La letteratura italiana. Storia e testi. Opere [Vol. 52.1]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIBTRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME 52 • TOMO

I

GIACOMO LEOPARDI • OPERE TOMO I

GIACOMO LEOPARDI

OPERE TOMO I

A CURA DI SHRGIO SOLMI

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO• NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIOHTS RBSBRVED PRINTBD IN ITALY

GIACOMO LEOPARDI · OPERE TOMO I

INTRODUZIONE CANTI

XI I

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE RELATIVE Al CANTI

181

POESIE VARIE

225

ARGOMENTI E ABBOZZI DI POESIE

295

PARALIPOMENI DELLA BATRACOMIOMACHIA

329

OPERETTE MORALI

4S3

APPENDICE ALLE OPERETTE MORALI

679

PENSIERI

693

PROSE VARIE

753

APPUNTI E RICORDI

883

VOLGARIZZAMENTI

917

NOTA AI TESTI

1095

INDICE

1097

INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

Per cercar di spiegarci le origini della poesia di Leopardi, è indispensabile prospettare i grandi termini della situazione storica in cui la sua rapida esperienza, umana e letteraria, si svolse. La chiusura politica e culturale sopravvenuta alla lacerazione prodotta dalla rivoluzione francese e allo sconvolgimento dell'Europa per tanti anni percorsa in lungo e in largo dagli eserciti napoleonici, e l'aduggiamento indotto nei migliori spiriti da una stagnazione senza apparente sbocco, entro cui ideali e speranze parevano destinati irrimediabilmente a languire e a corrompersi. Quindi, la proiezione di quella lunga pausa d'incertezza sul microcosmo di Recanati, sperduta nel fondo d'una provincia degli Stati pontifici, e su un ambiente familiare di piccola nobiltà papalina e legittimista come fu quello di Giacomo. Infine, l'infermità fisica, sopraggiunta e favorita dalla gracile costituzione del poeta, a seguito degli anni infantili di « studio matto e disperatissimo», e il complesso di inibizioni, incompatibilità e rivolte ch'essa portò con sé. Poi, in particolare, l'isolamento della sua prima formazione. Solitudine, soprattutto, nel suo senso geografico, di lontananza dai centri di vita politica e intellettuale, ove i margini d'avvenire s'andavano nonostante tutto faticosamente formando. Una tale solitudine, privandolo di ogni guida e avvio, come quelli che si delineano spesso spontanei nella consuetudine di maestri e compagni, doveva fatalmente indurre il poeta ad attribuire una sorta d'ideale coesistenza e contemporaneità ai volumi antichi e nuovi della biblioteca paterna, costringendolo a scavarsi una via propria e individuale nella immensa congerie. L'immagine statica della vita, implicita nella visione classicistica del tempo, non doveva apparirgli contraddetta, anzi rafforzata dagli esemplari della poesia arcadica e dal pensiero razionalistico del secolo precedente, che finivano col rappresentare ai suoi occhi approssimativamente tutta la modernità. Essa escludeva quell'intuizione della storia come processo in divenire che per noi è diventata parte integrante della nostra coscienza della vita, e quasi una seconda natura, e il cui concetto i grandi filosofi romantici, a lui quasi ignoti ma istintivamente avversati, stavano in quegli stessi decenni elaborando. A ridosso di una modernità

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INTRODUZIONE

decaduta, impotente nelle sue risibili aspirazioni, resiste soltanto il grande mondo della cultura antica, non ancora dissolto dalla critica nel suo faticoso processo di sviluppo, ma sempre intatto e splendente nella sua configurazione di mito e soprastoria, cli chiaro specchio e paradigma dei pensieri e delle azioni presenti. Anche i testi della letteratura contemporanea che giungono fino a lui Foscolo, Monti- e i più prossimi del secolo precedente - Parini, Alfieri - possono essere letti soltanto in funzione dei modelli antichi, che essi medesimi si sforzano di riflettere, quasi barlumi sparsi nella decaduta modernità di perfezioni per sempre tramontate, che ci è dato oramai più soltanto di imitare in un'aura di ineluttabile malinconia. Per questo, gli studi filologici compiuti dal giovane Leopardi - il cui valore viene oggi opportunamente rivendicato - non tanto appaiono ispirati al bisogno di riposata conoscenza e di ordinato accrescimento scientifico, conforme al1'habitus erudito, quanto a una sorta di affannosa e struggente passione di riscoperta (si rammenti il suo entusiasmo, che oggi non può non apparirci esagerato, per il rinvenimento e pubblicazione degli scritti di Frontone fatta dal Mai), e quasi a una fondamentale necessità di orientamento esistenziale. Infine, nello sforzo di rintracciare i dati essenziali della sua prima formazione, il pensiero ricorre spontaneo a quella « filosofia», ch'egli di buon'ora si era formato sui testi del razionalismo e del sensismo francese del secolo precedente, e tenne ferma, almeno nelle sue linee essenziali, fino agli anni ultimi, quando acerbamente la raffrontava all'incerto spiritualismo del suo secolo, in cui si compiaceva unicamente di ravvisare ipocrita rinuncia e pavido ritorno alle menzogne e alle illusioni che aiutano a vivere. Si pensa, anche per questa parte, a un punctum dolens, a qualcosa come una ferita originaria, a un risentimento implacabile che strenuamente si foggia a strumento di conoscenza. E per questa parte Leopardi, appassionato al vago e all'ineffabile dei sentimenti e agli sfumati aloni dell'espressione poetièa, intento a teorizzare, nei suoi pensieri di estetica e di linguistica, il fascino della vaghezza e dell'indeterminatezza di certe immagini e parole, non può invece ammettere ·che conoscenze precise, oggettive, controllabili: e con lo stesso rinviare il vago e l'indeterminato al campo proprio della poesia e dell'illusione, si sforza di circoscriverli e di

INTRODUZIONE

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liberarsene. Anche qui, l'amore del dato esatto, della rilevazione puntuale, della scoperta inconfutabile, che ci dimostra l'inclinazione per gli studi filologici, è rivelatore. Come lo è lo spirito dell'operetta che, prima ancora d'impegnarsi a fondo in questi ultimi, scrisse il poeta diciassettenne, ossia quel Saggio sopra gli errori popolari degli antich,: che ci documenta su entrambe le facce apparentemente inconciliabili del suo spirito, anticipandocene gli ulteriori sviluppi. Da una parte, la rivolta illuministica contro l'errore, fonte di superstizione e di barbarie, e la rivendicazione delle conoscenze chiare e precise, che si avvale dei precoci toni dell'ironia e del sarcasmo (e il fatto che, nel Saggio, tale rivolta appaia temperata da conclusioni conformistiche, non deve ingannarci sul suo fondo); e, dall'altra, il gusto divertito della rievocazione di quelle antiche favole e stravaganti credenze, che si colora dei loro riflessi e trasposizioni poetiche e letterarie. La metafisica materialistica, spogliata del suo originario alone d'ottimismo, del suo anelito di liberazione, e limitata al suo effetto sostanziale di destituire l'uomo e la sua storia dalla loro posizione centrale nell'universo, rivelandocene la nullità di fronte all'infinità e all'indifferenza della Natura, gli dà l'impressione di toccare con mano il fondo del reale, e di riconoscere, nel finale disfacimento delle cose create, nel loro destino di morte, la verità ultima e inconfutabile: e lo stesso angoscioso ribellarsi del cuore a tali conclusioni non può costituire che la controprova di quella verità. Come s'è detto, il suo intelletto rifugge dall'indeterminato, dal mutevole, dallo sfuggente. Nei suoi pensieri sull'uomo e sulla società egli appare avere ereditato dai moralisti classici, a cominciare dal Guicciardini fino ai cinquecentisti e settecentisti francesi, lo sguardo freddo e chiaro, e una nomenclatura delle umane passioni come enti quanto più possibile oggettivamente definibili (si pensi alle sue distinzioni fra amor proprio ed egoismo, ragione e natura, alle sue riflessioni sulla noia ecc.), il che gli permette d'inoltrarsi in sottigliezze d'analisi e acuzie di caratterizzazione, ma pur sempre lineari, senza ombre né chiaroscuri, rifacendosi magari, al di là dei francesi, al suo Teofrasto. Cercando l'oggettività pura, giunge a una sorta di cristallizzazione del suo campo visuale. Così nella sua « teoria del piacere», perseguendo l'inafferrabile felicità, o lo stesso semplice piacere come stato oggettivo e a sé sufficiente, viene di necessità

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INTRODUZIONE

a negarlo destituendolo a puro fantasma e illusione, e a proclamare l'unica realtà del dolore. E se anche, perseguendo parallelamente un diverso ordine di pensieri, egli escogita, a scampo della sofferenza e della noia, volta a volta il sonno naturale dei bruti o l'esaltazione della vita intensa ed eroica, non tende ad istituire, né lo può, una mediazione dialettica. La verità è che una mediazione sarebbe equivalsa ad una giustificazione, e una giustificazione si sarebbe risolta in uno di quei comodi compromessi ch'egli rinfacciava alla filosofia dei suoi contemporanei. Una sintesi prematura avrebbe voluto dire rifiutarsi di condurre a termine l'esperienza negativa che gli era toccata in sorte. Non è, difatti, alla dialettica del pensiero di Leopardi che bisogna por mente, la quale non esisté, in quanto quel pensiero, che non superò mai lo stato frammentario connaturato alle meditazioni dello Zibaldone, e costituì essenzialmente una serie di riconoscimenti lucidi e puntuali dei lembi di esperienza che si offrivano allo scrittore, a cui concorreva l'ausilio dei filosofi e dei trattatisti da lui studiati, non pose mai - né, costituzionalmente, lo poteva quelle esigenze almeno intimamente sistematiche che sono inerenti al riconoscimento filosofico del reale. Perché un tale pensiero, con tutta la sua lucidità e fermezza che fanno pur sempre di Leopardi uno dei nostri più concreti moralisti e indagatori dell'uomo, conteneva una contraddizione per esso insolubile. E una tale contraddizione richiedeva di essere sperimentata fino in fondo sul piano vitale: da una parte, la chiarificazione, il rilievo tragicamente negativo di una realtà immobilizzata nella luce dell'intelletto; dall'altra, la rivolta del cuore, la irreducibilità della vita come palpito e slancio alla constatazione anche più amara e delusa dell'umano destino. Occorre invece pensare alla dialettica intima dell'animo del poeta, per cui gli studi filologici, le traduzioni dall'antico, la riflessione filosofica e morale furono, volta a volta, momento e strumento di un orientamento esistenziale, di un definirsi nel mondo e prendervi posizione, per compiersi in quella che già implicitamente, e assai presto anche esplicitamente, avrebbe dovuto rivelarsi come la forma essenziale del suo destino, ossia la . poesia.

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INTRODUZIONE

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Può dirsi in un certo senso (ma la virtù dei grandi poeti sembra essere quella di offrirci un'esperienza estrema, vuoi di una« qualità>,, vuoi, come nel nostro caso, di un limite) che la poesia di Leopardi nasce a questo punto d'intersezione, o, come s'è detto, di contraddizione. Leopardi si situa al polo opposto del poeta che «coltiva» la propria ispirazione, sviluppando e tesaurizzando per sovrapposizioni successive gli elementi di un riconoscibile mondo di affetti e di figure: al contrario, la sua poesia rappresenta piuttosto quanto di quel mondo, che fu così duramente assoggettato al potere distruttivo delle idee, le è riuscito di salvare o di riconquistare volta a volta. Questa contraddizione fondamentale ci invita a riconoscere le stesse particolari contraddizioni che questa poesia sembra recare in sé. Così il contrasto fra la pienezza vibrante con cui il sentimento vi si dispiega e l'aridezza e perentorietà delle sue chiusure ironiche e polemiche. Così il contrasto fra la sua « letterarietà» {non v'è quasi immagine o giro d'espressione, specie nelle prime canzoni, che non richiami alla mente precedenti od echi classici) e l'accento di intimità nuovo e quasi selvaggio che, al nostro sentire d'uomini d'oggi, le conferisce, ogni volta che l'avviciniamo, quel carattere di sorprendente attualità, e si vorrebbe dire di extra-temporalità, che fa di Leopardi, non solo cronologicamente, il più moderno dei nostri classici. Una tale letterarietà non ha difatti in lui, o quasi mai, nulla di compiaciuto o di esornativo, ma si rivela, come il gusto della precisione filologica nel campo del pensiero, una sorta di tormentato strumento destinato a vieppiù affinare la punta dell'espressione. Un riecheggiamento virgiliano e petrarchesco, scaldando la parola poetica e come caricandola della sua propria storia, sfuma infatti e precisa l'espressione accentuandone, per via di contrasto, il suo nuovo senso: e, rallentando il moto dell'attenzione del lettore, in pari tempo l'acuisce sulla particolarità di quel significato. Il fastidio di Leopardi per i romantici, « che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono mostri», interpretato nei suoi più veri termini, sta essenzialmente in questo bisogno di perspicuità puntuale, nel sospetto per !'astrattamente nuovo e inusitato, che è cli necessità sommario e impreciso, a differenza dell'espressione nata nel clima delle cose lungamente stancate e rese familiari dalla tradizione, che può avvalersi

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INTRODUZIONI

d'una ricca e flessibile allusività: e non altro senso ha la sua giovanile difesa dell'uso della mitologia classica nelle opere moderne. Ché peraltro, a ben vedere, nulla v'è, negli inizi veri e propri della sua poesia, di approssimativo e di anacronistico. Quando, ancora giovinetto, in seguito a una frettolosa lettura dantesca, elabora, in quella sua cantica L'appressamento della morte - pur così importante come documento autobiografico - una corrusca fantasia allegorica di gusto fra la Commedia e i Trionfi (ma neppure mancavano precedenti montiani), siamo ancora nel campo dell'esercitazione velleitaria. I nuovi accenti della sua poesia, come ogni concreto poeta, egli li riprenderà dalla tradizione recente e contemporanea, e l'arcaismo e il neoclassicismo, più che suoi propri, sono una dimensione necessaria del suo tempo. Dietro alla canzone All'Italia c'è ancora più Filicaia e Alfieri che non Petrarca, come dietro i primi Idilli ci sono le versioni da Mosco, col loro gusto arcadico e settecentesco che il giovane traduttore aveva nel sangue, mentre le movenze del suo sciolto sono ancora memori di Parini e di Foscolo, e a certe pacate stasi descrittive non è estraneo l'influsso della elegante ed eloquente cristallinità montiana. Di qui, il naturale processo di questa ispirazione sembra svolgersi secondo due movimenti, che talora s'intrecciano e tendono ad una fusione. Da una parte, verso un progressivo esaurimento delle barriere culturali, degli schermi mitologici e storici offerti dalla cultura e dalla tradizione, dei moti eloquenti o dialettici, verso una compiuta realizzazione di quella idea della poesia lirica come « respiro dell'anima», liberazione del cuore oppresso, la cui nascita appare contrassegnata da una fugace effervescenza sentimentale, « un crepuscolo un raggio un bagliore d'allegrezza», com'egli, con perfetta coscienza autocritica, rilevava in un pensiero del giugno 1820, quando già aveva scritto L'infinito e Alla luna. Di buon'ora, si afferma come essenziale a questa poesia la tendenza ad isolare la realtà sentimentale nella sua sostanza, a ridurla al puro disegno o diagramma del moto dell'anima nella sua genuinità iniziale, per cui clausola meditativa e paesaggio ed escla..: mazione e interrogazione si presentano come un tutto unico, còlti come sono alla punta struggente dell'emozione. È quella che è stata definita la musica di Leopardi, per quanto riesca difficile dare un senso preciso ad unà parola cosi polisensa nelle sue applicazioni

INTRODUZIONE

XVII

letterarie. Comunque, una sorta di trascorrente disegno musicale, il cui ritmo è massimamente affidato alle sospensioni e alle pause, e che sembra consumare, o quantomeno alleggerire nel suo processo, figurazioni e riflessioni, definendosi come l'elemento fluido che le evoca, e nel quale soltanto esse potrebbero vivere. In esso, le parole medesime sembrano depurarsi d'ogni loro gravezza rettorica e sensuale, come d'ogni troppo insistito segno storico, fino a coincidere col movimento stesso dell'esistenza pura, quello che si esprime in noi, al di là d'ogni ambientazione spaziale e temporale, come una delle costanti della nostra umana natura, della nostra stessa fisicità: Viva mirarti omai nulla spene m'avanza,· s'allor non fosse, allor che ignudo e solo per novo calle a peregrina stanza verrà lo spirto mio.

La « speme», il inganno, il velo sorridente della bellezza naturale, sovrapposto (indutto) alle leggi del cielo e della natura, all'« arido vero,,, valse, cioè giovò, all'uman genere, in modo che la nostra vita raggiungeva il suo porto quale placida nave. Vedi le Annotazioni alle dieci Canzoni, a pp. 217-8. 104. californie selve: le selve della California (cfr. in questo volume, nelle Operette morali, la Storia del genere umano, dove la California è descritta come un paese di vita primitiva, e tale era ancora ai tempi del Leopardi). 107./era tabe: crudele malattia. 108. nidi .•• rupe: caverne aperte entro la roccia; ministra: somministra acqua. 109. inopinato: non previsto. I 13-4. l'invitto nostro furor: il nostro furore mai domo.

INNO Al PATRIARCHI

nostro furor; le violate genti al peregrino affanno, agl'ignorati desiri educa; e la fugace, ignuda felicità per l'imo sole incalza.

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115. pnegrino: straniero, importato dalle genti bianche. I 15-6. ignorati desiri: i corrotti desideri che sopravvengono con l'incivilimento. Vedi le Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. 218. u6. fugace: •cioè fuggente; ign11da: cioè inerme: e però facile a vincere, ch'è appunto quello che voglio dire; ovvero spogliata da tutti i suoi possedimenti ecc.; ovvero misera, povera ecc. Ché in qualunque modo sta bene• (nota marginale del Leopardi). 117. per l'imo sole: per l'estremo occidente. Cfr. le Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. 218: •Non occorre avvertire che la California sta nell'ultimo termine occidentale del continente.• Analogamente nelle Note ai Canti, a p. 179.

IX

ULTIMO CANTO DI SAFFO

Placida notte, e verecondo raggio della cadente luna; e tu che spunti fra la tacita selva in su la rupe, nunzio del giorno; oh dilettose e care mentre ignote mi fiìr l'erinni e il fato, sembianze agli occhi miei; già non arride spettacol molle ai disperati affetti. Noi l'insueto allor gaudio ravviva quando per l'etra liquido si valve e per li campi trepidanti il flutto polveroso de' Noti, e quando il carro, grave carro di Giove a noi sul capo, tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli natar giova tra' nembi, e noi la vasta fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto fiume alla dubbia sponda il suono e la vittrice ira dell'onda. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

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Composta a Recanati nel maggio 1822 e apparsa la prima volta nell"edizione bolognese delle Canzoni del 1824. Così scrisse il Leopardi stesso nell'Annrmcio delle Canzoni: • intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane 11 (vedi a p. 190). Vedi pure Note ai canti (Bruto Minore), a p. I 79: in questa canzone, e si seguita la tradizione volgare intorno agJi amori infelici di Saffo poetessa, benché il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo: l'una famosa per la sua lira, e l'altra per l'amore sfortunato di Faone: quella contemporanea d'Alceo, e questa più moderna•· (Vedi anche la premessa ali' Ultimo canto di Saffo, a p. 316.) Chiara è la natura autobiografica dcli 'ispirazione di questa poesia. - I. verecondo: modesto, casto. 4. nunzio del giorno: la stella di Venere che annuncia il giorno. 5. mentre ••. fato: per tutto il tempo in cui mi furono ignote le furie (dell'amore) e la crudeltà del destino. 6. sembianze: aspetti della natura; già: ormai più. 7. spettacol molle: spettacolo dolce, infuso di dolcezza alla vista. 8. Noi: me; i,isueto: insolito. 9. l'etra liquido: il cielo fluido, pregno di pioggia. 11. Noti: venti (per antonomasia). e, Noto• è il vento Austro. 12. carro di Giove: per gli antichi, causa del fulmine e del tuono. 15. natar: nuotare; giova: si addice (vedi le Annotazio,ii alle dieci Canzoni, a p. 214). 17. d"bbia sponda: • cioè lubrica, o mal sicura che il fiume non la sormonti, cioè pericolosa• (nota marginale dell'autore). 20. rorida: rugiadosa.

ULTIMO CANTO DI SAFFO

infinita beltà parte nessuna alla misera Saffo i numi e l'empia sorte non fenno. A' tuoi superbi regni vile, o natura, e grave ospite addetta, e dispregiata amante, alle vezzose tue forme il core e le pupille invano supplichevole intendo. A mc non ride l'aprico margo, e dall'eterea porta il mattutino albor; me non il canto de' colorati augelli, e non de' faggi il murmure saluta: e dove all'ombra degl'inchinati salici dispiega candido rivo il puro seno, al mio lubrico piè le ftessuose linfe disdegnando sottragge, e preme in fuga l'odorate spiagge. Qual fallo mai, qual sl nefando eccesso macchiommi anzi il natale, onde sì torvo il ciel mi fosse e di fortuna il volto ? In che peccai bambina, allor che ignara di misfatto è la vita, onde poi scemo di giovanezza, e disfiorato, al fuso dell'indomita Parca si volvesse il ferrigno mio stame ? Incaute voci spande il tuo labbro: i destinati eventi move arcano consiglio. Arcano ~ tutto, fuor che il nostro dolor. Negletta prole

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24. vile ... e grave: dispregiata e mal sopportata, molesta; addetta: assegnata, destinata (ai regni della natura). 27. intendo: rivolgo. 28. aprico: assolato; margo: «cosi ora in latino, che è lo stesso di margo, s'adopera per og,ri luogo, e così da noi lido, piaggia, riva» (nota marginale del Leopardi). 28. eterea porta: la parte orientale del cielo. 33. il puro seno: l'onda limpida. 34. lubrico: scivoloso. 34-5. le flessuose . •• 1ottragge: anche il fiume disdegna lambire i piedi di Saffo, e ritira le sue onde. 38. anzi il natale: prima dello nascita, in una vita anteriore. 38-9. d torvo ••. volto: ossia il cielo o il volto della fortuna mi dovessero essere così crudeli nemici. 41. scemo: privo. 44. ferrigno: ferreo, oscuro, di poco valore; Incaute: temerarie. 45-6. i destinati • •• consiglio: un'imperscrutabile mente prestabilisce gli eventi che ci sono destinati. 4

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CANTI

nascemmo al pianto, e la ragione in grembo de, celesti si posa. Oh cure, oh speme de, più verd'anni! Alle sembianze il Padre, alle amene sembianze eterno regno die' nelle genti; e per virili imprese, per dotta lira o canto, virtù non luce in disadorno ammanto. Morremo. Il velo indegno a terra sparto, rifuggirà l'ignudo animo a Dite, e il crudo fallo emenderà del cieco dispensator de' casi. E tu cui lungo amore indarno, e lunga fede, e vano d'implacato desio furor mi strinse, vivi felice, se felice in terra visse nato mortai. Me non asperse del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno della mia fanciullezza. Ogni più lieto giorno di nostra età primo s'invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra della gelida morte. Ecco di tante sperate palme e dilettosi errori, il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno han la tenaria Diva, e l'atra notte, e la silente riva.

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48-9. e la ragio~ .•. si posa: la cagione prima delle cose, che ci è sottratta, sta in grembo agli dèi, e a noi è nascosta. 50. il Padre: Giove. 51. amene sembianze: belle forme, apparenze. 54. disadorno ammanto: aspetto privo di bellezza. 55. Il velo indegno: il corpo indegno (deforme, non degno dell'anima di Saffo); sparto: sparso, abbandonato al suolo. 56. Dite: Plutone, divinità infernale. 57-8. e il crudo ••. casi: ossia rimedierà al crudele errore del destino. 58. E tu: Faone. 63. del doglio: •Vuole intendere di quel vaso pieno di felicità che Omero pone in casa di Giove » (vedi le Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. 214). 64. poi che: dacché. Vedi le Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. 215. 69. sperate •.• errori: i sogni di gloria e gli amorosi inganni. 70. il Tartaro m'avanza: mi rimane l'inferno: detto ironicamente in contrasto col verso precedente. (Vedi la Postilla ai versi 68-70, a pp. 316-7.) 71. tenaria Diva: Ecate, o Proserpina, moglie di Plutone, re dell'inferno, il cui ingresso gli antichi ponevano presso il capo Tenaro, oggi capo Matapan. 72. l'atra ••• riva: la notte oscura della morte e la riva silenziosa dei fiumi infernali.

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IL PRIMO AMORE

Tornami a mente il dì che la battaglia d'amor sentii la prima volta, e dissi: oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia! Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, io mirava colei ch'a questo core primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore I Perché seco dovea sì dolce affetto recar tanto desio, tanto dolore ? e non sereno, e non intero e schietto, anzi pien di travaglio e di lamento al cor mi discendea tanto diletto ? Dimmi, tenero core, or che spavento, che angoscia era la tua fra quel pensiero presso al qual t'era noia ogni contento ? Quel pensier che nel dì, che lusinghiero ti si offeriva nella notte, quando tutto queto parca nell'emisfero: tu inquieto, e felice e miserando, m'affaticavi in su le piume il fianco,

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Composto a Recanati tra il 15 e il 16 dicembre 1817. Pubblicato la prima volta col titolo di Elegia I nell'edizione bolognese dei Vnsi del 18261 e nel 1831 fra i Canti. Ispirato dall'amore per la cugina Geltrude Cassi-Lazzari che gli ispirò pure una seconda elegia (vedine il testo intero a pp. 282 sgg., e il frammento accolto nei Canti a p. 169). Su questa prima esperienza amorosa il Leopardi scrisse altresì ,alcune pagine di diario; vedile più avanti, in questo volume. - 1. Tornami a mente: inizio d'un sonetto del Petrarca, Rime, CCCXXXVI, 1. L'allontanamento nella memoria non risponderebbe alla realtà, perché il poeta scrisse la poesia nei due giorni successivi alla partenza della Cassi: si trattò, peraltro, di un amore puerile, consumato in pochi giorni, e perciò atto ad essere subito assunto in esperienza poetica. 4. Che: in cui (riferito a dl del v. 1); tuttora: sempre. 6. innocente: non per civetteria, ma involontariamente. 7. governasti: ti comportasti con me. (Cfr. Petrarca, Ri,ne, LXXIX, 5-7: «Amor ••. tal mi governa•, e cxxvu, 45: • come 'l sol neve mi governa Amore•.) 10. schietto: non misto a dolori. 14. /ra quel pensiero: dibattendoti in quel pensiero. 15. presro al qual: al cospetto del quale. 16-7. che nel di ..• notte: intendi: che ti si offriva lusinghiero nel di e nella notte. (Ellissi.) 19. tu inquieto • .• misnando: sempre riferito al cuore, nello stesso tempo felice e infelice.

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CANTI

ad ogni or fortemente palpitando. E dove io tristo ed affannato e stanco gli occhi al sonno chiudea, come per febre rotto e deliro il sonno venia manco. Oh come viva in mezzo alle tenebre sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi la contemplavan sotto alle palpebre! oh come soavissimi diffusi moti per l'ossa mi serpeano, oh come mille nell'alma instabili, confusi pensieri si volgean! qual tra le chiome d'antica selva zefiro scorrendo, un lungo, incerto mormorar ne prome. E mentre io taccio, e mentre io non contendo, che dicevi, o mio cor, che si partia quella per che penando ivi e battendo? Il cuocer non più tosto io mi sentia della vampa d'amor, che il venticello che l'aleggiava, volossene via. Senza sonno io giacca sul dì novello, e i destrier che dovean farmi deserto, battean la zampa sotto al patrio ostello. Ed io timido e cheto ed inesperto, ver lo balcone al buio protendea l'orecchio avido e l'occhio indarno aperto, la voce ad ascoltar, se ne dovea di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse; la voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea. Quante volte plebea voce percosse il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

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dove: laddove, quando. 24. deliro: delirante. 33. ne prome: ne fa promanare. 34. taccio ••. non contendo: non mi oppongo (presente storico). 3 5. che: del fatto che. 36. per che: per la quale; ivi: andn\'i; battendo: palpitando. 38. il venticello: la donna amata che aveva acceso quella fiamma. 39. che l'aleggiava: che l'alimentava (adoperato transitivamente con forma inconsueta). 40. sul di novello: sull'alba. 41. farmi deserto: togliermi la donna amata. 42. patrio ostello: casa patema. 48. eh' altro ••• togliea: poiché il destino mi impediva di scorgere la sua persona. 49. plebea voce: di vetturali o di servi. 50. il dubitoso orecchio: in dubitosa attesa di udire ad ogni momento la voce della donna amata. 22.

IL PRIMO AMORE

e il core in forse a palpitar si mosse! E poi che finalmente mi discese la cara voce al core, e de' cavai e delle rote il romorio s'intese; orbo rimaso allor, mi rannicchiai palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, strinsi il cor con la mano, e sospirai. Poscia traendo i tremuli ginocchi stupidamente per la muta stanza, ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Amarissima allor la ricordanza locommisi nel petto, e mi serrava ad ogni voce il core, a ogni sembianza. E lunga doglia il sen mi ricercava, com'è quando a distesa Olimpo piove malinconicamente e i campi lava. N ed io ti conoscea, garzon di nove e nove Soli, in questo a pianger nato quando facevi, amor, le prime prove. Quando in ispregio ogni piacer, né grato m'era degli astri il riso, o dell'aurora queta il silenzio, o il verdeggiar del prato. Anche di gloria amor taceami allora nel petto, cui scaldar tanto solea, che di beltade amor vi fea dimora. Né gli occhi ai noti studi io rivolgea, e quelli m'apparian vani per cui vano ogni altro desir creduto avea.

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51. in /orse: in dubbio. 55. orbo: privato (della donna amata). 59. stupidamente: macchinalmente. 60. ch'altro •.. tocchi?: che altro dopo ciò potrà ancora commuovermi ? 61. la ricordanza: come già notato in principio, il poeta allontana nel tempo il ricordo, biograficamente presente. 62-3. e mi serrava ••• sembianza: il ricordo mi stringeva il cuore ad ogni sembianza che me lo suscitasse. 64. il sen: il cuore; mi ricercava: mi penetrava, stringendolo nella sua angoscia. 65. Olimpo: il cielo. 67-9. Ned io • •. prove: né io ti avevo prima conosciuto, o Amore, quando in questo fanciullo di nove e nove Soli (diciotto anni) destinato al pianto, tu facesti le tue prime prove. 73-5. Anche ••. dimora: anche l'amore della gloria, che tanto soleva scaldarmi il petto, taceva, perché era stato sostituito dall'amore della bellezza.

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CANTI

Deh come mai da me si vario fui, e tanto amor mi tolse un altro amore? deh quanto, in verità, vani siam nuil Solo il mio cor piaceami, e col mio core in un perenne ragionar sepolto, alla guardia seder del mio dolore. E l'occhio a terra chino o in sé raccolto, di riscontrarsi fuggitivo e vago né in leggiadro soffria né in turpe volto: che la illibata, la candida imago turbare egli temea pinta nel seno, come all'aure si turba onda di lago. E quel di non aver goduto appieno pentimento, che l'anima ci grava, e il piacer che passò cangia in veleno, per li fuggiti dì mi stimolava tuttora il sen: che la vergogna il duro suo morso in questo cor già non oprava. Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro che voglia non m'entrò bassa nel petto, ch'arsi cli foco intaminato e puro. Vive quel foco ancor, vive l'affetto, spira nel pensier mio la bella imago, da cui, se non celeste, altro diletto giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

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79. vario: diverso. 82-3. ~ col mio .•. sepolto: immerso in un perenne colloquio col mio cuore. 86. di riscontrarsi: di incontrarsi: fuggitivo e vago: ora sfuggente, ora vagante nel vuoto. 94-6. per li J11ggiti •.• oprava: il pentimento, di cui alla terzina precedente, mi stimolava ancora il seno soltanto per il rimpianto dei giorni fuggiti, perché la vergogna di cattivi pensieri non rimordeva il mio giovane cuore. 97. gentili anime: anime capaci d'intendere il sentimento d'amore. 99. intaminato: incontaminato. 1 o I. spira: respira.

XI

IL PASSERO SOLITARIO

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su la vetta della torre antica, passero solitario, alla campagna cantando vai finché non more il giorno; ed erra l'armonia per questa valle. Primavera dintorno brilla nell'aria, e per li campi esulta, sì ch'a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; gli altri augelli contenti, a gara insieme per lo libero ciel fan mille giri, pur festeggiando il lor tempo migliore: tu pensoso in disparte il tutto miri; non compagni, non voli, non ti cal d'allegria, schivi gli spassi; canti, e così trapassi dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

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Oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, S'ignora l'epoca della composizione di questo canto, che si suppone comunque successiva al 1828, epoca in cui il Leopardi cominciò a scrivere nel metro della canzone libera. Esso compare per la prima volta nell'edizione napoletana del 1835, come primo degli Idilli: il che ha fatto pensare, assieme a qualche accenno dello Zibaldone, che la sua originaria ispirazione risalga al 1819, anno dei primi Idilli. Vedi Argomenti di Idilli (v1), a p. 306. - r. torre antica: torre di una vecchia chiesa di Recanati, probabilmente quella di Sant' Agostino. 2. passero solitario: già simbolo poetico nella Bibbia (Ps., 10, 2 e 101, 8), accennato anche dal Petrarca, Rime, ccxxvi, 1, e nel Morgante del Pulci (xiv, 60); alla campagna: dall'alto della torre antica verso la campagna circostante. 7. intenerisce il core: reminiscenza dantesca, come more il giorno del v. 3. Cfr. Purg., VIII, 1-2: • Era già l'ora che volge il desio/ ai naviganti, e intenerisce il core• ecc. (il verbo intenerisce è usato intransitivamente). 11. pur: la maggior parte dei commentatori interpreta il pur nel senso classico di n soltanto», in cui è implicito pure un concetto di continuità; alcuni sottintendono •essi• ( al pari dei greggi, degli armenti, dell'intera natura primaverile, cosi anche gli uccelli festeggiano ccc.), che sembrerebbe spiegazione più consequenziale. Probabilmente, per il profondo carattere intuitivo della parola poetica, l'espressione può presentarsi, come in questo caso, ambivalente; il lor tempo migliore: la primavera, cioè la giovinezza. 14. cal: importa. 18. costurru: modo di vivere.

CANTI

della novella età dolce famiglia, e te german di giovinezza, amore, sospiro acerbo de' provetti giorni, non curo, io non so come; anzi da loro quasi fuggo lontano; quasi romito, e strano al mio loco natio, passo del viver mio la primavera. Questo' giorno eh' ornai cede alla sera, festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, odi spesso un tonar di ferree canne, che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa la gioventù del loco lascia le case, e per le vie si spande; e mira ed è mirata, e in cor s'allegra. Io solitario in questa rimota parte alla campagna uscendo, ogni diletto e gioco indugio in altro tempo: e intanto il guardo steso nell'aria aprica mi fere il Sol che tra lontani monti, dopo il giorno sereno, cadendo si dilegua, e par che dica che la beata gioventù vien meno. Tu, solingo augellin, venuto a sera del viver che daranno a te le stelle,

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cùlla .•. famiglia: i cari compagni della giovinezza. 20. gennan: fratello. 21. sospiro .•. giorni: amaro rimpianto dei giorni avanzati, della vecchiaia. 24. strano: straniero. 27. cede alla sera: fa luogo alla sera. 28. nostro borgo: Recanati. 29. di squilla: di campana. 30. tonar ••• canne: spari di fucili in segno di festa. 3 1. villa: gruppo di abitati nella campagna. 36-7. Io ••. parte: io, che mi trovo solitario in questa remota parte, lontano dal borgo in festa. 37. alla campagna: per la campagna (cfr. v. 2). 39. indugio: rimando, rimetto. 40. steso: spaziante; aprica: aperta, diffusa di luce solare. 41. mi /ere: mi ferisce. 45-6. venuto ••• stelle: giunto al termine della vita che il destino ti ha assegnato. 19.

IL PASSERO SOLITARIO

certo del tuo costume non ti dorrai; che di natura è frutto ogni vostra vaghezza. A me, se cli vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro, quando muti questi occhi all'altrui core, e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro del dì presente più noioso e tetro, che parrà cli tal voglia? che di quest'anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro.

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48-9. che di ... vaghe:,:,a: che ogni vostra voglia (vaghezza) è frutto di istinti. 52. non impetro: non riesco ad ottenere implorando (forma ellittica). 53-4. quando ••• mondo: quando i miei occhi non parleranno più al cuore altrui, e per essi il mondo sarà vuoto. 54-5. e il di futuro • .• tetro: (sempre retto da fia) e cioè quando sarà morta anche la speranza. 56. di tal voglia: del desiderio di solitudine. 59. ma sconsolato: perché questa mia rinwicia sarà divenuta irreparabile.

XII

L'INFINITO

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.

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Composto a Recanati nel settembre del 1819. Stampato come primo dei sei Idilli, apparsi nel• Nuovo Ricoglitore • di Milano del dicembre 1825 e gennaio 1826, quindi nel volumetto dei Ver.si, Bologna 1826. Vedi gli abbozzi a pp. 304-5. - 1. quest'ermo colle: si ritiene il monte Tabor, nelle vicinanze di Recanati; ermo: solitario. 2-3. che ••• esclude: che toglie alla vista del poeta tanta parte dell'estremo orizzonte. 5. quella: la siepe, di cui al v. 2; secondo alcuni interpreti, la tanta parte di cui al v. 2: ma sembra interpretazione sforzata. 7. mi fingo: mi foggio (cfr. nelle Annotazioni alla canzone Alla primavera, o delle favole antiche, a p. 213, le osservazioni del Leopardi su questa particolare accezione del verbo • fingere,,); ove per poco: usato nel delicato duplice senso di collocazione spaziale e di consecuzione temporale ( • dove •, e • per cui ,,). 8. con,e: poi che. 10. voce: voce del vento. 13. e il suon di lei: il suono vivo della stagione presente che gli perviene nel vento e nel silenzio, in contrasto con le morte stagioni, e l'eternità. 15. in questo mare: il mare dell'infinito.

XIII

LA SERA DEL Dl DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, che t'accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi quanta piaga m'apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m'affaccio, e l'antica natura onnipossente, che mi fece all'affanno. A te la speme nego, mi disse, anche la speme; e d'altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da' trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti piacquero a te: non io, non già, ch'io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

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Idillio composto a Recanati probabilmente nel 1820; pubblicato al secondo posto fra gli Idilli nel• Nuovo Ricoglitorc • del dicembre 1825, e ristampato nei Versi, Bologna 1826. Il titolo originario era La sera del giorno festivo; il titolo attuale appare nell'edizione dei Canti del 1835. - 4. serena: senza nubi. Cfr. più avanti, in questo volume, Appu11ti e ricordi: • Veduta notturna con la luna, a ciel sereno, dall'alto della mia casa, tal quale alla similitudine di Omero ec. •· 6. rara: espressione delicatamente ambigua, che indica sia la scarsità delle finestre illuminate, sia la tenuità del chiarore che dalle stesse traluce. 7. agevol: facile, pronto. 9. cura: affanno, preoccupazione; "' pnrsi: n6 t'immagini. 12. in vista: alla vista. 14. che ••• affanno: che mi generò a una vita infelice. 15. mi disse: sottintendi: la natura. 17. solenne: festivo; da' trastulli: dai divertimenti festivi. 20. non gid, ch'io speri: non già ch'io lo speri.

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CANTI

in cosi verde etate ! Ahi, per la via odo non lunge il solitario canto dell'artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov'è il suono di que' popoli antichi? or dov'è il grido de' nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l'armi, e il fragorio che n'andò per la terra e l'oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s'aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia eh' egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s'udia per li sentieri lontanando morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core.

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26. riede: torna. 27. povero ostello: umile casa, casupola. 32. volgar: feriale, perciò ordinario, in contrasto col giorno festivo, solenne (v. 17). 33. accidente: evento; suono: l'eco, cioè la voce, manifestazione d•umana presenza. 34. il grido: la fama. Cfr. Zibaldone, 50, 3: a Dolor mio nel sen• tire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani cosi caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch•io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.• 37. che n'andò: che di essa andò. 38. posa: riposa, è immoto. 39. di lor: cioè dei popoli antichi e deU-antica Roma di cui ai versi precedenti. 41. or pasci.a: dopo che. 43. premea le piume: giacevo sul letto. 46. similmente: con la stessa impressione di dolore e di smarrimento.

XIV

ALLA LUNA

O graziosa luna,

io mi rammento che, or volge l'anno, sovra questo colle io venia pien d'angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile, o mia diletta luna. E pur mi giova la ricordanza, e il noverar retate del mio dolore. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, il rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l'affanno duri!

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Composto a Recanati nel 1819 intorno all'epoca in cui venne scritto L'infinito, e pubblicato la prima volta come terzo degli Idilli nel• Nuovo Ricoglitore » del dicembre 1825 e nei Versi, Bologna 1826, sotto il titolo La n·cordanza. Assunse il nuovo titolo nelt>edizione dei Canti del 1831. 2. or volge l'anno: or è un anno. 8. travagliosa: tormentata. 9. ed è .•• stile: e cosi è tuttora, né accenna a cambiare. 10. mi giova: mi è grata. 11-2. noverar • •• dolore: contare il tempo del mio dolore. 12. grato occorre: riesce gradito. 13-4. nel tempo ... corso: questi due versi appaiono interpolati parecchi anni dopo, nell'edizione postuma del Ranieri (Firenze 1845). 16. triste: riferito a cose, plurale di trista (triste cose); e che: e ancor che.

xv IL SOGNO

Era il mattino, e tra le chiuse imposte per lo balcone insinuava il sole nella mia cieca stanza il primo albore; quando in sul tempo che più leve il sonno e più soave le pupille adombra, stettemi allato e riguardommi in viso il simulacro di colei che amore prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto. Morta non mi parea, ma trista, e quale degl'infelici è la sembianza. Al capo appressommi la destra, e sospirando, vivi, mi disse, e ricordanza alcuna serbi di noi? Donde, risposi, e come vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto di te mi dolse e duol: né mi credea che risaper tu lo dovessi; e questo facea più sconsolato il dolor mio. Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta? Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne? Sei tu quella di prima? E che ti strugge internamente? Obblivione ingombra

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S'ignora l'epoca precisa della sua composizione, che alcuni ritengono nel 1819, altri tra il '21 e '22. Pubblicato la prima volta nel bolognese « Il Caffè di Petronio» col titolo di Elegia il 13 agosto 1825, e poi nel" Nuovo Ricoglitore» del gennaio 1826 assieme agli altri Idilli, indi nell'edizione bolognese dei Versi dello stesso anno. Si suole biograficamente identificare la fanciulla del sogno in Teresa Fattorini, figliola del cocchiere in casa Leopardi, morta nel settembre 1818 di mal sottile, successivamente adombrata nelJa Silvia. Quanto all'argomento della poesia, vedere a p. 323 l'appunto: a Se tu devi poetando fingere un sogno• ecc., e negli Appunti e ricordi, la descrizione di un bacio in sogno. - 3. cieca: buia, senza luce. 7. il simulacro: l'immagine, il fantasma. 13. di noi: di me. 14-5. Quanto, deh ..• duol: cfr. Petrarca, Rime, cccxu, 12: « Fedel mio caro, assai di te mi dole n. Qui, e spesso altrove in questo idillio, si fanno sentire risonanze petrarchesche. 16. risaper: venire a sapere. 20. Sei ... prima?: sei proprio tu, sei viva ancora? 21. Obblivione ingombra: l'oblio confonde.

IL SOGNO

i tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno, disse colei. Son morta, e mi vedesti l'ultima volta, or son più lune. Immensa doglia m'oppresse a queste voci il petto. Ella seguì: nel fior degli anni estinta, quand'è il viver più dolce, e pria che il core certo si renda com'è tutta indarno l'umana speme. A desiar colei che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare l'egro mortai; ma sconsolata arriva la morte ai giovanetti, e duro è il fato di quella speme che sotterra è spenta. Vano è saper quel che natura asconde agl'inesperti della vita, e molto all'immatura sapienza il cieco dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara, taci, taci, diss'io, che tu mi schianti con questi detti il cor. Dunque sei morta, o mia diletta, ed io son vivo, ed era pur fisso in ciel che quei sudori estremi cotesta cara e tenerella salma provar dovesse, a me restasse intera questa misera spoglia? Oh quante volte in ripensar che più non vivi, e mai

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24. lrme: mesi. 26. segui: continuò. 28. certo: consapevole; indarno: invano. 29-33. A desiar .•• spenta: l 1infenno arriva ben presto a desiderare Ja morte, mentre per i giovinetti essa giunge sempre desolata, ed è duro il destino della speranza spenta dalla morte. 34-37. Vano .•. prevale: conoscere che la vita è un male è vano per coloro che non l'hanno provato, e il cieco dolore di perderla prevale in essi alla cognizione puramente astratta di tale verità. Cfr. Zibaldone, 1437 (2 agosto 1821) «gl'insegnamenti filosofici ec. gli (al giovane] restano inutili, non già per capriccio, né ostinazione, né piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile dello natura. E solo quando egli è dentro a questo mondo sl cambiato dallo condizione naturale, l'esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perché neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poiché il giovane che non ha altra regola di giudizio se non la natura, e quindi è giudice competentissimo, giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero.• 41. sudori estremi: sudori dell'agonia. 43. cotesta ••• salma: il tuo corpo.

CANTI

non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo, creder noi posso. Ahi ahi, che cosa è questa che morte s'addimanda? Oggi per prova intenderlo potessi, e il capo inerme agli atroci del fato odii sottrarre. Giovane son, ma si consuma e perde la giovanezza mia come vecchiezza; la qual pavento, e pur m'è lunge assai. Ma poco da vecchiezza si discorda il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto, disse, ambedue; felicità non rise al viver nostro; e dilettossi il cielo de' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio, soggiunsi, e di pallor velato il viso per la tua dipartita, e se d'angoscia porto gravido il cor; dimmi: d'amore favilla alcuna, o di pietà, giammai verso il misero amante il cor t' assalse mentre vivesti? Io disperando allora e sperando traea le notti e i giorni; oggi nel vano dubitar si stanca la mente mia. Che se una volta sola dolor ti strinse di mia negra vita, non mel celar, ti prego, e mi soccorra la rimembranza or che il futuro è tolto

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48. s'addimanda: ha nome. 48-50. Oggi .•. sottrarre: potessi morire e sfuggire alla crudeltà del destino. s 1. ma si consuma e perde: questo tema della vecchiezza precoce e della non goduta gioventù ricorre spesso nelle lettere del Leopardi dell'epoca. Vedi per tutte la lettera del 21 aprile 1820 a Pietro Brighenti: • Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche Ja salute ha preso piacere di seguirli. In 21 anno, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciuJlo, ho compito il corso delle disgrazie di una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino il sentimento e l'entusiasmo ch'era il compagno e l'alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire.• 55. Nascemmo al pianto: nota analoga espressione nell'Ultimo canto di Saffo, v. 48 (a p. 50), e ne Il primo amore, v. 68 (a p. 53). 58-61. Or •.• cor: ora, poiché il mio volto reca il segno del dolore per la tua perdita, e porto il cuore pieno d'angoscia. 68. negra: infelice. 69-71. e mi soccorra •.. giorni: mi consoli il ricordo del nostro sentimento (corrisposto) dato che l'avvenire è tolto al nostro amore.

IL SOGNO

ai nostri giorni. E quella: ti conforta, o sventurato. Io di pietade avara non ti fui mentre vissi, ed Qr non sono, che fui misera anch'io. Non far querela di questa infelicissima fanciulla. Per le sventure nostre, e per l'amore che mi strugge, esclamai; per lo diletto nome di giovanezza e la perduta speme dei nostri di, concedi, o cara, che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto soave e tristo, la porgeva. Or mentre di baci la ricopro, e d'affannosa dolcezza palpitando all'anelante seno la stringo, di sudore il volto ferveva e il petto, nelle fauci stava la voce, al guardo traballava il giorno. Quando colei teneramente affissi gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro, disse, che di beltà son fatta ignuda? E tu d'amore, o sfortunato, indarno ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. Nostre misere menti e nostre salme son disgiunte in eterno. A me non vivi e mai più non vivrai: già ruppe il fato la fé che mi giurasti. Allor d'angoscia gridar volendo, e spasimando, e pregne di sconsolato pianto le pupille, dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi pur mi restava, e nell'incerto raggio del Sol vederla io mi credeva ancora.

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74. Non Jar qun~la: non lagnarti. 82. la ricopro: intendi la mano. 84. di sudore il volto: intendi il volto del poeta. 85-6. nelle •. . voce: la voce non poteva uscire. 86. il giorno: la luce del sole. 89. che di ••• ignuda?: altra reminiscenza petrarchesca (cfr. Rime, CCCLIX, 60: •spirito ignudo sono•). Qui beltd significa avvenenza corporea, il corpo stesso. 93. A me: per me. 99-100. nell9incnto .•• Sol: quello del primo sole trapelante dalle imposte.

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LA VITA SOLITARIA

La mattutina pioggia, allor che l'ale battendo esulta nella chiusa stanza la gallinella, ed al balcon s, affaccia l'abitator de, campi, e il Sol che nasce i suoi tremuli rai fra le cadenti stille saetta, alla capanna mia dolcemente picchiando, mi risveglia; e sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo degli augelli susurro, e l'aura fresca, e le ridenti piagge benedico: poiché voi, cittadine infauste mura, vidi e conobbi assai, là dove segue odio al dolor compagno; e doloroso io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna benché scarsa pietà pur mi dimostra natura in questi lochi, un giorno oh quanto verso me più cortese! E tu pur volgi dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gli affanni, alla reina felicità servi, o natura. In cielo, in terra amico agl'infelici alcuno e rifugio non resta altro che il ferro.

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Composto a Recanati nel 1821 e stampato la prima volta nel « Nuovo Ricoglitore » di Milano nel gennaio 1826, quale ultimo dei sei Idilli ivi pubblicati, e successivamente nei Versi usciti a Bologna nello stesso anno. 2. esulta: saltella, balza. Cfr. in diversa accezione Il passero solitario, v. 6 (a p. 55), e B,-uto minore, v. 27 (a p. 33). Qui il termine si colora anche della giocondità espressa in tale seconda accezione; chiusa stan::a: il pollaio. 3. balcon: finestra. 6. capanna mia: modo poetico di tradizione arcadica per indicare la casa di campagna del poeta. 1 o. piagge: luoghi campestri. 12-3. ld dove ... compagno: tra le mura cittadine, dove il poeta non soltanto è infelice, ma per tale infelicità subisce l'odio e il disprezzo dei suoi contemporanei. 14. deh tosto!: voglia il cielo che sia presto (invocazione). 15-6. bench, .. . lochi: la natura in questi luoghi mi dimostra qualche pietà bench~ scarsa. 16. un gio,-no: cioè ai tempi della beata fanciullezza. 17-8. E tu •.• sguardo: anche tu, al pari degli uomini, distogli lo sguardo dagli infelici. :.u. alcuno: qui sta per •nessuno•. 2,2,. il/erro: cioè l'arma per il suicidio.

LA VITA SOLITARIA

Talor m'assido in solitaria parte, sovra un rialto, al margine d'un lago di taciturne piante incoronato. I vi, quando il meriggio in ciel si volve, la sua tranquilla imago il Sol dipinge, ed erba o foglia non si crolla al vento, e non onda incresparsi, e non cicala strider, né batter penna augello in ramo, né farfalla ronzar, né voce o moto da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete; ond'io quasi me stesso e il mondo obblio sedendo immoto; e già mi par che sciolte giaccian le membra mie, né spirto o senso più le commova, e lor quiete antica co' silenzi del loco si confonda. Amore, amore, assai lungi volasti dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, anzi rovente. Con sua fredda mano lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è vòlto nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo che mi scendesti in seno. Era quel dolce e irrevocabil tempo, allor che s'apre al guardo giovanil questa infelice scena del mondo, e gli sorride in vista di paradiso. Al garzoncello il core di vergine speranza e di desio balza nel petto; e già s'accinge all'apra di questa vita come a danza o gioco il misero mortai. Ma non sl tosto,

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26. lvi: nel lago; quando ... si volve: sul mezzogiorno. 27. dipinge: si specchia, dipinge nel lago. 33. Tien quelle rive: domina quei luoghi. 35. sciolte: separate, non più animate dallo spirito vitale che le teneva unite. 37. antica: come se durasse da tempo immemorabile. 42. sciaura: sciagura; in ghiaccio è volto: riferito al petto di cui al v. 40. 47. in vista: in apparenza. 52. non si tosto: non appena.

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CANTI

amor, di te m'accorsi, e il viver mio fortuna avea già rotto, ed a questi occhi non altro convenia che il pianger sempre. Pur se talvolta per le piagge apriche, su la tacita aurora o quando al sole brillano i tetti e i poggi e le campagne, scontro di vaga donzelletta il viso; o qualor nella placida quiete d'estiva notte, il vagabondo passo di rincontro alle ville soffermando, l'erma terra contemplo, e di fanciulla che ali' opre di sua man la notte aggiunge odo sonar nelle romite stanze l'arguto canto; a palpitar si move questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano ogni moto soave al petto mio. O cara luna, al cui tranquillo raggio danzan le lepri nelle selve; e duolsi alla mattina il cacciator, che trova l'orme intricate e false, .e dai covili error vario lo svia; salve, o benigna delle notti reina. Infesto scende il raggio tuo fra macchie e balze o dentro a deserti edifici, in su l'acciaro del pallido ladron ch'a teso orecchio

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53-4. m'accorsi . .. rotto: m'accorsi che la fortuna aveva già spezzato la mia vita. 56. piagge apriche: plaghe solatie. 59. scontro: incontro. 62. di rincontro: davanti. 63. l'erma terra: la campagna solitaria. 64. che . .. aggiunge: che continua anche di notte il suo lavoro. 66. arguto: squillante, argentino. 70-4. al cui ••. svia: Leopardi allude qui alla credenza popolare, riportata nel trattato sulla caccia di Senofonte (Cy11egetica, 5, 54), secondo cui nelle notti di luna le lepri danzerebbero nei boschi, lasciando tracce talmente intricate da indurre in errore i cacciatori costringendoli a vagare nel folto e sviandoli così dalle tane. Cfr., nelle Operette morali, l'Elogio degli uccelli; e l'abbozzo dell'Erminia, a p. 310. 75. Infesto: pericoloso, dannoso, perché rivelatore. 77. deserti edifici: abituri abbandonati in cui si apposta il ladrone in agguato; acciaro: l'acciaio dell'arma del ladro (non meglio specificata).

LA VITA SOLITARIA

il fragor delle rote e de' cavalli da lungi osserva o il calpestio de' piedi su la tacita via; poscia improvviso col suon dell'armi e con la rauca voce e col funereo ceffo il core agghiaccia al passegger, cui semivivo e nudo lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre per le contrade cittadine il bianco tuo lume al drudo vii, che degli alberghi va radendo le mure e la secreta ombra seguendo, e resta, e si spaura delle ardenti lucerne e degli aperti balconi. Infesto alle malvage menti, a me sempre benigno il tuo cospetto sarà per queste piagge, ove non altro che lieti colli e spaziosi campi m'apri alla vista. Ed ancor io soleva, bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso raggio accusar negli abitati lochi, quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando scopriva umani aspetti al guardo mio. Or sempre loderollo, o ch'io ti miri veleggiar tra le nubi, o che serena dominatrice dell'etereo campo, questa ftebil riguardi umana sede. Me spesso rivedrai solingo e muto errar pe' boschi e per le verdi rive, o seder sovra l' erbe, assai contento se core e lena a sospirar m'avanza.

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83. funereo: truce, annunciatore di morte. 85. occo"e: sopraggiunge. 87. drudo vii: vile adultero; alberghi: case. 88-9. secreta .•. seguendo: tenendosi sul lato oscuro delle vie, per non lasciarsi scorgere. 96. benchtinnocente io fossi: in opposizione agli esempi citati del ladrone e dell'adultero. 101. veleggiar tra le nubi: allude all'impressione che dà la luna di muoversi rapidamente quando si trova in un cielo di nubi spostate dal vento. 103. ftebil: piangente, infelice. 106. assai: abbastanza. 107. a sospirar m'avanza: se avrò forza e coraggio ancora per sospirare. (Reminiscenza petrarchesca; cfr. Rime, ccxciv, 11: •ch'altro che sospirar nulla m'avanza».)

XVII

CONSALVO

Presso alla fin di sua dimora in terra, giacca Consalvo; disdegnoso un tempo del suo destino; or già non più, che a mezzo il quinto lustro, gli pendea sul capo il sospirato obblio. Qual da gran tempo, cosi giacea nel funeral suo giorno dai più. diletti amici abbandonato: ch'amico in terra al lungo andar nessuno resta a colui che della terra è schivo. Pur gli era al fianco, da pietà condotta a consolare il suo deserto stato, quella che sola e sempre eragli a mente, per divina beltà famosa El vira ; conscia del suo poter, conscia che un guardo suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso, ben mille volte ripetuto e mille nel costante pensier, sostegno e cibo esser solea dell'infelice amante: benché nulla d'amor parola udita avess'ella da lui. Sempre in quell'alma era del gran desio stato più forte un sovrano timor. Così l'avea fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.

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Si ritiene dalla maggior parte degli studiosi che il canto sia stato composto a Firenze nel 1832, ispirato aJl'amore per Aspasia, la signora Fanny Targioni-Tozzetti. Fu pubblicato -la prima volta nell'edizione napoletana dei Canti del 1835. Per i nomi di Consalvo e di Elvira, nonché per l'argomento generale del canto, il Leopardi sembra essersi ispirato al poema di Gerolamo Graziani: Il conquisto di Granata. - 2. disdegnoso: incurante, restlo. 3-4. a mezzo .•• lustro: a ventidue anni e mezzo. 5. il sospirato obb/io: la morte tanto desiderata. 5-7. Qual . •. abbandonato: come da gran tempo, cosi nel giorno della morte egli giaceva abbandonato. 9. che ... schivo: che è sdegnoso, disgustato di questo mondo. 11. deserto stato: stato d'abbandono. 15-7. un detto ... pensier: un detto, una frase cosparsa di qualche dolcezza, ripetuti poi miHe volte dal poeta amante fra sé e sé. 19. nulla: nessuna. 21 -2. era ... timor: sul desiderio di parlare era sempre prevalsa una invincibile timidezza.

