La letteratura italiana. Storia e testi. Opere di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella [Vol. 33]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME 33

OPERE DI

GIORDANO BRUNO E DI

TOMMASO CAMPANELLA A CURA

DI AUGUSTO GOZZO E DI ROMANO AMERIO

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO· NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RICHTS RESERVED PRINTBD IN ITALY

OPERE DI GIORDANO BRUNO E DI TOMMASO CAMPANELLA

* GIORDANO BRUNO INTRODUZIONE di Augwto Gu:zzo CANDELAIO

3

DE LA CAUSA, PRINCIPIO E UNO

3S 179 289

DE L'INFINITO, UNIVERSO E MONDI

417

SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE

471

CABALA DEL CAVALLO PEGASEO

S39

DE GLI EROICI FURORI ORATIO CONSOLATORIA

569 659 693

DE IMMENSO ET INNUMERABILIBUS

727

NOTA AI TESTI

7S9 762

LA CENA DE LE CENERI

ORATIO VALEDICTORIA

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI

TOMMASO CAMPANELLA INTRODUZIONE di Romano Amerio

771

POESIE

785

LETTERE

947

DEL SENSO DELLE COSE E DELLA MAGIA

1031

LA CITTÀ DEL SOLE

1071

DISCORSI UNIVERSALI DEL GOVERNO ECCLESIASTICO PER FAR UNA GREGGE E UN PASTORE METAPHYSICA

1117 1167

QUOD REMINISCENTUR ET CONVERTENTUR AD DOMINUM UNIVERSI FINES TERRAE

1193

APOLOGIA PRO GALILAEO

1243

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI E NOTA Al TESTI

1277

INDICE

1289

AVVERTENZA DELL'EDITORE

Non per ossequio ad una tradizione, del resto assai recente, abbiamo riunito in questo volume Bruno e Campanella. Non perché furono entrambi Domenicani e ribelli, né per la presunta affinità dei loro modi espressivi, e nemmeno perché ebbero, e per le stesse ragioni, gli stessi patimenti della persecuzione e del carcere. Lo studio dei, rapporti ideali tra loro e con gli altri pensatori del loro tempo - un Vanini, un Telesio - è compito di chi scriverà per la nostra collana il volume di storia del secolo cui appartengono. Bruno e Campanella entrano a compo"e questo volume, compiutamente delineati ognuno nella sua figura letteraria e culturale, per essere stati i due filosofi-poeti del loro tempo. Per il Bruno la scelta delle opere e l'introduzione sono di Augusto Guzzo. Per il Campanella, di Romano Amerio.; il quale ha fornito anche le chiose e gli emendamenti al testo di entrambi gli autori.

GIORDANO BRUNO

INTRODUZIONE

La figura di Giordano Bruno è - oltre alla potenza e originalità della sua mente - cosi tragica, che la coscienza italiana non riesce a staccarne lo sguardo: come poté accadere una tragedia simile ? come qualcuno poté volerla? come un'età e una nazione poterono lasciarla avvenire? La coscienza italiana è stata presa - a un dipresso dal Risorgimento in poi - dallo sgomento di quella morte tra le fiamme; molti non hanno esitato - quasi a riaprire il conto tragicamente chiuso il 17 febbraio 1600 - a parteggiare per l'ucciso contro gli uccisori. Le forze che violentemente spinsero il Bruno fuori della vita terrena, una parte della coscienza italiana le ha ripudiate, scacciandole fuori della propria vita spirituale, e cercando di organizzarsi una vita mentale e morale senza quelle forze e contro quelle forze. Questo impeto della coscienza italiana - che poi fa parte di tutto un movimento e rivolgimento, a un dipresso, da centocinquant'anni in qua - ha lo slancio di una protesta morale: discuterne le ragioni e i fondamenti è difficile e increscioso, perché la serenità d'un'indagine teorica può già sembrare un'offesa, qualunque potessero essere le ragioni dell'uno e degli altri. Si cammina - se ci si avventura per questa via, poiché se ne ha il dovere - si cammina, dunque, per ignes, se si cerca di ritornare con lucidità d'esame su una cosi tragica vicenda. Chi scrive ha, da vent'anni, tentato quest'indagine, serena nonostante il dolore appassionato di tanta parte della coscienza italiana al riguardo. Se, dopo vent'anni di studi bruniani di simile indirizzo, gli è stata affidata la presente scelta di testi bruniani, egli può forse invitare il lettore a fare con lui una disamina del seguente tenore. Immaginiamo per un po' di fermare la vita del Bruno alla primavera del 1591, prima del suo ritorno in Italia. Sarà dovere di lealtà prender poi in esame quei tragici dieci anni ultimi del Bruno, e studiare, se pur rapidamente, il significato di quel lunghissimo carcere e di quelPorribile morte; ma niente proibisce di studiare il Bruno avanti il ritorno in Italia, a parte dal tragico destino che matura per lui solo dopo il ritorno e non sarebbe maturato se egli fosse rimasto in terra luterana, come, quasi sempre, dal passaggio dalla Francia in Germania, cioè dal giugno 1586

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in poi. Del resto il Bruno accusava di non star bene; aveva, quando ritornò in Italia, solo quarantatre anni, ma la vita agitatissima e quel suo modo precipitoso di scrivere, di dettare, di concepire lo avevano logorato non poco: se fosse morto di morte naturale in Germania, prima di ritornare in Italia, egli sarebbe pur sempre l'esule - l'uomo costretto all'esilio da un paese dove non si riconosceva libertà di pensiero speculativo e di vita conforme soltanto a quel pensiero - ma non sarebbe l'ucciso, l'arso vivo. La coscienza italiana compiangerebbe l'esule: ancora parteggerebbe per l'esiliato contro gli esilianti, ma non sarebbe cosi acutamente punta dal dolore d'aver lasciato uccidere quel suo figlio e dal desiderio di fare, almeno ora, quanto può per condannare moralmente gli uccisori e circondare di un vindice amore l'ucciso. Prendiamo, dunque, l'esule, e studiamo quale ci appare la sua figura. Fu detto che dappertutto egli era un reietto: non è esatto, perché da Ginevra in poi - i viaggi, e i brevi soggiorni nell'Italia del nord dopo la fuga da Roma, son tentativi che il Bruno fa di trovare· una nuova via, non volendo ritornare nei conventi domenicani ed esservi processato d'eresia; ma, durante quei viaggi e soggiorni, un po' lascia, un po' riprende l'abito, e non si separa dallo scapolare, tanto è ancora incerto su quel che gli conviene fare o tentare - da Ginevra in poi, dunque, adattatosi o risoltosi a cercar appoggio nelle chiese protestanti a costo d'iscrivervisi e vivere, se necessario, nella loro disciplina, il Bruno non è reietto dalle comunità a cui chiede di partecipare. Esse lo accolgono, spesso ammettendolo a studiar teologia secondo l'insegnamento riformato. Quando il Bruno entra nelle comunità protestanti, il suo atteggiamento non è deciso: come non era deciso quando viveva nei conventi domenicani, «celebrando messa e li divini offizi », ma dando molto ascolto alle idee protestanti che sapevano giungere anche li, e d'altra parte elaborando una propria «filosofia» nella quale il cristianesimo, riformato o no, era contato come un semplice momonto della verità universalmente razionale. Non era deciso l'atteggiamento del Bruno nelle comunità protestanti, perché, da una parte, tra il cattolicesimo che lo processava e il protestantesimo che gli permetteva di cominciar vita nuova, egli stava senz'altro per «i più riformati riti»; ma, dall'altra parte, se egli era uscito di convento, l'aveva fatto con la mente e l'animo alla «nolana :filosofia»: alla quale, di nuovo, o il cristianesimo prote-

INTRODUZIONE

s

stante s'affrettava ad adattarsi, o il Bruno lasciava la Riforma tal quale come aveva lasciato la Chiesa cattolica. Che l'adesione alle confessioni protestanti fosse, da parte del Bruno, un sincero preferirle alla Chiesa cattolica, ma fosse accompagnata da un'altrettanto sincera richiesta e rivendicazione di libertà di pensiero filosofico pur in seno alle comunità riformate, non meno che, un tempo, nella Chiesa cattolica, questo, di solito, non tardava a chiarirsi, tanto nella coscienza del Bruno stesso quanto nella consapevolezza dei capi delle Chiese protestanti a cui il Bruno s'era iscritto. E da parte del Bruno si delineava già di fronte ai pastori riformati l'atteggiamento che fu poi il suo nell'ultimo e tragico scontro con la Chiesa cattolica: egli, cioè, non solo riteneva e affermava d'aver ragione lui, non i pastori; ma asseriva che erano i pastori- come, poi, i teologi del Santo Uffizio - gli ignoranti incapaci di comprendere il vero e profondo significato del cristianesimo, quindi il suo accordo con la (< nolana filosofia». Mentre il Bruno, accusato, insisteva nell'accusare, e criticare aspramente, i suoi accusatori e giudici, questi si rendevano chiaro conto dell'incompatibilità della posizione di lui con la vita della comunità riformata che, a sua domanda, lo aveva accolto: e l'esule riprendeva le sue peregrinazioni, non tanto eroe e poi indiato dalla dea. 2. Ofiulco: invece di « Ofiuco », voce corrispondente alla latina Anguitenens e all'italiano e, Serpentaro » o « Serpentauro 11. Questa costellazione ha figura di un uomo che tiene un serpente, e fu mutato in essa Esculapio. 3. Eusche111ia: sbaglio del Bruno per II Eufemia 11, 4. bagattelle: giuochi di prestigio o altri trattenimenti da fiera. 5. Facete: lezione incerta. Probabilmente allude a Venere Afacite, venerata ad Afaca presso Eliopoli: cfr. PAULIW1ssowA, 1, 2709. 6. per aver . .. di Pafo: il mito dei pesci che, avendo trovato nel limo dell'Eufrate un uovo di singolare grandezza. lo spinsero a riva, onde fosse covato poi dalla colomba e se ne dischiudesse Venere, è di origine babilonese. 7. scrimir: agitar le armi come nella scherma. 8. Jrascarie: nullaggini, meriti di niun conto.

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GIORDANO BRUNO

appresso la Idra, la Tassa ed il Corvo, che ottegnono quarant'ed una stella, per memoria di quel, che mandaro una volta gli dèi il Corvo a prender l'acqua da bere; il qual per il camino vedde un fico, ch'avea le fiche o gli fichi (perché l'uno e l'altro geno è approvato da grammatici, dite come vi piace): per gola quell'ucello aspettò che fussero maturi, de quali al fine essendosi pasciuto, si ricordò de l'acqua; andò per empir la lancella,1 veddevi il dragone, abbe paura, e ritornò con la giarra vota agli dèi. Li quali, per far chiaro quanto hanno ben impiegato l'ingegno ed il pensiero, hanno descritta in cielo questa istoria di sl gentile ed accomodato servitore. Vedete quanto bene abbiamo speso il tempo, l'inchiostro e la carta. La Corona austrina, che sotto l'arco e piedi di Sagittario si vede ornata di tredeci topacii lucenti, chi l'ha predestinata ad essere eternamente senza testa? Che bel vedere volete voi che sia di quel pesce Nozio, sotto gli piedi d'Aquario e Capricorno, distinto in dodici lumi, con sei altri che gli sono in circa? De l' Altare, o turribulo o fano o sacrario, come vogliam dire, io non parlo; perché giamai li convenne cossì bene d'essere in cielo, se non ora, che quasi non ha dove essere in terra; ora vi sta bene, come una reliquia, o pur come una tavola della sommersa nave de la religion e colto di noi. Del Capricorno non dico nulla/1 perché mi par dignissimo d'ottenere il cielo, per averne fatto tanto beneficio, insegnandoci la ricetta, con cui potessimo vencere il Pitone; perché bisognava, che gli dèi si trasformassero in bestie, se volevano aver onor di quella guerra: e ne ha donata dottrina, facendoci sapere che non si può mantener superiore chi non si sa far bestia. 3 Non parlo de la Vergine; perché, per conservar la sua verginità, in nessun loco sta sicura se non in cielo, avendo da qua un Leone e da là un Scorpione per sua guardia. La poverina è fuggita da terra, perché l'eccessiva libidine de le donne, le quali, quanto più son pregne, tanto più sogliono appetere il coito, fa che non sia sicura di non esser contaminata, anco se si trovasse nel ventre 1. [ancella: bacinella. 2. Del Capricorno ... nr,lla: anche il Capricorno fu deificato e incielato per avere sostenuto Giove nella lotta contro i Titani. 3. non si può . .. bestia: la dottrina che ravvisa in un cotale grado di rifiuto dell'umanità la condizione necessaria della potenza è il fondo di questo e di altrettali miti, anche secondo il noto luogo del Machiavelli nel cap. 18 del Principe.

SPACCIO DB LA BESTIA TRIONFANTE

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de la madre; perb goda i suoi vintisei carbuncoli 1 con quelli altri sei, che li sono attorno. Circa l'intemerata maestà di que' doi Asini che luceno nel spacio di Cancro, non oso dire, perché di questi massimamente per dritto e per raggione è il regno del cielo: come con molte efficacissime raggioni altre volte mi propono di mostrarvi, perché di tanta materia non ardisco parlare per modo di passaggio. Ma di questo sol mi doglio e mi lamento assai, che questi divini animali sieno stati si avaramente trattati, non facendogli essere, come in casa propria, ma nell'ospizio di quel retrogrado animale aquatico, e non munerandoli2 più che de la miseria di due stelle, donandone una a l'uno e l'altra all'altro; e quelle non maggiori che de la quarta grandezza. De l'Altare, dunque, Capricorno, Vergine ed Asini (benché prendo a dispiacere ch'ad alcuni di questi non essendo lor trattati secondo la dignità, in loco di essere fatto onore, forse gli è stato fatta ingiuria) or al presente non voglio definir cosa alcuna; ma tomo a gli altri suppositi, che vanno per la medesima bilancia con gli sopradetti. Non volete voi che murmurino gli altri fiumi, che sono in terra, per il torto che gli vien fatto ? Atteso che, qual raggion vuole che più tosto l'Eridano deve aver le sue trenta e quattro lucciole, che si veggono citra ed oltre il tropico di Capricorno, più tosto che tanti altri non meno degni e grandi, ed altri più degni e maggiori? Pensate che basta dire che le sorelle di Fetone v'abbiano la stanza ?3 O forse volete che vegna celebrato, perché ivi per mia mano cadde il fulminato figlio d'Apollo, per aver il padre abusato del suo ufficio, grado ed autoritade? Perché il cavallo di Bellerofonte è montato ad investirsi de vinti stelle in cielo, essendo che sta sepolto in terra il suo cavalcatore? A che proposito quella saetta, che per il splendor di cinque stelle, che tiene inchiodate, luce4 prossima a l'Aquila e Delfino? Certo, che se gli fa gran torto che non stia vicina al Sagittario a fin che se ne possa servire, quando arrà tirato quella che tiene in punta; o pur non appaia in parte dove possa rendere qualche raggioo di sé. Appresso bramo intendere, tra il spoglio del Leone 1. carbuncoli: sorta di gemme. 2. mimerandoli: regalandoli (latinismo). 3. Pensate . •. stan~a?: le sorelle di Fetonte, piangendo la sventura toccata all'incauto guidatore del cocchio solare, furono mutate in pioppi lungo le rivè del fiume. 4. luce: riluce, splende.

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e la testa di quel bianco e dolce Cigno, che fa quella lira fatta di corna di bue in forma di testugine? Vorrei sapere, se la vi dimore per onor de la testugine, o de le _corna, o de la lira, o pur perché ognun veda la mastria di Mercurio che l'ha fatta, 1 per testimonio de la sua dissoluta e vana iattanzia? Ecco, o dèi, l' opre nostre; ecco le egregie nostre manifatture, con le quali ne rendemo onorati al cielo! Vedete che belle fabriche, non molto dissimili a quelle che sogliono far gli fanciulli, quando contrattano la luta, 2 la pasta, le miscuglie, 3 le frasche e festuche, tentando d'imitare l'opre di maggiori! Pensate, che non doviamo render raggiane e conto di queste? Possete persuadervi, che de l'opre ociose sarremo meno richiesti, interrogati, giudicati e condannati, che dell'ociose paroli? La dea Giustizia, la dea Temperanza, la dea Constanza, la dea Liberalitade, la dea Pazienza, la dea Veritade, la dea Mnemosine, la dea Sofia e tante altre dee e dèi vanno banditi non solo dal cielo, ma ed oltre da la terra; ed in loco loro e ne gli eminenti palaggi, edificati da l'alta Providenza per residenza loro, vi si veggono delfini, capre, corvi, serpenti ed altre sporcarie, levitadi, capricci e legerezze. Se vi par questa cosa inconveniente, e ne tocca il rimorso de la conscienza per il bene che non abbiam fatto; quanto più dovete meco considerare che doviamo esser punti e trafitti per le gravissime sceleraggini e delitti, che comessi avendono, non solamente non ne siamo ripentiti ed emendati, ma oltre ne abbiamo celebrati triomfi e drizzati come trofei, non in un fano labile e ruinoso, non in tempio terrestre, ma nel cielo e nelle stelle eterne. Si può patire, o dèi, e facilmente si condona a gli errori, che son per fragilità, e per non molto giudiciosa levità; ma qual misericordia, qual pietade può rivoltarsi a quelli, che son commessi da color che, essendono posti presidenti nella giustizia, in mercede di criminalissimi errori, contribuiscono maggiori errori con onorare, premiar ed essaltar al cielo gli delitti insieme con gli delinquenti? Per qual grande e virtuoso fatto Perseo -'av'ottenute vintesei stelle? Per aver con gli talari e scudo di cristallo, che lo rendeva invisibile, in serviggio de l'infuriata Minerva ammazzate le Gorgoni che dormivano, e presentatogli il capo di Medusa. E non ha bastato 1. l'ha fatta: secondo il mito, Mercurio fanciullo costrul la prima lira tendendo minugia sopra la corazza di una tartaruga, e la barattò poi colla verga di Apollo. 2. iuta: fango. 3. miscuglie: miscele.

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che vi fusse lui, ma per lunga e celebre memoria bisognava che vi comparisse la moglie Andromeda con le sue vintitré, il suo genero Cefeo 1 con le sue tredeci, che espose la figlia innocente alla bocca del Ceto2 per capriccio di Nettuno, adirato solamente perché la sua madre Cassiopea pensava essere più bella che le Nereidi. E però anco la madre vi si vede residente in catedra, ornata di tredeci altre stelle ne' confini de l'Artico circolo. Quel padre di agnelli3 con la lana d'oro, con le sue diece ed otto stelle, senza l'altre sette circonstanti, che fa balando4 sul punto equinoziale? È forse ivi per predicar la pazzia e sciocchezza del re di Colchi, l'impudicizia di Medea, la libidinosa temeritade di Giasone 5 e l'iniqua providenza di noi altri? Que' doi fanciulli, che nel signifero succedeno al Toro, compresi da diece e otto stelle, senza altre sette circonstanti informi,6 che mostrano di buono o di bello in quella sacra sedia, eccetto che il reciproco amore di doi bardassi ?7 Per qual raggione il Scorpione ottiene il premio di venti ed una stelle, senza le otto che son ne le chele, 8 e le nove che sono circa lui, e tre altre informi? Per premio d'un omicidio ordinato dalla leggerezza ed invidia di Diana, che gli fece uccidere l'emulo cacciator Orione. Sapete bene che Chirone con la sua bestia ottiene nella australe latitudine del cielo sessanta e sei stelle per esser stato pedante di quel figlio, 9 che nacque dal stupro di Peleo e Teti. Sapete che la corona di Ariadna, nella quale risplendeno otto stelle, ed è celebrata là, avanti il petto di Boote e le spire de l'angue, non v'è se non in commemorazione perpetua del disordinato amor del padre Libero, che s'imbracciò la figlia del re di Creta, rigettata dal suo stuprator Teseo. Quel Leone, che nel core porta il basilisco, e che ottiene il campo di trenta e cinque stelle, che fa continuo 10 al Cancro? Evi forse per esser gionto a quel suo conmilitone e suo conservo de l'irata Giunone, che lo apparecchiò vastatore del Cleoneo paese, a fine che, a mal grado di quello, aspetasse l'advenimento del suo genero Cefeo: in realtà Cefeo era suocero di Perseo. 2. Ceto è il mostro marino, cui fu esposta Andromeda. 3. padre di agnelli: intende il segno zodiacale dell'Ariete. 4. balando: belando (latinismo). 5. È forse . .. Giasone: allusione alla gesta degli Argonauti per la conquista del vello aureo dell'Ariete. 6. informi son dette le stelle che si aggregano a una costellazione, ma non entrano a costituirne la figura. 7. bardassi: effeminati, sodomiti. 8. chele: branche. 9. quel figlio: Achille. 10. continuo: immediatamen(e vicino. I.

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strenuo Alcide?' Ercole invitto, laborioso mio figlio, che col suo spoglio di leone e la sua n1azza par che si difenda le vinti ed otto stelle, quali con più che mai altri abbia fatto tanti gesti eroici s'ha meritate, pure, a dire il vero, non mi par conveniente che tegna quel loco, onde il suo geno pone avanti gli occhi della giustizia il torto fatto al nodo coniugale della mia Giunone per me e per la pellice Megara, 2 madre di lui. La nave di Argo, nella quale sono inchiodate quarantacinque risplendenti stelle, ne l'ampio spacio vicino al circolo Antartico, evi ad altro fine che per eternizare la memoria del grande errore che commese la saggia Minerva, che mediante quella instituì gli primi pirati a fine che, non meno che la terra, avesse gli suoi solleciti predatori il mare? E per tornar là dove s'intende la cintura del cielo, 3 perché quel Bove, verso il principio del zodiaco, ottiene trenta e due chiare stelle, senza quella ch'è nella punta del corno settentrionale, ed undeci altre che son chiamate informi? Per ciò che è quel Giove (oimè!) che rubbò la figlia ad Agenore, la sorella a Cadmo.4 Che Aquila è quella che nel firmamento s'usurpa l'atrio di quindeci stelle, oltre Sagittario, verso il polo? Lasso, è quel Giove che ivi celebra il trionfo del rapito Ganimede e di quelle vittoriose fiamme ed amori. Quella Orsa, quella Orsa, o dèi, perché nella più bella ed eminente parte del mondo, come in una alta specola, come in una più aprica piazza e più celebre spettacolo, che ne l'universo presentar si possa a gli occhi nostri, è stata messa? Forse a fine che non sia occhio, che non veda l'incendio ch'assalse il padre de gli dèi appresso l'incendio de la terra per il carro di Fetonte, quando in quel mentre ch'andavo guardando le ruine di quel fuoco, e riparando a quelle con richiamare i fiumi che timidi e fugaci erano ristretti a le caverne, e ciò effettuando nel mio diletto Arcadio paese: ecco, altro fuoco m'accese il petto, che dal splendor del volto de la vergine N onacrina5 procedendo, passommi per gli occhi, scorsemi nel core, scaldommi l'ossa e penetrommi dentro le midolla; di sorte che non fu acqua né remedio che potesse dar soccorso e refrigerio all'incendio mio. 1. aspetasse . .. Alcide: il leone che devastava le terre di Nemea e Cleona fu ucciso da Ercole nella sua prima fatica. 2. la pellice Megara: l'adultera Alcmena. Sembra che M egara valga a megarica •· Ma Alcmena era di Micene non di Megara; onde potrebbe essere lapsus delle stampe per •Megera•· 3. dove .•. cielo: dove si stende la fascia celeste dello Zodiaco. 4. la figlia . .. Cadmo: Europa era figlia di Agenore e sorella di Cadmo. 5. Nonacrina: dal monte Nonacri in Arcadia, dove Callisto faceva dimora.

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In questo foco fu il strale che mi trafisse il core, il laccio che mi legò l'alma, e l'artiglio che mi tolse a me e diemmi in preda alla beltà di lei. Commesi il sacrilego stupro, violai la compagnia di Diana1 e fui a la mia fidelissima consorte ingiurioso; per la quale in forma e specie d'una Orsa presentandomise la bruttura del fedo2 eccesso mio, tanto si manca che da quella abominevol vista io concepesse orrore, che si bello mi parve quel medesimo mostro e si mi soprapiacque, che volsi ch'il suo vivo ritratto fusse essaltato nel più alto e magnifico sito de l'architetto del cielo: quell'errore, quella bruttezza, quell'orribil macchia che sdegna ed abomina lavar l'acqua de l'Oceano, che Teti, per tema di contaminar l'onde sue, non vuol che punto s'avicine verso la sua stanza,3 Dictinna4 l'ha vietato l'ingresso di suoi deserti per tema di profanar il sacro suo collegio, e per la medesima caggione gli niegano i fiumi le Nereidi e Ninfe. Io, misero peccatore, dico la mia colpa, dico la mia gravissima colpa, in conspetto de l'intemerata absoluta giustizia, e vostro, che sin al presente ho molto gravemente peccato, e per il mal essempio ho porgiuta ancor a voi permissione e facultà di far il simile; e con questo confesso che degnamente io insieme con voi siamo incorsi il sdegno del fato, che non ne fa più essere riconosciuti per dèi, e mentre abbiamo a le sporcarie de la terra conceduto il cielo, 5 ha dispensato ch'a noi fussero cassi gli tempii, imagini e statue, ch'avevamo in terra; a fine che degnamente da alto vegnano depressi quelli, quali indegnamente han messe in alto le cose vili e basse. Oimè, dèi, che facciamo? che pensiamo? che induggiamo? Abbiamo prevaricato, siamo stati perseveranti ne gli errori, e veggiamo la pena gionta e continuata con l'errore. Provedemo, dunque, provedemo a' casi nostri; perché, come il fato ne ha negato il non posser cadere, cossì ne ha conceduto il possere risorgere; però come siamo stati pronti al cascare, cossì anco siamo apparecchiati a rimetterci su gli piedi. Da quella pena nella quale mediante l'errore siamo incorsi, e peggior della quale ne potrebe 1. la compagnia di Diana: Callisto era infatti sacerdotessa di Diana. 2.fedo: turpe. 3. quell'errore .•. stanza: la costellazione dell'Orsa non toccando mai l'orizzonte, si favoleggiava che gli dèi marini aborrissero il suo contatto. 4. Dictinna: Diana. 5. abbiamo . •. cielo: abbiamo ammesso nel ciclo le immondezze della terra. JZ

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sopravenire, mediante la riparazione, che sta nelle nostre mani, potremo senza difficultade uscire. Per la catena de gli errori siamo avinti; per la mano della giustizia ne 1 disciogliamo. Dove la nostra levità ne ha deprimuti, indi bisogna che la gravità ne inalze. 2 Convertiamoci alla giustizia, dalla quale essendo noi allontanati, siamo allontanati da noi stessi; di sorte che non siamo più dèi, non siamo più noi. Ritorniamo dunque a quella, se vogliamo ritornare a noi. L'ordine e maniera di far questo riparamento è che prima togliamo da le nostre spalli la grieve soma d' errori che ne trattiene; rimoviamo d'avanti gli nostri occhi il velo de la poca considerazione, 3 che ne impaccia; isgombramo dal core la propria affezione, che ne ritarda; gittiamo da noi tutti que' vani pensieri che ne aggravano; adattiamoci a demolire le machine di errori ed edificii di perversitade che impediscono la strada ed occupano il camino; cassiamo ed annulliamo, quanto possibil fia, gli trionfi e trofei di nostri facinorosi gesti, a fine che appaia nel tribunal della giustizia verace pentimento di commessi errori. Su, su, o dèi, tolgansi dal cielo queste larve, statue, figure, imagini, ritratti, processi ed istorie de nostre avarizie, libidini, furti, sdegni, dispetti ed onte. Che passe, che passe questa notte atra e fosca di nostri errori, perché la vaga aurora del novo giorno de la giustizia ne invita; e disponiamoci di maniera tale al sole, eh' è per uscire, che non ne discuopra cossì come siamo immondi. Bisogna mondare e renderci belli ; non solamente noi, ma anco le nostre stanze e gli nostri tetti fia mestiero che sieno puliti e netti: doviamo interiore- ed esteriormente ripurgarci. Disponiamoci, dico, prima nel cielo che intellettualmente è dentro di noi, e poi in questo sensibile che corporalmente si presenta a gli occhi. Togliemo via dal cielo de l'animo nostro l'Orsa della difformità, la Saetta de la detrazione, l'Equicolo4 de la leggerezza, il Cane de la murmurazione, la Canicola de l'adulazione. Bandiscasi da noi l'Ercole de la violenza, la Lira de la congiurazione, il Triangolo de l'impietà, il Boote de l'inconstanza, il Cefeo de la durezza. Lungi da noi il Drago de l'invidia, il Cigno de l'imprudenza, la Cassiopea de la vanità, l'Andromeda de la desidia, il Perseo della vana sollecitudine. Scacciamo l'Ofiulco de la maldizione, l'Aquila de l'arroganza, il 1. ne disciogliamo: ce ne disciogliamo. 2. Dove . .. inalze: nota l'antitesi e il paradosso. 3. ri,noviamo ... considerazione: il difetto di riflessione offusca il giudizio. 4. l 1Equicolo: il Cavallo.

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Delfino de la libidine, il Cavallo de l'impacienza, l'Idra de la concupiscenza. Togliemo da noi il Ceto 1 de l'ingordiggia, l'Orione de la fierezza, il Fiun1e de le superfluitadi, la Gorgone de l'ignoranza, la Lepre del vano timore. Non ne sia oltre dentro il petto l'Argonave de l'avarizia, la Tazza de l'insobrietà, la Libra de l'iniquità, il Cancro del mal regresso, il Capricorno de la decepzione. Non fia che ne s,avicine il Scorpio de la frode, il Centauro de la animale affezione, l'Altare de la superstizione, la Corona de la superbia, il Pesce de l'indegno silenzio. Con questi caggiano gli Gemini de la mala familiaritade, il Toro de la cura di cose basse, l'Ariete de l'inconsiderazione, il Leone de la Tirannia, l'Aquario de la dissoluzione, la Vergine de l'infruttuosa conversazione, il Sagittario de la detrazione. Se cossì, o dèi, purgaremo la nostra abitazione, se cossì renderemo novo il nostro cielo, nove saranno le costellazioni ed influssi, nove l'impressioni, nove fortune; perché da questo mondo superiore pende il tutto, e contrarii effetti sono dependenti da cause contrarie. O felici, o veramente fortunati noi, se farremo buona colonia2 del nostro animo e pensiero! A chi de voi non piace il presente stato, piaccia il presente conseglio. Se vogliamo mutar stato, cangiamo costumi. Se vogliamo che quello sia buono e megliore, questi non sieno simili o peggiori. Purghiamo l'interiore affetto, atteso che da l'informazione di questo mondo interno non sarà difficile di far progresso alla riformazione di questo sensibile ed esterno.3 La prima purgazione, o dèi, veggio che la fate, veggio che l'avete fatta; la vostra determinazione io la veggio; ho vista la vostra determinazione, la è fatta; ed è subito fatta, perché la non è soggetta a' contrapesi del tempo.4 Or su, procediamo alla seconda purgazione. Questa è circa l'esterno, corporeo, sensibile e locato. Però bisogna che vada con certo discorso, successione ed ordine; però bisogna aspettare, conferir una cosa con l'altra, comparar questa raggione con quella, prima che determinare; atteso che circa le cose corporali, come in tempo è la disposizione, 5 cossì non può essere, come in uno instan1. Ceto: Balena. 2. colo11ia: qui quasi «coltivazione•, «coltura•· 3. atteso ... esterno: dopo che questo mondo interno sarà informato datla verità e dalla virtù, non sarà difficile ecc. 4. La prima .•• tempo: la deliberazione degli dèi ha effetto istantaneo che non può essere ritardato dalle difficoltà frapposte dal tempo all'esecuzione degli arbitrii umani. 5. atteso • • . disposizione: le cose corporee hanno un ordine temporale.

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te, l'essecuzione. Eccovi dunque il termine di tre giorni, dove non avete da decidere e determinare infra di voi, se questa riforma si debba fare o non; perché per ordinanza del fato, subito che vi l'ho proposta, insieme l'avete giudicata convenientissima, necessaria ed ottima; e non in segno esteriore, figura ed ombra, ma realmente ed in verità veggio il vostro affetto, come voi reciprocamente vedete il mio; e non men subito ch'io v'ho tocco l'orecchio col mio proponimento, voi col splendor del consentimento vostro m'avete tocchi gli occhi. Resta dunque che pensiate e conferite infra di voi circa la maniera, con cui s'ha da provedere a queste cose che si toglieno dal cielo, per le quali fia mestiero procacciare ed ordinar altri paesi e stanze; ed oltre, come s'hanno da empire queste sedie a fin che il cielo non rimagna deserto, ma megliormente colto ed abitato che prima. Passati che saranno gli tre giorni, verrete premeditati1 in mia presenza circa loco per loco e cosa per cosa, acciò che, non senza ogni possibile discussione, conveniamo il quarto giorno a determinare e pronunziar la forma di questa colonia.a Ho detto. Cossì, o Saulino, il padre Giove toccò l'orecchio, accese il spirto e commosse il core del Senato e Popolo celeste, che lui medesimo apertamente ne' volti e gesti s'accorse, mentre orava, che nella mente loro era conchiuso e determinato quel tanto che da lui lor venia proposto. Avendo dunque fatta la ultima clausula ed imposto silenzio al suo dire il gran Patriarca degli dèi, tutti con una voce e con un tuono dissero: - Molto volentieri, o Giove, consentemo d'effettuar quel tanto che tu hai proposto e veramente ha predestinato il fato. - Qua succese3 il fremito de la moltitudine, qua apparendo segno d'una lieta risoluzione, là d'un volenteroso ossequio, qua d'un dubio, là d'un pensiero, qua un applauso, là un scrollar di testa di qualche interessato, ivi una specie di vista, e quivi un'altra,4 sin tanto che, gionta l'ora di cena, chi da questo lato si retirò, e chi da quell'altro. SAUL. Cose di non poco momento, o Sofia!

1.

premeditati: dopo aver premeditato (participio attivo).

2.

acdò •••

eolonia: tutte le costellazioni che colonizzavano il cielo, dovranno far colonia altrove. 3. succese: successe. 4. qua apparendo . .. un'altra: gli dèi hanno varii aspetti a seconda dell'interiore pensiero.

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TERZA PARTE DEL PRIMO DIALOGO

Venuto il quarto giorno, ed essendo appunto l'ora di mezo di, convennero di bel novo al conseglio generale, dove non solamente fu lecito d'esser presenti gli prefati numi più principali, ma oltre tutti quelli altri, ai quali è conceduto, come per lege naturale, il cielo. Sedente dunque il Senato e Popolo de gli dèi, e con il consueto modo essendo montato sul solio di safiro inorato Giove, con quella forma di diadema e manto con cui solamente ne gli sollennissimi concilii suol comparire, rassettato il tutto, messa in punto d'attenzion la turba, ed inditto alto silenzio, di maniera che gli congregati sembravano tante statue o tante pitture; si presenta in mezzo con gli suoi ordini, insegna 1 e circonstanze il mio bel nume Mercurio. E gionto avanti il conspetto del gran padre, brevemente annunziò, interpretò ed espose quel che non era a tutto il conseglio occolto, ma che, per servar la forma e decoro de statuti, bisogna pronunziare. Cioè come gli dèi erano pronti ed apparecchiati senza simulazione e dolo, ma con libera e spontanea voluntade, ad accettare e ponere in esecuzione tutto quello che per il presente sinodo verrebe conchiuso, statuto ed ordinato. Il che avendo detto, si voltò a gli circonstanti dèi, e gli richiese che con alzar la mano facessero aperto e ratificato quel tanto ch'in nome loro aveva esposto in presenza de l'altitonante. E cossì fu fatto. Appresso apre la bocca il magno protoparente, e fassi in cotal tenore udire: - Se gloriosa, o dèi, fu la nostra vittoria contra gli giganti, che in breve spacio di tempo risorseroa contra di noi, che erano nemici stranieri ed aperti, che ne combattevano solo da l'Olimpo, e che non possevano né tentavano altro che de ne precipitar dal cielo; quanto più gloriosa e degna sarà quella di noi stessi, li quali fummo contra lor vittoriosi? Quanto più degna, dico, e gloriosa è quella di nostri affetti, che tanto tempo han trionfato di noi, che sono nemici domestici ed interni che ne tiranneggiano da ogni lato, e che ne hanno trabalsati e smossi da noi stessi? Se dunque di festa degno ne ha parso quel giorno che ne partorì vittoria tale di quale il frutto in un momento disparve, SOF.

J.

insegna: le insegne (latino insignia).

z. risorsero: insorsero.

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quanto più festivo dev'essere questo di cui la fruttuosa gloria sarà eviterna 1 per gli secoli futuri? Séguite, dunque, d'essere festivo il giorno de la vittoria; ma da quel che2 si diceva de la vittoria de giganti, dicasi de la vittoria de gli dèi, perché in esso abbiamo vinti noi medesimi. Instituiscasi oltre festivo il giorno presente nel quale si ripurga il cielo, e questo sia più sollenne a noi, che abbia mai possuto essere a gli Egizii la trasmigrazione del popolo leproso,3 ed a gli Ebrei il transito dalla Babilonica cattivitade. Oggi il morbo, la peste, la lepra si bandisce dal cielo a gli deserti ;4 oggi vien rotta quella catena di delitti e fracassato il ceppo de gli errori, che ne ubligano al castigo eterno. Or dunque, essendo voi tutti di buona voglia per procedere a questa riforma, ed avendo, come intendo, tutti premeditato il modo con cui si debba e possa venire al fatto; acciò che queste sedie non rimagnano disabitate, ed agli trasn1igranti5 sieno ordinati luoghi convenienti, io cominciarò a dire il mio parere circa uno per uno; e prodotto che sarà quello, se vi parrà degno d'essere approvato, ditelo; se vi sembrarà inconveniente, esplicatevi; se vi par che si possa far meglio, dechiaratelo; se da quello si deve togliere, dite il vostro parere; se vi par che vi si deve aggiongere, fatevi intendere; perché ognuno ha plenaria libertà di proferire il suo voto; e chiunque tace, se intende affirmare. - Qua assorsero alquanto6 tutti gli dèi, e con questo segno ratificiro la proposta. - Per dar, dunque, principio e cominciar da capo, - disse Giove - veggiamo prima le cose che sono da la parte boreale, e provediamo circa quelle; e poi a mano a mano per ordine faremo progresso sin al fine. Dite voi: che vi pare, e che giudicate di quella Orsa? - Gli dèi, alli quali toccavano le prime voci, commesero a Momo che rispondesse; il qual disse: - Gran vituperio, o Giove, e più grande che tu medesimo possi riconoscere, che nel luogo del cielo più celebre, là dove Pitagora (che intese il mondo aver le braccia, gambe, busto e testa) disse essere la parte superior di quello, alla quale è contraposto l'altro estremo 1. eviterna: la voce, nell'uso dei teologi, designa una durata senza fine, ma non del tutto esente da mutazione. Qui poco differisce nel senso da «eterna•· 2.. da quel che: mentre (avversativo). 3. popolo leproso: il popolo ebreo. 4. a gli deserti: a luoghi dove non possano nuocere ad alcuno, non trovando nessuno a cui appigliarsi. 5. agli trasmigranti: cioè alle costellazioni, che si vogliono spacciare dal cielo. 6. assorsero alquanto: cioè si levarono alquanto assentendo.

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che dice essere l'infima regione; iuxta quello che cantò un Poeta di quella setta: Hic tJertex nobis semper sublimis, at illum sub pedibus Styx atra tJidet M anesque profundi: 1

là dove gli marinaii si consultano negli devii ed incerti cam1n1 del mare, là verso dove alzano le mani tutti gli travagliati che patiscono tempeste: là verso dove ambivano gli giganti: là dove la generazion fiera di Belo facea montare la torre di Babelle: là dove gli maghi del specchio calibeo cercano gli oracoli de Floron, uno de' grandi principi de gli arctici spiriti: là dove gli Cabalisti dicono che Samaele volse inalzare il solio per farsi assomigliante al primo altitonante; hai posto questo brutto animalaccio, il quale, non con una occhiata, non con un rivoltato mustaccio,2 non con qualche imagine di mano, non con un piede, non con altra meno ignobil parte del corpo, ma con una coda (che contra 1a natura de l'orsina specie volse Giunone che gli rimanesse attaccata dietro), quasi come un indice degno di tanto luogo, fai che vegna a mostrar a tutti terrestri, maritimi e celesti contemplatori il polo magnifico e cardine del mondo. Quanto, dunque, facesti male de vi la inficcare, tanto farai bene di levarnela; e vedi di farne intendere dove la vuoi mandare, e che cosa vuoi ch'in suo loco succeda. - Vada - disse Giove - dove a voi altri pare e piace, o a gli Orsi d'Inghilterra, o a gli Orsini o Cesarini di Roma,3 se volete che stia in città a bell'aggio. - A gli claustri di Bernesi vorei che la fusse impriggionata4 - disse Giunone. - Non tanto sdegno, mia moglie; - replicò Giove - vada dove si vuole, purché sia libera e lasce quel loco nel quale, per essere la sedia più eminente, voglio che faccia la sua residenza la Veritade; perché là le unghie de la detrazione non arivano, il livore de l'invidia non avelena, le tenebre de rerrore non vi profondano. lvi starà stabile e ferma; là non sarà exagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che vanno errando per questo tempestoso pelago d'errori; ed indi si mostrarà chiaro e terso specchio di contemplazione. - Disse 1. Virgilio, Georg., 1, 242-3. 11Questo polo è rispetto a noi sempre alto, quello, invece, il fosco Stige e i Mani, che abitano nelle profondità della terra, vedono sotto i loro piedi.» 2. mrutaccio: ceffo. 3. Orsi . .. Roma: allude a famiglie e città che hanno l'orso nello stemma. 4. A ... impriggionata: la città di Bema, che ha Porso nello stemma, tiene tuttora orsi vivi entro una fossa nel mezzo della città.

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il padre Saturno: - Che farremo di quella Orsa maggiore? Propona Momo. - E lui disse: - Vada, perché la è vecchia, per donna di compagna I di quella minore giovanetta; e vedete che non gli dovegna roffiana; il che se accaderà, sia condannata ad servir a qualche mendico, che con andarla mostrando e con farla cavalcare da fanciulli ed altri simili, per curar la febre quartana ed altre picciole infirmitadi, possa guadagnar da vivere per lui e lei. - Dimanda Marte: - Che farremo di quel nostro Draggonnaccio, o Giove? - Dica Mon10 - rispose il padre. E quello: - La è una disutile bestia, e che è meglio morta che viva. Però, se vi pare, mandiamola ne l'lbernia, o in un'isola de l'Orcadi 2 a pascere. Ma guardate bene, ché con la· coda è dubio che non faccia qualche ruina di stelle con farle precipitar in mare. - Rispose Apolline: - Non dubitar, o Momo: perché ordinarò a qualche Circe o Medea, che con quei versi con gli quali si seppe addormentare quando era guardiano de le poma d'oro, adesso di nuovo insoporato sia trasportato pian pianino in terra. E non mi par che debba morire, ma si vada mostrando ovunque è barbara bellezza: perché le poma d'oro saranno la beltade, il drago sarà la fierezza, Giasone sarà l'amante, l'incanto ch'addormenta il drago, sarà che non è sì duro cor che proponendo, tempo aspettando, piangendo ed amando, e talvolta pagando, non si smuova; né sì freddo voler, che non si scalde.3

Che cosa vuoi che succeda al suo luogo, o padre? - La prudenza, - rispose Giove - la quale deve essere vicina alla Veri tade; perché questa non deve maneggiarsi, moversi ed adoperarsi senza quella, e perché l'una senza la compagnia de l'altra non è possibile che mai profitte o vegna onorata. - Ben provisto, - dissero i dèi. Soggionse Marte: - Quel Cefeo, quando era re, malamente seppe menar le braccia per aggrandir quel regno che la fortuna gli porse. Ora, non è bene che qua, in quel modo che fa, spandendo di tal sorte le braccia ed allargando i passi, si faccia cossì la piazza grande in cielo. - È bene, dunque, r. compagna: compagnia. 2. L'Ibernia è PI rlanda e le Oreadi sono le isole Orkney e Shetland. 3. non è si duro ... scalde: parodia del Tasso, Aminta, atto 1, scena I e atto v, coro.

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disse Giove - che se gli dia da bere l'acqua di Lete, a fin che si dismentiche, ponendo in oblio la terrena e celeste possessione, e rinasca un animale che non abbia né gambe né braccia. - Cossi deve essere: - soggionsero li dèi - ma che in loco suo succeda la Sofia, perché la poverina deve anch'ella participar de gli frutti e fortune de la Veritade, sua indissociabile compagna, con la quale sempre ha comunicato nelle angustie, afflizioni, ingiurie e fatiche; oltre che, se non è costei che li coadministre, non so come ella potrà essere mai gradita ed onorata. - Molto volentieri - disse Giove lo accordo, e vi consento o dèi; perché ogni ordine e raggione il vuole; e massime, perché malamente crederei aver reposta quella nel suo luogo senza questa, ed ivi non si potrebe trovar contenta, lontana della sua tanto amata sorella e diletta compagna. - De l' Arctofilace - disse Diana - che, sì ben smaltato di stelle, guida il carro, che credi, Momo, che si debba fare? - Rispose: - Per esser lui quel Arcade, frutto di quel sacrilego ventre, e quel generoso parto che rende testimonio ancora de gli orrendi furti del gran padre nostro, deve partirsi da qua: or provedete voi de la sua abitazione. - Disse Apolline: - Per esser figlio di Calisto, séguite la madre! - Soggionse Diana: - E perché fu cacciatore d'orsi, séguite la madre, con questo che non gli ficchi qualche punta di partesana 1 adosso. - Aggiunse Mercurio: - E perché vedete, che non sa far altro camino, vada pur sempre guardando la madre, la quale se ne devria ritornare all'Erimantide selve. - Cossì sarà meglio: - disse Giove - e perché la meschina fu violata per forza, io voglio riparar al suo danno, da quel loco rimettendola, se cossì piace a Giunone ancora, nella sua pristina bella figura. - Mi contento, - disse Giunone - quando prima l'arrete rimessa nel grado della sua verginità, e per consequenza in grazia de Diana. - Non parliamo più di questo per ora: - disse Giove - ma veggiamo che cosa vogliamo far succedere al luogo di costui. - Dopo fatte molte e molte discussioni: - lvi sentenziò Giove - succeda la Legge, perché questa ancora è necessario che sia in cielo, atteso che cossì questa è figlia della Sofia celeste e divina, come quell'altra2 è figlia de l'inferiore, in cui questa dea manda il suo influsso ed irradia il splendor del proprio lume, in quel mentre che va per gli deserti e luoghi partesana: sorta di lancia. è figlia della sapienza inferiore. I.

2.

quell'altra, cioè la legge umana, che

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solitarii de la terra. - Ben disposto, o Giove, - disse Pallade perché non è vera, né buona legge quella che non ha per madre la Sofia, e per padre l'intelletto razionale; e perb là questa figlia non deve star lungi da la sua madre; ed a fin che da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere ordinate appresso loro, si proveda qua in questa maniera, se cossì piace a Giove. Appresso séguita la sedia della corona Boreale, fatta di safiro, arrichita di tanti lucidi diamanti, e che fa quella bellissima prospettiva con quattro e quattro, che son otto, carbuncoli ardenti. Questa, per esser cosa fatta a basso, trasportata da basso, mi par molto degna d'esser presentata a qualche eroico prencipe, che non ne sia indegno; perb veda il nostro padre, a chi manco meno indegnamente deve essere presentata da noi. - Rimagna in cielo - rispose Giove - aspettando il tempo, in cui devrà essere donata in premio a quel futuro invitto braccio, che con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata quiete alla misera ed infelice Europa, fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, 1 che con moltiforme eresia sparge il fatai veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella. - Aggiunse Momo: - Bastarà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza ben fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere stimati religiosi grati a' dèi, e dicono che il far bene è bene, il far male è male; ma non per ben che si faccia o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e grato a' dèi; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro. 2 Vedete, dèi, se si trovò mai ribaldaria più aperta di questa, che da quei soli non è vista, li quali non veggon nulla. - Certo - disse Mercurio - colui che non conosce nulla forfantaria, non conosce questa ch'è la madre di tutte. Quando Giove istesso e tutti noi insieme proponessimo tal patto a gli uomini, deremmo essere più abominati che la morte, come quei che, in grandissimo pregiudizio del convitto umano, non siamo solleciti d'altro, che della vana gloria nostra. - Il peggio è - disse Momo - che ne infamano, dicendo che questa è instituzione de superi; e con questo che biasmano gli effetti e frutti, nominanI. gli tanti ..• mostro: allusione alla Riforma protestante nelle sue molteplici sètte. 2. dicono che il far bene ... loro: vivace riprovazione dell 'articolo fondamentale della dogmatica luterana, che cioè la salvezza sia dalla fede nuda, e che niente possano le opere.

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doli ancor con titulo di defetti e vizii. 1 Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per nessuno (perché non fanno altra opra che dir male de l'opre), tra tanto vivono de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che per essi, e che per altri hanno instituiti tempii, capelle, xeni, 2 ospitali, collegii ed universitadi; onde sono aperti ladroni ed occupatori di beni ereditarii d'altri ;3 li quali, se non son perfetti, né cossì buoni, come denno, non saranno però (come sono essi) perversi e perniciosi al mondo; ma più tosto necessarii alla republica, periti ne le scienze speculative, studiosi de la moralitade, solleciti circa l'aumentar il zelo e la cura di giovar l'un l'altro, e mantener il convitto (a cui sono ordinate tutte leggi), proponendo certi premii a' benefattori, e minacciando certi castighi a' delinquenti. Oltre, mentre dicono ogni lor cura essere circa cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch'alla consecuzion di quelle basta il solo destino, il quale è immutabile, mediante certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente gli dèi si pascano.+ Però - disse Mercurio - non gli deve far fastido, né eccitar il zelo, che alcuni credeno le opere essere necessarie; perché tanto il destino di quelli, quanto il destino loro che credeno il contrario, è prefisso, e non si cangia perché il lor credere o non credere si cangie, e sia d'una ed un'altra maniera. E per la medesima caggione essi non denno essere molesti a color che non gli credeno, e che le stimano sceleratissimi; perché non per questo che gli vegnono a credere e stimarli uomini da bene, cangiaranno destino. Oltre che, secondo la lor dottrina, non è in libertà de l' elezion loro di mutarsi a questa fede. Ma gli altri che credeno il contrario, possono giuridicamente, secondo la lor conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre, stimar gran sacrificio a gli dèi e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarle e spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili e quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma solamente que' beni che non posseano5 vorare, stranomina,rdoli . .. vizii: allusione alla tesi di Lutero che ogni sforzo del~ l'uomo verso la giustificazione sia peccato. 2. xeni: ospizi. 3. onde . .. d'altri: allusione all'incameramento dei beni ecclesiastici effettuato dai principi passati alla Riforma. 4. mediante ..• pascano: mediante la fede, per la quale sola, secondo la dottrina di Lutero, l'uomo divien grato a Dio. 5. posseano: potevano. 1.

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pazzavano ed insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a quei che s'esercitavano. - Tutti quei, ch'hanno giudicio naturale, - disse Apolline giudicano le leggi buone, perché hanno per scopo la prattica; e quelle in comparazione son megliori, che donano meglior occasione a meglior prattica: perché de tutte leggi altre son state donate da noi, altre finte 1 da gli uomini, massime per il comodo de l'umana vita; e per ciò che alcuni non veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli vien promesso e posto avanti gli occhi de l'altra vita il bene e male, premio e castigo, secondo le lor opre. 2 De tutti quanti, dunque, che diversamente credeno ed insegnano, - disse Apollo - questi soli3 son meritevoli d'esser perseguitati dal cielo e da la terra, ed esterminati come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi, orsi e serpenti, nel spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente meritarà più chi le toglierà, quanto pestilenza e ruina maggiore apportano questi che quelli. Però ben specificò Momo, che la Corona australe a colui massime si deve, il quale è disposto dal fato a togliere questa fetida sporcaria del mondo. - Bene, - disse Giove - cossì voglio, cossì determino, che sia dispensata questa corona, come raggionevolmente Mercurio, Momo ed Apolline hanno proposto, e voi altri consentite. Questa pestilenza, per essere cosa violenta e contra ogni legge e natura, certo non potrà molto durare; come possete accorgervi, ch'hanno costoro il lor destino o fato nemicissimo, perché mai crebbe il numero di questi, se non a fine di far più numerosa ruina. - È ben degno premio - disse Saturno - la corona per colui, che le toglierà via; ma a questi perversi è picciola ed improporzionata pena, che sieno solamente spenti dalla conversazion de gli uomini: però mi par oltre giusto che, lasciato ch'aranno quel corpo, appresso, per molti lustri e per più centinaia d'anni, da corpo in corpo trasmigrando per diverse vice e volte, se ne vadano ad abitar in porci, che sono gli più poltroni animali del mondo, o vero sieno ostreche marine attaccate ai scogli. 1. finte: formate. 2. e per dò . .. opre: si noti come in questo passo sembra insinuata la vanità metafisica e il significato puramente politico della credenza nell'immortalità. 3. questi soli: gli eretici protestanti negatori della libertà e del valore morale delle opere.

