoni prende moglie, ed io studio il latino. Fra tutti non mi par d'essere il più infelice.

Gli è della storia della mia vita, come di tutte le altre, credo. Essa si diparte solitaria da una cuna per frapporsi poi e divagare e confondersi coll'infinita moltitudine delle umane vicende, e tornar solitaria e sol ricca di dolori e di rimembranze verso la pace del sepolcro. Così i canali irrigatori della pingue Lombardia sgorgano da qualche lago alpestre o da una fiumiera del piano per dividersi suddividersi frastagliarsi in cento ruscelli, in mille rigagnoli e rivoletti; più in giù l'acque si raccolgono ancora in una sola corrente lenta pallida silenziosa che sbocca nel Po. È merito o difetto? - Modestia vorrebbe ch'io dicessi merito; giacché i casi miei sarebbero ben poco importanti a raccontarsi, e le opinioni e i mutamenti e le conversioni non degne da essere studiate, se non si intralciassero nella storia di altri uomini che si trovarono meco sullo stesso sentiero, e coi quali fui temporaneamente compagno di viaggio per questo pellegrinaggio del mondo. Ma saranno queste le mie confessioni? O non somiglio per cotal modo alla donnicciuola che in vece de' proprii peccati racconta al prete quelli del marito e della suocera, o i pettegolezzi della contrada? - Pazienza I - L'uomo è così legato al secolo in cui vive che non può dichiarare l'animo suo senza riveder le buccie anche alla generazione che lo circonda. Come i pensieri del tempo e dello spazio si perdono nell'infinito, cosi l'uomo d'ogni lato si perde nell'umanità. Gli argini dell'egoismo, dell'interesse, e della religione non bastano; la filosofia nostra può aver ragione nella pratica; ma la sapienza inesorabile dell'India primitiva si vendica dei nostri sistemi arrogantelli e minuziosi nella piena verità della metafisica eterna. Intanto avrete notato che nel racconto della mia infanzia i personaggi mi si sono moltiplicati intorno che è un vero spavento. lo stesso ne sono sgomentito; come quella strega che si spaven-

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tava dei diavoli dopo averli imprudentemente evocati. È una vera falange che pretende camminar di fronte con me, e col suo strepito e colle sue ciarle rallenta di molto quella fretta ch'io avrei d'andar innanzi. Ma non dubitate; se la vita non è una battaglia campale, è però un viluppo continuo di scaramuccie e badalucchi 1 giornalieri. Le falangi non cadono a schiere come sotto al fulminar dei cannoni, ma restano scompaginate, decimate, distrutte dalle diserzioni, dagli agguati, dalle malattie. I compagni della gioventù ci lasciano ad uno ad uno, e ci abbandonano alle nuove amicizie rade guardinghe interessate della virilità. Da questa al deserto della vecchiaia è un breve passo pieno di compianti e di lagrime. Date tempo al tempo, figliuoli mieil Dopo esservi raggirati con me nel laberinto allegro vario e popoloso degli anni più verdi, finirete a sedere in una poltrona, donde il povero vecchio stenta a mover le gambe e pur s'affida a forza di coraggio e di meditazioni al futuro che si stende al di qua e al di là della tomba. Ma per adesso lasciate che vi mostri il mondo vecchio; quel mondo che bamboleggiava ancora alla fine del secolo scorso, prima che il magico soffio della rivoluzione francese gli rinnovasse spirito e carni. La gente d'allora non è quella d'adesso: guardatela e fatevene specchio d'imitazione nel poco bene, e di correzione nel molto male. lo, superstite di quella nidiata, ho il diritto di parlar chiaro: voi avrete quello di giudicar noi e voi dopoché avrò parlato. Non mi ricordo più quanti, ma certo pochissimi giorni dopo l'abboccamento del castellano di Venchieredo col Conte, il paese di Fratta fu verso sera turbato da un'improvvisa invasione. Erano villani e contrabbandieri che scappavano, e dietro a loro Cemide buli e cavallanti che scorazzavano alla rinfusa, sbraitando sulla piazza, percotendo malamente i contadini che incontravano e facendo il più gran subbuglio che si potesse vedere. Al primo sussurrare di quella gentaglia la Contessa, eh' era uscita con monsignore di Sant' Andrea e colla Rosa per la sua passeggiata del dopopranzo, s'affrettò a rinchiudersi in castello, e lì fece svegliare il marito perché vedesse cos'era quella novità. Il Conte, che da una settimana non potea dormire che con un occhio solo, scese precipitosamente in cucina, e in breve tempo il Cancelliere, monsignor Orlando, Marchetto, Fulgenzio, il fattore, il Capitano gli furono 1.

badalucchi: piccoli scontri per tenere a bada il nemico.

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intorno colla cera più spaventata del mondo. Oramai ognuno aveva capito che non sarebbero tornati con tanta facilità alla calma d'una volta; e ad ogni nuovo segno di burrasca la paura raddoppiava come nell'animo del convalescente ai sintomi d'una recidiva. Anche quella sera toccò al capitano Sandracca e a tre de' suoi assistenti fare il cuor del leone, e uscire alla scoperta. Ma non passarono cinque minuti ch'essi erano già tornati colla coda fra le gambe e con nessuna volontà di ritentare l'esperimento. Quella masnada che tumultuava in piazza era la sbirraglia di Venchieredo e non pareva disposta per nulla alla ritirata. Gaetano dal quartier generale dell'osteria giurava e spergiurava che avrebbe messo a pezzi i contrabbandieri e che quelli che si erano rifugiati in castello l'avrebbero pagata più cara degli altri. Egli pretendeva che lì in paese fosse una lega stabilita per frodar i diritti del Fisco, e che il Cappellano ed il Conte ne fossero i caporioni. Ma era venuto il momento, diceva egli, di sterminare questa combriccola, e giacché chi doveva tutelare le leggi nel paese se ne mostrava il più impudente nemico, a loro toccava adempiere i decreti della Serenissima Signoria e farsi grandissimo merito con quell'impresa. - Germano, Germano, alza il ponte levatoio, e spranga bene il portone!- si mise a strillare il Conte, poiché ebbe udito tutta questa tiritera di insulti e di fandonie. -. Il ponte l'ho già alzato io, Eccellenza! - rispose il Capitano anzi per maggior sicurezza l'ho fatto gettar nel fossato da tre dei miei uomini perché le carrucole non volevano girare. - Benissimo, benissimo I chiudete le finestre, e chiudete tutti gli usci a catenaccio - soggiunse il Conte. - Che nessuno osi mover piede fuori del castello! - Sfido io a moversi ora che è rovinato il ponte! - osservò il cavallante. - Mi pare che il ponticello della scuderia ci assicuri una sortita in caso di bisogno - replicò sapientemente il Capitano. - No, no, non voglio sortite I - tornò a gridare il Conte buttate giù subito anche il ponticello della scuderia: io metto da questo punto il mio castello in istato d'assedio e di difesa. - Faccio osservare a Sua Eccellenza che rotto quel ponte non si saprà più donde uscire per le provvigioni della giornata - obbiettò il fattore inchinandosi.

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- Non importai dice bene mio marito! - rispose la Contessa che era la più spaventata di tutti. - Voi pensate ad ubbidire e a demolir tosto il ponticello delle scuderie: non c'è tempo da perdere! Potremmo esser assassinati da un momento all'altro. Il fattore s'inchinò più profondamente di prima, e uscì per adempiere all'incarico ricevuto. Un quarto d'ora dopo le comunicazioni del castello di Fratta col resto del mondo erano intercettate affatto, e il Conte e la Contessa respirarono di miglior voglia. Solamente monsignor Orlando, che pur non era un eroe, s'arrischiò di mostrare qualche inquietudine sulla difficoltà di procacciarsi la solita quantità di manzo e di vitello per l'indomane. Il signor Conte, udite le rimostranze del fratello, ebbe campo di mostrare l'acume e la prontezza del suo genio amministrativo. - Fulgenzio, - diss'egli con voce solenne- quanti neonati ha la vostra scrofa ? - Dieci, Eccellenza - rispose il sagrestano. - Eccoci provveduti per tutta la settimana, - riprese il Conte - giacché pei due giorni di magro provvederà la peschiera. Monsignor Orlando sospirò angosciosamente ricordando le belle orade di Marano e le anguille succolente di Caorle. 1 Ohimè, cos'erano a paragone di quelle i pesciolini pantanosi e i ranocchi della peschiera ? - Fulgenzio; - proseguì intanto il Conte - farete ammazzare due dei vostri porcellini; l'uno per l'allesso e l'altro per l'arrosto: avete inteso, Margherita? Fulgenzio e la cuoca s'inchinarono alla lor volta; ma sospirare toccò allora a monsignore di Sant' Andrea, il quale per un suo incommodo intestinale non potea digerire la carne porcina, e quella prospettiva di una settimana d'assedio con un simile regime non gli andava a sangue per nulla. Senonché la Contessa, che gli lesse questo scontento in viso, s'affrettò ad assicurarlo che per lui si avrebbe messa a bollire una pollastra. La fisonomia del canonico si rischiarò tutta d'una santa tranquillità; e con un buon pollaio anche una settimana d'assedio gli parve un moderatissimo purgatorio. Allora, dato ordine al rilevantissimo negozio della cucina, la guarnigione si sparpagliò a porre la fortezza in istato di difesa. 1. Marana (e la sua laguna), tra la foce dell'Isonzo e quella del Tagliamento. Caorle è sito sulla foce della Livenza e la sua laguna è divisa da quella cli Marano dal Tagliamento.

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Si appostarono alcuni vecchi moschetti alle feritoie; si trascinarono due disusate spingarde nel primo cortile; si sbarrarono le porte e le balconate. Da ultimo si sonò la campanella pel rosario, e nessuno lo avea detto da molti anni con maggior divozione che in quella sera. La Contessa in quei momenti era troppo fuori di sé per badare ad altri che a se stessa, ma sua suocera quando cominciò ad imbrunire chiese conto della Clara, perché la tardasse tanto a portarle il suo solito panbollito. La Faustina la Pisana ed io ci mettemmo tantosto a cercarla; chiama di qua cerca di là, non ci fu verso che la potessimo trovare. L'ortolano soltanto ci disse averla veduta uscire dalla parte della scuderia un paio d'ore prima; ma di più egli non ne sapeva, e credeva la fosse rientrata, come costumava, dalla banda del piazzale colla signora Contessa. Di lì certo non l'avrebbe potuto ripassare, perché il fattore avea eseguito tanto appuntino gli ordini ricevuti, che del ponticello non rimaneva vestigio. D'altronde la notte cadeva già buia buia, e non era a credersi che la fosse stata a zonzo in fin allora. Ci rimisimo dunque in traccia di lei, e solo dopo un'altra ora di minute ed infruttuose indagini la Faustina si decise a rientrare in cucina per dare ai padroni quella tristissima nuova dello sparimento della Contessina. - Giurabbacco!- sciamò il Conte- certo quei manigoldi ce l'hanno portata via! La Contessa volle affliggersene assai, ma la propria inquietudine la occupava troppo perché la vi potesse riescire. - Figuratevi- continuava il marito - figuratevi cosa son capaci di fare quegli sciagurati che danno del contrabbandiere a me per poter mettere a soqquadro il paesel - Ma me la pagheranno, oh si che me la pagheranno!- soggiungeva sotto voce per paura che non lo udissero fuori del girone. - Si, chiacchierate, chiacchierate! - riprese la signora - le chiacchiere son proprio buone da aiutarvi a friggerei Ecco che da tre ore noi siamo chiusi in rete e non avete pensato a nessuna maniera da levarci di ragnal ... Vi portano via la figlia e voi vi sfiatate a dire che ve la pagheranno! ... Già per quello che la costa a voi, ben poco potreste pretenderei - Come, signora moglie? ... Per quello che la costa a me? ... Cosa sarebbe a dire?

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- Eh se non intendete, aguzzatevi il cervello. Voleva dire che dei figli vostri e di me stessa e della nostra salute voi vi date tanto pensiero come di raddrizzare la punta al campanile. - (Qui la Contessa ne fiutò rabbiosamente una presa). - Vediamo cosa avete pensato per cavarci d'imbroglio? .•• In qual maniera volete andar in traccia della Claral? - Siate buonina, diaminel .•. La Clara, la Claral .•. non c'è poi soggetto da indiavolarsene tanto. Sapete come l'è bellina e costumata. Io son d'opinione che se anche dormisse una notte fuori del castello non le interverrà alcun guaio. Quanto a noi, spero che non vorrete ridurci alle schioppettate. - (La Contessa mosse un gesto di ribrezzo e di impazienza). - Dunque- (seguitò l'altro) - proveremo a parlamentare I - Parlamentare coi ladri! benone per diana! - Ladril ... chi vi dice che sian ladri? ... Son messi di giustizia, un po' spicciativi, un po' ubbriachi se volete, ma pur sempre vestiti di un'autorità legale, e quando sarà loro passata la scalmana, intenderanno ragione. S'erano troppo infervorati nel dar la caccia a due o tre contrabbandieri; il vino li ha fatti stravedere, ed hanno creduto che i fuggitivi si siano ricoverati a Fratta. Cosa c'è di straordinario in questo? ... Se li persuaderemo che qui di contrabbandi non ce n I è mai stata orma, essi torneranno verso casa mansueti come agnellini. - Eccellenza, ella si dimentica una circostanza - s'intromise a dire monsignore di Sant' Andrea. - Sembra che i fuggitivi fossero sgherani essi pure travestiti da contrabbandieri e cacciati innanzi come pretesti a movere questo gran tafferuglio. Germano pretende aver conosciuto fra loro alcun mustacchione di Venchieredo. - Eh cosa c'entro iol cosa ci ho a far iol- sciamò disperatamente il povero Conte. - Si potrebbe intanto mandar fuori alcuno di soppiatto che spiasse come vanno le cose, e cercasse conto della Contessina consigliò il cavallante. - Oibò, oibòl - rispose stremenzita la Contessa- sarebbe una grave imprudenza, tanto più che in castello si scarseggia di gente e non è questo il momento da allontanare i più esperti l La Pisana che era accosciata con me fra le ginocchia di Martino, si avanzò baldanzosamente verso il focolare, offrendosi ad andar lei in traccia della sorella; ma erano tanto costernati che

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nessuno fuori di Marchetto sembrò accorgersi di quella fanciullesca e commovente temerità. Peraltro l'esempio non fu senza frutto, e dopo la Pisana io pure m' offersi ad uscire in cerca della Contessina. Questa volta l'offerta ebbe la fortuna di fermare taluno. - Davvero tu ti arrischieresti ad andar fuori per dar una occhiata? - mi domandò il fattore. - Sì certo - soggiunsi io, alzando la testa e guardando fieramente la Pisana. - Ci andremo insieme - disse la fanciulla che non volea parere dammeno di me. - Eh no, non sono affari da signorine questi, - riprese il fattore - ma qui il Carlino potrebbe trarsi d'impaccio a meraviglia. N'è vero, signora Contessa, che la pensata è buona? - In difetto di meglio non dico di no - rispose la signora. Già qui dentro un fanciullo di poco aiuto ci vorrebbe essere, e fuori invece non darebbe sospetto e potrebbe metter il naso in ogni luogo. Così anche l'esser malizioso e petulante come il demonio, gli avrà giovato una volta. - Ma voglio andar fuori anch'io! anch'io voglio andar in traccia della Clara! - si mise a strillare la Pisana. - Lei, signorina, andrà a letto sul momento - riprese la Contessa; e fece un cenno alla Faustina perché il comando avesse effetto tantosto. Allora fu una piccola battaglia di urli di graffiate di morsi; ma la cameriera la vinse e la disperatella fu menata bellamente a dormire. - Cosa devo poi rispondere alla Contessa vecchia in quanto alla contessina Clara? - domandò la donna nell'andarsene colla Pisana che le strepitava fra le braccia. - Ditele che è perduta, che non la si trova, che tornerà domani I - rispose la Contessa. - Sarebbe meglio darle ad intendere che sua zia di Cisterna è venuta a prenderla, se è lecito il consiglio - soggiunse il fattore. - Si, sii datele ad intendere qualche fandonia!- sciamò la signora - ché non la pensi di farci disperare ché dei crucci ne abbiamo anche troppi. La Faustina se n'andò, e s'udirono i pianti della Pisana dileguarsi lungo il corritoio. - Ora a noi, serpentello - mi disse il fattore prendendomi gar-

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batamente per un'orecchia. - Sentiamo cosa sarai buono di farci una volta uscito dal castello! - Io? ... io prenderò un giro per la campagna, - soggiunsi - e poi, come se nulla fosse, capiterò all'osteria, dove sono quei signori, a piangere e a lagnarmi di non poter rientrare in castello ... Dirò che sono uscito nel dopopranzo, che era insieme colla contessina Clara e che poi mi son perduto a correre dietro le farfalle e non ho più potuto raggiungerla. Allora chi ne sa me ne darà notizia ed io tornerò dietro le scuderie a zufolare, e l'ortolano mi allungherà una tavola sulla quale ripasserò il fossato come lo avrò passato nell'uscire. - A meraviglia: tu sei un paladino!- rispose il fattore. - Di che cosa si tratta? - mi domandò Martino che si sgomentiva di tutti quei discorsi che mi vedeva fare, senza poterne capire gran che. - Vado fuori in cerca della Contessina che non è ancora rientrata - io gli risposi con tutto il fiato dei polmoni. - Sì, sì, fai benissimo, - soggiunse il vecchio- ma abbi gran prudenza. - Per non comprometter noi - continuò la Contessa. - Peraltro andrà bene che tu stia un poco origliando i discorsi degli scherani che sono all'osteria per conoscere le loro intenzioni - aggiunse il Conte. - Così potremo regolarci per le pratiche ulteriori. - Si, sì! e torna presto, piccino!- riprese la Contessa accarezzandomi quella zazzera disgraziata cui tante volte era toccata una sorte ben diversa. - Va', guarda, osserva, e riportaci tutto fedelmente! Il Signore ti ha fatto così furbo e risoluto per nostro maggior bene! ... Va' pure, e che il Signore ti benedica, e ricordati che noi stiamo qui ad attenderti col cuore sospesol - Tornerò appena abbia odorato qualche cosa - risposi io con piglio autorevole, ché già fin d'allora mi sentiva uomo in quell'accolta di conigli. Marchetto il fattore e Martino vennero meco, confortandomi e raccomandandomi ad usar prudenza accortezza e premura. Si lanciò una tavola da fabbrica nel fosso; io ch'era assai destro in quella maniera di navigare, varcai felicemente all'altra sponda, e d'un colpo di mano rimandai loro lo scafo. Indi, mentre nella cucina del castello intonavano per consiglio di monsignor Or-

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lando un secondo rosario, mi misi fra le folte ombre della notte alla mia coraggiosa spedizione. La Clara infatti, uscita dalla pustierlaI del castello prima dei vespri, come avea riferito l'ortolano, non era più ritornata. Credeva ella incontrar la sua mamma lungo la strada di Fossalta, e così un passo dietro l'altro era arrivata a questo villaggio senza imbattersi in nessuno. Allora dubitò che l'ora fosse più tarda del consueto, e che la brigata del castello avesse dato addietro appunto durante il giro da lei percorso nell'andare dall'orto alla strada. Si rivolse dunque frettolosamente per ridursi essa pure a casa; ma non avea camminato un trar di sasso che lo scalpito d'una pedata la sforzò a voltarsi. Era Lucilio; Lucilio calmo e pensoso come il solito, ma irraggiato in quel momento da una gioia mal celata o fors'anche non voluta celare. Egli pareva moversi appena; eppure in un lampo fu al fianco della donzella e ad ambidue forse quel lampo non sembrò così subito come il desiderio voleva. Nessuna cosa accontenterà mai la rapidità del pensiero: la vaporiera oggimai sembra troppo lenta; l'elettrico un giorno parrà più pigro e noioso d'un cavallo di vettura. Credetelo - si farà si farà; e in ultima analisi le proporzioni rimarranno le stesse, come nel quadro ingrandito dalla lente. Gli è che la mente indovina sopra di sé un mondo altissimo lontano inaccessibile; e ogni giro, ogni passo, ogni spirale che si mova o si agiti 2 senza raccostarla a quel sognato paradiso non sembrerà moto ma torpore e noia. Che vale andar da Milano a Parigi in trentasei ore piuttostoché in duecento? Che vale poter vedere in quarant'anni dieci volte, in vece che una, le quattro parti del mondo? Né il mondo s'allarga né la vita s'allunga per ciò; e chi pensa troppo, correrà sempre fuori di quei limiti nell'infinito, nel mistero senza luce. Alla Clara e a Lucilio parve lunghissimo quell'attimo che li mise l'uno allato dell'altra; e il tempo all'incontro che camminarono insieme fino alle prime case di Fratta passò in un baleno. E sì che i piedi andavano innanzi a malincuore; e senza accorgersi molte e molte volte s'erano fermati lungo la via discorrendo della nonna, del castellano di Venchieredo, delle loro opinioni in proposito, e più anche di se stessi, dei proprii affetti, del bel cielo che li innamorava e del 1. pustierla: postierla. piccola porta, nelle fortificazioni, per il passaggio di una persona alla volta. 2. o si agiti: il manoscritto (1, 81 verso) veramente reca: che si mova si agiti o si [ ] senza raccostarla ecc.

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bellissimo tramonto che li fece restare lunga pezza estatici a contemplarlo. - Ecco come io vorrei viverei- sclamb ingenuamente la Clara. - Come? Oh me lo dica subito! - soggiunse Lucilio colla sua voce più bella. - Ch'io vegga se son capace di comprendere i suoi desiderii, e di parteciparne! - Davvero ho detto che vorrei vivere cosi;- riprese la Clara - ed ora non saprei spiegare il mio desiderio. Vorrei vivere cogli occhi di questa splendida luce ·di cielo; colle orecchie di questa pace allegra ed armoniosa che circonda la natura quando si addormenta; e coll'anima e col cuore in quei dolci pensieri di fratellanza, in quei grandi affetti senza distinzione e senza misura che sembrano nascere dallo spettacolo delle cose semplici e sublimi I - Ella vorrebbe vivere di quella vita che la natura aveva preparato agli uomini savi, uguali, innocentil- rispose mestamente Lucilio. - Vita che nei nostri vocabolari ha nome di sogno e di poesia. Oh sì! la comprendo benissimo; perché anch'io respiro l'aria imbalsamata dei sogni, e mi affido alle poesie della speranza, per non rispondere coll'odio all'ingiustizia e colla disperazione al dolore. Vegga un po' come siamo disposti a sproposito. Chi ha braccia non ha cervello; chi ha cervello non ha cuore; chi ha cuore e cervello non ha autorità. Dio sta sopra di noi, e lo dicono giusto e veggente. Noi, figliuoli di Dio, ciechi ingiusti ed oppressi, colla voce cogli scritti colle opere lo neghiamo ad ogni momento. Neghiamo la sua provvidenza, la sua giustizia, la sua onnipotenza! È un dolore vasto come il mondo, duraturo quanto i secoli, che ci sospinge, ci incalza, ci atterra; e un giorno alfine ci fa risovvenire che siamo eguali; tutti, ma solo nella mortel ... - Nella morte, nella mortell dica nella vita, nella vera vita che durerà sempre! - sclamb come inspirata la Clara - ed ecco dove Dio risorge, e torna ad aver ragione sulle contraddizioni di quaggiù. - Dio dev'essere dappertutto - soggiunse Lucilio con una tal voce nella quale un divoto avrebbe desiderato maggior calore di fede. Ma la Clara non ci vide entro nessun dubbio in quelle parole, ed ei ben sei sapeva che sarebbe stato cosi; giacché altrimenti non avrebbe parlato. - Sl, Dio è dappertutto! - riprese ella con un sorriso angelico, mandando gli occhi per ogni parte del cielo - non lo vede non lo sente non lo respira dovunque ? I buoni pensieri, i dolci affetti,

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le passioni soavi donde ci vengono se non da lui ? •.• Oh io lo amo il mio Dio come fonte di ogni bellezza e di ogni bontà! Se mai vi fu argomento che valesse a persuadere un incredulo d'alcuna verità religiosa, fu certo l'aria divina che si diffuse in quel momento sulle sembianze di Clara. L'immortalità si stampò a caratteri di luce su quella fronte confidente e serena; nessuno certo avrebbe osato dire che in tanto prodigio d'intelligenza di sentimento e di bellezza, la natura avesse provveduto soltanto ad ammannir un pascolo ai vermi. Vi sono, sì, facce morte e petrigne, sguardi biechi e sensuali, persone grevi curve striscianti che possono accarezzare col loro sucido esempio le spaventose fantasie dei materialisti; e ad esse parrebbe di doversi negare l'eternità dello spirito, come agli animali o alle piante. Ma fra tanta ciurma semimorta si erge in alto qualche fronte che sembra illuminarsi d'una luce sovrumana: dinanzi a questa il cinico va balbettando confuse parole; ma non può impedire che non gli tremoli in cuore o speranza o spavento d'una vita futura. Quale? chiedono i filosofi. - Non chiedetelo a me, se sventura vuole che non vi faccia contenti quella sapienza secolare che si è condensata nella fede. Chiedetelo a voi stessi. - Ma certo se la materia organica anche sciolta la compagine umana seguita a fermentare ed a vivere materialmente nel grembo della terra, lo spirito pensante dovrà agitarsi tuttavia e vivere spiritualmente nel pelago dei pensieri. Il moto, che non si arresta mai nel congegno affaticato delle vene e dei nervi, potrà retrocedere o acquietarsi nell'instancabile e sottile elemento delle idee?- Lucilio si fermò cogli occhi quasi estatici ad ammirare le sembianze della sua compagna. Allora un riverbero di luce gli lampeggiò sul volto, e per la prima volta un sentimento non tutto suo ma comandatogli dai sentimenti altrui si fece strada nelle pieghe tenebrose del suo cuore. Si riebbe peraltro da quella breve sconfitta per tornar tristamente padrone di sé. - Divina poesia!- diss'egli togliendo gli occhi dal bel tramonto che ornai si scolorava in un vago crepuscolo - chi primo si alzò con te nelle speranze infinite fu il vero consolatore dell'umanità. Per insegnare agli uomini la felicità bisognerebbe educarli poeti, non scienziati o anatomici. La Clara sorrise pietosamente; e gli chiese: - Ella dunque, signor Lucilio, non è gran fatto felice? 13

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- Oh sì, lo sono ora come forse non potrò mai esserlolsclamò il giovine stringendole improvvisamente una mano. A quella stretta scomparve dal volto della fanciulla lo splendore immortale della fede, e la luce tremula e soave del sentimento vi si diffuse come un bel chiaro di luna dopo l'oscurarsi vespertino del sole. - Sì, sono felice come forse non lo sarò mai piùlproseguì Lucilio - felice nei desiderii, perché i desiderii miei sono pieni di speranza, e la speranza mi invita da lunge come un bel giardino fiorito. Ahimè non cogliete quei fiorii non dispiccateli dal loro gracile stelo! Per cure che ne abbiate poi, dopo tre giorni intristiranno; dopo cinque non sarà più in loro il bel colore il soave profumo I Alla fine cadranno senza remissione nel sepolcro della memoria I - No, non chiami la memoria un sepolcrol- soggiunse con forza la Clara. - La memoria è un tempio, un altare! Le ossa dei santi che veneriamo sono sotterra, ma le loro virtù splendono in cielo. Il fiore perde la freschezza e il profumo; ma la memoria del fiore ci rimane nell'anima incorruttibile ed odorosa per semprel - Dio mio, per sempre, per sempre! - sdamò Lucilio correndo colla veemenza degli affetti dove lo chiamava l'opportunità di quegli istanti quasi solenni. - Sì, per sempre! E sia un· istante, sia un anno, sia un'eternità, questo sempre bisogna riempirlo satollarlo beatificarlo d'amore per non vivere abbracciati colla morte! Oh si, Clara, l'amore ricorre all'infinito per ogni via; se v'è parte in noi sublime ed immortale è certamente questa. Fidiamoci a lui per non diventar creta prima del tempo; per non perdere almeno quella poesia istintiva dell'anima che sola abbellisce la vita! ... Sì, lo giuro ora; lo giuro, e mi ricorderò sempre di questo rapimento che mi fa maggiore di me stesso. Il desiderio è così potente da tramutarsi in fede; l'amor nostro durerà sempre, perché le cose veramente grandi non finiscono mai! ... Queste parole pronunciate dal giovine con voce sommessa, ma vibrata e profonda, svegliarono deliziosamente i confusi desiderii di Clara. Non se ne maravigliò punto, perché trovava stampate nel proprio cuore già da lungo tempo le cose udite allora. Gli sguardi, i colloqui, le arti pazienti raffinate di Lucilio aveano preparato nell'anima di lei un posto sicuro a quell'ardente dichiarazione. E sentirsi ripetere dalla sua bocca quello che il cuore aspettava senza saperlo, fu piucché altro il risvegliarsi subitaneo

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d'una gioia timida e latente. Successe nell'anima di lei quello che sulle lastre del fotografo al versarsi dell'acido; l'immagine nascosta si disegnò in tutte le sue forme: e se stupi in quel momento, fu forse di non potersi stupire. Peraltro un turbamento arcano e non provato mai le vietò di rispondere alle ardenti parole del giovane; e mentre cercava ritrarre la propria mano dalla sua, fu costretta anzi a cercarvi un appoggio perché si sentiva venir meno d'un deliquio di piacere. - Clara, Clara per carità rispondi!- le veniva dicendo Lucilio sorreggendola angosciosamente e volgendo intorno gli occhi a spiare se qualcuno veniva. - Rispondimi una sola parolai ... non uccidermi col tuo silenzio, non punirmi collo spettacolo del tuo dolorel ... Perdono se non altro, perdono! ... Egli sembrava lì lì per cadere in ginocchio tanto pareva smarrito, ma era un'attitudine studiata forse per dar fretta al tempo. La fanciulla si riebbe in buon punto e gli volse per unica risposta un sorriso. Chi raccolse mai nelle pupille uno di quei sorrisi e non ne tenne poi conto per tutta la vita? Quel sorriso che domanda compassione, che promette felicità, che dice tutto, che perdona tutto; quel sorriso esprimente un'anima che si dona ad un'altra anima; che non ha in sé riverbero alcuno di immagini mondane, ma che splende solo d'amore e per amore; quel sorriso che comprende o meglio dimentica il mondo intero, per vivere e farti vivere di se stesso, e che in un lampo solo schiude affratella e confonde le misteriose profondità di due spiriti in un unico desiderio d'amore e d'eternità, in un unico sentimento di beatitudine e di fede!- Il cielo che si aprisse pieno di visioni divine e d'ineffabili splendori agli occhi d'un santo, non sarebbe certo più incantevole di quella meteora di felicità che guizza raggiante e ahi spesso fugace nelle sembianze d'una donna. È una meteora; è un baleno; ma in quel baleno, più che in dieci anni di meditazioni e di studi l'anima travede i confusi orizzonti d'una vita futura. Oh quante volte all'oscurarsi di quelle sembianze s'annuvolò dentro di noi il bel sereno della speranza, e il pensiero precipitò bestemmiando nel gran vuoto del nulla, come Icaro sfortunato cui si fondevano le ali di cerai Quali sùbiti, dolorosi trabalzi dalr etere inane dove nuotano miriadi di spiriti in oceani di luce, al morto e gelido abisso che non vedrà mai raggio di sole, che mai non darà vita per volger di secoli a una larva pensata! E la

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scienza, erede di cento generazioni, e l'orgoglio, frutto di quattromill'anni di storia, fuggono come schiavi colti in fallo, al tem-pestar minaccioso d'un sentimento. Che siamo noi, dove andiamo noi, poveri pellegrini fuorviati? Qual è la guida che ci assicura d'un viaggio non infelice? Mille voci ne suonano dintorno; cento mani misteriose accennano a sentieri più misteriosi ancora; una forza segreta e fatale ci spinge a destra ed a sinistra; l'amore, alato fanciullo c'invita al paradiso; l'amore, demonio beffardo ci stritola nel niente. E solo la fede che il sacrifizio sarà contato a minor danno delle vittime sostenta i nostri pensieri nell'aria vitale. Ma Lucilio? ... Oh Lucilio allora non pensava a· cibi I pensieri vengon dietro alle gioie, come la notte al tramonto, come il gelido verno all'autunno canoro e dorato. Egli amava da anni; da anni drizzava ogni suo consiglio, ogni sua arte, ogni sua parola a incalorire nel lontano futuro la beatitudine di quel momento; da anni camminava accorto paziente per vie tortuose e solitarie ma rischiarate qua e là da qualche barlume di speranza; camminava lento e instancabile verso quella cima fiorita, donde contemplava allora e teneva per sue tutte le gioie tutte le delizie tutte le ricchezze . del mondo, come il monarca dell'universo. Era giunto a comporre una pietra filosofale; da una laboriosa miscela di sguardi di azioni di parole avea tratto l'oro purissimo della felicità e dell'amore. Alchimista vittorioso assaporava con tutti i sensi dell'anima le delizie del trionfo; artista entusiasta e passionato non finiva d'ammirare e godere l'opera propria in quel divino sorriso che spuntava come l'aurora d'un giorno più bello sul volto di Clara. Ad altri avrebbero tremato in cuore gratitudine, divozione, e paura; a lui la superbia ritemprò le fibre d'una gioia sfrenata e tirannica. Io forse e mille altri simili a me avremmo ringraziato colle lagrime agli occhi; egli ricompensò l'ubbidienza di Clara con un bacio di fuoco. - Sei mia! sei mial- le disse alzando la destra di lei verso il cielo. E voleva significare: Ti merito, perché ti ho conquistata! Clara nulla rispose. Senza accorgersene e senza parlare avea amato in fino allora; e il momento in cui l'amore si fa conscio di sé non è quello per lui di diventar loquace. Solamente senti per la prima volta di essere con tutta l'anima in potere d'un altro; e ciò non fece altro che cambiare il suo sorriso dal color della

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g101a in quello della speranza. A primo tratto avea goduto per sé; allora godeva per Lucilio, e questo contento fu più facile e caro a lei perché più pietoso e pudico. - Clara;- continuò Lucilio- l'ora si fa tarda e ci aspetteranno al castello l La giovinetta si destò come da un sogno; si stropicciò gli occhi colla mano e li sentì bagnati di lagrime. - Volete che andiamo ? - rispose ella con una voce soave e dimessa che non pareva la sua. Lucilio senza mover parola si ravviò per la strada; e la fanciulla gli veniva del paro docile e mansueta come l'agnella al fianco della madre. Il giovine per quel giorno non chiedeva di più. Scoperto il tesoro, voleva goderne lungamente come l'avaro, non disperderlo all'impazzata in guisa dei prodighi per trovarsi poi misero peggio di prima e col sopraccollo delle memorie sfumate. - Mi amerai sempre? - le domandò egli dopo alcuni passi silenziosi. - Sempre! - rispose ella. La cetra d'un angelo non moverà mai un concento più soave di questa parola pronunciata da quelle labbra. L'amore ha il genio di Paganini; egli infonde nell'armonia le virtù dello spirito. - E quando la tua famiglia ti profferirà uno sposo? - soggiunse con voce dolorosa e stridente Lucilio. - Uno sposo I ? - sciamò la giovinetta chinando il mento sul petto. - Sì; - riprese il giovane- vorranno sacrificarti all'ambizione, vorranno comandarti in nome della religione un amore che la religione ti proibirà in nome della natural - Oh io non veggo che voi!- rispose Clara quasi parlando con se stessa. - Giuralo per quanto hai di più sacro! giuralo pel tuo Dio e per la vita di tua nonna!- soggiunse Lucilio. - Sì, lo giurol- disse tranquillamente la Clara. Giurar quello che si sentiva costretta a fare da una forza irresistibile le parve cosa molto semplice e naturale. Allora si cominciavano a vedere fra il chiaroscuro della sera le prime case di Fratta: e Lucilio lasciò la mano della fanciulla per camminarle rispettosamente a fianco. Ma la catena era gittata; le loro due anime erano avvinte per sempre. La pertinacia e la freddezza da un lato, dall'altro la man-

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suetudi~e e la pietà s'erano confuse in un incendio d'amore. La volontà di Lucilio e l'abnegazione di Clara corrispondevano insieme, come quegli astri gemelli che s'avvicendano eternamente l'uno intorno all'altro negli spazi del cielo. Due uomini armati s'offersero loro incontro prima di entrar nel villaggio. Lucilio passava oltre avvisandoli per due guardiani campestri che aspettassero alcuno; ma uno di essi gli intimò di fermarsi, dicendo che per quella sera era vietato penetrar nel paese. Il giovine fu offeso e maravigliato d'una così strana tracotanza; e cominciò ad adoperare un mezzo che per molta esperienza conosceva infallibile in quegli incontri. Si mise ad alzar la voce e a strapazzarli. Indarno I I due buli lo fermarono pulitamente per le braccia rispondendo che così voleva il servizio della Serenissima Signoria, e che nessuno sarebbe entrato in Fratta, finché non fosse ultimata l'inchiesta d'alcuni contrabbandi che si cercavano. - M'immagino che non vorrete proibire l'ingresso in castello alla contessina Clara? - riprese Lucilio sbuffando ed additando la giovinetta, che egli proteggeva tenendosela stretta a braccio. Clara fece un moto come per trattenerlo dall'infuriar troppo; ma egli non le badò piucché tanto, e seguitò a minacciare e a voler proceder oltre. I due buli tornarono allora ad afferrarlo per le braccia, avvertendolo che r ordine era preciso e che contro i renitenti avevano facoltà di adoperare la forza. - E questa facoltà di adoperare la forza io la ho sempre, e ne uso largamente contro i soperchiatoril- soggiunse con maggior calore Lucilio sciogliendosi con una scrollata dal pugno dei due sgherani. Ma in quella un altro moto di Clara lo avvisò del pericolo e della inopportunità di tali atti di violenza. Laonde si rimise in calma e domandò a quei due chi fossero e con qual'autorità vietassero di entrare in castello alla figlia del giurisdicente. Gli scherani risposero che erano delle Cernide di Venchieredo, ma che l'inseguimento dei contrabbandieri li autorizzava ad agire anche fuori della loro giurisdizione; che i bandi dei signori Sindaci parlavano chiaro, e che del resto tale era l'ordine del loro Capo di Cento e che erano là non per altro che per farlo rispettare. Lucilio voleva resistere ancora, ma la Clara lo pregò sommessamente di cessare; ed egli s'accontentò di tornar indietro con lei minacciando i due sgherani e il loro padrone di tutte le ire del Luogo-

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tenente e della Serenissima Signoria, che egli ben sapeva quanto poco valessero. - Tacetel già sarebbe inutile- gli veniva bisbigliando all'orecchio la Clara traendolo lunge da quei due sgherri. - Mi dispiace che è notte fatta e a casa saranno inquieti per me; ma con un piccolo giro potremo entrare benissimo dalla parte delle scuderie. In fatti si sviarono per la campagna cercando il sentiero che menava alla pustierla: ma non avean camminato cento passi che trovarono rintoppo di due altre guardie. - È un vero agguatol- sciamò indispettito Lucilio. - Che una nobile donzella debba serenare1 tutta notte pel capriccio di alcuni mascalzonil - Badi alle parole, Illustrissimo!- gridò uno dei due dando per terra un furioso colpo col calcio del moschetto. Il giovine tremava di rabbia palpeggiando coll'una mano in fondo alla tasca la sua fida pistola; ma nell'altra sentiva il braccio di Clara che tremava di spavento ed ebbe il coraggio di trattenersi. - Cerchiamo d'intenderci colle buone - riprese egli fremendo ancora pel dispetto. - Quanto volete a lasciar passare qui la Contessina? ... Credo che non sospetterete già ch'ella porti qualche contrabbando I - Illustrissimo, noi non sospettiamo niente: - rispose lo sgherro - ma se anche potessimo chiuder un occhio e lasciarli passare, quei del castello sono di diverso parere. Essi hanno buttato a terra tutti e due i ponti e la Contessina non potrebbe entrare che camminando sull'acqua come san Pietro. - Ohimèl ma dunque il pericolo è proprio grave! - sciamò tramortendo la Clara. - Eh nulla! un timor panico! me lo figuro!- rispose Lucilio. E voltosi ancora allo sgherro: - Dov'è il vostro Capo di Cento? - domandò. - Lustrissimo è all'osteria che beve del migliore mentre noi facciamo la guardia ai pipistrelli - rispose il malandrino. - Va bene: spero che non ci negherete di accompagnarci al1' osteria per abboccarci con essolui- soggiunse Lucilio. - Mal non abbiamo ordini in proposito- ripigliò raltro. Tuttavia mi pare che si potrebbe, massime se Vostra Signoria volesse pagarne un bicchiere. J.

sermare: stare allo scoperto.

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- Animo dunque e vieni con noi! - disse Lucilio. Lo sbirro si volse al suo compagno raccomandandogli di stare alla posta e di non addormentarsi: raccomandazioni udite con pochissimo conforto da colui che dovea restarsene a mangiar la nebbia mentre l'altro aveva in prospettiva un boccaletto di Cividino.1 Tuttavia si rassegnò borbottando; e Lucilio e la Clara preceduti dalla Cernida mossero di bel nuovo verso il paese. Questa volta i due guardiani li lasciarono passare, e in breve furono all'osteria dove strepitava una tal gazzarra che pareva più un carnovale che una caccia di contrabbandi. Infatti Gaetano, dopo aver inaffiato le gole de' suoi, aveva cominciato a porger il bicchiere ai curiosi. Costoro, un po' selvatici dapprincipio, s'intesero benissimo con lui con quel muto ed espressivo linguaggio. E gli abbeverati chiamavano compagnia, e questa cresceva si rinnovava e beveva sempre più. Tantoché, mesci e rimesci, in capo ad una mezz'ora la sbirraglia di Venchieredo era diventata una sola famiglia col contadiname del villaggio; e l'oste non rifiniva dal portare a cielo la splendidezza e la rara puntualità del degnissimo Capo di Cento delle Cernide di Venchieredo. Come si può ben credere, tanta munificenza non era né arbitraria né senza motivo. Il padrone gliel'avea suggerita per tener in quiete la popolazione, e distoglierla dal prender partito contro di loro a favore dei castellani. Gaetano adoperava da furbo; e le mire del principale erano ben servite. Se avesse voluto, avrebbe fatto gridare da trecento ubbriachi: - Viva il castellano di Venchieredo!- E Dio sa qual effetto avrebbe prodotto nel castello di Fratta il suono minaccioso di questo grido. Quando Lucilio e la Clara posero piede nell'osteria, la baldoria era al colmo. La giovine castellana avrebbe avuto il crepacuore di veder in festa coi nemici della sua famiglia i più fidati coloni; ma la non ci badava, e la sorpresa e lo sgomento per tutto quel parapiglia le impedivano dal vederci entro chiaro. Temeva qualche grave pericolo pei suoi e le doleva di non esser con loro a dividerlo, non pensando che se pericolo c'era per essi asserragliati ben bene dietro due pertiche di fossato, più grave doveva essere per lei difesa da un unico uomo contro quella canaglia sguinzagliata. Lucilio peraltro non era di tal animo da lasciarsi 1.

Cividino: vino di Cividale del Friuli.

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imporre da chicchessia. Egli andò difilato a Gaetano, e gli ordinò con voce discretamente arrogante di far in maniera che la Contessina potesse entrare in castello. La prepotenza del nuovo arrivato e il vino che aveva in corpo fecero che il Capo di Cento la portasse, per modo di dire, ancor più cimata del solito. Gli rispose che in castello erano una razza perversa di contrabbandieri, che egli aveva precetto di tenerli ben chiusi finché avessero consegnati i colpevoli e le merci trafugate, e che in quanto alla Contessina ci pensasse lui giacché l'aveva a braccio. Lucilio alzò la mano per menare uno schiaffo a quell'impertinente; ma si penti a mezzo e si torse rabbiosamente i mustacchi col gesto favorito del capitano Sandracca. Il meglio che gli restava a fare era di uscire da quel subbuglio e menare la sua compagna in qualche sicuro ricovero ove passasse la notte. La Clara si oppose dapprima a una tal deliberazione, e volle ad ogni patto giungere fin sul ponte per vedere se veramente era rotto. E Lucilio ve la accompagnò per quanto gli sembrasse pericoloso avventurarsi con una donzella fra quei manigoldi avvinazzati che gavazzavano in piazza. Ma non voleva Id si accagionasse né di aver mancato di coraggio né di aver ommesso cura alcuna per raccompagnare la Clara in casa sua. Però osservate le rovine del ponte e chiamato inutilmente Germano un paio di volte, convenne loro darsi fretta a partire, perché lo schiamazzo cresceva sempre, e la sbirraglia cominciava ad affoltarsi e a provocarli con beffe ed insulti. Lucilio sudava per la fatica durata a moderarsi; ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo la donzella, e in tal pensiero diede giù per una stradicciuola laterale del villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse a gran passi, trascinandosela dietro, sulle praterie dei mulini. Là si fermò per farle prender fiato. Ella sedette stanca e lagrimosa sul margine d'una siepe, e il giovine si curvò sopra di lei a contemplare quelle pallide sembianze sulle quali la luna appena sorta pareva specchiarsi con amore. I negri fabbricati del castello sorgevano rimpetto a loro, e qualche lume traspariva dalle fessure dei balconi per nascondersi tosto come una stella in cielo tempestoso. L'oscuro fogliame dei pioppi stormeggiava lievemente; e il baccano del villaggio, ammorzato dalla distanza, non interrompeva per nulla i trilli amorosi e sonori degli usignuoli. I bruchi lucenti scintillavano fra l'erbe; le stelle tremolavano in cielo; la luna giovinetta strisciava sulle forme incerte e tenebrose con

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raggio obliquo e velato. La modesta natura circondava di tenebre e di silenzi il suo talamo estivo, ma l'immenso suo palpito sollevava di tanto in tanto qualche ventata di un'aria odorosa di fecondità. - Era una di quelle ore in cui l'uomo non pensa, ma sente; cioè riceve i pensieri begli e fatti dall'universo che lo assorbe. Lucilio, anima pensosa e spregiatrice per eccellenza, si sentì piccolo suo malgrado in quella calma così profonda e solenne. Perfino la gioia dell'amore si diffuse nel suo cuore in un lungo vaneggiamento melanconico e soave. Gli parve che i suoi sentimenti ingrandissero come la nube di polvere sperperata dal vento; ma le forme scomparivano, il colore si diradava; si sentiva più grande e meno forte; più padrone di tutto e meno di sé. Gli sembrò un momento che la Clara seduta dinanzi a lui s'illuminasse negli occhi d'un bagliore fiammeggiante: egli quasi folgorato dovette socchiuder le palpebre. - Donde questo prodigio? - Non lo potea capire egli stesso. Forse la solennità della notte, che stringe le anime deboli di superstiziose paure, ripiega sopra se stesso lo spirito dei forti, mostrandogli, entro il buio delle ombre, il simulacro del destino, del domatore di tutti. Forse anco il dolore della fanciulla regnava sopra di lui com'egli avea trionfato poco prima di lei per forza di volontà. Poveretta! No che gli occhi suoi non fiammeggiavano allora; se almeno lo sguardo non risplendeva pel tremolio delle lagrime. Il suo cuore riboccante una mezz'ora prima di felicità e d'amore volava, in quegli istanti, al letto di sua nonna; in quella cameretta silenziosa e bene assestata dove Lucilio avea passato con esse le lunghe ore; e quando egli non c'era ne restava viva per l'aria una cara memoria, un'immagine invisibile e ammaliatrice. Oh come avrebbe stentato ad addormentarsi la povera vecchia senza il solito bacio della nipote! Chi le avrebbe dato ragione, chi l'avrebbe consolata della sua assenza? Chi avrebbe pensato a lei nei pericoli che si minacciavano al castello per quella notte? La pietà, la divina pietà gonfiava di nuovi singhiozzi il petto della giovane, e la mano che Lucilio le stese per aiutarla a rialzarsi fu inondata di pianto. Ma rimessi che furono in via questi riebbe subito l'alacrità consueta. I sogni disparvero; i pensieri gli sprizzarono in capo risoluti e virili; la volontà piegata un momento rizzossi con miglior lena a ripigliare il comando. La storia dell'amor suo, e quella dell'amore di Clara, i casi straordinari di quella sera, i sentimenti della giovinetta ed i proprii gli si

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dipinsero dinanzi in un sol quadro senza confusione e senza anacronismi. Egli ne rilevò con un'occhiata da aquila il concetto generale, e decise ad ogni costo che o solo o colla fanciulla egli doveva entrare in castello prima che passasse la notte. L'amore gli imponeva questo dovere; aggiungiamo ancora che l'interesse dell'amore medesimo glielo consigliava caldamente. Clara pregava il Signore e la Madonna, Lucilio stringeva a parlamento tutte le voci del proprio ingegno e del proprio coraggio; e cosi appoggiati l'una al braccio dell'altro, camminavano silenziosamente verso il mulino. Quanta moderazione! diranno taluni pensando al caso di Lucilio. Ma se diranno così gli è o ch'io mi sono spiegato male o che essi non mi hanno capito a dovere quando discorreva della sua indole. Lucilio non era né un birbone né uno scavezzacollo; pretendeva soltanto di vederci a fondo nelle cose umane, di volerne il meglio e di saper conseguire questo meglio. Queste tre pretese, se temperate da un sano criterio, egli avrebbe potuto provarle coi fatti; perciò non si lasciava mai trascinare dalle passioni, ma teneva ben salde le redini e sapeva fermarle all'uopo tanto sull'orlo del precipizio quanto sulla sponda lusinghiera e traditrice d'una fondura verdeggiante. Entrarono dunque nel mulino, ma non ci trovarono alcuno benché il fuoco scoppiettasse tuttavia in mezzo alle ceneri. La polenta lasciata sul tagliere dava a vedere che tutti non aveano cenato e che alcuni degli uomini s'erano forse attardati nel villaggio a guardar la tregenda. Ma quella era forse la famiglia con cui la Contessina aveva maggior dimestichezza, onde non le dispiacque di vedersi colà ricoverata. - Ascolta, ben mio - le disse sottovoce Lucilio rattizzando il fuoco per sciuttarla dell'umido preso nei prati. - Io chiamerò ora e ti affiderò a qualcuna di queste donne, e poi o per forza o per amore penetrerò in castello a recarvi le tue novelle, e a guardare come stanno là dentro. La Clara arrossi tutta sotto gli sguardi del giovane. Era la prima volta che in una stanza e alla piena del fuoco riceveva nel cuore il loro muto linguaggio d'amore. Arrossì peraltro senza rimorsi perché non le pareva di aver violato nessuno dei comandamenti del Signore; e dal volersi bene alla muta al confessarselo vicendevolmente non capiva qual differenza ci potesse essere. - Tu fa' in modo di coricarti e di riposare; - prosegui Luci-

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lio - io penserò nel frattempo a dar la voce dell'accaduto al Vicecapitano di Portogruaro, perché si affrettino a scompigliare le trame di questi birbanti ... Va là! per nulla non sono venuti e a me pare di leggerci sotto bene a tutto questo loro zelo contro i contrabbandi ... È una vendetta, o una rappresaglia, fors'anco un tafferuglio ingarbugliato a bella posta per finire quell'imbroglio del processo ... Ma io metterò le cose sotto la vera luce, e il Vicecapitano vedrà lui da qual parte stiano i veri interessi della Signoria. Intanto, Clara m_ia, sta' in pace e dormi sicura; domattina, se non saranno venuti dal castello a prenderti, verrò io stesso; e chi sa anche che non capiti durante la notte se ci son cose pressanti. - Oh ma voi! ... non arrischiatevi! per carità! - mormorò la giovinetta. - Sai come sono - rispose Lucilio. - Non potrei far a meno di movermi e di tentar qualche cosa, se anche si trattasse di gente sconosciuta. Figurati poi ora che è in ballo la tua famiglia, la nostra buona vecchia! - Povera nonna! - sciamò la Clara. - Sì, va' va'; e confortala e torna subito a chiamare anche me che starò qui ad aspettare col cuore sospeso. - Ti dico che tu devi coricarti e che chiamerò qualcheduna delle donne - soggiunse Lucilio. - No, lasciale dormire, ché io non potrei- replicò la donzella. - Oh, mi maraviglio con me, e quasi mi vergogno, di poter rimaner qui e di non correre fuori anch'io( - A che fare? - soggiunse Lucilio. - No per carità, non ti muovere da questo luogo. Anzi devi rinchiuderti bene, giacché essi sono tanto sconsigliati da lasciar le porte spalancate fino a mezza notte 1 .•• Marianna, Marianna I - si mise a gridare il giovane affacciandosi alla porta della scala. Di li a poco rispose dall'alto una voce, e poi lo scalpitare di due zoccoli, e non passò un minuto che la Marianna tutta scollata e sbracciata scese in cucina. - Dio mi perdonil - sciamò ella raccogliendosi la camicia sul petto- credeva che fosse il mio uomol ... È lei, signor dottore? .•• E anche la Contessinal ... Oh diavolo I cos'è stato? Da qual parte son venuti dentro ? - Capperi! da quelle quattro braccia di porta spalancata( - ri-

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spose Lucilio. - Ma ora non è tempo da ciarle, Marianna: Ja Contessina non può entrare in castello perché là intorno e' è del subbuglio ... - Come, c'è del subbuglio? ... Ma i nostri uomini dunque? ... Ah birbonaccil Non hanno neppur cenatol ... Per andarsene a curiosare hanno lasciato aperte anche tutte le porte ..• - Ascoltate me ora, Marianna; - riprese Lucilio - i vostri uomini torneranno, ché non corrono nessun pericolo. - Come, non corrono nessun pericolo? Se sapesse il mio in ispecialità come è manesco e arrischiatol ... È capace di appiccar briga con un esercito, colui! ... - E bene! state certal per questa sera non l'appiccherà! ... Io andrò in cerca di loro e ve li manderò a casa .•. Ma voi intanto badate che non manchi niente alla Contessina. - Oh povera signora! cosa le deve capitare anche a lei! ... Scusi, sa, se mi vede in questo arnese, ma credeva proprio che fosse il mio uomo. Birbone! scappar via senza cena lasciando la porta aperta! ... Oh me la pagherà! ... Mi comandi dunque, Contessina! ... Mi dispiace che qui non troverà nulla da par suol ..• - Dunque vi raccomando, Marianna! - disse ancora Lucilio. - Si figuri ; non c'è mestieri di raccomandazioni. Mi dispiace di essere così scamiciata. Ma già lei, signor dottore, è avvezzo a queste scene, e la Contessina è tanto buonal La Marianna nell'affaccendarsi intorno al fuoco mostrava due bellissime spalle che meglio spiccavano per la loro candidezza dal bruno colore delle braccia e del viso. Non era forse malcontenta di mostrarle e per questo se ne scusava tanto. - Addiol ... amami, amamil- mormorò Lucilio all'orecchio della Clara; indi, raccolto uno sguardo di lei tutto amore e speranza, si dileguò fuori dell'uscio nella nebbia della campagna. La Clara non poté fare a meno di seguirlo fino sulla soglia, indi perdutolo di vista, tornò a sedere in cucina, ma non presso al foco perché il caldo era grande e aveva asciutte le vesti più del bisogno. Invece la sua testa i suoi polsi ardevano come tizzoni, e aveva le labbra e la gola riarse quasi per febbre. La Marianna voleva a tutta forza che la mandasse giù un boccone; ma la non volle a nessun patto, e si accontentò d'un bicchier d'acqua. Indi allungò il braccio sulla spalliera della seggiola e vi poggiò sopra il capo nell'attitudine di chi s'appresta a dormire; e la Marianna

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allora cercò persuaderla di coricarsi di sopra nel suo letto, che le avrebbe messe le lenzuola di bucato. Vedendo poi che eran parole buttate via, la vistosa mugnaia si tacque, e dati i chiavistelli alla porta sedette essa pure su uno sgabello. - Io voglio che voi andiate a coricarvi - le disse allora la Clara, che, per quanti pensieri per quanti timori avesse per sé, non avrebbe mai commesso una dimenticanza a scapito altrui. - No signora I bisogna che io stia qui per esser pronta ad aprire ai nostri uomini, - rispose la Marianna - altrimenti invece di darla mi toccherebbe pigliare una gridata. La Clara tornò allora a reclinar la fronte sul braccio, e stette così, come si dice, sognando ad occhi aperti, mentre la Marianna dopo aver dondolato un buon pezzo col capo lo appoggiava sopra una tavola cominciando a fiatare colle tranquille e regolari battute d'una robusta campagnuola che dorme della grossa. Intanto mentre il signor Lucilio con ogni accorgimento per non esser veduto si veniva avvicinando alle fosse posteriori del castello, io mandato fuori esploratore me ne scostava con pari prudenza, volendo girar in maniera da sbucar al villaggio per un altro capo e togliere ogni sospetto di quello che era veramente. Quando ebbi camminato un tiro di schioppo verso le praterie, mi parve discernere nel buio una forma d'uomo che avanzava tra il fogliame delle viti con somma circospezione. Mi acquattai dietro il seminato; e stetti guardando, protetto contro ogni curiosità dalla mia piccolezza e dal frumento che mi stava a ridosso colle sue belle spighe già bionde e pencolanti. Guardo tra spica e spica, tra vite e vite, e in un aperto battuto dalla luna cosa mi par di vedere? ... - Il signor Lucilio! - Torno ad osservar ancora; e mi torna a comparire. Mi alzo, me gli avvicino con prudenza sempre dietro il frumento, e pronto ad intanarmivi entro come una lepre al minimo bisogno. Guardo ancora: era proprio lui. Nessuna ventura al mondo potea toccarmi secondo me più fortunata di questa in simile congiuntura. Il signor Lucilio era il confidente della vecchia Contessa, e della Clara; egli avea dimostrato di volermi qualche bene nell'occasione della mia scappata in laguna; nessuno migliore di lui per aiutarmi nelle mie ricerche. E siccome egli avea fama di uomo scienziato, cosi il mio criterio prese da quell'incontro le più belle lusinghe. Quando me gli trovai presso un dieci passi:

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- Signor Lucilio! signor Lucilio 1- bisbigliai con quella voce sommessa sommessa che sembra voglia farsi tanto lunga quanto si fa sottile. Egli si fermò e stette in ascolto. - Sono il Carlino di Fratta! Sono il Carlino dello spiedolio continuai alla stessa maniera. Egli trasse di tasca un certo arnese che conobbi poi essere una pistola e mi si avvicinò guardandomi ben fiso in faccia. Siccome ero coperto dall'ombra del frumento, pareva che stentasse a ri. conoscermi. - E si, si, diavolo! son proprio io! - gli dissi con qualche impazienza. - Zitto, silenzio! - mormorò egli con un filettino di voce. Qui presso vi ha una guardia e non vorrei che origliasse i nostri discorsi. Intendeva quella guardia ch'era rimasta sola dopoché la compagna s'era messa per guida di Lucilio e della Contessina. Ma la solitudine è alle volte una triste consigliera e la guardia, dopo una valorosa difesa durata per più di mezz'ora, avea finito col rimaner vinta dal sonno. Perciò Lucilio ed io potevamo parlare in piena sicurezza che nessuno ci avrebbe incommodati. - Accostamiti all'orecchio, e dimmi se esci dal castello, e cosa c'è di nuovo là dentro- mi bisbigliò egli all'orecchio. - C'è di nuovo che hanno una paura da olio santo; - risposi io - che hanno buttato giù i ponti pel timore di essere ammazzati dai buli di Venchieredo, che si è perduta la signora Clara, e che dall'Avemaria ad ora hanno già detto due rosari. Ma adesso hanno mandato fuori me perché fiuti l'aria, e cerchi conto della Contessina, e torni poi a recar loro le novelle. - E cosa penseresti di fare, piccino? - Capperi I cosa penso di fare I ... Andare all'osteria fingendo di essermi smarrito come mi è accaduto quell'altra volta, se ne ricorda? quella volta della febbre; e poi ascoltare quello che dicono gli sbirri, e poi domandar della Contessina a qualche contadino, e poi tornare fedelmente per dove sono venuto scavalcando il fosso sopra una tavola. - Sai che sei proprio uno spiritino I Non ti credeva da tanto. Peraltro consolati che la fortuna ti sparagna de' bei fastidi. Io sono stato all'osteria, io ho condotto in salvo al mulino la con-

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tessina Clara, e se m'insegni il modo di entrare in castello, potremo portar loro la risposta in compagnia. - Se gli insegnerò il modo? Mi basterà un fischio, e Marchetto ci butterà la tavola. Dopo lasci fare a me, che passerà l'acqua senza bagnarsi, purché abbia l'avvertenza di imitarmi e di star ben in bilico sulla tavola. - Andiamo dunquel E Lucilio mi prese per mano; e rasentando alcune folte siepaie dietro le quali è impossibile affatto l'esser veduti anche di giorno, io lo condussi in un batter d'occhio in riva alla fossa. Li fischiai com'eravamo d'intesa, e 1\.1:archetto fu pronto ad accorrere e a buttarmi la tavola. - Così presto?- mi diss'egli dall'altra banda del fosso, perché la maraviglia vinse pel momento ogni altro riguardo. - Zitto!- risposi io mostrando a Lucilio il modo di adagiarsi sulla tavola. - Chi c'è ? - soggiunse più sorpreso ancora il cavallante che cominciava allora a distinguere nel buio due figure in vece di una. - Amici, e zitto I - rispose Lucilio; e poi egli stesso, come pratico del mestiere, diede una spinta che ci menò proprio a baciare pulitamente l'altra riva. - Son io, son iol- diss'egli saltando a terra- e porto buone notizie della contessina Claral ... - Davvero? Sia lodato il Cielo I- soggiunse Marchetto sgomberandogli la strada per aiutar me a ritirare la tavola dall'acqua. Quando s'entrò in cucina aveano finito allora allora di recitare il rosario; il fuoco era spento, ché del resto non avrebbero potuto reggere in quel luogo colla caldana della state; nessuno pensava alla cena e solamente monsignor Orlando gettava di tanto in tanto sulla cuoca qualche occhiata irrequieta. Anche Martino s'era messo taciturno e imperterrito a grattare il suo formaggio; ma tutti gli altri avevano tali facce da far onore ad un funerale. La comparsa di Lucilio fu un raggio di sole in mezzo ad un temporale. Un- Ohi- di maraviglia, d'ansietà, e di piacere gli risonò intorno in coro, e poi tutti si fermarono a guardarlo senza domandargli nulla, quasi dubitassero s'ei fosse un corpo, o un fantasma. Toccò dunque a lui aprir la bocca pel primo; e le parole di Mosè quando tornava dal monte non furono ascoltate con maggior attenzione

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delle sue. Martino avea intermesso 1 anch'egli di grattare, ma non arrivando a capir nulla dei discorsi che si facevano, finì coll'impadronirsi di me e farsi contar a cenni una parte della storia. - Prima di tutto ho buone notizie della contessina Clara diceva intanto il signor Lucilio. - Ella era uscita nei campi verso Fossalta incontro alla signora Contessa come costuma; e impedita di rientrare in castello dai bravacci che lo guardano da tutte le parti, io stesso ebbi l'onore di menarla in salvo nel mulino della prateria. Quei bravacci che attorniavano il castello d'ogni lato guastarono assai la buona impressione che dovea esser prodotta dalle notizie della Clara. Tutti sorrisero colle labbra al colombo della buona nuova, ma negli occhi lo sgomento durava peggio che mai e non sorrideva per nulla. - Ma dunque siam proprio assediati come se fossero Turchi coloro!- sciamò la Contessa giungendo disperatamente le mani. - Si consoli che l'assedio non è poi tanto rigoroso se io ho potuto penetrare fin qui; - soggiunse Lucilio - gli è vero che il merito è tutto del Carlino, e che se non lo avessi incontrato lui, difficilmente avrei potuto orientarmi così presto e farmi gettar la tavola da Marchetto. Gli occhi della brigata si volsero allora tutti verso di me con qualche segno di rispetto. Alla fine capivano che io era buono ad altro che a girare l'arrosto, ed io godetti dignitosamente di quel piccolo trionfo. - Sei anche stato all'osteria?- mi chiese il fattore. - Vi dirà tutto il signor Lucilio - risposi modestamente - Egli ne sa più di me perché ha avuto che fare, credo, con quei signori. - Ahi e cosa dicono? pensano d'andarsene?- domandò ansiosamente il Conte. - Pensano di rimanere; - rispose Lucilio - per ora almeno non c'è speranza che levino il campo, e bisognerà ricorrere al Vice-capitano di Portogruaro per deciderli a metter la coda fra le gan1bc. Monsignor Orlando mandò un'altra e più espressiva occu1-11.1, alla cuoca; il canonico di Sant' Andrea si accomodò il collare con un leggero sbadiglio: in ambidue i reverendi i bisogni del corpo 1.

avea intermesso: il manoscritto (1, 88 recto) ha intromesso. 13

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cominciavano a gridar più forte delle afflizioni dello spirito. Se questo è segno di coraggio, essi furono in quella circostanza i cuori più animosi del castello. - Ma cosa ne dice lei? cos'è il suo parere in questa urgenza? - chiese con non minor ansietà di prima il signor Conte. - Dei pareri non ce n'è che uno - soggiunse Lucilio. - Son ben munite le mura? sono sprangate le porte e le finestre? ci sono moschetti e spingarde alle feritoie? V'ha per questa notte gente sufficiente per vegliare alla difesa ? - A voi, a voi, Capitano!- strillò la Contessa invelenita pel contegno poco sicuro dello schiavone. - Rispondete dunque al signor Lucilio! Avete disposto le cose in maniera che si possa credersi al sicuro ? - Cioè; - barbugliò il Capitano- io non ho che quattro uomini, compresi Marchetto e Germano; ma i moschetti e le spingarde sono all'ordine; e ho anche distribuito la polvere ... In difetto poi di palle, ho messo in opera la mia munizione da caccia. - Benissimo! credete che quei manigoldi siano passerottilgridò il Conte. - Freschi staremo a difendercene coi pallini I - Via, per cinque o sei ore anche i pallini basteranno; - riprese Lucilio - e quando loro signorie sappiano tener a freno quegli assassini fino a giorno, io credo che le milizie del Vice-capitano avranno campo di intervenire. - Fino a giorno l come si fa a difenderci fino a giorno, se quei temerari si mettono in capo di darci l'assalto!?- urlò il Conte strappandosi a ciocche la perrucca. - Ne uccideremo uno, agli altri il sangue andrà alla testa, e saremo tutti fritti prima che il signor Vice-capitano pensi a mettersi le ciabatte! - Non veda, no, le cose tanto scure; - replicò Lucilio - castigatone uno, creda a me che gli altri faranno giudizio. Non ci si perde mai a mostrar i denti; e giacché il signor capitano Sandracca non sembra del suo umor solito, io solo voglio incaricarmene; e dichiaro e guarentisco che io solo basterò a difendere il castello, e a mettere in iscompiglio al menomo atto tutti quei spaccamonti di fuori I - Bravo signor Lucilio! Ci salvi leil Siamo nelle sue manilsclamò la Contessa. Infatti il giovane parlava con tal sicurezza che a tutti si rimise un po' di fiato in corpo; la vita tornò a muoversi in quelle figure,

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sbalordite dallo spavento, e la cuoca s'avviò alla credenza con gran conforto di Monsignore. Lucilio si fece raccontar brevemente l'andamento di tutto l'affare; giudicò con miglior fondamento che fosse una gherminella del castellano di Venchieredo per tagliar a mezzo il processo con un colpo di mano sulla cancelleria, e per primo atto della sua autorità fece trasportare in un salotto interno le carte e i protocolli di quella faccenda. Esaminò poi diligentemente le fosse le porte e le finestre; appostò Marchetto con Germano dietro la saracinesca; il fattore lo mise alla vedetta dalla parte della scuderia; altre due Cernide che erano il nerbo della guarnigione le dispose alle feritoie che guardavano il ponte; distribuì le cariche e comandò che irremissibilmente fosse ammazzato chi primo osasse tentare il valico della fossa. Il capitano Sandracca stava sempre alle calcagna del giovine mentre egli attendeva a questi provvedimenti; ma non aveva coraggio di fare il brutto muso, anzi gli facevano mestieri i cenni gli urtoni e gli incoraggiamenti della moglie per non accusare il mal di ventre e ritirarsi in granaio. - Cosa le pare, Capitano? - gli disse Lucilio con un ghignetto alquanto beffardo. - Avrebbe fatto anche lei quello che ho fatto io? ... - Sissignore ... lo aveva già fatto; - balbettò il Capitano - ma mi sento lo stomaco ... - Poveretto!- lo interruppe la signora Veronica.- Egli ha faticato fin adesso; ed è suo merito se i manigoldi non son già penetrati in castello. Ma non è più tanto giovane, la fatica è fatica, e le forze non corrispondono alla buona volontà! - Ho bisogno di riposo - mormorò il Capitano. - Sì, si, riposi con suo comodo; - soggiunse Lucilio - il suo zelo lo ha provato bastevolmente; e ormai pub mettersi sotto la piega colla coscienza tranquilla. Il veterano di Candia non se lo fece dire due volte; infi.lb la scala volando come un angelo, e per quanto la moglie gli stesse a' panni gridando; di guardarsi bene e di non precipitarsi! in quattro salti fu nella sua stanza ben inchiavata e puntellata. Quel dover passare vicino alle feritoie gli avea dato il capogiro; e gli parve di stare assai meglio fra la coltre e il materasso. Ai pericoli futuri Dio avrebbe provveduto; egli temeva più di tutto i presenti. La signora Veronica poi si sfogava, rimproverandogli som-

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messamente la sua dappocaggine; ed egli rispondeva che non era il suo mestiero quello di affrontare i ladri, ma che se si fosse trattato _di vera guerra guerreggiata lo avrebbero veduto al suo posto. - Giovinastri, giovinastri! - sciamò il valentuomo stirandosi le gambe. - La trinciano da eroi perché hanno l'imprudenza di sfidar una palla facendo capolino dai merli. Eh, mio Dio, ci vuol altro! ... Veronica, non uscir mica di camera sai! ... Io voglio difenderti come il più gran tesoro che abbia! - Grazie; - rispose la donna - ma perché non vi siete svestito? - Svestirmi! vorresti che mi svestissi con quella giuggiola di tempesta che abbiamo alle spalle! ... Veronica, sta sempre vicina a me . .. Chi vorrà offenderti dovrà prima calpestare il mio cadavere. Costei si gettò anch'essa, vestita com'era, sul letto; e da coraggiosa donna avrebbe anche pigliato sonno, se il marito ad ogni mosca che volava non fosse sobbalzato tant'alto, domandandole se aveva udito nulla, ed esortandola a confidare in lui, e a non allontanarsi dal suo legittimo difensore. Intanto da basso una discreta cena improvvisata con ova e bragiuole avea calmato gli spasimi dei due monsignori, e rimessili con tutta l'anima alla paura, s'interrogavan l'un l'altro sul numero e sulla qualità degli assalitori: eran cento, eran trecento, eran mille; tutti capi da galera, il miglior de' quali era fuggito al capestro per indulgenza del boia. Se gridavan al contrabbando, si era per trovar pretesto ad un saccheggio; a udirli urlare e cantare sulla piazza dovevan esser ubbriachi fradici, dunque non bisognava aspettarsi da essoloro né ragionevolezza né remissione. Il resto della compagnia faceva tanto d'occhi a questi ragionamenti; e peggio poi quando alcuna delle scolte veniva a riferire di qualche romore udito, di qualche movimento osservato nelle vicinanze del castello. Lucilio, dopo fatta una visita alla vecchia Contessa e aver coonestato anche lui con una panchiana1 l'assenza della Clara, era tornato a confortare quei poveri diavoli. Scrisse allora e fece firmare dal Conte una lunga e pressantissima lettera al Vice-capitano di Portogruaro, e domandò licenza alla compagnia d'andar egli stesso in persona a portarla. Misericordia! non lo avesse mai detto! La Contessa gli si gettò quasi ginocchione di1.

panchiana: panzana, frottola.

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nanzi; il Conte lo abbrancò pel vestito cosi furiosamente che gliene strappò quasi una falda; i canonici, la cuoca, le guattere, i servitori lo attorniarono d'ogni lato come ad impedirgli d'uscire. E tutti con occhiate con gesti con monosillabi o con parole s'in-gegnavano di fargli capire che partir lui era lo stesso che volerli privare dell'ultima lusinga di salute. Lucilio pensò a Clara, e pur decise di rimanere. Tuttavia si richiedeva alcuno che s'incaricasse della lettera, e di nuovo gettarono gli occhi sopra di me. Giovandomi della confusione generale, io era sempre stato nella camera della Pisana sopportando i suoi rimbrotti per la fazione extra muros di cui io l'aveva defraudata. Ma appena mi chiamarono ebbi l'accortezza e la fortuna di farmi trovar sulla scala. M'empirono il capo d'istruzioni e di raccomandazioni, mi cucirono nella giacchetta il piego, mi imbarcarono sulla solita tavola, ed eccomi per la seconda volta impegnato in una missione diplomatica. Sonavano allora per l'appunto le dieci ore di notte, e la luna mi dava negli occhi con poca modestia; due cose che mi davano qualche fastidio, la prima per le streghe e le stregherie raccontatemi da Marchetto, la seconda per la facilità che ne proveniva di poter essere osservato. Con tutto ciò ebbi la fortuna di giungere sano e salvo sui prati. Tremava un pocolino dapprincipio; ma mi rassicurai strada facendo, e nell'entrar al mulino, come volevano le mie istruzioni, assunsi una cert'aria d'importanza che mi fece onore. Rassicurai la contessina Clara e risposi con garbo a tutte le sue interrogazioni; indi detto alla Marianna che l'andasse a svegliare il maggiore de' suoi figliuoli, approfittai della sua assenza per istracciare la fodera della giacchetta; e cavatane la lettera la riposi come nulla fosse in saccoccia. Sandro era un garzoncello maggiore di me di due anni e che dimostrava un ingegno ed un coraggio non comuni; perciò il fattore m'aveva raccomandato di addrizzarmi a lui per mandar quella scritta a Portogruaro. Egli si tolse l'incarico senza neppur pensarci sopra; si buttò la giubba sulle spalle, mise la lettera nel petto, e uscì fuori zufolando come andasse ad abbe-verare i buoi. La strada ch'ei dovea tenere verso Portogruaro si allontanava sempre più da Fratta e non v'avea pericolo che fosse sorpreso e intercettato. Perciò io stava senza alcun timore, beato beatissimo di veder uscire a buon fine tutte le commissioni affidatemi, e piene le orecchie degli elogi che mi avrebbero suonato intorno nella cucina del castello. Benché mi avesse raccomandato

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il signor Lucilio di far compagnia alla signora Clara fino al ritorno del messo, il terreno mi bruciava sotto di rimettermi in moto; quell'andare e venire, quel mistero, quei pericoli avean dato l'abbrivo alla mia immaginazione infantile, e non potea stare senza qualche gran impresa per le mani. Mi saltb allora in capo di rientrare nel castello a darvi contezza di quella parte dell'incarico che aveva già avuto effetto; salvo sempre di rinnovare la sortita per saper la risposta del Vice-capitano di giustizia. La Clara, udita questa mia intenzione, domandb risolutamente se mi bastava l'animo di far passare la fossa anche a lei. Il mio piccolo cuore palpitb più di superbia che d'incertezza, e risposi col volto fiammeggiante e col braccio teso che mi sarei annegato io, piuttostoché far bagnare a lei la falda della veste. La Marianna tentò attraversare con molte ragioni di prudenza questo disegno della padroncina; ma essa avea conficcato proprio il chiodo, ed io poi era così contento di ribadirlo che mi tardava l'ora di trovarmi con lei ali' aperta. Detto fatto, lasciata la mugnaia colla sua prudenza, noi uscimmo sui prati, e di là in breve fummo senza guaio alle fosse. Il solito fischio la solita tavola; e la traversata successe a dovere come le altre volte. La Contessina gongolava tanto di fare quell'improvvisata, che il passar l'acqua a quel modo le fu quasi piacevole e rideva come una ragazzina nell'inginocchiarsi su quell'ordigno. Le feste le maraviglie la consolazione di tutta la famiglia sarebbero lunghe a ridirsi: ma il primo pensiero di Clara fu di chieder conto della nonna; o se non fu il primo pensiero, fu certo la prima parola. Lucilio le rispose che la buona vecchia, persuasa della fandon~a che le avean dato a bere sul conto di lei, crasi addormentata in pace, e bene stava di non risvegliarla. Allora la giovinetta sedette cogli altri in tinello; ma mentre tutti origliavano dalle fessure delle finestre i rumori che venivano dal villaggio, ella parlava muta muta cogli occhi di Lucilio e lo ringraziava per tutto quanto egli aveva adoperato a loro vantaggio. Infatti era una voce sola che ascriveva al signor Lucilio tutto quel po' di sicurezza e di speranza, che risollevava le anime degli abitatori del castello dalla prima abiezione. Lui era stato a consolarli con qualche buon argomento, lui a munire provvisoriamente il castello contro un colpo di mano, lui a concepire quella sublime pensata del ricorso al Vice-capitano. Li tornava in campo

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io. Mi si chiese conto della lettera e di chi se n'era incaricato; e tutti giubilarono di sapere che di lì a un paio d'ore io sarei tornato al mulino per recare la risposta di Portogruaro. Ognuno mi fece mille carezze, io era portato in palma di mano, Monsignore mi perdonava la mia ignoranza in punto al Confiteor, ed il fattore si pentiva di avermi posposto ad un menarrosto. Il Conte mi volgeva gli occhi dolci e la Contessa poi non finiva mai di accarezzarmi la nuca. Giustizia tarda e meritata. Mentre la brigata si sbracciava a farmi la corte, crebbe il romore di fuori improvvisamente, e Marchetto, il cavallante, col fucile in mano e gli occhi sbarrati si precipitò nel tinello. Che è che non è? - Fu un alzarsi improvviso, un gridare, un domandare, un rovesciarsi di seggiole, e di candelieri.- C'era che quattro uomini per un condotto d'acqua rimasto asciutto erano sbucati dietro la torre; che erano saltati addosso a lui e a Germano; che costui con due coltellate nel fianco doveva essere a mal partito, e che egli avea fatto appena tempo di scappare serrandosi dietro le porte. A queste notizie lo strillare, e il rimescolarsi crebbe di tre tanti; nessuno sapeva cosa si facesse; parevano quaglie insaccate allo scuro in un canestro che danno del capo qua e là alla rinfusa senza cognizione e senza scopo. Lucilio si sfiatava a raccomandare la quiete, e il coraggio; ma era un parlare ai sordi. La sola Clara lo udiva e cercava aiutarlo col persuadere la Contessa a farsi animo e a sperare in Dio. - Dio, Dio! è proprio tempo di ricorrere a Dio! ... - sciamava la signora- chiamateci il confessore! ... Monsignore, lei pensi a raccomandarci l'anima. Il canonico di Sant'Andrea, cui erano rivolte queste parole, non avea più anima per sé - figuratevi se avea intenzione o possibilità di raccomandare quella degli altri! In quel momento s'udì lo scoppio di molte schioppettate, e insieme grida e romori e minaccie di gente che sembrava azzuffarsi nella torre. Lo scompiglio non conobbe più limiti. Le donne di cucina capitarono da un lato, le cameriere la Pisana i servi dall'altro; il Capitano entrò più morto che vivo sostenuto dalla moglie, e gridando che tutto era perduto. S'udivano di fuori le strida e le preghiere delle famiglie di Fulgenzio e del fattore che chiedevano esser ricoverate nella casa padronale come in luogo più sicuro. In tinello era un affacciarsi confuso e precipitoso di volti sorpresi e sparuti, un

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gesteggiare di preghiere e di segni di croce, un piangere di donne, un bestemmiare di uomini, un esorcizzare di monsignori. Il Conte avea perduto la sua ombra che avea stimato opportuno di ficcarsi più ancora all'ombra sotto il tappeto della tavola. La Contessa quasi svenuta guizzava come un'anguilla, la Clara s'ingegnava di confortarla come poteva meglio. Io per me aveva presa tra le braccia la Pisana, ben deciso a lasciarmi squartare prima di cederla a chichessia: il solo Lucilio avea la testa a segno in quel parapiglia. Domandò a Marchetto, ed ai servi, se tutte le porte fossero serrate; indi chiese al cavallante se avesse veduto le due Cernide prima di scappare dalla torre. Il cavallante non le aveva vedute; ma ad ogni modo non bastavano due soli uomini a menar tutto quel gran romore che si udiva di fuori; e Lucilio giudicò tosto che qualche nuovo accidente fosse intervenuto. Avesse già avuto effetto il ricorso al Vice-capitano? - Pareva troppo presto; tanto più che la soverchia premura non era il difetto delle milizie d'allora. Certo peraltro qualche soccorso era capitato; se pure gli assalitori non erano tanto ubbriachi da favorirsi le archi_bugiate fra di loro. In quella, alle querele delle donne di Fulgenzio e del fattore successe contro le finestre un tambussare di uomini, e un gridar che si aprisse e che si stesse quieti, perché tutto era finito. Il Conte e la Contessa non s'acquietavano per nulla, credendo che fosse uno stratagemma immaginato per entrar in casa a tradimento. Tutti si stringevano angosciosamente intorno a Lucilio aspettando consiglio e salute da lui solo; la contessina Clara s'era messa alla porta della scala deliberata a correre dalla nonna non appena il pericolo si facesse imminente. I suoi occhi rispondevano valorosamente agli sguardi del giovane; che badasse egli pure agli altri, poiché per lei si sentiva forte e sicura contro ogni evento. Io teneva la Pisana piucchemai stretta fra le braccia, ma la fanciulletta mossa all'emulazione dal mio coraggio gridava che la lasciassi, e che si sarebbe difesa da sé. L'orgoglio poteva tanto sull'immaginazione di lei che le pareva di bastare contro un esercito. Frattanto il signor Lucilio accostatosi ad una finestra avea domandato chi fossero coloro che bussavano. - Amici, amici! di San Mauro e di Lugugnanal- risposero molte voci. - Aprite! Sono il Partistagnol I malandrini furono snidatilsoggiunse un'altra voce ben nota che sciolse si può dire il re-

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spiro a tutta quella gente trepidante tra la paura e la speranza. Un grido di consolazione fece tremare i vetri ed i muri del tinello e se tutti fossero diventati pazzi ad un punto non avrebbero dato in più strane e grottesche dimostrazioni di gioia. Mi ricorda e mi ricorderà1 sempre del signor Conte, il quale al fausto suono di quella voce amica si mise le mani alle tempia, ne sollevò la perrucca, e stette con questa sollevata verso il cielo, come offrendola in voto per la grazia ricevuta. Io ne risi, ne risi tanto, che buon per me che la grandezza del contento stornasse dalla mia persona l'attenzione generale(- Finalmente le porte furono aperte, le finestre spalancate; s'accesero fanali, lucerne, lampioni, e candelabri; e al festivo splendore d •una piena illuminazione, fra il suono delle canzoni trionfali, dei Te Deum e delle più divote giaculatorie, il Partistagno invase coll'armata liberatrice tutto il pianterreno del castello. Gli abbracciari le lagrime i ringraziamenti le meraviglie furono senza fine; la Contessa, dimenticando ogni riguardo, era saltata al collo del giovine vincitore, il Conte, monsignor Orlando, e il canonico di Sant'Andrea vollero imitarla; la Clara lo ringraziò con vera effusione d'aver risparmiato alla sua famiglia chi sa quante ore di spavento e d'incertezza, e fors'anco qualche disgrazia meno immaginaria. Il solo Lucilio non si congiunse al giubilo e all'ammirazione comune; forse lo scioglimento non gli quadrava, e l'avrebbe voluto derivare dovunque fuorché dalla parte per la quale era venuto. Tuttavia era troppo giusto ed accorto per non mascherare questi spropositati sentimenti d'invidia; e fu egli il primo che richiese il Partistagno del modo e della fortuna che l'aveva menato a quella buona opera. Il Partistagno raccontò allora com' egli fosse venuto quella sera per la solita visita al castello, ma un po' più tardi del consueto pel riparo di alcune arginature che l'ebbe trattenuto a San Mauro. Gli sgherri di Venchieredo gli avevano proibito d'entrare, ed egli avea fatto un gran gridare contro quella soperchieria, ma non ne avea cavato nulla; e alla fine vedendo che le chiacchiere non contavano un fico, ed accorgendosi che quel gridare al contrabbando era una copertina a Dio sa quali diavolerie, s•era proposto di partire e tornar alla carica con ben altri argomenti che le parole. Mi ricorda e mi n·cordnà: ritorna la forma impersonale già segnalata a pag. 7. 1.