CONSALVO

Ma ruppe alfin la morte il nodo antico alla sua lingua. Poiché certi i segni sentendo di quel dì che l'uom discioglie, lei, già mossa a partir, presa per mano, e quella man bianchissima stringendo, disse: tu parti, e l'ora ornai ti sforza: Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda, un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo qual maggior grazia mai delle tue cure dar possa il labbro mio. Premio daratti chi può, se premio ai pii dal ciel si rende. Impallidia la bella, e il petto anelo udendo le si fea: che sempre stringe all'uomo il cor dogliosamente, ancora ch'estranio sia, chi si diparte e dice, addio per sempre. E contraddir voleva, dissimulando l'appressar del fato, al moribondo. Ma il suo dir prevenne quegli, e soggiunse: desiata, e molto, come sai, ripregata a me discende, non temuta, la morte; e lieto apparmi questo feral mio dì. Pesami, è vero, che te perdo per sempre. Oimè per sempre parto da te. Mi si .divide il core in questo dir. Più non vedrò quegli occhi, né la tua voce udrò I Dimmi: ma pria

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24. la morte: l'approssimarsi della morte; il nodo antico: l'impossibilità di esprimersi. 26. discioglie: libera (dal vincolo terreno). 29. l'ora •.. ti sforza: ti costringe a partire. 31-3. Ti rmdo • •• mio: ti rendo il massimo delle grazie di cui io sia capace. 34. chi p14Ò: il cielo. 35. anelo: anelante.

36-9. che . .. sempre: cfr. le considerazioni sul distacco di persone conosciute, in Zibaldone, 644 1 1 (11 febbraio 1821): •Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale, salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti Non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e q·uel mai pi,ì non si pub udire senza un certo senso.• 40. fato: morte. 45. P~1ami: mi duole. 47. Mi ri divide: mi si spezza.

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CANTI

di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio non vorrai tu donarmi ? un bacio solo in tutto il viver mio ? Grazia eh' ei chiegga non si nega a chi muor. Né già vantarmi potrò del dono, io semispento, a cui straniera man le labbra oggi fra poco eternamente chiuderà. Ciò detto con un sospiro, all'adorata destra le fredde labbra supplicando affisse. Stette sospesa e pensierosa in atto la bellissima donna; e fiso il guardo, di mille vezzi sfavillante, in quello tenea dell'infelice, ove l'estrema lacrima rilucea. Né dielle il core di sprezzar la dimanda, e il mesto addio rinacerbir col niego; anzi la vinse misericordia dei ben noti ardori. E quel volto celeste, e quella bocca, già tanto desiata, e per molt'anni argomento di sogno e di sospiro, dolcemente appressando al volto afflitto e scolorato dal mortale affanno, più baci e più, tutta benigna e in vista d'alta pietà, su le convulse labbra del trepido, rapito amante impresse. Che divenisti allor? quali appariro vita, morte, sventura agli occhi tuoi, fuggitivo Consàlvo? Egli la mano, ch'ancor tenea, della diletta Elvira postasi al cor, che gli ultimi battea

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55. straniera: di un estraneo, cioè non familiare né amico. 58. affisse: impresse. 59. in atto: nel suo atteggiamento. 60. fiso: fisso, retto da tenea del v. 62. 63. dielle: le permise. 66. ben noti: a lei ben noti. 69. argomento: motivo. 72-3. e in vista ••. pietà: manifestando un'alta, una profonda pietà. 77. fuggitivo: labile, prossimo a morte, come nelJe Ricordanze, v. 117 (a p. 100).

CONSALVO

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palpiti della morte e dell'amore, oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono in su la terra ancor; ben quelle labbra fur le tue labbra, e la tua mano io stringo! Ahi vision d'estinto, o sogno, o cosa incredibil mi par. Deh quanto, Elvira, quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi non ti fu l'amor mio per alcun tempo; non a te, non altrui; che non si cela vero amore alla terra. Assai palese agli atti, al volto sbigottito, agli occhi, ti fu : ma non ai detti. Ancora e sempre muto sarebbe l'infinito affetto . che governa il cor mio, se non l'avesse fatto ardito il morir. Morrò contento del mio destino ornai, né più mi dolgo ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno, poscia che quella bocca alla mia bocca premer fu dato. Anzi felice estimo la sorte mia. Due cose belle ha il mondo: amore e morte. All'una il ciel mi guida in sul fior dell'età; nell'altro, assai fortunato mi tengo. Ah, se una volta, solo una volta il lungo amor quieto e pago avessi tu, fora la terra fatta quindi per sempre un paradiso ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza, l'abborrita vecchiezza, avrei sofferto con riposato cor: che a sostentarla bastato sempre il rimembrar sarebbe d'un solo istante, e il dir: felice io fui

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80. d~lla morte: deWagonia. 84. vision d'estinto: d'oltretomba, come quelle

che hanno soltanto i beati. 87. per alcun tempo: in nessun tempo, mai. 97. poscia che: poiché, giacché. 99-100. Due ... morte: cfr. l'inizio di Amore e Morte (a p. 120). 103-4. quieto e pago: quietato e appagato. 104-5./0ra •.. fatta: la terra sarebbe divenute. 105. quindi: da allora. 106. cangiati: mutati, perché avrebbero visto il mondo sotto diverso aspetto, trasfigurato dalla felicità. 108. riposato: pacificato, rassegnato; sostentarla: sopportarla.

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sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto esser beato non consente il cielo a natura terrena. Amar tant' oltre non è dato con gioia. E ben per patto in poter del carnefice ai flagelli, alle ruote, alle faci ito volando sarei dalle tue braccia; e ben disceso nel paventato sempiterno scempio. O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra gPimmortali beato, a cui tu schiuda il sorriso d'amor! felice appresso chi per te sparga con la vita il sangue! Lice, lice al mortai, non è già sogno come stimai gran tempo, ahi lice in terra provar felicità. Ciò seppi il giorno che fiso io ti mirai. Ben per mia morte questo m'accadde. E non però quel giorno con certo cor giammai, fra tante ambasce, quel fiero giorno biasimar sostenni. Or tu vivi beata, e il mondo abbella, Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno non l'amerà quant'io l'amai. Non nasce un altrettale amor. Quanto, deh quanto dal misero Consalvo in si gran tempo

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113. tanto/tre: così intensamente, essendone corrisposti. Cfr.,nelle Operette morali, la Storia del genere umano, dove dice che Amore « Rarissimamente congiwige due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattane alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina•· 114-8. E ben .. . scempio: pur di poter ottenere tanta gioia, avrei accettato la condizione di sopportare dipoi i più feroci tormenti, le ruote, le faci, i flagelli e le stesse pene eterne dell'inferno. 121. appresso: dopo di lui, in secondo rango. 123. Lice: è lecito. 126-7. Ben per .•• m'accadde: è pur vero che questo causò la mia morte. 127. E non però: e non per ciò. 128. con certo cor: risolutamente. 129. biasimar sostenni: fui capace di biasimare. 134. in si gran tempo: per tanti anni. Cfr. il v. 68.

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chiamata fosti, e lamentata, e pianta! Come al nome d'Elvira, in cor gelando, impallidir; come tremar son uso all'amaro calcar della tua soglia, a quella voce angelica, all'aspetto di quella fronte, io ch'al morir non tremo! Ma la lena e la vita or vengon meno agli accenti d'amor. Passato è il tempo, né questo dì rimemorar m'è dato. Elvira, addio. Con la vital favilla la tua diletta immagine si parte dal mio cor finalmente. Addio. Se grave non ti fu quest'affetto, al mio feretro dimani all'annottar manda un sospiro.

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Tacque: né molto andò, che a lui col suono mancò lo spirto; e innanzi sera il primo suo dì felice gli fuggia dal guardo.

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impallidir: come tremar è retto da son wo. 138. all'amaro ••• soglia: al momento dell'angoscioso ingresso nella tua casa. 141. la lena: la forza di parlare. 142. Passato i il tempo: la mia vita è consumata. i46. grave: fastidioso, ingrato. 149. col suono: con la parola. 137.

XVIII

ALLA SUA DONNA

Cara beltà che amore lunge m'inspiri o nascondendo il viso, fuor se nel sonno il core ombra diva mi scuoti, o ne' campi ove splenda più vago il giorno e di natura il riso; forse tu l'innocente secol beasti che dall'oro ha nome, or leve intra la gente anima voli ? o te la sorte avara eh' a noi t' asconde, agli avvenir prepara ? Viva mirarti ornai nulla spene m'avanza; s'allor non fosse, allor che ignudo e solo per novo calle a peregrina stanza verrà lo spirto mio. Già sul novello aprir di mia giornata incerta e bruna, te viatrice in questo arido suolo io mi pensai. Ma non è cosa in terra che ti somigli; e s'anco pari alcuna ti fosse al volto, agli atti, alla favella, saria, così conforme, assai men bella.

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Composta a Recanati in sei giorni nel settembre 1823. Pubblicata in Bologna nell'edizione bolognese delle Canzoni del 1824. Fu l'ultima della stagione poetica giovanile, dopo di che la sua vena tacque per quattro anni. Relativamente a questa canzone, vedi l'Annuncio delle Canzoni, a pp. 190-1, sul carattere astratto e ideale della donna oggetto di questa fantasia poetica del Leopardi. - 2-6. lunge . •• riso: m'ispiri amore, o stando lontano, o (vicino) nascondendomi il tuo viso, tranne che in sogno o al cospetto della ridente natura. 7-11. / orse ... prepara?: forse ci giungi dal la favolosa età dell'oro, e oggi voli, lieve anima, tra noi, oppure il destino avaro ti conserva per un lontano futuro agli uomini che verranno? 15. per .•• stanza: per WlB strada sconosciuta, a una ignota dimora, ossia nell'oltretomba. 16-7. sul novello . .• giornata: allo schiudersi della giovinezza. 18. viatrice . •. suolo: errante in questo arido mondo terreno. 22. cosi con/orme: pur eguagliandoti nell'aspetto.

ALLA SUA DONNA

Fra cotanto dolore quanto all'umana età propose il fato, se vera e quale il mio pensier ti pinge, alcun t'amasse in terra, a lui pur fora questo viver beato: e ben chiaro vegg'io siccome ancora seguir loda e virtù qual ne' prim'anni l'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse il ciel nullo conforto ai nostri affanni; e teco la mortai vita saria simile a quella che nel cielo india. Per le valli, ove suona del faticoso agricoltore il canto, ed io seggo e mi lagno del giovanile error che m'abbandona; e per li poggi, ov'io rimembro e piagno i perduti desiri, e la perduta speme de' giorni miei; di te pensando, a palpitar mi sveglio. E potess'io, nel secol tetro e in questo aer nefando, l'alta specie serbar; che dell'imago, poi che del ver m'è tolto, assai m'appago. Se dell' eterne idee l'una sei tu, cui di sensibil forma sdegni l'eterno senno esser vestita, e fra caduche spoglie

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24. q11anto .•• fato: quanto il destino ne prescrisse alla vita umana. 25. se vera •• . pinge: se reale, e pari alla mia immaginazione. 26. fora: sarebbe. 29. loda: fama, gloria; qual ne• prim' anni: come nella mia prima giovinezza. 30-1. aggiunse . .. affanni: in compenso di essi affanni. 33. india: rende simile agli dèi. 35. faticoso: laborioso, dedito alla sua fatica. 37. giovanile error: le illusioni della giovinezza. 41. a palpitar mi sveglio: si ridesta in me il palpito. 43. l'alta specie: la divina sembianza. 44. poi che ••• appago: poiché non m•è dato appagarmi del vero. 459. Se dell' eterne .•. vita: se tu sei una delle idee platoniche, che l'eterno senno (lddio) disdegnò, non volle, fosse vestita di sensibile forma, destinata agli affanni d'una vita mortale. 46. l'una: vedi le Annotazioni alle duci Can~oni, a p. 218.

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provar gli affanni di funerea vita; o s'altra terra ne• superni giri fra• mondi innumerabili t'accoglie, e più vaga del Sol prossima stella t'irraggia, e più benigno etere spiri; di qua dove son gli anni infausti e brevi, questo d'ignoto amante inno ricevi.

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52. prossima stella: la stella intorno a cui gravita il pianeta che t'accoglie. 53. spiri: respiri.

XIX

AL CONTE CARLO PEPOLI

Questo affannoso e travagliato sonno che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio ? di che speranze il core vai sostentando ? in che pensieri, in quanto o gioconde o moleste opre dispensi l'ozio che ti lasciar gli avi remoti, grave retaggio e faticoso? È tutta, in ogni umano stato, ozio la vita, se quell'oprar, quel procurar che a degno obbietto non intende, o che all'intento giunger mai non potria, ben si conviene ozioso nomar. La schiera industre cui franger glebe o curar piante e greggi vede l'alba tranquilla e vede il vespro, se oziosa dirai, da che sua vita è per campar la vita, e per sé sola la vita all'uom non ha pregio nessuno, dritto e vero dirai. Le notti e i giorni tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne sudar nelle officine, ozio le vegghie son de' guerrieri e il perigliar nell'armi; e il mercatante avaro in ozio vive:

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Composta a Bologna nel marzo 182.6, recitata la sera del lunedl di Pasqua al Casino dell'Accademia dei Felsinei, e pubblicata per la prima volta nell'edizione bolognese dei Versi nello stesso anno. Epistola in versi sciolti indirizzata all'amico conte Carlo Pepoli, noto letterato e patriota (18011881). - 4-5. in quanto .•• moleste: in quanto gioconde o in quanto moleste. 5. dispensi: consumi, spendi. 6. l'ozio . .. remoti: l'ozio che ti è permesso dalla ricchezza avita. 7. grave ••• faticoso: poiché, secondo il Leopardi, la vita spesa in ozio è un grave peso. 7-12. È tutta • •. nomar: la vita, sia nell'ozio sia nel lavoro, è sempre tutta ozio, in quanto o l'attività è rivolta a oggetto non degno o, se l'oggetto è degno, esso è irraggiungibile. 12-8. La schiera ... dirai: la giornaliera fatica dei contadini o dei pastori è oziosa dal momento che serve soltanto a campare la vita, che in sé non ha alcun pregio. 19. tragge: trae. zo. vegghie: veglie. 21. pmgliar: correre pericoli.

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che non a sé, non ad altrui, la bella felicità, cui solo agogna e cerca la natura mortal, veruno acquista per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pure all'aspro desire onde i mortali già sempre infin dal dì che il mondo nacque d'esser beati sospiraro indarno, di medicina in loco apparecchiate nella vita infelice avea natura necessità diverse, a cui non senza opra e pensier si provvedesse, e pieno, poi che lieto non può, corresse il giorno all'umana famiglia; onde agitato e confuso il desio, men loco avesse al travagliarne il cor. Così de' bruti la progenie infinita, a cui pur solo, né men vano che a noi, vive nel petto desio d'esser beati ; a quello intenta che a lor vita è mestier, di noi men tristo condur si scopre e men gravoso il tempo, né la lentezza accagionar dell'ore. Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano provveder commettiamo, una più grave necessità, cui provveder non puote altri che noi, già senza tedio e pena non adempiam: necessitate, io dico,

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23-5. la bella . .. mortai: il solo degno oggetto dell'umano sforzo, che è

però irraggiungibile. 27-35. Pure ... famiglia: pure la natura aveva preparate, quale rimedio all'aspro e vano desiderio di felicità degli uomini, diverse necessità che consentissero loro di trascorrere, se non li~to, almeno occupato il giorno, con le opere e i pensieri ad essi ordinati. 35-6. agitato e confuso: distratto dalla necessità del lavoro. (Cfr., nelle Operette morali, Storia del genere umano, l'accenno delle Arti date da Giove per conservare 1•umana specie.) 37. de' bruti: degli animali. 38. p"r: parimenti (a noi). 40-1. a quello ... mestier: occupata a ciò che necessita alla loro vita. 41. men tristo: meno tristemente. 43. n~ .•• ore: né lagnarsi della lentezza delle ore. 44-5. che ... commettiamo: che non abbiamo bisogno di lavorare per vivere, ma affidiamo ad altri il compito di provvedere ai nostri bisogni. 47. già ..• pena: tuttavia, certo, senza tedio e pena.

AL CONTE CARLO PEPOLI

di consumar la vita: improba, invitta necessità, cui non tesoro accolto, non di greggi dovizia, o pingui campi, non aula puote e non purpureo manto sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno i vòti anni prendendo, e la superna luce odiando, l'omicida mano, i tardi fati a prevenir condotto, in se stesso non torce; al duro morso della brama insanabile che invano felicità richiede, esso da tutti lati cercando, mille inefficaci medicine procaccia, onde quell'una cui natura apprestò, mal si compensa. Lui delle vesti e delle chiome il culto e degli atti e dei passi, e i vani studi di cocchi e di cavalli, e le frequenti sale, e le piazze romorose, e gli orti, lui giochi e cene e invidiate danze tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto, nell'imo petto, grave, salda, immota come colonna adamantina, siede noia immortale, incontro a cui non puote vigor di giovanezza, e non la crolla dolce parola di rosato labbro, e non lo sguardo tenero, tremante,

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49-53. improba .•. prole: la necessità da cui nessun privilegio di ricchezza pub liberare l'umana prole. 52. aula: sala di palazzo; purpr,reo manto: manto del re e comunque dei potenti. 53. Or s'altri: se alcuno. 545. supnna luce: luce del sole. 56. i tardifati: Pora della morte che tarda a venire. 61-2. onde •.. compensa: non riesce a compensare la sola medicina che apprestb natura, ossia quella di procurarsi i mezzi per vivere. 63-5. Lui . •• cavalli: la cura della persona e del comportamento, e le vane occupazioni dei cavalli e dei cocchi. 65-6. le frequenti sale: le frequentate sale. 66. gli orti: i giardini. 71. nede: sta. 72. incontro a cui: contro alla quale. 73. crolla: scuote. 6

CANTI

di due nere pupille, il caro sguardo, la più degna del ciel cosa mortale. Altri, quasi a fuggir vòlto la trista umana sorte, in cangiar terre e climi l'età spendendo, e mari e poggi errando, tutto l'orbe trascorre, ogni confine degli spazi che all'uom negl'infiniti campi del tutto la natura aperse, peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s'asside su l'alte prue la negra cura, e sotto ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno feticità, vive tristezza e regna. Ravvi chi le crudeli opre di marte si elegge a passar l' ore, e nel fraterno sangue la man tinge per ozio; ed havvi chi d'altrui danni si conforta, e pensa con far misero altrui far sé men tristo, sl che nocendo usar procaccia il tempo. E chi virtute o sapienza ed arti perseguitando; e chi la propria gente conculcando e l'estrane, o di remoti lidi turbando la quiete antica col mercatar, con l'armi, e con le frodi, la destinata sua vita consuma.

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78. a fuggir volto: nell'intento di fuggire. 80. arando: vagando (in forma transitiva, all'uso latino). 81-4. ogni ... aggiunge: raggiunge vagando tutti i confini entro cui la natura ha concesso ali 'uomo di spaziare nel1'universo. 85. m l'alte prue: le alte prue delle navi: cfr. Orazio, Carm., Il, 16, 21-2: a Scandit aeratas vitiosa naves /cura•; la negra cura: l'infelice noia. 86. n chiama: è invocata. 87. vive: sottintendi a invece •· 88. opre di marte: imprese guerresche. 89. n elegge: sceglie. 90. per o:rio: per passare il tempo. 90-2. ed havvi . •. tristo: coloro che godono degli altrui mali e de) nuocere al prossimo. 93. usar procaccia il tempo: procura di occupare il tempo. 94-5. E chi . .• perseguitando: probabile allusione ai potenti del tempo, di cui il poeta stesso aveva fatto esperienza, che, paurosi del progresso civile, perseguitavano le scienze e le orti. 95-6. e chi • .. l'estrane: i tiranni interni e i conquistatori di terre straniere. 97. la quiete antica: la tranquillità dello stato di natura in cui vivono i popoli pnmativi. 99. la ••. vita: la vita che gli è stata assegnata dal destino.

AL CONTE CARLO PEPOLI

Te più mite desio, cura più dolce regge nel fior di gioventù, nel bello aprii degli anni, altrui giocondo e ·primo dono del ciel, ma grave, amaro, infesto a chi patria non ha. Te punge e move studio de' carmi e di ritrar parlando il bel che raro e scarso e fuggitivo appar nel mondo, e quel che più benigna di natura e del ciel, fecondamente a noi la vaga fantasia produce e il nostro proprio error. Ben mille volte fortunato colui che la caduca virtù del caro immaginar non perde per volger d'anni; a cui serbare eterna la gioventù del cor diedero i fati; che nella ferma e nella stanca etade, così come solea nell'età verde, in suo chiuso pensier natura abbella, morte, deserto avviva. A te conceda tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo la favilla che il petto oggi ti scalda, di poesia canuto amante. Io tutti della prima stagione i dolci inganni mancar già sento, e dileguar dag!i occhi le dilettose immagini, che tanto

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Te . •• anni: te, o Pepoli, domina, guida nella tua giovinezza, un desiderio più mite e dolce (di quello dei nominati sopra). 104. a chi . .• ha: ai giovani che, come gli Italiani, essendo soggetti al dominio straniero, non hanno patria, e le cui più alte attività vengono pertanto spese invano ( cfr. A rm vincitore nel pallone, vv. 53-7, a p. 31); pllnge: sprona. 105. e di ritrar parlando: e di ritrarre o mezzo di parole, cioè dell'arte letteraria. 106-7. il bel .•. mondo: la bellezza naturale. 107-10. e quel . .• error: cioè quel bello che la vaga fantasia, più generosa del mondo naturale, e il nostro proprio error (la nostra capacità di illuderci) producono in noi. 1 1 1-2. la caduca virtù: la virtù che ne li 'uomo suole sfiorire rapidamente. 115. nella ferma ••. etade: nella virilità e nella vecchiaia. 117. in ..• penna: nella solitudine della sua mente. 118. morte ••• atJtJÌtJa: ravviva la morte e il deserto dell'esistenza. 120. la favilla: la passione poetica che nutri ora. 122-4. i dolci inganni •.• le dilettose immagini: le illusioni della giovinezza e le care immagini del poetico fantasticare. 100-2.

CANTI

amai, che sempre infino all'ora estrema mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo questo petto sarà, né degli aprichi campi il sereno e solitario riso, né degli augelli mattutini il canto di primavera, né per colli e piagge sotto limpido ciel tacita luna commoverammi il cor; quando mi fia ogni beltate o di natura o d'arte, fatta inanime e muta; ogni alto senso, ogni tenero affetto, ignoto e strano; del mio solo conforto allor mendico, altri studi men dolci, in ch'io riponga l'ingrato avanzo della ferrea vita, eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi destini investigar delle mortali e dell'eterne cose; a che prodotta, a che d'affanni e di miserie carca l'umana stirpe; a quale ultimo intento lei spinga il fato e la natura; a cui tanto nostro do lor diletti o giovi: con quali ordini e leggi a che si volva questo arcano universo; il qual di lode colmano i saggi, io d'ammirar son pago.

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126. fieno: saranno. 128. aprichi: assolati. 131. piagge: luoghi campestri. 133.fia: sarà. 135. alto senso: profondo sentimento. 136. strano: estraneo. 137. mendico: privo. 138. altri studi men dolci: sono gli studi che descri-

verà in appresso, e ch'egli intendeva ormai coltivare in luogo della poesia. (Cfr. la lettera al Giordani del 6 maggio 1825: a Quanto al genere degli studi che-io fo, come io sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono mutati .. _- Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d'inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell'universo.•) 139. l'ingrato . •. vita: gli anni senili che gli avanzeranno della dura vita. 140. eleggerò: sceglierò. 140-8. L'acerbo vero ..• universo: il tutto è retto dal verbo investigar che sottintende eleggerò. 142. a che prodotta: a qual fine creata. 143. carca: sottinteso •sia». 145. a cui: a chi. 147. a che si valva: verso che si muova. 148-9. il qual ..• son pago: espressione tinta d'ironia: i saggi colmano di lode quest'universo che il poeta s'accontenta di contemplare con meraviglia.

AL CONTE CARLO PEPOLI

In questo specolar gli ozi traendo verrò: che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero. E se del vero ragionando talor, fieno alle genti o mal grati i miei detti o non intesi, non mi dorrò, che già del tutto il vago desio di gloria antico in me fia spento: vana Diva non pur, ma di fortuna e del fato e d'amor, Diva più cieca.

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150. In questo sp~colar: in queste speculazioni. 1 s 1-2. eh~ conosciuto .•• vn-o: la conoscenza del vero, per quanto triste, cattivo questo sia, pub anche essa portar~ diletto. Cfr., nelle Opn-ette morali, i Detti memorabili di Filippo Ottonini, cap. v: • Certamente il vero ... pub spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose uman~ il bello è da preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da preferire ad ogni altra cosa •· 153. fieno: saranno. 157. vana Diva: la gloria; non pur: non soltanto.

xx IL RISORGIMENTO

Credei ch'al tutto fossero in me, sul fior degli anni, mancati i dolci affanni della mia prima età: i dolci affanni, i teneri moti del cor profondo, qualunque cosa al mondo grato il sentir ci fa. Quante querele e lacrime sparsi nel novo stato, quando al mio cor gelato prima il dolor mancò! Mancar gli usati palpiti, l'amor mi venne meno, e irrigidito il seno di sospirar cessò! Piansi spogliata, esanime fatta per me la vita; la terra inaridita, chiusa in eterno gel;

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Composto a Pisa fra il 7 ed il 13 aprile 1828 e pubblicato la prima volta fra i Canti nuovi nell'edizione fiorentina del 1831. È la prima lirica scritta dopo quattro anni muti alla poesia, interrotti soltanto dall'epistola Al conte Carlo Pepoli: i quattro anni che furono occupati nella composizione delle Operette morali e dei volgarizzamenti. Inaugura la seconda stagione lirica dell'opera leopardiana. Questa poesia trae appunto argomento dal riaprirsi dell'animo del poeta al sentimento e all'ispirazione, e prende, caso eccezionale in lui, il metro e l'andatura della tradizionale canzonetta metastasiana. Vedi anche la lettera del 2 maggio 1 828 alla sore Ila Paolina: « dopo due anni, ho fatto dei versi quest'Aprile; ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta JI. - 4. prima età: prima giovinezza, adolescenza. 6. del cor profondo: della parte più intima e profonda del cuore. 7-8. qualunque ••. fa: tutto ciò che infonde piacere al nostro sentire. 1 1-2. quando ... mancò: quando per la prima volta il mio cuore fatto ghiaccio di venne insensibile perfino al dolore. 15. irrigidito il seno: il mio cuore reso insensibile.

IL RISORGIMENTO

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deserto il dì ; la tacita notte più sola e bruna; spenta per me la luna, spente le stelle in ciel. Pur di quel pianto origine era l'antico affetto: nell'intimo del petto ancor viveva il cor. Chiedea l'usate immagini la stanca fantasia; e la tristezza mia era dolore ancor. Fra poco in me quell'ultimo dolore anco fu spento, e di più far lamento valor non mi restò. Giacqui: insensato, attonito, non di mandai conforto: quasi perduto e morto, il cor s•abbandonò. Qual fui! quanto dissimile da quel che tanto ardore, che sì beato errore nutrii nell,alma un dìl La rondinella vigile, alle finestre intorno cantando al novo giorno, il cor non mi ferì:

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21. deserto: vuoto, solitario. 25-8. Pur . •• cor: ma quel pianto era indizio che l'antica facoltà di commuoversi non era ancora spenta. 2930. Chiedea ... fantasia: e per quanto la fantasia fosse stanca, chiedeva ancora le immagini poetiche di cui usava nutrirsi. 33. Fra poco: dopo poco. 36. valor: forza. 42. da quel che: da quell'io che. 44. nutrii: si riferisce a quel che. 45. vigile: sveglia perché mattiniera.

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CANTI

non all'autunno pallido in solitaria villa, la vespertina squilla, il fuggitivo Sol. lnvan brillare il vespero vidi per muto calle, invan sonò la valle del flebile usignol. E voi, pupille tenere, sguardi furti vi, erranti, voi de' gentili amanti primo, immortale amor, ed alla mano offertami candida ignuda mano, foste voi pure invano al duro mio sopor. D'ogni dolcezza vedovo, tristo; ma non turbato, ma placido il mio stato, il voi to era seren. Desiderato il termine avrei del viver mio; ma spento era il desio nello spossato sen.

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Qual dell'età decrepita l'avanzo ignudo e vile,

49. non: sottinteso mi / m. 51. la 'fJespertina squilla: i rintocchi del vespro. 53. 'fJespero: tramonto. 54. per muto calle: per strada silenziosa. 57-60. E voi ... amor: poich~ la prima scintilla dell'amore negli amanti gentili viene dagli occhi dell'amata. 62. candida ••. mano: la mano della donna offerta alla mia mano. 63-4. foste ••• sapor: neppure voi riusciste a infrangere la mia dura indifferenza. 65. 'fJedovo: privo (si riferisce a il mio stato del v. 67). 71-2. ma ••• sm: lo stesso desiderio della morte era spento nel mio cuore stanco. 74. l'O'fJan.&'o ignudo e vile: l'ultimo periodo della vita umana, la decrepitezza.

IL RISORGIMENTO

io conducea l'aprile degli anni miei così : così quegl'ineffabili giorni, o mio cor, traevi, che sì fugaci e brevi il cielo a noi sortì. Chi dalla grave, immemore quiete or mi ridesta? che virtù nova è questa, questa che sento in me? Moti soavi, immagini, palpiti, error beato, per sempre a voi negato questo mio cor non è? Siete pur voi quell'unica luce de' giorni miei? gli affetti ch'io perdei nella novella età ? Se al ciel, s'ai verdi margini, ovunque il guardo mira, tutto un dolor mi spira, tutto un piacer mi dà. Meco ritorna a vivere la piaggia, il bosco, il monte; parla al mio core il fonte, meco favella il mar. Chi mi ridona il piangere dopo cotanto obblio ?

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75. l'aprile: la giovinezza. 77-8. quql'ineffabili gionri: quei beati giorni della gioventù. 81-2. immnnore quiete: quiete smemorante, che ha tenuto il poeta nell'oblio per tanto tempo. 86. error beato: le beate illusioni. 89-90. quell'unica .•. miei: l'unica consolazione della mia vita (che già perduta oggi ritorna). 92. nOtJella etd: la giovinezza. 93. margini: usato in senso traslato per piogge, località. Cfr. le Annotazioni alle dieci Canzoni, a pp. 212-3. 98. piaggia: nel senso di •distesa•, •pianura•. 102. obblio: lo stesso stato d'animo che ha chiamato prima duro .•. sopor (v. 64) e immemore quiete (vv. 81-2), ossia stato di sopore, insensibilità.

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e come al guardo mio cangiato il mondo appar? Forse la speme, o povero mio cor, ti volse un riso? Ahi della speme il viso io non vedrò mai più. Proprii mi diede i palpiti, natura, e i dolci inganni. Sopiro in me gli affanni l'ingenita virtù; non l'annullar: non vinse la il fato e la sventura; non con la vista impura l'infausta verità. Dalle mie vaghe immagini so ben eh' ella discorda: so che natura è sorda, che miserar non sa. Che non del ben sollecita fu, ma dell'esser solo: purché ci serbi al duolo, or d'altro a lei non cal. So che pietà fra gli uomini il misero non trova; che lui, fuggendo, a prova schernisce ogni mortai.

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107-8. Ahi . .. più: sono bensl ritornati i soavi affetti e palpiti, ma non ch'essi abbiano alcun contenuto, perché la speranza resta pur sempre un'illusione. 109-12. Proprii ••. virtù: la natura infuse in me, come inerenti alla mia particolare indole, la facoltà emotiva e quella d'illudermi, mn gli affanni sopirono quella virtù naturale. 115. la vista impura: l'aspetto turpe, tetro. 118. ~lla: l'infausta veritd. 120. miserar: aver pietà, commiserare. 121-2. Che non • .. solo: che la nature non si curò del nostro bene, ma solo della nostra esistenza, cioè di metterci al mondo. 124. cal: importa. 127-8. che lui ••. mortal: che da lui rifuggendo, a prova (a gara) tutti lo disprezzano.

IL RISORGIMENTO

Che ignora il tristo secolo gl'ingegni e le virtudi; che manca ai degni studi l'ignuda gloria ancor. E voi, pupille tremule, . . voi, raggio sovrumano, so che splendete invano, che in voi non brilla amor. Nessuno ignoto ed intimo affetto in voi non brilla: non chiude una favilla quel bianco petto in sé. Anzi d'altrui le tenere cure suol porre in gioco; e d'un celeste foco disprezzo è la mercé. Pur sento in me rivivere gl'inganni aperti e noti; e de' suoi proprii moti si maraviglia il sen. Da te, mio cor, quest'ultimo spirto, e l'ardor natio, ogni conforto mio solo da te mi vien.

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Mancano, il sento, a1l'anima alta, gentile e pura,

129. tristo secolo: questo brutto mondo.

132. l'ign11da gloria: cioè, persino la gloria sprovvista di qualsiasi concreto vantaggio. 134. raggio so-

vrumano: quello dello sguardo femminile. 137. ignoto ed intimo: occulto e gelosamente custodito. 142. cure: attenzioni (dell'amante). 144. mercé: ricompensa. 146. gl,inganni . .• noti: le illusioni, per quanto ormai rivelatesi tali. 149-50. ultimo spirto: estrema vitalità. 150. natio: congenito, naturale. 152. da te: da te, o cuore.

CANTI

la sorte, la natura, il mondo e la beltà. Ma se tu vivi, o misero, se non concedi al fato, non chiamerò spietato chi lo spirar mi dà.

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15 5-6. la sorte ... beltd: il fato (infelice), la natura (matrigna), la società (che disconosce il merito), e la bellezza (che irride all'amore), di cui il poeta ha parlato nei vv. 113-44. 158. ,e .. . fato: cioè ae non muori, inteso in senso figurato, ossia non ritorni al precedente stato d'insensibilità. 160. chi ..• dd: il cielo, come spiega una nota in margine all'autografo, che mi concede il respiro.

XXI

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi? Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intenta sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno. Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d'in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce,

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Composto a Pisa il 19-20 aprile 1828 e stampato la prima volta nelredizione fiorentina dei Canti del 183 1. Per la formazione di questa poesia cfr., a p. 324, il frammento Il canto dellafanciulla, nonché, più avanti, gli Appunti e ricordi per il romanzo autobiografico. La Silvia del canto adombra Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta tisica nel 1818. - 1-6. Silvia .•. salivi: il poeta si rivolge alla fanciulla, morta dieci anni innanzi, come se essa potesse ancora rammentare la sua vita mortale, e in particolare il tempo in cui s'era schiusa alla giovinezza. 4. fuggitivi: sfuggenti per nativa ingenuità e timidezza, e perciò più incantevoli. s. il limitare: la soglia. 11. assai contenta: abbastanza contenta, cioè soddisfatta, paga (cfr. La vita solitaria, v. 106, a p. 69). 12. f.Jago unisce qui all'idea di indeterminatezza quella di sogno e di felicità. 15.g/i studi leggiadri: gli studi letterari. 16. le sudate carte: le carte faticosamente elaborate per tali studi. 17. il tempo mio primo: la giovinezza. 19. paterno ostello: casa patema.

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CANTI

ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai non dice quel ch'io sentiva in seno. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato, e tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi ? Tu pria che I' erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome,

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:u-z. alla man . •. tela: cioè al rumore del telaio che la mano veloce percorreva. 24. dorate: indorate dal sole. z5. quinci . .. e quindi: di qui ... e di là. 29. che cori: che cuori, ossia che affetti, quali palpiti dei nostri cuori. 33. un • .. preme: mi opprime un sentimento, una commozione. 35. e tornami: usato in senso impersonale, cioè: si rinnova in me il dolore della mia attuale sventura. 37. non rendi: non mantieni. 40. Tu ... vnno: prima che finisse l'autunno, stagione in cui mori la Fattorini. Il verso contiene anche un 'allusione alla fine prematura della fanciulla. 41. chiuso morbo: malattia nascosta, e misteriosa, come la tisi. 42. tenerella: fanciulla ancora in boccio; E non vedevi: non hai cosi potuto vedere. 43. il fior degli anni tuoi: la giovinezza. 44. non ••. core: n~ ha potuto intenerire, addolcire il tuo cuore.

A SILVIA

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or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d'amore. Anche peria fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negiro i fati la giovanezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dcli' età mia nova, mia lacrimata speme! Questo è quel mondo ? questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme? questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano.

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47-8. nl teco •. . d'amore: né le compagne nei dl festivi hanno potuto conversare con te di cose d'amore. 49. fra poco: poco dopo. 50. la speranza mia dolce: le illusioni della gioventù. 51-2. ancl,e ... giooanezza: nel senso che pure nel poeta morirono presto le illusioni della giovinezza, lasciando posto a una triste indifferenza e a un contratto dolore. 54. cara compagna: la speranza di cui ha parlato sopra, quasi personificata in Silvia; ~,d mia nooa: la giovinezza. 58. insimr~: cioè con la speranza. 61-3. tu, mi1n-a .•• lontano: tu, o speranza, cadesti al rivelarsi della sola realtà della vita, che è vana e che si concreta nella morte. Da notare negli ultimi versi un implicito simbolismo che presta all'astratta speranza l'immagine di Silvia e prefigura nel destino di questa il destino del poeta e il destino umano in genere. 63. di lontano: dalle lontananze del ricordo.

XXII

LE RICORDANZE

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi sul paterno giardino scintillanti, e ragionar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole creo mmi nel pensier l'aspetto vostro e delle luci a voi compagne! allora che, tacito, seduto in verde zolla, delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo, ed ascoltando il canto della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi e in su l'aiuole, susurrando al vento i viali odorati, ed i cipressi là nella selva; e sotto al patrio tetto sonavan voci alterne, e le tranquille opre de' servi. E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro, e che varcare un giorno

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Composto a Recanati fra il 26 agosto e il 12 settembre 1829. Comparve la prima volta nell'edizione fiorentina dei Canti del 1831. Ispirato da un ritorno alla casa patema dopo una lunga assenza e dall'onda dei ricordi che questo gli ha suscitato. - 1. dell'Orsa: dell'Orsa maggiore. 2. per uso: com'era sua abitudine da fanciullo. 5. albergo: dimora, casa. 6. e delle .•. fine: fu a Recanati infatti che si chiuse per lui il periodo dei dolci errori della giovinezza e si aperse quello commemorato nel Risorgimento (vedi a pp. 86 sgg.) d'indifferenza del cuore e d'inaridimento della fantasia. 7. fole: fantasie. 8. l'aspetto: la vista. 9. luci a voi compagne: le stelle delle altre costellazioni. 13. rimota alla campagna: lontana nei campi. 14. appo: presso. 15. msu"ando: mentre susurravano (gerundio assoluto). 17. patrio tetto: paterno tetto. 18. voci alterne: frasi alternate di dialoghi familiari. 20. mi spirò: mi ispirò.

LE RICORDANZE

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io mi pensava, arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio! ignaro del mio fato, e quante volte questa mia vita dolorosa e nuda volentier con la morte avrei cangiato. Né mi diceva il cor che l'età verde sarei dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio, intra una gente zotica, vii; cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo, son dottrina e saper; che m'odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori a persona giammai non ne fo segno. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, senz'amor, senza vita; ed aspro a forza tra lo stuol de' malevoli divengo: qui di pietà mi spoglio e di virtudi, e sprezzator degli uomini mi rendo, per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola il caro tempo giovanil; più caro che la fama e l'allor, più che la pura luce del giorno, e lo spirar: ti perdo senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano, intra gli affanni, o dell'arida vita unico fiore.

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24. fingendo: da •fingere•• crearsi nella mente, immaginare. Per questo senso del verbo •fingere• cfr. L'infinito, v. 7 (a p. 58), e vedi Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. 213. 25. e quante volte: e di quante volte. 29. dannato: condannato. 30. natio borgo selvaggio: Recanati. 31. vii: di poco valore; strani: nuovi, stravaganti. 34-5. che non ••• di sé: giacché non mi ritiene a lei superiore. 38. occulto: ignorato. 39. aspro a forza: costretto a rudezza e scortesia. 40. lo stuol de' malevoli: i miei concittadini. 41. qui ••. virtudi: mi spoglio d'ogni compassione per i miei simili e dei buoni e nobili sentimenti. 43. la greggia: sempre i miei concittadini. 45. l'allor: la gloria poetica. 46. spirar: respirare, vivere. 7

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CANTI

Viene il vento recando il suon dell •ora dalla torre del borgo. Era conforto questo suon, mi rimembra, alle mie notti, quando fanciullo, nella buia stanza, per assidui terrori io vigilava, sospirando il mattin. Qui non è cosa ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per sé; ma con dolor sottentra il pensier del presente, un van desio del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. Quella loggia colà, vòlta agli estremi raggi del dì; queste dipinte mura, quei figurati armenti, e il Sol che nasce su romita campagna, agli ozi miei porser mille diletti allor che al fianco m'era, parlando, il mio possente errore sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche, al chiaror delle nevi, intorno a queste ampie finestre sibilando il vento, rimbombàro i sollazzi e le festose mie voci al tempo che l'acerbo, indegno mistero delle cose a noi si mostra pien di dolcezza; indelibata, intera il garzoncel, come inesperto amante,

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torre del borgo: verosimilmente la torre della piazza principale di Recanati. 51-5. Era conforto ••. mattin: vedi Zibaldone 36, 1: • Sento dal mio letto suonare (battere) l'orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio•· 58. Dolce per s,: dolce in se stessa; sottentra: subentra. 60. ancor truto: anche se triste; e il dire: io fui: esprime insieme l'angoscia del passato che più non ritorna e l'opposizione dell'io giovanile, ricco di intensa vita sentimentale, con l'io attuale spento alle care illusioni. 624. dipinte ••. campagna: allusione alle pareti istoriate e ad altri dipinti esistenti in casa Leopardi. Cfr., in questo volume, il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica. 66. il mio ••• errore: l'immaginazione, creatrice di tante illusioni. 67-73. In queste ••• dolcezza: è una visione di giochi infantili nel palazzo Leopardi, durante il periodo invernale. 73. indelibata, intera: non ancora gustata, ancora intatta.

LE RICORDANZE

la sua vita ingannevole vagheggia, e celeste beltà fingendo ammira. O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! sempre, parlando, ritorno a voi; che per andar di tempo, per variar d'affetti e di pensieri, obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, son la gloria e l'onor; diletti e beni mero desio; non ha la vita un frutto, inutile miseria. E sebben vòti son gli anni miei, sebben deserto, oscuro il mio stato mortai, poco mi toglie la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta a voi ripenso, o mie speranze antiche, ed a quel caro immaginar mio primo; indi riguardo il viver mio sì vile e sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m'avanza; sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte sarammi allato, e sarà giunto il fine della sventura mia; quando la terra mi fia straniera valle, e dal mio sguardo fuggirà l'avvenir; di voi per certo

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75-6. la sua .•• ammira: anticipa nel desiderio la vita che lo deluderà più tardi, e ammira una celeste beltà che si costruisce nella fantasia. 76.fmge11do: anche qui il verbo •fingere• è preso nel suo senso di i foggiare» (vedi nota al v. 24). 78-9. sempre ••• a voi: il mio discorso fatalmente ricade sempre su di voi. 81. intendo: so bene, ne ho ben coscienza. 84. inutile miseria: attributo di la vita. 86-7. poco ... fortuna: poiché anche i beni della vita non valgono nulla, poco mi toglie la fortuna privandomene. 87. qualvolta: ogniqualvolta. 90. indi: di poi; riguardo: considero. 93. al tutto: del tutto, interamente. 94. consolanni .•. destino: in contrasto con la ragione, il sentimento del poeta si ribella al suo triste destino. 97-8. quando . •. valle: quando, in punto di morte, guarderò alla terra come a un paese a me estraneo. 98-9. dal mio •.• l'af.Jf.Jmir: non vi sarà più futuro davanti ai miei occhi. 99. di voi per certo: sottinteso o mie speranze antiche.

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CANTI

risovverrammi; e quell'imago ancora sospirar mi farà, farammi acerbo r esser vissuto indarno, e la dolcezza del dì fatai tempererà d'affanno. E già nel primo giovanil tumulto di contenti, d'angosce e di desio, morte chiamai più volte, e lungamente mi sedetti colà su la fontana pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso sul conscio letto, dolorosamente alla fioca lucerna poetando, lamentai co' silenzi e con la notte il fuggitivo spirto, ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto. Chi rimembrar vi può senza sospiri, o primo entrar di giovinezza, o giorni vezzosi, inenarrabili, allor quando al rapito mortai primieramente sorridon le donzelle; a gara intorno

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100-2. qu~ll'imago • .. indarno: la vostra immagine ... mi farà acerbamen-

te conscio d'essere vissuto invano. 102-3. ~ la dolcezza .•. affanno: e mescolerà d'affanno la dolcezza del morire. 104. giovani/ tumulto: giovanile empito di sentimenti contrastanti. 105. di conter,ti: di gioie. 107. colà: nel giardino di cui parla sopra. Vedi Zibaldone, 82, 2: • lo era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino•. 108. cessar: far cessare. 109-10. per cieco n,alor: per occulta misteriosa malattia. 1 1 o. della .. . forse: in pericolo di vita. 114. conscio letto: testimone delle sue sofferenze di malato. 116-17. lamentai . .. spirto: affidai al silenzio notturno il lamento per il mio spirito prossimo n spegnersi. 1 18. in sul languir: sentendomi mancare le forze vitali; / unereo canto: allude alla cantica Appressammto della morte, composta nel 1816. Vedi a pp. 256 sgg. 120. o primo . .. giovinezza: l'inizio della giovinezza. 121. vezzosi: lusinghieri.

LE RICORDANZE

ogni cosa sorride; invidia tace, non desta ancora ovver benigna; e quasi (inusitata maraviglia!) il mondo la destra soccorrevole gli porge, scusa gli errori suoi, festeggia il novo suo venir nella vita, ed inchinando mostra che per signor l'accolga e chiami? Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo son dileguati. E qual mortale ignaro di sventura esser può, se a lui già scorsa quella vaga stagion, se il suo buon tempo, se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? O Nerina! e di te forse non odo questi luoghi parlar? caduta forse dal mio pensier sei tu ? Dove sei gita, che qui sola di te la ricordanza trovo, dolcezza mia? Più non ti vede questa Terra natal: quella finestra, ond'eri usata favellarmi, ed onde mesto riluce delle stelle il raggio, è deserta. Ove sei, che più non odo la tua voce sonar, siccome un giorno, quando soleva ogni lontano accento del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto scolorarmi ? Altro tempo. I giorni tuoi f uro, mio dolce amor. Passasti. Ad altri il passar per la terra oggi è sortito, e l'abitar questi odorati colli.

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125. ovvn- benigna: ovvero innocua, non cattiva. 129. inchinando: inchinandosi a lui. 1 3 1. a somigliar d'un lampo: ol pari d'un lampo. 132-5. E •.• spenta: non vi è mortale che possa dire di non conoscere la sventura ove abbia persa la giovinezza. Cfr., in questo volume, Pmsim, XLII. 136. N~n·na: i biografi del Leopardi, nel cercar d'individuare l'ispiratrice di questa figura poetica, oscillano tra l'identificarla con la Teresa Fattorini di A Silvia o con una Maria Belardinelli, di famiglia contadina, morta anch'essa giovane. 138. gita: andata. 142-3. ed onde ••• riluce: e da cui si riflette. 148. Altro tempo: tempo ormai trascorso per sempre. 149-50. Passasti • •• sortito: tu hai già compiuto il viaggio terreno, che oggi è dato in sorte ad altri.

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CANTI

Ma rapida passasti; e come un sogno fu la tua vita. I vi danzando; in fronte la gioia ti splendea, splendea negli occhi quel confidente immaginar, quel lume di gioventù, quando spegneali il fato, e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna l'antico amor. Se a feste anco talvolta, se a radunanze io movo, infra me stesso dico: o Nerina, a radunanze, a feste tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento, dico: Nerina or più non gode; i campi, l'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno sospiro mio: passasti: e fia compagna d'ogni mio vago immaginar, di tutti i miei teneri sensi, i tristi e cari moti del cor, la rimembranza acerba.

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152. Ma rapidaptustuti: ma la tua vita fu breve. 153. lvi danzando: incedevi come danzando. 155. quel ••• immaginar: quelrirnmaginazione fiduciosa nell'avvenire. 157. giacftli: morivi. 158. anco: ancora. 160. a radunanze: a ritrovi di divertimenti. 162. ramoscelli e suoni: rami fioriti e canti. Allude alle feste di calendimaggio ancora in uso nelle Marche. 167. piaggia: luogo, lido. 169-70. eterno sospiro mio: eterna cagione di rimpianto. 170-3. e fia compagna • •• acerba: e il doloroso ricordo sarà compagno di ogni mia immaginazione e di ogni senso e moto del mio cuore.

XXIII

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL• ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

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Composto a Recanati fra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830 e pubblicato per la prima volta nell'edizione fiorentina dei Canti del 1831. Circa l'ispirazione di questo canto vedi Note ai Canti. a p. 180. - 2. silenziosa luna: cfr. Virgilio, A m. • 11, 25 s : « tacitae pn- amica silentia luna e». 4. i deserti: le lande desolate; ti posi: tramonti. 6. i sempiterni calli: le eterne vie del cielo. 7. a schivo: a noia. 12. oltre: innanzi. 16. vale: giova. 18. a voi: a voi, corpi celesti. 25. ed alta rma, e fratte: sabbia dove il piede sprofonda e macchie di pruni.

CANTI

al vento, alla tempesta, e quando avvampa l'ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s'affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch'arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov'ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale. Nasce l'uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene, l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell'umano stato: altro ufficio più grato non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole,

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26-7. e quando af.)f}ampa ... gela: sotto il solleone meridiano e al gelo della notte. 28. anela: ansima. 30. e più e più s• affretta: cfr. • la stanca vecchiarella pellegrina» del Petrarca (Rime, L, 5-6) la quale• raddoppia i passi, e più e più s'affretta». 34./u oòlto: fu rivolto, indirizzato. 35. abisso ... immenso: la morte. 37. V ergine luna: pura e solitaria in ciclo, alta sulle cose umane. 40. ed è ... nascimento: cfr. Zibaldone, 68, 3: • Il nascere istesso dell'uomo, cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere•. 44. il prende ••. nato: allude al pianto del bambino appena nato che i genitori consolano. 46. il sostiene: lo incoraggiano e sorreggono. 52. dare al sole: dare alla luce.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE

perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortai non sei, e forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir dalla terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l'ardore, e che procacci il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. Spesso quand'io ti miro

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53. reggere in vita: mantenere in vita. 56. da noi n dura: si continua, da parte nostra, a sopportarla. 57. Intatta luna: ripete il concetto del v. 37: Vergine luna. 61. Pur: eppure; peregrina: viaggiatrice. 62. che ripensosa sei: in quanto sembra pensosamente contemplare il paesaggio terrestre. 64. che sia: che cosa sia. 66. scolorar del sembiante: il pallore della morte. 67. perir dalla terra: scomparire dalla terra. 68. usata, amante compagnia: la compagnia dei nostri cari. 70- 1. il frutto •.• sera: lo scopo, il fine dcli 'alternarsi del giorno e della notte. 73-6. Tu sai . .• ghiacci: tu conosci certamente il perché dell'avvicendarsi delle varie stagioni. 75. che procacci: quale scopo abbia. 77. discopri: la luna col suo lume sembra indagare sulle cose wnane e della natura.

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CANTI

star così muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Cosl meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell'innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d'ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai I Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno quasi libera vai;

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80. tkserto piano: la pianura deserta. 81. giro lontano: l'estremo orizzonte. 86. a che: a quale scopo; facelle: fiaccole, luci. 90-1. e tklla ..• mperba: l'universo. 92. dell'innumerabile famiglia: di tutte le cose che hanno esistenza. 93. adoprar: affaccendarsi. 95. girando: vale• girante•· 96. per . •. mosse: compiendo l'eterno ciclo dell'essere. 101. eterni giri: i giri degli astri. 102. tkll' essa mio frale: della mia fragile esistenza. 103. contento: contentezza, gioia. 105. che posi: che riposi.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE

ch'ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, tu se' queta e contenta; e gran parte dell'anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l' erbe, ali' ombra, e un fastidio m'ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge sì che, sedendo, più che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: dimmi: perché giacendo a bell' agio, ozioso, s'appaga ogni animale; me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s'avess'io l'ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero,

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111. estrnno timor: timore anche massimo. 113. nedi: giaca. 118. un /astidio: una preoccupazione. 121. loco: requie. 126. Ed io .•• poco: ed io per giunta godo poco. In una delle Note ai Canti (a p. 180) il Leopardi

costruisce invece: 11 ancor io provo pochi piaceri•, dove sembra intendere che anche il poeta, al pari della greggia, fruisce di scarse gioie. 131. s' appaga: è soddisfatto, è pago. 135. noverar: contare. 136. di gi.ogo in giogo: di vetta in vetta. 139. erra dal ano: ai discosta dal vero.

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mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale.

141-2.. in qual forma ..• stato: in qualsivoglia forma o stato. tro covik o cuna: sia gli animali aia gli uomini.

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LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno rompe là da ponente, alla montagna; sgombrasi la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato risorge il romorio torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, con I' opra in man, cantando, fassi in su l'uscio; a prova vien fuor la femminetta a cor dell'acqua della novella piova; e l'erbaiuol rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride per li poggi e le ville. Apre i balconi, apre terrazzi e logge la famiglia: e, dalla via corrente, odi lontano tintinnio di sonagli; il carro stride del passeggier che il suo cammin ripiglia.

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Composto a Recanati fra il 17 e il 20 settembre 1829. Pubblicato la prima volta nell'edizione fiorentina dei Canti del 1831. - 5. rompe: erompe, appare tra le nubi squarciate. 6. sgombrasi la campagna: dall'incombere della nuvolaglia piovosa. 7. e chiaro . .• appare: per la particolare brillantezza de Il 'aria subito dopo il temporale. 9. risorge il romorio: riprendono i rumori della vita ordinaria. 12. con l'opra in man: con in mano lo strumento o l'oggetto del suo lavoro. 13. a prova: a gara. 16. erbaiuol: erbivendolo. 21. la famiglia: i familiari che, a quei tempi, comprendevano, nelle case nobili, la numerosa servitù. 22. via co"ente: strada maestra.

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Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita quand'è, com'or, la vita? quando con tanto amore l'uomo a' suoi studi intende? o torna ali' opre? o cosa nova imprende ? quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; gioia vana, ch,è frutto del passato timore, onde si scosse e paventò la morte chi la vita abborria; onde in lungo tormento, fredde, tacite, smorte, sudar le genti e palpitar, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento. O natura cortese, son questi i doni tuoi, questi i diletti sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta

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25. Si rallegra ogni core: cfr. v. 8: Ogni corsi. rallegra. 29. studi: occupazioni. 30. opre: lavori abitudinari, in opposizione a cosa nova. 324. Piacer ... timore: apposizione agli interrogativi precedenti, ed esprime il concetto che trattasi di un piacere avente carattere negativo, in quanto consisterebbe unicamente nella cessazione del passato timore. 34. onde si scosse: per cui si conturbò. 36. chi . •. abborria: persino chi prima aborriva la vita. 37. onde: per cui. 40. mosn • .. offese: scatenati contro di noi. 42. O natura cortese: detto ironicamente. 45-6. Uscir ••. noi: cfr., nelle Operette morali, il Dialogo di Federi_co Ruysc/1 e delle sue mummie: • la cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per se medesima•· 47-50. il duolo .•• guadagno: il dolore sorge spontaneamente, e il poco piacere che nasce per prodigio (mostro), e miracolo, dalla cessazione del dolore, è già per l'uomo una fortuna.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana prole cara agli eterni! assai felice se respirar ti lice d'alcun dolor: beata se te d'ogni dolor morte risana.

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50-1. Umana •.• eterni!: detto ironicamente. sz-3. ,e respirar •• • dolor: se ti è lecito aver respiro, sollievo da qualche dolore.

xxv IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dell'erba; e reca in mano un mazzolin di rose e di viole, onde, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine su la scala a filar la vecchierella, incontro là dove si perde il giorno; e novellando vien del suo buon tempo, quando ai dì della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella solea danzar la sera intra di quei ch'ebbe compagni dell'età più bella. Già tutta l'aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre giù da' colli e da' tetti, al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno della festa che viene; ed a quel suon diresti che il cor si riconforta. I fanciulli gridando su la piazzuola in frotta,

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Composto negli ultimi giorni del settembre 1829 a Recanati (e più precisamente finito il 29 settembre). Pubblicato la prima volta nell,edizione fiorentina dei Canti del 1831. - I. La donzelletta: parola di sapore arcadico per« giovinetta 11, 11 contadinella». 4-7. un mazzo/in ... il petto e il crine: cfr. La poesia del Filicaia: cc Cosi di rose e viole/ ogni donzella il seno e il crin s'adorna». 10. incontro •.. giorno: rivolta verso l'occaso, dove il sole tramonta. Cfr. Niccolò Forteguerri, Ricciardetto, xiv, 109: «Volta coJà dove si muore il giorno•· 11. novellando: raccontando. 14. in tra di quei.: fra coloro. 17-9. torna az%urro ••• luna: il sereno, cioè il cielo, dopo il chiarore del sole tramontante, torna azzurro, e tornano le ombre con l'apparire della luna recente, cioè sorta da poco. ao. squilla: campana.

IL SABATO DEL VILLAGGIO

e qua e là saltando, fanno un lieto romore: e intanto riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore, e seco pensa al dì del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l'altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s'affretta, e s'adopra di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba. Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l' ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è come un giorno d'allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa ch'anco tardi a,venir non ti sia grave.