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- La giustizia - disse Mercurio - vuole il contrario. Mi par giusto, che per pena de l' ocio sia data la fatica. Però sarà meglio, che vadano in asini, dove ritegnano la ignoranza e si dispogliano de l'ocio; ed in quel supposito, in mercé di continuo lavore, abbiano poco fieno e paglia per cibo, e molte bastonate per guidardone. - Questo parere approviro tutti gli dèi insieme. Allora sentenziò Giove, che la corona sia eterna di colui che gli arà donata l'ultima scossa; ed essi per tremilia anni da asini sempre vadano migrando in asini. Sentenziò oltre, che in loco di quella corona particolare succedesse la ideale e comunicabile in infinito, perché da quella possano essere suscitate infinite corone, come da una lampade accesa senza sua diminuzione, e senza scemarsi punto di virtude ed efficacia, se ne accendeno infinite altre. Con la qual corona intese che fusse aggionta la spada ideale, la quale similmente ha più vero essere che qualsivoglia particolare, sussistente infra gli limiti delle naturali operazioni. Per la qual spada e corona intende Giove il giudicio universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato e castigato, secondo la misura de gli meriti e delitti. 1 Approviro molto questa provisione tutti gli dèi, per quel che conviene che alla Legge abbia la sedia vicina il Giudicio, perché questo si deve governar per quella, e quella deve esercitarsi per questo; questo deve esseguire, e quella dettare; in quella ha da consistere tutta la teoria, in questo tutta la pratica. Dopo fatti molti discorsi e digressioni in proposito di questa sedia, mostrò Momo a Giove Ercole, e gli disse: - Or, che faremo di questo tuo bastardo? - Avete udito, dèi, - rispose Giove - la caggione per la quale il mio Ercole deve andarsene con gli altri altrove. Ma non voglio che la sua andata sia simile a quella de tutti gli altri; perché la causa, modo e raggione de la sua assumpzione è stata molto dissimile, per ciò che solo e singularmente per le virtudi e meriti de gli gesti eroici s'ha meritato il cielo; e benché spurio, degno però di essere legitimo figlio di Giove s'è dimostrato. E vedete aperto, che solo la causa de l'essere adventizio, e non naturalmente dio, fa che li sia negato il cielo; ed è il mio, non suo errore quello che per lui io vegno, come è stato detto, notato. E credo, che vi rimorda la conscienza; ché t. per cui •. . delitti: anche in questo passo sembra che il Bruno neghi la vita futura come esigenza di giustizia e ponga premio e castigo nella vita presente.

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se uno da quella regola e determinazion generale' devesse essere eccettuato, questo solo derrebe essere Ercole. Però, se lo togliemo da qua e lo mandamo in terra, facciamo che non sia senza suo onore e riputazione, la quale non sia minore che se continuasse in cielo. Assorsero molti, dico, la più gran parte de gli dèi, e dissero: Con maggiore, se maggior si puote. - Instituisco, dunque, - Giove soggionse - che con questa occasione a costui, come a persona operosa e forte, sia donata tal commissione e cura, per quale si faccia dio terrestre, talmente grande, che vegna da tutti stimato maggior che quando era autenticato per celeste semideo. - Risposero que' medesimi: - Cossì sia. - E perché alcuni de quegli né erano assorti allora, né parlavano adesso, si converse Giove a loro, e gli disse, che ancor essi si facessero intendere. Però di quelli alcuni dissero : - Probamus - ; altri dissero: - Admittimus. - Disse Giunone: - Non refragamur. - Indi si mosse Giove a proferir il decreto in questa forma: - Per causa che in luoghi de la terra in questi tempi si scuoprono de mostri, se non tali quali erano a' tempi de gli antichi cultori di quella, forse peggiori; io, Giove, padre e proveditor generale, instituisco, che, se non con simile o maggior mole di corpo, dotato però ed inricchito di maggior vigilanza, di sollecitudine, vigor d'ingegno ed efficacia di spirto, vada Ercole, come mio luogotenente e ministro del mio potente braccio, in terra; e come vi si mostrò grande prima, quando fu nato e parturito in quella, con aver superati e vinti tanti fieri mostri; e secondo, quando rivenne a quella vittorioso da l'inferno, apparendo insperato consolator de gli amici, ed inaspettato vendicator de gli oltragiosi tiranni; cossì, al presente, qual nuovo e tanto necessario e bramato proveditore, vegna la terza volta visto da la madre; e discorrendo per gli tenimenti di quella, veda se di bel nuovo per le cittadi Arcadiche vada dissipando 1 qualche Nemeo leone; se il Cleoneo2 di nuovo appaia in Tessaglia. Guarde se quell'idra, quella peste di Lerne, sia risuscitata a prendere le sue teste rigermoglianti. Scorga se ne la Tracia sia di nuovo risorto quel Diomede, e chi de sangue de peregrini pascea ne l'Ebro gli cavalli. Volte l'occhio a la Libia, se forse quell'Anteo, che tante volte ripigliava il spirto, abbia pur una volta ripigliato il corpo. Considere se nel regno Ibero è qualche tricorporeo Gerione. I. dissipando: devastando. gna di Cleona.

2.

il Cleoneo: il leone che devastava la campa-

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SII

Alze il capo e veda se per l'aria a questo tempo volano le perniciosissime Stinfalidi: dico, se volano quelle Arpie che talvolta soleano annuvolar l'aria ed impedir l'aspetto de gli astri luminosi. Guate se qualch'ispido cinghiale va spasseggiando per gli Erimantici deserti. Se s'incontrasse a qualche toro, non dissimile a quello che donava orrido spavento a tanti popoli; se bisognasse far uscir a l'aria aperto 1 qualche triforme Cerbero che latre, a fin che vomisca l'aconito mortifero; se circa gli crudi altari versa qualche carnefice Busi re ;2 se qualche cerva, che di dorate corna adorna il capo, appare per que' deserti, simile a quella che con gli piedi di bronzo correa veloce, pari al vento; se qualche nova regina Amazonia ha congregate le copie3 rubelle; se qualche infido e vario Acheloo con inconstante, moltiforme e vario aspetto tiranneggia in qualche parte; se sono Esperidi ch'in guardia del drago han commese le poma d'oro; se di nuovo appare la celibe ed audace Regina del popolo Termodonzio;4 se per l'Italia va grassando qualche Lancinio ladro, o discorra qualche Cacco predatore che con il fumo e fiamn1e defenda gli suoi furti ;5 se questi, o simili, o altri nuovi ed inauditi mostri gli occorreranno, e se gli aventaranno, mentre per il spacioso dorso de la terra verrà lustrando ;6 svolte, riforme, discacce, perseguite, leghe, domi, spoglie, dissipe, rompa, spezze, franga, deprima, sommerga, brugge,7 casse,8 uccida, annulle. Per gli quai gesti, in mercé di tante e sl gloriose fatiche, ordino che ne gli luoghi dove effettuarà le sue eroiche imprese, gli sieno drizzati trofei, statue, colossi, ed oltre fani e tempii, se non mi contradice il fato. - Veramente, o Giove, - disse Momo - adesso mi pari a fatto a fatto dio da bene; perché veggio che la paternale affezione non ti trasporta a passar gli termini circa la retribuzione secondo gli meriti del tuo Alcide; il quale se non è degno di tanto, è meritevole oltre forse di qualche cosa di vantaggio, anco a giudicio di Giunone, la qual veggio che ridendo pur accetta quel ch'io dico. Ma ecco il mio tanto aspettato Mercurio, o Saulino, per cui 1. a l'aria aperto: fuor dell'inferno. 2. Busire: re d'Egitto che suppliziava i forestieri. 3. copie: schiere annate (latinismo). 4. la celibe . .. Termodonzio: Antiope o Ippolita, regina delle Amazzoni abitanti la regione del fiume Tennodonte. 5. Cacco . . . f"rti: accendendo grandi e fumosi fuochi dinnanzi alla sua caverna Caco tentò di tener lontano Ercole, che tuttavia attraversò le fiamme e uccise il mostro. 6. lustrando: visitando (latinismo). 7. brugge: bruci. 8. casse: distrugga.

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conviene che questo nostro raggionamento si differisca ad un'altra volta. Però piacciati discostarti e lasciarne privatamente raggionar . . 1ns1eme. SAUL. Bene, a rivederci domani. SOF. Ecco quello a cui ieri ho indirizzati i voti: al fine, dopo ch'ha alquanto troppo induggiato, mi si fa presente. Ieri a la sera doveano essere pervenuti a lui, questa notte ascoltati, e questa mattina exequiti dal medesimo. Se subito a la mia voce non è comparso, gran cosa lo deve aver intrattenuto; per ciò che credo non essere meno amata da lui, che da me medesima. Ecco, il veggo uscire da quella nuvola candente,1 che dal spirto d'Austro risospinta corre verso il centro del nostro orizonte, e cedendo a' lampegianti2 rai del sole s'apre in cerchio, quasi coronando il mio nobil pianeta. O sacrato padre, alta maestade, io ti ringrazio, perché veggio il mio alato nume spuntar da quel mezzo e con l'ali distese battendo l'aria, lieto col caduceo in mano, fender il cielo a la mia volta, più veloce che l'ucello di Giove, più vago che l'alite di Giunone, 3 più singulare che l'Arabica Fenice; presto mi s'è aventato vicino, gentile mi si presenta, unicamente affezionato mi si dimostra. MERC. Eccomi teco ossequioso e favorevole a gli tuoi voti, o mia Sofia, perché m'hai mandato a chiamare; e la tua orazione non è pervenuta a me qual fumo aromatico, secondo il suo costume, ma qual penetrativa e ben alata saetta di raggio risplendente. SOF. Ma tu, mio nume, che vuol dire che sì tosto, secondo il tuo costume, non mi ti sei fatto presente? MERC. Ti dirò la veritade, o Sofia. La tua orazione mi giunse a tempo ch'io ero già ritornato da l'inferno, a commettere nelle mani di Minoe, Eaco e Radamanto ducento quarantasei milia cinquecento e vinti due anime,4 che per diverse battaglie, supplicii e necessitadi hanno compito il corso de l'animazione di corpi presenti. I vi era meco la Sofia celeste, chiamata volgarmente Minerva e Pallade, la qual, al vestito ed a l'andare, subito conobbe che quella ambasciata era la tua ... 1. candente: biancheggiante, splendente (latinismo). 2. lampegianti: la grafia colla scempia è un napolitanismo. 3. l'alite di Giunone: l'uccello di Giunone è il pavone. 4. ducento ... anime: numero determinato a fantasia, ma (secondo Gentile) non senza relazione colla moria cagionata allora dalle persecuzioni religiose di Ebrei, Cattolici e Riformati, dalle epidemie e dalle guerre.

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Ben la possea conoscere, perché non meno che con te, frequentemente suole contrattar con lei. MERC. • •• E mi disse: - Volgi gli occhi, o Mercurio, ché per te viene questa ambasciaria de la nostra germana e figlia terrestre. Quella che vive del mio spirito e più di lungi, vicino alle tenebre, procede dal lume del mio padre, 1 voglio che ti sia raccomandata. - È cosa soverchia, - io li risposi - o nata del cervello di Giove, il raccomandarmi la tanto amata nostra comune sorella e figlia. - Mi approssimai, dunque, alla tua messaggera: l'abbraccio, la bacio, la metto in compendio,2 apro gli bottoni del gippone, e me l'insacco tra la camicia e la pelle, sotto la quale batte e ribatte il polso del core. Giove (il quale era presente, poco discosto, raggionando in secreto con Eolo ed Oceano, li quali erano inbottati, 3 per ritornarsene presto alli negocii suoi qua giù), vedde quel ch'io feci, e rompendo il raggionamento in cui si ritrovava, fu curioso di dimandarmi subito che memoriale quello fusse che m'avevo messo in petto; ed avendogli io risposto com'era cosa tua: - Oh la mia povera Sofia! - disse - come la passa? come la fa? Ahi poverina, da quel cartoccio, che non è troppo riccamente piegato, io comprendevo che non possev'essere altro che quel che dici. È pur gran tempo che non abbiamo avuto nova alcuna di lei. Or che cosa la dimanda? che gli manca? che ti propone? Non altro - dissi - eccetto ch'io gli sia assistente ad ascoltarla per un'ora. - Sta bene, - disse - e tornò a compire il raggionamento con que' dai dèi; e cossì poi in fretta mi chiamò a sé, dicendo: - Su, su, presto, doniamo ordine a nostri affari, prima che tu vadi a veder che vuole quella meschina, ed io a ritrovar questa mia tanto fastidiosa mogliera, che certo mi pesa più che tutta la carca de l'universo. - Subito volse (perché cossì è novamente decretato nel cielo) che di mia mano registrasse tutto quel che deve essere provisto oggi nel mondo. SOF. Fatemi, se vi piace, alquanto udire di negocii, poi che m'hai svegliata questa cura nel petto. MERC. Ti dirò. Ha ordinato, che oggi a mezzo giorno doi meloni,♦ tra gli altri, nel melonaio di Franzino sieno perfettamente SOF.

I. Quella .•. padre: la Sofia terrestre procede dal lume divino, ma è di tutte le emanazioni quella che più si dilunga da Dio e confina, digradando, colla tenebra. 2. la metto in compendio: la raccolgo in ristretto. 3. inbottati: instivalati. 4. meloni: poponi.

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maturi; ma che non sieno colti, se non tre giorni appresso, quando non saran giudicati buoni a mangiare. r Vuole ch'al medesimo tempo dalla iuiuma, 2 che sta alle radici del monte di Cicala, in casa di Gioan Bruno,3 trenta iuiomi sieno perfetti colti, e diece sette caggiano scalmati4 in terra, quindeci sieno rosi da' vermi. Che Vasta, moglie di Albenzio, mentre si vuole increspar gli capelli de le tempie, vegna, per aver troppo scaldato il ferro, a bruggiarne cinquanta sette; ma che non si scotte la testa, e per questa volta non biastemi quando sentirà il puzzo; ma con pazienza la passe. Che dal sterco del suo bove nascano ducento cinquanta doi scarafoni, 5 de quali quattordeci sieno calpestrati ed uccisi per il piè di Albenzio, vinti sei muoiano di rinversato, 6 venti doi vivano in ca~·erna, ottanta vadano in peregrinaggio per il cortile, quarantadoi si retireno a vivere sotto quel ceppo vicino a la porta, sedeci vadano isvoltando le pallotte7 per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la fortuna. A Laurenza, quando si pettina, caschino diece sette capelli, tredeci se gli rompano, e di quelli diece rinascano in spacio di tre giorni, e gli sette non rivegnano più. La cagna d'Antonio Savolino concepa cinque cagnolini, de quali tre a suo tempo vivano, e doi sieno gittati via; e di que' tre il primo sia simile a la madre, il secondo sia vario, il terzo sia parte simile al padre e parte a quello di Polidoro. In quel tempo il cuculo s'oda cantare da la Starza,8 e non faccia udire più né meno che dodici cuculate; e poi si parta, e vada a le roine del castello Cicala9 per undeci minuti d'ora, e da là se ne vole a Scarvaita; 10 Osserva che in queste lepidissime pagine il Bruno non mette in canzonatura l'idea della provvidenza, che è un punto essenziale della sua speculazione, sibbene l'immagine volgare della provvidenza, per la quale si pensa che Dio curi le singole cose con singoli, successivi e discorsivi pensieri alla maniera del corto provvedere umano, laddove tutte le cose degli infiniti mondi, sin nelle minuzie, sono provvedute con un atto unico e semplicissimo del divino intelletto. 2. iuiuma: giuggiolo. Voce dialettale napoletana. 3. Gioan Bruno: padre del filosofo. Anche gli altri nomi che occorrono in questa pagina evocano persone ben note al Bruno, viventi nella contrada di San Giovanni del Cesco, luogo natale di lui. 4. ,calmati: voce indicante la condizione del frutto che casca dall'albero innanzi maturazione. 5. scarafoni: mosconi, calabroni. 6. di rinversato: significato oscuro. Il "I{uhlenbeck, nella sua traduzione tedesca del dialogo (Leipzig, Diederichs, 1904, 111, p. 90) intende «acqua bollente versatavi sopra•, ma in realtà rinversato dicesi l'aceto forte che si usava per attirare e pren-dere le mosche. 7. isvoltando le pallotte: espressione oscena. 8. Starza: località ai piedi del monte Cicala. 9. castello Cicala: sopra Nola, già in rovina al principio del '500. 10. Scarvaita: frazione nei pressi di Nola. I.

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e di quello che deve essere appresso, provederemo poi. Che la gonna che mastro Danese taglia su la pi anca, 1 vegna stroppiata. z Che da le tavole del letto di Costantino si partano dodeci cimici, e sene vadano al capezzale: sette degli più grandi, quattro de più piccioli, uno de mediocri; e di quello che di essi ha da essere questa sera al lume di candela, provederemo. Che a quindeci minuti de la medesima ora per il moto de la lingua, la quale si varrà la quarta volta rimenando per il palato, a la vecchia di Fiurulo casche la terza mola che tiene nella mascella destra di sotto; la qual caduta sia senza sangue e senza dolore; perché la detta mola è gionta al termine della sua trepidazione, che ha perdurato a punto diece sette annue revoluzioni lunari. Che Ambruoggio nella centesima e duodecima spinta abbia spaccio ed ispedito il negocio con la mogliera, e che non la ingravide per questa volta, ma ne l'altra con quel seme in cui si convertisce quel porro cotto, che mangia al presente con la sapa3 e pane di miglio. Al figlio di Martinello cornincieno a spuntar i peli de la pubertade nel pettinale,4 ed insieme insieme comincie a gallugarli5 la voce. Che a Paulino, mentre vorrà alzar un'ago rotta6 da terra, per la forza che egli farà, se gli rompa la stringa rossa de le braghe; per la qual cosa, se bestemmiarà, voglio che sia punito appresso con questo, che questa sera la sua minestra sia troppo salita7 e sappia di fumo; caggia e se gli rompa il fiasco pieno di vino; per la qual causa se bestimmiarà, provederemo poi. Che di sette talpe, le quali da quattro giorni fa son partite dal fondo de la terra, prendendo diversi camini verso l'aria, due vegnano a la superficie de la terra nell'ora medesima, l'una al punto di mezzo giorno, l'altra a quindeci minuti e diece nove secondi appresso, discoste l'una da l'altra tre passi, un piede e mezzo dito ne l'orto di Anton Faivano. Del tempo e luogo de J>altre si provederà al più tardi. SOF. Hai molto che fare, o Mercurio, se mi vuoi raccontare tutti questi atti della provisione, che fa il padre Giove; e nel volermi tutti questi decreti particolari uno per uno far ascoltare, mi pari che sei simil a colui, che volesse prendere il conto de pianca: tavolo, banco. 2. stroppiata: sciupata, guastata. 3. sapa: sorta di mosto cotto usato per condimento. 4. pettinale: la regione del pube. 5. gallugarli: dall'incoativo gallulasco, propriamente «comincio ad esser galletto». (Ma si aspetterebbe «gallularli » anziché gallugarli che forse è refuso delle prime stampe.) Qui l'ingrossare della voce. 6. rotta: nel Napoletano il nome è femminile. 7. salita: salata. 1.

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granegli de la terra. Tu sei stato tanto a apportare quattro minuzzarie de infinite altre che nel medesimo tempo sono accadute in una picciola contrada, 1 dove son quattro o cinque stanze non troppo magnifiche; or che sarrebe, se dovessi donar conto a pieno de cose ordinate in quella ora per questa villa,2 che sta alle radici del monte Cicada? Certo, non ti bastarebbe un anno da esplicarle una per una, come hai cominciato a fare. Che credi, se oltre volessi apportar tutte le cose accadute circa la città di Nola, circa il regno di Napoli, circa l'Italia, circa PEuropa, circa tutto il globo terrestre, circa ogni altro globo in infinito, come infiniti son gli mondi sottoposti alla providenza di Giove? In vero, per apportar solo quello che è accaduto ed ordinato d'esser in uno instante, nell'ambito d'un solo di questi orbi o mondi, non ti fia mestiero dimandar cento lingue e cento bocche di ferro, come fanno gli poeti, ma mille millia migliaia de millioni in termine d'un anno, ad non averne executata la millesima parte. E per dirla, o Mercurio, non so che voglia dir questo tuo riporto, per cui alcuni de' miei coltori, chiamati filosofi, stimano che questo povero gran padre Giove sia molto sollecito, occupato ed impacciato ;3 e credeno che lui sia di tal fortuna, che non è minimo mortale che debba aver invidia al stato suo. Lascio che in quel tempo che spendeva a proponere e destinar questi effetti, necessariamente scorsero infinite volte infinite occasioni di provedere ed aver provisto ad altri; e tu, mentre me le vuoi raccontare, se volesse far l'officio tuo, devi averne fatti e farne infinite volte altri infiniti. MERC. Sai, Sofia, se sei Sofia, che Giove fa tutto senza occupazione, sollecitudine ed impacciamento, perché a specie innumerabili ed infiniti individui provede donando ordine, ed avendo donato ordine, non con certo ordine successivo, ma subito subito ed insieme insieme; e non fa le cose a modo de gli particolari efficienti, ad una ad una, con molte azioni, e con quelle infinite viene ad atti infiniti; ma tutto il passato, presente e futuro fa con un atto semplice e singulare. SOF. Io posso saper questo, o Mercurio, che non insieme insieme raccontate e mettete in execuzione queste cose, ed esse non in una picciola contrada: San Giovanni del Cesco, dove nacque il Bruno. casale di pochi fuochi. 2. flilla: Casale San Paolo. con oltre cento fuochi. 3. per cui . .. impacciato: i filosofi epicurei stimavano la provvidenza inseparabile dall'affanno e dalla fatica. Riporto vale •relazione•· 1.

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sono in un suggetto semplice e singolare: e però l'efficiente deve essere proporzionato, o almeno con l'operazione proporzionarsi a quelle. MERC. È vero quel che dici, e deve essere cossi, e non può essere altrimente nello efficiente particolare, prossimo e naturale; perché ivi, secondo la raggione 1 e misura dell'effettiva virtude particulare, séguita la misura e raggione de l'atto particolare circa il particular suggetto; ma nell'efficiente universale non è cossi, perché lui è proporzionato, se si può dir cossi, a tutto l'effetto infinito che da lui depende, secondo la raggione de tutti luoghi, tempi, modi e suggetti, e non definitamente ad certi luoghi, suggetti, tempi e modi. SOF. So, o Mercurio, che la cognizione universale è distinta dalla particolare, come il finito da l'infinito. MERC. Di' meglio: come l'unitade da l'infinito numero. E devi saper ancora, o Sofia, che la unità è nel numero infinito, ed il numero infinito nell'unità; oltre che l'unità è uno infinito implicito, e l'infinito è la unità explicita :2 appresso che dove non è unità, non è numero, né finito, né infinito; e dovunque è numero o finito o infinito, ivi necessariamente è l'unità. Questa dunque è la sustanza di quello; dunque, chi non accidentalmente, come alcuni intelletti particolari, ma essenzialn1ente, come l'intelligenza universale, conosce l'unità, conosce l'uno ed il numero, conosce il finito ed infinito, il fine e termine da compreensione ed eccesso di tutto ;3 e questo può far tutto non solo in universale, ma oltre in particolare; cossì come non è particolare che non sia compreso nell'universale, non è numero, in cui più veramente non sia l'unità, che il numero istesso. Cossì, dunque, senza difficoltà alcuna e senza impaccio Giove provede a tutte cose in tutti luoghi e tempi, come necessariamente lo essere ed unità si trova in tutti numeri, in tutti luoghi, in tutti tempi ed atomi di tempi, luoghi e numeri; e l'unico principio de l'essere è in infiniti individui, che furono, sono e saranno. Ma non è questa disputazione il fine per cui sono venuto, e per cui credo d'esser stato chiamato da te. 1. raggion,: natura, carattere. 2. oltr, eh, ... ,xplicita: per la dottrina bruniana dell'infinito implicito ed explicito vedi D, la causa, principio e uno, p. 371. 3. da compreension, ... tutto: perché comprende e oltrepassa ogni cosa. Non bene traduce il Kuhlenbeck, ed. cit. 1 p. 94 1 che intende da compr,msione ecc. come un genitivo, mentre è un ablativo di causa.

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È vero che so bene che queste son cose degne d'esser decise da miei filosofi, e pienamente intese non da me, che non le posso capire, eccetto che difficilmente in comparazioni e similitudini, ma dalla Sofia celeste e da te; ma da quel tuo raccontare son stata commossa a cotal questione, prima che venire a discorrere circa gli mei particolari interessi e dissegni. E certo mi parevi che senza ogni proposito1 tu, giudiciosissimo nume, f ussi entrato in quello discorrer di cose cossi minime e basse. MERC. Non l'ho fatto con vanità, ma con grande providenza, Sofia; perché ho giudicata necessaria questa animadversione a te, per quel che conosco, che per le molte affiiczioni sei di tal maniera turbata, che facilmente l'affetto ti vegna trasportato a voler non troppo piamente opinare circa il governo de gli dèi; il quale è giusto e sacrosanto al fin finale, benché le cose appaiono, in quella n1aniera che tu vedi, confusissime. Ho voluto dunque, prima che trattasse altro, provocarti a cotal contemplazione, per renderti sicura dal dubio che potessi aver, e forse molte volte dimostri; perché, essendo tu terrena e discorsiva, non puoi apertamente intendere l'importanza de la providenza di Giove, e del studio di noi altri suoi collaterali. SOF. Ma pure, o Mercurio, che vuol dire, che più tosto al presente, che altre volte, ti ha commosso questo zelo? MERC. Ti dirò (quello ch'ho differito di dirti sin al presente): perché il tuo voto, la tua orazione, la tua ambasciaria, benché sia gionta in cielo e pervenuta a noi veloce e presta, era però a mezza estade agghiacciata, era irresoluta, era tremante, quasi più gittata come alla fortuna che inviata e comn1essa come a la providenza: quasi che era dubia, se la possea aver effetto di toccarne !'orecchie, come di quelli che sono attenti a cose che son stimate più principali. Ma te inganni, Sofia, se pensi, che non ne sieno a cura cossì le cose minime, come le principali, talmente sicome le cose grandissime e principalissime non costano2 senza le minime ed abiettissime. Tutto dunque, quantunque minimo, è sotto infinitamente grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria in ordine del tutto ed universo è importantissima; perché le cose grandi son composte de le picciole, e le picciole de le picciolissime, e queste de gl'individui e minimi. Cossì intendo SOF.

1. proporito: qui ha il senso moderno di «intenzione•, • disegno •· stano : constano, sussistono.

2.

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de le grande sustanze, come de le grande efficacie e grandi effetti. SOF. È vero, perché non è sì grande, si magnifico e si bello architetto1 che non coste di cose che picciole, vilissime ed informi appaiono e son giudicate. MERC. L'atto della cognizion divina è la sustanza de l'essere di tutte cose; 2 e però, come tutte cose o finito o infinito hanno l'essere, tutte ancora sono conosciute ed ordinate e proviste. La cognizion divina non è come la nostra, la quale séguite dopo le cose; ma è avanti le cose3 e si trova in tutte le cose, di maniera che, se non la vi si trovasse, non sarrebono cause prossime e secondarie.• SOF. E per questo vuoi, o Mercurio, che io non mi sgomente per cosa minima o grande che mi accade, non solo come principale e diretta, ma ancora come indiretta ed accessoria; e che Giove è in tutto, e colma il tutto, ed ascolta tutto. MERC. Cossì è; però per l'avenire sovengati di scaldar più la tua ambasciaria, e non mandarla cossì negletta, mal vestita e fredda in presenza di Giove; e lui e la tua Pallade m'hanno imposto, che prima ch'io ti parlasse d'altro, con qualche desterità ti facesse accorta di questo. SOF. Io vi ringrazio tutti. MERC. Or esplica la causa per la quale m'hai fatto venire a te. SOF. Per la mutazione e cangiamento di costumi, ch'io comprendo in Giove, per quello che per altri raggionamenti ho appreso da te; io sono entrata in sicurtà di dimandargli e fargli instanza di ciò che altre volte non ho avuto ardire, quando temeva che qualche Venere o Cupido o Ganimede rigettasse e risospingesse la mia ambasciaria, quando si presentava a la porta de la camera di Giove. Adesso eh' è riformato il tutto, e che sono ordinati altri portinaii, condottieri ed assistenti, e che lui è ben disposto verso la giustizia, voglio che per tuo mezzo li vegna presentata la mia richiesta, la qual versa circa gli gran torti che mi vegnono fatti da diverse sorte di uomini in terra, e pregarlo architetto: architettura. z. L'atto ... cose: non nel senso che l'intendere divino sia formalmente l'entità delle cose, ma nel senso che è quello che le fa sussistere, il loro metafisico sostanziamento. 3. La cognizion ... cose: dottrina comune degli Scolastici, secondo i quali «scientia Dei ut causa rerum D (cfr. san Tommaso, Summa theol., p. 1, q. 14, art. 8). 4. e si trova • .. seco11darie: senza il divino pensiero che è causa delle cose, non esisterebbero le cose, che sono cause seconde. 1.

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che mi sia favorevole e propicio, secondo che la sua conscienza li dettarà. MERC. Questa tua richiesta, per esser lunga e di non poca importanza, ed anco per esser novamente decretato nel cielo, che tutte le espedizioni, 1 tanto civili quanto criminali, vegnano registrate nella camera, non senza tutte le occasioni, mezzi e circonstanze loro, però è necessario, che tu me la porghi in scritto, e cossi la presenti a Giove ed al Senato celeste. SOF. Onde questo nuovo ordine? MERC. Acciò che ognuno di gli dèi in questo modo vegna costretto a far la giustizia; perché per la registrazione che eterniza la memoria de gli atti, vengano a temer l'eterna infamia, e d'incorrere biasimo perpetuo con la condannazione che si deve aspettar dall'absoluta giustizia che regna sopra li governatori, ed è presidente sopra tutti dèi. SOF. Cossi, dunque, farò. Ma vi bisogna del tempo a pensare e scrivere; però ti priego che rivegni domani a me, o vero il prossimo seguente giorno. MERC. Non mancarò. Tu pensa a quel che fai.

FINE DEL PRIMO DIALOGO

1.

espedizioni: affari.

DIALOGO SECOND0 1 [DALLA SECONDA PARTE]

Ed ecco, mentre il padre degli dèi si volta in circa, da per se medesima impudentemente e con una non insolita arroganza si fece innante la Fortuna, e disse: - Non è bene, o dèi consulari,2 e tu, o gran sentenziator Giove, che, dove parlano e pos_sono essere tanto udite la Povertà e Ricchezza, io sia veduta come pusillanime tacere per viltade, e non mostrarmi, e con ogni raggiane risentirmi. lo, che son tanto degna e tanto potente, che metto avanti la Ricchezza, la guido e spingo dove mi pare e piace, d 'onde voglio la scaccio e dove voglio la conduco, con oprar la successione e vicissitudine de quella con la Povertade; ed ognun sa che la felicitade di beni esterni non si può riferir più alla Ricchezza, come a suo principio, che a me; sicome la beltà della musica ed eccellenza de l'armonia da qualcuno non si deve più principalmente referire alla lira ed instrumento, che a l'arte ed a l'artefice che le maneggia. Io son quella dea divina ed eccellente, tanto desiderata, tanto cercata, tanto tenuta cara, per cui per il più de le volte è· ringraziato Giove, dalla cui mano aperta procede la ricchezza, e dalle cui palme chiuse tutto il mondo plora, e si metteno sozzopra le citadi, regni ed imperii.3 Chi mai offre voti alla Ricchezza o alla Povertà ? chi le ringrazia mai ? Ognuno che vuole e brama quelle, chiama me, invoca me, sacrifica a me; chiunque viene contento per quelle, ringracia me, rende mercé alla Fortuna, per la Fortuna pone al foco gli aromati, per la Fortuna fumano gli altari. E che sono una causa, la quale quanto son più incerta tanto sono più veneranda e formidanda, e tanto son desiderabile ed appetibile quanto mi faccio meno compagna e familiare; perché ordinariamente nelle cose meno aperte, più occolte e maggiormente secrete si trova più dignità e maestade. Io che col SOF.

1. Nella parte che viene omessa seguitano tra gli dèi le dispute circa la nuova distribuzione dei seggi celesti, e si svolge gran contesa circa il luogo della Ricchezza e della Povertà. 2. consulari: cosi son chiamati gli dèi, perché stanno in giudizio, come un tempo i consoli. 3. dalle cui palme . .. ~d imperii: quando Giove fa scarseggiare agli uomini la ricchezza, il genere umano, insofferente di povertà, si agita con discordie e guerre dietro la brama dei beni temporali.

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mio splendor infosco 1 la virtude, denigroa la veritade, domo e dispreggio la maggior e meglior parte di queste dee e dèi che veggio apparecchiati e messi come in ordine per prendersi piazza in cielo; ed io che ancor qua, in presenza di tale e tanto senato, sola metto terrore a tutti ; perché (benché non ho la vista che mi serva) ho pur orecchie, per le quali comprendo, ad una gran parte de loro, battere e percuotersi gli denti per il timore che concepeno dalJa mia formidabile presenza; quantunque con tutto ciò non perdano l'ardire e presunzione di mettersi avanti, a farsi nominare, dove prima non è stato disposto della mia dignitade; che ho sovente, e più che sovente, imperio sopra la Raggione, Veritade, Sofia, Giustizia ed altri numi; li quali, se non vogliono mentire di quello che è a tutto l'universo evidentissimo, potranno dire se possono apportar computo del numero de le volte che le ho buttate giù da le catedre, sedie e tribunali loro, ed a mia posta le ho reprimute, legate, rinchiuse ed incarcerate. Ed anco per mia mercé poi ed altre volte hanno potuto uscire, liberarsi, ristabilirse e riconfirmarse, mai senza timore delle mie disgrazie. - Momo disse: - Comunemente, o cieca madonna, tutti gli altri dèi aspettano la retribuzion di queste sedie per l'opre buone ch'han fatte, facciono3 e posson fare: e per tali il senato s'è proposto di premiar quelli ; e tu, mentre fai la causa tua, ne ameni la lista e processo di que' tuoi delitti per gli quali non solo dereste esser bandita dal cielo, ma e da la terra ancora. - Rispose la Fortuna, che lei non era men buona che altri boni; e che la fusse tale, non era male; perché, quanto il fato dispone, tutto è bene; e se la natura sua fusse tale, come de la vipera, che è naturalmente velenosa, in questo non sarrebe sua colpa, ma o de la natura, o d'altro, che l'ha talmente instituita. Oltre che nessuna cosa è absolutamente mala; perché la vipera non è mortale e tossicosa a la vipera; né il drago, il leone, l'orso a l'orso, al leone, al drago; ma ogni cosa è mala a rispetto di qualch' altro; come voi, dèi virtuosi, siete mali ad riguardo de viziosi, quei del giorno e de la luce son mali a quei de la notte ed oscuritade: e voi tra voi siete buoni, e lor4 tra loro son infosco: faccio apparir brutta. 2. denigro: faccio apparir oscura. 3.facciono: fanno (latinismo). 4. lor: i viziosi. La dottrina secondo la quale il male consiste in una pura relazione, fuori della quale, e considerata in un'altra relazione, la cosa cattiva appare buona, si trova anche e quasi negli stessi termini nel Campanella, per esempio nella canzone Del Som• mo Bene metafisico, madrigale s. 1.

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buoni; come aviene anco ne le sètte del mondo nemiche, dove gli contrarii tra essi se chiamano figli de dèi e giusti; e non meno questi di quelli, che quelli di questi, li più principali e più onorati chiamano peggiori e più riprovati. Io, dunque, Fortuna, quantunque a rispetto d'alcuni sia reproba, a rispetto d'altri son divinamente buona; ed è sentenza passata della maggior parte del mondo, che la fortuna de gli omini pende dal cielo; onde non è stella minima né grande, che appaia nel firmamento, da cui non si dica ch'io dispenso. 1 - Qua rispose Mercurio, dicendo che troppo equivocamente era preso il suo nome: perché tal volta per la Fortuna non è altro che uno incerto evento de le cose; la quale incertezza a l'occhio de la providenza è nulla, benché sia massima a l'occhio de mortali. 2 La Fortuna non udiva questo, ma seguitava, ed a quel ch'avea detto, aggiunse che gli più egregii ed eccellenti filosofi del mondo, quali son stati Empedocle ed Epicuro, attribuiscono più a lei che a Giove istesso, anzi che a tutto il concilio de dèi insieme. 3 - Cossì tutti gli altri, - diceva - e me intendeno dea, e me intendeno celeste dea, come credo che non vi sia novo a l' orecchie questo verso, il quale non è putto abecedario4 che non sappia recitare: Te facimus, Fortuna, deam, caeloque locamus.s

E voglio ch'intendiate, o dèi, con quanta verità da alcuni son detta pazza, stolta, inconsiderata, n1entre son essi sì pazzi, sì stolti, sì inconsiderati che non sanno apportar raggione de l'esser mio; ed onde trovo di que' che son stimati più dotti che gli altri, quali in effetto dimostrano e conchiudeno il contrario, per quanto son costretti dal vero; talmente mi dicono irrazionale e senza di1. da cui ... dispenso: dalla quale non si dica che la Fortuna distribuisce gli influssi. 2. la quale ... de mortali: secondo tale dottrina, comune al Campanella, il caso non è qualità inerente alla cosa casuale, ma difetto del nostro conoscere circa la cosa detta casuale: perciò alla perfetta cognizione divina niuna cosa riesce casuale, cioè impensata e inaspettata, ma tutto vi è visto e antevisto. 3. eccelle11ti filosofi • .• insieme: Empedocle, nel frammento 103 (Diels), identificando Fortuna e Provvidenza, afferma che tutte le cose hanno senso per volontà della Fortuna. Quanto a Epicuro, che d'altronde colloca la beatitudine del sapiente sopra ogni forza della Fortuna, il Bruno può aver avuto in mente Epist. ad Men., 135 (Diano), dove si concede che dalla Fortuna possano aver principio grandi mali e grandi beni. 4. putto abecedario: bambino che ancora studia nell'abecedario. 5. Giovenale, Sat., x, 366: •Noi stessi, o Fortuna, ti facciamo dea e ti inalziamo al cielo. •

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scorso, che non per questo m'intendeno brutale e sciocca, 1 atteso che con tal negazione non vogliono detraermi, ma attribuirmi di vantaggio; come ed io tal volta voglio negar cose piccole per concedere le maggiori. Non son, dunque, da essi compresa come chi sia ed opre sotto la raggiane e con la raggione; ma sopra ogni raggiane, sopra ogni discorso ed ogni ingegno. Lascio che pur in effetto s'accorgeno e confessano, ch'io ottegno ed esercito il governo e regno massime sopra gli razionali, intelligenti e divini: e non è savio che dica me effettuar2 col mio braccio sopra cose prive di raggiane ed intelletto, quai sono le pietre, le bestie, gli fanciulli, gli forsennati ed altri che non hanno apprensione di causa finale e non possono oprare per il fine. 3 - Te dirò, - disse Minerva - o Fortuna, per qual caggione ti dicono senza discorso e raggiane. A chi manca qualche senso, manca qualche scienza, e massime quella che è secondo quel senso. Considera di te, tu ora essendo priva del lume de gli occhi, li quali son la massima causa della scienza. - Rispose la Fortuna, che Minerva o s'ingannava lei, o voleva ingannar la Fortuna; e si confidava di farlo, perché la vedea cieca: - Ma, quantunque io sia priva d'occhio, non son però priva d'orecchio ed intelletto - gli disse. SAUL. E credi che sia vero questo, o Sofia? SOF. Ascolta, e vedrai come sa distinguere, e come non gli sono accolte le filosofie e, tra l'altre cose, la Metafisica d'Aristotele. - Io - diceva - so che si trova chi dica la vista essere massimamente desiderata per il sapere; ma giamai conobbi sì stolto che dica la vista fare massimamente conoscere. E quando alcuno disse, quella essere massimamente desiderata, non voleva per tanto, che quella fusse massimamente necessaria, se non per la cognizione di certe cose: quai sono colori, figure, simmetrie corporali, bellezze, vaghezze ed altre visibili che più tosto sogliono perturbar la fantasia ed alienar l'intelletto; ma non che fusse necessaria assolutamente per le tutte o megliori specie di cognizione, perché sapea molto

1. mi dicono ... sciocca: cioè mi reputano fuori della ragione loro, ma non fuori di ogni ragione a loro incognita. 2. effettuar: operare. 3. e non è savio ... il fine: della razionalità della Fortuna è un indizio il fatto che il campo entro il quale essa opera è il campo degli esseri razionali, poiché né le pietre né le bestie né i folli si dicono avere la Fortuna buona o avversa, e soltanto dove compare l'intelletto a perseguir qualche fine, si dice che la Fortuna lo seconda o l'attraversa.

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bene che molti, per dovenir sapienti, s'hanno cavati gli occhi ;1 e di quei che o per sorte o per natura son stati ciechi, molti son visti più mirabili, come ti potrei mostrar assai Democriti, molti Tiresii, molti Omeri e molti come il Cieco d'Adria}' Appresso credo che sai distinguere, se sei Minerva, che, quando un certo filosofo Stagirita disse che la vista è massimamente desiderata per il sapere, non comparava la vista con altre specie di mezzi per conoscere, come con l'udito, con la cogitazione, con l'intelletto; ma facea con1parazione tra questo fine de la vista, che è il sapere, e altro fine, che la medesima si possa proponere. Però, se non ti rincresce d'andar sin ai campi Elisii a raggionar con lui (se pur non ha indi fatta partenza per altra vita, e bevuto de l'onde di Lete), vedrai che lui farà questa chiosa: Noi desideramo la vista massime per questo fine di sapere; e non quell'altra: Noi desideramo tra gli altri sensi massime la wta per sapere. SAUL. È maraviglia, o Sofia, che la Fortuna sappia discor-

rere meglio, e meglio intender gli testi che Minerva, la quale è soprastante a queste intelligenze. SOF. Non ti maravigliare; perché, quando profondamente considerarai, e quando pratticarai e conversarai ben bene, trovarai che li graduati3 dèi de le scienze e de l' eloquenze e de gli giudizii non sono più giudiziosi, più savi e più eloquenti de gli altri. Or, per seguitare il proposito della causa sua, che faceva la Fortuna nel senato, disse, parlando a tutti: - Niente, niente, o dèi, mi toglie la cecità, niente che vaglia, niente che faccia alla perfezione de l'esser mio; per ciò che, s'io non fusse cieca, non sarei Fortuna, e tanto manca che per questa cecità possiate disminuire o attenuar la gloria di miei meriti, che da questa medesima prendo argumento della grandezza ed eccellenza di quelli: atteso che da quella verrò a convencere ch'io sono meno astratta da gli atti della considerazione, e non posso esser ingiusta nelle distribuzioni. - Disse Mercurio a Minerva: - Non arrai fatto poco, quando arrai dimostrato questo. - E soggionse la Fortuna: - Alla mia giustizia conviene essere tale; alla vera giustizia non conviene, non quadra, anzi ri1. cavati gli occhi: allusione a Democrito che, secondo la tradizione, si sarebbe volontariamente acciecato per evitare all'anima il turbamento proveniente dalle immagini visive. 2. il Cieco d'Adria: Luigi Groto (15411585), oratore e poeta. 3. graduati: costituiti in grado accademico, laureati.

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pugna ed oltraggia l'opra de gli occhi. Gli occhi son fatti per distinguere e conoscere le differenze ( non voglio per ora mostrar quanto sovente per la vista sono ingannati quei che giudicano); io sono una giustizia che non ho da distinguere, non ho da far differenze; ma come tutti sono principalmente, realmente e finalmente uno ente, una cosa medesima (perché lo ente, uno e vero son medesimo), cossì ho da ponere tutti in certa equalità, stimar tutti parimente, aver ogni cosa per uno, e non esser più pronta a riguardare, a chiamar uno che un altro, e non più disposta a donar ad uno che ad un altro, ed essere più inclinata al prossimo che al lontano. Non veggio mitre, toghe, corone, arti, ingegni; non scorgo meriti e demeriti; perché, se pur quelli si trovano, non son cosa da natura altra ed altra in questo ed in quello,1 ma certissimamente per circonstanze ed occasione, o accidente che s'offre, si rancontra e scorre in questo o in quello ;2 e però, quando dono, non vedo a chi dono; quando toglio, non vedo a chi toglio : acciò che in questo modo io vegna a trattar tutti equalmente e senza differenza alcuna. E con questo certamente io vegno ad intendere e fare tutte le cose equali e giuste, e giusta- ed equalmente dispenso a tutti. Tutti metto dentro d'un'urna, 3 e nel ventre capacissimo di quella tutti confondo, in broglio ed exagito; e poi, zara a chi tocca; 4 e chi l'ha buona, ben per lui, e chi l'ha mala, mal per lui! In questo modo, dentro l'urna de la Fortuna non è differente il più grande dal più picciolo; anzi là tutti sono equalmente grandi ed equalmente piccioli, perché in essi s'intende differenza da altri che da me: cioè prima che entrino ne l'urna, e dopo che esceno da l'urna. Mentre son dentro, tutti vegnono dalla medesima mano, nel medesimo vase, con medesima scossa isvoltati. Però, quando poi si prendeno le sorti, non è raggionevole che colui, a chi tocca mala riuscita, si lamente o di chi tiene l'urna, o de l'urna, o de la scossa, o di chi mette la mano a l'urna ;5 ma deve, con la I. non son cosa .•. in quello: non dipendono dalla natura, come se questa si differenziasse a seconda degli individui. ::i. per circonstanze ••. in quello: i meriti e i gradi, onde son diversi gli uomini, dipendono invece da circostanze e accidenti che vengono a trovarsi in un individuo e non negli altri, mentre in tutti si trova identica la natura. 3. urna: il bossolo entro il quale vengono agitate le sorti. 4. zara a chi tocca: locuzione di chi tira a sorte, per dire: a chi tocca, suo danno. 5. mette . .. urna: veramente presso gli antichi la sorte non si traeva dall'urna, introducendovi la mano, ma si faceva saltar fuori da una fenditura, scotendo l'urna stessa. Ma

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meglior e maggior pazienza ch'ei puote, comportar quel ch'ha disposto e come ha disposto, o è disposto il Fato: atteso che, quanto al rimanente, lui è stato equalmente scritto, la sua schedula era uguale a quella de tutti gli altri, è stato parimente annumerato, messo dentro, scrollato. Io dunque, che tratto tutto il mondo equalmente, e tutto ho per una massa, di cui nessuna parte stimo più degna ed indegna de l'altra, per esser vase d'opprobrio; 1 io che getto tutti nella medesima urna della mutazione e moto, sono eguale a tutti, tutti equalmente remiro, o non remiro alcuno particulare più che l'altro, vegno ad esser giustissima ancor ch'a tutti voi il contrario appaia. Or che a la mano, che s'intrude a l'urna, prende e cava le sorti, per chi tocca2 il male, e per chi tocca il bene, occorra gran numero d'indegni e raro occorrano meritevoli: questo procede dalla inegualità, iniquità ed ingiustizia di voi altri, che non fate tutti eguali, e che avete gli occhi delle comparazioni, distinzioni, imparitadi ed ordini, con gli quali apprendete e fate differenze. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inequalità, ogni iniquitade; perché la dea Bontade non egualmente si dona a tutti; la Sapienza non si communica a tutti con medesima misura; la Temperanza si trova in pochi; a rarissimi si mostra la Veritade. Cossì voi altri numi buoni siete scarsi, siete parzialissimi, facendo le distantissime differenze, le smisuratissime inequalitadi e le confusissime sproporzioni nelle cose particolari. Non sono, non son io iniqua, che senza differenza guardo tutti, ed a cui tutti sono come d'un colore, come d'un merito, come d'una sorte. Per voi aviene, che, quando la mia mano cava le sorti, occorrano più frequentemente, non solo al male, ma ancora al bene, non solo a gl'infortuni, ma ancora a le fortune, più per l'ordinario gli scelerati che gli buoni, più gPinsipidi che gli sapienti, più gli falsi che gli veraci. Perché questo? perché? Viene la Prudenza e getta ne l'urna non più che doi o tre nomi; viene la Sofia e non ve ne mette più che quattro o cinque; viene la Verità e non ve ne lascia più che uno, qui il Bruno mescola nella sua descrizione il modo antico e il modo moderno di trarre la fortuna. 1. tutto ho . .. d'opp,obrio: il periodo riceve coloritura teologica dall'uso di alcuni termini classici della controversia sulla grazia: la « massa perditionis » è il genere umano dopo il peccato di Adamo, «vasa irae apta in i11erit1tm» (Rom., 9-22) sono gli uomini lasciati da Dio nella riprovazione. Nuova allusione al predestinazionismo luterano. 2. cava le sorti determinando per chi tocca ecc.

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e meno, se meno si potesse: e poi di cento millenarii I che son versati ne l'urna, volete che alla sortilega2 mano più presto occorra uno di questi otto o nove, che di otto o novecento mila. Or fate voi il contrario! Fa', dico, tu, Virtù, che gli virtuosi sieno più che gli viziosi; fa' tu, Sapienza, che il numero de savii sia più grande che quello de stolti; fa' tu, Verità, che vegni aperta e manifesta a la più gran parte: e certo certo a gli ordinarii premii e casi incontraranno più de le vostre genti che de gli loro appositi. Fate che sieno tutti giusti, veraci, savii e buoni; e certo certo non sarà mai grado o dignità ch'io dispense, che possa toccare a buggiardi, a iniqui, a pazzi. Non son, dunque, più ingiusta io che tratto e muovo tutti egualmente, che voi altri che non fate tutti eguali. 3 Tal che, quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe un forfante. Or essendo due cose, cioè principato e forfantaria, il vizio certamente non consiste nel principato che dono io, ma ne la forfanteria, che lasciate esser voi. Io perché muovo l'urna e caccio le sorti, non riguardo più a lui che ad un altro; e però non l'ho determinato prima ad esser principe o ricco (benché bisogna che determinatamente alla mano uno occorra tra tutti gli altri); ma voi, che fate le distinzioni, con gli occhi mirando e communicandovi a chi più ed a chi meno, a chi troppo ed a chi niente, siete venuti a lasciar costui determinatamente forfante e poltrone. Se dunque, la iniquità consiste non in fare un prencipe, e non in arricchirlo, ma in determinare un suggetto4 di forfantaria e poltronaria, non verrò io ad essere iniqua, ma voi. Ecco dunque, come il Fato m'ha fatto equissima, e non mi può aver fatta iniqua, perché mi fa essere

1. millenarii: migliaia. 2. sortilega: che sceglie la sorte (latinismo). 3. Non son . .. equali: anche la sapienza, la virtù e gli altri beni, che si sogliono opporre ai beni di fortuna, la Fortuna dice che son distribuiti ciecamente, facendo tra individuo e individuo distinzioni che non si potrebbero giustificare. Una riflessione analoga fa il Leopardi, Zibaldone, 2801 sgg., criticando lo stoicismo. 4. ma in determinare come principe un suggetto ecc.