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- Perché io non sono un prepotente di mestiere; - soggiunse il Partistagno- ma all'uopo anch'io posso qualche cosa e so farmi valere. - E ciò dicendo mostrava tesi i muscoli dei polsi, e faceva digrignare certi denti acuti e sottili che somigliavano quelli del leone. Infatti l'era tornato di galoppo a San Mauro, e là, raccoltivi alcuni suoi fidati, nonché molte Cernide di Lugugnana che vi stavano ancora a lavoro sopra l'argine, s'era ravviato verso Fratta. Eravi giunto proprio nel momento che la torre veniva occupata per sorpresa da quattro bravacci; ond'egli, sgominato prima assai facilmente gli ubbriachi che ar11:1eggiavano sulla piazza e nell'osteria, si mise a guadar la fossa con parecchi de' suoi. Con qualche fatica guadagnarono l'altra riva senzaché coloro che aveano occupato la torre si dessero cura di ributtarli, intesi com'erano a scassinar gangheri e serrature per penetrare nell'archivio. E poi dopo qualche schioppettata, scambiatasi così tra il chiaroscuro più per braveria che per bisogno, i quattro malandrini erano venuti nelle sue mani; e li teneva guardati nella stessa torre ove s'erano introdotti con si sfacciata sceleraggine. Fra questi era il capobanda Gaetano. Quanto poi al portinaio del castello l'era già morto quando le Cernide di Lugugnana s'erano accorte di lui. - Povero Germano I - sdamò il cavallante. - E che non ci sia proprio più pericolo? che tutti siano partiti? che non ci si rifacciano addosso per la rivincita? - chiese il signor Conte al quale non pareva vero che un tanto temporale si fosse squagliato per aria senza qualche grande fracasso di fulmini. - I capi sono bene ammanettati e saranno savi come bambini fino al momento che li regoli meglio il boia; - rispose il Partistagno - quanto agli altri scommetto che non si sovvengono più di qual odor sappia l'aria di Fratta, e che lor non cale niente affatto di :fiutarla ancora. - Dio sia lodato!- sciamò la Contessa- signor Barone di Partistagno, noi tutti e le cose nostre ci facciamo roba sua in riconoscenza dell'immenso servigio che ci ha prestato. - Ella è il più gran guerriero dei secoli moderni!- gridò il Capitano asciugandosi sulla fronte il sudore che vi avea lasciato la paura. - Pare peraltro che anche lei avesse pensato ad una buona difesa - rispose il Partistagno. - Finestre e porte erano così tappate che non ci sarebbe passata una formica.

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Il Capitano ammutoH, s'avvicinb col fianco alla tavola per non far vedere ch'egli era senza spada e della mano accennb a Lucilio, come per riferir a lui tutto il merito di tali precauzioni. - Ah è stato il signor Lucilio I ? - sclamb Partistagno con un lieve sapore d'ironia. - Bisogna confessare che non si poteva usare maggior prudenza. Il panegirico della prudenza in bocca di chi avea vinto coll'audacia somigliava troppo ad un motteggio perché Lucilio non se ne accorgesse. L'anima sua dovette sollevarsi ben alto per rispondere con un modesto inchino a quelle ambigue parole. Il Partistagno, che credeva di averlo subissato o poco meno, si volse per vedere sulla :fisonomia della Clara l'effetto di quel nuovo trionfo sul piccolo e infelice rivale. Si maraviglib alquanto di non vederla, perocché la fanciulla era già corsa di sopra ad usciolare dietro la porta della nonna. Ma la buona vecchia dormiva saporitamente, protetta contro le archibugiate da un principio di sordità; ed ella tomb indi a poco in tinello, contentissima della sua esplorazione. Il Partistagno la adocchiò allora gustosamente, e n'ebbe un'occhiata di pura benevolenza che lo confermò viemmeglio nella sua compassione pel povero dottorino di Fratta. In mezzo a cib gli piovevano d'ogni lato domande sopra questo e sopra quello; e sul numero dei malandrini, e sul modo da lui adoperato nel passar la fossa, e come sempre avviene dopo il pericolo, tutti godevano d'immaginarlo grandissimo e di ricordarne le emozioni. Lo stato d'animo di chi è o si crede sfuggito ad un rischio mortale somiglia a quello di chi ha ricevuto risposta favorevole ad una dichiarazione d'amore. L'istessa giocondità, l'istessa loquacia, l'istessa prodigalità di ogni cosa che gli venga domandata, l'istessa leggerezza di corpo e di mente; e per dirla meglio, tutte le grandi gioie si somigliano nei loro effetti, a differenza dei grandi dolori che hanno una scala di manifestazioni molto variata. Le anime hanno un centinaio di sensi per sentir il male, ed uno solo pel bene; e la natura rileva alcun poco dell'indole di GuerrazzP 1. Guerrazzi: curioso questo giudizio del Nievo sull'indole di Francesco Domenico Guerrazzi. Il Nievo ne avrà letto senz'altro, come molti giovani di quel tempo, i romanzi e in particolare La battaglia di Benevento e L'assedio di Firenze e forse l'Apologia della vita politica. Forse ne udi parlare a Livorno durante la lotta della città contro gli Austriaci del generale D'Aspre, il 10 maggio 1849. Ma su questa partecipazione del Nievo alla gloriosa giornata livornese i biografi sono discordi.

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che ha maggior immaginativa per le miserie che pei pregi della vita. Il primo cui venne in mente che ai nuovi arrivati potesse abbisognare qualche rinfresco, fu monsignor Orlando; io penso sempre che lo stomaco più ancora della riconoscenza lo facesse accorto di tale bisogno. Dicono che l'allegria è il più attivo dei succhi gastrici, ma Monsignore avea digerito la cena durante la paura; e l'allegria non avea fatto altro che stimolare vieppiù il suo appetito. Due ova e mezza bragiuolal Ci voleva altro per farlo tacere, l'appetito d'un monsignore! ... Subito si misero all'opera; e si fece man bassa sui porcellini di Fulgenzio. Il timore d'un lungo assedio era svanito; la cuoca lavorava per tre; le guattere e i servi avevano quattro braccia per uno; il fuoco sembrava disporsi a cuocere ogni cosa in un minuto; Martino lagrimando per la morte di Germano, comunicatagli allora allora dal cavallante, grattava in tre colpi mezza libbra di formaggio. lo e la Pisana facevamo gazzarra contenti e beati di vederci dimenticati nel tripudio universale; per noi avremmo desiderato ogni mese un assalto al castello per goderne poi un simile carnovale. Ma la memoria del povero Germano s'intrometteva sovente ad abbuiare la mia contentezza. Era la prima volta che la morte mi passava vicina dopo che era venuto in età di ragione. La Pisana mi svagava col suo chiacchierio, e mi rampognava del mio umore ineguale. Ma io le rispondeva: - E Germano? - La piccina allungava il broncio; ma poco stante tornava a ciarlare, a di mandarmi contezza delle mie spedizioni notturne, a persuadermi che ella avrebbe fatto anche meglio, e a congratularsi meco che la cuoca si fosse degnata di porre in opera il menarrosto senza ficcar me a far le sue veci. lo mi svagava dal mio dolore in questi colloqui; e la superbietta di essere stimato qualche cosa mi teneva troppo occupato di me e della mia importanza per permettermi di pensar troppo al morto. Era già passata la mezzanotte di qualche mezz'ora quando la cena fu in pronto. Non si badò a distinzione di quarti o di persona. In cucina in tinello in sala nella dispensa ognuno mangiò e bevve, come e dove voleva. Le famiglie del fattore e di Fulgenzio furono convitate al banchetto trionfale; e soltanto fra un boccone ed un brindisi la morte di Germano e la sparizione del sagrista e del Cappellano richiamarono qualche sospiro. Ma i morti non si movono e i vivi si trovano. Di fatti il pretucolo e Fui-

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genzio capitarono non molto dopo, cosl pallidi e sformati che parevano essere stati rinchiusi fin allora in un cassone di farina. Uno scoppio di applausi salutò il loro ingresso, e poi furono invitati a contare la loro storia. La era in verità molto semplice. Ambidue, dicevano, senza farsi motto l'uno all'altro, al primo giungere dei nemici erano corsi a Portogruaro per implorar soccorso; e di là infatti capitavano col vero soccorso di Pisa. 1 - Che? sono lì fuori i signori soldati ? - sciamò il signor Conte che non si era ancora accorto di aver perduto la perrucca. - Fateli entrare! ... Su dunque, fateli entrare! I signori soldati erano sei di numero compreso un caporale, ma in punto a stomaco valevano un reggimento. Essi giunsero opportuni a spazzar i piatti degli ultimi rimasugli dei porcellini arrostiti e a ravvivar rallegria che cominciava già a maturarsi in sonno. Ma poi ch'essi furono satolli e il canonico di Sant'Andrea ebbe recitato un Oremus in rendimento di grazie al Signore del pericolo da cui eravamo scampati, si pensò sul serio a coricarsi. AJlora, chi chiappa chiappa, uno qua ed uno là, ognuno trovò il proprio covo, la gente di rilievo nella foresteria, gli altri chi neUa frateria, chi nelle rimesse, chi sul fienile. Il giorno dopo soldati, Cernide e sbirri ebbero per ordine del signor Conte una grossa mancia; e ognuno tornò a casa sua dopo aver ascoltato tre messe, in nessuna delle quali io fui seccato perché recitassi il Confiteor. Così si tornò dopo quella furia di burrasca alla solita vita; il signor Conte peraltro aveva raccomandato che portassimo il trionfo con fronte modesta perché non gli garbava per nulla di andar incontro ad altre rappresaglie. Con silnili disposizioni d'animo vi figurerete che il processo instituito sulle rivelazioni di Germano non andò innanzi con molta premura; e neppure pareva che si avesse volontà di castigare davvero quei quattro sgherani che erano rimasti prigioni di guerra del Partistagno. Il Venchieredo, fatto accortamente palpare a loro riguardo, rispose che egli veramente li avea mandati sull'onne di al-. cuni contrabbandieri che si dicevano rifugiati nelle vicinanze di Jt'ratta, che se poi le sue istruzioni erano state da loro oltrepassate in modo punibile criminalmente, ciò non riguardava lui ma soccorso di Pisa: cioè accorrere in aiuto quando non ce n'è più bisogno, come la ftotta pisana alla prima crociata. Vecchio detto ancor vivo. J.

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la cancelleria di Fratta. Il Cancelliere del resto non mostrava gran volontà di veder a fondo nelle cose, e sfuggiva di condurre i detenuti a pericolose confessioni. L'esempio di Germano parlava troppo chiaro; e 1'accorto curiale era uomo da pigliar le cose di volo. Lasciava dunque dormire il processo principale, e in quell'altra inquisizione dell'assalto dato alla torre era felicissimo di aver provato la perfetta ubbriachezza dei quattro imputati. Così sperava lavarsene le mani, e che la polvere dell' obblio si sarebbe accumulata provvidenzialmente su quei malaugurati protocolli. Le cose tentennavano in questo modo da circa un mese, quando una sera due cappuccini chiesero ospitalità nel castello di Fratta. Fulgenzio che conosceva tutte le barbe cappuccinesche della provincia non affigurò per nulla quelle due; ma avendo essi dichiarato che venivano dall'lllirio, circostanza provata vera dall'accento, furono accolti cortesemente. Fossero poi venuti dal mondo della luna, nessuno avrebbe arrischiato cli respingere due cappuccini colla magra scusa che non si conoscevano. Essi si scusarono colla santa umiltà dall'entrare in tinello, ove c'era in quella sera piena conversazione; ed edificarono invece la servitù con certe loro santocchierie e certi racconti della Dalmazia e di Turchia ch'erano le consuete parabole dei frati di quelle parti. Indi domandarono licenza d'andare a coricarsi; e Martino li guidò e li introdusse nella stanza della frateria che era divisa dal mio covacciolo con un semplice assito e nella quale io li vidi entrare per una fessura di questo. Il castello poco dopo taceva tutto nella quiete del sonno; ma io vegliava alla mia fessura, perché i due cappuccini avevano certe cose addosso da stuzzicar propriamente la curiosità. Appena entrati nella stanza si assicurarono essi con due buone spanne di catenaccio; intli li vidi trarre di sotto alla tonaca arnesi, mi parevano, da manovale, ed anche due solidi coltellacci, e due buone paia di pistole, che non son solite a portarsi da frati. Io non fiatava per lo spavento, ma la curiosità di sapere cosa volessero dire quegli apparecchi mi faceva durare alla vedetta. Allora uno di coloro cominciò con uno scalpello a smovere le pietre del muro dirimpetto che s'addossava alla torre; e un colpo dopo l'altro così alla sordina fu fatto un bel buco. - La muraglia è profonda - osservò sommessamente quell'altro. - Tre braccia e un quarto; - soggiunse quello che lavorava-

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ne avremo il bisogno per due ore e mezzo prima di poterci passare. - Ma se qualcuno ci scopre in questo frattempo! - Sì eh? ... peggio per luil ... sei mila ducati comprano bene un paio di coltellate. - Ma se non possiamo poi svignarcela perché si svegli il por-· tinaio? - E cosa sogni mai? ... Gli è un ragazzaccio, il figliuolo di Fulgenzio! ... Lo spaventeremo e ci darà le chiavi per farci uscire comodamente, altrimenti ... e< Povero Noni!» pensai io al vedere il gesto minaccioso con cui il sicario interruppe il lavoro. Quella bragia coperta di Noni non mi era mai andato a sangue, massime per lo spionaggio eh' egli esercitava malignamente a danno mio e della Pisana; ma in quel momento dimenticai la sua cattiveria, com'anche avrei dimenticato la chietineria invidiosa e maligna di suo fratello Menichetto. La compassione fece tacere ogni altro sentimento; d'altronde la minaccia toccava anche me, se avessero sospettato che li osservava pei fori dell'assito; e avvezzo già alle spedizioni avventurose sperai anche in quella notte di darmi a divedere un personaggio di proposito. Apersi pian pianino l'uscio del mio buco, e penetrai a tentone nella camera di Martino. Non volendo né arrischiando parlare, spalancai le finestre in modo che entrasse un po' di luce perché la notte era chiarissima: indi mi avvicinai al letto, e presi a destarlo. Egli saltava su di soprassalto gridando chi era, e cosa fosse, ma io gli chiusi la bocca colla mano e gli feci cenno di tacere. Fortuna che egli mi conobbe subito; laonde così a cenni lo persuasi di seguirmi e condottolo fin giù sul pianerottolo della scala gli diedi contezza della cosa. Il povero Martino faceva occhi grandi come lanterne. - Bisogna destare Marchetto, il signor Conte, e il Cancelliere - diss' egli pieno di sgomento. - No, basterà Marchetto;- osservai io con molto giudiziogli altri farebbero confusione. Infatti si destò il cavallante il quale entrò nel mio disegno che bisognava far le cose alla muta senza baccani e senza molta gente. Il foro dietro cui lavoravano i cappuccini dava nell'archivio della cancelleria, che era una cameraccia scura al terzo piano della torre, piena di carte di sorci e di polvere. Il meglio era appostar c~là due uomini fidati e robusti che abbrancassero uno per uno i due

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frati mano a mano che passavano e li imbavagliassero• e li legassero a dovere. E così si fece. I due uomini furono lo stesso Marchetto e suo cognato che stava in castello per ortolano. Essi penetrarono pian piano nell'archivio adoperando la chiave del Conte che restava sempre nelle tasche delle sue brache in anticamera; e stettero lì uno a destra ed uno a sinistra del luogo ove si sentivano sordi sordi i colpi dei due scalpelli. Dopo mezz'ora penetrò nell'archivio un raggio di luce, e i due uomini fermi al loro posto. Per ogni buon conto s'erano armati di mannaie e di pistol~, ma speravano di farne senza perché i signori frati lavoravano sicuri e privi di qualunque timore. - Io passo col braccio - mormorò uno di questi. - Ancora due colpi e il difficile è fatto- rispose l'altro. Con poco lavoro s'allargò il buco siffattamente, che vi potea passare con qualche stento una persona; e allora uno dei due frati, quello che sembrava il caporione, allungò la testa indi un braccio indi l'altro e strisciando innanzi colle mani sul pavimento dell'archivio s'ingegnava di tirarsi addietro le gambe. Ma quando meno se lo aspettava sentì una forza amica aiutarlo a ciò, e nel tempo stesso un pugno vigoroso gli afferrò il mento, e sbarrategli le mascelle gli cacciò in bocca un certo arnese che gli impediva quasi di respirare nonché di gridare. Una buona attortigliata ai polsi e una pistola alla gola fornirono l'opera e persuasero colui a non moversi dal muro contro cui lo avevano addossato. Il frate compagno parve un po' inquieto del silenzio che successe al passaggio del suo principale; ma poi si rassicurò credendo che non fiatasse per paura di farsi udire, e fece animo egli pure di sporger la testa dal buco. Costui fu trattato con minor precauzione del primo. Appena impadronitosi della testa, Marchetto la tirò tanto che quasi gliel'avrebbe cavata se lo stesso paziente non avesse smosso colle spalle alcune pietre della muraglia. Imbavagliato e legato anche questo, lo si frugò ben bene unitamente al compagno; si tolsero loro le armi e furono condotti in un luoguccio umido, appartato, e ben riparato dall'aria dov'ebbero posto cadauno in una celletta come due veri frati. Li lasciarono così in preda alle loro meditazioni per destar la famiglia e propalare la gran novella. 1. imbavagliassero: il manoscritto (1, 92 verso) ha sbavaglia11ero. L'edizione Fuà Fusinato reca sbaragliassero; lezione poco accettabile sia per ragioni contestuali che per ragioni grafiche. Riteniamo si tratti di una distrazione del Nievo. Già le edizioni Mantovani e Palazzi portano imbavagliassero.

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Figuratevi qual maraviglia, che batticuore, che consolazione! Era certo che anche quel nuovo tiro veniva dalla parte di Venchieredo. Laonde si decise di serbare piucché fosse possibile il segreto finché si desse notizia dell'accaduto al Vice-capitano di Portogruaro. Fulgenzio fu incaricato di ciò. La missione ebbe effetto così pieno che il castellano aspettava ancora il ritorno dei due frati, quando una compagnia di Schiavoni attorniò il castello di Venchieredo, s'impadronì della persona del signor giurisdicente, e lo trasse legato in tutta regola a Portogruaro. Certamente Fulgenzio avea trovato argomenti molto decisivi per indurre la prudenza del Vice-capitano a una sì forte e subitanea risoluzione. Il prigioniero pallido di bile e di paura si mordeva le labbra per esser caduto da sciocco in una trappola, e con tardiva avvedutezza pensava indarno ai bei feudi che possedeva oltre l'Isonzo. Le carceri di Portogruaro erano molto solide e la fretta della sua cattura troppo significante perché si lusingasse di poterla scapolare. Gli abitanti di Fratta dal canto loro furono alleggeriti d'un gran peso: e tutti si scatenarono allora contro la temerità di quel prepotente; e piccoli e grandi si facevano belli di quel colpo di mano come se il merito fosse appunto loro e non del caso. Un ordine venuto qualche giorno dopo di consegnare i quattro imputati d'invasione a mano armata, nonché i due finti cappuccini e le carte del processo di Germano ad un messo del Serenissimo Consiglio dei Dieci mise il colmo alla gioia del Conte e del Cancelliere. Essi respirarono di aver nette le mani di quella pece, e fecero cantare un « Te Deum » per motivi moventi l'animo loro quando dopo due mesi si venne a sapere di sottovento che i sei malandrini eran condannati alle galere in vita, e il castellano di Venchieredo a dieci anni di reclusione nella fortezza di Rocca d'Anfo 1 sul Bresciano come reo convinto di alto tradimento e di cospirazione con potentati esteri a danno della Repubblica. Le lettere deposte da Germano erano appunto parte d'una corrispondenza clandestina, tenuta in addietro dal Venchieredo con alcuni feudatari goriziani, nella quale si parlava d'indurre Maria Teresa ad appropriarsi il Friuli veneto assicurandole il favore e la cooperazione della nobiltà terrazzana. Rimasta in potere di Germano parte di questa corrispondenza per le difficoltà di porto e di recapito spesse volte incontrate, egli si era schivato dal orte::za di Rocca d' Anfo: grande fortezza veneziana costruita negli ultimi anni del Quattrocento, sulle rive del lago d'Idro. 1. /

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restituirla accusando di aver distrutto quelle carte o per paura di chi lo inseguiva o per altra urgente cagione. Così pensava egli apparecchiarsi una buona difesa contro il padrone nel caso che questi, come usava, avesse cercato sbarazzarsi di lui; e il destino volle che quanto egli aveva preparato per difendersi valesse invece ad offendere un uomo prepotente ed iniquo. Dopo il processo criminale del Venchieredo s'agitò in Foro civile la causa di fellonia. Ma fosse accorgimento del Governo di non toccar troppo sul vivo la nobiltà friulana, o valentia degli avvocati, o bontà dei giudici, fu deciso che la giurisdizione del castello di Venchieredo continuerebbe ad esercitarsi in nome del figliuolo minorenne del condannato, il quale era alunno nel collegio dei padri Scolopi a Venezia. In una parola la sentenza di fe} .. Ionia pronunciata contro il padre si giudicò non dovesse recar effetto a pregiudizio del figlio. Allora fu che, tolto di mezzo Gaetano e ogni altro impiccio, Leopardo Provedoni ottenne finalmente in isposa la Doretta. Il signor Antonio se ne dovette accontentare; come anche di vedere lo Spaccafumo in onta ai bandi e alle sentenze assistere e far grande onore al pranzo di nozze. Gli sposi furono stimati i più belli che si fossero mai veduti nel territorio da cinquant'anni in poi; e i mortaretti che si spararono in loro onore nessuno si prese la briga di contarli. La Doretta entrò trionfalmente in casa Provedoni: e i vagheggini di Cordovado ebbero una bellezza di più da occhieggiare durante la messa delle domeniche. Se la forza erculea e la severità del marito sgomentiva i loro omaggi, li incoraggiava invece continuamente la civetteria della moglie. E tutti sanno che in tali faccende son più ascoltate le lusinghe che le paure. Il cancelliere di Venchieredo, rimasto padrone quasi assoluto in castello durante la minorennità del giovane giurisdicente, rifletteva parte del suo splendore sopra la figlia: e certo nei giorni di' sagra ella preferiva il braccio del padre a quello del marito, massime quando andava a pompeggiare nelle festive radunanze intorno alla fontana. Anche la mia sorte in quel frattempo s'era cambiata di molto. Non era ancora in istato di pigliar moglie, ma aveva dodici anni sonati, e la scoperta dei finti cappuccini mi avea cresciuto assai nell'opinione della gente. La Contessa non mi aspreggiava più, e qualche volta sembrava vicina a ricordarsi della nostra parentela benché si ravvedesse tosto tosto da quegli slanci di tenerezza. Però non si oppose al marito quando egli si mise in capo di

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avviarmi alla professione curiale, aggiungendomi intanto come scrivano al signor Cancelliere. Finalmente ebbi la mia posata alla tavola comune, proprio vicino alla Pisana, perché le strettezze della famiglia, che continuavano con una pessima amministrazione, aveano fatto smettere l'idea del convento anche riguardo alla piccina. Io seguitava a taroccare 1 a giocare e a martoriarmi con lei; ma già la mia importanza mi compensava degli smacchi che ancor mi toccava sopportare. Quando poteva passarle dinanzi recitando la mia lezione di latino, che doveva ripetere al Piovano la dimane, mi sembrava di esserle in qualche cosa superiore. Povero latinista! come la sapeva corta! •..

CAPITOLO SESTO Nel quale si legge un parallelo fra la Rivoluzione francese e la tranquillità patriarcale della giurisdizione di Fratta. Gli Eccellentissimi Frumier si ricoverano a Portogn,aro. Crescono la mia importanza, la mia gelosia, la mia sapienza di latino, sicché mi mettono per graffiacarte in cancelleria. Ma la comparsa a Portogruaro del dotto padre Pendola e del brillante Raimondo di V enchieredo mi mette in maggior pensiero.

Gli

anni che al castello di Fratta giungevano e passavano l'uno uguale all'altro, modesti e senza rinomanza come umili campagnuoli, portavano invece a Venezia e nel resto del mondo nomi famosi e terribili. Si chiamavano 1786, 1787, 1788; tre cifre che fanno numero al pari delle altre, e che pure nella cronologia dell'umanità resteranno come i segni d'uno de' suoi principali rivolgimenti. Nessuno crede ora che la rivoluzione francese sia stata la pazzia d'un sol popolo. La Musa imparziale della storia ci ha svelato le larghe e nascoste radici di quel delirio di libertà, che dopo avere lungamente covato negli spiriti, irruppe negli ordini sociali, cieco sublime inesorabile. Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un'idea. Soltanto la nazione francese, spensierata e impetuosa, precipita prima delle altre dalla dottrina al1' esperimento: fu essa chiamata il capo dell'umanità, e non ne è 1.

taroccare: ad arrabbiarmi, a brontolare.

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che la mano; mano ardita, destreggiatrice, che sovente distrusse l'opera propria, mentre nella mente universale dei popoli se ne maturava più saldo il disegno. A Venezia come in ogni altro stato d'Europa cominciavano le opinioni a sgusciare dalle nicchie famigliari per aggirarsi nella cerchia più vasta dei negozi civili; gli uomini si sentivano cittadini, e come tali interessati al buon governo della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s'accorgevano del legame dei doveri. Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall'altro. Ma a Venezia meno che altrove gli animi eran disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord capitatovi in quel torno ebbe a dire d'averci trovato non uno stato ma una famiglia. 1 Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica; le differenze di età e d'esperienza che inducono l'obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d'altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora, giunge il momento che i figliuoli cresciuti di forza di ragione e d'età hanno diritto d'uscir di tutela: quella famiglia nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il più santo dei diritti umani, la libertà. Venezia era una famiglia cosifatta. L'aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell'ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sé al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro. Ma chi non conosce queste isole fortunate, sorrise dal cielo, accarezzate dal mare, dove perfino 1. un principe del Nord: il granduca ereditario di Russia, Paolo Petrovic detto il conte del Nord, figlio di Pietro III e di Caterina Il, visitò Venezia nel gennaio del 1782 insieme alla consorte, Maria Teodorowna. Commosso e meravigliato delle feste approntate in suo onore, dopo aver assistito a una caccia di tori e ad una sfilata di carri allegorici in piazza San Marco, esclamò: • Voilà l'effet du sage gouvernement de la République. Ce peuple est une famille. •

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la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull'acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si addormenta sognando gli abbracciamenti di Romeo.; morire colla felicità della speranza e le rosee illusioni della gioia parrà sempre il punto più delizioso della vita. Cosl nessuno si accorgeva che i lunghi e chiassosi carnovali altro non erano che le pompe funebri della regina del mare. Al 18 febbraio 1788 moriva il doge Paolo Renier; 1 ma la sua morte non si pubblicò fino al dì secondo di marzo, perché il pubblico lutto non interrompesse i tripudii della settimana grassa. Vergognosa frivolezza dinotante che nessun amore nessuna fede congiungevano i sudditi al principe, i figliuoli al padre. Viva e muoia a suo grado purché non turbi l'allegria delle mascherate, e i divertimenti del Ridotto :2 cotali erano i sentimenti del popolo, e della nobiltà che si rifaceva popolo solo per godere con minori spese, e con più sicurezza. Con l'uguale indifferenza fu eletto doge ai nove di marzo Lodovico Manin :3 si affrettarono forse, perché le feste della elezione rompessero le melanconie della quaresima. L'ultimo doge 1. Il doge Paolo Renier: morì settantanovenne il 18 febbraio 1789 e non 1788, come dice il Nievo. La sua morte fu annunziata ufficialmente il primo lunedì di quaresima, il 2 marzo, per non turbare l'allegria del carnevale. Nel 1762 insieme ad Angelo Querini e ad altri patrizi aveva propugnato riforme costituzionali, soprattutto per arginare la strapotenza del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori. Succeduto ad Alvise Mocenigo nel 1779, arrivò alla suprema carica dello Stato con gli intrighi e il denaro. Aveva accumulato enormi ricchezze nel bailaggio di Costantinopoli (bailo si chiamava l'ambasciatore della Repubblica presso il governo turco). Doge, fronteggiò abilmente la nuova corrente riformista capeggiata da Giorgio Pisani e Carlo Contarini. Fu avidissimo ma seppe curare con avvedutezza gli interessi di Venezia: il giudizio dei contemporanei e dei posteri fu a volte troppo severo verso di lui. La sua nomina era dispiaciuta al popolo che lo odiò sempre e fu lieto della sua scomparsa~ 2. Ridotto: il Ridotto era una pubblica casa da gioco. Nelle sue vaste sale erano disposte lunghe file di tavolini, dietro ai quali i nobili, in veste patrizia, tenevan banco con chiunque si sedesse loro di fronte, purché patrizio anch'egli o mascherato. Si guadagnavano o si perdevano in silenzio grandi somme. 3. Lodovico Manin: il 9 marzo 1789 fu eletto, come successore di Paolo Renier, il Manin, ultimo Doge della Serenissima. Di antica origine toscana, la sua famiglia fu ammessa soltanto nel 1651 nel patriziato. La sua elezione fu seguita da grandi feste. Fu uomo debole che si circondò di deboli, e nel 1797, dopo una lunga serie di errori e di titubanze, fu uno dei maggiori responsabili dell'ingloriosa fine della Repubblica. I due dogi ricordati più sotto sono Enrico Dandolo (1193-1205), che ebbe parte importante nella quarta crociata, e Francesco Foscari (1423-1457), dei tempi dell'espansione in terraferma.

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sali il soglio di Dandolo e di Foscari nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata. Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una si marcia inettitudine, non avea mancato chi, prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii. Fors'anco i rimedii proposti non furono né opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perché altri pensasse a farmaci migliori. Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d'una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l'infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore. Non molti anni prima l' Avogadore di Comune/ Angelo Querini, avea sofferto due volte la prigionia d'ordine del Consiglio dei Dieci2 per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali con cui si accaparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio. 3 La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l'indipendenza di una autorità semi-tribunizia, e tanto il valore e l'affetto consentitole; nessuno s'accorse o tutti finsero non s'accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di imitarlo. Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per 1. Gli A.tJogadori di Comune, cioè gli avvocati di Comune, una delle magistrature elettive più alte della Repubblica veneta, erano in numero di tre e avevano ingresso in tutti i Consigli della Repubblica, le cui sedute non erano valide senza la presenza di almeno uno degli avogadori. Dopo la costituzione del Consiglio dei Dieci l'autorità degli avogadori decadde ma rimase pur sempre notevole la loro funzione giudiziaria di accusatori pubblici nelle tre Quarantie civili e in quella criminale; Angelo Querini, negli anni 1761 e '62, voleva togliere agli Inquisitori e al Consiglio dei Dieci ogni ingerenza nelle questioni civili. La sua proposta non significava un mutamento delttistituto aristocratico veneziano, bensi un rafforzamento di esso, in quanto tendeva ad un bilanciamento di autorità fra le istituzioni esistenti. 2. Il Consiglio dei Dieci fu creato nel 1310 per giudicare la congiura Querini-Tiepolo. Non smenti mai la sua origine di organo particolarmente addetto a vigilare sulla condotta politica dei patrizi. 3. Il Maggior Consiglio era l'adunanza generale dei nobili. Istituito nel 1172 con circa 4 70 membri, dopo la sua riforma, avvenuta in seguito alla serrata (1296), aumentò notevolmente di numero ma escludendo coloro che non appartenevano alla nobiltà. La sua ampiezza mutò varie volte nel corso dei secoli per l'estinguersi di molte famiglie patrizie e per l'ammissione di nuove. Perché il suo voto fosse valido era prescritto il numero di seicento. L'ultima sua adunanza, del 12 maggio 1797, vide presenti solo 537 nobili. Se ne parlerà anche più avanti a proposito del Libro d'oro.

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forza. Nel 1779 a tanto era scaduta l'amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva. Primo Carlo Contarini1 propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu cosi stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa partez di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessari cambiamenti. Si nota in quelle discussioni che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell'ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s'era concentrato nella Signoria3 e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine. Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l'eseguire: in ogni occasione si riçordava non aver questa che un'autorità demandata. I partigiani dell'oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugi per tirar la cosa in lungo. La Signoria fingeva di piegarsi all'obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle 1. Carlo Contarini e Giorgio Pisani: il Nievo accenna qui ai tentativi di riforme costituzionali promossi dal Contarini e dal Pisani e che gli Inquisitori di Stato repressero tra il 3 1 maggio e il 4 giugno 1780. I due patrizi chiedevano, contro il prepotere della Signoria e del Consiglio dei Dieci, che fosse restituita piena sovranità al Maggior Consiglio composto a quel tempo di circa 800 membri in buona parte Bamabotti, cioè nobili poveri cosi chiamati dalla contrada di San Barnaba ove avevano le loro case. I Barnabotti erano esclusi dalle cariche importanti e soggiacevano alla volontà degli Inquisitori e di un piccolo numero di famiglie potenti di cui essi erano la clientela. Indubbiamente un allargamento del potere ai Barnabotti sarebbe stato pericoloso, ma avrebbe gradualmente promosso la partecipazione dei nuovi ceti borghesi, collegati a questa nobiltà minore, alla vita politica dello stato. Pietro Verri, che parla diffusamente dei tentativi di riforma nella lettera al fratello Alessandro del 28 giugno 1780 e nel suo scritto Decadenza del Papato, idea del Governo di Venezia ~ degli Italiani in generale (1783), veniva giustamente a dire che Venezia non si reggeva che per una costante violazione della sua costituzione medesima. z. fu presa parte: fu deciso. 3. La Signoria: come s'è già visto, era l'organo esecutivo della Repubblica, composto dal Doge, dai suoi sei consiglieri, dai tre capi delle Quarantie e da sedici Savi.

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quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l'esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque correttori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito. Il Renier parlò a lungo delle monarchie d'Europa, fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità. , Sempre in attività, sempre in movimento tutte le funzioni vitali. Ciarlieri e vivaci per affrontare il brio e la ciarla altrui; lesti per piacere a quelle care donnine così leste e compagnevoli; agili e svelti per correre di qua e di là e non mancare al gentil desiderio di nessuno. Si mangia più a Bologna in un anno che a Venezia in due, a Roma in tre, a Torino in cinque ed a Genova in venti. Benché a Venezia si mangia meno in colpa dello scilocco, e a Milano più in grazia dei cuochi ... Quanto a Firenze a Napoli a Palermo, la prima è troppo smorfiosa per animare i suoi ospiti alle scorpacciate; e nelle altre due la vita contemplativa empie lo stomaco per mezzo dei pori senza affaticar le mascelle. Si vive coll'aria impregnata dell'olio volatile dei cedri e del fecondo polline dei fichi. Come ci sta poi col resto la question del mangiare ? Ci sta a pennello perché la digestione lavora in ragione dell'operosità e del buon umore. Una pronta e svariata conversazione che scorra sopra tutti i sentimenti dell'animo vostro, come la mano sopra una tastiera, che vi eserciti la mente e la lingua a correre a balzare di qua e di là dove sono chiamate, che ecciti che sovrecciti la vostra vita intellettuale, vi prepara meglio al pranzo di tutti gli assenzi e di tutti i Vermutti della terra. Il Vennuth han fatto bene a inventarlo a Torino 1 dove si parla e si ride poco, fuori che alle Camere: del resto quando l'hanno inventato non avevano lo Statuto. Ora dell'attività ce n'è, ma di quella che aiuta a fare, non di quella che stimola a mangiare. Fortuna per chi spera in bene e pei fabbricatori di Vermuth. 1. Vermuth ..• Torino: il Vermut o Vennouth (dal tedesco Wermut, assenzio), vino bianco scelto drogato con assenzio ed altri aromi, è difatti • invenzione • torinese.

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Ad onta di tutte queste chiacchiere che infilzo adesso, la Pisana allora non faceva mostra per nulla di voler tornare; e Bologna per~eva a poco a poco il merito di stuzzicarmi l'appetito. Un amore lontano per un intendente di ventott'anni non è disgrazia da metterla in burla. Passi per un mese o due; ma otto, nove, quasi un anno! Io non aveva fatto nessuno dei tre voti monastici e doveva osservarne il più scabroso. Capperi! come vi veggo ora rider tutti della mia capocchierial ... Ma non voglio ritrattarmi d'un punto. La Pisana a quel tempo io l'amava tanto, che tutte le altre donne mi sembravano a dir poco uomini. Ometti bellini, piacevoli, eleganti, in rispetto alle bolognesi; ma sempre uomini; e non era né rusticità né chietineria, ma tutto amore era. Così non mi vergogno a confessarvi d'aver fatto parecchie volte il Giuseppe Ebreo: mentre invece nella successiva separazione dalla Pisana andai soggetto a varie distrazioni. Vuol dire che non l'amava meno, ma in modo diverso; e, checché ne dicano i platonici, io sopportai la seconda lontananza con molto miglior animo che la . pnma.. Allora peraltro, avendo una gran fretta e un furore indiavolato di riaver la Pisana, non potendo saperne una di chiara da lei, mi volsi ali' Aglaura pregandola, se aveva viscere di carità fraterna, a volermi significare senza misteri senza palliativi quanto concerneva mia cugina. In fino allora mia sorella s'era schivata sempre di rispondere esplicitamente alle mie inchieste sopra tale proposito; e col credere o col non sapere se la cavava dai freschi.1 Ma quella volta, conoscendo dal tenor della lettera che veramente io era sgomentatissimo e in procinto di fare qualche pazzia, mi rispose subito che aveva sempre taciuto pregata di cib dalla Pisana stessa, che allora peraltro voleva accontentarmi perché vedeva l'agitazione della mia vita; che sapessi dunque esser già da sei mesi la Pisana in casa di suo marito, occupatissima a fargli d'infermiera, e che non pareva disposta ad abbandonarlo. Mi dessi pace che ella mi amava sempre, e che la sua vita a Venezia era proprio quella d'un'infermiera. Oh se avessi allora avuto fra le unghie Sua Eccellenza Nava1. se la eavava dai fresehi: cosl nel manoscritto (111, pag. 16 recto). I precedenti editori mutano: • se la cava pcl rotto della cuffia•· La locuzione nieviana significa, probabilmente, cavarsela dagli impicci, dall'annunziare cose non liete.

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gerol ... Credo che non avrebbe abbisognato più a lungo di infermieri. Cosa gli saltava a quel putrido carcame di rubarmi la mia parte di vita? ... C'era mo giustizia che una giovane come sua moglie ... Mi fermai un poco su questa parola di moglie, perché mi balenò in capo che le promesse giurate appié dell'altare potessero per avventura contar qualche cosa. Ma diedi di frego a questo scrupolo con somma premura. « Si, sì,» ripigliai • c'è giustizia che sua moglie resti appiccicata a lui, come un vivo a un cadavere? ... Nemmeno per sogno! ... Oh, per bacco, penserò io a distaccarli, a terminare questo mostruoso supplizio. Dopo tutto, anche non volendo dire che la carità principia da noi stessi, non è forse secondo le regole di natura ch'egli muoia piuttosto che me? Senza contare che io ne morrò davvero; ed egli sarà capace di tirar innanzi anni ed anni a questo modo, l'imbecille! ... » Afferrai la mia magnifica penna d'intendente e scrissi un tal letterone che avrebbe fatto onore ad un re in collera colla regina. Il succo era che se ella non veniva più che presto a rimettermi un po' di fiato in corpo, io, la mia gloria, la mia fortuna saremmo andati sotterra. Questa mia lettera -rimase senza risposta un paio di settimane, in capo alle quali quand'appunto io pensava seriamente ad andarmene, non dirò sotterra, ma a Venezia, capitò inaspettata la Pisana. Aveva il broncio della donna che ha dovuto fare a modo altrui, e prima di ricevere né un bacio né un saluto, volle ch'io le promettessi di lasciarla ripartire a suo grado. Poi vedendo che questo discorso mi toglieva metà del piacere di sua venuta, mi saltò colle braccia al collo, e addio signor Intendentel - Io era impazientissimo di farle osservare tutti gli agi annessi alla mia nuova dignità; un sontuoso appartamento, portieri a bizzeffe, olio, legna, tabacco a spese dello Stato. Fumava come il povero mio padre per non lasciar indietro nessun privilegio, e mangiava d'olio tre giorni per settimana come un certosino; ma avea messo da un canto una bella sommetta per far figurar degnamente la Pisana nella società bolognese; era pel mio temperamento una tal prova d'amore che la doveva cadermi sbasita dinanzi. Invece non ci badò quasi; perché per intendere il merito di cotali sforzi bisogna esserne capaci, ed ella, benedetta, avea più buchi nelle tasche e nelle mani che non ne abbia nella giubba un accattone romagnuolo. Soltanto fece due occhioni tondi tondi sentendo nominare quattrocento scudi; pareva che da un

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pezzo ella avesse perduto l'abitudine di udir perfino nominare si grossa somma di danaro. Al fatto peraltro non fu tanto grossa come si credeva. Abiti, cappellini, smanigli, gite, rinfreschi mi misero perfettamente in corrente colla paga e gli scudi non mi si invecchiavano più di quindici giorni nel taschino. Svagata di qua di là la Pisana mi scoperse in breve un altro lato nuovissimo del suo temperamento. Diventò la più allegra e ciarliera donnetta di Bologna; ne teneva a bada quattro, sei, otto; non si musonava né si stancava mai; non si sprofondava né in un'osservazione né in un pensiero né in una sbadataggine a segno di dimenticarsi degli altri; anzi sapeva così bene distribuir parolette e sorrisi, che n'era un poco per tutti e troppo per nessuno. Poteva fidarmi di lei, ed erano finite le tormentose fatiche di Ferrara. Tutti intanto parlavano chi della cugina chi della moglie chi dell'amante del signor Intendente; v'aveva chi volea sposarla, e chi pretendeva sedurla o rapirmela. Ella s'accorgeva di tutto, ne rideva garbatamente e se il brio lo dispensava ognidove, l'amore poi lo serbava per me. Donne così fatte piacciono in breve anche alle donne, perché gli uomini si stancano di cascar morti per nulla e finiscono col corteggiarle per vezzo, tenendo poi saldi i loro amori in qualche altro luogo. Cosi dopo un mese la mia Pisana, adorata dagli uomini, festeggiata dalle donne, passava per le vie di Bologna come in trionfo, e perfino i birichini le correvano dietro gridando: - È la bella veneziana! è la sposa del signor Intendente!- Non voglio dire se ella ne invanisse di queste grandi fortune, ma certo sapeva farsene merito presso di me col miglior garbo della terra. E a me s'intende toccava amare, com'era giusto, in proporzione dei desiderii che le forn1icolavano intorno. Cosi, menando questa vita di continui piaceri, e di domestica felicità, non si parlava più di ripartire. Quando giungevano lettere da Venezia, appena era se vi metteva sopra gli occhi; ma se la scrittura voltava pagina, ella non la voltava di sicuro, e piantavala a mezzo. Io poi me le leggeva da capo a fondo, ma aveva cura di nasconderle tutta la premura che di tanto in tanto sua madre od il marito le facevano di tornare. Questi pareva non fosse più né tanto geloso né cosi prossimo a morire; parlava di me con vera effusione d'amicizia, come d'uno stretto e carissimo parente, e degli anni futuri come d'una cuccagna che non doveva finir mai.

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- Mostro d'un moribondo I - borbottava io. - Pur troppo è risuscitatol - E quasi quasi mi sentiva in grado io di far il geloso per tutto quel tempo che la Pisana avea dimorato presso di lui. Ma ella sbellicava delle risa per queste ubbie: ed io ci rideva anch'io: però trafugava le lettere, e, buttate ch'ella le avesse da un canto, mi prendeva ogni briga perché non le capitassero più in mano. La sua smemorataggine mi serviva in ciò a capello. Quanto alla sua lunga dimora a Venezia, ecco come stava la cosa; o meglio com'essa me l'ebbe a raccontare a pezzi a bocconi secondoché l'estro lo permetteva. Sua madre convalescente l'avea pregata almeno per convenienza di far una visita al marito moribondo, la quale, diceva lei, sarebbe riescita graditissima. Infatti la Pisana si era adattata ; e poi lo stato del poveruomo, le sue strettezze finanziarie (a tanto ei si diceva scaduto dalla pristina opulenza), l'abbandono nel quale viveva, le aveano toccato il cuore e persuasala a rimanere presso di lui, com'egli ne mostrava desiderio. Era stata tutta bontà: ed io pur lamentandone i brutti effetti per me, non potei a meno di lodamela in fondo al cuore, e di innamorarmene vieppiù. Peraltro potete credere che io andava molto cauto nello strapparle di bocca tali confidenze; e non vi insisteva mai che un attimo un lampo, perché col batterla troppo aveva una paura smisurata di ravvivarle in mente tutte quelle cagioni di pietà, e di metterla in voglia di partire. Io era abbastanza giusto per lodare, abbastanza egoista per impedire questi atti di eroica virtù; e per avventura, essendo la Pisana una creatura molto buona e pietosa ma ancor più sbadata a tre tanti, mi venne fatto di trattenerla in feste in canti in risa per quasi sei mesi. Tuttavia io vedeva crescere con ispavento il numero e l'eccitamento delle lettere; ma vedendo che non ne veniva alcun guaio, mi ci abituai, e credetti che quella beatitudine non dovesse finir più. Di ministro delle Finanze, e vice-presidente e presidente della Repubblica, m'era ridotto ancora modestamente tranquillamente al mio posto; e se gli altri facevano le belle cose che frullavano in capo a me, avrei giudicato comodissimo di non mi muovere. Poveri mortali, come son caduche le nostre felicitàl ... L'istituzione d,una diligenza tra Padova e Bologna fu che mi rovinò. Il conte Rinaldo, che non avrebbe sofferto per la sua debolezza di stomaco un viaggio per acqua fino a Ferrara o a Ravenna, appro-

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fittò con assai piacere della diligenza, mi venne tra i piedi a Bologna, eppur nessuno l'aveva chiamato; si fece condurre alla Madonna di Monte, 1 alla Montagnola, 2 a San Petronio, e per mercede di tutto ciò mi condusse via la Pisana sul terzo giorno. Alla vista del fratello tutta la sua compassione s'era raccesa, tutti i suoi scrupoli la punzecchiavano; e non eh' ella accondiscendesse ad un suo invito, ma fu anzi la prima a proporglisi per compagna nel ritorno. Quell'assassino non disse nulla; non rispose nemmeno eh' egli era venuto espressamente per ciò. Volle lasciarmi nella credula illusione ch'egli avesse trottato da Venezia a Bologna per la curiosità di veder San Petronio. Ma· io gli aveva letto negli occhi fin dal primo sguardo; e mi arrabbiai di vederlo riesci re nel suo intento senza pur l'incommodo di una parola. Che dovesse esser più destro e potente in politica donnesca un topo di libreria sucido unto e cisposo, che un amante bellino giovine ed Intendente? - In certi casi sembra di sì: io rimasi a soffiare ed a mordermene le dita. Mi rimisi dunque al fatto mio, di schiena; per isvagarmi se non altro dalla noia che mi tormentava. E lavorando molto, e dimenticando il più che poteva, diventai a poco a poco un altr'uomo; sta a voi a decidere se migliore o peggiore. M'andarono svaporando dal capo i fumi della poesia; cominciai a sentir il peso dei trent'anni che già stavano per piombarmi addosso, ed a fermarmi volentieri a tavola ed a dividere l'amore che sta nell'anima da quello che solletica il corpo. Scusate; mi pare di avervi detto che mi faceva altr'uomo; ma la mia opinione si è che mi veniva facendo bestia. Per me chi perde la gioventù della mente non può che scadere dallo stato umano a qualche altra più bassa condizione animalesca. La parte di ragione che ci differenzia dai bruti non è quella che calcola il proprio utile e procaccia i commodi e fugge )a fatica, ma l'altra che appoggia i proprii giudizi alle belle fantasie e alle grandi speranze dell'anima. Anche il cane sa scegliere il miglior boccone, e scavarsi il letto nella paglia prima di accovacciarvisi; se questa è ragione, date dunque ai cani la patente di uomini di proposito. Peraltro vi dirò che quella vita così miope e bracciante aveva allora una scusa; c'era una grande intelligenza r. Madonna di Monte: è la Madonna di San Luca, sul colle della Guardia, fuori Porta Saragozza. 2. Montagnola: giardini pubblici di Bologna, nei pressi della stazione, tra via Indipendenza e via del Pallone.

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che pensava per noi, e la cui volontà soperchiava tanto la volontà di tutti che con poca spesa d'idee si vedevano le gran belle opere. Adesso invece brillano le idee, ma di opere non se ne vedono né bianche né nere; tutto per quel gran malanno che chi ha capo non ha braccia; e a quel tempo invece le braccia di Napoleone s'allargavano per mezza Europa e per tutta Italia a sommoverne a risvegliarne le assopite forze vitali. Bastava ubbidire, perché una attività miracolosa si svolgesse ordinatamente dalle vecchie compagini della nazione. Non voglio far pronostici; ma se si fosse continuato così una ventina d'anni ci saremmo abituati a rivivere, e la vita intellettuale si sarebbe destata dalla materiale, come nei malati che guariscono. A vedere il fervore di vita che animava allora mezzo il mondo c'era da perder la testa. La giustizia s'era impersonata una ed eguale per tutti; tutti concorrevano ornai secondo la loro capacità al movimento sociale; non si intendeva, ma si faceva. S'avea voluto un esercito, e un esercito in pochi aI)ni era sorto come per incanto. Da popolazioni sfibrate nell'ozio e viziate dal disordine si coscrivevano legioni di soldati sobri ubbidienti valorosi. La forza comandava il rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll'ordine colla disciplina. La prima volta ch'io vidi schierati in piazza i coscritti del mio Dipartimento credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere a tanto, e che così si potessero mansuefare con una legge quei volghi rustici quelle plebi cittadine che s'armavano infino allora soltanto per batter la campagna e svaligiare i passeggieri. Da questi principii m'aspettava miracoli e persuaso d'essere in buone mani non cercai più dove si correva per ammirare il modo. Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni. Il pacificatore della Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue imprese future; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina che presagiva nuovi ed altissimi destini. Quando Lucilio mi scrfveva che s'andava di male in peggio, che abdicando dall'intelligenza un popolo perdeva ogni libertà ed ogni forza propria, che si sperava in un liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli dava fra me del pazzo e dell'ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava agli affari della

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mia intendenza. Credo che mi felicitassi perfino dell'assenza della Pisana, perché la solitudine e la quiete mi lasciavano miglior agio al lavoro e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi. - Viva il signor Ludro!1 ... - Cosi vissi quei non pochi mesi tutto impiegato tutto lavoro tutto fiducia senza pensare da me, senza guardar fuori dal quadro che mi si poneva dinanzi agli occhi. Capisco ora che quella non è vita propria a svegliare le nostre facoltà, e a invigorire le forze dell'anima; si cessa di esser uomini per diventar carrucole. E si sa poi cosa restano le carrucole se si dimentica di ungerle al primo del mese. Fu sventura o fortuna? - Non so: ma la proclamazione dell'Impero Francese2 mi snebbiò un poco gli occhi. Mi guardai attorno e conobbi che non era più padrone di me; che l'opera mia giovava ingranata in quelle altre opere che mi si svolgevano sotto e sopra a suon di tamburo. Uscir di là, guai; era un rimaner zero. Se tutti erano nel mio caso, come avea ragione di dubitarne, le paure di Lucilio non andavano troppo lontane dal vero. Cominciai un severo esame di coscienza; a riandare la mia vita passata e a vedere come la presente le corrispondeva. Trovai una diversità, una contraddizione che mi spaventava. Non erano più le stesse massime le stesse lusinghe che dirigevano le mie azioni; prima era un operaio povero affaticato ma intelligente e libero, allora era un coso di legno ben inverniciato ben accarezzato perché mi curvassi metodicamente e stupidamente a parar innanzi una macchina. Pure volli star saldo per non precipitare un giudizio, certo oggimai che non sarei sceso un passo più giù in quella scala di servilità. Quando arrivò la notizia del mutamento della Repubblica in un Regno d'ltalia,3 presi le poche robe, i pochi scudi che aveva, andai difilato a Milano, e diedi la mia dimissione. Trovai altri signor Ludro: personaggio della commedia goldoniana Sor Momolo cortesan (1738), pubblicata nel 1757 con il titolo L'uomo di mondo. Il Ludro del Goldoni ispirò più tardi la famosa trilogia di F. A. Bon (Lud,o e la sua gran giornata (1832), Il matrimonio di Ludro (1836), La vecchiaia di Lud,o (1837).) Imbroglione veneziano nel Goldoni, è personaggio di intrighi e bonario nel Bon. Nella lettera a Carlo Gobio, da Portogruaro, del 12-8-57 (si veda nella sezione Lettere del presente volume) il Nievo scrive: • ludri (luminetti da illuminazione) ». Per noi il significato preciso di questo «signor Ludro » non è chiaro. 2. Impero Francese: 2 dicembre 1804. 3. Regno d'Italia: 31 marzo 1805. Napoleone cinse la Corona Ferrea il z6 maggio. 1.

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quattro o cinque colleghi venuti per l'egual bisogna e ognuno credeva trovarne un centinaio a fare il bel colpo. Ci ringraziarono tanto, ci risero in grugno, e notarono i nostri nomi sopra un libraccio che non era una buona raccomandazione pel futuro. Napoleone capitò a Milano e si pose in capo la Corona Ferrea dicendo: - Dio me l'ha data, guai a chi la toccai - Io mi assettai povero privato nelle antiche camerucce di Porta Romana dicendo a mia volta: - Dio mi ha dato una coscienza, nessuno la comprerà!- Ora i nemici di Napoleone trovarono ardimento e forza bastante a toccare e togliergli del capo quella fatale corona; ma né la California né 1'Australia scavarono finora oro bastante per pagare la mia coscienza. - In quella circostanza io fui il più vero e il più forte.

CAPITOLO DECIMONONO Come i mugnai e le contesse mi proteggessero nel z805. Io perdono alcuno de' suoi torti a Napoleone, quand'egli unisce Venezia al Regno d'Italia. Tarda penitenza d'un vecchio peccato veniale, per la quale vo in fil di morte; ma la Pisana mi risuscita e mi mena secolei in Fn'uli. Divento marito, organista e castaldo. Intanto i vecchi attori scompaiono dalla scena, Napoleone cade due volte, e gli anni fuggono muti ed avviliti fino al z820.

Lucilio s'era rifugiato a Londra; egli aveva amici dappertutto e d'altra parte per un medico come lui tutto il mondo è paese. La Pisana mi avea sempre tenuto a bada colle sue promesse di venirmi a raggiungere: allora poi, dopo abbandonato l'ufficio, non avea nemmen coraggio di chiamarla a dividere la mia povertà. A Spiro e all' Aglaura sdegnava di ricorrere per danari; essi mi mandavano puntualmente i 1niei trecento ducati ad ogni Natale; ma ne avea erogato due annualità a pagamento dei debiti lasciati a Ferrara, e di quelle non poteva giovarmi. Rimasi adunque per la prima volta in vita mia senza tetto e senza pane, e con pochissima abilità per procurarmene. Volgeva in capo mille diversi progetti per ognuno dei quali si voleva qualche bel gruppetto di scudi, non foss'altro per incominciare; e cosi di scudi non avendone più che una dozzina, mi accontentava dei progetti e tirava innanzi. Ogni giorno mi studiava di vivere con meno. Credo che l'ultimo scudo lo avrei fatto durare un secolo, se il giorno della

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partenza di Napoleone per la Germania1 non me lo avesse rubato uno di quei famosi borsaiuoli che si esercitano per pia consuetudine nelle contrade di Milano. L'Imperatore s'era fatto grasso, e s'avviava allora alla vittoria di Austerlitz; io me lo ricordava magro e risplendente ancora delle glorie d'Arcole e di Rivoli: per diana, che non avrei dato il Caporalino per Sua Maestà! Vedendolo partire fra un popolo accalcato e plaudente io mi ricordo di aver pianto di rabbia. Ma erano lagrime generose, delle quali vado superbo. Pensava fra me: « Oh che non farei io se fossi in quell'uomo!»- e questo pensiero e l'idea delle grandi cose che avrei operato mi commovevano tanto. Infatti era egli allora all'apice della sua potenza. Tornava dall'aver fatto rintronare de' suoi ruggiti le caverne d'Albione attraverso l'angusto canale della Manica; e minacciava dell'artiglio onnipotente le cervici di due imperatori. La gioventù del genio di Cesare e la maturità del senno di Augusto cospiravano ad innalzare la sua fortuna fuor d'ogni umana immaginazione. Era proprio il nuovo Carlomagno e sapeva di esserlo. Ma anch'io dal mio canto inorgogliva di passargli dinanzi senza piegare il ginocchio. « Sei un gigante ma non un Dio!» gli diceva « io ti ho misurato e trovai la mia fede più grande di molto e più eccelsa di te!» Per un uomo che credeva d'aver in tasca uno scudo e non aveva neppur quello, ciò non era poco. Il bello si fu quando si trattò di mangiare; credo che uomo al mondo non si vide mai in peggior imbroglio. Partendo da Bologna e giovandomi della discretezza d'alcuni amici avea fatto denari d'ogni spillone d'ogni anello e d'ogni altra cosa che non mi fosse strettamente necessaria. Tuttavia facendo un nuovo inventario seppi trovare molti capi di vestiario che mi sopravanzavano; ne feci un fardello, li portai dal rigattiere e intascai quattro scudi che mi parvero un milione. Ma l'illusione non durò più che una settimana. Allora cominciai a dar il dente anche negli oggetti bisognevoli; camicie, scarpe, collarini, vestiti, tutto 1. partenza di Napoleone per la Germania: veramente 1'8 luglio 1805 Napoleone lasciava l'Italia per tornare in Francia a sorvegliare gli ultimi preparativi della vagheggiata spedizione contro l'Inghilterra. Vero è che l'Inghilterra con la terza coalizione sventava il pericolo e Napoleone nell'ottobre era in Germania contro gli Austriaci, i Russi e gli Svedesi. Il I 9 ottobre vinceva a Ulma, il 13 novembre entrava a Vienna e il 2 dicembre vinceva di nuovo a Austerlitz.

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viaggiava dal rigattiere; avevamo fatto tra noi una specie di amicizia. La sua bottega era sul canto della contrada dei Tre Re 1 verso la Posta; io mi vi fermava a far conversazione andando da casa mia verso Piazza del Duomo. Alla fine diedi fondo ad ogni mia roba. Per quanto in quel frattempo avessi strolicato sulla maniera da cavarmela in un caso tanto urgente, non m'era venuta neppur un'idea. Una mattina avea incontrato il colonnello Giorgi che veniva dal campo di Boulogne e correva anch'esso in Germania colla speranza d'esser fatto in breve generale. - Entra nell'amministrazione dell'armata: - mi diss'egli- ti prometto farti ottenere un bel posto, e ti farai ricco in poco tempo. - Cosa si fa nell'armata?- soggiunsi io. - Nell'annata si vince tutta l'Europa, si corteggiano le più belle donne del mondo, si buscano delle belle paghe, si fa gran scialo di gloria e si va innanzi. - Sì, sì; ma per conto di chi si vince l'Europa? - Vattelapesca! c'è senso comune a cercarlo? - Alessandro mio, non entrerò nell'armata, neppur come spaz. z1no. - Peccato! ed io che sperava far di te qualche cosal - Forse non avrei corrisposto, Alessandro! È meglio che concentri tutte le tue cure verso di te. Diventerai generale più presto. - Ancora due battaglie che mi sbarazzino di due anziani e lo sono di diritto: le palle dei Russi e dei Tedeschi sono mie alleate: questo è il vero modo di vivere in buona armonia con tutti. Ma dunque tu vuoi proprio tenerci il broncio a noi poveri soldati? - No, Alessandro; vi ammiro e non son capace d'imitarvi. - Eh capisco! ci vuole una certa rigidezza di muscolil ... Dimmi, e di Bruto Provedoni hai notizie? - Ottime si può dire. Vive con una sua sorella di diciotto o diciannove anni, l'Aquilina, te ne ricordi? le fa da papà, le viene accumulando un po' di dote e si guadagna la vita col dar lezioni in paese. Ultimamente coll'eredità di suo fratello Grifone, ch'è morto a Lubiana per una caduta da un tetto, egli comperò dagli altri fratelli la casa a nome propr~o e della sorella. Così si 1. contrada dei Tre Re: contrada del vecchio centro di Milano, da San Satiro al Bottonuto.

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liberò anche dalla noia di vivacchiare stentatamente insieme ad altri inquilini cenciosi e pettegoli. Credo che se potesse accasare decentemente l'Aquilina non sarebbe uomo più beato di lui. - Vedi come siamo noi soldati? ... Restiamo felici anche senza gambe! - Bravo, Alessandro: ma io non voglio perder le gambe per nulla. Son capitali che bisogna investirli bene o tenerseli. - E dici nulla tu, in otto anni al più diventar generale! Non è un bell'interesse? - Si; a me garba meglio restar con questo vestito e colla mia . . miseria. - Dunque non posso aiùtarti in nulla? To' che potrei servirti d'una trentina di scudi; non più, vedi, perché non sono il soldato più sparagnino, e tra il giuoco, le donne e che so io, la paga se ne va ... Ma ora che ci penso; t'adatteresti anche a pigliar servizio nel civile ? Il buon colonnello non vedeva nulla fuori dell'armata: egli avea già · dimenticato che un quarto d'ora prima gli avea raccontato tutta la mia carriera nelle Finanze, e la mia dimissione volontaria dal posto d'intendente. Fors'anco supponeva che le Finanze non fossero altro che uffici supplettori all'esercito per provvederlo di vitto di vestito e del convenevole peculio per sostenere gli assalti del faraone e della bassetta. Alla mia risposta che mi sarei contentato d'ogni impiego che non fosse pubblico, egli fece col viso un certo atto come di chi è costretto a togliere ad alcuno buona parte della sua stima: tuttavia non ne rimase affievolita per nulla la sua insigne bontà. - A Milano ho una padrona di casa - egli soggiunse. - SI, come l'avevi anche a Genova. - Ehi Tutt'altro! Quella era spilorcia come uno speziale, questa invece splendida più d'un ministro. A quella ho dovuto rubare il gatto, e da questa se volessi potrei farmi regalare un diamante al giorno. È una riccona sfondolata, che ha corso il mondo a' suoi tempi, ma ora dopo una vistosa eredità s'è rimessa in regola ed ha voce di compita signora: non più colla lanuggine del pesco sulle guance, ma vezzosa ancora e leggiadra al bisogno; massime poi in teatro quand'è un po' animata. Figuratil Essa mi ha preso a volere un bene spropositato ed ogni volta che passo per Milano mi vuole presso di sé: mi ha perfin detto in segreto

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che se avesse vent'anni invece di trenta vorrebbe partir con me per la guerra. - E che c'entra questa signora con me? - Che c'entra? diavolo I tutto! Essa ha molte relazioni ben in alto; e ti raccomanderà validamente per quel posto che vorrai. Se poi ti quadra meglio un ministero privato, credo che la sua amministrazione sia abbastanza vasta per offrir impiego anche a te. - Ricordati che io non voglio rubar il pane a nessuno; e che se lo mangio intendo anche guadagnarmelo colle mie fatiche. - Ehi sta pur cheto che non avrai scrupoli da questo lato. Tu credi forse che sia come nelle nostre fattorie del Friuli, dov'è comune la storia che il fattore si fa ricco a spalle del padrone tenendo le mani alla cintola! Eh, amico, a Milano se ne intendono! Pagano bene, ma vogliono esser serviti meglio: il ragioniere s'ingrasserà, ma il padrone non vuol diventar magro per questo. Lo so io come vanno qui le faccende! Questo disegno non mi sconveniva punto; e benché non avessi una fede cieca nelle onnipotenti raccomandazioni e nella splendida padrona del buon colonnello, pure, accortomi che solo non era buono a nulla, mi tenni contento di provar l'aiuto degli altri. Tornai a casa a spazzolarmi l'abito per la presentazione che dovea succedere l'indomani. Anch'io ricorsi alla splendidezza della mia padrona di casa per un poco di patina da lustrarmi gli stivali, e sciorinai sopra una seggiola l'unica camicia che mi rimaneva dopo quella che portava addosso. Nel candore di questa mi deliziava gli occhi, consolandoli della sparutezza del resto. Il mattino appresso venne l'ordinanza del colonnello ad avvertirmi che la signora aveva accolto benissimo la proposta, ma la desiderava ch'io le fossi presentato la sera, essendo quello giorno di gran faccende per lei. Io diedi un'occhiata agli stivali e alla camicia, lamentando quasi di non esser rimasto a letto per conservar loro l'originaria freschezza fino al solenne momento; poi pensando che di sera non vi si abbada tanto pel sottile, e che un ex-intendente doveva possedere ripieghi di vivacità e di coltura da far dimenticare la soverchia modestia del proprio arnese, risposi all'ordinanza che sarei andato a casa del colonnello verso le otto, ed uscii poco stante di casa. Venne il momento della colazione e lo lasciai passare senza palparmi il taschino; fu un'eroica deferenza per l'ora successiva del pranzo. Ma scoccata questa 43

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vi misi entro le mani e ne cavai quattro bei soldi che in tutti facevano, credo, quindici centesimi di franco. Non credeva per verità di esser tanto povero; e la quadratura del circolo mi parve problema molto più facile del pranzo ch'io doveva cavare da sì meschina moneta. E sì che non era stato Intendente per nulla, e di bilanciare le entrate colle spese doveva intendermene più che ogn'altro! - Adunque, senza abbattermi di coraggio, provai. - Un soldo di pane, due di salato ed uno d'acquavite per rifocillarmi lo stomaco e prepararlo alla visita della sera. - Per carità! cos'era mai un soldo di pane per uno che non avea toccato cibo da ventiquattr'ore! - Rifeci il conto; due soldi di pane, uno di cacio pecorino, e il solito di racagna. 1 - Poi trovai che quel soldo di cacio era un pregiudizio, un'idea aristocratica per dividere il pranzo in pane ed in companatico. Era meglio addirittura far tr~ soldi di pane. E infatti entrai coraggiosamente da un fornaio; li comperai e in quattro morsicate furono messi a posto. M'accorsi con qualche sgomento di non sentire neppure2 una lontana ombra di sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d'un ultimo panetto e lo misi accanto agli altri. Dopo questo piccolo trattenimento i miei denti restavano ancora molto inquieti e razzolando le briciole che si erano fuorviate andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: « Che sia finita la festa?» «È proprio finita!» risposi io, e sì che mi sentiva lo stomaco ancor più spaventato dei dentil- Allora mi presi un lecito trastullo d'immaginazione che m'avea servito anche molti giorni prima per ingannar l'appetito: feci la rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati a Milano. L'abate Parini, morto da sei anni e leggero di pranzo anche lui; Lucilio, partito per la Svizzera; 3 Ugo Foscolo, professore d'eloquenza a Pavia ;4 de' miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di casa dandomi la sera prima la patina aveva uncinato un certo racagna: voce lombarda per acquavite. 2. neppure: il manoscritto (111, 21 verso) reca: a: né•· Accogliamo la correzione dei precedenti editori. 3. per la Svizzera: cosi nel manoscritto (111, pag. 22 recto). Gli altri editori corressero con a: per l'estero». Lucilio è a Londra, come risulta da pag. 669. Tuttavia noi crediamo opportuno mantenere la lezione del manoscritto. Lucilio non sarà l'ultimo esule italiano a riparare in Inghilterra per la via della Svizzera: basti ric;ordare il Foscolo. 4. pro/tssore d'tloquenza a Pavia: dal novembre 1808 al marzo 1809. 1.

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suo nasaccio che voleva dire: cc State indietro con questi brutti scherzi I» Rimaneva il colonnello Giorgi; ma vi confesso che mi vergognava: come anche dubito che mi sarei vergognato di tutti gli altri se fossero stati a Milano, e che sarei morto di fame piuttosto di farmi pagare un caffè e panna da Ugo Foscolo. Ad ogni modo era sempre una consolazione di poter pensare mentre pungeva l'appetito: così, esaurito quel passatempo, mi trovai più infelice di prima e peggio poi quando passando per Piazza Mercanti1 m'avvidi che erano appena la cinque. - u Tre ore ancorai• Temeva di non arrivar vivo al momento della visita, o almeno di dovervi fare un'assai affamata figura. Diedi opera a svagarmi con un altro stratagemma. Pensai da quante parti avrei potuto aver prestiti regali soccorsi, solo che li avessi desiderati. Mio cognato Spiro, i miei amici di Bologna, i trenta scudi del colonnello Giorgi, il Gran Visir ... Per baccol fosse la fame od altro, o un favore particolare della Provvidenza, quel giorno mi fermai più del solito su quell'idea del Gran Visir. Mi ricordai sul serio di avere nel taccuino il vaglia d'una somma ingente firmato da un certo giroglifico arabo ch'io non capiva affatto; ma la casa Apostulos aveva molti corrispondenti a Costantinopoli, e qualche autorità sui banchieri armeni che scannavano il sultano d'allora; corsi a casa senza pensar più all'appetito; scrissi una lettera a Spiro, vi inclusi il vaglia e la portai allegramente alla Posta. Ripassando per Piazza Mercanti, l'orologio segnava sette e tre quarti; m'avviai dunque verso l'alloggio del colonnello; ma la speranza del Gran Visir l'aveva lasciata alla Posta; e proprio sull'istante solenne fatale, tornava a farsi sentire la fame. Sapete cosa ebbi il coraggio di pensare in quel momento? - Ebbi il coraggio di pensare ai grassi pranzi bolognesi dell'anno prima; e di trovarmi più contento così com'era allora a stomaco digiuno. Ebbi il coraggio di confortarmi meco stesso di esser solo e che il caso avesse preservato la Pisana dal farsi compagna di tanta mia inedia. Il caso? - Questa parola non mi poteva passare. Il caso a guardarlo bene non è altro il più delle volte che una manifattura degli uomini: e perciò temeva non a torto che la smemorataggine, Piazza Mercanti: l'antica piazza di Milano comunale, sulla quale s'affacciano il Palazzo della Ragione, la loggia degli Osii, il Palazzo delle Scuole Palatine e il Palazzo dei Giureconsulti. 1.

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la freddezza, fors'anco qualche altro amoruzzo della Pisana l'avessero svogliata di me. « Ma ho poi ragione di lamentarmene?» seguitava col pensiero. « Se mi ama meno, non è giustizia? ... Che ho fatto io tutto l'anno passato?» Cosa volete? Trovava tutto ragionevole tutto giusto, n1a questo sospetto di essere dimenticato e abbandonato dalla Pisana per sempre, mi dava per lo meno tanto martello quanto la fame. Non era più il furore, la smania gelosa d'una volta, ma uno sconforto pieno d'amarezza, un abbattimento che mi faceva perdere il desiderio di vivere. Sbattuto fra questi varii dolori, salii dal signor colonnello il quale leggeva i rapporti settimanali dei capitani fumando come aveva fumato io quand'era intendente, e inaffiandosi a tratti la gola con del buon anesone di Brescia.X - Bravo Carlettol - sdamò egli offrendomi una seggiola. Versane un bicchiere anche per te, che mi sbrigo subito. Io ringraziai, sedetti, e volsi un'occhiata per la stanza a vedere se ci fosse focaccia panettone o qualche ingrediente da maritarsi coll'anesone per miglior ristoro del mio stomaco. C'era proprio nulla. Io mi versai un bicchiere colmo raso di quel liquore balsamico, e giù a piena gola che mi parve un'anima nuova che entrasse. Ma si sa cosa succede da quel tafferuglio tra l'anima vecchia e la nuova, massime in uno stomaco affamato. Successe che perdetti la tramontana, e quando mi alzai per tener dietro al colonnello, era tanto allegro tanto parolaio quanto nel sedermi era stato grullo e mutrione. Il soldataccio se ne congratulò come d'un buon pronostico, e nel salir le scale mi esortava a mostrarmi pur gaio lesto arditello, ché alle donne di mezza età e che non hanno tempo da perdere, piacciono cotali maniere. Figuratevi l io era tanto gaio che fui per dar il naso sull'ultimo gradino: peraltro insieme a tali doti me se ne sviluppò un'altra, la sincerità, e questa al solito mi fece fare il primo marrone. Quando il portiere ci ebbe aperto e il colonnello mi ebbe introdotto nell'anticamera, io ballonzolava che non mi pareva di toccare il pavimento. - Chi s'immaginerebbe mai - dissi a voce altissima - chi s'immaginerebbe mai che così come sono sdilinquisco per la fame? 1.

anesone di Brescia: liquore d'anice.

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Il portiere si volse meravigliato a guardarmi per quanto i canoni del suo mestiere glielo vietassero. Alessandro mi dié una gomitata nel fianco. - Eh matto! - diss'egli- sempre colle tue baie. - Eh ti giuro che non son baie, che ... ahi, ahi, ahil ... Il colonnello mi diede un tale pizzicotto che non potei tirar innanzi nella contesa e dovetti interromperla con questa triplice interiezione. Il portiere si voltò a guardarmi e questa volta con tutto il diritto. - Nulla, nulla, - soggiunse il colonnello - gli ho pestato un callo I Fu un bel trovato così di sbalzo; ed io non giudicai opportuno di difendere la verginità de' miei piedi perché appunto in quella eravamo entrati nella sala della signora. Il colonnello s'accorgeva allora del pericolo, ma si era in ballo e bisognava ballare; un veterano di l\1arengo doveva ignorar l'arte delle ritirate. In una luce morta e rossigna che pioveva da lampade appese al soffitto e affiocate da cortine di seta rossa, io vidi o mi parve vedere la dea. Era seduta sopra un fianco in una di quelle sedie curuli che il gusto parigino aveva dissotterrato dai costumi repubblicani di Roma e che perdurarono tanto sotto l'impero d'Augusto che sotto quello di Napoleone. La veste breve e succinta contornava forme non dirò quanto salde, ma certo molto ricche; una metà abbondante del petto rimaneva ignuda: io non mi fermai a guardare con troppo piacere, ma sentii piuttosto un solletico ai denti, una voglia di divorare. I fumi dell' anesone mi lasciavano travedere che quella era carne, e mi lasciavano soltanto quel barbaro barlume di buonsenso che resta ai cannibali. La signora parve soddisfattissima della buona impressione prodotta sopra di me, e chiese al colonnello se fossi io quel giovine che desiderava impiegarsi in qualche amministrazione. Il colonnello si affrettò a rispondere di si, e s'ingegnava di stornare da me l'attenzione della signora. Sembrava invece che costei s'invaghisse sempre più del mio bel contegno perché non cessava dall'osservarmi e dal volgere il discorso a me, trascurando affatto il colonnello. - Carlo Altoviti, mi sembra - disse con gentilissimo sforzo di memoria la signora. lo m'inchinai diventando tanto rosso che mi sentiva scoppiare. Erano crampi di stomaco.

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- Sembrami - continuò ella - aver osservato questo nome se non isbaglio l'anno scorso nell'annuario della nostra alta magistratura. Io diedi una postuma gonfiata in memoria della mia intendenza, e mi tenni ritto e pettoruto mentre il colonnello rispondeva che infatti io era stato preposto alle Finanze di Bologna. - E c'intendiamo, - soggiunse la signora a mezza voce inchinandosi verso di me - il nuovo governo .•. queste sue massime . . . insomma vi siete ritirato I - Già- risposi io con molto sussiego, e senza aver nulla capito. Allora cominciarono ad entrar in sala conti, contesse, principi, abati, marchesi, i quali venivano mano a mano annunciati dalla voce stentorea del portiere: era un profluvio di don che mi tambussava le orecchie, e diciamolo imparzialmente, quel dialetto milanese raccorciato e nasale non è fatto per ischiarire le idee ad un ubbriaco. In buon punto il colonnello s'avvicinò alla padrona di casa per accomiatarsi; io non ne poteva più. Essa gli disse all'orecchio che tutto era già combinato e che n'andassi difilato il giorno appresso alla ragioneria ove m'avrebbero assegnato il mio compito e dettomi le condizioni del servigio. lo ringraziai inchinandomi e strisciando i piedi, sicché una dozzina di quei don muti e stecchiti si volse meravigliata a guardarmi; indi battendo fieramente i tacchi al fianco del colonnello m'avviai fuori della sala. L'aria aperta mi fece bene; perché mi si rinfrescò d'un tratto il cervello, e fra i miei sentimenti si intromise un po' di vergogna dello stato in cui m'accorgeva essere, e della brutta figura che temeva aver sostenuto nella conversazione della Contessa. Peraltro mi durava ancora una buona dose di sincerità; e cominciai a lamentarmi della fame che avevo. 1 - Non hai altro? - mi disse il colonnello. - Andiamo al Rebecchino e là te la caverai. Non mi ricordo bene se dicesse il Rebecchino; ma mi pare di sl, e che in fin d'allora ci fosse a Milano questa mamma delle trattorie. 2 lo mi lasciai condurre; me ne diedi una gran satolla senza trar 1. che afJevo: anche in questo luogo il manoscritto (111, pag. 23 veno) ha chiaramente: •avevo•· 2. Rebecchino ... trattorie: l'isolato del Rebec• chino sorgeva un tempo su WlO dei lati della lunga Piazza del Duomo di Milano, prima dello sventramento. L'osteria del Rebecchino era no• tissima.

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fiato o pronunciar parola, e mano a mano che lo stomaco tornava in pace, anche il capo mi si riordinava. La vergogna mi venne crescendo sempre fino al momento di pagare; e allora stava proprio per rappresentare la commediola solita degli spiantati, di palpar cioè il taschino con molta sorpresa, e di rimproverarmi della mia maledetta sbadataggine per la borsa perduta o dimenticata; quando una più onesta vergogna mi trattenne da questa impostura. Arrossii di essere stato più sincero durante l'ubbriachezza che dopo, e confessai netta e schietta ad Alessandro la mia estrema povertà. Egli andò allora in collera che gliel'avessi nascosta in fino allora; volle consegnarmi a forza quei trenta scudi che aveva e che dopo pagato il conto non rimasero che ventotto; e si fece promettere che in ogni altro bisogno avrei ricorso a lui che di poco sì, ma con tutto il cuore m'avrebbe sovvenuto. - Intanto domani io devo partire senza remissione pel campo di Germania, - egli soggiunse - ma parto colla lusinga che questi pochi scudi basteranno a farti aspettare senza incommodi la prima paga che ti verrà contata presto: forse anco dimani. Coraggio Carlino; e ricordati di me. Stasera devo abboccarmi coi capitani del mio reggimento per alcune istruzioni verbali; ma domattina prima di partire verrò a darti un bacio. Che dabbene d'un Alessandro! Era in lui un certo miscuglio di soldatesca rozzezza e di bontà femminile che mi commoveva: gli mancavano le così dette virtù civiche d, allora, le quali adesso non saprei come chiamarle, ma gliene sovrabbondavano tante altre che gli si poteva fare la grazia. La mattina all'alba egli fu a baciarmi ch'io dormiva ancora. Io piangeva per l'incertezza di non averlo forse a rivedere mai più, egli piangeva sulla mia cocciutaggine di volermi rimanere oscuro impiegatuccio in Milano, mentre poteva andar dietro a lui e diventar generale senza fatica. Di cuori simili al suo se ne trovano pochi: eppure egli augurava di gran cuore la morte a tutti i suoi colleghi per avere un grostone 1 più alto sul cappello e trecento franchi di più al mese. Questa è la carità fraterna insegnata anzi imposta anche agli animi pietosi e dabbene dal governo napoleonico! Quando fu ora convenevole io mi vestii con tutta la cura possibile, e n'andai alla ragioneria della contessa Migliana. Un certo 1. grostone:

un crostone, un grado di più sul cappello.