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28. riede: ritorna. 30. e seco pensa: pensa tra sé e sé. 32. e tutto .•. tace: tutto, tranne, come dirà in appresso, il martello e la sega del falegname. 37. di fornir: a finire; anzi il: prima del. 40-2. diman •.• ritorno: domani, cioè la domenica, la festa tanto desiderata si rivelerà piena di noia e di tristezza, tanto da spingere la mente a rifugiarsi nel pensiero del lavoro usato. 43. Gar:roncello: fanciullo, termine di derivazione arcadica, al pari di don:relletta. 44. cotesta etd fiorita: la fanciullezza. 47. festa ••• vita: la giovinezza. 49. stagion .•• cotesta: la fanciullezza. 50-1. Altro dirti ••• grave: altro non ti dirò per non rattristarti: non ti dirò quale delusione sia la vita, ma non ti sia fastidioso che la gioventù tardi a venire e che tu debba indugiare nella soave fanciullezza. 8

XXVI

IL PENSIERO DOMINANTE

Dolcissimo, possente dominator di mia profonda mente; terribile, ma caro dono del ciel; consorte ai lùgubri miei giorni, pensier che innanzi a me sì spesso torni. Di tua natura arcana chi non favella? il suo poter fra noi chi non sentì? Pur sempre che in dir gli effetti suoi le umane lingue il sentir proprio sprona, par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona. Come solinga è fatta la mente mia d'allora che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto d'intorno intorno al par del lampo gli altri pensieri miei tutti si dileguir. Siccome torre in solitario campo, tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

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Composto a Firenze verso la primavera-estate del 1831 e pubblicato nell'edizione napoletana del 1835. Questo canto, come i tre che seguono, venne ispirato al Leopardi dall'amore per la signora Fanny Targioni-Tozzetti. - 2. dominator •• • mente: il pensiero amoroso che perennemente occupa il profondo dell'anima del poeta. 4. consorte: compagno inseparabile. 8 sgg. il suo poter ecc.: il passaggio dalla seconda alla terza persona viene spiegato dal più dei commentatori nel senso che il poeta, per un istante, cessa dal rivolgersi al cr pensiero dominante• e s'indirizza invece ai suoi lettori, per narrarne la potenza e gli effetti. Secondo il Flora, il suo, come i suoi del successivo v. 10, si riferirebbero invece a natura arcana del v. 7, e il cid del v. 12 al sentir proprio del verso precedente. Ma sembra spiegazione meno naturale. 9-12. Pur sempre • •• ragiona: nondimeno, ogni volta che il sentimento di ciascuno (il sentir proprio) sprona la umana lingua a narrare gli effetti suoi (del pensiero d'amore, cioè dell'amore stesso), quanto esso esprime par nuovo a chi l'ascolta. 13. solinga: spopolata di ogni altro pensiero, come dice appresso. 16. Ratto: rapidamente. 20. a lei: alla mente.

IL PENSIERO DOMINANTE

Che divenute son, fuor di te solo, tutte l' opre terrene, tutta intera la vita al guardo mio 1 Che intollerabil noia gli ozi, i commerci usati, e di vano piacer la vana spene, allato a quella gioia, gioia celeste che da te mi viene 1 Come da' nudi sassi dello scabro Apennino a un campo verde che lontan sorrida volge gli occhi bramoso il pellegrino ; tal io dal secco ed aspro mondano conversar vogliosamente, quasi in lieto giardino, a te ritorno, e ristora i miei sensi il tuo soggiorno.

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Quasi incredibil panni che la vita infelice e il mondo sciocco già per gran tempo assai senza te sopportai; quasi intender non posso come d'altri desiri, fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri. Giammai d'allor che in pria questa vita che sia per prova intesi, timor di morte non mi strinse il petto. Oggi mi pare un gioco quella che il mondo inetto,

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25. gli ozi . •• usati: le dilettose occupazioni letterarie e le abituali compagnie. 26. e di .•. spene: la speranzosa ricerca dei piaceri, vana al pari di questi. 33-4. secco ••• conversar: i rapporti mondani, che sembrano ora al poeta aridi e urtanti. 36. il tuo soggiorno: lo stare con te, mio pensiero. 42-3. come ••• sospiri: come altri possa sospirare per desideri da te dissimili. 44. in pria: per la prima volta. 45. per prova: per esperienza fatta.

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CANTI

talor lodando, ognora abborre e trema, necessi tade estrema; e se periglio appar, con un sorriso le sue minacce a contemplar m'affiso. Sempre i codardi, e l'alme ingenerose, abbiette ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno subito i sensi miei; move l'alma ogni esempio dell'umana viltà subito a sdegno. Di questa età superba, che di vòte speranze si nutrica, vaga di ciance, e di virtù nemica; stolta, che l'util chiede, e inutile la vita quindi più sempre divenir non vede; maggior mi sento. A scherno ho gli umani giudizi; e il vario volgo a' bei pensieri infesto, e degno tuo disprezzator, calpesto. A quello onde tu movi, quale affetto non cede? anzi qual altro affetto se non quell'uno intra i mortali ha sede? Avarizia, superbia, odio, disdegno, studio d'onor, di regno, che sono altro che voglie al paragon di lui ? Solo un affetto

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50. necessitade estrema: la morte. 52. a contemplar m'alfiso: mi fisso a contemplare, cioè contemplo ad occhio fermo. 59. età superba: età stoltamente orgogliosa. Cfr. La ginestra o il fiore del deserto, v. 53, a p. I 55, « secol superbo e sciocco». 62-4. stolta ••• vede: non avvedendosi che l'affannoso procacciamento dell'utile rende la vita sempre più inutile. 67. infesto: nemico. 68. e degno tuo disprezzator: e pertanto naturalmente tuo spregiatore. 69. A quello ••• movi: all'affetto che ti suscita. 74. studio d'onor: desiderio d'onore. 75. voglie; capricciose e basse passioni.

IL PENSIERO DOMINANTE

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vive tra noi: quest'uno, prepotente signore, dieder l' eterne leggi all'uman core. Pregio non ha, non ha ragion la vita se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto; sola discolpa al fato, che noi mortali in terra pose a tanto patir senz'altro frutto; solo per cui talvolta, non alla gente stolta, al cor non vile la vita della morte è più gentile. Per cor le gioie tue, dolce pensiero, provar gli umani affanni, e sostener molt'anni questa vita 1nortal, fu non indegno; ed ancor tornerei, così qual son de' nostri mali esperto, verso un tal segno a incominciare il corso: che tra le sabbie e tra il vipereo morso, giammai finor sì stanco per lo mortai deserto non venni a te, che queste nostre pene vincer non mi paresse un tanto bene. Che mondo mai, che nova immensità, che paradiso è quello là dove spesso il tuo stupendo incanto parmi innalzar! dov'io,

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77. qr1est 1uno: questo solo, cioè l'amore. 81. pt!r' lui: per quell'affetto di cui sopra. 82.-4. sola ••• patir: unica scusa al destino per le sofferenze che ci infligge. 85. solo: riferito sempre a lui del v. 81. 86. al cor non vile: sottinteso •ma• al cor ecc. 88. cor: corre, cogliere. 91. fu non indegno: fu cosa degna (sottinteso • per me•). 94. Vff'SO ••• corso: verso una tale meta a ricominciare il corso della. vita. 95. che • •. morso: raffigura immaginosamente i mali della vita, definita due versi dopo come un mortai deserto. 103. panni innal::8ar: sembra che mi innalzi.

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CANTI

sott'altra luce che l'usata errando, il mio terreno stato e tutto quanto il ver pongo in obblio I Tali son, credo, i sogni degl'immortali. Ahi finalmente un sogno in molta parte onde s'abbella il vero sei tu, dolce pensiero; sogno e palese error. Ma di natura, infra i leggiadri errori, divina sei; perché si viva e forte, che incontro al ver tenacemente dura, e spesso al ver s'adegua, né si dilegua pria, che in grembo a morte. E tu per certo, o mio pensier, tu solo vitale ai giorni miei, cagion diletta d'infiniti affanni, meco sarai per morte a un tempo spento: ch'a vivi segni dentro l'alma io sento che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni solcami il vero aspetto più sempre infievolir. Quanto più torno a riveder colei della qual teco ragionando io vivo, cresce quel gran diletto, cresce quel gran delirio, ond'io respiro. Angelica beltadel

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106. il ver: la realtà. 108. degl'immortali: dei celesti, degli dèi. 108-10. Ahi finalmente •.. pensiero: ahimè, in definitiva non sei, in massima parte, che un sogno di cui la verità si abbellisce. 111. e"or: illusione. 1116. Ma di natura ••. morte: errore di natura divina, perché tenace a resistere alla realtà, e tale che spesso s'adegua al vero confondendosi con esso e perdurando fino alla morte. 117-8. tu solo • •• miei: tu che solo sei vivo e dài vita ai miei giorni. 120. a un tempo: contemporaneamente. 121. a vivi segni: per segni evidenti. 122. che ••. sei.: che per sempre mi sei dato quale signore. 123-5. Altri • •. injift)olir: il vero aspetto dell'oggetto amato soleva altra volta affievolire le mie illusioni amorose. 127. teco: con te (mio pensiero).

IL PENSIERO DOMINANTE

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Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, quasi una finta imago il tuo volto imitar. Tu sola fonte d'ogni altra leggiadria, sola vera beltà parmi che sia.

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Da che ti vidi pria, di qual mia seria cura ultimo obbietto non fosti tu? quanto del giorno è scorso, ch'io di te non pensassi? ai sogni miei la tua sovrana imago quante volte mancò? Bella qual sogno, angelica sembianza, nella terrena stanza, nell'alte vie dell'universo intero, che chiedo io mai, che spero altro che gli occhi tuoi veder più vago? altro più dolce aver che il tuo pensiero?

132. fi,ita inrago: finta, parola ambivalente che vuol significare tanto immagine riprodotta, quanto imitazione fallace, imperfetta. 133-5. Tt1 sola .•• sia: perché, come detto sopra, ogni altra bellezza non mi sembra che un tuo riAesso. 135. clie sia: che tu sia. 136. pria; primamente. 137. seria cura: intensa preoccupazione, forte sentimento; ultimo obbietto: scopo finale. 143. terrena stanza: la nostra dimora terrestre. 144. nell'alte • •• intero: nei remoti spazi, nell'infinità.

XXVII

AMORE E MORTE •·ov ol &eoi cplÀoùol", &n:o3-v~oxat "to,.

Muor giovane colui ch'al cielo è caro. MENANDRO

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall'uno il bene, nasce il piacer maggiore che per lo mar dell'essere si trova; l'altra ogni gran dolore, ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, dolce a veder, non quale la si dipinge la codarda gente, gode il fanciullo Amore accompagnar sovente; e sorvolano insiern la via mortale, primi conforti d'ogni saggio core. Né cor fu mai più saggio che percosso d'amor, né mai più forte sprezzò l'infausta vita, né per altro signore come per questo a perigliar fu pronto: ch'ove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, o si ridesta; e sapiente in opre,

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Composto a Firenze probabilmente nell'estate 1832 e pubblicato nell'edizione napoletana del 1835. Cfr. la lettera del 16 agosto 1832 alla signora Fanny Targioni-Tozzetti: • E pure certamente I •amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate•· - 1-2. a un . •• ingenerò: concepì insie1ne. 5. daLl',mo: dall'amore. 7, per lo mar dell 1essere: nella esistenza universale. Cfr. Dante, Par., 1, 112-3: • Onde si movono a diversi porti/ per lo gran mar dell'essere•. 8. l'altra: la Morte. 10. Bellissima fanciulla: la Morte, apposizione a l'altra. 12. la n dipinge: se la raffigura. 15. la via mortale: il cammino della vita. 18. che percosso d 1amor: che quando fu colpito dalramore. 21. a perigliar: ad affrontare pericoli.

AMORE E MORTE

non in pensiero invan, siccome suole, divien l'umana prole. Quando novellamente nasce nel cor profondo un amoroso affetto, languido e stanco insiem con esso in petto un desiderio di morir si sente : come, non so: ma tale d'amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura allor questo deserto: a sé la terra forse il mortale inabitabil fatta vede ornai senza quella nova, sola, infinita felicità che il suo pensier figura: ma per cagion di lei grave procella presentendo in suo cor, brama quiete, brama raccorsi in porto dinanzi al fier disio, che già, rugghiando, intorno intorno oscura. Poi, quando tutto avvolge la formidabil possa, e fulmina nel cor l'invitta cura, quante volte implorata con desiderio intenso, Morte, sei tu dall'affanoso amantel Quante la sera, e quante

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z5. non .•• im,an: non soltanto nelle intenzioni. z7. nooellQfflfflt•: primieramente. 32. come, non 10: la ragione di questo, non so. 35. questo deserlo: la vita mortale. 35-7. a ,, .•• omai: forse l'uomo pensa che la terra sia diventata a lui inabitabile. 39. figura: immagina. 40. ma ••• la: a cagione di questa immaginata felicità. 43-4. al fier •.• oscura: alla passione raffigurata come tempesta che rugge oscurando tutto attorno. 46. po11a: la potenza della passione (soggetto). 47. l'im,itta cura: rinvincibile tormento (soggetto). s1. Quante: sottinteso volt•.

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CANTI

abbandonando all'alba il corpo stanco, sé beato chiamò s'indi giammai non rilevasse il fianco, né tornasse a veder l'amara luce! E spesso al suon della funebre squilla, al canto che conduce la gente morta al sempiterno obblio, con più sospiri ardenti dall'imo petto invidiò colui che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe, l'uom della villa, ignaro d'ogni virtù che da saper deriva, fin la donzella timidetta e schiva, che già di morte al nome senti rizzar le chiome, osa alla tomba, alle funeree bende fermar lo sguardo di costanza pieno, osa ferro e veleno meditar lungamente, e nell'indotta mente la gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina d'amor la disciplina. Anco sovente, a tal venuto il gran travaglio interno che sostener noi può forza mortale, o cede il corpo frale ai terribili moti, e in questa forma

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52. abbandonando ... stanco: abbandonandosi al sonno in sul far dell'alba (dopo una notte insonne). 53-5. s'indi . •. luce: se mai più si ridestasse. 56. funebre squilla: campana a morto. 60. dall'imo petto: dal profondo petto. 61. tra gli spenti: tra i defunti. 62. negletta: umile, trascurata. 63. l'uom della villa: il contadino, il campagnolo. 63-4. ignaro •.. deriva: digiuno d'ogni studio e d'ogni dottrina. 65. schiva: ritrosa. 68. alle . •. bende: ai paramenti funebri, o, secondo alcuni commentatori, al velo che si pone sulle fanciulle morte. 70. ferro e veleno: mezzi per procurarsi la morte. 74-5. Tanto ••. disciplina: tanto la scuola d'amore rende Panimo incline alla morte. 76. a tal: a tnl punto. 78-9. o cede · ••. moti: o il corpo gracile non resiste alla tempesta della passione amorosa.

AMORE E MORTE

pel fraterno poter Morte prevale; o cosi sprona Amor là nel profondo, che da se stessi il villanello ignaro, la tenera donzella con la man violenta pongon le membra giovanili in terra. Ride ai lor casi il mondo, a cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici, agli animosi ingegni l'uno o l'altro di voi conceda il fato, dolci signori, amici all'umana famiglia, al cui poter nessun poter somiglia nell'immenso universo, e non l'avanza, se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni sempre onorata invoco, bella Morte, pietosa tu sola al mondo dei terreni affanni, se celebrata mai fosti da me, s'al tuo divino stato l'onte del volgo ingrato ricompensar tentai, non tardar più, t'inchina a disusati preghi, chiudi alla luce ornai questi occhi tristi, o dell'età reina.

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80. pel ••• poter: per la forza del proprio fratello Amore. 81. o cosi ••• profondo: o così piange e incalza Amore nel profondo (del cuore). 845. con la man ••• terra: si abbattono al suolo colpendosi con mano suicida. 86-7. Ride . •• consenta: augurio ironico alla maggior parte degli uomini, cui l'arido cuore non consentirà mai i tormenti né le gioie dell'amore. 100-3. se celebrata ••. tentai: se è vero che io ti ho spesso celebrata (nei miei versi) e ho tentato di compensare le offese inferte dalPingrato volgo alla tua divina natura. 105. a disusati preghi: insoliti, perché la morte non è avvezza a simili preghiere. 107. tkll'etd Teina: regina, o signora, del tempo.

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CANTI

Me certo troverai, qual si sia l'ora che tu' le penne al mio pregar dispieghi, erta la fronte, armato, e renitente al fato, la man che flagellando si colora nel mio sangue innocente non ricolmar di lode, non benedir, com'usa per antica viltà l'umana gente; ogni vana speranza onde consola sé coi fanciulli il mondo, ogni conforto stolto gittar da me; null'altro in alcun tempo sperar, se non te sola; solo aspettar sereno quel dì ch'io pieghi addormentato il volto nel tuo virgineo seno.

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109. che tu ..• dispieghi: che dispieghi il tuo volo per esaudire la mia preghiera. 110-1. armato ... fato: in armi, e in rivolta contro il destino, la natura. 112. la man: la mano del fato. IJ 4-5. non n·colmar ••• non benedir: dipendono da Me • •. troverai, e cosl gli altri infiniti nei versi seguenti. I 16. per antica ••• gente: allusione alle dottrine che predicano la rassegnazione di fronte ai mali inflitti dal destino. 117-9. ogni vana . •• stolto: le speranze d'una vita oltretomba. 118. , , coi fanciulli: comportandosi alla stregua di fanciulli.

XXVIII

A SE STESSO

Or poserai per sempre, stanco mio cor. Perì l'inganno estremo, eh' eterno io mi credei. Perì. Ben sento, in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai palpitasti. Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T'acqueta ornai. Dispera l'ultima volta. Al gener nostro il fato non donò che il morire. 0mai disprezza te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera, e l'infinita vanità del tutto.

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Composto a Firenze prima del settembre 1833 e pubblicato nell'edizione napoletana del 1835. Si ritiene sia stato scritto dopo la ripulsa di Fanny Targioni-Tozzetti. In quel tempo Leopardi preparava altresl l'abbozzo dell'inno Ad Arimane (vedi a pp. 326-7). - 1. poserai: riposerai. 3. ch'eterno • .. credei: che io mi figuravo eterno (riferito a inganno). 4. in noi: in me e nel mio cuore. 8. i ,noti tuoi: di te, o mio cuore. 11-2. Dispera .•• volta: rinuncia per l'ultima volta ad ogni speranza. 13-6. Omai ... tutto: esorta il cuore a disprezzare se stesso, la natura, il principio del male che, nascosto, regge l'universo (cfr. il già citato abbozzo dell'inno Ad Arimane), e l'inutilità dello stesso intero universo. (Vedi la giovanile esclamazione in Zibaldo1", 69, 2: • Oh infinita vanità del vero!•.)

XXIX

ASPASIA

Torna dinanzi al mio pensier talora il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo per abitati lochi a me lampeggia in altri volti; o per deserti campi, al dì sereno, alle tacenti stelle, da soave armonia quasi ridesta, nelr alma a sgomentarsi ancor vicina quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno mia delizia ed erinni! E mai non sento mover profumo di fiorita piaggia, né di fiori olezzar vie cittadine, ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno che ne' vezzosi appartamenti accolta, tutti odorati de' novelli fiori di primavera, del color vestita della bruna viola, a me si offerse l'angelica tua forma, inchino il fianco sovra nitide pelli, e circonfusa d'arcana voluttà; quando tu, dotta allettatrice, fervidi sonanti baci scoccavi nelle curve labbra de' tuoi bambini, il niveo collo intanto

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Composto nella primavera del 1834 e pubblicato nell'edizione napoletana del 1835. È l'ultimo dei canti ispirati all'amore per Fanny Targioni Tozzetti. - 2. Aspasia: nome della celebre cortigiana d'Atene, amica di Pericle, la cui scelta svela, com 1 è chiaro, un'intenzione amaramente ironica verso la donna poco dianzi amata. 3-4. per abitati .. . volti: tra la gente mi balena fuggevolmente in altri volti; mi appare invece - dirà più innanzi - come una visione nella solitudine della campagna. 5. al dl ... stelle: di giorno e di notte. 10. mnni: furia tormentatrice. 11. mover: alitare, diffondersi; piaggia: luogo campestre. 14. ne' vezzosi ••. accolta: nel raccoglimento della propria abitazione. 18-9. inchino •.. pelli: col fianco inclinato su di un divano rivestito di lucide (nitide) pelli. 20-1. dotta alkttatrice: esperta nelle arti della seduzione. 23-4. il niveo .•. porgendo: protendendo il collo durante il bacio, quasi nell atto di porgerlo. 1

ASPASIA

porgendo, e lor di tue cagioni ignari con la man leggiadrissima stringevi al seno ascoso e desiato. Apparve novo ciel, nova terra, e quasi un raggio divino al pensier mio. Così nel fianco non punto inerme a viva forza impresse il tuo braccio lo stral, che poscia fitto ululando portai finch'a quel giorno si fu due volte ricondotto il sole. Raggio divino al mio pensiero apparve, donna, la tua beltà. Simile effetto fan la bellezza e i musicali accordi, ch'alto mistero d'ignorati Elisi paion sovente rivelar. Vagheggia il piagato morta! quindi la figlia della sua mente, l'amorosa idea, che gran parte d'Olimpo in sé racchiude, tutta al volto ai costumi alla favella pari alla donna che il rapito amante vagheggiare ed amar confuso estima. Or questa egli non già, ma quella, ancora nei corporali amplessi, inchina ed ama. Al fin l'errore e gli scambiati oggetti conoscendo, s'adira; e spesso incolpa la donna a torto. A quella eccelsa imago

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24. lor . .• ignari: i fanciulletti inconsapevoli dei reconditi motivi di tali effusioni. 29. non punto inerme: perché già preparato e consapevole delle pericolose arti femminili. 31-2. finch'a •.. sole: fino a che furono compiuti due anni. 34-7. Simile ... rivelar: tanto lo contemplazione della bellezza quanto l'ascoltare musica sembrano schiuderci un mistero d'incantati paradisi. 38. piagato: ferito da amore; quindi: da quel momento. 38-9. la figlia . .• idea: l'ideale femminile prodotto dalla sua fantasia. (Vedi anche Alla ma donna, a pp. 76 sgg.) 40. che ... racchiude: che racchiude in sé molte perfezioni della divinità. 43. vagheggiare •.• estima: crede di vagheggiare e di amare confondendo l'ideale con la realtà. 44. questa ..• non gid, ma quella: non già la donna reale, ma quella ideale. 45. inchina: usato transitivamente, sta per •riverisce». 46-7. l'errore ••• conoscendo: accorgendosi dell'errore, per aver scambiato l'oggetto reale per quello ideale. 48. A quella ... imago: all'alta immagine che l'amante si foggia di lei.

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CANTI

sorge di rado il femminile ingegno; e ciò che inspira ai generosi amanti la sua stessa beltà, donna non pensa, né comprender potria. Non cape in quelle anguste fronti ugual concetto. E male al vivo sfolgorar di quegli sguardi spera l'uomo ingannato, e mal richiede sensi profondi, sconosciuti, e molto più che virili, in chi dell'uomo al tutto da natura è minor. Che se più molli e più tenui le membra, essa la mente men capace e men forte anco riceve. Né tu fi.nor giammai quel che tu stessa inspirasti alcun tempo al mio pensiero, potesti, Aspasia, immaginar. Non sai che smisurato amor, che affanni intensi, che indicibili moti e che deliri movesti in me; né verrà tempo alcuno che tu l'intenda. In simil guisa ignora esecutor di musici concenti quel ch'ei con mano o con la voce adopra in chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta che tanto amai. Giace per sempre, oggetto della mia vita un dì: se non se quanto, pur come cara larva, ad ora ad ora tornar costuma e disparir. Tu vivi, bella non solo ancor, ma bella tanto, al parer mio, che tutte l'altre avanzi.

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49. sorge: si innalza. 52. Non cape: non entra, non è contenuto. 53. 11gu.al concetto: un tal concetto; E male: a torto. s 5. e mal richiede: e a torto s'aspetta. 58. da natura: per natura. 60. riceve: riceve dalla natura. 62. alcun tempo: cfr. Petrarca, Rime, cxix, 95-6: Il Amate, belle, gioveni e leggiadre / fummo alcun tempo» che il Leopardi, nel suo commento al Canzoniere, spiega: • Già un tempo•, • già per alcun tempo•· 66. né .•• alcuno: né mai avverrà. 69. adopra: opera, suscita. 72. ,e non se quanto: se non in quanto. 73. larva: sogno, fantasma. 74. Tu vitJi: il poeta torna a rivolgersi ali• Aspasia reale. 76. avan:n: superi.

ASPASIA

Pur quell'ardor che da te nacque è spento: perch'io te non amai, ma quella Diva che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. Quella adorai gran tempo; e si mi piacque sua celeste beltà, ch'io, per insino già dal principio conoscente e chiaro dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi, pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi, cupido ti seguii finch' ella visse, ingannato non già, ma dal piacere di quella dolce somiglianza un lungo servaggio ed aspro a tollerar condotto. Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola sei del tuo sesso a cui piegar sostenni l'altero capo, a cui spontaneo porsi l'indomito mio cor. Narra che prima, e spero ultima certo, il ciglio mio supplichevol vedesti, a te dinanzi me timido, tremante {ardo in ridirlo di sdegno e di rossor}, me di me privo, ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto spiar sommessamente, a' tuoi superbi fastidi impallidir, brillare in volto ad un segno cortese, ad ogni sguardo mutar forma e color. Cadde l'incanto, e spezzato con esso, a terra sparso il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni di tedio, alfin dopo il servire e dopo un lungo vaneggiar, contento abbraccio

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78. Diva: la donna ideale, l'amorosa idea. 81-2. per insino •.. principio: perfino dal principio. 82. chiaro: consapevole, certo. 84. i suoi begli occhi: gli occhi dell'amorosa idea. 89. che il puoi: che ne hai ben donde. 90. piegar sostenni: sopportai di piegare. 96. me di me privo: me fuor di me stesso. 98. spiar sommessammte: spiare con sottomissione, con umil-tà. 99. fastidi: malumori. Cfr. Virgilio, B11c., 11, 14-5: • tristis Amaryllidu iras / atque superba patì fastidia•. 101. mutar ••• color: mutar aspetto e colore in viso. 103. onde m'allegro: per il che mi rallegro. 103-4. piffli di tedio: riferito a senno e libertà di cui al v. 106. 9

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senno con libertà. Che se d'affetti orba la vita, e di gentili errori, è notte senza stelle a mezzo il verno, già del fato mortale a me bastante e conforto e vendetta è che su l'erba qui neghittoso immobile giacendo, il mar la terra e il ciel miro e sorrido.

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109-10. gid • •. erba: mi basta, quale conforto e vendetta al mio destino mortale, che qui suJl•erba ecc.

xxx SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE UNA GIOVANE MORTA t RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE, ACCOMMIATANDOSI DAI SUOI

Dove vai ? chi ti chiama lunge dai cari tuoi, bellissima donzella ? sola, peregrinando, il patrio tetto sì per tempo abbandoni? a queste soglie tornerai tu ? farai tu lieti un giorno questi ch'oggi ti son piangendo intorno? Asciutto il ciglio ed animosa in atto, ma pur mesta sei tu. Grata la via o dispiacevo! sia, tristo il ricetto a cui movi o giocondo, da quel tuo grave aspetto mal s'indovina. Ahi ahi, né già patria fermare io stesso in me, né forse al mondo s'intese ancor, se in disfavore al cielo se cara esser nomata, se misera tu debbi o fortunata. Morte ti chiama; al cominciar del giorno l'ultimo istante. Al nido onde ti parti, non tornerai. L'aspetto de' tuoi dolci parenti

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Composto a Napoli fra il 1834 e 1835, e ivi pubblicato nell'edizione napoletana dei Canti dello stesso anno. - 1. Dove vai?: si rivolge alla fanciulla effigiata nel bassorilievo, come descritta nel titolo della poesia. 4. peregrinando: per andare peregrina verso terre ignote ; patrio: paterno. 5. d per tempo: così presto, ossia essendo cosi giovane. 10. il ricetto: la destinazione, il luogo che ti deve accogliere. 12. grave: serio, severo. 14. fermare .•• me: stabilire meco stesso. 15-6. se in disfavore • •• nomata: se devi essere detta sgradita, ovvero cara al cielo. 18-9. al cominciar •• • istante: all'alba della tua vita è sopravvenuta la tua fine. 20. L'aspetto: la vista.

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CANTI

lasci per sempre. Il loco a cui movi, è sotterra: ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno. Forse beata sei; ma pur chi mira, seco pensando, al tuo destin, sospira.

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Mai non veder la luce era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo che reina bellezza si dispiega nelle membra e nel volto, ed incomincia il mondo verso lei di lontano ad atterrarsi; in sul fiorir d'ogni speranza, e molto prima che incontro alla festosa fronte i lùgubri suoi lampi il ver baleni; come vapore in nuvoletta accolto sotto forme fugaci all'orizzonte, dileguarsi così quasi non sorta, e cangiar con gli oscuri silenzi della tomba i di futuri, questo se all'intelletto appar felice, invade d'alta pietade ai più costanti il petto.

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Madre temuta e pianta dal nascer già dell'animai famiglia, natura, illaudabil maraviglia,

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24. d'ogni tempo: per sempre, nell'eternità. 25-6. ma pur . .. sospira: ma pur chi considera il tuo destino, meditando tra sé e sé, è tratto a sospirare. 28-32. Ma nata ••• attnTarsi.: ma dappoiché eri nata e il mondo incominciava di lontano a prosternarsi verso la bellezza che si spiegava regina nelle tue membra e nel tuo volto. 35. il ver: la realtà; baleni: scagli (usato transitivamente). 36. come ••• accolto: come vapore addensatosi momentaneamente in una nube. 40. i di futuri: quelli che avresti avuto se la morte precoce non ti avesse rapita. 43. più costanti: più forti, più fermi. 45. dal nascer .•• famiglia: dal tempo che la famiglia degli esseri animati ebbe nascita. 46. illaudabil maraviglia: che si ammira, ma non si pub lodare. Cfr. Zibaldone, 4258 fine (21 marzo 1827): •Ammiriamo dunque quest'ordine, questo univeno: io l'ammiro più degli altri: lo ammiro per

SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE

che per uccider partorisci e nutri, se danno è del mortale immaturo perir, come il consenti in quei capi innocenti? Se ben, perché funesta, perché sovra ogni male, a chi si parte, a chi rimane in vita, inconsolabil fai tal dipartita~ Misera ovunque miri, misera onde si volga, ove ricorra, questa sensibil prole! Piacqueti che delusa fosse ancor dalla vita la speme giovanil; piena d'affanni l'onda degli anni; ai mali unico schermo la morte; e questa inevitabil segno, questa, immutata legge ponesti all'uman corso. Ahi perché dopo le travagliose strade, almen la meta non ci prescriver lieta ? anzi colei che per certo futura portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma, colei che i nostri danni ebber solo conforto, velar di neri panni, cinger d'ombra sì trista,

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la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con cenezza, che egli non sia il pessimo dei possibili•· 47. per uccider: col solo fine di poi sopprimere i viventi. 48-9. se danno .•. pen'r: se è una disgrazia per l'uomo perire anzitempo. 51. Se ben: se invece è un bene. 55-7. Misera ..• prole: la specie wnana, dotata di sentimento, è misera a qualunque meta si diriga, da qualsiasi parte si volga e ovunque cerchi rimedio ai suoi mali. 58 sgg. Piacqueti ecc.: continua a rivolgersi alla natura. 59. ancor dalla vita: anche dalla vita, cioè non soltanto dalla morte. 62. inevitabil segno: meta inevitabile. 66. colei: la morte. 69-70. colei • •• conforto: colei che fu il solo conforto ai mali della nostra vita.

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CANTI

e spaventoso in vista più d'ogni flutto dimostrarci il porto? Già se sventura è questo morir che tu destini a tutti noi che senza colpa, ignari, né volontari al vivere abbandoni, certo ha chi more invidiabil sorte a colui che la morte sente de' cari suoi. Che se nel vero, com'io per fermo estimo, il vivere è sventura, grazia il morir, chi perb mai potrebbe, quel che pur si dovrebbe, desiar de' suoi cari il giorno estremo, per dover egli scemo rimaner di se stesso, veder d'in su la soglia levar via la diletta persona con chi passato avrà molt'anni insieme, e dire a quella addio senz'altra speme di riscontrarla ancora per la mondana via; poi solitario abbandonato in terra, guardando attorno, all'ore ai lochi usati rimemorar la scorsa compagnia? Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre di strappar dalle braccia ali' amico 1' amico, al fratello il fratello, la prole al genitore,

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73-4. e spavmtoso . .. porto: la morte (il porto) paurosa in apparenza più d'ogni flutto tempestoso della vita. 78. ni volontari: venuti al mondo senza volerlo. 79-80. invidiabil sorte a colui: sorte invidiabile da colui. 81 - n•l vero: in verità. 87-8. senno . •• stesso: scemato, privato d'una ::rtc di se stesso. 91. con chi: con cui. 93. riscontrarla: incontrarla. · Pe-r ••. via: nella vita terrestre.

SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE

all'amante l'amore: e l'uno estinto, l'altro in vita serbar? Come potesti far necessario in noi tanto dolor, che sopravviva amando al mortale il mortai ? Ma da natura altro negli atti suoi che nostro male o nostro ben si cura.

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107-9. Ma .•• ri cura: ma le azioni della natura tendono ad altro che al nostro male o al nostro bene: ai quali essa è pertanto indifferente.

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SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA

Tal fosti: or qui sotterra polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango immobilmente collocato invano, muto, mirando dell'etadi il volo, sta, di memoria solo e di dolor custode, il simulacro della scorsa beltà. Quel dolce sguardo, che tremar fe', se, come or sembra, immoto in altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto par, come d'urna piena, traboccare il piacer; quel collo, cinto già di desio; quell'amorosa mano, che spesso, ove fu porta, sentì gelida far la man che strinse ; e il seno, onde la gente visibilmente di pallor si tinse, furo alcun tempo: or fango ed ossa sei : la vista vituperosa e trista un sasso asconde. Così riduce il fato qual sembianza fra noi parve più viva immagine del ciel. Misterio eterno

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Composto a Napoli fra il 1834 e 1835 e ivi pubblicato nell'edizione napoletana dei Canti del 183 5. - 1. Tal fosti: cosi come appari nel ritratto. 3. immobilmente ... invano: invano effigiato nel marmo, dappoiché la bellezza che esso raffigura è ormai trascorsa. 4. dell'etadi il volo: il rapido passare del tempo. 8. come or sembra: come ora appare dal simulacro marmoreo. 9-11. ond'alto • •• piacer: l'alto sembra esprimere in pari tempo il traboccare del piacere e l'intensità di esso. 11-2. cinto ..• desio: già un tempo avvolto dai desideri. 14. gelida: in segno di turbamento. 15. onde: per il quale. 17. alcun tempo: una volta, per alcun tempo. Cfr. la nota al v. 62 di ·Aspasia (a p. 128). 19. vituperosa e trista: che suscita ribrezzo, turpe. 2 I. qual: qualunque. 22-3. Misterio •.. nostro: il mistero è quello detto sopra, del tramutarsi della bellezza per effetto della morte, come spiegato in appresso.

SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA

dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi pensieri e sensi inenarrabil fonte, beltà grandeggia, e pare, quale splendor vibrato da natura immortal su queste arene, di sovrumani fati, di fortunati regni e d'aurei mondi . segno e sicura spene dare al mortale stato: diman, per lieve forza, sozzo a vedere, abominoso, abbietto divien quel che fu dianzi quasi angelico aspetto, e dalle menti insieme quel che da lui moveva ammirabil concetto, si dilegua.

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Desiderii infiniti e visioni altere crea nel vago pensiere, per natural virtù, dotto concento; onde per mar delizioso, arcano erra lo spirto umano, quasi come a diporto ardito notator per l'Oceano: ma se un discorde accento fere l'orecchio, in nulla torna quel paradiso in un momento.

25-31. e pare .•• mortale stato: la bellezza, come un raggio riflesso da

una natura immortal, da un dio, su questo basso mondo (su queste arene), sembra offrire ai mortali un simbolo e una sicura speranza di destini sovrumani e di regni paradisiaci. 32. per lieve forza: per la lieve causa che provoca la morte. 36-8. dalle menti .•• si dilegua: dalle menti di chi ammirava tale angelico aspetto scompare in pari tempo la meravigliosa idea (concetto) che esso suscitava. 42. dotto concento: musica eseguita da esperti concertisti. 43. onde: per cw. 47. un discorde accento: una stonatura. 48. /ne: ferisce.

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CANTI

Natura umana, or come, se frale in tutto e vile, se polve ed ombra sei, tant'alto senti? Se in parte anco gentile, come i più degni tuoi moti e pensieri son così di leggeri da sì basse cagioni e desti e spenti ?

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50-6. Natura •.• spenti?: come pub mai avvenire, natura umana, se in tutto e per tutto sei effimera e vile, cioè polvere ed ombra, che tu abbia al alti sentimenti e pensieri? Se invece, almeno in parte, sei cosa gentile, cioè anima e spirito, perché i tuoi più alti sentimenti e immaginazioni sono cosi facilmente destati e quindi spenti da così basse cagioni (cioè il fiorire e lo sfiorire della bellezza fisica) 1

XXXII

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI Il sempre sospira,- nulla rileva. PETRARCA

Errai, candido Gino; assai gran tempo, e di gran lunga errai. Misera e vana stimai la vita, e sovra l'altre insulsa la stagion eh' or si volge. lntolleranda parve, e fu, la mia lingua alla beata prole mortai, se dir si dee mortale l'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno, dall'Eden odorato in cui soggiorna, rise l'alta progenie, e me negletto disse, o mal venturoso, e di piaceri o incapace o inesperto, il proprio fato creder comune, e del mio mal consorte l'umana specie. Alfin per entro il fumo de' sigari onorato, al romorio de' crepitanti pasticcini, al grido militar, di gelati e di bevande

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Composta a Napoli verso la primavera del 1835. Pubblicata come ultima nell'edizione dei Canti del 1835. Palinodia: parola greca che significa •ritrattazione •, intesa naturalmente dal poeta in senso ironico, dato che, in questa sua composizione, egli non fa che irridere, secondo modi satirici peraltro noti al tempo suo, le idee e i sentimenti che fa mostra di elogiare. Cfr., nelle Operette morali, il Dialogo di Tristano e di un amico, dove in modi più poeticamente commossi espresse analoghi concetti. - 1. candido Gino: il marchese Gino Capponi (1792-1876), letterato e patriota, fondatore, col Vieusseux, dell'«Antologia• e dell'ccArchivio Storico Italiano•. Conobbe il Leopardi a Firenze nel 1827; candido: cioè di cuore leale e facile all'entusiasmo; il termine non è affatto usato con intenzione ironica. 4. la stagion ch'o,- si volge: l'età presente. 5. la mia lingua: cioè gli scritti del poeta ispirati a idee pessimistiche. 8-9. dall'Edm ••• progenie: ironicamente, il paradiso terrestre in cui l'alta progenie crede di vivere. 9. negletto: trascurato dai propri simili. 10. mal ventu,-oso: sfortunato. 11-2. il proprio •.. comune: che io credessi comune il mio proprio destino. 12. consorte: partecipe. 13-20. Alfin • .• gazzette: visione di una sala di caffè cittadina, dove si svolge una battaglia di chiacchiere fra i nuovi assertori del progresso, interpretata in modo eroicomico mediante metafore di gusto militare.

CANTI

ordinator, fra le percosse tazze e i branditi cucchiai, viva rifulse agli occhi miei la giornaliera luce delle gazzette. Riconobbi e vidi la pubblica letizia, e le dolcezze del destino mortai. Vidi l'eccelso stato e il valor delle terrene cose, e tutto fiori il corso umano, e vidi come nulla quaggiù dispiace e dura. Né men conobbi ancor gli studi e l'opre stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto saver del secol mio. Né vidi meno da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo, e da Boston a Goa, correr dell'alma felicità su l'orme a gara ansando regni, imperi e ducati; e già tenerla o per le chiome fluttuanti, o certo per l'estremo del boa. Così vedendo, e meditando sovra i larghi fogli profondamente, del mio grave, antico errore, e di me stesso, ebbi vergogna.

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Aureo secolo ornai volgono, o Gino, i fusi delle Parche. Ogni giornale, gener vario di lingue e di colonne,

19. giornali.era luce: in quanto dura un solo giorno ed è perciò effimera, benché ritornante quotidianamente come il sole. 25. come .•. dura: parodia d'un verso petrarchesco. Cfr. Rime, cccxi, 14: « come nulla qua giù diletta e dura». 29-30. da Marrocco .•• Goa: indicazioni geografiche di sapore satirico, atte a meglio dipingere la grottesca corsa alla felicità. Dal Marrocco al Catai, ossia alla Cina ( da ovest a est), dall'Orse al Nilo (da nord a sud), da Boston a Goa (dall'America all'India). 34. boa: • Pelliccia in figura di serpente, detta dal tremendo rettile di questo nome, nota alle donne gentili de' tempi nostri. Ma come la cosa è uscita di moda, potrebbe anche il senso della parola andare fra poco in dimenticanza. Però non sarà superflua questa noterella • come spiega il poeta stesso in una delle Note ai Canti (vedi a p. 180). 35. i larghi fogli: delle gazzette. 38. volgono: filano, allusione alle tre mitiche Parche che attorcevano i fili delle vite umane. 40. gener .•• colonne: vario per le diverse lingue in cui i giornali sono scritti, e le diverse forme di composizione tipografica.

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

da tutti i lidi lo promette al mondo concordemente. Universale amore, ferrate vie, moltiplici commerci, vapor, tipi e choléra i più divisi popoli e climi stringeranno insieme: né maraviglia fia se pino o quercia suderà latte e mele, o s'anco al suono d'un walser danzerà. Tanto la possa infin qui de' lambicchi e delle storte, e le macchine al cielo emulatrici crebbero, e tanto cresceranno al tempo che seguirà; poiché di meglio in meglio senza fin vola e volerà mai sempre di Sem, di Cam e di Giapeto il seme. Ghiande non ciberà certo la terra però, se fame non la sforza: il duro ferro non deporrà. Ben molte volte argento ed or disprezzerà, contenta a polizze di cambio. E già dal caro sangue de' suoi non asterrà la mano la generosa stirpe: anzi coverte fien di stragi l'Europa e l'altra riva

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42. Vnivnsale amore: amore fra tutti gli uomini, su cui Leopardi spesso ironizza nelle pagine dello Zibaldone. 44. tipi: caratteri di stampa, sta per le diverse opere in essi espresse; choléra: malattia che aveva fatto in quegli anni la sua comparsa in Francia. 47. latte e mele: latte e miele, come nell'età dell'oro favoleggiata dagli antichi. 48-50. la possa ... emulatn·ci: la potenza degli strumenti della chimica e le macchine gareggianti col cielo in grandezza e maestosità (imitazione parodistica da Virgilio, Aen., IV, 89: • aequataque machina caelo •). 54. di Sem ••• seme: allusione ai figli di Noè, dai quali, secondo il racconto biblico, nacquero le diverse razze. Qui vale per genere umano. 55-7. Ghiande . •• deporrà: paragona ironicamente il secolo presente all'età dell'oro, in cui l'umanità si contentava di nutrirsi di ghiande e non conosceva l'odio né la guerra. 55. ciberd: si ciberà di, mangerà (cfr. Dante, In/., 1, 103, « Questi non ciberà terra né peltro n); la terra: sta per l'umanità che l'abita. 57-9. Ben molte •.• cambio: come nell'età dell'oro, ma per accontentarsi invece di carta moneta e di titoli cambiari. 62. fien: saranno. 62-3. l'altra ••• mar: l'America.

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dell'atlantico mar, fresca nutrice di pura civiltà, sempre che spinga contrarie in campo le fraterne schiere di pepe o di cannella o d'altro aroma fatai cagione, o di melate canne, o cagion qual si sia ch'ad auro torni. Valor vero e virtù, modestia e fede e di giustizia amor, sempre in qualunque pubblico stato, alieni in tutto e lungi da' comuni negozi, ovvero in tutto sfortunati saranno, afflitti e vinti; perché die' lor natura, in ogni tempo starsene in fondo. Ardir protervo e frode, con mediocrità, regneran sempre, a galleggiar sortiti. Imperio e forze, quanto più vogli o cumulate o sparse, abuserà chiunque avralle, e sotto qualunque nome. Questa legge in pria scrisser natura e il fato in adamante; e co' fulmini suoi Volta né Davy lei non cancellerà, non Anglia tutta con le macchine sue, né con un Gange di politici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse in arme tutti congiurati i mondi fieno in perpetuo: al vero onor segnaci

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63. fresca: recente. 67. melate canne: canne da zucchero. 68. ch'ad auro torni: che si concluda in oro, ossia in guadagno. 70- 1. in qualunque ..• stato: in qualunque forma di ordinamento sociale. 71. alieni in tutto: completamente estranei. 77. a galleggiar sortiti: destinati a primeggiare, in opposizione a starsene in fondo del v. 75. 77-9. Imperio .• . avralle: chi deterrà il potere ne abuserà sempre, sia esso accentrato, come nelle tirannidi, sia sparso come nelle democrazie. 79. abuserà: è qui impiegato transitivamente. 79-80. e sotto • . • nome: qualunque sia il nome o la definizione del suo governo. 81. in adamante: in diamante, in caratteri immutabili. 82. Volta •.• Davy: Alessandro Volta (1745-1827), inventore della pila; Humphry Davy (1778-1829), fisico inglese, che per primo realizzò l'arco voltaico. 83. Anglia: Inghilterra. 84. un Gnnge: un'immensa fiumana. 89. feno: saranno.

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

calunnia, odio e livor: cibo de' forti il debole, cultor de' ricchi e servo il digiuno mendico, in ogni forma di comun reggimento, o presso o lungi sien l'eclittica o i poli, eternamente sarà, se al gener nostro il proprio albergo e la face del dì non vengon meno. Queste lievi reliquie e questi segni delle passate età, forza è che impressi porti quella che sorge età dell'oro: perché mille discordi e repugnanti l'umana compagnia principii e parti ha per natura; e por quegli odii in pace non valser gl'intelletti e le possanze degli uomini giammai, dal dì che nacque l'inclita schiatta, e non varrà, quantunque saggio sia né possente, al secol nostro patto alcuno o giornal. Ma nelle cose più gravi, intera, e non veduta innanzi, fia la mortai felicità. Più molli di giorno in giorno diverran le vesti o di lana o di seta. I rozzi panni lasciando a prova agricoltori e fabbri, chiuderanno in coton la scabra pelle, e di castoro copriran le schiene. Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri certamente a veder, tappeti e coltri, seggiole, canapè, sgabelli e mense,

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90. cibo de' forti: preda dei forti, che se li mangiano. 91 -2. a,ltor .•. mendico: il povero affamato sarà sempre adulatore e servo dei ricchi. 93-4. o presso ..• i poli: ossia in qualunque zona della terra. 95. il proprio albergo: la terra. 96. la f ace del di: il sole. 97-8. Qlleste •.• etd: questi antichi mali, inerenti alla natura umana (detto ironicamente). 100-2. perché . •• natura: dati gli insanabili contrasti di princìpi e di interessi che dividono l'umanità in gruppi. 105-6. q11ant1mque . •. possente: cioè né varrà, quantunque possente. Né ha in questo caso valore di particella disgiuntiva, secondo un uso frequente dei nostri classici; possente e saggio si riferiscono rispettivamente a patto e a giornal del v. 107. 108. più gravi: più importanti (detto ironicamente). 1 J 2. a prova: a gara.

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letti, ed ogni altro arnese, adorneranno di lor menstrua beltà gli appartamenti; e nove forme di paiuoli, e nove pentole ammirerà l'arsa cucina. Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, da Londra a Liverpool, rapido tanto sarà, quant' altri immaginar non osa, il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie vie del Tamigi fia dischiuso il varco, opra ardita, immortal, ch'esser dischiuso dovea, già son molt'anni. Illuminate meglio ch'or son, benché sicure al pari, nottetempo saran le vie men trite delle città sovrane, e talor forse di suddita città le vie maggiori. Tali dolcezze e si beata sorte alla prole vegnente il ciel destina. Fortunati color che mentre io scrivo miagolanti in su le braccia accoglie la levatrice! a cui veder s'aspetta quei sospirati dì, quando per lunghi studi fia noto, e imprenderà col latte dalla cara nutrice ogni fanciullo, quanto peso di sai, quanto di carni, e quante moggia di farina inghiotta il patrio borgo in ciascun mese; e quanti

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1 I 9. menstrua: mensile. 125. anzi il volo: allude alla aumentata velocità dei trasporti dopo l 1 invenzione del vapore, e forse ai primi esperimenti aerostatici. 125-6. e sotto ... varco: allude al tunnel sotto il Tamigi, opera che, vagheggiata molti anni prima, venne compiuta dopo la morte del Leopardi. 129. benché . .. pari: detto ironicamente, perché al tempo del Leopardi le vie non erano affatto sicure. 130. men trite: meno battute, secondarie. I 32. di suddita cittd: le città minori, in opposizione a sovrane, principali. 137. a cui veder s'aspetta: a cui è riservato di vedere. I 38-9. lunghi studi: gli studi statistici. Cfr., nelle Operette morali, il Dialogo di Tristano e di un amico, e cfr. anche la lettera al Giordani del 24 luglio I 828: « ••• non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere wnano stia nel saper la politica e la statistica 11. 13 9. ji.JJ: sarà; imprenderà: apprenderà.

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

in ciascun anno partoriti e morti scriva il vecchio prior: quando, per opra di possente vapore, a milioni impresse in un secondo, il piano e il poggio, e credo anco del mar gl'immensi tratti, come d'aeree gru stuol che repente alle late campagne il giorno involi, copriran le gazzette, anima e vita dell,universo, e di savere a questa ed alle età venture unica fonte! Quale un fanciullo, con assidua cura, di fogliolini e di fuscelli, in forma o di tempio o di torre o di palazzo, un edificio innalza; e come prima fornito il mira, ad atterrarlo è vòlto, perché gli stessi a lui fuscelli e fogli per novo lavorio son di mestieri; così natura ogni opra sua, quantunque d,alto artificio a contemplar, non prima vede perfetta, ch,a disfarla imprende, le parti sciolte dispensando altrove. E indarno a preservar se stesso ed altro dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa eternamente, il mortai seme accorre mille virtudi oprando in mille guise con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta, la natura crudel, fanciullo invitto, il suo capriccio adempie, e senza posa distruggendo e formando si trastulla.

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146-7. a milioni .•. secondo: le gazzette di cui al v. 151. 150. late: aperte, ampie; involi: rapisca. 157. e come prima: e non appena. 158. fornito: compiuto, finito; è volto: si volge. 160. son di mestieri: sono necessari. 162. d'alto ... contemplar: di mirabile fattura a chi la contempli. 164. dispensando: impiegando. 165. ed altro: e le altre cose che gli stanno a cuore. 167. il mortai seme: l'wnana specie. 168. mille . •• oprando: mettendo in opera mille accorgimenti. 170. invitto: indomabile, incorreggibile. 10

CANTI

Indi varia, infinita una famiglia di mali immedicabili e di pene preme il fragil mortale, a perir fatto irreparabilmente: indi una forza ostil, distruggitrice, e dentro il fere e di fuor da ogni lato, assidua, intenta dal dì che nasce; e l'affatica e stanca, essa indefatigata; insin eh' ei giace alfin dall'empia madre oppresso e spento. Queste, o spirto gentil, miserie estreme dello stato mortai; vecchiezza e morte, ch'han principio d'allor che il labbro infante preme il tenero sen che vita instilla; emendar, mi cred'io, non può la lieta nonadecima età più che potesse la decima o la nona, e non potranno più di questa giammai l'età future. Però, se nominar lice tal volta con proprio nome il ver, non altro in somma fuor che infelice, in qualsivoglia tempo, e non pur ne' civili ordini e modi, ma della vita in tutte l'altre parti, per essenza insanabile, e per legge universal, che terra e cielo abbraccia, ogni nato sarà. Ma novo e quasi divin consiglio ritrovàr gli eccelsi spirti del secol mio: che, non potendo felice in terra far persona alcuna, l'uomo ohbliando, a ricercar si diero una comun felicitade; e quella

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175. preme: opprime. 176. indi: da ciò. 177. /ere: ferisce. 180. indefatigata: infaticata, mai stanca. 181. empia madre: la natura. 182. o spirto gentil: il poeta torna a rivolgersi al Capponi, con le parole della canzone petrarchesca « Spirto gentil, che quelle membra reggi» (Rime, LIII, 1); miserie estreme: retto dall'emendar del v. 186. 186. emendar: correggere, trasformare. 190. lice: è lecito. 193-4. non pur . .. parti: non soltanto negli ordinamenti sociali, ma anche in ogni altra sua condizione. 198. ritrovar: ritrovarono. 201-2. l'uomo ..• felicitade: dimenticando l'individuo, si diedero a cercar la felicità collettiva.

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

trovata agevolmente, essi di molti tristi e miseri tutti, un popol fanno lieto e felice : e tal portento, ancora da pamphlets, da riviste e da gazzette non dichiarato, il civil gregge ammira. Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume dell'età eh' or si volge! E che sicuro filosofar, che sapienza, o Gino, in più sublimi ancora e più riposti subbietti insegna ai secoli futuri il mio secolo e tuo r Con che costanza quel che ieri schernì, prosteso adora oggi, e domani abbatterà, per girne raccozzando i rottami, e per riporlo tra il fumo degl'incensi il dì vegnente! Quanto estimar si dee, che fede inspira del secol che si volge, anzi dell'anno, il concorde sentir! con quanta cura convienci a quel dell'anno, al qual difforme fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro comparando, fuggir che mai d'un punto non sien diversi I E di che tratto innanzi, se al moderno si opponga il tempo antico, filosofando il saper nostro è scorso!

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205-7. ancora ••. dichiarato: benché non ancora reso pubblico da pamphlets (libelli). 211-2. in più ••. subbietti: misteriosi argomenti della filosofia e della religione. 215-6. per gime •• . rottami: per andarne a raccogliere i frantumi. 216-7. per riporlo •.• vegnente: il Leopardi, seguace del sensismo settecentesco, dal nuovo affermarsi di una filosofia di tipo spiritualistico in opposizione alle concezioni materialistiche trae argomento per notare la grande instabilità delle opinioni del suo tempo. 220-4. con quanta ••. diversi: il senso della frase è questo: val forse la pena, nel comparare il nostro modo di sentire a quello dell'anno (in corso), rifuggire dal differenziarsene anche in un solo punto, dal momento che a quel pensiero (dell'anno in corso) sarà difforme quello dell'anno successivo? 224-6. E di che ••. scorsoi: qual passo avanti ha mai compiuto il nostro sapere in confronto a quello degli antichi!

CANTI

Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco di poetar maestro, anzi di tutte scienze ed arti e facoltadi umane, e menti che fur mai, sono e saranno, dottore, emendator, lascia, mi disse, i propri affetti tuoi. Di lor non cura questa virile età, volta ai severi economici studi, e intenta il ciglio nelle pubbliche cose. Il proprio petto esplorar che ti val ? Materia al canto non cercar dentro te. Canta i bisogni del secol nostro, e la matura speme. Memorande sentenze! ond'io solenni le risa alzai quando sonava il nome della speranza al mio profano orecchio . . quasi comica voce, o come un suono di lingua che dal· latte si scompagni. Or torno addietro, ed al passato un corso contrario imprendo, per non dubbi esempi chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi, non contraddir, non repugnar, se lode cerchi e fama appo lui, ma fedelmente adulando ubbidir: così per breve ed agiato cammin vassi alle stelle. Ond'io, degli astri desioso, al canto del secolo i bisogni ornai non penso

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Un già de' tr,oi: uno che fu già della tua compagnia, del tuo ambiente. 227-8. un franco ... maestro: un disinvolto critico di poesia: allude, secondo la maggioranza dei commentatori, a Niccolò Tommaseo, verso il quale Leopardi nutrì una notevole antipatia, peraltro ricambiata. Può darsi tuttavia che in questa figura si possano riconoscere tratti di altri contemporanei, magari Manzoni, Giordani o lo stesso Capponi. Si tratta pur sempre di figura poetica, allegorica. 228-3 1. anzi ..• eniendator: allude alla versatilità del Tommaseo, che si era occupato di poesia, arte, storia, pedagogia, filologia. 234. intenta il ciglio: con l'occhio attento (accusativo alla greca). 238. e la matura speme: la speranza ormai prossima a trasformarsi in realtà. 242-3. un suono •.. scompagni: una voce di bambino appena svezzato. È un verso del PetrarcR, Rime, cccxxv, 87-8: « co11: voci ancor non preste / di lingua, che dal latte si scompagne». 244-5. Or ... imprendo: ora mi pento e torno indietro a intraprendere un cammino contrario a quello passato. 246. chiaro: consapevole. Cfr.A.spasia, v. 82 a p. 129. 251-3. al canto ... far: non penso di prendere ad argomento del mio canto i bisogni del secolo. 227.

PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI

materia far; che a quelli, ognor crescendo, provveggono i mercati e le officine già largamente; ma la speme io certo dirò, la speme, onde visibil pegno già concedon gli Dei ; già, della nova felicità principio, ostenta il labbro de' giovani, e la guancia, enorme il pelo. O salve, o segno salutare, o prima luce della famosa età che sorge. Mira dinanzi a te come s'allegra la terra e il ciel, come sfavilla il guardo delle donzelle, e per conviti e feste qual de' barbati eroi fama già vola. Cresci, cresci alla patria, o maschia certo moderna prole. Alr ombra de' tuoi velli Italia crescerà, crescerà tutta dalle foci del Tago all'Ellesponto Europa, e il mondo poserà sicuro. E tu comincia a salutar col riso gl'ispidi genitori, o prole infante, eletta agli aurei dì: né ti spauri l'innocuo nereggiar de' cari aspetti. Ridi, o tenera prole: a te serbato è di cotanto favellare il frutto; veder gioia regnar, cittadi e ville, vecchiezza e gioventù del par contente, e le barbe ondeggiar lunghe due spanne.

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256-7. visibil . .. Dei: la barba di cui ai versi seguenti. Il portar la barba era costume dei progressisti dell'epoca e pnrticolarmente dei carbonari, cui qui Leopardi irride, anche per la scarsa fiducia che nutriva neJla loro azione. 260- 1. O salve ... sorge: inizia l 1apostrofe alla barba, nella quale il poeta ironicamente simboleggia l'età nascente. 267. velli: peli, qui detto per « barbe». 269. dalle ..• Ellesponto: dalla Spagna ai Dardanelli. 270. poserà: riposerà. 271-2. E tu ... infante: riferimento umoristico al v. 60 della quarta egloga virgiliana: • lncipe, parve puer, risu. cognoscere matrem », dove si invita appunto il fanciullo destinato a vedere una nuova era a cominciare col riconoscere la madre sorridendole. Anche qui, come altrove nella Palinodia, il Leopardi trae spunti parodistici dall'allusione aWannuncio virgiliano del novus ordo, della nascente età dell'oro. cui è comicamente paragonato l'irriso progresso ottocentesco. 276. di cotanto • •• frutto: il frutto di tante inutili chiacchiere.