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senz'occhi, a fin che per questo vegna a posser equalmente graduar tutti. Qua soggionse Momo dicendo: - Non ti diciam iniqua per gli occhi, ma per la mano. - A cui quella rispose: - Né meno per la mano, o Momo; perché non son più io causa del male, che le prendo come vegnono, che quelli che non vegnono come le prendo: voglio dire, che non vegnono cossi senza differenza come senza differenza le piglio. Non son io causa del male, se le prendo come occorreno; ma essi che mi se presentano quali sono, ed altri che non le fanno essere altrimente. Non son perversa io, che cieca indifferentemente stendo la mano a quel che si presenta chiaro o oscuro, ma chi tali le fa, e chi tali le lascia, e me l'invia. Momo suggionse: - Ma, quando tutti venessero indifferenti, uguali e simili, non mancareste per tanto ad essere pur iniqua: perché, essendo tutti equalmente degni di prencipato, tu non verrai a farli tutti prencipe, ma un solo tra quelli. - Rispose sorridendo la Fortuna: - Parliamo, o Momo, de chi è ingiusto, e non parliamo de chi sarrebe ingiusto. E certo, con questo tuo modo di proponere o rispondere, tu mi pari assai a sufficienza convitto, 1 poiché da quel che è in fatto, sei proceduto a quel che sarrebe; e da quel che non puoi dire ch'io sono iniqua, vai a dire ch'io sarrei iniqua. Rimane dunque, secondo la tua concessione, ch'io son giusta, ma sarrei ingiusta; e che voi siete ingiusti, ma sarreste giusti. Anzi, a quel eh' è detto aggiongo, che non solamente non sono, ma né pure sarrei men giusta allora, quando voi m'offressr' tutti uguali; perché, quanto a quello che è impossibile, non s'attende giustizia né ingiustizia. Or non è possibile che un principato sia donato a tutti; non è possibile che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch'a tutti sia ugualmente offerta. Da questo possibile séguita il necessario, cioè che de tutti bisogna che riesca uno; ed in questo non consiste l'ingiustizia ed il male; perché non è possibile che sia più ch'uno; ma l'errore consiste in quel che séguita, cioè che quell'uno è vile, che quell'uno è forfante, che quell'uno non è virtuoso; e di questo male non è causa la Fortuna che dona l'esser prencipe ed esser facultoso; ma la dea Virtù che non gli dona, né gli donò esser virtuoso. - Molto eccellentemente ha fatte le sue raggioni la Fortuna, - disse il padre 1.

eonvitto: convinto (latinismo). 34

2.

m'offrtsn: m'offriste.

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Giove - e per ogni modo mi par degna d'aver sedia in cielo; ma ch'abbia una sedia propria, non mi par convenevole, essendo che non n'ha meno che sono le stelle; perché la Fortuna è in tutte quelle non meno che ne la terra, atteso che quelle non manco son mondi che la terra. Oltre, secondo la generale esistimazion de gli uomini, da tutte si dice pendere la Fortuna: e certo, se avessero più copia d'intelletto, direbono qualche cosa di vantaggio. Però (dica Momo quel che gli piace), essendo che le tue raggioni, o dea, mi paiono pur troppo efficaci, conchiudo che, se non offriranno in contrario de la tua causa altre allegazioni, che vagliano più di queste sin ora apportate, io non voglio ardire di definirti stanza, come già volesse astrengerti o relegarti a quella; ma ti dono, anzi ti lascio in quella potestà che mostri avere in tutto il cielo: poi che per te stessa tu hai tanta autorità, che puoi aprirti que' luoghi che son chiusi a Giove istesso insieme con tutti gli altri dèi. E non voglio dir più circa quello per il che ti siamo tutti insieme ubligati assai assai. Tu, disserrando tutte le porte, ed aprendoti tutt'i camini e disponendoti tutte le stanze, fai tue tutte le cose aliene; e però non manca che le sedie che son degli altri, non siano pur tue; 1 per ciò che quanto è sotto il fato della mutazione, tutto tutto passa per l'urna, per la rivoluzione e per la mano de l'eccellenza tua. 2

non manca . •• pur tue: i seggi altrui non cessano di essere anche tuoi. Questo e il seguente dialogo 1 di cui diamo soltanto un breve tratto, continuano la deliberazione degli dèi circa la espulsione delle Bestie dal cielo e la loro sostituzione con altrettante Virtù. L'ultima costellazione spacciata è il Pesce che vien sostituito da una mera immagine, mentre la sua sostanza è cucinata per compimento della cena con cui si corona il gran concilio degli dèi. 1.

2.

DAL DIALOGO TERZO

Non fia mestiero, Saulino, di farti intendere per il particolare tutti que' propositi che tenne la Fatica, o Diligenza, o Sollecitudine, o come la volete chiamare (perché ha più nomi che non potrei farti udire in una ora); ma non voglio passar con silenzio quello che successe subito che colei con le sue ministre e compagne andò a prendersi il loco là dove dicevamo essere il negocioso Perseo. SAUL. Dite, che io vi ascolto. SOF. Subito (perché il sprone dell'Ambizione sovente sa spingere ed incitar tutti eroici e divini ingegni, sin a questi dei compagni Ocio e Sogno) avenne che non ociosa- e sonnacchiosamente, ma solleciti e senza dimora, non sì tosto la Fatica e Diligenza disparve, che essi vi furono visti presenti. Per il che disse Momo: - Liberaci, Giove, da fastidio, perché veggio aperto che ancora non mancaranno garbugli dopo l' espedizione di Perseo, come n'abbiamo avuti tanti dopo quella d'Ercole. - A cui rispose Giove: - L'Ocio non sarrebe Ocio, ed il Sonno non sarrebe Sonno, se troppo a lungo ne dovessero molestare per troppa diligenza o fatica che debbano prendere; perché quella è discostata da qua, come vedi; e questi son qua solo in virtù privativa che consiste nell'absenza de la lor opposita e nemica. 1 - Tutto passarà bene, - disse Momo - se non ne faranno tanto ociosi e lenti, che per questo giorno non possiamo definire di quello che si deve conchiudere circa il principale. - Cominciò, dunque, l'Ocio in questa maniera a farsi udire: - Cossì l'Ocio, o dèi, è talvolta malo, come la Diligenza e Fatica è più de le volte mala: cossì l'Ocio il più de le volte è conveniente e buono, come le sue volte è buona la Fatica. Non credo dunque, se giustizia tra voi si trova, che vogliate negarmi eguale onore, se non è debito che n1i stimiate manco degno. z Anzi per raggione mi confido di farvi capire (per causa di certi propositi che ho udito allegare in lode e favore della diligenza e negocio) che quando SOF.

L'Ocio . .. nemica: infatti l'ozio non sarebbe più ozio, quando mettesse qualche impegno ed insistenza nel durare, cioè quando operasse diligentemente per durare. Perciò sussiste soltanto in assenza della fatica, che è il suo opposto. 2. Non credo ... degno: non dovete onorarmi meno, se non è giusto che mi stimiate meno. 1.

53 2

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saremo posti nel bilancio della raggionevole comparazione, se l'Ozio non si trovarà equalmente buono, si convencerà di gran vantaggio megliore, di maniera che non solo non la mi I stimarete equalmente virtude, ma oltre, contrariamente vizio. Chi è quello, o dèi, che ha serbata la tanto lodata età de l'oro? chi l'ha instituta, chi l'ha mantenuta, altro che la legge de l'Ocio, la legge della natura? Chi l'ha tolta via? chi l'ha spinta quasi irrevocabilmente dal mondo, altro che l'ambiziosa Sollecitudine, la curiosa2 Fatica? Non è questa quella ch'ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il mondo e l'ha condotto ad una etade ferrigna e lutosa ed argillosa, avendo posti gli popoli in ruota ed in certa vertigine e precipizio, dopo che l'ha sullevati in superbia ed amor di novità, e libidine de l'onore e gloria3 d'un particolare? Quello che, in sustanza, non dissimile a tutti, e tal volta, in dignitade e merito, è infimo a que' medesimi, con malignitade è stato forse superiore a molti,4 e però viene ad essere in potestà di evertere le leggi de la natura, di far legge la sua libidine, a cui servano mille querele, mille orgogli, mille ingegni, mille sollecitudini, mille di ciascuno de gli altri compagni, con gli quali cossì boriosa è passata avanti la Fatica; senza gli altri che sotto le vesti di que' n1edesimi coperti · ed occolti non son apertamente giti, come l'Astuzia, la Vanagloria, il Dispreggio d'altri, la Violenza, la Malizia, la Fizione e gli seguaci loro che non son passati per la presenza vostra; quai sono Oppressione, Usurpazione, Dolore, Tormento, Timore e Morte; li quali son gli executori e vendicatori mai del quieto Ocio, ma sempre della sollecita e curiosa industria, Lavoro, Diligenza, Fatica; e cossì di tanti altri nomi, di quanti, per meno essere conosciuta, se intitula, e per quali più tosto si viene ad occoltare che a farsi sapere. Tutti lodano la bella età de l'oro, ne la quale facevo gli animi quieti e tranquilli, absoluti da questa vostra virtuosa dea ;5 a gli cui corpi bastava il condimento de la fame a far più suave e lodevol pasto le ghiande, li pomi, le castagne, le persiche e le radici, che la benigna natura administrava, quando con tal nutrimento meglio le nutriva, più le accarezzava e per più tempo le manteneva 1. la mi: me la (la diligenza). 2.. curiosa: affannosa, sollecita (latinismo). 3. onore e gloria: i due termini vanno insieme e reggono insieme il genitivo seguente. 4. Quello ... molti: Luogo oscuro. Intendi: quello che, essendo per essenza uguale a tutti gli altri e talora, per merito morale, inferiore ad essi, si fa con un'attività malefica padrone degli altri. 5. dea: In Fatica.

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in vita, che non possano far giamai tanti altri artificiosi condimenti ch'ha ritrovati l'Industria ed il Studio, ministri di costei; li quali, ingannando il gusto ed allettandolo, amministrano come cosa dolce il veleno; e mentre son prodotte più cose che piaceno al gusto, che quelle che giovano al stomaco, vegnono a noiar alla sanità e vita, mentre sono intenti a compiacere alla gola. Tutti magnificano l'età de l'oro, e poi stimano e predicano per virtù quella manigolda che la estinse, quella ch'ha trovato il mio ed il tuo: quella ch'ha divisa e fatta propria a costui e colui non solo la terra (la quale è data a tutti gli animanti' suoi), ma, ed oltre, il mare, e forse l'aria ancora. Quella, ch'ha messa la legge a gli altrui diletti, ed ha fatto che quel tanto che era bastante a tutti, vegna ad essere soverchio a questi e meno a quell'altri; onde questi, a suo mal grado, crapulano, quelli altri si muoiono di fame. Quella ch'ha varcati gli mari, per violare quelle leggi della natura, confondendo que' popoli che la benigna madre distinse, e per propagare i vizii d'una generazione in un'altra; perché non son cossì propagabili le virtudi, eccetto se vogliamo chiamar virtudi e bontadi quelle che per certo inganno e consuetudine son cossì nomate e credute, benché gli effetti e frutti sieno condannati da ogni senso e ogni natural raggiane. Quai sono le aperte ribaldarie e stoltizie e malignitadi di leggi usurpative e proprietarie del mio e tuo ;2 e del più giusto, che fu più forte, possessore; e di quel più degno, che è stato più sollecito e più industrioso e primiero occupatore3 di que' doni e membri de la terra, che la natura e, per conseguenza, Dio indifferentemente donano a tutti. Io forse sarò men faurita che costei ? lo, che col mio dolce che esce dalla bocca della voce de la natura, ho insegnato di viver quieto, tranquillo e contento di questa vita presente e certa, e di prendere con grato affetto e mano il dolce che la natura porge, e non come ingrati ed irreconoscenti neghiamo4 ciò che essa ne dona e detta, perché il medesimo ne dona e comanda anitnanti: animali viventi (latinismo). 2. proprietarie del mio e tuo: è aggettivo e significa: che stabiliscono come proprio il mio e il tuo, rompendo la naturale comunanza dei beni. 3. pii'l giusto . •. occupatore: il possessore che per cagion delle leggi vien reputato oggi più giusto, non è se non colui che fu più forte e violento nel tempo dell'occupazione; e il possessore che vien reputato oggi più degno, fu in quel momento il più astuto. Vedi la Tavola delle emendazioni. 4. neghiamo: dipende da ho insegnato di come i due precedenti infiniti viver e prendere, ma il Bruno ha mutato il modo dalfinfinito al soggiuntivo. J.

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Dio, autor di quella a cui medesimamente verremo ad essere ingrati. Sarà, dico, più favorita costei, che, sl rubella e sorda a gli consegli, e ritrosa e schiva contra gli doni naturali, adatta li suoi pensieri e mani ad artificiose in1prese e machinazioni, per quali è corrotto il mondo e pervertita la legge de la nostra madre? Non udite come a questi tempi, tardi accorgendosi il mondo di suoi mali, piange quel secolo, nel quale col mio governo mantenevo gaio e contento il geno umano, e con alte voci e lamenti abomina il secolo presente, in cui la Sollecitudine ed industriosa Fatica, conturbando, si dice moderar il tutto con il sprone dell'ambizioso Onore? O bella età de l'oro, non già perché di latte se 'n coFse il fiume e stillò mèle il bosco; non perché i frutti loro diér da l'aratro intatte le terre, e gli angui errar senz'ira e tòsco; non perché nut1ol fosco non spiegò allor suo velo, e 'n primat1era eterna, ch'o-,a s'accende e verna, 1 rise di luce e di sereno il cielo; né portò peregrino o guerra o merce a l'altrui lidi il pino: ma sol perchl qrul vano nome senza soggetto, quel idolo d'errori. idol d'inganno, quel che dal volgo imano onor poscia fu detto, che di nostra natura il f eo tiranno, non meschitJfJa il suo affanno fra le liete dolcezze de l'amoroso gregge; né fu sua dura legge nota a quell'alme in libertade avezze, ma legge aurea e f e/ice, che Natura scolpi: S'ei piace, ei lice. 2

Questa, invidiosa alla quiete e beatitudine, o pur ombra di piacere che in questo nostro essere3 possiamo prenderci, avendo posta legge al coito, al cibo, al dormire, onde non solamente 1. ch'ora .. . verna: la quale ora si accende e poi si spegne nell'inverno, laddove un tempo durava perpetua. 2. Tasso, Aminta, atto 1, coro. 3. essere terreno.

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meno delettar ne possiamo, ma per il più sovente dolere e tormentarci; fa che sia furto quel che è dono di natura, e vuol che si spregge il bello, il dolce, il buono; e del male amaro e rio facciamo stima. Questa seduce il mondo a lasciar il certo e presente bene che quello tiene, ed occuparsi e mettersi in ogni strazio per l'ombra di futura gloria. 1 lo di quel2 che con tanti specchi, quante son stelle in cielo, la verità dimostra, e quel che con tante voci e lingue, quanti son belli oggetti, la natura di fuore intona, 3 vegno da tutti lati de l'interno edificio ad esortarlo: Lasciate Pombre ed abbracciate il vero. Non cangiate il presente col futuro. Voi siete il tJeltro che nel rio trabocca, mentre l'ombra desia di quel eh' ha in bocca. 4 AtJiso non fu mai di saggio o scaltro perder un ben per acquistarne un altro. A che cercate sì lungi diviso,5 se in voi stessi, trovate6 il paradiso? Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo non speri dopo morte l'altro bene. Perché si sdegna il ciel dar il secondo a chi il primero don caro non tene; cossì credendo alzarvi, gite al fondo; ed ai piacer togliendovi, a le pene tJi condannate: e con inganno eterno, bramando il ciel, fJi state ne l'inferno. -

Qua rispose Momo, dicendo che il conseglio non aveva tanto ocio, che potesse rispondere a una per ciascuna de le raggioni che l'Ocio, per non aver avuta penuria d'ocio, ha possute intessere ed ordinare. Ma che per il presente si servisse de l'esser suo, con andar ad aspettar per tre o quattro giorni; perché potrà essere che, per trovarsi gli dèi in ocio, potessero determinar qualche cosa in suo favore; il che adesso è impossibile. Soggionse l'Ocio: - Siami lecito, o Mamo, di apportar un altro paio di raggioni, in non più termini che in forma •di un paio futura gloria: la beatitudine oltremondana promessa dalla religione. di quel; la preposizione di vale «con» ed esprime mezzo. 3. con ta11te voci ... intona: reminiscenza di Ps., 18, 3: «Non sunt loquelae neque sernzo11es, quorum non audiantur tJoces eorum » (« Non v'è linguaggio né favella, in cui non siano intese le loro voci•). 4. il veltro . .. in bocca: allusione alla nota favola esopica. 5. lungi ditJiso: lontano (latinismo). 6. trooate: potete trovare. 1.

2.

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di sillogismi, più in materia efficaci che in forma. 1 De quali il primo è questo: al primo padre de gli uomini, quando era buon omo, ed a la prima madre de le femine, quando era buona femina, Giove gli concese me per compagno; ma, quando devenne questa trista e quello tristo, ordinb Giove che se gli aventasse quella2 per con1pagna, a fin che facesse a costei sudar il ventre ed a colui doler la fronte. SAUL. Dovea dire: sudar a colui la fronte, e doler a colei il ventre. SOF. - Or considerate, dèi, - disse - la conclusione che pende da quel che io fui dechiarato compagno de l'Innocenza, e costei compagna del peccato. Atteso che, se il simile s'accompagna col simile, il degno col condegno, io vegno ad esser virtude e colei vizio, e per tanto io degno e lei indegna di tal sedia. Il secondo sillogismo è questo: Li dèi son dèi, perché son felicissimi; li felici son felici, perché son senza sollecitudine e fatica: fatica e sollecitudine non han color che non si muoveno ed alterano ;3 questi son massime quei ch'han seco l'Ocio; dunque gli dèi son dèi, perché han seco l'Ocio. SAUL. Che disse Momo a questo? SOF. Disse che, per aver studiato logica in Aristotele, non aveva imparato di rispondere a gli argumenti in quarta figura. 4 SAUL. E Giove che disse ? SOF. Che di tutto, che lei aveva detto e lui udito, non si ricordava altro che l'ultima raggiane circa l'essere stato compagno del buono uomo e femina; intorno alla quale gli occorreva, che gli cavali non pertanto son asini, perché si trovano in compagnia di quelli, né giamai la pecora è capra tra le capre. E soggionse che gli dèi aveano donato a l'uomo l'intelletto e le mani, e l'aveano fatto simile a loro, donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operar secondo la natura ed ordinario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò, I. in materia ... forma: un sillogismo dicesi valere per la materia quando il contenuto della sua conclusione è una proposizione verat dicesi valere per la forma quando il nesso logico che stringe le premesse è valido, anche indipendentemente dalla verità del contenuto. 2. quella: la Fatica. 3. alterano: cangiano, mutano. La mutazione è sempre con travaglio. 4. per . .. figllra: avendo Aristotele riconosciuto valide soltanto le prime tre figure del sillogismo, gli Aristotelici non imparavano a maneggiare nelle dispute la quarta.

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formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l'ingegno, con quella libertade, senza la quale non arrebe detta similitudine, venesse ad serbarsi dio de la terra. 1 Quella certo, quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l'occhio che non vede, e mano che non apprende. E per questo ha determinato la providenza, che vegna occupato ne l'azione per le mani, e contemplazione per l'intelletto; de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione. Ne l'età dunque de l'oro per l'Ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste. Or essendo tra essi per l'emulazione d'atti divini ed adattazione di spirituosi affetti nate le difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl'ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de l'egestade, 2 dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nove e maravigliose invenzioni. Onde sempre più e più per le sollecite ed urgenti occupazioni allontanandosi dall'esser bestiale, più altamente s'approssimano a l'esser divino. De le ingiustizie e malizie che crescono insieme con le industrie, non ti devi maravigliare; perché, se gli bovi e scimie avessero tanta virtù ed ingegno, quanto gli uomini, arrebono le medesime apprensioni, gli medesimi affetti e gli medesimi vizii. Cossì tra gli uomini quei ch'hanno del porco, de l'asino e del bue, son certo men tristi, e non sono infetti di tanti criminosi vizii; ma non per ciò sono più virtuosi, eccetto in quel modo con cui le bestie, per non esser partecipi di altretanti vizii, vegnono ad esser più virtuose de loro. Ma noi non lodiamo la virtù de la continenza nella scrofa, la quale si lascia chiavare da un sol porco ed una volta l'anno; ma in una donna la quale non solo è sollecitata una volta dalla natura per il bisogno de la generazione, ma ed ancora dal proprio discorso più volte per l'apprensione del piacere, 3 e per esser ella a~cor 1. dio de la terra: il motivo della potenza e divinità dell'uomo è comune ai pensatori del Rinascimento. Vedi per esempio in questo volume la saffica del Campanella, Della possa11za dell'uomo e le note appostevi. 2. per me::zo de l'egestade: antico motivo epicureo. Cfr. Georg., I, 145-6: • Labor omnia vincit - improbus et duris urgue,rs in rebus egestas » ( 11 L'improba fatica e il bisogno, che preme l'uomo nelle angustie, riportano ogni vittoria 11). 3. non solo •.. piacere: cioè non solo dall'istinto della generazione, ma anche da movimenti propri all'immaginazione e volontà sue, tendenti al piacere.

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fine degli suoi atti. 1 Oltre di ciò non troppo, ma molto poco lodiamo di continenza una femina o un maschio porcino, il quale per stupidità e durezza di complessione avien che di rado e con poco senso vegna sollecitato da la libidine, come quell'altro che per esser freddo e maleficiato, 2 e quell'altro per esser decrepito; altrimente deve esser considerata la continenza, la quale è veramente continenza e veramente virtù in una complessione più gentile, più ben nodrita, più ingegnosa, più perspicace e maggiormente apprensiva. Però per la generalità de regioni3 a gran pena è virtù ne la Germania, assai è virtù ne la Francia, più è virtù ne l'Italia, di vantaggio è virtù nella Libia. Là onde, se più profondamente consideri, tanto manca che Socrate revelasse qualche suo difetto, che più tosto venne a lodarsi tanto maggiormente di continenza, quando approvò il giudicio del fisionomista circa la sua natural inclinazione al sporco amor di gargioni. 4 Se dunque, Ocio, consideri quello che si deve considerar da questo, trovarai che non per tanto nella tua aurea etade gli uomini erano virtuosi, perché non erano cossì viziosi, come al presente; atteso che è differenza molta tra il non esser vizioso e l'esser virtuoso; e non cossì facilmente l'uno si tira da l'altro, considerando che non sono medesime virtudi dove non son medesimi studi, medesimi ingegni, inclinazioni e complessioni. Però, per comparazione da pazzi ed ingegni cavallini, aviene che gli barbari e salvatici si tegnon megliori che noi altri dèi, per non esser notati di que' vizii medesimi; per ciò che le bestie, le quali son molto meno in tai vizii notabili che essi, saranno per questo molto più buone che loro. A voi dunque, Ocio e Sonno, con la vostra aurea etade converrà bene che non siate vizii qualche volta ed in qualche maniera; ma giamai ed in nessun modo che siate virtudi. Quando dunque tu, Sonno, non sarai Sonno, e tu, Ozio, sarai Negocio, allora sarete connumerati tra virtudi ed essaltati. e per esser ... atti: perché essa è un soggetto padrone dei propri atti. maleficiato: colpito da frigidità sessuale per effetto di uno stregoneccio. 3. per la generalità de regioni: considerando quelle regioni in generale. 4. Socrate ... gargioni: allusione all'aneddoto narrato da Cicerone, Tusc., IV, 37. Avendo Zopiro, che professava di riconoscere dalla esteriore figura il carattere di una persona, dichiarato di vedere in Socrate molti vizi, gli amici del filosofo si presero beffa del fisionomista, attestando di non aver mai riscontrato in Socrate alcuno dei vizi imputatigli. Socrate tuttavia approvò in tutto Zopiro, dichiarando che egli era in realtà venuto al mondo con quelle prave inclinazioni, ma se ne era liberato mediante l'esercizio della ragione; gargioni: garzoni, giovinetti. J. 2.

CABALA DEL CAVALLO PEGASEO CON L'AGGIUNTA

DELL'ASINO CILLENICO DESCRITTA DAL NOLANO

DEDICATA AL VESCOVO DI CASAMARCIANO

DECLAMAZIONE AL STUDIOSO, DIVOTO E PIO LETTORE 1

Oimè, auditor mio, che senza focoso suspiro, lubrico pianto e tragica querela, con l'affetto, con gli occhi e le raggioni non pub rammentar il mio ingegno, 2 intonar la voce e dechiarar gli argomenti, quanto sia fallace il senso, turbido il pensiero ed imperito il giudicio, che con atto di perversa, iniqua e pregiudiciosa sentenza non vede, non considera, non definisce secondo il debito di natura, verità di raggione e diritto di giustizia circa la pura bontade, regia sinceritade e magnifica maestade della santa ignoranza, dotta pecoragine e divina asinitade! Lasso! a quanto gran torto da alcuni è sì fieramente essagitata3 quest'eccellenza celeste tra gli uomini viventi, contra la quale altri con larghe narici si fan censori, altri con aperte sanne si fan mordaci, altri con comici cachini4 si rendono beffeggiatori. Mentre ovunque spreggiano, burlano e vilipendeno qualche cosa, non gli odi dir altro che: - Costui è un asino, quest'azione è asinesca, questa è una asinitade - ; stante che cib absolutamente convegna dire dove son più maturi discorsi, più saldi proponimenti e più trutinate5 sentenze. Lasso! perché con ramarico del mio core, cordoglio del spirito ed aggravio de ralma mi si presenta a gli occhi questa imperita, stolta e profana moltitudine che sì falsamente pensa, sì mordacemente parla, sì ten1erariamente scrive per parturir que' scelerati discorsi de tanti monumenti che vanno per le stampe, per le librarie, per tutto, oltre gli espressi ludibrii, dispreggi e biasimi: l'asino d'oro, le lodi de l'asino, l'encomio de l'asino ;6 dove non si pensa altro che con ironiche sentenze prendere la gloriosa asinitade in gioco, spasso e scherno? Or chi terrà il mondo che non pensi ch'io faccia il simile? 1. L'asino cillenico, nominato nel titolo dell'opera, è una satira dell'ordine dottorale. L'asino ambisce a diventar dottore di accademia e nonostante la resistenza degli accademici vien fatto tale da Mercurio stesso. - Il vescovo di Casamarciano è Sabatina Savolino, semplice chierico, che qui il Bruno per beffa innalza a vescovo di Casamarciano che d,altronde non è sede episcopale. 2. rammenta, ... ingegno: ingegno è soggetto. Questo e i seguenti infinitivi reggono la proposizione interrogativa quanto sia f allace ecc. 3. essagitata: maltrattata, strapazzata. 4. cachini: cachinni, risate beffarde. 5. truti11ate: pesate alla bilancia. 6. l'asino . •. de l'asino: allusione al romanzo di Apuleio, al poemetto del Machiavelli e all'encomio dell'asin"o di Agrippa di Nettesheim.

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Chi potrà donar freno alle lingue che non mi mettano nel medesimo predicamento, 1 come colui che corre appo gli vestigii dc gli altri che circa cotal suggetto den1ocriteggiano ? Chi potrà contenerli che non credano, affermino e confermino che io non intendo vera- e seriosamente lodar l'asino ed asinitade, ma più tosto procuro di aggionger oglio a quella lucerna la quale è stata da gli altri accesa? Ma, o miei protervi e temerarii giodici, o neghittosi e ribaldi calunniatori, o foschi ed appassionati detrattori, fermate il passo, voltate gli occhi, prendete la mira; vedete, penetrate, considerate se gli concetti semplici, le sentenze enunciative e gli discorsi sillogistici ch,apporto in favor di questo sacro, impolluto2 e santo animale, son puri, veri e demostrativi, o pur son finti, impossibili ed apparenti. Se le3 vedrete in effetto fondati su le basi de fondamenti fortissimi, se son belli, se son buoni, non le schivate, non le fuggite, non le rigettate; ma accettatele, seguitele, abbracciatele, e non siate oltre legati dalla consuetudine del credere, vinti dalla sufficienza del pensare e guidati dalla vanità del dire, se altro vi mostra la luce de l'intelletto, altro la voce della dottrina intona ed altro l'atto de l'esperienza conferma. L'asino ideale e cabalistico, che ne vien proposto nel corpo de le sacre lettere, che credete voi che sia? Che pensate voi essere il cavallo pegaseo che vien trattato in figura de gli poetici figmenti ? De l'asino cillenico degno d'esser messo in croceì,s4 nelle più onorate academie che v'imaginate? Or lasciando il pensier del secondo e terzo da canto, e dando sul campo del primo, platonico parimente e teologale, voglio che conosciate che non manca testimonio dalle divine ed umane lettere, dettate da sacri e profani dottori, che parlano con l'ombra de scienze e lume della fede. Saprà, dico, ch'io non mentisco 5 colui ch'è anco mediocremente perito in queste dottrine, quando avien ch'io dica l'asino ideale esser principio prodottivo, formativo e perfettivo sopranaturalmente della specie asinina; la quale quantunque nel capacissimo seno della natura si vede ed è dall' altre specie distinta, e nelle menti seconde6 è messa in numero, e con diverso concetto appresa, e non quel medesimo I. predicamento: giudizio. 2. impolluto: immacolato (latinismo}. 3. le: pronome maschile adoperato dal Bruno per ,, li». 4. iti croceis: in paludamenti di onore. 5. mentisco: erroneamente il Gentile nella chiosa a questo luogo vuole che mentisco valga per «smentisco», scambiando colui per caso obliquo, laddove è soggetto del precedente saprà. 6. me11ti seconde: menti create.

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con cui l'altre forme s'apprendono; nulla di meno (quel ch'importa tutto) nella prima mente è medesima che la idea de la specie umana, medesima che la specie de la terra, della luna, del sole, medesima che la specie dell'intelligenze, de gli demoni, de gli dèi, de gli mondi, de l'universo; anzi è quella specie da cui non solamente gli asini, ma e gli uomini e le stelle e gli mondi e gli mondani animali tutti han dependenza: quella dico, nella quale non è differenza di forma e suggetto, di cosa e cosa; ma è semplicissima ed una. Vedete, vedete dunque, d'onde derive la caggione che senza biasimo alcuno il santo de santi I or è nominato non solamente leone, monocomo, rinoceronte, vento, tempesta, aquila, pellicano, ma e non uomo, opprobrio de gli uomini, abiezion di plebe, pecora, agnello, verme, similitudine di colpa, sin ad esser detto peccato2 e peggio. Considerate il principio della causa, per cui gli cristiani e giudei non s'adirano, ma più tosto con glorioso trionfo si congratulano insieme, quando con le metaforiche allusioni della santa scrittura son figurati per titoli e definizioni asini, son appellati asini, son definiti per asini: di sorte che, dovunque si tratta di quel benedetto animale, per moralità di lettera, allegoria di senso ed anagogia di proposito s'intende l'uomo giusto, l'uomo santo, l'uomo de Dio. Però, quando ne l' Exodo si fa menzione della redenzione e mutazion dell'uomo, in compagnia di quello vien fatta la menzion de l'asino. «Il primogenito dell'asino» dice «cangiarai con la pecora; il primogenito dell'uomo redimerai col prezzo. »3 Quando nel medesimo libro è donata legge al desiderio dell'uomo che non si stenda alla moglie, alla servente, vedi nel medesimo numero messo il bue e l'asino :4 come che non meno importe proporsi materia di peccato l'uno che l'altro appetibile. Però quando nel libro de Giudici cantò Debora e Barac, figlio d' Abinoen, dicendo: «Udite, o regi, porgete l'orecchie, o principi, li quali montate su gli asini nitenti5 e sedete in giudicio», 6 interpretano gli santi rabini: O governatori de la terra, li quali siete superiori a gli generosi popoli, e con la sacra sferza le governate, castigando gli rei, premiando gli buoni e di1. santo de santi= Dio. Accenna alle metafore con cui Dio vien figurato nella Sacra Scrittura. 2. peccato: allude non a Rom., 8, 31 come allega il Gentile, bensì a// Co,., 21, 5, dove si dice che il Cristo divenne peccato per liberare l'uomo dal peccato. 3. Cfr. Ex., 13, 13. · 4. è donata . .• e l'asino: cfr. Ex., 20, 17. 5. nitenti: lucidi per pinguedine, belli. 6. Cfr. lud., S, 3 e io.

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spensando giustamente le cose. - Quando ordina il Pentateuco che devi ridur ed addirizzar al suo camino l'asino e bue errante del prossimo tuo, 1 intendeno moralmente gli dottori, che l'uomo del nostro prossimo ldio,2 il quale è dentro di noi ed in noi, s'aviene che prevariche dalla via della giustizia, debba essere da noi corretto ed avertito. Quando l'archisinagogo riprese il Signor che curava nel sabbato, ed egli rispose che « non è uomo da bene che in qualunque giorno non vegna a cavar l'asino o bue dal pozzo dove è cascato» ;3 intendeno gli divini scrittori che l'asino è l'uomo semplice, il bue è l'uomo che sta sul naturale, il pozzo è il peccato mortale, quel che cava l'asino dal pozzo è la divina grazia e ministero che redime gli suoi diletti da quell'abisso. Ecco, dunque, qualmente il popolo redemuto, preggiato, bramato, governato, addirizzato, avertito, corretto, liberato e finalmente predestinato, è significato per l'asino, è nominato asino. E che gli asini son quelli per gli quali la divina benedizione e grazia piove sopra gli uomini, di maniera che guai a color che vegnon privi del suo asino, certamente molto ben si può veder nell'importanza di quella maledizione che impiomba4 nel Deuteronomio, quando minacciò Dio dicendo: « L'asino tuo ti sia tolto d'avanti, e non ti sia reso! »5 Maladetto il regno, sfortunata la republica, desolata la cità, desolata la casa, onde è bandito, distolto ed allontanato l'asino! Guai al senso, conscienza ed anima dove non è participazion d'asinità! Ed è pur trito adagio: ab asino exci.dere, 6 per significar l'esser destrutto, sfatto, spacciato. Origene Adamanzio, accettato tra gli ortodoxi e sacri dottori, vuole che il frutto de la predicazione de' settanta doi discepoli è significato per li settanta doi milia asini che il popolo israelita guadagnò contra gli Moabiti: 7 atteso che de quei settanta doi ciascuno guadagnò mille, cioè un numero perfetto, d'anime predestinate, traendole da le mani de Moab, cioè liberandole dalla tirannia de Satan. Giongasi a questo che gli uomini più divoti e santi, amatori ed exequitori dell'antiqua e nova legge, absolutamente e per particolar privilegio son stati chiamati asini. E se il Pentateuco .•. tuo: cfr. Ex., 23, 4. 2. l'uomo ... Idio: il testo, benché passato dal Gentile senza chiosa, sembra guasto. 3. Cfr. Luc., 13, 14-5 e 14, 5. 4. impiomba: piomba, vien fulminata. 5. Cfr. Deut., 28, 31. 6. ab asino excidere: cader dall'asino. 7. settanta doi . .. Moabiti: il Bruno fa leggera confusione tra due testi vicini di Num., 31, 33-4, dove si narra di 72 mila buoi e 61 mila asini tolti non ai Moabiti, ma ai Madianiti. I.

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non me 'l credete, andate a studiar quel eh' è scritto sopra quell'Evangelico: «L'asina ed il pulledro sciogliete, e menateli a me. »1 Andate a contemplar su gli discorsi che fanno gli teologi ebrei, greci e latini sopra quel passo che è scritto nel libro de Numeri: > Della terza soggiunge: «Abito nel consiglio, intervengo nei pensieri eruditi, mia delizia è stare coi figli degli uomini.» Qui, dunque, finalmente, tra gli uomini, la sapienza si edificò una casa razionale e intenzionale, che è dopo il mondo, e in questa dobbiamo vedere l'ombra della prima casa archetipa e ideale, che è prima del mondo, e l'immagine della seconda casa, sensibile e naturale, che è il mondo. l'essere che una cosa ha, in quanto pensata e presente all'intelletto o al senso. Qui il termine è usato dal Bruno impropriamente, giacché la mente, in cui è rappresentato il mondo, non è una rappresentazione, ma una realtà che rappresenta il mondo.

GIORDANO BRUNO

Hic excidit sibi columnas septem, nempe septem artes, Grammaticen, Rethoricen cum Poesi, Logicen, Mathesim, Physicam, Ethicam, Metaphysicam. Primam quae regulet scripturam congruumque sermonem, ad excolendam humanam conversationem. Secundam quae persuadendo et dissuadendo, laudando et vituperando, accusando et defendendo animas et affectus hominum fraenet et moderetur. Tertiam quae intellectus humani operationes illas ternas, concipiendi, enunciandi, et argumentandi, 1 dirigat et ad scopum adducat. Quartam quae usum et rationem2 circa numeros, magnitudines, pondera, et momenta rerum combinando et conferendo, Arithmeticam, Musicam, Geometriam, Picturam, Perspectivam, Physionomiam, Astrologiam, Astronomiam, et species divinationurn plurimas inquirit, examinat et perficit. Quintam quae corporalium substantiarum naturam speculatur in causis, principiis et elementis; quatenus quisque seipsum contempletur in mundo, et mundum in seipso; unde perficitur agricultura, medicina, chimica, et, secundum omnes suas species, Magia. Sextam quae ordinem iustitiae absolutae, moderativae, 3 dispositivae, distributivae, et cornmutativae applicet Iuri Simpliciter, ad se ipsum, Oeconomico, ad domesticos, Politico, ad concives, Civili, ad proprium principatum seu imperium, Ecclesiastico, ad coetum eiusdem fidei, Gentium ad homines universos, Naturali, ad omnia quae sunt in nobis et circa nos, Divino, ad ultimum finem et prirnum efficientem qui est supra nos. Septimam qua captantur rationes universorum, quae sunt, principia et causae, tum rerum omnium, tum et omnis cognitionis, guae est ab ideis, substantiis separatis, et absolutis. Super bisce columnis septem sapientia aedificavit sibi domum inter homines. Quae domus, si ad rnemoriam hominum respiciamus, primo apparuit apud Aegyptios, et Assyrios in Chaldaeis. Secundo apud Persas, in Magis, sub Zoroastre. Tertio apud Indos, in Gymnosophistis. Quarto apud Thraces simulatque Lybicos, sub Orpheo et Athlante. Quinto apud Graecos sub Thalete et reliquis Sapientibus. Sexto apud Italos sub Archita, Gorgia, Archimede, Empedocle, Lucretio. intellectw ... argumentandi: indica le tre operazioni intellettive, secondo la dottrina delle Scuole, e cioè: prima, il concepire un'essenza senza nuJla affermare o negare di essa; seconda, l'enunciare o giudicare di essa, attribuendole o levandole qualcosa; terza, il raziocinare o procedere da un giudizio ad un altro per nesso intrinseco. 2. usum et rationem: gli utili concetti (endiadi). 3. moderativae: questo e i seguenti sono genitivi come absolutae. J.

ORATIO VALEDICTORIA

Qui essa s'intagliò sette colonne, cioè le sette arti: Grammatica, Retorica con la Poesia, Logica, Matematica, Fisica, Etica, Metafisica. La prima, perché regoli la scrittura e un congruo discorso, a formare l'umana conversazione. La seconda perché, persuadendo e dissuadendo, lodando e vituperando, accusando e difendendo, freni e moderi gli animi e gli affetti degli uomini. La terza perché diriga le tre operazioni dell'umano intelletto: concepire, enunciare e argomentare, e le conduca allo scopo. La quarta che, combinando e confrontando gli utili concetti circa i numeri, le grandezze, i pesi e i momenti delle cose, indaga esamina e compie l'Aritmetica, la Musica, la Geometria, la Pittura, la Prospettiva, la Fisionomia, l'Astrologia, l'Astronomia, e moltissime specie di divinazioni. La quinta, che specula la natura delle sostanze corporali nelJe cause, nei principi e negli elementi, affinché ciascun uomo contempli se stesso nel mondo, e il mondo in se stesso: onde si fan l'agricoltura, la medicina, la chimica, e tutte le specie di Magia. La sesta, perché applichi l'ordine della giustizia assoluta, moderativa, dispositiva, distributiva, commutativa, al Diritto in assoluto, in ordine a se stesso; al diritto economico, in ordine ai famigliari; al politico, in ordine ai concittadini; al diritto civile, in ordine al principato o all'impero; all'ecclesiastico, in ordine alla comunità dei correligionari; al diritto delle genti, in ordine a tutti gli uomini; al diritto naturale, in ordine alle cose che sono dentro di noi e intorno a noi; al diritto divino, per l'ultimo fine e il primo efficiente, che è sopra di noi. La settima, con la quale si colgono le ragioni di quante cose esistono, e i princìpi e le cause tanto delle cose tutte, quanto di ogni cognizione, che proviene dalle idee, sostanze separate ed assolute. Sopra queste sette colonne la sapienza si edificò la casa tra gli uomini. La quale casa, se guardiamo la storia, primamente apparve presso gli Egizi, e presso gli Assiri tra i Caldei. In secondo luogo presso i Persiani, tra i Magi, sotto Zoroastro. In terzo luogo presso gli Indiani, tra i Gimnosofisti. In quarto luogo presso i Traci e contemporaneamente presso i Libici, sotto Orfeo e Atlante. In quinto luogo presso i Greci sotto Talete e gli altri savi. In sesto luogo presso gli Itali sotto Archita, Gorgia, Archimede, Empedocle, L'ordine di queste diverse giustizie si applica al diritto assolutamente preso, che versa nelle relazioni della persona alla persona, all'economico, che versa nelle relazioni coi familiari ecc. ecc. Ma tutto il passo è poco perspicuo.

GIORDANO BRUNO

Septimo apud Germanos nostris seculis: ut certe cum love et Imperio, coelestisque curiae imagine, Minerva, haec Sophia successiva quadam vicissitudine solum vertisse et sedes mutasse videatur. 1 Non credetis (o doctissimi auditorcs) me falso adulari vobis, si divitias vestras penitius inspicere vclitis vos qui inter alios oculatiores estis. Ex eo enim tempore quo ad vestrates devolutum est imperium, plurima artium, et hominum ingenia inventa sunt apud vos, quibus apud exteras nationes nullum simile comperiebatur. Alberto Magno Suevo illi quis eodem tempore similis? An non ipso principe Aristotele cui indignissime (utpote cucullatus) pro temporis illius conditione, fuit addictus, numeris multis extitit ille superior? Deus bone, ubi illi Cusano adsimilandus, qui quanto n1aior est, tanto paucioribus est accessibilis? Huius ingenium si presbyteralis amictus non interturbasset, non Pythagorico par, sed Pythagorico longe superius agnoscerem, profiterer. Copernicum etiam qualem putatis esse nedum mathematicum, sed (quod est mi rum) obiter physicum? Plus ille invenitur intellexisse in duobus capitibus, quam Aristoteles, et omnes Peripatetici in universa eorum naturali contemplatione. Quam sublime ingenium promere credetis Palingenium2. in illo suo humi repente poemate? quam mira, supra vulgi opinionem verissima, protulit ille de dimensione universi, substantia stellarum, natura lucis, orbium incolatu, et anima sphaerarum? An non praestant quingenta illius (inter tot vappas) carmina, Atticismo et Romanismo omnium qui sub vexillo peripatetico comptius loquendo, et stultissime sentiendo, militarunt? Medico Paracelso, ad miraculum usque medico,. quis post Hyppocratem similis? Quantum putem vidisset ille sobrius, qui tantum potuit videre temulentus? Mitto plures, qui Atticas et Ausonias musas aptissime imitati sunt, et imitantur: et inter omnes Maiorem3 unum (vobis plusquam satis notum) qui illas exaequat,4 plusquam imitatur. Mitto quod et Germania suos habet Septimo ... 'Uideatur: l'impero o città terrena è immagine della città supcrna e la sapienza supema migra con esso di sede in sede. La Germania è divenuta ormai la dimora della verità. 2. Pali11geniflm: Marcello Palingenio Stellato, autore dello Zodiacus vitae, benché ferrarese, vien creduto tedesco dal Bruno che molto lo loda per le dottrine astronomiche anche nel De immenso e molte affermazioni di lui riporta letteralmente. Cfr. F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze 1886, p. 303. 3. Maiorem: è il teologo, poeta ed umanista Johann Major, coronato anche dall'imperatore Ferdinando I, e presente a Vittenberga mentre vi dimorava il Bruno. Cfr. G. FRANK, Johann Majo,, der Witten1.

ORATIO VALEDICTORIA

Lucrezio. In settimo luogo presso i Germani ai nostri tempi: sicché sembra certo che, con Giove e l'Impero a immagine della curia celeste, Minerva, questa Sofia, abbia, con una vicissitudine di successioni, cambiato paese e mutato sedi. Non crederete, o ascoltatori dottissimi, che io falsamente vi aduli, se vorrete più da vicino considerare le vostre ricchezze, voi che tra altri siete più oculati. Dal tempo che ai vostri principi fu devoluto l'impero, moltissimi ritrovati delle arti e degli ingegni d'uomini sorsero presso di voi, ai quali niente di simile s'incontrava presso le nazioni estere. Al famoso Alberto Magno, svevo, chi fu simile nel suo tempo? O non riuscì, per molti numeri, superiore allo stesso suo principe Aristotele, del quale indegnissimamente (essendo cocollato ), secondo la condizione di quel tempo, fu seguace? Dio buono, dov'è chi possa esser assomigliato al famoso Cusano, il quale, quant'è più grande, a tanto meno persone è accessibile? Se il vestito da prete non avesse turbato il suo ingegno, non pari a ingegno pitagorico ma di gran lunga superiore io riconoscerei e dichiarerei il suo. E Copernico pure, qual credete che sia, non solo come matematico, ma (cosa mirabile) occasionalmente anche come fisico? Si scopre che egli ha compreso di più in due capitoli, che Aristotele e tutti i Peripatetici nell'intera loro filosofia. Quanto sublime ingegno crederete palesi Palingenio in quel suo dimesso poema? quanto mirabili cose, al di sopra della volgare opinione verissime, egli mostrò su la dimensione dell'universo, la sostanza delle stelle, la natura della luce, l'abitabilità delle sfere e l'anima delle sfere? O non sono le cinquecento sue poesie (fra tanti autori da nulla) superiori all'atticismo e al romanismo di quanti militarono sotto il vessillo peripatetico parlando piuttosto elegantemente ma stoltissimamente pensando? Al medico Paracelso, medico fino al miracolo, chi, dopo Ippocrate, fu simile? E quanto debbo ritenere che avrebbe visto da sobrio colui che tanto poté vedere da ubriaco? E lascio altri che perfettissimamente imitarono e imitano le muse attiche ed ausonie: e fra tutti quel Maior (a voi notissimo) che le pareggia, più che non le imiti. E lascio che anche la Germania ha i suoi Theut inventori di nuove berger Poet, Halle 1863. Comunicazione del prof. O. Thulin della Lutherhallc. 4. exaequat: nostra correzione per exaequa,rdo delle stampe che non rende nessun senso. Vedi la Tavola delle emendazio,ri.

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Theutos1 novarum scripturarum inventores, Salmoneas qui lovis fulgura aemulantur, novos Vulcanos, Prometheos, Dedalos, Aesculapios, Endimiones, a quorum minimo similem apud exteras nationes non invenietis; ut cognoscatis quod hisce nostrae aetatis temporibus hic sapientia aedificavit sibi domum. Et ne Reges Regibus invideant,3 scientia illa astrorum, celsus nempe in coelum principum oculus, qui in primarum gentium prioribus divinae sapientiae vasis exortus est, iuxta illud Manilii Poetae: Regales animos primum dignata movere proxima tangentes coelo f astigia rerum, qui tantum novere decus, primique per artem sideribus vidtre vagis pendentia fata,4

si Aegyptii habuere principatu timendos, sacerdotio verendos, et sapientia admirandos illos Trimegistos,5 illos Hermetes, illos Mercurios, qui sub Erichtonii nomine, Orionis, et Ophiulci insiti astris ea ratione habentur; Graeci eadem conditione suum Perseum lovis filium, Chironem, et Hercu.lem; Persae Zoroastrem Battrianorum Regem; Moedi suum Gigem et Saborem;6 Lybici ut olim suum Athlantem, ita et proximis temporibus Gamalielem, et Alulidem Damasci Regem; Alexandrini Ptolemaeum; Hispani Alphonsum Regem ;7 Itali Numam, Caesaremque Dictatorem, Augustum, Antoninum, et Adrianum, pontificem maximum Paulum tertium :8 apud Germanos non solum inveniemus principes cultores eius, quae communiter recepta est, Astronomiae, quales audio fuisse Caesares Carolum Quintum, et Maximilianum Secundum, a quibus modo vivens Rodolphus non degenerat; neque ignotae artis fautores, instauratores, et promotores Christianum Tertium, et Fridericum Secundum Daniae et Norvegiae Reges, 9 sed etiam diu olim perditae et sepultae illius, quae vigebat apud Chaldaeos et Pythagoricos, veritatis erutores, qualem scimus magnum in 1. Mitto ... Tlieuthos: Theut, secondo il mito riferito da Platone nel Fedro, inventò la scrittura tra gli Egizi. Il Bruno allude all'invenzione della stampa. 2. Vulcanos . .. Endimiones: i primi tre sono fabbri e plasmatori, Esculapio medico ed Endimione artefice di statue. 3. Inizia un lungo periodo, di cui la trascuratezza della punteggiatura, comune alle stampe di questo secolo, rende meno agevole intendere l'articolazione e abbracciare il senso. Congiungi così: Et ne Reges Regibw invideatit •.. si Aegyptii habr1ere ... , apud Germanos non solum inveniemus ... sed etiam etc. 4. Man ilio, Astron., I, 29-30; 39-40. 5. Trimegistos: Mercurio Trismegisto, personaggio favoloso, sotto il cui nome corsero nel Medio Evo molti scritti apocrifi di teosofia.

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scritture, i Salmonei che emulano i fulmini di Giove, nuovi Vulcani, Prometei, Dedali, Esculapi, Endimioni, al più piccolo dei quali non troverete chi assomigli nelle nazioni estere; sicché potete riconoscere che in questi tempi, proprio qui la sapienza s'edificò la casa. E perché i re non invidino i re, quella scienza degli astri, cioè quell'alto occhio dei principi vòlto al cielo, quell'occhio che fra i primi vasi divina sapienza tra le prime genti è sorto, secondo quei versi del poeta Manilio: «La quale mosse dapprima gli animi dei re già vicini alle cose eccelse del cielo, i quali conoscono tanto splendore e, primi fra tutti, riconobbero che il destino degli uomini dipende dal corso delle stelle», se gli Egizi ebbero, temibili per principato, venerabili per sacerdozio, ammirevoli per sapienza, quei Trismegisti, quegli Ermeti, quei Mercuri, che sotto il nome di Erittonio, di Orione e d'Ofiulco son per tal ragione inseriti fra gli astri; e i Greci, nello stesso modo, ebbero il loro Perseo figlio di Giove, e Chirone ed Ercole; e i Persi Zoroastro, re dei Battriani; e i Medi il loro Gige e Sabore; e i Libici, come una volta il loro Atlante, così, nei tempi più vicini, Gamaliele e Aluli re di Damasco; e gli Alessandrini Tolomeo; gli Spagnoli re Alfonso; gli Itali Numa, e Cesare dittatore, e Augusto e Antonino e Adriano, e il pontefice massimo Paolo III: presso i Germani non solo troveremo principi cultori dell'astronomia comunemente ricevuta, quali sento che furono i cesari Carlo V e Massimiliano II, dai quali il vivente Rodolfo non degenera; né solo fautori, instauratori e promotori dell'arte ignota quali Cristiano III e Federico II re di Danimarca e Norvegia; ma anche ritrovatori di quella verità, pur a lungo una volta perduta e sepolta, che vigeva presso Caldei e Pitagorici: ritrovatori, quale sappiamo

6. Saborem: Saboro o Sapore I, re di Persia (sec. III d.C.), fondò la città di Ginday, grande centro di studi. 7. Alphonmm . .. Regem: re Alfonso X di Castiglia e di Leon (m. 1284), cultore di scienze, fece tradurre in castigliano opere arabe di astronomia. Le tavole alfonsine, fatte calcolare per il meridiano di Toledo, ebbero rinomanza sino al secolo XVI. 8. Numam •.. tertium: Numa prescrisse il calendario, Giulio Cesare lo riformò e scrisse di astronomia (un De motibu.s a.strorum perduto), gli altri principi son nominati per i cangiamenti introdotti nel calendario o per avere coltivato le scienze astronomiche. A papa Paolo III è dedicata, come è noto, l'opera di Copernico. 9. Daniae et Norvegiae Reges: Norvegia e Danimarca formavano un unico regno.