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signore grasso tondo sbarbato con cera e modi affatto patriarcali m'accolse si può dire a braccia aperte: era il primo ragioniere, il segretario della padrona. Egli mi condusse per prima cerimonia alla cassa ove mi furono contati sessanta scudi fiammanti per onorario del primo trimestre. Indi mi condusse ad uno scrittoio ove erano molti librattoli unti e gualciti e in mezzo un librone più grande sul quale almeno si potevano posar le mani senza sporcarsele. Mi disse ch'io sarei stato per allora il maestro di casa il maggiordomo della signora Contessa, almeno finché restasse libero un posto più confacente agli alti miei meriti. Infatti cascare dall'Intendenza di Bologna all'amministrazione d'una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto io sia in origine patrizio veneto delJ-antichissima e romana nobiltà di Torcello, la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla più alto il bisogno. Per me sono della opinione di Plutarco, che sopraintendeva, dicesi, agli spazzaturai di Cheronea coll'egual dignità che se avesse presieduto ai Giuochi olimpici. La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una maggiore dimestichezza colla signora Contessa: ecco due cose le quali non so se mi garbassero o meno; ma mi proponeva di togliere alla signora la brutta idea ch'ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità che cotali elogi mi sorpresero, e che alle signore milanesi dovessero piacer tanto gli uhbriachi non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò più da pari a pari che da padrona a maggiordomo, squisitezza che mi racconsolò alquanto della mia nuova condizione, e mi fece scrivere ali' Aglaura, a Lucilio, a Bruto Provedoni, al colonnello, alla Pisana, lettere piene d'entusiasmo e di gratitudine per la signora Contessa. Verso la Pisana poi io intendeva con ciò vendicarmi della sua trascuranza; e cercare di stuzzicarla un poco colla gelosia. La strana vendetta ch'ella avea tratto altre volte d'una mia supposta infedeltà non m'avea illuminato abbastanza. Ma dopo cinque o sei giorni cominciai ad accorgermi che la Pisana non poteva avere tutto il torto ad ingelosire della mia signora padrona. Costei usava verso di me in una tal maniera che o io era un gran gonzo o m'invitava a confidenze che non entrano di regola nei diritti d'un maggiordomo. Cosa volete? non tento né scusarmi, né nascondere. Peccai.

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La casa della Contessa era delle più frequentate di Milano, ma in onta al temperamento allegro della padrona di casa le conversazioni non mi parevano né disinvolte né animate. Una certa malfidenza, un sussiego spagnolesco teneva strette le labbra e oscure le fronti di tutti quei signori; e poi, secondo me, scarseggiava la gioventù, e la poca che vi interveniva era così grulla così scipita da far pietà. Se quelle erano le speranze della patria, bisognava farsi il segno della croce e sperar in Dio. Perfino la signora, che al tu per tu o in ristretto crocchio di famiglia era vivace e corriva forse più del bisogno, nella conversazione invece assumeva un contegno arcigno e impacciato, una guardatura tarda e severa, un modo di mover le labbra che pareva più adatto a mordere che a parlare ed a sorridere. lo non ci capiva nulla: massime allora poi, con quel fervore di vita messoci in corpo dalla convulsa attività del governo italico. Due settimane dopo ne capii qualche cosa. - Fu annunziato un ospite da Venezia, e rividi con mia somma meraviglia e dopo tanti anni l'avvocato Ormenta. Egli non mi conobbe, perché l'età e le fogge mutate mi rendevano affatto diverso dallo scolaretto di Padova; io finsi di non conoscer lui, perché non mi garbava di rappiccarla per nessun verso. Sembra ch'egli venisse a Milano per raccomandare sé ed i suoi alla valida protezione della Contessa; infatti a quei giorni fu un andirivieni maggiore del solito di generali francesi e di alti dignitari italiani. Alcuni ministri del nuovo Regno stettero chiusi molte ore coll'egregio avvocato; ed io mi struggeva indarno di sapere perché mai dovesse immischiarsi nelle faccende del governo francese in Italia un consigliere principale del governo austriaco a Venezia. Anche questo lo seppi poco dopo. L'accorto avvocato aveva preveduto la battaglia di Austerlitz e le sue conseguenze; egli passava dal campo di Dario a quello d'Alessandro per rimediare dal canto suo ai danni della sconfitta. A chi poi si maravigliasse di veder maneggiata da dita femminili una sì importante matassa, risponda la storia che le donne non ebbero mai tanta ingerenza nelle cose di Stato, quanto durante i predominii militari. Lo sapeva la mitologia greca che mescolò sempre nelle sue favole Venere e Marte. Le notizie prime della vittoria di Austerlitz giunsero a Milano innanzi al Natale; se ne fece un grande scalpore. E crebbe quando si ebbe contezza della pace firmata il giorno di santo

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Stefano a Presburgo,1 per la quale il Regno d'Italia s'allargava ne' suoi confini naturali fino all'Isonzo. Io dimenticai per un istante la quistione della libertà per mettermi tutto nella gioia di riveder Venezia, e la Pisana, e mia sorella e Spiro e i nipoti, e i carissimi luoghi dove s'era trastullata la mia infanzia e viveva pur sempre tanta parte dell'anima mia. Le lettere che mi scrisse allora la Pisana non voglio ridirvele per non tirarmi addosso un troppo grave cumulo d'invidia. Io non mi capacitava come tutti questi struggimenti potessero combinarsi colla noncuranza dei mesi passati; ma la contentezza presente vinceva tutto, soperchiava tutto. Pensando a null'altro, io salii dalla signora Contessa colle lagrime agli occhi, e lì le dichiarai che dopo la pace di Presburgo ... - Cosa mai? ... cosa c'è di nuovo dopo la pace di Presburgo? - mi gridò la signora tirando gli occhi come una vipera. - C'è di nuovo ch'io non posso più fare né l'intendente, né il maggiordomo ... - Ahi mascalzone I e me lo dite in questa maniera? ... Son proprio stata una buona donna io a mettere ... tutta la mia confidenza in voil •.. Uscitemi pure dai piedi e che non vi vegga • •, I mai p1u .... Era tanto fuori di me dalla consolazione che questi maltrattamenti mi fecero l'effetto di carezze : non fu che dopo, al tornarci sopra, che m'accorsi della porcheria commessa nell'accomiatarmi in quel modo. Certi favori non bisogna dimenticarseli mai quando una volta furono accettati per favori, e chi se ne dimentica merita esser trattato a calci nel sedere. Se la Contessa usò meco con minore durezza, riconosco ora che fu tutta sua indulgenza; perciò non mi diede mai il cuore di unirmi ai suoi detrattori quando ne udii dire tutto il male che vedrete in appresso. La Pisana mi accolse a Venezia col giubilo più romoroso di cui ell'era capace ne' suoi momenti d'entusiasmo. Siccome io avea provveduto che mi si lasciasse libero almeno un appartamentino della mia casa, ella voleva ad ogni costo accasarsi presso di me: Presburgo. La pace di Presburgo fu firmata il 26 dicembre 1805. Con quel trattato l'Impero austriaco cedeva i territori italiani già appartenenti alla Repubblica di Venezia, che venivano uniti al Regno d'Italia. 1.

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ghiribizzo che troverete abbastanza strano raffrontato colla tenerezza e colle cure da lei prodigate fino allora al marito. Ma il più strano si fu quando il vecchio N avagero, disperatissimo di cotal risoluzione della moglie e della valente infermiera che era in procinto di perdere, mi mandò a pregare in segreto che piuttosto andassi io ad abitare presso di lui che m'avrebbe veduto con tutto il piacere. L'era un portar troppo oltre la tolleranza veneziana; e da ciò capii che l'apoplessia lo aveva liberato perfettamente de' suoi umori gelosi. Ma io non mi degnai di arrendermi alle gentili preghiere del nobiluomo; feci parte di questi miei scrupoli alla Pisana, e suo malgrado pretesi che la restasse presso il marito. L'amore avrebbe riguadagnato in freschezza e in sapore quel poco che ci perdeva di facilità. Anche Spiro e l' Aglaura mi volevano con loro; ma io aveva fitto il capo nella mia casetta di San Zaccaria, e non mi volli movere di là. Così vissi spensierato d'ogni cosa e beatissimo fino alla primavera, stando il più che poteva alla larga dalla Contessa di Fratta, da suo figlio, ma godendo le più belle ore della giornata in compagnia della mia Pisana. La pietà di costei per quel vecchio e malconcio carcame del N avagero trascendeva tanto ogni misura, che talvolta mi dava perfino gelosia. Succedeva non di rado che dopo le visite più noiose ed importune, rimasti soli un momento ella correva via di volo per cambiare il cerotto o per versar la pozione al marito. Questo zelo in eccesso mi infastidiva e non potea fare che qualche fervida preghiera non innalzassi al cielo per ottenere al povero malato le glorie del paradiso. Non c'è caso. Le donne sono amanti, sono spose, madri, sorelle; ma anzi tutto sono infermiere. Non v'è cane d'uomo cosi sozzo cosi spregevole e schifoso che lontano da ogni soccorso e caduto infermo non abbia trovato in qualche donna un pietoso e degnevole angelo custode. Una donna perderà ogni sentimento d'onore di religione di pudore; dimenticherà i doveri più santi, gli affetti più dolci e naturali, ma non perderà mai l'istinto di pietà e di devozione ai patimenti del prossimo. Se la donna non fosse intervenuta necessaria nella creazione come genitrice degli uomini, i nostri mali le nostre infermità l'avrebbero richiesta del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son tante, che le nostre donne sono, si può dire, dalla nascita alla morte occupate sempre a medicarci o l'anima o il corpo. Benedette le loro dita stillanti

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balsamo e mielel Benedette le loro labbra donde sprizza quel fuoco che abbrucia e rhnarginal ... Gli altri miei conoscenti di Venezia non parevano gran fatto curanti di me; ove si eccettuino i Venchieredo che cercavano in ogni modo di attirarmi, ed io mi teneva discosto con tutta la prudenza della mia ottima memoria. Dei Frumier il Cavaliere di Malta pareva sepolto vivo; l'altro, sposata la donzella Contarini e cacciato avanti nelle Finanze, era arrivato a farsi nominar segretario. L'ambizione lo spingeva per una carriera a cui per la nuova ricchezza poteva facilmente rinunciare; e con quel suo capolino di oca, giunto a disegnare la propria firma sotto un rapporto, gli pareva di poter guardare d'alto in basso i cavalli di San Marco e gli Uomini delle Ore. 1 Mi sorprese peraltro assaissimo che tanto lui quanto il Venchieredo l'Ormenta e taluni altri impiegati dell'usato governo continuassero ad esser sofferti dal nuovo, o nelle antiche cariche o in nuovi posti abbastanza importanti e delicati. Siccome peraltro né cogli usciti né cogli entranti io aveva a partire la mela, non m'alambicava il cervello di saperne il perché. Quello piuttosto che mi dava alcun fastidio si era che molti degli amici miei, di Lucilio d'Amilcare, e qualche intrinseco di Spiro Apostulos, e mio cognato stesso mi trattassero alle volte con qualche freddezza. Io non credeva di aver demeritato della loro amicizia; perciò non mi degnava neppure di rammaricarmene, ma uscii a dirne qualche cosa coli' Aglaura e costei si schivò con dire che suo marito avea spesso la testa negli affari, e non potea badare a feste e a cerimonie. Un giorno mi venne veduto in Piazza un certo muso ch'io non aveva incontrato mai senza alquanto rincrescimento; voglio dire il capitano Minato. Io cercava sfuggirlo, ma me lo impedl dieci pertiche lontano con un - oh l - di sorpresa e di piacere: e mi convenne trangugiare in santa pace un beverone infinito di quelle sue còrse castronerie. - A proposito! - diss' egli. - Son passato per Milano; me ne Uomini delle Ore: sono i cosiddetti a: mori», due grandi figure in bronzo che battono le ore sulla torre dell'Orologio in Piazza San Marco, a Venezia. Sono opera di Ambrogio dcll'Ancore, fusa nel 1497. Si veda nella sezione Poesie di questo volume, un « bozzetto veneziano• agli Uomini delle ore. I cavalli di San Marco ognuno sa che cosa sono: in rnme dorato, opera romana del IV-III sec. a. C., furono portati a Venezia nel 1204 da Costantinopoli come bottino di guerra. 1.

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congratulo con voi. Anche voi siete passato colà a tempo per ereditare le mie bellezze. - Che bellezze mi tirate fuori? - Capperi, non è una bellezza la contessina Migliana? ... Da quando io le feci fare il viaggio da Roma ad Ancona, la trovai un po' appassitella; ma cosi senza confronti è ancora un'assai bella donna. - Che ? ... la contessa Migliana è ..• ? - È l'amica d'Emilio Tornoni, è il mio tesoretto del novantasei! Quanti anni sono passati! - Eh, giusto! è impossibile! mi date ad intendere delle baie! ... La vostra avventuriera non si chiamava così, e non possedeva né la fortuna né l'entratura nel mondo della contessa Migliana! - Oh in quanto ai nomi, ve lo assicuro io che la Contessa non ne ha portato nessuno più d'un mese! Fu un delicato riguardo per ognuno de' suoi amanti. Quanto alle ricchezze, lo dovete sapere anche voi che la sua eredità non le toccò che pochi anni or sono. Del resto il mondo è troppo furbo per diniegare l'ingresso a chi sa pagarlo bene. Avrete veduto di qual razza di gente è ora circondata almeno nelle ore diplomatiche la signora Contessa: or bene, furono costoro che a prezzo d'un po' di vernice e di qualche elemosina per la pia causa, acconsentirono a porre un velo sul passato e a raccogliere la pecorella smarrita nel gran grembo dell'aristocrazia ... come la chiamano a Milano? .•. dell'aristocrazia biscottinescal .. . - E pertanto ... - volli dir io. - E pertanto volevate dire che, essendo voi maggiordomo in casa sua ... non so se mi spiego ... ma non trovaste poi la pecorella così fida all'ovile da non perdersi anche talvolta in qualche pascolo romito, in qualche trastullo lascivetto e ... - Signore, nessuno vi dà il diritto né di straziare l'onor d'una dama, né ... - Signore, nessuno vi dà il diritto d'impedire che io parli quando parlano tutti. - Voi venite da Milano; ma qui a Venezia ... - Qui a Venezia, signore, se ne parla forse più che a Milanol ..• - Come? ... Spero che sarà una vostra fantasia! - La notizia è venuta a quanto si dice nel taccuino del consiglier Ormenta, il quale vi fece merito dei vostri amori come d'un'opportuna conversione alla causa della Santa Fede.

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- Il consiglier Ormenta, voi dite? - Sì, sì, il consiglier Ormental non Io conoscete? - Pur troppo lo conosco I - E mi diedi a pensare perché, dopo avermi tanto dimenticato da non ravvisarmi più, si fosse poi dato attorno per seminare cotali spiacevoli ciarle. E non mi venne in capo che egli a sua volta si potesse credere non conosciuto da me, e che il mio nome caduto qualche volta di bocca alla Contessa lo avesse aiutato a mutare in certezza il sospetto della somiglianza. La gente del suo fare non altro cerca di meglio che spargere la diffidenza e la discordia; ecco chiarissime le cagioni del suo malizioso sparlare. E quanto al resto non m'importava un fico di saperne di meglio; tuttavia, persuasissimo che il Minato m'avesse reso un vero servigio coll'aprirmi gli occhi su quella mariuoleria, mi separai da lui con minor piacere del solito e tornai presso la Pisana per masticare meno amaramente la mia rabbia. Trovai quel giorno presso la signorina la visita di un tale che non mi sarei mai aspettato; di Raimondo Venchieredo. Dopo quanto avevamo discorso di lui, dopo le mire ch'io gli supponeva sul conto della Pisana, dopo le trame orditele contro a mezzo della Doretta e della Rosa, mi maravigliai moltissimo di trovarla in tal compagnia. Di più s'aggiungeva che sapendo ella I9inimicizia non mai spenta fra me e Raimondo, la doveva anche per riguardo mio tenerselo lontano. Il furbo peraltro non giudicò opportuno incommodarmi a lungo, e se la cavò con un sì profondo saluto che equivaleva ad un'impertinenza bell'e buona. Partito lui ci bisticciammo fra noi. - Perché ricevi quella razza di gente? - Ricevo chi voglio io 1 - Non signora, che non devii - Vediamo chi mi potrà comandare! - Non si comanda, ma si prega I - Pregare s'affà a chi ne ha il diritto. - Il diritto io l'ho acquistato mi pare con molti anni di penitenza! - Penitenza grassa! - Cosa vorresti dire ? - Lo so io, e bastai Cosi continuammo un pezzetto con quegli alterchi a monosillabi

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che sembrano botte e risposte a morsi e ad unghiate; ma non mi venne fatto cavar da quella bocca una parola di più. Me ne partii furibondo; ma con tutto il mio furore, la trovai tornando più fredda e ingrognata di prima. Non solamente non volle aprirsi meglio, ma schivava ogni discorso che potesse condurre ad una dichiarazione, e d'amore poi non voleva sentirne parlare come d'un sacrilegio. Alla terza alla quarta volta si peggiorava sempre; m'incontrai ancora nel suo stanzino da lavoro con Raimondo che giocarellava dimesticamente colla cagnetta. E la cagnetta si mise ad abbaiare a mel - Per una volta lo sopportai; ma alla seconda uscii affatto dai gangheri : al contegno altero e beffardo di Raimondo m'accorsi a tempo della bestialità, e scappai giù per la scala perseguitato dai latrati di quella sconcia cagnetta. Oh queste bestiole sono pur barbare e sincerel Esse fanno e ritirano, a nome delle padrone, dichiarazioni d'amore che non vi si sbaglia d'un capello. Ma allora io era tanto indemoniato che di cagnetta e padrona avrei fatto un fascio per gettarlo in laguna. Dite ch'io mi vanto· d'un'indole mite e rassegnatal Che avrebbe fatto nel mio caso un cervello caldo e impetuoso io non lo so. In tutto questo l'unico punto che non appariva oscuro si era la perfidia della Pisana verso di me, e il suo invasamento per Raimondo Venchieredo. Che costui poi fosse la causa della mia sventura, non lo potea dire di sicuro, ma amava crederlo per potermi scaricare sopra taluno di quel gran bollore di odio che mi sentiva dentro. Per metter il colmo al mio delirio, ebbi a quei giorni una lettera da Lucilio così agghiacciata, così enigmatica che per poco non la stracciai. Che tutti amici e nemici si fossero data la parola per menarmi all'estremo dell'avvilimento e della disperazione? ... Quel colpo poi che mi veniva da Lucilio, dall'amico il di cui giudizio io poneva sopra il giudizio di tutti, da quello che avea regolato fin'allora la mia coscienza, e tenutomi luogo di quella costanza di quella robustezza che talvolta mi mancavano, un tal colpo dico, mi tolse perfino il discernimento della mia disgrazia. Cosa non aveva e cosa non avrei io fatto per conservarmi la stima di Lucilio? .•. Ed ecco che senza dirmi né il perché né il come, senza interrogarmi, senza chiamarmi a discolpa, _egli mi dava sentore di avermela tolta. Quali orrendi delitti erano stati i miei? ... Qual era lo spergiuro, la viltà, l'assassinio che m'avea meritato una tale sentenza? ... Non aveva

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la mente ordinata a segno da cercarlo. Mi tormentava, mi struggeva, piangeva di rabbia di dolore d'umiliazione; la vergogna mi facea tener curva la fronte sul petto; quella vergogna ch'io sapeva di non aver meritato. Ma così fatti sono i temperamenti troppo sensibili come il mio, che sentono al pari d'una colpa la taccia anche ingiusta di essa. La sfacciataggine della virtù io non l'ho mai avuta. In quei momenti le consolazioni dell' Aglaura diffusero sui miei dolori una dolcezza inesprimibile; pe~ la prima volta avvisai quanto bene stia racchiuso in quegli affetti calmi e devoti che non si ritraggono da noi né per mancanza di meriti né per cambiamento d'opinioni. La mia buona sorella, i suoi figlioletti mi sorridevano sempre per quanto la società mi si mostrasse barbara e nemica. Essi senza parlare prendevano le mie difese al cospetto di Spiro; giacché egli non poteva serbare il viso torvo ed arroncigliato con colui che riceveva carezze e baci continui dalla moglie, dai figlioli, dal sangue suo. Quanto la fiducia de' miei antichi compagni s'allontanava da me, altrettanto mi venivano incontro mille finezze dell'avvocato Ormenta, di suo figlio, del vecchio Venchieredo, del padre Pendola e dei loro consorti. Il buon padre s'era fatto lui il direttore spirituale in quel ritiro di converti-te del quale il dottorino Ormenta governava l'economia; e ogniqualvolta m'incontravano erano scappellate, saluti e sorrisacci che mi stomacavano perché sembravano dire:« Sei tornato dei nostri( Bravol Ti ringraziamo(» - Io aveva un bel che fare, a sgambettare a salvarmi da quei loro salamelecchi; ma la gente li vedeva, li vedeva taluno a cui io era in sospetto; le calunnie pigliavano piede, e non c'era verso ch'io potessi sbarazzarmene, come da quelle caldane paludose dove, affondati una volta, per pestar che si faccia si affonda sempre più. Confesso che fui per darmi beli' e spacciato; poiché se io non mi disperai giammai contro nemici certi e disgrazie ben misurate, non ho al contrario potuto sopportar mai un agguato nascosto e le cupe agonie d'un misterioso trabocchetto. Era lì lì per rinserrarmi in una vita morta, in quella vegetazione che protrae di qualche anno lo sfacelo del corpo dopo aver soffocate le speranze dell'anima; non vedeva più nulla intorno a me che valesse la pena d'un giorno misurato a singhiozzi e a sospiri: io non era necessario e buono a nulla; perché dunque pensare agli altri per sen-

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tire peggio che mai il mio crepacuore? ..• Cosi se io non deliberava di uccidermi, m'accasciava volontario, e mi lasciava schiacciare dal peso che mi rotolava addosso. Non aveva il furore ma la stanchezza del suicida. Caduti in tanto abbattimento, le carezze degli altri uomini per quanto maligne e interessate ci trovano le molte volte deboli e credenzoni. Godiamo quasi di poter dire ai buoni: - Guardate che i tristi sono migliori di voil- Fanciullesca vendetta che volge in nostro danno perpetuo la gioia puerile d'un momento. Gli Ormenta padre e figlio raddoppiarono verso di me di premure e di cortesie; conviene dire ch'io avessi qualche grazia presso di loro o che la setta fosse tanto immiserita che non si badasse più a fatica ed a spesa per guadagnare un neofito. Mi circondarono con loro adescatori, misero sotto mezzani e sensali; io rimasi incrollabile. Nullo sì, ma per essi no. Moriva per l'ingiustizia degli amici miei, ma non avrei mai acconsentito a volger contro di essi la punta d'un dito; dietro quegli amici ingannati ed ingiusti era la giustizia eterna che non manca mai, che mai non inganna né rimane ingannata. Questo pensiero di resistenza brulicandomi entro mi ridonb un'ombra di coraggio e un filo di forza. Guardai dietro a me per vedere se veramente l'abbandono di tutti, la perfidia dell'amore, i mancamenti dell'amicizia mi lasciavano cosi nullo e impotente com'io credeva. Allora risorsero alla mia memoria come in un baleno tutti gli ideali piaceri, tutte le robuste fatiche, e i volontari dolori della mia giovinezza: vidi raccendersi quella fiaccola della fede che m' avea guidato sicuro per tanti anni ad un fine lontano si ma giusto ed immanchevole; vidi un sentiero seminato di spine ma consolato dagli splendori del cielo, e dalla brezza confortatrice delle speranze, che scavalcava aereo e diritto come un raggio di luce l'abisso della morte e saliva e saliva per perdersi in un sole che è il sole dell'intelligenza e l'anima ordinatrice dell'universo. Allora la mia idea diventb entusiasmo, la mia debolezza forza, la mia solitudine immensità. Sentii che l'opinione altrui valeva nulla contro l'usbergo della mia coscienza, e che in questa sola s'accumulava la maggior somma dei castighi e delle ricompense. Il mondo ha migliaia di occhi, di orecchi, di lingue; la coscienza sola ha la virtù il coraggio la fede. Mi rizzai uomo davvero. E dalla rocca inespugnabile di que44

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sta mia coscienza guardai alteramente tutti coloro di cui con tanto dolore avea sofferto il muto disprezzo. Pensai a Lucilio e per la prima volta ebbi il coraggio di dirgli in cuor mio: "Profeta, hai sbagliato! Sapiente, avesti torto I» Quanta confidenza quanta beatitudine mi venisse da questo coraggio, coloro soltanto possono saperlo che provarono le gioie sublimi dell,innocenza in mezzo alla persecuzione. Più di ogni altra cosa poi giovava a rattemprarmi l'animo la fiducia in quell,istinto retto e generoso che misero avvilito boccheggiante pur m'avea fatto sprezzare le lusinghe dei tristi e degli impostori. Il debole che piange e si dispera d'esser trascinato al patibolo, e pur non consente a guadagnarsi la grazia col tradire i compagni, quello secondo me è più ammirabile del forte che col sorriso sulle labbra si abbandona alle mani del boia. Tremate ma vincete: questo è il comando che può intimarsi anche ai pusillanimi; tremare è del corpo. Vincere è del1' anima che incurva il corpo sotto la verga onnipotente della volontà. Tremate ma vincete. Dopo due vittorie non tremerete più: e guarderete senza batter ciglio lo scrosciar della folgore. Cosi feci io. Tremai lungamente; piansi ancora mio malgrado degli amici che m'avevano abbandonato; mi straziai il petto coll'ugne, e sentii il cuore battere precipitoso come impaziente di arrivar alla fine delle sue fatiche, mi disperai dell'amor mio che dopo mille lusinghe, dopo avermi aggirato scherzevole e leggiero pei giardini fioriti e per le balze capricciose della giovinezza, mi lasciava solo vedovo sconsolato ai primi passi nella selva selvaggia della vera vita militante e dolorosa. Ohimè, Pisanai quante lagrime sparsi per tel Quante lagrime di cui avrei vergognato come di una debolezza femminile allora; eppur adesso me ne glorio come d'una costanza che diede alla mia vita qualche impronta di grandezza e di virtùl ... Tu fosti come l'onda che va e viene sul piede arenoso dello scoglio. Saldo come la rupe io l'attesi sempre; non mi sdegnai degli oltraggi, accolsi modestamente le carezze ed i baci. Il cielo a te avea dato la mutabilità della luna; a me la costanza del sole; ma gira e gira ogni luce s'incontra, si ripete, s'idoleggia, si confonde. E il sole e la luna nell'ultima quiete degli elementi s'adageranno eternamente rilucenti e concordi. Voli pindarici I Voli pindarici l Ma per nulla non si diedero l'ali alle rondini, il guizzo al baleno, ed alla mente umana la sublime istantaneità del pensiero.

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Sl, piansi molto allora e molto soffersi; ma aveva racquistato la pace della mia coscienza e la purezza della mia fede. Piangeva e soffriva per gli altri; in me non sentiva né peccato né colpa. Ecco a mio giudizio una delle maggiori ingiustizie della natura a nostro riguardo; la coscienza per quanto pura e tranquilla non ha potenza di opporsi vittoriosamente alle immeritate afflizioni; soffriamo d'una nequizia altrui come d'un castigo. Lo sconforto, i dolori, l'avvilimento, le continue battaglie d'un'indole mite e sensibile con un destino avverso e rabbioso scossero profondamente la mia robusta salute. Conobbi allora esser vero che le passioni racchiudono in sé i primi germi di moltissime fra le malattie che affliggono l'umanità. Dicevano i medici ch'era infiammazione di vene, o congestione del fegato; sapeva ben io cos'era, ma non mi stava il dirlo perché il male da me conosciuto era pur troppo incurabile. Vedeva da lontano la mia ora avvicinarsi lentamente minuto per minuto, battito per battito di polso. Il mio sorriso appariva rassegnato come di colui che non ha più speranze se non eterne, e a quelle affida colla sicurezza dell'innocenza l'anima sua. Perdonate, o stizzosi moralisti: vi sembrerà ch'io fossi inverso me assai largo di manica, come si dice. Ma pur troppo io m'avea composto di mio capo una regola assai diversa dalla vostra: pur troppo, secondo voi, puzzava d'eresia; scusate, ma tutto quello che non era stato male pegli altri non lo addebitava come male a me stesso; e se male avea commesso, ne era pentito a segno che m'abbandonava senza paura alla giustizia che non muore mai, e che giudicherà non delle vostre parole ma dei fatti. Voi avreste circondato il mio letto di catene sonanti di spettri e di demonii; vi assicuro ch'io non ci vidi altro che fantasmi benigni e velati d'una nebbia azzurra di celeste melanconia, angeli misteriosi che mestamente mi sorridevano, orizzonti profondi che s'aprivano allo spirito e nei quali senza perdersi lo spirito si effondeva, come la nuvola che si dirada a poco a poco ed empie leggiera e lucente tutti gli spazii interminati dell'etere. Io non avea veduto mai fino allora così vicina la morte; dirò meglio che non aveva avuto agio di contemplarla con tanta pacatezza. Non la trovai né schifosa né angosciosa né spaventevole. La rivedo adesso dopo tanti anni più vicina più certa. È ancora lo stesso volto ombrato da una nube di melanconia e di speranza;

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una larva arcana ma pietosa, una madre coraggiosa e inesorabile che mormora al nostro orecchio le fatali parole dell'ultima consolazione. Sarà aspettazione, sarà espiazione, o riposo; ma non saranno più le confuse e vane battaglie della vita. Onnipotente o cieco poserai nel grembo dell'eterna verità: se reo temi, se innocente spera e t'addormenta. Qual mai fu il sonno che non fu consolato da visioni? .•. La vita si ripete e si ricopia sempre. Il sonno d'una notte è la quiete e il ristoro d'un uomo; la morte di un uomo è un istante di sonno nell'umanità. M'avvicinava passo passo alla morte coi mesti conforti del]' Aglaura da un lato; col tardo ravvedimento di Spiro dall'altro, che non potea serbare la sua ostile diffidenza dinanzi all'imperturbabile serenità d'un moribondo. Dinanzi alle grandi ombre del sepolcro non vi sono né illusi né imbecilli; ognuno racquista tanta lucidità che basti a riverberargli in un terribile baleno le colpe e le virtù di tutta la vita. Chi posa gli occhi calmi e sicuri in quella notte senza fondo, sente e vede in se stesso l'immagine purificata di Dio; egli non teme né le ricompense né le pene eterne, non paventa né i fluttuanti vortici del caos né gli abissi ineffabili del nulla. Convien dire che avessi scritta sulla mia fronte un'assai eloquente difesa, perché Spiro al solo guardarmi si commoveva fino alle lagrime; pure non aveva i nervi rammolliti dalla piagnoleria, e le greche fattezze del suo volto si componevano meglio alla rigidezza del giudice che alla vergogna e al pentimento del colpevole. Fu quello il primo premio che m'ebbi della mia costanza. Veder vinta dalla sola calma del mio aspetto, dalla tranquillità della voce, dalla limpidezza dello sguardo quell'anima di fuoco e d'acciaio, fu un vero trionfo. Egli né mi chiese perdono né io glielo diedi, ma ci intendemmo senza parola; le nostre mani si strinsero; e tornammo amici per malie• veria della morte. I medici non parlavano dinanzi a me, ma io m'accorgeva appunto dal silenzio e dalla confusione dei pareri, che disperavano del mio male. Io m'ingegnava di usare alla meglio quegli ultimi giorni col versare nell'anima di Spiro e di mia sorella l'esperienza della mia vita, col mostrar loro in qual modo s'eran venuti formando i miei sentimenti, e come l'amore, l'amicizia, l'amore della virtù e della patria eran venuti irrompendo confusamente, indi purificandosi a poco a poco, e sollevando l'anima

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mia. Vedeva allora le cose tanto chiare che precedetti, si può dire, una generazione; e lo dico senza superbia, le idee di Azeglio e di Balbo covavano in germe ne' miei discorsi d'allora. L' Aglaura piangeva, Spiro crollava il capo, i loro bambini mi guardavano sgomentiti e domandavano alla mamma perché lo zio aveva la voce così bassa, e voleva sempre dormire e non usciva mai dal letto. - Vegliare toccherà a voi, bambini I - io rispondeva sorridendo; indi volgendomi a Spiro - non temere, no; - continuava - quello che ora veggo io, molti lo vedranno in appresso, e tutti da ultimo. La concordia dei pensieri mena alla concordia delle opere; e la verità non tramonta mai ma sale sempre verso il meriggio eterno. Ogni spirito veggente che sale lassù risplende a cento altri spiriti colla sua luce profetical Spiro non si acquetava di cotali conforti; egli mi tastava il polso, mi osservava ansiosamente negli occhi come vi cercasse quell'intima cagione del mio male che ai medici era sfuggita. Finalmente un giorno che eravamo soli si diede animo e mi disse: - Carlo, in coscienza, confessati a mel Non puoi o non vuoi guarire? - Non posso, no, non posso! - io sciamai. In quel momento l' Aglaura entrò precipitosa nella stanza, dicendomi che una persona, a me molto cara altre volte, voleva vedermi ad ogni costo. - Ch'ella entri, ch'ella entri!- io mormorai sbigottito dalla consolazione che mi veniva tanto improvvisa. Io vedeva attraverso le pareti, io leggeva nell'anima di colei che veniva a trovarmi; credo che ebbi paura di quel lampo quasi sovrumano di chiaroveggenza e che temetti di mancare al rifluir repentino di tanto impeto di vita. La Pisana entrò senza vedere senza cercare altri che me. Mi si gettò colle braccia al collo senza pianto senza voce; il suo respiro affannoso, i suoi occhi impietrati e sporgenti fuori dalle orbite mi dicevano tutto. Oh, vi sono momenti che la memoria sente ancora e sentirà sempre quasiché fossero eterni, ma non può né esaminarli né descriverli. Se poteste entrare nella lieve e aerea fiammolina d'un rogo che si spegne e immaginare cos'ella prova al riversarsi sopra di lei d'una ondata di spirito che la rianima, comprendereste forse il miracolo che si compié allora nel1'esser mio I ••• Fui come soffocato dalla felicità; indi la vita scop-

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piò ribollente da quel momentaneo assopimento, e sentii un misto di calore e di freschezza corrermi salutare e voluttuoso i nervi le v~ne. La Pisana non volle più staccarsi dal mio capezzale; fu questa la sua maniera di chieder perdono e di ottenerlo pronto ed intero. Che dico mai di ottenerlo? A ciò avea bastato uno sguardo. Capii allora la vera cagione del mio male, la quale la superbia forse mi avea tenuto nascosta. Mi sentii rivivere, diedi la berta ai medici, e rifiutai le loro insulse pozioni. La Pisana non dormì più una notte, non uscì un istante dalla mia stanza, non lasciò che altra mano fuori della sua toccasse le mie membra, le mie vesti, il mio letto. In tre giorni divenne così pallida e scarna che pareva più malata di me. Io credo che per non vederla soffrire a lungo condensai tanto sforzo di volontà nell'adoperarmi a guarire, che accorciai la malattia di qualche settimana, e mutai in perfetta salute la convalescenza. Spiro e l' Aglaura guardavano meravigliati : la Pisana pareva che meno non si aspettasse, tanta era 1~ fede e la sincerità dell'amor suo. Che cosa non le avrei perdonato!? ... Fu di quella volta come delle altre. Le labbra tacquero, ma parlarono i cuori: ella mi avea ridonato la vita e la possibilità di amarla ancora. Me le professai debitore, e l'umiltà e la tenerezza d'un amore infinito mi compensarono dello spensierato abbandono d'un giorno. - Carlo, - mi disse un giorno la Pisana poich'io fui ristabilito tanto da poter uscire - raria di Venezia non ti si affà molto, hai bisogno di campagna. Vuoi che facciamo una visita allo zio monsignore di Fratta? Non so come avrei potuto rispondere ad un invito che si bene interpretava i più ardenti voti del mio cuore. Rivedere colla Pisana i luoghi della nostra prima felicità sarebbe stato per me un vero paradiso. Mi avanzava qualche piccola somma di danaro accumulata dalle pigioni della mia casa negli ultimi quattr'anni; il ritiro in campagna avrebbe aiutato l'economia; tutto concorreva a rendere questo disegno oltreché bello, utile e salutare. D'altra parte io sapeva che Raimondo Venchieredo stava ancora in Venezia, sapeva ornai delle arti basse e maligne da lui messe in opera per accertar la Pisana de' miei amori colla contessa Migliana e per giovarsi a' suoi intenti d'un momento di dispetto. Avea perdonato alla Pisana ma non a lui; né era sicuro da un impeto di

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furore ove mi fosse intervenuto d'incontrarlo. Per due giorni ancora la Pisana non mi parlò di partire, ma la vedeva affaccendata in altri pensieri, e mi pareva che si disponesse ad una lunga assenza. Finalmente venne a casa mia col suo baule e mi disse: - Cugino, eccomi pronta. Mio marito non è guarito; ma la sua malattia ha ripreso un andamento regolare; i medici dicono che cosi può durare ancora molti anni. Mia sorella che domani esce di convento ... - Come? - io sciamai. - La Clara si sveste di monaca? - Non lo sapete? Il suo convento fu soppresso; le hanno dato una pensione, e uscirà appunto domani. Ben inteso ch'ella non ha la benché minima idea di rompere i suoi voti; e che digiunerà egualmente le sue tre quaresime all'anno. Ma intanto ella acconsente a far l'infermiera a mio marito; io l'ho persuaso che lo zio monsignore abbisogna di me, e mia madre poi, che avrà dalla mia partenza il suo tornaconto, asseconda con tutte le forze questo progetto. - Che tornaconto ha mai tua madre da questo viaggio? - Il tornaconto che le ho ceduto definitivamente non solo il godimento ma la proprietà della dote! .•• - Che pazzia! e per te dunque, cosa ti rimane? - Per me mi rimangono due lire al giorno che mio marito vuol passarmi ad ogni costo malgrado la strettezza della sua fortuna; e con quelle in campagna posso vivere da gran signora. - Scusa, sai, Pisana; ma il sacrifizio che hai fatto per tua madre mi sembra altrettanto imprudente che inutile. Qual vantaggio recherà a lei l'avere la proprietà oltre il godimento della dote? - Qual vantaggio? Non so; ma probabilmente quello di potersela mangiare. E poi fare questi conti non si stava a me. Mia madre mi ha mostrato le sue tristi condizioni, la sua vecchiaia che vien domandando sempre nuovi commodi, nuove spese, i debiti da cui è molestata; infine io ho veduto anche i bisogni delle sue passioncelle e non voleva che per giuocare due partite di tresette ella fosse costretta a vendere il pagliericcio. Le ho risposto dunque: « Volete così? ... Sia I Ma mi lascerete partire perché ho bisogno d'una boccata d'aria libera e di rivedere le nostre campagne.» «Va', va' pure, e che il cielo ti benedica, figliuola mia» soggiunse mia madre. Io credo ch'ella si consolò tutta di vedermi

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in procinto d,andarmene, perché le mie suggestioni non avrebbero più persuaso Rinaldo a comperarsi ogni tanto o un cappello nuovo o un vestito meno indecente, e così a lei sarebbe rimasto qualche zecchino di più. Andai dunque da un notaio, fu stesa e firmata la scritta di cessione. Ma nel punto di consegnarla a mia madre, non ti figuri mai più il favore ch'io le chiesi in contraccambio. - Cosa mai? le chiedesti il diritto eventuale all'eredità Navagero, o la cessione de' suoi crediti verso la sostanza di Fratta? - Nulla di tutto questo, Carlo. Da un pezzo era pizzicata da una indiscreta curiosità messami in capo, te ne ricordi, da quella pettegola della Faustina. Domandai dunque a mia madre che proprio sinceramente colla mano sul cuore mi confessasse se io non ero figliuola di monsignore di Sant' Andrea! .•. - Eh va là! pazzerella! ... e cosa ti rispose la Contessa? - Mi rispose quello che tu. Mi diede della sguaiata della pazzerella; e non volle dir nulla. Ah, Carlo! de' miei ottomila ducati non ci ho proprio ritratto un bruscolo, nemmeno tanto da cavarmi una curiosità! Questo incidente può darvi un'idea non solamente dell'indole e dell'educazione avuta dalla Pisana, ma anche fino ad un certo punto dei costumi veneziani del secolo passato. Nel punto stesso che una figliuola con sublime sacrificio si toglieva il pane di bocca, si spogliava dell'ultimo suo avere per accontentare i vizietti della madre, chiedeva in compenso di tanto benefizio una cinica confessione, e un gusterello di curiosità altrettanto inutile che scandalosa. Non aggiungo di più. Ma basta un finestrella aperto per lumeggiare un quadro. - E a te dunque - soggiunsi io - non restano ora che due grame lirette al giorno concesseti dalla misera munificenza del nobiluomo Navagero, sicché una voltata d'umore di questo vecchio pazzo può metterti addirittura all'ospizio dei poverill ... - Eh gua' 1- disse la Pisana. - Son giovine e robusta; posso lavorare, e poi io starò con te, e il mantenimento me lo conterai per salario. Un cotale accomodamento quadrava col modo di pensare della Pisana; e non isconveniva punto a me: solamente mi sarebbe abbisognata qualche professione per accrescere di qualche cosa le mie meschinissime entrate, finché la sospirata morte del N avagero porgesse comodità di pensare ad uno stabilimento definitivo.

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Per allora misi da banda questa idea; l'importante era di partir subito, perché la mia salute terminasse di raffermarsi. Io aveva in borsa un centinaio di ducati, la Pisana volle a tutti i costi consegnarmene altri duecento ch'ella avea ricavato da certe gioie, e con questa gran somma ci disposimo allegramente alla partenza. Prima di lasciar Venezia ebbi anche la fortuna di rivedere per l'ultima volta il vecchio Apostulos reduce allora dalla Grecia; egli era involto in quelle macchinazioni d'allora per la liberazione della sua patria mediante il patrocinio dei così detti Fanarioti I o Greci di Costantinopoli; e faceva un gran correre qua e là col pretesto del commercio. Spiro, che propendeva al partito più giovane, che poi soperchiò tutti gli altri e fomentò l'ultima guerra dell'indipendenza, ubbidiva di malincuore a suo padre in quelle congiure senza grandezza, dove pescava a suo profitto l'avara ambizione di qualche principe semiturco: perciò si stavano fra loro con qualche freddezza. Il vecchio Apostulos mi diede buone notizie del mio Gran Visir: egli era stato strangolato, secondo il comodissimo sistema usato allora dalla Porta invece di quell'altro europeo, a mille doppi più dispendioso, delle giubilazioni. Ma il successore riconosceva la validità de' miei titoli; soltanto, siccome il credito ammontava a sette milioni di piastre e il tesoro di Sua Altezza non era a quel tempo molto ben fornito, voleva soprastare d'un qualche anno al pagamento. Così milionari di speranze, e con trecento ducati in tasca, io e la Pisana ci misimo in barca per Portogruaro, e giunsimo il secondo giorno, dopo rotte molte alzane,2 e perduto assai tempo nello scambio dei cavalli e negli arenamenti, sulle beate rive del Lemene. Il viaggio fu lungo ma allegro. La Pisana aveva, se non mi sbaglio, ventott'anni, ne mostrava venti, e nel cuore e nel cer1. Fanarioti: dal greco cpcxvcipLov, lanterna, faro, cosi chiamati dal nome di un quartiere di Costantinopoli dove, fin dalrinizio della dominazione turca, ebbero stanza molte famiglie greche. Esse godettero di privilegi, fra gli altri quello di istruire i loro figli in Europa, specialmente a Padova. Per la loro conoscenza delle lingue e la loro destrezza acquistarono grande prestigio nell'Impero ottomano, e coprendo cariche d'interpreti e di diplomatici poterono anche influire sulla sua politica estera. I Turchi finirono per guardarli con sospetto e al tempo della rivolta greca del 1821, direttamente e indirettamente da essi favorita, li privarono di ogni privilegio e li perseguitarono. 2. alzane: le alzane sono le funi che servono per tirare le barche contro corrente i alle alzane s'attaccano spesso i cavalli da tiro. Si ricordi che da Venezia a Portogruaro si viaggiava un tempo per via d•acqua.

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vello non ne sentiva infatti più di quindici. Io, veterano della guerra partenopea ed ex-Intendente di Bologna, mano a mano che mi avvicinava al Friuli, mi rifaceva ragazzo. Credo che sbarcato a Portogruaro ebbi volontà di far le capriuole, come ne avea fatte sovente nel giardino de' Frumier, quando aveva ancora i denti di latte. La nostra allegria fu peraltro mescolata tantosto da qualche mestizia. I nostri vecchi conoscenti erano quasi tutti morti; de' giovani o coetanei, chi qua chi là, pochissimi in paese n'erano rimasti. Fulgenzio decrepito e rimbambito aveva paura de' suoi figli, ed era caduto in balìa d'una fantesca astuta ed avara che lo tiranneggiava, e sapeva mettere a profitto la sua spilorceria per raggranellarsi un capitale. Il dottor Domenico sbuffava, ma con tutta la sua dottoreria non giungeva a liberar suo padre dalle unghie di quella befana. Don Girolamo, professore in Seminario e brillante campione del partito dei bassaruoli, pigliava le cose con filosofia. Secondo lui bisognava aspettare pazientemente che il Signore toccasse il cuore a suo padre; ma il dottore, che avea somma premura di toccargli la borsa, non si stava cheto a questi conforti del fratello prete. Fulgenzio passò di questo mondo pochi giorni dopo il nostro ritorno in Friuli; la sua morte fu accompagnata da un delirio spaventevole, si sentiva strappata l'anima di corpo dai demonii, e si stringeva tanto per paura alla mano della massaia che costei fu Il lì per dar un calcio all'eredità e lasciarlo nelle mani del becchino. Tuttavia l'avarizia la fece star salda, e tanto; che poiché il padrone fu morto convenne liberarle a forza il braccio dalle unghie rabbiose di lui. Apertosi il testamento, ella ebbe una bella somma di danaro in aggiunta a quello che aveva rubato. Seguivano molti legati di messe e di dotazioni di chiese e di conventi; da ultimo coronava l'opera una somma imponente erogata dal testatore per la costruzione d'un suntuoso campanile vicino alla chiesa di Fratta. E con ciò egli credette di aver dato l'ultima mano alla pulitura della propria coscienza e saldati i suoi conti colla giustizia di Dio. Di restituzioni alla famiglia di Fratta non si parlava punto; dovevano essere abbastanza felici i miserabili eredi degli antichi castellani di deliziarsi nella contemplazione del nuovo campanile. Don Girolamo si accontentava della sua quota che gli rimaneva non tanto piccola dell'eredità anche dopo tanta dispersione di legati ; ma il dottore saltò in mezzo con cause e con cavilli.

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Il testamento fu inoppugnabile. Ognuno ebbe il suo, e si cominciarono ad accumulare sassi e calcine sul piazzale di Fratta per dare la richiesta forma di campanile alla postuma beneficenza del defunto sagrestano. Un'altra notizia stranissima ci diedero a Portogruaro del matrimonio poco tempo prima avvenuto del capitano Sandracca colla vedova dello speziale di Fossalta ch'era passata a dimorare presso di lui con una sua rendita di sette in ottocento lire. Il Capitano, molestato dalla promessa di celibato fatta alla defunta signora Veronica, ma più ancora dalla miseria che lo stringeva, aveva messo tutto d'accordo componendo di suo capo una parlantina che si proponeva di spifferare alla prima moglie, incontratisi che si fossero in qualche contrada dell'altro mondo. Le dimostrava che non era valida e non obbligava per nulla un poveruomo quella promessa estorta in momenti di vera disperazione, e che ad ogni modo la pietà del marito doveva vincerla sopra un suo ghiribizzo di postuma gelosia. La assicurava che il cuore di lui rimaneva sempre pieno di lei, e che della spe:zialessa non amava in fondo altro che le settecento lire. E con cib si lusingava che, commosse le viscere della signora Veronica, e convinta la sua ragionevolezza, non gli avrebbe tenuto il broncio per una infedeltà affatto apparente. Del resto, sposando una zitella il guaio sarebbe stato irrimediabile, ma con una vedova le cose si accomodavano assai facilmente. Costei tornava al primo marito, egli alla prima moglie, e non avrebbero più avuto né un fastidio né una noia per omnia saecula saeculorum. - Il signor Capitano pappava saporitamente le settecento lire colla fondatissima speranza d'un grazioso perdono. Ma intanto noi avevamo già fatto il nostro ingresso nella diroccata capitale dell'antica giurisdizione di Fratta. Solo a vederla da lontano ci si strinse il cuore di compassione. Pareva un castello saccheggiato allora allora da qualche banda indiavolata di Turchi e abitato solamente dai venti e da qualche civetta malaugurata. Il capitano Sandracca ci rivide con molta titubanza; non capiva bene se venissimo a prenderne o a portarne. Monsignore Orlando invece ci accolse così tranquillo e sereno come appunto tornassimo allora dalla passeggiata d'un'ora. La sua nobile gorgiera si era stradoppiata, e camminava strascicandosi dietro le gambe, e lodandosi molto della propria salute, se non fosse

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stato quel maledetto scirocco1 che gli rompeva i ginocchi. Era lo scilocco degli ottant'anni, che ora provo anch'io e che soffia da Natale a Pasqua e da Pasqua a Natale con una insistenza che si fa beffa dei lunarli. Mentre la Pisana buona e spensierata faceva festa allo zio, e si divertiva di inquietarlo sulla durata del suo scirocco, io uscii pian piano a rappiccar conoscenza colle vecchie camere del castello. Mi ricordo ancora che s'imbruniva la notte e che ad ogni porta ad ogni svoltata di corritoio credeva di vedermi dinanzi la negra apparizione del signor Conte e del Cancelliere o la faccia aperta e rubiconda di Martino. Invece le rondini entravano ed uscivano per le finestre recando le prime pagliuzze le prime imbeccate di poltiglia pei loro nidi; i pipistrelli mi sventolavano colle loro ali grevi e malsicure; nella stanza matrimoniale dei vecchi padroni cuculiava un gufo schernitore. Io andava vagando qua e là lasciandomi guidare dalle gambe e le gambe fedeli all'antica abitudine mi portarono al mio covacciolo vicino alla frateria. Non so come vi arrivassi sano e salvo per quei solai malconci e rovinati, per mezzo a quei lunghi androni dove le travature e i calcinacci caduti dal granaio impedivano ogni poco il passo e avevano preparato comodissimi trabocchetti per precipitare ai piani sottoposti. Una rondine aveva appostato il suo nido proprio a quel travicello sotto il quale Martino usava appendere il ramicello d'oliva alla domenica delle Palme. Alla pace era succeduta l'innocenza. Mi ricordai di quel libricciuolo trovato anni prima in quella camera, e che nel mio cuore disperato avea rimessa la rassegnazione della vita e la coscienza del dovere. Mi ricordai di quella notte più lontana ancora quando la Pisana era salita a trovarmi e per la prima volta avea sfidato per me le sgridate e le busse della Contessa. Oh quella ciocca di capelli, io l'aveva sempre con mel Avea preveduto in essa quasi il compendio simbolico dell'amor mio; né le previsioni m'avevano ingannato. La voluttà mista di pianto, l'avvilimento avvicendato alla beatitudine, e la servitù alla padronanza, le contraddizioni e gli estremi non avevano mancato alla promessa: s'erano avvolti confusamente nel mio destino. Quanti dolori, quante 1. scirocco: nella riga successiva: • scilocco •, poi di nuovo •scirocco•· Cosi nel manoscritto (111, pag. 33 verso). Manteniamo i due usi perch6 entrambi contemplati nel lessico italiano.

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g101e, quante speranze, quanta vita da quel giorno! ... E chi sa quant'altri affanni, e quanta varietà di venture m'attendevano al varco prima che tornassi a riporre il piede su quel pavimento crollante e polveroso I • • • Chi sa se la mano degli uomini o il furore delle intemperie non avrebbero consumato l'opera vandalica di Fulgenzio e degli altri devastatori rapaci di quelPantica dimorai ... Chi sa se un futuro padrone non avrebbe rialzato quelle mura cadenti, rintonacato quelle pareti, e raspato loro di dosso quelle fattezze della vecchiaia che parlavano con tanto affetto con tanta potenza al mio cuore!! Tale il destino degli uomini, tale il destino delle cose: sotto un'apparenza di giovialità e di salute si nasconde sovente l'aridità dell'anima e la morte del cuore. Tornai da basso che aveva gli occhi rossi e la mente allucinata da strani fantasmi; ma le risate della Pisana e la faccia serena e rotonda di Monsignore mi snebbiarono se non altro la fronte. Io m'aspettava ad ogni momento di esser richiesto se aveva imparato la seconda parte del Confiteor. Invece il buon canonico si lamentava che le onoranze non erano più tanto abbondanti come una volta, e che quelle birbe di coloni invece di recargli i più bei capponi, come sarebbe stata la scrittura, non davano altro che pollastrelle e galletti sfiniti tanto che scappavano pei fessi dalla stia. - E dicono che son capponi, - soggiungeva sospirando - ma se mi sveglio la notte, li sento cantare che ne disgradano l'accusatore di san Pietro! ... Indi a poco• entrò il signor Sandracca col Cappellano, invecchiati, mio Dio, che parevano ombre di quello ch'erano stati; entrò anche la signora Veneranda, la madre di Donato, sposata di fresco al Capitano. Poteva competere con Monsignore per la pinguedine, e non pareva che le settecento lire portate in dote dovessero bastare a tenerla in carne. Gli è vero che i grassi mangiano alle volte più parcamente dei magri. Ella mise sul tagliere una fetterella di lardo e sei uova, che dovevano convertirsi in frittata e comporre una cena. Ci esibl poi anche, colla bocca un po' stretta, di prepararci alla meglio due letti; ma noi eravamo già prevenuti delle commodità che si avevano allora in castello, e sapevamo che restando noi sarebbe toccato agli sposini irsene a dormire coi polli. Ebbimo perciò compassione di loro e delle sei uova, e risalimmo in calesse per andarcene a chieder ospitalità a Bruto

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Provedoni, come s'era stabilito fra noi prima di partire da Portogruaro. Non vi starò ora a dire né le festose accoglienze di Bruto e dell'Aquilina, né la mirabile cordialità colla quale quei due poveretti fecero nostra tutta la casa. Tutto era già combinato per lettera; trovammo due camerette a nostra disposizione, delle quali e del mantenimento che vollimo comune con essi, una modestissima dozzina ci sdebitava. Non era una mercede; era un mettere in comune le nostre piccole forze per difenderci contro le necessità che ci stringevano da ogni parte. L'Aquilina saltellava di piacere come una pazzerella; per quanto la Pisana volesse aiutarla ai primi giorni nelle faccenduole di casa, tutto era sempre pronto ed in assetto. Bruto, uscito il mattino per le sue lezioni, tornava sull'ora del pranzo e c'intrattenevamo insieme fino a notte lavorando, ridendo, leggendo, passeggiando, che le ore volavano via come farfalle sulle ali d'un zeffiro di primavera. M'era scordato di dirvi che a Padova durante la mia intrinsichezza con Amilcare io aveva imparato a pestare la spinetta. Il mio squisitissimo orecchio mi fece acquistare qualche abilità come accordatore, e lì a Cordovado mi risovvenni in buon punto di quest'arte imparata, come dice il proverbio, e messa provvidamente da parte. Bruto mi mise in voce nei dintorni come il corista più intonato che si potesse trovare; qualche piovano mi chiamò per l'organo; aiutato dal ferraio del paese e dalla mia sfacciataggine me la cavai con discreto onore. Allora la mia fama spiccò un volo per tutto il distretto, e non vi fu più organo né cembalo né chitarra che non dovesse esser tormentata dalle mie mani per sonar a dovere. Il mio ministero di cancelliere m'avea reso popolare un tempo, e il mio nome non era affatto dimenticato. In campagna chi è buon cancelliere non ha difetto a farsi anche credere buon accordatore, e in fin dei conti a forza di rompere stirare e torturar corde, credo che riuscii a qualche cosa. Finalmente diedi il colmo alla mia gloria esponendomi come suonator d'organo in qualche sagra in qualche funzione. Sul principio m,azzuffava sovente cogli inesorabili cantori del Kyrie o del Gloria; ma imparai in seguito la manovra, ed ebbi il contento di vederli cantare a piena gola senza volgersi ogni tanto pietosamente a interrogare e a rimproverare cogli occhi il capriccioso organista. Anche questa ve l'ho detta. Di maggiordomo mi feci orga-

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nista; e tenetevelo bene a mente, ché la genealogia de' miei mestieri non è delle più comuni. Bensì vi posso assicurare che m'ingegnava a guadagnarmi il pane, e tra Bruto maestro di calligrafia, la Pisana sarta e cucitrice, l'Aquilina cuoca, e il vostro Carlino organista, vi giuro che alla sera si rappresentavano delle brillanti commediole tutte da ridere. Ci mettevamo in canzone a vicenda: eravamo intanto felici, e la felicità e la pace mi resero a tre tanti la salute che aveva prima. Alle volte andava a Fratta e conduceva fuori a caccia il signor Capitano e il suo cane. Il Capitano non voleva uscire da quattro pertiche di palude che sembravano da lui prese in affitto e nelle quali le anitre e le gallinelle si guardavano bene di porre il piede. 11 suo cane poi aveva il vizio di fiutar troppo in aria e di guardar le piante; pareva andasse a caccia piuttosto di persici' che di selvaggina; ma a furia di gridare io gl'insegnai a guardar per terra, e se non colsi in una mattina i ventiquattro beccaccini del nonno di Leopardo, mi venne fatto sovente di metterne nella bisaccia una dozzina. Cinque ne cedeva al Capitano e a Monsignore; gli altri li teneva per noi, e lo spiedo girava, ed io era tentato molte volte di mettermi nelle veci del girarrosto; ma poi mi ricordava di essere stato intendente e mi rimetteva in atto di maestà. I nostri ospiti mi entravano nel cuore ogni giorno più. Bruto era diventato si può dire mio fratello, e l'Aquilina, non so se mia sorella o figliuola. La poverina mi voleva un bene che nulla più; mi seguiva dovunque, non faceva cosa che non bramasse prima sapere se mi riescirebbe gradita. Vedeva si può dire cogli occhi miei, udiva colle mie orecchie, pensava colla mia mente. Io per me cercava di retribuirla di tanto affetto coll'esserle utile; le veniva insegnando un poco di francese nelle ore di ozio, e a scrivere correttamente in italiano. Fra maestro e scolara succedevano alle volte le più buffe guerricciole nelle quali s'intromettevano a scaramucciare col n\iglior garbo anche la Pisana e Bruto. Avea preso tanto amore a quella ragazza che mi sentiva crescere per lei in capo il bernoccolo della paternità, e nessun pensiero aveva meglio fitto in testa che quello di accasarla bene, di 1. persici: il persico è, in veneto, sia il pesco che il suo frutto. L'edizione del 1867 ha •persici»: il Mantovani e il Palazzi inspiegabilmente mutano in • frutti».

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trovarle un buono e bravo giovine che la rendesse felice. Di ciò si discorreva a lungo tra noi quand'ella era occupata nelle cose di famiglia; ma ella non pareva molto disposta a secondare le nostre idee; bellina com'era con quelle sue fattezze un po' strane un po' riottose, eppur buona e savia come un'agnelletta, non le mancavano adoratori. Pure se ne mostrava affatto schiva; e alla fontana o sul piazzale della Madonna stava più volentieri con noi che collo sciame delle zitelle e dei vagheggini. La Pisana la incoraggiava a divertirsi a prendersi spasso; ma poi dispiacente di vedersi ingrognarè a questi suoi eccitamenti il bel visino dell'Aquilina, SC? la prendeva fra le braccia e la copriva di carezze e di baci. Erano più che due sorelle. La Pisana la amava tanto che io ne ingelosiva; se l'Aquilina la chiamava, certo ch'ella si stoglieva da me e correva da lei, capace anco di farmi il muso s'io osava trattenerla. Cosa fosse questa nuova stranezza, io non capiva allora; ma forse ci vidi entro in seguito, per quanto si può veder chiaro in un temperamento così misterioso e confuso come quello della Pisana. Dopo alcuni mesi di questa vita semplice laboriosa tranquilla, gli affari della famiglia di Fratta mi richiamarono a Venezia. Si trattava di ottenere dal conte Rinaldo la facoltà di alienare alcune valli infruttifere affatto verso Caorle e le quali erano richieste da un ricco signore di quelle parti che tentava una vasta bonificazione. Ma il Conte, tanto trascurato ed andante per solito, si mostrava molto restio a quella vendita e non voleva accondiscendere per quanto evidenti fossero i vantaggi che gliene doveano derivare. Egli era di quegli animi indolenti e fantastici che svampano in sogni in progetti ogni loro attività; e appoggiano le loro speranze ai castelli in aria per esimersi appunto di fabbricare in terra qualche cosa di sodo. Nella futura coltivazione di quelle fondure paludose egli sognava il ristoro della sua famiglia e non voleva per oro al mondo frodare la propria immaginazione di quel larghissimo campo d'esercizio. Arrivato a Venezia trovai le cose mutate d'assai. Le straordinarie giubilazioni per l'aggregazione al Regno Italico aveano dato luogo mano a mano ad un criterio più riposato del bene che ne proveniva al paese. Francia pesava addosso come qualunque altra dominazione; forse le forme erano meno assolute ma la sostanza rimaneva la stessa. Leggi volontà

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movimento, tutto veniva da Parigi come oggidì i cappellini e le mantiglie delle signore. Le coscrizioni eviravano letteralmente il popolo; le tasse le imposizioni mungevano la ricchezza; l'attività materiale non compensava il paese di quello stagnamento morale che intorpidiva le menti. Gli antichi nobili governanti, o avviliti nell'inerzia, o rincantucciati nei posti più meschini dell'amministrazione pubblica; i cittadini, ceto nuovo e ancora scomposto, inetti per mancanza d'educazione al trattamento degli affari. Il commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali riducevano Venezia una cittaduzza di provincia. La miseria l'umiliazione trapelavano dappertutto, per quanto il Viceré1 s'ingegnasse di coprir tutto collo sfarzo glorioso del manto imperiale. Gli Ormenta, i Venchieredo duravano ancora al governo; né cacciarli si poteva perché erano i soli che se ne intendessero; ponendo poi sopra loro altri dignitari francesi e forestieri, s'avea ferito l'orgoglio municipale senza raddrizzare l'andamento obbliquo ed oscuro della cosa pubblica. A Milano, dove o bene o male erano sgusciati da una repubblica, lo spirito pubblico fermentava ancora. A Venezia la conquista succedeva alla conquista, i servitori succedevano ai servitori colla venale indifferenza di chi cerca Pinteresse del padrone che paga. Io rimasi un po' sfiduciato di quei segni d'indolenza e di trascuratezza; vidi che Lucilio non avea poi tutto il torto di esser fuggito a Londra, anzi che il buonsenso pubblico stava per lui. Ma per quanto io avessi cercato di rappiccare corrispondenza con lui, egli non si degnava più di rispondere alle mie lettere. lo mi stancai di picchiare dove non mi si voleva aprire, e m'accontentai di ricevere sue novelle di rimbalzo o da qualche conoscente di Portogruaro o dalle voci che correvano in piazza. Lo si diceva medico in gran fama a Londra, e accreditatissimo presso le principali famiglie di quell'aristocrazia. Sperava molto nell'Inghilterra per la cacciata del tiranno Bonaparte dalla Francia e pel riordinamento dell'Italia: le idee giuste e moderate non gli aveano durato a lungo; la smania del fare e del disfare Io aveva tratto fuori di strada un'altra volta. Comunque la sia io non mi fermai a Venezia che circa un mese sperando sempre · di ottenere dal conte Rinaldo la sospirata procura; ma non altro mi venne fatto d'estor1.

il Viceri: Eugenio Beauharnais. 45

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cergli che il permesso di vendere alcune pezze staccate di quei paduli; il resto lo volea proprio serbare per la futura redenzione della famiglia. Così si cavarono da quelle vendite poche migliaia di lire che servirono soltanto a fornire di qualche posta più grossa il tavoliere da gioco della vecchia Contessa. È proprio vero che la morte ruba i migliori, e lascia gli altri; costei ch'era la rovina della casa non facea mostra di volersene andare; e così pure quell'incommodo marito Navagero s'ostinava a non voler lasciar vedova la moglie. Io sperava di condur meco in Friuli l' Aglaura e alcuno de' suoi ragazzini; ma la morte della suocera la trattenne in famiglia: vera disgrazia, anche perché l'aria campagnuola le avrebbe giovato per certi incommoducci che la cominciava a soffrire. Spiro, robusto come un tanghero, non voleva credere alla gracilità della moglie; ma il fatto sta che a non curarsi dapprincipio con qualche distrazione con qualche viaggio, la sua salute divenne sempre più cagionevole e Spiro se ne persuase quando non v'avea più tempo da rimediarvi. Egli le andava dicendo che, se voleva, poteva andarne in Grecia con suo padre alla prima occasione; ma la tenera madre non voleva arrischiare i ragazzini piuttosto gracili anch'essi a viaggi lunghi e pericolosi. Rispondeva sorridendo che starebbe a Venezia, e che già, se l'aria nativa non la rimetteva in salute, nessun'altra avrebbe avuto una tale virtù. lo rimproverava Spiro di farsi troppo mercante, di non badar altro che alle provvisioni delle cambiali, e ai prezzi del caffè che crescevano sempre per le crociere inglesi. Ma egli scrollava la testa, senza risponder nulla, ed io non capiva cosa volesse dirmi con questo atto misterioso. Il fatto sta che mi toccò ripartir solo pel Friuli, e i divertimenti, e le gite, e i bei giorni di pace di moto di campagna idoleggiati insieme coli' Aglaura e i suoi fanciulletti, rimasero una delle tante speranze che mi affretterò di avverare nell'altro mondo. Trovai a Cordovado cresciuta piucchemai l'amicizia l'intrinsichezza e direi più se vi fosse una parola più espressiva, fra la Pisana e l'Aquilina. O mai l'amore della prima non giungeva a me che pel canale di questa. A questa toccava dire: - Guarda i~ signor Carlo I . . . il signor Carlo ti domanda I . . . Il signor Carlo ha bisogno di questo e di quello I - Allora solamente la Pisana si prendeva cura di me; altrimenti gli era come se io non ci fossi;

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un'eclisse completa. L'Aquilina mi stava dinanzi, e l'anima della Pisana non vedeva che lei. Fino in certi momenti, nei quali per solito il pensiero non ispazia molto lontano, io sorprendeva· la mente della Pisana occupata dell'Aquilina. Se fossimo stati ai tempi di Saffo avrei creduto a qualche mostruoso stregamento. Che so io? ... Non poteva raccapezzarci nulla: l'Aquilina mi diventava alle volte perfino odiosa, e il minor male ch'io dicessi in cuor mio della Pisana si era di chiamarla pazza. Eccomi arrivato ad un punto della mia vita che mi riuscirà molto difficile dichiarare agli altri, per non averlo potuto mai chiarir bene bene nemmeno a me: voglio dire al mio matrimonio. Un giorno la Pisana mi chiamò di sopra nella nostra stanza e senza tanti preamboli mi disse: - Carlo, io m'accorgo di esserti venuta a noia; tu non mi puoi voler più l'un per cento del bene che mi volevi. Tu hai bisogno d'un affetto sicuro che ti ridoni la pace e la contentezza della famiglia. Ti rendo la tua libertà e voglio farti felice. - Che parole, che stranezze son queste? - io sciamai. - Sono parole che mi vengono dal cuore, e le medito da un pezzo. Lo dico e lo ripeto; tu non puoi volermi bene. Seguiti ad amarmi o per abitudine o per generosità; ma io non posso sacrificarti più a lungo, e devo per ricompensa metterti sulla vera strada della felicità. - La strada della felicità, Pisana? Ma noi l'abbiamo battuta lunga pezza insieme quella strada fiorita di rose senza spine! Basterà unire ancora braccio a braccio, perché le rose ci germoglino sotto i piedi, e la contentezza ci sorrida di bel nuovo in qualunque parte del mondol - Ecco che tu non mi capisci, o anzi non capisci te stesso. Questo è il mio delirio. Carlo, tu non sei più un giovinotto sventato e senza esperienza, e non puoi accontentarti d'una felicità che ti può mancare dall'oggi al dimani. Tu devi prender moglie! - Dio lo volesse, anima mia! No, il cielo mi perdoni questo sconsiderato movimento di desiderii, ma quando tuo marito avesse lasciato il mondo delle infermità per quello della salute eterna, il primo mio voto sarebbe di unire la tua sorte alla mia colla santità religiosa del giuramento. - Carlo, non perderti ora in cotali sogni. Né mio marito vuol

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morire per ora, né tu devi consumare inutilmente gli anni più belli della virilità. lo ti sarei una moglie assai manchevole; vedi che non son fatta per la fortuna di aver prole I ••• e cosi cosa rimane una moglie ? • . • No, no, Carlo, non illuderti; per esser felice devi appigliarti al matrimonio ... - Basta, Pisana! ..• Vuoi dirmi che non mi ami più? - Voglio dirti che ti amo più di me stessa; e per questo m'ascolterai e farai quello che ti consiglio ... - Non farò null'altro che quello che il cuore mi comanda. - Ebbene, il tuo cuore ha parlato. E tu la sposerai. - Io la sposerò? .•. Ma tu vaneggi I ma tu non sai quello che dicil I - S1'I t1. d"1co .•. tu sposer3.1. ... sposerai. l'Aqui"lina .... - L'Aquilina I ••• Bastai .•. Torna in te, te ne scongiuro. - Parlo del mio miglior senno. L'Aquilina è innamorata di te, ella ti piace, ti conviene per tutti i versi. La sposerai I - Pisana, Pisana! oh, non vedi il male che mi fail - Vedo il bene che ti procuro; e se avessi anche voglia di sacrificare me stessa al tuo meglio, nessuno potrebbe impedirmelo. - Te lo impedisco iol ... Ho sopra di te diritti tali che tu non devi, che tu non puoi dimenticare! - Carlo, senza di te io avrò il coraggio di vivere ... Misura la mia forza dalla sfrontatezza di questa confessione. L'Aquilina invece ne morrebbe. Ora scegli tu stesso. Per me ho bell'e scelto. - Ma no, Pisana, ravvediti I ••• Tu stravedi, tu ti immagini quello che non è. L'Aquilina nutre per me un tenero ma calmo affetto di sorella: ella gioirà sempre della nostra felicità. - Taci, Carlo: credi all'onniveggenza d'una donna. Lo spettacolo della nostra felicità avvelena la sua giovinezza . . . - Dunque fuggiamo, torniamo a Venezia. - Tu, se ne hai il cuore: io no. Io amo l'Aquilina. Io voglio farla felice: credi che tu pure sarai felice di sposarti a lei: e io unirò le vostre mani, e benedirò le vostre nozze. - Oh ma io ne morrei! ... Io dovrei odiarla: sentirei tutte le mie viscere sollevarsi contro di essa, e il mio peggior nemico non mi sarebbe tanto abbominevole a dovermelo stringer fra le braccia. - Abbominevole l'Aquilinal •.. Scusa, Carlo; ma se ripeti si-

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mili infamie, io fuggo da te, io non vorrò più vedertil ... Gli angeli comandano l'amore: tu non sei tanto perverso da abborrire quello che ci scende dal cielo, come la più bella incarnazione d,un pensiero divino. Guarda, guarda, apri gli occhi, Carlo! ... guarda l'assassinio che commetti. Fosti cieco finora e non t'accorgesti né del suo martirio né de, miei rimorsi. Fui tua complice finora ma giuro di non volerlo esser più; no, io non assassinerò colle mie mani una creatura innocente che mi ama come una figliuola, benché .•. Oh ma sai, Carlo, che il suo eroismo è di quelli che oltrepassano la stessa immaginazione! ... Mai un movimento di rabbia, mai uno sguardo d'invidia, una rassegnazione stanca, un amore invece che cava le lagrimel ... No, no ti ripeto, io non pagherò coll'assassinio l'ospitalità che ebbimo in questa casa; e tu pure mi seconderai nella mia opera di carità! ... Carlo, Carlo, eri generoso una voltai ... Una volta mi amavi, e se io t'avessi incitato ad un'impresa coraggiosa e sublime non avresti aspettato tante parole! Che volete? ... Io ammutolii dapprincipio, indi piansi, supplicai, mi strappai i capelli. Inutile! Rimase incrollabile, dovessimo morirne ambidue; mi ripeteva di guardare, di guardare, e che se non mi fossi convinto di quanto ella affermava, e se non avessi accondisceso a quanto mi proponeva sarei stato un essere spregevole, indegno al pari d'amore che incapace d'ogn'altro sentimento. D'allora in poi mi negò ogni sguardo ogni sorriso d,amore; mi proibì l'accesso alla sua sta~za; fu tutta per l'Aquilina, e nulla per me. Infatti, per quanto volessi illudermi, mi fu forza riconoscere che in quanto all,amore della giovinetta per me i suoi sospetti non andavano lontani dal vero. Per qual incantesimo non me ne fossi accorto non ve lo saprei dire: e arrabbiai della mia sciocchezza della mia ingenuità. Mi provai anche a volgere contro l'Aquilina qualche parte di questa rabbia, ma non ne fui capace. Dopoché ella indovinò quanto fra me e la Pisana era avvenuto, ella assunse verso di me un contegno cosi supplice vergognoso che mi tolse ogni coraggio. Pareva mi chiedesse perdono del male involontariamente commesso; e la vidi talvolta adoperarsi presso la Pisana per rabbonirmela. Si studiava perfino di sfuggirmi, di fare con me la stizzosa perché non si avvedessero di quanto succedeva nel suo cuore, e la concordia rinascesse in mezzo a noi.

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Bruto, che fin,allora era andato in solluchero per l'allegra vita che si menava, scoperse con rammarico quei primi segni di dissapore e di trasordine; non ne capiva gran fatto ma gliene doleva all'animo. Ne mosse anche parola a me, m~ io mi ritraeva burbanzoso, stringendomi nelle spalle; altro motivo di disgusto e di sospetto. L'Aquilina intanto ci perdeva nella salute; il fratello se ne inquietò; furono chiamati medici che fantasticarono molto, e non indovinarono nulla. La Pisana mi stringeva sempre; io mi rammolliva. Alla fine, non so come, mi lasciai sfuggire dalla bocca un sì. Bruto fu meravigliatissimo della proposta fattagli dalla Pisana, ma dietro reiterate assicurazioni di questa e che tutto fra me e lei era terminato di spontaneo accordo e che l'Aquilina moriva per me, egli se ne persuase. Se ne fece parola alla giovinetta, che non volle credere dapprincipio, e poi ne smarrì i sentimenti per la consolazione. Ma poi all'abboccarsi con me rimase senza fiato e senza parola; la poverina presentiva che io me le offeriva strascinato a forza e non aveva coraggio di chiedermi un tal sacrifizio. Lo credereste che la sua attitudine finì di commovermi affatto, e che sentii d'un subito nel cuore Pannegazione1 stessa della Pisana? ... Mi parve di salvare la vita d'una creatura angelica a prezzo della mia, e la coscienza di questa valorosa azione diede al mio aspetto la serena contentezza della virtù. All'Aquilina non parve vero: in prima stentava a credere quello che la Pisana le aveva dato ad intendere, che cioè noi due non ci eravamo amati mai altro che come buoni parenti, ma poi vedendomi presso di lei calrno3 affettuoso e alle volte perfino felice, se ne capacitò. Allora non pose più freno agli slanci di gioia dell'anima sua, e mi convenne esserlene grato se non altro per compassione. Vedere quell'ingenua creatura rifiorir allora come una rosa inaffiata dalla rugiada, e risorgere sempre più bella e ridente ad un mio sguardo ad una parola, fu lo spettacolo che mi innamorò non forse di lei, ma di quell'opera miracolosa di carità. La Pisana non capiva in sé pel contento di questi felici effetti, e la sua gioia talvolta m'incaloriva in una virtuosa emulazione, tal'altra mi cacciava nel cuore la fitta della gelosia. Oh qual tumultuoso vortice d'affetti s'ingroppa e si sprofonda fra le piccole pareti d'un cuore! 1. annega:iione: abnegazione. 2. calmo: la parola nel manoscritto (111, pag. 38 verso) è cancellata e sostituita da un u tranquillo» che non è di mano del Nievo.

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Anche allora io diedi prova di quell'estrema pieghevolezza che impresse molte azioni della mia vita d'un colore strano e bizzarro, per quanto la mia indole tranquilla e riflessiva mi allontanasse dalla stranezza e dalla bizzarria. Ma la stravaganza era di chi mi conduceva pel naso; benché poi non possa dire se in quell'occasione adoperai male lasciandomi condurre, o se meglio avrei fatto di inspirarmi da me e di prendere qualche deliberazione contraria. Certo i miei sentimenti, lo dico senza adulazione, toccarono allora l'ultimo segno della generosità; e me ne maraviglio senza pentirmene. Pentirsi d'una azione buona e sublime, per quanto danno ce ne incolga poi, è sempre atto di gran codardia. Meglio è contarvela in poche parole. Per la Pasqua del milleottocentosette si stabilirono le nozze. La Pisana fu tanto accorta da farsi invitare dallo zio monsignore a starne presso di lui come governante. Io rimasi con Bruto e l'Aquilina e lo sposalizio fu celebrato mio malgrado e a richiesta della Pisana con grande solennità. L'Aquilina, poveretta, gongolava tutta e non toccava terra pel gran piacere, io mi sforzava di godere della sua gioia, e posso credere di non averla almeno guastata. Alle volte mi guardava indietro sorprendendomi di esser arrivato fin là, e non comprendendo né il perché né il come; ma la corrente mi trascinava; se fu tempo in cui credessi alla fatalità fu certamente allora. Io sposai l'Aquilina. Monsignore di Fratta benedisse il matrimonio; la Pisana fu matrina della sposa. lo mi sentiva entro una gran voglia di piangere, ma non era senza qualche dolcezza quella melanconia. Al pranzo di nozze non ci fu grande allegria; ma anco non rimasero sui piatti molti avanzi. Monsignore mangiava come avesse vent'anni; io, vicino a lui e un po' sbalordito dagli inopinati accidenti che m'intervenivano, lo domandai non so quante volte della sua salute durante il pranzo. Mi rispondeva fra un boccone e l'altro: - La salute andrebbe a meraviglia se non ci fosse questo benedetto scirocco! Una volta non era così. Te ne ricordi, Carlino? ... Peraltro non pioveva da un mese; e fra tutti i popoli d'Italia Monsignore era il solo che sentisse lo scirocco. Alle mie nozze intervennero, ci s'intende, Donato colla moglie e i figliuoli, il Capitano colla signora Veneranda, e il cappellano di Fratta. Un altro commensale di cui forse vi sarete dimenticati fu lo Spac-

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cafumo; il quale in tanta confusione di governi e di avvenimenti che s'era succeduta, avea sempre continuato ad amministrare la giustizia a suo modo; ma ad ogni anno passava qualche mesetto in prigione e allora s'era fatto vecchio e ubbriacone. Le sue prodezze erano ornai più di parole che di opere; e i mo·nelli si trastullavano di stuzzicarlo e di fargli dire sui mercati le più strambe corbellerie. Egli viveva si pub dire di elemosina, e per quanto Bruto lo invitasse a sedere alla mensa comune non ci fu verso di poterlo stanare dalla cucina, ove godette delle nozze coi gatti coi cani e colle guattere. La sera gran festa da ballo: allora si pensò più che agli sposi a darsi bel tempo, e la giocondità fu piena e spontanea. Marchetto, sagrestano che pareva il diavolo vestito da prete, grattava il contrabbasso, e in onta all'età con una tal furia da cavallante che le gambe duravano fatica a tenergli dietro. La Pisana cercò di scomparir quella sera alla muta; ma io m'accorsi del momento di sua partenza: i nostri occhi s'incontrarono, e si scambiarono, credo, un ultimo bacio. L'Aquilina parlava allora colla Bradamante ma rimase un momento svagata. - Cos'hai? - le chiese la sorella. - Nulla, nulla- rispose tramortita la novella sposa.- Non ti pare che qua dentro si affoghi dal caldo? ... Io udii quelle parole benché pronunciate a bassissima voce; e non pensai più che a compiere i nuovi doveri che mi era imposto. Fui gentile, amoroso coli' Aquilina fino al finir della festa. E poi? ... E poi m'accorsi che in certi sacrifizi la Provvidenza, forse per retribuirne il merito, sa mettere qualche discreta dose di piacere. L'innocenza, la leggiadria di mia moglie vinsero affatto la causa; e feci assoluto proponimento di mostrarmele sempre buon marito. « Quello che è fatto è fatto, » pensai « il da farsi facciamolo bene ... » Non credo che l'Aquilina s'accorgesse nemmeno durante i primi giorni dello sforzo durato1 per dimostrarle quell'ardenza d'amore che infatti io non sentiva. Ma a poco a poco m'abituai a volerle bene in quel nuovo modo che doveva; non durai più tanti sforzi; e se sospirava ripensando al passato, trovava che anche senza molta filosofia• si poteva accontentarsi del presente. Le opere buone sono una gran distrazione. Quella di far felice mia moglie mi occupò 1.

durato: nel manoscritto

(111,

pag. 39 verso): •indurato•.