XXXIII

IL TRAMONTO DELLA LUNA

Quale in notte solinga, sovra campagne inargentate ed acque, là 've zefiro aleggia, e mille vaghi aspetti e ingannevoli obbietti fingon l'ombre lontane infra l'onde tranquille e rami e siepi e collinette e ville; giunta al confin del cielo, dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno nell'infinito seno scende la luna; e si scolora il mondo; spariscon l' ombre, ed una oscurità la valle e il monte imbruna; orba la notte resta, e cantando, con mesta melodia, l'estremo albor della fuggente luce, che dianzi gli fu duce, saluta il carrettier dalla sua via; tal si dilegua, e tale lascia l'età mortale la giovinezza. In fuga van l'ombre e le sembianze

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Composto a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, alle falde del Vesuvio, nella primavera 1836, e forse più tardi. Si ritiene dal più dei biografi di Leopardi che la composizione di questo canto sia posteriore, sebbene di poco, a quella de La ginestra. Secondo il Ranieri, gli ultimi sei versi snrebbero stati scritti dal poeta poche ore innanzi la morte, ma si tratta certo di una leggenda. Apparve nell'edizione fiorentina del 1845. - 1. Quale: va messo in relazione a scende la luna del v. 12, ed è il primo termine della metafora che verrà spiegato nella seconda strofa: tal si dilegua (v. 20). 3. Id 've: là ove. 4-8. e mille ... ville: le ombre lontane tra onde, rami, siepi ecc. creano l'illusione di apparenze indefinite e cangianti e di oggetti irreali. 13. una: unica, uniforme. 15. orba: cieca. 16-9. e cantando .•• .sua via: il carrettiere, col suo canto melanconico, saluta l'estremo albor, cioè l'ultimo chiarore della tramontante luce lunare.

IL TRAMONTO DELLA LUNA

dei di lettosi inganni; e vengon meno le lontane speranze, ove s'appoggia la mortai natura. Abbandonata, oscura resta la vita. In lei porgendo il guardo, cerca il confuso viatore invano del cammin lungo che avanzar si sente meta o ragione; e vede che a sé l'umana sede, esso a lei veramente è fatto estrano. Troppo felice e lieta nostra misera sorte parve lassù, se il giovanile stato, dove ogni ben di mille pene è frutto, durasse tutto della vita il corso. Troppo mite decreto quel che sentenzia ogni animale a morte, s'anco mezza la via lor non si desse in pria della terribil morte assai più dura. D'intelletti immortali degno trovato, estremo di tutti i mali, ritrovar gli eterni la vecchiezza, ove fosse incolume il desio, la speme estinta, secche le fonti del piacer, le pene maggiori sempre, e non più dato il bene.

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Voi, collinette e piagge, caduto Io splendor che all'occidente 24. dilettasi inganni: le illusioni della giovinezza. 25-6. le lontane ••. natura: le speranze riposte nel lontano avvenire, sostegno della nostra natura umana. 28. porgendo il guardo: appuntando lo sguardo. 30. che .•. sente: che sente rimanergli. 31-3. e vede ..• estra110: s'accorge che egli e la vita si sono fatti reciprocamente estranei. 36. parve lassù: agli dèi, ai celesti, arbitri del destino umano. 40. senle11zia: condanna; og,ii animale: ogni essere animato. 41. mezza la via: la seconda metà della vita, la vecchiaia. 42. in pria: prima. 45. degno trovato: degna invenzione (detto ironicamente). 48. incolume: intatto, non diminuito. 51. piagge: plaghe, luoghi.

CANTI

inargentava della notte il velo, orfane ancor gran tempo non resterete; che dall'altra parte tosto vedrete il cielo imbiancar novamente, e sorger Palba: alla qual poscia seguitando il sole, e folgorando intorno con sue fiamme possenti, di lucidi torrenti inonderà con voi gli eterei campi. Ma la vita mortai, poi che la bella giovinezza sparì, non si colora d'altra luce giammai, né d,altra aurora. Vedova è insino al fine; ed alla notte che 1•a1tre etadi oscura, segno poser gli Dei la sepoltura.

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54. orfane: orbate di luce. 61. lucidi: luminosi. 62. dera campi: campi del cielo. 66-7. ed alla notte • •• oscura: alla vecchiaia. 68. segno: termine, meta.

XXXIV

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO Kcxl 'i]ycbt7Jacxv ol clv3-p(l)7tOI. p.ciÀÀov -rb ax6-ro, ~ -cb cpG>,. E gli uomini vollero piutto1to le tmebre che la luce. GIOVANNI, III, 19.

Qui su l'arida schiena del formidabil monte sterminator Vesevo, la qual null'altro allegra arbor né fiore, tuoi cespi solitari intorno spargi, odorata ginestra, contenta dei deserti. Anco ti vidi de' tuoi steli abbellir l'erme contrade che cingon la cittade la qual fu donna de' mortali un tempo, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante, e d'afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell'impietrata lava, che sotto i passi al peregrin risona; dove s'annida e si contorce al sole

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Composta a Torre del Greco nel 1836, come la poesia precedente. Il canto venne dal Ranieri collocato ultimo nell'edizione fiorentina del 1845, seguendo in ciò la volontà del poeta defunto. Cfr., nelle Operette morali, per la tragica concezione leopardiana della natura che qui compiutamente si esprime, pur finalmente aprendosi a un desolato ma commosso appello alla fratellanza umana, il Dialogo tùlla Natura e di un Islandese. - 3. VelftJO: Vesuvio. 6. odorata: odorosa. 7. contenta dei deserti: paga dei luoghi deserti, privi d'altre piante. 8-10. erme ••• tempo: la solitaria campagna romana. 10. donna: signora, regina. 14-5. Or ••• amante: si rivolge sempre alla ginestra. 16. affeiti.Jortune: decadute, rovinate fortune.

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CANTI

la serpe, e dove al noto cavernoso covil torna il coniglio ; fur liete ville e colti, e biondeggiar di spiche, e risonaro di muggito d'armenti; fur giardini e palagi, agli ozi de' potenti gradito ospizio; e fur città famose che coi torrenti suoi l'altero monte dall'ignea bocca fulminando oppresse con gli abitanti insieme. Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola. A queste piagge venga colui che d'esaltar con lode il nostro stato ha in uso, e vegga quanto è il gener nostro in cura all'amante natura. E la possanza qui con giusta misura anca estimar potrà dell'uman seme, cui la dura nutrice, ov' ei men teme, con lieve moto in un momento annulla in parte, e può con moti poco men lievi ancor subitamente annichilare in tutto. Dipinte in queste rive son dell'umana gente le magnifiche sorti e progressive.

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24. colti: campi coltivati. 29. cittd famose: Ercolano, Pompei, Stabia distrutte dall'eruzione del 79 d. C. 30. to"enti: di lava. 33-4. una n1ina .•• gentile: una sola rovina copre il suolo dove hai sede, o ginestra. 39-41. quanto i .. . natura: come l'amorevole natura si prenda cura dell'uman genere. 43. uman seme: genere umano. 44. ov'ei men teme: quand'egli meno se lo aspetta. 45. moto: scossa tellurica. 48. annichilare in tutto: sopprimere l'intera umanità. 51. le magnifiche ... progressi.ve: definizione del filosofo pesarese, cugino· del Leopardi, Terenzio Mamiani: • Pnrole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza•· Cosi il Leopardi, sarcasticamente, nelle Note ai Canti (a p. 180).

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

Qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco, che il calle insino allora dal risorto pensier segnato innanti abbandonasti, e vòlti addietro i passi, del ritornar ti vanti, e procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, di cui lor sorte rea padre ti fece, vanno adulando, ancora ch'a ludibrio talora t'abbian fra sé. Non io con tal vergogna scenderò sotterra; ma il disprezzo piuttosto che si serra di te nel petto mio, mostrato avrò quanto si possa aperto: ben ch'io sappia che obblio preme chi troppo all'età propria increbbe. Di questo mal, che teco mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo vuoi di novo il pensiero, sol per cui risorgemmo della barbarie in parte, e per cui solo

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53. secol . •. sciocco: il secolo del Leopardi, il XIX. 54-6. che il calle • .• abbando11asti: lasciasti la via sino a questo punto segnata dal pensiero risorto dalle strettoie del dogma col Rinascimento (tale pensiero per Leopardi culminava nella filosofia sensistica del secolo XVIII). 59-63. Al tuo pargoleggiar ••. fra sé: gli ingegni che ebbero la disgraziata sorte di essere tuoi figli (o secolo nostro), vanno adulando i tuoi infantili ragionamenti, benché talvolta ti scherniscano nel loro intimo. 64. Dopo questo verso, nel manoscritto di Leopardi figurano i seguenti tre versi cancellati evidentemente ad opera del poeta stesso: « E ben facil mi fora / imitar gli altri, e vaneggiando in prova / farmi agli orecchi tuoi cantando accetto. » 68-9. obblio •.. increbbe: l'oblio finisce col sommergere chi si rese spiacente all"età sua contemporanea. 70-1. che teco ... comune: dell'oblio che tu, o secolo, dividerai con me (in quanto neanche tu, per la tua mediocrità, lascerai traccia nella storia). 74-6. sol per cui •.• civiltà: mercé il quale soltanto risorgemmo parzialmente dalla barbarie medioevale, e mercé il quale soltanto è possibile l'accrescimento in civiltà.

CANTI

si cresce in civiltà, che sola in meglio guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero dell'aspra sorte e del depresso loco che natura ci die,. Per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli vii chi lui segue, e solo magnanimo colui che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortai grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme che sia dell'alma generoso ed alto, non chiama sé né stima ricco d'or né gagliardo, e di splendida vita o di valente persona infra la gente non fa risibil mostra; ma sé di forza e di tesor mendico lascia parer senza vergogna, e noma parlando, apertamente, e di sue cose fa stima al vero uguale. Magnanimo animale non credo io già, ma sto Ito, quel che nato a perir, nutrito in pene, dice, a goder son fatto, e di fetido orgoglio empie le carte, eccelsi fati e nove felicità, quali il ciel tutto ignora,

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78. Cosi: per ciò, di conseguenza. 79. aspra sorte: il duro destino umano. 79-80. depresso •.• die': l'umile situazione che natura ci diede. 81-2. lume • .• palese: la filosofia sensistica che rivelò quel triste vero. 83. lui: quel lume. 85. astuto o/olle: astuto se inganna gli altri, folle se inganna se stesso. 86. estolle: innalza (in contrapposizione al depresso loco del v. 79). 94-5. ma sé . •• parer: ma si mostra com'è, povero di forza fisica e di denaro. 98. animale: essere dotato d'anima. 102. fetido orgoglio: orgoglio disgustoso. 104-5. il ciel tutto • •• orbe: l'intero cielo, non soltanto questa terra.

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

non pur quest'orbe, promettendo in terra a popoli che un'onda di mar commosso, un fiato d'aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sl, che avanza a gran pena di lor la rimembranza. N obil natura è quella che a sollevar s'ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale; quella che grande e forte mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire fraterne, ancor più gravi d'ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l'uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de' mortali madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccome è il vero, ed ordinata in pria l'umana compagnia, tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo

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106-7. r,n'onda .. . commosso: un maremoto. 107-8. un fiato ••• maligna: un'epidemia. 108. un sotterraneo crollo: un terremoto. 112. a sollevar s'ardisce: ardirsi a qualcosa, costrutto talvolta usato dai nostri classici. 114. franca lingt1a: schietto parlar. 117. /raie: debole. 121. accresce: aggiunge. 123. del suo dolor: del proprio dolore; a quella: alla natura. 125. madre ••• matrigna: ci è madre in quanto ci partorisce, ma ci è matrigna nelle sue intenzioni e nel suo trattamento. 126-9. e incontro • •• compagnia: e stimando che 1'umanità, cosi come è vero, si trovi unita e schierata fin dalle origini contro a costei. 130-5. tutti • .• gr,erra comune: cfr. Zibaldone, 4280 (13 aprile 1827), dove parla della • grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura». 130. estima: giudica, pensa.

CANTI

valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune. Ed alle offese dell'uomo armar la destra, e laccio porre al vicino ed inciampo, stolto crede così qual fora in campo cinto d'oste contraria, in sul più vivo incalzar degli assalti, gl'inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, e sparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri quando fien, come fiìr, palesi al volgo, e quell 'orror che primo contra l'empia natura strinse i mortali in social catena, fia ricondotto in parte da verace saper, r onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade, altra radice avranno allor che non superbe fole, ove fondata probità del volgo così star suole in piede quale star può quel ch'ha in error la sede.

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135-6. Ed alle offese dell'uomo: ai danni del proprio simile. 138-44. qual fora • •• guerrieri: come sarebbe, in un campo circondato dai nemici, dimenticandosi di costoro, mettersi a combattere contro i propri compagni. 146. quando ••• f(l.r: quando saranno, come furono in origine. 1479. quell'o"or • •. catnia: l'orrore originario che spinse gli uomini a unirsi in società contro le nemiche forze naturali. 150. in parte: perché la coscienza dell'uomo moderno non avvertirà quel sentimento d'orrore nei modi confusi e superstiziosi con cui lo sentivano i primitivi, in quanto tale sentimento sarà ricondotto da verace saper. 151-2. l'onesto • •• cittadino: l'onestà e la rettitudine nei rapporti sociali. 154. superbe fole: i dogmi e le credenze religiose. 155. ove ••• volgo: sulle quali fondandosi, l'umana probità. 157. quel ch 1ha in errar la sede: ciò che si regge sopra l'errore.

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

Sovente in queste rive, che, desolate, a bruno veste il flutto iodurato, e par che ondeggi, seggo la notte; e su la mesta landa 1n purissimo azzurro veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, cui di lontan fa specchio il mare, e tutto di scintille in giro per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, eh' a lor sembrano un punto, e sono immense, in guisa che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente; a cui l'uomo non pur, ma questo globo ove l'uomo è nulla, sconosciuto è del tutto; e quando miro quegli ancor più senz'alcun fin remoti nodi quasi di stelle ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo e non la terra sol, ma tutte in uno, del numero infinite e della mole, con l'aureo sole insiem, le nostre stelle o sono ignote, o cosi paion come essi alla terra, un punto di luce nebulosa; al pensier mio che sembri allora, o prole dell'uomo? E rimembrando il tuo stato quaggiù, di cui fa segno il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

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158. queste rive: questi luoghi, le falde del Vesuvio. 160. ilflutto indurato: la lava. 166. per lo vòto •.. mondo: brillare il mondo (di stelle) nella cava immensità sereno. 167. appunto: fisso. 168. a lOT: agli occhi. 172. non pur: non soltanto. 176. nodi • •• .stelle: le nebulose. 178. ma tutte in uno : tutte insieme. 179. del numero .•• mole: infinite di numero e di misura. 182. e.ssi: ossia i nodi, di cui al v. 176. 186. fa .segno: rende testimonianza. 187. dall'altra parte: d'altra parte.

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che te signora e fine credi tu data al Tutto, e quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome, per tua cagion, dell'universe cose scender gli autori, e conversar sovente co' tuoi piacevolmente, e che i derisi sogni rinnovellando, ai saggi insulta fin la presente età, che in conoscenza ed in civil costume sembra tutte avanzar; qual moto allora, mortai prole infelice, o qual pensiero verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d'arbor cadendo un picciol pomo, cui là nel tardo autunno maturità senz'altra forza atterra, d'un popol di formiche i dolci alberghi, cavati in molle gleba con gran lavoro, e l' opre e le ricchezze che adunate a prova con lungo affaticar l'assidua gente avea provvidamente al tempo estivo, schiaccia, diserta e copre in un punto; così d'alto piombando, dall'utero tonante scagliata al ciel profondo,

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188-9. che te ... Tutto: che ti credi destinata ad essere padrona e scopo dell'universo. 189-93. e quante . •. autori: e quante volte ti è piaciuto fantasticare che i creatori dell'universo (ossia gli dèi delle varie religioni) siano scesi in terra per aver cura di te. 194-5. i derisi. ..• rinnovellando: restaurando le credenze religiose derise nel secolo precedente. 195. ai saggi insulta: insulta i saggi (che rifiutano le credenze religiose). 198-9. qual moto ••• pensi.ero: qual sentimento o qual pensiero. 203. là: indica Wl luogo indeterminato. 205-6. i dolci. . .. gleba: i nidi scavati dalle formiche in un terreno molle (molle gleba). 208. a prova: a gara, con spirito di emulazione. 211. diserta: riduce a deserto, annienta. 213. dall'utero tonante: dalle viscere rombanti del vulcano.

LA GINESTRA O IL PIORE DEL DESERTO

di ceneri e di pomici e cli sassi notte e ruina, infusa di bollenti ruscelli, o pel montano fianco furiosa tra l'erba cli liquefatti massi e di metalli e d'infocata arena scendendo immensa piena, le cittadi che il mar là su l'estremo lido aspergea, confuse e infranse e ricoperse in pochi istanti: onde su quelle or pasce la capra, e città nove sorgon dall'altra banda, a cui sgabello son le sepolte, e le prostrate mura l'arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme dell'uom più stima o cura che alla formica: e se più rara in quello che nell'altra è la strage, non avvien ciò d'altronde fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

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Ben mille ed ottocento anni varcar poi che spariro, oppressi dall'ignea forza, i popolati seggi, e il villanello intento ai vigneti, che a stento in questi campi nutre la morta zolla e incenerita, ancor leva lo sguardo sospettoso alla vetta notte e n,ina: notte data dall'oscuramento del cielo prodotto dall'eruzione, e rovina di materie incandescenti e di sassi; infwa: percorsa, mescolata. 222. immensa pie,ia: la colata della lava. 226. onde: per cui. 228. dall'altra banda: vaga indicazione di luogo: li accanto, li presso; sgabello: fondamento. 229. prostrate mrira: le mura abbattute delle città distrutte. 236. fuor che ••. feconde: soltanto perché I 'uomo ha generazioni meno numerose. 238. varcar: passarono. 239. i popolati seggi: Pompei, Ercolano e Stabia. 216.

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fatai, che nulla mai fatta più mite ancor siede tremenda, ancor minaccia a lui strage ed ai figli ed agli averi lor poverelli. E spesso il meschino in sul tetto dell 'ostel villereccio, alla vagante aura giacendo tutta notte insonne e balzando più volte, esplora il corso del temuto bollor, che si riversa dall'inesausto grembo su l'arenoso dorso, a cui riluce di Capri la marina e di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo del domestico pozzo ode mai racqua fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, desta la moglie in fretta, e via, con quanto di lor cose rapir posson, fuggendo, vede lontan l'usato suo nido, e il picciol campo, che gli fu dalla fame unico schermo, preda al flutto rovente, che crepitando giunge, e inesorato durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio dopo l'antica obblivion l'estinta Pompei, come sepolto scheletro, cui di terra avarizia o pietà rende all'aperto;

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245. null~ mai: neppure minimamente. 250. ostel flillereccio: capanna, casa rustica. 250-1. alla vagante aura: all'aria aperta. 252-3. il corso ..• bollor: la direzione del torrente di lava. 255-7. a cui riluce • •. Mngellina: al cui bagliore (della ribollente lava) riluce la marina di Capri ecc. Cfr. Virgilio, Aen., u, 311-2, descrivente l'incendio di Troia: aiam proxi111us ardet J Ucalegon; Sigea igni /reta lata relucent •· 258. appressar lo vede: il temuto bollor. 259-60. ode • .. gorgogliar: indizio del sopraggiungere della lava. 268. durabilmente . .• si. spiega: si stende sopra i campi durevolmente, per il consolidamento della lava. 269. al celeste raggi.o: alla luce del sole. 273. avarizia ••• aperto: che avidità di lucro, o pio ufficio di riservargli miglior sede, disseppellisce e rende all'aperto.

LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

e dal deserto foro diritto infra le file dei mozzi colonnati il peregrino lunge contempla il bipartito giogo e la cresta fumante, che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell 'orror della secreta notte per li vacui teatri, per li templi deformi e per le rotte case, ove i parti il pipistrello asconde, come sinistra face che per vòti palagi ati-a s'aggiri, corre il baglior della funerea lava, che di lontan per l'ombre rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell'uomo ignara e dell'etadi ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno dopo gli avi i nepoti, sta natura ognor verde, anzi procede per sì lungo cammino che sembra star. Caggiano i regni intanto, passan genti e linguaggi: ella noi vede: e l'uom d'eternità s'arroga il vanto. E tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco,

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2.76. il peregrino: il forestiero, il v1s1tatore. 277. il bipartito giogo: la doppia vetta del vulcano, cioè il Vesuvio e il Monte Somma. 280. secreta: solitaria, oscura. 282. defornri: che hanno perso la loro forma (per l'intervenuta distruzione). 283. ove • •• asconde: dove il pipistrello fa il nido per i suoi nati. 285. atra: fosca. 289 sgg. Cod ecc.: il poeta giunge alla conclusione del suo canto, opponendo ancora una volta l'indifferente eternità della natura e la caducità delle cose umane. 292.. ogno,. verde: sempre giovane, robusta. 292-4. procede • •• star': avanza per una via infinita, tanto da poter apparire immobile. 297. lenta: pieghevole, flessibile (cfr. Virgilio, Georg., 11, 12: • lentae genistae •).

CANTI

che ritornando al loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortai non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno codardamente supplicando innanzi al fu turo oppressor; ma non eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, né sul deserto, dove e la sede e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno inferma dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali.

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302-3. locogid noto: luogo noto perché già una volta lo ricoperse. 303. l'atJaro lembo: il mobile margine del flutto infocato, avido di chiudere nel suo abbraccio tutto quanto incontra. 305. fascio: peso; non rmitente: senza ribellarti, rassegnata. Cfr., a p. 124, Amore e Morte, vv. 110-1: • erta la fronte, armato, / e renitente al fato». 309. futuro oppressor: il fuoco della lava destinato a sopprimerla. 311. sul deserto: ossia nella terra, per dominarla, come fa l'uomo. 313. non •.. fortHna: non per tua volontà ma per caso: (esprime l'umiltà della ginestra che non insuperbisce a credersi signora del mondo). 315. meno inferma: più ferma nella coscienza della verità; quanto: in quanto. 3 17. o dal fato o da te: o dal destino o dal tuo proprio orgoglio.

xxxv IMITAZIONE

Lungi dal proprio ramo, povera foglia frale, dove vai tu ? - Dal faggio là dov'io nacqui, mi divise il vento. Esso, tornando, a volo dal bosco alla campagna, dalla valle mi porta alla montagna. Seco perpetuamente vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro. Vo dove ogni altra cosa, dove naturalmente va la foglia di rosa, e la foglia d'alloro.

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Libera versione della poesia La /ftlille del poeta Antoine-Vincent Amault. Composta non si sa quando, ma parrebbe, data la forma della strofa libera, in epoca posteriore al 1828. Venne stampata la prima volta nell'edizione dei Canti del 1835. - 5. tornando: nel suo instancabile andare e venire. 9. e tutto l'altro ignoro: ignoro tutto quanto non sia questo mio vagare senza senso.

XXXVI

SCHERZO Quando fanciullo io venni a pormi con le Muse in disciplina, l'una di quelle mi pigliò per mano; e poi tutto quel giorno la mi condusse intorno a veder l'officina. Mostrommi a parte a parte gli strumenti delParte, e i servigi diversi a che ciascun di loro s' adopra nel lavoro delle prose e de' versi. Io mirava, e chiedea: Musa, la lima ov' è? Disse la Dea: la lima è consumata; or facciam senza. Ed io, ma di rifarla non vi cal, soggiungea, quand,ella è stanca? Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.

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Datato: Pisa 15 febbraio, ultimo venerdì di carnevale 1828. Pubblicato nell'edizione napoletana dei Canti del 1835. - 2. con le Muse in disciplina: alla scuola delle Muse. 7. a parte a parte: partitamente, una per una. 1 o- r. a che ••. s' adopra: ai quali vengono impiegati. 17. ca/: importa; stanca: logora per l'uso. 18. ma il tempo manca: allusione alla fretta e trascuratezza degli scrittori suoi contemporanei, contro i quali s'appunta l'epigramma.

FRAMMENTI

XXXVII

ALCETA

Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno di questa notte, che mi torna a mente in riveder la luna. lo me ne stava alla finestra che risponde al prato, guardando in alto: ed ecco all'improvviso distaccasi la luna; e mi parea che quanto nel cader s'approssimava, tanto crescesse al guardo; infin che venne a dar di colpo in mezzo al prato; ed era grande quanto una secchia, e di scintille vomitava una nebbia, che stridea sì forte come quando un carbon vivo nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo la luna, come ho detto, in mezzo al prato si spegneva annerando a poco a poco, e ne fuma van l' erbe intorno intorno. Allor mirando in ciel, vidi rimaso come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia, ond'ella fosse svelta; in cotal guisa, ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro.

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Composto a Recanati nel 1819 col titolo di Sogno: pubblicato col titolo di Lo spavento notturno tra gli Idilli nel • Nuovo Ricoglitore • di Milano del dicembre 1825, e successivamente nel volumetto bolognese dei V n-si del 1826. Escluso dall'edizione fiorentina dei Canti, riapparve in quella napoletana del 1835 col titolo attuale. Circa la composizione di questo frammento cfr. gli Argomenti di idilli (v), a p. 306: • Luna caduta secondo il mio sogno•· - 1. I nomi degli interlocutori, Melissa e Alceta, sono ripresi dalla Filli di Sciro di Guidubaldo Bonarelli. 4. che risponde al prato: che dà sul prato. 13-5. Anzi . .. si spegneva: la luna si spegneva proprio a quel modo, cioè come un carbone vivo ecc. 19. roelta: divelta. 20. non m'assicuro: non mi sento tranquillo, sicuro.

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CANTI

MELISSO

E ben hai che temer, che agevol cosa fora cader la luna in sul tuo campo. ALCETA

Chi sa? non veggiam noi spesso di state cader le stelle ? MELISSO

Egli ci ha tante stelle, che picciol danno è cader l'una o l'altra di loro, e mille rimaner. Ma sola ha questa luna in ciel, che da nessuno cader fu vista mai se non in sogno.

agevol: facile, probabile (detto ironicamente). 24. Egli ci ha: vi sono. 27. ha: c'è. 21.

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f8ra: sarebbe.

XXXVIII

lo qui vagando al limitare intorno, invan la pioggia invoco e la tempesta, acciò che la ritenga al mio soggiorno. Pure il vento muggia nella foresta, e muggia tra le nubi il tuono errante, pria che l'aui:ora in ciel fosse ridesta. O care nubi, o cielo, o terra, o piante, parte la donna mia: pietà, se trova pietà nel mondo un infelice amante. O turbine, or ti sveglia, or fate prova di sommergermi, o nembi, insino a tanto che il sole ad altre terre il dì rinnova. S apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia le luci il crudo Sol pregne di pianto.

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Frammento dell'Elqia Il (vedine il testo completo a pp. 282 sgg.) composta nel 1818 e ispirata, pare, dall'amore per la cugina Geltrude Lazzari-Cassi, come Il primo amore (vedi a pp. s I sgg.). L'autore ne salvò questo frammento nell'edizione napoletana dei Canti del 1835. - 1. al limitare intorno: intorno alla soglia di casa. 3. acciò che la ritenga: affinché trattenga la donna amata; al mio soggiorno: alla mia dimora. 4. Pure: eppure. 12. che il sole ... rinnova: che illumini l'altra parte dell'emisfero, e cioè prima che qui venga la notte. 14. posan: si acquetano, non più scosse dall'uragano. 15. le luci: gli occhi.

XXXIX

Spento il diurno raggio in occidente, e queto il fumo delle ville, e queta de' cani era la voce e della gente; quand'ella, vòlta all'amorosa meta, si ritrovò nel mezzo ad una landa quanto foss'altra mai vezzosa e lieta. Spandeva il suo chiaror per ogni banda la sorella del sole, e fea d'argento gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda. I ramuscelli ivan cantando al vento, e in un con l'usignol che sempre piagne fra i tronchi un rivo fea dolce lamento. Limpido il mar da lungi, e le campagne e le foreste, e tutte ad una ad una le cime si scoprian delle montagne. In queta ombra giacea la valle bruna, e i collicelli intorno rivestia del suo candor la rugiadosa luna. Sola tenea la taciturna via la donna, e il vento che gli odori spande, molle passar sul volto si sentia. Se lieta fosse, è van che tu di man de: piacer prendea di quella vista, e il bene che il cor le prometteva era più grande.

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Prima parte, ritoccata e modificata, della cantica Appressamento culla morte, scritta nel novembre-dicembre 1816 (vedine il testo completo a pp. 256 sgg.). Pubblicata la prima volta nell'edizione napoletana dei Canti del 1835. Mentre la cantica è stesa in prima persona, la protagonista di questo frammento è una fanciulla. Sono evidenti le numerose reminiscenze virgiliane, dantesche, petrarchesche ecc. - 2-3. e queta . .• gmte: cfr. Ovidio, Trist., I, 3, 27: « lamque quiescebant tJoces liominumque canumque •· 4. tJòlta .•• meta: diretta all'amoroso appuntamento (inteso in senso anche simbolico, come raggiungimento di una fondamentale aspirazione della vita). 9. eran ghirlanda: reminiscenza dantesca: u La dolorosa selva l'è ghirlanda• (Jn/., XIV, 10). 10. ifJan cantando: cantavano. 13. Limpido ••• lungi: retto da si scoprian del v. 1 s. 18. rugiadosa luna: che piove rugiada (cfr. Virgilio, Georg., 111, 337: • roscida lu11a 11).

SPENTO IL DIURNO RAGGIO IN OCCIDENTE

Come fuggiste, o belle ore serene! dilettevol quaggiù null'altro dura, né si ferma giammai, se non Ja spene. Ecco turbar la notte, e farsi oscura la sembianza del ciel, ch'era sì bella, e il piacere in colei farsi paura. Un nugol torbo, padre di procella, sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto, che più non si scopria luna né stella. Spiegarsi ella il vedea per ogni canto, e salir su per l'aria a poco a poco, e far sovra il suo capo a quella ammanto. Veniva il poco lume ognor più fioco; e intanto al bosco si destava il vento, al bosco là del dilettoso loco. E si fea più gagliardo ogni momento, tal che a forza era desto e svolazzava tra le frondi ogni augel per lo spavento. E la nube, crescendo, in giù calava ver la marina sì, che l'un suo lembo toccava i monti, e l'altro il mar toccava. Già tutto a cieca oscuritade in grembo, s'incominciava udir fremer la pioggia, e il suon cresceva all'appressar del nembo. Dentro le nubi in paurosa foggia guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi; e n'era il terren tristo, e l'aria roggia. Discior sentia la misera i ginocchi; e già muggiva il tuon simile al metro di torrente che d'alto in giù trabocchi.

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28. turbar: turbarsi (usato intransitivamente). 29. la sembianza: l'aspetto. 36. efar . ..• amma11to: coprendo l'aria stessa d'un pesante mantello di nubi. 39. al bosco •. . loco: al bosco laggiù (dove doveva aver luogo l'amoroso convegno). 41. tal . .. desto: cosi che ogni uccello era costretto a destarsi. 48. e il suon: il crosciare (della pioggia). 51. roggia: rossa. 52. Discior smtia: si sentiva sciogliere, mancare le ginocchia. 53-4. al metro di torrente: al rombo uguale di torrente.

CANTI

Talvolta ella ristava, e l' aer tetro guardava sbigottita, e poi correa, sì che i panni e le chiome ivano addietro. E il duro vento col petto rompea, che gocce fredde giù per l'aria nera in sul volto soffiando le spingea. E il tuon veniale incontro come fera, rugghiando orribilmente e senza posa; e cresceva la pioggia e la bufera. E d'ogn'intorno era terribil cosa il volar polve e frondi e rami e sassi, e il suon che immaginar l'alma non osa. Ella dal lampo affaticati e lassi coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno, gia pur tra il nembo accelerando i passi. Ma nella vista ancor l'era il baleno ardendo sì, eh' alfin dallo spavento fermò l'andare, e il cor le venne meno. E si rivolse indietro. E in quel momento si spense il lampo, e tornò buio l'etra, ed acchetossi il tuono, e stette il vento. Taceva il tutto; ed ella era di pietra.

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66. eh~ . •. non o.ra: che l'anima non s'azzarda neppure ad immaginare. 69. gia: giva, andava; pur tra il nembo: nonostante la tempesta. 70-1. il baleno ardendo n: il bagliore che ardeva a tal punto. 74. l'etra: il cielo. 75. stette il vento: il vento si acquietò. 76. ~a di pietra: si era irrigidita nella morte.

XL

DAL GRECO DI SIMONIDE

Ogni

mondano evento è di Giove in poter, di Giove, o figlio, che giusta suo talento ogni cosa dispone. Ma di lunga stagione nostro cieco pensier s'affanna e cura, benché l'umana etate, come destina il ciel nostra ventura, di giorno in giorno dura. La bella speme tutti ci nutrica di sembianze beate, onde ciascuno indarno s'affatica: altri l'aurora amica, altri l' etade aspetta; e nullo in terra vive cui nell'anno avvenir facili e pii con Pluto gli altri iddii la mente non prometta. Ecco pria che la speme in porto arrive, qual da vecchiezza è giunto e qual da morbi al bruno Lete addutto; questo il rigido Marte, e quello il flutto

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Questo e il frammento seguente vennero tradotti dal Leopardi fra il 1823 e il 1824, assieme ad altri componimenti gnomici rimasti invece inediti. Questi due vennero stampati nell'edizione napoletana dei Canti del 1835. Il presente frammento è attribuito a Simonide di Amorgo. 3. giusta suo talento: a suo piacimento. 5. Ma di lr,nga stagione: come se disponesse di un lungo tempo avvenire. 7. l'umana etate: la vita umana. 9. di giorno in giorno dura: campa alla giornata, in quanto la sua fine è imprevedibile. 1 1. snnhianze beate: beate apparenze, illusioni. 1 z. onde: per cui. 13-4. altri .•• aspetta: chi aspetta un domani favorevole, chi una stagione, un tempo migliore. 15. e nullo: e nessuno. 16. facili e pii: condiscendenti e buoni. 17. Pluto: Plutone, il dio della ricchezza. 18. la mente: l'animo, l'intenzione. 19. arrivtJ: arnVI, giunga. 20. i giunto: è raggiunto. 21. al bruno LettJ addutto: condotto al Lete, fiume infernale.

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CANTI

del pelago rapisce; altri consunto da negre cure, o tristo nodo al collo circondando, sotterra si rifugge. Cosi di mille mali i miseri mortali volgo fiero e diverso agita e strugge. Ma per sentenza mia, uom saggio e sciolto dal comune errore patir non sosterria, né porrebbe al dolore ed al mal proprio suo cotanto amore.

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23-4. consunto ••• cure: consunto dai dispiaceri. z8. tJolgo fiero e ditJwso: la moltitudine feroce e varia di mille mali. 30. sciolto dal comune errore: libero dal comune pregiudizio. 31. patir non sostff'ria: non sopporterebbe di patire il dolore. 32-3. n, porrebbe ••• amore: né si affannerebbe a vivere perseguendo illusorie speranze.

XLI

DELLO STESSO

Umana cosa picciol tempo dura, e certissimo detto disse il veglio di Chio, conforme ebber natura le foglie e l'uman seme. Ma questa voce in petto raccolgon pochi. All'inquieta speme, figlia di giovin core, tutti prestiam ricetto. Mentre è vermiglio il fiore di nostra etade acerba, l'alma vòta e superba cento dolci pensieri educa invano, né morte aspetta né vecchiezza; e nulla cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano. Ma stolto è chi non vede la giovanezza come ha ratte l'ale, e siccome alla culla poco il rogo è lontano. Tu presso a porre il piede in sul varco fatale della plutonia sede, ai presenti diletti la breve età commetti.

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V cdi la nota al frammento precedente. La maggior parte dei dotti attribuisce questo frammento non già a Simonide di Amorgo, come credette il Leopardi, bensl a Simonide di Ceo. - 3. il veglio di Chio: Omero. 4-5. conforme ... se,ne: cfr. Iliade, trad. Monti, VI, 180: « Quale delle foglie, / tale è la stirpe degli umani •. 8. figlia di giovin core: frutto della giovinezza. 13. educa invano: coltiva inutilmente. 14. nulla: nessuna. 19. il rogo: il rogo funerario. 22. plutonia sede: la dimora infernale, il regno dei morti. 23-4. ai presenti • •• commetti: affida il poco tempo che ti resta ancora da vivere alle gioie presenti, senza far calcolo sul domani.

NOTE Al CANTl 1

(1. All'Italia, v. 79, p. 5.] Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone s'introduce a poetare, cioè da Simonide; tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell'undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell'ultima strofe. 2 Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e da altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico, né più fortunato di questo che fu scelto, o più veramente sortito, da Simonide. Perocché se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l'operarono, e con tutto questo non possiamo tenere le lacrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitre secoli dopo ch'ella è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un Greco, e poeta, e dei principali, avendo veduto il fatto, si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vincitrici di un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d'Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta un'eccellentissima nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall'emulazione di tanta virtù dimostrata pur dianzi dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza, fossero perdute, non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell'animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl'ingegni, tornare a fare il suo canto; del quale io porto questo parere, che o fosse maraviglioso, o la fama di Simonide fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria. (Lettera a Vincenzo Monti premessa alle edizioni di Roma e di Bologna.) 3

[111. Ad Angelo Mai, qr,and'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, vv. 79-80, p. 19.) Di questa fama divulgata anticamente che in lspagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, si 1. Furono pubblicate da Leopardi nella prima edizione dei Canti, Firenze, Piatti, 1831 1 e ristampate nelle edizioni successive. 2. Vedi la nota al v. 125, a p. 7. 3. Cfr. le Dedicatorie a Vincenzo Monti, a pp. 183-6. 12

NOTE Al CANTI

udisse di mezzo all'Oceano uno stridore simile a quello che fanno i carboni accesi, o un ferro rovente, quando è tuffato nell'acqua, vedi Cleomede, Circular. doctrin. de sublim., 1. 2, c. 1, ed. Bake, Lugd. Bat. 1820, p. 109 scq.; Strabone, I. 3, ed. Amstel. 1707, p. 202 B; Gjovenale, Sat., 14, v. 279; Stazio, Silv., 1. 2, Genethl. Lucani, v. 24 seqq.; ed Ausonio, Epist., 18, v. 2. Floro, I. 2, c. 17, parlando delle cose fatte da Decimo Bruto in Portogallo: cc peragratoque vietar Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obr11.tumq1.1e aquis ignem, non sine quodam sacrilegii metu, et horrore, deprehendit •· Vedi ancora le note degli eruditi a Tacito, De Germ., C. 45.l [lvi, vv. 95-6, p. 20.] Mentre la notizia della rotondità della terra, ed altre simili appartenenti alla cosmografia, furono poco volgari, gli uomini, ricercando quello che si facesse il sole nel tempo della notte, o qual fosse lo stato suo, fecero intorno a questo parecchie belle immaginazioni : e se molti pensarono che la sera il sole si spegnesse, e che la mattina si raccendesse, altri immaginarono che dal tramonto ai riposasse e dormisse fino al giorno. Stesicoro, Ap. Athenaellm, 1. 1 I, c. 38, ed. Schweigh., t. 4, p. 237; Antimaco, Ap. eumd., 1. c., p. 238; Eschilo, I. c., e più distintamente Mimnermo, poeta greco antichissimo, I. c., cap. 39, p. 239, dice che il sole, dopo calato, si pone a giacere in un letto concavo, a uso di navicella, tutto d'oro, e così dormendo naviga per l'Oceano da ponente a levante. Pitea marsigliese, allegato da Gemino, c. s, in Petav., Urano[., ed. Amst., p. 13, e da Cosma egiziano, Topogr. christian., I. 2, ed. Montfauc., p. 149, racconta di non so quali barbari che mostrarono a esso Pitea il luogo dove il sole, secondo loro, si adagiava a dormire. E il Petrarca si accostò a queste tali opinioni volgari in quei versi, Canz. Nella stagion, st. 3:

Quando vede 'l pastor calare i raggi del gran pianeta al nido ov' egli alberga. Siccome in questi altri della medesima Canzone, st. I, segui la sentenza di quei filosofi che per virtù di raziocinio e di congettura indovinavano gli antipodi :

Nella stagion che 'l ciel rapido inchina verso occidente, e clie 'l dì nostro vola a gente che di là forse l'aspetta. Dove quel/orse, che oggi non si potrebbe dire, fu sommamente poetico; perché dava facoltà al lettore di rappresentarsi quella gente sconosciuta a suo modo, o di averla in tutto per favolosa: donde si dee 1.

Cfr. le Annota2ioni alle dieci Can:1oni, a p.

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NOTE Al CANTI

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credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni vaghe e indeterminate, che sono effetto principalissimo ed essenziale delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze del mondo. 1 [lvi, vv. 132-5, p. 21.] Di qui alla fine della stanza si ha riguardo aJla congiuntura della morte del Tasso, accaduta in tempo che erano per incoronarlo poeta in Campidoglio. z

[v1. Bruto minore, v. 1, p. 32: tracia.] Si usa qui la licenza, usata da diversi autori antichi, di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia. Similmente nel nono Canto si seguita la tradizione volgare intorno agli amori infelici di Saffo poetessa, benché il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo; l'una famosa per la sua lira, e l'altra per l'amore sfortunato di Faone; quella contemporanea d'Alceo, e questa più moderna. [vn. Alla primavera, o delle favole antiche, vv. 28-38, p. 38.] La stanchezza, il riposo e il silenzio che regnano nelle città, e più nelle campagne, sull'ora del mezzogiorno, rendettero quell'ora agli antichi misteriosa e secreta come quelle della notte: onde fu creduto che sul mezzodì più specialmente si facessero vedere o sentire gli Dei, le ninfe, i silvani, i fauni e le anime de' morti; come apparisce da Teocrito, ldJ,'ll., 1, v. 15 seqq.; Lucano, I. 3, v. 422 seqq.; Filostrato, Heroie., c. 1, § 4, Opp., ed. Olear., p. 671 ; Porfirio, De antro nymph., c. 26 seq.; Servio, Ad Georg., I. 4, v. 401; e dalla Vita di san Paolo primo eremita scritta da san Girolamo, c. 6, in Vit. Patr., Rosweyd., 1. 1, p. 18. Vedi ancora il Meursio, Ar,ctar. philolog., c. 6, colle note del Lami, Opp. Meurs., Florent., voi. S, col. 733; il Barth, Animadv. ad Stat., part. 2, p. 1081, e le cose disputate dai comentatori, e nominatamente dal Calmet, in proposito del demonio meridiano della Scrittura volgata Psal., 90, v. 6. ,Circa all'opinione che le ninfe e le dee sull'ora del mezzogiorno si scendessero a lavare ne' fiumi e ne' fonti, vedi Callimaco in Lavacr. Pali., v. 71 seqq., e quanto propriamente a Diana, Ovidio. Metam .• l. 3, v. 144 seqq. 3

[v111. Inno ai Patriarchi. o de' principii del genere tlniano. vv. 46-50, p. 44.] • Egressusque Cain a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et aedificavit civitatem. • Genes., c. 4, v. 16.4 Cfr. lc Annotazioni alle dieci Canzoni, a pp. 200-1. 2. Cfr. le Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. 201. 3. Cfr. le Annotazioni alle dieci Canzoni, a p. a12. 4. Cfr. le Annota.ioni alle dieci Canzoni, a pp. :u6-7. 1.

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NOTE Al CANTI

[lvi, v. 117, p. 47.] È quasi superfluo ricordare che la California è posta nell'ultimo termine occidentale di terra ferma. Si tiene che i Califomi sieno, tra le nazioni conosciute, la più lontana dalla civiltà, e la più indocile alla medesima. 1

[xx111. Canto nott11rno di un pastore erra1rte dell'Asia, p. 103.] • Pl11sieurs d' entre ei,x (parla di una delle nazioni erranti dcli' Asia) passent la nr,it assis sur une pierre à regarder la lune, età improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. ,, Il Barone di Meyendorff, Voyage d'Orenbourg à Boukliara, fait en z8ao, appresso il giornale cc des Savans », 1826, septembre, p. s 18. [Ivi, vv. 126-32, p. 107.] Il signor Bothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: ancor io provo pochi piaceri (cc godo ancor poco •); né mi lagno di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che provo, cioè deJla noia. Questo non era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perché gli animali non s'annoino, e l'uomo sl: la quale se fosse tautologia, tutte quelle conchiusioni dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologie. [XJCXII. Palinodia al marchese Gino Capponi, v. 34, p. 140: boa.] Pel-

liccia in figura di serpente, detta dal tremendo rettile di questo nome, nota alle donne gentili de' tempi nostri. Ma come la cosa è uscita di moda, potrebbe anche il senso della parola andare fra poco in dimenticanza. Però non sarà superflua questa noterella.

[xxxiv. La ginestra o il fiore del deserto, v. s 1, p. 154.] Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza.

1.

Cfr. le Annotasio,ai alle dieci Canzoni, a p.

218.

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE RELATIVE· AI CANTI

DEDICATORIE DELLE CANZONI• 11

AL CHIARISSIMO SIG. CAVALIERE VINCENZO MONTI GIACOMO LEOPARDI

Quando mi risolsi di pubblicare queste Canzoni, come non mi sarei lasciato condurre da nessuna cosa del mondo a intitolarle a verun potente, così mi parve dòlce e beato il consacrarle a Voi, Signor Cavaliere. Stante che oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l'ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studi, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'Italia sia morta. Di queste Canzoni, se uguaglino il soggetto, che quando lo uguagliassero, non mancherebbe loro né grandiosità né veemenza, sarà giudizio non tanto dell'universale quanto vostro; giacché da quando veniste in quella fama che dovevate, si può dire che nessuno scrittore italiano, se non altro, di quanti non ebbero la vista impedita né da scarsezza d'intelletto, né da presunzione e amore di se medesimi, stimò che valessero punto a rifarlo delle riprensioni vostre le lodi dell'altra gente, o lodato da voi riputò mal pagate le sue fatiche, o si curò de' biasimi o dello spregio del popolo. Basterà che intorno al canto di Simonide che sta nella prima Canzone io significhi non per Voi, ma per li più de' lettori, e domandandovi perdono di questo, ch'io mi fo coraggio e non mi vergogno di scriverlo a Voi, che quel gran fatto delle Termopile fu celebrato realmente da un Poeta greco di molta fama, e quel ch'è più, vissuto in quei medesimi tempi, cioè Simonide, come si vede appresso Diodoro nell'undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso Poeta; lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri. Due o tre delle quali parole recate da Diodoro sono espresse nel quinto verso dell'ultima strofe. 2 Ora io giudicava che a nessun altro Poeta lirico né prima né • Ristampiamo qui al completo, a seguito delle Note ai Canti, il corredo di altre note, dediche e prefazioni che il Leopardi diede, volta a volta, alle diverse edizioni delle Canzoni e poi dei Canti, le quali non vennero più ristampate nelle edizioni successive. 1. Scritta nell'ottobre 1818 e stampata all'inizio dell'edizione delle ·due canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (Roma, Bourlié, 1818). 2. Vedi la nota al v. 125, a p. 7.

184

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

dopo toccasse mai verun soggetto così grande né conveniente. Imperocché quello che raccontato o letto dopo ventitre secoli, tuttavia spreme da occhi stranieri le lagrime a viva forza, pare che quasi veduto, e certamente udito a magnificare da chicchessia nello stesso fervore della Grecia vincitrice di un,armata quale non si vide in Europa se non allora, fra le maraviglie i tripudii gli applausi le lagrime di tutta una eccellentissima nazione sublimata oltre a quanto si può dire o pensare dalla coscienza della gloria acquistata, e da quell'amore incredibile della patria ch'è passato in compagnia de' secoli antichi, dovesse ispirare in qualsivoglia Greco, massimamente Poeta, affetto e furore onninan,ente indicibile e sovrumano. Per la qual cosa dolendomi assai che il sovraddetto componimento fosse perduto, alla fine presi cuore di mettermi, come si dice, nei panni di Simonide, e così, quanto portava la mediocrità mia, rifare il suo canto, del quale non dubito di affermare, che se non fu maraviglioso, allora e la fama di Simonide fu vano rumore, e gli scritti consumati degnamente dal tempo. Di questo mio fatto, se sia stato coraggio o temerità, sentenzierete Voi, Signor Cavaliere, e altresì, quando vi paia da tanto, giudicherete della seconda Canzone, la quale io v,offro umilmente e semplicemente insieme colPaltra, acceso d'amore verso la povera Italia, e quindi animato di vivissimo affetto e gratitudine e riverenza verso cotesto numero presso che impercettibile d,ltaliani che sopravvive. Né temo se non ch'altri mi vituperi e schernisca della indegnità e miseria del donativo; che quanto a Voi non ignoro che siccome l'eccellenza del vostro ingegno vi dimostrerà necessariamente a prima vista la qualità dell'offerta, così la dolcezza del cuor vostro vi sforzerà d'accettarla, per molto ch'ella sia povera e vile, e conoscendo la vanità del dono, a ogni modo procurerete di scusare la confidenza del donatore, forse anche vi sarà grato quello che non ostante la benignità vostra, vi converrà tenere per dispregevole. 11• GIACOMO LEOPARDI AL CAVALIERE VINCENZO MONTI

Consacro a Voi, Signor Cavaliere queste Canzoni perché quelli che oggi compiangono o esortano la patria nostra, non possono fare di non consolarsi pensando che voi con quegli altri pochissimi (i nomi de' quali si dichiarano per se medesimi quando anche si tacciano) 1. t la precedente lettera d·edicatoria rifatta e pubblicata nelPedizione delle dieci Canzoni di Bologna, Nobili, 1824. Non fu ristampata nelle edizioni ulteriori, ma il Leopardi conservò il frammento sulle Termopili nelle Note ai Canti (vedi a p. 177).

DEDICATORIE DELLE CANZONI

185

sostenete l'ultima gloria degl'Italiani; dico quella che deriva loro dagli studi e singolarmente dalle lettere e dalle arti belle; tanto che per anche non si potrà dire che l'Italia sia morta. Se queste Canzoni uguagliassero il soggetto, so bene che non manc.-ierebbe loro né grandiosità né veemenza; ma non dubitando che non cedano alla materia, mi rimetto del quanto e del come al giudizio vostro, non altrimenti ch'io faccia a quello dell'universale; conformandomi in questa parte a molti valorosi ingegni italiani che per l'ordinario non si contentano se le opere loro sono approvate per buone dalla moltitudine, quando a voi non soddisfacciano; o lodate che sieno da voi, non si curano che il più dell'altra gente le biasimi o le disprezzi. Una cosa nel particolare della prima Canzone m'occorre di significare alla più parte degli altri che leggeranno; ed è che il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa Canzone s'introduce a poetare, cioè da Simonide, tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell'undecimo libro, dove recita anche certe parole d'esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell'ultima strofe. 1 Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e d'altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico e più fortunato di questo che fu scelto o più veramente sortito da Simonide. Perocché se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l'operarono, e con tutto questo non possiamo tener le Iagrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitr~ secoli dopo ch'ell'è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un greco, e poeta, e de' principali, avendo veduto il fatto, si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vincitrici d'un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d'Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta una eccellentissima nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall'emulazione di tanta virtù dimostrata pur allora dai suoi. Per queste considerazioni riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza fossero perdute, non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell'animo del poeta in quel tempot 1.

Vedi a p. 183 la nota

2.

186

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl'ingegni, tornare a fare la sua canzone ; della quale io porto questo parere, che o fosse maravigliosa, o la fama di Simonide fosse vana e gli scritti perissero con poca ingiuria. Voi, Signor Cavaliere, sentenzierete se questo mio proponimento abbia avuto più del coraggioso o del temerario; e similmente farete giudizio della seconda Canzone, ch'io v'offro insieme coll'altra candidamente e come quello che facendo professione d'amare più che si possa la nostra povera patria, mi tengo per obbligato d'affetto e riverenza particolare ai pochissimi Italiani che sopravvivono. E ho tanta confidenza nell'umanità dell'animo vostro, che quantunque siate per conoscere al primo tratto la povertà del donativo, m'assicuro che lo accetterete in buona parte, e forse anche l'avrete caro per pochissima o niuna stima che ne convenga fare al vostro giudizio.

DEDICATORIA DELLA CANZONE • AD ANGELO MAI•

GIACOMO LEOPARDI AL CONTE LEONARDO TRISSINO

Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de' nostri tempi non darà lode agl'italiani altro che nelle lettere e nelle scolture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io non vedo in che pregio ne dvremo esser tenuti dai posteri, considerando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia, ancorché gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza. E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicché diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacché la fortuna ci toglie il giovare co' fatti com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch'ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, « ed io son un di quei che 'l pianger giova». 2 Io non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna. 113

GIACOMO LEOPARDI AL CONTE LEONARDO TRISSINO

Voi per animarmi a scrivere siete solito d'ammonirmi che l'Italia non sarà lodata né anco forse nominata nelle storie de' tempi nostri, se non per conto delle lettere e delle sculture. Ma da un secolo e più siamo fatti servi e tributari anche nelle lettere, e quanto a loro io non vedo in che pregio o memoria dovremo essere, avendo smarrita la vena d'ogni affetto e d'ogni eloquenza, e lasciataci venir meno la facoltà dell'immaginare e del ritrovare, non ostante che ci fosse propria e speciale in modo che gli stranieri non dismettono il costume d'attribuircela. Nondimeno restandoci in luogo d'affare quel che i I. Scritta nel maggio I 820 per la prima edizione delle Canzoni, Bologna, Marsigli, 1820. 2. Petrarca, Rime, xxxvu, 69. 3. t la stessa dedicatoria, con varianti, pubblicata nell'edizione delle dicci Canzoni, Bologna, Nobili, 1824.

188

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

nostri antichi adoperavano in forma di passatempo, non tralasceremo gli studi, quando anche niuna gloria ce ne debba succedere, e non potendo giovare altrui colle azioni, applicheremo l'ingegno a dilettare colle parole. E voi non isdegnerete questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi che si conviene agli sfortunati di vestire a lutto, e parimente alle nostre canzoni di rassomigliare ai versi funebri. Diceva il Petrarca: e< ed io son un di quei che 'l pianger giova,,. 1 Io non dirò che il piangere sia natura mia propria, ma necessità de' tempi e della fortuna.

1.

Vedi a p. 187 la nota

2.

PREFAZIONI E ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI STAMPATE IN BOLOGNA NEL 1824 I

A CHI LEGGE 1

Con queste Canzoni fautore s'adopera dal canto suo di ravvivare negl'ltaliani quel tale amore verso la patria dal quale hanno principio, non la disubbidienza, ma la probità e la nobiltà così de' pensieri come delle opere. Al medesimo effetto riguardano, qual più qual meno dirittamente, le istituzioni dei nostri governi, i quali procurano la felicità de' loro soggetti, non dandosi felicità senza virtù, né virtù vera e generale in un popolo disamorato di se stesso. E però dovunque i soggetti non si curano della patria loro, quivi non corrispondono all'intento de' loro Principi. Di queste Canzoni le due prime uscirono l'anno 1818, premessavi allora quella dedicatoria ch'hanno dinanzi. La terza l'anno 1820 colla lettera ch'anche qui se le prepone. E dopo la prima stampa tutte tre sono state ritoccate dall'autore in molti luoghi. L'altre sono nuove. Il

ANNUNCIO DELLE CANZONI

Canzoni del conte Giacomo Leopardi. Bologna, Nobili, 1824. Un voi. in 8° piccolo. Sono dieci Canzoni, e più di dieci stravaganze. Primo: di dieci Canzoni né pur una amorosa. Secondo: non tutte e non tutto sono di stile petrarchesco. Terzo: non sono di stile né arcadico né frugoniano; non hanno né quello del Chiabrera, né quello del Testi o del Filicaia o del Guidi o del Manfredi, né quello delle poesie liriche del Parini o del Monti; in somma non si rassomigliano a nessuna 1. L'avviso A chi legge, e le successive annotazioni, furono scritte, si ritiene, nel 1822, ad eccezione della breve nota alla canzone decima (Alla sua donna), che è, evidentemente, da ascriversi al 1823, epoca della composizione di detta lirica. Incluse nell'edizione bolognese delle Canzoni del 1824, le Annotazioni non furono più ristampate in volume, ad eccezione di qualche passo che venne dall'autore conservato nelle Note ai Canti. Vennero invece ristampate, con varie modifiche e premessovi un Annuncio delle Ca11zoni, nel cc Nuovo Ricoglitore • di Firenze (settembre e novembre 1825), ed è quest'ultimo testo che, sull'esempio del Flora, viene qui riprodotto. L'avviso A chi legge, come giustamente si osserva in nota dell'edizione a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano, Officina Tipografica Gregoriana, 1935, appare fatto evidentemente ad uso della Censura.

190

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

poesia lirica italiana. Quarto: nessun potrebbe indovinare i soggetti delle Canzoni dai titoli; anzi per lo più il poeta fino dal primo verso entra in materie differentissime da quello che il lettore si sarebbe aspettato. Per esempio, una Canzone per nozze, non parla né di talamo né di zona né di Venere né d'lmene. Una ad Angelo Mai parla di tutt'altro che di codici. Una a un vincitore nel giuoco del pallone non è un'imitazione di Pindaro. Un'altra alla Primavera non descrive né prati né arboscelli né fiori né erbe né foglie. Quinto: gli assunti delle Canzoni per se medesimi non sono meno stravaganti. Una, ch'è intitolata Ultimo canto di Saffo, intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane: soggetto così difficile, che io non mi so ricordare né tra gli antichi né tra i moderni nessuno scrittor famoso che abbia ardito di trattarlo, eccetto solamente la signora di Stael, che lo tratta in una lettera in principio della Delfina, ma in tutt'altro modo. Un'altra Canzone intitolata Inno ai Patriarchi, o de' principii del genere umano, contiene in sostanza un panegirico dei costumi della California, e dice che il secol d'oro non è una favola. Sesto: sono tutte piene di lamenti e di malinconia, come se il mondo e gli uomini fossero una trista cosa, e come se la vita umana fosse infelice. Settimo: se non si leggono attentamente, non s'intendono; come se gl'ltaliani leggessero attentamente. Ottavo: pare che il poeta si abbia proposto di dar materia ai lettori di pensare, come se a chi legge un libro italiano dovesse restar qualche cosa in testa, o come se già fosse tempo di raccoglier qualche pensiero in mente prima di mettersi a scrivere. Nono: quasi tante stranezze quante sentenze. Verbigrazia: che dopo scoperta l'America, la terra ci par più piccola che non ci pareva prima; che la Natura parlò agli antichi, cioè gl'inspirò, ma senza svelarsi; che più scoperte si fanno nelle cose naturali, e più si accresce alla nostra immaginazione la nullità dell'Universo; che tutto è vano al mondo fuorché il dolore; che il dolore è meglio che la noia; che la nostra vita non è buona ad altro che a disprezzarla essa medesima; che la necessità di un male consola di quel male le anime volgari, ma non le grandi; che tutto è mistero nell'Universo, fuorché la nostra infelicità. Decimo, undecimo, duodecimo: andate così discorrendo. Recheremo qui, per saggio delle altre, la Canzone che s'intitola Alla sua donna, la quale è la più breve di tutte, e forse la meno stra-vagante, eccettuato il soggetto. La donna, cioè l'innamorata, dell'autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si. trova. L'autore non sa se la sua donna (e cosi chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de' sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché fuor dell•autore, nessun amante terreno vorrà fare all'amore col telescopio. 1 Alle Canzoni sono mescolate alcune prose, cioè due Lettere, l'una al cavalier Monti, e raltra al conte Trissino vicentino; e una Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. Si aggiungono appiè del volume certe Annotazioni, le quali verremo portando in questo Giornale, perché per la maggior parte· sono in proposito della lingua, che in Italia è, come si dice, la materia del giorno ; e non si può negare che il giorno in Italia non sia lungo. Il cor di tutte cose al.fin sente sazietà, del sonno, della danza, del canto e dell'amore, piacer più cari che il parlar di lingua; ma sazietà di lingua il cor non sente ; 2 se non altro, il cuor degl' Italiani. Venghiamo alle note del Leopardi.