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Germania Lantgravium Gulielmum Hassiae, 1 qui proprii, magis quam alieni sensus et intelligcntiae oculis non Peripateticae exorbitantis philosophiae caudatariam cum Ptolemaicis tantum callet astronomiam; sed et eam quae physice deferentes orbes, 2 et sphaeris velut affixas vel insculptas stellas non agnoscit, et con1etas nihilominus eiusdem cum caeteris stellis substantiae [praedicat], utpote aeternos in aetherea regione consistentes, aetherem, aeremque pervadentes, sursumque deorsumque a terra et ad terram exspatiantes, et idcirco unum continuum coelum, sive aerem, sive aethereum campum protestantes. 3 Siquidem astra tum novae, tum antiquae apparentiae alienas subire, penetrare, et pertransire sphaeras convincuntur. Unde quis locus esse potest Chymaerae illius impenetrabilis, indivisibilis, et inalterabilis quintae essentiae et naturae, illius medii, illius mundani centri, continui regularisque ad geometricam amussim circularis motus naturalium corporum, eorumdemque nullo sensu, atque ratione quantitatibus et ordinibus effi.nctis et aliis permultis haec ipsa consequentibus, quae hic esset recensere superfluum, ne intelligamus discrimen inter fixos soles, et pluribus circumvagantes rationibus Tellures, quae propriae animae virtute exagitante aerem penetrant immensum, nec non abhorreamus hanc Tellurem matrem nostram unum ex astris nihilo multis circumstantibus indignius intelligere, et ea quae mille irrefragabilibus argumentis physice novimus, et istius famosissimi principis observationibus, quae ab aliis relatae circumferuntur, etiam atque etiam confirmata vigebunt. 4 Hic ergo sapientia aedificavit sibi domum. Adde Iuppiter, ut cognoscant proprias vires, et abstineant, adde ut studio rebus maioribus adpellant, et non erunt homines, sed Dii. Divinum, certe divinissimum est illud gentis huius ingenium, quod in illis tantum studiis non antecellit, in quibus non delectatur. At vero quis est quem silentio praeteribam? Cum fortis ille Gulielmum Hassiae: Guglielmo IV d'Assia, detto il Saggio, morto nel 1592. 2. physice ... orbes: le sfere che, secondo Aristotele, portavano infisse le stelle coinvolgendole nel proprio moto. 3. cometas ... protesta11tes: circa la natura delle comete era assai viva la disputa tra i filosofi del Rinascimento. Mentre gli Aristotelici le consideravano come fenomeni strettamente sublunari, la nuova astronomia le interpretava come effetto di vapori ascesi fino al cielo dei pianeti ed oltre, sui quali agisce la luce del sole. Cfr. Campanella, Q11aest. phys., q. XXIV, De cometis, art. 5-9, pp. 229 sgg. (Parisiis 1637). Nel testo vulgato abbiamo supplito praedicat per I.

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esser in Germania il Langravio Guglielmo d'Assia, che con gli occhi del proprio, anziché dell'altrui senso e intelletto, non solo coi Tolemaici conosce l'astronomia caudataria dell'esorbitante filosofia peripatetica, ma anche quell'altra astronomia che non riconosce orbi fisicamente deferenti e stelle quasi infisse o scolpite nelle sfere, e comete che nullameno affermi della stessa sostanza con le altre stelle, consistendo eterne nella regione eterea, pervadendo l'etere e l'aria, spaziando in su e in giù dalla terra e alla terra, e che così dimostrano esservi un solo cielo, o aria, o campo etereo continuo. Infatti astri apparsi anticamente e recentemente si dimostra che entrano, penetrano e attraversano le sfere degli altri. Sicché come può ammettersi quella Chimera, l'impenetrabile indivisibile e inalterabile quinta essenza o natura, quel mezzo, quel centro mondano, quel moto circolare continuo e regolare a rigore geometrico dei corpi naturali, con quella quantità e quegli ordini immaginati senza nessun senso e ragione, e con le moltissime altre cose che a questo conseguono (non occorre certo passarle in rassegna), per non intendere la differenza tra soli fissi e terre, vaganti intorno ad essi con rapporti diversi, terre che, mosse dalla virtù della propria anima, penetrano l'aria immensa, nonché per aborrire di concepire questa Terra madre nostra come uno degli astri per niente meno degno di molti circostanti, e quelle cose che con mille argomenti irrefragabili fisicamente conosciamo, e più e più resteranno confermate dalle osservazioni, che son diffuse nella relazione di altri, di codesto principe famosissimo. Qui dunque la sapienza s'edificò la casa. Aggiungi, o Giove, ch'essi comprendano la propria forza e si moderino, aggiungi che s'accostino con l'attenzione a cose maggiori, e non saranno uomini, ma dèi. Divina, anzi divinissima, è l'indole di questa gente: soltanto, essa non eccelle in quegli studi ai quali non prende gusto. Ma chi è colui che passavo sotto silenzio ? Quando quel forte

necessità del senso. 4. U11de quis locus ... tJigebunt: Periodo lungo e involuto. Le parole qtlis locru esse potest si continuano con-ne intelligamiu ..• nec non ( = et) abhorreamus etc. Senso: La supposta quinta essenza degli Aristotelici non ha luogo alcuno nella realtà e non può impedirci di riconoscere la differenza tra gli infiniti Soli e le infinite Terre che ruotan loro intorno, né può farci rifuggire dall'ammettere nel nostro mondo quella medesima animazione che appare in tutti gli altri nd opera di un principio interno di vita.

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armatus, clavibus et ense, fraudibus et vi, astubus et violentia, hypocrisi et ferocitate, vulpes et leo, vicarius tyranni infernalis, superstitioso cultu et ignorantia plusquam brutali, sub titulo divinae sapientiae et simplicitatis Deo gratae, inficeret universum; et voracissimae bestiàe non esset qui auderet adversari et obsistere contra, pro disponendo indigno et perditissimo seculo ad meliorem et feliciorem formam, atque statum, quae reliqua Europae et mundi pars protulisse potuit nobis illum Alcidem, tanto ipso Hercule praestantiorem, quanto faciliore negocio et instrumento maiora perfecit1 ( an non enim etiam perfecisse dicam eum, qui tam strenue atque frugaliter negocium tam egregium est adorsus)? $i quippe maius et longe perniciosius monstrum omnibus, quae tot ante seculis extitere, peremptum vides, De clava noli quaerere, penna fuit.

Unde ille? unde? Ex Germania, ex ripis istius Albis, ex ubertate fontis istius. Hic triplici illa thiara insignem tricipitem illum Cerberum, ex tenebroso eductum orco vidistis vos, et ille solem. 2 Hic stygius ille canis coactus est aconitum evomere. Hic vester et vestras3 Hercules de adamantinis inferni portis, de civitate illa triplici circumdata muro, et quam novies Styx interfusa coercet, 4 triumphavit. Vidisti, Luthere, lucem vidisti lucem, considerasti, excitantem divinum spiritum audisti, praecipienti illi obedisti, horrendo principi bus atque regi bus inimico inermis occurristi, 5 verbo oppugnasti, repugnasti, obstitisti, restitisti, vicisti, et hostis superbissimi spolia atque trophaeum ad superos evexisti.6 Hic ergo sapientia aedificavit sibi domum, hic excidit columnas septem, hic melius sacrificii vinum miscere adorta est, hic reformatiorem posuit Sacramentorum mensam. 7 Hinc vocavit invitatos ut venirent, ut venirent. Venerunt autem ex omni gente, natione, et disciplinatae Europae populo, Itali, Galli, Hispani,

I./aciliore ... perfeci.t: non intendere che l'impresa di Lutero fosse più facile che quella di Ercole (giacché da questo gli verrebbe una lode minore, e non maggiore), sibbene che, essendo essa più difficile, l'eroe tedesco la compì con tanta più agevolezza e con tanto men grave strumento (la penna anziché la clava) ecc. 2. Hic ... ille solem: la tiara del Pontefice consta di triplice corona, che accennerebbe il suo potere nell'ordine terreno, in quello spirituale e in quello soprannaturale e celeste. Cerbero poi, il custode dell'Averno, fu incatenato e tratto nel mondo della luce da Ercole. 3. vestras: vedi la Tavola delle emendazioni. 4. no-

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armato di chiavi e di spada, di frodi e di potenza, di astuzie e di violenza, d'ipocrisia e di ferocia, volpe e leone, vicario del tiranno infernale, avvelenava l'universo con un culto superstizioso e un'ignoranza più che brutale, sotto colore di sapienza divina e semplicità grata a Dio ; quando alla voracissima bestia non c'era chi osasse contrastare e resistere per disporre il secolo indegno e perdutissimo a migliore e più felice forma e stato, qual altra parte d'Europa o del mondo poté darci quell'Alcide, tanto più prestante d'Ercole stesso, quanto più agevolmente portò a compimento cose più grandi (non è forse un compimento l'inizio strenuo e valoroso di impresa così eccellente)? Che se tu vedi annientato un mostro più grande e di gran lunga più pernicioso di quanti da tanti secoli mai esistettero, illustrissimo Enrico Giulio, di tanto splendore d'animo, tanta prudenza, fortezza, dottrina e magnanimità, qual padre della patria ottimamente meritevole di subentrare al suo posto: il duca Enrico Giulio della cui virtù il fulgore,

GIORDANO BRUNO

scopatus, huius illustris Academiae rectoratus, et aliorum titulorum administrationes, quas illustrissimo Duce parente superstite, adolescens summa cum laude, et omnium satisfactione exercuit; nunc certe firmata aetate, ultra atque ultro, amplius atque amplius cum latiore amplioreque dominio atque moderatione tanto magis illustrabitur, enitescet, propagabitur ?1 Ut certe videre possitis illud illustrissimi Ducis Iulii prudentissimo studio esse factum; ut pluribus post ipsius funera saeculis, eius vobiscum praesentiam melius atque melius agnoscatis. Praetereo recensere quanta diligentia in populorum suorum utilitatem, usum, favorem, atque gratiam illustrissimos liberos suos curavit educandos. Illud unum tantum mihi e memoria nulla aetas et oblivio delebit, quod bisce meis oculis videre, et auribus hisce audire licuit, heroas pueros binos principes filios sinui et educationi vestrae commissos, certisque temporibus arctissimo adstrictos examini, a communibus nuptiis, bacchanalibus, et compotationibus prorsus alienos et aversos, quemadmodum neque studio feritatis intentos post carnificinam fugacium leporum, atque cervorum nemo unquam aspexit, sed tantum scholasticis et ecclesiasticis iugi frequentia conventibus interesse. Et maxime illud memoria seculorum (quod volo dicere) dignum; quam magnifice, animose, et (non minus quam aetas pateretur) docte in theses sub magno Iurisconsulto Borcholto2 disputatas ambos propositis gravibus argumentis opposuisse novimus. Ut (bone Deus) tunc mihi pro multiplici affectu pectus subsultabat? Ut mire desiderabam illic pro exemplo universos Europae principes, et principum filios interfuisse? O quam certe plerosque ex bisce puduisset ipsis pro adultiores3 stupiditate silentibus, et in auribus totum ingenium habentibus, tenellos pro iisdem pueros sapere, loqui, audiri. Ut didicissent quemadmodum non semper, ita etiam nostra hac aetate omnium infelicissima non ubique commune atque proprium principibus est alieno tantum ingenio, iudicio, lingua sapere, consultare, loqui? I. Dopo p,opagabitu, si deve surrogare l'interrogativo al punto fermo delle stampe. z. lurisconsulto Bo,cholto: Giovanni Borcholten, sotto la cui direzione si svolse la disputa, è il celebre giureconsulto, autore dei Commentarii in quatuo, libros institutionum lustiniani (1590, in-quarto), e insegnante a Rostock e a Helmstadt. 3. p,o adultio,es: esclamazione che converrebbe includere in parentesi e significa: •Ohi vergogna per gli

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dopo gli halberstadesi episcopati, i rettorati di questa illustre Accademia e le amministrazioni d'altri titoli da lui esercitate da giovane, vivo l'illustrissimo duca suo padre, con somma lode e soddisfazione di tutti, ora certo in età consolidata sempre meglio e di più, con dominio e moderazione più larghi e più grandi, sarà illustrato, rilucerà, si propagherà: sicché possiate cer.. tamente vedere che il prudentissimo pensiero dell'illustrissimo duca Giulio fece in modo che, più secoli dopo i suoi funerali, voi possiate sempre meglio riconoscere la presenza di lui accanto . a VOl. Ometto di rilevare con quanta diligenza, per il vantaggio, l'uti.. lità, il favore e la grazia dei suoi popoli egli curb l'educazione degli illustrissimi figli suoi. Questo soltanto né il tempo né l'oblio cancelleranno mai dalla mia memoria, l'aver potuto vedere coi miei occhi e udire con questi orecchi i due eroi fanciulli, i principi figliuoli commessi al vostro seno e alla vostra educazione e costretti, in tempi determinati, a strettissimo esame, interamente alieni e contrari dai comuni piaceri, baccanali e bevute, come nessuno mai li vide, dopo la carneficina di fugaci lepri e di cervi, intenti a studio di efferatezza, ma solo intervenire con diligente frequenza alle riunioni di scuola e di chiesa. E soprattutto è degno della memoria dei secoli (voglio dirlo) quanto magnificamente, animosamente e dottamente (non meno di quanto comportasse la loro età) sappiamo che entrambi s'opposero alle tesi disputate sotto il gran giurecon.. sulto Borcholt, proponendo gravi argomenti. Come allora a me, Dio buono, il petto sussultava di molteplici sentimentil Come mirabilmente avrei desiderato fossero lì presenti, per l'esempio, tutti i principi d'Europa e i figli dei principi! E come certamente i più tra loro, oh adulti, avrebbero arrossito che, tacendo essi per stupidità, e tutto l'ingegno avendo negli orecchi, quei ragazzi tenerelli davanti a loro dessero prova di senno ·e sapere, parlassero, fossero ascoltati! Avrebbero appreso che non sempre, anche in questa nostra età che è di tutte la più infelice, non dappertutto è condizione comune e propria ai principi aver senno, aver consiglio, e par... lare solo per l'altrui ingegno, giudizio e lingua. adulti I • Il Fiorentino che ha preso pro per la comune preposizione propone di riferire adultioru a plerosque e trasportarlo innanzi, ma ogni ritocco ~ superfluo.

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Non 1ninori cura atque sedulitate pienissima fama et evidentia est educatam esse primogenitae indolis illustrissimi Principis Henrici Iulii celsitudinem, quae incrementa capiente aetate, diu ante praematurum nacta iudicium, 1 linguarum omnium, doctrinarum, atque virtutum (quantum cuicunque optimo principi atque moderatori opus est) culmen attigisse potuit. Quinam igitur (si mentis oculos in altum efferatis) ex dieta caussa moestitiam populis ullam enasci posse videbitis? Uhi felicissimus inter Heroas collatus ille animus coelum tenens, conversisque in terram oculis videat, ex una parte in Duce Illustrissimo Henrico I ulio tum mirum in eius exequiis celebrandis gratitudinis et amoris indicium; tum etiam pro populis gubernandis illas in multis principum desideratissimas animi, mentis, atque corporis virtutes eximias: ex altera vero parte (pro coelesti gratia, divinoque illi adsistente favore) sub tanto, talique duce omnia ut reliquit, pacata, tranquilla, incolumique statu, utpote propter reformatiorem religionem, iustitiam, benevolentiam, atque gratitudinem, populorum tanquam fortissimis vinculis obstrictorum firmissimum obsequium ? Num tua tandem caussa dolere debeas, et quali ratione erga Illustrissimum fundatorem tuum hoc tempore affecta esse debeas (Academia amplissima) non meis sed ipsius verbis, immo factis recensebo. Ipsam igitur beatissimam celsitudinem praesentem coram agnosce, et iis quibus te alloqui consuevit voce, vultu, atque affectu, animi tui intima pulsantem audito. - lulius ille Caesar ad cuius celsum fortunae gradum superattingere non potui (quia per vim patriae visceri bus illatam, atque crudelem illam tyrannidem numquam voluissem neque veliero) cuius tamen animum et illustres virtutes exaequare studui, et (si pro moribus patriis possibile esset) superare; ut illi aliqua propria ratione et facto comparari possem, cui proprio nomine et atavorum regum splendore compar eram: totum attamen, et fortasse amplius a superis fecisse censeor: 2 « Nihil enim praetermisit qui quantum potuit effecit. »3 llle cum e Pharii tyranni4 manibus, non sine mirabili divino favore, mediante propriae sedulitatis, atque solertiae virtute elaberetur, quando de extremo vitae suae discrimine agebatur, in illa prope desperata, imo vere desperatissima r. diu . .. iudicium: cioè: avendo sortito un senno precocemente adulto. 2. Julius .•• censeor: osserva il costrutto grammaticale inconsueto. I11liru ille Caesar è soggetto di prima persona e il suo predicato è censeor. Per

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Con cura non minore e sollecitudine pienissima è fama ed evidenza che fu educata l'altezza del primogenito l'illustrissimo principe Enrico Giulio, il quale, crescendo in età, avendo ricevuto senno precocissimo, poté attingere il culmine di tutte le lingue, dottrine e virtù (quanto occorre a ogni ottimo principe e governante). Come dunque, se volgete in alto gli occhi della mente, vedrete poter per la detta causa nascere ai popoli mestizia alcuna? mentre quell'animo felicissimo salito tra gli eroi, stando in cielo e volgendo gli occhi su la terra, può vedere, da una parte, nel duca illustrissimo Enrico Giulio tanto un ammirevole indizio di gratitudine e d'amore nella celebrazione delle sue esequie, quanto anche quelle esimie virtù d'animo, cli mente e di corpo per il governo dei popoli che tanto si desidererebbero in molti fra i principi; e dall'altra parte (per grazia celeste e per il divino favore che l'assistette), sotto tanto e tale duca, può veder tutto com' egli lo lasciò, pacato, tranquillo, intatto, per la religione riformata, la giustizia, la benevolenza e la gratitudine, ossequio fermissimo dei popoli, quasi legati da vincoli fortissimi ? Se, infine, ti debba dolere, e qual pensiero tu debba fare verso l'illustrissimo tuo fondatore in questo tempo, o Accademia amplissima, lo esaminerò non con mie parole, ma con parole, anzi fatti di lui stesso. Riconosci dunque l'Altezza Sua beatissima presente qui davanti a te, e odi come tocca l'intimo dell'animo tuo con la voce, il volto e l'affetto coi quali soleva rivolgerti la parola. - Io, quel Giulio Cesare, il cui elevato grado di fortuna non potei raggiungere (perché, con la violenza fatta alle viscere della sua patria e con quella sua crude! tirannide, mai avrei voluto né vorrei), mentre mi studiai di pareggiare e (se fosse possibile secondo i patrii costumi) superare l'animo suo e le illustri virtù, per poter essere paragonato, per qualche mia ragione e mio fatto, a lui al quale già ero pari per il mio nome e lo splendore degli avi re; io son tuttavia giudicato dai superi d'aver fatto tutto e forse di più: «ché niente omise chi fece tutto quanto poté». Quando Cesare sfuggì alle mani del tiranno di Faro, non senza un mirabile divino favore, mediante la virtù della propria attività e solerzia, in artificio oratorio il Bruno identifica il defunto duca col grande condottiero omonimo. 3. È una sentenza di Publio Laberio. 4. tyra,ini: il tiranno è Tolomeo, re d'Egitto, ma in Lucano non Tolomeo, sibbene Potino mette in pericolo Cesare.

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cura, non magis sui recordatus est, quam Musarum suarum, libellorum suorum. Molis in e:,.-iguae spacio stipantibus armis dt1x Latiru tota subito f ormidine belli dngitt1r, hinc densae praetexunt littora classes, a tergo insulta11t pedites; via nulla salutis ,· non /tlga, non virtru, vix spes quoque mortis honestae. Captus sorte loci pendet dubiume timeret, optaretve mori: prohibent fata. Jpsa salutis ostendit Fortuna viam; tunc puppe relicta prosilit in pontum; siccos fert laeva libellos, dextra secat fluctus; tandemque illaesw amico excr"pitur plausu. clamantis ad aethera turbae. 1

Ita et tuus Iulius (lulia) in omni casuum extremitate, quos multos subiisse potui, salutem tuam (propter eas quas quantum potui colui Musas) cum salute mea composui. Te (ut scias) a primis aetatis meae annis meditatus sum atque dilexi: cum adversum me undique vastissimi maris huius, atque turbulcnti saeculi fluctus effervescerent, et aestuarent, cum ex omni latere procellae nequissimae illius religionis, et violentae tyrannidis Tiberinae bestiae me fluctuantem propulsarent; ut ab ipso materno sinu, paternis ulnis, et totius natalis domus amore et gratia divulsum; expositumque invidiae, livori, et maledictis sibilantium serpentum, canum latratibus, sannis aprorum spumantibus, rugitibus, dentibus, et unguibus leonum, acerrime maligna fortuna concuteret. Hisce inquam affiictantibus, cum ex omni latere circumdatus essem, et cominus mortem rninitantibus, et intentantibus vallatus premerer, et vix in mortis honestae spem ociosorum presbyterorum sententia adactus: tunc cum velut unica, pro meae virtutis suffragio, naufragii tabella superesset, te tamquan1 dimidium animae meae, sub vexillo religionis, pietatis, et doctrinae (quae pro parte luminis a coelo mihi irradiantis optima videbatur) hac manu constantissime sustinui, ne ab undis perversitatis non solum mergereris, sed ne vel saltem contaminareris. Dextram mihi tantum (adhuc favori et saluti tuae intentam) quae reliquos labores susciperet, pro scopulis evitandis, fluctibus superandis, et ut ad tutum portum mei tuique communia viscera perducerem, reliqui. ltaque e duabus manibus altera tota tuae, altera vero partim tuae, I.

Lucano, Bellum civile, x, 534 sgg. citati a memoria.

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quella pressoché disperata ansia, anzi veramente disperatissima, pensò meno a sé che alle Muse sue e ai suoi libri. « Stipandosi le armi in piccolo spazio, il duce romano è premuto da ogni parte dal pericoloso attacco dei nemici, di qua dense flotte orlano i lidi, da tergo l'incalzano le fanterie; non c'è via di salvezza: non la fuga, non il valore, appena appena la speranza di morte onorata. Accerchiato, resta in dubbio se debba temere o desiderare la morte: ma lo proibiscono i fati. La Fortuna indica essa la via: allora, lasciata la nave, si getta in mare: con la sinistra porta asciutti i suoi libri, con la destra fende i flutti; e infine illeso è accolto dall'amico applauso della turba che leva fino al cielo il suo grido.» Così, o Accademia Giulia, io, il tuo Giulio, in ogni estremità dei tanti casi che dovetti subire associai la tua salute (per quelle Muse che coltivai quanto più potei) con la salute mia. lo, perché tu lo sappia, ti meditai e t'amai fin dai primi anni della mia vita: quando contro di me, da tutte le parti, ribollivano e infuriavano i flutti vastissimi di questo mare, di questo secolo turbulento, e da ogni lato mi respingevano le procelle di quella infame superstizione e violenta tirannide tiberina e io ondeggiavo; come strappato addirittura al seno materno, alle braccia paterne, e all'amore e alla grazia di tutta la mia casa natale; ed ero esposto al malanimo, al livore, agli insulti di serpenti sibilanti, ai latrati dei cani, alle zanne schiumanti dei cinghiali, ai ruggiti, ai denti, agli artigli dei leoni, e accerrimamente la fortuna mi colpiva; quando, dico, queste cose m'affliggevano, e da tutti i lati ero circondato, e da vicino minacciato di morte, e fortificatomi ero premuto dagli assalitori, e dalla sentenza d'oziosi preti ero ridotto appena appena alla speranza d'una morte onorata: allora, rimanendomi quasi sola, a suffragio della mia virtù, questa tavola del naufragio, te, come metà dell'anima mia, sotto il vessillo della religione, della pietà e della dottrina (che a me sembrava ottima, secondo quella parte di lume che dal cielo m'irraggiava), te io sostenni costantemente con questa mano, perché dalle onde della perversità non solo tu non fossi sommersa, ma neppur fossi contaminata. Mi serbai solo la destra (intenta ancora al favore e alla salute tua) per le altre fatiche, per evitare gli scogli,. superare i flutti e condurre in porto sicuro le comuni viscere tue e mie. Così, delle due mani,

GIORDANO BRUNO

partin1 meae vitae administrabat. Hac ergo dextera in agone positus nimium aspcras atque longas calamitates (in sacculi nempe huius pelagus immissus) subivi, pervasi, reppuli, oppugnavi, expugnavi, calcavi, superavi; tandemque me avitissimo 1 coelestis curiae plausu exceptum video; teque in optimo J?Ortu collocatam relinquo, immo habeo. Memento ergo tui lulii, mea Iulia, quam velut unum e meis liberis a coelis aspicio, cui ideo nomen meum indirli et communicavi, ut n1ei amoris pignus perpetuo in tuo corde consisteret. Ego te animo meorum liberorum insculpsi; quorum ut amor erga te esset indelebilis, eosdem tibi educandos tradirli: ut cum lacte religionis, pietatis, doctrinae e tui pectoris uberibus exsucto, amorem tui in visceribus propriae substantiae iniectum conciperent; quo te tandem tamquam propria viscera diligerent, proindeque ipsi te vicissim adultiores alerent, regerent, promoverent, et tutarentur, mea lulia. Te ego Iuliam appello quae antequam appareres in cultu lapidum, fundamentorum, parietum, columnarum, tectique istius sensibilis me nascente nata, me lactente enutrita, me adolente adulta, me fugiente fugiens, salva me salvo. Ut vero eo tempore Iulia nata qua Iulius natus, et cum lulio vivente lulia vivens, optime cavi ne et esset defuncto lulio defuncta. Vivit tibi Iulius, vivit tibi. Caro de carne mea, sanguis de meo sanguine, (in quo et per quem adhuc vivo, et vivam tecum) primogenitus meus Henricus lulius, spiritu nihilominus heroico, et Dei beneficiis exornatus, sicut divino tibi munere me vivente Rector astitit: ita etiam multiplici plenioreque gratia atque suffragiorum officio, nunc ille te ex toto e manibus meis suscipiet carissimam. Siquidem ut meum in [te]2 nomen, ita et vultum, et animum in te meum contemplabitur, et agnoscet. llle te amplius atque amplius fovebit, augebit, ditabit, exaltabit, atque defendet. Vale ergo (mea lulia) vale, aeternum vale; et hoc unum tibi quantum praecipere possum praecipio; teque quantum rogare possum rogo. ME AMA; et si me vicissim quo ego te complexus sum amore prosequeris, quos amavi ama, quos recepissem recipe, quos honorassem honora, protege quos protexissem. O beatissime heroum, principum sapientissime, ducum celeI. avitissimo: dal participio di avere, inusitato dai classici. supplito alle stampe, per necessità grammaticale.

2.

[te]: da noi

ORATIO CONSOLATORIA

una serviva tutta alla tua vita, l'altra, parte alla tua, parte alla mia. Con questa destra, dunque, messo nel combattimento, patii calamità troppo aspre e lunghe, spinto nel pelago di questo secolo, e le attraversai, respinsi, oppugnai, espugnai, calcai, superai; e finalmente mi vedo accolto dal plauso desideratissimo della celeste curia; e teJascio, anzi tengo, messa in un ottimo porto. Ricordati dunque di me Giulio, o mia Giulia, che io guardo dal cielo come uno dei figli miei, a cui perciò diedi e comunicai il nome mio, perché pegno del mio amore rimanesse perpetuamente nel tuo cuore. Io ti scolpii nell'animo dei miei figli, e perché il loro amore verso di te fosse indelebile te li affidai da educare: affinché insieme col latte della religione, della pietà, della dottrina, succhiato alle mammelle del tuo petto, concepissero amor di te immesso nelle viscere della propria sostanza; perché infine t'amassero come le proprie viscere, e per questo, a vicenda, fatti più adulti, t'alimentassero, governassero, promovessero e custodissero, o mia Giulia. Te dunque chiamo Giulia, che prima che apparissi nell'ornamento delle pietre, delle fondamenta, delle pareti, delle colonne e di codesto tetto sensibile, tu nascesti quando io nacqui, fosti nutrita quando io lattavo, adulta quando io crescevo, fuggente quando io fuggii, salva quando io fui salvo. Come poi Giulia nacque quando nacque Giulio e visse quando visse Giulio, ottimamente provvidi che non fosse anche defunta una volta defunto Giulio. Vive per te Giulio, vive per te. Carne della mia carne, sangue del mio sangue (nel quale e attraverso il quale ancora vivo e vivrò teco), il primogenito mio Enrico Giulio, di ornato spirito per nulla meno eroico e dei benefizi di Dio, come ti assistette, per divino dono, me vivente, in qualità di Rettore, cosl anche, per molteplice e più piena grazia e officio di appoggi, ora in tutto t'accoglierà dalle mie mani e t'avrà carissima; poiché, come il mio nome, così anche contemplerà e riconoscerà in te il volto e l'animo mio. Egli sempre più ti curerà, accrescerà, arricchirà, esalterà e difenderà. Salve dunque, mia Giulia, salve, salve in eterno; e una cosa ti prescrivo, con quante forze posso prescrivertela, e una cosa ti chiedo, con quante forze posso chiedertela: AMAMI; e se mi ricambi l'amore di cui t'ho circondata, ama coloro che io amai, accogli coloro che io avrei accolti, onora quelli che avrei onorati, proteggi quelli che avrei protetti. O beatissimo fra gli eroi, sapientissimo fra i principi, celeberri-

GIORDANO BRUNO

berrime, en ubi erat cor tuum, spiritus tuus, animus tuus; en ubi totum, en ubi tantum studium. Non antiquorum more templum idolorum erexisti, 1 non aras immundis daemonibus, atque misanthropis spiritibus consecrasti, non coenum seu coenobium,z vel dormitorium monachorum (glirium nempe desidiosorum nidum) fabricasti; non superfusis multa arcium propugnacula expensis, passimque munitissima architecta quibus violentum populis rebellaturis fraenum immitteres extruxisti. lllud enim (o ducum sapientissime) cognovisti, quam vires huiusmodi non minus possint contra Principem, quam pro Principe comparari, quibus paratis, non solum contingat tyrannis illorum caussa, sed etiam adeoque magis ab illis sibi metuere. 3 Optime considerasti populos pace, prudentia, longanimitate, benignitate, atque iustitia maxime detineri, et in aeternum sub eodem regimine conservari. Talibus compedibus, manicis, iugis, muris, propugnaculis, vallis atque turribus imperasti, regnasti, regnas adhuc et imperas. Sic hostes tuos sola animi prudentia et invicti spiritus robore perterruisti. Considerasti sapientiam atque rerum peritiam omnibus propugnaculis et oppugnaculis praev~lere. Quapropter tum populorum salutem, tum principum magnitudinem atque potentiam, bona item omnia in uno Musarum cultu sita esse conspiciens, Iuliam hanc tuam, nomen tuum, et affectum tuum Musis consecrasti. At nunc quid tibi vicissim pro tanto munere Musae? Ipsae tibi in aeternitatis templo statuam auream erexere, cuius dexterae ensem cum lancibus Astrea porrexit et applìcuit, laevae Minerva sapientiae et legis librum concessit apertum. Pallas pectori fortitudinis atque rnagnanimitatis thoracem adiecit. Capiti corona prudentiae, atque consilii, quam tibi magnus Apollo pertexuit, est immissa. Sub pedibus innumerorum variorumque monstrorum simulacra videre licet Invidiae, Fraudis, lrae, Gulae, lmpietatis, Superstitionis, Ignorantiae, Ocii, Luxus, Detractionis, Avariciae, Tyrannidis, Violentiae, aliorumque millium. lbi circum ex candidissimo solidoque argento proprias singulae statuas apposuere. Uhi Clio praeteritarum rerum memoriam ante oculos praesentis 1. Non ... erexisti: allusione al culto dei santi, rimosso da Lutero. 2. non ..• coenobium: giuoco di parole tra coenr,m = fango e il tema greco xoLv (latino coen = comune). Onde coenobiuni, che propriamente vale «vita in comune•, viene a significare avita nel fango». 3. non solum • .. met11ere: erette le fortezze i principi non soltanto temono per i loro popoli dagli

ORATIO CONSOLATORIA

mo fra i duchi, ecco dov'era il cuore tuo, lo spirito tuo, l'animo tuo; ecco dov'era tutto il tuo affetto, affetto sl grande. Non erigesti, secondo il costume degli avi, tempio d'idoli, non fabbricasti are a demoni immondi e a spiriti misantropi, non ceno o cenobio, o dormitorio di monaci (cioè nido d'infìngardi ghiri); né, profondendo spese, costruisti molti propugnacoli di ròcche e dappertutto munitissime opere architettoniche con le quali mettere un violento freno ai popoli che si ribellassero. Ché tu conoscesti, o sapientissimo fra i duchi, quanto forze di tal genere possano esser preparate non meno contro il principe che a suo favore: e, una volta preparate, non solo accade ai tiranni di temere per i loro popoli, ma anche assai più di temere dai loro popoli. Ottimamente considerasti che i popoli si tengono soprattutto con la pace, la prudenza, la longanimità, la benignità e la giustizia, e cosi si conservano in eterno sotto lo stesso regime. Son questi i ceppi, le manette, i gioghi, i muri, i propugnacoli, i valli e le torri con cui imperasti, regnasti, e tuttora regni ed imperi. Cosi atterristi i nemici tuoi con la sola prudenza del tuo animo e l'energia dell'invitto tuo spirito. Tu considerasti che sapienza ed esperienza prevalgono su tutti i mezzi tanto di difesa quanto d'offesa. Sicché vedendo sia la salute dei popoli, sia la grandezza e potenza dei principi, e parimenti tutti i beni posti tutti in questo culto delle Muse, tu consacrasti alle Muse questa Giulia tua, il nome tuo e l'affetto tuo. Ma ora, che ti dettero le Muse in cambio di sì gran dono? Esse ti eressero nel tempio dell'eternità una statua d'oro, alla cui destra Astrea porse e accostò spada con bilance, mentre alla mano sinistra Minerva concesse aperto il libro della sapienza e delle leggi. Pallade aggiustò al petto la corazza della fortezza e della magnanimità. Al capo fu messa la corona della prudenza e del senno, per te intrecciata da Apollo. Sotto i piedi si possono vedere i simulacri di innumeri e vari mostri, l'Invidia, la Frode, l'Ira, la Gola, l'Empietà, la Superstizione, l'Ignoranza, l'Ozio, il Lusso, la Detrazione, l'Avarizia, la Tirannide, la. Violenza, e altri mille. Ivi dintorno, le varie Muse apposero le proprie statue, tutte di candidissimo e solido argento. I vi Clio, richiamando la memoria altri principi, ma hanno da temere dalle fortezze stesse, che spesso divengono baluardo della rivolta. Jllorum è da riferire a populis.

GIORDANO BRUNO

aeternique sacculi revocans, rerum gestarum tuarum gloriam decantat. Melpomene thragica gravitate insignis, funebres augustissimasque pompas, 1 qui bus hon1ines, Dii, coeli et elementa felicissimum exitum tuum decorarunt. Comica Thalia lepidis, blandisque iocis congaudens, iis qui olim temere tuis heroicis consiliis et facinoribus sese opposuerunt, vel etiam nunc livore insano aegrotantes altissimis laudibus tuis detrahere contenderent, in aenea tabella inscriptis hisce carminibus insultat: En super astra manens sannas contemnit inanes; ,nateriam nostris, livide, tolle iocis.

Calliope heroicis carminibus tuos, atavorumque regum gestus decantante: Terpricliore affectus cythara ,novet, imperat, auget: plectra gerens Erato saltat pede, carmine, vultu: signat cuncta manu loquitur Polyhynmia gestu.

Urania in celsis mundani templi laqueariis, solido auro, atque hyacintho utriusque hemisphaerii coelestis imagines universas vivo proprioque colore expressas continentibus, nomen illustrissimum tuum circa Erigones2 fulgentem spicam coelatum3 ostendit. Ibi ad septentrionales imagines oculis intendentibus aspicere primo licebit Helicem, Cynosuram, Draconem, Bootem, Coronam Ariadnae, Herculem, Aesculapium seu Serpentaurum, Lyram, Cycnum, Aquilam, Sagittam, Delphinem, quorum singulae singulas virtutes tuas insinuant, propriisque notis describere intelliguntur. Delphin philanthropiam et humanitatem, Thessalica sagitta post maturum consilium felicem in peragendo celeritatem. Aquila amplioris dominii dignitatem, Cycnus puritatem, Lyra suavitatem, Aesculapius prudentiam, Hercules fortitudinem, Corona maiestatem, Bootes custodiam et vigilantiam, Cynosura sublimitatem atque firmitatem, Helice inocciduum illustrissimae serenissimaeque prosapiae tuae splendorem. Secundo in formas illas, quae magis inter Tropicum boreum et cingulum primi mobilis4 incumbunt perspiciendae veniunt Falx adamantina seu ensis incurvus, Caput Algolis seu Medusae, Capra cum haedis, Crines Berenices, Deltoton seu Triangulus, Auriga 1.Junebres . .. pompas: è sottinteso deca11tat. 2. Erigones: genitivo; costellazione della Vergine. 3. coelatum: non • incielato 11, ma •cesellato, scol-

ORATIO CONSOLATORIA

delle cose passate davanti agli occhi del secolo presente e di quello eterno, decanta la gloria delle gesta tue. Melpomene, insigne per tragica gravità, le cerimonie funebri augustissime deHe quali gli uomini, gli dèi, i cieli e gli elementi onorarono il felicissimo esito tuo. La comica Talia, rallegrandosi teco con lepidi e blandi scherzi, a coloro che un tempo temerariamente s'opposero ai tuoi eroici consigli e atti, o anche ora, malati di livore insano, cercano di detrarre alle altissime glorie tue, si rivolge con questi versi, scritti su tavoletta di bronzo: «Ecco: stando al disopra degli astri, egli spregia i dileggi inani; o invidioso, togli materia ai nostri scherzi. » E mentre Calliope in versi eroici decanta le gesta tue e dei re tuoi avi, « Tersicore con la cetra gli affetti muove, comanda, accresce; Erato, coi suoi plettri, danza col piede, col carme, col volto; segna tutto con la mano, parla Polinnia col gesto.» Urania negli alti soffitti del tempio del mondo, i quali portano, di solido oro e giacinto, le immagini tutte d'entrambi gli emisferi celesti espresse in vivo e appropriato colore, Urania, dunque, mostra cesellato il nome illustrissimo tuo intorno alla fulgente punta d'Erigone. I vi a chi guardi le costellazioni settentrionali sarà dato vedere in primo luogo Elice, Cinosura, il Drago, Boote, la Corona d' Arianna, Ercole, Esculapio o il Serpentoro, la Lira, il Cigno, l' Aquila, la Saetta, il Delfino, ciascuno dei quali rappresenta una delle tue virtù; e s'intende descriverla con note appropriate. Il Delfino indica la filantropia e l'umanità; la saetta tessalica, la felice celerità nel compimento dopo maturo consiglio. L'Aquila rappresenta la dignità di più ampio dominio, il Cigno la purità, la Lira la soavità, Esculapio la prudenza, Ercole la fortezza, la Corona la maestà, Boote la custodia e la vigilanza, Cinosura la sublimità e la saldezza, Elice lo splendore senza tramonto dell'illustrissima e serenissima prosapia tua. In secondo luogo, a chi guardi a quelle costellazioni che stanno piuttosto fra il Tropico boreale e il cingolo del primo mobile, s'offrono allo sguardo la Falce adamantina o spada ricurva, la Testa d' Algol o di Medusa, la Capra coi capretti, la Chioma di Berenice,

pito ». 4. Tr9picum . .. mobili's: nota come il Bruno parli nell'orazione secondo il comune concetto aristotelico del cielo.

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seu Erichthonius, Perseus, Andromeda, Cassiopea, Cepheus, Equiculus, Pegasus seu Bellerophontis equus. Ubi Pegasus alatus fuseque per aethera cursum explicans, famam tuam universum orbem pervadentem designat, Equiculus libertatem, Cepheus (qui et Cheicus, id est inflammatus) ardentem erga Musas religionem atque iustitiam zelum, Cassiopea illustrissimae heroinae coniugium, Andromeda manicis atque catenis alligata, Dei timorem, atque pietatem, quibus ita tui affectus atque opera devinciebantur, ut nihil praeter divinam et naturalem moralemque iustitiam tibi licere arbitrareris, neque committeres. Perseus triumphator, stre-nuae sedulitatis, atque illaboratae1 virtutis tuae index et testis est. Crinis Berenices facilitatem et ornamentum aperit. Auriga Erichthonius, qui carmine quercus adtraxisse fertur, nativum eloquium et gratiam, qua durissimas gentes in proprium obsequium emolluisti. Triangulus, virtutum ternarium, Prudentiam qua negotia omnia es adorsus, Strenuitatem qua eadem perfecisti, et eam qua facta defendisti Virilitatem. Capra cum haedis (ex vi siderali) sollicitudinem, digniorumque rerum curam. Caput illud Gorgonis recisum, cui pro crinibus venenosissimi angues implantantur, monstrum illud perversissimae Tyrannidis Papalis, cui supra capillorum numerum adsistunt et administrant universae contra Deum, naturam, et homines blasphemae linguae, quaeque pessimo ignorantiae et nequitiae veneno mundum inficiunt, quod a regionibus istis tua virtute detruncatum et avulsum experimur. Gladius ille adamantinus monstri caede rubens, mentis invictae constantiam, qua horrendissimam illam feram confecisti. Tertio orbis obliqui sidera respicientibus occurrunt Pisces illi Dionei, Phrygius Ephebus Ganimedes quem Aquarium appellant, Hispida species Aegocerontis seu Capricorni, Chiron centaurus, Scorpius, Libra, Astraea virgo, Leo, Cancer, Geminorum Castoris et Pollucis simulacrum, Taurus, Aries. Uhi Aries aurato vellere effulgens, notat aureum et pacificum, auctumque seculum post ferreum et turbidum ducatui isti per te inductum atque confirmatum. Taurus Europaeus vector, constantiam, gravitatem, et maturitatem. Castor atque Pollux inviolatam in amando et reamando legem, quam iustus atque gratus, in distribuendo et retribuendo

1.

illaborattu: laboriosa.

ORATIO CONSOLATORIA

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il Deltoton o Triangolo, l'Auriga o Erittonio, Perseo, Andromeda, Cassiopea, Cefeo, Equicolo, Pegaso o cavallo di Bellerofonte. Dove Pegaso alato e spiegante la sua corsa attraverso l'etere, designa la fama tua che pervade l'intero orbe; l'Equicolo, la libertà; Cefeo (che è anche Cheico, vale a dire infiammato), l'ardente religione verso le Muse e zelo verso la giustizia; Cassiopea, il matrimonio con l'eroina illustrissima; Andromeda, legata da manette e catene, il timor di Dio e la religiosità, da cui i tuoi affetti e le tue opere eran legati sì, che tu né ti ritenevi lecito, né operavi nulla all'infuori della giustizia divina, naturale e morale. Perseo trionfatore è indice e testimone della strenua attività e laborioso valore tuo. La Chioma di Berenice spiega la facilità e l'ornamento. L'Auriga Erittonio, che ha fama d'aver attirato col suo canto le querce, indica il nativo eloquio e la grazia con la quale addolcisti, piegandole a ossequio, genti durissime. Il Triangolo rappresenta il ternario di virtù: la Prudenza, con cui cominciasti ogni impresa; la Strenuità, con la quale la conducesti a termine; la Virilità, con cui, fattala, la difendesti. La Capra coi capretti, per la potenza siderale, la sollecitudine e cura delle cose più degne. Quella testa recisa della Gorgone, a cui, in luogo di capelli, crescono serpenti velenosissimi, indica quel mostro della perversissima tirannide papale, che, in numero superiore a quello dei capelli, è assistita e servita da tutte le lingue blasfeme contro Dio, la natura e gli uomini, le quali infettano il mondo col pessimo veleno dell'ignoranza e della nequizia; testa della Gorgone che dal tuo valore constatiamo troncata e allontanata da queste regioni. E quella spada adamantina, rossa della strage del mostro, rappresenta la costanza della tua mente invitta, onde uccidesti quell'orrendissima fiera. In terzo luogo, a chi guarda le stelle dell'orbe obliquo si presentano quei Pesci Dionei, il frigio efebo Ganimede che chiamano Aquario, l'ispido aspetto dell'Egoceronte o Capricorno, Chirone centauro, lo Scorpione, la Libra, la vergine Astrea, il Leone, il Cancro, il simulacro dei Gemelli Castore e Polluce, il Toro, l'Ariete. Dove l'Ariete fulgente nell'aureo suo vello indica il secolo aureo, pacifico e prospero, da te introdotto e mantenuto in questo ducato dopo il secolo ferreo e torbido. Il Toro che portò Europa indica la costanza, la gravità, la maturità. Castore e Polluce rappresentano l'inviolata legge d'amare e riamare, cui, giusti

GIORDANO BRUNO

Eros exigit verus et Anteros. Cancer fervens, ardens et adustus, miram laborum tolerantiam. Leo cuius cor instar inflammantis solis, latissimo radiorun1 ordine scintillat, invktissimum magnanimitatis vigorem, quo turbas et beila, ne mota superares, antequam moverentur oppressisti. Astraea, naturalis continentiae et castitatis specimen. Libra, quanto cuncta moderamine tum in aliena, tum in propria persona gesseris. Scorpius contracta cauda formidoIosus, atque undique ramosa brachia recurvans, fraudolentum atque subdolorum temeritatem atque audaciam quam repressisti. Chiron superiore parte tantum homo, quosdam e tuis populis, quos a barbarie et feritate in humanitatis veram speciem evexisti, superplantatis pietatis, artium atque musarum studiis. Aegoceros in quo ab inferis partibus ad superna solis cursus inflectitur, 1 apertam arnpliationem dominii, atque amplius futuram exaltationem. Phrygius puer de Iovis cellariis tibi nectar effundens rationem adducit, qua digne Musae tibi in templo famae sacellum hoc extruxerint, utpote numero beatissimorum numinum de vino aeternae fruitionis participantum, adscripto. Pisces in alta coeli parte constituti, ob eam causam, quia Venerem atque filium a Typhonis gigantis furore liberarint,2 ostendunt celsitudinem tuam eadem ratione coelestis incolatus esse participem, nam legem illam geminae dilectionis Evangelicam, ne temeraretur a saevissimo atque truculentissimo tyranno, intra proprios lares transfugam suscepisti, susceptamque tuendam defendendamque confirn1asti. Ultimo ad inclinantem, infernamque coeli partem tibi subiacentem admirabiles offeruntur imagines Orion, Procanis3 et Sirius canis, Lepus, Argonavis, Hydra, Corvus, Cratera, Centaurus, Lupus, Ara, Piscis Austrinus, Cetus, Eridanus, Corona. Uhi Corona (quam Uraniscum appellant) superbiam, et vanam ambitionem, Tyrannidemque significat; Eridanus, profusam et indiscretam elargitionem seu prodigalitatem. Cetus immoderatam concupiscentiam. Piscis mutam ignorantiam. Ara superstitiosum cultum et idolatriam. Lupus rapacitatem et saevitiam. Centaurus duplicitatem cordis et affectus. Cratera temulentiam, helluositatem 1. Aegoceros .•. inflectitur: l'Egocero è il nome greco del Capricorno, punto della massima declinazione invernale del sole. 2. Venerem ... liberarint: secondo questo mito poco noto, i pesci salvarono Venere e suo figlio, quando si gettarono nell'Eufrate per sfuggire a Tifone. Cfr. Ovidio, Fast., u, 459 sgg. 3. La lezione vulgata Procrinis sembra errore delle stampe, per Procanis, traduzione latina di 1tpoxuc.i>v, nome della stella che

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e grati nel distribuire e retribuire, esigono Eros vero e Anteros. Il Cancro fervente, ardente o adusto, indica la mirabile tolleranza delle fatiche. Il Leone, il cui cuore a guisa di fiammante sole scintilla in fascio larghissimo di raggi, indica l'invincibile vigore della magnanimità, col quale, per non doverle superare dopo cominciate, tu soffocasti turbolenze e guerre prima che cominciassero. Astrea, l'esempio di natural continenza e castità. La Libra, con quanta misura facesti tutto, sia in persona d'altri, sia in persona tua. Lo Scorpione con la coda contratta, minaccioso e con le ramose braccia ricurve in tutti i sensi, indica la temerità e raudacia, da te represse, dei fraudolenti e dei subdoli. Chirone, che solo nella parte superiore è uomo, rappresenta alcuni dei tuoi popoli, da te condotti dalla barbarie e ferità a vero aspetto d'umanità, piantando in essi l'amore della pietà, delle arti e delle Muse. Il Capricorno, nel quale il corso del sole s'inflette dalle parti inferiori alle superiori, indica l'aperto ampliamento del dominio e, inoltre, la futura esaltazione. Il frigio fanciullo, che dalle cantine di Giove ti versa il nettare, spiega come giustamente le Muse ti costruirono nel tempio della fama questo sacello, essendo tu ascritto al numero dei beatissimi numi partecipanti al vino dell' eterna fruizione. I Pesci, costituiti nella parte alta del cielo perché liberarono Venere e il figlio dal furore del gigante Tifone, mostrano l'Altezza tua partecipe, per la medesima ragione, della dimora divina, giacché quella legge evangelica del gemino amore, perché non fosse violata dal crudelissimo e truculentissimo tiranno, tu accogliesti fuggitiva fra i propri lari, e, accoltala per custodirla e difenderla, la consolidasti. In ultimo, verso l'inclinante e inferiore parte del cielo a te soggiacente s'offrono, ammirabili di costellazioni, Orione, il Cane, Procane e il Sirio, la Lepre, l'Argonave, l'Idra, il Corvo, il Cratere, il Centauro, il Lupo, l'Ara, il Pesce Austrino, Ceto, Eridano, la Corona. Dove la Corona (che chiamano U ranisco) significa la superbia e la vana ambizione e la tirannide; Eridano, la profusa e indiscriminata elargizione o prodigalità. Ceto, l'immoderata concupiscenza. Il Pesce, la muta ignoranza. L'Ara, il culto superstizioso e l'idolatria. Il Lupo, la rapacità e crudeltà. Il Centauro, la doppiezza del cuore e dell'affetto. Il Cratere, l'ubriachezza, la ghiotinsieme col Cane versa sulla terra gli ardori estivi. Cfr. Orazio, Carm., III, 29, 18.

GIORDANO BRUNO

et ebrietatem. Corvus loquacitatem et scurrilitatem. Hydra multiplicem mordacitatem atque maledicentiam. Argonavis avaritiam et fraudolentam usurpationem. Lepus pusillanimitatem et luxum. Canes duo terras immodicis ignibus concoquentes, 1 iram et invidiam. Orion tempestosus et horribilis, crudelitatem atque feritatem. Hisce significantur vitia, quae non minore virtutum numero conculcasti, subiecisti, domuisti. Feritatem atque crudelitatem admirabili clementia: lram et invidiam patientia et longanimitate: Detractionem, gravis eloquii maturi tate: Loquacitatem circumspectissimo sermone: Hel1uositatem et ebrietatem abstinentia et sobrietate: Duplicitatem cordis veritate atque sinceritate: Rapacitatem atque saevitiam mitissimo tractabilissimoque ingenio: Superstitionem et ldolatriam religione atque pietate: Mutam ignorantiam sapientia atque doctrina: lmmoderatam concupiscentiam modo in affectibus temperandis: Rerum dilapidationem parsimonia et frugalitate: Superfluam ambitionem atque tyrannidem, patriae paternitate. O felicem ergo, o terque quaterque tanto fundatore Iulio beatam Iuliam Academiam. Vive, egredere, vade, incede, consiste, sede gloriosissima inter omnes mundi academias. Augustissima, illustrissima, celsissima Princeps, principis filia, principum soror, et quam longo ordine illustrissimorum nepotum manet cathalogus amplissimus. 2 Quam generose orta, quam magnifice educata, quam gloriose adolescis. Vive, et pro hoc funebri habitu, quem ut portares digna effecta es, pro lacrymis bisce, quas sub titulo filiae fundere meruisti, gaude etiarn: in ipso inquam luctu gloriare, quia digniores pro simili tantoque obiecto academia nulla fudit, vel fundet unquam. Fundator tuus, princeps tuus, dominus tuus, parens tuus tenet coelum, de coelo te respicit. lnde tibi aderit. Ibi Deo Optimo Maximo votis oblatis (utpote illi gratissi.. mus) quidquid pro te volet impetrabit ille, qui in meliori statu non est verisimile ut tibi possit esse deterior. DIXI

I. Canes ..• concoquentes: vedi la nota antecedente. 2. Princeps ..• amplissimus: cioè: non pure principessa, figlia di principe, sorella di principe è l'Accademia Giulia, ma anche realizza tutti i gradi di parentela che possono elencarsi nella nobile genealogia del fondatore.