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tutto, e mi vidi dopc;, un solo mese più buon marito di quanto non avrei mai osato sperare. La Pisana fu testimone di questo mio interno mutamento. Persuaso che quel suo grande ma troppo facile sacrifizio a favore della Aquilina non potesse spiegarsi che con un sensibile raffreddamento del suo amore per me, non mi diedi briga per nasconderle l'agevolezza ch'io trovava maggiore d'ogni speranza nel rassegnarmi a portare la mia parte di sacrifizio. Sperava che vedendomi meno malcontento avrebbe avuto minor rimorso della tirannia con cui. aveva fatto violenza alla mia volontà. Sulle prime ella la capì per questo verso; ma i giorni passavano e nelle frequenti visite che ne faceva andava sempre più oscurandosi in viso; e quelle congratulazioni che recava negli occhi della mia bravura si cambiarono a poco a poco in sospetti ed in stizza. lo credeva non mi trovasse abbastanza premuroso presso l' Aquilina e raddoppiava di zelo e di buona volontà; ella invece s'ostinava nel suo broncio, ed anche con mia moglie non si mostrava più tanto affettuosa come dapprincipio. Un mattino capitò ~a casa nostra tutta scalmanata che Bruto e l'Aquilina erano fuori per non so qual motivo. Senza aspettare neppure ch'io la salutassi mi chiuse la bocca con un gesto. - Tacete, - mi disse - ho fretta di sbrigarmi. Voi adesso vi amate: non avete più bisogno di me. Torno a Venezia! Io voleva rispondere, ma ella non me ne lasciò il tempo. Mi gridò nell'uscire che salutassi mia moglie e il cognato: indi rimontò nel calessino col quale era venuta accompagnata dal cappellano di Fratta, e per correre che facessi non mi venne fatto di raggiungerla. Un'ora dopo, quand'io capitai al castello era già partita né si sapeva se per la strada di Portogruaro o di Pordenone colla carrettella dell'ortolano. Fui imbrogliatissimo di dar ragione ali' Aquilina e a Bruto d'una si precipitosa partenza, ma ebbi la felice idea d'inventar la favola d'una malattia improvvisa della signora Contessa; e fui creduto senza fatica. Allora non felice né immemore ma tranquillo e rassegnato mi rimisi alla mia vita di organista e di marito. L' Aglaura e Spiro scrivevano sempre più maravigliati di quella mia Jmprovvisa conversione; io rispondeva celiando che Dio m'avea toccato il cuore: ma sovente si scrive quello che non si sente. I mesi correvano via semplici, laboriosi; sereni come quei cieli

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d'autunno nei quali il sole abbellisce la natura senza scaldarla. L'Aquilina, tutta mia, si rivestiva ogni giorno di nuove grazie di nuovi pregi per piacermi; la riconoscenza per un amore cosi nobilmente dimostrato m'inchinava sempre più verso di lei, e rendeva sempre più rari i rimpianti del passato. Il cuore volava ancora talvolta; ma quando la mente instituiva confronti le conveniva confessare che l'Aquilina era la più amabile la più perfetta fra quante donne io m'avessi mai conosciuto. A lungo andare i giudizi della mente hanno qualche influenza sugli affetti d'un uomo di trentaquattr'anni. Quando poi m'avvidi ch'ella era incinta, quando mi strinsi fra le braccia il fantolino più robusto e più roseo che m,avessi mai veduto e sentii commoversi le mie viscere di padre, e di questa consolazione dovetti confessarmi debitore a lei, allora non seppi più chi mi fossi; ringraziai quasi la Pisana di avermi sforzato a quello strambo spropositato matrimonio. Peraltro la mia memoria non era né morta né ingrata. Io voleva avere sovente notizie da Venezia, e sapendo che la Pisana accasata colla Clara presso suo marito non d'altro si occupava che di curare le infermità di questo, mi uscirono da capo certi giudizi temerari che aveva fatto sulla sua fuga dal Friuli. S'ella fosse stata arrabbiata contro di me, non ne avrebbe dato segno a quel modo. Io conosceva per pratica le vendette della Pisana. Intanto anche lontano non cessava di esserle utile. Avea rimesso in buon sesto r amministrazione di quei pochi coloni che dipendevano ancora dal castello di Fratta, e regolato l'esazione di molti livelli. Le entrate crebbero del trenta per cento. Monsignore poté mangiare qualche cappone che non era gallo, e il conte Rinaldo, malgrado la sua salvatichezza, m'ebbe a ringraziare dell'essermi adoperato a loro pro' senz'essere richiesto, e con tanta efficacia. Vi prenderà stupore e noia che la mia vita per qualche tempo cosi capricciosa e disordinata riprendesse allora un tenore sl quieto e monotono. Ma io racconto e non invento: d'altra parte è questo un fenomeno comunissimo e naturale nella vita degli Italiani, che somiglia spesso al corso d'un gran fiume calmo lento paludoso interrotto a tratti da sonanti e precipitose cascate. Dove il popolo non ha parte del governo continuamente, ma se la prende a forza di tanto in tanto, questi sbalzi queste metamorfosi devono succedere di necessità, perché altro non è la vita del popolo se non la somma delle vite individuali. Per questo io girai alcuni anni lo

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spiedo, fui studente e un po' anche cospiratore; indi tranquillo cancelliere, poi patrizio veneto nel Maggior Consiglio e segretario della Municipalità: da amante spensierato di tutto mi mutai di colpo in soldato: di soldato in ozioso un'altra volta, poi in intendente e in maggiordomo: finii a maritarmi e a sonar l'organo. In questo perpetuo su e giù, se salii o scesi lo direte voi: io per me so che ci consumai trentaquattr'anni, quegli anni nei quali vissi tutto per me. Dopo, la famiglia i legami i doveri precisi e materiali s'impadronirono de' miei sentimenti. Non fui più il puledro che scorazza pei paludi saltando fossati e sforacchiando fratte, ma il cavallo bardato che tira gravemente o la carrozza d'un cardinale o il carretto della ghiaia. Ma non vi spaventate; non mancheranno terremoti e rovesciate per tornare in libertà il cavallo e fargli riprendere una matta corsa attraverso il mondo. Solamente ora sono sicuro di non correr più; ma ho, vi ripeto, come Monsignore, lo scirocco degli ottant'anni nelle gambe. Mentre io mi faceva dì per di sempre più casalingo e campagnuolo, e al mio piccolo Luciano che già trottolava nel cortile aggiungeva un secondo fanciulletto cui misimo nome Donato in onore dello zio che gli fu padrino, nel mondo strepitavano le glorie guerresche di Napoleone. Vinceva la Prussia a Jena,1 l'Austria a Wagram; 2 s'imparentava colle vecchie dinastie,3 e signore dell'Europa chiudeva il continente all'Inghilterra4 e minacciava il mezzo asiatico impero degli Czar.5 L'Italia, tutta in suo pugno sbocconcellata a capriccio, aveva tuttavia ritto a Milano lo stendardo dell'unità. Si avvezzavano a guardar quello, e Napoleone piuttosto nemico che protettore, per la sua ambizione smisurata e noncurante di storia o di popoli. Ma quando 1.Jena: durante la quarta coalizione, il 14 ottobre 1806. 2. Wagram: durante la quinta coalizione, il s luglio 1809. La vittoria di Wagram preluse alla pace di Schonbrunn, del 14 ottobre 1809. Con questa pace il Regno Italico acquistava il Trentino. 3. s'imparentava ••• dinastie: il primo aprile 1810 Napoleone sposava Maria Luisa d'Austria. 4.Jnghilterra: un accenno al blocco continentale, proclamato a Berlino il 21 novembre 1806 e rafforzato dal Decreto di Milano del 17 dicembre 1807. 5. impero degli Czar: Alessandro I di Russia negli anni successivi alla pace di Tilsit (7 luglio 1807) ritornò ad una politica antifrancese, anche per effetto del blocco continentale, dannoso all'Impero russo. Qui il Nievo accenna ai progetti napoleonici d'invasione della Russia, che ebbero la loro disastrosa attuazione nel 1812.

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la spada dataci da lui fosse caduta a terra chi avrebbe osato impugnarla? A questo non pensavano. Si credevano forti, non sapendo che la forza riposava sopra il colosso e con lui si sarebbe fiaccata. Di cento che armeggiavano uno solo pensava, e agli altri novantanove sarebber cadute le armi e le braccia nel maggior cimento. Io non era spettatore, ma indovinava. Spiro frattanto scriveva lettere sempre più animate e misteriose; e ben m'accorgeva che qualche sublime idea fermentava nell'anima del greco mercante. Rigas1 il poeta avea fondato la prima Eteria; e ottenutone per ricompensa il tradimento dai cristiani naturali alleati e il palo dai Turchi. Una seconda congiura si ordiva in Italia a profitto dei Greci, protetta da Napoleone. Sognavano di contrapporre al nuovo Carlomagno un nuovo impero di Bisanzio. Ed erano sogni, ma raccendevano le ceneri non mai spente dei greci vulcani e si cantava fra le montagne dei Mainotti: « Un fucile una sciabola e s'altro manca una fionda, ecco l'armi nostre. « Io vidi gli agà2 prosternati a' miei piedi; mi chiamavano loro signore e padrone. « Io avea rapito loro il fucile, la sciabola, le pistole. « O Greci, alto le fronti umiliate( prendete il fucile la sciabola la fionda. E i nostri oppressori ci nomeranno ben presto loro signori e padroni. » Fra le orde selvagge degli Albanesi e le tribù pastorecce del Montenegro, ove è un insulto dire: - I tuoi son morti a lor lettol-, serpeggiava il fuoco dell'entusiasmo. Alì Tebelen3 trioni. Rigas: Costantino, poeta e patriota greco, nato in Tessaglia nel 1760. Nel 1793 a Vienna, dove esisteva una fone colonia greca, fondò un'associazione chiamata Hetaireia, la quale riscosse ben presto numerose adesioni soprattutto fra i Greci lontani dalla patria. Verso la fine del 1797 venne in Italia, dopo uno scambio di lettere, per abboccarsi con il Bonaparte dal quale sperava la liberazione della Grecia. Ma l'Austria vigilava e lo fece arrestare a Trieste. Consegnato poi nel maggio 1798 alla polizia turca, fu giustiziato a Belgrado. Fu chiamato il a. Tirteo della nuova Grecia•· 2. agà: parola turca che significa signore, padrone, comandante militare. Il Nievo la scrive con l'accento, ma di solito non la si accenta. 3. Ali Teb~lm: ~ Alì pascià di Gianina, nato a Tepedelen, villaggio del1'Albania, nel 1742. Fu dapprima capo di briganti e poi, radunate forti bande albanesi, le ponò in aiuto dei Turchi nelle guerre contro l'Austria e la Russia, ottenendo come ricompensa la nomina a pascià di Gianina. In seguito estese il suo dominio su gran parte delPEpiro e radunb immense ricchezze. Tra il 1792 e il 1800 costitul un regno greco-albanese semi-autonomo dell'Epiro, della Grecia e della Tessaglia. Per molti anni

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fava colla crudeltà e colla perfidia ma gli esuli dell'Ellade inspiravano a tutta Grecia il disegno di terribili rappresaglie. Quella non si manifestava ancora ma era forza verace; forza invincibile d'una nazione che ha meditato da lungo la propria sventura, ha accumulato gli insulti e aspetta paziente il momento della vendetta. Il vecchio Apostulos partì un'ultima volta per la Morea; la speranza di rigenerare la Grecia colla politica dei Fanarioti era svanita; egli si volgeva a speranze di guerra e di sangue coll'avidità del leone che si vede strappata la preda quando appunto credeva di addentarla. La morte lo colse a Scio, e Spiro me ne diede il tristo annunzio colle forti parole che gli ultimi desiderii di suo padre sarebbero stati lo spirito d'ogni sua impresa. Egli m'invitava sempre a trasferirmi colla famiglia a Venezia, ove diceva non mi sarebbe mancato né decoroso sostentamento né occasione di esser utile a me ed agli altri. Ma contento di quello che aveva, non arrischiava d'avventurar me e sopratutto i miei in malcerti tentennamenti. Bruto leggendo qualche brano delle lettere di mio cognato si mordeva le labbra, e pestava rabbiosamente la sua gamba di legno. Io guardava l' Aquilina e il piccolo Donato che le pendeva alla mammella: non poteva distogliermi da quella pace. Successe la gran guerra dei moderni giganti. Napoleone entrò in Germania con cinquecentomila uomini, diede la posta a Dresda a imperatori e re più vassalli che alleati ;1 e quando alcuni fra essi gli erano annunciati, diceva: - Aspettino. - Voleva chieder conto allo Czar della tiepida amicizia. Il mistico Alessandro chiamò all'armi la santa Russia, oppose alla guerra dell'ambizione la guerra del popolo; e quella miserabile cavalleria dei Cosacchi, come la chiamava Napoleone, fu il flagello e lo sgomento dell'invincibile esercito. Giunse a Mosca,2 vincitore sempre: ne fuggì vinto dal fuoco, dal gelo, dagli elementi i~somma, ma non dagli sopportato dai Turchi perché giovava a mantener l'ordine in quelle regioni miranti alla indipendenza, fu attaccato dal sultano Mahmud II salito al trono con il proposito di ristabilire l'autorità dell'Impero. Assalito in Gianina, si arrese dopo due anni di strenua lotta durante i quali tentò di raccogliere intorno a sé i Greci con l'eccitare il loro patriottismo e il loro odio per i Turchi. Morì nel 1822 alla fine dell'assedio. Il Nievo ne parlerà anche più avanti a proposito del suo appello ai Greci. x. Dresda ... alleati: il 9 maggio del 1812 Napoleone lasciò Parigi diretto a Dresda. Là sostò sino al 29, giorno in cui iniziò la marcia veno i confini russi. A Dresda egli ricevette i sovrani tedeschi. 2. Giunse a Mosca: il 15 settembre 1812.

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uomini. Quarantamila Italiani 1 insanguinarono delle proprie vene le nevi della Russia per assicurare la ritirata agli avanzi dispersi della grande armata. Ma il bollettino che annunziava l'immenso disastro conchiudeva: « La salute di Sua Maestà non fu mai migliore». Conforto bastevole alle vedove, agli orfani, alle madri orbate della prole! Egli è a Parigi a levar nuovi eserciti, a rincalorire la devozione colla presenza, e il coraggio con nuove bugie. Ma la Francia non gli crede, la Germania insorge, gli alleati tradiscono. Egli ricade a Lipsia; 2 abdica all'Impero di Francia al Regno d'Italia e si ritira all'isola d'Elba. 3 Allora si vide cosa fosse il Regno d'Italia senza Napoleone, e a che i popoli sieno menati da istituzioni anche maschie senza libertà. Fu uno sgomento una confusione universale: un risollevarsi un combattersi di speranze diverse mostruose, tutte vane. A Milano si trucida un ministro,4 si abbattono le insegne dell'antico potere, si gavazza nella presente licenza non pensando al futuro. E il futuro fu come lo volevano gli altri; in onta alle rispettose e sensate domande della Reggenza provvisoria, 5 in onta alle belle parole degli ambasciatori esteri. Il popolo non aveva vissuto; non . viveva. Se io fossi costernato di questi avvenimenti che mi scotevano dal mio torpore di padre di famiglia, e avveravano quelle paure 1. Quarantamila Italiani: ottomila soldati napoletani partirono agli ordini del Murat, trentamila ne partirono da Milano, dopo la grande rivista del 17 febbraio 1812, agli ordini del viceré Eugenio e guidati dai generali Pino, Lechi, Varese, Gifflenga, Del Fante, Villata e da molti altri già famosi. Il 23 dicembre del 1812 il 29° bollettino della campagna annunciava le enormi perdite delle divisioni italiane. Altri italiani furono incorporati in reparti non autonomi. Quando il 27 dicembre si poté cominciare a raccogliere i resti dell,armata, risultò che i superstiti italiani non raggiungevano i tremila uomini. Circa cinquantamila italiani su settanta o settantacinque lasciarono la vita durante la campagna di Russia, e a questi bisogna aggiungere i caduti della successiva campagna di Germania; nel 181 J furono infatti ordinate nuove leve, ma soltanto tremila circa dei ventinovemila soldati mandati in Germania, poterono far ritorno. -2. Lipsia: 16-18 ottobre 1813. 3. abdica •.• Elba: pochi giorni dopo l'abdicazione, del 6 aprile 1814, Napoleone partiva per l'Elba. 4. un ministro: il già ricordato Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d'Italia, ucciso a furore di popolo il 20 aprile 1814 a Milano dopo l'abdicazione di Napoleone, per incitamento del partito contrario al ritorno di Eugenio Beauharnais. 5. Reggenza provvisoria: il 20 aprile 1814 il Senato milanese nominò una Reggenza provvisoria, formata da Carlo Verri, Alberto Litta, Giberto Borromeo, Giacomo Mellerio, Giorgio Giulini, Giovanni Bazzetta, Giuseppe Pallavicini. Erano tutti patrizi austriacanti.

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che da lunga pezza aveva concepito, non è d'uopo il dirlo. Dal racconto di questa vita dovete già avermi conosciuto abbastanza. Sospirai per me, piansi di disperazione per la patria, indi guardando alle sembianze tenerelle dei figliuoli mi consolai e rividi un barlume di speranza. Eravamo nati, si può dire, diciott'anni prima; ci voleva la scuola delle sventure per educarci, e la vita dei popoli non si misura da quella degli individui; se noi figliuoli s'aveva scontato la viltà dei padri, i figliuoli nostri forse avrebbero raccolto la messe fecondata dal nostro sangue e dalle lagrime. Padri e figliuoli sono un'anima sola, sono la nazione che non perisce mai. Così mi affidava alla rigenerazione morale, non al viceré Beauharnais, né allo czar Alessandro, né a lord Bentink, né al generai Bellegarde. 1 A questo modo passano rapidi gli anni come i mesi della giovinezza; ma non crediate che in effetto fossero tanto veloci come sembra a raccontarli. Più il tempo è lungo a narrarlo e più forse fugge rapidamente in realtà. A Cordovado i giorni erano tranquilli, ser~ni, dolci anche se volete, ma la soverchia brevità non era il loro difetto. Le lettere della Pisana assai rare dapprincipio diventarono mano a mano più frequenti all9infuriare delle tempeste politiche; pareva che, immaginandosi quanto ne doveva soffrire, ella s'affrettasse a porgermi il conforto della sua parola. Mi diceva dei grandi schiamazzi che aveano fatto i Venchieredo l'Ormenta e il padre Pendola coi suoi proseliti; delle belle cariche date ai suoi cugini Cisterna, massime ad Augusto ch'era diventato di botto, credo, segretario di governo; e d'Agostino Frumier che volendo ritirarsi dagli affari ed essendo ricchissimo 1. Questo scetticismo di Carlino circa una liberazione della patria che non fosse opera dei suoi stessi figli, trova ragione nelle espressioni più o meno insincere degli uomini che decisero delle sorti d'Italia dopo il 1814: da Verona, nel novembre 1814, Eugenio Beauharnais, mentre tentava d'arginare l'avanzata austriaca, lanciò un decreto a cui era premesso un lirico squarcio esortante gli Italiani a combattere per la loro libertà: Alessandro I di Russia, mistico sognatore di un'alleanza cristiana, aveva promesso ai popoli una nuova era di pace e di giustizia: Lord Guglielmo Bentinck, generale inglese, comandante delle truppe inglesi in Italia, sbarcato a Livorno, emise il 14 marzo 1814 un proclama agli Italiani, incitandoli a sottrarsi al giogo napoleonico e promettendo l'indipendenza: ed infine il maresciallo Bellegarde, comandante delle truppe austriache che rioccuparono Milano, nell'aprile dello stesso anno emise anch'egli un proclama in· cui si chiamava liberatore e prometteva felicità agli Italiani sotto la guida e la protezione di casa d'Austria.

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non avea sdegnato di domandare il quarto o il quinto di pensione che gli competeva. Molte, come vedete, furono le porcherie; e non poteva essere altrimenti perché l'astinenza era la virtù dei migliori, né si giungeva a fare di meglio. Peraltro il vecchio Venchieredo osteggiato pel soverchio zelo avea perduto assai della sua influenza ed era scaduto dai primissimi gradi fino a quello di direttore della Pulizia. 1 Egli ne sbuffava; ma non c'era rimedio. Servir troppo è servir male. Non era stato furbo abbastanza. - Il Partistagno invece rimise il piede in Venezia colonnello degli ulani; aveva sposato una baronessa morava, diceva, perché somigliantissima ad una sua cavalla prediletta. Egli serbava ancora il suo astio contro la famiglia di Fratta; e saputo che la Clara uscita di convento abitava il Palazzo Navagero, si pavoneggiava sovente in grande assisa sotto le finestre di quello sperando darle nell'occhio e persuaderla a dire: « Gran peccato quello di non averlo voluto ad ogni costo!,, - Ma la Clara, diventata miope a forza di aguzzar gli occhi nell'Uffizio della Madonna, non ci vedeva più fin nella calle e non distingueva uno di que' pezzenti che fermano le gondole, dal magnifico e spettacoloso colonne} Partistagno. Fuvvi chi disse che anche Alessandro Giorgi fosse passato dall'esercito italiano all'austriaco serbandosi il grado di generale guadagnato alla Moskova,2 ma io non ci credeva. Infatti alcuni mesi dopo mi giunsero notizie dal Brasile dove si era rifugiato e aveva trovato un buon posto. Non si dimenticava di offrirmi la sua protezione presso l'imperatore don Pedro ;3 e mi diceva di aver trovato a Rio Janeiro parecchie contesse Migliane che mi potrebbero fare ben altro che maggiordomo. Probabilmente egli si dimenticava che ero4 organista ammogliato e con figli; pure mi aveva veduto me e la mia famigliuola nel passare col principe Eugenio quando marciavano nel milleottocentonove verso l'Ungheria. Ma in onta ai suoi quarant>anni il bel generale si conservava alquanto libertino e smemorato. Gli smorti anni seguenti non furono che un melanconico cimitero. Il primo a traboccare fu il cappellano di Fratta, indi toccb 1. Pulizia: Polizia. 2. Moskova: del 7 settembre 1812. 3. l'imperator, don Pedro: veramente don Pedro, figlio di re Giovanni VI di Portogallo, diverrà imperatore del Brasile nel 1821. 4. ero: cosi nel manoscritto (111, pag. 42 verso): probabilmente, anche qui, per ragioni contestuali.

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allo Spaccafumo; poi a Marchetto il cavallante, sagrestano e sonatore di contrabbasso che mori colpito dal fulmine mentre scampanava durante un temporale. Gli abitanti della parrocchia lo venerano anche adesso come un martire. Durante l'anno della carestia e nel susseguente la morte fece man bassa sulla povera gente; fu un sonare a morto continuo, e così se n'andb ma non per colpa della carestia anche la signora Veneranda, lasciando il Capitano vedovo per la seconda volta ma con settecento lire di usufrutto, il che lo liberb dal pensiero di torsi una terza moglie. Ed anche noi in quell'anno ebbimo a stringerci non poco; perché non si trovavano più né famiglie che pagassero il ripetitore ai loro ragazzi né pievani che racconciassero organi. Anzi le spese fatte in quell'anno furono il principio del nostro sbilancio che poi s'aggravb sempre e mi condusse ai nuovi rivolgimenti che udrete in appresso. Non mi ricordo precisamente quando, ma certo in quel torno il conte Rinaldo fece una gita nel Friuli: veniva per denari e siccome non ne trovò, vendette ad un imprenditore i materiali della parte più diroccata del castello. Io assistetti alla demolizione e mi parve al funerale d'un amico; così pure il Conte non poté reggere allo spettacolo di quella rovina, e toccati quei pochi quattrini se ne tornò a Venezia. Ve lo richiamava anche la malattia di sua madre che cominciava a dar gravi timori. Appena sgomberi i cortili delle pietre spaccate a forza di piccone e delle macerie ragunatevi a montagne durante la demolizione, comincib Monsignore a sentir più molesto che mai lo scilocco. Una mattina ebbe uno svenimento durante la messa, e dopo d'allora non uscì più della sua camera. lo fui a trovarlo il penultimo giorno di sua vita, gli domandai del suo stato e mi rispose colla solita solfa. Sempre quello scirocco ostinatoli ... Tuttavia mangiava anche a letto a doppie ganasce, e all'ultima ora aveva il breviario da un lato e dall'altro mezzo pollastrello arrostito. La Giustina gli veniva domandando: - Non mangia, Monsignore? ... - Non ho più famel- rispose egli con voce più fioca del solito. Così morì monsignor Orlando di Fratta, sorridendo e mangiando com'era vissuto; ma almeno si avea cavata la fame. Invece sua cognata, che gli andb dietro qualche mese dopo, farneticb fino agli estremi di carte e di trionfi ;1 morì sognando vin1.

trionfi: trionfo, termine usato nel gioco dell'Ombre. 46

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cite favolose, collo scrigno asciutto e con ogni sua roba al Monte di Pietà. I Cisterna dovettero prestare qualche ducato al conte Rinaldo per farla seppellire, giacché né la Clara né la Pisana avevano un ducato in tasca, e Sua Eccellenza Navagero si commiserava sempre della propria povertà. Tutti se n'andavano, ma costui batteva duro; segno che i miei ardentissimi voti di qualche anno addietro non avevano ottenuto grazia presso Domeneddio. La Pisana mi partecipò con assai dolenti parole la morte della madre; e in segreto mi raccontò anche una visita assai impreveduta che avevano ricevuto. Una sera mentr' essa e la Clara recitavano il rosario nella cappella di casa (questa poi dalla Pisana non me la sarei mai aspettata), s'era annunziato un forestiero che chiedeva premurosamente di loro. Un signore piccolo, magro, dicevano, folto di barba, cogli occhi lucentissimi ad onta dell'età che sembrava di cinquant'anni e più, colla fronte molto alta e nuda affatto di capelli. Chi può essere? chi non può essere? ... Vanno in sala e la Pisana riconosce più alla voce che alla figura il dottor Lucilio Vianello. Era giunto sopra una nave inglese, sapeva della Clara tornata al secolo, e veniva a chiederle per l'ultima volta l'adempimento delle sue promesse. La Pisana diceva di aver avuto paura del dottore tanto era cupo e minaccioso; ma la Clara gli rispose netto netto che non lo conosceva più, che si era sposata a Dio e che avrebbe continuato a pregarlo per l'anima sua. aspetto che solo la occupava in tutto quello spettacolo di vaga confusione. Il Formiani volse ei pure cautamente il capo, e vide la gondola di Celio, che molto a rilento pur seguitava la sua. - Oh, il cavalier Ternil- sciamò egli. - Bastianello, voga un po' dolce, ché gli domandiamo sue nuove. La Morosina non sapea più cosa fare degli occhi ~uoi; se lasciarli volare a Celio, dietro il loro desiderio, o trattenerli nel santolo 1 per ringraziarlo di quelle soavi parole. - Buon dì, cavaliere! - disse il Formiani, quando la gondola fu a portata di voce - come te la sei passata da ieri a sera? - Molto discretamente di salute e male nel resto, Eccellenza rispose Celio, arrivato già gomito a gomito colla Morosina. - E 1.

santo/o: il padrino di battesimo.

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lei anche m'immagino, al vederla qui al fresco! ..• e lei pure, si• gnorina, - aggiunse rivoltosi alla giovinetta - giacché la prima volata all'usignuolo che è stato in gabbia da sei anni deve riescire pur deliziosa. - Fui tanto sospesa fin ora da non poter distinguere il piacere dagli altri miei sentimenti - rispose tutta tremante la fanciulla. - E adesso? - chiese Celio con una mezza vocina. - Adesso mi ci avvezzo e ne prendo del diletto assai - rispose quella candida bocca della Morosina. • La sa fare, la sa farei» pensò il Formiani scambiando per lusingheria quella virginale sincerità « e le Serafine non ci hanno gettato il loro tempo!»- Via, cavaliere!- continuò a voce altapassate da noi, giacché ci siamo soli; ciò ne darà un qualche svagamento, ché, come potete credere, tra un vecchio ed una giovinetta, poca allegria ci vuol essere. - Grazie, - rispose il cavaliere, scavalcando lestamente le due sponde - e voi altri andatevene pure a casa- soggiunse ai proprii gondolieri. - Ve' l ve' I - mormoravasi frattanto ll intorno. - Il cavalier Temi che è montato dal Fonnianil cospetto! grandi amicizie in poco più cli tre settimane I - Oh non sapete I - seguitavano altri - ci ha la sua ganza in casa Formiani il cavalierino I ••• La figlia di un cliente cli Sua Eccellenza .•. che dev'essere podestà non so se in Dalmazia o dove ... quello che ha sposato la Cecilia dei brogli . . . - Ahi sl, sll ahi ahi ... ora mi ricordo! un babbionacciol ... graziosa la burletta! ..• E che sia una società a metà danno fra il vecchio ed il giovine? - Ahi ahi ••. parliamo d'altro, vi prego. La Morosina, come si vede, era stata conosciuta da qualcheduno dei vagheggini che frequentavano alle Serafi.ne, e le forbici della mormorazione non rimanevano chiuse fra le dita di quei scioccherelli. - Ella intanto figgeva i suoi occhi rassicurati in quelli di Celio, e si beava d'innocentissimo amore sotto le occhiate maligne e licenziose della folla. - Se non vi spiace, - disse l'Inquisitore come furono alla Salute1 - io avrei a smontare a Palazzo. Voi altri, figliuoli miei, potete intanto Salute: la chiesa di S. Maria della Salute, sulla riva destra del Canal grande, quasi al suo sbocco nel bacino di San Marco. 1.

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far una giratina in laguna e riprendermi al ritorno, ché in quaranta minuti mi sbrigo. Già voi, cavaliere, siete dei nostri stasera ?l ••• - Grazie, a Vostra Eccellenza - rispose Celio inchinandosi. - Or bené, vi raccomando questa mia figliuola d'adozione, soggiunse il Formiani- e tenetele buona compagnia, finch'io mi romperò il capo in quelle maledette faccende d'uffizio. - Gran salto eh, - rispose Celio - passare cosi in un attimo da un fresco sul canale, a un consiglio dove si deciderà forse della salute dello Stato! - Oh non siamo più a que' tempi, - soggiunse tristamente il Formiani - né la salute dello Stato, credetelo a me, dipende più da un decreto del Consiglio dei Dieci! Si tira avanti colla macchina finché la ruggine non corroda affatto i denti della ruota. E ornai siamo ridotti per unico consiglio a quella sentenza proverbiale de' contadini: « Faccio così, perché cosi faceva mio nonno!• La gondola passava in quella davanti alla Riva di Piazzetta, onde comandato che si fermasse, l'Inquisitore sorretto da Celio guadagnò il lastrico. Se la laguna lì innanzi era deserta per essere allora tutte le barche a folleggiar nel Canale, non era così della Riva e della Piazza, dove la moltitudine dei passeggianti era foltissima, e vario il ciarlio delle brigate e il frusciare dei piedi e degli abiti, e altissimo il vociare de' fruttivendoli, degli acquaiuoli, de' sorbettieri, e degli arlecchini che tenevano circolo dai banchi de' burattinai. - Zuanne, tu verrai con mel- disse il Formiani al giovinetto rematore di prua. - E voi altri non pigliate troppo fresco, ragazzi, e copritevi lì col mio martoro, e a rivederci fra tre quarti d'ora al più. - lddio illumini Vostra Eccellenzal - soggiunse Celio, togliendosi da una panchetta di fianco per sedere vicino alla Morosina. - Non è il lume che manca, è l'olio: - rispose il Fonnianiaddio di nuovo, figliuolal- E ciò dicendo, appeso al braccio di Zuanne, si confuse nella calca. - lddio la aiuti, signor santolol- disse finalmente la Morosina, quasi fuori di sé per quanto le accadeva ..• - E la si sbrighi presto - aggiunse fra i denti. Qual sentimento suggerisse alla fanciulla quest'ultima raccomandazione, buttata del resto al vento per essere il vecchio già lontano dalla riva, noi non sapremmo indagare. Certamente persa

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altro qualche trepidazione si univa al segreto piacere di trovarsi così tutta sola con Celio, né dirb se a guastarlo, o a renderlo più delizioso. In quanto a disaminare il modo per cui una tanta e quasi formidabile ventura s'era venuta combinando fra le dita capricciose del caso, non lo poteva in tale agitazione di spirito, e dietro il costume delle buone creature, alle quali la ragione per l'ostinatissima fiducia è guida più perigliosa dell'istinto, lasciavasi cionnullameno andar a seconda degli avvenimenti. - La gondola prese per mezzo alla laguna lentamente piegando sotto la spinta dell'unico ren10; poi, come fu lunge da terra in modo che appena s'udisse un suono indistinto dei romori cittadini, prese a sinistra volgendo in linea retta all'estremo dell'Arsenale. - Là in quel bruno silenzio quel gran tramestio della Riva degli Schiavoni giungeva ai sensi quali deggiono per avventura apparire le cose di questo mondo ai nudi spiriti: un sordo mormorio, un brulicare di punti neri intorno ai radi lampioni, ecco quanto s'udiva e si vedeva di quella folla infinita; e sovr'essa, memori d'altri tempi, torreggiavano le bizzarre merlature del Palazzo Ducale, e le cupole bisantine di San Marco; sicché da lunge come dappresso la maestà degli edifici pareva irridere alla piccolezza degli uomini. - Che in un'ala di quel palazzo Sua Serenità il Doge.inaugurasse il serale sette e mezzo: che ad un altro piano i Dieci deliberassero sulla migliore scappatoia per togliersi di mezzo ai contendenti nella guerra di successione combattuta fra l'Impero, Napoli e Spagna; che più basso uno smilzo raggiratore gonfiato a Masaniello dalle infantili paure patrizie languisse nel suo camerotto; che sotto i portici i nobiluomini passeggiassero dando udienza a clienti, a mezzani, a usurai; che le spie e i ruffiani si raccogliessero a reggimenti intorno agli stendardi; che per ogni dove tutta quella gente spegnesse quel resto di giornata nella pecoraggine, nelle lascivie, nella nuliezza, che importava di tutto ciò a Celio, ora che soletto si trovava con una sì leggiadra e desiderata giovane? Mille volte con simile ricetta s'aveva egli composto lo stomaco rivoltato da quelle vergogne - pure sospirb guardando a Venezia; indi volse le spalle a quello spettacolo e, come volesse tutto abbandonarsi all'unico diletto che avea lì a fianco, accostossi alla compagna. Ma quei pensieri lo inseguirono stavolta anche nel recesso d'amore, e sospirò più profondamente. La Morosina parve quasi allietarsi di quel sospiro; forse per

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aver colto l'amico suo in tale atto ch,ella aveva tanto rimproverato a se stessa nei giorni passati. E certamente se quel sospiro era indizio di sentimenti conformi, grande motivo aveva di rallegrarsene la giovinetta. Pure il contentamento ch'ella ne ebbe s'espresse con un nuovo sospiro, e Celio volgendosele in aria di scherzo: - Sua Eccellenza - disse - ne comandò di stare allegri, non di sospirare; e gli ordini d'un inquisitore vanno eseguiti scrupolosamente. Via, divertiamoci dunque, - continuò raccostandosele - non ci deve riuscir difficile; non vi ricordate quante ore abbiamo passate insieme noi due giuocarellando? E come ridevamo, eh! Morosina ? Basterà togliere tre quarti d'ora da quei cari anni, e tornarli in vita; e son sicuro, ci verrà voglia di risuscitarne molti altri in appresso. Ogni scaltrito intenditore d'allora veggendosi apertamente preparato da un inquisitore quel notturno abboccamento, avrebbe sospettato non forse qualche micidiale trabocchetto si sprofondasse sotto i gigli e le rose, né cercatovi oltre il come o il perché, sarebbe stato in vedetta, senza arrischiarsi in un intrigo così dilicato. Ma Celio avvezzo dietro scuola diversa a dar un calcio pei piaceri suoi ad ogni prudenza (costume vituperevole in tempi migliori, sfoggio in allora di singolare virtù), non badava a tali consigli di raffinata paura; anzi, e per naturale braveria e per non so quale incanto che trapelava in quella sera dagli occhi della Morosina, sentiva svanire i suoi santi propositi di castità e accrescersi fiamma al suo lungo desiderio. Perciò tutto scordò, e questo solo gli risovvenne, che la Morosina da sé tanto amata era là sola con lui. - Sapete, - riprese vedendo ch'ella non disponevasi a rompere il silenzio - sapete, Morosina mia, ch'io ho vissuto più assai in quei tre anni di nostra fanciullesca dimestichezza che non negli altri dodici venuti dappoi? In verità, la mia testa è sempre là ... e il cuore per giuntai - disse, indi a poco, più soavemente. E voi, e voi, - proseguì parlandole sì presso ali' orecchio da sfiorarle colle labbra i capelli- e voi, Morosina, dove l'avete ora il vostro cuore ? La Morosina fece un atto come per ritirarsi, ma le parve essere inchiodata a quel posto né avere forza di muoversi: tuttavia rispondere voleva, e per la prima volta in vent'anni, una parola venne invitando le sue labbra, e queste, timidette, si rifiutarono

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a darle col suono la vita. Fino allora avea ella menato i suoi giorni come una danza per la quale si salga dalla quiete del nulla al cielp beato dell'eternità: tutto in lei bontà, pace, concordia, ed ogni suo pensiero era stato pegli altri, imperocché tal serena armonia le governava l'anima da non abbisognarle per sé né timore, né dubbio, né speranza. Ora tutto ad un tratto sentivasi ripiegare sopra se stessa da quella domanda di Celio. - Dove avete il vostro cuore? - Dove l'aveva il suo cuore? « Con te! con tel » avea risposto tutta l'anima della giovinetta; ma era poi vero? o il cuore non l'aveva ella piuttosto lassù ad Asolo presso la sua famiglia? - Questo soggiungeva dentro di sé, senza che dalla bocca le si partisse il desiderio di quella prima risposta; e non trovando altre parole che valessero a soddisfarlo, la giovinetta si tacque e sospirò ancora premendosi la mano sul petto. - Vi ricordate, - seguitava Celio piegando in quel buio la sua persona sulla spalla della fanciulla, e con tal voce da far indovinare il sorriso ond 'era accompagnata - vi ricordate quanto bene ci volevamo? suvvia ... ditelo, Morosinal ... ve ne ricordate? - Me ne ricorderò sempre I - rispose con un accento da paradiso la giovinetta. La confessione del puro amor suo avea trovato finalmente il velo pudico del quale vestirsi, e s'affrettò a manifestarsi a Celio bella a mille doppi per quella virginale ritrosia. - Ah, ve ne ricordate? - rispose Celio infondendo nel suono di queste sue parole tutta la gioia che avrebbe provato se quella dichiarazione gli fosse giunta inaspettata. - Ma dunque il bene che mi volevate, me lo vorrete anche adesso? ... Non siamo noi quegli stessi? ... Non è stabilito dal caso stesso che ci amiamo, per questa sua grazia di trovarci assieme soli soletti, quando meno si sarebbe creduto? La fanciulla si volse precipitosamente a poppa, ché tanto involontario spavento le venne al cuore d'esser tutta sola con Celio da temer quasi sparito il gondoliera. Ma questi all'incontro seguiva a curvarsi misuratamente sul suo remo, guardando al campanile di San Marco che aveva alle spalle, come se lo vedesse appunto allora per la prima volta. - Diranno taluni quella paura non essere stata né naturale, né edificante in una verginetta; ma ai tempi de' quali narro, le verginette aveano diritto di saperla lunga, ed era questo il raro merito della Morosina, d'essersi serbata cosi pura in tanta immondità d' esempi e di discorsi. - A

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Celio non isfuggi quell'atto involontario di timore, e se ne racconsolò tutto, conoscendo per ottimo indizio la poca fede nelle proprie forze; non istimò peraltro opportuno far mostra di questo suo contento, anzi fingendosi scorucciato: - Avreste paura, ehi- continuò acerbamente- di me avreste paura, che vi fui sempre amico tenerissimo e protettore devoto? di me che vi giurai dai primi anni amore quasi religioso? E agli altri forse vi affidereste senza timore, persuasa d'aver in voi forza bastante a rintuzzarli e confonderli? Ma quello che sugli altri potete con una rampogna, con un comando, non lo potete su me con un sospiro, con uno sguardo? Anzi m'è egli fattibile il riguardar voi cogli occhi coi quali altri vi riguarderebbero? Il cavaliere avea principiato quella riprensione per una vista di furberia; la finì col credere d'aver parlato giusto e vero. - Degli altri riderei I - mormorò ingenuamente la fanciulla. - E di me diffidate? - replicò Celio ondeggiante fra la verità e la bugia, tra il sentimento e la commedia. - Ma davvero, antepongo io pure le risa a questo continuo sospetto. Sì, sl, ridete pure anche di mel ... Almeno l'allegria vi farà bene, mentre quell'acre cosa che è la diffidenza, non può che rodervi le viscere! - O Celio, Celio!- sciamò quasi piangente la Morosina. - Via ridete, e vi auguro di cuorel - continuò questi barbaramente. Un singulto d'angoscia sollevò il petto della giovinetta, e due lagrimone calde calde caddero sulla mano di Celio, colla quale per effetto studiatissimo di rabbia stringeva egli il pugno della fanciulla. - Piangete ora, piangete? - seguitò il giovine mutando tenore di voce e facendo il desolato. - Dio mio - prosegui ancora, circondandole la persona dell'un braccio, e tergendole gli occhi colla pezzuola che le tolse di grembo, il tutto per consolarla. - Oh se sapeste quanto male mi viene da quel piantol ..• Sembra che mi diciate: « Sì! Celio, ho compassione di voi; comprendo che dovrei amarvi! ... ma non posso, intendete ? non posso li .•. l'amore non si comanda; non si costringe né per forza di memorie, né per forza d'amore; l'amore piove dal cielo, e unisce anima ad anima per cagioni secrete, misteriose sempre, sovente 1ninime, talora opposte; l'amore i nemici abbraccia, fugge, dimentica, sacrifica gli amici, da vero cieco che gli è I ... » e tu mi uccidi, Morosina, tu mi uccidi come è vero lddiol

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Il sentimento verissimo che germogliava nel cuore di Celio coloriva di verità questa comica tirata; onde la Morosina, non potendo reggere allo schianto che sentiva nel cuore dalla tenzone del pudore e della passione, diede in un violento scoppio di pianto. Il gondoliero infedele un momento al suo prediletto campanile, occhieggiò di sottecchi i due giovani; poi prese a canticchiare una ottava del Tasso, come allora era l'uso comune. - Per carità, per carità, Morosina, - continuava Celio con voce questa volta supplichevole e melodiosa - dimmi, dimmi, se più non mi ami! Ti giuro che se così è fuggirò lontano, lontano, donde non udrai più novella di me, né morto, né vivo, e né vivo, né morto, verrò più mai a strapparti dagli occhi un'altra lagrima! ... Via, via ... per pietà, - seguitava stringendole la persona delle braccia e cercando una risposta negli occhi di lei, i quali velati dalle lagrime e dalla notte, si smarrivano per quell'aria fosca e vaporosa delle lagune, come il discernimento si perdeva nel contrasto di tanti affetti - via, Morosina ... se non mi ami ... - Oh ti amol- mormorò la fanciulla con un nuovo scroscio di pianto, quasi annunziasse a se stessa una qualche terribile sciagura con quella risposta. Celio respirò beatamente, e tacque, come tutto si raccogliesse nello stupore d'una gioia celeste: solamente il suo braccio attorniava carezzevolmente la vaga persona della fanciulla. Stettero cosi alcun poco, e la Morosina riavutasi alquanto, facendo allor forza per uscire da quell'abbraccio involontariamente consentito: - Ora, ora che tanto sono felice, - riprese egli- vorresti toglierti a me? ... Ma si, hai ragione, - continuò poi, come rapito in estasi sovrumana. - Tanta beatitudine mi deve bastare!- Ciò dicendo ritrasse il braccio, ma in pari tempo avvicinò il viso a quello· della giovinetta. - Ma tu mi ami, è vero?- diss'eglitu m'amerai sempre come ora? tu mi farai beato d'ogni tuo sorriso, d'ogni tuo sguardo, d'ogni tuo pensiero? ... Tu m'ami? ... Ohi ma sentirlo una volta sola è poco, sai I ... Forse ti saresti ... pentita? ... Oh noi ... tu mi ami ancora .. . - Si, ti amo, e ti ho sempre amato - rispose affatto calma la Morosina; e in questa confessione, confermata questa volta dalla ragione, si volse inverso Celio candidamente. Le labbra del giovine eran lì pronte, e un bacio soavissimo ne mosse, ma tanto muto da non giungerne neppure all'orecchie aper-

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tissime del gondoliero il suono incantevole; pure l'armonia ne andò diffusa per tutta l'anima dei due giovani; e Celio stesso, rotto a ben altri piaceri, fu sorpreso dell'arcana voluttà scoperta per lui in quella freddissima cosa. - Oh dunque mi ami? - chiese egli ancora. - Sìl- ripeté francamente la Morosina. - Ma ... - Ma . . . ? - domandò Celio vedendola titubante nel seguir quel discorso. - Ma ... - riprese la Morosina ... - ma non so nemmen'io cosa volessi soggiungerei- La poverina sentiva pure in quel suo amore un qualche bisogno di freno; cionnullameno se tanto candore aveva da dimostrare quella sua opinione, non era poi così pratica di tali faccende da ridurre quel sentimento a parole. Celio insisteva tuttavia su quel Ma, quasi indovinandone il significato non troppo secondo alle sue prime lusinghe; quando Bastianello, uomo arrendevolissimo fin dove il dover suo consentiva, o rigido più in là come mai non fu birro e bargello, fermatosi sul remo, avvisò che sonavan le dieci, e solo dieci minuti restavano di quaranta concessi da Sua Eccellenza. - Voga dunque verso riva! - rispose Celio a malincuore, maravigliando del rapidissimo volo di quella mezz'ora. E pensando poi essere per avventura stolto consiglio illuminar maggio_rmente le intime diffidenze della Morosina, costringendo in esse l'attenzione svagata dell'anima sua con una importuna insistenza, anzi il più saggio esser quello di sviarle tosto tosto da quel cantuccino pericoloso, le fu dietro con ogni sorta di promesse e di tenerezze, alle quali per dolcissimi monosillabi e per incantevoli sorrisi rispondeva la giovine; e fu peccato che questi ultimi andassero sprecati in quell'oscurità. - L'anima di questa era ornai passata dalla spensieratezza dell'innocenza alle soavi trepidazioni dell'amore. - Ma l'amore a tutti malfido, a lei così forte per rettitudine, per affetto, per bontà, appresentavasi tanto vago e sereno come lo era stata la pace de' suoi giovani anni. Né mai questa pace le avea promesso gioie così piene quante ora ne intravedeva il cuor suo, onde se tosto riebbe la calma, assaporò insieme più viva la speranza di maggiori felicità. In dieci minuti Bastianello moltiplicò le remate a segno che rifece lo spazio percorso prima in trenta, e toccarono alla Riva un po' prima che Sua Eccellenza e Zuanne vi giungessero.

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- Oh ben trovati, figliuoli miei!- esclamò il Formiani, rimettendo il piede nella gondola e sedendo al posto occupato nella sua assenza da Celio. - Diavolo! dove avete cacciato il mio martoro? ... Ah, l'ho qui sotto i piedi! ... Sembra.non v'accorgeste di quest'auretta che pizzica il naso! Eh già: anch'io quand'era giovane! ... - La brezza si è levata poco fa, - rispose Celio - e siccome spira dal mare, non ce ne siamo accorti nel brevissimo spazio impiegato al ritorno ... Gran rematore che la ha qui, Eccellenzal soggiunse accennando a poppa. - Lo fa provare alla regata quest'anno? - Senti, eh, Bastianellol - disse ridendo l'Inquisitore. - Domanda qui il cavaliere, se vuoi cimentarti alla regata! Bastianello grugni mormorando quattro parole, ma non rispose nulla d'intelligibile. - Gli è, vedete, - ripigliò il Formiani- che Bastianello disprezza di tutto cuore l'arte sua o, a meglio dire, guarda d'alto in basso i suoi confratelli e sdegna misurarsi con loro. - Diavolo! questa è superbia! - sciamò Celio ridendo. - E con me, Bastianello, vorresti provarti ? Una gara con un dilettante non disonora mai, e se mi passi, come spero, ci guadagnerai un paio di zecchini, altrimenti a me resterà la gloria, e tu avrai del pari i zecchini. - Quando la comanda, illustrissimo!- rispose il gondoliero. - Or bene: domani a sera tarda per non infiammarci il sangue, nel canale della Giudecca- rispose Celio. La Morosina taceva, tutta assorta nelle prime delizie dell'amor suo in modo da non avanzarle mente a sorprendersi della leggierezza colla quale Celio dai celesti parlari delle anime passava a celiare con un barcaiuolo. - Come resti così soprappensiero? - usci a dirle l'Inquisitore. - Pensol- rispose la Morosina con quel carezzevole accento veneziano che fa d'una sola parola una completa melodia. - Va làl piccina, - soggiunse l'altro- divertiti ora: pensare si può quando si è vecchi; e credilo a me, io sento rimorso di quelle pochissime volte nelle quali m'è occorso pensare in gioventù. Guarda; - continub egli con una tal qual voce sardonica, e come seguendo un corso d'idee che già avesse in capo- io pensai pochissimo, e si trista ventura m'accadde al tempo della guerra di Mo-

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rea, la quale, per grazia di Dio, abbiamo perduta, e cosi non fu d'uopo pensarci oltre. Mio padre ha pensato in sua vita un poco più di me; povero diavolo, lo compatisco! aveva veduto tempi più seri e non poteva rassegnarsi a vivere in burletta. Mio nonno, che Dio l'abbia in gloria, ostinato com'era a difender Candia quando tutti volevano cederla, si macerò nei pensieri peggio di suo figlio. E il bisnonno, poverettol figuratevi se ha dovuto pensare, posto come gli era a capo del Consiglio dei Dieci nei tempi della Legai e suo padre poi fu più sfortunato ancora, che dei troppi pensieri mori durante la guerra di Chioggia. 1 Segno questo, Morosina mia, che il mondo migliora di dì in dìl .•. Divertitevela dunque, giovinotti! ... Dopo, sarà quel che saràl ... certo non peggio di morire puovvi toccare, e avrete la ventura d'insegnar filosofia laggiù nei Campi Elisi a Socrate, a Platone, a Galileo, e a Fra Paolo! Qui parendogli col tono della voce aver troppo dichiarato il senso contrario del discorso, come non gli garbando esser compreso appieno, corresse quella prima parte appiccicandovi una coda di elogi alla gioventù d'allora così docile, timorata delle leggi e del governo più forse che non abbisognasse, e dicendo questi buoni effetti doversi agl_i onesti divertimenti. - E guardate! - continuò con piglio di convinzione - anche Domeneddio ce ne sa buon grado di questa fiaccona, e mentre ai secoli addietro ci visitava ogni tanto colla peste, ora si dimentica provvidamente di noi I ••• E ciò sia detto in buona pace degli esecutori contro la bestemmia! Non sappiamo se Celio e la Morosina intendessero quel ragionamento che l'Inquisitore andava facendo a sbalzi e come fra sé; certo entrando al Palazzo aveano tutti e tre la cera annuvolata; senonché i due giovani per provvidenza dell'età racquistarono colla luce la solita sembianza, e il Formiani all'incontro rimase così melanconico e pensoso per tutta la serata. - Pure il gioco fu de' più splendidi, e nella sala tutta specchi e velluti, convennero colle solite pompe dame e cavalieri d'ogni età. Ma l'età peraltro snaturata, nei giovani per la deforme cascaggine, nei vecchi pel bavoso 1. Candia •.• Chioggia: il Nievo ricorda qui tre episodi della lunga storia di Venezia: la guerra di Candia che con alterne vicende durò dal 1645 al 1718 (si veda la pag. 16), la lega di Cambrai del 1508 che vide la coalizione di Massimiliano, di Luigi XII e di Giulio II contro Venezia, e la guerra contro Genova, dal 1378 al 1381, alla quale si dà il nome di guerra di Chioggia. ·

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bamboleggiare, non segnava fra essi distinzione di sorta, e le parrucche e la cipria s'aggiungevano a torre di mezzo le ultime differenze. Così in quel ritrovo di mezzi letterati, di mezzi politici, di mezze Aspasie, di mezzi abatini, di mezzi uomini i sentimenti di rispetto, d'amicizia e d'affetto soliti dimostrarsi ai maggiori, ai coetanei, ai più giovani senz'essere capovolti come furono dappoi per più squisito progredimento, parcano lasciati alla porta, ed essere sostituiti da un frivolo e imponente ermafrodismo. - Quando Sua Eccellenza Formiani ebbe presentato la Morosina come sua figlioccia e dama di compagnia, immagini chi può la ressa che le fecero intorno sei o sette senatori, e due procuratori di San Marco! - Le si strinsero intorno in un coro di smancerie e d' adulazioni, al quale era troppo nuova per far il viso che meritava; ma finalmente venne il gioco a liberarla da quel decrepito assedio, e quando i tavolini di tresette, di picchetto e di zecchinetta furono disposti tutti all'intorno, poté respirare a suo agio e recarsi sul poggiuolo in traccia d'una passeggiera solitudine. Trovò di meglio, poiché anche il cavalier Terni, contro il suo costume, non trovatosi in vena di giocare, vi si era ritratto a guardar la luna sormontante appunto allora i tetti degli opposti palazzi. - Da gran tempo il cavaliere non s'era trovato nella sola compagnia dell'amica degli innamorati, onde avea fatto le oneste accoglienze a quella vecchia conoscenza. Squisito sentimento del bello a lui non mancava, e neppur ispirazione di calda poesia; ma corrotto da viziose abitudini, sviato dalle naturali tendenze per giovanile vaghezza di chiasso e di compagnia, quel piacere innocentissimo di conversare cogli astri e colle proprie fantasie, pel quale memorie di altri piaceri tornavangli a mente, gli riuscì cosi nuovo che ebbe a stupirne. Donde avveniva in lui da qualche settimana quell'ostinato rivangar nel passato, e quell'involontario rinnovamento di se stesso pel quale rifuggiva con ribrezzo dai soliti ricreamenti, e si piaceva in tali scipitaggini? - Aveva serbato bastante consuetudine di pensiero e conoscenza di sé il nostro giovine da esprimere chiaramente una tale inchiesta; e gli convenne rispondere esser egli occupato da un'unica idea, da una sola immobile passione, e perciò riescirgli doloroso ogni sforzo per separarsene, gradevole ogni posa in essa, dilettoso ogni argomento, ogni memoria, che la cementasse in lui più saldamente. - Cosi l'amore della Morosina lo dominava tutto; e benché egli dicesse a se stesso che col mangiare se ne va l 'appe-

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tito, e cosi sarebbe passata quell'altra melanconia, pure non era meno vero che, davanti a quella giovane, gli veniva meno quella solita sfrontatezza adoperata colle altre donne come arma invincibile. - Ripeteva a se stesso che tali fantasticherie erano fanciullaggini, e faceva appunto una giratina sui tacchi per torsi dalla luna, e tornar nella sala, quando la Morosina s'affacciò, come dicemmo, a un altro :finestrone. - Che fu, che non fu, la fanciullaggine lo riprese di botto, e la segui nell'ombra proiettata sulla ringhiera dall'interposta colonna. - Addio! Morosina mial- mormorò egli all'orecchio della ragazza. Questa si volse spaurita alla sala, come se udendosi da altri quelle parole fossesi venuto a scoprire un qualche suo delitto; ma non era di sola vergogna quel movimento, bensl anco di timore, dacché all'amore incresce essere scoperto nudo nudo e appena nato, e prima che le sue ali siensi francate al volo. - Cosa guardi là entro?- riprese Celio capitombolando in quelle fantasticherie delle quali credeva aver fatto giustizia poco prima con un sogghigno - guardi a quello stormo di rimbambiti che fanno la vista di darsi spasso, e la noia intanto torce e contorce le loro animine di stoppa? ..• Oh guarda piuttosto nel mio cuore, e vi troverai di che sperare un pocolino in Dio: badando a coloro, ti giuro che son tratto alle volte a bestemmiarlo! - No, Celio, non bisogna disprezzare così alla cieca i nostri simili: - soggiunse la Morosina - in ogni cosa cattiva c'è il suo buono, ché altrimenti Dio non la soffrirebbe, e giudicandola, bisogna aver riguardo anche a questo. - Coloro averci del buonol coloro nostri simili!- rispose Celio. - Oh no, sail non dirla più questa menzognal Se li disprezzo, vedi, non li disprezzo già cosi alla cieca come presumi, ma dopo lunga esperienza; e dapprincipio lo mostrai loro in ogni atto, in ogni parola. Ma sono troppo vili per accorgersene, troppo inetti per ravvedersi, onde ora io muovo e parlo fra loro come se fossero ombre vane, e lo stesso caso faccio delle loro femmine, degne educatrici, adescatrici e tiranne di simile bestiame! Questo diceva il cavaliero per intimo sentimento: ma non era sempre stato cosi come asseriva, e molte nobildonne dalla tavola della zecchinetta avrebbero potuto smentirlo. - Senti, senti i loro discorsil- prosegui egli- per carità andiamo in luogo dove queste mie orecchie, santificate dalle divine

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parole che mi dicesti poco fa, non ne sieno offese. - Ciò dicendo trasse pel braccio la Morosina sulla diritta del pergolo dove esso, digradando per quattro' scalini, dava sur una terrazzetta di angolo tra il Canalazzo e la Calle del traghetto. Vi si rifuggivano talvolta le dame pei soverchi calori della sala, o i cavalieri cui volgevano troppo avverse le sorti del gioco, onde vi erano preparate seggiole tutto all'ingiro; però in quel momento il sito era deserto, e molti vasi di leandri, di garofani e di verbene, frastagliando all'intorno il chiaror della luna, lo chiudevano a profitto de' due innamorati. Fosse la stagione non ancora avanzata nella state, fosse qualche altro motivo, non furono turbati da importuna presenza per due dolcissime ore. Quali fossero i loro colloqui ogni lettore se 'l sa: però la Morosina, troppo novizia nell'amore per parlarne alla dirotta, si lasciò invece andare ad ogni più segreta confidenza, quando il discorso volse sui loro anni passati con quei gratissimi ti ricordi? che sembrano addoppiare un'esistenza, e riversare il presente nel passato per rivivere in esso una seconda volta: tanto più magica questa risurrezione immaginaria e superiore alla realtà, in quanto delle cose passate ravviva soltanto quelle che più ci sono care e dilettevoli. Cosi non ebbe ella ritegno a disvelare a Celio le sue infantili simpatie, e la speranza duratale di rivederlo in quella prima lunghissima separazione, e la sua gioia quando quella speranza si trovò piena a Castelfranco, e le nuove ambascie per l'entrata al convento, e l'affetto tenuto religiosamente a quel piccolo Petrarca da esso donatole, e la nuova consolazione pel loro incontro al parlatorio delle Serafine, e la lunghezza del tempo fra un giorno e l'altro di ricevimento; e tutto tutto gli disse; tutto, persino la scoperta o meglio la confessione a sé fatta del suo amore per lui, quando credette osservare in esso una certa sostenutezza, e il dolore insieme e la letizia· venutile da tale scoperta; tutto insomma, meno la purissima voluttà di quell'ultima sera, della quale toccando, la avrebbe creduto di commettere un sacrilegio. Celio non aveva udito mai donna parlare con sì squisita grazia di frasi, con tanto colore e freschezza virginale d'immagini, con tale veemenza e sincerezza d'affetto, onde stava ad udire; e mentr'egli lontano da lei divisava piegarla bel bello ai voleri suoi, 11 appresso si trovava lui soggiogato, ella senza saperlo regina. - Sonò il tocco. - Il gioco sarà sul finire: - mormorò Celio - andianne un po'

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a vedere cosa ci hanno fatto della loro vita que' babbuini! - Cib dicendo, non si ricordava forse il poveretto d'aver usato egli pure della sua vita peggio che quei tali non avessero fatto per quelle due ore. Al tornar d'essi nella sala, l'Inquisitore non c'era, e la vicenda del gioco seguitava sul solito piede. Però indi a non molto Sua Eccellenza ricomparve, e fu quello come il segno della 1itirata; onde tutti in brevissimo tempo s'accomiatarono; e meno i vecchi e i malati, si sparpagliarono colle gondole qua e là, verso i soliti ritrovi, dove la loro giornata si produceva fino all'alba. - Celio si partì, inseguito fino a mezza scala dai saluti e dagli inviti del padrone di casa; e benché quella così subita benevolenza dovesse dargli di che pensare, pure non vi abbadò quella sera, occupato com'era della sua beatitudine. Giunto alla riva, solo allora si ricordò d'aver licenziato la gondola senz'ordini, onde usci a piedi. Pensiero sopra pensiero, un passo dietro ali' altro perdette la strada di sua casa, e si trovò agli albori sull'estrema punta del sestier di Castello verso Murano. 1 Fu quella la prima volta dopo quindici anni ch'egli rivide veramente il sole, e comprese la muta poesia de' suoi primi raggi che si stendono sul mare come un manto d'oro di porpora di luce. Anche la Morosina, che dopo una cena tocca soltanto, baciata in fronte dal Fonniani, s'era ridotta alle sue stanze, non sentendosi in vena di dormire, s'era messa alla finestra a contemplarvi il tramonto della luna.

1.11nso Murano: sulle Fondamenta Nuove.

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IL VARMO 1 NOVELLA PAESANA I

Ogni disposizione di natura, per quanto semplice o sgraziata, spira tuttavolta per chi la contempli con ben temprato animo una sua singolar poesia dalla quale ci si rivelano bellezze tanto più delicate e pellegrine quanto meno aperte e comprese. Un tale che, partitosi dalle folte campagne del Trivigiano col mal del quattrino nel fegato, di qua del Ponte della Delizia devii verso Camino per quella magra pianura che costeggia il Tagliamento, subito col desiderio ritorna alle negre arature di Oderzo e ai colli pampinosi di Conegliano, abbandonando alla rabbia della bora e delle montane quei deserti di ghiaia. Ma il pittore che va cavalcando le proprie gambe col fardello in ispalla e l'arte nel cuore, anche reduce da Napoli o dalla Svizzera, sarebbe indotto da quei primi aspetti a tirare innanzi, ed ecco che di n a poco il piede gli sosterebbe quasi involontario; benché per quella volta indarno, trovandosi impotente ogni tavolozza meglio ingegnosa a ritrarre quella semplicità primitiva che non ha parentela con qualunque artificiale trovato. Son quelli infatti paesi ove la natura si dimostra più spoglia e maestosa, più muta e sublime, più chiusa ed infinita; somigliante nella mia opinione alla greca Diana che, per mutarsi dall'Olimpo nei recessi d'una fonte, non s'appalesa meno altera e divina. Nessuna cosa più mirabile al mondo di quel lucido orizzonte che fugge all'occhio per mille tinte diverse sulle sponde del Tagliamento, quando il sole imporporando il proprio letto cambia in tremulo argento i molti fili d'acqua scorrente come rete per le vaste ghiaie del torrente ; ed ogni sassolino ed ogni crespolo d'onda manda una luce tutta sua, come ogni stella ripete un nuovo chiarore nell'azzurro della notte; e le praterie s'allargano d'ognintorno come il cielo si profonda nell'alto; e lunge lunge si schierano illuminate dal tramonto le torri dei radi paeselli donde si parte un suono di campane così affiocato per la Il Nievo dedicò Il Varmo a Francesco Verzegnassi, patriota veneto e suo amico d'infanzia, con queste parole: « Le immagini apprese all'anima in un'ora di pace e di bontà, moltiplicate dal sentimento, popolano di vaghi fantasmi il sacrario del cuore. Questo racconto pertanto inspirato dalle memorie d'una passeggiata assieme godutaci, fra noi diversissimi d'opere e di studi resti pegno di amicizia e di morale concordia •· 1.

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IPPOLITO NIEVO 93° vastità e per la distanza, da sembrare un coro di voci né celesti né terrene, nel quale alle preghiere degli uomini si sposino arcanamente le benedizioni degli angeli. Così quel calmo sole vassi morendo, e la lontana cerchia dcli' Alpi ne rinvergina l'ultimo bacio sulle vette nevose, e le falde meno rilevate e la pianura e l'acre interposto assumono tali colori che mai non saranno ritratti con verità che dal pennello di Dio. Pure cotali regioni sono misera stanza di sterilità e di fatica; contorte e scapigliate le arborature, umili e cadenti le case, disadorne vi appaiono le chiese, meschini e quasi accozzaglie del caso i villaggi; ma sopra tanta apparente deformità si spande invisibile, e attragge l'animo senza passare pegli occhi, una cert'aria di pace serena che non abita le campagne più ubertose e fiorenti. Là pertanto dalla nitida ghiaia sprizzano ad ogni passo le limpide e perenni fontane, e di sotto alla siepe sforacchiata dal vento effondesi un profumo di viole più delizioso che mai, e per l'aria salubre e trasparente piove da mane a sera il canto giocondo delle allodole; là pascolano armenti di brevi membra e sottili che morrebbero mugolando innanzi alle colme mangiatoie della Bassa; 1 là vivono genti robuste, semplici, tranquille, abbarbicate da tenerissimo affetto a un suolo duro ed ingrato; là fra solco e solco cresce l'olmo nodoso e stentato, sul quale la vite lentamente s'arrampica; ma nei grappoli nereggianti ella solea già maturare d'anno in anno il vino più generoso del Friuli, ed ora restarono essi come due vecchi genitori abbracciati in un muto dolore dopo la morte dell'unico figlio; là infine, a dispetto di tutto, getta· profond_e radici la ricca pianta del gelso, sicché lo vedi per maraviglia sorgere dritto e lucente, e vestirsi in primavera di quella foglia sottile, venosa, levigata, donde natura ed arte dipanano la più bella seta del mondo. Nel mezzo di questo territorio da parecchie sorgenti, che forse pigliano vita per sotterranei meati dal vicino Tagliamento, sgorga una vaga riviera la quale chiamano il Varmo, ed è così cara e allegra cosa a vedersi, come silvestre verginetta che non abbia né scienza, né cura della propria leggiadria. Sulle sue rive non s'alternano gli adornamenti ai ripari come nell'acque serventi all'agricoltura, né ella ogni tratto s'accieca sotto l'arco d'un ponte o nei canaletti d'un'officina, ma libera divaga per campi e per prati, partendosi ora in più rami, ed ora circuendo graziosamente se stessa, 1.

Ba11a: la pianura friulana.

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e così prepara bagni e pelaghetti ai beccaccini ed agli anitrocchi; e poi come stanca di libertà consente esser serrata da un burroncello, e n' esce gorgogliando per dilagarsi ancora tra verdi boscatelle di vimini; ché se qua e là un rustico passatoio di cretoni la imbruna d'un poco d'ombra, ella se ne giova tantosto scavandovi sotto opachi nidi ai ranocchi ed ai gamberi; e se intoppa talvolta nella ruota d'un mulino, sembra anco godere di questa varianza, e volgerla attorno gaiamente, e balzellar via qua e là in goccioline iridate e in pioggia di diamanti. Soltanto da pochi anni due strade comunali hanno stirato sulla cheta acqua del Varmo i loro cinque metri di carraia; ma l'ingiuria fu poca e la cheta acqua se n'è vendicata, cred'io, burlescamente, quando non son molti autunni costrinse que' due ponti a piegar le schiene per farle reverenza: e i ponti furono rifatti, ma un pochino più alti, sicché l'astuto fiumicello ci guadagnò un braccio d'aria, il Comune ci ebbe soffiata la prima spesa, e gli ingegneri giubilarono. Certo, se il Consiglio fin dapprincipio avesse creduto far onta al riottoso bastardello del 'ragliamento imponendogli quella lieve servitù, sarebbesi accontentato di lasciar il guado come stava; ma i Consiglieri per avventura non si erano mai specchiati in quelle sue acquette satiriche, né vi aveano veduto sul fondo variopinto quelle lunghe chiome di alica listata di verde e di nero, fluttuante a seconda della corrente, e quelle foglie aranciate di giunchiglia, e quei muschi tenebrosi somiglianti a velluto, onde sopra cervelli scarnati d'ogni poesia non fece presa la paura di sturbar l'albergo d'una qualche fata, e così fu commesso quel sopruso del quale pagheranno essi il fio di generazione in generazione. Ciononostante, per l'insolenza dei mastri, non dimise il fiumetto la sua petulanza: né dentro al suo lucido grembo s'allargano in grotte meno colorate e fantastiche i regni delle dolci anguille e delle bisce dorate. Il

D'ognuna di queste cotali meravigliose bellezze, su cui passò di volo la penna, il Varmo fa cortese omaggio in passando al meschinissimo villaggio di Glaunico: e laberinti di ruscelli, e luccicanti laghetti, e fondure cavernose non mancano in que' dintorni; e del pari la pesca vi è più abbondante che in ogni altro posto della riviera; anzi puossi affermare che nel pranzo delle Tempora ogni

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famiglia aggiunge alla solita polenta poco meno d'un'anguilla, e il resto si reca a vendere in una cesta per le ville circostanti, sicché in capo alrannata il guadagno compensa appuntino la perdita del tempo e il consumo delle reti. Il villaggetto, come si vede, è ben lunge dal nuotare nell'abbondanza; percib ha preso il partito di mostrarsi tal qual fortuna l'ha fatto, e fino le strade vi son cosi rotte e perigliose da far indovinare sul primo passo il povero borghicciuolo a cui fanno capo; inoltre, un miglio lontano, sui radi filari delle vigne si cominciano a scernere le tettoie di paglia, e i fumaiuoli disfatti e il campaniletto mezzo sconquassato; onde arrivato ai limitari di quell'ascondiglio, chi cercasse ove far penitenza d'un gran peccato potrebbe lietamente sclamare:Vi ringrazio, o mio Diol- Ma a rabbellire tanta miseria s'è accinto valorosamente quel caro fiumicello del Varmo; e vi giuro che al veder capovolte le casette di Glaunico nel suo specchio argentino e tremolante, dove i caldi colori del fondo si mescono col riverbero della prospettiva, l'animo si solleva d'ogni tristezza; e il ponticello e la riva e i salici che rompono la corrente e gli armenti che la lambiscono delle nari prendono vita affatto nuova, e tal colore di poesia da ricordare le Bucoliche e l'Odissea. Né un mulino che è li presso toglie per nulla di vaghezza a quella semplice scena, come fanno sempre le opere d'arte mescolate colle più vaghe rappresentazioni naturali: anzi esso stesso a quella campestre solitudine presta conforme il movimento e, sarei per dire, la parola. Tuttavia sarebbe ingiustizia se non mi ricredessi dall'aver chiamato quel mulino un'opera d'arte; poiché l'è tanto antico a mio giudizio, che la capricciosa natura l'ha già rioccupato parte a parte per diritto di prescrizione; e le muraglie son così sconnesse e fiorite, e il tetto è cosi ineguale e muscoso ch'esso ti dà sembianza d'una fattura del caso; ed anche ad ogni voltata si stupisce di non veder la ruota volare in frantumi; ma questa, cosi marcia e sdentata com'è, pur segue a danzare, e incamiciata alla bella prima di licheni e di muschi va ora inghirlandandosi di cento fioretti acquaiuoli; immagine a parer mio del vecchio Anacreonte che coronato di rose cantava brindisi alla morte. Quel mulinetto non ha ora che una sola macina da polenta, ma in tempi meglio avventurati triturava del bel frumento, e cosi finamente e a giustizia di peso che l'era salito a gran rinomanza. Mastro Simone ch'era il mugnaio se ne gloriava a buon dritto,

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933 e benché dei molti figliuoli non gli fosse restato che il maggiore il quale s•era accasato a parte, pure campavasela colla moglie in qualche agiatezza; e all'agiatezza, tutti lo sanno, s'accompagnano l'allegria e la pace del cuore molto volentieri.· Quello era il bel tempo quando uno staio di farina gialla costava un saluto, e il vino correva a rigagnoli e Dio mandava a proposito la pioggia, il sereno, la vita e la morte. Ma anche in allora fini coll'aver ragione il proverbio di Bertoldo, 1 e capitò a turbare quella beata armonia una certa febbre pestilenziale che spediva a Pieve assai gente della parrocchia. E qui, se no 'l sapete, voglio pur dirvi che cosi Glaunico come tutti i paeselli Il presso ubbidiscono in materia spirituale alla Pieve di Rosa; e quivi è il camposanto comune dove, dopo aver lungamente combattuto, scendono i litigiosi paesani a darsi il bacio della pace. Infrattanto le famiglie restavano per quella febbre pestifera mezzo disfatte, e solamente quella del mugnaio anziché calare era cresciuta d'una bambina alla quale fu messo nome Fortunata, e la chiamarono, come si usa, la Tina; ma fuori della salute ogni altro negozio andava di traverso anche a quei poveretti, poiché in mal punto li strinse la bisogna di fabbricare le chiaviche e gli arginelli, e in quella stagione le giornate costavano assai, e oltreché, lavorandosi da ognuno con qualche riserbo per paura del male, di poco il lavoro s'avvantaggiava, molto ebbero a perdere in giunta per lo sciopro delle macine ed anche parecchie pratiche si distrassero in quel frattempo per molti molini li intorno. Contuttociò scamparono i tre meschini da quella brutta burrasca; e tanto coraggio era rimasto al vecchio Simone che non badò a sé per aiutare fin dove poteva ai bisogni degli altri: e fra tanti una poveretta sua vicina ch'era restata vedova con un fìgliuolino di quattr'anni ebbe a ringraziare solamente lui d'esser sopravvissuta all'inverno seguente. Ma poi le cose volsero al minor male, e racquistata con l'onestà e diligenza sua la maggior parte delle pratiche, il mugnaio poté soccorrer la vedova senza troppo disagiarsi, finché al secondo inverno una malattia di consunzione riportò quella sfortunata anima al Signore. Allora Simone venne fra sé e sé in grandi pensieri, e fini coll'aprir l'animo alla moglie e consultarsi secolei, il che non costumava fare che nei gravi frangenti, per sospetto, come diceva, della sua soverchia dottrina. Trat1.

Che dopo il sereno viene la tempesta.

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tavasi della sorte di quel povero fanciullo abbandonato dalla Prov-videnza accanto al cadavere della madre, e, come potete credere, non era il sentimento del cristiano dovere che facesse fallo al mugnaio, sibbene la confidenza nella propria fortuna; e così chiamò da parte la sua femmina, e le scoperse sinceramente lo stato delranimo suo riguardo al fanciullo. E poiché la narrazione fu terminata, levò gli occhi in essa, e vedendola stare tutta grave ed accigliata conchiuse con una vocina di miele: - E così, cara la mia Polonia, io mi sono consigliato con voi, e voi consigliatevi col Signore, onde sia fatto come egli vuole. Ma vi raccomando, consigliatevi con carità!- E dopo un piccolo sforzo aggiunse:- Cara la mia Polonia!- Dalla qual tenerezza, non usata da lui dopo la vigilia delle nozze, traspirava l'intendimento di piegare la moglie alla misericordia inverso il bambino. - Bravo il mio uomo!- rispose costei modulando la propria voce, stridula per natura, con tanto artifiziosa disarmonia, quanto il marito aveale parlato più dolce del solito. - Non mi venite già a consultare quando vi trovate innanzi due partiti, ma ben mi fate un tal onore allora che necessità ci sforza a prenderne unol ... Cosa volete che vi dica più di quanto vi dicono i comandamenti di Dio I ... Fate al prossimo quello che vorreste fatto a voi stesso, e non cercate darmela a bere colla vostra fintaggine, caro Simone! Fin da questa mattina avete provveduto quella povera di sepoltura; e cosa vorreste, dunque, soccorrere i morti e abbandonare i vivi? Oh questa sì che l'è bella, il mio uomo; e si vede proprio che gli anni vi voltano il cervellol Fortuna, - aggiunse dondolandosi sulle anche- ch'io sono più giovane di voil- E ciò dicendo si tolse in braccio la Tina che cominciava nella sua cuna a vagire, e scoperto il petto dielle a poppare senza badar più che tanto al mugnaio. - Or dunque?- questi s'arrischiò a chiedere. - Or dunque, or dunque, tanto sordo vi siete fatto da stamattina? - tornò a strepitare la Polonia. - Via, prendete in casa quel serpentello e che la sia finita, e sopratutto non tornatemi fra i piedi a torre consiglio; ché poi quando la vi salta fate a modo vostro; e già lo si è visto abbastanza quando si trattò delle chiaviche e del .. rio ••• A questo punto Simone s'accorse che il consulto era terminato, e che riprincipiava una vieta filippica, la quale da un anno faceva

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le spese alla mala abitudine presa dalla moglie di malmenarlo da mane a sera. Perciò si fece fuori dell'uscio, e non era egli a mezzo il cortile che la Polonia tutta sorridente e carezzevole giocarellava colla bimba e guaiva scherzosamente al sentirsi premere il seno da un dentino novello. E da ultimo saziata che la fu, se la tolse in grembo e cominciò a cullarla cantandole la nanna con uno squillo sì argentino di voce, che tanto vinceva in soavità l'ordinario suono delle sue parole, quanto questo era vinto alla sua volta in acerbezza dai modi eh' ella usava col marito. Ma così era impastata quella femmina; e ciò nulla meno serbavasi pe' suoi quarant'anni così pienotta e robusta che non facea meraviglia vederle fra le braccia un angelino appena sceso dal paradiso qual'era appunto la Tina. III

Un'ora dopo il vecchio Simone rientrò in casa traendosi per mano uno zingarello così sucido e selvatico che parea proprio, come si dice, il figliuol di nessuno, e sotto l'ascella aveva un involto di cenci i quali erano tutta l'eredità del povero Pierino. In vedere quel diavoletto così nero lurido e sparuto, e quel mucchio di stracci, la Polonia si mise le mani nei capelli, e prese a strillare che a quel modo cominciava la loro buona fortuna, e che già per quel bricciolo di stregone si sarebbero scannati, e altre cotali lamentazioni le quali spaurirono un poco il bambino; onde egli si fece pian piano tra le gambe del mugnaio domandandogli sotto voce quando l'avrebbe ricondotto da sua madre. - Oh senti mo a che riesci col tuo vociare? - gridò Simone un po' risentito. - Il fanciullo si ributta,1 e ti piglierà odio, e così avrai due croci in vece di una; mentre, trattandolo colle buone e come se fosse del sangue nostro, lo farai a tuo modo come una pasta; e quando diventi grandicello, ti darà mano nel curare il bestiame; o nel vegliare la bimba, quando tu vada al mercato o ti piaccia visitare la cugina di Rivignano. E di più, nei giorni di vigilia lo manderemo alla pesca, e ti preparerà quelle fritturette di giavedoni2 che ti fanno sognare ogni notte e sul proposito delle quali io mi busco ad ogni quaresima un sacco di rimbrotti e di . . mormoraz1on1. 1. si ributta: si risente, si rivolta. 2. giavedoni: nel Friuli sono così chiamati i ghiozzi, piccoli pesci d'acqua dolce.

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- Sì, sì I - rispose ancora ringhiosetta la Polonia, prendendo a forza per mano il Pierino e guardandolo con un certo fare torvo curioso e non pertanto benevolo. - Sul fatto poi converrà spelargli quel musaccio, che è lordo, perdiana, come non vorrei che fossero i miei piedi quando mi mandate scalza alla messa. - Eh via, come non vi avessi comperato un paio di scarpe l'ultima volta che fui a Codroipo!- disse quel dabben uomo di marito. - Le scarpe nuove non vanno portate per questi pantani- rimbeccò la donna. - E le pianelle e gli zoccoli, e i sandaletti, che ce ne avete sotto il letto un esercito I - obbiettò ancora il mugnaio. - Le pianelle si perdono nel fango, - soggiunse aspramente la Polonia - gli zoccoli stravolgono i piedi, e coi sandaletti si guadagnano i geloni; in fin dei conti poi mettetela via, giacché gracchiate sempre a torto e non so come io mi faccia a sopportarvi. Animo, animo! - continuò ella volgendo le spalle tutta dispettosa a Simone e sfregolando coll'acqua della secchia il viso del fanciullo. - Cosa credete, scioperatello, d'aver a che fare colla moglie dell'orco? O sono una maraviglia io, che mi guardate con quegl'occhiacci di vetro? Via, rasciugatevi dunque in questa bandinellal 1 Ah no, ninnolino, non volete? .•• Ebbene, perché è la prima volta compirò io la funzione! E diedesi a stropicciarlo con un certo avanzo di sacco, finché le guance gli si arrossarono come le mani di una guattera. Tuttavia il bimbo non parve accorgersi di quei mali atti, e a tavola sbocconcellò silenziosamente il suo bel tozzo di polenta, senza né sorridere alle moine del mugnaio né piangere alle vociate di sua moglie, rimanendo tutto chiuso in sé e quasi trasognato. E così la durò egli una buona settimana, facendo a modo di chi gli comandava così appuntino, che la Polonia non sapeva rinvenire dalla sorpresa; e, avendolo in addietro conosciuto per un vero birboncello, dava ogni merito d'una tal conversione alla propria accortezza. Perciò seguitò ella la consueta disciplina; e soltanto, mentre dapprincipio chiamavalo ad ogni tratto mostricciuolo, Attila e basilisco, gli dava invece dappoi dell'assonnato e dello stupido. Ma il bambinello non rispondea motto, e solo interrogato bandinella: asciugatoio molto lungo per le mani, scorrente su due rulli fissati al muro. I.