1113

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

Non credere, lettor mio, che in queste Annotazioni si contenga cosa di rilievo. Anzi se tu sei di quelli ch'io desidero per lettori, fa conto che il libro sia finito, e lasciami qui solo co' pedagoghi a sfoderar testi e citazioni, e menare a tondo la clava d'Ercole, cioè l'autorità, per dare a vedere che anch'io così di passata ho letto qualche buono scrittore italiano, ho studiato tanto o quanto la lingua nella quale scrivo, e mi sono informato all'ingrosso delle sue condizioni. Vedi, caro lettore, che oggi in Italia, per quello che spetta alla lingua, poSegue la canzone Alla sua donna (vedila a pp. 76 sgg.). 2. Parodia dei seguenti versi d'Omero, tradotti dal Monti (Iliade, XIII, 817-21): •Il cor di tutte / cose alfin sente sazietà, del sonno, / della danza, del canto e dcli 'amore,/ piacer più cari che la guerra; e mai/ sazi di guerra non saranno i Teucri?• 3. I rinvii e le note fra parentesi quadre sono del curatore del presente volume. 1.

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

192

chissimi sanno scrivere, e moltissin1i non lasciano che si scriva; né fra gli antichi, o i moderni fu mai lingua nessuna civile né barbara così tribolata a un medesimo tempo dalla rarità di quelli che sanno, e dalla moltitudine e petulanza di quelli che, non sapendo niente, vogliono che la favella non si possa stendere più là di quel niente. Co' quali, per questa volta e non più, bisogna che tu mi dii licenza di fare alle pugna come s'usa in Inghilterra, e di chiarirli (se bene, essendo uomo, non mi reputo immune dallo sbagliare) che non soglio scrivere affatto affatto come viene, e che in tutti i modi non sarà loro così facile, come si pensano, il mostrarmi caduto in errore.

Canzone prima. [ALL'ITALIA]

St.

VI,

v.

10

[vv.

1

I 10-1].

vedi ingombrar de' vinti la fuga i carri e le tende cadute, z Cioè trattenere, contrastare, impacciare, impedire. Questo sentimento della voce ingombrare ha due testi nel Vocabolario della Crusca; ma quando non ti paressero chiari, accompagnali con quest'altro esempio, ch'è del Petrarca :J II Quel sì pensoso è Ulisse, affabil ombra, / che la casta mogliera aspetta e prega; / ma Circe amando glie) ritiene e 'NGOMBRA >>. Dietro a questo puoi notare il seguente, ch'è d'Angelo di Costanzo: 4 "Che quel chiaro splendor ch'offusca e INGOMBRA, / quando vi mira, OGNI più acuto ASPETTO (cioè vista),/ d'un'alta nube la mia mente adombra». Ed altri molti ne troverai della medesima forma leggendo i buoni scrittori, e vedrai come anche si dice ingombro nel significato d'impedimento o di ostacolo; e se la Crusca non s'accorse di questo particolare, o non fu da tanto di spiegarlo, tal sia di lei.

lvi,

12

[vv.

112-3].

e correr fra' primieri pallido e scapigliato esso tiranno;

Del qual tiranno il nostro Simonide avanti a questo passo non ha fatto menzione alcuna. Il Volgarizzatore antico dell'Epistola di Marco Tullio Cicerone a Quinto suo fratello intorno al Proconsolato dell'Asia:s cc Avvegnach'io non dubitassi che questa epistola molti messi, ed eziandio ESSA FAMA, colla sua velocità vincerebbono ». Que1.

[A pp. 3 sgg.]

z. [Lezione definitiva: • vedi intralciare ai vinti•.] 22. 4. Son. 13. 5. Firenze 1815, pag. 3.

d'Am., capit. J, vera.

3. Tr.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

1 93

ste sono le primissime parole dell'Epistola. Similmente lo SperonP dice che « amor vince essa natura » volendo dir fino alla natura. lvi, 14 [vv.

I

14-5].

ve, come infusi e tinti del barbarico sangue

Infusi qui vale aspersi o bagnati. Il Casa : 2 "E ben conviene/ or penitenzia e duol l'anima lave/ de' color atri e del terrestre limo/ OND' ella è per mia colpa INFUSA e grave ». Sopra le quali parole i comentatori adducono quello che dice lo stesso Casa in altro luogo :l " Poco il mondo già mai t'infuse o tinse, / Trifon, nell'atro suo limo terreno». Ho anche un esempio simile a questi del Casa nell'Oreficeria di Benvenuto Cellini, 4 ma non lo tocco per rispetto d'una lordura che gli è appiccata e non va via. lvi, 18 [v. 118].

Evviva evviva :5

L'acclamazione Viva è portata nel Vocabolario della Crusca, ma non evviva. E ciò non ostante io credo che tutta l'Italia, quando fa plauso, dica piuttosto evviva che viva; e quello non è vocabolo forestiero, ma tutto quanto nostrale, e composto, come sono infiniti altri, d'una particella o vogliamo interiezione italiana, e d'una parola italiana, a cui l'accento della detta particella o interiezione monosillaba raddoppia la prima consonante. Questo è quanto alla purità della voce. Quanto alla convenienza, potranno essere alcuni che non lodino l'uso di questa parola in un poema lirico. lo non ho animo d'entrare in quello che tocca alla ragion poetica o dello stile o dei sentimenti di queste Canzoni, perché la povera poesia mi par degna che, se non altro, se l'abbia questo rispetto di farla franca dalle chiose. E però taccio che laddove s'ha da esprimere la somma veemenza di qualsivoglia affetto, i vocaboli o modi volgari e correnti, non dico hanno luogo, ma, quando sieno adoperati con giudizio, stanno molto meglio dei nobili e sontuosi, e danno molta più forza all'imitazione. Passo eziandio che in tal~ occorrenze i principali maestri (fossero poeti o prosatori) costumarono di scendere dignitosamente dalla stessa dignità, volendo accostarsi più che potessero alla natura, la quale non sa e non vuole stare né sul grave né sull'attillato quando è stretta dalla passione. E finalmente non voglio dire che se cercherai le Poetiche e Rettoriche antiche o moderne, troverai questa pratica, non solamente concessa né commendata, ma numerata fra gli accorgimenti necessari al buono scrittore. Lascio tutto questo, e metto mano 1. Dial. d'Amor~. Dialoghi dello Sper., Venez. 1596, pag. 3. 2. Canz. 4, stanza 3. 3. Son. 45. 4. Cap. 7, Milano 1811, p. 95. 5. [Lezione definitiva: 11 Oh viva, oh viva».] 13

194

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

all'arme fatata delPesempio. Che cosa pensiamo noi che fosse quell'io che troviamo in Orazio due volte nell'Ode seconda del quarto libro• e due nella nona dell'Epodo ?2 Parola, anzi grido popolare, che non significava altro se non se indeterminatamente l'applauso (come il nostro Viva), o pure la gioia: la quale per essere la più rara e breve delle passioni, è fors'anche la più frenetica; e per questo e per altri molti rispetti, che non si possono dare ad intendere ai pedagoghi, mette la dignità dell'imitazione in grandissimo pericolo. E i Greci, ai quali altresì fu comune la detta voce, l'adoperavano fino coi cani per lusingarli e incitarli, come puoi vedere in Senofonte nel libro della Cacda.J E nondimeno Orazio, poeta coltissimo e nobilissimo, e così di stile come di lingua ritiratissimo dal popolo, volendo rappresentare l'ebbrietà della gioia, non si sdegnò di quella voce nelle canzoni di soggetto più magnifico.

Canzone seconda. [SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE) 4 IV, I

[V. 5 2].

Voi spirerà l'altissimo subbietto,

Io credo che s'altri può essere spirato da qualche persona o cosa (come i santi uomini dallo Spirito Santo), 5 ci debbano esser cose e persone che lo possano spirare; e tanto più che non mancano di quelle che lo ispirano; se bene il Vocabolario non le conobbe; ma te ne possono mostrare il Petrarca, il Tasso, il Guarini e mille altri. Dice il Petrarca6 in proposito di Laura: « Amor L'INSPIRI / in guisa che sospiri». Dice il Tasso :7 « Buona pezza è, Signor, che in sé raggira / un non so che d'insolito e d'audace/ la mia mente inquieta; o DIO L'INSPIRA; / o l'uom del suo voler suo dio si face ». Ed altrove :8 « Guelfo ti pregherà (010 sì L'INSPIRA) / ch'assolva il fier garzon di quell'errore». Dice il Guarini :9 (< Ché bene INSPIRA IL CIELO/ QUEL COR che bene spera». Aggiungi le Vite dei santi Padri: « Il giovane inspirato da Dio», 10 cc Antonio inspirato da Dio 11, 11 « uno scelleratissimo uomo inspirato da Dio», 12 e simili. Anche i versi infrascritti convengono a questo proposito, i quali sono del Guidi: 13 « Vedrai come IL MIO SPIRTO ivi comparte / ordini e moti, e come INSPIRA evolve/ J. V. 49, 50. 2. V. -:1, 23. 3. C. 6, art. 17. 4. [A pp. 8 sgg.] 5. Vocab. della Crusca, v. Spirato. 6. Canz. Chiare,fresche e dolci acque, st. 3. 7. Gerus. liber., canto 12, stanza 5. 8. C. 14, st. 17. 9. Past. Fido, Atto I, scena 4, v. 206. 10. Par. 1, c.1, Fir.1731-1735, t. 1, p. 3. 11. C. S, p. 12. 12. C. 35, p. 103. 13. Endim., At. S, scena 2, v. 35.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

1 9S

grande ARMONIA che 'I mondo regge•· E il Guidi fu annoverato dagli Accademici Fiorentini l'anno 1786 fra gli scrittori che sono o si debbono stimare autentici nella lingua. QUESTA

VIII,

14 [v. 133]. Qui l'ira al cor, qui la pietate abbonda:

Il Sannazzaro nell'egloga sesta dell'Arcadia : 1 cc E per L'IRA sfogar CH'AL CORE ABBONDAMI». Non credere ch'io vada imitando appostatamente, o che facendolo, me ne pregiassi e te ne volessi avvertire. Ma quest'esempio lo reco per quelli che dubitassero, e dubitando affermassero, com'è l'uso moderno in queste materie, che abbondare col terzo caso, nel modo che lo dico io, fosse detto fuor di regola. E so bene anche questo, che fra gl'ltaliani è lode quello che fra gli altri è biasimo, anzi per l'ordinario (e singolarmente nelle lettere) si fa molta più stima delle cose imitate che delle trovate. In somma negli scrittori si ricerca la facoltà della memoria massimamente; e chi più n'ha e più n'adopera, beato lui. l\lfa contuttociò, se paresse a qualcuno ch'io non l'abbia adoperata quanto si richiedeva, non voglio che le Annotazioni o la fagiolata che sto facendo mi levi nessuna parte di questo carico. Circa il resto poi, la voce abbondare importa di natura sua quasi lo stesso che traboccare, o in latino exundare; secondo il quale intendimento è presa in questo luogo della Canzone, e famigliare ai Latini del buon tempo, e usata dal Boccaccio nell'ultimo de' testi portati dal Vocabolario sotto la voce Abbondante. x, 16 [vv. 169-70].

al cui supremo danno il vostro solo è tal che rassomigli. 2

lo credo che se una cosa può somigliare a un'altra, le debba potere anche rassomigliare, e parimente assomigliarle o assimigliarle, oltre a rassomigliarsele o assomigliarsele, o assimigliarsele; e tanto più che io trovo a le viscere delle chiocciole terrestri», non« rassomigliantisi», ma • rassomiglianti a quelle de', lumaconi ignudi terrestri », 3 e certi « rettori assomiglianti a' Priori» di Firenze, 4 e il cielo cc assimigliante quasi ad immagine d'arco ».s Oltracciò vedo che le cose alcune volte risomigliano e risimigliano l'une all'altre. XI,

13 [vv. 183-4]. dimmi, né mai rinverdirà quel mirto che tu festi sollazzo al nostro male ?6

V. 19. 2. [Lezione definitiva: • che s'assomigli».] 3. Voc. d~lla Crus., v. Rassomigliante. 4. V. Assomigliante. 5. V. Assimigliante. 6. [Lezione definitiva: •Di': né più mai rinverdirà quel mirto / ch'alleggiò per gran tempo il nostro male?•] 1.

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PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

Io so che a certi, che non sono pedagoghi, non è piaciuto questo sollazzo: e tuttavia non me ne pento. Se guardiamo alla chiarezza, ognuno si deve accorgere a prima vista che il sollazzo de' mali non può essere il trastullo né il diporto né lo spasso de' mali, ma è quanto dire il sollievo, cioè quello che propriamente è significato dalla voce latina solatirlm, fatta dagl'ltaliani sollazzo. Ora stando che si permetta, anzi spesse volte si richiegga allo scrittore, e massimamente al poeta lirico, la giudiziosa novità degli usi metaforici delle parole, molto più mi pare che di quando in quando se gli debba concedere quella novità che nasce dal restituire alle voci la significazione primitiva e propria loro. Aggiungasi che la nostra lingua, per quello ch'io possa affermare, non ha parola che, oltre a valere quanto la sopraddetta latina, s'accomodi facilmente all'uso de' poeti: fuori di con/orto, che né anche suona propriamente il medesimo. Perocché sollievo e altre tali non sono voci poetiche, e alleggerimento, alleviamento, consolazione e simili appena si possono adattare in un verso. Fin qui mi basti aver detto a quelli che non sono pedanti e che non si contentarono di quel mio sollazzo. Ora voltandomi agli stessi pedagoghi, dico loro che sollazzo in sentimento di sollievo, cioè di solatium, è voce di quel secolo della nostra lingua ch'essi chiamano il buono e l'aureo. Leggano l'antico Volgarizzamento del primo Trattato di San Giovanni Grisostomo Sopra la Compunzione, a capitoli otto :1 « Ora veggiamo quello che séguita detto da Cristo: se forse in alcuno luogo, o in alcuna cosa io trovassi SOLLAZZO, o rimedio DI TANTA CONFUSIONE>>. E ivi a due versi: "Oimè, credevami trovare SOLLAZZO DELLA MIA CONFUSIONE, e io trovo accrescimento,,. Così a capitoli undici : 2 « Tutta la pena che pativa (San Paolo), piuttosto riputava SOLLAZZO o• AMORE, che dolore di corpo ». E nel capo susseguente :J • Onde ne parlano spesso, acciocché almeno per lo molto parlare di quello che amano, si scialino un poco e trovino SOLLAZZO e refrigerio DEL FERVENTE AMORE ch'hanno dentro». L'antica version latina in tutti questi luoghi ha solati11m, o solatia. Veggano eziandio nello stesso Vocabolario della Crusca, sotto la voce Spiraglio, un esempio simile ai soprascritti, il qual esempio è cavato dal Volgarizzamento di non so che altro libro del medesin10 San Grisostomo. E di più veggano, s'hanno voglia, ncll' Asino d'oro del Firenzuola4 come « le lagrime » sono « ultimo SOLLAZZO DELLE MISERIE de' mortali ,,. Anzi è costume dello scrittore nella detta operaS di prendere la voce sollazzo in significato di sollievo, consolaRoma 1817 1 p. 22. 2. P. 33. 3. P. 35. 4. Lib. 6, Mii. 1819, p. 185. 5. L. 2, p. 61; I. 3, p. 75; I. 4, p. 103; I. 5, p. 148 e 169. 1.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

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zione, conforto, ad esempio di quei del trecento, come anche fece il Bembo 1 nel passo che segue: « Messer Carlo, mio solo e caro fratello, unico sostegno e SOLLAZZO DELLA MIA VITA, se n'è al ciclo ito •· Xli, IO

[v. 196].

che stai?

La particella interrogativa che usata invece di perché non ha esempio nel Vocabolario se non seguìta dalla negativa non. Ma che anche senza questa si dica ottimamente, recherò le prime autorità che mi vengono alle mani, fra le innumerabili che si potrebbero addurre. Il Pandolfini nel Trattato del Governo della famiglia : 2 « O cittadini stolti, ove ruinate voi? CHE SEGUITATE con tante fatiche, con tante sollecitudini, con tante arti, con tante disonestà questo vostro stato per ragunare ricchezze?» E in un altro luogo del medesimo libro :3 " Se adunque il danaio supplisce a tutti i bisogni, CHE FA MFSTIERI occupare l'animo in altra masserizia che in questa del danaio? 11 Il Caro nel Volgarizzamento del primo Sermone di san Cipriano Sopra relemosina:4 e, CHE VAI mettendo innanzi qucseombre e queste bagattelle per iscusarti in vano?,, Il Tasso nel quarto della Gerusalemme :S « Ma CHE RINNOVO i miei dolor parlando? ,, E similmente in altri luoghi. 6 Il Varchi nel Boezio:' « CHE STARÒ io a raccontarti i tuoi figliuoli stati Consoli?,, Ed altre volte. 8 Il Castiglione nel Cortegia,io :9 "Come un litigante a cui in presenza del giudice dal suo avversario fu detto, CHE BAI tu? subito rispose, PERCHÉ veggo un ladro». Il Davanzati nel primo libro degli Annali di Tacito : 10 « CHE tanto UBBIDIRE, come schiavi, a quattro scalzi centurioni e meno tribuni ? 11 Dove il testo originale dice: • CUR pa11cis centrtrionibus, paucioribus tribrmis ùi modum servorum OBEDIRENT? » Aggiungi Bernardino Baldi, autor corretto nella lingua, e molto elegante: « Ma CHE STIAMO / perdendo il tempo, e altrui biasmando insieme, / quando altro abbiam che fare?,,•• Ed altrove : 12 « Ma CHE PERDIAMO il tempo, e non andiamo/ ad impetrar da lei 11, con quello che segue. Sia detto per incidenza, che sebbene delle Egloghe di questo scrittore è conosciuta e riputata solamente quella che s'intitola Celeo, o l'Orto, nondimeno tutte l'altre (che sono quindici, senza un Epitalamio che va con loro), e maggiormente la quinta, la duodecima e la decima1. Lett., voi. 4, part. 2. Op. del Bem., Ven. 1729, t. 3, pag. 310. 2. Mii.1811. p. 47. 3. P. 174. 4. Ven., appresso Aldo Manuz., 1569, pag. 131. 5. St, 12. 6. Can. 8, st. 68; can. 11, st. 63 e 75; can. 13, st. 64; can. 16, st. 47 e 57; can. 20, st. 19. 7. Lib. 2, prosa 4, Venezia 1785, pag. 36. 8. Prosa 7, pag. 50; lib. 3, pr. S, pag. 69, e pr. 11, pngg. 90 e 91. 9. Lib. 2, Milano 1803, voi. I, pag. 190. 10. Cap. 17. 11. Egloga 10, v. 16. Versi e prose di Mons. Bernardino Baldi, Venezia 1590, pag. 196. 12. Egl. 11, v. 81, pag. 209.

198

PREFAZIONI, DEDICHE B ALTRE NOTE AI CANTI

quarta, sono scritte con semplicità, candore e naturalezza tale, che in questa parte non le arrivano quelle del Sannazzaro né qual altro si sia dei nostri poemi pastorali, eccettuato l' Aminta e in parecchie scene il Pastor Fido. lvi, 12 [v. 198].

altrice

Credo che ti potrei portare non pochi esempi dell'uso di questa parola, pigliandoli da' poeti moderni: ma se non ti curi degli esempi moderni, e vuoi degli antichi, abbi pazienza che io li trovi, come spero, e in questo mezzo aiutati col seguente, ch'è del Giudiccioni :1 « Mira che giogo vii, che duolo amaro/ preme or l' ALTRICE de' famosi . eroi•. lvi, 13 [vv. 199-200]. se di codardi è stanza, meglio l,è rimaner vedova e sola.

Solo in forza di Tomito, disabitato, deserto non è del Vocabolario, ma è del Petrarca : 2 « Tanto e più fien LE COSE oscure e SOLE/ se morte gli occhi suoi chiude ed asconde ». E del Poliziano :J « In qualche RIPA SOLA/ e lontan da la gente (dice d'Orfeo)/ si dolerà del suo crudo destino», E del Sannazzaro nel Proemio dell'Arcadia: « Per LI SOLI BOSCHI i salvatichi uccelli sovra i verdi rami cantando,,. E nell'egloga undecima:• « Piangete, v ALLI abbandonate e SOLE>>. E del Bembo :s « Parlo poi meco, e grido, e largo fiume / verso per gli occhi in qualche PARTE SOLA». E del Casa: 6 «Nei monti e per le SELVE oscure e SOLE•. E del Varchi :7 « Dice per questa VALLE opaca e SOLA Tirinto •· E del Tasso :8 « Per quella VIA ch'è più deserta e SOLA,,. È tolto ai Latini, tra' quali Virgilio nella Favola d'Or/eo :0 « Te, dulcis coniux, te SOLO in LITORE secum, Jte veniente die, te decedn,te canebat ». E nel quinto dell'Eneide: 10 1,At procul in SOLA secretae Troades ACTA/ amissum Anchisen flebant •· Cosi anche nel sesto: 11 11 lbant obscuri SOLA sub NOCTE per umbram ». E Stazio nel quarto della Tebaide: 1 a « lngentes infelix terra tumultus, J lucis adhuc medio, SOLAQUE in NOCTB PeT umbras, / exspirat ».

1. Son. Viva fiamma di Marte, onor de' tuoi. 2. Son. Tra q11ant11nque leggiadre donne e belle. 3. Orfeo, At. 3, ediz. dell'Affò, Ven. 1776, v. 16, pag.41. 4. V. 16. 5. Son. 35. 6. Son. 43. 7. Son. Tesi.Ila amo, Tesilla onoro, e sola. 8. Ger. lib., c. 10, st. 3. 9. Geor., lib. 4, v. 465. 10. V. 613. 11. V. 268. 12. V. 438.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

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Canzone terza. [AD ANGELO MAI, QUAND'EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE DBLLA REPUBBLICA] 1

I,

4 [v. 4].

incombe

Questa ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, o molte forme di favellare adoperate in queste Canzoni, furono tratte, non dal Vocabolario della Crusca, ma da quell'altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori o poeti (per non uscir dall'autorità), dal padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole e che fece ai loro bisogni o comodi, non curandosi che quanto essi pigliavano prudentemente dal latino fosse, o non fosse stato usato da' più vecchi di loro. E chiunque stima che nel punto medesimo che si pubblica il vocabolario d'una lingua si debbano intendere annullate senz'altro tutte le facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtù, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa del mondo. lvi, 14 [vv. 14-5].

O con l'umano valor contrasta il duro fato invano? 2

Il Casa nella prima delle Orazioni per la Lega :J a Né io voglio di questo CONTRASTARE CON esso lui». E nell'altra :4 « Conciossiaché di tesoro non possa alcuno pur COL Re solo CONTRASTARE•· Angelo di Costanzo nel centesimosecondo Sonetto: « Accrescer sento, e non già venir meno/ il duol, né posso far si che CONTRASTI / CON la sua forza, o che a schermirsi basti / il cor del suo vorace aspro veneno •·

Iv, 3 [vv. 48-9].

a te cui fato aspira benigno

I vari usi del verbo aspirare cercali nei buoni scrittori latini e ita ... liani; ché se ~i fiderai del Vocabolario della Crusca, giudicherai che questo verbo propriamente e unicamente significhi desiderare e pretendere di conseguire, laddova questa è forse la più lontana delle me .. tafore che soglia patire il detto verbo. E ti farai maraviglia come Giusto de' ContiS pregasse « Amore che gli affrancasse e aspirasse la lingua», e come il Molza6 dicesse che la « fortuna aspirava lieto corso 1. [A pp. 16 sgg.] 2. [Lezione definitiva: • valor forse contrasta il fato invano? 11] 3. Lione (Venezia), p. 7. 4 Pag. 38. 5. Bella Mano, canz. 1, st. 1. 6. Son. Voi cui Fortuna lieto corso aspira.

200

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE Al CANTI

ad Annibal Caro ,,, e il Rucellai che e, il sole aspira vapori caldi• e che « il vento aspira il freddo boreale »1 e che « l'orto aspira odor di fiori e d'erbe ,,, 2 e come Remigio Fiorentino (avverti questo soprannome) scrivesse in figura di Fedra :3 e, IL QUAL sì come acerbamente infiamma / il petto a me (parla d'Amore), così BENIGNO e pio / a tutti i voti tuoi cortese ASPIRI ». E prima4 avea detto parimente d, Amore: « Così BENIGNO / a i miei bei voti ASPIRI ,,. Similmente dice in persona di Paride :5 « Né leve ASPIRA / a l'alta impresa mia negletto NUME n. E in persona di Leandro :6 « O benigna del ciel notturna LUCE (viene a dir la luna), / siami benigna ed AL mio nuoto ASPIRA•· Così anche in altri luoghi. 7 ,·1, J [vv. 78-9]. quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti cui strider parve in seno a l'onda il sole 8 Di questa fama anticamente divulgata, che in lspagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, s'udisse a stridere di mezzo al mare a guisa che fa un carbone o un ferro rovente che sia tuffato nell'acqua, sono da vedere il secondo libro di Cleomede, 9 il terzo di Strabone, 10 la quartadecima Satira di Giovenale, 11 il secondo libro delle Selve di Stazio 12 e l'Epistola decimottava d' Ausonio. 13 E non tralascerò in questo proposito quello che dice Floro 14 laddove accenna le imprese fatte da Decimo Bruto in Portogallo: « Peragratoque vieto, Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non sine quodam sacrilegii ,netu, et horrore, deprehendit ,,. Vedi altresi le annotazioni degli eruditi sopra il quarantesimoquinto capo di Tacito delle Cose germaniche. 1 s vn, s [vv. 95-6]. e del notturno occulto sonno del maggior pianeta ? Al tempo che poca o niuna contezza si aveva della rotondità della terra, e dell'altre varie dottrine ch'appartengono alla cosmografia, gli uomini non sapendo quello che durante la notte il sole operasse o patisse, fecero intorno a questo particolare molte e belle immaginazioni, secondo la vivacità e la freschezza di quella fantasia che oggidì non si può chiamare altrimenti che fanciullesca, ma pure in ciascun'altra età degli antichi poteva poco meno che nella puerizia. E se alcuni s'immaginarono che il sole si spegnesse la sera e che la 1. Api, v. 159. 2. V. 404. 3. Epist. 4 d'Ovid., v. 309. 4. V. 40. 5. Ep. 15, v. 51. 6. Ep. 17, v. 130. 7. Ep. 15, v. 70 e 392. 8. LLezione definitiva: a quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti/ cui strider l'onde all'attuf-

far del sole».] 9. Circular. Doctrin. de Sublimibru, lib. 2, cap. 1, edit. Bake, Lugd. Bat. 1820, p. 109 e seq. 10. Amstel. 1707, pag. 202 B. 11. V. 279. 12. Genethliac. Lucani, v. 24 et sequent. 13. V. 2. 14. Lib. 2, cap. 17, sect. 12. 15. [Cfr. le Note ai Canti, a pp. 177-8.]

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

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mattina si raccendesse, altri si persuasero che dal tramonto si posasse, e dormisse fino all'aggiornare; e Mimnermo, poeta greco antichissimo, pone il letto del sole in un luogo della Colchide. Stesicoro, 1 Antimaco, z Eschilo,l ed esso Mimnermo• più distintamente che gli altri dice anche questo, che il sole dopo calato si pone a giacere in un letto concavo a uso di navicella, tutto d'oro, e così dormendo naviga per l'Oceano da ponente a levante. Pitea marsigliese, allegato da Gemino5 e da Cosma egiziano,6 racconta di non so quali Barbari che mostrarono a esso Pitea la stanza dove il sole, secondo loro, s'adagiava a dormire. E il Petrarca s'avvicinò a queste tali opinioni volgari in quei versi :7 ,, Quando vede 'l pastor calare i raggi / del gran pianeta al nido ov'egli alberga». Siccome in questi altri8 seguì la sentenza di quei filosofi che per via di raziocinio e di congettura indovinavano gli antipodi: « Nella stagion che 'l ciel rapido inchina / verso occidente, e che 'I dì nostro vola / a gente che di là forse l'aspetta,,. Dove quel/orse, che oggi non si potrebbe dire, è notabilissimo e poetichissimo, perocché lasciava libero all'immaginazione di figurarsi a suo modo quella gente sconosciuta, o d'averla in tutto per favolosa; dal che si dee credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni vaghe e indeterminate che sono effetto principalissimo delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze del mondo. Ma, come ho detto, non mi voglio allargare in queste materie.o 1x, 12 [vv. 132-5]. Al tardo onore non sorser gli occhi tuoi; mercé, non danno, l'estrema ora ti fu. 10 Morte domanda chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda. S'ha rispetto alla congiuntura della morte del Tasso accaduta quando si disponeva d'incoronarlo in Campidoglio. 11 Xl, S [v. 155].

polo

t

pigliato all'usanza latina per cielo. Ma il Vocabolario con questo senso non lo passa. Manco male che la Dafne del Rinuccini, per decreto dello stesso Vocabolario, fa testo nella lingua. Sentite dunque, signori pedagoghi, quello che dice il Rinuccini nella Dafne:u • Non Ap. Atlrenaeum, lib. 11, cap. 38, ed. Schweighaeuser, tom. 4, pag. 237. Ap. cumd., loc. cit., pag. 238. 3. Heliad., ap. eumd., loc. cit. 4. Nannone, ap. eumd., Ioc. cit., cap. 39, pag. 239. 5. Elnn. Astron., cap. S, in Petav., Uranolog., Antuerp (Amstel.) 1703, pag. 13. 6. Topogr. christian., lib. 2, ed. Montfauc., pag. 149. 7. Canz. Nella stagion che 'l ciel rapido inchina, st. 3. 8. St. 1. 9. [Cfr. Note ai Canti, a pp. 178-9.] 10. [Lezione definitiva: • l'ora estrema ti fu 11.] 11. [Cfr. Note ai Ca,ati, a p. 179.] 1:z. Coro 3, v. 1. 1. 2.

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PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE Al CANTI

si nasconde in selva/ si dispietata belva, / né su per l'alto POLO/ spiega le penne a volo augel solingo, / né per le piagge ondose / tra le fere squamose alberga core/ che non senta d'Amore». Vi pare che questo polo sia l'artico, o l'antartico, o quello della calamita, o l'una delle teste d 1 un perno e d'una sala da carrozze? Oh bene inghiottitevi questa focaccia soporifera da turarvi le tre gole che avete, e lasciate passare anche questo vocabolo. xn, 3 [v. 168).

e morte lo scampò dal veder peggio.

Il Petrarca : 1 « Altro schermo non trovo che MI SCAMPI / DAL manifesto accorger de le genti». Il medesimo in altro luogo : 2 « Questi in vecchiezza LA SCAMPÒ DA morte,,. Il Passa vanti nello Specchio :3 « Si facesse beffe di colui che avesse saputa SCAMPAR LA vita e LE cose DALLA fortuna, e DA' pericoli del mare>>. Il Guarini nell'Argomento del Pastor Fido: « Mentre si sforza per CAMPARLO DA morte di provare con sue ragioni ch'egli sia forestiero». Segno questi luoghi per ogni buon rispetto, avendo veduto che la Crusca non mette esempio né di scampare né di campare costruiti nell'uso attivo col sesto caso oltre al quarto.

Canzone quarta. [NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA] 4

[vv.

5-6].

Poi che del patrio nido i silenzi lasciando, ..... te ne la polve della vita e il suono tragge il destin; Questa e simili figure grammaticali, appartenenti all 1 uso de' nostri gerondi, sono cosi famigliari e così proprie di tutti gli scrittori italiani de' buoni secoli, che volendole rimuovere, non passerebbe quasi foglio di scrittura antica dove non s'avesse a metter le mani. Puoi vedere Il Torto e 'l Diritto del Non si. può nel capitolo quinto, dove si dichiara in parte questa proprietà del nostro idioma: dico in parte, e poveramente, a paragone ch'ella si poteva illustrare con infinita quantità e diversità d'esempi. E anche oggidi, non che tollerata, va custodita e favorita, considerando ch'ella spetta a quel genere di locuzioni e di modi, quanto più difformi dalla ragione, tanto meglio conformi e corrispondenti alla natura, de' quali abbonda il più sincero, gentile e squisito parlare italiano e greco. E I, I

1-2;

1. Son. Solo e pensoso i più desn-ti campi. 2. Canz. Spirto gentil, che quelle membra reggi, st. 7. 3. Distinz. J, cap. I, Firenze 1681, pag. 34. 4. LA pp. 24 sgg.]

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

203

siccome la natura non è manco universale che la ragione, cosi non dobbiamo pensare che questa e altre tali facoltà della nostra lingua producano oscurità, salvo che s'adoprino con avvertenza e naturalezza. Piuttosto è da temere che se abbracceremo con troppa affezione l'esattezza matematica, e se la studieremo, e ci sforzeremo di promuoverla sopra tutte le altre qualità del favellare, non riduciamo la lingua italiana in pelle e ossa, com'è ridotta la francese, e non sovvertiamo e distrugghiamo affatto la sua proprietà: essendo che la proprietà di qualsivoglia lingua non tanto consista nelle nude parole e nelJe frasi minute, quanto nelle facoltà e forme speciali d'essa lingua, e nella composizione della dicitura. Laonde possiamo scrivere barbaramente quando anche evitiamo qualunque menoma sillaba che non si possa accreditare con dieci o quindici testi classici ( quello che oggi s'ha in conto di purità nello scrivere italiano); e per lo contrario possiamo avere o meritare opinione di scrittori castissimi, accettando o formando parole e frasi utili o necessarie, che non sieno registrate nel Vocabolario né protette dall'autorità degli Antichi.

[vv. 43-4].

e di nervi e di polpe scemo il valor natio, L'aggettivo scemo negli esempi che la Crusca ne riferisce, è detto assolutamente, e non regge caso. Dunque segnerai nel margine del tuo Vocabolario questi altri quattro esempi: l'uno ch'è dell'Ariosto1 e dice così: cc Festi, barbar crude(, DEL capo SCEMO/ il più ardito garzon che di sua etade •, con quello che segue. L'altro del Casa: 2 • E 'mpoverita e SCEMA / DEL suo pregio sovran la terra lassa•· Il terzo dello Speroni nel Dialogo delle Lingue :3 « La quale SCEMA DI vigor naturale, non avendo virtù di fare del cibo sangue onde viva il suo corpo, quello in ·flemma converte•· L'ultimo dello stesso nell'Ora%Ìone contro le Cortigiane :4 « Che SCEMA essendo DI questa parte, sarebbe tronca e imperfetta». 111, 14

Canzone quinta. [A UN VINCITORE NEL PALLONE] 5

e pochi Soli

andranno forse6 Cioè pochi anni. Sole detto poeticamente per anno vedilo nel Vocabolario. E si dice tanto bene quanto chi dice luna in cambio di mese. 1. Fur., can. 36, st. 9. 2. Son. 36. 3. Dial. dello Sper., Venezia 102. 4. Pnr. 2. Orazioni dello Sper., Venezia 1596, pag. 201.

29 sgg.]

1596, pag. 5. [A pp.

6. [Lezione definitiva: • e pochi Soli / forse fien volti».]

204

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE Al CANTI

nostra colpa e fatai.

v, S [v. 57].

Cioè colpa nostra e del fato. Oggi s'usa comunemente in Italia di scrivere e dir / a tale per dannoso o funesto alla maniera francese; e quelli che s'intendono della buona favella non vogliono che questo si possa fare. Nondimeno io lo trovo fatto dall' Alamanni nel secondo libro della Coltivazione: «Non quello orrendo tuon, che s'assimiglia / al fero fulminar di Giove in alto, / di quell~arme FATAL che mostra aperto/ quanto sia più d'ogni altro il secolo nostro/ già per mille cagion là su nemico ». 1 Parla, come avrai capito, dell'anne da fuoco. E di nuovo nel quinto :2 « LA FATAL bellezza/ sopra l'onde a mirar Narcisso torna». Vero è che il poema della Coltivazione, e l'altre opere scritte dall 'Alamanni in Francia, come il Girone e I' Avarchide, sono macchiate di parecchi francesismi: e quel ch'è peggio, la detta Coltivazione ridonda maravigliosamente di rozzissime, sregolatissime e assurdissime costruzioni e forme d'ogni genere: tanto ch'ella è forse la più difficile e scabrosa poesia di quel secolo, non ostante la semplicità dello stile, che per verità non fu cercata dal buono Alamanni, anzi fuggita a più potere, benché non gli riuscì di schivarla. Ma quelle medesime cagioni che da un lato produssero questi difetti (e che parimente generarono sui principii del Cinquecento l'imperfezione della lingua e dello stile italiano), dall'altro lato arricchirono straordinariamente il predetto poema di voci, metafore, locuzioni, che quanto hanno d'ardire, tanto sono espressive e belle; e quanto pot_rebbero giovare, non solamente agli usi poetici, ma eziandio gran parte di loro alla prosa, tanto in ogni modo sono tutte sconosciutissime al più degli scrittori presenti.

Canzone sesta. [BRUTO MINORE]J

I, I

[vv. 1-6].

Poi che divelta, ne la tracia polve giacque . . . . . prepara

Acciò che questa mutazione di Tempo non abbia a pregiudicare agli stomachi gentili de' pedagoghi, la medicheremo con un pizzico d'autorità virgiliana: u Postqruim res Asiae, Priamique evertere ge11tnn / immeritam VISUM Superis, CECIDITQUE superbum / Jlium et omnis humo 1.

V. 747.

2.

V. 933·

3. [A pp. 32, sgg.]

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

205

neptunia Troia~·/ diversa exsilia et desertas quaerere terras / auguriis AGIMUR Divum •· • « Irim de caelo MISIT saturnia luno / Iliacam ad classem, ventosque ADSPIRAT eunti n. 2 « /Ile intra tecta vocari / IMPERAT, et solio medius CONSEDIT avitio ».J « At non sic phrygius PENETRAT Lacedaemona pastor, / Ledaeamque Helenam troianas VEXIT ad urbes •. 4 « Haec AIT, et liquidum ambrosiae DIFFUNDIT odorem, / quo totum nati corpus PERDUXIT ,,.s Reco questi soli esempi dei mille e più che si potrebbero cavare dal solo Virgilio, accuratissimo e compitissimo sopra tutti i poeti del mondo. FUMAT

Il, 2

[v. 17].

de le trepide larve6

Trepidus è quel che sarebbe tremolo o pure agitato, e trepidare latino è come tremolare o dibattersi. E perché la paura fa che l'animale trema e s'agita, però le dette voci spesse volte s'adoperano a significazione della paura; non che dinotino la paura assolutamente né di proprietà loro. E spessissime volte non hanno da far niente con questa passione, e quando s'appagano del senso proprio e quando anche non s'appagano. Ma la Crusca termina il significato di trepido in quello di timoroso. Va errata: e se non credi a me, che non son venuto al mondo fra il dugento e il seicento, e non ho messo i lattaiuoli né fatto a stacciabburatta in quel di Firenze, credi al Rucellai, ch'ebbe l'una e l'altra virtù:« Allor concorron' TREPIDE, e ciascuna/ si mostra ne le belle armi lucenti, ... e con voce alta e roca / chiaman la gente in lor linguaggio a l'arme ». Questa è la paura dell'api trepide. E così la sentenza come la voce ritrassela il Rucellai da Virgilio :8 • Tum TREPIDAE inter se coeunt, pen11isque coruscant, ... magnisqu.e vocant clamon'bus hostem ». Anche il testimonio dell'Ariosto, benché l'Ariosto non fu toscano, potrebb'essere che fosse creduto: • Ne la9 stagion che la frondosa vesta / vede levarsi e discoprir le membra / TREPIDA pianta fin che nuda resta». Quanto poi tocca al verbo italiano trepidare, che la Crusca definisce similmente per aver paura, temere, paventare, venga di nuovo in campo a farla discredere il medesimo Rucellai: « A te 10 bisogna gli animi del vulgo, / 1 TREPIDANTI petti e i moti loro / vedere innanzi al maneggiar de l'armi»; cioè gli ondeggianti, inquieti, fremebondi petti. Anche questo è di Virgilio: 11 • Contim,oque animos vulgi et TREPIDANTIA bello / corda licet Longe praesciscere •. Venga fuori cziandio l'Alamanni: « Egli- 2 stesso alla fin cruccioso prende/ LA TREPIDANTE INSEGNA, e 'n voci piene/ di dispetto e d'onor, 1. Am., lib. 3, v. 1. 2. Lib. S, v. 607. 3. Lib. 7, v. 168. -4-. V. 363. 5. Georg., lib.4, v.415. 6. [Lezione definitiva: «dell'inquiete larve».] 7. Api, v. 272. 8. Georg., lib. 4, v. 73. 9. Fur., can. 9, st. 7. 10. Api, v. 266. 11. Georg., lib. 4, v. 69. 12. Coltiv., lib. 4, v. 792.

206

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE Al CANTI

la porta e 1 n mezzo/ dell'inimiche schiere a forza passa ,1. Cioè la barcollante o la tremolante insegna. E forse ch'ha paura anche il « polso trepidante » dalla febbre amorosa nel testo del Firenzuola? • III, I

e la ferrata

[vv.31-2]. necessità

Ferrata cioè ferrea. Nel difendere questa sorta di favellare metterò più studio che nelle altre, come quella che non è combattuta da' pedagoghi ma dal cavalier Monti, il quale 2 dall'una parte biasima fra Bartolomeo da san Concordio che in un luogo degli Ammaestramenti dicesse/errate a guisa di/erree, dall'altra i compilatori del Vocabolario che riportassero il detto luogo dove registrarono gli usi metaforici della voce ferrato. In quanto al Vocabolario, è certissimo che sbaglia, come poi si dirà. Ma il fatto di quel buono antico mi persuado che, oltre a scusarlo, si possa anche lodare. Primieramente la nostra lingua ha per usanza di mettere i participii massimamente passivi, in luogo de' nomi aggettivi (come praticarono i Latini), e per lo contrario i nomi aggettivi in luogo de' participii, secondo che diciamo lodato o laudato per lodevole, 3 onorato per onorevole, fidato per fido, rosato invece di roseo; e dall'altro canto affannoso per affannato, doloroso per dolorato, faticoso per affaticato ;4 o come quando si dice essere o aver pieno o ripieno o morto per essere o aver empiuto o riempiuto o ucciso. Anche diciamo ordinariamente essere o aver sazio, privo, quieto, fermo, netto, e mille altri, per essere o aver saziato, privato, quietato, fermato, nettato. Ma lascio questo, perché possiamo credere che si faccia piuttosto per contrazione degli stessi participii che per surrogazione degli aggettivi. In sostanza ferrato detto per ferreo mi par ch'abbia tanto dell'italiano quanto n'ha rosato in cambio di roseo. Nel secondo luogo soggiungerò che quantunque io non sappia di certo se i nostri poeti antichi e moderni quando chiamarono e chiamano aurati, orati o dorati i raggi del sole,s i ricci delle belle donne, 6 gli strali d'Amore7 e cose tali, ed argentata o inargentata la luna, 8 i ruscelli9 o altro, volessero e vogHano intendere che quei raggi, quei ricci, quei dardi sieno inverniciati d'oro o che sieno d'oro 1. Voc. della Crusca, v. Trepidante. 2. Proposta di alcune co"ez. ed aggiunte al Voc. della Crusca, voi. 2, par. 1, pag. 103. 3. Petr., Canz. O aspettata in ciel, beata e bella, st. 5. 4. Sannaz., Arcad., cgl. 2, v. 12. 5. Bembo, Canz. 6, chiusa. 6. Giusto de' Conti, Bella Mano, son. 22; Bembo, son. 13; Arios., Fur., c. 10, st. 96; Bern. Tasso, son. Superbo scoglio, che con l'ampia fronte. 7. Petr., son. Fera stella, se 'l cielo l,a forza in noi; Poliz., Stanze, lib. 1, st. 82; Ar., Fur., can. 11, st. 66. 8. Bocc., Ameto, Firenze 1521, car. 62; Tasso, Ger. Lib., c. 18, st. 13; Remig. Fiorent., Ep. 17 d'Ovid., v. 156. 9. Bocc., ArMto, car. 65.

ANNOTAZIONI ALLE DIBCI CANZONI

massiccio, e che la luna e i ruscelli sieno incrostati d'argento o sieno fatti d'argento; so bene che il colore aurato del raspo d'uva 1 e il color dorato del cotogno 2 nell'Alamanni, e parimenti il colore arientato della luna in Francesco da Buti,3 sono colori, quelli d'oro, e questo d.'argento, e non vestiti dell'uno o dell'altro metallo, perché non vedo che al colore, in quanto colore, se gli possa fare una camicia né d'argento né d'oro né d'altra materia. Lo stesso dovremo intendere del color dorato che diciamo comunemente di certi cavalli, di certi vini e dell 'al tre cose che l'hanno; e così lo chiamano anche i Francesi. Un cotal ponte che il Tasso chiama dorato, so certamente che fu d'oro per testimonio del medesimo Tasso, che lo fabbricò del proprio: e< Ecco4 un ponte mirabile appariva, / un ricco ponte D'OR, che larghe strade / su gli archi stabilissimi gli offriva. / Passa il DORATO varco; e quel giù cade». Oltre a questo so che P•auratapelli.s• di Catullo5 è propriamente il famoso vello d'oro; il quale se fosse stato indorato a bolo, a mordente o come si voglia, o ricamato d'oro, o fatto a uso delle tocche, non si moveva Giasone per andarlo a conquistare, e non era il primo a cacciarsi per forza in casa de' pesci. E so che gli « aurati vezzi »6 che portava al collo quel giovanetto indiano descritto da Ovidio per galante e magnifico nell'ornamento della persona, sarebbe stata una miseria che non fossero d'oro solido; che la « pioggia aurata » di Claudiano7 è pioggia d'oro del finissimo; che l'asta u aeratae cwpidis » nelle Metamorfosi d'Ovidio~ è probabile ch'abbia la punta di rame o di ferro, e in ultimo che gli « aerati nodi», o l'« aeratae catenae ,, 10 e l'« aerata pila • 11 di Properzio sono altresì di ferro o di rame. Posto dunque che sia ben detto aeratus invece di aerefls; auratu.s ed aurato, arato o dorato invece d'ai,reus e d'aureo; argentato o i11argentato invece d'argenteo; non potrà stare che ferrato in vece di ferreo sia detto male. Ed eccoti fra i Latini Valerio Fiacco nel sesto libro chiama ferrate certe immagini di ferro: « Densique 12 levant vexilla Coralli, / Barbaricae queis signa rotae, FERRATAQUE dorso / FORMA Suum ». Lascio stare che dove nel terzo delle Georgiche 13 si legge: • Primaque FERRATIS praefigunt ora capistris », dice Servio che /errati sta per duri; intende che sia metaforico, e salvo questo, viene a dire che sta per ferrei: sicché, o ragione o torto ch'egli abbia in questo luogo, mostra che/erratus nel sentimento di f erreus non gli sa né vizioso né strano. Queste tali non 1. Alam., Coltiv., lib. 2, v. 499. 2. lvi, lib. 3, v. 493. 3. Voc. della Crusca, v. Arientato. 4. Ger. lib., c. 18, st. 21. 5. De nupt. Pel. et Thet., v. 5. 6. Ovid., Metam., lib. s, v. 52. 7. De laud. Stilic., lib. 3, v. 226. 8. Lib. 5, v. 9. 9. Propert., lib. 2, Eleg. 20, al. 16, v. 9. 10. V. 11. 11. Lib. 4, El. 1, v. 78. 12. V. 89. 13. V. 399.

208

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE Al CANTI

sono metafore, cioè traslazioni, ma catacresi, o vogliamo dire, come in latino, abusioni: la qual figura differisce sostanzialmente dalla metafora, in quanto la metafora trasportando la parola a soggetti nuovi e non propri, non le toglie per questo il significato proprio (eccetto se il metaforico a lungo andare non se lo mangia, connaturandosi col vocabolo), ma, come dire, glielo accoppia con un altro o con più d'uno, raddoppiando o moltiplicando l'idea rappresentata da essa parola. Doveché la catacresi scaccia fuori il significato proprio e ne mette un altro in luogo suo; talmente che la parola in questa nuova condizione esprime un concetto solo come nell'antica, e se lo appropria immediatamente per modo che tutta quanta ell'è, s'incorpora seco lui. Come interviene appunto nel caso nostro, che la voce ferrato importa onninamente ferreo, e chi dice f e"eo, dice altrettanto né più né meno. Laddove se tu chiami lampade il sole, come fece Virgilio, quantunque la voce lampade venga a dimostrare il sole, non perciò si stacca dal soggetto suo proprio, anzi non altrimenti ha forza di dare ad intendere il sole, che rappresentando quello come una figura di questo. E veramente le metafore non sono altro che similitudini o comparazioni raccorciate. Occorrendo poi (secondo che fece fra Bartolomeo da san Concordio) che si chiamino ferrate le menti degli uomini, allora il vocabolo ferrate sarà metaforico; in guisa nondimeno che la metafora non consisterà nello scambio della voce ferree colla voce f e"ate, il quale sarà fatto per semplice catacresi, ma nell'accompagnamento di tale aggettivo con tale sostantivo; perché in effetto le menti degli uomini, credo bene che sieno quali di fumo, quali di vento, quali di rapa, quali d'altre materie, ma per quello ch'io sappia, non sono di ferro. Il che né più né meno sarà il senso letterale della metafora; cioè che quelle menti sieno di ferro, non già che sieno mu.nite di ferro. E qui pecca il Vocabolario, che senza più, mette l'esempio di fra Bartolomeo tra gli usi metaforici di ferrato fatto da ferrare cioè munire di ferro, quando bisognava specificare appartatamente cheferrato s'usa talora in cambio di Jerreo, non solamente nel proprio, ma eziandio nell'improprio, e quivi allegare il suddetto esempio. Al quale aggiungerò quello d'uno scrittore meno antico d'età e molto più ragguardevole d'ingegno e di letteratura che non fu quel buon Frate, cioè del Poliziano, che sotto la persona d'Orfeo dice a' guardiani dell'inferno: 1 « Dunque m'aprite LE FERRATE PORTE•. Non può voler dire che queste porte sieno guarnite di/erro, come sono anche le più triste porte di questo mondo, ma dee volere che sieno di ferro, come si possono immaginare le porte di casa del diavolo, che 1. Orfeo, At. 4, ed. dell'Affò, v. 16, pag. 45.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

209

non ha carestia di metalli, essendo posta sotterra, né anche di fuoco da fonderli, essendo come una fornace. Altrimenti quell'aggettivo nel detto luogo avrebbe del fiacco pure assai. Così quando Properzio 1 chiamò ferrata la casa di Danae, «ferratam Danaes domum 11, si può stimare che non avesse riguardo a' saliscendi o a' paletti delle porte né agl'ingraticolati che potessero essere alle finestre, ma volesse intendere ch'ella fosse di ferro, come Orazio 2 la fece di bronzo, o d'altro metallo ch'ei volesse denotare con quell'u ahenea ». E nello stesso Poliziano, poco avanti al predetto luogo, 3 il « ferrato inferno ,, è spietato o inesorabile, e se non fosse la traslazione, ferreo. Di più troverai nel Chiabrera4 un,, ferrato usbergo n, il quale io mi figuro che sia di ferro; e nel Redi5 « le ferrate porte» del palazzo d'Amore: se non che dicendo il poeta che su queste porte ci stavano le guardie, mostra che dobbiamo intendere delle soglie; e però quell'aggiunto mi riesce molto male appropriato, che che si voglia significare in quanto a sé. Dato finalmente che gli arpioni, vale a dire i gangheri, delle porte e delle finestre, come anche le bandelle, cioè quelle spranghe che si conficcano nelle imposte, e per l'anello che hanno all'una delle estremità, s'impemano negli arpioni, sieno fatte, e non foderate o fasciate, di ferro effettivo; resta che /errato nel passo che segue, sia detto formalmente in luogo di ferreo, e non di ferreo traslato, ma del proprio e naturale quanto sarebbe se dicessimo, verbigrazia, ferreo secolo. Il passo è riferito nel Vocabolario della Crusca alla voce Bandella, e parte ancora alla voce Arpione, e spetta all'antico Volgarizzamento manoscritto dell'Eneide, nella quale corrisponde alquanto sotto il mezzo del secondo libro :6 « Ma Pirro risplendiente in arme, tolta una mannaia a due mani, taglia le dure porte, e LI FERRATI ARPIONI DELLE BANDELLE •. Da tutte le sopraddette cose conchiuderemo, a parer mio, che la voce ferrato posta per ferreo, non tanto che si debba riprendere, ma nella poesia specialmente, s'ha da tenere per una dell'eleganze della nostra lingua. IV, 13

[vv. 58-9].

quando le infauste luci 1 virile alma ricusa,

Luci per giorni sta nella Crusca veronese con un testo del Caro, al quale aggiungendo il seguente, ch'è d'uomo fiorentino, anzi fiorentinissimo, cioè del Varchi, 8 non sei per fare opera perduta: a: Dopo altre notti, più lucenti e belle / LUCI più vago il Sol mena a le genti•· El. 20, al. 16, v. 12. 2. Lib. 3, Od. 16, v. 1. 3. At. 3, v. 39, pag. 42. 4. Canz. Era tolto di fasce Ercole appena, st. 7. 5. Son. Aperto aveva il parlamento Amore. 6. V. 479. 7. [Lezione definitiva: « quando gl'infausti giorni».] 8. Boez., lib. 3, rim. 1. 1.

14

Lib.

2,

210

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

r che temo del cor che

Il Petrarca 1 usa il singolare di luce per vita : « mi si parte, / e veggio presso il fin della mia v, 4 [vv. 64-7].

LUCE •·

Ma se spezzar la fronte ne' rudi tronchi, o da montano sasso dare al vento predpiti le membra, lor suadesse affanno;

Il Vocabolario ammette le voci suadevole, suado, suasione, suasivo. Ma che vale ? Se non porta a lettere di scatola il verbo suadere, chi mi proscioglie dal peccato d'impurità? Non certo i Latini: di modo ch'io me ne vo dannato senz'altro; e mi terrà compagnia l'Ariosto, che nel terzo del Furioso 2 disse di Bradamante: cc Quivi l'audace giovine rimase / tutta la notte, e gran pezzo ne spese / a parlar con Merlin, che LE SUASE / RENDERSI tosto al suo Ruggier cortese ». Anzi troverò fra la gente perduta anche il Bembo, capitato male per lo stesso misfatto, e che più? fino al padre Dante, che non s'astenne dal participio suaso. E quanto al peccato di questi due, vedi il Dizionario dell' Alberti.

Canzone settima. [ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE] 3

I,

5 [vv. S-6].

credano il petto inerme gli augelli al vento,

Se tu credi al Vocabolario della Crusca, non puoi credere cioè fidare altrui se non quel danaio che ti paresse di dare in prestito, voglio dire a usura, ché in altro modo è fuor di dubbio che non puoi, quando anche lo permetta il Vocabolario. Ma se credi agli ottimi scrittori latini e italiani, crederai cioè fiderai così la roba come la vita, l'onore e quante cose vorrai, non solamente alle persone, ma eziandio, se t'occorre, alle cose inanimate. Per ciò che spetta ai latini, domandane il Dizionario; o quello del Forcellini o quello del Gesner o di Roberto Stefano o del Calepino o del Mandosio o di chi ti pare. Per gl'italiani vaglia l'esempio seguente, ch'è dcli' Alamanni :• « Tutto aver si convien, né men che quelli / eh' AL tempestoso MAR CREDON LA VITA•· E quest'altro, ch'è del Poliziano :5 « Né SI CREDEVA ancor LA VITA A' VENTI». E questo, ch'è del Guarini : 6 cc Dunque A L'AMANTE L'ONESTÀ CREDESTI?• Al che l'autore medesimo fa quest'annotazione :7 « RipiI. Son. Quand'io son tutto volto in qu~lla part~. 2. St. 64. 3. (A pp. 37 sgg.] 4. Coltiv., lib. 6, v. 118. 5. Stanze, lib. 1, st. 20. 6. Past. Fido, At. 4, se. s, v. 101. 7. P. F., Ven. app. G. B. Ciotti, 1602, pag. 292.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

211

glia acutamente Nicandro la parola di CTedere, ritorcendola in Amarilli con la forza d'un altro significato, che ottimamente gli serve; perciocché il verbo credere nel suo volgare e comunissimo sentimento significa dar fede; e in questo l'usa Amarilli. Significa ancora confidare sopra la fede, sì come l'usano molte volte i Latini; e in questo l'usa Nicandro in significazione attiva, volendo dire: Dunque confidasti tu in mano dell'amante la tua onestà?» E forse il Molza ebbe la medesima intenzione de' poeti sopraddetti usando il verbo credere in questo verso della Ninfa Tiberina : 1 u Troppo credi e commetti al torto lido ». II, 2

[v.

21].

dissueto

Questo forestiere porta una patente di passaggio fatta e sottoscritta da Dissuetudine, e autenticata da Insueto, Assueto, Consueto e altri tali gentiluomini italiani, che la caverà fuori ogni volta che bisogni. Ma non si cura che gli sia fatta buona per entrare nel Vocabolario della Crusca, avendo saputo che un suo parente, col quale s'acconcerebbe a stare, non abita in detto paese. E questo parente si è un cotal Mansueto; non quello che, secondo la Crusca, è di benigno e piacevole animo, o che ha mansuetudine, vale a dire è mansueto: in somma non quel Mansueto ch'è mansueto, ma un altro che sotto figura di participio, come sarebbe quella del mio Dissueto, significa mansuefatto o ammansato, anche di fresco, e si trova in casa del Tasso: « Gli umani ingegni/ tu placidi ne rendi, e l'odio interno/ sgombri, signor, da' MANSUETI cori, / sgombri mille furori ». 2 Questi che opera tanti miracoli, se già non l'hai riconosciuto, è colui che 'l mondo chiama Amore. Per giunta voglio che sappiano i pedagoghi ch'io poteva dire disusato per dissueto, colla stessissima significazione ; ed era parola accettata nel Vocabolario, oltre che in questo senso riusciva elegante, e di più si veniva a riporre nel verso come da se stessa. A ogni modo volli piuttosto quell'altra. E perché? Questo non tocca ai pedanti di saperlo. Ma in iscambio di ciò, li voglio servire d'un bello esempio della voce dissuetudine, che lo metteranno insieme con quello che sta nel Vocabolario; come anche d'un esempio della parola disusato posta in quel proprio senso ch'io formo il vocabolo dissueto: a Mi sveglia dalla DISSUETUDINE e dalla ignoranza di questa pratica •· Il qual esempio è del Caro, e si trova nel Comento sopra la Canzone de' Gigli.l L'altro esempio è del Casa, e leggesi nel Trattato degli Uffici. comuni:4 « Perciocché a lui pareva dovere avvenire ch'essi a poco a poco da quello che di lui pensar 1. St. 30. 2. Amin., At. 4, Coro. 3. St. 1, v. 13, fra le Lett. di diversi eccellmtis. uomini, Ven. 1554, pag. 515. 4. Cap. 11, Op. del Casa, Ven. 1752, tom. J, pag. 215.