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toneria e l'ebbrezza. Il Corvo, la loquacità e scurrilità. L'Idra, la molteplice mordacità e maldicenza. L' Argonave, l'avarizia e la fraudolenta usurpazione. La Lepre, la pusillanimità e la lascivia. I due Cani, che ardono la terra con smisurati incendi, l'ira e l'invidia. Orione, tempestoso e orribile, la crudeltà e ferocia. Da queste costellazioni son significati i vizi che con un numero non minore di virtù conculcasti, assoggettasti, domasti. La ferocia e crudeltà con l'ammirabile clemenza; l'ira e l'invidia con la pazienza e la longanimità; la detrazione con la maturità del grave eloquio; la loquacità col sermone circospettissimo: la ghiottoneria e l'ebbrezza con l'astinenza e la sobrietà; la doppiezza di cuore con la verità e la sincerità; la rapacità e la sevizia con l'ingegno mitissimo e trattabilissimo; la superstizione e l'idolatria con la religione e la pietà; la muta ignoranza con la sapienza e la dottrina; l'immoderata concupiscenza colla misura nel temperare g!i affetti; la dilapidazione delle sostanze con la parsimonia e la frugalità; l'ambizione superflua e la tirannide con la paternità verso la patria. O felice, dunque, Accademia Giulia, o tre e quattro volte beata d'aver un così grande fondatore, Giulio. Vivi, ascendi, va', procedi, sta' salda, siedi gloriosissima fra tutte le accademie del mondo. Augustissima, illustrissima, altissima principessa, figlia di principe, sorella di principi, cui è destinata una discendenza infinita. Quanto generosamente nata, quanto magnificamente educata, quanto gloriosamente cresci! Vivi, e per quest'abito funebre che ti facesti degna di portare, per queste lacrime che con nome di figlia meritasti di versare, godi anche: nello stesso lutto, dico, glòriati che di più degne, per un simile e così grande oggetto, nessuna accademia ne sparse o ne spargerà mai. Il fondatore tuo, principe tuo, signore tuo, padre tuo, sta in cielo e dal cielo ti guarda. Di lì egli ti assisterà. I vi, offerti i voti al Dio ottimo massimo, essendogli gratissimo, tutto quello che vorrà per te impetrerà poiché non possiam credere che, posto adesso in migliore stato, sia a te meno benigno. HO DETTO

DE IMMENSO ET INNUMERABILIBUS SEU DE UNIVERSO ET MUNDIS AD ILLUSTRISSIMUM ET REVERENDISSIMUM HEROEM HENRICUM IULIUM BRUNSVICENSIUM ET LUNAEBURCBNSIUM DUCEM, HALBERSTADENSIUM EPISCOPUM ETC.

* DELL'IMMENSO E DEGLI INFINITI CIOÈ DELL'UNIVERSO E DEI MONDI ALL'ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO EROB ENRICO GIULIO, DUCA DI BRUNSWICK B DI LUNEBURG, VESCOVO DI HALBERSTADT ECC.

LIBER I

CAPUT Il

Est mens, quae vegeto inspiravit pectora sensu, quamque iuvit volucres humeris ingignere plumas, corque ad praescriptam celso rapere ordine metam: unde et Fortunam licet et contemnere mortem; arcanaeque patent portae,2 abruptaeque catenae,3 quas pauci excessere, quibus paucique soluti. Seda, anni, menses, luces, numerosaque proles, temporis arma, quibus non durum est aes adamasque, immunes voluere suo nos esse furore:4Intrepidus spacium immensum sic findere pennis exorior, neque fama facit me impingere in orbes, quos falso statuit verus de principio error, ut sub conficto reprimamur carcere vere, tanquam adamanteis cludatur moenibu' totum. Nam mihi mens n1elior; nebulas quae dispulit illas, fusim, qui reliquos arctat, disiecit Olympum, quando adeo illius speciem vanescere fecit, undique qua facile occurrit penetrabilis aer. s Quapropter dum tutus iter sic carpo, beata conditione satis studio sublimis avito reddor Dux, Lex, Lux, Vates, Pater, Author, Iterque: 6 adque alios mundo ex isto dum adsurgo nitentes, aethereum campumque ex omni parte pererro, attonitis mirum et distans post terga relinquo.

I. Questo primo capitolo è inspirato al terzo dei sonetti premessi al dialogo italiano De l'infinito. universo e mondi. 2. arcanae ... portae: intende dell'accesso alle verità riposte della natura. 3. abruptae ... catenae: le opinioni dominanti, segnatamente in astronomia, e anche le limitazioni poste dal dogma religioso. 4. immunes ... furore: la filosofia, come conquista di verità inalterabile sottrae l'uomo alla rapina del tempo. 5. qua ..• aer: dove la cosmografia tolemaica poneva un limite materiale all'universo, il Bruno vede effondersi senza limiti la materia più sottile del mondo. 6. reddor . •. Jterque: il saggio, grazie alla verità, trova in se medesimo tutti i valori.

LIBRO PRIMO

CAPO PRIMO

La mente che mi ispirò nel petto un vivido senso e a cui piacque impennarmi gli omeri e rapirmi cuore fino alla prescritta meta per un ordine eccelso : onde anche la fortuna e la morte mi è dato sprezzare; arcane porte si spalancano e spezzate son le catene cui pochi sfuggirono, da cui pochi son sciolti. I secoli, gli anni, i mesi, i giorni, prole numerosa, armi del tempo, che frangono il bronzo e il diamante, mi han voluto immuni dalla loro rapina. E così mi accingo intrepido a fender con l'ali lo spazio immenso, né urterò nel mio volo sfere celesti che da un falso principio andò fantasticando un autentico errore, facendoci credere che noi mortali siamo realmente rinchiusi entro un immaginato carcere, come se l'universo fosse serrato entro una cerchia adamantina. Più savio è il mio pensiero, che ha disperso quelle nebbie e diroccato quell'Olimpo che dovrebbe imprigionar tutti, facendo svanire la sua immagine. Perciò mentre inizio sicuro il mio cammino sublimato dal bramato studio divengo Duce, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via; e mentre da questo mondo mi inalzo ad altri mondi fulgenti e spazio per l'etereo campo, lascio dietro di me un mondo che altri vede ed ammira lontano.

LIBER III

CAPUT 1 1

Sic quondam puero n1ihi, mons peramoene Cicadae,2 cun1 gremium geniale3 tuum primaeva foveret viscera, blandiri tua lumina sancta recordor. Ut fueras hedera, et ramis redimitus olivae et corni, et lauri, et myrthi, rorisque marini, castanea circumcinctus, quercu, populo, ulmo, coniugio uviferae vitis felicibus, utque ruvida porrexit tenerae manui manus4 uvam, indice distencto dixti ~ihi: - Respice ad austrum, respice germanum mihi ab illa parte Vesevum. Germanus meus, ille tibi quoque vult bene: credis? si te illuc mittam, nunc dic: vis ire? mane bis cumque illo posthac. - Vitreis tunc versus ocellis, prospectans formam informem, relegensque figuram furvi dumtaxat cumuli: - Dorso ille repando, - dixi - ille incurvus dentato tergore, coelum contiguum findens? toto discrimine mundi hinc abstans, 5 fumo turpisque umbrante, nec ullis muneribus pollens, nec enin1 sunt poma nec uvae, nec dulces illi ficus: caret arbore et hortis, obscurus, tetricus, tristis, trux, vilis, avarus. - 6 At tu subridens: - Tamen est germanus amansque ille mei, atque tibi bene vult. Vise ergo, nec eius blanditias contemne, scio nihil ille molestum quod tibi sit, faciet, nolensque manere redibis. Ergo uhi adesse datum est illic, propiusque tueri Vesuvium Baccho celebrem, multoque superbum arbusto, ubertim e ramis pendentibus uvis, fructibus omnigenis, varia quos alma figura atque colore parens promit natura, benigno adspirans coelo patriae,7 nihilumque deesse illi, quas noram, rerum; proin piuria centum: attonitus novitate meos tunc arguo prin1um 1. Squarcio autobiografico nel quale affiorano ricordi puerili e reminiscenze del paesaggio campano. 2. mons ... Cicadae: è il monte Cicala ai

LIBRO TERZO

CAPO PRIMO

Così io ricordo, o amenissimo monte Cicala, che quando il grembo tuo fecondo proteggeva le giovani viscere mie, le tue luci sante blandivano la mia fanciullezza. Come tu eri redimito d'edera e di rami d'olivo e corniolo e alloro e mirto e rosmarino, cinto di castagno, quercia, pioppo, olmo, felici per l'unione con l'uvifera vite, e quando ruvida mano porse alla tenera mano l'uva, con l'indice teso tu mi dicesti: - Guarda verso mezzogiorno; guarda da quella parte il mio germano Vesuvio. Il mio germano, anche lui ti vuol bene: lo credi ? Se ti mando li, dimmi ora: vuoi andare? e rimarrai con ]ui, dopo. - Allora, voltati da quella parte i limpidi occhietti, guardando la forma informe e osservando appunto la figura della cima tutta bruna, - Quel monte col dorso ripiegato in su, - dissi - curvo, con quella schiena dentata che fende e tocca il cielo? Staccato al tutto dal mondo, brutto per il fumo che lo ombra, senza doni (non ha infatti né poma, né uve, né dolci fichi): ché non ha albero né orti, è scuro, tetro, triste, truce, vile, sterile. - Ma tu sorridendo: - Tuttavia m'è fratello e m'ama, e a te vuol bene. Va' dunque a vedere, non spregiare le sue blandizie: so che non farà nulla che ti sia molesto, e se non vorrai rimanere tornerai. - Quando, dunque, potei essere sul posto e contemplare da vicino il Vesuvio celebre di vigne, superbo di molti arbusti, d'uve ubertose pendenti dai rami, di frutti d'ogni genere, quali li produce l'alma natura genitrice, di varia figura e colore, favorendo il cielo benigno della mia patria, e che niente gli mancava delle cose che conoscevo, anzi n'aveva cento di più: attonito per la novità, accuso allora i miei occhi in

piedi del quale nacque nel 1548 il Bruno. 3. geniale: perché gli aveva dato i natali. 4. La ruvida ... manus è quella del monte poeticamente personificato. 5. toto ... abstans: espressione latina che designa una distanza e una differenza somme. 6. avarru: sterile. 7. patriae (dativo): l'alma natura arride (adspirans) nlla patria con un cielo benigno.

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mendaces oculos. Dumque haereo, num mihi fors nunc imponat falsa specie, festivior ille germanus tuus, ille patrem Campania felix quem vocat, ingentis clypeo qui corporis, austri invisum avertit cara a regione rigorem; et iubet ut, furiis, quas Scylla atque atra Charybdis suggessit, positis, buie mitior irrepat orbi; ulnis me exceptum refovens, variisque coronans frondibus, et paln1as ignotis fructibus implens, atque sinum: memini insciolum 1 ut ridebat, avitum2 ingenio officium pueri dum praestabat avaro. Linquit opus tunicae puerilis fimbria, curam femora non ullam innectunt nudata.3 Sed alte arboreis gaudens opibus, inhiansque recepì auribus haec placido senior guae protulit ore. - Heic remane ergo, tuique lares contemne Cicadae, dives opum quam sim cernis, cultoque renidens aggere, quam pieno mihi gestit copia cornu. Hinc oculos adverte tuos, spectato Cicadam, extremum tenet ille meus germanus, ut atro vertice contingit coelum, piceique coloris veste tegit fuscos artus, humilisque, pudensque, caerulea involvit miserum caligine corpus. Tunc ego: - Talis eras et tu, tua ad arva priusquam venissem, similisque tibi spectabitur ille, praesentem cum me accipiet. Sic inde recedent et nebulae, et coelum, mundi mediumque redibit rursum illuc mecum, ut semper comitatus ab ipso accessi, mecumque ubicunque manente remansit.4 CAPUT

ns

O miserande senex, tanto cui tempore coelum, sideraque, et mundi series spectabilis huius ante oculos, vicibus tantis repetendo, dedere materiam sensus: tu pronus, lumine, et aure 1. insciolum: esprime l'ingenuità e l'ignoranza puerile. 2. at>itum: desiderato (da avere). 3. curam . .. nudata: metafora ed enallage. Le

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un primo tempo mendaci. Mentre dubito non mi inganni ora la sorte con falsa apparenza, più festivo quel tuo fratello, quello che la Campania felice chiama padre, che con lo scudo dell'ingente corpo tien lontano dalla cara regione l'inviso rigore dell'austro, e gli ordina che, deposte le furie suggeritegli da Scilla e dall'atra Cariddi, arrivi più mite a questa contrada; presomi in braccio e accarezzandomi, e coronandomi di varie fronde e riempiendomi le palme e il grembo d'ignoti frutti: ricordo come rideva della mia ignoranza mentre prestava il desiderato officio all'avida indole del bambino. Abbandona il suo ufficio la fimbria della tunica pue-rile, le cosce denudate non allacciano nessuna preoccupazione. Ma altamente godendo delle ricchezze arboree, a bocca aperta udii queste parole che il vecchio mi disse con placida bocca: - Rimani qui dunque, trascura i lari del tuo Cicala, tu vedi quanto io son pieno di ricchezze, splendido di terra coltivata, e da qual pieno corno esulta per me l'abbondanza. Rimuovi di qui gli occhi tuoi, guarda il Cicala: quel mio fratello tiene l'estremo; guarda come tocca il cielo con l'atro vertice, e copre i foschi arti con veste di piceo colore, e umile e pudico avvolge di cerulea caligine il povero suo corpo. - Allora io: - Tale eri anche tu, prima ch'io venissi ai tuoi campi, e simile a te si farà vedere quando m'accoglierà presente. Così di lì s'allontaneranno anche le nebbie e il cielo, e il centro del mondo ritornerà di nuovo là con me, come sempre io mossi accompagnato da esso ed esso rimase con me dovunque io rimanessi. CAPO SECONDO

O miserando vecchio, a cui per tanto tempo il cielo, le stelle e l'ordine mirabile di questo mondo davanti agli occhi, dettero, ripetendola tante volte, materia ai sensi: mentre tu prono, rimossi

gambe non annodano alcuna cura, cioè non hanno impaccio alcuno di lavoro o di affanno. 4. 111undi .•. remansit: sempre l'uomo fa centro all'universo suo. 5. Celebre luogo contro Aristotele.

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naturae a libro, a luce, a voce revulsis, scrutaris, nubes, nebulosa volumina vertens, cernuus, incurvus, gibbosus, pandus, Athlantis instar, ut est coeli suppressus pondere, cuius aspectu careat, Stagyreo e flumine monstra, phantasiae nassa, expiscaris stultitiarum; ut sensum infantis, multa ratione refixum amplius insolides :1 doctorem ut funera tantum tandem cum pompa excipiant; et spiritus illas advolet in quintas naturas, scilicet astra. Eia age, o venerande senex, requiesce, repone, tandem respira, et coelo meliore fruare: erigere, et clauso hoc demum de carcere prodi. Quid non te docuit saltem dubitare, repertus totum per gyrum similis, Telluris horizon, ne quoque, sidereae reliquas regionis ad oras assumptus, mundum videas in imagine eadem, totius ut medium rursus videare tenere? 2 Num quo non pedibus liceat Telluris ab orbe, non iuvat ingenii cursum intentare per alas? CAPUT VII3

Ergo vides numeris quantis4 perit illa sophistae in proprios ingentis pollicitatio secli exortus redituro capientis, ut inde quaemus rursum obitas et obire vices nihilominus omnes, nempe iterum ad Troiam ut magnus mittatur Achilles. 5 Dogmate divini fuerat formata Platonis mens pulicis, cimicem cum solaretur amicis dictis, cum fera sors socios divelleret ambos, culcitra excussa, famulus de culmine tecti praecipites variam in sortem iam iamque daturus (sem'nudis manicas aptabat namque lacertis); cimex ora rigans lacrymis: - Non me mea, - dixit - n~n mea me vexat sors aspera, quod meus iste 1. ut sensun, ... insolides: Aristotele va ricercando ostinatamente false ragioni per confermar sempre più il suo senno dtinfante già scrollato (rt-

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gli occhi e l'orecchio dal libro, dalla luce, dalla voce della Natura, scruti le nuvole, voltando e rivoltando nebbiosi volumi, precipite, curvo, gobbo, piegato, a mo' d'Atlante, in avanti oppresso com'è dal peso del cielo, sicché non può vederlo: dal fiume Stagireo tu peschi, con la rete della fantasia, mostri di sciocchezze; per consolidare di più un senno da bambino, scosso da molte ragioni; perché tanto dottore finisca da ultimo in pomposi funerali e lo spirito se ne voli a quelle quinte nature, cioè agli astri. Orsù, venerando vecchio, abbi requie, riposati, respira finalmente e godi d'un cielo migliore: alzati ed esci adesso da questo chiuso carcere. Come l'orizzonte della terra, trovato simile per tutto il giro, non ti insegnò almeno a dubitare che, assunto alle altre plaghe della regione siderea, non avessi a vedere il mondo nella stessa immagine, sì da avere l'impressione di trovarti di nuovo al suo centro? Dove non si può andare coi piedi staccandosi dall'orbe della Terra, non giova forse volgere la corsa con le ali dell'ingegno? CAPO SETTIMO

Dunque tu vedi per quanti numeri perisce quella promessa che il sofista fa del grande anno ritornante ai propri esordi, affinché possiamo di nuovo trascorrere le vicende già trascorse, e trascorrerle nondimeno tutte, cioè per una seconda volta sia mandato a Troia il grande Achille. S'era educata secondo il dogma del divino Pia.. tone la mente della pulce che consolava la cimice con detti amichevoli, dall'alto del tetto mentre fiera sorte divideva i due soci, poiché il cameriere, scosso il materasso, stava già per buttarle giù avviandole a sorte diversa (ché si rimboccava le maniche su le braccia seminude). La cimice rigava il volto di lacrime e diceva: - Non la mia, non la mia sorte aspra mi travaglia, che questo mio

jù."Um: dischiodato) da infiniti argomenti. 2. toti11s • •. te11ere: sempre l'idea della centralità e non centralità di ogni punto dello spazio infinito. 3. Reiezione satirica della dottrina platonica del ritorno periodico all'identico stato del mondo. Questo passo si reca per attestare la ricchezza fantastica della mente del Bruno al quale non difetta nemmeno la vena del favolista. 4. nrmieris quantis: per quante e quanto forti ragioni. 5. Nempe . . : Achilles: È il noto verso di Virgilio, Bel., 1v, 36.

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spiritus invisos miserosque hos deserat artus; sed violenta premunt mage me divortia, nam te linquere (chare pulex) fatis cogor male iniquis, quae mihi te tollunt, mihi te non reddere possunt. llle refert: - Ne te vexes, vexatio nam me ista infelicem confondit et atterit. U nus, non geminus, meus atque tuus quia1 spiritus est, o unanimis cimex, longe plusquam mihi sim nam intimus ipse mihi es: quapropter me tua vexat cura magis, quae nulla mei est. Licet ergo revellat Iuppiter ipse tonans duo nostra haec corpora iniquus, tunc tamen efficiet, quo2 spiritus iste relinquat te, mea sors, mea mors, quondam mea vita, mea spes, quando ipsum memet facietque relinquere: meque immemorem esse mei faciens, vix credere possum ut faciatque tui. Ne plores, sanguis meus, corpora nostra simul scio certe aliquando futura. Dicere plura libet: sed iam divellimur he heu! Iam vale, dulcis amor, post bis ter millia centum annorum, adde quibus quoque bis tria, bisque tricena millia, (quod faustum spero felixque futurum) tu me iterum repetes, iterum teque ipse revisam. CAPUT IX3

De lumine Nico/ai Copernici.

Heic te appello, veneranda praedite mente, ingenium cuius, obscuri infamia sedi non tetigit, et vox non est suppressa strepenti murmure stultorum, generose Copernice, cuius pulsarunt nostram teneros monumenta per annos mentem, cum sensu ac ratione aliena putarem quae manibus nunc attrecto, teneoque reperta: posteaquam in dubium sensim vaga opinio vulgi lapsa est, et rigido reputata examine digna, quantumvis Stagyrita meum, nocteisque diesque, I. quia: continua ne te vexes, e perciò l'interpunzione dopo atterit sarebbe da attenuare. 2. quo: retto da efficere ha il valore di ut. 3. Glorificazione di Copernico e della sua dottrina.

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spirito abbandoni queste invise e misere membra; ma più mi premono le separazioni violente, ché te, cara pulce, son costretta a lasciare da fati iniqui, fati che mi ti tolgono e non possono renderti a me. - Risponde quella: - Non tormentarti, ché codesto tuo tormento mi trafigge e consuma e mi fa infelice. Unico, non gemino, è lo spirito mio e tuo, o cimice unanime con me, ché sei intima a me assai più che non sia io stessa a me stessa; onde la preoccupazione per te più mi travaglia, mentre non ho nessuna preoccupazione per me. Sebbene, dunque, stacchi Giove stesso tonante questi nostri due corpi iniquamente, allora tuttavia po-trà fare che questo spirito lasci te, mia sorte, mia morte, un tempo mia vita, mia speranza, quando mi farà lasciare anche me stessa: e facendomi esser immemore di me, a stento posso credere mi faccia immemore anche di te. Non piangere, sangue mio, io so certamente che i nostri corpi una volta saranno insieme. Vorrei dire di più: ma già siamo strappate, ahi ahi I Or addio, dolce amore: dopo due volte tre volte mille cent'anni, aggiungi ai quali ancora due volte tre, e due volte trecentomila (il che spero avvenga faustamente e felicemente), tu mi ricercherai una seconda volta, e una seconda volta io stessa ti rivedrò.

CAPO NONO

Della gloria di Niccolò Copernico. Qui io ti chiamo, o uomo dalla mente veneranda, il cui ingegno non fu toccato dall'infamia del secolo oscuro, né la voce fu soppressa dallo strepente mormorar degli stolti, o generoso Copernico, i cui ammonimenti batterono alla mia mente nei teneri anni, quando ritenevo aliene dal senso e dalla ragione le cose che ora tocco con mano e tengo per scoperte: dopo che in dubbio a poco a poco cadde l'opinione vaga del volgo, e fu reputata degna di rigoroso esame, quantunque lo Stagirita, dì e notti, e la coorte dei

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Graecorumque cohors, Italumque, Arahiìmque sophorum vincirent animum, concorsque familia tanta. Inde uhi, iudicium ingenio istigante, aperiri coeperunt veri fontes, pulcherrimaque illa emicuit rerum species, (nam me Deus altus vertentis secli n1elioris non mediocrem destinat, baud veluti media de plebe, ministrum); atque uhi sanxerunt rationum millia veri conceptam speciem, facilis natura reperta, tum demum licuit quoque posse favore mathesis, ingenio partisque tuo rationibus uti. 1 Ut tibi Timaei sensum placuisse libenter accepi, Aegesiae, Niccetae, Pithagoraeque! 2 1am tihi non tellus tantum media esse negatur, quod reliqui potuere satis multo ante videre; verum etiam annali gyro circum atria solis (citi.ma ceu reliqui haec septem concentrica) ferri,3 dum raptim circa proprium quoque concita centrum mundani specie motus fallitque diurni,4 tantorum unde subit vultus circumque rotantum, delirae soboles quae sunt compertae mathesis. s

1. atque ubi ... uti: Importante notazione autobiografica: soltanto dopo avere approfondite le prove fisiche del sistema copernicano fu possibile al Bruno giovarsi dell'ausilio (favore) della matematica e delle prove addotte da Copernico. 2,. Timaei . .. Pithagoraeque: sono i precursori del sistema copernicano. 3. 1am . .. ferri: Periodo reso oscuro dalla ellissi di un verbo di dire (per es. asseritur) che fa da predicato dopo verum etiam: non soltanto si nega che la Terra sia nel mezzo ... ma anche si asserisce che essa ruota con giro annuo intorno al Sole. Citima è nominativo femminile predicativo di ferri. La Terra è l'astro che gira più vicino (propriamente: più in qua) intorno al Sole, concentrico cogli altri sette. Il Bruno poteva fare questa affermazione perché, nella sua teoria, Mercurio e Venere non hanno orbite minori della terrestre e sono ugualmente vicini al Sole che la Terra. 4. dun, . .. diurni: i due moti di rotazione e rivoluzione deJla Terra ci ingannano producendo l'apparenza del moto della volta celeste nell'anno e nel giorno. 5. tantorum . .. mathesis: le aristoteliche sfere rotanti sono ormai dimostrate parto di una matematica delirante.

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greci, itali ed arabi sofi vincolasse il mio animo, a sl gran famiglia concorde. Indi, come, l'ingegno istigando il giudizio, cominciarono ad aprirmisi le fonti del vero, e risplendette il bellissimo aspetto della realtà (ché l'alto lddio mi destina ministro non mediocre e non volgare d'un miglior secolo che volge); e come mille ragioni sancirono la specie concepita del vero, e facile fu scoperta la natura, allora finalmente fu lecito anche valersi del favore della matematica e delle ragioni prodotte dal tuo ingegno. Con qual gioia appresi che a te piaceva il modo di pensare di Timeo, di Egesia, di Niceta e di Pitagoral Già tu non solo neghi che la Terra sia il centro - cosa che gli altri poterono veder abbastanza bene, molto tempo prima - , ma anche affermi che essa si muove nel giro d'un anno per gli atri del sole (ai più vicini sì come a questi sette concentrici al rimanente), mentre, spinta in rapida corsa anche intorno al proprio centro, con l'apparenza del moto mondano rende anche insensibile quella del moto diurno, onde prende il volto di tanti rotanti intorno, che sono ormai riconosciuti frutto di una delirante matematica.

LIBER IV CAPUT I

Anguipedum generose magis, furibunde, proterve, invictoque gigas vultu, sub pondere vasto Trinacriae: audaci quondam ausus robore coelum scindere, nunc pressus resupino pectore ab altis colli bus, hac triquetra tumulatus mole superbis; impie, nempe animi petulantis proemia iactans, talibus insultas superiìm imperterritus irae. - Quid tollunt, stulti, coelorum numina versa in formas hominum, et bruta trepidantia pelle, cum fugerent dispersa vagi per devia Nili, alatos ungues, armataque brachia centum ?1 Non homines potius veros, qui, viribus alti ingenii, minas coeli tempsere, repertis mundum ultra mundis, ultra laquearia picta, 2 quae totum claudant, reprimantque haec ora recurva luminibus tantis, oculataque aree superne; unde Deum solium est fictum, rigidumque tribuna!? Horum ego victorum, qui mentis lumine tanto non metuunt umbras, terram substento feracem pectore, et ut pedibus Libycum conculco gigantem, quidquid sustentat gyrantis nomine coeli, et quodcumque poli cernit versum ora latentis; Ionium Aloniumque fretum quatiendo supinus, divite terrarum dextra, laevaque prehendo reginas Graiam, atque I talan1, quas lumine bino contueor, per quas vanescunt moenia Olympi, per quas alma parens Astrum est mostrataque Tellus, marmoreo radios mittens versum aethera dorso. Verum igitur coelum vastis comprendo lacertis, et quantum decus est mundo, stellaeque tuentur. Ergo se nostro submittant pondera Athlantis. En modo de solis prospectanti eminus aree pars ego sum stellae atque illustris lampadis, et quem 1.

cumfugerent •.. centum: accenna al mito, raccolto in Ovidio, Metam.,

v, secondo il quale i Giganti dopo la sconfitta e la fuga, sarebbero fi ..

LIBRO QUARTO CAPO PRIMO

O più generoso degli angulpedi, furibondo, protervo, gigante dal volto invitto, sotto il peso vasto della Trinacria: tu che una volta osasti con l'audace tua forza squarciare il cielo, premuto ora sul resupino petto da alti colli, insuperbisci tumulato sotto questa mole triangolare; empio, che, gettando fuori i proemi del tuo animo petulante, imperterrito insulti all'ira dei sùperi con tali parole: - Perché esaltano, gli stolti, i numi del cielo vòltisi in forme umane o trepidanti sotto pelle bruta, quando, dispersi per gli erramenti del vagante Nilo, fuggivano le unghie alate, o le cento braccia armate ? e non esaltano piuttosto gli uomini veri che, con le forze dell'alto ingegno, spregiarono le minacce del cielo, trovati altri mondi oltre questo, oltre i soffitti dipinti, che dovrebbero chiudere il tutto e reprimere queste plaghe ricurve con tanti lumi e un'occhiuta ròcca supernamente, onde fu finto il soglio degli dèi e il rigido tribunale ? Io di questi vincitori, che per sì gran lume della mente non temono le ombre, sostengo col petto la terra che di essi è ferace; e come coi piedi calco il gigante libico, quanto egli sostiene col nome di cielo girante, e quanto discerne verso le plaghe del polo latente, cosi, agitando supino il mare Ionio e l' Alonio, con la destra ricca di terre e con la sinistra prendo le regine Greca e Itala, che con i due occhi contemplo: per opera delle quali svaniscono le mura dell'Olimpo, ed è mostrata anche l'alma madre Terra essere un astro, che dal marmoreo dorso manda raggi verso l'etere. Il vero cielo, quindi, abbraccio con le vaste mie braccia, e quanto di bellezza ha il mondo e le stelle contemplano. Si sottomettano dunque al nostro i pesi di Atlante. A chi solo guardi dall'alto dalla ròcca del sole, ecco io son parte d'una

niti nella valle del Nilo, e quivi mutati in bestie di vario genere. quearia picta: i dipinti palchi del cielo. Immagine potente.

2.

la-

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GIORDANO BRUNO

Aethna premit nullus, siquidem est sine pondere tellus in membris comperta suis. Sic ergo solutus liberque, atque hilaris non ullos cerno moventes, vanida gyrantum coelorum techna recessit. Stulta fides grave pondus Atim Enceladoque refixit, insanae oppressere animae commenta Typhoeum, quos magno sophiae absolvens manus intulit astro. Stellam ego substento, a stella substentor et idem, et coelum teneo, a coelo teneorque vicissim: ergo se nostris submittant pondera Athlantis.

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stella e lampada luminosa, e nessun Etna n1i preme, se pur è senza peso la terra conosciuta nelle membra sue. Così dunque sciolto, libero, ilare, non vedo alcun movente, sparl il vano artifizio dei cieli giranti. Una stolta credenza schiacciò Ati ed Encelado sotto un grave peso, finzioni d'anima insana oppressero Tifeo: la liberatrice mano di Sofia li introdusse nel grande astro. Io sostengo la stella, e la stella anche sostiene me; tengo il cielo, e il cielo tiene me, vicendevolmente: dunque si sottomettano ai nostri i pesi d'Atlante.

LIBER VII

CAPUT 1 1

Sunt tenebras toto palpantes tempore vitae, qui se mirantur tanquam Sophiae alta tenentes atria: lanigerum pecu post vestigia belvae cornibu' donatae, ast sensu nihilominus orbae. 2 Ollis vox populi atque Dei sunt unum idemque, et scire est quod fama virum, vulgata fidesque suggerit, in flato de pectore promere; bello naturae indicto, rationi ac sensibus, acri. AJteriusque oculis fari instructos, alienoque ore videre magis, 3 stulto et phantasmate mentem frenare, hoc sophia est vera, et sapientia prima. Hos (ni me fallat ratio) sic destituendos crediderim, atque alta spernendos lege, velut quos non fortunatos meliori sorte Deus volt. Consultumque etiam est illis, itaque instituendi ut maneant,4 dubiam 5 neque curent tangere metam, incertumque scopum, quamvis siet optima per se. Consulitur nulli vires studiosius ultra eniti, ac proprios extra contendere fines; ceu sine iudicio subscribens et ratione. 6 Expers iudicio debet condegere multis, degere cum nequeat cum paucis nobilitatus. Elige pastorem tibi, quem fortuna notabit, congenei pecoris tutus vestigia lustra. Libera ne placeat vulpis tibi, amice, caverna, cervorum abstrusos tu non imitere recessus, non ausisque feri recubare leonis in antro, infelix, quia non sato celeber meliore es,7 disipiens, tardus, rictu, ungue imbellis, et ore; cui neque sunt astus, neque pernix cursus, et ulla vis animo non est, neque segni tradita busto. I. Esorta quelli che non possono ascendere a superiore intelligenza a non volersi scostare dalle concezioni comuni. 2. lanigerum . •. orbae: la massa insensata segue una bestia similmente insensata, ma fornita di corna,

LIBRO SETTIMO CAPO PRIMO

Ci son di quelli che palpano tenebre per tutto il tempo di lor vita, i quali si ammirano quasi tenessero gli alti atri di Sofia: bestiame lanigero dietro le orme di belva dotata di corna, e tuttavia orba di senso. Per alcuni voce di popolo e voce di Dio sono una sola e _medesima cosa, e sapere è trar fuori del gonfiato petto quel che la fama e la divulgata fede suggeriscono, avendo dichiarato acre guerra alla natura, alla ragione e ai sensi. Parlare istruiti dagli occhi d'un altro, vedere coll'altrui parola, frenar la mente con uno stolto fantasma, questo è vera sofia e sapienza prima. Costoro, se la ragione non m'inganna, io crederei di dover abbandonare e spregiare per un'alta legge, come quelli che Dio non vuol fortunati per sorte migliore. Ed è stato provveduto anche a loro, e così bisogna far che rimangano, né curino di toccare la dubbia mèta e l'incerto scopo quantunque sia ottima per se stessa. Non si consiglia a nessuno di sforzarsi con troppo ardore oltre le proprie forze e dirigersi fuori dei propri confini, quasi sottoscrivendo senza giudizio né ragione. Chi non ha giudizio deve vivere coi molti, essendo incapace di vivere nobilitato coi pochi. Scegliti il pastore che la fortuna ti segnerà, percorri senza pericolo le vestigia del gregge a te congenere. Non ti piaccia, o amico, la libera caverna della volpe, non imitare i remoti rifugi dei cervi, non osare sdraiarti nell'antro del fiero leone, o infelice, perché non sei celebre per miglior seme, sei desipiente, tardo, imbelle per fauci, unghia e bocca, non hai astuzie né corsa veloce, e nessuna forza ti fu messa nelt>animo o nel torpido cuore. Non a te fu aperta la via cioè di potenza. Trasparente allegoria. 3. Alteriusque . .. magis: antitesi e metafora ardita. Per il volgo insensato vera sapienza è parlare con occhi altrui (propriamente: essendo provveduto degli occhi altrui) e vedere con la bocca altrui. Fuori di metafora intende affermare che il volgo esprime soltanto una scienza da sé non percepita e che il suo sapere riposa sopra quel che altri dice. È ancora contro i seguaci di Aristotele e contro i seguaci dell'autorità della Chiesa. 4. instituendi ut maneant: il volgo deve essere educato in.guisa che rimanga nel grado inferiore in cui sta. s. dubiam (si intende) per il volgo. 6. ceu ... ratione: il volgo assente e sottoscrive alla dottrina dominante senza far giudizio e senza ricercare ragioni. 7. quia ... es: il volgo è incapace di un frutto migliore.

GIORDANO BRUNO

Non tibi strata via est, qua convertaris in orbem lucis, quocirca sensu teneare probato pluribus, et numero plaudentum, et confamulantum, principis authoris cuiusdam fama triumphet. Sisque ita contentus paucis, tanquam omnia sint haec; nam satis es dives, quia sensus pauperiei nullus adest; sanus, quia nullaque opinio morbi. CAPUT XVIII 1

. . . Efficiens pater est; elementaque semina; caeli subiectum spacium est, matris sinus omniparentis. Innumero proles numero sunt undique prompta corpora mundorum; tellures, solis et orbes. Esse, ut ubique vides, congressus materici, mundorum in massas, avido quas continet aether complexu, faciem praesentans undique eandem. Ut quando aestivo recidunt ex aere guttae candentem in campum, qualem terit Appulus et Lybs, pulvere ab excocto consurgit rana repente guttarum exaequans numerum, 2 quo credere possis, quando solum spectes, caeli e regione cadentes; sic vis immenso in spacio est, inque aethere, totµm quod capit, ut magnum mundi per inane genantur, undique nam vita est, animae actusque undique surgit, factor ad archetypum obiectum, et formabile praesto est; hinc surgit serpens, piscis, mus, rana coaxans, hinc cervus, vulpes, ursus, leo, mulus, homoque est. Adde etiam, quando e medio auferet haec cataclysmos, praebebit natura parens perfecta animantum3 absque ministerio coitus. Quia multicolores sunt hominum species, nec enim generatio nigra Aethiopum, et qualem producit America fulva, udaque Neptuni vivens occulta sub antris;' Pygmeique iugis ducentes saecula clausis,5 cives venarum Telluris, quique minaerae 1. 2.

Ancora dell'infinità del mondo e contro l'angusta veduta aristotelica. Ut quando .•• numerum: era credenza comune ai filosofi del Rinasci-

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per cui tu ti volga all'orbe della luce: per la qual cosa attieniti al modo di sentire approvato dai più, e al numero dei plaudenti e confamulanti, e trionfi la fama d'un autore principe. E sii, cosi, contento di poche cose, come se queste fossero tutte; ché abbastanza sei ricco, perché non hai nessun senso della tua povertà; e sei sano, perché non hai nessuna idea del tuo morbo. CAPO DECIMOTTAVO

... L'efficiente è il padre; gli elementi i semi; subietto è lo spazio celeste, il seno della madre onniparente. Proli di numero innumerevole, son visibili da ogni parte i corpi dei mondi: le terre e i giri del sole. Come dappertutto tu vedi riunioni di materia, di mondi in masse che l'etere contiene con avido abbraccio, presentando da ogni parte la medesima faccia. Come, quando dall'aria estiva cadono gocce sul campo infocato, battuto dal lavoratore appulo e libico, dalla polvere arroventata nasce di repente la rana, pareggiando il numero delle gocce, onde puoi crederla, quando guardi il suolo, cader dalla regione del cielo; così è una forza, nell'immenso spazio ed etere, che tutto contiene, perché mondi si generino nel grande vuoto, ché da ogni parte è la vita, l'atto dell'anima sorge da ogni parte, fattore che modella su l'oggetto archetipo, e il formabile è a disposizione; di qui sorgono il serpe, il pesce, il topo, la rana gracidante, di qui sono il cervo, la volpe, l'orso, il leone, il mulo e l'uomo. Aggiungi anche: quando un cataclisma toglierà di mezzo tutti questi, la madre natura produrrà perfetti animali senza bisogno di coito. Ché son multicolori le specie degli uomini, né la generazione nera degli Etiopi, e quella fulva d'America, e quella che umida vive occulta sotto gli antri di Nettuno, e i Pigmei che passano la vita in chiusi gioghi, cittadini delle vene della Terra, e quelli

mento che cadendo la pioggia su certi terreni aridi e infocati per lunga insolazione, vi si ingenerassero organismi vivi e segnatamente rane, secondo il Bruno, tante quante fossero le gocce cadenti. 3. per/ecta animantum: animali perfetti (modo lucreziano). 4. udaqr,e •.• antris: questa razza umana acquatile è immaginata anche dal Campanella. 5. Pygmeique .•• clausis: una tradizione antica faceva vivere il popolo dei Pigmei nel centro dell, Africa entro un gran massiccio montagnoso.

GIORDANO BRUNO

adstant custodes, atque Austri monstra Gigantes, progeniem referunt similem, primique parentis unius vires cunctorum progenitrices. 1 Quaelibet ergo initum rebus dabit insula passim, formatum quamvis quidque haud servetur ubique; namque alias alibi species victoria servat. N aturae similes simili sunt undique vires; casus ab ingenio varius vario inde subibit. Ut spacii est igitur distinctio, sic regionum distribuit natura locos, sic materiei commoditas prompta est, atque instans actus ubique, sic nihil esse novum recipit gemino absque parente. 2 Quodque vides nostro factum et servarier orbe, insipienter idem in specie esse negabis eadem mundorum nihilo constantum mole minore, non alio vultu, motu, ortu, disposi tura, 3 quos idem favor inlustrat, naturaque servat, incola ne solum mundo spectetur in uno hoc, et reliqui frustra forma donentur eadem: scilicet immani tot constant corpore stellae, duntaxat mundo ut pulchri numerentur ~b isto 4

I. progeniem .•. progenitrices: nega la monogenesi del genere umano insegnata dalla Bibbia e tenuta come verità di fede dalla Chiesa cattolica. 2. gemino . .. parente: cioè senza l'atto dell'anima e la recettività della materia. 3. Quodque . •. dispositura: stoltamente negherai che quel che vedesi nascere e durare nel nostro mondo, si trovi in una specie medesima di altri mondi niente men grandi di questo nostro, non diversi di aspetto, moto ecc. Dopo eadem è da levare l'interpunzione che pongono le stampe. 4. duntaxat ... isto: duntaxat si riferisce a mundo ab isto, e dunque la virgola è da trasportare dopo stellae.

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che stanno custodi alla miniera, e meraviglie dell'Austro i Giganti, denotano una progenie simile, o indicano le forze d'un solo primo parente progenitrici di tutti gli uomini. Qualsiasi isola, dunque, darà principio alle cose dappertutto, sebbene non tutto quello che si forma si conservi dappertutto; giacché la vittoria conserva specie diverse in luoghi diversi. Natura simile ha da ogni parte forze simili: indi, caso vario succederà da indole varia. Quindi, come e' è distinzione dello spazio, così la natura distribuisce i luoghi delle regioni, così la materia è opportunamente pronta, e l'atto instante, dappertutto; così niente riceve nuovo essere senza i due progenitori. E ciò che vedi farsi e serbarsi nel nostro orbe, solo con insipienza potrai negare che esista identico nell'identica specie di altri mondi che sussistono con mole non minore di questo, con aspetto, moto, origine e disposizione non diversa, e che lo stesso favore illumina, la stessa natura conserva, perché non soltanto in questo nostro mondo si vedano abitanti, e i rimanenti mondi siano invano dotati della n1edesima forma: che cioè tanti mondi constano d'un immane corpo di stella per esser numerati, belli, solamente da questo mondo nostro.

LIBER VIII CAPUT JI

Nuda illa est, nullis circumque stipata maniplis, nudaque de toto iaculatur corpore lucem; magna est velari sanctum hoc iniuria corpus, ipsa fidem facit ipsa sibi, procul esse iubetur nasus, frons rugosa, .supercilium, propexaque barba, et quaecunque suo ignorantia iure reposcit indumenta, fides, titulos, insignia, partes. Adventantem avide expectat, generosaque (amantem tamquam deperiens) occurrit, et excipit ore, confirmans trepidum, ac vultu blandita sereno concipit intense quos lentius intulit ignes. 2 Quas Orientis opes, ponti quas occulit unda, quas Arabum deserta tenent, montesque profunda conceptant alvo, et complexu terra tenaci, in venis refovens occultis, denegat ullis artibus, aut studiis humanis posse parari, conlatas tanto facies, mortalis, honori ?3 Fortuna haud poterit meliorem reddere quemquam, nam feret, atque suo pede conteret omnia lethum, et sedes repetent antiquas orta, volanti guae vehit excursu rota temporis: optimus ergo mortali finis fato hoc consistit in uno, divum naturae consorti degere vita, qualem, uhi te fuerit diva haec complexa, subibis, despicere ut valeas miserandi somnia vulgi immersi surdis lethaei fluminis undis. Qui vigilare putant, quando simulacra sequuntur, et vanas stupidi species figmenta furoris convolvunt animo, miseri, divosque fatigant4 Faunos, et Satyros, Centauros semiferosque semihominesque, nihil qui possunt, qui quoque nil sunt; queis quondam vilis fuerat quoque mortua vita impia spirituum suffectis5 vasa nocentum, I. Prosopopea della Sapienza. 2.. concipit ... ignes: Cioè, fa ardere intenso quel fuoco che essa insinuò dapprima debole e tardo nel cuore del-

LIBRO OTTAVO CAPO PRIMO

Ella è nuda, non stipata tutt'intorno da manate d'erba, e, nuda, lancia da tutto il corpo luce; gran torto sarebbe che questo santo corpo fosse velato, essa stessa fa fede a se stessa, e e' è ordine che ne stiano lontano il naso schizzinoso, la fronte rugosa, il sopracciglio e la pendente barba, e quanti indumenti richiede come proprii l'ignoranza, fedi, titoli, insegne, parti. Avidamente ella aspetta colui che s'appressa, generosa gli corre incontro (come perdutamente innamorata del suo amante), l'accoglie col suo bacio, rinfrancandolo mentre _trepida, e accarezzatolo con volto sereno, concepisce intensamente i fuochi che lentamente egli ha introdotto in lei. Quali ricchezze d'Oriente, che l'onda del mare cela, e i deserti d'Arabia tengono, e i monti stringono nell'alvo profondo, e la terra dall'amplesso tenace, scaldandole nelle sue vene occulte, nega a ogni arte o studio umano di poter preparare, quali ricchezze tu stimerai, o mortale, paragonate a tanto onore? La fortuna non potrà rendere migliore alcuno, ché la morte tutto travolgerà e consumerà col suo piede, e riprenderanno le loro sedi antiche quante cose nate porta nella sua volante corsa la ruota del tempo: il miglior fine al fato mortale consiste in ciò solo, vivere d'una vita partecipe alla natura degli dèi, vita nella quale tu incorrerai quando t'avrà abbracciato questa diva, sicché tu valga a sdegnare i sogni del volgo miserando, immerso nelle sorde onde del fiume letèo. Quelli che credono d'essere svegli quando seguono fantasmi, e vane immagini volgono nell'animo, finzioni di sciocca insania, miseri, e stancano i divi Fauni e i Satiri e i Centauri mezzo fiere e mezzo uomini, che niente possono e niente anche sono; i quali una volta ebbero anche una vile e morta vita, empi vasi di

l'uomo che cammina verso di lei. 3. Quas Orientis .. . honori?: Niuna ricchezza, nemmeno quella che la natura vieta all'uomo di strapparle mai dal seno, può sembrar degna (facies: stimerai, apprezzerai), se sia paragonata (conlatas) colla gloria della sapienza. 4. Jatigant: sottintendi precibus. Il volgo adora e prega esseri immaginari semiumani, che non hanno alcuna sussistenza reale. 5. suffectis: concorda con queis del verso antecedente e régge impia vasa come accusativo di relazione.

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ut nova materies bellorum occurreret orbi devoto atque hilari. Specie et spe1 maxima turba, quam malus exagitat daemon, pro nectare caeli ambrosiaque Iovis, vitae instrumenta perennis unica quae sensu et detonsis mente putantur, contendit, studiis variis concertat, et urget dignius ut properet; vatis mandataque servans inviolata, Herebi sibi fercula captat ab hortis, stultitiaeque merum, quod vinea fundit averni ad fuscas exculta atro a cacodaemone ripas. 2 Dein plebs irrisa, Stygio male pastaque fungo, ebria veneficae titubans post pocula Circes,3 aeternum neglecta Deo sic conteret aevum. CAPUT X4

Ergo age, comprendas uhi sit Natura Deusque; namque ibi sunt rerum causae, vis principiorum, sors elementorum, edendarum semina rerum, formae exemplares, activa potentia promens omnia, substantis celebrataque nomine primi : est quoque materies, passiva potentia substans, consistens, adstans, veniens quasi semper in unum; nam minime tamquam adveniens formator ab alto adstat, ab externis qui digerat atque figuret. CAPUT X5

Sic non succifluis occurro poeta labellis, non Ganymedeo cultus blandusque lepore, mellitus, scitus, tersus, graphiceque venustus; at vero durus, villosus, rusticus, asper, callosus, rigidus. Porro fortassis ero, cui castaneae haud desunt, et pressi copia lactis.6 Fistula grande sonat mea, quamvis dulce novellis non ita, nam pulsat valido longinqua tenore, x. sp,: si riferisce a exagitat. 2. Specie . • . ripas: connetti contendit con pro nectare etc. La moltitudine insipiente mira al nettare e alPambrosia,

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spiriti nocenti, perché nuova materia di guerra si presentasse al1'orbe devoto e ilare. La grandissima turba che il dèmone cattivo agita con le immagini e la speranza, lotta per il nettare del cielo e l'ambrosia di Giove, che gli uomini privi di senno e di mente considerano come unici strumenti di vita eterna, si sfoga vanamente, urge per meglio affrettarsi, serbando inviolati i mandati del prete, va a prendersi dagli orti dell'Erebo le portate e il vino della stoltezza, quale produce la vigna d'Averno coltivata, presso le fosche rive, dall'atro cacodèmone. Dopo, la plebe irrisa e mal nutritasi dello stigio fungo, vacillando ebbra dopo le tazze della venefica Circe, cosi consumerà, negletta da Dio, la vita eterna. CAPO DECIMO

Comprendi dunque dov'è la Natura e Dio; ché ivi sono le cause delle cose, la forza dei princìpi, la sorte degli elementi, i semi delle cose da produrre, le forme esemplari, la potenza attiva che dà fuori tutto ed è celebrata col nome di primo substante: ivi è anche la materia, potenza passiva sottostante, consistente, astante, e come veniente sempre in uno; ché non c'è affatto un formatore quasi giungente dall'alto, il quale dall'esterno organizzi e figuri. CAPO DECIMO

Così io non mi presento poeta con labbruzze succhiose, coltivato e lusinghevole di vaghezza ganimedea, melato, leggiadro, terso e, di stile, venusto; bensì invece duro, villoso, rustico, aspro, calloso, rigido. Inoltre sarb forse uno a cui le castagne non mancano né abbondanza di cacio. La mia zampogna dà un suono grande, per quanto non così dolce ai novelli, giacché giunge lontano

ritenute il solo mezzo di conseguire vita eterna, e cosi nutre lo spirito di un cibo e di un vino di morte, dannandosi al regno delle tenebre. Il pensiero è involuto, ma la poesia si alza alquanto. 3. Circes: come il Bruno tratti il mito di Circe già si è visto nel dialogo v della seconda parte degli Eroici furori. Vedi p. 648 sgg. 4. Compendio finale della dottrina svolta in tutto il poema. 5. Autoritratto del Bruno. 6. Porro • •• lactis: non poeta culto, ma rozzo pastore cantante.

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repletque obiectum spacioso margine campum: doctaque ad accentus iteratis vocibus Echo consonat, et totum sibi contestatur abunde impressum arcano in sensu, 1 adstantesque lacessit, inflammatque deas; ut larga carmina vena fundenti occurrant, adplaudant, ad numerosque saltillent, satagantque levi membra arte movere. Tunc ego, capripedis servans vestigia Panos, non reboo impulsum,2 memorem Iunonis oh iram, nam Caesar nullus nobis haec ocia fecit: non quod Penelope lento blanditur Ulyssi, nam sic barbatum Satyrum tam femina vox non addecet, hanc quamvis admiror, amoque, coloque; pro Cyprio quamvis vultu (ceu numine viso) desipio, rnorior, devisceror, exeoque ex me. Masculeo saltat Faunus fortique tenore, occurrens Nymphis, discurrens post Cyparissos,3 inque aliis quod amat, non volt imitarier omne. Ergo ego setosum quia me natura creavit, non discam rudibus digitis aptare smaragdos, cincinnare comam, roseumque per ora ruborem fundere, odoratis caput instrophiare4 hyacinthis, promere flexibiles gestus, mollemque choream, gutturis et de me vocem exentrare5 tenelli; ne vir agam puerum, ne de mare foemina fiam. Quod si ut sum factus, divum pro munere, memet ingerero rigidum, membrisque viriliter acrem, infrenem, invictum, sementoseque6 sonantem; narcissis referam: peramarunt me quoque Nymphae. doctaque .•. smsu: Frase difficile. Le parole totum sibi ... impresmm vanno insieme. Senso: Eco mostra abbondantemente che tutto il mio canto le è rimasto impresso nel sentimento misterioso (infatti ripete con mille voci la mia voce). 2. non reboo impulsflm: non rispondo alla voce delle ninfe invitate da Eco, dalla qual voce son colpite. Fuori di metafora: non mi conformo alla poesia dolce e molle, ma mi attengo all'indole gagliarda della mia ispirazione. E questo benché avverta profondamente la dolcezza di quella. 3. Masculeo . .. Cypan'ssos: la mitologia faceva Fauno innamorato di ninfe e di un giovinetto di nome Ciparisso.. 4. instrophiare: inghirlandare (grecismo). 5. exentrare: forma sincopata per txenterart, far uscir dalla viscere. 6. snnentosequt: da snnentosus: voce rara. Sembra significhi • ricco di sementi, fecondo•· I.