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accennava di si o di no, mostrando perb sempre una tal paurosa diffidenza della Polonia, per la quale sempre, potendo, fuggiva dalla stanza ov'ell'era per correre al mulino, o in riva al Varmo o dietro le siepi dell'orticello. Ma quando peraltro aveva colei tra le braccia la piccola Tina, o l'addestrava ai primi passi, o le imboccava il cucchiaio della pappa, allora egli non le scappava più; e davanti alle sue ginocchia o presso alla tavola stavasi immergendo nelle nere pupillette della bambina una occhiata lunga amorosa e contenta che non pareva di ragazzo sì tenero. Allora tosto la Polonia saltava su a dargli dell'incantato, pestandogli anche a volte le mani, ma il Pierino per cib non si sbigottiva, e ritraendosi ora dietro una seggiola ed ora nel cantuccio del focolare seguitava a pur guardare la Tina, finché la riportavano nella sua cuna, e quindi scivolava fuori all'aria aperta come se il chiuso gli desse un grave affanno. Visse egli in questa maniera mutolo e tranquillo, fino ad un certo giorno, nel quale la mugnaia ebbe per certi suoi intrugli ad andare al mercato. Simone, poich'ebbe fermata la ruota del mulino, venne alla cucina col piccolo sordacchione sull'ora del pranzo; e lì udendo piangere al di sopra la Tina andò a toglierla da giacere, e vestitala alla peggio discese poi tenendosela in ispalla e ridacchiando con essa al vederla cosi male accomodata. Quella, vedete, fu una gran festa pel Pierino! e non più si pose a mirarla colla solita pace, ma ridendo e gridando e saltandole d'intorno dimostrava per mille modi la sua allegrezza, come il cagnuolo al ritorno del padrone. Simone che prendea gusto giocolando coi puttini, come è sempre stato degli uomini semplici e dabbene, aizzava il buffoncello, godendo anche fra sé di quella improvvisa vivezza; e la Tina, dapprima stupefatta a quel tumulto di strilli e di capriuole, finì col riderne come una vera pazza, drizzandosi sulle ginocchia del papà e pontando co' suoi piedini e dimenando le manine quasiché volesse correre e saltare anco lei. Allora Simone la posò dolcemente in terra, e standosi egli intento alle fanciullaggini del Pierino, ecco che senza volerlo gli si allentarono le braccia e la Tina scappò via per la stanza inciampando e traballando ad ogni passo, ma pur seguitando a ridere ed a correre dietro il bambinetto. Simone rimastosi alla prima tra la maraviglia e la paura, vedendo poi la bimba rinfrancarsi sulle gambe e camminare alla spedita come se nulla fosse, si compiacque assai di quella bravura

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e di vederla così addomesticarsi col Pierino; e questo poi le usava mille cerimonie, come fosse stato a scuola di galanteria. Tanto si consolò il mugnaio di un tale passatempo, che lasciò passare l'ora del pranzo e non s'accorse di un sl lungo svagamento finché il sole non si fu piegato al tramonto. Allora solamente versò nel piatto la pappa della bimba, e i fagiuoli spappolatisi anch'essi per la bollitura d'una mezza giornata; indi assestati i fanciulli uno qua e uno là dinanzi alla tavola, sedette egli frammezzo, aiutando ora questo ora quello, ridendo di questa sua trasformazione in balio, e ragionando con essi, come se la grossa cinquantina gli fosse sdrucciolata di dosso. Ma durante il desinare, mentre la Tina continuava con quel suo spiritino irrequieto e ridevole, il fanciullo all'incontro si facea scuro scuro e pareva quasi che il cucchiaio gli cadesse di mano; e alla fine poi lasciò a mezz~ la minestra, e le lagrimone gli venivano giù a quattro a quattro. - Cos'hai, figliuoletto mio? - gli domandò Simone tutto sospeso, mentre la Tina cessando dal picchiare la tavola colla scodella osservava ansiosamente il Pierino. - Vorrei sapere dov'è la mamma- rispose piagnucolando il fanciullo. - La mamma? ma non te l'ho detto che l'è ita al mercato? soggiunse il mugnaio. - Consolati via, piccino, ché non la starà molto a tornare, giacché veggo là il sole che casca a precipizio. - Ah gli è proprio oggi che deve tornare la mamma? - fece il Pierino battendo palma a palma e lasciando andare giù per le guance schiette come il suo cuore le sue ultime lagrime. - Sì, si, proprio oggi!- rispose Simone- e tu sei molto buono e ragionevole nel darti pensiero di lei, poiché si vede che sotto quella sua asprezza naturale hai conosciuto il bene che la ti vuole e le ne rendi altrettanto. Il Pierino rise di queste parole per verità senza comprenderle affatto, togliendole per una conferma delle sue lusinghe; e tosto la Tina vedendolo racconsolato si diede a stuzzicarlo dandogli sul naso il cucchiaio intinto nella pappa; ma il fanciullo non se l'ebbe a male e lasciolla fare godendo di quella allegria come un ometto di senno. E così poi si rimise ai fagiuoli, volgendosi verso l'uscio ad ogni più lieve rumore; e Simone gli diceva: - Volgiti in qua, birboncellol Non vedi che saporite frittelle ci ha ammannite la Polonia prima di andarsene? - Ma il Pierino inghiottiva le frit-

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telle come sopra pensiero, e ben si vedeva che l'anima sua era tutta nell'aspettazione della mamma, la quale, a quanto lo avevano assicurato, dovea tornare indi a poco. Ora mentre appunto la forchetta del mugnaio infilzava l'ultima frittella, il fanciullo udì scalpitar gente nel cortile, e così lasciandosi tantosto sdrucciolar dalla seggiola corse via col cuore ingroppato1 e colle braccia aperte; ma ebbe a restar di sasso il poverino, quando s'incontrò sulla soglia colla Polonia: e costei entrava tanto affrettata ch'egli n'andò rotoloni per terra. Si levò pertanto tutto costernato e si rimise a piangere in quiete e senza strillare, come è costume dei ragazzi in simili accidenti; e subito la Polonia, la quale pareva di pessimo umore, se gli fece addosso coi pugni dicendogli esser da ridere il vederlo così piangere per un nonnulla, e che già gli scempi son tutti d'un conio, e che avrebbe ella insegnato una volta o l'altra la virtù della pazienza. Simone s'avanzò allora ad intercedere pel fanciullo, e voltosi a questo senza badare agli occhiacci della moglie, gli chiese se per avventura s'avesse fatto male, che si lamentava a quel modo. - No, no, papà!- rispose il Pierino- non piango per alcun male, sibbene perché mamma mia non è peranco tornata. - Ma sì che 1' è tornata: non la vedi qui la tua mamma? rispose il mugnaio additando sua moglie. - Ah no che non l'è questa!- soggiunse fra i singhiozzi il fanciulletto. - Domando io di quella che mi faceva pregare vicino al suo letto, e mi parlava con amore, e quando era sereno mi conduceva seco nei prati a guardare le oche. - Oh quella, vedi, - disse allora Simone tutto intenerito quella non tornerà più qui fra noi, poiché il Signore la tolse con sé in paradiso; e, se sarai buono, una volta o l'altra salirai tu pure lassù a farle compagnia. Ma guarda che intanto avrai per mamma la mamma della Tina, la quale cercherà ogni tuo bene. Ma il Pierino non parve consolarsi in questi ragionari, e seguitava a starsi muto e lagrimoso, finché tutto ad un tratto volgendosi ingenuamente al mugnaio: - Oh perché, - gli domandò - il buon Signore non si è tolta quest'altra mamma in paradiso, lasciando a me quella di prima? - Ah sciagurato, birbone e insolente!- urlò la Polonia, la quale 1.

ingroppato: commosso, voce veneta.

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mentre puliva la bocca e il mento della Tina udi questa tirata del fanciullo. - Ah tu vorresti inviarmi al paradiso? •.. To' I to' frattanto I E in queste parole le ceffate balenavano e scoppiavano a dritta e a sinistra, Pierino strideva come un'aquila, la Tina gridava essa pure, come parte di quel castigo toccasse a lei, e Simone poi, fattosi sulla porta colla mano alla bocca, grattavasi i denti colla lingua per non dare in una risata. Però, non volendo veder troppo n1almenato il povero orfanello, s'intromise fra esso e la moglie, dicendole che a torto ricompensava ella così malamente quel fanciullo d'una gradevole improvvisata ch'esso aveale preparato, e che già d'una parola scappata innocentemente a una bocca, si può dire, di latte, non bisognava farsi carico, essendo anche naturale e dicevole l'amare più di ogni altra donna la propria madre. - Eh già ne veggo una delle improvvisate! - borbottò la Polonia. - Vi siete attardati col pranzo apposta per lasciar a me la bimba e tutte le stoviglie da ripulire; e guardate qui, come l'è bene acconciata la piccina, che tutto le casca e le va di traverso. - Taci là, almeno per oggi! - rispose Simone - che cosi male assestata la ti farà vedere miracoli l E ciò dicendo prese egli la fanciullina tra le braccia e calmatala un poco, comandò dolcemente al Pierino di porsi all'altro capo della stanza; indi curvatosi pose la bimba per terra, e additandole il fanciullo la lasciò andare; ed ella corse via sorridendo e dondolando che la tirava proprio i baci a vederla. - Oh angelo miol - gridò la Polonia con uno scoppio di tenerezza correndo sopra la Tina per recarsela tra le braccia; e si pose a careggiarla a baciuzzarla e a lodarla che non le restava anima da attendere ad altro. Però tornata un poco in sé da quel rapimento d'affetto materno, e saputo del merito che aveva il Pierino in quelle prodezze della bimba, se lo fece venire appresso, e fattagli gravemente una predica sui beneficii da essa ricevuti, lo baciò in fronte dicendo come fra sé: - Si direbbe che oggi non l'è tanto brutto né affatto stupido, questo ragazzo. Guardate come l'ha viso di tutto intendere con quel suo grugno ammuffito e quegli occhiacci di carbonel - Si farà bello e robusto più di quanti ce ne siano nei dintorni; - rispose il mugnaio - e savio come un oracolo e dabbene al pari d'un colombo, purché trovi intorno a sé dolcezza e compas-

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sione. Ma ora, Polonia, - aggiunse egli cambiando tenore di voce - ora spero che svezzerete dal latte la bimba! In verità l'è sui diciotto mesi e non ci starebbe veder alla poppa una personcina che corre e salta come un capretto, e mastica senza fatica la crosta del paiuolol - Sì, sii- rispose la Polonia tutta seria e impettita- benché, a dirvi la verità, mi facciate da ridere con questi scrupoli per la mia salute. E ne volete la prova? Ecco che io allattando una bambina di diciotto mesi mi ingrasso come una pollanca1 di stia, e voi, povero squartato, date l'idea di reggervi sulle gambe per miracolo, tanto le sono magre sfilate! Insomma fra questi motteggi la giornata terminb bene; ed essendosi permesso al Pierino di dar un bacio alla Tina prima di coricarsi, i bambini si addormentarono ambedue col sorriso sulle labbra. Ma il miglior prodigio si fu, che anche la Polonia s'addormentasse in quella sera senza rampognare il marito.

IV

Pertanto la Provvidenza non mise un termine alle sue larghezze verso i mugnai col dono di quella cara bambinella; e abbenché non li regalasse in seguito d'altri simili presenti, pure li benediceva col soffiare il buon vento nei loro negozi, onde l'abbondanza d'ogni ben di Dio dimorava con essi. Né il Pierino contrastava per nulla a tante e sì propizie fortune, crescendo egli alle prime così svegliatino e dabbene, da non potersi desiderare di meglio. E certo Simone potea vantarsi d'essere stato il migliore degli strologhi,2 quando alla moglie avea predetto in quel zingarello un valevole aiuto nelle operazioni casalinghe, poiché l'era così sperto ed attento che le sue piccole mani sapean fare di tutto. Per verità non aveva egli attenuto ancora la promessa di quella famosa fritturetta di giavedoni, ma ben sapeva accogliere e accatastare le legna, e disporle all'uopo sul focolare; e annaffiare e corre l'insalata, e scendere e salire le scale, e correre in un batter d'occhio dalla cucina alla soffitta, dalla stalla alla cucina, dalla soffitta all'orto, portando come gli era comandato il gomitolo del lino, il paiuolo, le forbici, la pala e lo staio. Eppur tutta questa sua valentia non era che l'ombra 1.

pollanca: tacchina.

2.

strologo: astrologo, mago, indovino.

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d'un'altra perizia, ch'egli aveva quasi innata, nel fare da mamma: infatti la Polonia, dopo accolto in casa quell'orfanello, non serbava a sé che la parte soave d'un tal ministero, scaricandosi assai volentieri del rimanente sulle spalle del Pierino; e costui, grave e composto, come un prete, vegliava la bimba nei sonni meridiani, e sovente portavala in braccio qua e là per acchetarla, e poi le andava cantando la nanna, a tutto mostrandosi così pronto ad amorevole, che più non lo sarebbe stato pei suoi pulcini uno di quei capponi accomodati per chiocce dalle castalde. Se il mugnaio si dilettasse di quella infantile benevolenza, non è nemmeno da dirsi; ed anzi cercava di saldarla viemaggiormente dicendo al fanciullo che quella era la sua sorellina alla quale un buon fratello dovea dare prima di tutti cura e creanza; e soprammodo godevasi delle carezze che la piccinina faceva al suo balietto, augurandosi da quelle prime sementi un buon frutto di concordia per l'avvenire. Ma la Polonia all'incontro non s'era per nulla ammorbidita nelle maniere verso il fanciullo per l'ottima riuscita di esso; e la veniva dicendo che con quell'algebra uno ne avea allevato ed altri sette mandatine in paradiso, e che ornai non la si trovava più in età da cambiar i denti o le pratiche, e che già coi maschi bisognava mostrarsi piuttosto duri e protervi per non vederli imbaldanzire alla lor volta. Così cantava la furba, onde non la rampognassero poi di troppa condiscendenza ai grilletti della Tina, la quale, poiché seppe reggersi in sulle gambe, divenne addirittura padrona della madre, di Simone e di tutto il mulino. Tuttavia la petulante tirannella non usava sempre a male di quella eccessiva signoria; e se da una parte facea sprecar qualche soldo in ninnoli e in zuccherini, o se imbandiva la pannata alla micia, e l'orzo bollito ai pollastrelli per rimpinzarsi d'ova fresche e di pannocchie brustolite, dall'altra poi difendeva la giustizia e la carità strillando a perdifiato ogniqualvolta un poverello se n'andasse senza il solito pugno di farina, e proteggendo valorosamente il Pierino contro l'acerbezza materna, della quale anche lo compensava col metterlo a parte delle fortunate ruberie. Tanto crebbe di giorno in giorno questo buon accordo dei ragazzi, che la Polonia, non trovando più dritto nelle cose del pollaio, avea preso per intercalare una certa vibrata maledizione alla sterilità delle galline. E quando Simone la ammoniva di badar meglio ai due furfantelli, lasciando in pace le pollastre, ella tosto rispondeva che

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delle ova quei poverini non conoscevano pur il colore, e che mai non ne avea messo sulle bragie uno per loro, né essi s'attentavano di ciò fare senza il suo consenso; ma non volea sapere l'accorta massaia che i due ghiottoncelli trovavano il loro conto a sorbirli crudi e freschi, come si dice che sieno più salutari; e così, buttati i gusci nel canto del letamaio, essi rientravano in cucina leccandosi mutamente le labbra. Quando poi le venne trovato un bel mucchio di cotali gusci, e il vestito dei fanciulli macchiato di giallo, allora sì, non potendo incolpare la luna, il martoro o la volpe, le convenne proprio montare in collera; e senza fare né ben né male, benché il più imbrodolato fosse l'abito della Tina, cominciò ella a sonare a doppio colle orecchie del Pierino; e costui gridava come un dannato, e la Tina piangeva essa pure tirando la mamma per le gonne e battendola colle sue manine acciocché la si rimanesse da quella punizione; come infatti si rimase, poiché se le ova le erano care assai, cionnonostante ne avrebbe sgusciate centomila nel pozzo per risparmiare una stiracchiatura al bel bocchino della bimba. Così principiò il Pierino a prendere dalla sorellina una perfetta scuola di mariuoleria; e questa, giovandosi della propria impunità, lo induceva sempre a mal fare, ora trattenendolo in discorsi e in sollazzi, quando l'era al pascolo colle oche, ed ora lusingandolo con qualche ghiottornia se lo trovava di guardia presso la bica del grano. Ché se capitando la Polonia o Simone trovavano sparpagliate le oche per le vigne del vicinato, o i colombi alla pastura sulla biada degli avventori, allora ricominciavano i pianti, i castighi, le disperazioni; dopo le quali si tornava come se nulla fosse alle scappatelle di prima. Peraltro se la Tina di tali misfatti era causa principale, ne toccava un tantino di merito anche al fanciullo, il quale, maggiore di età e di criterio, pur era così arrendevole a quella sua compagna per una sola parola, quanto non sarebbe stato a chicchessia per la promessa d'una fornata di ciambelle. Ad ogni modo, fosse per troppa bontà di cuore o per altro, il fatto sta che fratello e sorella di nome, lo erano poi di fatto e nel vicendevole amore e nella più squisita malizia. Una tal abitudine, di impero da una parte, di soggezione dall'altra, e di birboneria da tutte e due, insaldata in loro dall'indulgenza della Polonia, non venne punto a mutarsi quando Simone cominciò a trattenere il fanciullo nel mulino; poiché la ragazzina eragli tosto dietro a impedirgli l'apprendimento del mestiero col suo cicalio, e sovente svagandolo, per modo che

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il mugnaio alla fine perduta ogni pazienza strepitava contro essi in un tono più alto del fracasso della macina. Ma appena la Polonia standosi in casa udiva un guaio della figliuoletta, ecco eh' ella accorreva a prenderne le difese, e così fra tante sottane anche il Pierino era giunto a conquistare il suo diritto d'asilo. Che se il valentuomo osava ribellarsi all'intromissione della moglie, subito costei tempestava che non c'era né testa né cuore a tener due fanciulli Il presso alle ruote, dove un passo arrischiato o qualunque più lieve e facile accidente poteva storpiarli, o, Dio no 'I volesse, stritolarli come due esili moscherini; e ciò detto e presili per mano, se li traeva fuori ambi due, né correva un minuto eh, essi erano ai loro giuochi in riva del Vanno coll'imminente pericolo d'affogare ad ogni istante per lo sdrucciolo d'un piede; ma allora non pensavano essi a piangere ed a strillare, onde non visti da nessuno continuavano nei loro piaceri, tanto più lieti e saporiti quanto più perigliosi e vietati. Di sguazzar nel rio immollandosi fino alle midolle, lasciar a lembi il vestito o nelle siepaie o fra i rami degli alberi più alti, sedere chiacchierando e spassandosi sopra sponde tutte corrose dall'acqua, saltare da sasso a sasso come ranocchi nel bel mezzo della fiumana o valicarla camminando a ritroso dove il guado era men dolce, tali erano i loro diletti; e parrà cosa incredibile, ma perfino nell'arrampicarsi sulle piante a caccia di nidi, la Tina era maestra e incitatrice del Pierino; e ad essa poi, quando fossero tornati in casa, stava lo scusarsi mirabilmente delle vesti molli o stracciate con mille bugie le più diverse e verosimili, pescate in quel sacco dove il diavolo dee per fermo tenere le gemme dei peccati. Alla fine il mugnaio, che vedea di mal occhio un tal andamento, come nocivo per tutti i versi, determinò di porvi riparo coll'intuonare l'antifona della scuola, dacché appunto allora il fanciulletto toccava i nove anni; ma la Polonia non udiva da quell'orecchia, e ci vollero due buoni mesi perché ella consentisse ad affliggere la sua piccinina col toglierle per tre ore del giorno la compagnia del Pierino. Immaginatevi poi se questi non fece il diavolo quando per tale effetto lo si condusse a Camino la prima voltai E i pugni ricevuti da Simone per tutta la strada, e i morsi toccati al maestro quando gli porse la mano a baciare dimostrarono con qual paziente animo portasse egli questa sua disavventura. Perb fu universale maraviglia che un ragazzo cosi sfrenato e caparbio imparasse colla massima prestezza; e i suoi rapidi progressi ebbero in verità del

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prodigio; ma nessuno fu cosi sottile da avvisarne la causa, e questa pure si riferiva alla Tina e al dispiacere di esserne diviso, poiché egli spronava la mente ad imparare, e affrettavasi ad apprender le lezioni e adempir la pagina di aste, di parole e di cifre, appunto per aver poi agio di scappar via il primo, e raggiungerla, correndo, a mezza la via, dov'ella lo aspettava appiattata in un qualche buco, e non già vispa ed allegra come di consueto, ma veramente stizzosa e melanconica. Sennonché, appena da lunge si affiguravano, subito era un salutarsi scambievole e un picchiare di palma contro palma, e un corrersi incontro colle braccia aperte. Indi tenendosi per mano, e confidandosi le faccenduole della mattina e i loro intrighi fanciulleschi, riprendevano la via del mulino; e lo scolaro andava innanzi più composto colla bisaccia dei libri ad armacollo, mentre la fanciulletta gli caracollava al fianco come una puledra dopo aver vinto il premio della corsa.

V

Quei ragazzi, cresciuti a quel modo, vennero a foggiarsi sopra uno stampo così singolare che per tutte quelle campagne non se ne sarebbe trovato uno di simile. E i contadini che sovente passavano per di là e sempre li vedevano o fra le giuncaie o tra i rami dei salici o dietro le siepi, avean finito col nominarli la Favitta e lo Sgricciolo, i quali sono per l'appunto due uccelletti saltinfrasca che sembrano beffarsi di chi li insegue lasciandosi quasi toccare e poi sfuggendo e cinguettando via tutti vispi e saltellanti per entro a' roveti o a' cespugli. Il Pierino per verità, per essere di fondo semplice e mansueto, non avea trovato nulla di spiacevole in questo nome di regalo; ma in quanto alla Tina, non la si volle mostrare così arrendevole, e convenendo con lui che quella similitudine s'appropriava a loro per ogni verso, lo persuase cionnullostante a giovarsene valorosamente per trarre vendetta dell'altrui mala intenzione. Quella testolina di fanciulla covava, come ben si vede, l'eroica ambizione d'essere piuttosto la prima a Glaunico che la seconda a Roma, perciò non la consentiva così di leggieri che altri se la mettesse sotto i piedi; e burliera come il folletto e linguacciuta come un campanello di sacristia, non le mancavano certo armi colle quali difendersi. Infatti cominciò ella coll'aiuto dello Sgric60

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ciolo una accanita guerra di rappresaglia, investendo i passeggieri d'ogni lato con satire e con motteggi; né v'avea maniera di scamparla, così fitta era la gragnuola, né almeno si poteva sfilare alla muta, poiché i due ragazzi s'accampavano sempre sulla via, o nei colti circostanti, e siccome in quei siti la terra è spelata come una buona vecchia, così essi pei trafori della macchia o fra i radi arboscelli distinguevano dalla lunga ogni viandante e incontanente erangli addosso con un micidiale saettarne di spropositi. Alle prime volte pertanto vi fu chi torse il naso a questi brutti tiri; ma i bricconcelli stavano bene all'erta; e appena vedessero un cotale guardarli di sbieco e sbassarsi come per deporre il sacco o la gerla, tosto davanla a gambe per le bassure più rotte e paludose; e di là rinnovavano i fischi e le beffe. Così la gente s'addomesticb a poco a poco con essi, togliendoli in santa pace come si piglia la tosse quando Dio ce la manda; e la Favitta e lo Sgricciolo gonfi di questi titoli come d'altrettanti trofei, non rispondevano ornai più a chi li chiamasse pei loro nomi cristiani. Così alle spalle di chi passava godevano essi il mattino; e la Favitta poi, mentre il suo maggiordomo era alla scuola, anziché tacere o intimidirsi rincarava sulle solite birbonate, per essere allora piucchemai permalosa e scontenta. Ma il dopo pranzo, quando già le strade camperecce rimanevano affatto deserte, aveva tregua quel loro spirito guerresco: e in onta alle gridate di Simone e alle raccomandazioni della Polonia, dove correvano mo i due serpentelli? Proprio sulle rive di quell'incantevole Vanno, dove spassi più innocenti se non meno irrequieti, ed altri mille giochi li svagavano per le mezze giornate. Aveano poi trovato tra il ponticello e il mulino un certo chiuso recesso del quale si piacevano oltremodo, e benché la fisonomia di quel territorio sia per tutto pace e semplicità, pure quel sito spirava la medesima semplicità e l'egual pace a mille doppi, e l'era, si può dire, come l'occhio nella faccia umana dal quale l' espressione si parte più viva che dalla bocca, dalla fronte e dal naso. Ora il frequente soffermarsi dei fanciulli in quella parte da essi cognominata per eccellenza il bel luogo, dove la calma naturale parca quasi contemperare il chiasso e il tumulto dei sollazzi fanciulleschi, oltreché far fede in essi d'un certo senso poetico vietato alle menti volgari, dava anche a divedere che in onta al suo continuo guizzo ttanima loro aspirava per qualche riposto forellino alla serenità ed alla quiete. Là infatti queste due matronali

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bellezze della natura parlano cosl scovertamente e in pari tempo con tante varietà di modi, che ognuno ne resta involontariamente compreso; e la voce anche dei ruvidi assume un'insolita rotondità, e il gesto non osa trasmodare per impazienza o per bile, e fino i pensieri si riposano entro se stessi, come le onde nel mare rabbonacciato. Pure se il linguaggio è così aperto, non lo sono per nulla i segni di esso; anzi l'idea di quel vago spettacolo sgorga e si compone da sì secrete origini, che bisogna contemplarlo con sincera religione per esserne alcun poco chiariti; imperocché ben si potrebbe dire che in esso, come in leggiadra donna addormentata e sognante d'amore, la vita è tutta interna ed ombrata. L'acqua prima di tutto, che più su del ponte scorre gorgogliante e trarotta, ne sbuca fuori piana e silenziosa, qual penitente toltosi appena dal confessionale; e cosl si stende Il presso in un laghetto terso e tranquillo, dove le tinchioline passeggiano volubili e mute, e l'occhio potrebbe inseguirle sotto il natante padiglione delle ninfee. I giunchi e le vermene si cullano pure tacitamente al lieve spirare dell'aura, quasi per mostrarsi contenti della lor umile sorte; e tutto all'intorno si stende sovr'essi l'ombra fraterna dei salici dalla quale si leva più alto né superbo né invidiato un qualche pioppo ci pressino; e i colori composti per ogni cosa ad una queta armonia sembrano dire: « Altrove dilettiamo, spiccando in fieri contrasti, qui invece compiacendo a noi stessi d'un concorde riposo, beatifichiamo qualunque sappia comprenderci». Tanto dicono gli aspetti di quaggiù; in riguardo poi a quel cielo che tutto copre e rabbella, acque, salceti, rivoli e colori del suo azzurro benedetto, ognuno potrà immaginarsi come favelli esso al cuore, ma nessuno descriverlo. Pur di ciò vi assicuro, ch'egli non oserebbe guardare arcigno e turbato a quella modesta solitudine, e che anche tra i cavalloni nuvolosi della state e le nebbie del dicembre egli le consacra un'occhiata benigna. E questo in particolare dovete passarlo buono alla mia fantasia; poiché non avendo mai visitati quei siti sotto la pioggia e la gragnuola, faccio e dico a nome del cielo, quanto farei e direi se il cielo io mi fossi. Il che, mi sembra, è parlare in riga della più sublime carità evangelica. In quei limpidi e romiti lavacri si tramutavano dunque ogni dopo pranzo i due fanciulli di animali volatili in acquaioli, sentendo nel cuore verginello l'incanto di quel romitaggio, meglio ch'io e voi non lo potremo notomizzare colla penna. E se il mattino la

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Favitta e lo Sgricciolo saltavano solchi e fossati, bucavano serraglie1 e montavano alberi, la sera all'incontro da veri granchiolini guazzavano nell'acqua tuffandovi entro i loro braccetti, e giocolando fra loro e col Varmo, come tre ottimi amici cresciuti sempre insieme. Né v'era guado che non conoscessero, né fondo dove non avessero pescato coi piedi e colle mani, né ceppaia di vinco su cui non fossero saliti, né spanna di riva sulla quale non si fossero seduti colle gambe penzolone, specchiandosi nel laghetto purissimo e raddoppiando di brio e di contentezza, come se per l'appunto quei due personaggi a capo all'ingiù fossero sopravvenuti a ravvivare la compagnia. Il loro gioco era alle volte di graffiar nel sabbione alcuni rigagni pei quali l'acqua penetrava entro terra; o di là come da serbatoio la diramavano per certi ripianetti figurati essere o prati od ortaglie. E talora, diviso con sassi un piccolo filo della corrente ove la era meno lenta, vi costruivano alla spiccia un molinello di canne; e la sabbia tenendo le veci di grano e di farina, sovente contendevano in riguardo all'asino che dovea recar quello e riportarne questa; ma a cotale ufficio, pur troppo non molto lusinghiero, si adattava alla fine con doloroso eroismo di galanteria il povero Sgricciolo; mentre la Favitta, cambiata di mugnaio in avventore, parava innanzi il somarello percotendolo scherzosamente con una vermena; e questo sovente ricalcitrava, rovesciando il sacco, senza rispetto alla verità di natura e alla retta osservazione di Esopo, le quali si accordano in simboleggiare la virtù della pazienza colle pendenti orecchie del ciuco. Tuttavia codesti erano scherzi, e ben s'intende che, ridotti al serio, in ogni e qualunque occasione lo Sgricciolo tornava il perfetto asino, e la Favitta la vera padrona. Anco il fabbricar barchette con istecchi e frasconi, e lo spingerle nel rio dopo avervi imprigionata una infelice cavalletta, era un lor consueto passatempo. Ma poi quando il lieve naviglio si sommergeva, facevano a gara nel salvare quella vittima innocente: e usavano ricompensarla carezzandola amichevolmente e deponendola Il presso in qualche fresca pastura ove smaltisse lo spavento e il raffreddore. Cosi pure nell'accalappiar gamberi trovavano un diletto sommo, ma per disgrazia troppo raro; essendoché i pescatori più adulti rubavano loro il mestiere nelle cacce notturne. 1.

snraglie: steccati.

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Però lo spasso che sopra ogni altro li teneva piacevolmente occupati si era quello di far passarini; 1 e pur troppo s'io vi dicessi che ciò significa fare a rimbalzello, o con impeto orizzontale di braccio persuadere le schegge di selce ai più bizzarri sbalzi e scivoletti sull'acqua, torrei ogni vaghezza alla schietta frase paesana. Cionnonpertanto ho voluto spiegarmi per quegli sventurati che non si deliziarono mai d'un sì poetico trastullo; e in quanto ai dotti del mestiero, li scongiuro di far fede agli altri, come il mirare quei ciottoletti ballerini lambir prima il sommo del ruscello, indi quasi pentiti o ritrosi volare nell'alto, e poi come spiritelli innamorati tornare a un secondo e più lungo bacio, e finir da ultimo rotolandosi carezzevolmente su quel liquido strato, quasiché il solchetto segnatovi fosse, come pare, di saldo argento; come, dico, il mirar tuttociò componga il più innocente e caro de' sollazzi. Né manca la varietà, sorgente principalissima di piacere, poiché una di quelle alate piastrelle si slancia a grandi valichi, e poi si tuffa a capofitto, e lo spruzzo ne zampilla in alto come pennacchio cristallino; un'altra guizza via lievemente accompagnata da un fruscio quasi di seta gualcita, finché la muore senza accorgersene; e una terza dopo una rischiosa sdrucciolata spicca un gran salto e si salva dal naufragio sull'una delle rive, dove trascorre un poco picchierellando per allegria i fratelli sassolini; e un'altra ancora, dopo corso buon tratto dritto come una freccia, si torce voltolandosi leggiadramente, e pare proprio che la si affondi ballando la schiava ;2 cosicché il fortunato operatore di tali meraviglie non si starebbe mai dallo scerre nuove piastrelle, e far nuovi passarini e tornare e ritornare a questo giuoco, finché la ghiaia, ciottolo per ciottolo, non avesse colmato l'alveo della fiumana. Sgraziatamente delle ventiquattr'ore della giornata molte ne possiede la notte; e costei, togliendogli a poco a poco la vista di quei facili portenti, lo rimena a casa molle di nobili sudori, e pieno il capo di filosofiche considerazioni. Questo avvenne le cento fiate a me; e siccome io non mi credo poi quel mostro tanto singolare, cosi spero che l'ugual cosa sia a molti altri avvenuta, e se non è, io auguro ben di cuore che la J. / ar passarini: espressione veneta e friulana e fl i passarins •· Passan11, passerino, è un pesce piatto. Si sa che il Nievo era molto bravo a/ar passarini. 2. Antica danza friulana (sclàv~) probabilmente d'origine slava, aul tipo della mazurka.

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avvenga a quanti uomini tengono in mano un fiore di virtù, come svagamento delle fatiche loro e premio delle meritevoli operazioni. Certo chi ride di ciò ha il gran torto, poiché se eroi Greci e Romani si spassarono scodando cani e cavalcando bastoni,1 possono bene i babbioncelli moderni serbare il proprio decoro facendo anco un centinaio di passarini al giorno; tanto più che, fatta la cerna de' miei piaceri per tutta la vita, io credo che affatto scevro di fastidii e di pentimenti io non ne troverò un secondo, oltre questo d'aver lanciato passarini sul Varmo ed altrove. Almeno io son certo che la Favitta e lo Sgricciolo s'accostavano nel loro sentimento alla mia opinione; e prova ne sia che per darsi a tale esercizio sfidavano essi le ramanzine del papà, i brontolamenti della mamma, le vergate del maestro, e l'ira dei bifolchi, i quali davan lor dietro collo stimolo, quando un sassetto o innocente o malizioso giungeva a spruzzarli mentre essi zufolavano al buon bere dell'armento. Che se sembrasse a prima giunta un tale spasso essere proprio dei giovanetti e non delle fanciulle, direi anzitutto che la Favitta non era altrimenti una bambina, sibbene un ma-schietto in gonnelle; indi potrei anco rispondere colla storia, colla filosofia e con tutti i diavoli alla mano, essersi fatto il partaggio tra l'uomo e la donna per modo che la forza al primo e la grazia s'appartenesse alla seconda; senzaché alcuno dei due restasse escluso dal poter tentare le stesse cose con mezzi diversi. Infatti i passarini dello Sgricciolo lunghi, violenti, temerari, si disegnavano sull'acqua e per l'aria, a baleni, come il guizzo del lampo; quelli all'incontro della Favitta trottolavano via pettegoli curveggianti graziosetti; e la striscia, lucente di stille, prodotta dal loro scivolio, assomigliavasi a quella lasciata pel cielo dalle stelle cadenti. E ciò basti in quanto al panegirico dei passar,·,,;.

Plutarco nella vita di Alcibiade racconta che il grande Ateniese comperò un giorno un grandissimo cane, gli tagliò la coda e lo lasciò scappare per la città: così tutta la gente commentò sfavorevolmente lo strano fatto ma smise di calunniare su cose peggiori Alcibiade. Valerio Massimo, lo scrittore latino autore dei famosi Factorum et dictorum memorabilium libri, narra che Socrate non arrossì quando Alcibiade lo derise per averlo sorpreso a giocare con i figlioli a cavalluccio d'una canna: • Socrates, cui nulla pars sapientiae obscura fuit, non erubuit tunc, cum interposita arundine cruribus suis, cum parvolis filiolis ludens ab Alcibiade risus est». A questi due testi evidentemente il Nievo si riferisce. 1.

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VI

Or dunque appunto per un bel giorno d'agosto i due giovincelli stavano nel bel luogo, cosi contenti di sé e di tutto, che il Signore guardandoli sarebbesi compiaciuto dell'opera propria; ed era in sua podestà sconfiggere con quel solo esempio le lunatiche teorie dei cattivi profeti. Infatti non istà per nulla l'accusare de' proprii malanni, assai delle volte deliberatamente cercati, tale che con quattro ciottoli sa edificare su un bacinetto d'acqua la felicità di due creaturine ragionevoli; e se tale felicità smonta rapidamente come la doratura del tramonto, anco non è da scandalizzarsene; imperocché seminati dall'alto come soverscio 1 alle venture generazioni, noi dobbiamo ringraziare la Provvidenza quando alcun poco di bene s'intromette furtivamente fra la fatica e il dolore, i quali meglio e più a lungo fruttificano in sapienza e in virtù. Pertanto la Favitta e lo Sgricciolo se la spassavano lietamente, senza forarsi il cervello con quegli spilli velenosi dal capolino lucente che per nostra alterigia ebbero nome di pensieri: e di fatti aveano essi trovato il bandolo di menare la vita in allegria, senza darsene cura. I fanciulletti poi hanno questo potere nelle loro feste, che quanto li circonda sembra prendervi parte; e cosi anche allora le cinciallegre, i piombini e le cutrettole venivano a trastullarsi nei loro trastulli con cento strambe volatine, e con un vivace cinguettio fra i giunchi e gli ontani. Questa compagnia tolleravano essi d'assai buon animo; ma così non fu quando videro due occhietti vispi e puntuti trasforare una siepe li presso; e i due garzonetti si diedero a correre a quella parte col braccio areato e un bel sasso in mano, il quale null'altro aspettava che un piccolo cenno di mala volontà per punire quell'importuno. Ma quegli occhietti perciò non mossero palpebra; anzi di lì a poco dalla medesima siepe sbucarono due braccia, e poi due gambe con tutto il resto, e un bel contadinello con un paniere in mano s'avanzò verso loro con viso ilare ed aperto. I due selvatichetti avvezzi a mettere in rotta con una vociata amici e nemici, rimasero sbaiti3 1. sooerscio o sooescio si dicono le biade che non danno spiga, le quali seminate e cresciute vengono sotterrate per ingrassare il terreno. 2. sbaiti: stupefatti, dal francese ébahi.

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per tanta confidenza; e prima la Favitta si fece incontro allo sconosciuto gridandogli: - Ohe, ohe, bel pasciutello: a che ci venite qui col vostro paniere? Volete coglier acqua o sassate, bel ninnolino? ... Quel ragazzo, che d'alcun poco mostravasi minore dello Sgricciolo, parve maravigliato, ma non offeso di quella mala creanza, e stette sui due piedi ammiccando a mo' di chi vuole ma non pub intendere. - Sì, si, parlo con voi!- riprese la fanciulla. - Non è vero, Sgricciolo, che se più tarda, la laveremo in Varmo quella faccia tosta? - Non mi laverete in Vanno, perdiana!- sclamb il forestiero, ponendo chetamente a terra il paniere e sedendo appresso colle mani incrocicchiate davanti ai ginocchi. - Qui mi era fermato per prender piacere dalla vista dei vostri piaceri, e giacché lo volete, vi starb ora a godermi del vostro dispetto. - Ah vuol farci dispetto colui!- urlb la Favitta. - N'è vero, Sgricciolo, che lo porterà a casa lui il dispetto? - Sgricciolo o fringuello, io non mi movo - soggiunse l'altro con uno sghigno. - To' dunque!- gridb la Favitta dirizzandogli una sassata, la quale lo incolse nel gomito e gli fece fare una boccaccia delle più buffe. - Ah cosi tu la intendi? - diss' egli, levandosi da sedere. - Sì, si, cosi l'intendiamo, e che tu te ne vada se non vuoi buscare di peggio - rispose lo Sgricciolo per non mostrarsi dammeno della fanciulla. - Or bene, avanzate, se vi dà il cuorel- rimbeccb l'altro. - Sicuro che ci dà il cuore! - rispose la Favitta traendo per mano il compagno. - Ah siete quil Ben venuti! - diceva quegli, attendendoli di piè fermo. E come li vide a portata, con uno sgambetto li mandò rotoloni ambidue. - Ah, ahi ecco il dispetto ch'io mi porto a casa I Eccoli coloro che dovcano lavarmi il muso I - Sì, sl, siamo noi quelli, e te la faremo vederei- gridava furiosamente lo Sgricciolo correndo questa volta alla riscossa prima della sua alleata, la quale nel cadere crasi impigliata nella balza d,un sottanino. I due fanciulli s'accapigliarono da veri demonietti; ma mentre

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lo Sgricciolo tutto inteso a percuotere la dava dentro alla cieca, l'altro, standosi sulle difese e da furbo destreggiando, lo menò garbatamente a un palmo dalla riva, e Il urtatolo all'improvviso lo cacciò nell'acqua fino alla cintola. - Ed ora son con tel- aggiunse tranquillamente, volgendosi alla Favitta ch'era accorsa in aiuto al compagno. Allora cominciò una nuova battagliuola, che a dipingerla non basterebbero venti ottave dell'Ariosto; e i colpi e le parate, e le offese e gli inganni, e le finte e le coperte s'avvicendavano come in cavalleresco torneamento; ma se la forza era maggiore dal lato del ragazzo, la Favitta s'aveva in corpo quanta furberia e malizia possono capire in una femmina, onde a lungo stette in bilico la fortuna. Finalmente al tornar dello Sgricciolo in campo, il garzoncello, sia che desse il bando alla misericordia, sia che più prode diventasse per lo stringere della necessità, giunse ad abbrancare l'avversaria sotto le ascelle, e levatala in alto, la lanciò di traverso con tanto impeto, ch'ella andonne stesa bocconi sulla ghiaia, come un cencio posto là ad asciugare. Lo Sgricciolo, vedendole sprizzar il sangue dalle ~arici, dimenticò tosto ogni rancore per correrle appresso; genuflesso e curvato sopra lei la veniva chiamando; e poiché la fanciulla né rispondeva né dava altro segno di vita, si diede a strillare disperatamente credendola morta. Il vincitore s'accostò allora alla piccina, e dando sulla voce allo Sgricciolo per quelle sue urlate: - Che? - gli disse - sei cosi balogio1 da non t'accorgere che con due spruzzi costei è più viva e pestifera di prima? Infatti egli stesso appressatosi al Varmo, e fatto del cappello scodella, spruzzolò d'acqua il viso della morta; e questa aperse gli occhi e glieli cacciò dolci come quelli d'un basilisco; ma di peggio fare non poteva, perché la stanchezza dello svenimento la impediva dal rizzarsi. - Hai veduto, Sgricciolo ?- disse allontanandosi quella buona lana di medico. - Ed imparate voi augellini di macchia a stuzzicare il falchetto I In queste parole, raccolto il cestello, scavalcò la siepe donde era venuto; e la Favitta e lo Sgricciolo restarono accosciati sulla ghiaia in tal atto di muta e vergognosa costernazione, che uno scultore ne avrebbe ritratto un buon modelletto pel gruppo della Scon1.

balogio : balorda.

IPPOLITO NIEVO 954 fitta. Né per tutta quella giornata andb loro scemando la melanconia; anzi di chiusa e silenziosa che la era dapprincipio, si veniva sempre più facendo proterva e battagliera: e da ultimo corse fra loro un qualche pugno, il che non era mai avvenuto per lo addietro. Come potete credere, chi lo si mise pazientemente in tasca fu lo Sgricciolo; ma questo non tolse che un pocolino di fiele non gli si formasse sul cuore per l'ingiustizia della compagna la quale gli serbava astio per una comune sventura. E questo era vero pur troppo, giacché a lei pareva essere sprecata la benevolenza verso di un tale che non sapea difenderla contro all'altrui baldanza; e in ciò ella stimava consistere il più grave dei difetti, poiché avvezza sempre a spadroneggiare, non potea patire suggezione di sorta. Da sì lieve causa germogliarono, come sempre, grandissimi effetti: e prima Simone vedendo il ragazzo ogni dì più raccostarsi a lui per l'asprezza della compagna e la rinata cattiveria della Polonia, finì col toglierselo addirittura nel mulino: e lì esso, benché giovinetto, cominciò ad imparare come il lavoro sia la medicina, o l'obblio che dir si voglia, dei maggiori affanni. Tanto attese alle operazioni e agli insegnamenti del mugnaio, che questi dopo un mese tralasciò affatto di allogar a giornata un garzone, fidandosi interamente in lui come già pratico e avveduto nel mestiere. Frattanto il brulichio interno della Favitta non potendo più svamparsi nelle continue chiassate col compagno, la rodeva di dentro; e la triste e incresciosa solitudine nella quale rimase, le fu degno castigo dell'essersi già prima inimicata colla ragazzaglia del paesello. Troppo superbetta tuttavia per scendere ad una riconciliazione con chicchessia, menava ella le sue giornate lunghe e melanconiche sulle rive del Varmo, ora guardando gran pezza nel suo limpido grembo, ora meditando nuove maniere da martirizzare lo Sgricciolo nel tempo della cena, ed ora cercando uno sfogo alla bile col tormentare barbaramente quanti grilli e ranocchi le venisse fatto di acchiappare. Cosi continuava l'augellina a sbattere le sue alette sotto quelle ombre amiche, ma nessun compagno veniva giù di fronda in fronda, come dice il Vittorelli, 1 per conso1. Il Nievo qui si riferisce ad una delle più note fra le Anacreontiche ad Irene di Iacopo Vittorelli bassanese (1749-1835), quella che inizia: Guarda che bianca luna. (« L'usignoletto solo Va da la siepe a l'orno E sospirando intorno Chiama la sua fedel. Ella che il sente appena, Già vien di fronda in fronda, E par che gli risponda: - Non piangere, son qui.•)

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larla. Più volte in quelle sue meste passeggiate le accadde di incontrare o di spiar tra la macchia il vincitore, · il quale n'andava via lungo il sentiero col solito paniere; e dapprima cercava sfuggirlo, ma poi s'attentò d'aspettarlo di piè fermo, ed egli parimenti tirava innanzi salutandola con bel garbo e senz'ombra di scherno. Tanta generosità, rara assai nei fanciulli paesani i quali sogliono essere ostinati nell'ira e beffeggiatori, le mosse dentro un desiderio di conoscerlo più davvicino e di sapere chi egli era. Un giorno finalmente gettò la pezzuola nel fosso, e fingendo averla a caso perduta, come vide passare il giovinetto, lo pregò pulitamente d'aiutarla a ritrarnela: e così s'intavolò una chiacchierata, dalla quale seppe ch'egli era nipote del vecchio mugnaio di Gradiscutta per parte del suo primogenito, e che due volte la settimana veniva per le provviste a Camino. Ai ragazzi poco ci vuole per entrare in dimestichezza, sicché il Giorgietto prese a poco a poco il posto dello Sgricciolo; soltanto, per esser egli d'animo fermo e diritto, anziché lasciarsi soggiogare, piegava a modo suo la Favitta; e sebbene a costei sembrasse poca cosa il vedersi ad ogni tre giorni, pure esso non s'arrese mai a deporre il cestello per perdersi con essa in frascherie, e solo consentiva che gli venisse del paro lungo la via ridendo e ciarlando. Quando poi la fanciulletta si lamentava di quella sua durezza, egli rispondeva che la venisse una domenica al mulino di Gradiscutta, ove non le sarebbero mancati sollazzi, e con lui e coi suoi cugini, i quali fra grandi e piccoli sommavano una dozzina. Ma la Favitta cresciuta in fino allora romita da ogni consorzio col prossimo, non si sentiva il coraggio di scontrarsi così per ispasso in facce affatto nuove. Pure una volta che il Giorgietto stette cinque giorni senza farsi vedere, ella deliberò di vincere la natural ritrosia; pensando che alla fin fine l'avrebbe fatto come le altre. Vestitasi dunque del suo meglio scappò di casa subito dopo il desinare in onta ai soliti scongiuri della Polonia; e così prese via speditamente costeggiando il V armo, con tutto l'ardore e la felicità d'una fanciulletta che si accinge ad una grande impresa.

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VII

II nonno di Giorgietto portava, come suo nipote, il nome di Byron e di Washington; aveva oltracciò un grifo degno di Catone, e le bucce antediluviane d'uomo devoto al tempo della sua cara giovinezza. Per la canizie veramente patriarcale, per questa cocciuta venerazione dell'antichità lo si conosceva nei dintorni pel Noè dei mugnai; ché se non .fu lui ad inventar il vino, tal colpa s'appartiene ali' ordine dei tempi, non al suo ingegno e alla paterna tenerezza per la vite. Del resto, al pari di quanti si stolgono nelle campagne dalle comuni opinioni e non s'intruppano come pecore dietro al becco, aveva esso conquistato presso i terrieri il titolo di filosofo; il quale, lo dico sul serio, non dovea gonfiarlo d'assai; giacché, posto il prezzo del divino Platone a cinquanta scudi, come per l'appunto fu venduto sul mercato d'Egina, il povero Ser Giorgio1 sarebbe venuto a costare una qualche frazione di niente. Cionnullostante anche a lui sfriggolavano nel capo dottrine affatto originali, e certe idee tanto gli si radicavano a fondo nel cervello, da dover darsi al diavolo per non crederle innate. Fra le altre affermava egli che quante campagne stanno sotto il sole, tutte sono per origine comunali, e perciò a stretto diritto divisibili un tanto per capo; anzi aspettava giorno per giorno non so da qual buon vento certi personaggi dalle gran barbe nere che doveano, per dirla con lui, affettare la torta; ben inteso che ad esso in merito del suo bel muso sarebbe rimasto per soprammercato il molino. 2 Intanto andava egli apprestando computi e registri per incoronamento della cuccagna; e teneva per le tasche, guardate da cenci e cordicelle, certe cartoline bisunte sulle quali far annotare quanto a lui paresse giovevole a sapersi circa lo spartimento del suo Comune; ed era poi sempre sul chiedere a questo e a quello cosa si bisbigliasse sul tal mercato, e se in quel paese i barboni 1. Ser e Done sono titoli appartenenti nel contado Friulano al Pater e alla Materfamilias, evidenti corruzioni del Sere e della Donna dei Toscani (NIE• vo). 2.. Vittore Branca, nella sua edizione del Varmo, a questo proposito dice: L'attesa della divisione delle terre, concepita cosi in modo apocalittico, sarebbe, secondo il Chiurlo (Ippolito Nievo e il Friuli, Udine, 1931, pag. 50), ancora diffusa nel Friuli, e si riattaccherebbe• a una embrionale leggenda del giorno in cui nel Friuli tutti i castelli crollarono; reminiscenza forse del famoso sacco savorgnano del I s11 e del contemporaneo terremoto •·

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non si fossero ancora lasciati vedere; sicché, quando per l'imbecillità senile il cervello gli diè volta affatto in tale corbelleria, chi gliene dava a bere una, e chi un'altra; ed egli, ognor più saldandosi nelle pazze lusinghe, gironzava sulle sponde del Varmo facendo i conti sulle dita dei campi che gli sarebbero toccati, e di quanto avrebbe speso per accomodarli a modo suo tutti a viti e a pergolati. Ad onta di tali stranezze, il vecchio sapeva, come si dice, tener d'occhio alla volpe e alla gallina, e mantenevasi cosi assoluto padrone in sua casa, che, sebbene la famiglia contasse tre nuore e una dozzina di ragazzi, non per questo alcuno osava garrire dinanzi a lui; e tutti si facevano piccini piccini ad un'occhiata un po' bieca; e quando poi avveniva che entrando in cucina egli scaraventasse il cappello in un canto (il che era a lui come a Giove l'aggrottar delle ciglia), subito era per tutto un tremore ed una costernazione come si aspettasse di minuto in minuto il terremoto, o qualche altro peggior malanno. Non era dunque da stupire per vederli uno per uno accudire costantemente alle proprie faccende; che nel resto poi non solo avevasi libertà ma licenza, imperocché al vecchio bastava vederli fare, né andava a pescare il come o il perché, lasciando egli in questo e in ogni altro riguardo correr l'acqua alla china; e spesso anche diceva che se la roba era venuta la doveva andarsene del pari, onde non si pativa nessuna carestia, e dietro tale sentenza tutti la scialavano allegramente. Convien supporre pertanto che a tal bisogna dell'abbondanza provvedesse il Signore, dacché, come nei profondamenti vallicosi negletti dagli agricoltori si moltiplicano spontanee le più pompose bellezze della natura, cosi in quella casa era una copia d'ogni ben di Dio venuto d'ogni banda e gettato là alla rinfusa, e la tranquilla semplicità e la rosea salute ridevano su tutti i volti. La Favitta, dopo camminato una mezz'ora, giunse alla dimora di Ser Giorgio, e benché la fosse avventatella e selvatica non poté vincere un movimento di meraviglia al mirar nel cortile un tale andirivieni di bimbi, di oche, di anitre, di porci, di colombi, e di cani, e una cosi confusa trameschianza di legne accatastate, e di concime, e di paglia e di carrette e d'arnesi, da perderci proprio la vista. Pure, per essere di giorno i cani dei mugnai le creature più dimestiche e codafestanti del mondo, s'addentrò ella senza briga alcuna in quel tramestio: senonché per la prima volta in sua vita ebbe nel cuore un battito di timidezza femminile. Messo

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il capo nella cucina, spiò tutto all'intorno se alcuno vi fosse; ma non ci vide anima viva, né s'udiva altro rumore all'intorno che quello della macina. E così, mentre la stava trepida e dubbiosa, ecco che proprio a' suoi piedi appena dentro dell'uscio in un bel riquadro di sole, le fermò gli occhi uno spettacolo, dal quale non seppe per buona pezza ritrarli, tanto era vago e singolare. Figuratevi una bella covata di gattini non anco slattati, e misti con essi tre cagnuoli affatto piccini, i quali s'avvoltolavano, s'ingruppavano, si storcevano insieme come un viluppo di serpentelli; e sopra saltellavano dei pulcinetti usciti pocanzi dell'uovo, e andavano via cacciando le pulci col becchettar qua e là: e lì presso stava la chioccia a codiarli 1 maternamente coll'occhio intento e la cresta inalberata. Questa volta la Favitta credette esser cascata daddovvero nell'arca di Noè; e più le crebbe la maraviglia quando i puttini che giocarellavano nel pantano del cortile, per farsi a considerar con più agio la nuova venuta, vennero a mescolarsi coi botoletti, coi gatti e coi pulcini, senza che ne fosse turbata per nulla quella repubblichetta di bestiuole. Finalmente la fanciulla rinvenuta dallo stupore, non vedendo sbucar fuori alcuno, provassi di chiedere al maggiore di que' bimbi, il quale mostrava i sei anni, dove fosse il Giorgietto. - Il Giorgietto? - fece colui volgendole incontro un musino vispo e rotondo tutto screziato di belletta com'era ben di dovere. Il Giorgiettol ... Oh veh! sarà dove l'ha mandato il nonno. - E il nonno mo dove lo ha mandato? - richiese la Favitta. - L'avrà mandato dove l'avrà voluto lui - rispose giudiziosamente il fanciullo, mestando colle mani in mezzo a quei gatti che miagolavano in coro colle loro vocine da soprani. - Sicché siamo ancora daccapo! - soggiunse la fanciulla. - E tu non sai insegnarmi ove il Giorgietto sia. - No che non lo so- riprese l'altro. - Ma lo saprà il nonno. - Or dunque il nonno dov'è?- domandò la Favitta. - Oh il nonno poi sarà nel mulino, o nell'orto, o sulla prateria, oppur anco dal cappellano, ovvero ... - Basta, bastai Andrò al molino - fece la giovinetta ravviandosi pel cortile; e, voltasi là donde partiva il romor della ruota, ne trovò tantosto l'entrata. Appena dentro, ecco venirle all'occhio 1.

eodiarli: tenerli d'occhio.

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quel grave furfantello di Giorgietto, che scamiciato più su del gomito, e infarinato come un fantasma da teatro, reggeva il sacco ad un uomo sui cinquanta, il quale veniva empiendolo collo staio d'una bianchissima farina di frumento. - Ohe, ohe Giorgiettol- fece la Favitta con voce un po' arrocata, perché la presenza d'un testimonio le dava soggezione. - Oh addio, addio Favittal - con accento di dolce sorpresa rispose il Giorgietto, volgendosi a guardarla, senza lasciar peraltro di tener aperta la bocca del sacco. - Ecco, ecco, papà, - aggiuns'egli volgendosi a quell'uomo costei è la figliuola del mugnaio di Glaunico, della quale vi ho parlato anche stamattina. - Sei una bella ragazzetta; - rispose quegli - e se la bontà e la bravura corrispondono a quello che si vede, i tuoi genitori sono molto fortunati, e tu potresti servir d'esempio a questo svagato, che non vuol saperne di far bene un'intera settimana, e sì i suoi fratelli, che son morti tutti, poverini, lavoravano alla sua età, quanto lavoro io stesso; ma costui fa torto alla razza. La Favitta diventò rossa rossa; un poco per rimorso, un poco anche per lo stupore di udir accusato d'infingardaggine quel fanciullo che stava così paziente ed attento coi lembi del sacco fra mano, del che ella si sentiva affatto incapace. - Via, papà, non ispaventatela!- soggiunse il fanciullo- e piuttosto lasciatemi tenerle un poco di compagnia. - Sì, sì, che la rimanga a suo talento con noi - rispose il mugnaio porgendogli a reggere un altro sacco. - Conosco da un pezzo compar Simone come un buon cristiano e un vero galantuomo; e quando suonerà l'ora della cena le daremo la sua parte, e poi siccome devo andar da quelle bande col giumento, me la torrò in groppa e la smonterà a due passi dal suo uscio. - Grazie I - balbettò la Favitta; e tornò ad arrossare, perché non la intendeva così ella che le fosse fatta compagnia, e appena arrivata s'aspettava di fare un bel chiasso col Giorgietto e co' suoi cugini, ma aveva fatto i conti senza pensare che quel giorno l'era per l'appunto il sabbato. Pure, per un naturale sentimento di buona creanza fece il buon viso, e sedette soda soda accanto al fanciullo. - Ohe Giacomo I - disse il mugnaio, poiché ebbe finito di insaccare, a un suo fratello, il quale per essere inteso alla macina

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dietro un assito, non poteva esser veduto dalla Favitta. - Allungami il crivello. - Via, Sandrucciol - soggiunse una voce che era quella di Giacomo. - Porta il crivello a tuo zio. Lascia pure, ché la ruota la ungerai dopo. Ecco, Gaetano, che Sandruccio te lo porta il crivello. Allora sbucò da un pilastro un altro ragazzo di poco più grande del Giorgietto, il quale portò l'arnese allo zio Gaetano, tornò alle sue faccende gettando un'occhiatina di curiosità alla Favitta. Costei cascava di nuvola in nuvola; però finì col naturarsi in quella smania di lavoro, e prese animosamente il suo partito rispondendo senza tartagliare alle inchieste del Gaetano, e ciaramellando col Giorgietto il quale versava la crusca, mentre suo padre dimenava il crivello per pulirne un resticciuolo di farina. Così corsero un paio d'ore, in capo alle quali questi fé motto al fanciullo che ben poteva andarsene ove le donne raccoglievano il bucato per dar loro una mano; e così, passando, la sua compagna avrebbe visitato l'ortaglia: ma gli raccomandò di non perdersi via per istrada. Poiché, - aggiunse egli- sai già come il nonno la intende sul capitolo dei balocconi l •.. Allora i due fanciulli uscirono fuori correndo e saltando, come levrieri sciolti di guinzaglio; ma mentre il Giorgietto era gongolante e discorsivo, e la contentezza gli ritondava il visino tutto impiastricciato di sudore e di farina, la Favitta invece provava sotto sotto nel cuore un tal quale scontento; ed era la coscienza, che sa distinguere il bene dal male anco nel criterio dei ragazzetti, e farli al paro degli uomini allegri o melanconici colle sue misteriose parlate. Più poi ebbe a sgomentirsi quando il fanciullo la chiese del perché non avesse tolto a compagno della sua gita lo Sgricciolo; ma intanto passarono nell'orto, il quale era pieno di bei legumi e di citriuoli e di zucche; ed anco non mancavano i garofoletti, 1 i gigli, le viole di pasqua, e le rose d'odore; e tante buone e belle cose furono altrettanti svagamenti del suo interno rammarico. Indi a poco giunsero sulle praterie le quali si dilungano fino al Taglia• mento, e sono così uguali e feraci d'ottimo fieno, che non le sembrano sorelle per nulla agli aridi e sassosi seminati : ed è antica tradizione che tale fosse una volta tutto il territorio; ma che sieno 1.

garofaletti: garofanetti, in veneto.

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poi stati 1 peccati degli abitanti, o la poco avveduta coltura dei tempi andati, o gli straripamenti delle fiumane a smagrirlo, io non mi son tale da potervelo chiarire. Li dunque il Giorgietto presentò la piccola visitatrice alla mamma, alle zie, alle cugine, le quali tutte le andavano facendo le migliori accoglienze, senza smettere d'ammucchiare camicie, gonnelle e lenzuola. E per verità un bello e pulito spettacolo si componeva da quello sciame di donne giovani la più parte aiutanti' e ben acconce, disposte in varie movenze, tutte vaghe e pittoresche, come sempre sono gli atteggiamenti di persone sciolte e robuste, e da quella folta erba infiorata alle sommità di mille colori nella quale si profondavano fino alle ginocchia, e da quei drappi di lino che o sventolanti sulle corde o stesi o ammonticchiati sull'erba, dai raggi del sole prendevano il candore abbagliante della neve. Il Giorgietto si mise tosto all'opera; e la Favitta da quella furbetta che la era, mascherando la consueta dappocaggine, cominciò essa pure a spiccare un qualche pannolino. e ad aggiustarlo del suo meglio, come di sottecchi vedeva fare alle altre; né io giurerei che quelle ripiegature riuscissero di mano maestra, benché ad ogni modo si dovesse saperne grado alla buona volontà della fanciulla. Come la biancheria fu raccolta, la caricarono in una carriuola; e la mamma del Giorgietto prese a spingerla verso casa, mentre le due cognate la seguivano coi cordami e le pertiche in ispalla, e intorno venivano motteggiando fra loro le fanciulle e le bambinette, e fra esse l'uno accanto all'altro la Favitta e il Giorgietto. Tornate a casa, convenne ammannire la cena; e l'una fu all'orto a corre il radicchio e le cipolline, l'altra allo sciugatoio a ordinar le stoviglie, l'altra al focolare ad apprestarvi il papà delle padelle, che l'è il paiuolo; e due o tre salirono a riporre il bucato; e la più tenerella corse per le ova al pollaio; e al veder come tutti si dessero attorno lietamente era un vero piacere. In onta della tanta premura, quando capitb il nonnone la polenta non era peranco rovesciata; e certo questo dovea essergli solito argomento di menar rumore, poiché tutte cacciarono il mento nel petto, e raddoppiando di zelo lo guardavano paurosamente. Ser Giorgio col cappello nero a larghe tese e a cupolino rotondo, col farsetto 1.

aiutanti: aitanti. 61

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di mezzolano bianco, le brache turchine allacciate sopra il polpaccio, e i risonanti zoccoloni di legno, aveva proprio l'idea d'un coetaneo di san Marco. Tuttavia convien dire che ravesse ricevuto pur allora qualche buona novella delle barbe nere, poiché senza far motto s'avanzò fin sotto il camino, coi ginocchi dinoccolati, le mani sotto le ascelle, e i piedi strasciconi, come è per l'appunto l'andatura storica de' nostri antichi campagnuoli; né del suo malcontento diede altro indizio che un sordo brontolio. D'altronde la polenta fumò tosto sul tagliere, e la frittata le tenne dietro così prestamente, che la parve piovuta dal cielo come la manna. Si sa come l'architettura dei focolari contadineschi sia qui in Friuli semplice e grandiosa. Quello sfondo chiuso e capace, che nereggiando si digrada in alto come la gotica pigna d'un campanile, e quel fuoco che riposa nel mezzo proprio sul seno della Madre Terra, gli danno sembianza dell'antro sibillino o d'un tempio domestico appena disertato dai malfidi penati. Né egli ripudiò finora i diritti delle prime are pagane; poiché esso è il vestibolo dove sorgono in giro gli sgabelli pegli ospiti, esso è la curia dove si contende sugli affari della giornata, esso è la chiesa che ode ogni sera le salmodie del rosario, ed è anco finalmente la sede del povero patriarca, il quale remoto dal resto della famiglia, come il Fato dagli dei minori d'Olimpo, vi sonnecchia nelle ore meridiane, e vi mangia tre volte il giorno la polenta intinta nel bianco latte. In quel posto d'onore s'assise dunque l'antico mugnaio, e la maggior delle nuore gli depose accanto la cena. I figliuoli di lui, e i nipoti già iniziati alla religione del lavoro, sedettero intorno alla tavola; e le donne stavano in piedi dietro a loro, mentre i bimbi s'accoccolavano qua e là per la cucina colla scodella tra le gambe. Quando il lumicino ad olio, gettato anche oggidì sullo stampo romano, fu appeso alla cappa del camino, -e piovette il suo modesto chiarore sul capo di quella gente che meditava con raccoglimento ogni boccone, allora solo il vecchio s'accorse della Favitta, la quale sedeva tra i maschi daccanto al Giorgietto e indarno cercava nascondersi dietro le spalle di lui. Ne chiese tantosto contezza al Gaetano, e udito essere la figlia del mugnaio di Glaunico, siccome conosceva suo padre, se la fece venir appresso domandandole per quali negozii si trovasse a zonzo in giorno feriale. La Favitta aveva una virtù; e ne usò sull'istante confessando schiettamente che l'era venuta a visitare il Giorgietto e per null'altro.

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- Bene, bene - disse il vecchio imponendole la mano sulla testa e rimandandola poi al suo posto. - Ma un'altra volta bisogna venir di domenica e lo dirb anche a tuo padre; il quale ho paura si lasci menar pel naso dalle donne. - E sospirb di cuore sopra queste parole, giacché solo da un anno egli avea perduto la moglie, la quale peraltro egli usava governare come una ruota del mulino. Così terminb tranquillamente la cena; né mancarono alla Favitta eccitamenti ed offerte, ed anco il nonno dal fondo del focolare andavale dicendo che l'appetito si affà ai giovani, come segno di giornate spese bene. Alla fine abbuiandosi già -il cielo, Gaetano allestì la giumenta; e la fanciulla vi balzb sopra lestamente; e quindi, ringraziata e invitata a ritornare da tutta la famiglia e dal Giorgietto in particolare, n'andarono via trottando con un bel chiaro di luna. E se domandaste perché il Giorgietto non li accompagnb almeno un pezzo di strada, vi risponderei che tale scusa non gli sarebbe passata buona presso il nonno onde scapolare il rosario. Quella cavalcata andb molto a sangue alla Fa vitta; sicché quando Gaetano la pose a terra al primo casolare di Glaunico, ove dovea prendere due staia di biada, ella a quel modo avrebbe tirato innanzi volentieri un paio di miglia; ma proponendo fra sé di ritentare ben presto la prova, salutb cordialmente il suo condottiere, e in due salti fu a casa. - Dove se' stata fino adesso? - le chiese con dolce rimprovero la Polonia. - La cena ti aspetta da mezz'ora, e io non mi sapeva cosa immaginare di te. Questa volta, invece di rispondere aspramente o stringendosi nelle spalle, la fanciulletta narrò con garbo dove la era stata, e si dolse che per lei si fossero attardati. - Eh nulla, nulla!- soggiunse la Polonia consolata da una sì rara mansuetudine. - Quegli omacci hanno da mescolarsi nel mulino tanto che vogliono, e non bisogna poi esser sempre le loro fantesche I - E suggellb questa bella massima con un bacione sulle guance della figliuola. - Buona sera, Favittal - disse timidamente lo Sgricciolo entrando di U a poco. E la Favitta non gli volse la schiena, com'era solita fare da un mese, ma sbassando gli occhi, quasi per vergogna di darsi a vedere pentita, rispose o masticb una specie di grazie.

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- Oh sei qui, ninettal - disse alla sua volta Simone, che dopo aver trimpellato per sette ore al molino veniva a cena con una fame da giovinastro. - Sai che tua madre era molto inquieta, e che non bisogna poi stare a zonzo oltre l'Avemaria? ... - Chi? io era inquieta? - saltò su a urlare la Polonia per difendere la sua prediletta anche a costo di calunniare se stessa. La garzonetta, interponendosi nel diverbio ch'era per nascere, aperse le labbra a promettere con generale maraviglia che non avrebbe più inquietato né la mamma né altri; e poi nel resto della sera fu così benigna e ragionevole con ognuno, che quasi quasi la Polonia s'inveleniva vedendola dispensare a tutti quell'amorevolezza, che dapprincipio avea creduto essersi risvegliata nel cuore della figliuola soltanto per lei.

VIII

Quella Favitta era un'augellina da macchia, che per serbare la carissima libertà avrebbe dato ben volentieri l'ali e la coda; ma più assai della stessa libertà un'altra cosa le stava a cuore, di tener cioè il primo e il miglior posto al di sopra degli altri. E nonpertanto il mulino di Gradiscutta le trottò tutta notte pel capo. Siccome poi dentro alla sua birbesca fanciullaggine s'appiattava una bella dose di buonsenso, cosl le fu d'uopo confessare che rordine e l'ubbidienza aveano miglior viso della trasandatezza e della petulanza. L'ambiziosetta non seppe per quella volta mentire a se stessa, e così avvenne che il suo difetto capitale rimorchiò sulla buona strada le virtù ritrose o addormentate; e dapprima le martellava il cervello la stizza di doversi confessare dammeno dei mugnai di Gradiscutta; finché si mosse nel cuore un certo brulichio che molto somigliava a un rimorso. Il fatto sta che le passioni i pensieri e perfino i sogni la spronavano ad una buona e valorosa conversione; né anche allora eh be torto una mia intima opinione, che crede volti al bene gli stessi vizii quando non diano a marcire nella viltà. Levatasi essa prima del sole e scesa alla cucina dimandò gravemente alla madre cosa usassero fare a quell'ora le giovanette meglio educate. - Non lo dico per te, viscere mie; - rispose leziosamente la Polonia - ma esse costumano andar prima per acqua alla fontana,

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indi apprestar le legna, e spazzar il focolare, e Io sterrato della casa. Allora la fanciulla senza far motto usci colle secchie e le riportb colme d'acqua; e affastellate nel canto del camino due bracciate di frasche, diessi a lavorare di scopa con tal diligenza che di Il a poco non rimase sul pavimento né un fuscello di paglia. « Cosa sia mai ?» andava mulinando la Polonia. « Certo la mia piccina vuol introdursi a chiedermi o una pezzuola o un vestitino per essere invidiata dalle compagne. Ma già come potrei dirle di no? •.. Ve' ve' come l'è pulitina quando la vuole! Oh si conosce proprio che l'è sangue mio I ••• » Perb la Favitta segui a dar ordine alle cose domestiche fin sull'ora di messa, senza movere inchiesta veruna; e in chiesa apparve cosi seria e composta da far maravigliare non solo la Polonia ma benanco tutti i parrocchiani. Indi appena tornata a casa tolse dallo stallotto il branco degli agnelli, e canticchiando sotto voce menolli al pascolo, sempre attenta col vincastro perché non si sbandassero nei seminati. Quando la famigliuola si fu raccolta a desinare, non vi so dire quanto scalpore levasse la Polonia per queste prodezze della figliuola: certo se lo Sgricciolo avesse fatto miracoli non avrebbe ottenuto altrettanto: ma siccome il poverino lungi dal far miracoli s'accontentava di compiere modestamente i proprii doveri e di star cheto ai cenni del padrone, così la mala femmina comincib a vomitare contro di lui le più brutte cosacce, dicendo che doveva vergognarsi al vedersi superato in giudizio e in buona volontà da una bambinetta, e che già costei prendeva amore al lavoro e al buon assetto della casa solo per essersi liberata dalla sua sciocca e importuna compagnia. La Polonia non volle ristarsi da una tirata cosi diabolica per quanto Simone cercasse difendere il garzonetto; ma questi dal suo canto prendeva non poco sollievo dalle occhiate della Favitta, le quali coll'umile loro preghiera addolcivano d'assai l'ingiustizia materna: e quando questa giunse a tanto da tacciar il poverino di ladreria e d'ingratitudine, ella facendosi tutta rossa pregò la madre di non andar più innanzi in siffatte calunnie, aggiungendo non esser gran merito una conversione di cui lo Sgricciolo le dava il buon esempio da più d'un mese. La Polonia rimase con due spanne di bocca, e fu in procinto di riversare sulla piccina quel resto di fiele che le gorgogliava nella strozza: ma Simone invece se la tolse sulle ginocchia e baciandola in fronte:

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- Oggi, - disse - oggi per la prima volta riconosco la mia figliuola! Una tale occasione di sfogarsi sopra una vittima più gradita fu presa di volo dalla Polonia; e cominciò tantosto a tempestare contro il marito, che con quegli attacci scomponeva le trecce della sua bimba, onde non l'avrebbe più figurato degnamente fra l'altre garzonette all'uscire dai Vesperi. Peraltro una simile querela era troppo ridicola per dar fastidio al mugnaio, il quale rispose sorridendo che la Favitta era tanto bellina da essere più illeggiadrita che altro da qualche ricciolino spostato. - Sì, si! - gridò la Polonia - e ditemi un poco chi seppe stamparla a quel modo ? ••. Non son forse stata io ? ••• Dunque lasciate fare e discorrere a me e voi immischiatevi col vostro diavoletto della vostra farina! ... - Questa volta, - rispose quel dabbene di marito - un pocolino di superbia vi sta bene e ve la perdono, benché creda in fondo in fondo d'averci qualche merito anch'io. Lo Sgricciolo era troppo contento d'aver trovato la Favitta d'una volta, per dar mente a questi alterchi; e a vedere come egli la seguiva cogli occhi e quasi colla persona in ogni suo movimento, si poteva creder verosimile la favola del girasole. Quel giorno poi la birboncella meritava omaggi più dell'usato; poiché la coscienza della bella vittoria riportata sopra se stessa spandeva un colore affatto nuovo di serenità e di modestia sulla sua vaga personcina. Il giovinetto, riavutosi da quel primo incantamento, le si accostò chiedendo dove l'avesse condotto gli agnelli alla pastura in quella mattina; ~ la fanciulla, solleticata nel suo orgogliuzzo dalla ingenua somn1issione del compagno, rispose che l'era stata nel bel luogo; e che molto vi aveva pensato, e più assai desiderato, ma che d'allora in poi sperava di non avervi più nulla a desiderare. Il concettino, come si vede, era abbastanza lusinghiero, né lo sconciò per nulla il sogghignetto furbesco e benevolo che gli tenne dietro. Così quel povero innocente gustò di nuovo la dolcezza dell'amicizia; e in un delizioso sussulto del cuore ebbe la ricompensa della lunga e virtuosa mansuetudine: ma il meglio si fu quando di lì ad un'ora capitò il Giorgietto; poiché quel proverbio latino dell'omne trinum perfectum non è affatto una minchioneria, e ne diede prova l'allegria la concordia e la piacevolezza di quei tre contadinelli. Come si può ben credere, non tardarono essi a sgambet-

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tare per di qua e per di là, finché giunsero sul campo di battaglia dove il falchetto un mese prima avea spennacchiato la Favitta e lo Sgricciolo. - Confessa il vero, - disse allora quest,ultimo al suo novello amico- che tu meglio di noi eri addestrato a simili lottel - Non creder già codesto; - rispose il Giorgietto - poiché guai se il nonno mi vedesse far soperchieria a qualc~no cosi per grillo! ma persuaditi, che quando si ha la giustizia dalla propria banda, ogni santo aiutai - Che razza d'aiuto! - sciamò scherzosamente la Favitta. Io ne ebbi sformato il naso per due settimane! - Via! non sarà stato un santo, ma sibbene il diavolo a soccorrermi - soggiunse il Giorgietto. - Ad ogni modo dimentichiamo tutto, e che la sia finita! - Sì! dimentichiamo tutto!- ripeté lo Sgricciolo. E queste parole furono pronunciate così soavemente e accompagnate da una occhiata sì umile, da parer quasi che a lui solo si stesse implorare la perdonanza. D'allora in poi cominciò al mulino di Glaunico una vera rivoluzione; e chi se ne fosse accorto non avrebbe mai più immaginato che tutto proveniva dal buon talento d'una sola fanciulla, o meglio dal caso che l'aveva fatta incontrare nel Giorgietto. Cosi anche i ragazzi del paese, avvistisi dei nuovi costumi della Favitta e dello Sgricciolo, si rappattumarono con essi; e qui pure toccò al Giorgietto farla da paciere: né più si ricordarono le antiche inimicizie, poiché la memoria dei fanciulli, circa ai torti ricevuti, è per ventura meno tenace di quella degli uomini. - Guardate come si fa grandicella e bellina la figlia del mugnaio! - diceva qualche barbuta comare, vedendola capitare alla chiesa colla sua pezzuolina da capo ben chiusa sotto il mento. - Caspita! l'è ora, sapete, poiché dai quindici anni non deve esser lontana - rimbeccava una seconda. - Non m'intendo di questo; - ripigliava quella di prima solo mi maraviglio che di sguaiata come l'era un sei mesi fa, la si sia fatta tutta d'un colpo cosi gentile e modestina. Certo che di qui a un paio d'anni la sarà un buon partito, poiché già il mulino resterà a lei, e aver in giunta un bel tocco di sposa non può dispiacere a chiunque. - Eh comare mial - soggiungeva l'altra sospirando - non du-

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bitate che calerà un qualche zerbinotto di Camino, o Dio no 'l voglia, anche di Codroipo, e porterà via la ragazza e la dotel Da questo lamento il discorso scivolava sulle lodi del tempo andato, e quelle ottime vecchie infilzavano un rosario di chiacchiere da disgra9ame una conferenza diplomatica. Perb restava sempre nel buio la causa della felice conversione della ragazza; e chi ne attribuiva il merito all'età, chi alla pazienza di Simone, chi alla tenerezza della Polonia, chi alla Madonna o a san Luigi, mentre io solo posso vantarmi d'aver imbroccato la vera verità di mezzo a tante fantasticherie. Il mulino frattanto per la diligenza e la squisitezza del lavoro s'andava sempre più vantaggiando di nuove pratiche, e la casa, da quel porcile che la era, avea mutato faccia per modo che la si poteva citare per modello: né vi si udivano più pianti, improperii e fracassi, ma tutto correva tranquillamente di suo piede, sicché i brontolamenti della Polonia si frapponevano quasi provvidamente a rompere la monotonia di quella pace continua, come quelle mezze stonature adoperate con bel magistero dal Verdi per variare un solenne assieme di accordi. Il Giorgietto capitava spesso a Glaunico la sera della domenica, e spesso anche la Favitta e lo Sgricciolo gli rendevano la visita; e così a poco a poco l'amicizia dei fanciulli indusse fra le due famiglie una piacevole relazione di vicinato. La Polonia andando a Rivignano dalla sua cugina fu la prima ad entrare dai mugnai di Gradiscutta; e figuratevi se fra quello sciame di donne fu contenta la sua smania di contendere e di pettegoleggiare I Né la bile della vecchia fu fraudata anche in quel giorno d'uno sfogo opportuno, poiché quando Ser Giorgio le mosse rampogna per la sua prepotenza verso il marito, ella gli si rovesciò addosso con un impeto tale di risposte, di gesti e d'occhiacci, che il cappello del nonno fu li li per volare Dio sa dove. Tuttavia le altre femmine furono pronte ad intromettersi, e i due litiganti si separarono ringhiando come due mastini tenuti in freno dalla verga del padrone. I tre fanciulli poi, anziché affannarsi per l'umore bisbetico della Polonia, aveano trovato il bandolo di volgerlo in ischerzo ; e cosi ella si purgava di quell'agrezza del sangue senza guastare quello degli altri. E anche di questo sistema il Giorgietto fu maestro agli altri due, poiché avvezzo a sopportare in silenzio le ire spaventose del nonno, pareva a lui nulla più d'una piacevolezza il brontolio della Polonia. Allora finalmente il

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sogno dorato di costei, del quale si dié un cenno in addietro, giunse ad aver effetto; poiché i tre giovinetti, avendo combinato una pesca, tornarono a Glaunico sull'Avemaria con una retata di quei tanto desiderati giavedoni; e si noti ch'erano stati pigliati nell'acqua viva del Tagliamento, onde erano della qualità più dilicata. Quei pesciolini freschi freschi fritti con tutta premura mandavano per la cucina la più deliziosa fragranza; e siccome il merito della presa crasi lasciato allo Sgricciolo, cosi la Polonia dopo aver vuotato la padella, si volse al marito dicendogli : - Diamine, Simone! il vostro aiutante comincia a farsi buono da qualche cosa! - E buono più di me, e più di tutti noi; - soggiunse con cordiale franchezza Simone - e anco prima di assaggiare i giavedoni dovevate rendergli giustizia poiché egli merita amore per tutti i versil - Oh sii- disse sinceramente la Favitta. - Ed io ve lo dico da un pezzo: - aggiunse Simone - ma già il mio figliuoletto è cosi dabbene che non vi serberà rancore della vostra durezza. Lo Sgricciolo abbassò gli occhi arrossendo fin sulla punta del naso; né giammai, credo, vi fu eroe che più umilmente portasse l'onor del trionfo. IX

lo mi son ito sempre innanzi, trastullandomi a veder piovere dalla penna frasicciuole e capitoletti; come il fanciullo si spassa col soffiare da una cannuccia le bolle di sapone; ed ora all'improvvista m'accorgo che la novella è finita. Per non far le coma al galateo degli antichi cantafavole, sarei lì li per appiccarvi la morale, e far su tutto una croce; ma in questo secolo è cresciuta una certa genia di lettori viziati, la quale crederebbesi gabbata se non vedesse morti e seppelliti o per lo meno maritati i personaggi di un racconto; né io sono cosi severo giudice dei peccatuzzi contemporanei, da non accondiscender loro d'una qualche ciarla. Già sarebbe sprecare il fiato dar loro ad intendere che Omero chiuse l'Iliade colla vittoria d'Achille, e Virgilio l'Eneide collo stabilimento dei Troiani in Italia, perdonando ambedue la vita ai loro eroi; onde io tirerò innanzi a far man bassa de' miei mugnai per solo conto dei lettori,