212

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE Al CANTI

solevano, DISUSATI, avrebbero cominciato a concepire nelle menti loro non so che di maggiore istima•· Il latino ha desuefacti. 11,

9 [vv. 28-38].

e 'I pastore} ch'a l'ombre meridiane incerte ( col rimanente della stanza)

Anticamente correvano parecchie false immaginazioni appartenenti all'ora del mezzogiorno, e fra l'altre, che gli Dei, le ninfe, i silvani, i fauni e simili, aggiunto le anime de' morti; si lasciassero vedere o sentire particolarmente su quell'ora, secondo che si raccoglie da Teocrito,1 Lucano, 2 Filostrato,J Porfirio, 4 ServioS ed altri, e dalla Vita di san Paolo primo eremita,6 che va con quelle de' Padri e fra le cose di san Girolamo. Anche puoi vedere il Meursio7 colle note del Lami, 8 il Barth, 9 e le cose disputate dai comentatori e specificatamente dal Calmet in proposito del demonio meridiano detto nella Scrittura.r° Circa ali' opinione che le ninfe e le Dee sull'ora del mezzogiorno si scendessero a lavare ne' fiumi o ne' fonti, dà un'occhiata all'Elegia di Callimaco Sopra i lavacri di Pallade, 11 e in particolare quanto a Diana, vedi il terzo libro delle Metamorfosi. 12

lvi,

10

[vv. 29-30).

e a la fiorita 1 3

margo adducea de' fiumi Se per gli esempi recati nel Vocabolario la voce margo non ha sortito altro genere che quello del maschio, non ti maravigliare ch'io te l'abbia infemminita. E non credere ch'a far questo ci sia bisognato qualche gran forza di stregheria, qualche fatatura, o un miracolo come quelli delle Trasformazioni d'Ovidio. Già sai che da un pezzo addietro non è cosa più giornaliera e che faccia meno maraviglia del veder la gente effeminata. Ma lasciando questo, considera primieramente che la voce margine, in quanto significa estremità, orlo, riva, ha l'uno e l'altro genere; e secondariamente che marg,,"ne e margo non sono due parole, ma una medesima con due varie terminazioni, quella del caso ablativo singolare di margo voce latina, e questa del nominativo. Dunque, siccome dicendo, per esempio, imago in vece d'imagine, tu non fai mica una voce mascolina, ma femminina, perché imagine è sempre tale; parimente se dirai margo in iscambio, non 1. ldyll., 1, v. 15 et sequent. 2. Lib. 3, v. 422 et sequent. 3. Heroic., cap. 1, art. 4. Op. Philostr., ed. Olear., p. 671. 4. De antro nymph., cap. 26 et 27. 5. Ad Georg., lib. 4, v. 401. 6. Cap. 6, in Vita Patr., Rosveydi, Antuerp. 1615, lib. 1, p. 18. 7. Auctar. Philologic., Cap. 6. 8. Op. Meurs., Florent. 1741-1763, voi. 5, col. 733. 9. Animadversion. ad Stat., par. 2, pag. 1081. 10. Psal., 90, v. 6. 1 J. V. 71 et sequent. 12. V. 144 et sequent. [Cfr. Note ai Canti, a p. 179.] 13. [Lezione definitiva: • ed al fiorito•.]

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

213

di margine sostantivo mascolino, ma di quell'altro margine ch'è femminino, avrai margo non già maschio, non già ermafrodito, ma tutto femmina bella e fatta in un momento, come la sposa di Pigmalione, che fino allo sposalizio era stata di genere neutro. O pure (volendo una trasmutazione più naturale) come l'amico di Fiordispina; se non che questa similitudine cammina a rovescio del caso nostro in quanto ai generi.

v,

2

[vv. 78-9).

le varie note dolor non finge, 1

Cioè non forma, non foggia, secondo che suona il verbo fingere a considerarlo assolutamente. Non è roba di Crusca. Ma è farina del Rucellai già citato più volte: cc lndi 2 potrai veder, come vid'io, / il nifolo, o proboscide, come hanno / gl'indi elefanti, onde con esso FINGE (parla dell'ape) / sul rugiadoso verde e prende I FIGLI». E dello Speroni :J e, Egli al fin trovi una donna ove Amore con maggior magistero e miglior subbietto, conforme agli alti suoi meriti LO voglia FINGERE ed iscolpire ». t similmente del Caro nell'Apologia;• la quale, avanti che uscisse, fu riscontrata coll'uso del parlar fiorentino e ritoccata secondo il bisogno da quel medesimos che nell' Ercolano fece la famosa prova di rannicchiare tutta l'Italia in una porzione di Firenze: a E le (voci) nuove, e LE nuovamente FINTE, e le greche, e le barbare, e le storte dalla prima forma e dal proprio significato tal volta?» Dove il Caro ebbe l'occhio al detto d'Orazio :6 • Et nova FICTAQUE NUPER habebunt VERBA fidem, si / Graeco fonte cadant, parce detorta ». v, 18 [v. 94).

s'alberga

Albergare attivo, o neutro assoluto, dicono i testi portati nel Vocabolario sotto questa voce. Albergare neutro passivo, dico io coli'Ariosto: e< Pensier' canuto né molto né poco/ s1 può quivi ALBERGARE in alcun core».

1. [Lezione definitiva:• quelle tue varie note/ dolor non forma•.] 2. Api, v. 986 e seguenti. 3. Dial. d'Amore. Dialoghi dello Sper., Ven. 1596, p. 25. 4. Panna 1558, p. 25. 5. Caro, utt. famil., ed. Comin. 1734, voi. 2, let. 77, pag. 121. 6. De arte poet., v. 52. 7. Fur., can. 6, st. 73.

214

PREFAZIONI, DEDICHE B ALTRE NOTE AI CANTI

Canzone ottava. 1 [ULTIMO CANTO DI SAFFol'

I, 14 [vv. 14-5). Noi per le balze e le profonde valli natar giova tra' nembi, Il verbo giovare quando sta per dilettare o piacere, se attendiamo solamente agli esempi che ne registra sotto questo significato il Vocabolario, non ammette altro caso che il terzo. Ma qui voglio intendere che sia detto col quarto, bench'io potessi allegare che noi, voi, lui, lei si trovano adoperati eziandio nel terzo senza il segnacaso. Ora lasciando a parte i Latini, i quali dicono iuvare in questo medesimo sentimento col caso quarto; e lasciando altresl che giovare, quando suona il contrario di nuocere, non rifiuta il detto caso, come puoi vedere nello stesso Vocabolario, e che l'accidente di ricevere quell'altra significazione traslata, o comunque si debba chiamare, non cambia la regola d'esso verbo; dirò solamente questo, che in uno dei luoghi del Petrarca citati qui dalla Crusca, il verbo giovare, costruito col quarto caso, non ha la significazione sua propria, sotto la quale è recato il detto luogo nel Vocabolario, ma ben quella appunto di piacere o dilettare, come ti chiarirai, solamente che il verso allegato dalla Crusca si rannodi a quel tanto da cui dipende: u Novo PIACER che negli umani ingegni / spesse volte si trova, /D'AMAR qual cosa nova / più folta schiera di sospiri accoglia. / Ed io son un di quei CHE 'l pianger GIOVA ,,.3 Il Poliziano usa il verbo giovare in questa significazione assolutamente, cioè senza caso:« Quanto4 GIOVA a mirar pender da un erta / le capre e pascer questo e quel virgulto!• E il Rucellai, fra gli altri, adopera nella stessa forma la voce gradire: • QuantoS GRADISCE il vederle ir volando / pe i lieti paschi e per le tenere erbe I • Dice delle api. 1

IV,

8 [vv. 62-4].

Me non asperse del soave licor l'avara ampolla di Giove6

Vuole intendere di quel vaso pieno di felicità che Omero? pone in casa di Giove; se non che Omero dice una botte, e Saffo un'ampolla, eh' è molto meno, come tu vedi: e il perché le piaccia di chiamarlo cosi, domandalo a quelli che sono pratichi di questa vita. 1. [Nona nell'edizione definitiva dei Canti.] 2. [A pp. 48 sgg.] 3. [Petrarca, Rime, XXXVII, 65-9.] 4. Stanze, lib. 1, st. 18. 5. Api, v. 199. 6. [Lezione definitiva: • del soave licor del doglio avaro / Giove•.] 7. Il., lib. 24, v. 527.

ANNO'fAZIONI ALLE DIECI CANZONI IV, IO

[v. 64].

215

indi che 1

Cioè d'allora che, da poi che. Della voce indi costrutta colla particella che, se ne trovano tanti esempi nella Coltivazione dell 'Alamanni, ch'io non saprei quale mi ·scegliere che facesse meglio al proposito. E però lascio che se li trovi chi n'avrà voglia, massimamente bastando la ragione grammaticale a difendere questa locuzione, senza che ci bisogni l'autorità né degli antichi né della Crusca. « I' fuggo INDI OVE sia / chi mi conforte ad altro ch'a trar guai», dice il Bembo. 2 Cioè di là dove. Ma siccome la voce i11di talvolta è di luogo, e significa di là, talvolta di tempo, e significa d'allora, perciò séguita che questo passo della nostra Canzone, dove indi è voce di tempo, significhi d'allora che né più né meno che il passo del Bembo significa di là dove, e nel modo che dice Giusto de' Conti :3 « E il ciel d'ogni bellezza/ fu privo e di splendore / D' ALLOR CHE ne le fasce fu nudrita ». Cioè da che. Il quale avverbio temporale da che non è registrato nel Vocabolario; e perché fa molto a questo proposito, lo rincalzerò con un esempio del Caro :4 « DA CH'io la conobbi, non è cosa ch'io non me ne prometta». Altri esempi ne troverai senza molto rivolgere, e nel Caro e dovunque meglio ti piaccia. Ma io ti voglio pur mostrare questa medesima locuzione indi che, adoperata in quel proprio senso ch'io le attribuisco; per la qual cosa eccoti un passo di Terenzio:5 « Quamquam haec inter nos nuper notitia admodum'st / (INDE adeo QUOD agrum in proxumo hic mercatus es),/ nec rei/ere sane amplius quidquamfuit,· / tamen 11 col resto. Dal qual passo i più de' comentatori e de' traduttori non ne cavano i piedi. Vuol dire: « Non ostante che tu ed io siamo conoscenti di poco tempo ( cioè DA QUANDO hai comperato questo podere qui nel contorno), e che poco o nienealtro abbiamo avuto da fare 1ns1eme; tuttavia» con quello che segue.

Canzone nona.6 [INNO Al PATRIARCHI, O DE' PRINCIPII DEL GENERE UMAN0] 7

Chiamo quest'Inno, Canzone, per esser poema lirico, benché non abbia stanze né rime, ed atteso anche il proprio significato della voce can:&one, la quale importa il medesimo che la voce greca ode, ci~ cantico. E mi sovviene che parecchi poemi lirici d'Orazio, non avendo strofe, e taluno oltre di ciò essendo composto d'una sola misura di versi, tuttavia si chiamano Odi come gli altri; forse perché il nome [Lezione definitiva: • poi che».] 2. Son. 41. 3. B~lla Mano. canz. 2 1 st. 4. 4. Lett.fam., ed. Comin. 1734, voi. 2, lett. 233, pag. 399. 5. Heaut., Act. 1, se. 1, v. 1. 6. [Ottava nell'edizione definitiva dei Canti.] 7. (A pp. 42 sgg.] 1.

216

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE AI CANTI

appartiene alla qualità non del metro ma del poema, o vogliamo dire al genere della cosa e non al taglio della veste. In ogni modo mi rimetto alla tua prudenza: e se qui non ti pare che ci abbia luogo il titolo di Canzone, radilo, scambialo, fa quello che tu vuoi. Verso

10.

equa 1

Tra l'altre facezie del nostro Vocabolario, avverti anche questa, che la voce equo non si può dire, perché il Vocabolario la scarta, ma ben si possono dire quarantadue voci composte o derivate, ciascheduna delle quali comincia o deriva dalla suddetta parola. 15.

e pervicace ingegno, 2

Qui non vale semplicemente ostinato e che dura e insiste, ma oltre di ciò significa temerario e che vuol fare o conseguire quello che non gli tocca né gli conviene. Orazio nell,Ode terza del terzo libro :3 « Non haec iocosae conveniunt lyrae. / Quo, Musa, tendis? desine PERVICAX / re/erre sermones deorum, et/ magna modis tenuare parvis ». Vedi ancora la diciannovesima del secondo libro, 4 nella quale e, pervicaces » viene a inferire petulantes, procaces e, come dichiarano le glose d, Acrone, protervas; ma è pigliato in buona parte. E noto l'uno e l'altro luogo d'Orazio perché non sono avvertiti dal Forcellini e perché la voce pervicax, a guardarla sottilmente, non dice in questi due luoghi quel medesimo ch'ella dice negli esempi recati in quel Vocabolario. 32 [vv. 32-4].

e gl'inarati colli

solo e muto ascendea l'aprico raggio di febo

I verbi salire, montare, scendere sono adoperati da' nostri buoni scrittori, non solamente col terzo o col sesto caso, ma eziandio col quarto senza preposizione veruna. Dunque potremo fare allo stesso modo anche il verbo ascendere, come lo fanno i Latini, e come lo fa medesimamente il Tasso in due luoghi della Gerusalemme.s 43.

fratricida,

Il Vocabolario dice solamente fraticida e Jraticidio. Ma io, non trovando ch'Abele si facesse mai frate, chiamo Caino fratricida e non Jraticida. 46 [vv. 46-50].

primo i civili tetti, albergo e regno a le macere cure, innalza; e primo

[Lezione definitiva: • diritta ».] 2. [Lezione definitiva: • e irrequieto ingegno•.] 3. V. 69. 4. V. 9. 5. Can. 3, st. 10, e can. 20, st. 117. 1.

ANNOTAZIONI ALLE DIECI CANZONI

217

il disperato pentimento i ciechi mortali egro, anelante, aduna e stringe ne' consorti ricetti: Cain a facie Domini,» dice il quarto della Genesi, 1 1'Y

a,

&aot,

'l.CXÀÀta"tO'Y

TBOCR.,

Idill.

22,

Lui che la terra scuote, azzurro il crine, a cantare incomincio. Alati preghi a te, Nettuno Re, forza è che indrizzi il nocchier fatichevole che corre su veloce naviglio il vasto mare, se campar brama dai sonanti flutti e la morte schivar: che a te l'impero del pelago toccò, da che nascesti figlio a Saturno, e al fulminante Giove fratello e al nero Pluto. E Rea la Diva del vago crin ti partorì, ma in cielo non già: ché di Saturno astuto Nume gli sguardi paventava. Ella discese a la selvosa terra, il petto carca d'acerba doglia, e scolorite avea le rosee guance. Mentre il sole eccelso ardea su le montagne i verdi boschi, e sul caldo terren s'abbandonava l'agricoltor cui spossatezza invaso avea le membra (poi che di Semele dal sen ricolmo nato ancor non era il figlio alti-sonante, ed a gl'industri mortali sconosciuto era per anche il vin giocondo che vigore apporta), ella s'assise a l'ombra, e come uscito fosti dal suo grand'alvo, ti ripose su le ginocchia assai piangendo, e preghi porse a la Terra e a lo stellato Cielo:

cioc.a~. •

vers. ult.

s

IO

15

20

:as

• • Il canto è il più bel dono agli dèi. • - 12-3. c'/u ••. paventàva: secondo il mito, Saturno (o Kronos) avendo detronizzato il padre Urano (il Cielo), come gli era stato predetto da un oracolo della madre Gea (la Terra), era destinato a subire la stessa sorte ad opera d'uno dei suoi figli: quindi, per ovviare a questo pericolo, li divorava appena nati. 20-z. di Semele ••• il figlio: Bacco.

INNO A NETTUNO

O Terra veneranda, o Cielo padre, de_h riguardate a me, se pure è vero che di voi nacqui, e questo figlio mio da l'ira di Saturno astuto Nume or mi salvate, sì ch'egli nol veda, e questi ben ricresca e venga adulto. Così pregava Rea di belle chiome, poi che per te di fresco nato, in core sentìa gran tema: e per gli eccelsi monti ed il profondo mare errando gia l'eco romoreggiante. Udirla il Cielo e la feconda Terra, e nera Notte venne sul bosco, e si sedé sul monte. Ammutarono a un tratto e sbigottiro i volatori de la selva, e intorno co l'ali stese s'aggiràr vicino al basso suol. Ma t'accogliea ben tosto la Diva Terra fra sue grandi braccia; né Saturno il sapea, ché nera Notte era su la montagna. E tu crescevi, Re dal tridente d'oro, ed in robusta giovinezza venivi. Allor che voi di Rea leggiadra figli e di Saturno, tutto fra voi partiste, ebbesi Giove che i nembi aduna, lo stellato Cielo; il mar ceruleo tu; s'ebbe Plutone de l'Averno le tenebre. Ma tutti tu de la terra scotitor vincevi, salvo Giove e Minerva. E chi potrebbe co l'Olimpio cozzare impunemente 1 Il cielo tu lasciasti, e teco il figlio de la bianca Latona in terra scese: ed a l'altier Laomedonte ergevi tu de l'ampio Ilion le sacre mura, mentre ne' boschi opachi e ne le valli de l'Ida nuvolosa, i neri armenti Febo Apollo pascea: ma Laomedonte, 59-60. il figlio • • • Latona : Apollo.

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POESIE VARIE

compita l'opra tua, la pattuita mercede ti negò: stolto, che l'onde biancheggianti del pelago spingesti contr' Ilio tu, che soverchiar le mura con gran frastuono mormorando, e tutta di sabbia e limo la città colmaro con le campagne e i prati. E tal prendesti del fier Laomedonte aspra vendetta. Ma qual cagione a tenzonar ti mosse con Palla Diva occhi-cilestra? Atene la Cecropia città, poi ch'appellata tu la volevi dal tuo nome, e Palla il suo darle voleva. Ella ti vinse: che con la lancia poderosa il suolo percosse e uscir ne fe' virente olivo di rami spasi. Ma tu pur fiedesti la diva terra col tridente d'oro, e tosto fuor n'uscì destrier ch'avea florido il crine: onde a te diero i fati i cavalli domar veloci al corso. I pastori ama Pan, gli arcieri Febo, cari a Vulcano sono i fabbri, a Marte gli eroi gagliardi in guerra, i cacciatori a la vergine Cinzia. A te son grati i domatori de' cavalli; e primo tu de la terra scotitor possente a' chiomati destrieri il fren ponesti. Salve, equestre Nettuno. I tuoi cavalli van pasturando ne gli Argivi prati che a te sacri pur sono, e con la zappa il faticoso agricoltor non fende quel terreno giammai, né co l'aratro. Ma presti son come gli alati augelli i tuoi destrieri, ed erta han la cervice, né ci ha mortai che trar li possa innanzi al cocchio sotto il giogo, e con le briglie

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76. la Cecropia città: Atene, da Cecrope, uno dei suoi mitici fondatori. 81. spasi.: abbondanti, folti (dal latino expansus).

INNO A NETTUNO

reggerli e col flagello e co la voce. Qual perb de le ninfe a te dilette, signor del mare, io canterb ? la figlia di N creo forse e Doride, Anfitrite? o Libia chiomi-bella, o Menalippe alto-succinta, o Albpe, o Callirbe di rosee guance, o la leggiadra Alcione, o I ppotoe, o Mecionìce, o di Pitteo la figlia, Etra occhi-nera, o Chione, od Olbia, o l'Eolide Canace, o Toosa dal vago piede, o la Telchine Alia, .. od Amimone candida, o la figlia d'Epidanno, Melissa? E chi potrebbe tutte nomarle? e a noverar chi basta i figli tuoi ? Cercion feroce, Eufemo, il Tessalo Tribpe, Astaco e Rodo, onde nome ha del Sol rlsola sacra, e Tèseo ed Alirrozio ed il possente Triton, Dirrachio e il battaglioso Eumolpo e Polifemo a Nume ugual. Ma questo canto è meglio lasciar, che spesso i figli cagion furono a te d'acerbo lutto. Polifemo de l'occhio il saggio Ulisse in Trinacria fe' cieco: Eumolpo spense in Attica Eretteo; ma ben vendetta tu ne prendesti, o Scoti-terra, e morto lui con un colpo del tridente, al suolo la casa ne gittasti. E Marte istesso impunemente non t'uccise il figlio Alirrozio leggiadro: i numi tutti lui concordi dannir. Salve, o Nettuno ampio-possente: a te gl' Istmici ludi e le corse de' cocchi e de gli atleti

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104-5. la figlia di Nereo: Galatea. 105. Doride: l'oceanide moglie di Nereo; Anfitrite: dea del mare, mitica sposa di Nettuno. 106-14. Libia •.• Melissa: per queste ninfe si confrontino le note del Leopardi stesso (a pp. 241-4). 118. del Sol L•Jsola sacra: Rodi, sacra al dio Sole. 133. gl'lstmici ludi: i giochi che si celebravano sull'istmo di Corinto in onore di Poseidone, o Nettuno.

2 34

POESIE VARIE

son sacre, e l' aspre lotte: e neri tori in Trezene, in Geresto, e in cento grandi città di Grecia ogni anno a l'are tue cadono innanzi; e ne la Doric' Istmo vittime in folla traggono al tuo tempio le allegre turbe. Oh salve, azzurro Dio che la terra circondi, alti-sonante, gravi-fremente. I boschi su le· cime de le montagne crollansi, e le mura de le cittadi popolose, e i templi ondeggiano perfino, allor che scuoti tu col tridente flebile la terra, e gran fracasso s' ode e molto pianto per ogni strada. Né mortale ardisce immoto starsi, ma per tema a tutti si sciolgon le ginocchia, a l' are tue corre ciascun, t'indrizza preghi, e molte allor s'offrono a te vittime grate. Salve, o gran figlio di Saturno. Il tuo lucente cocchio è in Ega, nel profondo del romoroso pelago: Vulcano tel fabbricò: divina opra ammiranda. Ha le ruote di bronzo, ed il timone d'argento, e d'oro tutto è ricoperto l'incorruttibil seggio. Allor che poni tu sotto il giogo i tuoi cavalli, e volano essi pel mare indomito, fendendo i biancheggianti flutti, su i lor colli disperge il vento gli aurei crini; intorno a te che siedi e il gran tridente rechi ne le divine mani, uscite fuori de le case d'argento, a galla tutte le guanci-belle figlie di Nereo vengono tosto, e innanzi a te s'abbassa l'onda e t'apre la via; né s'alza il vento

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154. Ega: favolosa città sottomarina nel mare Egeo, dove Nettuno avrebbe avuto la sua reggia.

INNO A NETTUNO

ché tu del mar l'impero in sorte avesti. Ma qual potrò chiamarti, o del tridente agitatore? altri Eliconio, ed altri t'appella Suniarato. A Sparta detto sei Natalizio, ed Ippodromio a Tebe, in Atene Eretteo. Chiamanti Elate molti altri, e molti di Trezenio o d'Istmio ti danno il nome. I Tessali Petreo diconti, ed altri Onchestio, ed altri pure Egeo ti noma e Cinade e Fitalmio. Io dirotti Asfaleo, poiché salute tu rechi a' naviganti. A te fa voti il nocchier quando s'alzano del mare l'onde canute, e quando in nera notte percote i fianchi al ben composto legno il flutto alti-sonante che s'incurva spumando, e stanno tempestose nubi su le cime degli alberi, e del vento mormora il bosco al soffio (orrore ingombra le menti de' mortali), e quando cade precipitando giù dal ciel gran nembo sopra l'immenso mare. O Dio possente che Tenaro e la sacra Onchestia selva e Micale e Trezene ed il pinoso Istmo ed Ega e Geresto in guardia tieni, soccorri a' naviganti, e fra le rotte nubi fa che si vegga il cielo azzurro ne la tempesta, e su la nave splenda del sole o de la luna un qualche raggio o de le stelle, ed il soffiar de' venti cessi; e tu l' onde romorose appiana, sì che campin dal rischio i marinai. O Nume, salve, e con benigna mente proteggi i vati che de gl'inni han cura.

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178. Onchutio: Onchesto, città 1 75. Elate: dal greco U.ci'tYJç;, auriga. della Beozia. 179. Cinade: dal greco Kuvci~11,, come osserva il Leopardi in nota, con riferimento ad Esichio. Era un appellativo sotto cui Poseidone era onorato ad Atene, pare, secondo alcuni, come dio cacciatore.

236

POESIE VARIE

NOTE Verso 3. a te, Nettuno Re, A Nettuno davasi il nome di Re da quei di Trezene. Si veda la nota al v. 136. Versi 36-7. poi che per te di fresco nato, in core senda gran tema: Non ho saputo tradurre meglio questo luogo dove t•originale ha qualche difficoltà che forse vedremo tolta via nella edizione grecolatina di quest, Inno, la quale farassi di corto. Versi 45-6. Ma t'accogliea ben tosto la Diva Terra fra sue grandi braccia, ec. Pare che il poeta non tenga conto della favola, secondo la quale Nettuno fu cresciuto da alcuni pastori. Versi 61-2. ed al superbo Laomedonte alzavi tu de l'ampio Ilion le sacre mura.

t

noto che, secondo i poeti, Nettuno fabbricò le mura di Troia dopo essere stato discacciato dal cielo con Apolline per avere cospirato contro Giove: e però l'autore parla dell' edificamento di quelle mura dopo aver detto che Nettuno non poté vincere Giove né Minerva, della quale fa parola appresso. Versi 67-72. l'onde biancheggianti del pelago spingesti contr'Ilio tu, ec. Ovidio, Metamorfon, libro x1, favola 8:

Non impune feres, T6Ctor maris inquit, et omnes inclinavit aquas ad avarae litora Trojae, inque /reti forma11t terras convertit, opesque abstulit agricolis, et ftuctibw obruit agros. Versi 83-4. e tosto fuor n'usci destrier ch'avea florido il crine:

INNO A NETTUNO

2 37

Questo passo vale tant' oro per la mitologia. :t famosissima la contesa di cui fa qui menzione il poeta, e ne hanno parlato, fra gli altri, Varrone presso S. Agostino, Della Città di Dio, libro XVIII, capo 9; Cicerone nella Orazione in difesa di L. Fiacco; Plinio, libro XVI, capo XLIV; Plutarco nella Vita di Temistocle, e nelle Simposiache, libro IX, quistione VI; Aristide nella Panatenaica; Eusebio nella Cronica; Nonno nei libri XXXVI e XLIII 'Twv .6c.ovuata:xwv ; Ausonio nel Catalogo delle Città famose; Proclo nel Comento al Timeo di Platone; Menandro il Rettorico; lo Scoliaste d'Aristofane nelle Chiose alle Nubi; e tra' nostri, Dante nel quintodecimo del Purgatorio: Se tu se' sire della villa del cui nome ne' Dei fu tanta lite,

t

da notare il luogo di Proclo: «l-rc. To(vuv -r«x VL>«tv&>v Iloaet8c7>v » ( « i simulacri di Minerva e di Nettuno che faceano comparire, quella un olivo, e questo acqua»). Battista Egnazio dunque nel capo vin del libro che intitolò Racemationes, credé conchiudere a buon diritto che Nettuno nella contesa avuta con Minerva fe' uscire della terra acqua e non un cavallo. Ma Virgilio dièe a chiare note l'opposto nel principio delle Georgiche invocando Nettuno: Tuque o, cui prima frementem judit equum magno tellus percussa tridenti, Neptune: Dove alcuno vorrebbe leggere « Fudit aquam » ma invano, che noi permettono i Codici. Servio, spiegando questo passo, espone tutta la favola così: « Cum Neptunus et Minerva de Athenarum nomine contenderent, placuit diis ut ejus nomine civitas appellaretur, qui munus melius mortalibus obtulisset. Tunc Neptunus, percusso littore, equum, animai bellis aptum produxi,t: Minerva, jacta hasta, olivam creavit, quae res est melior comprobata, ut pacis insigne. Ut autem modo Neptunum invocet, causa ejus muneris facit, quia de equis est dicturus in tertio: alioquin incongruum est, si de agricultura locuturus, numen invocet maris. Equum autem a Neptuno progenitum alii Scythium, alii Syronem, alii Arionem, dicunt Juisse nominatum (e quanto al nome di Ariane, vedasi appresso il luogo di Stazio nella nota al v. 84 sgg.) et ideo dicitur equum invenisse, quia velox est ejus 11umen et mobile sicut mare». L'autorità d'Ovidio, Metamorfosi, libro vi, favola 3, è controversa. Egli dice descrivendo una tela tessuta da Pallade:

stare Deum pelagi longoque ferire tridente aspera saxa f acit, medioque e vulnere saxi exsi.luisse f erum, quo pignore vindicet urbem ,· Ma altri sostiene che per «ferum » va letto afretum ». Stazio, Tebaule, libro XII, non parla di cavallo, ma si bene di mare:

INNO A NETTUNO

2 39

Ipse quoque in pugnas vacuatur collis, uhi ingens lis superum, dubiis donec nova surgeret arbor rupibus, et longa refugum mare frangeret umbra. Non per tanto il suo chiosatore Lattanzio Placido scrive cosi: «Acropolin dicit arcem Athenarum de qua Neptuno et Minervae dicitur /uisse certamen. Percussa Neptuno terra equum dedit indicium belli; Minerva vero olivam pacis insigne». Benedetto Averani nelle sue Dissertazioni tiene anch'esso dal cavallo. Quest'Inno avrebbe potuto somministrargli una prova di più, molto valevole, se egli l'avesse conosciuto. Versi 84-5 ; 90-2. onde a te diero i fati i cavalli domar veloci al corso.

.

e pnmo

tu de la terra scotitor possente,

a' chiomati destrieri il fren ponesti.

t

noto che gli antichi teneano Nettuno per Dio non solo del mare, ma anche dei cavalli, dei cavalieri e dell'arte equestre, della quale Sofocle, Pausania nel libro VII e, a quello che sembra, il nostro poeta lo fanno inventore. Panfo Ateniese, antichissimo·scrittore d'lnni, lo chiama presso Pausania, u f mtc.>v 80-rijp«x,, («datore dei cavalli»); e Pindaro nell'Ode Olimpica XIII, a À«xµ.«xiov n«x-i-ép«x » («Padre domatore•), e nella quarta Pitica, « "I nn«xpxov », che è quanto dire, « Principe de' cavalli, o de' cavalieri». Omero finge che Nettuno donasse a Peleo i cavalli che poi furono di Achille. N estere nel libro XXIII della Iliade dice ad Antiloco: , Av-i-(Àox'' ~'t'OL µ.iv CJE viov 7t~p lov-i-' lcp(Àl)CJIXV Zeut; u Iloaet3cic.>v 't'E, x«xl l1t1tOCJUVIXt; l8(81X~IXV ff'(XVTOC«xc;.

Certo, benché garzon, Giove e Nettuno, Antiloco, t'amare, e l'arti equestri t'insegnar tutte; E Menelao nello stesso libro, finito il combattimento equestre, impone ad Antiloco che giuri per Nettuno. Pindaro nella prima Ode Olimpica dice che Nettuno f8c.>Xt 3(cppov XPUGEO", h lt'TEpOLa(v -r" tixciµ.cxv-r«xt.; f1tnouc;.

POESIE VARIE

Un cocchio d'oro a lui e cavalli donò d'ali indefesse, parlando di Pelope: e nel fine dell'Ode quinta chiama« Ilocn:1.8etvlouç" («Nettunii») i cavalli di Psaumide Camerineo, vincitore Olimpico. Si volle ancora che qualche cavallo fosse della razza di Nettuno.

quamvis saepe fuga versos ille egerit hostes, et patriam Epirum referat f ortesque Mycenas, Neptunique ipsa deducat origine gentem: dice Virgilio di un cavallo nel libro 111 delle Georgiche. E mettevano in cima all'albero di questa razza quel rinomato cavallo di Adrasto figlio naturale di Nettuno e di Cerere, del quale Stazio nel sesto della Tebaide:

Ducitur ante omnes rutilae manifestus Arion igne jubae. Neptunus equo, si. certa priorum fama, pater: primus teneris laesisse lupatis ora, et littoreo domitasse in pulvere f ertur verberibus parcens, etenim insatiatus eundi ardor, et hiberno par inconstantia ponto. Saepe per Jonium Libycumque natantibus ire interjunctus equis, omnesque assuetus in oras caeruleum de/erre patrem. Stupuere relicta nubila; certantes Eurique Notique sequuntur. Veggasi più sopra nella nota al v. 83 sg. il passo di Servio, e altresì il libro XXIII della Iliade, verso 345 e seguente. Panni non s'appongano Servio e gli altri interpreti che spiegando il verso 691 del settimo della Eneide:

At Messapus equum domitor, Neptunia pro/es, dicono avere il poeta chiamato Messapo, prole di Nettuno, perché egli era venuto per mare in Italia: spiegazione assai stiracchiata: e penso che Virgilio medesimo spieghi ottimamente la seconda parte del verso colla prima, in cui chiama Messapo, domator di cavalli, qualità, per cagione della quale, se non erro, egli lo fa poi figlio di Nettuno. E notisi come nella Eneide Messapo non è mai detto figlio di Nettuno, che non sia chiamato altrcsl domatore di cavalli o in altra simile guisa: onde nel libro IX si ripete tutto intero il verso citato, nel duodecimo esso trovasi pure quasi intero, mutato solo l'• At • in «Et», e nel decimo si legge:

INNO A NETTUNO

subit et Neptunia proles insignis Messapw equis. Verso 93. Salve, equestre Nettuno. I Greci davano spesso a Nettuno il nome di« "l;t1tr.ot; » (((Equestre»), del quale, come della sentenza di quelli che reputavano Nettuno essere stato il primo domatore de' cava1li ed avere insegnato l'arte del cavalcare, fa menzione Diodoro nel libro v, capo xv della Biblioteca. Aristofane nelle Nubi, atto 1, scena 1, fa giurare Fidippide per Nettuno equestre. Fuori di Atene in un luogo detto Colono, avea un tempio di Nettuno Equestre, ricordato da Tucidide nel libro v111, da Arpocrazione, alla voce cc KoÀù>VatL't'Clr. », e dall'antico Glosatore di Sofocle, nell'argomento dell'Edipo Colonese e nelle Dichiarazioni. Pausania, parlando del Colono, rammenta l'altare di Nettuno Equestre. Verso 106. o Libia chiomi-bella, Mosco, Idillio

11,

verso 36 e seguenti:

Aùni a~ xpuaEO'IJ 't:X.ÀClpO'IJ cpÉpEV Eùpw ..Er.2: -thpJ't6v, µ.Éyat .&atuµCl, µ.Éyt.Xv 7t6vov 1 Hcpt.Xta"C'or.o, &v At.f3un 7t6pE 3wpov, o·r9 it; Àqot; 'Ewocnyt.XLOU ijr.EV"

... Europa avea aureo panier bellissimo, ammirando, grand'opra di Vulcan che a Libia in dono il diede allor quand'ella di Nettuno lo Scoti-terra al talamo recessi; Vedasi Apollodoro, Biblioteta, libro

11.

Versi 106-7. o Menalippe alto-succinta, Clemente Alessandrino, Esortazione ai Gentili: « I{«ÀeL 1,toL, 'TÒv IIoaeL3i;, xatl 'TÒ'IJ :x6pov -rò" 8u:cp&«pµ.évov ò1t' t.XÙTou, n,v •Aµ.cpc:rpl'T1J", TÌ)v •AµuµwV7J'IJ, '")V 'AÀ67n1v, '")V ì\-levt.XÀbntY)V, '")V' AÀXU6VJJV, '")" 'l1t1to.&6l)V, '"J" Xt6V1J", 'TÒCt; clllatt; -rèct; µ.uplott; » (« Chiamami qua Nettuno e la schie-

ra viziata da lui, Anfitrite Amimone Alope Menalippe Alcione lppotoe Chione e le altre innumerevoli»). Arnobio, Contra le Nazioni, li16

POESIE VARIE

bro 1v: • Numquid enim a nobis arguitur rex maris, Amphitritas Hippothoas Amymonas M enalippas Alcyonas per furiosae cupiditatis ardorem, castimoniae tJirginitate privasse? » Giulio Finnico, Dell'Errore delle religioni profane, cap. 13: « Quis Amymonem, quis Alopen, quis Menalippen, quis Chionem Hippothoenque corrupit? Nempe Deus vester haec Jecisse memoratur ». Possono vedersi S. Teofilo, Ad Autolico, libro 11, capo 7; S. Giustino, Orazione ai Greci, capo II; S. Cirillo, Contra Giuliano, libro VI. Taluno credea che il vero nome della fanciulla fosse Melanippe. Ma anche il Codice di quest'Inno ha Menalippe. Verso

107.

o Alòpe, Si veggano i passi di Clemente Alessandrino e di Giulio Finnico nella nota precedente, e S. Cirillo nel luogo quivi citato. Versi

107-8.

o Calliròe di rosee guance, Calliròe, una delle figlie dell'Oceano e di Teti, è ricordata da molti scrittori antichi; ma nessuno, che· io sappia, tranne il nostro poeta, ne fa avvisati che amolla Nettuno. Versi 108-9. o la leggiadra Alcione, o lppotoe,

t

da vedere la nota seconda al v. 1 o6.

Verso 109. o Mecionlce, Esiodo nello Scudo d'Ercole~ e l'antico Glosatore di Pindaro nelle glose alla quarta Ode Pitica, scrivono che Eufemo, uno degli Argonauti, figlio di Nettuno, fu partorito da Mecionice. Pindaro però nell'Ode medesima dice che Eufemo fu messo al mondo da Europa, figlia di Tizio, sulle rive del Cefiso. Notisi che Mecionice è detta figlia di Eurota, e che Pindaro chiama Europa la madre di Eufemo. Versi

109-10.

o di Pitteo la figlia, Etra occhi-nera, Madre di Teseo. Vedasi appresso la nota prima al v. 119.

INNO A NETTUNO

Verso

2 43

110.

o Chione, Si veda più sopra la nota seconda al v.

106.

lvi. od Olbia, Stefano il Geografo, alla voce 'AaTcxx6c; : « 'Aa-rcxx6c;, 1r6Àtc; Bt&uv(cxc;, ci1tò 'AaTO:XOU 't'OU Iloact8wvoc; xo:l vuµ xpi)VY) 7t0(p' MyouaL IloaELawvoç 7tCXL80( AÀLpp6&tov, .&uy«-rép« "ApE(l)c; •AÀxbt7t'1)V «lc:JXUVCXVTC't ci1to.&ave!v u1tò "Apc(l)c; » ( « Quivi ha una fonte presso cui dicono che Marte uccidesse Alirrozio figlio di Nettuno, il quale avea svergognata la sua figlia Alcippe »). 1

Versi 131-2.

i numi tutti lui concordi dannar. Aristide, Orazione Panatenaica: " A«rxcivcL Iloau8wv "ApcL 8lx7JY Ò7t~p 't'OU 1t«L86c;, xal VLXq cv CX7t0((1L TOLc; .&core;· xal '"l" !1t(l)VU!,.tl«v o -r61toc; (o "ApcLoc; 1tciyoc;) Àcxµ.~civeL TÌ)v «ònJv ,, (cc Muove lite Nettuno a Marte per cagione del proprio figlio e la vince co' voti di tutti gli Dei; e da questo avvenimento il luogo (l'Areopago) piglia il suo

INNO A NETTUNO

2

47

nome»). Sono da vedere però intorno a questo famosissimo giudizio Lattanzio, libro I, capo 10, e libro v, capo 3; S. Agostino, Della Città di Dio, libro xv111, capo 10, ed altri, fra' quali i citati nella nota seconda al v. 1 19. Verso 135. e neri tori S'immolavano tori a Nettuno, come si raccoglie anche da Omero, Iliade, libro XI, verso 727; da Pindaro, Ode Olimpica XIII, verso 98 e seguente; Pitica IV, verso 365 e seguente: Nemea VI, verso 69; e da Virgilio, Enei.de, libro 11, verso 201 e seguente, libro 111, verso 119; e i tori erano neri, come apparisce sì da questo luogo dell'Inno e sì dal libro III, verso 6, della Odissea. Parmi da notare che in Efeso i giovani che faceano da coppieri nella festa di Nettuno, eran detti « T«Gpot,, ("Tauri») ossia Tori, come vedesi in Ateneo, libro x, e in Eustazio, Comento al ventesimo della Iliade; e forse questa festa era quella chiamata « T«upt:t« ,, (" Taurea ») che Esichio dice essersi celebrata in onore di Nettuno. Verso 136. In Trezene, Città dell 'Argolide sacra a Nettuno, e però detta Posidonia, cioè N ettunia, al rapportare di Strabone. Dice Plutarco nella Vita di Teseo, che a Iloaet8wvcx ... Tpotl::l)VLOL at(3ouat 3,cxcp.Epovn,>c;, xcxl &t:òc; OÙToc; .co8cdou -rou "rllou,

INNO A NETTUNO

>«xt Ol~tiì.ou » (« Non lungi dal teatro (di Sparta) sono il tempio di

Nettuno Natalizio e i monumenti eroici di Cleodeo figlio d'Ilio, e di Ebalo »). Verso 174. ed lppodromio a Tebe, Pindaro, Ode Istmica

I,

verso 78.

Verso 175. in Atene Eretteo. Plutarco, Vita di Licurgo; Atenagora, Ambasciata per li Cristiani, capo 1; Esichio, voce « 'Epq-&euç 11; Apollodoro, Biblioteca, libro III, dove si legge: Erittonio. Versi 175-6. Chiamanti Elate molti altri, Esichio, voce c; 7tÀtO'LV •

(•A Nettuno Asfaleo rendono culto gli Ateniesi, a fine di navigare alla sicura»). Strabone, libro 1, parla di un tempio « Iloau8&>voc; 'Aacprù.Lou » ( « di Nettuno Asfaleo •) o « Asfalio » alzato in certa isola da quei di Rodi. Vedansi il luogo di Suida nella nota che segue; Macrobio, Saturnali, libro 1, capo 17; ed Eustazio, Comento al primo

INNO A NETTUNO

della Iliade, verso 36 e al quinto, verso 344 e seguenti. • 'Aacp&~ • vale « sicurtà ». Verso

192.

che Tenaro

Il Chiosator greco di Tucidide, postilla al libro I: u Toc(vcxpov, clxpT7)ptov Acxxwvtxijc;, lEpòv Iloaet3wvoc; » (• Tenaro, promontorio di Laconia e tempio di Nettuno»). Aristofane, Acarnen: 'O Iloaet8v, i1;l Tcx1.vcip .&E6c; Nettuno, il Dio che in Tenaro s'onora Stazio, Tebaide, libro II:

Ast ubi prona dies longos super aequora fines e:rigit, atque ingens medio natat umbra profundo; interiore sinu frangentia littora curvat Taenanu, expositos non audax scandere fluctus. lllic Aegeo Neptunus gurgi.te fessos in portum deducit equos, Cornelio Nipote, Vita di Pausania: « Fanum Neptuni. est Taenari quod fliolare nefas putant Graeci ». Pomponio Mela, libro 11, capo 3: « In ipso Taenaro, Neptuni templum ». Questo tempio, a dire di Strabone, libro v111, era in un bosco, e per testimonianza di Pausania, libro 111, somigliava una spelonca. Avanti ad esso era una statua di Nettuno, che onoravasi in quel tempio sotto il titolo di Asfaleo, si come insegnano queste parole di Suida: « TcxLvcxpov, cixpc.>Ti)ptov AcxxvLXijc;, lv&cx xcxl Iloact8voc; lcpòv 'AacpotÀ(ou » («Tenaro, promontorio della Laconia, dove è pure un tempio di Nettuno Asfaleo»). Si celebrava in Tenaro una festa ad onore di Nettuno, della quale è fatta memoria da Esichio, alla voce« Tcxtvcxp[cxc; ». Possono vedersi Tucidide nel libro 1, Plutarco nella Vita di Pompeo, e Stefano il Geografo.

Ivi. e la sacra Onchestia selva

Omero, Iliade, libro n. Beozia verso 13: ·oYX'JlCff6v &' lEpÒv, Iloac1.8-fJtov cxyÀotÒV cn.aoc;, Ed Onchesto sacra a Nettuno luminosa selva, Dione Crisostomo, Orazione Corintiaca: • 'P63oc; (,Lh HÀ[ou, 0n1J• CJ't'Òc; Iloac1.3wvoc;• (e Rodi è sacra al Sole, Onchesto a Nettuno»). On1

1

POESIE VARIE

chesto era città di Beozia. Pindaro nella quarta Ode Istmica, verso 33., chiama Nettuno, n '0YXl)OTou obcéov-r« » (11 abitatore di Onchesto »). Sono da vedere anche l'Ode I, verso 46; Pausania nel libro 1x; Eu• stazio nel Comento alla Iliade, verso citato; e più sopra, la nota prima al v. 178. Verso 193.

e Micale Micale era un luogo della Ionia, che Erodoto, libro 1, capo 148, chiama sacro, situato incontro a Samo, nel quale, secondoché scrive Diodoro, libro v, gli abitanti di sette città della Ionia si adunavano per fare grandi sacrifici di antica istituzione a Nettuno « -. cEÀtxvC~ » («Eliconio»), come dice Strabone. Questa festa si chiamava 11 Ilavtwvta », cioè, « Ragunamento di tutti que' della Ionia», e ne fa menzione anche Eustazio., Comento alla Iliade, libro 11, Beozia, verso 10 e 82. Versi 193-4. e Trezene ed il pinoso Istmo ed Ega e Geresto Si vedano le note ai v. 136, 176 e 178.

Lo scopritore dell'Inno a Nettuno, dopo tutti gli altri frammenti rinvenuti nel Codice ove lo si contiene, hammi inviato due Odi che mi son parute degne d'esser porte ai letterati; e non avendo peculiare annotazione da farvi sopra, m'ha insieme trasmesso la sua letterale interpretazione latina e i suoi emendamenti, perché qui li pubblicassi, sì come fo, mettendo quella accanto il testo greco, e questi a piè delle facce. Le Odi sono intere, se non che mancano forse pochi versi nel fine della seconda. M'appaiano assai belle, e di buon grado io le ascriverei ad Anacreonte. Voleva il mio amico che le trasportassi in versi italiani, ed io mi ci sono provato e ne ho tradotto una, e poi mi ci sono riprovato, e finalmente ho cancellato tutto. Colui che disse, rima e traduzione essere cose in• compatibili, a miglior dritto avria potuto dirlo di una traduzione di Anacreonte, la quale se non è più che fedelissima, se non serba un suono, un ordine di parole esattissimamente rispondente a quello del testo, è piombo per oro forbito puro lucidissimo. Ora come in tanta difficoltà di trovare e ben collocare le parole, gittare

INNO A NETTUNO

2

53

tra queste, rime che non siano stiracchiate e che appaiano spontanee? E già non si soffrirebbe una traduzione italiana delle Odi di Anacreonte senza rime. Ma queste non potranno dunque in verun conto voltarsi nella nostra lingua? Altri potrà farlo, non io: e questo basti ; che le mie forze posso io sapere, non le altrui. Io per me, sosterrei volentieri togliersi tanto a quelle divine Odi con tor loro la lingua di Anacreonte, che a chi non sa di greco sia possibile cosa conoscere (non dico intendere) Omero, Callimaco e qualche altro, ma Anacreonte non mai. I letterati d'alto ingegno possono, credo, colla loro testimonianza fare che io non sia tenuto di scrivere qui un trattato che non da altri sarebbe inteso che da loro. ANNOTAZIONE ALL'INNO A NETTUNO

Per l'avvertimento da premettersi a un'altra edizione di questo Inno. Lo conservo come opera più tosto dell'ingegno che della fantasia e della facoltà poetica, ec. Doveché i traduttori si studiano di parer originali, io doveva, essendo originale, studiarmi di parer traduttore. E qui si possono mettere tutte le riflessioni sopra questo particolare ch'io scrissi al Giordani nella mia lettera dove si parla di quest'Inno, 1 ec.

1. Lettera del 30 maggio 1817.

OD.lE ADE SPOT.lE O~H A

ODE I

Etl,OU -re vux-rÒTt'cxouat, nient homines, medium per cf.elum tacite µéaov oupcxvòv att.>,tj} J!. I Q.J t i:;vvu:xoc; µoVY) v ooe:ue:tc;, nocturna solaque iter f acis; 15 è1t' 6p'1) -re, xci1d 8év8pCa>v super montes, arborumque I ~I xopucpcxc;, ooµouc; -r e:7t ~xpouc;, cacumina, et domorum culmina, ècp' o8ooc; -re: (8), x&:1tt À(µvcxc; superque vias et lacus 7t6Àu 8v (e:) '3ù.ouaix cpéyyoc;. canum iadens lumen. Te fures quidem reformidant, 20 T poµ.éouat µiv ae: tlé7t"rcxt, 7tacxv· universum orbem inspectantem,· ùµ.véouatv à.86ve:c; 8é, lusdnitl! vero celebrant, Cl.L ' " totam per noctem, eestatis tempore, 7tOtWU:XOV vt:;pOUpn exili voce cantillantes µ.tvupCaµ.cx-r' ~:xéouacxr. m,xtvoi:atv l.v tl-x8oi:ar.v. densos inter ramos. 25 LÙ 8è 1tpoacptÀY)t; 08(-rcxr.c;, Tu grata es viatoribus, aquis aliquando emergens. ù8«'t'Ca>V 7tO't'1 t~tOUaOt. Te dii quoque amant, Lè 8è xixt &e:ot cptÀouv-rcxr., te honorant homines, aè 8è -rtµc7>ar.v (~) 4v8pe:ç, sublimem, os argenteam, 30 µe-réopov, &pyupc7>n:tv, venerandam, pulcram, luciferam. 1t6-rvtixv, cpe:pocuyij. µe:Àcxvt.>v -r' l:xe:tveCpea>v. l:è 8è x' &:a-répEmo, quanto è più savio e sapiente, cioè quanto più conosce e sente l'infelicità del vero, tanto più ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi».

DIALOGO DI T. TASSO E DEL SUO GENIO

527

tarla in sul dosso. 1 Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio. Tasso. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Genio. Ancora non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso.

Spessissimo ••• dosso: ci sembra che questo passo controverso tra i commentatori debba essere interpretato nel senso più ovvio, ossia che trarsi la vita dietro con le mani, o portarsela sul dosso, è sempre meglio che doversela strascinare coi denti. 1.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l'interiore dell' Affrica, e passando sotto la linea equinoziale 1 in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. z Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi3 colossali veduti da lui, molti anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata cosi un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse. Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita? Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa. Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu fuggi. Scritto fra il 21 e il 30 maggio 1824 e pubblicato nell'edizione del 1827. Con questo dialogo, che preannuncia tanti luoghi della sua poesia ulteriore, e, in particolare, le grandi meditazioni liriche di La ginestra o il fiore del deserto, siamo al centro del pensiero poetico di Leopardi. Nell'Operetta conftuiscono le insistenti meditazioni dello Zibaldone sulla spietatezza della Natura verso l'individuo, essendo essa unicamente intesa alla conservazione della specie, e non degli esseri che la compongono (cfr. in particolare Zibaldone, 1s30, 1- 1, 20 agosto 1821 ). Anche più tardi ritornerà su Il'orrore che gli suscita l'apparente assenza di scopo dell'esistenza universale: a: Non si pub meglio spiegare l'orribile mistero delle cose e della esistenza universale (vedi il mio Dialogo della Natura e di un Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione• (Zibaldone, 4099,2, J giugno 1824). Più tardi ancora riprenderà l'argomento (Zibaldone, 4127,9-32, s-6 aprile 1825). - 1. la linea equinoziale: l'equatore. 2. quello . •. acque: vedi la nota 30 del Leopardi, a p. 677, nel laquale il poeta si riferisce al canto v dei Lusiades del Camoens., dove è narrata questa leggenda. 3. ermi: forma maschile di «erme», statue colossali simili a quelle dell'isola polinesiana di Pasqua.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

529

Islandese. La Natura? Natura. Non altri. Is/a,idese. Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere. Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi ? Islandese. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del freddo, e l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva 34

53°

OPERETTE MORALI

salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, 1 il sospetto degl'incendi, frequentissimi negli alberghi, 2 come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell'animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli ai:iimali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. 3 Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto I. Ecla: vulcano dell'Islanda. 2. alberghi: dimore. 3. E a questa . .. umane già Leopardi nello Zibaldone, 4069, 2 (17 :iprile 1824), avevo osservato « la maggior disposizione naturale alla felicità che hanno i popoli di clima assai caldo e gli orientali, rispetto agli altri», ponendo tale concetto in relazione aJle tradizioni che collocano nell'Oriente la culla del genere wnano.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

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dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata 1 a quegli abitanti, non rei verso te di nessun'ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell'aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl'insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico 2 non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. lo soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. 3 Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno battaglia formata: battaglia in piena regola. 2. un filosofo a11tico: Seneca. Vedi )a nota J I de) Leopardi, a p. 677. 3. e da altra •.. vita: già nello Zibaldone, 4087, 6 (11 maggio 1824), osservava: "Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i 1.

piaceri».

53 2

OPERETTE MORALI

di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare : come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e perb da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non pub mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidi i ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. 1 Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi, z preveduto da ciascuno 1. e mi risolvo ••• viscere: cfr. Sopra un bassorilievo antico sepolcrale ecc., vv. 44-7, a pp. 132-3: te Madre temuta e pianta ... / che per uccider partorisci e nutri•, La ginestra o il fiore del deserto, v. 125, a p. 157: a madre è di parto e di voler matrigna•• Paralipomeni della Batracomio,nacl,ia, IV, 12, a p. 380: • e de' suoi figli antica / e capitai carnefice e nemica ». z. E già ... viventi: queste idee sulla vecchiezza ritornano in Leopardi. Cfr., in particolare, Il tramonto della luna, vv. 44-50, a p. 1 s1, nonché Pensieri, VI, a p. 700.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

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di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono. Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità.1 Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. Islandese. Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. z Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Ora sappi • •• infelicità: cfr. Sopra un bassorilievo antico sepolcrale ecc., vv. 107-9, a p. 135: « Ma da natura/ altro negli atti suoi/ che nostro male o nostro ben si cura •· 2. / amiglia: i familiari, la servitù. 1.

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OPERETTE MORALI

Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t9ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono i_ntromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e coritento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico cli me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura. Natura. ·Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. 1 Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ?2 Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza cli mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e soI. Tu mostri ... dissoluzione: Leopardi tornerà successivamente su questo concetto nelJo Zibaldone (vedi Ioc. cit. nella nota introduttiva): re Anzi il fine della natura universale è la vita dell'universo, la quale consiste ugualmente in produzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine deila detta natura almen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai queilc cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione» (4130, 5-6 aprile 1825). 2. a chi piace ... compongono?: cfr. il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, vv. 61-98, a pp. 105-6.

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pra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

IL PARINI OVVERO DELLA GLORIA CAPITOLO PRIMO

Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi I taliani che all'eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente: cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d'animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall'oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla poesia. Tra gli altri, a un giovane d'indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, 1 venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza. 2 Tu cerchi, o figliuolo, quella gloria che sola, si può dire, di tutte le altre, consente oggi di essere colta da uomini di nascimento privato :3 cioè quella a cui si viene talora colla sapienza, e cogli studi delle buone dottrine e delle buone lettere. Già primieramente non Scritto fra il 6 luglio e il 13 agosto 1824 e pubblicato nell'edizione del 1827. In questo trattatello di stampo ciceroniano sulla gloria letteraria e la sua incertezza e vanità, il Leopardi ha più che altro rielaborato numerosi appunti deJJo Zibaldone sul magistero dello scrivere, sulla lettura, e, per l'appunto, sulla gloria e la vita delle opere presso la posterità. SuJl'esempio degli scrittori antichi egli ha scelto, per esprimere le proprie idee, la figura di un grande scrittore del secolo precedente, come il Parini, le cui opinioni circa le belle lettere, a parte l'accentuazione pessimistica che il Leopardi vi pone, non dovevano peraltro apparirgli troppo disfarmi dalle sue. Sulla scelta del Parini come personaggio esemplare egli era stato del resto preceduto dal Foscolo nelJ'Ortis. Va tuttavia da sé che lo stesso Parini, in questa Operetta, è poco più di un nome, e che il Leopardi, negli stessi suoi tratti biografici, adombra essenzialmente esperienze proprie. - 1. di espettazione maravigliosa: ossia di larghe promesse. 2. questa sentenza: espressione latineggiante per a questo ragionamento•· 3. gloria ..• privato: ancora ai tempi di Leopardi le sopravvivenze della società feudale porta• vano a far distinguere gli uomini di nascimento privato, cioè di comune origine, da quelli che per nascita nobile o illustre potevano soli normalmente aspirare alle alte cariche pubbliche dello Stato, o agli alti gradi nella milizia o nella Chiesa.

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ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri sommi antenati non fosse negletta, fu però tenuta in piccolo conto per comparazione alle altre: e bene hai veduto in quanti luoghi e con quanta cura Cicerone, suo caldissimo e felicissimo seguace, si scusi co' suoi cittadini del tempo e dell'opera che egli poneva in procacciarla; ora allegando che gli studi delle lettere e della filosofia non lo rallentavano in modo alcuno alle faccende pubbliche, ora che sforzato dall'iniquità dei tempi ad astenersi dai negozi maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente l'ozio suo; e sempre anteponendo alla gloria de' suoi scritti quella del suo consolato, e delle cose fatte da sé in beneficio della repubblica. 1 E veramente, se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, il primo intento della filosofia l'ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l'operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi, niun ingegno è creato dalla natura agli studi; né l'uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. 2 Né sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne. E puoi facilmente considerare, in Italia, dove quasi tutti sono d'animo alieno dai fatti egregi, quanto pochi acquistino fama durevole colle scritture. lo penso che l'antichità, specialmente romana o greca, si possa convenevolmente figurare nel modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua 1. Cicerone .•. rep11bblica: Cicerone aveva infatti parlato della gloria nel De officiis, nel De oratore, nel libro III delle Tusculane e nel I delle Accademiche. 2. Perciò veggiamo •.. grandi: già il Leopardi aveva insistito su questo concetto: « Nessun uomo fu né sarà mai grande nella filosofi.a o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più e più gran cose degli altri, non avesse in sé maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii, e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto all'azione e all'energia dell'esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Stael lo dice dell'Alfieri (Corinne, t. 1, livre demier), anzi dice ch'egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de' tempi suoi (e nostri) glie lo avesse permesso• (Zibaldon~, 2453, 30 maggio 1822).