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con valido tenore, e riempie il campo che le è dinanzi per spazioso margine: e la dotta Eco risponde agli accenti con iterate voci, e attesta abbondantemente che tutto le è impresso dentro il senso arcano e provoca e infiamma le astanti dee, perché vengano incontro a chi effonde carmi con larga vena, applaudano e ai suoi versi saltellino, e si dian da fare a muovere con lieve arte le membra. Allora io, seguendo i passi di Pane caprìpede, non rispondo all'invito, per la memore ira di Giunone, ché nessun Cesare fece a noi questi ozi: non rispondo quel che Penelope dice carezzevole all'indugiante Ulisse, ché non conviene a sì barbato Satiro una voce tanto femmina, per quanto io la ammiri, ami e veneri; sebbene per il Ciprio volto (come per aver visto un nume) io esca di senno, muoia, mi svisceri, esca di me. Con mascolino e forte tenore danza il Fauno, andando incontro alle Ninfe e sbandandosi dietro ai Ciparissi, e quel che in altri ama, non vuole imitar tutto. Io, dunque, poiché la natura mi creò setoloso, non imparerò ad adattare smeraldi alle rudi mie dita, ad arricciarmi la chioma, a spargermi per il volto un roseo rossore, a fasciarmi il capo d'odorati giacinti, a porgere gesti elastici e un molle passo di danza, a cacciar fuori del mio ventre voce di gola tenerella; per non fare, io che son uomo adulto, il ragazzo, né diventar, di maschio, femmina. Che se, così come son fatto, per dono degli dèi, io presento me stesso rigido, virilmente acre nelle membra, senza freno, invitto e gagliardamente sonante, andrò a dirlo ai Narcisi: molto amarono me pure le Ninfe.

NOTA AI TESTI E

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI

NOTA AI TESTI

Le stampe bruniane, sulle quali riposano le moderne edizioni delle scritture qui presentate, partecipano la generale mendosità dell'arte tipografica di quel secolo. Nel libro 111 della sua Grammatica, il Campanella, continuando la discussione del problema ortografico avviata dai letterati italiani del '500, svolge addirittura una compiuta teoria della tecnica grafica e tipografica, legiferando minutamente sull'interpunzione, sull'uso delle maiuscole, sulle spaziature e su ogni altra circostanza della pagina. E appare da questa trattazione, quale esattissima perfezione egli concepisse e desiderasse nell'impressione delle proprie scritture. Tuttavia, e per l'incuria o la corsività nella correzione delle bozze, e per l'affrettatezza delle stampe, e per l'imperizia dei compositori, anche la grafia dei suoi libri risultò mendosissima, ineguale e sconciata. Si sa del resto che l'incostanza grafica e morfologica è comune a tutte le opere a stampa dei primi due secoli e che, per quelle in volgare, le cagioni di essa non sono soltanto tecniche, ma derivano anche dallo stato di fluidità e di pullulazione in cui si trovava allora la nostra lingua. Il Bruno, che in generale curò personalmente l'impressione dei suoi libri, riusci, da questa parte, alquanto più felice del Campanella, eppure molti trascorsi, solo in piccola parte da lui risanati nelle tavole, restarono da risanare agli editori successivi. Questi acconciarono all'uso moderno la grafia latineggiante, omettendo l'h iniziale o in consonante aspirata, sostituendo la z alla t dinanzi a i semivocalica, distinguendo la u dalla v. Inoltre, in un ordine più sostanziale, raddrizzarono alla giusta forma alquanti luoghi deformati per lapsus tipografici di vario genere, e divenuti perciò o inintelligibili o significanti cose aliene dal pensiero del Bruno. Le ulteriori correzioni di questo secondo genere, che abbiamo introdotto nel presente testo, appaiono dalla seguente Tavola e talora dipendono dalla semplice interpunzione, che, smossa o rimossa, basta a produrre una generale chiarificazione del passo. Per il Candelaio, pubblicato dal Bruno a Parigi nel 1582 e ripubblicato più volte con intendimenti critici (notevoli le edizioni del Wagner e del Lagarde nelle Opere italiane citate più sotto), la nostra base è la stampa curata con somma acribia da Vincenzo Spampanato, Bari, Laterza, 1923 3 , e ne facciamo una riproduzione quasi in tutto invariata.

GIORDANO BRUNO

La cena de le ceneri, il De la causa, principio e uno, il De l'infinito, universo e 111011d1'. e lo Spaccio de la bestia trionfante furono pubblicati dal Bruno a Londra nel 1584, mentre l'anno dopo vedevano la luce la Cabala del cavallo pegaseo e De gli eroici furori. Delle stampe archetipe non restavano che rarissimi esemplari alla fine del secolo XVIII, quando lo Jacobi ravvisò nel Bruno l'ispiratore o il precorritore del panteismo spinoziano, preparando il concetto storiografico della circolazione europea della filosofia italiana. Ridestato cosi l'interesse speculativo per il Bruno, si ebbero nel secolo XIX due importanti edizioni complete delle opere italiane da Adolfo Wagner, Lipsia, Weidmann, 1830, due voli., e da Paolo Lagarde, Gottinga, Horstmann, 1888, due voli., e nel secolo XX un'altra, che cumula e discerne i vantaggi delle due tedesche, ad opera di Giovanni Gentile, Bari, Laterza, 1907-8 1 ; 1925-72 , due voli. Sulle seconde cure del Gentile è fondata la nostra edizione dei dialoghi italiani. Il testo de La cena de le ceneri dato da G. Aquilecchia, Torino, Einaudi, 1955, è posteriore alla nostra edizione e, se ne abbiamo tenuto conto per chiarimenti, non abbiamo voluto mutare la base filologica dell'insieme dei nostri testi. Nel nostro lavoro di emendazione delle opere italiane abbiamo procurato di trarre giovamento dalla traduzione tedesca che del De la causa, principio e uno diede ADOLFO LASSON, Von der Ursache, dem Princip und dem Einen, Leipzig, Dilrr, 1902: essa è condotta con molta esattezza, ma sorvola con un'adesione meramente letterale sui luoghi che involgono difficoltà e che domanderebbero un intervento nella lezione. La traduzione, pure in tedesco, iniziata da Ludovico Kuhlenbeck, Leipzig, Rauert 1889; Berlin, Lostenoder, 1893; Leipzig, Friedrich, 1899 (n ed.: Leipzig, Diederich, 1904) è, in ordine a questo fine, di scarso profitto, sia perché neglige i perfezionamenti recati al testo dei Dialoghi dal Lagarde, sia perché la debole penetrazione delle dottrine è aggravata nell'autore dall'imperizia della lingua. La Oratio valedictoria (stampata a Vittenberga nel 1588), la Oratio consolatoria (a Helmstadt nel 1589) e i saggi del poema De immenso et innumerabilibus seu de universo et mundi.s (uscito a Francoforte nel 1590) vengon qui riprodotti nella lezione datane da Francesco Fiorentino per il corpus nazionale delle opere latine del Bruno (Napoli, Morano, 1879, voi. I, parti I e n). La latinità strabocchevole, l'asperità e ridondanza dei costrutti, la profondità e involutezza delle sentenze sono rimaste non di rado al di là dell'acume pur grande

NOTA AI TESTI

dell'editore, facendogli passare punteggiature incongrue e sfiguramenti di vocaboli, oppure, viceversa, suggerendogli emendazioni che non occorrono punto (vedi, per esempio tipico, in questo volume la nota J di p. 708). Quel che ci è riuscito di migliorare nel testo del Fiorentino, facendoci guidare da un esatto riscontro del senso letterale in ogni difficile fraseggio bruniano, appare dalla Tavola delle emendazioni. Un testo accuratamente recensito e riformato dell'opera latina del Bruno resta peraltro un'esigenza non ancora soddisfatta della filologia bruniana.

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI (Nella prin,a colonna è indicata l'edizione del testo da noi seguito; nella seconda le emendazioni di Roma110 Amerio.)

* CANDELAIO A cura di Vincenzo Spa,npanato, Bari, Laterza, I923 2 •

p. 59, l. 7: irrisorum

p. 76, l. IO: irrosorum Tornando alla lezione della .stampa bruniana.

p. 63, l. 5: orficio

p. 79, l. 6: orificio Anche nella nostra stampa è passato lo sconcia, ma è da emendare per ragione metrica. LA CENA DE LE CENERI

In • Opere italiane», a cura di Giooanni Gentile, Bari, Laterza, a x925, I.

p. 23, l.

20:

più

p. z97, l. xa: giù

ivi, l. az: che vogli

ivi, l. I3: che [non] vogli

p. 38, l. 3: son poche,

p. 208, l. 34: son, poche

p. 42, l. I7: limosa

p. axz, l. z8: rimosa

p. 72, figura

I

p. 236, figura I: Abbiamo aggiunto_ l'indicazione dei due punti 4 al sommo della figura.

p. 73, figura

2

p. 237, figura 2: Abbiamo mutato I in N; B in A; A in M; di più abbiamo aggiunto le lettere Hl.

p. 74, ll. a-3: due linee CD, CE,

p. 237, l. 22: due linee HD, IE

p. 7 4, figura 3

p. 238, figura 3: Abbiamo mutato in N 1 , N 2 , N 3 , N i quattro b. Inoltre abbiamo aggiunto Bu B2 , B3, a indicare le corde degli archi.

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI

p. 75, l. 7: corpo lucido B,

p. 238, Il. z2.3: corpo lucido N,

p. 75, ll. 23-4: l'angolo B

p. 239, l. 3: l'angolo N Per errore la nostra stampa ha conservato la lettera primitiva.

p. 76, figura 4

p. 239, figura 4: Abbiamo mutato un O in A, e A in K; inoltre abbiamo aggiunto N 2 , N 3 , N 4 , N 5, N 6 , N 7 , N 8•

p. Bo, l.

p. 243, l. 9: quando

I2:

quanto

p. BI, l. I 5: non deve esser

p. 244, l.

I I:

p.

p. 246, l.

2:

83,

l.

I3:

ombra

deve esser

ambra

p. 88, l. z9: tolse. Con

p. 250, ll. 35-6: [TEO.] Con

p. 92, l. 29: stata

p. 254, l. 26: stato

p. 96, l.

p._ 2 58, l. 4: affetti.

22:

effetti.

tolse.

ivi, l. 2 5: non può essere

ivi, l. 7: non può [non] essere

p.

p. 280, l. 3: Libia,

I22,

ll.

2-3:

Libra,

p. z27, figura 9

p. 284, figura 9: Abbiamo mutato E in B. Inoltre abbiamo segnati gli otto segmenti tra I e K.

DE LA CAUSA, PRINCIPIO E UNO In « Opere italiane», a cura di Giovanni Gentile, Bari, Laterza, I925z, I.

p. z37, l. 2z: tal

p. 293, l.

p. I 45, l.

p. 302, l. 7: implicitus Co1'1'ezione imposta per necessità metrica.

2I:

lmpetitus

II:

dal

p. z48, l. I7: effetti

p. 305, l. z6: affetti

p. z6I, l. 6: Senato;

p. 3z6, l. 7: Senato,

ivi, l. I 3: villani;

ivi, l. I 3: villani,

p. z70, l. 7: apposizioni

p. 323, l. 4: opposizioni

p. I 88, l. I 3: sensibili

p. 34I, l. az: sensibile

764

GIORDANO BRUNO

p. I90, l.

IO:

ad entium.

p. 343, l.

I7:

at entium.

p. 205, l. I2: e che noi

p. 356, l. 2r: che noi

ivi, ll. z6-7: e de quelle

ivi, l. 25: de quelle

p. 208, l. IO: materialmente, o soggettivamente

p. 359, l. 27: materialmente o soggettivamente,

p. 2z6 1 l. a: e quanto

p. 367, l. 6: e [ne rende] quanto

p.

Il. 8-9: non attualmente

p.373, ll.3-4: non [è] attualmente

p. 223, ll. I8-22: che, - secondo tal proporzione quale è lecito dire, in questo simulacro di quel-· l'atto e di quella potenza (per essere in atto specifico tutto quel tanto che è in specifica potenza, per tanto che l'universo, secondo tal modo, è tutto quel che può essere), sie che si voglia quanto all'atto e potenza numerale, -

p. 375, ll. II-5: che, secondo tal proporzione, quale è lecito dire, in questo simulacro di quell'atto e di quella potenza (per essere in atto specifico tutto quel tanto che è in specifica potenza, per tanto che l'universo, secondo tal modo, è tutto quel che può essere sie che si voglia quanto all'atto e potenza numerale)

p. 235, I. 24: fatto, è

p. 387, l. 8: fatto, [ed] è

p. 237, l. I9: alcune

p. 389, l. 7: alcuna

p. 238, ll. I s-6: demensioni,

p. 390, ll. 3-4: dimensioni,

p.

p. 4r3, l. 32: punto D;

22z,

262,

l. 32: punto C;

p. 263, l. I7: minimo

p. 4I 4, l. I7: massimo

DE L'INFINITO, UNIVERSO E MONDI

In « Opere italiane», a cura di Giovanni Gentile, Bari, Laterza, I9252,

I.

p. 295, l.

II:

oltre non ne

ivi, l. II: per p. 303, l.

IO:

p. 426, ll. 2 5-6: oltre ne

ivi, l. 26: [e] per perché

p. 434, l. 33: per che

p. 395, l. 6: fuoco

p. 445, l. 8: fuoco,

p. 403, l. Io: infinito

p. 453, l. 2I: infino

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI.

SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE

In « Opere italiane », a cura di Giovanni Gentile, Bari, Laterza, I9z7 2 ,

II.

p. 533, I. z3: forte,

p. I48, l. 30: forte

CABALA DEL CA V ALLO PEGASEO

In « Opere italiane», a cura di Giovanni Gentile, Bari, Laterza, I9z72,

II.

p. 249, I. 34: quando posseano

p. 548, l. 5: quando [non] pos .. seano

p. 286, l. z7: l'abito, e de

p. 567, I. 3: l'abito de

DE GLI EROICI FURORI

In « Opere italia11e », a cura di Giovanni Gentile, Bari, Laterza, I927'z., II.

p. 359, I. I5: che se quei

p. 59I, I. I4: che quei

p. 376, I. I8: caccia per

p. 606, l. 28: caccia [è] per

p.476, l.28: sorgono

p. 626, l. I4: sorgon Per necessità metrica.

ORATIO VALEDICTORIA

In « Opera latine conscripta », a cura di Francesco Fiorentino, Na .. poli, Morano, I879, voi. I p. I.

p. I7, I. 25: exaequando, p.

Si

I8,

Il.

IO-I:

p. 678, Il. 30-I: exaequat,

fata.

p. 680, ll. I2-3: si

fata,

GIORDANO BRUNO

ivi, l. 29: Daniae,

ivi, l. 28: Daniae

p. I9, l.

p. 682, ll. 6-7: substantiae [prae dicat], utpote

p.

2I,

IO:

substantiae, utpote

Il. 5-6: vctras

p. 684, ll. z8-9: vestras

p. 23, l. 4: applaudit. Vos

p. 688, ll. 4-5: applaudit, vos

ivi, l. 24: adstititis,

ivi, l. 2r: adstitistis,

p. 24, l. I7: invideant.

p. 690, l. 5: invideat.

ORATIO CONSOLATORIA

In « Opera latine conscripta », a cura di Francesco Fiorentino, Napoli, Morano, z879, vol. I, p. I.

p. 30, l. z5: prodam?

p. 694, l. 28: prodeam?

p. 32, l. 2r: agnosceret;

p. 698, l. rz: agnosceret?

p. 33, l. 26: exaequare.

p. 700, l. 8: exsequare.

p. 37, l. 4: tradere,

p. 704, ll. I 4-5: tradidere,

p. 39, l. 28: propagabitur.

p. 708, l. 6: propagabitur?

p. 4r, l. 8: incremento

p. 7ro, l. 3: incrementa

p. 45, l. 8: in nomen,

p. 7I4, l. 28: in (te] nomen,

p. SI, l. 7: Procrinis

p. 722, l. 26: Procanis

DE IMMENSO ET INNUMERABILIBUS

In « Opera latine conscripta », a cura di Francesco Fiorentino, Napoli, Morano, I879, vol. I, p. I.

p. 3I 4, l. 27: officium,

p. 732, l.

p. 38z, l. II: millia,

p. 738, l. 8: millia

ivi, l. I 8: potueresatis

ivi, l. I 5: potuere satis

II:

officium

TAVOLA DELLE EMENDAZIONI

In « Opera latine conscripta ,,, a cura di Francesco Fiorentino, Napoli, Morano, z879, vol. I, p. 11. p. 283, l. 6: eadem;

p. 748, l. z4: eadem

ivi, l. I 3: stellae / Duntaxat,

ivi, ll.

20-I:

stellae, / duntaxat

TOMMASO CAMPANELLA

INTRODUZIONE

La vita di Tommaso Campanella è così annodata alla vicenda del suo ideale filosofico-religioso, che sciogliernela importerebbe non pure di astrarla, ma di dissolverla, sicché la sommaria descrizione che si farà di essa, si svolgerà a un tempo come storia della maturazione del suo pensiero. Giandomenico Campanella nacque a Stilo, di famiglia contadina, il 5 settembre 1568, ed entrò quindicenne, col nome di frà Tommaso, nell'Ordine domenicano, meditando certo di pascere, in quella celebre compagnia di alte tradizioni intellettuali, la sua insaziabile filomazia e il suo ardore religioso. Della profondità con cui sentì, giovinetto, gli arcani della natura e dello spirito è indizio quel ricordo autobiografico di notturno pianto dirotto, mentre considerava, sbigottito, troppo fragili prove dell'immortalità. Addentratosi negli studi, non solo frequentò tutti i libri dei filosofi antichi e moderni, dai cristiani ai bramani e ai gimnosofisti, ma si spinse nell'astrologia e nell'occultismo, sorse a disputare, non senza iattanza, con uomini di ogni scuola, celebrando, contro il verbalismo e l'astrattezza di Aristotele, la sensata filosofia di Bernardino Telesio (m. 1588). L'allentata disciplina monacale gli consentì nel I 589 di lasciare i suoi conventi di Calabria e recarsi, ignari i superiori, a Napoli, dove nel circolo di Giambattista della Porta fiorivano le curiosità magiche e naturali. L'esorbitante fame di conoscenze, l'entusiasmo per l'esplorazione della natura, la consuetudine di uomini non irreprensibili, la parresia nelle cose filosofiche e, segnatamente, la pubblicazione della Philosophia sensibus demonstrata (1591) di ispirazione telesiana, gli attirarono nel 1591 un processo per pratiche demoniche e per sospetto di eresia. Dopo alcuni mesi di carcere, eludendo l'intimazione fattagli di tornare alla sua provincia, il Campanella si portò a Padova, dove visse tra le angustie e allacciò relazioni coi dotti di quello Studio, incontrandovi Galileo. Qui un secondo processo (1592), poi un terzo, concluso a Roma nel 1596 coll'abiura, fatta solennemente nella chiesa della Minerva per sospetto di eresia, e infine un quarto, pure a Rom~ ( 1597), chiusosi con un'assolutoria e coll'intimazione di tornare alla sua provincia, mettono il Campanella nella necessità di chiarire le sue dottrine e sostenere l'ortodossia

77 2

TOMMASO CAMPANELLA

dei suoi scritti. Questi processi, che quanto alle imputazioni morali possono difficiln1ente essere valutati, riescono invece notabilissimi nelle imputazioni dottrinali, perché rivelano una mentalità aggirantesi tra il materialismo democritèo e l'animismo neoplatonico: insieme con parti decidue, di cui pur resteranno le spoglie nel pensiero maturo di lui, traspaiono i semi e le prefigurazioni di quelle durevoli, che ne formeranno la sostanza. Ma chiaro e determinato nell'opera giovanile del Campanella è l'interesse pragmatico e politico: l'idea della società organizzata di tutto il genere umano, per la quale lotterà più tardi il monaco maturato nella meditazione e nel dolore, si trova già nelle scritture di questo periodo, non ancora colla sostanza religiosa che acquisterà poi, ma già con tutta la sua sostanza politica. Sono notevoli soprattutto il De monarchia Christianorum (1593) sull'etnarchia pontificia; i Di.scorsi ai, principi d'Italia (1595), per esortarli a secondare l'egemonia di Spagna e riconoscere il primato politico del papa; il De regimine Ecclesiae (1593), minuto disegno della tattica di occupazione del mondo da parte della Chiesa, e il Dialogo politico contra Luterani, Cal'Vinisti ed altri eretici (1595). Liberato dunque dall'Inquisizione, con ordine ai superiori suoi di sospenderlo dalla predicazione e dal confessionale, il Campanella, che tra l'uno e l'altro processo (cosa notabilissima) era stato ordinato prete, tornò in Calabria, prendendo stanza nel conventino di Santa Maria di Gesù in Stilo, e quivi attese, durante un anno di apparente tranquillità, agli offici di religioso, alla predicazione, cui era stato riabilitato, e alrinsegnamento. A questo punto l'energia spirituale dell'uomo, cresciuta intensivamente e intemperantemente, erompe in un singolare conato di catastrofe. L'idea di una riforma della religione come radice di una riforma dell'intera vita umana, tratteggiata dapprima negli schemi di un trasmodante imperio clericale, si determina come un ritorno dell'uomo alla natura pura e una reiezione di tutto il positivo del cristianesimo. La necessità di promuovere tale riforma, che le profezie canoniche ed extracanoniche annunziano, urge nello spirito di frà Tommaso e si accende di un vivo senso messianico. Gli scismi del clero, i conflitti giurisdizionali tra i vescovi e il Regno, le incursioni di Turchi sulla costa calabrese, le .atroci fazioni di sangue nei paesi, le esorbitanze celesti sono per lui altrettanti prodromi della mutazione cui il mondo si incammina per divino disegno.

INTRODUZIONE

773

Nella congiura che egli predica e prepara nell'estate del 1599, autorizzandosi coll'astrologia, la storia e i vaticinii sacri, concorrono promiscuamente laici bramosi di libertà, come il nobile Maurizio de Rinaldis, frati fantasiosi e libertini, come Dionisio Ponzio, uomini perduti, chierici irregolari. Vi si associa con promessa di navi turchesche il rinnegato Bassà Cicala. Vuole il Campanella affrancare il paese dal dominio del re di Spagna, erigerlo in repubblica e instaurare la vita conforme al cristianesimo puro, cioè alla natura pura, in una religione sdogmatizzata, senza misteri e senza carismi. Ma gli intenti del Campanella, propalati in una massa mobile e multiforme, si tingono e si alterano attraverso le suggestioni degli spiriti che li ricevevano. Dai costituti dei congiurati infatti la catechesi campanelliana della repubblica cristiana emerge nella sua eterodossia sostanziale, colla negazione della Trinità, della divinità di Cristo, della verginità di Maria, dei miracoli e della presenza eucaristica, ma viene effigiata spesso in guisa unilaterale e trasvoltata a sensi grossolani e contraddittorii. Per la oscurità e indeterminatezza stessa il tentativo insurrezionale suscitato dal Campanella assorbiva, sotto l'eccitamento potente della sua personalità, motivi eterogenei e confusi, personali e politici, solo richiedenti di erompere. La congiura è sventata per delazione di due soci e il Campanella, uscito in campagna con false vesti, arrestato il 6 settembre 1599. A Napoli, dove vien tratto 1'8 novembre dopo un'iniziale istruzione del processo in Calabria, il Campanella è sottoposto a un duplice giudizio: uno per sedizione e uno per eresia. Il 7 febbraio 1600 durante il processo per la congiura, egli vien torturato al poliedro e, non reggendo, confessa. Due mesi dopo, disperata ogni altra via di salvezza, per fermare la pena capitale sospesa sopra di lui, si appiglia alla simulazione di demenza. Riconosciuta la follia attraverso le perizie mediche e l'applicazione del supplizio della veglia durante trentasette ore, il processo di eresia vien chiuso con una sentenza di carcerazione perpetua e irremissibile. Il lungo periodo della carcerazione napoletana (1599-1626) fu dapprima aspro e crudele, più tardi, tranne saltuari rincrudimenti, divenne così mite che il Campanella, smessa la finzione di demenza, poté comporre libri, carteggiare ampiamente, insegnare e ricevere visite. Tre fatti vi spiccano: la metanoia filosofico-religiosa, l' espansione lirica, 1'attività letteraria. Per la metanoia, operatasi, come 1

774

TOMMASO CAMPANELLA

il Campanella dichiara, sotto il flagello della sventura, proprio quando, privato del mondo corporale, egli poté spaziare nel mondo mentale, gettando nel dolore radici profonde, il suo pensiero supera il sensismo mediante la nuova metafisica delle primalità e il naturalismo della religione sdogmatizzata mediante la teorica del Cristo razionalità assoluta. Il contenuto dogmatico del cristianesimo, prima rigettato come invenzione umana alogica, viene filosoficamente ripigliato come espressione del logo divino, di cui è pure espressione il logo umano. Il corollario pratico è l'istanza missionaria, poiché tutti gli uomini, che sono per natura obbligati al Cristo razionalità, sono parimenti obbligati al Cristo della Chiesa, in cui è il compimento pedetto della razionalità. L'espansione lirica segue un duplice tema. Nelle canzoni metafisiche il poeta celebra gli alti veri che il filosofo ha sillogizzati; nei carmi autobiografici i propri patimenti e lo scacco dei suoi ideali di riforma sono pianti insieme ed esaltati, mentre ora il poeta glorifica se stesso in una sorta di ammirazione prometeica del proprio scempio, ora invece si umilia a Dio in un abbandono di tenerezza penitente, sentendosi indegno di ammirarsi nel martirio, degno soltanto di confessarsi peccatore, di aspettare misericordia, di guardare dal suo nulla alla resurrezione immortale. L'attività letteraria, sebbene varia ed occasionale spesso, forma tuttavia l'esecuzione di un disegno enciclopedico chiaramente delineato nel De Gentilismo non retinendo ( 1609-161 o) come conseguenza della metanoia filosofico-religiosa. Se la ragione umana è un'espressione e radiazione del Cristo, Verbo e divina ragione, il Cristo starà in capo all'intero mondo della razionalità come fonte non pur della religione, ma anche della filosofia, e come nodo non pur essenziale, ma personale, delle due forme. Perciò il cristianesimo postula una nuova interpretazione della natura, che sia partorita dal suo genio proprio e lo affranchi dalla soggezione ai filosofi gentili. L•intero sistema del sapere deve pertanto essere restaurato, affinché sopra la rinnovazione del sapere possa operarsi la rinnovazione della vita in vista dell'universale palingenesia. Tra le più memorabili scritture campanelliane di questo periodo la più antica e la più singolare è il Dialogo della Città del Sole (1602), disegno di una repubblica in cui gli uomini vivono secondo la pura ragione, tracciato, secondo l'interpretazione postuma dell'autore, quale catechesi ai Gentili aspettanti una vita migliore. Il mito

INTRODUZIONE

775

solare, a cui molti interpreti hanno tentato di ridurre l'essenza del pensiero campanelliano, considerando le altre opere come scorza destinata a celare e conservare il nucleo eterodosso della sua dottrina, è invece soltanto espressione di un momento irresoluto e immaturo. Il significato durevole di quest'utopia non sta negli elementi religiosi, ma in quelli politici, e quanto di essa continuasse a valere per l'autore oltre gli avanzamenti del suo pensiero risulta dall'asserto ripetuto nelle scritture posteriori e nella postrema, che cioè la città solare fosse già realizzata nella vita dei monaci. Tanto più importante quanto meno nota della Città del Sole è la grande Metafisi,ca in diciotto libri, della quale sono state accertate ben cinque redazioni e di cui possediamo la redazione latina, stampata a Parigi nel 1638. Questa nuova metafisica di stampo schiettamente teologico si svolge come una teoria delle primalità, che sono potenza, sapienza e amore, principii di cui ogni ente è essenziato, finite nel finito e infinite nell'infinito. La struttura trinitaria della mente umana contiene così un finalismo essenziale che appella alla divina Trinità, ossia un moto religioso recondito che si attua sotto forma di religione positiva e che solo nel cristianesimo, religione della divina Sapienza personata, viene rettamente e pienamente adempiuto. La Teologia, in trenta libri, scritta tra il 1613 e il 1624, è un ripensamento,· coerente e massiccio, di tutta la dogmatica cattolica giusta i principii della nuova metafisica. Tale ripensamento è reso necessario, come si spiega nel proemio, dall'inettitudine radicale dell'aristotelismo a dar struttura scientifica ai veri rivelati, dall'urgenza di polemizzare efficacemente contro l'eresia, dalla ampiezza delle scoperte geografiche e astronomiche, che han mutato faccia all'universo, e infine dall'istanza missionaria che la Chiesa deve fronteggiare riunendo l'orbe in un'unica fede. Tutti i dogmi del cristianesimo sono in quest'opera lumeggiati, fortificati e digesti in una sistemazione gagliarda, che sotto la rozzezza stilistica cela l'architettura delle opere rare edificate su un concetto profondo. Ma pari alla Teologia per significanza, benché minore di mole, è il Reminiscentur in quattro libri, in cui è svolto il corollario politico della teorica del Cristo razionalità universale: posta infatti la solidarietà fra ragione e Verbo divino, l'assunzione della intera ragionevolezza da parte del genere umano importa la ricognizione del cristianesimo da parte di tutte le nazioni, che, deposto l'errore delle profane reli-

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gioni e lasciata la barbarie del culto idolatrico, si integreranno al Cristo vivente della Chiesa cattolica, stringendosi in un solo gregge sotto un sol pastore. E questa concordia dell'orbe è l'effetto di una reminiscenza (onde il titolo dell'opera), poiché l'appello al Cristo làtita implicito nel fondo dell'autocoscienza e, venendo al Cristo, il genere umano viene più profondamente a se stesso, chiarificando a se stesso l'essenziale memoria di Dio, suo principio e suo fine. Sotto forma di legazioni alle quattro grandi nazioni, cristiana, gentile, ebrea e musulmana, il Reminiscentur chiama il mondo alla conversione al Cristo, che già tutti gli uomini conoscono come lume di razionalità naturale e che dunque devono riconoscere anche esplicitamente come lume soprannaturale. Alle legazioni umane, invitanti a una generale collazione di tutte le credenze da farsi in un concilio indetto dal papa e celebrato saltem spiritualiter, precedono un'orazione a Dio, in cui il Campanella confessa l'errore giovanile, e due legazioni agli angeli, perché promuovano, e ai diavoli, perché non impediscano la reminiscenza. Il Reminiscentur, terminato nel 1618 1 e dedicato successivamente a tre papi, previene di pochi anni l'istituzione della congregazione di Propaganda Fide e si allaccia all'occupazione ormai dominante nello spirito del nostro frate: la concordia dell'universo e la riduzione del mondo all'unità del culto divino. A questo stesso fine volgono altre attività del periodo napoletano: i memoriali al Papa e all'Imperatore per proporre rimedio ai mali della Chiesa e della cristianità; gli incontri e il carteggio con personalità cospicue del mondo cattolico, come Gaspare Scioppio, le quali si adoperano per la pubblicazione dei suoi libri o muovon passi per la sua liberazione; il commercio epistolare e la disputa con alcuni dotti luterani, quali Cristoforo Pflug, Tobia Adami e Rodolfo di Bi.inau, alcuni dei quali converte al cattolicismo; le scritture apologetiche, come l' Atheismus triumphatus, propagate fervidamente dall'autore e partecipate da un crescente numero di personaggi cospicui; le scritture polemiche, come gli Antiveneti, nell'occasione del celebre interdetto del 1606, e l'Epistola antilutherana colle successive repliche, nell'occasione delle dispute coll'Adami. Non meno importante dell'azione riformatrice e missionaria è, nel periodo della carcerazione napoletana, la continuazione dell'attività scientifica, segnatamente con la redazione italiana del De sensu rerum et magia (1604), con le grandi Quaestiones su tutta la filosofia naturale (dal I 609

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innanzi) e con l'Apologia pro Galilaeo (1616), scritta per il cardinale Bonifacio Gaetani al tempo della condanna di Copernico, nella quale con mirabile acume il Campanella stabilisce la distinzione, oggi volgata, tra il sapere scientifico e il sapere teologico. Così le disposizioni delle autorità ecclesiastiche verso il prigioniero si fanno più clementi. Nel 1618 il Santo Officio esamina la domanda di pubblicazione del Quod reminiscentur. Tobia Adami, che ha visitato il Campanella a Napoli nel 1613, stampa in Germania il De se,uu rerum et magia (1620), una scelta delle Poene (1622), la Philosophia realis (1623) e altre cose minori. Nel 1625 la Sorbona esamina la Metafinca. Le premure per la liberazione si moltiplicano e il 23 maggio 162.6, dietro una petizione dei Domenicani di Calabria al re di Spagna, il Campanella è finalmente scarcerato. Un mese dopo viene nuovamente catturato per ordine del Nunzio e tradotto a Roma nelle carceri del Santo Officio. Soltanto l' 11 gennaio 1629, entrato nelle grazie di Urbano VIII che mostra gusto grande della sua conversazione, il Campanella è interamente dimesso e va ad abitare nel convento della Minerva. Durante il periodo romano il Campanella vede la riabilitazione totale della sua persona di religioso (nel giugno 1629 il capitolo generale dei Domenicani gli conferisce il magistero in teologia) e tenta, fra vivi contrasti, la riabilitazione della sua dottrina. L'introduzione presso la Curia e il credito presso il Pontefice, di cui gode la familiarità e che gli assegna una pensione, agevolano l'approvazione delle sue scritture. Tuttavia altri uomini meno intendenti o meno transigenti di novità filosofiche, tra i quali spiccano frà Niccolò Ridolfi, generale dei Domenicani, e frà Niccolò Riecardi detto il Mostro, maestro dei Sacri Palazzi, impugnano con forza l'apologetica radicale preconizzata dal Campanella e attraversano, talora con modi frodolenti, i suoi disegni. Il Reminiscentur gli venne approvato nel 1630, ma la stampa ne fu impedita dagli avversari, quantunque l'autore concedesse di metterla fuori anche senza il proprio nome. Un'apologia del suo pansensismo metafisico, già provato naturalisticamente nel De sensu rerum et magia (1604), è la Defensio scritta nel 1627, dopo che il Santo Officio, consentendo all'autore di attribuire alle cose un prosensw anziché il senms, gli aveva passata sostanzialmente l'intera dottrina. La sua teologia della grazia, esposta nel De p,aedestinatione ( 1628), che i suoi confratelli della Minerva tacciavano di antitomismo,

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viene condensata in sedici tesi e nel 1629 riceve l'approvazione di una commissione di teologi. I disegni di propaganda ecumenica camminano verso l'effettuazione con il progetto di fondazione di un Collegio Barberino per alunni missionari. Il Campanella è tanto cresciuto in credito presso il Papa, che questi medita di nominarlo consultore del Santo Officio. Ma la forza di un uomo di genio sebben prominente, isolato, non poté a lungo fare equilibrio a tutto il mondo della Curia, dove un costume secolare, maneggiante influssi potenti, stava in servizio di una mentalità solida e lenta, resa cauta in abbandonar le forme antiche dal potente sentimento della sostanza. Alcuni eventi sfavorevoli precipitano la sfortuna del nostro filosofo. Dapprima la pubblicazione (procurata clandestinamente dagli avversari) della sua Astrologia lo fece incorrere nell'ira di Urbano VIII, che aveva in una bolla condannato ogni oroscopo. Poi inasprisce il Pontefice l'intervento in favore di Galileo durante il processo del 1633, dal quale la dottrina eliocentrica uscì condannata. Infine gli attira l'ostilità della fazione spagnola l'evoluzione della sua concezione politica, per la quale il compito egemonico nella conquista cattolica dell'orbe, assegnato al re cattolico nella Monarchia di Spagna, viene trasferito all'energica Francia antiugonotta del Richelieu. L'avversione della parte spagnoleggiante si spinge a tanto che, quando nel 1634 gli Spagnoli scoprono in Napoli una congiura ordita da frà Tommaso Pignatelli, discepolo del Campanella, essi ricercano il Campanella come correo, e il filosofo fugge dall'urbe con passaporti del Papa, sotto la protezione dell'ambasciatore di Francia, e ripara in Parigi. Sono gli ultimi anni. Il Campanell~ viene accolto da Luigi XIII con onori grandissimi, favorito di una pensione, ricercato dal Richelieu e dalla nobiltà, celebrato nei circoli dotti, presiedendo (come pare) alla celebre accademia. Operano insieme l'ammirazione per il sapere e la riverenza per l'esule politico. In tale periodo brillante di visite, di conferenze e di onori il filosofo, già vecchio e gravato da una vita zeppa di afflizioni, si raccoglie esclusivamente in due compiti: l'azione antiereticale e l'edizione delle sue opere. Nonostante gli sforzi dei suoi avversari romani, che gli fanno condannare il De praedestinat1.'one, gli ritengono l'approvazione delle scritture già approvate, gli fanno sospendere la pensione papale, ostacolano in ogni modo la stampa delle opere, il Campanella riesce a pubblicare parti importanti della sua grande enciclopedia.

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Inoltre, giovandosi dello splendore d'autorità circondante la sua persona, egli si impegna nella lotta antiereticale, difende ogni settin1ana in pubblico contraddittorio proposizioni della dottrina cattolica, e procura la conversione di molti Calvinisti. Fin negli ultimi tempi, nell'ambiente gallicano e regalistico della Sorbona, sostiene le sue dottrine del primato assoluto del pontefice romano in omnibus e agita l'ideale della palingenesia universale e dell'ecumene cristiana. A lui ancora pieno dell'aspettazione di un'era nuova, sembrò di ravvisarne i segni nella crescente fortuna di Francia, a cui aveva traslato dalla Spagna la direzione politica della cristianità. Quando nel settembre 1638, dopo vent'anni d'attesa, nacque a Luigi XIII il successore, il nostro filosofo celebrò in un'ecloga famosa la propria antica fede palingenetica e la prodigiosa natività del Delfino destinato ad avverarla. L'ecloga fu l'ultimo lavoro. Le leggi fatali, contro le quali pure l'uomo si presidiò con le risorse dell'arte astrologica, operavano. Mori nella sua cella del convento di rue Saint-Honoré la mattina del 21 maggio 16391 ricevuti piissimamente i sacramenti, e fu sepolto il dì seguente nella chiesa del convento. Le sue ceneri furono disperse durante i torbidi della rivoluzione. ROMANO AMERIO

NOTA BIBLIOGRAFICA La fondazione degli studi critici campanelliani ~ dovuta a LUIGI AMABILE, prima del quale si hanno spani giudizi intorno alla vera fisionomia del Campanella, di cui si afferma o si impugna la sincerità, e intorno al significato delle sue dottrine, a volta a volta abbassate e inalzate, ma difetta ogni studio sistematico sia della biografia sia della filosofia di lui. Segnatamente nei tre volumi su Frà Tommaso Campanella, la ma congiura, i moi processi e la sua paz%ia, Napoli, A. Morano, 1882, e nei due su Frà Tommaso Campanella ne' castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Napoli, A. Morano, 1887, l'Amabile ricostnd., con vastissima esplorazione di documenti, la vita del Campanella formandone una accurata narrazione, che, pur ritoccata in qualche particolare dalle ricerche più recenti, rimane la base di ogni possibile approfondimento storiografico. All'importante analisi biografica l'Amabile incorporava un'interpretazione del pensiero campanelliano in senso deistico, secondo la quale il filosofo, fallitagli la sedizione calabrese con cui tentava dar corpo al suo ideale di religione sdogmatizzata, sarebbe perdurato nelle sue persuasioni, simulando per ragion pratica una fede nel soprannaturale del cristianesimo, interamente

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deposta dal cuore. Sotto il potente influsso delle acquisizioni biografiche dell'Amabile si trovò per mezzo secolo la critica companelliana, la quale, oltre la difficoltà, in cui si trovava, di scindere da così gran mole di accertamenti storici l'esegesi eterodossa che vi si accompagnava, subiva la temperie intellettuale, sia positivistica, sia idealistica, del tempo, incline a ravvisare nel Campanella un anticipatore delle rotture caratteristiche del pensiero moderno. Notevoli sono, come espressioni di tale indirizzo, i lavori di G. KVACALA, che diede una rappresentazione complessiva del deismo campanelliano in Tliomas Campanella, ein Rcformer der awgehenden Renaissance, Berlin, Trowitzsch & Sohn, 1909, oltre a numerose monografie sui manoscritti editi e inediti; quelli di G. SANTE-FELICI, raccolti in Le dottrine filosofico-religiose di Tommaso Campanella con particolare riguardo alla filosofia della Rinasce,zza italiana, Lanciano, Cara b ba, 1895 ; la grande opera di L. BLANCHET, Campanella, Paris, Alcan, 1920, e il saggio di C. DENTICE D 1ACCADIA, Campanella, Firenze, Vallecchi, 1921. Contro l'interpretazione dell 1 Amabile, così fortemente collocata sulle acquisizioni biografiche, si ebbe la reazione di CH. DEJOB, Est-il vrai que Campanella fut nmplnnent déiste?, in •Bulletin italien», 1911, pp. 124-40; 232-45; 277-86, che riprendendo la tesi di P. C. FALLEITI, Del carattere difrà Tommaso Campanella, Torino, Bocca, 1889, si studiò di provare l'ortodossia del Campanella in solidum, troppo leggermente credendo di infirmare l'attendibilità degli atti processuali, e colorando la figura di un Campanella non promotore di congiura e di riforma, ma promosso e vittima. Più giustamente invece si era soffermato sul nucleo ortodosso della metafisica campanelliana, anteriormente ai lavori dell'Amabile, in saggi squisitamente teoretici, B. SPAVENTA, Saggi di critica filosofica, politica e religiosa, Napoli, Ghio, 1867, pp. 3-136. L'evoluzione della critica campanelliana fu determinata essenzialmente da una ripresa di carattere filologico, che ricercando e mettendo in luce le opere della maturità, consentì all'esegesi di muoversi oltre i termini in cui l'aveva chiusa l'Amabile. Alla tesi dell'eterodossia dissimulata per cautela entro una scorza ortodossa subentra così la tesi di una reale evoluzione noologica, che, senza storcere i dati biografici, riconosce la mentalità giovanile del Campanella e insieme, attraverso una catastrofe di inveramento, la risoluzione di essa in una nuova metafisica destinata a ripigliare i veri del cristianesimo. Questo progresso esegetico fu promosso dalla pubblicazione della Theologia (lib. 1, 1 ed., Milano, Vita e pensiero, 1936; n ed., Firenze, Vallecchi, 1950; libb. XXVII e XXVIII, Roma, Bocca, 1955) e del Reminiscentur (libb. 1 e 11, Padova, Cedam, 1939; lib. 111, Firenze, Olschki, 1955), che sono, a detta dello stesso autore, l'espressione consumata e in certo senso verticale di tutta In sua dottrina, e permettono di lumeggiare, con pensiero intero, i concetti e l'animw del Campanella. Gli Studi campanelliani di R. DE MAITEI, Firenze, Sansoni, 1943, la Bibliografia degli scritti di Tommaso Campanella di L. FIRPO, Torino, Vincenzo Bona, 1940, e il volume di Ricerche campanelliane dello stesso FIRPO, Firenze, Sansoni, 1947, appurando, con diligente inquisizione dei documenti e dei manoscritti, una moltitudine di particolarità della vita e della dottrina del filosofo, hanno grandemente contribuito a una rappresentazione intera e ponderata anche della filosofia campanelliana.

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L'edizione e la riedizione delle scritture avanzarono negli ultimi due decenni più che non avessero fatto dall 1Amabile in qua, grazie alle fatiche di A. Bruers, che pubblicò la redazione italiana del Senso delle cose, Bari, Laterza, 1925, di C. Ottaviano, che curò l'Epilogo Magno, Roma, Reale Accademia d'Italia, 1939, di N. Bobbio, cui è dowta l'edizione critica della Città del Sole, Torino, Einaudi, 1941, e soprattutto di L. Firpo, che, pareggiando l'Amabile nell'ampiezza dell'esplorazione e superandolo nell'acribia filologica, mise alla luce in esemplare forma critica gli Aforismi politici, nella doppia redazione italiana e latina, Torino, Libreria scientifica G. Giappichelli, 1941, gli inediti AntitJeneti, Firenze, Olschki, 1945, la Poetica italiana inedita col rifacimento latino, Roma, Reale Accademia d'Italia, 1944, i Discorsi. ai principi d'Italia, Torino, Chiantore, 1945, i Discorsi universali del gooerno ecclesiastico (nella scelta di scritti del Campanella preparata per il voi. XLVIII dei • Classici italiani• diretti da Ferdinando Neri, Torino, U.T.E.T., 1949), gli Op11scoli inediti, Firenze, Olschki, 1951 1 e inoltre alcune lettere e minori cose in • Rivista di filosofia•, 1947, pp. 213-29, "Rivista di storia della filosofia•, 1947, pp. 38-59, e in • Rassegna d'Italia•, 1948, pp. z70-97. Il Firpo ha poi pubblicato nel 1955 il primo tomo dell'opera omnia del Campanella, contenente le Poesie, la Poetica italiana e latina, la Rhetorica, la Grammatica e l' Historiographia (Milano, Mondadori), con esemplari apparati critici e commento. Delle Poesie e delle opere riprodotte nel presente volume si discorre più sotto, Per l'interpretazione della filosofia campanelliana, oltre il già citato Blanchet, si potranno vedere i miei studi su Il problema esegetico fondamentale della .filosofia campanelliana nel terzo centenario del filoso/o, in cr Rivista di filosofia neoscolastica•, 1939, pp. 368-87, la Introduzione alla teologia di Tommaso Campanella, Torino, S.E.I., 1948, e il profilo Campanella, Brescia, La Scuola, 1947. Il volume assai ampio ed informato di G. D1 NAPOLI, Tommaso Campanella filosofo della restaurazione cattolica, Padova, Cedam, 1947, ritorna regressivamente alla tesi della perpetua ortodossia, stracciando i documenti processuali. Non influenzato dagli studi recenti A. T~TA, Campanella, nella collezione • I filosofi 11 del Garzanti, Milano, 1941. Notevole il Tommaso Campanella di A. CoRSAN0, Milano 1944, Per il testo delle Poesie, questo volume prende come fondamento l'edizione di G. Gentile, Firenze, Sansoni, 1939, che è una riproduzione quasi invariata di quella del 1915 dello stesso Gentile (Bari, Laterza). L'edizione curata da M. Vinciguerra, Bari, Laterza, 1939 non reca traccia di preoccupazione filologica. Il problema essenziale della poesia campanelliana rimane la critica testuale, poiché tutte le moderne edizioni sono tuttora sparse di luoghi per guasto inintelligibili. L'assodamento della genuina lezione vien reso oltremodo arduo, oltre che dagli abbagli dell'editore tedesco nella stampa principe (1622), anche dalla profondità esoterica dei concetti nella tormentata densità espressiva. Di alcuni luoghi trapassati da editore a editore con sconciature inintelligibili indicai l'emendazione, al comparire della seconda edizione del Gentile, nelle Osservazioni critiche sul testo delle poesie di Toanmaso Campanella, in • Giom. stor. d. letter. ital •, CXVI, 1940, pp. z I z-z6, e ne tenne conto nella sua edizione parziale dei carmi nel

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citato volume XLVIII dei « Classici italiani• diretti da Ferdinando Neri, il Firpo, che altre proposte di correzioni aveva fatto in Ricerche campanelliane, già citate, pp. 223-33. Ma la necessità di ben più numerosi ritocchi mi si è imposta nella preparazione della presente raccolta, nella quale appaiono racconciati e ridotti nl senso coerente genuino parecchi passi, che non erano stati considerati nelle citate Osservazioni. L'elenco di essi trovasi nella Tavola delle eme,,dazioni in fondo al volume, e la giustificazione di molti di essi nei miei Paralipomeni critici sul testo delle poesie di Tommaso Campa,iella, nel «Giom. stor. d. letter. ital. », cxxn, 1951, pp. 317-26. Studi sulla poesia campanelliana esistono in gran numero, ma sono per lo più generici, senza preoccupazione alcuna di chiarire il senso letterale dei carmi, e manca tuttora un commento di carattere positivo e filologico quale ci siamo studiati di abbozzare in queste pagine. Tra i molti saggi ci sembrano meritevoli di menzione quelli della A. Boss10, Tommaso Campanella poeta, in « Convivium 11, xn, 1940, pp. 433-70, della L. DE CAROLIS PILOTII, Tommaso Campanella poeta, Firenze, Sansoni, 1942, e soprattutto di A. MARTINELLI, La poesia di Tommaso Campanella, Lucca, Casini, 1916. Cfr. pure F. FLORA, nella sua Storia della letteratura italiana, 111, 2, Milano, Mondadori, 1953, pp. 133 sgg.; G. DE RoBERTIS, Studi, Firenze, Le Monnier, 1944, pp. 88 sgg.; A. MoMIGLIANO, Cinque saggi, Firenze, Sansoni, 1945, pp. 45 sgg.; F. NERI, Poesia nel tempo, Torino, De Silva, 1948, pp. 41 sgg. Per la Lettere, di cui abbiamo trascelto pel lettore della presente collezione quelle che più vivamente scoprono le passioni con cui il Campanella accompagna nell'aspra vicenda della vita il vario crescere e adempiersi del suo ideale, la nostra edizione è basata su quella fondamentale di V. Spampanato, Bari, Laterza, 1927. Parecchi luoghi, che si son dovuti emendare, risultano dalla apposita Tavola delle emendazioni. Il libro terzo del Senso delle cose, che abbiamo riprodotto come saggio della prosa campanelliana che più ci sembra spiccare in argomento il cui valore speculativo è per noi perento, riproduce la lezione del Bruers nella stampa già citata. Alcune mende si son dovute sanare nel modo indicato dalla Tavola delle emendazioni. La Città del Sole è il dialogo famoso al quale rimase contratto il significato filosofico-religioso del Campanella sino alla recente storiografia. Composta in italiano nei primi tempi della carcerazione napoletana, certo non dopo il 1602, riflette un momento ambiguo e immaturo della mentalità campanelliana, perplessa tra l'eterodossia del mito giovanile, annichilato dall'evento catastrofico, e l'esigenza di una chiarificazione noologica in senso ortodosso, a cui sollecitava l'uomo l'esperienza della sventura. Il titolo primitivo di Idea di riforma della Repubblica cristiana conforme alla promessa da Dio fatta alle sante Caterina e Brigida venne poi cangiato dal Campanella in successive redazioni italiane e in quelle latine, stampate nel 1623 e nel 1637 in modo da ridurre il carattere dell'operetta a un mito poetico (cosl penso con Kvacala e Firpo, contrariamente al Bobbio, per il quale il titolo più diffuso sarebbe posteriore). Il mito tuttavia, come già è insinuato nel corso stesso del dialogo e come esplicitamente insegna il Campanella nella quarta delle Quaestiones sulla poli-

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tica, mira a provare che la vita ordinata secondo ragione in regime di pura natura è conforme a quella ispirata dalla grazia del cristianesimo e predispone a questa: onde la Città del Sole si presenta come una propedeutica e un catechismo del cristianesimo. Il testo che pubblichiamo è fondato sulla edizione del Bobbio, Torino, Einaudi, 1941, condotta sullo studio di tutti i manoscritti noti. Per il problema de1l'interpretazione del dialogo, che si è tornati a discutere in occasione dell'edizione del Bobbio, vedi G. SOLARI, Di una nuova edizione critica della «Città del Sole» e del comunismo del Campanella, in «Rivista di filosofia», 1941 1 n. 3, pp. 180-97, e R. AMERIO, L'ultima forma del mito solare nella teologia politica di Jrà Tommaso Campanella, in «Jahrbuch der Schweizerischen Philosophischen Gesellschaft •, voi. IV, pp. 29-59, Basel 1944, con Appendice di testi inediti. 1 Discorsi universali del governo ecclesiastico furono elaborati dapprima in Padova e in Roma tra il 1593 e il 1595 1 perduti dall'autore nelle vicende della congiura, quindi rifatti, probabilmente con tratti nuovi e certo con spirito nuovo, durante la prigionia napoletana e compendiati per Urbano VIII nel 1631. La nostra edizione è esemplata su quella datane dal Firpo nel già citato volume dei « Classici italiani• diretti da F. Neri, salvo pochi ritocchi, che ci sembrarono necessari, e che risultano dalla Tavola delle emendazioni. Quanto al pensiero politico del Campanella si consulteranno R. DE MATTEI, La politica di Campanella, Roma, Anonima romana editoriale, 1927, P. TREVES, La filosofia politica di Tommaso Campanella, Bari, Laterza, 19301 e L. FIRPO, L'utopia politica nella Controriforma, in •Quaderni di Belfogor », I, 1948, pp. 75-108. Dovendo offrire un saggio anche delle opere latine, rilevanti per il rispetto speculativo, ma meno assai per il pregio letterario, ci siamo fermati sulla Apologia pro Galilaeo, Francofurti 1622, di cui rechiamo qualche pagina in traduzione originale, quella datane da D. Ciampoli (Lanciano, Carabba. 1911) essendo assai difettosa; sulla Metaphysica, Parigi 1638 1 che il Campanella giudicava Biblia philosophorum, e sul Reminìsce11tur (solo parzialmente edito: Padova, Cedam, 1939, libb. I e II; Firenze, Olschki, 1955, lib. 111), culmine e compendio di tutti gli studi suoi. Le pagine sulla religione, stralciate dal libro XVI della Metaphysica, sono tra le più celebri e controverse della filosofia campanelliana, e dall'anno delle stampe si riproducono qui per la prima volta e per la prima volta si traducono. L'interpretazione di F. Fiorentino, che nvvisava in questi testi la prova del deismo campanelliano, è discussa nel mio studio Le dottrine religiose di Tommaso Campanella, in « Rivista di filosofia neoscolastica•, 1931, pp. 458-60. Quanto al Reminiscentur, ci siamo limitati alle prime legazioni, che danno un'immagine della costruzione dell'opera, della singolarità della concezione e anche della particolarissima cura formale di questa scrittura. Per l'iconografia campanelliana si veda R. DE MA'ITEI, Studi campanelliani già citato, pp. 103-10, con la riproduzione di otto ritratti del Campanella.