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consolandon1i col pensiero che la natura, se negò agli uomini la coda, ne fornì più o meno largamente i pecori, i giumenti e le scimmie, e può ben permetterne un tantino anche alla mia novella. Né la coda sarà inutile del tutto, poiché se fin qui fu provato che anche un ragazzino può fare a sua insaputa propaganda di sana morale, del resto sarà chiarito come l'indole degli uomini si raddrizzi in meglio o torni nella vecchia piaga, a seconda delle varie fortune, e del diverso freno della ragione. Prima di tutti (badisi ch'io darò nozze a chi cerca nozze, e cataletti a chi vuol cataletti) Ser Giorgio capitò a quel mal punto della vita che si chiama la morte; ed era naturale, poiché nel mondo i più vecchi, contro la creanza spartana, cedono il posto ai più giovani. Ora, per quanto il curato si sfiatasse,. non ci fu verso di persuaderlo a far testamento; e mentre il freddo gli saliva alle ginocchia, andava ancora borbottando che già di lì a poco quei barboni sarebbero venuti nel paese, e che stimava inutile rompersi il capo a far divisioni le quali entro breve tempo dovevano esser rifatte. Così persuaso e ostinato qual era vissuto passò nel bacio del Signore; e le cinque sue figliuole maritate qua e là entrarono coi tre maschi a far loro pro del retaggio comune, sicché il mulino e quei pochi campi andarono venduti all'asta, e come agli altri, così al padre di Giorgietto convenne prendere ad affitto un molinello, dove recossi ad abitare colla moglie e col figliuolo. Esso per verità non era lontano dal primo più di cinque miglia, ma per operai che vivono col lavoro della giornata, cinque miglia sono un bel viaggio, onde il giovinetto non ebbe più agio di intrattenersi coi suoi amici di Glaunico, ed era molto che si potessero vedere una volta ogni tre mesi. La lontananza del Giorgietto e le disgrazie della sua famiglia afflissero non poco la Favitta e lo Sgricciolo; ma più gravi cagioni ebbero d'addolorarsi, quando il vecchio Simone dopo due mesi di languore cadde malato a segno, da dar pochissime lusinghe di guarigione. Nelle strettezze prodotte da questo guaio la Polonia avvisò di ricorrere per aiuti al suo figlio maggiore, il quale in quel frattempo s'era arricchito d'assai. Ma i ricchi si sa qual danno ascolto alle preghiere dei poveri; e, o non credesse egli allo stringente bisogno dei genitori o fosse in realtà duro di cuore, rispose per lettera che di molto non poteva soccorrerli e di poco si vergognava. Così svanì quell'ultima lusinga, e convenne pensare a darsi

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attorno colle proprie braccia; ma la Polonia era cosl avvilita che quasi non osava neppur borbottare, la Favitta doveva vegliare notte e giorno l'infermo, e restava solo lo Sgricciolo, il quale certamente non bastava a tutto; e mentre o riportava la farina agli avventori o correva pel medico e pel prete, non poteva attendere alla macina; sicché oltre a dover trafelarsi da mane a sera, il poverino aveva lo scontento di veder tutto andarsene a precipizio. Contuttociò sopra di lui veniva a cascare tutta la rabbia che di tratto in tratto scoteva la Polonia dalla sua letargia, e se non era la Favitta con un raddoppiamento di tenerezza e d'amore a tenerlo in vita, certo egli sarebbe morto di crepacuore. Alla fine, dopo un anno di battaglia, l'anima del vecchio mugnaio salì al Creatore; e questo per fortuna successe quando già lo Sgricciolo era sfuggito alla leva militare. Allora sì che splendettero di piena luce tutte le virtù di quel povero orfanol e in vederlo lavorare per quattro, e nulla ritenere per sé, e soffrir tuttavia pazientemente i maltrattamenti della vecchia, tutto il paese si univa in una sola voce per portarlo a cielo. La Favitta, non mancando né di occhi né di cuore, seppe apprezzare tanti sacrifizi ; onde la ciarla divulgatasi a que' giorni che l'affetto de' due giovani potesse riuscire ad un buon matrimonio non era priva di fondamento: certo nei loro desiderii rideva una tal speranza, e l'amore aveva ringiovanito l'antica dimestichezza con quel suo incanto pieno di lusinghe di tremori e di delizie. Così, in onta alle crollate di capo della Polonia, s'andava quella pera tacitamente maturando, quando non so per qual congiuntura vennero all'orecchio dello Sgricciolo certe maligne mormorazioni che correvano sul suo conto. Si sa quanto sia instabile l'opinione della gente e come vogliosa e valente di trovar il male perfino nel bene; or dunque forse quegli stessi che mesi addietro portavano lo Sgricciolo in palma di mano, al sussurrarsi del suo sposalizio colla Favitta cominciarono o per invidia o per semplice malizia a radergli la misura; e poi passarono a bisbigli e a tentennate di capo, e terminarono col dire apertamente che s'egli avea fatto lo sgobbone e il santocchio ci vedeva a fondo il prezzo dell'opera, e che già la dote della vecchia investita nel mulino sarebbe toccata da ultimo alla Favitta, e che con quello e non con questa egli faceva all'amore, e che se fosse stato di dentro quel santo che cercava parere di fuori non avrebbe secondato i grilletti amorosi della fanciulla, contro la chiara volontà

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di sua madre. Immaginatevi come rimase il povero giovane al sapere di tali calunnie! Soprattutto gli doleva di passare pel subornatore della ragazza, e tutte le altre poteva inghiottirle ma questa proprio gli si attraversava nel gozzo. Pensa e ripensa, cerca e ricerca, per andar salvo nell'onore non trovò altro partito fuor quello di romperla per sempre coll'amore, e andar via lontano lontano a piangere la propria sventura, e ad aspettare da Dio una pronta chiamata. Non diremo che s'appigliasse al miglior consiglio, perché mal s'addice a un animo virile il soverchio rispetto della voce pubblica, spesso ignorante o bugiarda; ma certo quella sua determinazione non era spoglia di fortezza, e siccome credeva egli la Favitta d'indole più volubile assai della propria, cosi menolla ad effetto con tutta pace della coscienza, stimando che ogni male sarebbe da ultimo cascato sopra di lui solo. Principiò dal mettersi un poco in sussiego, del che la donzella s'accorse tantosto e ne mostrò alquanto dispetto; e poi alle prime rampogne rispose tanto freddo ed asciutto, che il rammarico della giovine giunse a stuzzicarne l'orgoglio, onde ella pure si chiuse in un tacito risentimento, e quando si vedeva sfuggita da lui, anziché corrergli dietro o richiamarlo, fingeva di non se ne accorgere e si vendicava sfuggendolo poi alla sua volta. Né crediate che una simile manovra durasse un giorno od una settimana, sibbene l'andette a lungo per parecchi mesi; finché la fanciulla, disgustata affatto di quell'ingrato e continuamente stimolata dalla madre, scoppiò in mille improperi contro di lui chiamandolo traditore e sconoscente, e giurando che mai più gli avrebbe teso la mano da stringere per tema d'insudiciarsela. Lo Sgricciolo mise in tasca tutto codesto senza alzare gli occhi, poiché li aveva a dir il vero gonfi di lagrime, e guai secondo lui se la donzella lo avesse veduto intenerirsi, che un si lungo e penoso artifizio andava coi piedi all'aria. Dunque stette saldo e n'andò a piangere altrove; e quando Giorgietto, in onta alle cinque miglia, cominciò a farsi vedere sovente a Glaunico, e la Favitta dal canto suo a fargli l'occhiolino, egli represse nel fondo del cuore la gelosia; anzi andò tant' oltre nel coraggio che, richiesto da quello della causa de' suoi dissapori colla giovine, rispose essere troppo discordi le loro indoli perché potessero sempre vivere in pace. - Tu, vedi, - aggiunse - tu Giorgietto, che sai persuadere con si bella maniera, saresti nato fatto per lei I • • •

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Ma non ebbe animo di continuare, e fingendo di sentirsi chiamare, scappò nel mulino dove gli fu d'uopo sedere pel grande affanno che lo sconvolgeva. Il fatto sta che dopo qualche tempo si tornò a parlare di nozze; ma lo sposo della Favitta non era più lo Sgricciolo, sibbene il Giorgietto, e coloro che aveano tagliato i panni addosso al primo accusavano il secondo d'aver scavalcato l'amico, e biasimavano la donzella come dimentica del lungo sacrifizio di quel poveretto, e spergiura alla fede giuratagli. Lo Sgricciolo intanto guardato in cagnesco dalla ragazza, oppresso con ogni maniera di angherie dalla vecchia, e roso di dentro da una tetra melanconia, prestava i soliti servigi nel mulino; e solo una settimana prima dello sposalizio, non potendo più reggere, prese commiato dalle due donne e se ne andò col suo fardelletto, come un diciott'anni prima era venuto. È dura cosa pur troppo avere la sola ricchezza delle braccia, e doverla adoperare per guadagnarsi la vita, quando la morte ci abita già nel mezzo del cuore! Eppur una cotal sorte non parve insopportabile all'infelice, il quale tanto cristiano era da credere sempre bello il destino dell'uomo, finché una lusinga gli arrida di poter far qualche bene e impedir qualche male. Congedato dalla Favitta con una voltata di spalle, e con una schernevole riverenza dalla Polonia, s'avviò egli lungo il Varmo dal quale non sapeva scostarsi; e camminando per le sue rive sempre placide e belle sentiva bollirsi nel seno più tempestosa che mai l'angoscia di quella separazione. Tuttavia l'era di buon sangue il poverino, e mormorando le preghiere stesse che sua madre avevagli insegnato e eh' ella recitava anche in punto di morte, cercò di acquietare quei dolorosi sussulti. Il lavoro, che dopo il tempo è la più efficace delle consolazioni, fini di calmarlo; né fu male che per quella prima giornata egli trovasse allogamento presso un vecchio mugnaio colpito di paralisi, perché la ressa dei lavori lo sviò dalle immagini della disperazione. Quando poi quel vecchio fu morto ed egli per volontà degli eredi dovette sloggiare, s'era già accaparrato un posto di garzone in un altro mulino lungo il suo caro fiumicello; e d'altro non ebbe pensiero che di trasportare colà le poche robicciuole. Savio e diligente nel mestiere, duro alla fatica, nemico dell'ozio e degli spassi, egli ebbe la stima e l'affetto de' suoi padroni per modo che una loro figliuola in capo all'anno gli fu offerta per mo-

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glie. Ma né di costei né di altre egli volle mai saperne, onde si buccinava nelle vicinanze che l'avesse fatto un voto. - Peccato! - aggiungevano - poiché la semenza è buona I E infatti lo Sgricciolo colla mansuetudine, colla carità, colla pazienza sapeva farsi ben volere da tutti; e inoltre, povero di desiderio e ricco di cuore, trovava nel suo salario di che far meno nuda la miseria di qualche creatura. Per sé riserbava l'unico sollievo di sedere alla sera di ogni domenica in qualche solitario renaio del Varmo; e in que' soli momenti viveva per se stessa l'anima sua, ma più non viveva che di memorie; ed ogni speranza la tenea levata in quel Dio che ricompensa col paradiso la rassegnazione operosa dei cristiani. In questo mezzo anche la famiglia compostasi col matrimonio della Favitta e del Giorgietto non avea navigato in perfetta bonaccia, colpa più di tutto quella diversità d'indole e di costumi che dà spesso peggiori frutti della stessa cattiveria. Sfumato il prestigio della novità, cessò del pari quel delicato rispetto che sopprime tra nuovi parenti ogni asprezza di tratto e di parola, e tutti a poco a poco tornarono alle solite abitudini. Il Giorgietto, che crescendo in età aveva ereditato il cipiglio del nonno, voleva essere ed operare da capo di casa; né questa sua rigidezza contribuì poco ad inasprire vieppiù la Favitta, nella quale dopo la rottura collo Sgricciolo aveano già cominciato a ripullulare i germi mal soffocati dell'infantile prepotenza. Gli è vero che quando egli s'accorse del tristo effetto d'una tal maniera di governo, volle tornare indietro a ritentar sulla moglie adulta il miracolo operato sulla fanciulla di undici anni; ma vi si accinse troppo tardi, e la forzata condiscendenza del marito non giovò ad altro che ad accrescere la baldanza della Favitta. Già ci s'intende che in queste discordie la Polonia mestava a due mani, e quando sopravveniv~ un poco di calma, subito il fuoco era rattizzato dalla sua lingua pestifera. E frequente soggetto di mormorazione le porgevano i genitori del genero, i quali vecchi e impotenti erano da lei chiamati i topi di casa; e quando li udiva rimpiangere i tempi di Ser Giorgio, subito dava loro sulla voce e menava tanto rumore, come se li avesse colti in flagranti d'un qualche grave delitto. Per un lieve soffio di discordia, dice uno scrittore, 1 anche le 1. Sallustio: De bello iugurthino, X, 6: discordia maximae dilabantur •·

e concordia

parvae rea crescunt,

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grandi fortune avvizziscono; infatti, senza poterne dare un perché, i mugnai di Glaunico andavano sempre scadendo dalla primiera agiatezza; e i debiti ingrossavano ad ogni San Martino, e la macina lavorava ogni dì meno; e queste strettezze famigliari reagivano poi alla lor volta sull'umore di quei disgraziati, onde più s'avvicinavano all'ultima rovina, e più s'accresceva la forza che ve li spingeva. Fortuna che il cielo dopo tre anni ebbe compassione di loro, e riparò in parte a tanto trasordine donando alla Favitta una vaga bambina, la quale riunendo in un solo affetto tutte quelle anime malcontente e discordi, fece sì che anche i negozii domestici d'alcun poco si raddrizzassero; ma quel miglioramento aveva sembianza di bene solo pel gran male che prima era stato. Qui forse i lettori pretenderanno che il racconto debba far punto; ma son io invece a voler tirar innanzi, e certo essi non si aspettano quanto sono per narrare in queste quattro righe. Sicuro che le cose come le abbiamo lasciate potevano camminare anni ed anni; ma il caso sopraggiunse a romper loro le gambe, ed ecco in qual senso è vero il proverbio, che l'uomo propone e Dio dispone. Il Giorgietto adunque un anno dopo la nascita della bimba venne improvvisamente a morire per una caduta nella chiusa del mulino. Immaginatevi la disperazione e le miserie di quella povera gente! Ma a buona parte di tale disgrazia la Provvidenza teneva pronto il rimedio; e infatti, non appena Io Sgricciolo ebbe contezza del triste avvenimento, presa licenza dai padroni, capitò a Glaunico coi quattro soldi raggrumolati in quel frattempo; e questa volta accolto anche dalla Polonia come un angelo salvatore, diessi a lavorare con tanta assennatezza, che le cose del mulino presero miglior piega, e i due vecchi di Gradiscutta e la Polonia poterono finire in pace la loro vecchiaia. Volete saperla tutta 1 Or bene, la Favitta e lo Sgricciolo rimasti soli hanno pensato bene di maritarsi, e il dabbenuomo, che per iscrupolo avea rifiutato una fanciulla fresca e mansueta, s'accontentò di sposare una vedovella arcigna e appassita con una figliuoletta di tre anni per soprammercato. Ora peraltro che a questa si è aggiunto un altro bambino, non hanno essi a lamentarsi della propria ~orte; né vi dirò che la Favitta sia un angelo di moglie, ma certo essa è bene

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lontana dal caricare il marito di quella croce che la Polonia avea fatto portare a Simone. In fin dei conti, chi tornasse a Glaunico dopo venti anni di assenza, potrebbe ancor dire: - Guarda mol Chi si sarebbe immaginato che quella vipera di fanciulletta dovesse farsi una donnetta di casa cosi saggia ed amorosa! Tuttavia un gran cambiamento avvenne nei gusti dello Sgricciolo; né certo il cielo l' avea destinato al mestiero del mugnaio, poiché appena ebbe raccolto un piccqlo capitaletto, pensò a comperare un buon pezzo di terra; e cosi a poco a poco il mulino rimase negletto, ed ora invece dietro di esso si stende una campagnetta così piana, regolare e ben piantata, che a colpo d'occhio s'indovina la predilezione del mugnaio per l'agricoltura.

X

Un mese fa, io passeggiava per quelle bande con un mio amicissimo, 1 il cui solo difetto è di odiare il canto delle allodole; ma lo compensa poi rispetto a me, coll'essermi compagno in una passione veramente artistica pei passarini. Ora mentre le scagliuole scherzanti al sommo del Varmo ci aiutavano a trascinar innanzi d'un qualche minuto questa vitaccia grulla e inconcludente,..,, una garzonetta ed un fanciullo, all'aspetto contadini, pensarono di unirsi al nostro spasso; e pur troppo ci convenne confessare d'aver trovato due maestri! La comunanza di piaceri ingenera simpatia; e la simpatia mena alla curiosità e la curiosità alle chiacchiere, onde seppimo in breve che que' due ragazzetti si chiamavano la Favitta e lo Sgricciolo, e che in tal modo erano stati battezzati dai loro genitori. Doveva essere d'ingegno molto bizzarro chi si piaceva d'imporre simili nomi ai proprii figliuoli! e non seppimo resistere alla tentazione di conoscerli. Dal conoscerli al farci contare la loro storia, e poi allo scriverla, la strada era tutta un pendio. Io mi lasciai andar giù per la china alla trasandata, come que' biricchini che godono di scendere rotoloni le rive erbose delle nostre colline. Del resto lo sa Iddio il perché da un si privato e lecito trastullo dovesse nascere placidamente una pubblica generalissima noial 1. Francesco Verzegnassi. 2. Giusti: A Girolamo Tommasi, v. 146: •di questa vita grulla e inconcludente».

POESIE

CONGEDO DA ALCUNE BAGNANTI DELLA SPIAGGIA DI GRADO

Vaghe donne e serene, il fato che su questa nuda spiaggia d'arene ci strinse a breve festa, or ci disgiunge; e in bando n'andiam noi sospirando. Cosi alle ciglia il mare via si dilunga oscuro, come al desio scompare il torbido futuro; oceano anch'esso, pieno di nubi e di sereno. « Oh colle verdi piume

l'alcion della speme alle candide spume almen sorvoli! » geme sì, la speranza anch'essa; ma geme una promessa( L'onda a voi della vita scorre lene e gioconda come quella infinita della marina sponda; sol le muti colore aura dolce d'amore. E pel ciel dei pensieri, se mai nei vaghi giri non fian sempre stranieri i memori sosp1n, s'illumini improvviso l'aere d'un conscio riso.

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Torni alla mente il sacro lito di Grado, e l'ore quete, e il fido lavacro, e le frodate aurore, e le sere beate senza luna passate. E la fortuna e il riso siano la vostra scorta nel terren paradiso; mentre a noi riconforta la vita egra lontana una lusinga arcana. Colloredo, agosto I856.

POESIE

DALLE «LUCCIOLE» (Bozzetti veneziani)

AGLI UOMINI DELLE ORE 1

Ben vi fu amico il senno quando la prima volta voi vi levaste a scolta del sonno cittadin. Allor dei pieni giorni fuggia impensato il volo, se il vigile oriuolo non ne annunciava il fin. Or non mi fate il broncio se tra gli inerti e i grulli vi trovo ben citrulli sl chiotti a restar lì. Oh che vi garba tanto batter la solfa al morto ? almen faceste corto di dodici ore il dì I

IL TOURISTE

Vien duro da Marsiglia colla sua guida in tasca ed in Piazzetta casca illustre oltramontan.

1.

uomini delle ore: vedi nota a pag. 684.

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Fiuta San Marco, sbircia la Scala dei giganti, compra un paio di guanti, si sdraia da Florian. 1 Carezza un po' la morbida e< Rivista de' due Mondi», guarda il Corso dei, fondi, paga il cigarro e il thè. Reduce a bordo, parte squartando una bistecca. Venezia dalla Mecca ei non distingue affé.

LA SAGRA DEL REDENTOREz

Rive e campielli inonda il popolar contento; cento barchette e cento guizzano nel canal. E delle appese faci la variopinta luce i navighier conduce al margine ospitai. Già popolosi gli orti sono di bande e deschi; e amor godendo i freschi per scettro il tirso tien.

Florian: notissimo caffè di Venezia aperto nel 1720. 2. Sagra del Redentore: è una grande festa veneziana che si rinnova ogni anno dal 1578, tra il sabato e la terza domenica di luglio; al calar della notte, tra musiche, canti e lumi, gondole e barche percorrono il canal della Giudecca e il bacino di San Marco per ricordare l'esodo del 1576 allorché molti Veneziani cercarono scampo dalla peste rifugiandosi su migliaia di barche. 1.

POESIE

Tal dei trionfi antichi la gioia al di s' offria; notturna fantasia ora sull'alba svieni

L'ALBA DELL'ADRIATICO

Espero brilla; il mare s'increspa lievemente, forse dell'alba ei sente l'alito messaggier. La prima luce appena col volto il crin s'asciuga, che dei vapor va in fuga il gregge mattinier; essa il fuggente incalza per valli e piani e colli, di lui fecondi e molli fa l'erbe, i rami, i fior.

E il sol, presagio eterno, ridendo alfin pel cielo, cinge con flammeo velo la terra del dolor.

LA CHIOZZOTTA

Sul burchio del suo Beppe venne a veder San Marco, né mai più fido al carco fu sguardo di nocchier.

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Ma al sospirato approdo la sponda non arriva, che già la bella a riva balza con piè leggier. Per ammirar venuta piazze, palazzi e chiese, cupido l'occhio intese e gli occhi altrui scopri. Tanto di ciò fu paga che di null'altro seppe; finì col dire a Beppe: « SchiavoP io rimango quil »

RIALTO

Coi canestrelli in braccio massaie e giardiniere sguisciando mattiniere s'alternano il buon dì.

E ad armeggiar di frizzi il fattorin le addestra che l'uscio o la finestra del pollaiuolo aprì. Scesa dal ponte intanto de' buongustai la frotta, su quella mostra ghiotta medita il desinar. Palpan lamponi e pesche, fiutan tacchini e pesce: - Nulla a Venezia cresce, tutto le dona il mari 1.

Schiavo: forma di saluto, da cui sembra esser nato il moderno ciao.

POESIE

LA VISITA « Nina, bellezza bella,

con qual piacer ti vedo! » « Viscere, te lo credo I » « Un mese senza te I » cc Di' duel » cc Mo' proprio I .•. È verol Uh come il tempo passai » « Perciò mai non ti acchiappa. » « Grazie I Ehi Zanze, il caffè.» «Prendi.» «È Levante?» « È proprio Moca ••. Cos'hai?» « Mi scotta Ancora.» « (Crepa, ghiotta!)» « (Di ribollito sai)» cc Bel tempo eh?» « Un po' scirocco.» « Come ? ten vai si presto ? » « Sì, cara ... un bacio. » « Questo e mille ... (al diavol va'). »

LA MAMMA NUTRICE

La giovin donna intende gli occhi nella bambina, che al sen la bocca apprende e colla man piccina cerca l'amato viso a pingerlo d'un riso. Non ancor due del tutto quell'anime son fatte, finché d'amore il frutto, succhiando il dolce latte, pende con grazia tanta dalla materna pianta.

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Ma la stretta s 1 allenta dei labbruzzi vermigli, la bimba s'addormenta, e nel lasciar i gigli del casto sen, sospira, e a sé la man ritira. - Chi non ha, o Madre, inteso da quale arcan timore quel tuo bel volto ha preso il subito pallore? - Il tuo core innocente diviso in due si sente!

LE DUE BIMBE

L'una, settenne appena biondinella pensosa, i lenti passi mena fra i cespi, ove ogni rosa a gara invan dimanda d'esserle al crin ghirlanda. L'altra, che nelle nere pupille il riso serba di sue tre primavere, folleggia via sull'erba, e il grembialin piegato empie coi fior del prato. Forse già il cielo impresse quei volti col diverso tenor di sue promesse; come talora in terso picciol cammeo figura varia d 1 eroi ventura.

POESIE

- Tu, fanciulletta grave, cresci agli ardenti amori; tu, bambola soave, al riso, al canto, ai fiori I - Io vi guardo pensoso e scegliere non oso.

L'ABISSO

disse; e la· protesa mano scorgea lo smalto fiorito d'una scesa, donde il monte dall'alto precipitoso piomba sul torrente che romba. a Là»

E di là si rialza la ripa e si contorce su via di balza in balza, il vento umido torce sull'orrida parete l'aggrappatosi abete. L'occhio rifugge; il fiero atteggiar delle rocce, l' aer senza notte nero per cui !'argentee gocce stillan sonoro eterno pianto d'un nuovo inferno, lo strepitar dell'onde contro il monte che d'ira mugolando risponde, tutto ribrezzo spira; bolle e s'agghiaccia il core tra delirio ed orrore.

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Alla mia mano appresa ella sporgea sul vuoto della gola scoscesa. Smorto, tacito, immoto com'uno di quei greppi, nulla più vidi o seppi. Ed ella pure al fondo il .grande occhio :figgea; così, fuori del mondo, di me che la reggea, di sé immemore, forse ad altra estasi corse. E vide una lontana speme, fidata maga d'amor, pinger la frana di sua iride vaga; onde ritrasse il viso inondato da un riso. « Ohi qui posiam, » le dissi « su queste verdi zolle;

al margin degli abissi cresce erbetta più molle.» Ella a cotali cose d'un sospiro rispose, e sedette velando le sognanti pupille a poco a poco; e quando a poco a poco aprille, vidi ogni speme mia che a morir se ne gia.

POESIE

LE NUVOLE

Acceso il sol tramonta, e coll'ultima luce mentre I' Alpi sormonta tra le nubi traluce; queste per fargli festa metton d'oro la vesta. Ed eccole vagare pel cielo agili e molli, come vele sul mare, come gregge per colli, figurando sembianze di conflitti e di danze. Creature d'un'ora, belle nuvole, addio! Come voi, si scolora il sognato amor mio; ma un caro dono acerbo in fondo al cor ne serbo.

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GLI AMORI GARIBALDINI PROEMIO

Questo librattolo da chi sia fatto l'ignoro affatto, lettor gentil. D'un volontario sotto il vestito so ch'è partito bianco in aprii. Di tronchi e sdruccioli arabescato so ch'è tornato col suo padron. Ora dei meriti, dei falli altrui chieggo io per lui lode o perdon.

AMORE GARIBALDINO

Poiché fu, per sua colpa o del destino, screditato l'Amor senza riparo, pensò vestirsi da Garibaldino colla lusinga che r avreste caro. Smessa prima la benda, il Dio bambino sempre leggier di testa e di danaro, gettò anche l'ali, prese armi e violino, e fu cosi soldato e campanaro.

POESIE

Se le canzoni sue sono gradite, certo godrà che il piglio soldatesco abbia le idee d'amor ringiovanite; ma se guardate fossero in cagnesco, lo udrete dire: - Deh mi compatite, almen perch~ ammazzai qualche Tedesco!

L'EPIGRAMMA D'UN BARABBINO 1

Son pur candidi e bellini cosi in ordin di battagliai Paion tanti gelsomini infilati in una paglia. Hanno i baffi di capecchio, di bucato il collaretto, ripulita come specchio ogni borchia del moschetto. E dal cielo il buon Radetzky capovolti e duplicati può vedere i suoi Tedeschi nei stivali inverniciati. Per far ottima figura a sì prode e bella armata manca sol la finitura d'una buona pettinata. CONFESSIONE DI BIGAMIA

Dirti, o bellina, io vo' una cosa, a patto che tu dopo ad alcun non la ridica. Or son molt'anni un voto aveva fatto di dar l'anello alla mia prima amica. 1.

barabbino: qui per monello, scapestrato, voce lombarda.

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E poiché schiava elr era, il suo riscatto per ottener, non trascurai fatica. Ma, la forza tentassi od il baratto, sempre fortuna alruopo ebbi nemica: alla coscienza il caso tal e quale esposi, e questa femmina di conio mi permise una sposa interinale. Io scelsi te. Ma portimi il demonio se or, che spero aver quella cotale, non mi fo Turco e indoppio il matrimonio.

A UN BUON CIGARRO

ler ti deposi all'ora dei sospiri, all'ora dei sospiri or ti riprendo; ieri il tuo fumo in indolenti giri ali' aer mesto si venìa mescendo, né m' accorgea di loro, né di te che dicevi: « lo moro, io moro. » Oggi le labbra han sete di conforto né mi consente il cor che ingrato io sia; e ti favello, e sento ch'ebbi torto di sprezzar la tua muta compagnia, povera foglia ardente che il cor m'incalorisci arcanamente. Ella mi è tolta, e tu per poco resti, povera foglia; e bruci e ti consumi. Cosi passano i di sereni o mesti, come passan per l'aria i tuoi profumi; e ne riman soltanto, cenere amara, la memoria e il pianto.

POESIE

I CONFRONTI DELL'IMPAZIENZA

Questa guerra che soffresi in Piemonte per torre allo stranier la Lombardia, questo andare e venir dal piano al monte di buon augurio non mi par che sia. Le nostre voglie, forse troppo pronte a slargarsi di Vienna in sulla via, or ristrette a sl piccolo orizzonte paventan qualche influsso di magia. Siano i grigi cappotti, o il gel sofferto, questo esercito nostro ha la sembianza d'un sogno sepolcral di Carl'Alberto. Mentre l'armata, che di Francia avanza, che vien, che è qui, ma nulla v'ha di certo, roseo un sogno mi par della speranza.

IL TESTAMENTO

Di due labbruzzi il bacio era per me un tesoro; ma l'umile retaggio a chi cadrà s'io moro? Oh con un solo augurio dal mondo mi d.ispicco: ch'altri non sia mai povero con quello ond'io fui ricco.

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IL GENERALE

Ha un non so che nell'occhio, che splende dalla mente e a mettersi in ginocchio sembra inchinar la gente; pur nelle folte piazze girar cortese, umano, e porgere la mano lo vedi alle ragazze. Sia per fiorito calle in mezzo a canti e a suoni, che tra fischianti palle e scoppio di cannoni, ci nacque sorridendo né sa mutar di stile. Solo al nemico e al vile è l'occhio suo tremendo. Stanchi, disordinati lo attorniano talora, lo stringono i soldati. D'un motto ei li ristora, divide i molti guai, gli scarsi lor riposi, né si fu accorto mai che fossero cenciosi. Conscio forse il cavallo di chi gli siede in groppa, per ogni via galoppa né mette piede in fallo. Talor bianco di spume s'arresta, e ad ambi i lati fan plauso al loro nume la folla dei soldati.

POESIE

Chi noi vide talfiata sulle inchinate teste passar con un'occhiata che infinita direste ? È allor che nelle intense luci avvampa il desìo delle Pampas immense e del bel mar natiol Fors'anco altre memorie ingombran l'orizzonte di quell'altera fronte e il sogno d'altre gloriel ma nel sospeso ciglio la vision s'oscura e quasi ei la spaura con subito cipiglio. Oh numi d'altri tempi, idoli d'altri altari tolti di braccio agli empi, salvi di là dai mari, ditemi: che chiedete al vostro vecchio amico? Ombre e non altro siete, ombre d'un sogno anticol

I CACCIATORI A CAVALLO

Cavalieri improvvisati, senza sacco e senza affanni a combatter siamo andati le falangi dei tiranni; noi di guerra fummo araldi, fummo guide e scorridor: viva, viva Garibaldi, presti in sella, o cacciatori

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Rossi e grigi, grigi e rossi non contiamo più di cento; ma la speme che ci ha mossi ci moltiplica al cimento, ma siam giovani, ma caldi per l'Italia siam d'amor: viva, viva Garibaldi, su spronate, o cacciator. Chi dai lucri s'è levato, chi dagli ozii della vita, chi la penna ha abbandonato, lo scalpello o la matita. Ma la fede ci tien saldi in un voto di valor: viva, viva Garibaldi, sempre avanti, o cacciator. Imboscati all'acqua al sole, scarso il pane, il ciel per tetto, per amanti le pistole e la sella abbiam per letto. Ma un amor non v'è che scaldi come l'odio ali' oppressor: viva, viva Garibaldi, sempre avanti, o cacciator. Cavalieri - brigadieri, marescialli e capitani, son fratelli - tutti quelli che menar sanno le mani. Son vigliacchi, son spavaldi quei che cercan lo splendor: viva, viva Garibaldi, a galoppo, o cacciatori Quando il bianco, il rosso, il verde a Verona sien sbocciati, mostrerem come si sperde la semenza dei Croati.

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Non più rocche, non più spaldi i Tedeschi avranno allor: viva, viva Garibaldi, a carriera, o cacciator. Piomberemo sopra mille pronti a vincere o a morire, le lor timide pupille ci vedranno ingigantire: della guerra i primi araldi ne saranno i vincitori Viva, viva Garibaldi, al trionfo, o cacciatori UN INDOVINELLO

Fu un dì solenne il ventidue di maggio quando prima toccammo il suol lombardo, né merta il ventisei minor omaggio che diè a Varese il libero stendardo. Del ventotto spuntb propizio il raggio che, volto in fuga lo stranier codardo, rivendicò dal barbaro servaggio Como, il bel lago e il popol suo gagliardo. Anche fu bello il trenta, pel tentato miracol di Laveno, e il giorno appresso pel dato smacco al generai croato. E i seguenti emular quelli di prima, ma il nove giugno fu si bello anch'esso che per dirne il perché manca la rima. 1 r. la rima: il zz maggio 18 59 Garibaldi varcò il Ticino, combatt~ a Varese il 26, a San Fermo il 27. Dopo scontri a Como e a Laveno, la divisione U rban fu costretta ad allontanarsi dal lago. Il Nievo nella notte tra il 28 e il 29, insieme a Giovanni Visconti Venosta e Giacomo Griziotti, aveva trasportato sulla sponda orientale del lago, su di un battello, quattro obici da montagna. Il 9 giugno il Nievo giunse sul Garda, ebbe una breve licenza e la Bice lo andò a trovare sulle rive del Benaco.

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IPPOLITO NIEVO

A CAVALLO!

Su a cavallo, a galoppo, a carriera! Dove ancora s' asconde un nemico dov'è ritta l'Austriaca bandiera a galoppo, a carriera voliam. Su compagni! - di secoli antico è quell'odio che in cuore portiam. Eran scesi dai boschi, dai monti come lupi notturni all'ovile; lo splendore dei nostri tramonti un riflesso di sangue sembrò. La sventura ebbe taccia di vile finché prode il furor si chiamò. Su a cavallo, a galoppo, a carriera! Sulla bionda progenie d' Arminio, contro l'orde dei Teutoni intera, la grand'asta di Mario restò. E dei Cimbri a supremo sterminio il fantasma di Roma s'alzò. Bastò loro l'orgoglio briaco dalle subite fughe smentito; dal Ticino all'azzurro Benaco noi le barbare terga premiam. Su, compagni! - Sul gregge atterrito a galoppo, a carriera piombiam. Ci dicevano pochi e tremanti, ci imbandivan per pasto ai Croati. Schernitori! siam tanti, siam tanti che nessuno di voi ci contò. Mal sapeste con quali soldati un tiranno a cozzar vi mandò.

POESIE

Tali siam che nel grembo materno lo straniero ad odiare imparammo, che bambini con nomi di scherno balbettando li femmo tremar; che i patiboli adulti sfidammo per poterli assassini chiamar. Chi abitava le cupe prigioni, chi batteva le vie dell' esiglio, chi l'oblio dei feroci padroni lusingava nei finti piacer. Qui un marito, là un padre, od un figlio di vendetta covava un pensier. Ma dall' Alpi alle Puglie un ruggito, un sol urlo di guerra si leva, sorge, cresce, s'allarga infinito tutti gli echi del mondo a destar. Gli rispondon la Senna e la Neva, gli rispondon la terra ed il mar. Non mariti, non figli, non padri, tutti d'armi son fatti campioni: guardan mesti i figliuoli le madri, ma il valore è più forte del duol. Dalle fosse escon fuori i leoni. Fremon l'ossa dei morti nel suol. Su a cavallo, a cavallo, o fratelli I Solo amore di patria vi scaldi; se siam pochi, saranno più belli i trionfi, più intrisi gli acciar; quando pugna con noi Garibaldi una spada per cento può far. Ve lo dican San Fermo e Varese, ve 'I ripetan le sponde del Garda, ei fu il primo del nostro paese

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IPPOLITO NIEVO

che la iena tedesca atterrb, che il furor della belva codarda col terrore del nome sventb. A galoppo, o compagni, a carriera sulle torme disperse correte( dov'è ritta una gialla bandiera là recate il mortifero stuol. Cacciatori dell' Alpi, sian liete per voi !'Alpi d'un libero sol.

IN TERRA

Oggi non vana immagine né in acqua capovolta l'ebbi; ma viva ed ansia l'ho fra le braccia accolta, e fu si dolce l'impeto e fu il piacer si forte, che dalle labbra smorte l'anima mia fuggi. Misto al languor dell'estasi sentiva a poco a poco nuovo desìo raccendersi dei colti baci al foco; l'armi ella intanto, l'abito squadrava e i bei ricami: l'amor da tali esami certo più vispo usci.

ANCORA DA LUNGE

Che i baci miei ti scottano, che i baci tuoi mi bruciano dissi per celia ier.

POESIE

Ma quelli che né io cogliere oggi, né tu puoi rendermi, bruciano a me davver.

BATTETE I TACCHII

Ieri avanzavasi in Val tellina un'accozzaglia garibaldina pezzente ed ilare come Gesù. Chi colla sciabola chi col moschetto chi colla tunica chi col farsetto, tutti son laceri e scalzi i più. Tai delle Esquilie alle pendici venner di Romolo . . . .. 1 pnrm am1c1, padri di consoli di imperator, che dagli sdrucii delle mutande, solenne augurio d'età più grande, porgean l' eroiche dovizie lor. O primi arcavoli sì grandi e cari, da quanti secoli

IOOI

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IPPOLITO NIEVO

pane e salari gli Iddii trattengono alla virtùl Fuori che i sandali non hanno ai piedi, quanto a voi simili sono gli eredi, sol ricchi d'anima, di gioventù I Ma forse avviansi scalzi alla guerra, perché la polvere della lor terra accresca ai lividi piedi il valor? Le trombe assordano il battaglione; mazzetti piovono baci e corone, e i canti mesconsi ai baci ai fiori - Presto stringetevi, giberne e sacchi; fate sul lastrico sonare i tacchi I grida un ironico caporalin. - Chi tacchi battere scalzo non seppe, li farà battere a Cecco Beppel risponde un diavolo garibaldin.

POESIE

GUÀRDATII

Verginella tanto bella che non hai chi ti somigli fra la gente di quaggiù,

.

.

su quei can volontari spandi pur le rose e i gigli: merta un premio la virtù. Ma la rosa rugiadosa che ti ride nel sembiante, ma i bei gigli del tuo sen, deh li ascondi pudibondi alla schiera petulante che cantando innanzi vien. Garibaldi sempre saldi contro il fuoco e la mitraglia pub avventare i suoi guerrier, ma all'aspetto d'un visetto che innamora che abbarbaglia non li pub più trattener!

LA PIGIONE

Il mondo è grande, e pellegrina in esso compie sempre la terra il giro istesso. Grande è la terra, ed ai suoi fianchi accetta

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IPPOLITO NIEVO

una regione che l'Europa è detta; l'Europa è grande, ma dal vasto grembo sporge fra l' Alpi e il mare il più bel lembo. Grande è l'Italia, e nell'Italia mia ride fra i monti e il Po la Lombardia. La Lombardia verdeggia e s'inghirlanda d'aprici colli in questa e in quella banda, ma fra quei molti colli un ne discerno ch'è verde più di tutti estate e inverno. E a piedi di quel colle è un paesello e una casa e un giardino a piè di quello, e di tutta la casa e del giardino io non voglio a pigion che un cantoncino; ma duri la pigion senz'altro avviso finché si compri casa in paradiso. - Siete contenti? lo nel suo cor m'ascondo e lascio a chi li vuol la terra e il mondo.

IL PENSIER PREDILETTO

V'ha chi uscito il mattin, poiché nei vari ozii s'avvolsc e nei romor del mondo, sull'imbrunir torna ai paterni lari al riposo fidato e verecondo. Tal io, vissuto il di fra i militari tumulti, con umor vario e giocondo, quando tramonta il sol néi santuari dell'amorosa mente mi nascondo. Là di ardite speranze un sempre nuovo strepitante drappello ed un'eletta brigata di memorie in festa io trovo. Ma fra tutti un pensier più mi diletta che dormicchia sereno nel suo covo come chi un dl miglior sicuro aspetta.

POESIE

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A CASAl 1

Le labbra un foglio di real suggello dal giuramento sciolse; ma un altro giuro intorno al cor s'avvolse, né re né Dio ci pub scioglier da quello. Il perpetuo ministro in malo arnese a casa ci rimanda; io mi rassegno a far come comanda, ma la casa non ho dov'ei s'intese. Non ho più casa ov'ho i parenti miei, ov' è la mamma mia; non ho più casa, o fior di leggiadria, ove framezzo a' miei pensier tu sei. A Modena, a Firenze od a Bologna l'Italia è la mia casa; dove speme di guerra è a noi rimasa, dove è già il cor, correr il piede agogna. Stasera giunsi, partirò all'aurora. Addio, mia bellal un solo bacio ti colsi sulle labbra, e volo a casa mia dove si pugna ancorai

A. ca,a!: I preliminari di Villafranca, ratificati poi dalla pace di Zurigo del 10 novembre 1859, non contemplarono la cessione di Mantova 1.

al Piemonte. Questa poesia del Nievo è una dolorosa protesta contro il destino di Mantova che vedrà la propria liberazione aolo nel 1866.

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IPPOLITO NIEVO

L'ULTIMO INNO

I tali a I I tali a I dal I' Al pi al mare sola a regnare noi ti vogliam. Da dieci secoli l'alto consiglio di padre in figlio ci tramandiam I Sorgi - le lacere membra rauna, libera ed una sorgi all'imperi Duchi e pontefici lottano invano col tuo romano soffio guerrier. Noi contro l'impeto dell'empie squadre, noi per te, o madre, saprem cozzar; ma vogliam renderti la tua fortuna, libera ed una dall'Alpi al mar. Oh alfin si vendichi l'antico scherno che un giogo eterno ci decretò;

POESIE

sia nostro il sangue che riconsacri d'ampii lavacri l'onda del Po. Trento, Venezia, Palermo e Roma, la fronte han doma, servono ancor. Ma in pugno a un popolo folto e gagliardo è lo stendardo dei tre color, ma in anni stringonsi dieci milioni contro due troni, contro un altar. Sorgi I le intrepide schiere rauna, libera ed una . sorgi a regnar. Altar sacrilego; porpore abiette; vili vendette non vogliam più. Resti un sol popolo sotto il tuo cielo e un sol Vangelo, quel di Gesù. ltalial Italia! dall'Alpi al mare un solo altare s'erge per te.

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IPPOLITO NIEVO

lddio, la patria sovr' esso stanno, non il tiranno né il Papa-Rei

EPILOGO

Come finirono guerra ed amore? Tel dica il core, gentil lettor. Misti versarono applausi e pianti, bestemmie e canti le labbra e il cor. Or da quel torbido sogno .diverso reduce al terso raggio del sol, senza né né roseo libero io misero e

ferreo laccio giaccio sol.

DALLE TRAGEDIE

I CAPUANI Tragedia in cinque atti Dopo la sconfitta di Canne (az6 a. C.), i Capuani si sollevano contro Roma e vogliono darsi un governo. Ma una lunga schiaflitù., una !Jita di raffinate 1tlollezze, la discordia dei cittadini, rendono Capua incapace di vera autonomia politica. Consci.a di non saper fronteggiare sola la vendetta di Roma, insofferente di una severa disciplina che le assicuri forza e indipendenza, si flota al nuooo vincitore, confidando in Annibale come in un protettore e trooando invece in lui un tiranno. Soltanto Lesio, un plebeo sannita, divenuto edile di Capua, si oppone alla wlontà del senato capuano, che, su proposta di Virio, chiede protezione al condottiero punico per la città. Annibale accetta e in Capua trascorre i suoi lunghi ozii di padrone potente e di politico astuto e abilissimo. Ma quando Roma torna alla riscossa ed egli tJede che per lui non ci sarà più fJittoria, il Cartaginese abbandona Capua a l'odio vendicatore dei Romani. Questi gli eventi tra i quali agiscono i molti personaggi della tragedia. L'edile Lesio, sincero amante della libertà e osteggiato dai patrizi, n,orirà combattendo in difesa di Capua: Virio, giooane patrizio, fJorrà pagare con la niorte la sua leggerezza e la sua impre!Jidenza che diedero alla patria un nemico e un tiranno#· con lui, Virginio, suo fedele amico. Seguono Pacuvio, «princeps senatus» del nuooo governo, che per amore di potenza apre la sua casa ad Annibale e gli prostituisce la moglie V estia e ne morrà poi di dolore e di vergogna con il giovinetto Marzio, suo figlio: Vestia, già amante di Virio, che per gelosia della bella Lesia accetta l'intrigo del marito e tradisce con l'amante la patria. Quando nell'estrema rooina di Capua ella vo"à da Vin"o perdono e morte, perdono e morte le saranno negati, e la profetica wce del morente la dannerà a ignominiosa !Jita. Infine Lesia, l'amante amorosissima di Vino, che in quell'ultima notte di amore e di morte, con serena dokezza dividerà con il giovane patrizio la hetJanda mortale, in un unico abbraccio. La maledizione di Vestia da parte di Virio, ha dato a lei, piccola plebea, solenne prova del suo amore.

ATTO QUINTO SCENA II

Il tn"clinio in casa di Virio. Intorno alla mensa riccamente imbandita stanno fra i fiori e le tazze i 27 senatori, fra i quali VIRIO e VIRGINIO. - LESIA, LUCILLA ed altre schiatie e matrone son frammiste con loro. - Ancelle e ancelli servono ai convitati. VIRIO.

Mesci il Caleno, o schiavo! (porgendo una coppa) Né d'ebbrezza né di velen son sazie ancor le vene, solo l'amor sull'umide pupille le stanche ali protende. - A tutti in giro mescete, o schiavi, e agli amorosi numi a Bacco, a Fauno, al frigido Vertumno propiniamo concordi I (Tutti empion le tazze) VIRGINIO. (innalzando la coppa) A te, diletto amabile Pluton, se nume sei, se il mio spirto raccogli, ospite mai finor avuto non avrà sì lieto la reggia di Proserpina. (beve) LUCILLA. (trattenendo la coppa) Virginio, la mia parte tu rubi. VIRGINIO. (porgendole il nappo) Eccola - è dolce il bere - scema una metà ne resta qual basta un femminil core a far sazio di morte. LUCILLA. (bevendo) O Virio, ai mani tuoi propino. 1° SENATORE. Al vacuo nulla io questo nappo colmo di dolcissima morte, a me consacro I (beve) MOLTI. Viva il piacerei VIRIO. E fra i piacer la morte! (guarda Lesia che gli siede pensosa al fianco) Lesia, perché t'imbronci? .•. avido troppo

I CAPUANI

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bebbe1 il tuo seno la mortai bevanda? LESIA. Virio, sorriderò fra le tue braccia fin dopo morta - al padre mio pensava. VIRGINIO. Al padre tuo? ... nobil nemico nostro egli era e degno di patrizia morte. Se ci serba natura a nuova vita io lui suaderò che tristi a torto ne giudicava - se nel nulla il salto mortai ci sbalza . . . (resta sospeso e melanconico) VIRIO. Che ti turba? VIRGINIO. Nulla! Quando tramonta il sol di nubi è cinto spesso, ma il suo splendor dona alle nubi il fiammar della porpora ... Lucilla! un bacio a te . . . Beviamo l ••• (bevono abbracciati inn"eme) 1° SENATORE. (ad una ancella che gli siede presso) O fida ancella! ... Per te il padron ... non ha tesori ... nulla occorre a te ... vicina a morte ... prendi l'ultimo fiato di sua vital (si abbandona fra le braccia dell'ancella e muore) L'ANCELLA. (alzandosi sbigottita) È morto il nobil Gellio I ••• è morto. (Avvien fra i commensali qualche turbamento) VIRIO. (facendo cenno di calmarsi) A lui sia gloria che ci precesse nel gran buio. (ad uno schiavo) O schiavo, t'addossa al tergo il nobil Gellio e fuori lo scaraventa sulla via gridando: questo, o popol di Capua, a te primiero esempio di virtù porge il Senato! ( Due schiavi prendono in ispalla il corpo di Gellio e fanno per trasportarlo oltre una tenda che è nel fondo del Cenacolo. - L'ancella si getta piangendo sul cadavere) 1.

bebbe: bevve.

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IPPOLITO NIEVO

O nobil Gellio I (corre a prendere una tazza per bere) VIRIO. (togliendole la tazza) Basta, o schiava - degna del velen non sei tu che all'ime fibre vitali nostre oggi è serbato. (a un gladiatore) Apollo, snuda la daga, e di costei trafitta godano i numi del padrone. ALCUNI GLADIATORI. A morte! A morte! (Menano l'ancella verso la tenda) L,ANCELLA. Sì, vengo alla morte - dolce signora ell,è che di perpetuo sonno ne fa contentil (li corpo di Gellio è portato fuori della tenda - i gladiatori vi conducono l'ancella) IL POPOLO. (dal di fuori) Orrore, orrore! 11° SENATORE. Grida inorridito il popolo - si libi al nume suo l'ultimo sorso! TUTTI. Viva il popol capuano I VIRIO. E presto viva. mercé di Fulvio, onde un miglior si accasi sul limpido Volturno! (bevono) VIRGINIO. (tramortendo) È vino e sangue questo ch'io bevo? LUCILLA. È sangue: è il sangue mio che in te si versa. VIRGINIO. L,occhio mio ... s'appanna già manca ... LUCILLA. Oh non morir, Virginiol ... attendi che morta io sia I VIRI0. Lascialo 1 sulla soglia ci attenderà dell'Orco. VIRGINIO. Ohimè ... Lucilla ... Già moro ... (riavendosi) Anzi rimango. O dolce vita ti risaluto ... come'

L,ANCELLA.

1.

Nel manoscritto il verso è incompiuto. (Errante).

I CAPUANI



SENATORE.

11°

SENATORE

VIRIO.

LESIA.

11°

SENATORE.

LIDIA.

VIRIO.

LIDIA.

LESIA.

VIRIO.

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il tuo tornar! (S'odono canti e tumulti di fuori) Udite, dei Romani è il canto trionfali Cerbero a questi pedanti carcerier roda gli stinchi che di tartufi calabri, e di freschi funghi ci frodar l'ultimo simposio! Mescete, o schiavi l (versando vino in giro) Ebe io sarò del vostro funereo convito! Ohimè qual serpe mi si attorce alle viscere! (si sdraia contorcendosi) (entra scapigliata e si getta ai piedi di Lesia) Deh dolce signora mia, ... morir tu vuoi? ... deh morte anco a me dona ... senza te qual fora di Lidia tua la vita? ove sì dolce trovare servitù se non nel grembo della gran Madre ? . . . Dammi . . . (fa per torre una tazza) (respingendola) Ti discosta, o schiava l ... lungi! ... il don fatal che chiedi a te lo dia d'un gladiatore il ferro! (appendendosi colla bocca alle labbra di Lesia) Oh no, signori ... io suggerò la morte sulle labbra di Lesial (abbracciandola) E venir meco vuoi sì giovane e bella! ... Or ben t'accetto di viaggio compagna. ( le porge un nappo) Ecco la tazza I Bevi I ... Di tanto amor la ricompensa sulle labbra di Virio abbi - ti cedo un bacio suo; più gran dono né il mondo né Lesia l'hanno da pagar la vita che doni a me. (bacia Lidia) Libera ornai non serva, colle mie labbra sulle tue suggello

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IPPOLITO NIEVO

il supremo voler di Lesia. UNO SCHIAVO. (entra impetuoso) Orrorel Fulvio la Curia invase ... i senatori in ceppi ... in ceppi è pur la plebe ... sangue . I... corron le vie. VIRIO e MOLTI. Morte ai tiranni( VIRGINIO. (respirando appena) Morte peggior di ... questa mia ... LUCILLA. (abbracci.andosi a Virginio) Virginio ... teco ... ne vengo ... pure del consorte duolmi che resta ... (cade senza parola sul lettucci.o di Virginio) VIRIO. Al fatai dì non possa alcuno dei Romani trovar la morte dolce che a noi soccorse . . .

SPARTACO

Tragedia in cinque atti Quinto Scauro, gio'lJane patrizio romano, Lentulo Battiato, ricco edile di Capua, e Marco Licinio Crasso si recano da Partenio il Trace, noto mercante di schiavi. Nel mercato di Partenio alcuni schiaw sono comprati da Lentulo, altri gli sono donati da Scauro, suo futuro genero, perché nei ludi gladiatorii allietino e diano lustro alle feste nuziali. Tra gli schiavi, in gran parte Traci, per dignità di portamento e per fierezza si distinguono Selimbro, Odrin·a e Spartaco. Questi, tra la loquacità inquieta e ribelle di Selimbro e quella altera e profetica di Odrisia, sua moglie, appare tanto più austero nel silenzioso riserbo e nella dignitosa consape'Volezza della sua nuo'lJa condizione di schiavo; subito si ri'lJela come il personaggio più nobile e più complesso, l'eroe della tragedia. A Capua intanto, Emilia, la figlia di Lentulo, ancora una 'lJolta promette amore a Criso, 'lJalentissimo gladiatore e suo fratello di latte, che ella domina completamente con la sua prepotenza e con le sue arti donnesche. Per amore di lei, Criso, animo fiero e insofferente di schiavitù, diviene il più docile dei servi. Lentulo torna da Roma e presenta gli schiavi alla figlia. Le annuncia poi· ch'essa è stata chiesta in sposa da Scauro e l'esorta ali'alto onore. Emilia accetta, per ambizione di divenire più potente e più ricca e invidiata tra le matrone romane, benché la vista di Spartaco l'abbia già accesa d'amore per lui. Così. quando Criso, nell'atto secondo, al ludo, sfida tutti i reziari a battersi con lui per potersi misurare con Spartaco, egli nel suo amore per Emilia intuisce che la donna è tutta per il barbaro trace e solo per lui vuole la tJittoria. Ma Spartaco ha giurato di non lottare contro un fratello di mentura e non lo farà. Dall'ira del popolo e di Scauro lo sal'lJa Emilia e con lui gli schia'lJi tutti. Con le più dolci lusinghe ella cerca di attrarre a sé Spartaco, ottenendo solo di esacerbare l'odio di Criso TJerso il rivale. L'altero sprezzo di Spartaco per la donna superba e impudica e il suo amore alla libertà placano la gelon·a dello schiavo e lo spingono ad unirsi al Trace nella rivolta che questi sta preparando. Dopo l'appassionata tJisione di Criso Oh quai piaceri imndii dunque ai Numi 1 Sarà Emilia al tuo collo coll 1ehume braccia sospua, e sciolte, come spire

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IPPOLITO NIEVO

di serpe innamorato, le sue membra t'insegneran d'amore il dolce peso . .. (ATTO Il, SCENA. 11)

le parole di Spartaco, alte e solenni nella loro semplici.tà, danno la misura dei due temperamenti, del diverso dramma dei due guerrieri. Se in Criso l'odio per la schiavitù e il desiderio di libertà si complicano nel dramma d'amore che lo porterà ad uccidere per gelosia Emilia, in Spartaco invece il dramma sta tutto nella solitudine della sua imperiosa volontà di esser libero e di dare libertà, lontano e superiore ad ogni sogno di conquista: non Roma egli vuole ma il ritorno sul suolo sacro della patria. Nell'atto terzo l'esercito dei ribelli prende stanza in Lucania,· nascono qui i primi contrasti tra i capi e Spartaco, che rifiuta come impresa folle il muovere direttamente contro Roma e cerca in'TJece l'aiuto delle popolazioni italiche stanche del mal sofferto giogo. Solo i Traci restano fedeli a Spartaco. I Germani guidati da Criso muovono contro Roma, e dopo un effimero successo li coglierà la irreparabile sconfitta. Con l'atto quarto si ritorna a Roma, nella casa di Scauro, dove, nella notte, Emilia chiede alla fida Amicla di cantare, per lenire le sue pene d'amore. Ma irrompe nella stanza Criso, tracotante. E la scena prima di questo atto vede la morte d'Emilia. Nella scena seconda e nella terza siamo nel campo di Spartaco. Egli, opponendosi al volere dei soldati e al volere dei fati che Odrisia gli di.svela, 'DUol condurre la sua gente attraverso il nord, alla terra patria. È accampato nel Lazio quando giunge notizia della sconfitta degli schitl'Vi sotto Roma. Al suo campo a"iva Criso morente per lanciargli la sua ultima parola di infamia e di odio. Spartaco si riti'ra negli Abruzzi: con la sua accortezza politica e con la sua forza di persuasione il Trace riconduce i suoi uomini ancora una volta nel meridione, dove vive tuttora latente lo spirito di rivolta,· di là, per altra via, i Traci riguadagneranno la patria, e solo ·in patria essi attaccheranno e batteranno il gran nemico. In Abruzzo Crasso sconfigge Granico, i Galli e i Lucani insorti; Spartaco rimarrà solo. A Reggio egli è raggiunto da Crasso e la battaglia è cruenta. L'atto quinto vede in/atti la sanguinosa fine dei Traci. Padroni e schiavi sono di fronte; è in gioco il potere e il prestigio per gli uni, la libertà per gli altri. Si battono da forti i servi, sl che Spartaco è fiero di loro.· con una morte gloriosa essi coronano tre lunghi anni (73-70 a. C.) di miseria e di lotta per la libertà.

SPARTACO

Tragedia in cinque atti. ATTO PRIMO Dalla SCENA II

Il Gineceo nella casa di Lentulo Battiato a Capua.

. . . . CRISO. EMILIA.

Ca1s0. EMILIA.

CRISO.

EMILIA.

CRISO.

. . . . . . . . . .

(costernato e quasi tra sé) Criso non sono! Perché tai detti? ... Onde quel fiero cipiglio? Criso non sono: né tu Emilia sei! Sì, sono Emilial ... Guardami ... son queste le braccia che al tuo sen si allacciàr forte cotanto che a implorar pietà sovente t'astrinsil ... È questo il petto, ove anelante, vinto posasti; e ancor da queste labbra stilla amor il suo mel; né queste ciglia s'ottenebràr dove cercasti a lungo e assai volte il contento e di maggiori felicità ti sorridea la speme. Guardami( ... Impalma questa mani T'appendi al collo ignudo e indomito qual marmo della cipria Afrodite. Or dove Emilia non trovi tu ?I • • • Qual nella voce suono non ricorda il comando, o le lusinghe invitte, o il dolce favellio di baci onde signor di schiavo, e di padrone schiavo t'ho fatto cento volte e mille? Sì, Emilia sei! . . . Nel tremito che tutta la persona mi atterra io ti conosco! Emilia scii .•. Pur non son io più Crisol Ben parmi e il temo. Sì commossa voce, sguardo si bieco non aveva, e tanto smorto pallor l'obbedienza tua. Criso non son, perché d'Emilia in bando Criso non vive. E quattro ciechi soli trascinaron pel cielo il lento carro

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EMILIA.

CRISO.

IPPOLITO NIEVO

dacché delusi di vederti, al sonno non già, ma a crudo, disperato buio si chiuser gli occhi miei. Dov'è la luce se tu non la ravvivi? ... E dov'è Criso se la sua donna non gli dice: « Servi ed amai»? Correr col cor sulle labbra a sognar una breve ora di vita, e trovar morte; e udir con mille orecchi la nota voce onnipotente ad altri più felici rivolta, e un sussurrio intender quasi di sommessi e tronchi . . . . 0 donna .... I ., C nso, . sosp1r no, non son p1u ma un forsennato! (/a un moto come per scagliarsi sopra lei) (guardandolo alteramente) Criso sei I . . . lo vuole Emilia e bastai ... Sei quegli che bevve il latte stesso dalle stesse mamme con me, compagno ai primi giochi, servo dei primi amor, della mia forza forte. Superba er' io di te, quando col ferro d'Orazio il furial triplice assalto con tre colpi fiaccavi, indi cogli occhi proni al mio piè, del pollice riverso delle matrone tu aspettavi il cenno, che l'arena sgombrasse al quarto eccidio. (come rapito dalle memorie suscitate da Emilia) O vita, o dolce vita perigliata per l'amor tuo, per un tuo sguardo l O ancise ostie propizianti il roseo nume di Cupido I Scorrea da m.olte piaghe il sangue, e l'esser mio pieno di pace tutto posava in te. Spesso lo scudo gittai dietro le spalle e l'ampio petto solo copria la roteante daga. Spesso, l'un braccio nella rete avvolto del fiero Trace, stritolai coll'altro l'avventato tridente, o lo rimisi al nemico nel petto, e ancora incerto tra la vita e la morte, usbergo a morte

SPARTACO

EMILIA.

CRISO.

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e oblio di vita la certezza m'era dcli' amor tuo I ... Da centomila bocche s'alzava plauso tal che fulminata la rondine dal rotto acre cadea, e di paura, come per minaccia di tremoto vicin, gemean nel buio carcer le tigri. Criso immoto stava in mezzo al circo ... E anch'ei gemea ... d'amore. Non ne avesti mercé? Quello che dritto a me tua donna aggiungere dovea di regina e di diva, a te dar campo può d'ingrata superbia? A' miei ginocchi se ti soffersi, credi tu che eretto rimbrottator non ti punisca? Criso, Criso, ricorda qual nascesti e quale nasceva Emilia! Da due lune assente il padre mio, pria che tramonti il sole, a Capua tornerà; mi piacque intanto quattro giorni goder nella marina solitudin di Baia. Altri piaceri che gli amorosi o tuoi vinsero il vago talento. Tu goder di ciò ch'io godo devi ; è legge dei servi: io di padrona le norme seguo. ler dicea: « mi lascia!» Soggiungo oggi: « mi segui, o Criso, io t'amo!» Tu m'ami? Or nulla io so, nulla ricordo, nulla chieggo di più I Panni che nasca ora il tempo per me, né ch'ei tramonti tosto mi cale, o che s'allunghi eterno. M'ami I ... Sì m'ami I È vero: e me l'hai detto colla tua voce che dall'alto piove come da ciel profondo; e lo ripete il tenor degli sguardi; e in fondo al cuore vengon cantando mille eteree lire, come se mille spiriti la loro voce desser pietosi all'ammutita beatitudin mial D'onde venite, celesti cori ? Nelle selve antiche ch'io mai non vidi di Germania, tanto

IPPOLITO NIEVO

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EMILIA. CRISO. EMILIA.

CRISO.

non è d'amor concento, allorché il sole scende furtivo tra i fronzuti abeti a vigilar misteriosi amplessi d'erbe, di fiori, e di farfalle d'oro! Né procace Corinto, o Lesbo aprica o Cipro ardente a Venere siffatta onda di canti invia, quanti il mio labbro erger ne vuole al nume tuo. Tu cingi la corona alla vittima: se brami di sangue un sacrificio, ecco m'uccido! Da quanto tempo il mio cinto si sciolse, o Criso, in braccio a te ? L'ignoro: come or saperlo potrei ? Non venti volte compito ha il sol l'annual suo giro da quel giorno: lontan di giovinezza è il tramonto, lo sai, né pria d'allora ti fia tolto d'amarmi. O donna, al sole fatta è simll la giovinezza mia: tramontando morrà!

ATTO QUARTO

Dalla SCENA I

Il cubicolo d' EmiUa nelle case di Quinto Scauro a Roma.

. EMILIA.

. . . . . . . . . . . . . .

(sola) Emilia volle e non ottenne: ecco il mio cruccio I A Roma vengo in traccia d'un regno, mentre il vile servo respira, che sdegnb le mie labbra! Respira? Egli ci sfida e vincei Spartacol O nome arcano! oscuramente tremendo, come strascico sanguigno di borea! cometa . . . Ei vince . . . il vile.

SPARTACO

1023

Ma qui a Roma non vien, dove supplizio avrebbe degno di sua grande audacia e dell'ultrici mie furie! Oh se ai tempi fossimo ancor di Clelia! Io, io vorrei ogni passo alla fuga, e alla speranza ogni varco precludergli; né morte di ferro avrebbe, ma terribil vita ai piedi miei[ Povero orgoglio! Astretto di fugaci lusinghe e dell'altrui debolezza a fidarl Oh la conocchia di Cornelia e l'invitto animo invidia fanno ai scettrati ozi d'Emilia! Sorge (va al davanzale d'una finestra) dal Viminal la luna, e a questo estremo della città manda l'azzurro raggio più tacito che altrove. Non di servi romore e di clienti assiepa gli atrii delle case di Scauro. Amor di pronti lucri o di irrisa libertà, o paura del tormentario insiem servi e padroni al campo trasse o al Forol Usbergo Roma servii si cinse. O triste irrepudiata eredità di Sillal E un servii campo la stringe intorno! Ahil se la fe' vacilla delle venali schiere d' Arrio, Criso invader la Via Sacra e la Curia potrebbe e questa casa e l'odioso mio letto •.. Criso! Il furibondo Criso! E cacciato ci sarebbe! E i veterani vendicherebber noi! Ma intanto? Amicla, vieni diletta ancella, e della lira al molle suon, sposa un eolio canto. (Amicla accorre e canta sulla lira le seguenti strofe) 1 EMILIA.

1.

Deh qual mesta canzoni ti sporgi, Amicla, dal davanzal .•. Oh non ti par che un suono· qual di passi furtivi nel compluvio

Mancano nel manoscritto e segue uno spazio bianco. (Errante).

IPPOLITO NIEVO

1024

AMICLA. EMILIA.

CRISO. AMICLA. CRIS0.

EMILIA. CRISO.

EMILIA.

1.

sonasse? Canta, o cara ancella I Vano timor notturno la mia mente ingombra, e al lene mormorio delle tue note forse i timori fien mutati in sonno. (cantando) 1 (nel sonno) Oh il dolce amori Ma furioso un odio quinci zampillai (S'ode un rumore) Oh Spartaco[ (Il rumore si avvicina, ed Emilia si, svegl-ia gridando) Qual suono d'armata gente ... (esce impetuoso sopra di lei.) Spartaco! No! Criso è a te dinanzi l Olà, soccorso I (all'ancella) Amicla, ben mi conosci: vanne e non un detto esca da' labbri tuoil (Amicla esce spiata da Criso) Vanne: securo qui stommi: in Curia Scauro; Arrio precinge i miei spersi Germani; il vii timore suoi prigioni li fai Ma Criso, o donna, Criso conquista la sua Roma: solo, o capitano d'infinite schiere; col pugnale, o con mille e mille ferri te giungere volea: ti giunse. Or bene? E che da cib? Lo chiedi ? È la tua vita in mia man I (battendosi il petto) Qui è il padroni Padrone? O servo, prostrati e adorai e sol quand'io comandi di volger al mio cuor quel titubante ferro, lo inoltra e della manca agli occhi facendo un velo, irresoluto il colpo non disviar ••. Servo, dar morte puoi,

Vedi nota a pag.

1023.

(Errante}.

SPARTACO

Ca1s0.

EMILIA.

Ca1s0.

65

ma sempre servo: io, tua signora, morte pretenderò da te, signora sempre. E pur morendo, tal di tua vendetta darotti in premio furia! castigo, che schivar noi potrai fuggendo all'Orco, ma in questo luminoso Erebo fitto a trascinarlo spaventosamente piangerai, gemerai: l'aere a te pieno di null'altro parrà che del tuo lungo insaziabil odio e d'un dolore senza speranza, laida l'esistenza d'orrende gelosie, senza quiete il profondo sepolcro! Oh generosa padrona! a me quello che tor non puoi concedi! •.. Oh grazie! Il malcelato sdegno prezzo raddoppia alla vendetta. Indarno l'antico amor di nuove punte armato i lati tenta del cor mio. L'amore premio cotanto di dolcezza ottenne che sol dall'ira altra maggior ne sperai E me odiando, o sconsigliato, uccidi? Ben farlo al pari tu potresti amante. Oh non vedi in qual tedio i giorni miei vansi invischiando? E come ogni grandezza scarsa mi sembra? E come intollerante di questo fango mi dibatto? O servo, uccidi Emilia! Essa di più non chiede alla man d'un ribelle, che troncata sarebbe, sol ch'ella il volesse! Tronca codesta man ? Codesta man che strinse di trentamila valorosi il fato? e lo trasse a scrollar le vostre sacre inviolate porte? Oh facil· tanto, donna, non è: forse sta immoto ancora il dio Termine; e noi frena; ma sciolti furo i ceppi per sempre; e se l'astuto Arrio ci strinse, disgiungendo Criso

1025

1026

EMILIA.

CRISO. EMILIA. CRISO. EMILIA. CRISO.

IPPOLITO NIEVO

dalle schiere di Granico, se sacri sono a Plutone i trentamila servi, non meno è ver che viva o morta stringo Emilia in questa man, che tronca invano ella vorrebbe! I tormentari tuoi dimmi, ove son? Figlia di re, non morte facile e pronta qual la vuoi mertasti I Altri oltraggi e miserie a te matura il tempo, onde frodar non cerco i tuoi anni ridenti. Un nobile io ti venni spettacolo ad offrir. Libera morte vedrai di Criso e fortunata in onta a' tuoi spergiuri. Vedi ? Io nulla temo. Né t'amo più; senza dolor ti lascio come già t'adorai senza pensiero! Ecco I • • • (volgesi la daga al petto per uccidersi) (trattenendolo) O servo t'arresta! A te l'impone Emilia, donna tua! Per vendicarti vivi! Io t'amava; sì t'amava e un altro il mio cor ti rapì. Spartaco, sallo ora: Spartaco amai: te sol per esso tradii: tradisce egli per me voi tutti. Egli m'ama, e, da n1ie lacrime indotto, i suoi Traci allontana, voi lasciando preda inerme ai Pretor. Te sol per esso abbandonai: di te tanto mi curo quanto d'un fiore che oziando sfoglio. Sol lui cerco ed adoro: a lui vorrei me dar, la vita e Roma tutta e il mondo e il cielo! Oh il cielo da te l'ebbi io pure e me l'hai tolto per donarlo altrui I Spartaco! Muori, scellerata! (la trafigge più volte) (cadendo) Furia eterna in voi vivrb. (la trafigge ancora) Muori! A vendetta della tradita libertà, del mio tradito amore io vivo ...

SPARTACO

EMILIA.

CR1s0.

AMICLA. SCHIAVA.

AMICLA. SCAURO.

AMICLA. SCAURO.

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Unico mio Amori Diletto e a me terribil tanto! Spartaco, addio! Lo rivedrai nell'atro grembo di Dite e me pur là vedrete tra mille e mille ombre romane avvolto. Schiave, ancelle, accorrete ... Ecco la vostra donna! ( Esce Amicla colle ancelle) Vestita io l'ho d'una cruenta porpora! Ancora in lei bella è la mortel (fugge) Criso! vedeste Crisol Era una bieca larva di mortel (SollttJano il corpo già esanime di Emilia e lo mettono sur un lettuccio) Criso era, vi dico! (entra affrettato) Che fu? Qual larva per le scale ... (vede Emilia) Ahi vista! Emilia, Emilia! Criso, il suo germano amante la svenò! ( lascia ricadere il corpo che ha sollevato) Schiave, per colpa di matricidio tutte a morte andretel Non un sol motto pur, se aver divelta non vuol la lingua la ciarliera. Emilia morì di vostra man. Lo giura Scaurol (Le schiave partono da un lato e Scauro da un altro)

ATTO QUINTO SCENA ULTIMA

Il campo di battagl,,'a nella penisola di Reggio fra le tn"ncee di Crasso e il campo di Spartaco. SELIMBRO e ODRISIA.

SELIMBRO. Donna, fuggiam. Spartaco è morto. Un Trace vivo non è. Balestre e catapulte non bersagliano più che palpitanti

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IPPOLITO NIEVO

visceri o membra disquarciate. Vienil Un rapido fascio dalla riva ci trarrà in breve alle cilicie prore. lo stesso rappostai: di quei corsari ho amico alcun: in Tracia andremo a nuova guerra: tu con me speranza, io teco forza sarò. Serbare a di migliori vuolsi il valori Serbalo dunque! Pere ODRISIA. per me la Tracia, ove Spartaco pere! Se mentiscono i fati, Odrisia ai fati mentirà I Uugge) 8ELIMBRO. Corre a morte. O vana speme! O sognata vendetta! (fa per seguirla e s'incontra con Lucceio che entra ferito e cade spossato sopra un sasso) O dolce morte I Luccino. (cadendo) Scendi sugli occhi miei I SELIMBRO. Lucceio! quali eventi? Io muoio ... E tu Selimbro? Oh corri LUCCEIO. a morirl ... Sopravvivere un sol Trace a Spartaco non dee I SELIMBR0. Cadde? LUCCEIO. Sl cadde, ma più fiero risorse e stese il pazzo Scauro al suol, sgominò da solo tutta un'equestre battaglia ... Incoronato di ferite ... Sul suo livido volto il sangue scorre e lo sfigura. Un'irta larva egli par. Vedi! Ancor pugna l Egli cade ... No ... Piega verso noi . . . SELIMBRO. Eccolo! SPARTACO. (entra, trasfigurato dal sangue che lo inonda) Morto non son? O luce, come lieto io lascio la vision tua crudal Odrisia sparve dal fianco mio . . • Furio morì . . . Non vidi le ginocchia piegare un sol de' miei: felice io muoiol (si abbandona su un masso)

SPARTACO

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SELIMBRO. Ah tu felice muori? SPARTACO. Selimbro? Vivo ancor? Torna alla pugnai SELIMBRO. Felice muori? Io dolorando vivo I Oh furiel Io te rivai, padrone, duce ab borro: te copertamente trassi alla ruina, e non giovò. Felice muoril Misero io vivol LuccEIO e SPARTACO. Oh traditore( SELIMBRO. Non traditor, ma difensor del mio sangue, de' dritti mieil Odrisia amava! Per la Tracia pugnai, mentre costui fra greche nenie, ed in romano sago vivrà molle e contento. E tutto, tutto a me rapì I ••• Di vendicarmi il fato mi tolse. Or parte almen della vendetta abbia il mio ferrol (si getta addosso a Spartaco per truddarlo, ma i soldati romani, che entrano precipitosi, glielo impediscono. In mezzo ai Romani s'Q.'l)anza anche Crasso e dietro di essi Partenio) MOLTI SOLDATI ROMANI. (impadronendosi di Selimbro) Prigionier tu sei I ALTRI. Abbiamo un prigionieri (conducono flia Selimbro che si dibatte invano fra essi) LuccEIO. Me non avrete, o scellerati I SPARTACO. (si rialza per combattere) Te Lucceio io seguo più fortunato!(/ Romani si arretrano quasi impauriti) CRAsso. Chi sei tu cruenta larva, che per pugnar sorgi da morte? SPARTACO. Chi son? ... Non lo diròl Promesso il fato m'aveva una coronai (si terge la fronte e gli occhi con le mani che ne rimangono insanguinate) E sanguinosa or me la diede e tal che più risplende d'ogni corona agli occhi miei I CRASSO. Costui vivo si prenda! SPARTACO. O traci numil Salgo

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IPPOLITO NIEVO

da degna tomba a voi.

(combatte e cade) CRASSO. Sì orrenda strage Silla non vide. Ora sgombriam; trionfo di tal vittoria non vogl'iol Sepolto sia coll'armi quel prode. P ARTENIO. O imperatore, quanti Traci prigioni a me concedi pel pattuito prezzo ? CRASSO. Un sol, Partenio, ne presi. Ben cinquantamila corpi venderti posso a concimar le tue colonie. UN SOLDATO. Il prigionier, da un'insensata strega trafitto, morto cadde. CRASSO. Odrisia, certo I ••• Dov'è? S'uccise anch'ella! UN SOLDATO. CRASSO. Or venga Pompeo libitinario. Questa guerra noi gli cediamo per tornar a Roma. SOLDATI. Evviva Crasso imperatore! ALTRI. Viva l'Imperatore! Il Console futuro! CRASSO. Se Console sarò, con poco sangue non avrò compra la pretesta e i fasci, ma trecento talenti io ci sparagno. (Partono tutti).

SCRITTI POLITICI

VENEZIA E LA LIBERTÀ D'ITALIA Quod Deus conjunxit homo non separd. 1

Le scritture politiche d'occasione appaiono di solito anonime perché vogliono considerarsi dettate da quel puro buon senso popolare e da quell'assoluto criterio di moralità che dovrebbero essere universali in una nazione e dominare l'espressione storica della sua vita. Buon senso e moralità popolare sono i due autori dello scritto che ora viene in luce. I

Venezia dopo Roma è la città più italiana della patria nostra, anzi in alcune parti della sua storia e ne' suoi multiformi ordinamenti politici serbò meglio della stessa Roma l'impronta del prisco spirito italico. A ciò cospirarono molte ragioni; e forse più di ogni altra quella di razza, essendoci dimostrato coi documenti alla mano che delle varie stirpi italiane la veneziana è quella in cui si trasfuse più puro il sangue dell'antica Roma patrizia e plebea. E le storie e le ballate e un bel coro del Verdi nell'Attila resero popolare la poetica tradizione dei profughi aquileiesi. 2 Non è dunque strano anzi veniva necessario, che Venezia si dimostrasse più veramente italiana di tutte le altre città consorelle nelle quali all'elemento latino se n'erano mescolati altri disparatissimi dei popoli . . 1nv~son. Tale peraltro non è, lo sappiamo, l'opinione comune degli storici moderni. Ma rivedendo le vicende medesime da essi raccontate è facile chiarire che, scambiando essi la forma per la sostanza, accedevano ingannati a un'opinione contraria. Secondo noi non è segno di maggiore o minore italianità l'essersi più o meno mescolati alle azioni dei popoli italiani, ma lo avere con maggiore o minor costanza propugnato il principio della loro libertà, e adempito il compito che loro incombeva nella civiltà moderna. Il Nievo trasse questo versetto dal Vangelo (secondo san Matteo xix, 6-7), e lo verrà ripetendo nel corso dell'opuscolo. 2. profughi aquileiesi. Giuseppe Verdi rappresentò la prima volta il suo Attila, nel 1846, a Venezia. Il libretto del melodramma, in un prologo e tre atti, è di Temistocle Solera e tratto dal dramma di Zacharias Werner (1768-1823), Attila re degli Unni. Il coro di cui parla il Nievo è nella scena vu del Prologo e ripete il motivo del canto di Foresto, nobile signore di Aquileia. 1.

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La Repubblica veneziana si preservb, è vero, con fortuna pari soltanto all'accorgimento, dalla confusione politica e sociale del resto d'Italia, e si astenne dal partecipare a' suoi rivolgimenti ogni qualvolta dipendevano da altro che dal gran principio politico italiano; ma le pochissime volte che un tal principio balenb confusamente alla mente della nazione e si fece strada a coordinare gli avvenimenti, Venezia entrb a dominare naturalmente quella fase di vera storia italiana colla preponderanza del suo senno, della sua antichità, della sua potenza. La guerra sostenuta contro l'invasione dei Franchi dopo la rovina longobarda, la lega contro Federico Barbarossa e l'eroica resistenza agli alleati di Cambrai ne sono tre splendidi esempi in tre punti della sua storia diversissimi di grandezza e di tempo: 1 senza ricorrere a quell~ secolare e meravigliosa repressione dell'usurpazione ottomana che fu la naturale continuazione dell'antica politica italiana appetto all'Europa, e nella quale Venezia durb sola e instancabile; ultima crociata per la difesa della civiltà cristiana che non valse a salvarla dall'immensa ingratitudine europea né durante la guerra di Candia né alla vigilia del trattato di Campoformio. Ma lasciamo di por mente all'applicazione dei doveri morali nelle grandi quistioni dei popoli: sembra quasi che più l'umanità si raccoglie collettivamente a regolare se stessa, e meno le siano sacre le norme di verità e di giustizia. La coscienza di milioni e milioni di persone rappresentata da un Congresso2 I. Il Nievo accenna qui a tre episodi capitali della vita della Repubblica veneziana. Nelr810 i Veneziani e i Bizantini difesero le lagune daU-invasione pipiniana e nell'814 il trattato franco-bizantino di Aquisgrana riconosceva la sudditanza di Venezia a Bisanzio. Da quell'epoca in poi i Bizantini non entrarono più in acque veneziane, affidando la difesa di quei territori lagunari agli abitatori di Rialto. Anche Venezia partecipò alla lega dei Comuni contro Federico I e fu sede del congresso di pace tenutosi nel 1177. La Lega di Cambrai fu conchiusa il 10 dicembre 1508 fra Massimiliano, Luigi XII e il papa Giulio II. Vi parteciparono poi il re di Spagna e il duca di Ferrara. Venezia si difese strenuamente contro le forze scatenatele contro da Giulio II. Nonostante la sconfitta del 14 maggio 1509 ad Agnadello, Venezia riusci a resistere e a ricuperare i territori perduti. Ma la Lega portò Venezia a rinunziare ad ogni ulteriore conquista egemonica nella terraferma italiana. 2. Dopo la firma del trattato di Zurigo (10 novembre 1859) che chiudeva la seconda guerra d'indipendenza con l'annessione della Lombardia, parve imminente la riunione di un Congresso europeo per regolare in modo definitivo anche la questione italiana. Tutte le Potenze aderirono, tranne la Russia. Napoleone III, gli ultimi giorni del dicembre 1859, riusci a mandare a monte il Congresso, quando già il Piemonte aveva accettato la sua richiesta di cessione di Nizza.