OPERETTE MORALI

rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di volerlosi recare in capo; e a' piedi, alcuni volumi, quasi negletti da lei, come piccola parte della sua gloria. 1 Ma tra noi moderni, esclusi comunemente da ogni altro cammino di celebrit.à/.1 quelli che si pongono per la via degli studi, mostrano nella elezione quella maggiore grandezza d'animo che oggi si può mostrare, e non hanno necessità di scusarsi colla loro patria. Di maniera che in quanto alla magnanimità, lodo sommamente il tuo proposito. Ma perciocché questa via, come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si pub seguire senza pregiudizio del corpo, né senza moltiplicare in diversi modi l'infelicità naturale del proprio animo; però innanzi ad ogni altra cosa, stimo sia conveniente e dovuto non meno all'ufficio mio, che all'amor grande che tu meriti e che io ti porto, renderti consapevole sl di varie difficoltà che si frappongono al conseguimento della gloria alla quale aspiri, e sl del frutto che ella è per produrti in caso che tu la conseguisca; secondo che fino a ora ho potuto conoscere coll'esperienza o col discorso: acciocché, misurando teco medesimo, da una parte, quanta sia l'importanza e il pregio del fine, e quanta la speranza dell'ottenerlo; dall'altra, i danni, le fatiche e i disagi che porta seco il cercarlo ( dei quali ti ragionerb distintamente in altra occasione); tu possa con piena notizia considerare e risolvere se ti sia più spediente3 di seguitarlo, o di volgerti ad altra via. CAPITOLO SECONDO

Potrei qui nel principio distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà nel cammino che hai cominciato. I quali ostacoli, sempre malagevolo penso . •. gloria: vedi la nota 32 del Leopardi, a p. 677. Secondo Pausania, Telesilla di Argo, dopo la rotta dell'esercito argivo, si mise a capo delle donne della città, sconfiggendo gli assalitori spartani. 2. Ma tra ••• celebrità: concetto circa la decadenza dei tempi moderni, che spesso ritorna nella stessa poesia del Leopardi (cfr. Ad Angelo Mai, q,,and'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica, vv. 4-5, a p. 16, e 171-80, a p. 23. 3. spediente: conveniente, opportuno. 1.

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lissimi a superare, spesso insuperabili, fanno che più di uno scrittore, non solo in vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato al tutto dell'onore che se gli dee. Perché, vissuto senza fama per l'odio o l'invidia altrui, morto si rimane nell'oscurità per dimenticanza; potendo difficilmente avvenire che la gloria d'alcuno nasca o risorga in tempo che, fuori delle carte per sé immobili e mute, nessuna cosa ne ha cura. Ma le difficoltà che nascono dalla malizia degli uomini, essendone stato scritto abbondantemente da molti, ai quali potrai ricorrere, intendo di lasciarle da parte. Né anche ho in animo di narrare quegl'impedimenti che hanno origine dalla fortuna propria dello scrittore, ed eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni: i quali non di rado fanno che alcuni scritti degni di somma lode, e frutto di sudori infiniti, sono perpetuamente esclusi dalla celebrità, o stati pure in luce per breve tempo, cadono e si dileguano interamente dalla memoria degli uomini; dove che altri scritti o inferiori di pregio, o non superiori a quelli, vengono e si conservano in grande onore. Io ti vo' solamente esporre le difficoltà e gl'impacci che senza intervento di malvagità umana, contrastano gagliardamente il prenùo della gloria, non all'uno o all'altro fuor dell'usato, ma per l'ordinario, alla maggior parte degli scrittori grandi. Ben sai che niuno si fa degno di questo titolo, né si conduce a gloria stabile e vera, se non per opere eccellenti e perfette, o prossime in qualche modo alla perfezione. Or dunque hai da por mente a una sentenza verissima di un autore nostro lombardo; dico dell'autore del Cortegiano: 1 la quale è che« rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, né gvstar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi». E qui prinùeramente pensa, quanto piccolo numero di persone sieno assuefatte ed ammaestrate a scrivere; e però da quanto poca parte degli uomini, o presenti o futuri, tu possa in qualunque caso sperare quell'opinione magnifica, che ti hai proposto per frutto della tua vita. Oltre di ciò considera quanta sia nelle scritture la forza dello stile; dalle cui virtù principalmente, e dalla cui perfezione, dipende la perpetuità delle opere l'alltore del Cortegiano: Baldassar Castiglione (1478-1529). Vedi la nota 33 del Leopardi, a p. 677. 1.

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che cadono in qualunque modo nel genere delle lettere amene. E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, 1 tu la riduci in istato che ella ti par cosa di niuna stima. Ora la lingua è tanta parte dello stile, anzi ha tal congiunzione seco, che difficilmente si può considerare l'una di queste due cose disgiunta dall'altra; a ogni poco si confondono insieme ambedue, non solamente nelle parole degli uomini, ma eziandio nell'intelletto; e mille loro qualità e mille pregi o mancamenti, appena, e forse in niun modo, colla più sottile e accurata speculazione, si può distinguere e assegnare a quale delle due cose appartengano, per essere quasi comuni e indivise tra l'una e l'altra. Ma certo niuno straniero è, per tornare alle parole del Castiglione, (( assueto a scrivere» elegantemente nella tua lingua. Di modo che lo stile, parte sì grande e sì rilevante dello scrivere, e cosa d'inesplicabile difficoltà e fatica, tanto ad apprenderne l'intimo e perfetto artificio, quanto ad esercitarlo, appreso che egli sia; non ha propriamente altri giudici, né altri convenevoli estimatori, ed atti a poter lodarlo secondo il merito, se non coloro che in una sola nazione del mondo hanno uso di scrivere. E verso tutto il resto del genere umano, quelle immense difficoltà e fatiche sostenute circa esso stile, riescono in buona e forse massima parte inutili e sparse al vento. Lascio l'infinita varietà dei giudizi e delle inclinazioni dei letterati; per la quale il numero delle persone atte a sentire le qualità lodevoli di questo o di quel libro, si riduce ancora a molto meno. Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un'opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell'immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore medesimo che bassi a giudicare. Perciocché l'esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sarà dal conoscerle, all'imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l'una e l'altra una cosa sola. Di maniera che l'uomo non giunge a poter 1.

nelle sentmz~: ossia nei pensieri che essa contiene.

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discernere e gustare compiutamente l'eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell'eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell'uso e dell'esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il perfetto scrivere. 1 Ma non intendendo questo, non pub né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi. E la più parte di quelli che attendono agli studi, scrivendo essi facilmente, e credendosi scriver bene, tengono in verità per fermo, quando anche dicano il contrario, che lo scriver bene sia cosa facile. Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un'opera egregia e perfetta. Io ti so dire (e credi a questa età canuta) che appena due o tre sono oggi in Italia, che abbiano il modo e l'arte dell'ottimo scrivere. Il qual numero se ti pare eccessivamente piccolo, non hai da pensare contuttocib che egli sia molto maggiore in tempo né in luogo alcuno. Più volte io mi maraviglio meco medesimo come, ponghiamo caso, Virgilio, esempio supremo di perfezione agli scrittori, sia venuto e mantengasi in questa sommità di gloria. Perocché, quantunque io presuma poco di me stesso, e creda non poter mai godere e conoscere ciascheduna parte d'ogni suo pregio e d'ogni suo magistero; tuttavia tengo per certo che il massimo numero de' suoi lettori e lodatori non iscorge ne' poemi suoi più che una bellezza per ogni dieci o venti che a me, col molto rileggerli e meditarli, viene pur fatto di scoprirvi. In vero io mi persuado che l'altezza della stima e della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata, che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa un 1. Ma io •.• scrivere: già il Leopardi scriveva a Melchiorre Missirini il 15 gennaio 1825: • oggi chiunque in Italia vuol bene, profondamente e filosoficamente scrivere e poetare, dee porsi costantemente nell'animo di non dovere né potere in nessun modo essere commendato né gustato né anche inteso dagli Italiani presenti•· E nello Zibaldone, 3674 (12 ottobre 1823): •l'arte di bene scrivere, e il modo, e che cosa sia il bene scrivere, non può essere compiutamente conosciuto e inteso se non da chi compiutamente possegga la detta arte, cioè sappia interamente metterla in opera•·

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merito tale. E mi ricordo del tempo della mia giovinezza; quando io leggendo i poemi di Virgilio con piena libertà di giudizio da una parte, e nessuna cura dell'autorità degli altri, il che non è comune a molti; e dall'altra parte con imperizia consueta a quell'età, ma forse non maggiore di quella che in moltissimi lettori è perpetua; ricusava fra me stesso di concorrere nella sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano. 1 Vedi che la moltitudine dei lettori, non solo nei secoli di giudizio falso e corrotto, ma in quelli ancora di sane e ben temperate lettere, è molto più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte; più dall'ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall'apparente più che dal sostanziale; e per l'ordinario più dal mediocre che dall'ottimo. Leggendo le lettere di un Principe, raro veramente d'ingegno, ma usato a riporre nei sali, nelle arguzie, nell'instabilità, nell'acume quasi tutta l'eccellenza dello scrivere, io m'avveggo manifestissimamente che egli, nell'intimo de' suoi pensieri, anteponeva l'Enriade all' Eneide; 2 benché non si ardisse a profferire questa sentenza, per solo timore di non offendere le orecchie degli uomini. In fine, io stupisco che il giudizio di pochissimi, ancorché retto, abbia potuto vincere quello d'infiniti, e produrre nell'universale quella consuetudine di stima non meno cieca che giusta. Il che non interviene sempre, ma io reputo che la fama degli scrittori ottimi soglia essere effetto del caso più che dei meriti loro: come forse ti sarà confermato da quello che io sono per dire nel progresso del ragionamento. 1. E .•. Lucano: Anneo Lucano (39-65 d.C.), autore del poema epico Pharsalia. Per tutto il passo cfr. Zibaldone, 1788, 1 (25 settembre 1821): « Gl'illetterati che leggono qualche celebrato autore, non ne provano diletto, non solo perché mancano delle qualità necessarie a gustar quel piacere ch'essi possono dare, ma anche perché si aspettano un piacere impossibile, una bellezza, un'altezza di perfezione di cui.le cose umane sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano l'autore, si ridono della sua fama, e lo considerano come un uomo ordinario, persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così accadeva a me nella prima giovanezza leggendo Virgilio, Omero ec. •· 2. Leggendo .•. all'Eneide: il principe è Federico II di Prussia ( 1712-1786), dei cui scritti Leopardi ebbe a interessarsi. L'Henriade è il poema in lode di Enrico IV, con cui Voltaire aveva inteso dotare la Francia del poema epico, secondo l'esempio italiano, ma che rimase opera puramente accademica.

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CAPITOLO TERZO

Si è veduto già quanto pochi avranno facoltà di ammirarti quando sarai giunto a quell'eccellenza che ti proponi. Ora avverti che più d'un impedimento si può frapporre anco a questi pochi, che non facciano degno concetto del tuo valore, benché ne veggano i segni. Non è dubbio alcuno, che gli scritti eloquenti o poetici, di qualsivoglia sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualità in se medesime, quanto dall'effetto che essi fanno nell'animo di chi legge. In modo che il lettore nel farne giudizio, li considera più, per cosi dire, in se proprio, che in loro stessi. Di qui nasce, che gli uomini naturalmente tardi e freddi di cuore e d'immaginazione, ancorché dotati di buon discorso, di molto acume d'ingegno, e di dottrina non mediocre, sono quasi al tutto inabili a sentenziare convenientemente sopra tali scritti; non potendo in parte alcuna immedesimare l'animo proprio con quello dello scrittore; e ordinariamente dentro di sé li disprezzano; perché leggendoli, e conoscendoli ancora per famosissimi, non iscuoprono la causa della loro fama; come quelli a cui non perviene da lettura tale alcun moto, alcun'immagine, e quindi alcun diletto notabile. Ora, a quegli stessi che da natura sono disposti e pronti a ricevere e a rinnovellare in sé qualunque immagine o affetto saputo acconciamente esprimere dagli scrittori, intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza, languidezza d'animo, impenetrabilità, e disposizione tale, che, mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi; e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli. In questi cotali tempi, niuno, se ben fosse per altro uno scrittore sommo, è buon giudice degli scritti che hanno a muovere il cuore o l'immaginativa. 1 Lascio 1. Ora ... immaginativa: nello Zibaldone, 227-8 (25 agosto 1820), già il Leopardi aveva espresso analoghi concetti. Ad esempio: « Mettendomi a leggere coll'animo disposto, trovava tutto gustoso, ogni bellezza mi risaltava all'occhio, tutto mi riscaldava, e mi ricmpieva d,entusiasmo, e lo scrittore da quel momento mi diventava ammirabile, ed io continuava sempre ad averlo in gran concetto. In questa tal disposizione, forse il giudizio può anche peccare attribuendo al libro ec. quel merito che in gran parte spetta al lettore. Altre volte mi poneva a leggere coll'animo freddissimo, e le più belle, più tenere, più profonde cose non erano capaci di commuovermi: per giudicare non mi restava altro che il gusto e il tatto già formato. Ma il mio giudizio si ristringeva cosi alle cose esterne, e nelle interne a una congettw'a dell'effetto che l'opera potesse produrre in altrui. E l'opera non mi restava

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la sazietà dei diletti provati poco prima in altre letture tali; e le passioni, più o meno forti, che sopravvengono ad ora ad ora; le quali bene spesso tenendo in gran parte occupato l'animo, non lasciano luogo ai movimenti che in altra occasione vi sarebbero eccitati dalle cose lette. Così, per le stesse o simili cause, spesse volte veggiamo che quei medesimi luoghi, quegli spettacoli naturali o di qualsivoglia genere, quelle musiche, e cento sì fatte cose, che in altri tempi ci commossero, o sarebbero state atte a commuoverci se le avessimo vedute o udite; ora vedendole e ascoltandole, non ci commuovono punto, né ci dilettano; e non perciò sono men belle o meno efficaci in sé, che fossero allora. Ma quando, per qualunque delle dette cagioni, l'uomo è mal disposto agli effetti dell'eloquenza e della poesia, non lascia egli nondimeno né differisce il far giudizio dei libri attenenti all'un genere o all'altro, che gli accade di leggere allora la prima volta. A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone o il Petrarca, e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo. Tuttavia, come già consapevole e certo della bontà cli scrittori tali, sì per la fama antica e sì per l'esperienza delle dolcezze cagionatemi da loro altre volte; non fo per quella presente insipidezza, alcun pensiero contrario alla loro lode. Ma negli scritti che si leggono la prima volta, e che per essere nuovi, non hanno ancora potuto levare il grido, o confermarselo in guisa, che non resti luogo a dubitare del loro pregio; niuna cosa vieta che il lettore, giudicandoli dall'effetto che fanno presentemente nell'animo proprio, ed esso animo non trovandosi in disposizione da ricevere i sentimenti e le immagini volute da chi scrisse, faccia piccolo concetto d'autori e d'opere eccellenti. Dal quale non è facile che egli si rimuova poi per altre letture degli stessi libri, fatte in migliori tempi: perché verisimilmente il tedio provato nella prima, lo sconforterà dalle altre; e in ogni modo, chi non sa quello che importino le prime impressioni, e l'essere preoccupato da un giudizio, 1 quantunque falso? per conseguenza in grande ammirazione ... Questa considerazione deve servire: 1. a spiegare la diversità dei giudizi in persone ugualmente capaci, diversità che s'attribuisce sempre a tute altro; 2. a non fidarsi troppo dei giudizi anche dei più competenti e di se stesso ... Il pubblico, e il tempo non vanno soggetti nei loro giudizi a questo inconveniente•· 1. essere ... da un giudizio: latinamente, essere preventivamente occupato da un giudizio, cioè avere un preconcetto.

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Per lo contrario, trovansi gli animi alcune volte, per una o per altra cagione, in istato di mobilità, senso, vigore e caldezza tale, o talmente aperti e preparati, che seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni leggero tocco, e coll'occasione di ciò che leggono, creano in sé mille moti e mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di sé. Da questo facilmente avviene, che guardando ai diletti avuti nella lettura, e confondendo gli effetti della virtù e della disposizione propria con quelli che si appartengono veramente al libro; restino presi di grande amore ed ammirazione verso quello, e ne facciano un concetto molto maggiore del giusto, anche preponendolo ad altri libri più degni, ma letti in congiuntura meno propizia. Vedi dunque a quanta incertezza è sottoposta la verità e la rettitudine dei giudizi, anche delle persone idonee, circa gli scritti e gl'ingegni altrui, tolta pure di mezzo qualunque malignità o favore. La quale incertezza è tale, che l'uomo discorda grandemente da se medesimo nell'estimazione di opere di valore uguale, ed anche di un'opera stessa, in diverse età della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno. CAPITOLO QUARTO

A fine poi che tu non presuma che le predette difficoltà, consistenti nell'animo dei lettori non ben disposto, occorrano rade volte e fuor dell'usato; considera che niuna cosa è maggiormente usata, che il venir mancando nell'uomo coll'andar dell'età, la disposizione naturale a sentire i diletti dell'eloquenza e della poesia, non meno che dell'altre arti imitative, e di ogni bello mondano. 1 Il quale decadimento dell'animo, ·prescritto dalla stessa natura alla nostra vita, oggi è tanto maggiore che egli si fosse agli altri tempi, e tanto più presto incomincia ed ha più rapido progresso, specialmente negli studiosi, quanto che all'esperienza di ciascheduno, si aggiunge a chi maggiore a chi minor parte della scienza nata dall'uso e dalle speculazioni di tanti secoli passati. Per la qual cosa e per le presenti condizioni del viver civile, si dileguano facilmente dall'immaginazione degli uomini le larve della prima età, e seco 1. bello mondano: bello di questo mondo, probabilmente in opposizione a religioso.

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le speranze dell'animo e colle speranze gran parte dei desiderii, delle passioni, del fervore, della vita, delle facoltà. Onde io piuttosto mi maraviglio che uomini di età matura, dotti massimamente, e dediti a meditare sopra le cose umane, sieno ancora sottoposti alla virtù dell'eloquenza e della poesia, che non che di quando in quando elle si trovino impedite di fare in quelli alcun effetto. Perciocché abbi per certo, che ad essere gagliardamente mosso dal bello e dal grande immaginato, fa mestieri credere che vi abbia nella vita umana alcun che di grande e di bello vero, e che il poetico del mondo non sia tutto favola. Le quali cose il giovane crede sempre, quando anche sappia il contrario, finché l'esperienza sua propria non sopravviene al sapere; ma elle sono credute difficilmente dopo la trista disciplina dell'uso pratico, massime dove l'esperienza è congiunta coll'abito dello speculare e colla dottrina. Da questo discorso seguirebbe che generalmente i giovani fossero migliori giudici delle opere indirizzate a destare affetti ed immagini, che non sono gli uomini maturi o vecchi. Ma da altro canto si vede che i giovani non accostumati alla lettura, cercano in quella un diletto più che umano, infinito, e di qualità impossibili; e tale non ve ne trovando, disprezzano gli scrittori: il che anco in altre età, per simili cause, avviene alcune volte agl'illetterati. Quei giovani poi, che sono dediti alle lettere, antepongono facilmente, come nello scrivere, così nel giudicare gli scritti altrui, l'eccessivo al moderato, il superbo o il vezzoso dei modi e degli ornamenti al semplice e al naturale, e le bellezze fallaci alle vere; parte per la poca esperienza, parte per l'impeto dell'età. Onde i giovani, i quali senza alcun fallo sono la parte degli uomini più disposta a lodare quello che loro apparisce buono, come più veraci e candidi; rade volte sono atti a gustare la matura e compiuta bontà delle opere letterarie. Col progresso degli anni, cresce quell'attitudine che vien dall'arte, e decresce la naturale. Nondimeno ambedue sono necessarie ali' effetto. Chiunque poi vive in città grande, per molto che ·egli sia da natura caldo e svegliato di cuore e d'immaginativa, io non so (eccetto se, ad esempio tuo, non trapassa in solitudine il più del tempo) come possa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine sublime o leggiadra. Perciocché poche cose sono tanto contrarie

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a quello stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti, della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più misero, che vi regnano. Quanto al volgo dei letterati, sto per dire che quello delle città grandi sappia meno far giudizio dei libri, che non sa quello delle città piccole: perché nelle grandi come le altre cose sono per lo più false e vane, così la letteratura comunemente è falsa e vana, o superficiale. E se gli antichi reputavano gli esercizi delle lettere e delle scienze come riposi e sollazzi in comparazione ai negozi, oggi la più parte di quelli che nelle città grandi fanno professione di studiosi, reputano, ed effettualmente usano, gli studi e lo scrivere, come sollazzi e riposi degli altri sollazzi. Io penso che le opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d'infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll'animo connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito. Oltre che la moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l'animo in guisa, che non attendendo a niun'a di loro se non poco, non può ricevere un sentimento vivo; o genera tal sazietà, che elle si contemplano colla stessa freddezza interna, che si fa qualunque oggetto volgare. Il simile dico della musica: la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni altro luogo. Ma nondimeno alle arti è necessario il domicilio delle città grandi sì a conseguire, e sì maggiormente a porre in opera la loro perfezione: e non per questo, da altra parte, è men vero che il diletto che elle porgono quivi agli uomini, è minore assai, che egli non sarebbe altrove. E si può dire che gli artefici nella solitudine e nel silenzio, procurano con assidue vigilie, industrie e sollecitudini, il diletto di persone, che solite a rivolgersi tra la folla e il romore, non gusteranno se non piccolissima parte del frutto di tante fatiche. La qual sorte degli artefici cade anco per qualche proporzionato modo negli scrittori.

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CAPITOLO QUINTO

Ma ciò sia detto come per incidenza. Ora tornando in via, dico che gli scritti più vicini alla perfezione, hanno questa proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più che alla prima. Il contrario avviene in molti libri composti con arte e diligenza non più che mediocre, ma non privi però di un qual si sia pregio estrinseco ed apparente; i quali, riletti che sieno, cadono dall'opinione che l'uomo ne avea conceputo alla prima lettura. Ma letti gli uni e gli altri una volta sola, ingannano talora in modo anche i dotti ed esperti, che gli ottimi sono posposti ai mediocri. Ora hai a considerare che oggi, eziandio le persone dedite agli studi per instituto di vita, con molta difficoltà s'inducono a rileggere libri recenti, massime il cui genere abbia per suo proprio fine il diletto. La qual cosa non avveniva agli antichi; atteso la minor copia dei libri. Ma in questo tempo ricco delle scritture lasciateci di mano in mano da tanti secoli, in questo presente numero di nazioni letterate, in questa eccessiva copia di libri prodotti giornalmente da ciascheduna di esse, in tanto scambievole commercio fra tutte loro; oltre a ciò, in tanta moltitudine e varietà delle lingue scritte, antiche e moderne, in tanto numero ed ampiezza di scienze e dottrine di ogni maniera, e queste così strettamente connesse e collegate insieme, che lo studioso è necessitato a sforzarsi di abbracciarle tutte, secondo la sua possibilità; ben vedi che manca il tempo alle prime non che alle seconde letture. Perb qualunque giudizio vien fatto dei libri nuovi una volta, difficilmente si muta. Aggiungi che per le stesse cause, anche nel primo leggere i detti libri, massime di genere ameno, pochissimi e rarissime volte pongono tanta attenzione e tanto studio, quanto è di bisogno a scoprire la faticosa perfezione, l'arte intima e le virtù modeste e recondite degli scritti. Di modo che in somma oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri perfetti, che dei mediocri; le bellezze o doti di una gran parte dei quali, vere o false, sono esposte agli occhi in maniera, che per piccole che sieno, facilmente si scorgono alla prima vista. E possiamo dire con verità, che oramai l'affaticarsi di scrivere perfettamente, è quasi inutile alla fama. Ma da altra parte, i libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente, e rimoti da qualunque per-

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fezione; ancorché sieno celebrati per qualche tempo, non possono mancar di perire in breve: come si vede continuamente nell'effetto. Ben è vero che l'uso che oggi si fa dello -scrivere è tanto, che eziandio molti scritti degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a poco, e avanti che abbiano potuto (per dir così) radicare la propria celebrità, dalrimmenso fiume dei libri nuovi che vengono tutto giorno in luce, periscono senz'altra cagione, dando luogo ad altri, degni o indegni, che occupano la fama per breve spazio. Così, ad un tempo medesimo, una sola gloria è dato a noi di seguire, delle tante che furono proposte 1 agli antichi; e quella stessa con molta più difficoltà si consegue oggi, che anticamente. Soli in questo naufragio continuo e comune non meno degli scritti nobili che de' plebei, soprannuotano i libri antichi; i quali per la fama già stabilita e corroborata dalla lunghezza dell'età, non solo si leggono ancora diligentemente, ma si rileggono e studiano. E nota che un libro moderno, eziandio se di perfezione fosse comparabile agli antichi, difficilmente o per nessun modo potrebbe, non dico possedere lo stesso grado di gloria, ma recare altrui tanta giocondità quanta dagli antichi si riceve: e questo per due cagioni. La prima si è, che egli non sarebbe letto con quelPaccuratezza e sottilità che si usa negli scritti celebri da gran tempo, né tornato a leggere se non da pochissimi, né studiato da nessuno; perché non si studiano libri, che non sieno scientifici, insino a tanto che non sono divenuti antichi. L'altra si è, che la fama durevole e universale delle scritture, posto che a principio nascesse non da altra causa che dal merito loro proprio ed intrinseco, ciò non ostante, nata e cresciuta che sia, moltiplica in modo il loro pregio, che elle ne divengono assai più grate a leggere, che non furono ·per l'ad~ dietro; e talvolta la maggior parte del diletto che vi si prova, nasce semplicemente dalla stessa fama. 2 Nel qual proposito mi tornano 1. proposte: messe innanzi, offerte. 2. e ta[t,,o[ta ... fama: vedi a questo proposito l'ampia divagazione dello Zibaldone, 1883-6 (10 ottobre 1821), che inizia: a Quanto giova a sentir le bellezze, per esempio di una poesia, o di una pittura ec. il saper ch'ella è famosa e pregiata, ovvero è di autor già famoso e pregiato! Io sostengo che l 1 uomo del miglior gusto possibile, leggendo, per esempio, una poesia classica, senza saper nulla della sua fama, ... e leggendola ancora con attenzione, non vi scoprirebbe, non vi sentirebbe né riconoscerebbe una terza parte delle bellezze, non vi proverebbe una terza parte del diletto che vi prova chi la legge come opera classica, e che potrà poi provarvi egli stesso rileggendola con tale opinione•·

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ora alla mente alcune avvertenze notabili di un filosofo francese; 1 il quale in sostanza, discorrendo intorno alle origini dei piaceri umani, dice così. « Molte cause di godimento compone e crea l'animo stesso nostro a se proprio, massime collegando tra loro diverse cose. Perciò bene spesso avviene che quello che piacque una volta, piaccia similmente un'altra; solo per essere piaciuto innanzi; congiungendo noi coll'immagine del presente quella del passato. Per modo di esempio, una commediante piaciuta agli spettatori nella scena, piacerà verisimilmente ai medesimi anco nelle sue stanze; perocché sì del suono della sua voce, sì della sua recitazione, si dell'essere stati presenti agli applausi riportati dalla donna, e in qualche modo eziandio del concetto di principessa aggiunto a quel proprio che le conviene, si comporrà quasi un misto di più cause, che produrranno un diletto solo. Certo la mente di ciascuno abbonda tutto giorno d'immagini e di considerazioni accessorie alle principali. Di qui nasce che le donne fornite di riputazione grande, e macchiate di qualche difetto piccolo, recano talvolta in onore esso difetto, dando causa agli altri di tenerlo in conto di leggiadria. E veramente il particolare amore che ponghiamo chi ad una chi ad altra donna, è fondato il più delle volte in sulle sole preoccupazioni che nascono in colei favore o dalla nobiltà del sangue, o dalle ricchezze, o dagli onori che le sono renduti o dalla stima che le è portata da certi»; spesso eziandio dalla fama, vera o falsa, di bellezza o di grazia, e dallo stesso amore avutole prima o di presente da altre persone. E chi non sa che quasi tutti i piaceri vengono più dalla nostra immaginativa, che dalle proprie qualità delle cose piacevoli? Le quali avvertenze quadrando ottimamente agli scritti non meno che alle altre cose, dico che se oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco all'Iliade; letto anche attentissimamente da qualunque più perfetto giudice di cose poetiche, gli riuscirebbe assai meno grato e men dilettevole di quella; e per tanto gli resterebbe in molto minore estimazione: perché le virtù proprie del poema nuovo, non sarebbero aiutate dalla fama di ventisette secoli, né da mille memorie e mille rispetti, come sono le virtù dell'Iliade. Similmente dico, che chiunque leggesse accuratamente o la Gerusalemme o il Furioso, ignorando 1.filoso/0/rancese: il barone Charles de Montesquieu (1689-1755). Vedi la nota 34 del Leopardi, a p. 677.

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in tutto o in parte la loro celebrità; proverebbe nella lettura molto minor diletto, che gli altri non fanno. Laonde in fine, parlando generalmente, i primi lettori di ciascun'opera egregia, e i contemporanei di chi la scrisse, posto che ella ottenga poi fama nella posterità, sono quelli che in leggerla godono meno di tutti gli altri: il che risulta in grandissimo pregiudizio degli scrittori. 1 CAPITOLO SESTO

Queste sono in parte le difficoltà che ti contenderanno l'acquisto della gloria appresso agli studiosi, ed agli stessi eccellenti nell'arte dello scrivere e nella dottrina. E quanto a coloro che se bene bastantemente instrutti di quell'erudizione che oggi è parte, si può dire, necessaria di civiltà, non fanno professione alcuna di studi né di scrivere, e leggono solo per passatempo, ben sai che non sono atti a godere più che tanto della bontà dei libri: e questo, oltre al detto innanzi, anche per un'altra cagione, che mi resta a dire. Cioè che questi tali non cercano altro in quello che leggono, fuorché il diletto presente. Ma il presente è piccolo e insipido per natura a tutti gli uomini. Onde ogni cosa più dolce, e come dice Omero, Venere, il sonno, il canto e le carole 2

presto e di necessità vengono a noia, se colla presente occupazione non è congiunta la speranza di qualche diletto o comodità futura che ne dipenda. 3 Perocché la condizione dell'uomo non è capace di alcun godimento notabile, che non consista sopra tutto nella speranza, la cui forza è tale, che moltissime occupazioni prive per sé di ogni piacere, ed eziandio stucchevoli o faticose, aggiuntavi la speranza di qualche frutto, riescono gratissime e giocondissime, per lunghe che sieno; ed al contrario, le cose che si stimano dilettevoli in sé, disgiunte dalla speranza, vengono in fastidio quasi,

u

q11ali ••. scrittori: per questi concetti vedi la continuazione del già citato frammento dello Zibaldone, 1883-6. 2. V mere ••• le carole: • vedi Iliade, Xlii, 636-7 » (nota marginale del Leopardi). 3. Onde ogni ••• dipenda: cfr. Zibaldone, 345,1-6 (22 novembre 1820): •Tutte le cose vengono a noia colla durata, anche i diletti più grandi: lo dice Omero, lo vediamo tutto giorno. La monotonia è insoffribile. Ma un grande e forse sommo rimedio di questo male, è lo scopo. Quando l'uomo si propone uno scopo o dell 'azione, o anche dell'inazione, trova diletto anche nelle cose non dilettevoli, anche nelle spiacevoli, quasi anche nella stessa monotonia•· 1.

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per così dire, appena gustate. E in tanto veggiamo noi che gli studiosi sono come insaziabili della lettura, anco spesse volte aridissima, e provano un perpetuo diletto nei loro studi, continuati per buona parte del giorno; in quanto che nelPuna e negli altri, essi hanno sempre dinanzi agli occhi uno scopo collocato nel futuro, e una speranza di progresso e di giovamento, qualunque egli si sia; e che nello stesso leggere che fanno alcune volte quasi per ozio e per trastullo, non lasciano di proporsi, oltre al diletto presente, qualche altra utilità, più o meno determinata. Dove che gli altri, non mirando nella lettura ad alcun fine che non si contenga, per dir così, nei termini di essa lettura; fino sulle prime carte dei libri più dilettevoli e più soavi, dopo un vano piacere, si trovano sazi: sicché sogliono andare nauseosamente errando di libro in libro, e in fine si maravigliano i più di loro, come altri possa ricevere dalla lunga lezione 1 un lungo diletto. In tal modo, anche da ciò puoi conoscere che qualunque arte, industria e fatica di chi scrive, è perduta quasi del tutto in quanto a queste tali persone: del numero delle quali generalmente si è la più parte dei lettori. Ed anche gli studiosi, mutate coll'andare degli anni, come spesso avviene, la materia e la qualità dei loro studi, appena sopportano la lettura di libri dai quali in altro tempo furono o sarebbero potuti essere dilettati oltre modo; e se bene hanno ancora l'intelligenza e la perizia necessaria a conoscerne il pregio, pure non vi sentono altro che tedio; perché non si aspettano da loro alcuna utilità. CAPITOLO SETTIMO

Fin qui si è detto dello scrivere in generale, e certe cose che toccano principalmente alle lettere amene, allo studio delle quali ti veggo inclinato più che·ad alcun altro. Diciamo ora particolarmente della filosofia; non intendendo però di separar quelle da questa; dalla quale pendono totalmente. Penserai forse che derivando la filosofia dalla ragione, di cui l'universale degli uomini inciviliti partecipa forse più che dell'immaginativa e delle facoltà del cuore; il pregio delle opere filosofiche debba essere conosciuto più facilmente e da maggior numero di persone, che quello de' poemi, e 1.

lezione: lettura (latinismo).

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degli altri scritti che riguardano al dilettevole e al bello. Ora io, per me, stimo che il proporzionato giudizio e il perfetto senso, sia poco meno raro verso quelle, che verso queste. Primieramente abbi per cosa certa, che a far progressi notabili nella filosofia, non bastano sottilità d'ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes; Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all'innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi. 1 Ma perché questa materia, a dichiararla e trattarla appieno, vorrebbe molte parole, e ci dilungherebbe assai dal nostro proposito; perciò contentandomi pure di questo cenno, e passando innanzi, dico che solo i filosofi possono conoscere perfettamente il pregio, e sentire il diletto, dei libri filosofici. Intendo dire in quanto si è alla sostanza, non a qualsivoglia ornamento che possono avere, o di parole o di stile o d'altro. Dunque, come gli uomini di natura, per modo di dire, impoetica, se bene intendono le parole e il senso, non ricevono i moti e le immagini de' poemi; così bene spesso quelli che non sono dimesticati al meditare e filosofare seco medesimi, o che non sono atti a pensare profondamente, per veri e per accurati che sieno i discorsi e le conclusioni del filosofo, e chiaro il modo che egli usa in espor gli uni e }'altre, int~ndono le parole e quello che egli vuol dire, ma non la verità de' suoi detti. Perocché non avendo la facoltà o l'abito di penetrar coi pensieri nell'intimo delle cose, né di sciorre e dividere le proprie idee nelle loro menome parti, né di ragunare e stringere insieme un buon numero di esse idee, né di contemplare colla mente in un tratto molti particolari in modo da poterne trarre un generale, né di seguire indefessamente coll'occhio dell'intelletto un lungo ordine di verità connesse tra loro a mano a mano, né di scoprire le sottili e recondite congiunture che ha ciascuna verità con cento altre; non possono facilmente, o in maniera alcuna, imitare e reiterare 1. Pn"mierament~ ... filosofi: cfr. Zibaldone, 3383-5: • Le grandi verità, e massime nell'astratto e nel metafisico o nel psicologico ec. non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo deJla ragione, né da altri che da chi è capace di questo entusiasmo D ecc. E già, in altri luoghi dello stesso Zibaldone, Leopardi aveva minutamente analizzato i rapporti fra immaginazione e filosofia, pur riconoscendo quest'ultima nemica alla prima (cfr., in particolare, 1650-1, 7 settembre 1821).

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colla mente propria le operazioni fatte, né provare le impressioni provate, da quella del filosofo; unico modo a vedere, comprendere, ed estimare convenientemente tutte le cause che indussero esso filosofo a far questo o quel giudizio, affermare o negare questa o quella cosa, dubitar di tale o di tal altra. Sicché quantunque intendano i suoi concetti, non intendono che sieno veri o probabili; non avendo, e non potendo fare, una quasi esperienza della verità e della probabilità loro. Cosa poc~ diversa da quella che agli uomini naturalmente freddi accade circa le immaginazioni e gli affetti espressi dai poeti. E ben sai che egli è comune al poeta e al filosofo l'internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell'une e degli altri: nelle quali cose, quelli che non sono atti a sentire in sé la corrispondenza de' pensieri poetici al vero, non sentono anche, e non conoscono, quella dei filosofici. Dalle dette cause nasce quello che veggiamo tutto dì, che molte opere egregie, ugualmente chiare ed intelligibili a tutti, ciò non ostante, ad alcuni paiono contenere mille verità certissime; ad altri, mille manifesti errori: onde elle sono impugnate, pubblicamente o privatamente; non solo per malignità o per interesse o per altre simili cagioni, ma eziandio per imbecillità di mente, e per incapacità di sentire e di comprendere la certezza dei loro principii, la rettitudine delle deduzioni e delle conclusioni, e generalmente la convenienza, l'efficacia e la verità dei loro discorsi. Spesse volte le più stupende opere filosofiche sono anche imputate di oscurità, non per colpa degli scrittori, ma per la profondità o la novità dei sentimenti da un lato, e dall'altro l'oscurità dell'intelletto di chi non li potrebbe comprendere in nessun modo. Considera dunque anche nel genere filosofico quanta difficoltà di aver lode, per dovuta che sia. Perocché non puoi dubitare, se anche io non lo esprimo, che il numero dei filosofi veri e profondi, fuori dei quali non è chi sappia far convenevole stima degli altri tali, non sia piccolissimo anche nell'età presente, benché dedita all'amore della filosofia più che le passate. Lascio le varie fazioni, o comunque si convenga chiamarle, in cui sono divisi oggi, come sempre furono, quelli che fanno professione di filosofare: ciascuna delle quali nega ordinariamente la debita lode e stima a quei delle

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altre; non solo per volontà, ma per avere l'intelletto occupato da altri principii. CAPITOLO OTTAVO

Se poi (come non è cosa alcuna che io non mi possa promettere di cotesto ingegno) tu salissi col sapere e colla meditazione a tanta altezza, che ti fosse dato, come fu a qualche eletto spirito, di scoprire alcuna principalissima verità, non solo stata prima incognita in ogni tempo, ma rimota al tutto dall'espettazione degli uomini, e al tutto diversa o contraria alle opinioni presenti, anco dei saggi; non pensar di avere a raccorre in tua vita da questo discoprimento alcuna lode non volgare. Anzi non ti sarà data lode, né anche da' sapienti (eccettuato forse una loro menoma parte), finché ripetute quelle medesime verità, ora da uno ora da altro, a poco a poco e con lunghezza di tempo, gli uomini vi assuefacciano prima gli orecchi e poi l'intelletto. Perocché niuna verità nuova, e del tutto aliena dai giudizi correnti; quando bene dal primo che se ne avvide, fosse dimostrata con evidenza e certezza conforme o simile alla geometrica; non fu mai potuta, se pure le dimostrazioni non furono materiali, introdurre e stabilire nel mondo subitamente; ma solo in corso di tempo, mediante la consuetudine e l'esempio: assuefacendosi gli uomini al credere come ad ogni altra cosa; anzi credendo generalmente per assuefazione, non per certezza di prove concepita nell'animo: tanto che in fine essa verità, cominciata a insegnare ai fanciulli, fu accettata comunemente, ricordata con maraviglia l'ignoranza della medesima, e derise le sentenze diverse o negli antenati o nei presenti. 1 Ma ciò con tanto maggiore difficoltà e lunghezza, quanto queste sì fatte verità nuove e incredibili, furono maggiori e più capitali, e quindi sovvertitrici di maggior numero di opinioni radicate negli animi. Né anche gl'intelletti acuti ed esercitati, sentono facilmente tutta l'efficacia delle ragioni che dimostrano simili verità inaudite, cd eccedenti di troppo spazio i termini delle cognizioni e dell'uso di essi intelletti; mas1. Perocchi ... pr~senti: cfr. in Zibaldon~. 1720 (17 settembre 1821), il frammento in cui Leopardi applicava questi concetti alle verità da lui scoperte: • Ma se le verità ch'io stabilisco avranno la fortuna di essere ripetute, e gli animi vi si avvezzeranno, esse saranno credute, non tanto perché sian vere, quanto per l'assuefazione. Cosi è sempre accaduto» ecc.

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sime quando tali ragioni e tali verità ripugnano alle credenze inveterate nei medesimi. Il Descartes al suo tempo, nella geometria, la quale egli amplificò maravigliosamente, coll'adattarvi l'algebra e cogli altri suoi trovati, non fu né pure inteso, se non da pochissimi. Il simile accadde al Newton. In vero, la condizione degli uomini disusatamente superiori di sapienza alla propria età, non è molto diversa da quella dei letterati e dotti che vivono in città o province vacue di studi: perocché né questi, come dirò poi, da' lor cittadini o provinciali, né quelli da' contemporanei, sono tenuti in quel conto che meriterebbero; anzi spessissime volte sono vilipesi, per la diversità della vita o delle opinioni loro da quelle degli altri, e per la comune insufficienza a conoscere il pregio delle loro facoltà ed opere. 1 Non è dubbio che il genere umano a questi tempi, e insino dalla restaurazione della civiltà, 2 non vada procedendo innanzi continuamente nel sapere. Ma il suo procedere è tardo e misurato: laddove gli spiriti sommi e singolari, che si danno alla speculazione di quest'universo sensibile all'uomo o intelligibile, ed al rintracciamento del vero, camminano, anzi talora corrono, velocemente, e quasi senza misura alcuna. E non per questo è possibile che il mondo, in vederli procedere così spediti, affretti il cammino tanto, che giunga con loro o poco più tardi di loro, colà dove essi per ultimo si rimangono. Anzi non esce del suo passo; e non si conduce alcune volte a questo o a quel termine, se non solamente in ispazio di uno o di più secoli da poi che qualche alto spirito vi si fu condotto. È sentimento, si può dire, universale, che il sapere umano debba la maggior parte del suo progresso a quegl'ingegni supremi, che sorgono di tempo in tempo, quando uno quando altro, quasi miracoli di natura. Io per lo contrario stimo che esso debba agl'ingegni ordinari il più, agli straordinari pochissimo. Uno di questi, ponghiamo, fornito che egli ha colla dottrina lo spazio delle conoscenze de' suoi contemporanei, procede nel sapere, per dir cosi, dieci passi più innanzi. Ma gli altri uomini, non solo non si dispongono a seguitarlo, anzi il più delle volte, per tacere il peggio, si 1.

In vero ... opere: par quasi lontanamente alludere ai propri casi per-

sonali e al •natio borgo selvaggio•· Vedi le Ricordanze, vv. 30-44, a p. 97. dalla • •• civiltd: dal Rinascimento.

2.

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ridono del suo progresso. Intanto molti ingegni mediocri, forse in parte aiutandosi dei pensieri e delle scoperte di quel sommo, ma principalmente per mezzo degli studi propri, fanno congiuntamente un passo; nel che per la brevità dello spazio, cioè per la poca novità delle sentenze, 1 ed anche per la moltitudine di quelli che ne sono autori, in capo di qualche anno, sono seguitati universalmente. Così, procedendo, giusta il consueto, a poco a poco, e per opera ed esempio di altri intelletti mediocri, gli uomini compiono finalmente il decimo passo; e le sentenze di quel sommo sono comunemente accettate per vere in tutte le nazioni civili. Ma esso, già spento da gran tempo, non acquista pure per tal successo una tarda e intempestiva riputazione; parte per essere già mancata la sua memoria, o perché l'opinione ingiusta avuta di lui mentre visse, confermata dalla lunga consuetudine, prevale a ogni altro rispetto; parte perché gli uomini non sono venuti a questo grado di cognizioni per opera sua; e parte perché già nel sapere gli sono uguali, presto lo sormonteranno, e forse gli sono superiori anche al presente, per essersi potute colla lunghezza del tempo dimostrare e dichiarare meglio le verità immaginate da lui, ridurre le sue congetture a certezza, dare ordine e forma migliore a' suoi trovati, e quasi maturarli. Se non che forse qualcuno degli studiosi, riandando le memorie dei tempi addietro, considerate le opinioni di quel grande, e messe a riscontro con quelle de' suoi posteri, si avvede come e quanto egli precorresse il genere umano, e gli porge alcune lodi, che levano poco romore, e vanno presto in dimenticanza. Se bene il progresso del sapere umano, come il cadere dei gravi, acquista di momento in momento, maggiore celerità; nondimeno egli è molto difficile ad avvenire che una medesima generazione d'uomini muti sentenza, o conosca gli errori propri, in guisa, che ella creda oggi il contrario di quel che credette in altro tempo. Bensì prepara tali mezzi alla susseguente, che questa poi conosce e crede in molte cose il contrario di quella. Ma come niuno sente il perpetuo moto che ci trasporta in giro insieme colla terra, cosi l'universale degli uomini non si avvede del continuo procedere che fanno le sue conoscenze, né dell'assiduo variare de' suoi giudizi. E mai non muta opinione in maniera, che egli si creda di 1.

tklle .sentenze: cioè dei concetti espressi da questi ingegni.

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mutarla. Ma certo non potrebbe fare di non crederlo e di non avvedersene, ogni volta che egli abbracciasse subitamente una sentenza molto aliena da quelle tenute or ora. Per tanto, niuna verità cosi fatta, salvo che non cada sotto ai sensi, sarà mai creduta comunemente dai contemporanei del primo che la conobbe. 1 CAPITOLO NONO

Facciamo che superato ogni ostacolo, aiutato il valore dalla fortuna, abbi conseguito in fatti, non pur celebrità, ma gloria, e non dopo morte ma in vita. Veggiamo che frutto ne ritrarrai. Primieramente quel desiderio degli uomini di vederti e conoscerti di persona, quell'essere mostrato a dito, quell'onore e quella riverenza significata dai presenti cogli atti e colle parole, nelle quali cose consiste la massima utilità di questa gloria che nasce dagli scritti, parrebbe che più facilmente ti dovessero intervenire nelle città piccole, che nelle grandi; dove gli occhi e gli animi sono distratti e rapiti parte dalla potenza, parte dalla ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all'intrattenimento e alla giocondità dellq vita inutile. Ma come le città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga all'eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le piccole, di rado abitate dai dotti, e prive ordinariamente di buoni studi, sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stessa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l'una e l'altre in quei luoghi non sono pur materia d'invidia. E se per caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d'ingegno e di studi, si trova abitare in luogo piccolo; l'esservi al tutto unica, non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo. 2 Come là dove l'oro e l'argento fossero ignoti e senza pregio, chiunque essendo privo di ogni altro avere, abbondasse di questi metalli, non sarebbe più ricco degli altri, anzi poverissimo, e per tale avuto; così là Se bene .. . conobbe: le idee qui espresse dal Leopardi, e in genere in questo capitolo, erano già state da lui sostanzialmente tracciate in alcune pagine dello Zibaldone: cfr. 1729-32 (18 settembre 1821). 2. Ma come •••. luogo: ritorna l'allusione autobiografica. Vedi la nota I di p. 556. 1.

IL PARINI OVVERO DELLA GLORIA

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dove l'ingegno e la dottrina non si conoscono, e non conosciuti non si apprezzano, quivi se pur vi ha qualcuno che ne abbondi, questi non ha facoltà di soprastare agli altri, e quando non abbia altri beni, è tenuto a vile. E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; 1 conosciutosi per la terra ch'io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani 2 mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le lingue del mondo; e m'interrogavano, senza fare una menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io Ii lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e all'ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro. 3 Nelle città grandi, quanti ostacoli si frappongano, siccome all'acquisto della gloria, così a poter godere il frutto dell'acquistata, non ti sarà difficile a giudicare dalle cose dette alquanto innanzi. Ora aggiungo, che quantunque nessuna fama sia più difficile a meritare, che quella di egregio poeta o di scrittore ameno o di filosofo, alle quali tu miri principalmente, nessuna con tutto questo riesce meno fruttuosa a chi la possiede. Non ti sono ignote le querele perpetue, gli antichi e i moderni esempi, della povertà e delle sventure de' poeti sommi. In Omero, tutto (per così dire) è vago e leggiadramente indefinito, siccome nella poesia, così nella persona; di cui la patria, la vita, ogni cosa, è come un arcano impe1. Bosisio: pnesc natale del Parini, sito nella Brianza, presso il lago di Pusiano (cdl vago Eupili mio•). 2. te"azzani: conterranei. 3. Ma se . .. loro: a confermarci sul carattere ideale e convenzionale della figura del Parini adombrata dal Leopardi, sta il fatto, già da noi osservato, che lo scrittore gli presta esperienze ch'erano state invece sue proprie: a Nella mia patria, dove sapevano ch'io era dedito agli studi, credevano ch'io possedessi tutte le lingue, e m'interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ec. insomma enciclopedicissimo » ecc. (Zibaldone, 273, 3).

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netrabile agli uomini. Solo, in tanta incertezza e ignoranza, si ha da una costantissima tradizione, che Omero fu povero e infelice: quasi che la fama e la memoria dei secoli non abbia voluto lasciar luogo a dubitare che la fortuna degli altri poeti eccellenti non fosse comune al principe della poesia. 1 Ma lasciando degli altri beni, e dicendo solo dell'onore, nessuna fama nell'uso della vita suol essere meno onorevole, e meno utile a esser tenuto da più degli altri, che sieno le specificate or ora. O che la moltitudine delle persone che le ottengono senza merito, e la stessa immensa difficoltà di meritarle, tolgano pregio e fede a tali riputazioni; o piuttosto perché quasi tutti gli uomini d'ingegno leggermente culto, si credono avere essi medesimi, o potere facilmente acquistare, tanta notizia e facoltà sì di lettere amene e sì di filosofia, che non riconoscono per molto superiori a sé quelli che veramente vagliano in queste cose; o parte per l'una, parte per l'altra cagione; certo si è che l'aver nome di mediocre matematico, fisico, filologo, antiquario; di mediocre pittore, scultore, musico; di essere mezzanamente versato anche in una sola lingua antica o pellegrina; è causa di ottenere appresso al comune degli uomini, eziandio nelle città migliori, molta più considerazione e stima, che non si ottiene coll'essere conosciuto e celebrato dai buoni giudici per filosofo o poeta insigne, o per uomo eccellente nell'arte del bello scrivere. Cosi le due parti più nobili, più faticose ad acquistare, più straodinarie, più stupende; le due sommità, per così dire, dell'arte e della scienza umana; dico la poesia e la filosofia; sono in chi le professa, specialmente oggi, le facoltà più neglette del mondo; posposte ancora alle arti che si esercitano principalmente colla mano, così per altri rispetti, come perché niuno presume né di possedere alcuna di queste non avendola procacciata, né di poterla procacciare senza studio e fatica. In fine, il poeta e il filosofo non hanno in vita altro frutto del loro ingegno, altro premio dei loro studi, se non forse una gloria nata e contenuta fra un piccolissimo numero di persone. Ed anche questa è una delle molte cose nelle quali si conviene colla poesia la filosofia, (..'VII, 563-5: a [!']uomo di cui nulla al mondo,/ di quanto in terra ha spiro e moto, eguaglio/ l'alta miseria?» 3. per medicina .•. la morte: cfr. La quiete dopo la tempesta, vv. 53-4, a p. 111: • beata /sete d'ogni dolor morte risana•· 4. il di.scorso de/l'intelletto: la facoltà raziocinante. 5. Alla scuola •.. umana: cfr. la già citata lunga meditazione dello Zibaldone, 814 1 1 -8 (19 marzo 1821): « Se la Religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitole nemica• ecc. Qui e nelle pagine seguenti Leopardi, dietro lo schermo di Platone, parla in realtà della religione cristiana.

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uomini dalle violenze e dalle ingiustizie, non ti è venuto fatto. Perocché quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a nuocere: nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, i quali hanno volontà non di nuocere, ma di giovare; spaventano le persone timide, e le deboli di corpo, le quali alle violenze e alle iniquità non hanno né la natura inclinata, né sufficiente il cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e quelli che poco sentono la potenza della immaginativa; in fine coloro ai quali in generalità si richiederebbe altro freno che della sola legge; non ispaventano esse, né tengono dal male operare: come noi veggiamo per gli esempi quotidianamente, e come la esperienza di tutti i secoli, da' tuoi dì per insino a oggi, fa manifesto. Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura dei costumi e delle menti, conservano nella società degli uomini la giustizia e la mansuetudine: perocché gli animi dirozzati e rammorbiditi da un poco di civiltà, ed assuefatti a considerare alquanto le cose, e ad operare alcun poco l'intendimento; quasi di necessità e quasi sempre abborriscono dal por mano nelle persone e nel sangue dei compagni; sono per lo più alieni dal fare ad altri nocumento in qualunque modo; e rare volte e con fatica s'inducono a correre quei pericoli che porta seco il contravvenire alle leggi. Non fanno già questo buono effetto le immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose fiere e spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà dei supplizi che si usino dagli stati, così ancora quelle accrescono, in un lato la viltà dell'animo, in un altro la ferocità; principali inimiche e pesti del consorzio umano. Ma tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. 1 Qual guiderdone? Uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che questa vita. A ciascheduno è palese l'acerbità di que' tuoi supplicii; ma la dolcezza de' tuoi premii ~ nascosa, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d'uomo. Onde nessuna efficacia possono aver cosi fatti premii di allettarci alla rettitudine e alla virtù. E in vero, se molto pochi ribaldi, per timore di quel suo spaventoso Tartaro3 si astengono da alcuna mala azione; mi ardisco io di affermare che mai nessun buono, in un 1. Ma tu • •• buoni: qui, come in appresso, continua a rivolgersi a Platone. z. Tartaro: è l'inferno descritto da Platone nel Fedone, 11aa-114b, e nel Gorgia, 523 a-526 b.

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suo menomo atto, si mosse a bene operare per desiderio di quel tuo Eliso. 1 Che non può esso alla immaginazione nostra aver sembianza di cosa desiderabile. Ed oltre che di molto lieve conforto sarebbe eziandio la espettazione certa di questo bene, quale speranza hai tu lasciato che ne possano avere anco i virtuosi e i giusti; se quel tuo Minosse e quello Eaco e Radamanto, giudici rigidissimi e inesorabili,2 non hanno a perdonare a qualsivoglia ombra o vestigio di colpa? E quale uomo è che si possa sentire o credere cosi netto e puro come lo richiedi tu? Sicché il conseguimento di quella qual che si sia felicità viene a esser quasi impossibile: e non basterà la coscienza della più retta e della più travagliosa vita ad assicurare l'uomo in sull'ultimo, dalla incertezza del suo stato futuro, e dallo spavento dei gastighi. Così per le tue dottrine il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto signore delruomo: e il frutto cli esse dottrine ultimamente è questo; che il genere umano, esempio mirabile d'infelicità in questa vita, si aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere a essere dopo quella, assai più infelice. Con che tu hai vinto di crudeltà, non pur la natura e il fato, ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse al mondo. Ma con qual barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che all'uomo non sia lecito di por fine a' suoi patimenti, ai dolori, alle angosce, vincendo l'orrore della morte, e volontariamente privandosi dello spirito? Certo non ha luogo negli altri animali il desiderio di terminar la vita; perché le infelicità loro hanno più stretti confini che le infelicità dell'uomo: né avrebbe anco luogo il coraggio di estinguerla spontaneamente. Ma se pur tali disposizioni cadessero nella natura dei bruti, nessuno impedimento avrebbero essi al poter morire; nessun divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi dai loro mali. 3 Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori alle bestie: e quella libertà che avrebbero i bruti se loro accadesse di usarla; quella che la natura stessa, tanto verso noi avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell'uomo. In guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser 1. Elisa: è la 11 o b-111 c.

dimora dei buoni descritta pure da Platone nello stesso Fedone, 2. Minosse ••. inesorabili: Minosse, Eaco e Rada,nanto sono i giudici infernali di cui parla Platone nel Gorgia, 523 e-524a. 3. Certo ••• mali: cfr. Bruto minore, vv. 61-70, a pp. 34-5.

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capace del desiderio della morte, quello solo non abbia in sua mano il morire. La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni i piedi; sicché non ci sia possibile né schermirci né ritrarci indietro dai loro colpi. In vero, quando io considero la grandezza della infelicità umana, io penso che cli quella si debbano più che veruna altra cosa, incolpare le tue dottrine; e che si convenga agli uomini, assai più dolersi di te che della natura. La quale se bene, a dir vero, non ci destinò altra vita che infelicissima; da altro lato però ci diede il poter finirla ogni volta che ci piacesse. E primieramente non si può mai dire che sia molto grande quella miseria la quale, solo che io voglia, può di durazione esser brevissima: poi, quando ben la persona in effetto non si risolvesse a lasciar la vita, il pensiero solo di potere ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal conforto e tale alleggerimento di qualunque calamità, che per virtù di esso, tutte riuscirebbero facili a sopportare. Di modo che la gravezza intollerabile della infelicità nostra, non da altro principalmente si dee riconoscere, che da questo dubbio di potere per avventura, troncando volontariamente la propria vita, incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo maggiore, ma di tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che posto che il presente sia certo, e quelle pene incerte, nondimeno ragionevolmente debba il timore cli quelle, senza proporzione o comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si voglia male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a te agevole a suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe degli uomini, che egli sia risoluto. Però nessuna cosa nacque, nessuna è per nascere in alcun tempo, così calamitosa e funesta alla specie umana, come l'ingegno tuo. Queste cose io direi, se credessi che Platone fosse stato autore o inventore di quelle dottrine; che io so benissimo che non fu. Ma in ogni modo, sopra questa materia, s'è detto abbastanza, e io vorrei che noi la ponessimo da canto. Plotino. Porfirio, veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo, che io voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione tale: ma io voglio discorrere per ragione. E se ho toccato cosi alla sfuggita quella tal sentenza platonica, io l'ho fatto più per usare come una sorta di proemio,

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che per altro. 1 E ripigliando il ragionamento ch,io aveva in animo, dico che non Platone o qualche altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che c'insegni che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa lecita. Non accade3 che io mi distenda circa questo articolo :3 perché se tu penserai un poco, non può essere che tu non conosca da te medesimo che l'uccidersi di propria mano senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, è l'atto più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l'ordine delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita, che l'essere ci serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell'universo, di attendere alla conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch'è il contrario appunto dell'uccidersi. E senza altri argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo atto dell'uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito. Porfirio. Io ho considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è impossibile che l'animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi a pensare sopra questo proposito. Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre, e in più modi: ma studierò d'esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura vieta l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vhrere. Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore e odio; e che non si fugge la morte, né la vita si 1. E st ho ... altro: si riferisce al divieto platonico qui sopra citato di privarsi della vita spontaneamente. 2. Non accade: non è il caso. 3. questo articolo: questa sentenza.