SCELTA D'ALCUNE

POESIE FILOSOFICHE DI

SETTIMONTANO SQUILLA CAVATE DA' SUO' LIBRI DETTI

LA CANTICA CON L'ESPOSIZIONE

PROEMIO

lo, che nacqui dal Senno e di Sofia, sagace amante del ben, vero e bello, il mondo vaneggiante a sé rubello richiamo al latte della madre mia. Essa mi nutre, al suo marito pia, e mi trasfonde seco, agile e snello, dentro ogni tutto, ed antico e novello, perché conoscitor e fabbro io sia. Se tutto il mondo è come casa nostra, fuggite, amici, le seconde scuole, ch'un dito, un grano ed un detaP ve 'I mostra.a Se avanzano le cose le parole, doglia, superbia e l'ignoranza vostra stemprate3 al fuoco ch'io rubbai dal Sole.4

s

10

Senno è l'intelletto eterno. Sofia., la sapienza creata, diffusa in ogni ente, che, impregnata dall'intelletto divino, partorisce i veri sapienti, ma da sé, i sofisti e rubelli a se stessi, in quanto creati da Dio. 6. Dal divino Senno aiutato, il savio penetra, con esso lui, quasi volando, tutte le cose fatte e future. 9. Questo verso contiene tutta la loica e tutti sillogismi, che dalla parte al tutto ci guidano a sapere. 1.

Proemio. Dettato probabilmente per essere premesso alla raccolta delle poesie, quando si avverarono le prospettive di poterla dare alle stampe grazie agli offici di Tobia Adami, questo sonetto condensa i motivi del filosofare e del poetare del Campanella, e anzi tutto la essenziale connessione della sapienza umana colla sapienza divina, senza della quale la prima si travaglia in una contraddizione intestina, quindi la necessità di attingerla con una immediata lezione del gran libro della natura, in cui la divina sapienza è scritta. - 1. detal: ditale. 2. ve •l mostra: vi mostra quel mondo, in cui l'uomo è domestico, e nel quale dalle creature particolari, con sillogismo, che altrove il Campanella chiama gigantesco, argomenta il tutto. 3. stemprate: dissipate (imperativo). 4./uoco ... Sole: allusione al mito di Prometeo, rapitore del fuoco divino, inchiodato da Giove sul monte Caucaso. Il fuoco è, nella allegoria campanelliana, la sua nuova metafisica primalitativa, chiave della riforma enciclopedica del sapere e fondamento indispensabile della palingencsia politica e religiosa dell'orbe. Nella lettera del primo di giugno del 1607, scritta dall'orrido carcere di Castel Sant'Elmo a Gaspare Scioppio, il Campanella scriveva: • Ego tanquam Promether,s in Caucaso detineor, quoniam non rite hoc functw sum mrmere »: « Io sono imprigionato nel Caucaso come Prometeo, perché non ho adempiuto bene questo mio compito 11 (intendi: la missione per rifar la concordia della cristianità e dell'ecumene), e devolveva al tedesco il compito di portare tra gli uomini la celeste favilla.

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Scuole seconde sono quelle che non da Dio nella Natura impa• rano, ma da' libri degli uomini, parlanti come opinanti di proprio capriccio e non come testimonianti di quello che impararo nella scuola di Dio. 1 1. Col dito replicato si fa il palmo, dal palmo il braccio, dal braccio la canna, ed ogni numero crescente. Col grano replicato, i pesi; col detale riempito, le misure. E questo è il modo di loicare più noto in matematica. 12. Le parole non arrivano a dir l'essenza delle cose; né tutte le cose note hanno la lor propria voce, e !'ignote nulla; 1 talché la deficienza, l'equivocazioni e sinonimità fan doglia a' savi, che veggono non potersi sapere; superbia a' sofisti, che mettono il saper nelle parole; ignoranza a tutti. 14. Prometeo rubbò il fuoco, e fu però carcerato nel Caucaso, perché facea ... 10.

A' POETI

In superbia il valor,

la santitate passò in ipocrisia, le gentilezze in cerimonie, e 'I senno in sottigliezze, l'amor in zelo, e 'n liscio la beltate, mercé vostra, poeti, che cantate finti eroi,1 infami ardor, bugie e sciocchezze, non le virtù, gli arcani e le grandezze di Dio, come facea la prisca etate. Son più stupende di Natura l' opre che 'I finger vostro, e più dolci a cantarsi, onde2 ogni inganno e verità si scuopre. Quella favola sol dée approvarsi, che di menzogne l'istoria non cuopre e fa le genti contra i vizi armarsi.

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e l'ignote nulla: e le cose ignote non hanno nessuna voce.

A' poeti. Vigorosa postulazione della sostanza morale e filosofica dell'arte, conforme alle dottrine della Poetica (vedi l'edizione critica a cura di L. Firpo, Roma, Reale Accademia d'Italia, 1944), massime nei capitoli IV, vu e x. - 1. finti eroi: che la poesia contemporanea fosse ancor soggetta alle favolosità gentilesche il Campanella lamenta in molti luoghi delle sue opere, contrapponendo ai finti eroi dell'epica antica le storiche glorie dei guerrieri, dei legislatori e dei sapienti del cristianesimo. Cfr. per esempio la canzone Agi'ltalt'ani che attendono a poetar con le favole greche, in questo volume a p. 834. 2. onde: dalle quali opere di Natura.

POBSIB

Come scrisse l'autore nella sua Poetica, i poeti moderni hanno con le bugie perniciose contraffatto la virtù, ed ornato i vizi colla veste di quelle. E grida lor contro, che tomino al prisco poetare. E perché pensano che le favole sono degne di cantarsi per rammirazione, dice che più mirabili sono l'opere di Natura. E qui condanna Aristotele, che fece la favola essenziale al poeta: poiché questa si deve fingere solo dove si teme dir il vero per conto de• tiranni, come Natan parlò in favola a David; 1 o a chi non vuol sapere il vero, si propone con gusto di favole2 burlesche o mirabili; o a chi non può capirlo, si parla con parabole grosse, come Esopo e Socrate usaro, e più il santo Vangelo. Talché l'autore lauda quella favola solo che non falsifica l'istoria, 3 come è quella di Dido in Virgilio bruttissima; ed ammonisce la gente contro i vizi propri o strani, e l'accende alla virtù. Laonde questo ultimo verso dicea nel primo esemplare: • E fa le genti di virtù infiammarsi». DEL MONDO E SUE PARTI

II mondo è un animai grande e perfetto, statua di Dio, che Dio lauda e simiglia: noi siam vermi imperfetti e vii famiglia, ch'intra il suo ventre abbiam vita e ricetto. Se ignoriamo il suo amor e 'l suo intelletto, né il verme del mio ventre s•assottiglia1 a saper me, ma a farmi mal s'appiglia: dunque bisogna andar con gran rispetto. Siam poi alla terra, eh' è un grande animale dentro al massimo, noi come pidocchi al corpo nostro, e però ci fan male.

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1. come .•. David: il profeta Natan, per mezzo della parabola del ricco che toglie al povero la pecorella tenuta in conto di figliuola, riprese obliquamente la cupidigia del re Davide, cfr. II Reg., 12, 1-10. 2. gwto di favole: vedi la Tavola delle emenda:lioni. 3. Talchi . .. l'istoria: tra la favola e l'istoria il CampancJla non riconosce eterogeneità se non tutta formale e di elocuzione: cfr. la citata Poetica, cap. v, p. 83.

Del mondo e sue parti. Svolge una similitudine tra le più frequentate dal CampancJla per dar rilievo all'infinitesimalità deJl'essere umano nel rispetto dell'essere totale. Ma l'infinitesimalità dell'uomo vien poi riscattata dalla sua capacità di intendere e di appetire in infinito, grazie alla quale, come il Campanella canta nella saffica Della possanza dell'uomo (cfr. qui a p. 922), egli appare addirittura come un microteo. - 1. s'assottiglia: si studia. Reminiscenza di Dante, Par., xix, 82.

TOMMASO CAMPANELLA

Superba gente, meco alzate gli occhi, e misurate quanto ogn'ente vale: quinci imparate che parte a voi tocchi. In questo sonetto dichiara che l'uomo sia, come il verme nel nostro ventre, dentro il ventre del mondo; ed alla terra, come i pidocchi alla nostra testa; e però non conosciamo che 'l mondo ha anima ed amore, come i vermi e gli pidocchi non conoscono per la piccolezza loro il nostro animo e senso; e però ci fan male senza rispetto. Però ammonisce gli uomini ch'e' vivano con rispetto dentro il mondo, e riconoscano il Senno universale e la propria bassezza, e non si tengano tanto superbi, sapendo quanto piccole bestiuole e' sono. ANIMA IMMORTALE

Di cervel dentro un

pugno io sto, e divoro tanto, che quanti libri tiene il mondo non saziar l'appetito mio profondo: quanto ho mangiato! e del digiun pur moro! D'un gran mondo Aristarco, e Metrodoro di più cibommi, 1 e più di fame abbondo; disiando e sentendo, giro in tondo; e quanto intendo più, tanto più ignoro. Dunque immagin sono io del Padre immenso, che gli enti, come il mar li pesci, cinge, e sol è oggetto dell'amante senso; 2

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Anima immortale. L'immortalità dell'anima è la teorica fondamentale che caratterizza le metanoia religiosa e filosofica dell'autore e sulla quale si asside la nuova metafisica primalitativa escogitata come superamento del sensismo materialistico della sua mentalità giovanile. Nel sonetto l'immortalità vien celebrata come radice dell'ansia perpetua dell'intelleto, sempre insaziabile di cognizioni. - 1. D'un . .. cibommi: Aristarco di Samo (sec. IV a. C.) formulò una cosmografia eliocentrica, in cui i Copernicani ravvisarono un precorrimento del loro sistema: il Campanella scrisse su di lui un opuscolo oggi perduto ed espose la sua astronomia in un capitolo della Philosop/iia realis. Metrodoro di Lnmpsaco è il discepolo di Epicuro, fautore della teoria che poneva mondi plurimi nello spazio infinito. Intendi dunque: Aristarco mi cibò di un gran mondo, e Metrodoro di più mondi ecc. 2. sol . .. senso: il Campanella insegna nella Metafisica che nel fondo dell'autocoscienza è il conoscimento di Dio e nel fondo dell'autovolizione, onde ciascuna creatura si radica nel proprio essere, è l'amore di Dio, principio di tutti gli esseri. Cosi soltanto nel senso si ha un'immediata congiunzione del soggetto coll'oggetto, il quale nella conoscenza

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cui il sillogismo è stral, che al segno attinge; l'autorità è man d'altri: donde penso sol certo e lieto chi s'illuia e incinge. 1 In questo sonetto parla l'anima, e riconosce se stessa immortale ed infinita per non saziarsi mai di sapere e volere, onde conosce non dalli elementi, ma da Dio infinito essa procedere; a cui s'arriva col sillogismo come per strale allo scopo, perché dal simile effetto alla causa si va lontanamente; s'arriva con l'autorità, come per mano d'altri si tocca un oggetto, ancora che questo sapere sia lontano e di poco gusto. Ma solo chi s'illuia, cioè chi si fa lui, cioè Dio, e chi s'incinge, cioè s'impregna di Dio, vien certo della divinità e lieto conoscitore e beato; perché è penetrante e penetrato da quella. llluiare ed incingersi son vocaboli di Dante, mirabili a questo proposito. MODO DI FILOSOFARE

lt mondo è il libro dove il Senno eterno scrisse i propri concetti, 1 e vivo tempio dove, pingendo i gesti e 'l proprio esempio, di statue vive ornb l'imo e '1 su perno; perch'ogni spirto qui l'arte e 'I governo leggere e contemplar, per non farsi empio, debba e dir possa: - lo l'universo adempio, Dio contemplando a tutte cose interno. Ma noi, strette alme a' libri e tempii morti, copiati dal vivo con più errori, gli anteponghiamo a magistero tale. O pene, del fallir fatene accorti, liti, ignoranze, fatiche e dolori: deh torniamo, per Dio, all'originale!

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discorsiva è raggiunto soltanto da lontano e nella conoscenza per autorità è raggiunto per interposizione del senso altrui. I. s'illuia e incinge: cfr. Dante, Par., IX, 73 e lnj., VIII • 45.

Modo di filosofare. Il nuovo metodo preconizzato dal Campanella importa la restaurazione della sapienza genuina, dovendosi rimuovere ogni umana autorità di scuola per leggere dirittamente nella realtà. - 1. Il mondo ... concetti: concetto trito della speculazione campanelliana. Dio esprime i concetti latenti nella sua eterna essenza, scrivendoli in due codici: la Natura e la Scrittura, ai quali vanno attingendoli rispettivamente la filosofia e la teologia.

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TOMMASO CAMPANELLA

In questo sonetto mostra che ,I mondo è libro e tempio di Dio, e che in lui si deve leggere rnrte divina ed imparare a vivere in privato e •n pubblico ed indrizzare ogni azione al Fattor del tutto; e non studiare i libri e tempii morti delli uomini, eh• anteponghiamo al divino empiamente, e ci avviliamo l'animo, e cadiamo in errori e dolori e pene, le quali ormai doverebbono farci tornar all'originai libro della Natura, e lasciar le sètte vane e le guerre grammaticali e corporali. E di ciò scrisse nel libro Contra macchiavellisti. 1 ACCORGIMENTO A TUTTE NAZIONI

Abitator del mondo, al Senno Primo volgete gli occhi, e voi vedrete quanto tirannia brutta, che veste il bel manto di nobiltà e valor, vi mette all'imo. Mirate poi d'ipocrisia, che primo 1 fu divin culto e santità, con spanto2 !'insidie; e di sofisti poi l'incanto, contrari al Senno, ch'io tanto sublimo. Contra sofisti Socrate sagace, contra tiranni venne Caton giusto, contra ipocriti CRISTO, eterea face. Ma scoprir l'empio, il falsario e l'ingiusto non basta, né al morir correre audace, se tutti al Senno non rendiamo il gusto. 3

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Parla a tutte le nazioni, mostrando che la tirannia falsificò in sé il valore, la sofistica il senno, la ipocrisia la bontà. Contra sofisti nacque Socrate, contra tiranni Catone; ma CRISTO D10 contra ipocriti, che sono i pessimi, disputò più che contra ogni altro: perché in questo vizio s'inchiude il primo e 'I secondo. Ma non basta ch•e' ci abbia 1. II libro Contra macchiavellisti è l'Atheismus trittmphatus, presentato inizialmente come Reductio ad religionem per scientiarum. veritates, cioè appunto come una riduzione dell'uomo a Dio mediante la genuina lezione della natura.

Accorgimento a tutte nazioni. Come appare dall'ultimo verso del sonetto, il poeta confessa l'inanità della parola e sin dell'immolazione del sapiente, ove non si operi in tutti la reminiscenza e resipiscenza dei valori divini. 1. primo: come avverbio (latino p,imum); e cosi spiegasi la replica della rima. 2. spanto: pompa, magnificenza. Per l'interpunzione vedi la Tavola delle emendazioni. 3. rendiamo il gllsto: torniamo col gusto al Senno, veniamo alla resipiscenza del Senno, che è la sapienza increata e incarnata.

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scoperto la verità di tre vizii contrari alla Trinità metafisicale e teologale, se non rendiamo il gusto tutti al Senno vero, ch'è la Sapienza divina incarnata, che col gusto, più che con l'orecchio, internata ci persuade. Vedi Metafisica. 1

DELLE RADICI DE' GRAN MALI DEL MONDO

lo nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia; ond'or m'accorgo con quanta armonia Possanza, Senno, Amor m'insegnò Temi. Questi principii son veri e sopremi della scoverta gran filosofia, rimedio contra la trina bugia, sotto cui tu piangendo, o mondo, fremi. Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno, ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno, tutti a que' tre gran mali sottostanno, che nel cieco amor proprio, figlio degno d'ignoranza, radice e fomento hanno. Dunque a diveller l'ignoranza io vegno.

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Perché l'autore scrisse in Metafisica 1 cli tre primalità o proprincipii (ché così chiama la Potenza, la Sapienza e l'Amore); e tutti i mali del mondo pendono dalla tirannide, falsa possanza, e dalla sofistica, falsa scienza, e dan>ipocrisia, falso amore, dice che Temi con ragione gl'insegnò questa filosofia nuova. Themis è la dea della giustizia che dava li oracoli in Grecia, secondo scrive Ovidio, 2 e si piglia per la Sapienza divina. Trina bugia sono qui detti tre mali appositi alla Trinità metafisicale e teologale; e son più nocivi che la impotenza, ignoranza ed odio, opposti e manifesti vizi. E, perché «omnis peccans est ignorans in eo quod peccat », 3 secondo i filosofi e teologi; e da questa ignoranza, che par sapienza di Stato, nasce l'amor proprio, ch'è cieco, radice e fomento di tutti peccati, come dalla vera Cfr. Met., p. n, libr. vn, cap. 6, art. 2. Delle radici de' gran mali del mondo. Tirannide, sofistica e ipocrisia, che son la contraffazione delle tre primalità metafisiche di potenza, sapienza e amore, partoriscono tutto il male del mondo. E tutte tre crescono sullo stipite della filauzia, falso amor di se stesso con cui la creatura tenta scindersi dal creatore. - 1. Cfr. Met., p. 11 1 per tot. 2. Cfr. Metam., 1,321. 3. «omnis ••• peccat »: «ogni peccante, in quanto pecca, è ignorante•. 1.

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TAMMASO CAMPANELLA

sapienza l'amor oculato, quia ignoti nulla cupido: però egli, svellendo l'ignoranza, fa conoscer i veri vizi e le vere virtù, ed a questo fine è nato ogni savio. Onde Salomone: « In multitudine sapientium sanitas orbu terrarum. »1 CONTRA IL PROPRIO AMORE SCOPRIMENTO STUPENDO

Credulo il proprio amor fe' l'uom pensare non aver gli elementi, né le stelle, benché fusser di noi più forti e belle, senso ed amor,1 ma sol per noi girare. Poi tutte genti barbare ed ignare, fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle. Poi il restringemmo a que' di nostre celle. Sé solo alfin ognun venne ad amare. E, per non travagliarsi, il saper schiva; poi, visto il mondo a' suo' voti diverso, nega la Providenza o che Dio viva. Qui2 stima senno l' astuzie; e perverso, per dominar, fa nuovi dèi. Poi arriva a predicarsi autor dell'universo.

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Qui mostra il sonetto presente, che dal proprio amore è venuto che gli uomini hanno fatto onorare e stimarsi come dèi, cioè Giove, Ercole; e che primamente ci fa pensare che 'l cielo e le stelle non hanno senso e che sono nostri servi; cosa riprovata da lui in libro De sensu rerum e in Metafisica. 3 E che Dio disse a Moisè che son fatti in ministerio nostro, 4 come quando nostri servi servono anche a' nostri cavalli e cani, e però non sono inferiori ad essi. Dopo questo, fece che ogni nazione pensa che !'altre sien barbare e dannate al-l'inferno, e noi soli salvi; e non vede il cieco amore che Dio è Dio Sap., 6, 26: • L'abbondanza di uomini sapienti forma la salvezza del mondo.• 1.

Contra il proprio amore scoprimento st11pendo. L'amor proprio principio di ogni errore e seme di ateismo. - 1. non aver ..• amor: si ricordi che il pansensismo è dottrina maggiore della filosofia campanelliano e si vedano nel presente volume gli estratti del libro sul Senso delle cose. 2. Qui: giunto cioè a un tal punto di filauzia, onde si chiude ad ogni riconoscimento degli altri enti e ad ogni fatica per l'altrui bene. 3. Per il De sensu rerum tutto il libro e per la Metaphynca p. 11, lib. VI, cap. 7 per tot. 4. Dio .•. nostro: cfr. Deut., 4, 19.

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di tutti. E 'n ciò son condannati assai gli Ebrei, che negan la salute a' Gentili, cosi detti quasi gentaglia e volgo. Poi ci fa pensare che soli noi monaci ci salviamo, ed ogni città tratta da barbare l'altre vicine; ed a torto ed a dritto cerca di dominarle. Da questo mancamento d'amor comune viene che niuno ama se non se stesso, e, per farsi troppe carezze, lascia la fatica dello studio nella vera sapienza; e, vedendo le cose, a rispetto suo, andare a caso, quia ignorantia f acit casum, 1 si pensa che non ci sia Dio che provvede al tutto, a cui rispetto non ci è caso, quia nihil praeter eius intentionem aut voluntatem. 2 Laonde viene a stimar per Dio suo la propria astuzia macchiavellescamente, e, quando può, si fa adorar per Dio, credendo che non ci sia il Dio vero, ed ogni cosa indrizza al proprio utile e fa idolatrar la gente. PARALLELO DEL PROPRIO E COMUNE AMORE

Questo amor singolar1 fa l'uomo inerte, ma a forza, s'e' vuol vivere, si finge saggio, buon, valoroso; talché in sfinge se stesso annicchilando alfin converte (pene di onor di voci e d'òr coverte!) ;2 poi gelosia nell'altrui virtù pinge i propri biasmi,3 e lo sferza e lo spinge ad ingiurie e rovine e pene aperte. Ma chi all'amor del comun Padre ascende, tutti gli uomini stima per fratelli, e con Dio di lor beni gioie prende.

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1. quia ... casum: perché il caso è prodotto dall'ignoranza. 2. quia ... i,olrmtatem: «perché nulla avviene che sfugga all'intenzione o alla cognizione di Dio». Secondo la metafisica campanelliana il caso procede dal manco di conoscenza e il fortuito dalla limitazione della volontà: causale infatti è quel che alcuno non ha preveduto, e soltanto a chi non l'ha preveduto, e fortuito è quel che alcuno non ha voluto e soltanto a chi non l'ha voluto. Perciò in Dio, sapienza e volontà infinite, non hanno luogo né caso né fortuna. Cfr. Met., p. 11, lib. x, cap. 8 sgg., donde derivano le due formole latine qui citate.

Parallelo del proprio e comune amore. La filauzia intristisce e annichila l'uomo, l'amor divino lo amplifica e gli soggetta il creato. - x. amor singolar: amor proprio, amor del singolo pel suo individuo. 2. pene ... coverte: onori che consistono in mere parole e in vano brillar di metallo e che celano la penosa nullità dell'uomo. Vedi la Tai,ola delle emendazioni 3. poi . .. biasmi: intendi: la gelosia ravvisa nell'altrui virtù significato il proprio biasimo.

TOMMASO CAMPANELLA

Tu, buon Francesco, i pesci anche e gli uccelli frati appelli (oh beato chi ciò intende!); né ti fur, come a noi, schifi e rubelli. Questo sonetto ci avvisa che 1•amor proprio ci fa schifar la fatica, e però divegniamo inabili. E poi, perché ci amiamo troppo, vedendo che le virtù son quelle che conservan l'uomo, ci fingiamo almeno virtuosi; e questo fingersi quel che non siamo è un annichilamento di quel che siamo, assai penoso. Ma questa pena è coverta d'onori falsi d'adulazione e da ricchezze di fortuna, ne' principi più che in altri. Dopo, conoscendo essi che gli veri virtuosi son come testimoni della falsa virtù loro, entrano in gelosia di Stato, e vengono ad uccider ed ingiuriar le genti buone ed insidiarle, e rovinare quelle e sé e la Repubblica. All'incontro, l'amor universale vero, divino, stima più il mondo che la sua nazione, e più la patria che se stesso: tutti tiene per fratelli, gode del ben d'altri, vi cessa la penosa invidia e gelosia; e così viene a goder d'ogni bene, come del proprio a far bene a tutti, ed esser poi signore di tutti per amore ed innocenza, non per forza. E porta l'esempio di san Francesco, che chiamava i pesci e gli uccelli fratelli suoi, e gli liberava quando erano presi; onde arrivò a tanta innocenza, che l'ubbidivano gli animali. Cosl a san Biagio 1 ed altri santi; e cosi sarebbe stato nel secolo d'oro, se Adamo non peccava. z

CAGIONE, PERCHÉ MENO SI AMA DIO SOMMO BENE CHE GLI ALTRI BENI,

È L'IGNORANZA

Se Dio ci dà la vita, e la conserva, ed ogni nostro ben da lui dipende, ond'è ch'amor divin l'uom non accende, ma più la ninfa e 'l suo signor osserva ?1 Biagio: ammansò le fiere. Cfr. la Tavola delle emendazioni. peccava: cfr. Theol., lib. v, cap. 10, art. 2. 1.

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e così • ••

Cagione, perché meno si ama Dio Sommo Bene che gli altri beni, è l'ignoranza. Secondo la metafisica le tre primalità di potenza, sapienza e amore si pareggiano, né può essere amor di Dio senza conoscimento di Dio: effetto di ignoranza è che Puomo ami come se il termine delPamore fossero le vili cose mortali e non piuttosto l'eterna divina bellezza, in cui egli ha da immortalarsi. - I. più •.. osseroa: presta maggior ossequi alla sua dama e al suo padrone.

PO ES Il

Ché l'ignoranza misera e proterva, chi s'usurpa il divin, per virtù vende: ed a cosa ignorata amor non tende, ma bassa l'ale e fa l'anima serva. Qui se n'inganna1 poi e toglie sostanza per darla altrui, ne' vili ancor soggetti ci mostra i rai del ben, che tutti avanza. Ma noi l'inganno, il danno (ahi maledetti!) di lui abbracciamo, e non l'alta speranza de' frutti e 'I senso degli eterni oggetti.

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In questo sonetto dichiara che l'ignoranza, predicata per bontà da' falsi religiosi, è causa di non conoscer Dio né amarlo (quia ignoti nulla cupido) più che gli beni umani e vili. Dove amor bassa l'ale e fa l'anima schiava di cose frali; e pure in questi oggetti frali ci inganna, ché ci toglie la sostanza e 'l seme per generar altri; onde dicono i platonici: 'V e il latino Exterminam.

TOMMASO CAMPANELLA

SONETTO NEL CAUCASO

Temo che per morir non si migliora lo stato uman ; per questo io non m>uccido: ché tanto è ampio di miserie il nido, che, per lungo mutar, non si va fuora. I guai cangiando, spesso si peggiora, perch'ogni spiaggia è come il nostro lido; per tutto è senso, ed io il presente grido potrei obbliar, com'ho mill'altri ancora. 1 Ma chi sa quel che di me fia, se tace Omni potente? e s'io non so se guerra ebbi quand'era altro ente, overo pace? Filippo2 in peggior carcere mi serra or che raltrieri ; e senza Dio noi face. Stiamci come Dio vuol, poiché non erra.

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Conforto infelice del corporeo senso atterrito dalla ragione, 3 che non si uccida pensando scampare i guai; contra Seneca ed altri, che la morte chiamano «quiete», non sapendo che cosa è senso. 4 Sonetto nel Caucaso. Il Caucaso è l'ergastolo sotterraneo di Castel Sant'Elmo, dove il Campanella fu calato nel luglio 1604 per quattro anni e dove ritornò ad ogni rincrudimento della prigionia, cioè nel 1614 e nel 1616. Nella lettera del1'8 luglio 1607 a monsignor Antonio Querengo il Campanella cosl descrive il suo carcere: a sotterra con ferri sempre sopra un fracido e bagnato stramazzo, e con pane ed acqua di tribulazione, senza veder mai cielo né luce né persona umana; in luoco sempre bagnato che stilla d'ogni muro acqua continuamente, talché continua notte ed inverno io sento» (vedi, in questo volume, p. 970). Il sonetto risale alla prima dimora.I. ché . .. ancora: poiché la mone, nella filosofia dell'autore, è non già annientamento della sensibilità ma variazione da uno stato all'altro della sensibilità, cosi il suicidio non sottrae al dolore, ma lo varia, e il presente dolore (grido) passa in oblio, rinnovando la vita. 2. Filippo III di Spagna regnò dal 1598 al 1621. 3. Non atterrito dalla ragione, ma conforto . .. dalla ragione. 4. contra . .. senso: si riferisce all'argomento di origine epicurea proposto nella consolatoria Ad M arciam, cap. I 9, secondo il quale e mors ... nos in illam tranquillitatem, in qua atiteq"dm nasceremur iacuimus, reponit • ( e la morte ... ci restituisce a quella tranquillità in cui giacemmo prima di nascere 11), pareggiandosi cosl la morte al non essere. Per il Campanella al contrario non si dà morte assoluta, ma soltanto mutazione di senso, cioè di vita: cfr. Met., p. II, lib. vn, cap. 5, art. 6, tit.: ... et nullum ens Deo mori, nec mundo, sed transmutari (a: .•• e che nessun ente muore rispetto a Dio e al mondo, ma si muta»).

POESIE

LAMENTEVOLE ORAZIONE PROFETALE DAL PROFONDO DELLA FOSSA DOVE STAVA INCARCERATO

Canzone. MADRIGALE I

A

te tocca, o Signore, se invan non m'hai creato, d'esser mio salvatore. Per questo notte e giorno a te lagrimo e grido. Quando ti parrà ben ch'io sia ascoltato? Più parlar non mi fido, ché i ferri, c'ho d'intorno, ridonsi e fanmi scorno del mio invano pregare, degli occhi secchi e del rauco esclamare.

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MADRIGALE 2

Questa dolente vita, peggior di mille morti, tant' anni è sepelita, che al numero io mi trovo delle perdute genti, qual senza aiuto uom libero, 1 tra morti, di morte, e non di stenti ;2 a' quali3 il mio composto

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Lamentevole orazione profeta/e dal prof011do della fossa dove stava incarcerato. Composta durante la prima dimora nell'ergastolo di Sant>Elmo. È una parafrasi del Salmo 87, nel qual lamento dell'uomo afflitto e abbandonato il Campanella ravvisava una figura della propria sofferenza. Profetale vien detta l'orazione nel titolo, sia perché è modellata sul Salmo, che allude profeticamente al Cristo, sia perché il lamento del Salmista è tipo del lamento di ogni sapiente sventurato. - 1. qual ..• libero: cfr. Ps., 87, 4: «factus sum sicut homo sine adiutorio, inter niortuos liber » (•son divenuto come un uomo senza soccorso, io che tra i morti son vivo»). 2. tra . .. stenti: intendi: sono tra i morti come un uomo libero da morte, ma non dagli stenti e dai patimenti. Vedi Tavola delk emn,daioni. 3. a' quali stenti.

TOMMASO CAMPANELLA

sol vive sottoposto, 1 nel centro ad ogni pondo di tutte le rovine, ahimè, del mondo. MADRIGALE

3

Gli uccisi in sepoltura,2 dati da te in oblio, de' quai non hai più- cura, de' sotterranei laghi3 nell'infimo rinchiuso di morte fra le tenebre sembro io. 4 Qui un mar di guai confuso, pien di mostri e di draghi, 5 . . . . . . . . sopra di me si aduna, e 'l tuo furor spirando aspra fortuna.

..

IO

s

.

MADRIGALE

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4

Dagli amici disgiunto sono, e opprobrio al mio sangue, di scorni e d' orror punto, che fiutar non mi vuole; né potrebbe, volendo, me abbominato qual pestifero angue ;6 e 'l tradimento orrendo lor fai apparir sole verso cotanta mole di paure e di affanni,7 perch'io mendìco sol qui pianga gli anni.

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sol vive sottoposto: solo tra i morti, oppure: solo soffrendo vive. G:i uccisi . .. oblio: cfr. Ps., 87, s: avulnerati dormientes in sepulcris, quorum non es memor amplius » («gli uccisi che dormono nei sepolcri, dei quali tu non hai più pensiero•). 3. laghi: secondo l'uso della Vulgata vale: fossa, abisso. 4. sembro io: il predicato è Gli uccisi in sepoltura. 5. mostri . .. draghi: sembra accennare non soltanto alla custodia di soldati crudeli e volgari, da lui altrove assomigliati a leopardi, ma anche alle ap• parizioni diaboliche, di cui narra ripetutamente nelle Lettere e in altre scritture. 6. né ..• angue: quelli del suo sangue non vogliono avvicinarlo, né, se volessero, potrebbero, mentre egli è sequestrato in fondo alla fossa come un serpente a tutti abbominevole. 7. e 'l tradimento . •. affanni: la gravità delle pene inflitte al filosofo atterrisce i suoi parenti e fa loro sembrare cosa luminosa il tradimento col quale essi si son salvati da quelle. 1. 2.

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POESIE

MADRIGALE

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Signor, a cui son figlie le pietose preghiere, x le tue gran maraviglie e grazie in me non mostri; faraile a' morti note? o il fisico a cantar tue glorie altere risuscitar gli puote ?2 o fia ne' ciechi chiostri, 3 chi narri gli onor vostri ? o qui al buio alcun scerne, tra obblio e perdizion, tue pruove eterne? MADRIGALE

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Quinci io pur sempre esclamo, sera e dì ti prevengo : - Libertà, Signor, bramo-; e tu pur non m'ascolti, ma volgi gli occhi altrove. Povero io nacqui, e di miserie vengo nutrito in mille prove; poscia, tra i saggi e stolti alzato, mi trasvolti con terribil prestezza nella più spaventevole bassezza. MADRIGALE

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Sopra me si mostriro tutti gli sdegni tuoi, tutti mi circondiro,

I. Signor . •. preghiere: in Omero, Il., IX, 498 sgg. le preghiere son dette figlie di Giove, e zoppe ed orbe, come sono, inseguono la sventura per medicarne i danni. 2. il fisico .• . puote: il medico. Cfr. Ps., 87, 1 I: a.Nunquid medici suscitabunt? » (a Forse che i medici li risusciteranno?»); 3. ciechi chiostri: . la dimora dei morti.

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TOMMASO CAMPANELLA

come acqua tutti insien1e; 1 ahi come stansi fern1il né che m'aiuti alcun permetter vuoi.

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. . . . . . .

La gente del mio seme m'allontanasti, e preme duro carcer gli amici; altri raminghi vanno ed infelici. MADRIGALE

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Va', amaro lamento, tratto di salmodia, ch'è d'altri profezia, ma di me troppo assai vero argomento. 2 Vanne allo Spirto Santo, di cui se' parto santo: forse avrà per sua figlia alcun contento, che non merta il mio accento. 3

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Questa canzone è parte cavata dal salmo ,, Domine Deus, salutis meae », ecc., e la manda allo Spirito Santo.

come ... insieme: similitudine frequente nella poesia semitica: cfr. Ps., 87, 18: 11 Circumdederunt me sicut aqua tota die, circumdederimt me sim11l » ( 11 Han fatto ressa tutto il giorno contro di me come un torrente, mi han sommerso in massa»). 2. eh' è ••• argomento: il Salmo, onde è tratta la canzone, era per l'antico autore profezia, ma per il Campanella è storia. 3. avrà ..• accento: Dio concederà esaudimento alla preghiera, che è sua figlia (ogni preghiera accetta a Dio è ispirata da Dio), quantunque non lo meriti la voce del poeta. 1.

POESIE

ORAZIONI TRE IN SALMODIA METAFISICALE CONGIUNTE INSIEME

Canzone I MADRIGALE I

Omnipotente Dio, benché del Fato invittissima legge e lunga pruova d'esser non sol mie' prieghi invano sparsi, ma al contrario esauditi, 1 mi rimuova dal tuo cospetto, io pur torno ostinato, tutti gli altri rimedi avendo scarsi. Che s'altro Dio potesse pur trovarsi, io certo per aiuto a quel n'andrei. Né mi si potrìa dir mai ch'io fossi empio, se da te, che mi scacci in tanto scempio, a chi m'invita mi rivolgerei. Deh, Signor, io vaneggio; aita, aita! pria che del Senno il tempio divenga di stoltizia una meschita. 2

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In questo primo madrigale di questa canzone mirabile confessa che sempre fu esaudito al contrario da Dio; e che però, e per la legge fatale che non si rompe mai, non doverebbe più pregare: ma, veOrazioni tre in salmodia metafisicale congiunte insieme. Canzone I. Questa composizione poetica del Campanella, che l'Amabile e il Gentile attribuirono al 161 I appoggiandosi sull'esposizione del madrigale 6 della terza canzone, dove l'autore accenna a una prigionia di dodici anni continui, è invece sicuramente della fine del 1603 1 giacché il momento psicologico e noologico che vi si esprime è ancora la crisi per la quale andava il Campanella dal sensismo allo spiritualismo e dal deismo sdogmatizzato al cattolicismo come razionalità assoluta, mentre il suo animo disimparava nel patimento le elazioni prometeiche del conato giovanile e rivestiva, macerandosi nella sofferenza, l'umiltà magnanima che si vedrà nella Canzone a Berillo (1605) e nell'Oratio ad Der,m Deorum pro legatione sua del Reminiscent11r (1618). Di questo momento di interiore battaglia e contrasto è testimonio la presente salmodia metafisicale: i dodici anni di prigionia, non propriamente continua, ma quasi continua, son da computare principiando dal I 592. Cfr. per tutta la questione L. FIRPO, Bibliografia degli scritti di Tommaso Campanella, Torino, V. Bona, 1940, p. 53. - 1. al contrario esau.diti: significa che quelle preghiere ottengon da Dio il contrario di quel che si chiede. 2. mescl,ita: moschea, cioè tempio di falsità e di empietà. La parola è anche in Dante, In/., VIII, 70.

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TOMMASO CAMPANELLA

dendo che non ci è altro rimedio né altro Dio a chi ricorrere, torna alle orazioni solite, con pentirsi di questo, di dire che, se ci fosse altro Dio, anderebbe a quello, ecc. Egli par diventar pazzo; e che l'anima sua, tempio della Sapienza divina, si fa meschita di stoltizia. MADRIGALE 2

Ben so che non si trovano parole che muover possan te a benivolenza di chi ab aeterno amar non destinasti; ché 'l tuo consiglio non ha penitenza, né può eloquenza di mondane scuole piegarti a compassion, se decretasti che 'l mio composto 1 si disfaccia e guasti fra miserie cotante ch'io patisco. E se sa tutto 'I mondo il mio martora, il ciel, la terra e tutti i figli loro; perché a te, che lo fai, l'istoria ordisco? E s' ogni mutamento è qualche morte, tu, Dio immortal, ch'io adoro, come ti muterai a cangiar mia sorte?

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Qua argomenta ch'e' non dovesse pregare: primo, per lo fato risoluto nell'eterna volontà; secondo, perché non ci è eloquenza che possa persuader Dio; terzo, perché quel che vuol dire, lo sa tutto il mondo, tanto più Dio, che lo fa o permette, ecc.; quarto, perché non può mutarsi, s'egli ha così ordinato: perché ogni mutamento è qualche morte, secondo sant' Augustino ;2 dunque, ecc. Queste ragioni sono risolute in Metafisica 3 e Teologia ;4 ed appresso risponde in parte. MADRIGALB

J

Io pur ritorno a dimandar mercede, dove '1 bisogno e 'I gran dolor mi caccia. Ma non ho tal retorica né voce, ch'a tanto tribuna! poi si confaccia. Né poca carità, né poca fede,

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'l mio composto: la mia persona (corpo, fluido vitale e mente, secondo la metafisica del Campanella). 2. Cfr. De Trin., lib. II, cap. 9. 3. Cfr. Met., p. 11, lib. Ix, cap. 13, art. 4. 4. Cfr. Theol., lib. 1, cap. 17, art. 9. 1.

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POESIE

né la poca speranza è che mi nuoce. E se, com'altri insegna, pena atroce, che l'anima pulisca e renda degna della tua grazia, si ritrova al mondo, non han l'alpe cristallo cosi mondo, ch'alla mia puritade si convegna. Cinquanta prigioni, sette tormenti 1 passai, e pur son nel fondo; e dodici anni d'ingiurie e di stenti.

IO

Dice che ritorna a pregare, confidato non in retorica né in argomenti, ma nella fede e speranza e carità, che non gli mancava, e ne' tormenti lunghi ed atroci, che poteano averlo purificato e reso degno e congruo2 d'essere esaudito. E pure s'inganna, come mostra nella Canzone a Berillo. MADRIGALE

4

Stavamo tutti al buio. Altri sopiti d'ignoranza nel sonno; e i sonatori_ pagati raddolciro il sonno infame. Altri vegghianti rapivan gli onori, la robba, il sangue, o si facean mariti d'ogni sesso, e schernian le genti grame. lo accesi un lume: ecco, qual d'api esciame, 3 scoverti, la fautrice tolta notte sopra me a vendicar ladri e gelosi, e que' le paghe, e i brutti sonnacchiosi del bestiai sonno le gioie interrotte: le pecore co' lupi fur d'accordo contra i can valorosi; poi restàr preda di lor ventre ingordo.

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sette tormenti: il 7 febbraio del 1600 due volte il supplizio detto del pol-ledro, consistente in una cornice di barre a guisa di scala piramidale, entro la quale posto il paziente, gli venivan distorte le membra per mezzo di funicelle; il 18 luglio del 1600 la corda; il 4-5 giugno per trentasei ore, con tre brevi pause, il terribile tormento della veglia, nel quale l'inquisito era con pungoli, stratte e aculei impedito di addormentarsi. 2. degno e congruo: espressioni della teologia indicanti due gradi del merito. 3. esciame: dal latino examen, sciame. 1.

TOMMASO CAMPANELLA

Narra che, stando il mondo nello scuro, e facendo tanto male ognuno al prossimo, e che gli sofisti ed ipocriti, predicando adulazioni, fanno dormir il mondo in queste tenebre; egli, accendendo una luce, ebbe contro gli ingannati e !'ingannatori, ecc.; e che quelli, come pecore accordate co' lupi contra gli cani, son devorate poi da' lupi, secondo la parabola di Demostene. 1 MADRIGALE

5

Deh! gran Pastor, il tuo can, la tua lampa, da' lupi ornai difende a da' ladroni. Fa' noto il tutto all'ignorante gregge; ché se mia luce e voce, pur tuoi doni, lasci spacciare per peccato in stampa,2 più dannato fia il sole e la tua legge. Ma, s'altra colpa è pur che mi corregge,3 sai che non può volarsi senza penne della tua grazia; né, senza, io le merto. Pur sempr'ho l'occhio al tuo splendor aperto; che fallo è il mio, se dentro egli non venne? Ma sciogli Bocca,4 e fai tuo messaggero Gilardo ;5 e con qual merto ? Màncati la ragion forse o rimpero?

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Prega che Dio manifesti al popolo eh' egli è luce e cane, e non larva6 e lupo, ecc.; e che la luce solare e la legge divina pur saranno presi per oscurità e per nequizia, se chi dice il vero è talmente afflitto, ecc. Poi dice che, se ci è qualche peccato eh' egli non vede in sé, per lo quale pate, che gli dia la grazia di uscirne; perché non si può volar senza l'ali della grazia di Dio, né si può la grazia meritare se non per grazia. E ch'egli solo s'apparecchia a riceverla. Poi s'ammira che liberò Bocca, e fece suo profeta un altro tristo senza meriti.

1. Non è traccia in Demostcne di una tale favola. 2. spacciare ... stampa: spacciare per peccato certo e manifesto. 3. corregge: correggi. 4. Bocca: soprannome di uno dei principali soci della congiura, riuscito a evadere dal carcere napoletano. Forse frà Dionisio Ponzio, del quale peraltro il Campanella cantò la fortezza e la virtù in tre sonetti. 5. Gilardo: probabilmente quel frà Felice Gagliardo, dal quale ebbe il Campanella fallaci rivelazioni e messaggi ingannevoli di prossima libertà. 6. larva: spettro, immagine illusoria.

POESIE

MADRIGALE

6

Parlo teco, Signor, che mi comprendi, e dell' accuse altrui poco mi cale. Io ben confesso che del mondo hai cura e ch'a nulla sua parte vogli male; quantunque, a ben del tutto che più intendi, senza annullarle, le muti a misura: in che consiste proprio la Natura; e tal mutanza male e morte noi di qualità o di essenza sogliam dire, eh' è del tutto alma vita e bel gioire, bench'alle parti tanto par ch'annoi. Così del corpo mio più morti e vite veggo andare e venire, di parti a ben del tutto in vita unite.

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Mostra che questi argomenti gli fa a Dio, che sa quel che dice, non dirlo d'animo eretico. 1 E poi confessa che Dio regge il tutto, e che muta le cose con misura, e che la mutazione pare male e morte a noi, che parti siamo del mondo, se bene al tutto è vita e giocondità; come nel corpo nostro più morti e vite ci sono, mentre il cibo si trasmuta in tante particelle, e parte del corpo esala in aere, ecc., e pure fanno una vita del tutto composto. MADRIGALE

7

Il mondo, dunque, non ha male; ed io di mali innumerabili sto oppresso per letizia del tutto e d'altre parti. Ma, se alle particelle hai pur concesso d'invocar chi l'aiuta « proprio Dio», ché a tutti gli enti il tuo valor comparti, e le mutanze lor con segrete arti addolcisci, amoroso temperando Necessitate, Fato ed Armonia, Possanza, Senno, Amor per ogni via; m'è avviso, ch'a pregarti ritornando,

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1. Dio ... eretico: Dio sa che, quel che il poeta dice, non lo dice con animo eretico. Vedi la Tavola delle eme11dazioni.

TOMMASO CAMPANELLA

truovi rimedio alcun, che rallentarmi possa la pena ria, o 'l dolce crudo amor di vita 1 trarmi. Conchiude che, se 'I mondo non ha male, ma egli, ch'è parte di quello, patisce per ben del tutto e dell'altre parti; come la pecora per cibar il lupo, ed ogni parte del mondo offesa chiama in aiuto altre parti simili, come Dio proprio, perché Dio in quelle l'aiuta, mentre a tutte donò Potere, Sapere ed Amore, e le temperò con Fato, Necessità ed Armonia; dunque e' deve pur pregare Dio, e non cessare, perché ci dia rimedio contro la pena, o ci tolga l'amor crudele del vivere, che gli dona più pena che la morte stessa, ecc. Nota ch'è dolce l'amor della vita e crudele, perché, se quello non fusse, non ci dispiacerebbe la morte né gli guai. MADRIGALE

8

Cosa il mondo non ha che non si muti, né che del suo mutarsi non si doglia, né che del suo dolersi Dio non preghi. 2 Fra' quali molti son cui avvenir soglia, che, come tu ab aeterno vuoi, l'aiuti; e molti ancora, a cui l'aiuto neghi. Come dunque io saprò per cui ti pieghi,3 s'io presente non fui al consiglio antico? Argomento verace alfin m'addita che quella orazion sia esaudita, che con ragione e puramente io dico. Così spesso, non sempre, nel tuo volto sentenza è diffinita, che 'I campo frutti ben, s'egli è ben colto.

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Dice che tutti gli enti pregano Dio nel suo modo, che loro tolga le pene: onde san Paolo Ad Romanos: « Omnis creatura ingemisci.t et parturit usque adhuc. »4 E che Dio esaudisce molti secondo ch'e' destinò, e molti no; e che, non sapendo s'egli era destinato d'esser dolce ... vita: reminiscenza di Virgilio, Aen., VI, 721 : « lucis dira cupido», • atroce brama di luce». 2. del suo ... preghi: non faccia del suo dolore una preghiera. 3. per cui ti pieghi: per chi ti pieghi, a chi porgi l'orec1.

chio. 4. Rom., 8, ora.»

22: u Ogni

creatura geme e ha i dolori del parto fino ad

POESIE

esaudito, s'appiglia al partito di pregare ancora. Perché per buon argomento conosce che la dimanda ragionevole e con purità deve essere esaudita, come il campo ben cultivato fa frutto, e si spera il frutto con ragione, benché Dio avesse disposto altrimenti, ma che Dio proprio pare che voglia anche tal fruttare, ecc. MADRIGALE

9

Del mio contrito e ben arato suolo la coltura n1i reca gran speranza, ma più lo sol del Senno che 'l feconda, che molte stelle forse sopravanza, esser predestinato sopra il polo, che la preghiera mia non si confonda, e ch'abbia il fine, a cui di mezzi abbonda pur de te infusi e previsti ab aeterno. Con condizion pregò Cristo, sapendo che schivar non potea il calice orrendo. E l'angel suo rispose: al gran governo convenir ch'egli muoia. Io senza1 prego, risposta ricevendo dal mio2 diversa, che sovente allego.

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Conchiude che, sendo egli contrito e cultivato come il campo, può sperar aiuto da questa orazione; ma più lo certifica il senno che Dio l'infuse, o per profeti gli avvisa, ecc., e che, avendo mezzi per gran fine, arriverà a quel fine che le virtù dategli da Dio ricercano. E che, se bene Cristo non fu esaudito nella morte, e l'angelo gli rispo-se che dovea morire, pregò con condizione: «si fieri potest ». 3 Ma e' prega senza condizione, e l'angelo gli risponde che sarà esaudito. Questo fu inganno del demonio, e non angelo. Nota quanto ci vuole a digiudicar se saremo esauditi. MADRIGALE 10

Canzon, di' al mio Signor: - Chi per te giace tormentato in catena intra una fossa, dimanda come possa volar senza aie. O manda, o tu insegna senza condizione. 2.. dal mio angelo. 3. Cfr. Matth., 26, 39; Mare., 14, 35; Luc., 22, 41-42.: «se è possibile,. i.

TOMMASO CAMPANELLA

come la ruota fatale è ben mossa, e se si truova in ciel lingua mendace. Ma parrai troppo audace, senza l'altra, ch'or teco uscir disegna.

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Manda la canzone a Dio, che gli dica che non può volare senza l'ali della sua grazia, e che gli mandi un angelo, o egli stesso l'insegni se la ruota della Fortuna va con ragione, poich'egli può patire senza ragione ed altri sguazzare senza merito, ecc. E come, avendoli rivelato la libertà, si truova bugia in cielo. Questo fu 'l diavolo, e non un angelo. Poi dice ch'aspetti la seconda canzone a questo proposito, più umile.

DELLA MEDESIMA SALMODIA

Canzone 11 MADRIGALE I

Se ha'

destinato ch'io ben sparga il seme, avrai forse voluto che ben mieta: perché dunque sì tarda il giusto fine? Perché le stelle fai e più d'un profeta, i tuo' doni e scienze vani insieme? Perché le forze e le voglie divine il nemico schernisce ? e le rovine, ch'a lui si converrìan, a me rivolve? Perché tra 'l Fato 1 un'animata terra2 bestemmia e nega Dio, s'egli non erra, e me, che t'amo, in tante pene involve? Quando ignorai e negai, molto impetrai con chi il tuo nome atterra; or ch'io t'adoro, vo traendo guai.

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Quattro dimande argute e dolenti fatte a Dio, difficili a sciorre, come quella di leremia: «lustus es, Domine, si disputem tecum »3 ecc. Ma più è questa: che sia nell'ordine fatale, bene ordinato da Della medesima salmodia. Canzone Il. - 1. tra 'l Fato: entro l'ordine voluto da Dio. 2. animata terra è l'uomo, secondo il racconto biblico. 3. Ier., 12, 1: «Tu, o Signore, sei giusto, benché io disputi con te.»

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POESIE

Dio, alcuno che bestemmia Dio; e come ciò possa essere. La risposta ci è nell' Antimacchiavellismo 1 d'esso autore. Poi dice che Dio l'esaudi in altri travagli, quando era poco cristiano; ed ora s'ammira che, risoluto ad essere buono, non è esaudito. MADRIGALE 2

Se tu già 01' esaudisti peccatore, perch'or non m'esaudisci penitente? Perch'a Bocca, 2 il tuo Nume dispregiante, le porte apristi, e me lasci dolente, preda al nemico e riso al traditore? Così m'hai dato il corridor volante ?3 Ogni tiranno è contra i tuoi costante, e 'n ben trattar chi a' suo' piaceri applaude; e tu gli amici tuoi sempre più aggravi, e nel lor sangue raltrui colpe lavi. Che maraviglia se cresce la fraude, moltiplicano i vizi e le peccata? Ché, ad onta nostra, i pravi si vantan, che dài lor vita beata.