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ha diritto di esser sorda: la ragione dell'umanità intera incarnata nella storia ha diritto di mostrarsi cieca. Assurdo violento e imperdonabile! La volontaria segregazione di Venezia dall'Impero Occidentale non appena quest'Impero cessò di essere italiano fu un primo frutto della sua indole rimasta anzi tutto libera e civile. 1 Libertà e civiltà, ecco gli antichi segni della gente latina perduti dalrltalia del Medio Evo e serbati sempre da Venezia e difesi con una sequela infinita di guerre, di trattati, e di interne rivoluzioni. Se mantenne per qualche tempo una consuetudine di ossequio ali' Impero Orientale fu soltanto perché esso pareva erede della civiltà romana; ma quando l'ignoranza e la corruzione lo privarono di questo retaggio, venendo a cessare in lui ogni ombra di diritto, Venezia sorse libera grande e sapiente, come sola e completa rappresentante dello spirito antico italiano nella storia moderna. La sua civiltà (rimasta anzi tutto pratica e mercantile per l'occasione del commercio di mare, come la romana erasi serbata pratica e rurale per la occasione delle colonie e conquiste esterne) crebbe e fiorì all'ombra di una marineria guerresca unica al mondo, come la romana era cresciuta all'ombra delle aquile legionarie. E lo schermo stesso che difese contro i Turchi di Costantinopoli, contro gli U scocchi del Don e i Barbareschi di Tunisi le transazioni e gli stabilimenti commerciali di Venezia, proteggeva in pari tempo il rinascimento letterario, scientifico ed artistico dell'Italia e del mondo. Quelli erano i canali per cui questo dalle antiche radici greco-latine si propagginava alle moderne italo-toscane. Dante deve tanto a Venezia quanto le devono la giurisprudenza rinata a Bologna, e la libertà dei Comuni; perché a vivificare di erbe e di piante un suolo isterilito si vuole il vento che vi porti il seme e l'aria fecondatrice che ne protegga lo svolgimento. La libertà, il senno civile, la virtù patria, la moderazione splendono ad ogni pagina della storia di Venezia; e non fu sua colpa se questi esempi d'antica civiltà e di fortuna non furono imitati dal resto della nazione. Ché se molti secoli dopo essa si avvolse nelle ombre del mistero, cercò la pace del silenzio o della dimenticanza e sembrò nascondersi come Cesare nelle pieghe della sua toga per morir rassegnata; ciò accadde per questo, che il suo ministero di civiltà era fornito o passato senza sua colpa ad altre mani, 1. Il Nievo qui vorrà accennare alla dipendenza di Venezia dall'Impero d'Oriente nei primi secoli della sua esistenza.

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che gli altri popoli italiani aveano sprezzato i suoi insegnamenti di concordia e di libertà per cui la solitudine ne avea isterilito i principii anche presso di lei, perché anzi tutto l'Italia, annichilita nella sua azione civile, era costretta ad aspettare il fomite del suo risorgimento da quelle nazioni straniere, verso le quali Venezia per soverchia fedeltà all'orgoglio tradizionale latino era avvezza a guardare con occhio romano. Altre mani scomposero, è vero, le pieghe della toga cesarea, e cacciarono l'antica imperatrice ad agonizzar boccheggiante a' piedi d'un tiranno: ma non si sta a noi il vilipendere tanta sciagura, a noi che vedemmo la regina decaduta, l'antica schiava creduta morta e conculcata, riprendere in un giorno di gloria la sua bandiera, inalberarla più alta, più libera, più santa che non fosse mai stata neppur ai giorni d'Enrico Dandolo e di Lepanto, 1 ed additarla alle genti italiane simbolo di concordia, di moderazione e di costanza. Quante di queste genti ebbero il senno, la gloria o se vuolsi anche la fortuna di intendere quell'eroica chiamata? Altri ne faccia il novero; per noi basta notare, che l'esempio più integro e longanime di sapienza civile anche nella penultima guerra d'indipendenza ci venne da Venezia, da colei che ingrati od illusi noi avevamo condannata o alla corruzione del sepolcro, o alla spensieratezza del carnevale. Iddio ci perdoni, cosi di averla male compresa come peggiormente imitata. II

Venezia durante il primato napoleonico ebbe un solo atteggiamento: quello dell'aspettazione; non partecipò né alle resistenze misogalle del mezzodì, né alle civiche illusioni della Cisalpina. 2 Sentiva troppo e sapeva per recente esperimento di non essere matura all'incorruttibilità repubblicana per invidiare gli ordini semi-spartani delle nuove democrazie; piuttosto rimpiangeva la propria libertà, scema se vuolsi e corrotta da soverchie cautele, ma doge Enrico Dandolo, negli anni tra il non tanto degli scopi religiosi della quarta Crociata, quanto di inalberare più alta, più libera la bandiera veneziana sulle mura di Costantinopoli, cooperando alla costituzione dell'Impero latino di Costantinopoli di cui fu re Baldovino di Fiandra e beneficiari furono i Veneziani. La battaglia navale di Lepanto del 1 571 fu gloria quasi esclusivamente italiana, e veneziana. 2. Le Confessioni d'rm Italiano hanno lunghi capitoli che trattano di queste vicende: quelli dal XIV al xix. 1. Veramente l'ottuagenario 1201 e il 1204, si preoccupò

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più di tutto veneziana o confacente all'indole storica del suo popolo. Non diede pertanto al mondo il buffo spettacolo delle smanie d'un' Arianna abbandonata; ma soffri in silenzio, corrispose ritrosa alla straniera adulazione, e in fondo al cuore aspettb. Trasse da tal condotta meno glorie e minori errori del resto d'Italia, poiché fu vera quale doveva essere, e la verità e la moderazione sono le migliori ispiratrici d'un savio contegno politico. Ai congressi del I 5 si lasciò addentare e sbranare in silenzio sapendo che le grida a nulla avrebbero servito senonché forse a scemare di dignità il suo martirio; non accampb pretese ma non trascorse in eccessi, serbando così intatti pel futuro i suoi sacrosanti diritti. Qualche fievole voce, avvivata forse dal nascente sentimentalismo, si levò qua e là a supplicare in suo nome, senza che essa mostrasse accorgersi delle indecorose preghiere. D'altro canto al contatto della moderna civiltà essa avea perduto fede in se stessa; e per ristaurarla le conveniva meditare a lungo e in silenzio le necessarie trasformazioni del proprio principio vitale. Credeva nella libertà, ma non più in quella che s'era instaurata sul patibolo di Marin Faliero; 1 credeva all'indipendenza, ma non a quella che ella avrebbe potuto ottenere in elen1osina dallo czar di Russia o dal Gabinetto di Saint James; prima poi di aspirare ad un'altra libertà, ad un'altra indipendenza di cui vedeva sì splendidi e orgogliosi esempi nelle nazioni vincitrici, le bisognava credere a se stessa, alla propria virtù ; e per credere a codesta virtù, bisognava riguadagnarla. Ecco l'opera cui si accinse silenziosamente Venezia durante la dominazione austriaca dal 15 al 48; e per Venezia non voglio già intendere quel gregge tremolante di patrizi rimbambiti, di ciambellani servili e di eunuchi burocratici che aveva figura di rappresentarla in faccia all'Europa nell'anticamera del viceré Ranieri di frolla memoria; 2 sibbene intendo quell'accolta generosa di spiriti che ripristinava sotto un 1. Marin Faliero. Il tentativo del doge Marino Falier di abbattere il potere oligarchico e di instaurare un potere personale fu stroncato, e il congiurato venne condannato a morte e decapitato il 17 aprile 1355. 2. L'arciduca Giuseppe Ranieri d'Absburgo divenne viceré del LombardoVeneto il J gennaio del 1818, per incarico del fratello Francesco I. Fiorentino di nascita, bonario e di poco polso, non ebbe mai le lodi del Metternich, che lo fece assistere nel governo da suoi uomini di fiducia e che demandò di fatto tutto il potere ai due governatori, di Milano e di Venezia. Aveva sposato nel 1820 Maria Elisabetta di Savoia, sorella di Carlo Alberto, e una sua figlia fu sposa di Vittorio Emanuele II. Lasciò il Vicereame il 17 marzo 1848, poco dopo lo scoppio della rivoluzione.

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abborrito vessillo la gloria delle galee di San Marco, che a petto di odiosi privilegi, d'una colpevole e pensata indolenza governativa, e di infelici condizioni economiche, combatteva ostinatamente pel primato commerciale colla favorita Trieste, che parlava eloquente e patetica nella letteratura di quel tempo, che col sangue vitale della bontà e della sapienza paesana cementava nuovi vincoli all'unione italiana. Un'educazione marinaia, robusta, agguerrita e quasi repubblicana per la protezione che le porgeva contro la polizia austriaca la libera vastità dell'Oceano, una prosperità commerciale sempre benché lentamente crescente, un rifiorimento letterario e civile ch'ebbe la sua espressione periodica nelle pagine del Gondoliere condussero Venezia a poter intendere ed ammirare le satire civili di Carrer 1 e lo stupendo sacrifizio dei Bandiera e di Moro. 2 E le vene rinsanguate e le forze cresciutele col diuturn.o esercizio le fornivano nerbo a sperare che l'occasione l'avrebbe trovata pronta a n1etter in pratica quei civili avvertimenti e ad imitare il generoso esempio dei martiri di Cosenza. Non vogliamo giudicare se la turbolenta opposizione della Lombardia e delle provincie emiliane giovasse a tale scopo meglio della meditabonda concentrazione di Venezia: certo condussero ali' egual fatto ché la splendida aurora del pontificato di Pio IX3 trovò tutti questi paesi desti ugualmente alla speranza della libertà, e consci e padroni delle proprie forze per ottenerla, Venezia al pari di ogni altra città italiana. E lo provò, crediamo, splendida1. Luigi Carrer (1801-1850) scrisse oltre alle Ballate, agli Inni e agli Idilli, anche Odi, alcune delle quali satiriche, che però non sono la parte migliore della sua produzione letteraria. È probabile che il Nievo non conoscesse le sue Odi politiche e i suoi Sonetti (stampati infatti solo nel 1868) contro il Manin e gli altri difensori più decisi della Venezia quarantanovesca. Al Carrer si lega anche il ricordo delle edizioni del a Gondoliere•• da lui iniziate nel 1841: egli si proponeva la pubblicazione di una Biblioteca classica che avrebbe dovuto raccogliere il fiore della letteratura italiana, ma, su cento volumi previsti, ne uscirono solo ventisette. Il Carrer fu inoltre fondatore di un giornale, a Il Gondoliere•, che usci a Venezia dal 1833 al 1843 e al quale egli collaborò lungamente. 2. Bandiera . .. e Moro. Di Attilio ed Emilio Bandiera e del loro compagno di cospirazione, Domenico Moro, fucilati nel vallone di Rovito il 25 luglio 1844, fondatori nel 1840 della società segreta Esperia, affiliata poi alla Giovine Italia, i Veneziani serbarono sempre profonda e orgogliosa memoria. 3. Dall'elezione (16 giugno 1846) all'allocuzione del 29 aprile 1848 in cui Pio IX annunciava il ritiro delle truppe pontificie dal teatro di guerra.

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mente nei due anni' che susseguirono, tanto gloriosi per lei di virile eroismo e di magnanimo lutto. III

Ma nelle lunghe settimane della schiavitù, sotto la pressura della tirannia austriaca, e quasi per merito di questa, una gran vittoria italiana crasi ottenuta, l'unione non solamente politica ma morale e civile della Lombardia colla Venezia. In questo furono logici gli ordinatori del I 5 che giudicarono eterna occasione di discordia la divisione di queste due provincie italiane, e insieme le consegnarono da impecorire all'occhiuta burocrazia austriaca. Quello che aveva cominciato il galvanismo napoleonico l'ottenne appieno per forza di reazione la pressura austriaca, e le due provincie, quasi sconosciute l'una all'altra fino allora, per necessità di posizione, per comunanza d'interessi e di aspetto si identificarono per modo che si potrebbe pronunciare di esse l'amorosa sentenza che fu pronunciata del matrimonio, « non separi mai l'uomo quello che Dio ha congiunto». E veramente nell'azione unificatrice della scaduta signoria austro-lorenese si potrebbe ammirare il dito della provvidenza, se non fosse già antico assioma storico che le nazioni non muoiono mai; e spinte una volta alla loro rigenerazione sanno trovare in tutto, anche negli espedienti della tirannia, opportunità d'incremento, scuola di virtù e di concordia. In ciò, lo diciamo ancora, si possono render grazie ai trattati del 15. Essi tolsero una divisione anti-naturale fra due membra dello stesso corpo, essi le composero violentemente, e ne prepararono per ttintera nazione un argomento d'unità e di redenzione che indarno si vorrà spezzato dal talento permaloso e guardingo della diplomazia. Quanto sono forti i politici nel secondare anche ignari le mire della ragione storica, tanto appaiono impotenti ad attraversarle, e i nostri ragionamenti, che tendono oggi a provare l'illegittimità e la colpevole natura d'un atto politico, avranno, ne abbiamo fede Dal 17 marzo 1848, giorno in cui il popolo veneziano corse a liberare dal carcere Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, al 23 agosto 1849, data della capitolazione. I.

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profonda, una splendida riprova nell'impossibilità stessa del fatto che noi giudichiamo. La Lombardia e la Venezia si sentirono sorelle e forti d'un sol tutto quando insorsero nel marzo del '48 proclamando la fratellanza comune delle genti italiane. Erano entrate nella schiavitù frementi e divise; ne uscirono frementi e concordi aspirando a concordia anco maggiore. Dopo un breve sogno repubblicano Venezia tutta imitb Milano nella sua volontaria abnegazione e ripudib pel trionfo dell'unità le tradizioni di quattordici secoli. E a questo sacrifizio, tanto generoso quanto facile per le grandi ragioni che lo movevano, corrispose la Lombardia quando rabbrividì tutta al pensiero che, essendo accettato il progetto della mediazione inglese d'allora, la guerra si arrestasse al Mincio, e la Venezia sola fosse riconsegnata alla tirannide austriaca. 1 Oh non fu soltanto uno scambio di sacrifizio e d'amore! Fu un fatto sacrosanto di fede, fu uno sposalizio giurato per la vita e per la morte innanzi a quel Dio che tiene in sua mano le sorti delle nazionil Piuttosto serve e sventurate. insieme che felici e disgiunte! o meglio « non saremo felici mai se una mano generosa o la nostra propria virtù non ci meni insieme al trionfo della libertà»! Fedele a questo voto indissolubile Venezia pianse fieramente sulle sventure lombarde, e la Lombardia soccorse fraternamente la « gran mendica che siede sull'Adria» come scrisse Mameli,:z e che porgeva alteramente la mano all'obolo dell'elemosina per continuare la sua eroica resistenza. 1. Tra l'aprile e il maggio 1848 vi furono trattative fra il barone Hummelauer, plenipotenziario austriaco, e il governo inglese di Palmerston circa una mediazione dell'Inghilterra nella guerra tra il Regno sardo e l'Impero austriaco. Nella seconda metà del maggio parve che l'Austria assentisse alla proposta inglese di cessione della Lombardia al Regno sardo e di unione del Veneto all'Austria in un semplice rapporto di alta sovranità. Ma a Milano il partito fusionista aveva già preparato una votazione generale che il 29 maggio dette esito largamente favorevole, soprattutto nelle città venete di terraferma. Il governo austriaco, da parte sua, ruppe le trattative nel giugno, quando anche Vicenza aveva capitolato e il Radetzky si riapprestava all'offensiva. 2. Goffredo Mameli nell,ode Milano e Venezia, del settembre 1848. Il Nievo cita a memoria: i primi due settenari dell'ode dicono: Là, fra le rive adriache, Vive rma gran Mendica. La nona e la decima strofa cominciano con il verso: Date a Venezia un obolo.

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Chi dimenticherà i giuramenti solenni dei giorni dell'eroismo e della sventura? Chi rinnegherà la fede conquistata a tanto prezzo di sacrifizio ? Chi straccerà fratricida due pagine di storia dove il sangue e il pianto rappreso di due generazioni hanno consacrato l'unione indivisibile di due genti sorelle? Chi ributterà in faccia alla provvidenza la bella promessa con cui essa preludiava a una più larga alleanza italiana? Vogliamo sperarlo, osiamo affermarlo: nessuno. Di ciò non sarebbe capace il cuore d'alcun Italiano, come ne sarà impotente la mano della diplomazia. Venezia e Milano che ricaddero affratellate e spiranti sotto la spada di Radetzki, risorgeranno unite e vigorose alla nuova speranza di libertà; e se gli accorgimenti politici contrasteranno questo fatto necessario e moralmente consumato, la giustizia, la civiltà, la storia faranno in breve ragione della tardiva resistenza, perché le nazioni vincono gli individui, perché « l'uomo non potrà mai separare quello che fu congiunto da Dio». IV

Tutti noi ricordiamo la gara fraterna e generosa con cui Venezia e Milano si corrisposero la speranza e l'affetto, in quest'ultimo decennio che trapassò così cupo di infelici congiure e di mal sofferta schiavitù. Alla prima oppressione tennero dietro gli sforzi disperati degli spiriti più arditi e insofferenti. Ricacciati dalla crudità dei fatti nella sfera delle teorie impugnarono lo stendardo dell'Idea, e morirono inalberandolo eroicamente sul patibolo; e il loro delirio fu sublime perché era delirio di libertà. Chi non ricorda le magnanime tragedie delle carceri e dei supplizi di Mantova dove Veneti e Lombardi riconsacrarono il loro voto di concordia con anni comuni di patimenti, e con eroismo di martirio ?1 1. Ritorna qui nel Nievo il ricordo dei martiri di Belfiore dei quali egli segul da vicino la tragica vicenda, al tempo dei suoi soggiorni a Mantova; dal primo supplizio del novembre 1851 aWultimo, quello di P. F. Calvi, il 4 luglio 1855. Degli undici condannati a morte e per i quali la condanna fu eseguita, don Giovanni Grioli (giustiziato il s novembre 1851), don Enrico Tazzoli, Carlo Poma (dicembre 1852), Tito Speri, Bartolomeo Grazioli, Pietro Frattini (3 e 10 marzo 1853) erano lombardi: Angelo Scarsellini, Bernardo de Canal, Giovanni Zambelli (dicembre 1852), Carlo Montanari (3 marzo 1853) e Pier Fortunato Calvi, veneti.

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La politica radeva servilmente il suolo allumacato della realtà, ed esse quelle anime indomabili tentavano con penne di aquila le altezze quasi empiree della libertà e della fede. Lottarono contro l'impossibile e non furono vinte perché ricovrarono in cielo il loro culto di libertà, la giurata indipendenza dell'umana ragione, e l'inviolabilità dei loro santi diritti e di uomini e di Italiani. Tutte le opinioni li chiamarono martiri; l'Europa pianse e meditò forse una tarda giustizia sulle loro tombe; certo il loro sangue fruttificava la virtù e la vendetta. Un luccicare di speranze sorrise alfine verso occidente, e come il senno di Socrate richiamò la nostra fede dal cielo alla terra. Lo studio e lo spettacolo delle vicende umane ammaestra gli uomini più lentamente ma più utilmente forse della stessa filosofia; e cominciammo ad intendere che la strada per la libertà era quella dell'indipendenza, che a questa dovevano più presto menare la concordia pratica e viva e il savio atteggiarsi delle forze già esistenti che non l'unità sognata completa d'un colpo, e lo sviluppo subitaneo ed artifizioso di forze latenti e future. Il senso italiano tornò alla retta stima della realtà e al suo valor naturale durante la guerra di Crimea; e l'ardimento quasi titanico del gran ministro d'un piccolo paese che sollevò subitamente i fatti a tentare un'eccelsa teoria, valse agli Italiani più che un secolo di storia. L'esempio era grande e fu imitato dalle menti nazionali; quella montò un gradino, questa ne scese due, e tutte tutte si trovarono unite in questa fede che la formazione d'un regno forte dell'Alta Italia avrebbe più che ogn'altro fatto politico giovato immediatamente al nostro risorgimento. Si tralasciarono allora le astratte discussioni, e la rigenerazione divenne il tema di tutte le opere, di tutti i discorsi, di tutti .1italiana pens1en. Nella sfera industriale e nella letteraria e drammatica, nella politica e nella pedagogia d'altro non si trattava. Era la nazione che raccoglieva tutte le sue forze in un solo conato e si preparava per la seconda volta in dieci anni a tentare la prova. Il « Viribus U nitis », posto dal cavalleresco Imperatore a motto del suo governo/ era applicato dalle petulanti provincie italiane 1. È il' motto che venne assunto dallo stato austriaco intorno al 1867, quando si passò dalla denominazione di e, Impero d'Austria• a quella di • Monarchia austro-ungarica », dopo la creazione di due stati completa-

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in un modo che non s,accordava certo alle mire dei baroni De Bruk e De Bach. 1 Venezia e Milano sogghignando tacitamente si rimbalzavano con pari disprezzo l'arciduca Massimiliano:i mandato a governarle; e tutti sanno l'esclamazione del Serenissimo Governatore, quando giunto per la prima volta nel palazzo imperiale di Venezia, trovandovi lo squallore e la musoneria per soli cortigiani, ebbe a dire ai pochi ufficiali e commissari di polizia che lo contornavano: «A Milano so e mi accorgo avervi due partiti, ma qui tocco pur troppo con mano non esservene che uno!» Il Serenissimo o sbagliava o si compiaceva insolentemente di sbagliare anche rapporto a Milano, perché aveva il torto o la malizia di dare autorità di partito a otto o nove tra duchi, conti, marchesi, ciambellani e vecchie bigotte che potrebbero al più formare un gabinetto di mummie. No, invano l'Austria e poche penne vendute alla sua politica e incapaci di vendersi a qualche causa migliore, pretenderebbero far onta alla verità! Un solo è il partito degli Italiani; che tali devono chiamarsi i Lombardi ed i Veneti e rifiutano ornai ogni altro nome del vocabolario della diplomazia europea. mente distinti, con parlamenti propri, uno a Vienna e uno a Budapest, e con proprio governo, uniti però oltre che da speciali organi comuni, soprattutto finanziari, dal vincolo della corona. 1. baroni De Bruk e De Bach: Karl Ludwig Bruck (1798-1860) fu il fondatore del Lloyd a Trieste. Abile ministro delle Finanze dell'Impero austriaco, dovette lanciare onerosi prestiti, irrigidire il sistema fiscale per sanare i bilanci statali dissestati dalle guerre e dalle rivoluzioni e dalle sommosse. Inviso a molti, fu accusato di malversazione e licenziato dall'Imperatore. Egli si uccise e dopo la sua morte fu riconosciuta l'infondatezza dell'accusa. Alexander von Bach (1813-1893) fu dapprima uno dei capi della rivoluzione viennese del ,48 1 poi, legatosi alla politica dello Schwarzenberg, impersonò lo spirito conservatore e accentratore nei vari Gabinetti viennesi. Fu uno dei promotori dell'azione austriaca a favore dei contadini galiziani, ma non osò intraprendere anche nel Lombardo-Veneto tale politica. Sostenne tuttavia sempre il Radetzky. Lasciato il potere, resse l'ambasciata austriaca presso il Papato sino al 1865. 2. arciduca Massimiliano. Il governo austriaco, dopo le repressioni che durarono dal 1849 sino al 1855, mandò alla fine del 1857, come viceré nel Lombardo-Veneto, il fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe, l'arciduca Massimiliano d'Austria. La politica di pacificazione di cui doveva essere interprete Massimiliano fruttò poche adesioni (si ricorda sempre quella del Cantù). Francesco Giuseppe stesso visitò nel dicembre 1857, insieme alla moglie, imperatrice Elisabetta, le provincie italiane. Lasciato il Vicereame nel '59, l\1assimiliano, divenuto imperatore del Messico, fu fucilato il 19 giugno 1867 a Queretaro dai patriotti messicani.

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Un solo è il partito, una la speranza, una la fede che l'Italia sarà presto una nazione, e che il primo passo per diventar tale ha da essere lo stabilimento d'un Regno solo potente e compatto dal Varo all'Isonzo, dalle Alpi ali' Adriatico, come già sonava quella splendida e generosa promessa che noi fidiamo ancora di veder adempiuta. Di questa unità di speranze, di questa indissolubilità giurata di fede e di destino diedero prova luminosa Lombardia e Venezia, quando sul cominciare del presente anno mandarono il fiore delle loro gioventù ad ingrossare le fila dell'esercito subalpino. 1 Una personalità già storica, grande come il valore e l'onestà insieme congiunte, si drizza in disparte in un campo luminoso di glorie per provarvi di quale abnegazione, di qual virtù sia capace un'anima italiana per secondare il voto della propria nazione, per santificarne la moderazione e la giustizia. La spada di Garibaldi conquistò più proseliti alla nuova fede italiana che non la penna di Balbo e di D'Azeglio: e quand'egli alla vanguardia dell'esercito alleato si avventurò in mezzo alle file innumerevoli de' nostri oppressori a seminarvi con pochi giovani novizi nell'armi, ma veterani d'amor patrio e di valore, lo sgomento e la strage, la Lombardia e la Venezia insorsero con una sola voce gridando: Grazie, o prode, grazie del valor tuo e del nobile esempio; ma noi eravamo già preparati al gran giuramento, prima che tu ne innalzassi a simbolo il tuo santo vessillol •.. Noi vogliamo esser unite nella felicità e nella sventural Colla ragione e col cuore noi abbiamo già scelto a re nostro, a re dell'alta Italia « il primo soldato dell'indipendenza italiana». V

La guerra fu breve, e gloriosa come doveva essere in tanta unità di voti, col soccorso onnipotente di quell'armata francese che è la prima del mondo, e sembra essere formata apposta per conquistarlo ad ogni secolo. La guerra fu breve, troppo breve forse, perché interrotta da quell'improvviso armistizio, dall'annunzio di que' misteriosi preliminari di pace che tanta parte sfrondarono delle nostre speranze, 1. ~sercito subalpino: e fra questi giovani vi erano Ippolito, Carlo e Aleseandro Nievo.

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e per poco non rivolsero in disperazione la gioia delle ottenute vittorie. Sorpassando a quella mostruosa confederazione italiana semiaustriaca, semi-borbonica col Papa e i trionfatori di Perugia1 alla testa, una sola fu la parola che trafisse il cuore, che amareggiò la gioia di ogni buon Italiano: «l'Austria conserva la Venezia! ... , Fu uno spavento, un raccapriccio tale, come se la battaglia di Solferino fosse stata perduta e si udisse l'annunzio che gli Austriaci sboccavano sopra Milano dai ponti di Cassano e di Lodi. Lode a Dio, Milano si è vendicata generosamente della taccia appostale troppo sovente di gretto municipalismo. Il lutto fu spontaneo, subito, universale; e ci volle un profondo sentimento di gratitudine, una assai forte abitudine di fiducia nei suoi liberatori, perché non degenerasse in mormorazione e in calunnia. Da ciò si comprese che tanto è unito il popolo milanese al veneziano in comunanza di voti e di destino, quanto tutti e due per temperanza e senno politico sono maturi alla libertà che reclamano si ardentemente. Non fu più favola il racconto delle lagrime che scorrevano su tutti i volti, delle palme levate al cielo in segno di dolore e di preghiera; vidimo invero lo spettacolo d'un popolo che piangeva come proprio il dolore d'un popolo fratello, e non voleva credere a tanto improvviso fulmine di sventura. Quanta differenza da questa generosa costernazione alle improvvide allegrezze che tennero dietro in Milano alla pace di Campoformio!~ Gli Italiani hanno diritto di rallegrarsi e di inorgoglire in faccia all'Europa ogni qualvolta con raffronti storici di fede irrefutabile possono sciamare: - Guardate come siamo migliori di quello che eravamo! Guardate se meritiamo le crude sorti che ci avete imposto per l'inutile cura d'un effimero equilibrio e se non abbiamo diritto e cuore e forze da rifiutarle!



1. trionfatori di Perugia. Dopo la sconfitta austriaca di Magenta, l'Italia centrale si sollevò contro i suoi governi. Dopo la sollevazione di Bologna del 12 giugno 1859, il moto si propagò rapidissimo nelle Romagne, nelle Marche e nell'Umbria. Ma in queste due ultime regioni l'esercito papalino riusci ad avere ragione delle popolazioni insorte e Perugia, dopo gloriosa e sanguinosa resistenza, dovette subire stragi e rapine. 2. Campo/ormio: il trattato di Campoformido dell'ottobre 1797 è argomento del Xli capitolo delle Confesn·oni d'un Italiano.

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Lo confessiamo sinceramente. Quel giorno di lutto valse assai più in cuor nostro ad onor di Milano, che la feroce costanza con cui sostenne per dieci anni una lotta di sprezzo in faccia a' suoi tiranni. Le cinque giornate del marzo '48, se sono più gloriose non sono certo più onorevoli per la patria di Beccaria e di Manzoni. Passato il primo crepacuore le menti discesero alla fredda considerazione del fatto, né si ebbe campo di confortarsene. Il fatto era annunziato certo, duro, inesorabile. Il dolore dalle volubili regioni del sentimento scese ad occupare i profondi e stabili recessi della ragione; fu meno eloquente, ma più profondo. Tuttavia dal freddo esame di quel tremendo fatto sorse a poco a poco una lontana consolazione, e questa era la certezza della sua impossibilità. L'Italia libera confederata colrAustria a Venezia? È impossibile) Questo fu il grido, il pensiero di tutti; e noi crediamo che il buon senso e la moralità popolare abbiano avuto ragione oggi come sempre. Se Milano risorse a poco a poco dal suo primo abbattimento, se i volti ripresero il colore se non della gioia almeno della speranza, cib non accadde per le lusinghe distribuite da questo o quel giornale e per l'abitudine d'un dolore che sminuisce la sensazione di quel dolore. Qui il timore era troppo vitale perché potesse sopirlo l'utopia gratuita d'un pubblicista: il dolore troppo fitto nell'intime viscere della nazione perché qualche giorno di prova bastasse ad attutirlo o la compassione degli alleati e dei nemici stessi a confortarlo. Che Prussia ed Inghilterra astiose della schivata mediazione si apprestino ad avversare il fatto che la deludeva, che Russia perseveri nel suo sprezzante sussiego verso l'Austria, saranno tutti puntelli al criterio assoluto. Ripetiamo che la massima ragione di quel rifiorimento alla speranza sta in questo che il fatto minacciato si reputa logicamente impossibile; e per quanto si confessino arcani i mezzi occasionali capaci di allontanarlo, si vede ancora più arcano e impossibile il modo di porlo ad effetto con qualche fiducia di stabilità. Ripetiamo ancora che noi concordiamo oggi come sempre coll'infallibile giudizio del buon senso e della moralità popolare.

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La questione italiana è da molti anni un continuo pericolo per la pace d,Europa; si potrebbe dire da molti secoli giacché noi ab-biamo il tristissimo vanto di avere partecipato come cause prime o almeno secondarie a tutte le guerre che sconvolsero l'Occidente dalle più remote epoche storiche. Napoleone III ebbe il giusto e generoso pensiero di togliere il fomite di tante discordie, e di tagliare colla spada uno di quei nodi che costringevano la decrepita politica europea al suo letto di Procuste. Il famoso proclama agli Italiani ci aperse tutta la vastità del suo nobile disegno, né tardò guari la fortuna dell,armi a dimostrare da qual lato pendevano i consigli della Provvidenza. 1 Ma le vittorie di Montebello, di Magenta, di Melegnano e di Solferino parvero stancassero l'ambizione del vincitore, e l'armi-stizio e la convenzione di Villafranca indissero alla questione ita-liana uno scioglimento che certo non era preveduto neppur dalla logica timorosa dei vecchi diplomatici. Qual fu la mano arcana che arrestò il liberatore a mezzo del1'opera sua ? È questa la domanda cui nessuno può ancora rispondere: ma questo fatto è certo proclamato altamente e con cruda brevità, che l'Austria conserverà almeno tutto il Veneto colle fortezze di Ve-rona e di Legnago. Lasciamo ora andare la quistione accessoria se debba essa occupare anche Mantova e Peschiera: per noi la quistione italiana non istà nel possedimento di questa o quella fortezza e neppure del-l'intero e troppo decantato quadrilatero. 3 La questione secondo noi sta in questo. Occuperà l'Austria ancora un palmo di terreno in Italia? Potrà essa con un esercito schierato al di qua delle Alpi minacciare perpetuamente alla nostra indipendenza? Finché ciò sia, la questione italiana è ben lungi dall'essere risolta; anzi essa diventa tanto più pericolosa ed urgente quanto a noi cresce colle forze il desiderio della Provvidenza : il proclama di Napoleone I II agli Italiani al momento della sua entrata in Milano a fianco di Vittorio Emanuele II, nel giugno 1859. 2. quadrilatero: il Nievo era portato, per amore alla città dove aveva trascorso la prima giovinezza, a diminuire l'importanza strategica del quadrilatero di piazzeforti austriache: Verona, Mantova, Peschiera e Legnago. 1.

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anzi il bisogno di scioglierla, e agli Austriaci la gelosia e il talento della rivincita colla maggior grandezza delle perdite. Quanto ad una moderazione falsa ed intempestiva che si accontenterebbe d'un graduato avviamento ad un futuro ed incerto sviluppo quando questo ultimo effetto potrebbe tosto raggiungersi, non può essa entrare come movente della politica napoleonica se l'Imperatore de' Francesi volesse realmente, come sembrava, distogliere una causa continua di perturbazione europea, e stabilirsi al di qua delle Alpi un alleato naturale e potente. La Venezia è la chiave di tutta Italia dalle parti di Germania; essa padroneggia il mare Adriatico e la valle del Basso Po: finché gli Austriaci vi rimarranno accampati, l'Italia resterà sempre debole, diffidente di parecchi suoi governanti, divisa perciò nella sua azione politica, incapace di svolgere liberamente tutte le sue forze militari e civili, minacciata da una continua invasione, e preparata a reprimerla con un esercito sproporzionato, od anche a prevenirla col fomento di esterne rivoluzioni. Né anche farebbe migliore prova la creazione d'un Regno Veneto sotto un arciduca austriaco; perché mal si potrebbe credere alla buona fede di quel re, né egli preparerebbe certo nell'esercito nazionale un argomento valido di difesa contro i suoi parenti e tutori. Fosse anche chiamato al trono della Venezia un principe straniero, un Beauharnais od un Napoleonide, chi non s'avvede che un tale ordinamento riuscirebbe assai fiacco al paragone di quello che d'uno Stato solo dell'Alta Italia formerebbe un antemurale compatto e agguerrito contro gli eccessi austriaci ? Questo, secondo noi, è il solo ottimo e urgente scioglimento della questione italiana, quello che libererebbe per sempre Roma e Napoli dall'influenza austriaca coprendo la stirpe latina d'un'egida invulnerabile contro la Germania meridionale e il futuro panslavismo. Soventi anche nelle questioni nazionali giova risalire a più vaste considerazioni, e qui infatti è conflitto più che di nazioni di stirpi; è l'Occidente che combatte contro il Settentrione; sono i figliuoli di Roma che continuano l'eterna loro guerra contro la progenie d' Anninio. Certo Spagna, Francia ed Italia non formano un solo popolo; ma una confederazione più ampia e tra popoli più affini di quella che potrebbe stringersi fra queste tre nazioni tutte neolatine meridionali e cattoliche, non fu mai vista al mondo. La ragione storica mena a questo risultato, perché le tre grandi

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stirpi europee adagiate pacificamente nel loro alveo naturale, ciascuna secondo la propria indole, maturino il frutto della comune civiltà. L'Austria che non comprese mai questa necessità provvidenziale è costretta a decadere dalla sua fittizia autorità di nazione; svanito anche lo spettro del Sacro Romano Impero colla rinunzia di Francesco II nel 1804, essa avea già perduto anche ogni ragione storica di esistere, ed è soltanto in grazia d'un assurdo diplomatico che essa continub dopo il 15 ad ingombrare del suo nome la carta geografica d'Europa. La Francia già vicina ad affrancarsi insieme con noi da quel mostruoso antagonismo non pub certo recedere dalla lotta incominciata, e la terminerà essa di suo grado, o sarà tratta a terminarla dalla necessità stessa degli avvenimenti. Se il Lombardo-Veneto infeudato all'Austria era un perpetuo richiamo di rivoluzione al Piemonte, si figuri ognuno qual incentivo di cospirazioni, di assalimenti verso il Piemonte rinfiancato della Lombardia, sarà la Venezia abbandonata sola e miserrima all'arbitrio del vecchio signore! Tentativi di confederazioni impossibili e di mutui sindacati, si sa per esperienza quanto valgono; né vorremmo che si provasse sulla divisa nostra patria quella panacea diplomatica di Metternich e di Talleyrand che rovinb l'Europa in quarant'anni di pace. Bando dunque ai piccoli litigi territoriali, e alla golaggine di questo o quel fortino; non è per poter terminare la contesa dimani che si disputa oggi, è per terminarla oggi stesso. Bisogna far libera l'Italia dall' Alpi ali' Adriatico; né la libertà d'Italia e la pace d'Europa sono possibili finché rimane un solo Austriaco al di qua delle Alpi. Le grida di dolore della Venezia risuoneranno nei cuori lombardi più altamente se sarà possibile di quello che risonassero le grida di dolore della Lombardia ali' orecchio del Piemonte. Qual maggior diritto abbiam noi di esser liberi sopra i Veneziani? S'incomincia già a dire: - soffrirono essi meno? pugnarono con minor cuore per la causa comune? o è meno illegittima la tirannide che li opprime? Non è là aperta ancora negli archivi diplomatici la vendita di Campoformio ? E perché la mano che volle liberare noi non s'affrettb prima a stracciare quell'atto calamitoso e violento per non dire di più?

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La Francia non piange essa ancora commossa e sdegnata sulla tomba di Daniele Manin ?1 E vorranno che noi compagni ieri di schiavitù, liberi oggi, ci dimentichiamo dei fratelli che gemono oltre il Mincio sotto il giogo straniero? Qual morale ci si vuol insegnare come primo gradino d,indipendenza e di libertà? Non è forse la moralità del popolo la prima arra della sua rigenerazione? Moralità intinta di dimenticanza e di ingratitudine, è forse compatibile coll'eterna legge delttonesto, e con questa coraggiosa indole italiana che seppe improntarsi nelle lettere e nelle scienze collo speciale suggello della generosità e della giustizia, e che imparò se non altro nelle secolari sventure la virtù sublime del sacrifizio? Se voi credete che il cuor nostro abbandoni solo un istante Venezia, e che le braccia lombarde non tentino di liberarla al domani stesso della loro liberazione, cancellateci pure dal novero dei popoli, diteci che non saremo mai degni di chiamarci liberi e grandil Sarà imprudenza e follia quella che ci muove a parlare e che ci moverà a fare così, ma l'imprudenza e la follia sono divine virtù confrontate coll'ingratitudine e coll'egoismo. Son queste parole, semplici e schiette parole di un popolo: ma la gente ha ora conquistato se non altro il diritto di farsi ascoltare; e tenda l'orecchio l'Europa prima di sedere ad un Congresso o di convalidare col suo silenzio un disastroso trattato. Tenda l'orecchio e pesi bene quelle parole, se vuol davvero assicurare a noi il bene della indipendenza, ed a sé la prosperità della sicurezza e della pace. Londra, Pietroburgo e Berlino possono accettar di buon grado anche un consiglio milanese; perché non soli i Lombardi ed i Veneti, ma tutte le nazioni ornai sono solidali fra loro, e le sventure italiane possono ricadere così sulla Germania come sull'Inghilterra e sulla Russia in un riurto generale di rivoluzioni e di guerre.

Daniele Manin: il Manin mori esule in Francia, il 22 settembre 1857 1 dopo aver appoggiato negli ultimi anni della sua vita il programma monarchico-unitario ed esser stato il primo presidente della Società nazionale. 1.

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VII

Povera Venezia! Povera regina vagheggiata dai poeti di tutte le nazioni, compianta da tutti i cuori che hanno fibre di carità, ammirata da quanti sono al mondo intelletti capaci di comprendere le cose alte e sublimil No, non ti abbandoneremo noi alla vigilia della sventura. E come potremmo abbandonarti, se siamo tutti tuoi figli, se da te, da te sola riconosciamo gli esempi più grandi e solenni d'abnegazione e di virtù ? La gemma più splendida d'Italia donata allo straniero, la vittima più infelice confitta a nuovo martirio, la più legittima erede di Roma riconsegnata alla posterità de' barbari, la più savia scuola di civiltà data per nido all'oppressione ed alla tirannia! Piuttosto il pianto di un altro secolo per tutti noi! e lo scherno e l'esecrazione di tutte le gentil Gli Italiani dovrebbero levare fin che n'è tempo un'immensa e ancor pacifica protesta contro il dominio austriaco a Venezia, perché l'Europa prima di :firmarne la condanna vegga almeno a quali pericoli espone noi e la propria tranquillità, ribadendo i ceppi d'un'immeritata servitù. Fors'anco, chi credeva averci donato le gioie della libertà comprenderà da quel gran gemito di disperazione, che la libertà non è libertà, né deve essere altro che desolazione e sete di guerra, per chi vede una propria sorella contaminata e derisa e sarà condotto più presto a dar ragione a coloro che, in quel viluppo stesso di pericoli e di guai dove fummo abbandonati, si sforzano di scernere un nuovo e ben promettente mistero della sua antiveggenza. Buona parte degli odierni giudizi volge a tale lusinga, omaggio commoventissimo al genio d'un sol uomo, e cagione non piccola anche questa del crescente rincoramento. Ma se il mondo non comprende la giustizia del nostro lutto, e la disperata e fatale pertinacia dei propositi, non dimentichiamo che vollimo essere tutti liberi, tutti italiani. Non intemperanza di urli e di bestemmie; ma moderazione di consiglio, dignità di contegno, forza e splendore di opere; volgiamo a nostro profitto i consigli che ci vennero dall'alto; armiamoci di fede, di coraggio, di valor militare; siamo tutti soldati prima di essere cittadini, martiri piuttosto che ingrati, e andiamo poi innanzi

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altieri e sicuri, e il sangue nostro ricada pure sul mondo se ci avrà lasciati sacrificare. Questi giudizi non sono l'espressione d'alcuna opinione individuale, ma d'un'opinione popolare e inflessibile. Gli è per questo che hanno qualche autorità, e se la critica li tacciasse d'alcuna colpa si potrebbe rispondere: così fu scritto perché cosi è, perché il nostro popolo pensa, crede ed agirà cosi. Non sono né minacce, né millanterie; ma semplici fatti popolari coloriti all'infretta dalla debole parola d'uno spettatore, e posti sott'occhio alla suprem~ dominatrice dell'umanità, all'opinione pubblica dell'Europa civile con un sentimento di sincerità, di speranza e d'orgoglio nazionale.

DIARIO DELLA SPEDIZIONE 1 DAL 5 AL 28 MAGGIO Nei primi giorni di maggio fu l'arrivo a Genova delle varie compagnie di volontari dei varii paesi d'Italia, e l'allistamento nominativo del personale delle spedizioni. La spedizione contromandata la settimana prima, vien fissata per la sera del 5. Maggio 5. - Preparativi d'imbarco. Lo stato maggiore e il Generale alla Villa Spinola, a Quarto; la maggior parte del corpo dalla Foce, un distaccamento dal Porto. - I nostri s'impossessano a forza dei due vapori designati, il Piemonte ed il Lombardo, per liberare la Compagnia Rubattino da ogni responsabilità; ritardo occasionato dalla necessità di cambiare l'equipaggio dei marinai; alla fine verso le 3 antimeridiane del 6 escono dal porto. 6. - All'alba partenza da Genova; in mare tutto il giorno. Il Generale sul Piemonte col capitano in 1 • Castiglia, siciliano, e Schiaffino in 2•, di Camogli, sul Genovesato. Il colonnello Bixio sul Lombardo col capitano Elia. Gl'imbarcati non sanno ove si vada, se in Sicilia, in Calabria, od altrove. Malessere generale prodotto il primo giorno dal mal di mare, e dall'eccessivo stivamento.2 7. - Lettura a bordo del 1° ordine del giorno che inaugura la spedizione col grido: Italia e Vittorio Emanuele. Divisione del corpo in 7 compagnie coi comandanti: Bixio, La Masa, Carini, Stocco, Anfossi, Cairoli, Bassini; - Sirtori, Borchetta, Calvino, ecc., allo stato maggiore; Acerbi, Rechiedei, Bozzetti, all'intendenza; Orsini, all'artiglieria; Minutili, 3 al genio. COMPAGNIE DEL CORPO PER DIVISIONE DI PROVINCE

Bresciani Genovesi Bergamaschi Pavesi e studenti d'Università Milanesi ed emigrati abitanti in Milano Bolognesi Toscani

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50 60

190 170 l

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1. spedizione: è la spedizione garibaldina in Sicilia. 2. eccessivo stivamento. Dirà Giuseppe Garibaldi: • Alcuni hanno già provato gli effetti dell'instabile elemento, ma niuno si lagna 11 (G. GARIBALDI, J Mille, pag. 20, Ediz. Naz., Bologna, 1933). 3. Minutili: il capitano Minutilla, dapprima comandante della IV compagnia, e poi del Genio della spedizione.

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Parmigiani e Piacentini Modenesi Emigrati Napoletani e Siciliani Emigrati Veneti

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88 Totale 1085 1

Alle 8 e mezza antimeridiane approdo a Talamone per caricare le munizioni di guerra. Essendo mancato il convoglio per una mala intelligenza, il colonnello Tiirr sopperisce coll'ingannare il comandante il forte d'Orbitello, 2 e dargli ad intendere che la spedizione è sotto l'alto e segreto patrocinio di S. M. Entusiasmo del predetto comandante che somministra 4 cannoni da campagna, armi, munizioni e quanto è in poter suo. Un vecchio tenente che presedea con due altri uomini il forte quasi minato di porto Talamone, imita il collega d'Orbitello, e consegna ai nostri il poco che ha di munizione ed altro, nonché una colombrina. Noi pranziamo in casa del Console ... del luogo, il quale è già prevenuto da molti giorni delle nostre spedizioni. 8. - Primi simulacri di esercizi militari sulla piazza di Talamone. Aspetto desolato e solenne delle Maremme Toscane. Concorso di maremmani intorno al Generale; si arrolano parecchi volontari, altri se ne annunciano da Piombino. Vengono messi d'un battaglione di bersaglieri stanziato ad Orbitello ad offerirci di partire con noi. Il Generale non li accetta. Il colonnello Zambianchi si offre per una diversione sulla Romagna; gli son concessi 60 uomini per tener sospese nel frattempo le opinioni a Napoli. Parte la sera. 3 Ore 4 pomer. - Imbarco. Il Generale impaziente della folla che lo circonda e lo acclama, salta in barca e si mette a remare egli stesso. - Ore 6, rimbarco è finito. Mancando i viveri si protrae la partenza al giorno susseguente. I. Io85. Il numero esatto dei Mille è tuttora incerto. Il numero che ne dà il Nievo sembra uno dei più vicini alla verità. 2. Orbitello: Il tenente colonnello G. Giorgini, che fu poi punito dal governo piemontese per la sua condiscendenza. 2. Parte la sera: « Tale spedizione, benché poco fortunata, non mancò di confondere i Governi italiani sulle reali condizioni dello sbarco dei Mille», cosi scrisse Garibaldi (J Mille, pag. 25), e il 25 maggio 1869, in una lettera scriveva: « Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti sarebbero stati degni sempre dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo•· In realtà la spedizione non sorti alcun effetto; si disperse ben presto, e i governi italiani e quello francese di Napolone III non furono tratti in inganno dalla colonna Zambianchi.

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9. - Partenza da Talamone alle 4 antimeridiane. Alle 7 gettiamo l'ancora a San Stefano a provvederci di carbone ad un deposito colà esistente pel vapor toscano il Giglio. Regali e curiosità dei dabbenuomini di San Stefano. Bixio imbarca una gran quantità di carbone e dice: esser molto contento per averne abbastanza da andar in Sidlia ed occorrendo anche all'inferno. Applausi generali a queste parole. Alle 3 pomeridiane partenza, indirizzandoci al sud-ovest tra la Sardegna e la Sicilia. 10. - Distribuzione delle armi. Perfetta rassegnazione di tutti ai voleri del Generale. Verso sera un uomo pazzo si getta in mare dal Lombardo: questo perde per salvarlo una mezz'ora di tempo, ed a notte il Piemonte non è più in vista. Essendosi questo rimesso sulle tracce del compagno vien creduto due ore dopo un legno napoletano. Buonissime disposizioni dell'equipaggio e del comandante per questo caso. Si dispone il tutto per l'abbordaggio. Io dormii sempre saporitamente, e me lo raccontarono l'indomani. x1. - Distribuzione delle poche camicie rosse provvedute a Genova, e che formano la prima uniforme (280 in 1000 uomini). Entusiasmo universale. Alle 8 antimeridiane ordine di rompere sopra Marsala. Il Generale comanda la manovra. Cattura e rimorchio d'una barca peschereccia per aver notizie del porto. Ad un'ora pomeridiana ingresso nel porto. Scendono prima i Siciliani. Gran concorso di barche per lo sbarco. In rada stanno una fregata inglese ed un piroscafo: questi parte immediatamente per Malta; son già in vista verso il sud due vapori napoletani ed una fregata rimorchiata da uno di essi. In meno d'un'ora le truppe, le munizioni più importanti sono a terra. Arriva uno dei vapori napoletani, il quale non fa fuoco a parer nostro perché attende la fregata rimorchiata dall'altro, od ordini da chi lo comanda; ultimo sbarca il Generale. Sopraggiungono l'altro vapore e la fregata napoletana che aprono il fuoco a granata ed a mitraglia, mentre il Generale è ancora in barca pel porto; le munizioni più pesanti si stanno tirando a terra, e parte della truppa è ancora sul molo. I nostri rispondono col grido: Viva l'Italial I fanciulli ci aiutano a trasportare bagagli e munizioni sotto le cannonate. Entrata in Marsala. Aspetto di terrore della città. Rottura dei telegrafi dopo aver letto il dispaccio spedito alcuni momenti prima che annunciava il nostro arrivo, e speditone uno di senso contrario. Presa delle casse pubbliche piene di sol-

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dacci di rame. L'oro della sottoscrizione pel milione di fucili fa le spese di tutti, ma bisogna renderne il corso forzoso con pubblico bando, tanto è nuova la sua comparsa in quel paese. 1 Maggio, 12. - Partenza da Marsala alle 4 del mattino verso Salemi. Sosta sopra un'altura donde si prospetta il mare e la squadra napoletana. Aspetto africano di quella parte di Sicilia. Donne velate come le saracene. Un barone di Marsala (il primo) ci tien dietro a cavallo d'un asino. Dopo quattordici miglia cessa la strada, e resta solo un sentiero in mezzo a prati e campi di biade a vista d'occhio. Solitudine· e grandezza del paesaggio; il vero paesaggio di Teocrito. Garibaldi che precede a piedi la colonna in mezzo al suo stato maggiore mi sembra uno dei primi conquistatori del1'America. I pastori dei contorni vengono sul sentiero ad inchinarlo: aspetto strano di questi semi-selvaggi vestiti di pelli di capra. Si trova un messo che dà notizia di alcune squadre che già stanno raccogliendosi a Monte San Giuliano sopra Trapani. Bivacco la notte a Rampagallo intorno alla cascina così chiamata del baron Mistretta di Salemi. Frescura dei bivacchi colla nostra tenuta di città. Pasti meschini con pane stantio e carne di capra. 13. - Il mattino marcia per Salemi. Salita faticosissima. Il volgo scambia Salemi con Gerusalemme, e dice che Cristo vi fu crocifisso. È una vera città, anzi una topaia, saracena: i soli conventi vi hanno l'aspetto di case. Noi alloggiamo dai Gesuiti, i quali sono andati in campagna, lasciano detto, per offrirci maggior comodo d'alloggio. Sono scappati perché sono sordi (reazionari) soggiunge un monello: ecco forse il vero motivo. Parallelo fra il bournous1' dei saraceni e lo scapolare dei siciliani, non troppo a vantaggio di questi ultimi. Incontriamo i primi frati; ci accorgiamo di essere in pieno medio-evo. Qui la polizia personale e una certa coltura sono loro esclusivo monopolio. Banda musicale di Santa Ninfa che viene a festeggiare il Generale. Un frate guerriero capita da Castelvetrano a cavallo col Cristo in una mano e la spada nell'altra. Cominciano le scene di alto melodramma: una donna ci viene incontro piangendo e pregandoci di liberar Trapani, ove suo marito è 1. in quel pois,: Garibaldi 1'8 aprile 1859 chiese subito anni e denari al • Fondo per un milione di fucili•· Massimo d'Azeglio, tuttavia, non permise che dal Fondo fossero inviati i buoni fucili Enfield di cui esso poteva disporre, e i volontari dovettero accontentarsi di vecchie armi della Società nazionale. 2. boumow: mantello arabo, baracano.

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prigioniero politico da otto anni. Un vecchio soggiunge: « Ben faceste a venirci a consolare, perché gli è da quando siamo nati che . . . noi p1ang1amo ». 14. - (Ancora a Salemi.) Prima fornitura di ripiego per le truppe; anfore invece di fiasche, coperte invece di cappotti. Strano aspetto dei nostri dopo questa trasformazione. Facciamo furore tra i poveri di Salemi, e tutti vorrebbero seguirci, ma mancano i fucili. Si hanno le prime notizie che l'insurrezione torna ad alzare il capo in varii punti, massime intorno a Pa~ermo. Tentativo di formazione di una squadra di lancieri. 15. - Giornata di Calatafimi. Siamo raggiunti dalle squadre del barone Sant' Anna e di Coppola. Partenza per Calatafi.mi ov' è un corpo di 4000 napoletani (8. 0 battaglione bersaglieri, tre battaglioni di linea, uno squadrone di cavalleria e una batteria di campagna). Dopo quattro miglia si incontra il villaggio di Vita. I carabinieri genovesi e la 7.a (Cairoli coi Pavesi) ed 8.~ (Bassini coi Bergamaschi) compagnia, sono di vanguardia. Alle ore 9 si vedono già i N apoletani che circondano alcune alture a destra della strada, un miglio e mezzo fuori di città. Alle 11 la vanguardia nostra si stende in catena senza far fuoco, e restando in impassibile osservazione dei loro svariati movimenti. Il Generale ed il colonnello Sirtori visitano le posizioni, ed a mezz'ora dopo mezzogiorno ordinano l'attacco. I Napoletani sono ricacciati sull'altura a passo di corsa. Attacco della prima altura alla baionetta, col rinforzo della compagnia di Bixio. Il maggiore Acerbi conduce primo fra noi un piccolo corpo di squadriglie siciliane. I Napoletani respinti dalla prima altura si riordinano sulla seconda, rinforzati dai loro bersaglieri che si vanno riconcentrando. In questo assalto morì il tenente De Amicis, uno dei più intrepidi volontari dell'ultima campagna. Noi non possiamo continuar l'assalto per la pochezza del numero e la stanchezza. Secondo attacco della seconda altura durante il quale il Generale resta esposto con 40, o 50 dei più intrepidi soldati, Sirtori, Bixio, Tukory, i capitani Bandi, Elia e Schiaffino, Menotti Garibaldi figlio del Generale, il tenente Maiocchi, i capitani Griziotti, Montanari, Bruzzesi e Barchetta, ecc., Rechiedei, Bozzetti, ecc., dell'Intendenza - la 7.• ed 8.a compagnia spalleggiano validamente i carabinieri genovesi sull'ala destra. Il Generale basta a reggere il centro, ma i Napolitani accennano di girarci a destra; allora il 67

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Generale unisce i primi trenta o quaranta uomini delle compagnie che sopraggiungono e li distende da quella parte. I nemici ripiegano disordinatamente sull ,ultima altura ove stanno già i cannoni e le loro riserve. Chiamata di tutte le compagnie, di tutte le riserve, e fin dell'ultimo uomo per Passalto definitivo (3 pomeridiane). Schiaffino si slancia solo contro la testa dei N a poi etani stringendo in mano uno stendardo, dono degli Italiani di Valparaiso al Generale. È trafitto da dieci colpi, ma i nostri piombano a vendicarlo, le guide, lo stato maggiore alla testa. Cairoti con altri tre o quattro fra cui il minore Cairoli si impossessano di un cannone; ma la stanchezza, la vastità della linea per così piccolo corpo, e la gravità delle perdite rendono impossibile l'inseguimento, benché l'ultima ritirata dei Napoletani somigli in tutto ad una fuga. Rientrano in Calatafimi. Lo abbandonano alle 8 di notte, lasciandovi ospedali di feriti e . provv1g1on1. Durante il combattimento la nostra artiglieria rimase sulla strada maestra, fronteggiando la cavalleria napoletana. Le squadre di Coppola e Sant' Anna aiutarono il successo con una fucilata ai fianchi del nemico, a prudentissima distanza. Aspetto pittoresco del nostro bivacco dopo la battaglia. Raccoglimento dei feriti napoletani; povertà delle ambulanze sopportata dai feriti con allegra fermezza. Perdite nostre: Morti 25 fra cui gli ufficiali De Amicis, Schiaffino, Montanari; feriti 94 fra cui ufficiali Sirtori, Griziotti, Maiocchi, Manin (figlio di Daniele), Menotti Garibaldi, Elia, Missori, Martignoni, Perduca. Perdite dei. Napoletani: Morti 35; feriti 110; prigionieri 8. 16. - Entrata in Calatafimi alle 6 del mattino. Cure ai feriti napolitani. Fanatismo patriottico delle donne. Parlata di Garibaldi al popolo radunatosi all'arrivo della banda musicale di Alcamo. Lo incoraggia alla leva in massa. L'egual giorno i Napolitani di Landi assaliti di fianco dalla squadra di Partenico si ritirano lasciando alcuni morti e feriti che sono squartati, abbruciati e dati a mangiare ai cani in questo paese. Altro fatto simile a Borghetto e sotto Montelepre.• J. Montelepre: • Miserabile spettacolo I Noi trovammo i cadaveri dei soldati borbonici per le vie, divorati dai cani! Eran pure cadaveri d'ltalinni che, se educati alla vita dei liberi, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese; ed invece come frutto dell'odio suscitato

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17. - Marcia per Alcamo. Vista a sinistra delle ruine di Segesta. Bivacco sotto gli aloè e i fichi d 1 India. Entusiasmo ad Alcamo. Il frate di Castelvetrano che ci accompagna, dà la benedizione a Garibaldi sulla porta della chiesa e finisce gridando: Viva Garibaldi, Vi'Va Gesù sacramentato! - Squadra di Partenico comandata da un altro frate, e un'altra dal padre Rotolo. La sera eravamo a pranzo, quando Sirtori alzandosi disse: Credo che prima della fine del mese saremo a Palermo! - Chi lo avrebbe detto che sarebbe stata una profezia! ... 18. - Marcia per Partenico. In questo paese i cani sono ancora occupati a mangiare i Napolitani abbrustoliti- non è un sintomo di civiltà. Un altra squadra comandata dal padre Rotolo viene con noi. Accampamento al passo di Renna. Comunicazioni colle squadre raccozzatesi di Rosalino Pilo e di Corrao che stanno a San Martino sopra Monreale. 19. - Il tempo rompe a pioggia. Fatiche e patimenti orribili del bivacco. Requisizione di scapolari (cappotti a cappuccio) nei paesi vicini. Sembriamo un esercito di frati. 1 20. - Scesa al Pioppo un miglio innanzi, a sei miglia da Palermo. Le squadre mandate a riconoscere Monreale si sparpagliano. Questi Picciotti ( ragazzi, e noi diam loro un tal nome perché tra loro si chiamano così) amano la guerra, ma senza pregiudizio della integrità personale. 21. - Ricognizione sopra Monreale al mattino con poche perdite. La sera marcia di fianco verso San Giuseppe. Ma si diverge per la montagna verso Parco, villaggio a sette miglia di Palermo sulla vecchia strada di Corleone. Marcia di notte fra i burroni e il temporale con bagagli e cannoni. Neppure i più antichi compagni di Garibaldi ricordano un miracolo simile. 22. - Si giunge al Parco all'alba. Esciamo subito in avamposto contro i Napoletani di Monreale. Combattimento a San Martino. Muore Rosalino Pilo. 23. - Saliamo ad accamparci sul monte che domina Parco fa1

dai loro perversi padroni, essi finivano straziati e mutilati dai loro propri fratelli con tale rabbia da far inorridire le iene• (Garibaldi, I Mille, cit., pag. 43). 1. esercito di frati: • Renne è famosa nella campagna dei Mille per due giorni di copiosa pioggia, passati senza il necessario per affrontare le intemperie; ove fu assai incomodata la gente, ma ove quel pugno di prodi provò esser disposto ai disagi, siccome a disperate battaglie•· (Garibaldi, I Mille, cit., pag. 43).

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cendo le viste di fortificarvici. I Picciotti rubano la coperta del Generale mentre dorme. Garibaldi va in estasi per la loro disinvoltura. 24. - Avanzata di 4.000 (Napoletani e Svizzeri) del corpo di Bosco, in 3 colonne alle 6 del mattino. Dopo breve resistenza fingiamo ritirarci oltre Piana de' Greci. Ma colà la colonna si divide, e mandato Orsini coll'artiglieria verso Corleone, noi pieghiamo sopra Marineo e bivacchiamo silenziosi in un bosco. 25. - Bosco, ingannato, insegue Orsini fino a Corleone, credendo inseguir Garibaldi; noi per Marineo giungiamo a Missilmeri, ancora ad otto miglia da Palermo. Gran raccolta di squadre che fanno un chiasso indiavolato. 1 26. -Al mattino il 1.0 battaglione s'accampa verso Gibilrossa. Il Generale accoglie molti Palermitani sotto una bella ombra d'ulivi. Consiglio di guerra. Si decide di arrischiar tutto e di piombar sopra Palermo. Solennità del momento. Gioia generale. Discesa precipitosa e difficile nella pianura la notte del 26 al 27. Gran fuochi dei contadini sui monti per dar ad intendere che non moviamo il campo. 27. -Alle tre del mattino, per porta Termini, assaltiamo Palermo. Siamo in ottocento con poche squadre e malsicure. Sorpresa completa dei Napoletani e loro fuga dalla prima barricata - i nostri si sparpagliano per la città - ve ne hanno uno o due per contrada. La mitraglia spazza continuamente Toledo e Macqueda, i due corsi che dividono in croce Palermo - il disordine è la nostra salute - ci trovano dappertutto, ci credono un esercito, si ritirano, anzi fuggono al palazzo reale ed al castello con gravi perdite. Dei nostri pochi morti, non molti feriti, fra cui Sirtori, Bixio, Tukory, Cairoli, ecc. 28. - Bombardamento ed erezione di barricate tutto il giorno. (Sul resto il Giornale Ufficiale di Sicilia dà notizie abbastanza veritiere e precise.) 1. chiasso indiavolato: • Bosco e Van Michel avean bensl raggiunto l'artiglieria nostra comandata dal generale Orsini, che con pochi invalidi la difese valorosamente ed a cui tolsero, credo, un pezzo inutile. Ciò successe verso Corleone, ma la colonna principale dei Mille, prendendo a sinistra per Marineo e Misilmeri, giunse a Gibilrossa, ove il generale La Masa avea riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò la famosa marcia di notte, per sentieri asprissimi, sulla capitale dei Vespri, presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe dell'esercito borbonico.• (Garibaldi, I Mille, cit., pag. 73).

RESOCONTO AMMINISTRATIVO DELLA PRIMA SPEDIZIONE IN SICILIA DALLA PARTENZA DA GENOVA IL 5 MAGGIO ALL'ULTIMO ARMISTIZIO COLLE TRUPPE BORBONICHE IL 3 GIUGNO 186o, IN PALERMO

Quando tutta Italia, porgendo l'orecchio, prima alla generosa disfida della Gancia, 1 poi alle bestemmie ed ai gemiti di Carini, a precorreva coi suoi voti la magnanima impresa, cui ci condusse il vincitor di Varese, e della quale egli fu volontà, forza e corona, nessuno faceva inchiesta dei mezzi ch'erano in poter suo per muover guerra disperata a quella ch'era rimasta fino a ieri la prima potenza militare d'Italia. Sembrava che nell'opinione de' popoli egli solo, come l'angelo della Liberazione, dovesse accorrere sulle ali dei venti a liberar la Sicilia. Quasi solo egli fu infatti, e parve grande, più che non si aspettava, il miracolo. Ma a non accrescere, come si poteva, il numero dei suoi compagni, valse certo la pochezza dei mezzi. Scarse ancora le offerte private per la Sicilia, e disseminate in cento città, in cento comitati diversi; le contribuzioni volontarie pel milione di fucili, già impegnate in parte per le compere presso le fabbriche d'armi, in parte annotate come lettera morta sui registri, né seguite ancora dai rispettivi versamenti, si era coi mediocri risultati di questi grandiosi tentativi, che Garibaldi si gettava in una guerra di cui non si poteva prevedere né la grandezza, né la durata. Se le titubanze fossero possibili nei giudizi del Generale, avrebbe dovuto tentennare sovente dinanzi l'arduo problema che l'Italia gli imponeva da sciogliere. Quanto a noi, chiamati a seguirlo per irresistibile impulso di cuore, pensavamo segretamente che le crociere napolitane e la soverchiante armata di Salzano ci avrebbero sciolti dalla necessità di consultare i magri nostri registri. Ma di questa imprudenza noi osiamo vantarci altamente; perché i fatti mostra1. disfida della Ganda: cioè la rivolta capitanata da Francesco Riso, lo stagnaio, del 4 aprile I 860 e che, partita dallo stabile del convento della Gancia, fu stroncata nel sangue dai Borbonici dell'armata del generale Salzano, comandante la piazza di Palermo. 2. alle bestemmie ... Carini: si riferisce allo scontro sanguinoso tra insorti siciliani e truppe borboniche avvenuto il 14 aprile 1860 a Carini (in provincia di Palermo), che provocò, il 18 dello stesso mese, l'eccidio della popolazione, ordinato dal Comando napoletano come rappresaglia.

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rono in appresso ch'essa non dipendeva né da difetto di volontà, né da sciocca noncuranza. Noleggiati a gravissimo dispendio due vapori della Società Rubattino, il Piemonte ed il Lombardo, di cui già si prevedeva la fine, che pur non fu la tristissima; pagati i preparativi della spedizione per la gente, per l'armamento, per le munizioni da guerra e da bocca, e per quella scarsa partita di vestiario che si poteva raggranellare in si breve spazio di tempo, rimasero circa lire italiane novantamila che a me furono consegnate perché si provvedesse con quelle a tutti i bisogni d'una spedizione improvvisata e manchevole di tutto come la nostra. Non so se maggiore fosse la fiducia nella Provvidenza e nella santità della causa, oppure, come dissi, nella brevità della guerra. Cosi entrammo in mare - e mi ricordo che a Talamone non fu senza stringimento di cuore che consegnai quattordicimila lire al mio compagno Nievo, destinato da me a sopraintendere al Lo11ibardo, e gli dissi: Questo pel caso che ci avessimo a dividere! La fortuna della patria e la stella di Garibaldi vollero altrimenti. L' I I maggio all'ora del tocco pomeridiano noi sbarcammo incolumi nella rada di Marsala, sotto il fuoco dei legni napoletani che bersagliavano il molo. I nostri rispondevano allo scoppio delle artiglierie col grido: Viva l'Italia! e i cittadini accorsi alle porte salutavano con acclamazioni frenetiche le poche camicie rosse, indizio del vicino difensore di Roma. Preposto dalla volontà del Generale con pochi compagni alla gestione economica della spedizione noi non ebbimo altri talenti, altra guarentigia che l'onestà e la rettitudine di coscienza. Con queste scarse doti ci accingevamo a servir doppiamente la patria, come amministratori e come soldati; e se fummo da meno del dover nostro lo dica chiunque. Per me posso assicurare che i compagni miei non rifuggirono da nessun ufficio neppur da quello di facchini per servizio dei loro fratelli d'armi, accettando tutti quella massima di Plutarco che anche nelle cose minime si serve e si onora la patria; il che è meglio chiaro, quando le minime cose sono mescolate e servono a formar le grandi. Sino allora ben poco si aveva speso della nostra cassa di guerra, fuori che per le provvigioni imbarcate nei giorni 8 e 9 a Talamone; ma toccato il suolo di Sicilia, era precisa volontà del Generale che non si gravasse né sui Comuni né sui privati, neppur colle solite contribuzioni di guerra, e che si usasse a ciò la massima

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delicatezza per non emungere un paese già abbastanza impoverito dal mal governo e dalle estorsioni borboniche. Da Marsala a Palermo in sedici giorni di campagna difficile, irregolare, faticosissima, con soldati sprovvisti affatto di ciò che meglio necessita alla milizia in campo, in paese amico e avvezzo a sacrifizi d'ogni genere, non un pane fu tocco, né levata una festuca di paglia che non ne fosse offerto il prezzo corrispondente. Scarpe, vesti, camicie, arnesi da cucina e da cantina, polvere e piombo, armi, coperte, muli, cavalli, tutto fu raccolto, stimato, pagato, annotato nelle brevi interruzioni di marce precipitose e disagiate. Solamente pei mezzi di trasporto, siccome il prezzo poteva crescere in proporzioni straordinarie, si determinò di pagare ai condottieri un sen1plice acconto e il vitto per essi e per le bestie, rimanendo il conto da regolarsi in seguito fra essi e le Comunità. I Comuni s'addebitarono perciò soltanto di quello che ci fu fornito da loro medesimi per ispontanea generosità: così furono rimeritate non d'altro che di fraterna gratitudine le copiose spedizioni di pane venuteci da Partinico, e di cappotti e di coperte e di pane ancora da Borghetto, da Montelepre e da alcuni altri paesi; financo dalla lontana Castelvetrano a null'altro seconda in fervoroso amore di patria. In paese povero, non avvertito di nulla, dove sono difficili le vie di comunicazione, e l'indolenza ereditaria nei pochi centri popolati, la quistione del pane diventava per noi del massimo momento. Ne avemmo la prima prova a Marsala, quando, votate tutte le botteghe, tutti i fondachi dei panettieri, vi volle la notte intera ad ottener dai fornai le razioni occorrenti per una piccola colonna di mille e settanta uomini. Ma le prime difficoltà ebbero il merito di premunirci contro le solite imprevidenze, per cui non avvenne fra noi nessuna di quelle sgraziate combinazioni, che negli eserciti regolari lasciano regolarmente sprovviste di viveri divisioni e brigate. Noi soffrimmo assai e pel disagio del cammino, e per le incomodità di campeggiare senza arnesi di campo, e per la certosina frugalità dei pasti cui non eravamo avvezzi; ma il tozzo del pane cotidiano non mancò a nessuno. Sì agli estremi avamposti che alle riserve, ed alle squadriglie paesane le più sbandate, la pagnotta e la proverbiale razione di cacio cavallo furono puntualmente distribuite, e nel momento della pugna furono veduti soldati, scorte e distributori unirsi tutti insieme nel correre incontro al nemico.

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Mi dispiace per amore dell'arte che dalla memoria di pochi debba venir conservato il bizzarro quadretto che presentava la nostra gente schierata verso sera al primo bivacco di Rampagallo. Una cascina isolata sopra un'altura, in mezzo a un mar di colline verdi di frumento e di pascoli; per queste disseminati qua e là gruppi di uomini nelle più strane fogge che si possano mai immaginare, qualche camicia rossa che spicca al lume dei fuochi che si vanno accendendo; i fucili che splendono a fasci; le torme di foraggieri che vanno per legna; i più feroci delle compagnie che sventrano le capre pel rancio; il Generale in mezzo ai soldati che ride e s'intrattiene con tutti del miglior umore del mondo; frammisti a questa scena i pastori semi-selvaggi dei dintorni, con cosciali e schiniere di pelle di capra che s'aggirano, guardano, ascoltano, ammirano, e spargeranno alla domane pei dintorni il fanatismo per Garibaldi e pei suoi compagni; perché non erano fra noi Pagliano od Induno' per affidare alla carta un vivo bozzetto di quelle poche macchiette che vo raccozzando? ... Bisogna ricorrere alle immaginose spedizioni di Pizarro e di Cortez per trovar vere storicamente simili linee e simili colori. Confesso che per allora pochi ebbero agio di fermarsi all'apparenza estetica delle cose; tante erano le funzioni che ventiquattro ore non bastavano; soventi ci toccò essere non già amministratori e capitani di volta in volta, ma vivandieri e soldati nel punto stesso. A Calatafimi, mentre io e Rechiedei salivamo tra le file, Bozzetti portava il pane alla settima ed ottava compagnia ed a quella dei carabinieri genovesi, e Nievo ed U ziel lo distribuivano alle altre che stavano scaglionate di fianco alla strada. Se i primi non ebbero tempo di prendere alcuna refezione, se gli ultimi gittarono via pane ed ogni cosa per accorrere al suono della tromba che segnava l'avanzata, uno dei nostri doveri era adempiuto. Restava l'altro: e lasciata la cassa in custodia al maggiore Parodi, e abbandonati i carri alla provvidenza, noi tutti insieme non ebbimo altro pensiero che di dividere coi soldati e col nostro Generale i 1. Pogliano od Induno: Eleuterio Pagliano (1826-1903), pittore celebre durante il Risorgimento, fu con Garibaldi nel 1849 a Roma. S'ispirò soprattutto ad avvenimenti bellici e patriottici, e di lui rimane famoso il quadro La morte di Luciano Manara. Girolamo Induno (1827-1890), fratello di Domenico, anch'egli garibaldino a Roma nel 1849 e in Vatellina nel 1859. Si ricordano ancora i suoi quadri San Pancrazio, La difesa del Vascello, La fidanzata del garibaldino, e i ritratti di Garibaldi, di Mazzini, di Manin e di altri.

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pericoli e la gloria della giornata. La sera si ritrovò e fu distribuito il pane abbandonato. Ma pur troppo non accorsero tutti a riceverlo quelli che lo avevano rifiutato il mattino. Se da un lato la distribuzione riusci qualche volta difficile e meritoria, quanto fosse sempre impossibile dall'altro il giusto calcolo delle provvigioni pei continui e repentini cambiamenti nelle richieste dei corpi, lo pub immaginare chiunque consideri la qualità della guerra da noi combattuta. Le squadre siciliane sparpagliate e imboscate sovente vivevano di contribuzioni sui paesi occupati; quando all'impensata ci si raccozzavano intorno, e ricorrevano a noi per le paghe e pei viveri. Da ciò subitaneità d'ordini e contr'ordini, richieste, requisizioni, condotte, distribuzioni, tuttocib sempre frammezzato da marce, da allarmi e da movimenti d'attacco nei quali intendente, vice-intendente, commissario, cassieri e tutti, sì per forza di cuore che per urgenza di pericolo, correvano alle file colla carabina alla mano. Vi sono uomini, che chiamano noi un partito. Se l'amare l'Italia e l'unità di essa più che ogni interesse di città, di provincia, di principe e di famiglia è passione di partito, noi apparteniamo a questo partito che è quello della nazione e della giustizia. Per questo concetto provvidenziale, vivificato dal pensiero dei secoli, fecondato pur ora dal sangue dei migliori fra noi, noi fummo e siamo pronti a dar l'opera, l'ingegno, il cuore e la vita. Se non altro, sarà provato a coloro che ci calunniavano quanto fosse vera la n.ostra fede di voler appoggiata all'onestà, all'amor patrio, alla concordia comune piuttostoché agli interessi, alle glorie momentanee, la salute d'Italia. Certo noi non eravamo mai stati né provveditori, né fornitori d'armata, e ciò non pertanto l'ordine d'un capo stimato e lo zelo e la volontà di alcuni uomini bastarono a quello cui non sarebbero bastati molti e molti funzionari delle solite amministrazioni. Nemmeno eravamo esperti di conti di cassa e di bilanci, ma sotto non maggiore regolarità di cifre oso dichiarare che qualunque amministrazione non presenterebbe maggior chiarezza ed economia di spese. Si sa come noi tutti eravamo partiti o da Genova o da Milano o da Brescia o da Bologna impensatamente, alla sprovveduta, senza cambiare gli abiti soliti a portarsi nelle case e nei caffè. A chi pensi profondamente non recherà stupore ma ammirazione una tale sprovvedutezza il cui significato era: a che tanto sciupo di

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nO'lJità e di prOTJViste per quindici. giorni di vita! Ma poiché toccammo il sacro suolo dei Vespri, e le tristi previsioni svanirono sotto la innocua mitraglia dello Stromboli, successero alla sprov.vedutezza le preoccupazioni. Come provvedere il necessario per campeggiare ad un migliaio d'uomini, cui solo corredo militare erano un fucile per capo ed una dozzina di camicie rosse per compagnia, vale a dire una camicia ogni dozzina d'uomini? Soprattutto ci metteva terrore, sembra ridicolo l'accennarlo, lo stato delle scarpe. Ma per chi ha veduto una sola volta alcuno dei nostri cacciatori scalzo e sanguinante i piedi pei rocciosi sentieri di Salemi e di Parco, mettere ogni sforzo di volontà nel dominare lo strazio d'ogni passo, per affrettare il cammino, raggiungere i compagni, e non essere tacciato di lentezza al momento dell'attacco, per chi vide o si aspettava vedere codesto, -non fu piccolo sgomento passare a rassegna sul selciato di Marsala decine e centinaia di scarpette lucide e di stivaletti più atti a passeggiare in una capitale che ad arrampicarsi sui sentieri ancora saraceni di questa bellissima parte d'Italia. Cominciarono fin d'allora quelle continue e minute requisizioni di scarpe, che furono, convien confermarlo, una delle principali nostre fatiche. E ciò parrà strano e frivolo a coloro che recano in coda all'esercito, assicurati da un buon corpo di dieci o dodicimila uomini di riserva, depositi e magazzeni di ogni fatta; ma per noi, vero pugno di cacciatori, sbalestrati qua e là dal volere pronto ed indomabile che ci dirigeva, non fu piccol vanto arrivare a cambiar calzatura quasi due volte a meglio che duemila uomini, giacché, oltre ai nostri, dopo Partinico furono fatte abbondanti distribuzioni anche alle bande armate del paese. Tutto ciò nel giro di poco più che due settimane, in paesi privi di industria, dove bisognava cercare la bottega d'ogni ciabattino e arrivare al molto giovandosi molte volte del poco. La discreta quantità di scarpe raccolta a Salemi, ad Alcamo, e via via a Partinico, al Parco, a Marineo, e fino all'ultime frazioni di Misilmeri testificherà del nostro zelo a raccogliere, come delle fatiche grandissime durate dai soldati per consumare. Con minor urgenza si cercava in pari tempo provvedere agli altri bisogni più essenziali di vestiario. E mentre si commise dovunque la maggior quantità possibile di camicie rosse per accrescere la nostra apparenza militare, e di lance per aumentare

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la forza, non si trascurarono, per quanto lo permetteva il paese, la biancheria e gli utensili di casermaggio per le compagnie, i quali pur troppo andarono spesso smarriti o trafugati nella malagevolezza delle strade e nel difetto dei veicoli. A Salemi si era già provveduto allo stretto necessario in fatto di rameria. 1 Ad Alcamo, trovatasi una discreta partita di camicie, di pezzuole da collo, ecc., la colonna poteva già sfilare cenciosa sl, che era la sua gloria, ma già non affatto nuda. A distruggere quanto si aveva guadagnato sopravvennero le disastrose notti del bivacco a Renda e della marcia di fianco dal Pioppo a Parco, nelle quali la pioggia continua e sfrenata sopra uomini null'affatto riparati ed appena leggermente vestiti, recb maggior guasto che un mese intero di campagna. Si era, sl, cercato riparare al difetto con grandi requisizioni di scapolari (piccoli cappotti con cappuccio) dai paesi circonvicini; ma molti giunsero troppo tardi, altri erano troppo laceri e troppo corti per difendere la persona; la maggior parte, impregnati d'acqua, fracidi, sbrandellati, andarono smarriti nella notturna confusione. Quando si pensa che in mezzo a tali disagi, di fronte a difficoltà quasi insuperabili, non un lamento partì mai dalle nostre schiere, non venne mai meno un istante la fiducia nel Generale e il sentimento della completa abnegazione per la patria, non si pub far a meno di esclamare: Costoro ben meritavano il miracolo del1'entrata in Palermo I Ognuno stupisce ancora che le artiglierie, a spalle di venti, di trenta, di quaranta uomini, abbiano potuto scendere il precipizio che dalla strada di San Giuseppe mette a quella del Parco. Ma chi pensb alla nostra povera cassa, nella quale restavano ancora più che quarantamila lire, e parte di essa in argento ed in rame, e che fu portata a spalle da un sol uomo con noie, lentezze e cadute che sono, a dir poco, indescrivibili? ... Pure essa arrivb in tempo da far le paghe e rimeritare l'aiuto recatoci dai paesani in quella circostanza. Né di cib ci facciamo gran merito. Ma siccome nelle cadute di chi la portava si fracassb anche la cassa, onde furono necessarie molte fasciature di coperte ed altro per assicurarla, non fu piccola diligenza di chi la sorvegliava, raccogliere i denari sotto la pioggia, in quella oscurità, e fare in modo che al riscontro non mancasse la minima moneta. lo non 1.

rameria: complesso degli utensili da cucina., in rame.