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ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi dal mondo: perché mentre son vivo, io non la posso schifare. E come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala; poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto? Plotino. A ogni modo queste cose non mi persuadono che l'uccidersi da se stesso non sia contro natura: perché il senso nostro porta troppo manifesta contrarietà e abborrimento alla morte: e noi veggiamo che le bestie; le quali ( quando non sieno forzate dagli uomini o sviate) operano in ogni cosa naturalmente; non solo non vengono mai a questo atto, ma eziandio per quanto che sieno tribolate e misere, se ne dimostrano alienissime. E in fine non si trova, se non fra gli uomini soli qualcuno che lo commette: e non mica fra quelle genti che hanno un modo di vivere naturale; che di queste non si troverà niuno che non lo abbomini, se pur ne avrà notizia o immaginazione alcuna; ma solo fra queste nostre alterate e corrotte, che non vivono secondo natura. Porfirio. Orsù, io ti voglio concedere anco, che questa azione sia contraria a natura, come tu vuoi. Ma che val questo; se noi non siamo creature naturali, per dir così ? intendo degli uomini inciviliti. 1 Paragonaci, non dico ai viventi di ogni altra specie che tu vogli, ma a quelle nazioni là delle parti dell'India e della Etiopia, le quali, come si dice, ancora serbano quei costumi primitivi e silvestri; e a fatica ti parrà che si possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di una specie medesima. E questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa mutazion di vita, e massimamente d'animo; io quanto a me, ho avuto sempre per fermo che non sia stata senza infinito accrescimento d'infelicità. Certo che quelle genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro per la fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini costumati a questo modo nostro e, come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte, e alcune se la procacciano. Ora, se è lecito all'uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro 1. Orsù, io ••. inciviliti: vedi la nota 59 del Leopardi, a p. 678.

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natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire contro natura ? essendo che da questa infelicità nuova, che risulta a noi dall'alterazione dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che colla morte. Che quanto a ritornarci in quello stato primo, e alla vita disegnataci dalla natura; questo non si potrebbe appena, e in nessun modo forse, circa l'estrinseco; e per rispetto all'intrinseco, che è quello che più rileva, senza alcun dubbio sarebbe impossibile affatto. Qual cosa è manco naturale della medicina? così di quella che si esercita con la mano, 1 come di quella che opera per via di farmachi. Che l'una e l'altra, la più parte, si nelle operazioni che fanno, e sì nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano, sono lontanissime dalla natura: e i bruti e gli uomini selvaggi non le conoscono.· Nondimeno, perocché ancora i morbi ai quali esse intendono cli rimediare, sono fuor cli natura, e non hanno luogo se non per cagione della civiltà, cioè della corruttela del nostro stato; perciò queste tali arti, benché non sieno naturali, sono e si stimano opportune, e anco necessarie. Cosi questo atto dell'uccidersi, il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione, perché sia contrario alla natura, non seguita che sia biasimevole: bisognando a mali non naturali, rimedio non naturale. E saria pur duro ed iniquo che la ragione, la quale per far noi più miseri che naturalmente non siamo, suol contrariar la natura nelle altre cose; in questa si confederasse con lei, per torci quello estremo scampo che ci rimane; quel solo che essa ragione insegna; e costringerci a perseverare nella miseria. La verità è questa, Plotino. Quella natura primitiva degli uomini antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più la natura nostra: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di quella prima. Non era naturale all'uomo da principio il procacciarsi la morte volontariamente: ma né anco era naturale il desiderarla. 3 Oggi e questa cosa e quella sono naturali; cioè conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo essa ancora e movendosi necessariamente, come l'antica, verso ciò che apparisce essere il nostro meglio; fa che noi molte volte desideriamo e cerchiamo quello che veramente è il maggior bene dell'uomo, cioè la morte. E 1. quella .•. la mano: la chirurgia. minore, vv. 52.-60, a p. 34.

2.

Non era ••• desiderarla: cfr. Bruto

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non è maraviglia: perciocché questa seconda natura è governata e diretta nella maggior parte dalla ragione. La quale afferma per certissimo, che la morte, non che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva; anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore. Adunque domando io: misurano gli uomini inciviliti le altre azioni loro dalla natura primitiva? Quando, e quale azione mai? Non dalla natura primitiva, ma da quest'altra nostra, o pur vogliamo dire dalla ragione. Perché questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva? Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più legge alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee la ragione governar la morte, poiché regge la vita? E noi veggiamo che in fatto, sì la ragione, e si le infelicità del nostro stato presente, non solo estinguono, massime negli sfortunati e afflitti, quello abborrimento ingenito della morte che tu dicevi; ma lo cangiano in desiderio e amore, come io ho detto innanzi. Nato il qual desiderio e amore, che secondo natura, non sarebbe potuto nascere; e stando la infelicità generata dall'alterazione nostra, e non voluta dalla natura; saria manifesta repugnanza e contraddizione, che ancora avesse luogo il divieto naturale di uccidersi. Questo pare a me che basti, quanto a sapere se l'uccider se stesso sia lecito. Resta se sia utile. Plotino. Di cotesto non accade 1 che tu mi parli, Porfirio mio: che quando cotesta azione sia lecita (perché una che non sia giusta né retta non concedo che possa esser di utilità), io non ho dubbio nessuno che non sia utilissima. Perché la quistione in somma si riduce a questo: quale delle due cose sia la migliore; il non patire, o il patire. So ben io che il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe eletto da quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non godere: tanto è il desiderio, e per così dir, la sete, che l'animo ha del godimento. Ma la deliberazione non cade fra questi termini: perché il godimento e il piacere, a parlar proprio e diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è inevitabile. E dico un patimento così continuo, come è continuo il desiderio e il bisogno che abbiamo del godimento e della felicità, il quale non è adempiuto mai: lasciando ancora da un lato i patimenti partir. non accad~: non è il caso.

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colari ed accidentali che intervengono a ciascun uomo, e che sono parimente certi; intendo dire, è certo che ne debbono intervenire (più o meno, e d'una qualità o d'altra), eziandio nella più avventurosa vita del mondo. E per verità, un patimento solo e breve, che la persona fosse certa che, continuando essa a vivere, le dovesse accadere; saria sufficiente a fare che, secondo ragione, la morte fosse da anteporre alla vita: perché questo tal patimento non avrebbe compensazione alcuna; non potendo occorrere nella vita nostra un bene o un diletto vero. Porfirio. A me pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita, anco a chi si trovi in istato e in fortuna, non solamente non cattiva, ma prospera. E più volte mi sono maravigliato che in nessun luogo si vegga fatta menzione di principi che sieno voluti morire per tedio solamente, e per sazietà dello stato proprio; come di genti private e si legge, e odesi tuttogiorno. Quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue lezioni della miseria della vita; uscendo della scuola, andavano e si uccidevano: onde esso Egesia fu detto per soprannome il permasor di morire; e si dice, come credo che tu sappi, che all'ultimo il re Tolomeo gli vietò che non disputasse più oltre in quella materia. 1 Che se bene si trova di alcuni, come del re Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano, e forse di alquanti altri principi, che si uccisero da se stessi ;2 questi tali si mossero per trovarsi allora in avversità e in miseria, e per isfuggirne di più gravi. Ora a me sarebbe paruto credibile che i principi più facilmente che gli altri, concepissero odio del loro stato, e fastidio di tutte le cose; e desiderassero di morire. Perché, essendo eglino in sulla cima di quella che chiamasi felicità umana, avendo pochi altri a sperare, o nessuno forse, di quelli che si dimandano beni della vita (poiché li posseggono tutti); non si possono prometter 1. Quali n-ano •.. matnia: vedi la nota 60 del Leopardi, a p. 678; Egena: filosofo greco della scuola circnaica, vissuto nel li I secolo a. C. 2. i\llitridate ... se stessi: Mitridate Eupatore, re del Ponto, il quale, vinto da Lucullo e poi da Pompeo, visto impossibile l'avvelenarsi perché da tempo nssuefattosi ai veleni, si fece uccidere da uno schiavo (63 a. C.); Cleopatra, la famosa regina d•Egitto che si uccise facendosi mordere da un aspide (30 a. C.); Ottone, t•imperatore romano che si uccise nel 69 d. C., dopo essere stato sconfitto da Vitellio.

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migliore il domani che il giorno d'oggi. E sempre il presente, per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere. Ma come che sia di ciò; in fine, noi possiamo conoscere che (eccetto il timor delle cose di un altro mondo) quello che ritiene gli uomini che non abbandonino la vita spontaneamente; e quel che gl'induce ad amarla, e a preferirla alla morte; non è altro che un semplice e un manifestissimo errore, per dir così, di computo e di misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare, e nel paragonar tra loro, gli utili o i danni. Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla volontà, o aia col fatto solo. Plotino. Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch'io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell'universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coll'ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande l'alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non re~ti in ciascuno gran parte dell'uomo antico. Il che, mal grado che n'abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl'idioti, ma dagl'ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della solitudine dell'uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni dell'animo sieno ragio-

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nevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all'intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell'animo. 1 E ciò basta all'effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire}, e non l'intelletto, è quello che ci governa. Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sl fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E 1.

al snuo dell'animo: al sentimento.

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in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo. In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. 1

Si bene .. . ancora: cfr. la lettera del

agosto 1820. a Pietro Brighenti: e Ma viviamo giacché dobbiamo vivere, e confortiamoci scambievolmente, e amiamoci di cuore, che forse è la miglior fortuna di questo mondo. La freddezza e l'egoismo d'oggidl .•• sono cose che mi spaventano•· 1.

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DIALOGO DI UN VENDITORE D 1 ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE

Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi ? Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo? Venditore. Sì signore. Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo? Venditore. Oh illustrissimo sì, certo. Passeggere. Come quest'anno passato? Venditore. Più più assai. Passeggere. Come quello di là? Venditore. Più più, illustrissimo. Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? Venditore. Signor no, non mi piacerebbe. Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi ? Ve11ditore. Saranno vent'anni, illustrissimo. Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo? Vend,:tore. Io? non saprei. Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice ? Venditore. No in verità, illustrissimo. Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? Venditore. Cotesto si sa. Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? Scritto nel 1832, e pubblicato nell 1 edizione fiorentina delle Operette morali del 1834. L idea del dialoghetto è ricavata dalla riflessione dello Zibaldone, 4283,8-4, (1° luglio 1827), in cui si legge fra l'altro:« Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla né più né meno quale la prima volta. L 1 ho dimandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; ... Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l 1 ignoranza del futuro•· 1

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OPERETTE MORALI

Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse. Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati? Venditore. Cotesto non vorrei. Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? Venditore. Lo credo cotesto. Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo? Venditore. Signor no davvero, non tornerei. Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque? Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti. Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo? Venditore. Appunto. Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e cosi tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? Venditore. Speriamo. Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete. Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi. Passeggere. Ecco trenta soldi. Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito. Tristano. Sl, al mio solito. Amico. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa. Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice. Amico. Infelice sì forse. Ma pure alla fine ..• Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. 1 Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o d'altra miseria mia particolare,2 da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di Scritto nel 1832, e pubblicato nell'edizione fiorentina delle Operdte del 1834. Come il Dialogo di Timandro e di Eleandro era destinato a concludere il primo gruppo di venti Operette pubblicato nel 1827, così il nuovo dialogo conchiude l'edizione del 1834. Sembra che a questo dialogo si riferisse il Leopardi scrivendo a Luigi De Sinner il 24 maggio 1832: •Avantdemourir, je vais proteste.- contre cette invention de la faiblesse et tk la vulgarité, et prier mes lecteurs de s' attacher d détruire mu observations et mu rai.sonnemens plutot que d'accuser mes maladies •· Nella sua vivacità polemica, il dialogo contiene punte sarcastiche e satiriche preannuncianti la Palinodia al marchese Gino Capponi, che è del 1834. E anch'esso, difatti, inizia con una palinodia. Ma la disperata violenza, come la scelta ineluttabile su cui il dialogo conchiude, vanno più in là nella definizione _del sentimento e del pensiero leopardiano. - 1. Ora ••• opinione: cfr. i primi versi della Palinodia al maTchese Gino Capponi, a p. 139: • Errai, candido Gino •.• •· z. Solo . •• particolare: tratto autobiografico. Cfr. la già citata lettera al De Sinner •ce n•a étd que par effet de la lac~té des hommu, qui ont besoin d'l.tre permadh du mbite de l'exi.stmce, que l'on a voulu considher mes opinions phi-losophiques comme le résultat de mu souffrances particuliiru, et que l'on s'obstine d attribue.- d mes circonstancu matmelks ce qrion ne doit qu'd mon entffldement •·

OPERETTE MORALI

trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt,altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. 1 Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. 2 Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l'atme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, 3 prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio cli ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della 1. gli uomini ... tale: cfr. Zibaldone, 4525 1 3 (23 maggio 1832). 2. Perchi ... suo: cfr. Pensieri, LIV, a pp. 726-7, dove il Leopardi sviluppa ulteriormente questa riflessione. Cfr. anche Paralipomeni della Batracomiomaclria, IV, 14 1 a p. 381. 3. prontissimi ... fortuna: cfr. Petrarca, Rime, CCCXXXI, 7-8: n Or lasso alzo la mano e l'arrne rendo / a 1'empia e violenta mia fortuna». Vedi la nota 61 del Leopardi, a p. 678.

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natura e del destino. Parlo sempre degl'inganni non dell'immaginazione, ma dell'intelletto. 1 Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. lo diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero,2 e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l'uomo è il più miserabile degli animali ;3 chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; 4 altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, 5 ed altri altre cose infinite su questo andare. 6 E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all'altr'ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che l'infelicità dell'uomo era uno degli errori inveterati dell'intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del 1. Parlo sempre ... intelletto: da rammentare la nota teoria leopardiana dei beati inganni dell'immaginazione, dei • forti errori• destinati a suscitare nobili sentimenti e virtù. Ma gli errori dell'intelletto che scambiano il vero col falso, e di cui sono fonte l'istinto e la superstizione, paiono invece condannevoli agli occhi del poeta. 2. Ma . .. Omero: cfr. rEcclen·aste attribuito a Salomone, 4, 3: a Et feliciornn utroque iudicavi qui necdum natus est, nec vidit mala q11ae sub sole fiunt ». Per Omero, vedi la nota 2 di p. 649 al Dialogo di Ploti110 , di Porfirio. 3. e chi di ... animali: Omero (vedi )a nota precedente). 4. chi dice •.• cuna: Teognide, poeta greco deJla fine del secolo VI a. C. 5. altri, che •.• giovane:8::a: Menandro: • Muor giovane colui ch'al cielo è caro•, verso apposto dal Leopardi in epigrafe ad Amore e Morte (vedi o p. 120). 6. ed altri ••• andare: vedi la nota 62 del Leopardi, a p. 678.

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secolo decimonono. Allora m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a credere quello ch'io credeva. Amico. E avete cambiata opinione? Tristano. Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono ? Amico. E credete voi tutto quello che crede il secolo ? Tristano. Certamente. Oh che maraviglia? Amico. Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell'uomo? Tristano. Senza dubbio. Amico. Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando? Tristano. Si certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l'uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. 1 Ma tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all'educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo cosi degl'individui paragonati agl'individui, come 1. E però ••• civili: mentre, al contrario, gli antichi tenevano in alto pregio la bellezza e la forza. Cfr. Zibaldone, 3098-9 (5 agosto I 823): u così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i loro favori. che la fortuna non si facesse amica. se non di quelli che n•erano degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si stimavano compagni ed indizi de' pregi dell'animo e de• costwni •·

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delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne, sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando. Amico. Credete ancora, già s'intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente. Tristano. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d,imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell'età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? lo fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch'io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d'ignoranti impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall'altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo. Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati. Tristano. Sicuro. Cosi hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi

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dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi. Amico. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i giornali ? Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dcli' età presente! Non è vero? Amico. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de' nostri. Tristano. Sì certamente, de' vostri. Am1:co. Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete? Tristano. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d'individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v'è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch'è inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigiliaz né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. 3 Ma per tornare al proposito del libro e de' posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, 4 vedete bene che, siccome 1. Credo ••• presente: cfr. Palinodia al marchese Gino Cappo11i, vv. 18-zo, a p. 140: 11. viva rifulse / agli occhi miei la giornaliera luce / delle gazzette•· vigilia: veglia. 3. Gl'individui . .. mondo: cfr. la lettera del s dicembre 1831 a Fanny Targioni-Tozzetti: « e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d"individui non felici•· 4. Ma per tornare • .• leggerli: cfr. Pensieri, LIX, a pp. 728-9, e lo Scherzo, a p. 166. 2.

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costano quel che vagliono, cosi durano a proporzione di quel che costano. lo per me credo che il secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l'immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere cli libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese cli zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l'indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo cli maneggi e di faccende, 1 che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch'è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl'infimi si credono illustri, l'oscurità e la nullità dell'esito diviene il fato comune e degl'infimi e de' sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo 12 e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, 1. uomo di .•. faccende: taluni commentatori credono alluda all'amico Gino Capponi, il destinatario della Palinodia. Vedi anche Paralipomeni della Batracomiomachia, 1, 34 e 43, a p. 342 e a p. 345. 2,. Ma viva ..• secolo: cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 135-45, a pp. 144-5.

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come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni, 1 questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni. Amico. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione. Tristano. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Cosi è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino. Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali. Amico. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici. Tristano. Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male. Amico. O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi. Tristano. Mi dispiace molto, ma che s'ha a fare ? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene. Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no ? e che s'ha egli a fare di questo libro ? Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore: per altri sessantasei anni: nel 1834, anno della pubblicazione di questo dialogo, ne 1nancavano infatti sessantasei per arrivare al nuovo secolo. 1.

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perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il contrario. Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non pub fallare. Tristano. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. 1 Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l'ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l'ora ch'io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un'illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d'aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d'immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l'anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio perb i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non 1.

E di più ••• pochisrimi: cfr. Amor~ e Morte, vv. 96-124 1 a pp. 123-4.

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invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell'avvenire, ch'io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi turbano più, come solevano. 1 Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo è il solo benefizio che pub riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.

1.

Né in questo .. . solevano: cfr. Le ricordanz~, vv.

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a p.

100.

NOTE ALLE OPERETTE MORALI [p. 458.] 1. Erodoto, lib. 9, cap. 4; Strabone, lib. 11, edit. Casaub., pag. 5 r9; Mela, lib. 2, cap. 2; Antologia greca, ed. H. Steph., pag. 16; Coricio sofista, Orat. fun. in Procop. gaz., cap. 35, ap. Fabric., Bibl. Graec., ed. vet., voi. 8, pag. 859. [p. 470.] 2. Con tutto che Atlante il più delle volte sia detto sostenere il cielo, vedesi nondimeno nel primo libro dell'Odissea, vers. 52 e seguenti, e nel Prometeo d'Eschilo, v. 347 e seguenti, che dagli antichi si fingeva eziandio che egli sostenesse la terra. [p. 471.] 3. Plinio, lib. 7, cap. 52; Diogene Laerzio, lib. I, segm. ro9; Apollonio, Hist. commentit., cap. 1; Varrone, De Ling. lat., lib. 7; Plutarco, A11 se11i gerenda sit respub., Opp., ed. Francof. r620, tom. 2, pag. 784; Tertulliano, De Anima, cap. 44; Pausania, lib. I, cap. ro, ed. Kuhn., pag. 35; Appendice vaticana dei Pro·t'erbi, centur. 3 1 proverb. 97; Suida, voc. ''E1tiµ.cv(8Y)c;.; Luciano, Timon., Opp., ed. Amstel. 1687 1 tom. 1, pag. 69. [p. 471 .] 4. Apollonio, Hist. commentit., cap. 3; Plinio, lib. 7, cap. 52; Tertulliano, De Anima, cap. 44; Luciano, Encom. Muse., Opp., tom. 2 1 pag. 376; Origene, Co11tra Cels., lib. 3, cap. 32. [p. 476.] 5. In proposito di quest'uso, il quale è comune a molti popoli barbari, di trasfigurare a forza le teste; è notabile un luogo d'Ippocrate, De Aere, Aquis et Locis, Opp., ed. Mercurial., class. I, pag. 29, sopra una nazione del Ponto, detta dei Macrocefali, cioè Testelunghe; i quali ebbero per usanza di costringere le teste dei bambini in maniera, che elle riuscissero più lunghe che si potesse: e trascurata poi questa pratica, nondimeno i loro bambini nascevano colla testa lunga: perché, dice Ippocrate, così erano i genitori. [p. 481.] 6. Vedi il Vert-vert del Gresset. [p. 487.] 7. "Sus vero quid habet praeter escam.? cui quidem., t1e putisceret, animam. ipsam, pro sale, data,n dicit esse Clirysippus » Cicerone, De Nat. Deor., lib. 2, cap. 64. [p. 489.] 8. Città favolosa, detta altrimenti El Dorado, la quale immaginarono gli Spagnuoli, e la credettero essere nell'America meridionale, tra il fiume dell'Orenoco e quel delle Amazzoni. Vedi i geografi. [p. 499.) 9. V cdi nelle gazzette tedesche del mese di marzo del 1824 le scoperte attribuite al sig. Gruithuisen. [p. 500.] 10. Vedi Macrobio, Saturnal., lib. 3, cap. 8; Tertulliano, Apologet., cap. 15. Era onorata la luna anche sotto nome maschile, cioè del dio Luno. Sparziano, Caracall., cap. 6 et 7. Ed anche oggi 43

OPERETTE MORALI

nelle lingue teutoniche il nome della luna è del genere del maschio. [p. 500.] 11. Menandro rettorico, lib. 1, cap. 15, in Rhetor. graec. veter., A. Manut., voi. 1, pag. 604; Meursio, Ad Lycophron. Alexandr., Opp., ed. Lamii, voi. 5, col. 951. [p. 500.] 12. Ateneo, lib. 2, ed. Casaub., pag. 57. [p. 500.] 13. Antonio di Ulloa. Vedi Carli, Lettere Ameri~ane, par. 4, lett. 7, Opp., Milano 1784, tom. 14, pag. 313 e seguente, e le Memor. encicloped. dell'anno I78I, compilate dalla Società letterar. di Bologna, pag. 6 e seguente. [p. 500.] 14. cc That the moon is made o/ green cheese. » Si dice in proverbio di quelli che danno ad intendere cose incredibili. [p. 501.] 15. Vedi gli astronomi dove parlano di quella luce, detta opaca o cenerognola, che si vede nella parte oscura del disco lunare al tempo della luna nuova. [p. 506.] 16. Plinio, lib. 16, cap. 30; lib. 2, cap. 55; Svetonio, Tiber., cap. 69. [p. 507.] 17. Voglio recare qui un luogo poco piacevole veramente e poco gentile per la materia, ma pure molto curioso da leggere, per quella tal forma di dire naturalissima, che l'autore usa. Questi è un Pietro di Cieza, spagnuolo, vissuto al tempo delle prime scoperte e conquiste fatte da' suoi nazionali in America, nella quale militò, e stettevi diciassette anni. Della sua veracità e fede nelle narrative, si può vedere la prima nota del Robertson al sesto libro della Storia d'America. Riduco le parole ali' ortografia moderna: « La segunda vez

que volvlmos por aquellos valles, cuando la ciudad de Antiocha /ué pobiada en las sierras que estan por encima dellos, oi decir, que los seiiores o caciques destos valles de Nore buscaban por las tierras de sus enemigos todas las mugeres que podian; las quales traidas d sus casas, usaban con ellas como con las suyas proprias ,· y si se empreiiaban dellos, los hijos que nacian los criaban con mucho regalo, hasta que habian doce o trece anos; y desta edad, estando bien gordos, los comian con gran sabor, sin mirar que eran su substancia y carne propria: y desta manera tenien mugeres para solamente engendrar hijos en ellas para despues comer; pecado mayor que todos los que ellos hacen. Y hdceme tet1er por cierto lo que digo, ver lo que paso con el licenciado Juan de Vadillo (que e,i este ano estd en Espana; y si le preguntan lo que diga dird ser verdad): y es, que la primera vez que entraron Christianos espanoles en estos valles, quefuimos yo y mis companeros, vino de paz un senorete, q"e habia por nombre Nabonuco, y traia. consigo tres mugeres; y viniendo la noche, las dos dellas se echaron d la larga encima de un tape te o estera, y la otra atrave,-sada para servir de almohada; y el Indio se echo endma de los cuerpos dellas, muy tendido; y tomo de la mano otra muger hennosa,

NOTE

qr,e quedaba atras con otra gente suya, que lz,ego vino. Y como el licenciado Juan de Vadillo le viese de aquella suerte, preguntdle que para que habia traido aquella mtlger que tenia de la mano: y mirandolo al rostro el Indio, respondio mansa,nente, que para comerla,· y que si él no hubiera venido, lo hrtbiera yd hecho. Vadillo, oido esto, mostrando espantdrse, le dijo; Jpues como, sietido tu muger, la has de comer? El cacique, alzando la voz, torno d responder diciendo: mira mira,· y aun al hijo que pariere tengo tambien de comer. Esto que he dicho, pasd en él valle de Nore,· yen el de Guaca, que es él que dije quedar atras, ol decir deste licenciado Vadillo algunas vezes, como supo por dicho de algunos lndios viejos, por las lenguas que traiamos, que cuando los 1zaturales dél iban d la guerra, d Los lndios q11e prendian en ella, hacian sus esclavos; d Los quales casaban con sus parientas y tJeci.nas; y Los hijos que liabian en ellas aquellos esclavos, los conzian: y que despues que Los mismos esclavos era,i muy viejos, y si.n potencia para engendrar, los comian tambien d ellos. Y d la verdad, como estos Indios no tenianfe, ni conocian al demonio, que tales pecados les hacia hacer, cuan malo y perverso era; no me espanto dello: porqu.e hacer esto, mas lo tenian ellos por valentia, que por pecado ». Parte primera de la Chronica del Perr, hecha por Pedro de Cieza, cap. 12, ed. de Anvers 1554, hoja 30 y siguiente. [p. 508.] 18. cc Le nombre des indigènes indépendans qui habitent les der,x Amériques decrott an11uellement. On en compte encore environ 500.000 au nord et à l'ouest des États-Unis, et 400.000 au. sud des républiques de Rio de la Plata et du Chili. C' est moins aux guerres qu'ils ont à soutenir contre les gor,vernemens an,éricains, qu'à ler,r /1111este passion po,,r les liqr,eurs fortes et aux combats d'extennination qrt'ils se livrent entr'eux, que l'on doit attribr,er leur décroissement rapide. Ils portent à u11 tel point ces deux excès, que l'on peut prédire, avec certitude. qrt'avant un siècle ils auront cmnplètement disparu de cette partie du globe. L'ouvrage de M. Scl,oolcraft » (intitolato, Travels in the centrai portions o/ the Mississipi valley; pubblicato a New-York, ranno 1825) • est plein de détails cun·er,x sur ces propriétaires primitifs du Nouvear,Monde ,· il devra itre d'autant plus recherché. q11e c1est, pour ainsi dire, l'histoire de la dernière période d'existence d'11n peuple qui va s'éteindre. » • Revue Encyclopédique », tom. 28, novembre 1825, pag. 444. (p. 512.] 19. Questo fatto è vero. [p. s 14.] 20. Famose voci di Archimede, quando egli ebbe trovato la via di conoscere il furto fatto dall'artefice nel fabbricare la corona votiva del re Gerone. [p. 514.] 21. I desiderosi di quest'arte potranno in effetto, non so se apprenderla, ma studiarla certamente in diversi libri, non meno moderni che antichi: come, per modo di esempio, nelle Lezioni

OPERETTE MORALI

delr arte di prolungare la vita umana scritte ai nostri tempi in tedesco dal signor Hufeland, state anco volgarizzate e stampate in Italia. Nuova maniera di adulazione fu quella di un Tommaso Giannotti medico da Ravenna, detto per soprannome il filologo, e stato famoso a' suoi tempi; il quale nelPanno 1550 scrisse a Giulio terzo, assunto in quello stesso anno al pontificato, un libro de vita hominis ultra CXX annos protrahenda, molto a proposito dei Papi, come quelli che quando incominciano a regnare, sogliono essere di età grande. Sarebbe libro da ridere, se non fosse oscurissimo. Dice il medico, averlo scritto a fine principalmente di prolungare la vita al nuovo Pontefice, necessaria al mondo; confortato anche a scriverlo da due Cardinali, desiderosi oltremodo dello stesso effetto. Nella dedicatoria "vives igiti,r, » dice "beatissime pater, ni fa/lor, diutissime ». E nel corpo dell'opera, avendo cercato in un capitolo intero 1YJ1h•oY (intrecciate), con termine che risale ad Aristotele. Su questo tipo di verità Crisippo di Soli (281-205 a. C.), altro filosofo stoico, scrisse un'opera. NeW edizione della versione leopardiana del Manuale a cura di N. Festa (con saggi e dissertazioni e coi frammenti di Mesonio, Milano, I. E. I., s.d.), cosi viene spiegato l'intero passo: ac Se c'è un ragionamento complicato, che è vero, etaluno lo prende per falso, non è il ragionamento complicato che riceve danno, ma colui che in esso s'inganna•· 2. comporterai: sopporterai.

MANUALE DI EPITTETO

ta; ma pigliala da quest'altra banda, e di': mio fratello, nutrito e cresciuto meco insieme; e tu la piglierai da quel lato dal quale ella si può portare. Queste cotali argomentazioni non reggono: io sono più ricco di te, dunque io sono da più di te; io più letterato di te, dunque io sono da più. Queste altre reggerebbero bene: io sono più ricco di te, dunque la mia roba è da più che la tua; io più letterato di te, dunque la mia dicitura val più che la tua. Ma tu non sei né roba né dicitura. Uno si laverà in fretta. Non dire: ei si lava male, ma: egli si lava in fretta. Un altro berrà molto vino. Non dire: egli bee male, ma si: egli bee molto vino. Perciocché come puoi tu sapere se quelli fanno male, innanzi che tu abbi considerata e stabilita la opinione che tu piglierai ? Per tal modo non einterverrà di ricevere una impressione, e giudicare secondo un'altra. Non darti mai titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagion di esempio, in un convito non istare a discorrere come si debba mangiare, ma sì bene mangia come si dée. Né ti esca di mente che in sì fatto modo anche Socrate rimosse da sé ogni ostentazione. Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo che ei li dovesse introdurre ora a questo ora a quel maestro di filosofia, ed esso menavagli dove volevano. 1 Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato indietro. Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo più in silenzio. Perciocché altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai nulla, e tu per udir questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a far frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la quantità ch'elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, danno di fuori la lana e il latte? e tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le dot1. Venivano • .. volevano: vedasi l'inizio del Protagora platonico (310, d-e), dove Ippocrate chiede a Socrate d'introdurlo presso Protagora.

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VOLGARIZZAMENTI

trine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e dimostra a coloro le operazioni. Quando tu sarai perfetto quanto all'uso e al reggimento del cor_po, non voler però pavoneggiarti e far mostra di questa cosa; e se tu berrai acqua, tu non dirai ad ogni occasione: io non beo che acqua. E se alcuna volta ti vorrai esercitare alla sofferenza per amor di te stesso e non delle cose estrinseche, tu non andrai ad abbracciare le statue, 1 ma talora che tu arderai dalla sete, piglia una boccata d'acqua fresca e sputala, e di ciò non far motto. Stato e contrassegno dell'uomo comune si è, né beneficio né danno aspettarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o temere da se medesimo. Segni che uno fa pro nella filosofia sono non parlar male di alcuno; non lodar chicchessia; di niuno lamentarsi; niuno incolpare; non favellar cosa alcuna di sé come di persona di qualche peso o che s'intenda di che che sia; provando impedimento o disturbo in qualche sua intenzione, imputar la colpa a se stesso; lodato, ridere interiormente del lodatore; biasimato, non si difendere; andare attorno a guisa che fanno i convalescenti, guardando di non muovere qualche parte racconcia di fresco, prima eh' ella sia bene assodata; aver posto giù ogni appetito; ridotta l'aversione a quel tanto che nelle cose che dipendono dal nostro arbitrio è contrario a natura; non dar luogo a prime inclinazioni e primi moti dell'animo se non riposati e placidi; se sarà tenuto sciocco o ignorante, non se ne curare; in breve, stare all'erta con se medesimo non altrimenti che con uno inimico o uno insidiatore. Quando alcuno si vanterà o si terrà d'assai per sapere intendere o poter dichiarare2 i libri di Crisippo, 3 di' teco stesso: se Crisippo non avesse scritto oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io desidero ? Intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere. Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di gloriarsi. Trovato lo spositore di Crisippo, resta che io metta in pratica gli ammaestramenti ch'io ricevo. E in ciò solo consiste quel che 1. le statue: verosimilmente degli dèi. 2. dichiarare: spiegare, commentare. 3. Crinppo di Soli, vedi la nota I di p. 1084.

MANUALE DI EPITTETO

fa onore. Ma se io invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto se non che io diverrò un grammatico anzi che un filosofo ? salvo che invece di Omero, chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirà: leggimi Crisippo, egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e somiglievoli alle parole. Ciascun proponimento che tu farai vuolsi osservare e mantenere come fosse una legge e un punto di religione. Che che poi si dica di te il mondo, non vi por mente, poiché questa parte non è in tuo potere. In che tempo dunque ti riserbi tu ad aspirare ai maggiori beni dell'uomo, e ad osservare in che che sia la regola che distingue le cose nostre e le esterne? Tu hai pur avuto i documenti che erano da meditare e quasi da conversar con essi; tu gli hai meditati e usato con esso loro: che maestro aspetti tu anco, sotto la cui disciplina tu intenda di voler dare effetto alla riforma di te stesso ? Tu non sei più mica un fanciullo, ma uomo fatto. Se tu ti starai così neghittoso e a bada senza pensare, accumulando ogni ·giorno indugi con indugi, moltiplicando in propositi, destinando ora un termine e fra poco un altro, in capo al quale incominciare ad attendere a te medesimo; tu non te ne avvedrai che senza aver fatto un progresso al mondo, sarai pur vissuto e morto uomo del volgo. Incomincia dunque insino da ora a studiar di vivere da uomo perfetto e che cresce in virtù; e tutto quello che ti parrà essere il migliore, siati in luogo di legge inviolabile. E come prima ti si farà incontro alcuna cosa dura e spiacevole o pur difettosa e dolce, alcuna che porti seco la estimazione o la lode o vero il dispregio o il biasimo delle genti, fa ragione ch'egli sarà venuto il tempo dello aringo, e quella essere l'ora della solennità olimpica/ e non ci aver luogo indugio; e che secondo che tu sarai per durare o vero per cedere in una battaglia, tu perderai o vero conserverai lo avanzamento tuo nel bene. Socrate in così fatta guisa diventò perfetto, a niente altro avendo riguardo in ciascheduna cosa che gl'incontrava, se non solamente alla ragione. Che se ben tu non sei per ancora un Socrate, tu déi però vivere come uno il quale desideri di esser tale. Il primo e più necessario luogo nella filosofia si è quello delle l'ora .•• olimpica: l I ora della cerimonia religiosa che preludeva ai giochi olimpici. I.

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VOLGARIZZAMENTI

proposizioni morali pratiche, come sarebbe, per modo di esempio, questa; che egli non si dee mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni; come, per esempio, provare con argomenti che non si dee mentire. Il terzo serve a confermazione e distinzione delle stesse cose, e trattavisi, ponghiamo, donde è che questa tale è dimostrazione, e che cosa è dimostrazione, che cosa sono conseguenza e repugnanza, 1 verità e falsità. Di modo che il terzo luogo è necessario a rispetto del secondo, il secondo a rispetto del primo; ma il più necessario di tutti, e dove si dee restare, si è il primo. Ora noi facciamo al contrario; che noi soprastiamo nel terzo luogo, e in quello poniamo tutto lo studio e la industria; e del primo non abbiamo un pensiero al mondo. Sicché avviene che egli si mente ogni dì, ma il come provar che egli non si dee mentire, questo si ha in sulle dita. Abbiansi ad ogni occasione apparecchiate queste parole: menami o Giove, e con Giove tu o Destino, in quella qual si sia parte a che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e niente meno a ogni modo vi seguirei. Ancora: chiunque sa bene accomodarsi alla necessità, tiene appresso noi grado di saggio, ed esso ha il conoscimento delle cose divine. Ancora in terzo luogo: o Critone, se così piace agli Dei, così sia. 2 Anito e Melito3 mi possono bene uccidere, ma non già offendere.

repugnanza: contraddizione, incompatibilità. la frase è tratta dal Critone platonico (43 d). accusatori di Socrate. 1.

z. o Critone • •. cod sia: J. A nito e M elito: gli

ERCOLE, FAVOLA DI PRODICO AVVERTIMENTO DEL VOLGARIZZATORE

Questa Favola, che fu molto famosa appresso gli antichi, menzionata da Cicerone negli Uffici, da Clemente alessandrino, da due Filostrati, da Suida, è tratta dal secondo libro delle Memorie socratiche di Senofonte. Prodico, detto sofista, cioè professor di letteratura, fu dell'isola di Ceo, a tempo di Socrate, e venne in tal fama di sapienza, che si soleva dire in proverbio, come per cosa impossibile o per iperbole, « più saggio di Prodico ». Andava, secondo la usanza dei sofisti di quel secolo, per le città della Grecia, recitando, tra le altre cose, il ragionamento che conteneva questa medesima favola; per rispetto del quale, come di opera utile alla gioventù, fu molto onorato dai Tebani e dai Lacedemoni, e per la eloquenza molto pregiato e ammirato in Atene, dove andò una volta ambasciatore non so se della sua patria o d'altri.

Tradotta nel dicembre 1825, a Bologna, avrebbe dovuto essere stampata dopo il Manuale di Epitteto, nel primo volume della progettata Scelta di moralisti greci (cfr. la nota introduttiva al Preambolo del volgarizzatore al Manuale di Epitteto, a p. 1065), e fu pubblicata la prima volta nell'edizione Le Monnier, 1845, curata dal Ranicri.

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ERCOLE, FAVOLA DI PRODI CO 1

Essendo Ercole in sull'entrare dalla fanciullezza nell'adolescenza, nella quale età gli uomini venendo in signoria di se stessi, sogliono dare a conoscere se eglino sono per eleggere alla loro vita il cammino della virtù o quel dell'ignavia, recatosi in disparte e posto a sedere in silenzio, stava dubitando seco medesimo a quale delle due vie si avesse ad indirizzare. E parvegli che venissero verso di sé due donne di statura grande: l'una di aspetto bello e nobile; adorna di cotali adornamenti naturali, come sono a dire, nettezza del corpo, verecondia degli occhi e modestia del portamento; vestita di bianco. L'altra2 ben pasciuta e morbida, e acconcia quanto al colore in guisa che pareva che ella riuscisse più bianca a vederla e più rossa che per verità non era; con un portamento della vita più diritto del naturale, cogli occhi molto bene aperti, e con una veste indosso che lasciava trasparire il più che si poteva della persona: miravasi tratto tratto; stava anche attenta per vedere se altri la guardava, e spesso voltava gli occhi alla sua propria ombra. Fatte che gli si furono più da vicino, quell'altra detta innanzi non uscì del passo e dell'andamento di prima, ma per lo contrario questa, volendola antivenire, si pose a correre, e arrivata là dove Ercole era, gli disse: io ti veggo, o Ercole, stare in dubbio della strada della vita che tu debba prendere. Ora se tu mi vorrai per amica, io ti guiderò alla più dilettevole e più agiata via che si trovi al mondo, e siccome non rimarrà indietro piacere alcuno che tu non provi, cosi non ti converrà patire niuna amaritudine e niuna molestia. Imperocché in primo luogo tu non t'impaccerai di pensieri di guerre né di negozi, ma solamente di cercare cibi e bevande che ti gradiscano; cose che a vedere o udire, a odorare o a toccare, ti porgano sollazzo e diletto; fanciulli e fanciulle che a goderle ti riescano deliziose sopra tutte le .altre; comodità di dormire più mollemente che si possa; e il modo di avere tutte queste cose colla 1. Prodico: il celebre filosofo sofista greco, del V secolo a. C., ideatore del mito di Ercole al bivio tra il vizio e la virtù, tante volte ripreso poi nei secoli, da Senofonte al Metastasio. 2. l'una ... l'altra: la prima è naturalmente la Virtù, la seconda l'Ignavia, il vizio.

ERCOLE, FAVOLA DI PRODICO

più picciola fatica del mondo. E se alcuna volta per avventura nascesse ombra di scarsezza e difficoltà di trovare queste tali cose, non temere che io ti conduca a procacciarle con fatiche e travagli del corpo e dell'animo, ma tu ti servirai di quello che sarà fatto e procacciato dagli altri, non perdonando 1 a cosa veruna dalla quale ti possa pervenire alcuna utilità; perocché io porgo questa licenza ai· familiari 2 miei di potersi liberamente giovare di che che sia. Le quali parole udite, Ercole dimandò alla donna: o donna, come ti chiami tu per nome ? E quella rispose: gli amici miei mi dicono Beatitudine, ma quelli che mi odiano, per maldicenza mi chiamano Ignavia. In questo l'altra femmina soppraggiunse e disse: ancora io vengo qua, o Ercole, perciocché io conosco bene i tuoi genitori3 e ho posto mente alla tua indole nel tempo che tu sei stato educato, e per la notizia che ho dell'una e degli altri spero che se tu ti dirizzerai per la mia strada, diverrai uno eccellente operatore di fatti degni e onorati, e io ne sarò anche in assai maggior pregio che per l'addietro, e per buoni effetti assai più chiara e famosa. lo non istarò qui con preamboli lusinghieri a ingannarti, ma ti dichiarerò l'essere delle cose con verità, così come egli è stato costituito dagl'Immortali. Tu déi sapere che non è al mondo cosa veramente buona né bella la quale gli Dei consentano agli uomini di ottenere senza fatica e industria; ma se tu vuoi che gli stessi Dei ti sieno propizi, egli ti bisogna aver cura di onorare gli Dei; e se tu vuoi che gli amici ti abbiano caro, egli ti bisogna far bene agli amici; e volendo essere onorato da alcuna città, egli ti conviene far servigio a questa tale città; e a volere che tutta la Grecia ti ammiri e ti riverisca per valoroso, ti bisogna studiare di far bene alla Grecia; e perché la terra ti porga copia di frutti, ti fa di bisogno coltivare la terra; e cosi aver cura del bestiame se tu vuoi che il bestiame ti faccia ricco; e se ti proponi di avanzarti per via della guerra e vuoi potere essere agli amici autore di libertà e gl'inimici domare, ti conviene primieramente apprendere dai dotti e periti le arti della milizia, e poi collo esercitarle condurti a saperle usare; e in fine se tu vuoi riu1. non perdonando: senza risparmiare. 2. familiari: amici. 3. i tuoi genitori: Giove e Alcmena, la moglie fedelissima, che Giove riusci a ingannare assumendo l'aspetto del marito Anfitrione (cfr. la nota I all'Idillio quarto di Mosco, Megara moglie di Ercole, a p. 950).

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VOLGARIZZAMENTI

sci re gagliardo e poderoso del corpo, ti fa di bisogno assuefarlo a ubbidire alla mente, ed esercitarlo con fatiche e sudori. Qui la Ignavia riprese a parlare e disse: vedi tu, o Ercole, che aspro e lungo cammino da pervenire ai diletti è questo di cui ti ragiona questa donna? dove che io ti scorgerò 1 alla felicità per una via corta e agiata. E la Virtù soggiunse: o misera, che bene hai tu? o che piacere conosci tu, che per aver beni e piaceri niente ti vuoi adoperare? e quanto è ai piaceri, non aspetti anco che ti nasca il desiderio di quelli, ma ti riempi di ogni cosa innanzi ch'egli ti sia venuto, e prima di aver fame mangi, prima di aver sete béi; e per mangiare con gusto, procacci e metti in opera i cuochi; per bere saporitamente, attendi a provveder vini di gran valuta, e in tempo di state corri attorno cercando un poco di neve; per aver sonni dolci, oltre alle coltrici morbide ti procacci anco i letti, e oltre ai letti le panche da sostentarli, perciocché tu non hai volontà di dormire per fatica che abbi durata, ma per non sapere altro che fare. E per godere i piaceri amorosi ti sforzi innanzi al bisogno, usando ogni maniera d'arti e d'industrie, e valendoti indifferentemente di maschi e di femmine, perocché tale è il costume e la dottrina che tu insegni agli amici tuoi; e la notte vai fuori baldanzeggiando e trescando insolentemente, e consumi dormendo la miglior parte del dl. Dalle quali cose è avvenuto che, essendo tu immortale, gli Dei ti hanno rifiutata per compagna, e dagli uomini di valore sei vilipesa e infamata, e mai non ti è intervenuto di udire il più dolce suono che si oda al mondo, che è quel della propria lode, né di veder la più cara vista che possa essere, perocché niuna tua bella azione hai veduto mai. Dimmi, chi è che ti creda quando tu favelli ? e se ti fa di bisogno di alcuna cosa, chi è che te ne voglia somministrare? e quale uomo, purché egli abbia il giudizio sano, vorrebbe essere della compagnia de' tuoi familiari ? i quali nella gioventù sono privi del vigore del corpo, e nella vecchiezza del senno e del conoscimento dell'animo; e quella consumano senza fatica tra gli agi e le splendidezze, questa trapassano faticosamente in isquallore, con vergogna del passato e noia del presente, perocché eglino hanno trascorso via tutte le dolcezze della loro vita nella gioventù, e si hanno riservato l'amaro per la vecchiaia. 1.

seorgerd: scorterò, guiderò.

ERCOLE, FAVOLA DI PRODICO

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Al contrario io uso del consorzio degli Dei, uso del consorzio degli uomini buoni e valenti; niuna degna opera né divina né umana si fa senza partecipazione mia; sono, così appresso gli Dei come appresso i mortali, cogli onori debiti onorata sopra ogni altra persona; diletta cooperatrice degli artigiani nelle loro fatiche, guardiana fedele della casa ai padroni, assistitrice benevola dei famigli,1 buona aiutatrice degli uomini nelle opere della pace, costante confederata nei fatti della guerra, ottima compagna e consorte dell'amicizia. I miei familiari mangiano e beono con diletto, e questo diletto conseguiscono senza pensiero, imperciocché aspettano l'appetito; dormono più saporitamente di quelli che non hanno durata niuna fatica, e non hanno però per grave di rilevarsi dal sonno, né per causa di dormire trascurano di attendere a quello che loro si appartiene. I giovani sono lieti della lode che ricevono dagli attempati, i vecchi si confortano dell'onore che hanno dai giovani, si ricordano dei loro fatti antichi con dolcezza e soddisfazione d'animo, e si compiacciono altresì del buono stato presente, essendo per mio beneficio grati agli Dei, cari agli arl)ici, pregiati dalle loro patrie. E venuto il fine stabilito loro dal fato, non si giacciono senza onore in oblivione, ma rammemorati e lodati fioriscono perpetuamente. Per cotal guisa o Ercole, figliuolo di genitori buoni e d'assai, adoperandoti, tu puoi guadagnare una felicità la più desiderabile che si trovi al mondo.

1. /

amigli: servitori.

NOTA AI TESTI

Per la storia delle edizioni leopardiane, ci richiamiamo alla Nota bibliografica in capo al volume, nonché, particolarmente per quanto riguarda le opere minori, alle singole note introduttive a piè di pagina. A parte qualche sporadica minuzia ortografica e la ricostituzione di qualche vecchio titolo, abbiamo seguito fedelmente, nella nostra amplissima scelta, il testo dato da Francesco Flora nei primi due volumi dcli' edizione mondadoriana Tutte le opere di Giacomo Leopardi (Milano, Mondadori, 1940-1949). In esso il Flora ha tenuto presente l'edizione critica del Moroncini per i Canti, le Operette morali e alcune opere minori, nonché l'edizione Bacchelli-Scarpa, particolarmente per certe Carte fiorentine e napoletane, e quella del Ginzburg per i Canti; raggiungendo un risultato che deve considerarsi pressoché definitivo. Va da sé che, conforme ai criteri adottati dalla collezione, due innovazioni sono state apportate al testo Flora: la prima, riguardo alle iniziali dei versi, minuscole anziché maiuscole; la seconda, riguardo agli accenti. Qualche modifica abbiamo introdotto nell'ordine delle materie, in cui abbiamo cercato di contemperare il criterio cronologico con quello dell'importanza, tenendosi altresì conto della suddivisione della nostra raccolta in una parte poetica, una seconda prosastica e una terza comprendente i volgarizzamenti, a loro volta suddivisi in versi e prosa. Cosl la parte poetica s'inizia coi Canti, e, dopo una silloge di poesie varie e di abbozzi e frammenti poetici, volta per volta ordinati cronologicamente, termina coi Paralipomeni della Batracomiomachia; la seconda s'inizia con le Operette morali, cui fanno seguito una appendice alle stesse, e i Pensieri: e seguono abbozzi e frammenti, e cose minori, anch essi ordinati cronologicamente. Il criterio cronologico è stato seguito per i Volgarizzamenti rispettivamente poetici e prosastici. 1

INDICE XI

INTRODUZIONE

XXXI

BIBLIOGRAFIA

QUADRO CRONOLOGICO DELLA VITA E DELLE OPERE DI

xxxv

LEOPARDI

CANTI I. Il. III.

IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. Xl. Xli. XIII. XIV.

xv. XVI. XVII. XVIII. XIX.

xx. XXI. XXII. XXIII. XXIV.

xxv. XXVI. XXVII. XXVIII. XXIX.

xxx.

XXXI.

All ltalia Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze Ad Angelo Mai, quand 1 ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica Nelle nozze della sorella Paolina A un vincitore nel pallone Bruto minore Alla primavera, o delle favole antiche Inno ai Patriarchi, o de' principii del genero umano Ultimo canto di Saffo Il primo amore Il passero solitario L 1 infinito La sera del di di festa Alla luna Il sogno La vita solitaria Consalvo Alla sua donna Al conte Carlo Pepoli Il risorgimento A Silvia Le ricordanze Canto notturno di un pastore errante dell'Asia La quiete dopo la tempesta Il sabato del villaggio I 1 pensiero dominante Amore e Morte A se stesso Aspasia Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accommiatandosi dai suoi Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima 1

3 8 16

24 29 32 37 42 48 51

ss

s8 S9 61

62

66 70

76 79

86 93

96 103 109 112

114 120

125 126

131 136

1098

INDICE

Palinodia al marchese Gino Capponi Il tramonto della luna La ginestra o il fiore del deserto Imitazione Scherzo Frammenti

XXXII. XXXIII. XXXIV.

xxxv. XXXVI. XXXVII. XXXVIII.

XXXIX.

Dal greco di Simonide Dello stesso Note ai Canti

XL. XLI.

139 150 153 165 166 167 169 170 173 175 177

PREFAZIONI, DEDICHE E ALTRE NOTE RELATIVE Al CANTI Dedicatorie delle Canzoni 1. Al chiarissimo sig. cavaliere Vincenzo Monti Giacomo Leopardi Il. Giacomo Leopardi al cavaliere Vincenzo Monti Dedicatoria della canzone Ad Angelo Mai 1. Giacomo Leopardi al conte Leonardo Trissino 11. Giacomo Leopardi al conte Leonardo Trissino Prefazioni e Annotazioni. alle dieci Canzoni stampate in Bologna nel 1824 1. A chi legge 11. Annuncio delle Canzoni 111. Annotazioni alle dieci Canzoni Prefazione ai versi stampati in Bologna nel 1826 1. Gli editori a chi legge 11. Gli editori a chi legge

183 I

84

187 187

189 189 191

220 220

Manifesto e dedica della prima edizione dei Canti J. 11.

221

Agli unici suoi di Toscana

Notizia intorno alle edizioni di questi Canti

221 223

POESIE VARIE Inno a Nettuno d'incerto autore. Traduzione dal greco Al Sig. •••, Ciamberlano di S.M.J.R.A.t Cavalier• dell'Ordine Gerosolimitano ec. Giaeomo Leopardi Avvertim.ento Inno a Nettuno

227 228 230

INDICE

1 099

Note Annotazione all'Inno a Nettuno Odae adespotae Ode I. In Amo,-e,n Ode II. In Lunam Appressamento della morte. Cantica Canto primo Canto secondo Canto ten;o Canto quarto Canto quinto Osservazioni

236 253 254 254

256 260 265 272

278 281 282

Elegia II Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio. Sonetto 1 Sonetto Il Sonetto 111 Sonetto IV Sonetto v

MDCCCXVII

Madrigale Epigramma I nuovi credenti

28s 286 287 287 288 289 290

291

ARGOMENTI E ABBOZZI DI POESIE Argomento di una canzone sullo stato presente dell'Italia Canzone sulla Grecia Supplemento Dell'educare la gioventù italiana Argomenti di elegie 1. Argomento di un'elegia n. D'un"altra 111. D'un'altra

297 300 300 301 302, 302 303

IV.

303

V.

303

Argomenti di idilli 1. Idillio primo. Sopra L'infinito 11. Concetto dell'idillio secondo. Alla Natura 111. L'infinito 1v. Idillio. MDCCCXIX. L'infinito V. VI. VII.

Le fanciulle nella tempesta

3o4 3o4

JOS 305 3o6 3o6 306

1100

INDICE

A una fanciulla Erminia Supplemento all'abbozzo dell'Erminia Inni cristiani Inni cristiani. Dio. Redentore. Angeli. Maria. Patriarchi. Mosè. Profeti. Apostoli. Martiri. Solitari Discorso intorno agl'lnni e alla poes. crist. Inno al Redentore Inno ai solitari Inno ai martiri Supplemento al progetto degl'Inni cristiani

A un vincitore nel pallone Premessa all'ultimo canto di Saffo Postilla ai versi 68-70 Inno ai Patriarchi, o de' principii del genere umano Canzone nona Se tu devi poetando fingere un sogno Il canto della fanciulla Angelica Ad Arimane Supplemento alle Canzoni Supplemento agi' Idilli

308 3o9 311

312 312 313 3 13 3 13 314 315 316 316 318 323 324 325 326 328 328

PARALIPOMENI DELLA BATRACOMIOMACHIA Canto Canto Canto Canto Canto Canto Canto Canto

primo secondo terzo quarto quinto sesto settimo ottavo

331 347 362 377 392

407 421

438

OPERETTE MORALI

Storia del genere umano Dialogo d'Ercole e di Atlante Dialogo della Moda e della Morte Proposta di premi fatta dall'Accademia dei sillografi Dialogo di un folletto e di uno gnomo Dialogo di Malambruno e di Farfarello

45S 470 47S 479 484 489

INDICE

Dialogo della Natura e di un'Anima Dialogo della Terra e della Luna La scommessa di Prometeo Dialogo di un fisico e di un metafisico Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare Dialogo della Natura e di un Islandese Il Parini ovvero della gloria Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo undecimo Capitolo duodecimo Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mwnmie Detti memorabili di Filippo Ottonieri Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez Elogio degli uccelli Cantico del gallo silvestre Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco Preambolo Della origine del mondo Della fine del mondo Dialogo di Timandro e di Eleandro Il Copernico. Dialogo Scena prima Scena seconda Scena terza Scena quarta Dialogo di Plotino e di Porfirio

1101

492

497 504 514 520 528 536 538 543 S45 548

551 552

55S 558 561 562 565

567 574 578 582 585 589 S93

596 S99 605

613

1102

INDICE

Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere Dialogo di Tristano e di un amico Note alle Operette morali Appendice alle Operette morali Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio

661 663

Notizia intorno a queste Operette

691

673

679 688

PENSIERI I-CXI

PROSE VARIE Saggio sopra gli errori popolari degli antichi Capo vu. Del meriggio

Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la Baronessa di Stael Holstein ai medesimi Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'ltaliani Potenze intellettuali: Niccolò Tommaseo Iscrizione sotto il busto di Raffaele nel giardino Puccini presso Pistoia

75S

76 S 772 844 878 882

APPUNTI E RICORDI Memorie del primo amore Ricordi d'infanzia e di adolescenza Alla vita abbozzata di Silvio Samo (Di Ruggiero o Ranuccio, Vanni da Belcolle) Alla vita del Poggio Storia di un'anima. Scritta da Giulio Rivalta. Pubblicata dal C. G. L.di. Proemio Libro primo. Fanciullezza di un'anima. Capitolo primo

885 899 913 914 915 916

VOLGARIZZAMENTI Discorso sopra Mosco Poesie di Mosco Idillio primo. Amore fuggitivo Idillio secondo. Europa

919

936 937

INDICE

Idillio terzo. Canto funebre di Bione bifolco amoroso Idillio quarto. Megara moglie d'Ercole Idillio quinto Idillio sesto. Gli amanti odiati Idillio settimo. L'Alfeo ed Aretusa Idillio ottavo. Espero Amore arante. Epigramma Il bifolchetto. Idillio attribuito a Mosco La torta. Poemetto di A. Settimio Sereno Traduzione del libro secondo della Eneide Libro secondo della Eneide Discorso sopra la Batracomiomachia Guerra dei topi e delle rane Canto prin10 Canto secondo Canto terzo Volgarizzamento della satira di Simonide sopra le donne Versi morali tradotti dal greco Di Archiloco Di Alessi Turio Di Alessi Turio Di Anfide ateniese Di Eubulo ateniese Versi di Eupoli comico sopra la eloquenza di Pericle

1103

944

9S 0 9S5 956

9S7 958 9S9

9S9 962

968 972 1005

1019 1025

1031 1036

1040 1040

1041 1041 1042 1042

Martirio de' santi Padri del monte Sinai e dell'eremo di Raitu composto da Ammonio monaco. Volgarizzamento fatto nel buon secolo della nostra lingua, non mai stampato L'editore a chi legge Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo decimoprimo Capitolo decimosecondo Capitolo decimoterzo Capitolo decimoquarto Capitolo decimoquinto

1044

1046 1047 1048

1049 1049 1050 1052

1054

1054 1055 1057

1058 1058 1059

1060

1104

INDICE

Capitolo decimosesto Capitolo decimosettimo Capitolo decimottavo

1060 1061 1063

Manuale di Epitteto Preambolo del volgarizzatore Manuale di Epitteto

1068

Ercole, favola di Prodico Avvertimento del volgarizzatore Ercole, favola di Prodico

1089 1090

NOTA Al TESTI

1095

1065

IMPRESSO NEL MESE DI LUGLIO MCMLVI DALLA STAMPERIA VALDONEGA

DI VERONA