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lamenterb mai il danaro elargito a coloro che faticarono in quel trasporto di artiglierie. Se quei cannoni non avessero servito ad altro che ad attirare )unge dalla linea di difesa e fino a Corleone la parte più compatta ed attiva d'esercito nemico, io credo che non vi sarebbe oro bastevole a pagarli. Del resto la generosità dipendeva più assai dall'animo del comandante che dalle pretese dei paesani, e convien confermarlo in lode di questa Sicilia, oppressa, depauperata per tanti anni, che di fronte anche alla massima povertà noi trovammo spesso, se non sempre moderazione, almeno arrendevolezza in ogni maniera di contratti. L'acquisto di muli e cavalli che, cominciato a Salemi, continub fino a Vita, a Calatafimi, ad Alcamo, a Renda, a Misilmeri, ne fornisce una prova, ché ad onta di circostanze straordinarie non fu richiesto comunemente prezzo che oltrepassasse le trecentocinquanta lire. E mulattieri e noleggiatori si trovarono pronti dovunque, anche a Misilmeri, dove la certezza del vicino e temerario assalto di Palermo sembrava dovesse allontanare la gente non armata. Rassegnando il libro di cassa e il residuo della cassa stessa nelle mani del Generale, volli accompagnarlo con queste note che non sono già ripetizioni di somme e di riporti, ma schiarimenti ragionati sul nostro operato. Ad onta delle molteplici spese e dei pochi introiti prelevati dalle casse pubbliche (in tutto italiane L. 3.390, cent. 58), al bivacco di Gibilrossa noi riscontrammo ancora in cassa la somma di italiane L. 32.463, il qual ottimo risultato fu dovuto a nostro credere più assai che alla perizia degli amministratori all'onestà di tutti e alla pazienza meravigliosa dei soldati. Letterati, ingegneri, legali o poeti, tutti, quanti fummo onorati dalla fiducia del Generale in capo, mettemmo l'ingegno ed il cuore a mostrarcene degni. Sapevamo che l'Italia ci avrebbe domandato conto delle nostre azioni; più ancora, che le nostre azioni avrebbero cooperato a fare l'Italia ed a sventare le trame di coloro che vogliono rinchiudere nelle aule governative ogni attività politica della nazione. Gli effetti mostrarono, questa volta almeno, in modo evidente, da qual parte fosse il torto, e come anche la rivoluzione, anzi la rivoluzione prima di tutto, sia e debba di necessità essere onesta; perché rivoluzione in Italia volle dire finora martirio e seguiterà ancor lunga pezza a significar sacrifizio. Con esempi simili a questo noi possiamo portar alta la fronte erispondere finalmente coi fatti a chi ci calunniava a parole. Sì, l'onestà,

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oltreché essere il sentimento più vivo delle anime che sentono il dovere dei grandi sacrifizi, è anche il primo fondamento di ogni capacità amministrativa; non è per nulla il monopolio di uomini di mestiere e di conservatori ad ogni costo. Il nostro resoconto potrebbe esprimersi con una formula a cui rare volte si innalzeranno i bilanci delle pubbliche amministrazioni: con poco ho fatto molto. Dopo le fazioni e i combattimenti del ventisette, durante i quali ogni funzione amministrativa restò sospesa per concentrare la maggior forza nell'assalto al nemico, ricominciarono al ventotto maggio i pagamenti colla nostra cassa di campagna, giacché l' occupazione del palazzo delle Finanze per parte dei Borbonici, e la difficoltà di raccogliere le oblazioni volontarie, precludevano ogni altro mezzo; e con vien soggiungere a lode del vero che, essendo in gran parte appoggiata a noi la costruzione delle prime barricate, ed interrompendosi spesso con fazioni militari le operazioni eco-nomiche, di cinque ch'eravamo allora nel nostro ufficio, non uno ebbe, io credo, due ore continuate di riposo, finché non fu pattuito col generai Lanza il primo armistizio. 1 E qui mi sia lecito consacrare una riga alla memoria di due carissimi giovani miei ufficiali ed amici, i quali il mattino del 30 maggio, mentre in mia presenza animavano la gente alla costru-zione della barricata di Santa Caterina, bersagliata continua-mente dalle palle e dalla mitraglia nemica, giacquero vittime del loro coraggio e del loro amore per la patria. Enrico Rechiedei, di Brescia, antico cacciatore delle Alpi, ferito gravemente a Varese, Enrico Uziel, di Venezia, giovinetto di sedici anni, sfuggito alla sorveglianza de' suoi per accorrere all'impresa di Sicilia, dopo esserci stati compagni nelle varie fatiche e nei molteplici pericoli della campagna, dopo aver pugnato nelle prime file a Calatafimi ed a Palermo, giacquero insieme estinti dall'ultima palla lanciata dalle artiglierie napoletane, ed ora dormono insieme l'eterno sonno nella chiesa dello Spasimo, ricordo dolce insieme ed amaro ai colleghi superstiti, cagione di lagrime alle famiglie lontane, novello vanto d'Italia, ed esempio di valore a' suoi figli. Di sei rimasti quattro, io, Ippolito Nievo ora vice intendente generale, Romeo Bozzetti, ora quartiermastro generale, e Fran1. armistizio: il 30 maggio il vecchio generale borbonico Lanza chiese un armistizio e il 6 giugno firmò una convenzione per lo sgombero delle truppe napoletane.

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cesco Curzio, passato poi capitano di stato maggiore, cercammo, per quanto era in noi, di onorare la memoria dei morti imitandone lo zelo e l'attività. I primi contratti di fornitura, le disposizioni di pagamento per corpo, l'idea delle rassegne per le squadre datano da quei giorni. E se non tutto si ottenne, in parte ne fu ragione la preoccupazione della città, ch'era piuttosto nell'adoperare le offese per oggi, che nel prepararle per il domani. Se il tumulto continuo della nostra breve campagna, e la mancanza di ogni agio di luogo e di tempo cagionarono qualche ritardo o difetto, e protrassero la loro influenza anche nelle prime e bellicose giornate della nostra dimora in Palermo, vorrà perdonarci, speriamo, la bontà del Generale, poiché tanto generosamente ci assolse la pazienza dei compagni. Alcune non lievi retribuzioni per danni e spese, per compera d'armi, più le gratificazioni ai battaglioni della prima spedizione, alla squadriglia del signor La Masa, e ad altre persone designate dal Dittatore, furono le ultime operazioni passive nella nostra cassa particolare dei Cacciatori delle Alpi, con un esito in cinque giorni di italiane L. 18.214 cent. 33. Queste, detratte dall'attività riscontrata a Gibilrossa di ital. L. 32.463, più l'introito avuto a Palermo di ital. 1.800, lasciano in residuo la somma oggi stesso riconsegnata al gabinetto del dittatore Garibaldi di ital. L. 16.048 cent. 67. Col 3 giugno, conchiuso già l'ultimo armistizio colle truppe napolitane, venuti in poter nostro il palazzo delle Finanze ed il Banco, cambiatosi il Corpo dei Cacciatori delle Alpi in Esercito Nazionale di Sicilia, terminava l'azione della nostra amministrazione separata. La Sicilia tutta ci offriva oggimai i mezzi per combattere il comune nemico, e restituiva ali' Alta Italia in lacrime di riconoscenza l'obolo dell'elemosina che ci aveva aiutato a rinfiammare la sua sopita rivoluzione. Delle operazioni successive come Intendenza generale del-l'Esercito Nazionale in Sicilia sarà fatta ragione nel presentare ulteriori rendiconti. Intanto non ci dipartiremo dalle memorie di questa rapida, fraterna e gloriosa campagna senza benedire una volta ancora il nome del Generale, che più di tutto ci fu in essa fomite di attività, incitamento di costanza, arra di salute. Palermo, 16 luglio 1860.

L'Intendente Generale ACERBI

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AL CHIARISSIMO SIGNOR DIRETTORE DELLA

« PERSEVERANZA »1

Nel luglio passato, occorrendomi, per incarico superiore, di dare onorevole pubblicità al Resoconto amministrativo della prima spedizione di Sicilia, voi apriste le colonne del vostro giornale ad un documento che non apparve senza decoro dell'uomo integerrimo che diresse l'amnùnistrazione di quel nucleo d'esercito, e di coloro che lo aiutarono in un'opera di pura e completa abnegazione. Ora ai medesimi uomini incombe un obbligo di ben maggiore momento, ed io spero che la vostra amichevole imparzialità mi sarà cortese di pubblicare anche gli ultimi risultati delle loro più grandi e lunghe cure amministrative. Riusciti al minor male nella prima parte dell'impresa, e dal posto fino allora per necessità occupato, e dall'urgenza dei momenti che non consentivano la modestia, e dalla fiducia e dalla volontà del Generale che occorrendo la violentavano, indotti a continuarla in più vaste proporzioni, lor malgrado si trovarono essi avventurati ad una prova che sembrava soverchiare le forze di uomini anche provetti in materie consimili. Si trattava d'improvvisare un esercito, e di aggiungere una forza meno instabile e capace di lunga resistenza alrimpeto ed al prestigio che fin allora aveano creato miracoli. Con pochissime nozioni di pratica, e fiducia nessuna nelle proprie forze, ma con una completa ubbidienza ai decreti della necessità ed ai voleri di chi interpretava in quei frangenti i bisogni della patria, con una animosa confidenza nella devozione dei proprii compagni d'armi, alcuni pochi e giovani lanciarono in mezzo a pericoli immensi la propria responsabilità; amarono meglio esporre se stessi alla derisione ed alla calunnia, che la patria ai rischi di un cambiamento d'amministrazione, e al tentennare di uomini o troppo vecchi o troppo nuovi che difficilmente avrebbero secondato la subitaneità dei movimenti che allora si preparavano. Posso Direttore del giornale liberale milanese « La Perseveranza D era il friulano Pacifico Valussi, amico del Nievo. Egli era stato il fondatore, nel 1853, dell'• Annotatore friulano» al quale il Nievo collaborò. 1.

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assicurare che non fu superbia, ma, se non retta, certo coscienziosa stima del tempo e dei bisogni presenti. A far molto e presto, com'era d'uopo, dovevano servir meglio l'attività giovanile e l'entusiasmo militare che l'adulta prudenza e la pedanteria burocratica. Misero dunque mano all'opera risolutamente. In paesi male avvezzi sia per la corruzione che per l'ignavia fomentate dal governo borbonico, accoppiarono tutta l'energia di cui erano capaci aÙa maggiore sobrietà di dispendio, all'onestà più scrupolosa. Per propria salvaguardia non ebbero altro che un'incessante attività, presente alle cose grandi come alle minute; non consulti, non esitanze, non pentimenti: l'urgenza non li permetteva; ma lavoro continuo, disinteresse, giustizia imparziale e laconica per tutti. Con ciò sperarono bilanciare le perdite che dovevano di necessità provenire dall'andamento tumultuario delle cose, dalla scelta impossibile delle persone e dalla fretta dei provvedimenti. Vi riuscirono? All'opinione pubblica toccherà decidere se questa volta l'onestà e il buon volere vennero a capo di amministrare una rivoluzione. Certo gli uomini egregi che tennero di volta in volta il Ministero delle Finanze, si a Napoli che a Paler_mo, non furono loro avari di fiducia; e popolazioni tanto in voce di malafede, di invidia, di ingratitudine verso gli estranei, non li designarono mai al pubblico vitupero; come altrove avvenne non so con qual senno, giustizia e decoro nazionale. Giornali zelanti o ciarlieri anticiparono risultati non troppo veritieri, né genuini, della loro amministrazione. Ora che un po' di luce si è fatta nel retaggio di quei cinque mesi di sovvertimento, io godo di poter completare o correggere le premature rivelazioni. Un resoconto minuto, svariato, colossale sta adempiendo al dovere di rispondere di ogni loro atto dinanzi al governo nazionale. Voi li aiuterete a giustificare l'opera loro dinanzi l'opinione pubblica, portando a cognizione universale i dati che ora soggiungo. Dal due giugno fino alla partenza del Generale per Milazzo furono ricevuti e spesi dall'Intendenza generale dell'esercito in Palermo, due. 530.249, gr. 01: e da quell'epoca a tutto ottobre, data a cui giunge l'Amministrazione Garibaldi, sempre in Palermo, altri due. 666.555, gr. 49. A ciò devono aggiungersi quanto alla Sicilia, due. 820.704, gr. 49, pagati direttamente dalla Tesoreria sopra ordinativi della stessa Intendenza per contratti ante-

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riori al 1° novembre, più due. 483.187, gr. 45 estratti dal Banco di Messina, tra il 6 e il 3 1 agosto, per il servizio dell'esercito fino al 18 settembre; e quanto a Napoli, due. 501.200 pagati all'Intendenza generale dal 18 al 30 settembre, due. 6 50.000 contati alla stessa in ottobre e due. 1.000.000 passati direttamente ai fornitori per estinzione dei mandati dipendenti da contratti anteriori al 1° novembre. In tutto adunque, dal 2 giugno al 31 ottobre, durante la gestione sottoposta al Governo dittatoriale, l'Intendenza dell'esercito meridionale ricevette ducati 2.500.696, gr. 44 in Sicilia, e due. 2.151.200 a Napoli, ricevette cioè e spese complessivamente la somma di due. 4.561.896, gr. 44, pari a franchi 19.770.558, cent. 88. L'immensa congerie dei documenti, provanti la verità e la qualità dei pagamenti fatti, finisce ora di ordinarsi per essere sottoposta alle gran Corti di Sicilia e di Napoli. Ognuno può argomentare la mole di un tal lavoro dalle condizioni affatto anormali e perpetuamente variabili degli enti amministrati. Corpi di truppe che ingrandivano, scemavano, si compenetravano e si suddividevano a seconda delle necessità momentanee; reggimenti e brigate che per l'ugual motivo entravano in campo senza precisa organizzazione; centri d'arruolamenti istituiti qua e là senza possibilità di relazioni o di unica vigilanza; nuovi battaglioni che già formati s'imponevano subitamente al servizio amministrativo; l'esercito tutto occupato con costanza meravigliosa in continue marce, fazioni d'avamposti e fatiche smisurate, che tenendo raccolto il fiore delle milizie sparpagliavano di leggieri i meno volonterosi e robusti; di qui eccezioni reali o pretesti di eccezioni; in ogni modo intralci senza fine, bisogni fuori d'ogni previsione; e dall'impossibilità di provvedere in pochi, arbitrio concesso ai molti di provveder essi, lasciando però ai pochi ogni responsabilità; ecco le truppe, ecco le condizioni nelle quali doveva esercitarsi un servizio amministrativo capace e della devozione voluta dal presente e delle giustificazioni comandate dal futuro. Si volle censurar da taluni in Garibaldi un modo di guerra che cagiona tali necessità. Questo per me era il dilemma. O sotto Capua, entro tre mesi, con una guerra tumultuaria e impetuosa, o in Sicilia, o tutt'al più nelle Calabrie, fino alla primavera, con una guerra compassata e prudente. 68

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Scegliendo fin da Palermo il primo partito, io credo che il Generale abbia dato una prova lampante di quell'alta capacità politica che risplende troppo per esser sopportata da tutti gli sguardi. Chi pretende già costruito il palazzo, mentre a scoppio di mine e a col pi di piccone si sta scavando il granito ? In Sicilia dal giugno a mezzo luglio fu una vera leva d'insurrezione; fino al passaggio del Faro fu un continuo succedersi di fatti d'arme, di movimenti, e di finte per distrarre e ingannare le crociere borboniche; le marce miracolose delle Calabrie, dove si videro brigate intere gareggiare alla corsa per contendersi gli onori della vanguardia, non consentivano certo né l'ordinamento dei quadri, né l'organizzazione amministrati va. E lo stesso dicasi intorno a Napoli e sul Volturno, quando la lunga linea che si aveva a difendere e ad assaltare richiamava a sé pel solo servizio d'avamposti i due terzi dell'esercito. Ora, ad onta di circostanze tanto contrarie l'Intendenza generale dell'armata meridionale è riuscita a poter presentare un Resoconto nel quale, oltre le solite cautele dei documenti, e delle autorizzazioni degli esiti, v'ha poi la prova suprema della massima economia. Spero che si vorrà tener calcolo e dei fatti e delle persone per non travisar quelli e calunniar queste per amor di partito. Quando il decreto della gratificazione concessa ai Garibaldini dimissionari portò una generale domanda di congedo, taluni meravigliarono del gran numero degli aventi diritto in confronto alle file non troppo numerose dell'esercito attivo. I dimissionari si presentavano in 43.000. Ma se si pensi che cotali elementi non erano tutti di attività, ma di preparazione; se si avverta che sei centri di arruolamenti erano aperti nella sola Calabria, ed altri non pochi nella Puglia, nella Basilicata ecc., e che Garibaldi s'era prefisso di preparare materia per una futura organizzazione atta a scopi più vasti, non di consegnare un esercito a uno scioglimento imprevisto, la meraviglia allora non sarà più pel numero dei volontari, ma per l'imprevidenza di coloro che, senza conoscerlo, ammettevanlo come moltiplicatore in un'operazione economica di tanto aggravio per lo Stato. Sta ad ogni modo che nei primi di novembre, quando cessava l'amministrazione dipendente dal governo dittatoriale, i prendenti paga dall'armata meridionale erano 43.000 nel continente,

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e meglio di 7000 in Sicilia, ove per allora non essendosi pubblicato, non si diede luogo a richiami di congedi, a gratificazioni. Al passaggio in Calabria si contavano diciottomila uomini, con settemila nelle guarnigioni e nei depositi. Quindicimila se ne contavano a Palermo in una rivista passata dal Generale prima della sua partenza per Milazzo, e tra l'entrata delle squadre in Palermo e il loro scioglimento o la loro compenetrazione nei recenti battaglioni paesani, si può calcolare che la forza pagata fosse di diecimila uomini. Il medio adunque, per tutti i cinque mesi, risulta di ventiquattromila uomini: sulla qual cifra, computandosi due franchi al giorno per individuo tra gregari, sottufficiali ed ufficiali, si ha per semplice paga e mantenimento la somma di fr. 7 .200.000. La qual cifra va poi aumentata di altri fr. 900.000 per gratificazioni d'entrata in campagna, assegni di corredo, ed altri emolumenti straordinari. La fornitura personale, secondo i nostri contratti, calcolata per ogni soldato fr. 84 (cappotto, calzoni, blusa rossa o giubba da fatica, berretto, uose, scarpe, sciarpa, camicie, mutande, giberna, cinturone, porta baionetta, bretella pel fucile, borraccia, tascapane), porta una spesa di fr. 4.200.000, ai quali poi devono aggiungersi altri fr. 800.000 per una gran quantità di oggetti duplicati e triplicati che furono distribuiti, massime scarpe, biancheria e buffetteria. I giorni della rivoluzione, per barricate, servigi straordinari, compensi e gratificazioni ai feriti e loro famiglie, lasciarono a tutto settembre una eredità passiva di fr. 550.000. Il Ministro della Guerra assorbì sul suo personale e spese inerenti franchi 70.000 circa; e 170.000 ne furono spesi per l'Istituto Garibaldi, tutto compreso. Sommato tutto in 14 milioni di franchi, rimangono 6 milioni scarsi che servirono all'acquisto di centomila fucili (fr. 2.500.000) per armar l'esercito e gran parte delle guardie nazionali; e pel restante (poco più di tre milioni) alla costruzione di tutto il materiale, artiglieria, carriaggi, munizioni, ambulanze, ospedali, trasporti ecc., e oltre tutto anche a prestiti d'urgenza pei Comuni delle Calabrie depauperati dai Borbonici. N otisi che buona parte dei fucili rimane negli arsenali, e che i magazzini-merci sono abbondevolmente forniti sì a Palermo che a Napoli. Pure, ad onta di tali avanzi e dell'urgenza e della irrego-

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larità del servizio, la spesa totale dei cinque mesi d'esistenza dell'armata meridionale di poco eccede la spesa del suo scioglimento. Questo solo fatto è la migliore testimonianza e il più onorevole punto di confronto per gli amministratori di essa; i quali, in premio di ciò e del sangue sparso pel bene della patria, non altro desiderano che l'approvazione fraterna, e una pronta occasione di rendere alla patria stessa quello che loro avanza di gioventù, di salute e di vita. Vogliate, signor direttore, aggradire i sensi della mia distinta stima e considerazione. N.

FRAMMENTO SULLA RIVOLUZIONE NAZIONALE

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L'Italia non fu serva si a lungo e non lo è ancora in parte per mancanza di virtù. Sei secoli di storia si schierano in falange a rintuzzare l'insulto e a difendere coi loro scudi sanguinosi la patria dei vincitori di Legnano, di Lepanto, di Raab, la patria di Farinata, di Cola di Rienzo, di Ferruccio, d'Andrea Doria, di Vittor Pisani, dei Bandiera, di Pisacane, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele! Il senno latino si è rinvigorito di nuova originalità in questa famiglia di alto lignaggio che discende da Dante a Machiavelli, a Galileo, a Vico. L'antico valore italico si è ritemprato a forza più acuta dalle guerre cotidiane dei Comuni, alle rivoluzioni ed ai supplizi del nostro secolo. Dove sono più numerosi i carnefici si può giurare che è anche più numerosa la schiera de' martiri. Il martirio è frutto ed è fonte di virtù. III

Dunque l'Italia fu serva per discordia di voleri! Ma dove scorgiamo noi una tale discordia se, meno qualche frate briaco e qualche politicastro pagato, tutte le voci che parlarono al popolo italiano da sei secoli in qua, lo incuorarono alla guerra di indipendenza e alla cacciata dei barbari? È questo un difetto nostro di cercare l'opinione pubblica solo nei libri e nelle opinioni della gente letterata, la quale s'immagina di parlare a tutta la nazione ed anche alla posterità. Ma v'ha un'altra opinione pubblica molto più vera e potente la quale non parla a tutta la nazione, ma pensa a nome di essa, la quale sonnecchia ·nel cuore del popolo o è bisbigliata sommessamente, la quale non pompeggia nelle formule profonde e negli aforismi, ma striscia vilmente mascherata nei discorsi, nei proverbi, perfino nelle esclamazioni volgari. La prima retorizza a nome della gloria e della filosofia; la seconda piange, grida, geme, ruggisce per le passioni, pei bisogni, pei dolori del momento. Quella fa la storia della Letteratura e questa la storia dei popoli.

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Se al di qua delle Alpi v'è discordia di voleri quanto al liberarne dal giogo forestiero, una tal discordia non può essere che tra il popolo ignorante e il letterato; perché vedemmo con qual meravigliosa costanza questo abbia sempre propugnato quell'impresa di liberazione. È tempo di dire la verità e di dirla intera. Sì I questa inerte opposizione o questa muta indifferenza agli sforzi della nostra intelligenza per conquistare i diritti di libertà cova ed opera sordamente nelle nostre plebi. Se ne togliete le poche popolazioni industriali (che sono eccezioni in Italia), la grande maggioranza della nazione illetterata, il volgo campagnuolo segue svogliato il progresso delle menti elevate. È più di peso che di aiuto al rimorchio; e lasciato appena, ricade contento nella propria quiete. Dalle prime voci di guerra all'entrata degli alleati in Lombardia, dalla partenza del legato Milesi da Bologna a quella di Garibaldi, accorsero alle bandiere italiane forse un sessantamila volontari. L'Europa guarda sdegnosa allo scarso numero. Ma muterebbe lo sprezzo in riverenza, lo sdegno in ammirazione se vedesse in quei sessantamila volontari la vera leva in massa di tutta la gioventù intelligente da Rimini a Trento e dal Ticino ali' Isonzo; se considerasse che poche dozzine forse di quei forti operai della gleba che formano il nerbo di tutti gli eserciti si noveravano in quelle migliaia di volontari. Fu uno sforzo supremo, ammirabile di costanza e d'abnegazione, che meriterebbe forse la redenzione di tutto il popolo, se Dio accettasse ancora per la salute dei molti il sacrifizio dei pochi. Ma per disgrazia le leggi morali vogliono altrimenti, quelle leggi cui Dio stesso obbedisce, e che sono i suoi attributi. Le nazioni sono compagini d'uomini; risorgono le nazioni quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compongono. La parte intelligente non può redimere col sangue la parte ignorante; deve anzitutto redimerla colla giustizia e coll'educazione. Ecco il sacrifizio incruento ma più lungo e paziente che si richiede ora all'intelligenza italiana.

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IV

Questo popolo rurale che s'attraversa con si ostinata apatia agli intenti coraggiosi e liberali di quelli che dovrebbero essere i suoi maestri, è egli così vile ed abbrutito, da non comprendere l'alta utilità di quegli intenti, e da negare ad essi per sola pochezza d'anima la sua cooperazione? Distinguiamo ignoranza da ignoranza. Un assai maggiore numero di contadini prussiani che non dei nostri sa leggere e scrivere; pure dubitiamo che quelli siano superiori pet acume d'ingegno. I nostri campagnuoli capiscono benissimo quanto utile si abbia dal poter comandare in casa propria; né sono certo più ignoranti degli Spagnuoli e dei Greci che amano la loro patria, e danno volentieri la vita per essa. Pure si rifiutarono a soccorrere validamente dell'opera loro gli sforzi dei liberatori, e non manca taluno fra questi che li tacci perciò di pusillanimità e di dappocaggine. Invero ci vogliono degli scienziati di singolar cecità per arrischiar quest'accusa nel secolo che s'aperse per noi sulle splendide pagine militari di Saragozza, d'Abuna e di Raab. Senza ricorrere alla reazione napolitana di Ruffo, nella quale fu sprecato per una causa infame tanto eroismo popolare, senza rammentare una serie infinita di esempi singolari che corroborano la rnassima generale, chi non sa che nell'esercito austriaco il quale comprendeva pure il fiore di tante razze bellicose come la polacca e l'ungherese, gli Italiani contavano fra i primi per disciplina per valore e per impeto? E il nerbo di quelle schiere di che altro era composto se non di giovani tolti ai nostri aratri, e cacciati a spargere il loro sangue in lotte fratricide per un padrone forestiero? Per distruggere queste accuse d'ignoranza e di dappocaggine mosse da qualche saputello di mezzana coltura al nostro popolo campagnuolo basterebbe quel grande esempio del movimento nazionale del 4 7: quando uniti campagnuoli e cittadini, letterati e illetterati in un solo entusiasmo al famoso grido di Viva Pio Nonol si videro tali disposizioni di generosa temerità e di rinnovamento civile da rendere sperabile anche ai meno illusi qualunque prodigio. Ma colla defezione del Pontefice dalla lega nazionale fu rotto quel solo vincolo religioso che univa l'intelligenza e la plebe

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campagnuola italiana in comuni desiderii. E risorse più pericoloso che mai, fomentato dalle mene gesuitiche e tedesche, il vecchio antagonismo. V

Infatti se non è né per dappocaggine di mente né di cuore, deve essere di necessità per odio, per passione o per divergenza d'interessi che il volgo campagnuolo non s'accompagna volentieri alle speranze ed alle intraprese della parte illuminata e liberale. Se si trattasse qui delle popolazioni industriali inglese o francese potrebbe sorgere il sospetto che smodate pretese, intemperanti desiderii prodotti o da falsa educazione o da viziose abitudini causassero quella tanta repulsione dei poveri contro i ricchi. Ma noi abbiamo invece nelle nostre campagne il popolo forse più sobrio, frugale e positivo di tutta Europa, non eccettuato forse lo spagnuolo, il quale è più temperante ma meno provvido e laborioso. I contadini nostri sogneranno a furia di lavoro e di tempo di cambiarsi in padroni; ma non di dividere col padrone tutti i doveri a scusa di questa o di quella teoria. Siatene certi, l'avidità renderà ladri, piuttostoché socialisti, i nostri fittaiuoli, i nostri bifolchi; è l'antico carattere pratico italiano che ci assicura per un gran pezzo da quest'altra lebbra oltramontana. L'avversione e la diffidenza dei contadini per la gente addottrinata e per gli abitanti delle città convien perciò ascriverle a cagioni diverse. Queste ragioni sono espresse a caratteri lampanti nei nostri costumi, nella nostra letteratura, nella nostra storia, nel nostro linguaggio. E chi volesse incolpare piuttosto i pazienti che i colpevoli farebbe opera insieme di cattivo cittadino, di cattivo uomo e di cattivo ragionatore. VI

Sì, il popolo illetterato delle campagne abborre da noi, popolo addottrinato delle città italiane, perché la nostra storia di guerre fratricide, di servitù continua e di gare municipali gli vietb quell'assetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni. Esso diffida di noi perché ci vede solo vestiti coll'autorità del padrone, armati di diritti eccedenti, irragionevoli, spesso arbitrari e dannosi a noi stessi. Non crede a noi perché avvezzo ad udire dalle nostre bocche accuse di mali-

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zia e di rapacia che la sua coscienza sa esser false cd ingiuste. Avversa i nostri intendimenti, rifiuta con noi comunanza di speranze e di sacrifizi nella vita pubblica, perché vede noi rifiutare la stessa comunanza a lui nella vita privata. Vendica coll'indifferenza alla nostra chiamata la nostra stessa indifferenza alle sue piaghe secolari. E quell'abborrimento, quella diffidenza, quella divisione d'interesse diventarono in lui e sono abitudine, seconda natura, mano a mano che nei nostri proverbi, nei nostri libri, nei nostri costumi si rassodavano si maturavano quelle abitudini di sprezzo di tirannia di noncuranza per le sue credenze, pei suoi costumi, per la sua condizione. Vergogna per la nazione più esclusivamente agricola di tutta Europa ch'ella abbia formulato contro la parte vitale di se stessa il codice più ingiusto, la satira più violenta che si possa immaginare dal malvagio talento d'un nemico. Chiedete al figliuolo d'uno speziale cos'è il villano? e la sua risposta vi dirà perché il villano ci odia, ci deride, ci disprezza nel profondo dell'animo, noi superbi maestri di sapienza e di civiltàl VII

Contro questa corrente di abitudini secolari che mutava la città e la campagna in due campi ostili, i ricchi ed i filosofi levarono due argini: il maestro comunale e il filantropo. Ambidue cercarono non nell'ingiustizia dei ricchi e dei sapienti ma nell'ignoranza e nell'ingratitudine dei poveri la colpa di quell'avversione, e si argomentavan di riparare, la prima coll'insegnar l'alfabeto, la seconda col predicare l'uguaglianza di tutti e la fraternità universale. Ma oltrecché eran falsi i principii dei rimedi, anche l'ordine di questi era sbagliato. Prima di istruire, prima di educare bisogna procurare quell'assetto di vita comoda, indipendente, dignitosa che rende possibili istruzione ed educazione. Mal si insegna l'abbici ad uno che ha fame; mal si presenta l'eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi d'un fattore. Sono sforzi che aggiungon la ridicolaggine ali' impotenza. Per questo travolgimento dei mezzi si ebbero quei mali frutti di mezza coltura che sono rinfacciati anche oggidi dai vecchi aristocratici alle teorie liberali del filantropo.

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Chi si crede inferiore di natura e di virtù può acquetarsi senza ignominia alla altrui superiorità di fatto. Chi sa di essere uguale a chiunque ed è pur costretto in realtà a confessarsi e ad essere inferiore di molto invigliacchisce. Meglio saper nulla che sapere ed essere obbligati ad agire a rovesciol Date la facoltà di operare a seconda degl'insegnamenti, prima di fare maestri. In una parola fate degli uomini fisici e morali con una saggia economia, fatene degli esseri uguali a voi, colle leggi, coi codici, coi costumi, prima di far dei saccenti e dei fratelli colle chiacchiere. VIII

Pedanti e filantropi, e gli uni e gli ,altri intinti quanto bastava di filosofia per aver il diritto di sragionare, videro la mala prova dei loro tentativi e si misero in traccia d'una scusa. Mai che venisse loro in capo e confessare di essercisi messi coi piedi anziché colla testa e col cuore. Prima di tutto cominciarono a ribadire la vecchia calunnia dell'ignoranza, ed a incolpare del proprio smacco l'ostacolo che s'erano accinti a rimovere. I maestrucoli di scuola, i semi-liberali da caffè intonarono un coro di lamenti sull'inciviltà irreparabile della plebe rurale, accagionando di essa, è vero, ora la mala condizione de' tempi, ora l'ignavia dei nonni, ora le triste arti del governo austriaco e pretesco, ma pur sempre lasciando da un canto la ineducazione e l'inettezza degli educatori, l'avarizia e l'incuria dei padroni, cause immediate e principali. Questi lamenti furono proemio al secondo luogo comune dei vituperi e delle filippiche contro il clero. Vi ebbero ben pochi savi che accettarono la religione come una necessità, i preti come funzionari indispensabili della società attuale e avvisarono seriamente ai vari difetti della gerarchia ecclesiastica. Ben pochi che proposero le riforme sane attuabili e presentemente utili; ben pochi che sfogarono se non altro la loro bile contro il clericato conformista, contro i vescovi le curie ed i seminari tiranni e pervertitori dei futuri preti, come lo erano gli Austriaci e i loro collegi e i loro ginnasi dei futuri cittadini. La maggior parte prese ad inveire contro il clero delle campagne, buttando addosso a lui e alla religione la colpa della renitenza di queste alle nuove dottrine liberali.

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La diserzione di Pio Nono fu nuovo appiglio a quest'esagerazione e invece di dare addosso al Papa Re coi Cardinali, rincrudiva le offese al clero minuto che non aveva altra colpa che di aver creduto un istante esso pure ad un Pontefice liberale. Qui, per quanto sia schivo in un si breve ragionamento di parlare di me, mi corre pur l'obbligo d'una professione di fede. Se mi domandaste s'io sono cristiano cattolico risponderei che fui battezzato; del resto non amo né odio i preti per sistema; li accetto come un fatto esistente, e che esisterà ancora lunga pezza, per quanti rivolgimenti e nuove fortune filosofiche delle religioni si vogliono immaginare temendo o sperando. Dopo ciò io non temo di affermare che quella crociata del liberalismo contro il clero campagnuolo fu una ingiustizia, fu una improntitudine. Ingiustizia contro il clero perché non si tenne alcun conto delle sue qualità buone, e sian pur poche, per avvisar solo le cattive ( e sian pur molte); e queste o molte o poche non si scusarono colle condizioni che a forza le sviluppavano, né se ne cercavano almeno i rimedi, ma si mettevano in luce soltanto come argomento per poter decretare ai preti gli auto da fé eh' essi ci avevano regalati alcuni secoli prima. Ingiustizia contro il volgo delle campagne, poiché i curati ed i preti erano i soli rappresentanti della sua intelligenza, i soli che guarantissero ad esso una felicità eterna (vogliam pure immaginaria) ma la felicità unica sperabile per lui in ricompensa dei tormenti impostigli in questa vita dal malo ordinamento della nostra società, e dell'avara noncuranza dei ricchi. Ora, svillaneggiare i suoi preti era svillaneggiare lui che ci credeva; gridar loro la morte fu lo stesso che attentare alla moralità e alla religione di tutto un popolo. Fu anche improntitudine, perché non si poteva sognare che un dominio tenuto sulle anime da secoli potesse crollare per un vento di parole; perché si dovea capire anche dai più arrischiati filosofi che la religione se non è eterna ha ancora dinnanzi a sé vita lunghissima, e con tali opinioni allontanarsi sempre più l'anima del clero era impresa pericolosa e contraria al proprio utile e all'utile prossimo della civiltà. Lutero aboU la aristocrazia ecclesiastica, ma serbò i pastori. Da noi una tal rivoluzione non è ancora avvenuta e ad essa dovran volgere le mire dei novatori, non a distruzioni impossibili

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e lontane più che non arrivi antiveggenza umana. Doveano appoggiarsi al clero delle campagne e tirarlo dalla loro per guerreggiare rinfluenza vescovile e papalina. Cosi si accaparravano il voto di coloro che tengono in mano le coscienze del popolo rurale, e con esse la forza materiale, il braccio della nazione italiana. Invece trasandarono questa tattica giusta e legittima per osteggiare coloro a cui dovevano protezione, da cui aspettavano aiuto. E che ne provenne? Ne provenne che ratto clero si giovb del loro errore per stringersi intorno il clero minuto, per dipingergli con orridi colori ranimo dei liberali, per sprofondare sempre più l'abisso che li divideva da questi, per gravare colla sua influenza gerarchica sulle coscienze campagnuole e sfruttarne a suo vantaggio la fede e le superstizioni. Il clero campagnuolo stava in mezzo fra nemici dichiarati e amici fraudolenti e venali; titubb, patteggib, si divise e fu suo merito. In altri paesi, con tempra diversa, e senza il buon senso comune degli Italiani, si sarebbe gettato interamente dal lato dei vescovi, della tirannia, del gesuitismo. Qui invece fra noi ne furono molti che resistendo agl'incitamenti delle curie, alle seduzioni del governo, rimasero preti moderati, onesti uomini, cittadini illuminati. Coll'impudente ed ingiusta condotta del partito liberale in Italia ognuno di questi preti è a parer mio un miracolo. IX

Il governo austriaco seppe giovarsi di cotali condizioni indotte nella nostra società da un falso zelo filosofico dei liberali. Conobbe che il clero campagnuolo era ~costretto a far causa comune col suo nemico naturale, col clero prelatizio; si appoggib a questo e lo favori col concordato, persuaso che la comunanza di interessi lo avrebbe indotto ad usare a suo profitto la rinata influenza sul secondo. Infatti si vide allora lo strano tentativo di convertire i parroci in commissari di polizia; né io vorrei certo scusare quei preti vigliacchi e venali che accondiscesero a questo vitupero del sacerdozio. Ma i liberali non furono meno rei di vedere in questa ignominia solo la colpa altrui, sorpassando affatto ai proprii eccessi che le avevano spianato il sentiero.

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Mentre il governo si serviva di questo mezzo e della forza corruttiva dell'aristocrazia ecclesiastica per pervertire il clero rurale e le opinioni del suo popolo, l'aggravio straordinario dell'imposta prediale cooperava in altro ordine di fatti a questo stesso fine. Probabilmente De Bruck1 sapeva il doppio utile che rendeva al governo quella misura finanziaria. Sapeva che l'impoverimento dei possidenti avrebbe reso sempre più difficili i rapporti fra essi e i contadini: questi sempre più nemici di quelli, e perciò più amici a sé o meno nemici che altrimenti non sarebbero stati. Da ciò cresciute le furie dei liberali giustissime contro il dispotismo oppressore, ingiuste contro i contadini oppressi del pari, ma incitati da quell'indiretta oppressione a più fiero antagonismo contro gli oppressori immediati. Gli animi si allontanarono sempre più. Si venne a tale che se non ne nacquero disastrosi conflitti lo si deve alla natura mansueta di quelle plebi di cui si [ ... ] tanto la ferocità, la malizia e l'ignoranza, fors'anche all'influsso pacificatore di quella religione che era solo argine allo straripare dell'invidia e dell'odio in aperta ribellione. Quando nelle ultime strette dell'agonia il dispotismo austriaco mostrava ai campagnuoli nell'avarizia dei ricchi la sola causa della loro miseria e li incitava a vendicarsene, quali altri motivi si potrebbero trovare alla loro moderazione? Ammirate i nostri contadini se non si rinnovarono in Italia gli orrori della Galizia. 3 X

Ora così stanno le cose. Dall'una parte, disistima, calunnie, necessaria oppressione, e bisogno insieme d'aiuto e perciò a tratti adulazioni, lusinghe, grandi bugie di proclami e di migliorie non credute, grande apparato di progetti educativi non comportabili dalla misera condizione dei popoli; dall'altra pari disprezzo, pari calunnie, diffidenza e indifferenza grandissima. Sopra questo giganteggia il bisogno di ricostituire l'unità nazionale; di ricongiungere la mente col braccio; ( di puntellar la rivoluzione politica già in via di essere compiuta colla rivoluzione 1. De Bruck: si veda la nota a pag. 1043. 2. o"ori della Galizia: nel 1853 l'Austria favori le insurrezioni dei contadini ruteni contro i proprietari, nobili polacchi, in Galizia.

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nazionale che sola può darle appoggio durevole); di indurre cioè nelle opinioni del volgo rurale un tal cambiamento che le colleghi alle opinioni della classe intelligente, e li riunisca insieme e per sempre nell'amore della libertà e dell'indipendenza; che tale è il significato che può darsi ora in Italia alla frase: rivoluzione nazionale. È chiaro che se l'antagonismo dei contadini coi padroni, dei poveri coi ricchi, fra gli illetterati e i letterati proviene anzitutto, come dimostrai, dall'incuria, dall'avarizia, dal malo costume, e dal falso zelo degli ultimi, bisognerà togliere tutte queste cause per toglierne gli effetti. Alle cause secondarie delle condizioni storiche passate e delle attuali sociali ed economiche si provvederà secondo verranno i momenti opportuni. Ora alle prime, che sono le maggiori e più facilmente rimediabili. XI

L'educazione è il primo elemento per ricondurre alla calma le passioni, e alla rettitudine le coscienze. Tutti lo consentono. Tutti consentono anche che senza di essa non può farsi degna stima dell'indipendenza nazionale, della libertà e dei diritti cittadini che ne scaturiscono per tutti. Ma per apprezzare i beni morali bisogna essere bastevolmente provveduti dei materiali. La miseria abbrutisce come la schiavitù. Né mi si citi la povertà spartana. Fra povertà e bisogno è maggiore abisso che fra ricchezza e povertà. Gli Spartani erano tutti poveri, ma tutti anche forniti del necessario, perciò furono liberi ed altamente superbi e studiosi di loro libertà. Gli iloti battuti e mal pasciuti non furono che iloti. Primo bisogno adunque; urgentissimo, di oggi non di domani perché non crolli l'artificioso edifizio della rivoluzione politica, è la rivoluzione nazionale, o la fusione del volgo campagnuolo nel gran partito liberale. Prima condizione per ottener ciò, è l'educazione. Prima condizione per render l'educazione possibile è l'alleviamento della miseria, e il retto soddisfacimento dei bisogni. Migliorate adunque subito subito fin che n'è tempo la condizione materiale del volgo rurale se volete avere un'Italia. Oggi avete la Francia in campo con voi, l'Inghilterra propensa, Russia e Prussia né amiche né avverse.

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Alleggerite subito subito oggi e non domani l'imposta fondiaria! Ecco un crudele consiglio, ma necessario. Le spese dello Stato non lo consentono; rispondo che l'esistenza della nazione, la moralità di una parte grandissima di essa lo comanda. Tocca al ministro delle Finanze avvisar al rimedio. Ma il Piemonte in forma diversa paga altrettanto! Or bene, se è così, alleggerite anche in Piemonte l'imposte che pesano sulla gente di campagna. Ma si dovrà provvedere con nuove tasse che produrranno con altre vie gli stessi effetti I Provate. Ma il periodo di lotta in cui versiamo, i bisogni stringentissimi del risorgimento nazionale non consentono i tentennamenti di cotali prove! Il periodo di lotta in cui versiamo, i bisogni stringentissimi del risorgimento nazionale consentono meno ancora l'avversione al risorgimento stesso, generata nella parte più viva del popolo dalle sue infelicissime condizioni materiali. Voi dite che vi affretterete a compiere il rivolgimento politico senza la sua cooperazione o colla sua cooperazione passiva o f orzata; che compiuta ed assicurata l'opera penserete a lui. lo vi consiglio a non vi fidare di questa massima. Val meglio ed è più sicuro un passo fatto concordemente da tutti, che molti da pochi. Anche se quel rivolgimento da voi meditato dovesse ristare per disperdimento di alcune forze a vantaggio del popolo rurale (il che prevedo impossibile per la fecondità della patria nostra e per la vostra stessa abnegazione pronta a supplire con altri sacrifizi), il concorso leale e volenteroso di qui ad un anno di quel popolo ritroso ed insofferente ora vi sarà più largamente giovevole che non ogni sforzo di politica. Dite che il tempo vi manca a raccogliere di questi tentativi e giovarvene nel presente stadio di rigenerazione? Cominciate: sarà opera di giustizia, pegno di giustizia, pegno di perseveranza [ ... ] e questo sarà frutto che raccoglierete subito e ne produrrà molti altri duraturi eventi. Poveri illusi se credete che una nota di Cavour o una visita di Villamarina1 rechino un bene durevole e certo alla causa nazioIl marchese Salvatore Pes di Villamarina (1808-1877) fu incaricato d'affari sardo in Toscana dal 1848 al 1852. Fu col Cavour ministro pieni1.

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nalel •.. La pacificazione di molti contadini coi loro padroni reca un frutto assai più durevole e certo. Una seconda Villafranca, un terzo scambietto di Russel, una decima caduta di Palmerston possono torne i frutti di quella nota o di quella visita. Ma i mille contadini consenzienti nelle idee liberali dei loro padroni entreranno non come automi ma come forze intelligenti nell'armata nazionale e daranno a Cavour e Villamarina un appoggio più piccolo è vero ma più sicuro e meno momentaneo di qualunque straniera alleanza. In queste cose io, che non sono [ ... ], pur vi consiglio a farlo in ·qualche modo partecipe della vita nazionale, dandogli una rappresentanza qualunque che propugni i suoi interessi. Possibile che nessuna legge elettorale si degni di scendere fino a lui? Possibile che si chiami liberalismo quello del ministro Rattazzjl che fra tutti i meriti cittadini non annovera il martirio per venti, per trenta, per quarane anni nel lavoro della gleba? XIII

Migliorate adunque per primo, ve lo ripeto, oggi e non domani le condizioni del volgo campagnuolo. E scienza e carità e politica vera si diano la mano in quest'opera di giustizia e d'utilità nazionale. Ora a stabilire la misura di codesti miglioramenti. Siete voi disposti e credete il tempo opportuno e maturo per una rivoluzione sociale che renda l'agiatezza cosa comune nel popolo campagnuolo da togliere la possibilità di ogni discordia, ogni motivo di quell'odio che lo rende avverso a voi, ai vostri costumi, alle vostre opinioni anche giuste, anche sante? Noi il tempo né è maturo né opportuno. Adunque in questo caso io che non sono né religioso né [ ... ], vi consiglio a mantenere nel popolo quel freno religioso che rende potenziario a Parigi, nel 1856. Dopo la pace di Zurigo andò ambasciatore a Napoli. Divenne nel 1862 prefetto di Milano. 1. ministro Rattazzi: Urbano Rattazzi (1808-1873) fu infatti avvocato prima di dedicarsi aU•attività politica. Nel periodo in cui il Nievo scrisse il Frammento, il Rattazzi era il massimo esponente e ministro dell'Interno del Gabinetto Lamannora (19 luglio 1859), che succedette a quello del Cavour dopo l'armistizio di Villafranca. Vi è qui un'eco delle polemiche anti-Rattazzi che furono condotte anche dalla • Perseveranza •· Alcuni gruppi politici lombardi rimproveravano al ministro piemontese di non voler tener conto dei desideri, de_i bisogni e della realtà storica della Lombardia nella già troppo frettolosamente intrapresa unificazione amministrativa.

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mutola quell'invidia per mezzo del dovere e sopperisce in parte a quei beni che non potete dargli. Costretti a lasciargli la maggior parte della sua miseria, lasciategli quella speranza che gli fa vedere in questa la promessa di una felicità eterna. Se è un'illusione è sublime d'eroismo, è provvidenziale rimedio della natura a mali ineluttabili. Siate filosofi, panteisti, atei, se credete; ma siate in pari tempo retti estimatori del vostro secolo, e delle condizioni altrui sì materiali che morali. Consentite con me che non avete altro bene in vostra balìa da compensare il popolo della perdita della sua fede, che non avete altro freno da sopperire alla mancanza della legge divina. Lasciategli e questa e quella. Potrete sperimentare la vostra forza persuasiva in altri conati più utili, più giusti. XIV

Alla questione religiosa del popolo si ricongiunge quella del clero. Io non vi domando di rinnegare le vostre convinzioni più vere, più dignitose: vi domando solo di rispettare le altrui diverse di necessità dalle vostre perché diverso il loro passato, la loro esistenza, le loro condizioni materiali e morali. Per essere galantuomini basta a voi l'approvazione della coscienza e il rispetto di voi stessi? Orbene, sappiate che a un popolo campagnuolo queste astrazioni sono quasi inconcepibili senza una sanzione soprannaturale. Rispettate almeno l'utilità politica attuale di questa sanzione; senza cui avreste per molte e molte generazioni un popolo di ladri o di apati, non un popolo di fratelli, Italiani probi ed operosi. Concessa al popolo rurale la sua religione, e se volete anche chiamarli così i suoi idoli, vorreste togliergli quello che non osarono togliergli i più arditi riformatori dell'Inghilterra e dell'America? Vorreste togliergli i ministri visibili di quella religione? È impossibile. Concessa la sostanza bisogna concedere anche le sue condizioni [ ... ] d'esistenza. Una religione senza ministri sarebbe pel popolo come un altare senza Dio. Lasciategli dunque i suoi preti. Ho proferita la gran parola, lasciategli i preti l Ma onesti, rispettati, cittadini essi pure; ed è in ciò ch'io vi consiglio a sbramare la vostra giusta sete di novità, non nelle polemiche intolleranti e pericolose.

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xv I veri pastori delle anime, i ministri della religione hanno un nemico come voi; l'aristocrazia gerarchica che li opprime e li vuol far suoi servi di gretti interessi materiali. Questo sacrilegio vituperoso deve cessare. Col poter temporale del Papa devono cadere i poteri temporali dei vescovi, e le mura di quelle prigioni dove essi cercavano educare i loro giannizzeri. Il Seminario renda alla società i suoi alunni, che liberi cittadini concorrano col resto della gioventù alle scuole teologiche delle Università. Nelle funzioni civili appoggiatevi al clero minuto e trasandate le prelature, queste restino dignità ... come le duchee e i marchesati della nobiltà, finché il tempo vindice supremo della inutilità ne faccia giustizia. Vi farete scomunicare ? Non lo crediamo, se opererete in buona fede e con prudenza, se farete la guerra ai pregiudizi, se distruggerete ciò che cade in rovina, e difenderete la parte viva e vitale delle antiche istituzioni. Del resto, foste scomunicati per cose da nulla, siatelo per cose di rilievo, e che meritano di sfidare anche fulmini meno spuntati di quelli del Vaticano. Dappertutto ove le riforme risposero ai bisogni dell'epoca e s'appoggiarono al popolo, ai suoi interessi, ai suoi veri rappresentanti, i quali sono religiosamente non i vescovi né i canonici ma i parrochi e i curati, esse trionfarono per forza o per amore. Quando i papi erano nemici a cotali ribellioni chiamarono eretici i riformatori; ma Pio Nono e il suo successore non imiteranno l'imprudenza di Leone X dopo averne veduto la mala riuscita. Vi chiameranno i loro dilettissimi figli e finiranno col credervi cattolici meglio di prima, finché altri avvenimenti portino forse altri nomi. Questo è quello ch'io doveva dirvi perché lo aveva nel cuore; a voi liberali italiani che siete tutta la nazione intelligente; a voi governanti che rappresentate questa intelligenza.

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L'Italia non vinse finora l'ultima battaglia della libertà perch~ sotto la sua apparente concordia si nascondeva una profonda discordia di voleri, un antagonismo del volgo rurale illetterato colla classe cittadina letterata prodotto da cagioni molteplici, più che da tutto dall'infelici condizioni materiali, e dalla guerra mossa con lagrimevole buona fede ai rappresentanti delle sue credenze, ai preti di campagna. II volgo rurale è il braccio della nazione, per animar questo braccio bisogna fornirgli quella parte di intelligenza che è compatibile colle condizioni di agiatezza che potete, che dovete fornirgli. Bisogna fornirgliela tosto perché senza il concorso di quel braccio la rivoluzione politica non sarà mai rivoluzione nazionale, non sarà perciò né sicura né durevole, e queste sono le qualità da cercarsi prima di tutte le altre da chi ama sinceramente il proprio paese. A maturare in lui questa civiltà morale gli abbisogna uno stato di agiatezza a cui ha diritto e a cui dovete provvedere con innovazioni economiche, colle leggi, coi costumi. Ma la civiltà morale è impossibile nel nostro popolo senza la religione; questa è impossibile del pari senza ministri, dovete dunque assicurargli quella e concedergli questi. Perché più i ministri rispondano a quella civiltà bisogna liberarli dall'influenza gerarchica riformando e restringendo l'azione aperta del clero prelatizio. Alcuni filosofi nascituri dei secoli avvenire rideranno di cotali transazioni. Non riderà la maggioranza degli uomini sinceri positivi e leali. Questo vi dico: che mi congratulerò con chi trovasse spedienti più pronti, chiari, operativi; ma che, come è vero che senza le quattordici armate della Repubblica la Francia non sarebbe divenuta la prima nazione del mondo, com'è vero che senza l'intelligente patriottismo dei soldati l'armata di questa nazione non avrebbe sconfitto i Russi ad Inkennann e gli Austriaci a Solferino, così senza il subito ed efficace e coscienzioso concorso di venti milioni di contadini poveri ed ignoranti voi avrete sì un'oligarchia politica di cinque milioni di letterati e di ricchi, avrete proconsolati francesi, inglesi e se volete anche russi, avrete un'esistenza politica più o meno sofferta e sempre poco rispettata, non

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avrete mai né una fede, né una forza, né una vera nazione italiana. Giaceremo noi sfiduciati per la certezza di quest'avvenire? Noi Le nazioni non risorgono che per sé sole; e allora noi risorgeremo davvero, mentre il nostro risorgimento attuale non è che una tregua temporanea guadagnata a prezzo di sangue per aver agio di rinnovare e coordinare le forze all'ultima lotta. Ora la nostra rivoluzione fu politica, allora sarà nazionale se i nostri uomini di Stato e il Parlamento avviseranno ai mezzi per condurre a termine questa trasformazione. Date una rappresentanza ai contadini. Quale è la legge che scende fino ad essi? Nessuna! [ ... ] fateli in qualche maniera per quanto inadatta partecipare all'amministrazione comunale, alla legislatura del paese. •

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LETTERE

LETTERE I AD ADELE NIEVO MARIN 1

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I:Z

febbraio I8,1.9.

Carissima mamma. Avrai ricevuto le mie lettere da Ferrara e da Bologna, ma siccome allora non ho potuto dirti nulla del mio viaggio appena incominciato,2 te ne farò ora la descrizione da capo a fondo. Andai col sig ... da R ... a C ... ove mi trattenni due giorni, al terzo un buon uomo di quei paesi mi condusse per mezzo alla valle di S ... sano e salvo ai P ... ove è la Dogana ferrarese. Scusa se son partito dalla Lombardia senza fartene prima parola, ma temea spaventarti coll'idea dei pericoli che potea correre. Ai P. .. dunque noleggiai una barchetta pel Bondeno perché intesi esser la strada di terra cattivissima. Soffiava un vento freddo, ed io coricato sopra un po' di strame solcava i canali della valle di Burana, la più brutta e perfida valle che abbia mai veduta. Quante speranze in quella solitudine! quanti sospiri! Cinque ore impiegammo in un tragitto di sette miglia; t'immagina dunque s'io ringraziai la Provvidenza quando giunsi al Bondeno e mi sedetti a tavola; mi pare che se fossi stato Esaù, avrei venduto allora di buon grado la primogenitura per un piatto di fagiuoli. Essendo l'ora tardissima, pernottai al Bondeno, e la mattina seguente m'incamminai verso Ferrara; ove feci la mia entrata a tuono di cannone. Credetti d'essere caduto dalla padella nella bragie; ma non fu niente ed io la sera fui dai sigg. C ... che mi accolsero nei modi più cortesi che mai: ti basti il dire che tutti i giorni che rimasi a Ferrara io fui a pranzo secoloro, che mi accompagnarono a vedere le rarità del paese, che mi fornirono di commendatizie per Bologna e per Pisa, e che mi procurarono un eccellente compagno di viaggio per Firenze nel signor Dolcini. Colla mia nuova conoscenza passai in vettura a Bologna, r. Adele Nievo Marin: madre di Ippolito, era figlia di Corlo Marin, nobiluomo veneziano. Sposò nel 1830 il mantovano Antonio Nievo, possidente e magistrato. 2. viaggio appena incominciato: è qui narrato il viaggio che il Nievo compi nel febbraio del 1849 per recarsi a Pisa, scolaro di quell'Università. Giunto a Pisa nel marzo, egli vi rimase sino al luglio e ritornò poi a Mantova. t accertato che egli non s'iscrisse all'Università granducale.

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e senza fermarmi in questa bella città, che avrò occasione di mirare altre volte, la mattina seguente alle sei seguitammo in diligenza il nostro viaggio. È pur bella la strada che da Bologna conduce a Firenzel Benché s'impieghino a percorrerla un diciott'ore, pure le belle vedute ch'essa offre alleviano la noia del viaggio; e io sono contento d'averla percorsa di giorno. Usciti dalla città piegammo sopra alcune verdi colline, e sormontate queste scendemmo nella valle di Savena, grosso torrente che mette foce nel Reno e che noi costeggiammo fino a Pianoro; qui cominciò una tortuosa salita che fini soltanto a Loiano, dieci miglia più in su, e che io stanco della lentezza del legno feci tutta a piedi. Oh i paesi graziosi che son quelli! Le Vergagne, la Guarda, i Sabbioni, e Scanello non sono che miseri villaggi di pastori che s'incontrano via via sulla strada, ma quelle deserte vallate, quei monti solitari, quei romiti abituri, che si vedono sulle chine, nei luoghi più chiusi, rapiscono il cuore del passeggiero, e gli empiono la mente di care fantasie. Ogni cima che si guadagnava offriva allo sguardo una più larga veduta, e ad ogni gomito che faceva la strada si aprivano nuove scene e più leggiadre. Loiano, a venti miglia da Bologna, è il paese più bello dopo Pianoro. Esso è piantato a mezza la china d'un monte, e l'unica cosa che vi scorsi, è che le montagnuole vi sono belle assai. V'era qualche aristocratica degli Apennini vestita alla contadina e v'erano le pastorelle col drappo bianco; tutte però erano fresche e di graziose fisionomie. Alle Filigare, Dogana, facemmo colazione e proseguimmo il viaggio per Pietramala, ove si vede il vulcano perenne di cui parlano tanto i viaggiatori: esso resta sul declivio destro della valle del Santemo, e si presenta come una fiammella rossiccia con una breve colonna di fumo. Quattro miglia più in su vi è la Futa; il punto più alto della strada, ove furono costruiti solidi muraglioni per impedire al vento di rovesciare i rotabili come prima faceva. Noi giungemmo alla cresta dcli' Apennino al tramonto del sole: i suoi raggi di porpora indoravano i monti dell'Imolese, e la sua faccia rossigna parea che baciasse le vette della Toscana. Li, mentre riposavano i cavalli, ci fermammo per ammirare un poco l'opera immensa del Creatore. Davanti mi si parava alla vista un accavallarsi di monti e di colli, che finiva colle Maremme toscane e col mare, di dietro cento vette, cento valli; e là in lontananza la sterminata pianura lom-

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barda. Oh quante memorie s'attrupparono nella mia mente a quell'aspetto! Mi ricordai mia madre che ignara del dove io fossi mi avrebbe pianto smarrito, mio padre che non avea neppur salutato prima della partenza, i miei parenti, i miei pochi amici, che avea lasciati chi sa forse per quanto! Pensai a quella terra dei venti laghi ... e la compiansi; pensai infino a me stesso che là tra le gole dell' Apennino, non aveva per cento miglia intorno un'anima in cui versare la mial Io mi volgeva estatico verso le Alpi e verso il mare; di là vedeva un passato felice, di qua un incerto avvenire: e il presente? Il presente allora non m'importava gran fatto. La voce rauca del postiglione mi tolse ai miei sogni per farmi risalire al mio posto. Per sei miglia galoppammo per una discesa a biscia, e giungemmo a sera avanzata a Cafaggiolo, che è lunge da Firenze un 24 miglia. Per quanto potei distinguere al chiaror delle stelle, la via si divalla sempre fra gli aranci e gli ulivi. Da Pratolino a Firenze corrono forse sei miglia, e sorgeva la luna quando ci si aperse davanti la magnifica valle dcli' Amo. Tutto all'intorno era silenzio e notte, giù nella valle un nero spaventoso: ma a mano a mano che la luna spandeva il suo chiarore, vedevansi da lunge le cupole e le torri dell'Atene italiana. La mia fantasia s'assomigliava allora alla modesta donzella, che nella passeggiata della sera s'invola allo sguardo d'un vagheggino. Al primo entrare in Firenze mi parvero sale le sue piazze illuminate dal gaz, mi parvero gallerie le sue strade selcia~e di pietra. Ma lascio per un'altra lettera Firenze, per ora ti basti il sapere che fui accertato di poter essere ammesso al 1° anno d'Università in Pisa, ma consigliato del pari ad aspettar un mesetto a Firenze per vedere come si mettono le cose. Ho trovato adunque un piccolo quartiere sull'Amo, e mi vi installerò domani: intanto frequenterò le scuole matematiche di qui, col mio compagno di collegio Riva che le frequenta pur esso. Che bel vivere qui se vi fossi anche tul che bella città! ha superato la mia aspettativa: ed ho trovato più conoscenti che non credeva. Ti scriverò domani per la posta altri piccoli dettagli. Intanto manda la inclusa all'amico mio ;1 bacia il papà i zii e i fratellini; bacia il nonno, saluta i suoi vecchi e consolati che comincio già a essere grazioso. Manda a Magri anche la presente ed ama il tuo Ippolito. 1. amico mio: Attilio Magri (Roncoferrato 1830-Mantova 1898) fu grande amico del Nievo. Si occupò soprattutto di agricoltura e di economia agraria.

IPPOLITO NIEVO

II A MATILDE FERRARl 1

Padova, 30 agosto r850.

È

pur soave, è pur potente nel cuor dell'uomo l'amore del paese che lo vide nascere! la casa che ha raccolto i suoi primi vagiti, la strada su cui barcollavano i primi suoi passi, l'aria che nutrì la giovane e nuova sua vita, tutto è caro, tutto è dolce al cuor suol Perdonami, o Matilde, se io mi perdo tanto nel parlare di me; sono tanto presuntuoso che voglio credere che ti sieno gradite tutte le cose frivole che mi appartengano. È sì grato, è sì armonioso all'orecchio l'accento che disseta il cuore di colui che amiamo! Perdonami dunque ancora, o Matilde, se ti scrivo di Padoval Sarebbe una sciocca ipocrisia la mia se facessi misteri delle tenere emozioni che mi tumultuano nel petto per pompeggiare colle vane frasi di un amore, che tu devi già sapere a memoria. I fanali a gaz risplendono con un sorprendente riflesso contro le muraglie annerite dai secoli, la loro luce azzurrognola e gaia si stende sopra di esse, come il fulgore dell'intelligenza che si diffonde invincibile sopra l'ignoranza dei popoli! Oh quante volte questa sera girando per le belle piazze della città riandava colla mente le istorie vetuste della nostra sfumata grandezza! Ah l'Italia sarà dunque sempre il paese delle rovine e delle memorie! l'alito dei giovani fidenti ed arditi non ringiovanisce mai le sue corone appassite! Questa sera il cielo era fosco ed azzurro, le stelle luccicavano rare ed incerte nel vuoto del firmamento, ed io solingo, meditabondo mi addentrava in tua compagnia per le contrade più remote ed oscure I Quanti pensieri, la mia Matilde I Quanti desiderii I Fu pur genoroso lddio in questa parte della nostra natura poiché in un'ora sorgon in noi tanti desiderii che ad appagarli non basterebbero due vite. Era tutto assorto nei miei sogni quando un suono di corde armoniche mi percosse gradevolmente l'udito - mi avanzai - la melanconica melodia usciva da un balcone illuminato di una casa bassa ed oscura - ella pareva la speranza che ci parla fiduciosa, ed amica dalle tetre caverne dell'avvenire. Ristetti su due piedi- l'ondata sonora mi lambiva lenta

1. Matilde Ferrari, di Mantova, coetanea del Nievo; la relazione amorosa tra i due giovani durà dal 1848 al 1850.

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e misurata come il battere d'un remo nell'acqua - e il suono diffondendosi nello spazio moriva tra l'indistinto mormorare degli echi. Non ti so dire quali fantasie spiccarono allora il volo dalla mia testai - il fatto sta che io m'appoggiai ad un pilastro, e nascosto dall'ombra d'uno sporto stetti in ascolto finché l'amabil sirena dell'armonia iterò le sue lusinghe. Quanto sentii, allora, o mia Matilde, la veemenza dell'amor mio! come scoppiava il mio cuore nel petto mentre l'incanto dei concenti lo commuoveva! Quanta potenza, quanti tesori d'affezioni e di beatitudine si versò nel mio cuore! Mi pareva che tu t'immedesimassi in me a mano a mano che le vibrazioni armoniose penetravano nelle mie viscerel mi pareva di stringerti sul mio cuore I mi pareva di parlarti, e oh quanti pensieri ti svelava una mia sola parola, quante idee divine, indefinite comprendeva una tua risposta! Quando Dio volle la melodia tacque, la visione disparve, calò la temperatura del mio cervello e le gambe ripresero l'ordinario loro movimento. Ma pure quei momenti di estasi, di soave abbandono vivranno nella mia mente, e il tempo, quel distruttore universale, rispetterà le loro memorie anche nel giorno dell'ultimo suo trionfo! ... Oggi è venerdì! Ieri e l'altro ieri, o Matilde, tu sarai stata travolta nel turbine uraganoso della fiera! Forse non avrai pensato a me e la vista degli indifferenti che ti stavano vicini avrà cacciato dalla tua testa l'immagine di chi ti ama ed è lontano! Spero che al cessare dei travolgimenti di questa fiera benedetta non isdegnerai di prendere un po' di carta e una penna, e di scriverci sopra: Ippolito io t'amo!- È quello che mi basta - ma pure? pure ti confesso che io bramerei anche un pochettino di superfluo perché ogni riga delle tue lettere aggiunge una goccia di felicità al calice della mia vita! Sono le una dopo mezzanotte. - Amami. IPPOLITO

III A MATILDE FERRARI

Venezia, 3I agosto I850.

II tempo era fosco -

le nubi erano più agitate dei dieci partiti di Francia - il vento più importuno della predica di un gesuita. Con sl belli auspicii siamo partiti da Padova colla seconda corsa della strada ferrata. - Ti giuro che amerei meglio le bracie dell'inferno

IIOO

IPPOLITO NIEVO

che il freddo indiavolato di questa infame giornata d'agosto. Rannicchiati gli uni contro gli altri sorvolammo alle onde fluttuanti della laguna, passammo di fianco a Marghera. I vecchi bastioni erano crollati per lo scoppio delle mine sui cadaveri degli eroici difensori di Venezia - e sulle antiche ruine sorgevano le bianche muraglie di nuove torri di nuove bastite che lo straniero prepara come nuove catene alla patria. Sul sepolcro degli oppressi veglia collo schioppo in ispalla la sentinella dell'oppressore: come il verme striscia tra le fibre del cadavere che lentamente ei divora. Addio, bella Venezia! Il tempo, e le sventure hanno raddoppiato la mestizia delle tue lagune! ne' tuoi palazzi orientali, dove vegliava gelosa incorruttibile l'oligarchia dell'indipendenza ora si asside superba e minacciante l'oligarchia dei carnefici e dei tirannil Alle strette finestre, alle logge ad arabeschi, ai veroni intagliati, a cui si affacciavano palpitanti di amore le vezzose tue figlie ora s'affaccia spaventosa e insultante la tedesca montura! nella piazza di San Marco, dove illuminate dalla Luna vagavano le toghe dei tuoi dogi, de' tuoi senatori, strisciano ora insolentemente allo splendore del gaz le spade che ti hanno uccisa! - Venezia! o Venezia non isforzarti al sorriso I - esso niale apparisce in un volto solcato dalle rughe del dolore, coperto dal velo dell'avvilimento! Durare nelle avversità è fortezza; ma l'inchinarsi ad esse è viltà! Non rimpiangere o Venezia le allegrie spensierate, i frastornanti baccanali del tuo Carnevale I non rimpiangere il brio delle feste, la gaiezza delle regate! Quelli erano i giuochi del fanciullo, ora i tempi hanno reso adulta l'anima tua. Ad altri destini ti ha sortito il cielo. L~Inglese più non verrà alle tue acque come al soggiorno della mollezza e degli amori, ma come alla scuola delle virtù cittadine. E gli occhi delle tue donne perderanno la fama della voluttà inebbriante per raggiare d'eroismo, d'amore per la patria. Le acque del mare cullarono, o Venezia, con materna tenerezza i profughi di Aquileia scampati al furore di Attila. - Esse non culleranno giammai l'Attila della Germania - un giorno o l'altro lo . . 1ngo1eranno. Invano sorge a te davanti, ridicolo antagonista la petulante Trieste. Essa cadrà inosservata come la ciarla di un dandy alla fulminante eloquenza di un oratore! - E tu vivrail tu vivrai sempre! - perché sulle moli marmoree de' tuoi edifizi il destino ha impresso il marchio dell'eternità!

IIOI

LETTERE

I tuoi dogi fabbricarono per i secoli, e i secoli vinti saranno lo sgabello de' tuoi piedi. - Città dei mari, città delle memorie, oh quanto io t'amol t'amo più della natura istessa - t'amo più delle rupi dei monti, più dello scroscio e delle frane dei torrenti che pur mi sono tanto caril - Se tu dovessi abbassare il tuo collo al giogo degli anni, per abbassarlo sempre al giogo della schiavitù, meglio sarebbe imprecare il fulmine sulle tue torri, poiché l'opera più bella della mano dell'uomo non deve andar maculata dalle unghie d'un mostro I meglio suonerebbe fra gli uomini la novella: Venezia non è più! - che non l'altra: Venezia non è più Venezia,· è la schiava tJenduta dello straniero! Ecco, o Matilde, i pensieri che presero corpo sulla mia penna per entrare nella tua mente: essi ti saranno cari, perché cari sono a me, perché la favella dell'indegnazione, dell'odio, della speranza deve scendere come una rugiada in un cuore italiano - e tale è certo il tuo, o Matilde! perché tu sei buona e generosa. Ah ricordatelo Matilde! se la patria ti chiedesse un sacrifizio, io voglio da te rassegnazione e fermezza! se la patria chiedesse la mia vita, e io tentennassi pauroso ed incerto, tu dovresti impugnare un coltello e ficcarmelo nel cuore l IPPOLITO IV AD ARNALDO FUSINATO

Palestrina, a3 luglio z854.

Pregiatissimo amico Ena stupirà senza dubbio della data di questa mia: ma la è proprio cosil - Io ed un mio amico siamo confinati in queste spiagge inospitali dalla Procedura insieme e dalla volontà di far quattro bagni. - La Procedura per nostro martirio va innanzi a ~eraviglia, non così per verità i bagni, poiché miseri notatori come noi siamo ci troviamo ridotti a camminare a piè nudi sulla scogliera dei Murazzi, a scender con tutta cautela nell'acqua e ad accoccolarci nel fondo su qualche sasso tagliente, offrendo preda ai granchi di mare le nostre rispettabili natiche, use (Dio mi perdoni la bugia) a frustare le panche dell'Università. Tuttavia si trova un compenso a questa Odissea di guai nella tranquillità, di cui c'ingrassiamo, e nella brezza che spira da mattina a sera e ci

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IPPOLITO NIEVO

fa dimenticare che luglio è il settimo mese dell'anno. Il nostro padrone di casa, presso cui pranziamo, ceniamo, dormiamo e compiamo tutti gli atti della vita che ci è rimasta, è un vecchio marinaio in ritiro, che coi suoi lunghi racconti mi torna a mente tutte le semplici bellezze e le ineffabili noie dei romanzi di Cooper. 1 E poì abbiamo le nostre distrazioni! - godiamo a tutto agio le vere Baruffe Chiozzotte, 2 né so se ella si ricordi il personaggio del Signor Cogidore in quella Commedia, ma qui c'è in carne viva il suo originale nei panni del Primo Deputato, che ascolta le querele de' suoi amministrati, se la capita, anche in piazza. - Una femmina gli si avviticchia al braccio destro, un'altra lo piglia a braccetto a mancina, ed egli sta là biascicando qualche V a ben! e parandosi alla meglio con ispedite evoluzioni di collo dai due pugni liberi delle attrici in causa che gli armeggiano sul muso. Basta! se i sassi dei Murazzi 3 fossero meno angolosi e si mandassero alla guerra d'Oriente4 i paragrafi del regolamento, non l'andrebbe poi tanto male. Di questo trotto, a quel che pare, io era in vena di scrivere una quarantina di facciate!- povero me!- è meglio che me ne sia accorto, perché queste buggere devono averla seccata abbastanza. Bene sta che per giusta compensazione sia ricaduto sopra di lei il soverchio della noia che mi tocca succhiare ogni giorno da quei benedetti fascicoli. La ringrazio, benché tardo, dell'ultima carissima sua, e del buon cuore con cui ha accettato quei quattro versi che le ho indirizzato di cui tutto il buono era condensato nel nome che portavano in fronte. Del caduto progetto letterario di cui ella fa menzione, m'avea già dato nuova il cortese dottor Coletti, 5 e alla prima occasione avrò il piacere di comunicarle quella poca cosa ch'io avea già preparato, e che non sarà inutile per essere il tema assai generale. Gli è un Addio alla Poesia. 1. James Fenimore Cooper (1789-1851), scrittore americano di romanzi d'avventure di cui il più famoso è L'ultimo dei Mohicani (1826). 2.. Commedia di Carlo Goldoni. 3. Murazzi: i Murazzi furono costruiti dal 1738 al 1785 e furono l'ultima grande opera pubblica della Repubblica. Alti circa quattro metri e mezzo sul livello del mare, formati da grossi blocchi di pietra, essi si estendono da Pellestrina sino al porto di Chioggia e passato questo proseguono per Sottomarina. Difesero e difendono validamente tuttora i lidi dall'assalto del mare, 4. La guerra di Crimea. Dall'aprile del 1854 al gennaio 1855 furono discusse le modalità della partecipazione militare del Piemonte. 5. Ferdinando Coletti, nato nel 1819 a Tai di Cadore, che il Nievo conobbe e con cui strinse amicizia a Padova. Medico e patriotta, il Coletti divenne poi professore all'Università di Padova. Mori nel 1881.

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Ella sarà sulle mosse per gli ultimi spettacoli della fiera del Santo. 1 Le auguro dunque di tutto cuore brillanti quanto è mai possibile le gioie paciolosr fra le quali, nel mio superbo disprezzo per le medesime, io non vorrb certo confondere la sua cara compagnia di cui avrei goduto per lungo e per largo, se fossi restato a Padova a bevervi l'ultima feccia della sapienza legale. Intanto a questi giorni, fra mare e laguna, ella è certo d'avere uno che penserà spesso a lei: certezza che deve lusingar fuormisura il suo amor proprio perché concessa a pochissimi. Se un quarto d'ora vuoto ma vuoto assai le avanzasse delle ventiquattro d'un giorno, nessuna cosa potrebbe farmi più gradita che scrivermi un paio di righe. Se tanto piacere si trova a scrivere a chi ci è caro che non si finirebbe più, a rischio di ammazzar l'amico come un Cosacco, s'immagini quanto se ne deve provare a legger caratteri di chi si ama e si stimai Aggiunga che è sempre benvenuto fra le barbarie che abbiamo sott'occhi un raggio del mondo civile. Continui a volermi bene e mi creda con tutto l'affetto e la stima. Tutto suo

IPPOLITO NIEVO

V

AD ARNALDO FUSINATO

Di Mantova,

I

febbraio z855.

Mio caro Arnaldo. Perdonami se ancora una volta vengo a turbare i tuoi dolci sonni invernali colle mie chiacchiere. Nulla, è vero, ho da narrarti di nuovo - proprio nulla, che la è una desolazione; ma non posso durarla più d'un mese senza dirti quattro parole, le fossero anche prive di senso comune. - Qui facciamo una vita propriamente bestiale: neve sopra neve, che le Alpi ci sono per nulla, e sonno sopra sonno, sicché la signora ..• sembrerebbe fatta apposta apposta per questo clima. - Ci abbiamo un poco di teatro e gli artisti non sarebbero dei peggiori ; ma ci hanno serviti per le feste cogli spartiti. Prima andb in scena il Convito di Baldassarre d'un maestro Buzzi - convito dove per quanto si mangiasse poco, more teatrali, pure buscavansi dai poveri spettatori delle tremende in1.

Sant' Antonio di Padova.

2.

paciolose: padovane.

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digestioni; - successe il Nahucco, perché l'impresario, per utilizzare il più che è possibile i lenzuoli coi quali ammanta i sacerdoti babilonesi, ha giurato di farci passar in Assiria tutto l'abbonamento. Del resto non balli, non maschere, non allegrie - io a dir la verità me ne impiccio assai poco, pure mi fa male questa apatia che sembra ingenerarsi più da mancanza di vita che da seria preoccupazione di essa. Mi avevi lusingato di far entro il verno una scappata fino a qui - che mi avessi canzonato? Spero di no e attendo con tutto cuore la tua allegria, che mi diradi un pocolino queste nebbie mantovane, dalle quali sono veramente imbecillito. La Strenna Napoletana non è ancora arrivata, almeno a meper questo non te l'ho mandata-, le altre mie cose che t'aveva promesso ti arriveranno, quando sieno un po' cresciute in volume. A proposito - fui invitato da un giornaletto di Milano, Il Caffè, a collaborarvi' - il Direttore, già lo saprai, è De Castro :2 io ci ho mandato qualche cosa, e altre fantasie ci manderò di stile enigmatico, le quali se non piaceranno per forma, incontreranno certamente per l'intenzione e lo scopo. Ho letto nel primo numero della Ricamatrice3 il tuo Programma, che è una furberia elegante e ben riuscita. In verità ti hai scelto un posto assai incommodo nelle posizioni politiche dei varii gabinetti e i lettori ti sapranno buon grado d'averne così ben descritto gli svantaggi.- Ti prego di ricordarmi al conte Mario, a Loro, a Bianchi, ai Revedin e, andando a Padova, a Coletti. A tua mamma dà un bel bacio da parte mia - ne ho tutto il diritto perché le voglio bene assai assai. Ti raccomando, se passi a Venezia la fine di Carnevale, un po' di moderazione. Amami sempre e ricevi col cuore, con cui li mando, i miei baci più affettuosi. Tuo

IPPOLITO

1. Nel •Caffè• di Milano il Nievo pubblicò la prima delle sue novelle campagnole, La pazza del Segrino, nel '56. 2. Vincenzo De Castro, professore all'Università di Padova, a cui fu tolta la cattedra dopo la sommossa degli studenti dell'S febbraio 1848. Sarà poi direttore del cr Panorama Universale• e comparirà in giudizio insieme al Nievo al tempo del processo per L' Avvocatino. 3. « La Ricamatrice• e le • Ore casalinghe», di cui si troveranno accenni, erano giornali pubblicati da Alessandro Lampugnani, solerte e bravo editore e redattore. Vi collaborarono il Nievo, il Fusinato, Teobaldo Ciconi, Francesco Dall'Ongaro. De • La Ricamatrice• era più propriamente direttrice Giuditta Lampugnani, moglie di Alessandro.

LETTERE

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VI AD ARNALDO FUSINATO

Fossato, marzo I855.

Mio caro Arnaldo Non so davvero se io debba congratularmi teco, o compianger me stesso per la fallita lusinga ch'io m'ebbi di abbracciarti gli ultimi giorni di Carnevale. Mi avresti trovato coll'anima nera come l'inchiostro, colla mente tutta verde, ma di quel verde livido della bile, sai, non di quel soave colore che piace tanto alla primavera ed alla speranza. Vedi che io non era preparato a fare le allegre accoglienze al mio migliore amico; né mi avrebbe garbato che questo povero ospite finisse col De profundis il rosario carnevalesco. Consolare gli afflitti, sta bene; l'è un'opera di misericordia, misericordiosa come tutte le altre: ma poi non la è precisamente quella che dipinga Mantova d'azzurro e di rosa a chi vien da Venezia. Ti premerà di sapere cos'era poi, e donde era nato questo mio improvviso mal di cuore; e qui per l'appunto nell'appagarti mi s'imbroglia il capo. Era un affanno indigeno affatto, anzi mantovano, uno di quei sentimenti tristi ma sacri, de, quali è origine la nostra nebbiosa città. Immaginati un veglione nelle gemonie,' una mascherata sul Calvario, e pensa dappoi, se chi non è preso dal vino possa guardare questi turpi baccanali, e non maledirli, e non desiderare, che la buona natura, mutandolo in un cane, lo tolga alla solidarietà di tanta ignominia! 2 Ti giuro che mi disperava fra me di non essere un grand'uomo, e di non avere nelle mani l'anima di Omero, di Virgilio, di Dante, d'Alfieri e di Shakespeare per fare, ma fare e non iscrivere, per fare ti ripeto, dieci poemi epici, e sopratutto ventimila tragedie - se potessi riuscire ad esprimere solo la metà di quanto ho sentito dentro me in quei giorni malaugurati, tu avresti allora ragione d'attribuirmi qualche talento poetico; ma per quanto mi ci abbia provato, a nulla a nulla riusciva ogni sforzo. Leggendo i miei sentimenti espressi in qualche verso mi vergognava della loro fiacchezza; né era giunto a vergognarmi, come ora faccio, della povertà dell'espressione. Povero vanerellol Sacrificava perfino la ve1. gemonie: scale gemonie, precipizio sul monte Aventino da cui venivano gettati i cadaveri degli uccisi in carcere. 2. Il Nievo qui accenna velatamente ai processi di Mantova del marzo, appunto, 1855.

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rità del mio cuore all'orgogliuzzo del poetucolo. Perdonami per carità, se vengo ora a Castelfranco a cantar le rovine di Gerosolima: ma gli è ch'io non voglio dissimularti nessuna fase della mia luna, e quella di cui ora ti scrissi voleva la sua parte - più, essa è una varietà psicologica mantovana, e come tale, graziosa abbastanza e peregrina. A Verona, a Venezia, ad Udine possono ridere e ballare, che non la sarà poi una nefandità: ma qui fu purtroppo un caso diverso. Però non vorrei finire lo scrivere con colori così funerarii - e ti dirò che al primo raggio di sole, sono scappato di là; e qui, in campagna, nei tepori precoci del marzo, nel diurno colloquio dei villani, e nella notturna compagnia della civetta, che mi canta ogni notte la parodia, mi si è rifatto lo spirito. A forza di pensare fuori del mondo mi è germogliata ieri a sera nel cervello l'idea d'un romanzo.1 Stamattina ci ripenso; ma giuggiole! Per iscriver bene un romanzo bisogna esser botanici, paesisti, filosofi, economisti, filologi e per di più poeti. Dubito assai che la buona volontà supplisca a tutto questo, ma ne farò l'esperimento. Ti scriverò più diffusamente su tale proposito. Hai letto la va Lucciola? - è poca cosa, ma vorrei sapere se ne hai indovinato il senso storico; altrimenti il mio intento non sarebbe raggiunto. È un gran pezzo che non leggo niente di tuo: ti sei fatto più poltrone del solito? Un cordialissimo ricordo a tua mamma: tanti saluti a Loro, Revedin, Savorgnan, Bianchi etc., così pure a Monti2 e Coletti, se scrivi. A te tutta l'anima con un bacio. Il tuo IPPOLITO VII AD ARNALDO FUSINATO

Da Mant