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10

Segue le medesime dimande. E come liberò quel tristo, che apostatò poi, ed egli fu ingannato da chi volea liberarlo. Poi dice che, sendo gli amici di Dio sempre afflitti, però sono pochi: il che disse Salomone in Ecclesiaste: « Quia eadem cunctis eveniunt, corda filiorum hominum implentur malitia », ecc., e perché «vidi iustos, quibus mala eveniunt, malos autem, qui ita securi sunt ac si bene egissent. »4 MADRIGALE

J

Io con gli amici pur sempre ti scuso ch'altro secolo in premio a' tuoi riserbi, e che i malvagi in sé sieno infelici, sempre affligendo gli animi superbi Cfr. Ath. triumph., cap. 6, art 6 sg. 2. Bocca: forse, come si è detto nel commento alla prima canzone, frà Dionisio Ponzio, che fuggito dalla prigione di Napoli apostatò facendosi maomettano. 3. il corridor volante: cfr. Apoc., 19. I 1. 4. Cfr. Eccle., 9 1 J e 8, 14: «Poiché tutto uguale è il destino di tutti, i cuori degli uomini si riempiono di malizia»; « ho visto la sventura piombare sopra i buoni, e i malvagi essere securi come se fossero buoni ». 1.

TOMMASO CAMPANELLA

sdegno, ignoranza e sospetto rinchiuso; e che di lor fortune traditrici traboccan 1 sempre al fine. Ma gli amici, se, quelli dentro, e noi di fuor siamo tutti meschini/' chieggon la cagione, che fa nel nostro mal tue voglie buone; che se gli altri enti e noi, figli d'Adamo, doveamo trasmutarci a ben del tutto di magione in magione, perché non fai tal muta senza lutto?

s

IO

Risponde che a' buoni s'aspetta un'altra vita in premio. E che di più in questa vita gli tristi sono più puniti in verità, che gli buoni, internamente, bench'e' non paia; come pur disse san Piero a Simon mago,3 ecc. Ma di ciò nasce maggior dubbio: perché Dio fa che ci sia tanta meschinità tra buoni e malvagi ? E se la mutazione fa questo, perché non ordinò che le cose si mutino senza sentir dolore ?

MADRIGALE

4

Senza lutto se fosse, senza senso sarian le cose e senza godimento, né l'un contrario l'altro sentirebbe, né ci sarìa tra lor combattimento, né generazione, e 'l caos immenso la bella distinzione assorbirebbe. E pur nel punto che mutar si debbe la cosa, uopo è che senta, perch'all'altra resista, e faccia eh' ella si muti anco secondo il Fato vuol, né più né manco, chi regge il mondo. 4 Or qui tuo senno scaltra. 5 Io, teco disputando, vinto e lasso

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Io

traboccan: cadono. 2. quelli dentro ... meschini: i malvagi, esteriormente fortunati ma dentro tormentati, e i savi, esteriormente sventurati ma dentro felici, sono tutti in qualche modo miseri. 3. E che ... mago: nelle Recognitiones attribuite a san Clemente Romano (in Opera, Coloniae Agrippinae, 1569, p. 56) non soltanto non si trova un tal ragionamento, ma piuttosto uno contrario. 4. e faccia ... mondo: e faccia che anche l'altra cosa si muti secondo il fato, che regge il mondo. 5. scaltra: scaltrisci, aguzza. 1.

POESIE

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cancello e metto in bianco le mie ragioni; in altro conto passo. Risponde che, se la mutazione fosse senza doglia, non ci sarebbe senso di piacere. E cosi non combatterebbono gli enti contrari, e non si farebbe generazione, e 'l mondo tornerebbe caos. E poi risponde che, pure nel punto del mutamento, quando par che Dio dovesse levare il senso del dolore, è necessario che ci sia, perché resista quel ch'è travagliato e muore al travagliante, e si temperi in quel modello che intende Dio operante con tale ordine del suo Fato. Stupenda risposta! E poi dice che non sa che dire a Dio, in questo; e passa in altre sue opinioni sopra ciò, ecc. MADRIGALE

5

Solevo io dir fra me dubbiando: (( Come d' erbe e di bruti uccisi per mia cena non curo il mal, né a' supplicanti vermi dentro a me nati do favor, ma pena; anzi il Sol padre e Terra madre il nome struggon de' figli e i lor composti infermi; cosi Dio non sol par che s'affermi che del mal nostro pietade noi punga, ma eh' egli sembri il tutto; onde ne goda trarci di vita in vita con sua loda, che fuor del cerchio suo mai non si giunga. » O pur, che in Dio fosse divario dolce, dissi ragion men soda, come in Vertunno è, che 'I nostro soffolce.1

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Dice ch'e' solea immaginarsi che Dio fa come noi a' vermi nati dentro il corpo nostro; che gli uccidiamo e non sentiamo i prieghi loro; o come il Sole e la Terra uccidono gli secondi enti da lor generati. E che Dio sia il tutto, e gode che dentro a lui si mutino senza annullarsi le cose, ma passano sempre in vario essere vitale ecc. O che Dio pure si mutasse, ma con dolcezza, come si favoleggia di Vertunno e Proteo, e che dal suo mutamento dolce nasce il nostro mutamento che in Dio . .. soffolce: la mutazione, onde varia con dolcezza Dio, sostiene (sofjolce) la mutazione dolorosa delle parti. Vertunno è divinità romana simboleggiante la trasformazione della natura nelle stagioni. 1.

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TOMMASO CAMPANELLA

e così l'affanno per conseguenza a noi, sendo noi parti, e non il tutto. MADRIGALE

6

Or ti rendo, Signor, fermezza intègra: 1 ché i prieghi e '1 variar d'ogni ente fue da te antevisto, e non ti è un iota nuovo, ch'un tuo primo voler possa or far due. D'essere e di non essere s'intègra :2 per l'un la fermo, per l'altro la muovo ;3 che da te sia, da sé non sia, la truovo; per sé si muta, e per te non s'annulla la creatura; e stassi, te imitando; e mutasi, tua idea rappresentando, ché in infinite fogge la trastulla, per non poterla tutta in un mostrare, infinità mancando a questa,4 nel cui male il tuo ben pare.

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Corregge la falsa opinione predetta, dicendo che Dio è immutabile, e le orazioni non poter dal suo primo volere mutarlo, perché già avea antevisto i prieghi nostri, e determinato se era bene esaudirle o no. Poscia mostra che il mutamento non viene dall'essere né da Dio, ma dal nostro non essere; e che, sendo noi composti di ente e niente, quello da Dio ricevuto, e questo da noi, sempre torniamo al niente, e Dio ci tiene, che non ci annulliamo. E questo ritenimento è figurarsi con nuova idea sempre; e che la creatura sendo finita, e l'idea infinita, non può in una sola mutazione tutta parteciparla; e però Dio lascia questa mutazione del niente, servendosi a bene dell'ente, ecc.

Or ... intègra: intendi: ti riconosco, o Signore, una perfetta immutabilità. 2. s'intègra la creatura (v. 9). 3. per l'un . .. muovo: per l'essere le cose hanno stabilità e fermezza, per il non essere si mutano e fluiscono, continuamente divenendo altro e altro. Cfr. Met., p. n, lìb. v111 1 cap. J, art. r. Vedi la Tavola delle emendazioni. 4. ché . .. a questa: la creatura si muta, rappresentando variamente l'idea, poiché la traduce in infinite guise come per divino giuoco, non potendo, cosi finita com'è, rendere in un individuo solo l'infinita ricchezza dell'idea. Vedi la Tavola delle emendazioni. 1.

POESIE

MADRIGALE

7

Le colpe di natura (ancor dichiaro), in cui si fondan l'altre del costume, per la continoa guerra, ch'indi avviene, che l'un l'altro non è,1 non dal tuo Nume, ma dal niente origine pigliaro. Né toglier la discordia a te conviene, né far che l'un sia l'altro, perché '1 bene di tanti cangiamenti sarìa spento, né la tua gloria nota in tante forme gioiose mentre stanno a te conforme, dogliose mentre vanno al mutamento, dove il niente le chiama. Ond'io veggio che il tuo Senno non dorme; ma io, in niente assorbito, vaneggio.

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ro

Dichiara che gli peccati della natura, in cui sono fondati pur quelli del costume, ch,è abuso d'essa natura razionabile, non vengono da Dio, ma dalla guerra de' contrari; e la guerra viene da niente, perché l'uno non è l'altro. Vedi la 1'vletafisi,ca2 per questo. E poi dice che non par bene, come alcuni Epicurei dicono, che Dio tolga la guerra tra gli elementi e tra gli elementati; perché mancherebbe la mutazione e la rappresentazione della gloria divina in tanti successi d'essere, li quali sono giocondi, mentre sono simili a Dio. Onde tutti bramano essere; e la doglia solo nasce quando vanno al non essere ed al morire, dove il niente gli chiama; e Dio non lascia annichilarsi, ma passare in altri essere. MADRIGALE

8

Sì come il ferro di natura impuro sempre s'arruggia,3 e 'l fabbro invita all'opra; così le cose, dal niente nate, tornan sempre al niente; e Dio sta sopra, ché non s'annullin, ma di quel che furo in altro essere e vita sien recate.

s

ch,indi . .. non è: la guerra viene dalla limitazione, onde un ente non è l'altro. Veci.i la Tavola delle emendazioni. 2. Cfr. Met., p. 11, lib. IX, cap. 6, art. I. 3. s' arroggia: arrugginisce. 1.

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TOMMASO CAMPANELLA

S'e' fregia 1 nostra colpa e nullitate, Dio ringraziar dobbiam, non lamentarci; ed io, vie più che gli altri, che son meno, onde di guai mi truovo sempre pieno. Ma, se de' pannilini i vecchi squarci carta facciam, che noi di morte rape d'eternitade al seno, 2 che fia di me, se Dio di noi più sape?

10

Séguita a mostrare che Dio si serve della nostra mutazione e nientità a mostrare altre ricchezze d'essere, e che non possiamo lamentarci di lui se siamo travagliati e muoiamo; perché questo viene dal nostro non essere, non dal suo essere. E poi dice che, sendo egli partecipe di molto niente, come gli guai mostrano, non deve lagnarsi. Alfine si conforta che, se de' stracciati panni si fa da noi carta per scrivere ed eternarsi in scrittura, tanto più Dio de' suoi maltrattamenti e stracciato corpo potrà fare cosa immortale, e glorificarlo in fama ed in vita celeste, ecc., perché sarebbe sciocco, non sapendosi servire del male in bene più che noi, ecc. MADRIGALE

9

- Ma perché più degli altri io fui soggetto alle doglienze della vita nostra? - Ché in questa o in altra aspetti miglior sorte, e in quelli3 forza e in te saper Dio mostra. - Ma perché l'una e l'altro io non ho stretto ?4 s - Ché se' parte e non tutto. -- E perché forte fu e savio chi a Golia donò la morte? - Quel eh' era in lui, in te non è or bisogno. - Perché così? - Ché l'ordine fatale ottimo il volle, 5 che Dio fece tale. 10 - Miser, so men quanto saper più agogno! Miserere cli me, Signor, se puoi far corto e lieve il male, senza guastar gli alti consigli tuoi! 1. fregia: sfregia, percotendoci con travagli e pene. 2. che noi ... seno: intendi: ci trae fuori dalla mortalità nel seno dell'immortalità. 3. in quelli: i suoi persecutori. 4. ho stretto: ho congiunto insieme. 5. il volle: cosi volle.

POESIE

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Fa un dubbio: perché fu più soggetto delli altri a1 guai? E risponde: perché aspetta miglior sorte in questa e nell'altra vita, e perché Dio negli altri mostra il suo potere, facendogli meno soggetti a' guai, e 'n lui il suo sapere. E contra questa risposta argomenta: per che causa David fu sapiente e forte? Risponde che fu cosi necessario in quello, e non ora in esso autore. E, replicando, dice che l'ordine fatale cosi portò ordinato ab aeterno. E perché ciò poco s'intende, conchiude che quanto più vuol sapere di questi segreti, meno ne sa. Però si volta a pregare simplicemente che Dio l'aiuti senza guastare i suo' disegni, ecc. MADRIGALE I O

Canzon, di' al mio Signor, ch'io ben conosco ch'ogni cosa esser puote migliore a sé, ma non all'universo; eh' e' già sarìa disperso, se uguali al sol fussero l'altre ruote del mio desir non vòte. 1 lVla più ho da dirli. Aspetta2 la tua terza sorella, che non tarda; sarai in mezzo eletta e più3 a grazia impetrar forse gagliarda.

s

10

Manda quest'orazione a Dio, con dire che ben vede come per se stesso e' potrebbe star meglio, ma non per tutto 'l mondo, perché il mondo sarebbe guasto, se tutti i pianeti e la terra fossero eguali al sole, e non patissero, come non pate il sole; talché il desiderio loro non s'adempie, né quello dell'autore, per ordine divino. E poi si prepara alla terza canzone di questa medesima materia.

del mio desir 11011 vòte: non private di quello di cui il mio desiderio le vorrebbe arricchite. 2. Ma . .. Aspetta: vedi la Tavola delle emendazioni. 3. più: unisci con gagliarda. 1.

56

882

TOMMASO CAMPANELLA

DELLA MEDESIMA SALMODIA

Canzo11e III MADRIGALE I

Vengo a te, potentissimo Signore, sapientissimo Dio, amorosissimo Ente primo ed uno: miserere del nostro antico errore; 1 cessi ornai l'uso rio; non sia più l'uno all'altro uomo importuno; tornio, dove io gli aduno, alla prima ragion tua; donde errando, siamo trascorsi a diverse menzogne, talché ognun par ch'agogne farsi degli altri dio, gli occhi abbagliando al popol miserando, già di cieca paura sforzato a perseguir chi ben gli adduce; 2 ond'io sto in sepoltura, perché lor predicai la prima luce.

s

10

15

Prega Dio che tutti torniamo tanto alla legge naturale, ch'è quella di Dio, e che cessi la idolatria, le sètte false e le guerre cominciate per ragione di Stato e la diversità de' principati; e che sia una gregge, un pastore ed una fede. E narra i mali avvenuti dalla divisione d'essa fede naturale, e più gli propri; per che fa ricorso a quella, ecc. MADRIGALE 2

Per l'Unità ti priego viva e vera, per cui disfarsi stimo la discordia, la morte e l'empio inganno; per la Possanza universal primera, e per lo Senno primo e per lo primo Amor, ch'un ente fanno:

s

Della medesima salmodia. Canzone III. - 1. antico errore: cfr. Dante, Par., 6. 2. perseguir chi ben gli add11ce: perseguitare i propri benefattori.

v111,

883

POESIE

togliene ornai quel danno, che da valor, da senno e d'amor finti, tirannide, sofismi, ipocrisia, spande pur tuttavia; che l'alme e i corpi a pugna cieca ha spinti fra lacci e laberinti, ove par che sia meglio non veder l'uscio a chi forza non have; e me n'hai fatto speglio, quando senz'arme m'hai dato la chiave. 1

10

15

Lo prega per gli epiteti suoi eminentissimi: Unità, contraria alla discordia, alla morte e allo tradimento; per la Possanza, Senno ed Amore; che ci toglia i danni venuti da finta possanza, finto senno e finto amore. Donde è nata la pugna cieca, che ci facciamo male l'un l'altro senza intendere perché, poiché spesso sono carcerati quegli che dicono il vero, e sono tenuti per eretici, come san Paolo da Nerone e san Piero, ecc. E come in questo laberinto non giova vedere il vero a chi non è armato, perché più è afflitto dall'ingannati e dall 'ingannatori, come disse nel sonetto Gli astrologi, ecc. 2 MADRIGALE

J

Per le medesme eminenze ch'io soglio dir di se stesse oggetti, essenza, verità e bontade insieme, ti prego, s'io di maschere le spoglio, quella colpa rimetti, che torre i falsi dèi dall'uman seme vantansi, e più ci preme. Chi vide ch'unqu'anco3 in terra si faccia il tuo voler, sì come si fa in cielo? chi d'ignoranza il velo, chi il giogo• sotto gli empi, che n'allaccia, in fatti 5 rompe o straccia?

s

10

me n'hai fatto ..• chiave: hai fatto me specchio ed esempio di un tal vero, che cioè non giova la sapienza a chi non è armato, quando mi desti di conoscere i mezzi di liberare il mondo, ma non mi desti la forza. 2. Cfr. in questo volume p. 799. 3. unqr1a: mai (latinismo). Vedi la Tavola delle emendazioni. 4. giogo: vedi la Tavola delle emendazioni. 5. che n'allaccia, in fatti: vedi la Tavola delle emendazioni. 1.

TOMMASO CAMPANELLA

Sol libertà può farci forti, sagaci e lieti. E 'l suo contrario valere a consumarci di sei milla anni mostra il gran divario. Prega per gli oggetti delle eminenze metafisicali già dette, le quali e' spoglia di maschere, scoprendo la tirannia e la sofistica e la ipo .. crisia, ecc., che Dio voglia perdonare a tutto il mondo, e far che si faccia in terra il suo volere come si fa in cielo, e che cessi l'igno.. ranza, la tirannia e l'ipocrisia. E che questo non possa essere, se Dio non ci mette in libertà di peccato e di signoria, che possiamo e sappiamo dire il vero. E che gli falsi dèi promettano tutti la bea.. titudine, e mai non s'è vista ancora. Però debba provvedere il vero Dio. MADRIGALE

4

Poi ti prego, ti supplico e scongiuro per }'influenze magne, Necessità, Fato, Armonia, che 'I regno dell'universo mantengon sicuro, tue figlie, non compagne; per lo spazio, eh' è base al tuo disegno; per la mole all'ingegno, 1 pel caldo e per lo freddo, d'elementi gran fabbri, e per lo cielo e per la terra, pe' frutti di lor guerra; pel tempo e per le statue viventi, stelle, uomini ed armenti, per tutte l'altre cose; per Cristo, Senno tuo, Prima Ragione, che dalle sorti ascose spezzi la crudel mia lunga prigione.

s

10

I

s

Prega per l'inftuenze magne, Necessità, Fato e Armonia, che guidano il mondo, come influenze ed effetti di Dio, e non come cause né concause del suo governo. E questo dice contra i Gentili. Poi prega per tutti gli enti fisici, per lo spazio, per la materia, per lo caldo e freddo, per lo cielo e terra, per la generazione che fanno pugnando, 1. per la mole all'ingegno: per la materia corporea, che fa da massa al gran congegno del mondo.

885

POESIE

per lo tempo, per le statue di Dio vive, che sono, ecc., e per tutte le cose. Alfin conchiude come la Chiesa, per Cristo, Verbo e Sapienza di Dio, rompa la sua prigionia, ecc. MADRIGALE

5

Se mi sciogli, io far scuola ti prometto di tutte nazioni a Dio liberator, verace e vivo, s'a cotanto pensier non è disdetto il fine a cui mi sproni; gl'idoli abbatter, far di culto privo ogni dio putativo e chi di Dio si serve e a Dio non serve; por di ragione il seggio e lo stendardo contra il vizio codardo; a libertà chiamar l'anime serve, umiliar le proterve. Né a' tetti, ch'avvilisce fulmine o belva, dir canzon novelle, per cui Sion languisce. Ma tempio farò il cielo, altar le stelle.

s

10

1s

Mira qual voto grande d'animo divinissimo! E' pretende fare a Dio una scuola di tutto il mondo, se Dio lo aiuta. Nota che Dio si deve adorar in spiritu et ventate/ e non in tetti di fango, che i fulmini e gli nidi d'uccelli scherniscono. E cosl Dio disse ad Isaia: «quam domum aedificabitis», 3 ecc., e san Stefano.3 Ma la Chiesa di Cristo tiene questi, non perché Dio sia legato in loro, ma perché s'unisca il popolo in carità per la conoscenza e culto comune. « Beato chi intende come s'adora! » dice san Bernardo. 4 MADRIGALE

6

Deh ! risorga a pietà l'Amor eterno, e l'infinito Senno proponga l' opra al gran Valor immenso, che il duro scempio del mio lungo inferno vede, senza il mio cenno :5

s

1. Cfr. loan., 4, 23. 2. Cfr. Isai., 66, 1: •qual casa mi edificherete?•. 3. Cfr. Act., 7, 48 sgg. 4. Cfr. De dil. Deo cap. 10. 5. senza il mio cenno: è da connettere con proponga l'opra.

886

TOMMASO CAMPANELLA

sei e sei anni,1 che 'n pena dispenso l'affiizion d'ogni senso, le membra sette volte tormentate, le bestemmie e le favole de' sciocchi, il sol negato agli occhi, i nervi stratti, l'ossa scontinoate, le polpe lacerate, i guai dove mi corco, li ferri, il sangue sparso, e 'l timor crudo, e '1 cibo poco e sporco; in speme degna di tua lancia e scudo. 2

10

. 1s

Narra ed amplifica la preghiera con tanti guai, che patla dentro quella fossa dopo dodici anni continovi, ecc. I tormenti sono noti. MADRIGALE

7

Farsi scanni gli uman corpi a' giganti, gli animi augei di gabbia, bevanda il sangue, e di lor prave voglie le carni oggetto, e le fatiche e i pianti giuoco dell'empia rabbia, maniche a' ferri usati a nostre doglie l'ossa, e le cuoia spoglie; de' nostri sensi, testimoni e spie false contra noi stessi; e ch'ogni lingua l'altrui virtute estingua, e fregi i vizi lor con dicerie, vedrai da queste arpie più dal tuo tribunale. 3 Che pel tuo onor mia angoscia se non basta, ti muova il comun male a cui la providenza più4 sovrasta. 1.

sei e sei anni: vedi l'introduzione alle tre canzoni a p. 867.

s

10

1s 2.

in

speme ••• scudo: mentre io nutro une speranza che sarebbe pur degna del

tuo aiuto e della tua protezione. Oppure: mentre nutro una non indegna o vile speranza, che tu mi porga aiuto ecc. 3. Farsi . .. tribunale: costruisci ed intendi: tu, o Signore, dal tuo tribunale, più che io non veda, vedrai che queste arpie fanno gli umani corpi scanno ai giganti e gli animi prigionieri ecc. 4. più che al mio male particolare.

887

POESIE

Narra tutti i guai, che da' tiranni sono avvenuti a tutti gli uomini nel tempo presente e passato, e cosi da' sofisti ed ipocriti. E nota che in senso mistico e metafisico dice assai, parlando di tutte le parti del nostro corpo serventi a quelli; ma con verità delle false adulazioni e testimonianze, e che Dio ne vede più ch'egli dice: e però si muova pel ben comune di tutti, se non per lui si muove, ecc. MADRIGALE

8

Se favor tanto a me non si dovea per destino o per fallo, sette monti, 1 arti nuove e voglia ardente perché m'hai dato a far la gran semblea,2 e 'l primo albo cavallo,3 con senno e pazienza tanta gente vincere ?4 Dunque, mente tanto stuol di profeti che tu mandi ? ed ogn'anima santa, che già aspetta veder la tua vendetta, falsa sarà per gloria di nefandi ? Più prodigi e più grandi il tuo Nume schernito, qual muto idolo, agogna oggi, che quei ch'i mostri han sovvertito di Samaria, d'Egitto e di Caldei.

s

10

rs

Dice che Dio, avendogli fatto tanti favori cli dargli nuove scienze, sette monti in teste prodigiosi, e volontà di fare la scuola del Primo Senno per divino istinto, e 'I cavallo bianco, ch'è l'ordine sacerdotale dominicano, e 'I vincere tanti tormenti e tormentatori, ciò è segno che Dio l'abbia da liberare per qualche gran cosa. E questo mostra da' profeti e santi: vedi Brigida, Vincenzo, Catarina; e dal desi ..

I. sette monti: allusione alle protuberanze del suo cranio, che Campanella interpretava come sintomo di mente e di vocazione straordinarie. 2. la gran semblea: è la società universale delle genti, secondo il mito maturo, oppure la repubblica eliaca tentata sulle montagne calabresi, secondo il mito giovanile. 3. e 'I . .. cavallo: cfr. Apoc., 6, 2. Il cavallo bianco prefigura, secondo il Campanella, POrdine domenicano, al quale egli apparteneva. Cosi egli negli Articuli prophetales. 4. vincere: dipende ancora da m 1hai dato.

888

TOMMASO CAMPANELLA

derio comune, ecc. Poi dice che più miracoli ci vogliono a questo tempo, che non quando Moisè ed Elia e Daniele, ecc., vinsero. Perché Dio è tenuto come idolo muto, secondo ch'e' dice a santa Brigida, 1 ecc. MADRIGALE

9

Tre canzon, nate a un parto da questa mia settimontana testa, al suon dolente di pensosa squilla, ch'ostetrice sortilla, ite al Signor, con facce e voce mesta, gridando miserere del duol, che 'l vostro padre ange e funesta. Né sia chi rieda a darmi altra novella dal Rettor delle sfere che 'l fin promesso delPistoria bella (sia stato falso o vero il messaggiere),2 cantando: - Viva, viva Campanella!

s

10

Dà commiato a tutte le tre canzoni, fatte in un tempo stesso ed in un soggetto, come tre sorelle d'un parto, ecc. Dice che non tomino senza il fine promesso in certe visioni, che si canterà, - Viva Campanella - nel fine di questo suo carcere, e cose altre mirabili, ch'egli dice nell'Antimacchiavellismo; 3 e ch'e' fu deluso dal diavolo, ecc.

1. Cfr. Rft1elationes, lib. I, cap. 48 e lib. IV, cap. 133. 2. il messaggiere: è il già citato frà Felice Gagliardo. 3. Cfr. Ath. triumph., cap. I I, n. 23.

POESIE

889

QUATTRO CANZONI

DISPREGIO DELLA MORTE

Canzone I MADRIGALE I

Anima mia, a che tanto disconforto ? forse temi perir tra immensi guai? Tema il volgo. Tu sai dirsi morir chi fuor del suo ben giace. Se nulla in nulla si disfà giammai, non può altronde, chi a sé pria non è morto, morte patir o torto, né temer guerra chi a se stesso ha pace. Non ti muova argomento altro fallace.

s

Se ente alcuno non s'annichila, bisogna dire che la morte sia mutazione; e che morto è 'n verità chi sta fuor del bene a sé conveniente, e non chi è mutato in altro ente. MADRIGALE 2

Se nativa prigion te non legasse, legar non ti potrìa l'empio tiranno, 1 eh' e' non può far tal danno a' sciolti venti, agli angeli, alle stelle. Solo a lui male i tuoi tormenti 2 fanno,

5

Q"attro canzoni. Dispregio della morte. Queste quattro canzoni furono composte nella fossa di Sant'Elmo tra il luglio 1604 e il marzo 1608. Il Campanella, che disperava uscir di sepoltura, canta per confortatoriò il motivo della morte come sprigionamento dell'anima immortale, volante alla sua sfera propria. Il concetto, che vedesi espresso nell'esposizione del madrigale 3 della prima canzone, appare ulteriormente superato nella metafisica dell'autore, che insegna poi la Terra essere stata creata primariamente come luogo delle anime umane. Cfr. Met., p. 111, lib. xv. Stilisticamente è delle composizioni più accurate. Canzone I. - 1. Se .. . tiranno: soltanto per la corporalità viene nell'uomo la soggezione alla violenza. 2. i tuoi tormenti: vedi la Tavola delle emendazioni. Forse ispirato da sant'Ambrogio, Liber de Virgi,iib,u, lib. 1, cap. 1: « cerneres ... pallere ora alieno timentis periculo, cum puella non timeret suo• (•avresti visto il tiranno impallidire per l'altrui pericolo, mentre la fanciulla non temeva per il proprio»).

890

TOMMASO CAMPANELLA

ma a te ben, come se ti liberasse, o ti risuscitasse, chi da sepolcro o da prigion ti svelle; ché l'uno e l'altro son l'umane celle. Il tiranno fa torto, ma non male, anzi ti sprigiona o risuscita; peroché il corpo è prigionia, secondo san Paolo 1 e Trismegisto, 2 e carcere oscuro. E perché siamo carcerati nel corpo, possono gli uomini carcerarsi ancora. Onde i venti e gli angeli non possono da noi essere carcerati. Talché non deve temersi il morire, ma stimarsi fine di prigionie e di morte, ecc. MADRIGALE

J

Dentro il gran spazio, in cui lo mondo siede, tutto consperso di serena luce,3 che 'l sommo Ente produce, e di vive magion lucenti adorno, dove han gli spirti repubblica e duce in libertà felice, sol si vede nera la nostra sede. Dunque, de' regni bianchi, eh' ella ha intorno, fu a, peccatori esilio e rio soggiorno.

s

Il mondo è tutto luminoso, e tutte le stelle in lui lucono, e sono stanze di angeli o di loro repubblica; e fra queste stelle solo la terra si vede in mezzo nera. Dunque, questa terra è il carcere de' demoni e del• l'anime; e non fu fatta da Dio lucente4 per tal fine. MADRIGALE 4

Il centro preme in sempiterna notte5 sotto ogni pondo i più rubbelli; e 'l giro or letizia, or martiro, or tenebra ed or lume al mondo apporta, 1. peroché ... Paolo: manifesta allusione a Rom., 7, 24: rs.Jnfelix ego homo! quis liberabit me de corpore mortis huiru?» (110 infelice uomo! chi mi libererà da questo corpo di morte? 11), 2. Le dottrine di Mercurio Trismegisto sono largamente esposte dal Campanella in Met., p. 111, lib. xv, cap. 3. 3. tutto ... luce: si riferisce a gran spazio. 4. non fu fatta ... lucente: vedi quanto si è detto nelt>introduzione. 5. notte: vedi la Tavola delle emendazioni.

891

POESIE

che i propri dal comun carcer sortiro; né, quindi1 uscendo, in nulla son corrotte. Ma chi scende alle grotte, tornar non può, perché ivi al doppio è morta; e chi va in alto, al carcer odio porta.

s

I demòni stanno nel centro, l'anime nella circonferenza tra il bene e 'l male, dove hanno sortito il carcere proprio, dalla terra pigliando il corpo suo, la quale è carcere comune; e però, morendo l'uomo, l'anime non muoiono. E se bene non tornano a farsi vedere da noi, questo è perché quelle che vanno al centro, sono proibite, e quelle che vanno al cielo, odiano di tornare a vedere i carceri e guai ecc., se Dio non l'arma di virtù contra quelli. MADRIGALE

5

Se lo spirto corporeo, che 'l calore ne' bruti e pur negli uomini ha produtto, sempre esala al suo tutto, né riede a noi, quantunque esca a dispetto, ignorando eh' a gaudio va dal lutto : vie più la mente, che di lui men muore tornando al suo Fattore, poi, saggia e sciolta, fugge il nostro tetto: avviso che non erri al coro eletto.

s

7. Qui pruova a minori ad maiu.s che l'anima de' morti non torna al cadavero, poiché lo spirito animale, ch'esce con lutto, e si fa aria, pur non vuol tornare. 9. La bruttezza della terra fu avviso alli angeli che non errassero, se al suo centro non volean venire; e così è pure mò a noi. MADRIGALE

6

È tutto opaco il corpo che ti cinge, e sol ha due forami trasparenti; né in lor le cose senti, ma sol le specie, non qua' son, ché ronda x. quindi: dal carcere del corpo.

TOMMASO CAMPANELLA

le fa, il cristallo e ,1 corno differenti, 1 che '1 lume che le porta àltera e tinge. Né pur tuo specchio2 attinge a veder l'aria sottil, che 'l circonda, né gli angeli, né cosa più gioconda.

5

Dice all'anima che il carcere suo è tutto opaco, e solo ha due forami trasparenti, che sono gli occhi, pe' quali neanche le cose si veggono, ma le immagini, entranti con la luce di lor tinta, e di più alterata dalle tuniche degli occhi e dagli wnori, cioè corneo, uveo, acqueo, cristallino; talché non si possono vedere come sono. Né pur vede l'aria sottile, né gli angeli, che ci stanno sempre avanti, per la grossezza di queste tuniche, ecc. MADRIGALE

7

Indebolite luci e moti e forze delle cose, che batton la muraglia del carcer che n'abbaglia, 3 sentiamo noi, non le possenti o dive; perché sfarìan la nostra fragil maglia. Né virtù occulta ammetton le sue scorze, che per noi non si ammorze: poche sembianze e di certezza prive solo ha chi meglio tra noi parla e seri ve.

s

Vuol dire che le cose manifeste a noi sono occulte, perché non siamo atti a sentire la luce del sole possente, né gli moti del cielo, né la possanza del fuoco senza consumarci, e molto meno di Dio e degli angeli. Né pur sentiamo le virtù occulte e deboli delle erbe, perché non possono arrivare a muover lo spirito serrato in tante scorze del corpo, pria che per noi si ammorzino, cosl che non si possano far sentire.4 Dunque, il saper de' più savi consiste in alcune sembianze, non nelle cose; e quelle, prive di certezza, perché mostrano poco e quasi di lontano e per mezzi grossi del corpo. 1. né ••. differenti: non le cose, ma le specie delle cose apprende il nostro senso, e le specie stesse o immagini riescono alterate dal mezzo, giacché la medesima specie visiva, per esempio, è modificata attraverso l'acqua o il vetro o un corpo diafano, che alterano il lume da cui essa vien portata. z. specchio : l'occhio. 3. abbaglia: inganna. 4. così • • . sentire: vedi la TatJola delle emendazioni.

893

POESIE

MADRIGALE

8

Qual uomo a volo non vorria levarsi, o più saltar a giugner? Ma noi lascia questa di morti cascia.' Va col pensiero a più parti del mondo, dove esser brama; ma la grossa fascia non vuol che vada, né possa internarsi.

s

. . . . . . . . . .

Dunque tien l'alma il tenebroso pondo, l'allegrezza, i desiri e i sensi in fondo. Ogni uomo vorrebbe arrivar col corpo dove va col pensiero, né può internarsi dentro le cose a saperle. Dunque ci proibisce il corpo il sapere e 'l desiderio, e 'l ben desiderato. Il perché e' ci fa male tanto; e non lo conosciamo, desiderando vivere in lui, ecc. MADRIGALE

9

Di': come al buio hai tu distinto l'ossa? i nervi soprasteso alle giunture? tante varie testure di vene, arterie e muscoli formasti, le viscere, le fibre e legature? come il bodel2 si piega, stringe e ingrossa ? come, di carne rossa vestendo il tutto, la testa scarnasti? come il caldo obbedia? come il frenasti ?3

s

Se l'alma non sa come s'è fabbricato il corpo, né come fece tante membra a tanti usi, né come si frena il calore, ecc., è segno ch'essa non fece il corpo.

1. cascia: cassa. z. bodel: budello, intestino. 3. come il caldo .•. frenasti: nella fisiologia del Campanella l'organizzazione del corpo avviene per l'azione del caldo operante variamente sopra la materia, secondo l'idea, per ministero di angeli. Cfr. Quaest. phys., q. vin e Met., p. 111, lib. XII, cap. 2.

TOMMASO CAMPANELLA

MADRIGALE IO

Non mi risponder quel ch'impari altronde e nell'anatomia, ché non è tuo cotal saper, ma suo, di chi t'avvisa: e pur t'inganni spesso, come n'hai sperimenti più che duo. Or, se in te ignori ciò che 'l corpo asconde, e in altri spii; risponde 1 non essere, a chi al buio sta, concesso veder che fa, né il luogo, né se stesso.

s

Dice che l'alma non deve rispondere a tal dimanda, per quello ch'impara di fuori, che non è suo sapere di quel che fa dentro a sé. Il che s'ella l'ignora, ignora se stessa, non sapendo che cosa è anima, né come sta nel corpo. Deve confessare che sta in carcere oscuro ; e, perché chi sta all'oscuro non vede se stesso, né il luogo dove sta, né quello ch'esso fa, così l'anima ignora sé e 'l corpo, e l'opere sue proprie che fa in lui, ecc. MADRIGALE I I

Pur, se 'l vario nutrir t'ha fatto porre la fabbrica in obblio, di' mò: in che modo il nutrimento sodo all'ossa tiri, ad a' nervi il viscoso, ed agl'impuri vasi feccia e brodo? Come odi, e vedi, e pensi, quando a scorre2 ten vai nell'alta torre ?3 Di': il respirar, e 'I polso stretto e ondoso come dài al spirto, fatica e riposo ?4

s

Non può dir t>anima che si scordò della fabbrica del corpo per la fatica del nutrimento, poiché neanche sa dire quello ch'essa fa in nutrire il corpo, e come seguestra il puro dallo impuro, e tira ad ogni membro quel che fa per sua sostanza, né come si respira o si dorme o si vigila. Dunque, ecc. I. risponde: rispondi, vieni a rispondere. 2. scorre: scorgere, speculare. 3. alta torre: le celle del cerebro, dove si raccolgono durante la meditazione gli spiriti vitali, alienandosi dalle altre membra. 4. il respirar •.• riposo?: vedi la Tavola delle emendazioni.

POESIE

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MADRIGALE I 2

Tu non sai quel che fai, ch'altri ti guida, come al cieco chi vede apre 'l cammino. Il tuo carcer sì fino per tu' avviso e suo gioco il Sir compose. Libera hai volontà sol, 1 don divino, per meritar, pigliando scorta fida no' Macon, Cinghi o Amida, a ma chi formò tua stanza e l'altre cose; e perché prezzi il ben, tra guai ti pose.

s

Dunque si conchiude che l'anima è guidata d'altri, come il cieco nell'opere sue. E ch'altri gli fabbricò il corpo, e ch'ella è soggetta in tutto, e solo libera di volontà per meritare, se scerrà la legge di Dio per scorta, e non quella di Macone, di Cinghie d'Amida e di simili legislatori falsi. E però fu carcerata a operare, e non per pena sola, come pensò Origene. 3 Vedi l' Antimacchiavellismo.4

Canzone 11 Del medesimo tema. MADRIGALE I

Quante prende dolcezze e meraviglia1 l'anima, uscendo dal gravante e cieco nostro terreno speco! Snella per tutto il mondo e lieta vola, riconosce l' essenze, e vede seco gli ordini santi e l'eroica famiglia, che la guida e consiglia,

s

1. Libera ... sol: vedi la Tavola delle emendazioni. z. Macon, Cinghi o Amida: cioè false divinità. La prima è Maometto, le altre due legislatori, il primo dei Tartari e il secondo dei Giapponesi, deificati. 3. come pensò Origene: per l'opinione di Origene cfr. Met., p. III, lib. xv, cap. 3, art. 5. 4. Cfr. Atl,. triumph., cap. 8, n. 5.

Canzone I I. Del medesimo tema. - 1. meraTJiglia: così scriviamo per la rima invece .di «meraviglie». Ma è anche questa una forma plurale latineggiante, corrispondente a «mirabilia». Vedi la Tavola delle emendazioni.

896

TOMMASO CAMPANELLA

e come il Primo Amor tutti consola, e quanti mila1 n'ha una stella sola. Quel che l'anima vede e conosce uscita dal corpo, contra quelli che nel corpo la fanno più scienziata. MADRIGALE 2

Questo, ch'or temi di lasciar, albergo tanto odierai, che, se: - Di ferro e vetro per non sentir ferètro né scurità né doglia - Dio dicesse tel renderò, ed in lui torna - ; a tal metro, crucciata del voler, 2 voltando il tergo :3 - In pianto mi sommergo risponderesti; salvo se 'l rendesse tutto celeste, qual Cristo s' elesse.

s

Che l'anima, uscita dal corpo, non vuol tornare in lui, benché gli fosse fatto duro qual ferro e trasparente qual vetro, per non sentir morte né oscurità; e solo vorrebbe riaverlo, se fosse fatto glorioso, come quello di Cristo risorgente: perché cosi non sarebbe all'alma impedimento, ma fregio, ecc. MADRIGALE

3

Mirando 'l mondo e le delizie sacre e quanti onor a Dio fan gli almi spirti, comincerai stupirti come Egli miri pur la nostra terra picciola, nera, brutta e, più vo' dirti, dove ha tante biastemme orrende ed acre, che par che si dissacre; dove sta l'odio, la morte e la guerra, e l'ignoranza troppo più l'afferra.

s

Che l'alma, scarcerata dal corpo, si stupisce come Dio tenga conto della terra nostra, avendo tante delizie divine in cielo, ecc., e qua tante bruttezze e peccati, ~cc. quanti mila: quante migliaia di esseri e di essenze. :i. crucciata del tJoler divino. 3. a tal metro • •• tergo: ricusando tal proposta. 1.

POESIE

MADRIGALE

4

Vedrai pugnar contro la terra il cielo e 'l caldo bianco e la freddezza oscura, 1 e che d'essi Natura, per trastullo de' su peri, ne forma vento, acqua, pianta, metal, pietra dura; del ciel scordarsi il caldo, e contra 'l gelo vestirsi terreo velo, e come a suo' bisogni lo conforma; e che doglia e piacer gli enti trasforma.

s

Che l'alma sciolta vede la pugna degli elementi, e come la Natura forma di essi tanti corpicelli per trastullo de' superi, e come il caldo resta nel suo contrario a semenzire. E come la trasformazione è guidata dalPamore e dall'odio, ma non nel modo d'Empedocle, ma della Metafisi.ca 2 dell'autore. MADRIGALE

5

Possanza, Senno, Amor da Dio vedrai partici par il tutto ed ogni parte; ed usar la Prima Arte N ecessitade, Fato ed Armonia; per cui tanta comedia3 orna e comparte Iddio, rappresentando giuochi gai; e divin fiati e rai (che son l'anime umane) a' corpi invia per far le scene con più leggiadria.

s

L'alma sciolta vede anche la dependenza degl'influssì magni dalle primalità; e come il Primo Senno ordina la comedia unì versale con tante maschere di corpi, e, per nobilitare le scene, ci traveste le alme immortali umane. Vedrai . . . oscura: secondo la fisica del Campanella il caldo, che ha per centro il Sole, è bianco, e il freddo, che ha per centro la Terra, è buio. Cfr. Met., p. 111, lib. XI, cap. 5, art. 4. 2. Cfr. Met., p. 11, lib. IX, cap. 9. 3. tanta comedia: vedi il sonetto Gli uomini son giuoco di Dio e degli angeli nel presente volume a p. 800. 1.

57

898

TOMMASO CAMPANELLA

MADRIGALE 6

Fia aperto il dubbio, che torce ogn'ingegno, perché i più savi e buoni han più flagelli, e fortuna i più felli. Ché Dio a que' die' le parti ardue del gioco, per trarli a maggior ben da' lordi avelli; e del suo mal goder lascia chi è degno. E n'ho visto per segno, 1 più indotti e schiavi e impuri amar non poco l'errar, la prigionia e l'infame loco.

s

Risponde alla domanda di Epicuro e di tutti savi e di David e leremia: - Perché Dio dona travagli a' buoni e fortuna a' rei, - dicendo ch'a quelli diede la parte più ardua della comedia universale per premiargli poi, ed a questi lascia godere questa vita, perché è morte e degna di loro; e si pruova per esempio de' vili, schiavi e carcerati, che si vendono più volte in galea, e non sanno vivere altrove, e godono di tal vita impura. MADRIGALE

7

Il giuoco della cieca per noi fassi; ride Natura, gli angeli e 'l gran Sire, vedendo comparire della primera idea modi infiniti, premiando a chi più ben sa fare e dire. Se i nostri affanni son divini spassi, perché vincer ti lassi? Miriamo i spettator, vinciam le liti contra prìncipi finti, stravestiti.

s

Come tra gli uomini e le cose basse si fa il giuoco della cieca e si travestono l'idee in varie fogge; e ride Dio e la Natura e gli angeli, e preparano premio a chi più sa ben fare e dire. E non ci è risposta più acuta di questa tra savi. Dunque, solo i nostri affanni sono giuoco di Dio, e sperano premio, ed è stoltizia fuggirgli tanto. per segno: correzione nostra del vulgato « pur segno•, indicata dall 'esposizione: e si pruova per esempio de' vili ecc. Vedi la Tavola delle emendazioni. I.

POESIE

MADRIGALE

8

Il carcere, che 'ntra mortP mi tieni2 con timor falso di morir, dispreggio. Vanne al suolo, tuo seggio, ch'io voglio a chi m'è più simile andarmi. Né tu se' quel che prima ebbi io, ma peggio, che sempr' esali, e rifatto altro vieni da quel che prandi e ceni ; onde lo spirto tuo nuovo ognor parmi. Or perché temo in tutto io di sbrigarmi ?3

s

Si risolve sprezzare il corpo, che ci tiene intra morti con timor di morir falso. E poi non è lo stesso corpo in cui fu posta l'alma, perché sempre altro si perde esalando, altro si rifà del cibo: e così lo spirto animale ancora. Però è pazzia far tanta stima di questo nostro vivo male, ecc. Canzo11e III Del medesimo tema. MADRIGALE I

Piangendo, dici: - Io ti levaP - mia testa; le man: - Scrivemmo - ; i piè: - T'abbiam portato. Dispregiarne è peccato. Di più, te il dolor stringe, e 'l riso spande; s ti prende obblio ed inganno, ché se' un fiato, e la puzza greva, odor cresce e desta,2 che sparso in aere resta; perché noi, gloria, venere e vivande sprezzi, ove certo vivi, e molto e grande? Dopo la risoluzione di abbandonare il corpo, fatta nella canzone precedente, qua risponde in favore del corpo o di ogni membro: 'ntra morti: vedi la Tavola delle emendazioni. 2. tieni: tiene. tutto io di sbrigarmi: sciogliermi interamente dal corpo. t.

3. i11

Canzone III. Del medesimo tema. - 1. ti levai: per la testa l'uomo si erge mirando il cielo, secondo il motivo trito della poesia classica. 2. te ... desta: la puzza aggrava e contrista lo spirito vitale; gli odori lo nutrono e lo destano. Cfr. Quaest. pliys., q. XLVII, art. 6.

900

TOMMASO CAMPANELLA

che sia peccato sprezzar tanto buon compagno; e poi gli vuol mostrare ch•essa sia un fiato mortale corporeo, poiché il riso e la doglia lo mostrano, e )a puzza ch'aggrava lo spirito, e l'odor che lo cresce e sveglia. Però par bestialità sprezzare il corpo, ove si vive certo e ci è gusto e gloria, per un•altra vita incerta, ecc. MADRIGALE 2

- Compagno, se in obblio le doglie hai posto, quando di terra in erba e in carne sei fatto di membri miei, pur questa obblierai, ch'or ti martìra, di farti terra; e poi godrai di lei. 1 Per farne altri lavori ha Dio disposto disfare il tuo composto; ma in tutto il Primo Amor dolcezza spira. Poi sarai mio, se 'l tutto al tutto aspira.

s

Risponde l'anima al corpo, consolandolo, che, se gli dispiace tanto il morire e scompagnarsi di lei, pur altre volte fu morto e trasmutato: quando si fece di terra erba, e d'erba cibo, e poi carne degli membri umani; ed in tutte queste trasmutazioni ha sentito dolore, perch~ ogni cosa sente. E se di tal dolore s'è scordato, gli dice che pure si scorderà di questo, ch•averà della separazione sua. E che, fattosi terra, goderà poi d'esser terra, come ogni ente del suo essere. Poi lo consola che sarà riunito nel fine del mondo, poiché ogni cosa desidera il suo tutto, e l'uomo tutto è in anima e corpo. Onde si pruova la resurrezione. MADRIGALE

3

S'or debbo a ciò che fosti e sarai mio, porterò un monte: ma, l'Arte soprana quanto ti trasumana, staremo insieme: 2 né pensar ch,io tema I. pur questa ... lei: oblierai anche la doglia, che ora ti affligge, cioè la doglia di doverti ridurre in polvere; fatto polvere, godrai di esser polvere. 2. ma, l' A1'te .•. insieme: staremo insieme io, anima, e tanto di te, corpo, quanto la divina arte trasumanerà nel corpo glorioso. Vedi la Tavola delle

emendaioni.

901

POESIE

disfarmi in nulla, o in cosa da me strana. L'animai spirto, in cui involto sono io/ prende inganno ed obblio, ed io per lui: quando egli cresce e scema, patisco anch'io, ma non mutanza estrema.

s

In questo madrigale segue a rispondere che l'alma non è obbligata al corpo, perché, se quanto fu e sarà suo corpo deve ella prezzare, sarebbe bisogno portare un monte grandissimo; perché, mangiando, nuove particelle si aggregano al corpo, ed altre esalano. Talché ella non può tutto quello che fu suo, seco avere, ma quanto l'arte divina risusciterà: vide divum Thomam, in tertia parte:" Poi risponde all'argomento fatto contra la sua immortalità, dicendo che le passioni predette sono nello spirito corporeo, 3 veicolo della mente da Dio infusa, e non nella mente, se bene essa ne partecipa da lui, ecc. ' MADRIGALE

4

Desir immenso delle cose eterne e 'l vigor, per cui sempre alto più intendo, e terra e ciel trascendo, se nulla eccede di sue cause il fine, 4 mostran che d'aria e dal sol non dipendo, né di cose caduche, ma superne. Ecco che mi discerne5 da te, ch'ami e sai solo il tuo confine; e pur gran pruove d'altre alme divine.

s

L'intendere ed appetere l'infinito mostrano che l'anima non dipende dagli elementi, perché nessun effetto si leva sopra la sua causa, e che abbia origine da ente infinito immortale. E pur le sperienze de' santi e la religione vera comprovano lo stesso, ecc. Nota che l'alma parla al corpo ancora, e gli fa questi argomenti, e ch'essa non è qual lui, ecc. l'animai . .. io: la mente è involta nello spirito corporeo, che è fluido caldo e sottile, e perciò sente, discorre e intende collo spirito; tuttavia, essendo essenziata dalle tre primalità pure, non dipende nel suo essere dallo spirito, ma vi sta come luce nello specchio e nell'aria. Cfr. Del senso delle cose, lib. 11, cap. 30. 2. Cfr. Summa theol .• Suppi. q. 79, art. 3. 3. sono •.. corporeo: vedi la Tavola delle emendazioni. 4. il fine: i limiti. 5. eh~ mi discerne: che cosa mi discerne. 1.

TOMMASO CAMPANELLA

MADRIGALE

5

La morte è dolce a chi la vita è amara; muoia ridendo chi piangendo nasce; rendiam queste atre fasce al Fato ornai, ch'usura tanta esige, ch'avanza il capitai con tante ambasce. L'udito, i denti vuol, la vista cara. Prendi il tuo, terra avara, perché me teco ancor non porti a Stige. 1 Beato chi del tempo si transige! 2

s

Chiaro e stupendo detto detranima risoluta a morire, come rende il corpo alla terra e al Fato; ch'egli cerca l'usura della vita che imprestò al corpo: or vuole doglie, or l'udito, or la vista, ecc.; e questa usura avanza il capitale. Vedi l' Axioco di Platone. 3 MADRIGALE

6

Tu, morte viva, nido d'ignoranza, portatile sepolcro e vestimento di colpa e di tormento, peso d'affanni e di error laberinto, mi tiri in giù con vezzi e con spavento, perch'io non miri in ciel mia propria stanza, e 'I ben ch'ogn'altro avanza: onde, di sua beltà invaghito e vinto, non sprezzi e lasci te, carbone estinto.

s

Epiteti proprissimi del corpo; e contra le sue lusinghe e timori resoluzion veracissima dell'alma che gli parla.

I. Prendi . •. Stige: intendi: prendi pure, o terra avida, quel che nell'uomo è terra, dal momento che non puoi portare nel regno di morte quel che nell'uomo è l'uomo. 2. si transige: si scioglie, si libera. 3. Cfr. lo pseu-

doplatonico Ax., 365 e, che il Campanella leggeva nella traduzione latina del Ficino.

POESIE

Canzone IV Del medesimo tema. MADRIGALE I

Filosofia di fatti il Senno vuole, che l'ultime due tuniche 1 or mi spoglia, ch'è del viver la voglia e d'aver laude scrivendo e parlando. Doglia è lasciarle. Ma smorza ogni doglia chi nella mente sua il gran Senno cole, seco vuole e disvòle, 2 di lui se stesso in se stesso beando. Onor non ha chi d'altri il va cercando.

s

Mostra in questo madrigale primo, che il Senno, di cui è amor la filosofia, non vuole parole solamente, ma fatti; e che per operar bene e sprezzare i guai e la morte, è necessario spogliarsi del desiderio della vita e della gloria, che sono le due ultime tuniche che lascia il filosofo, secondo Platone; e però chi di queste è spogliato, ogni travaglio piglia a bene, e la morte stessa. Onde in tal contentezza diventa beato, volendo e disvolendo con Dio ciò ch'adiviene. Conchiude che il vero onor è dentro la coscienza, e chi si conosce buono e savio non cerca l'onor d'altri, che dicano ch'egli è buono e savio poich'esso lo sa, e Dio e gli angeli. Dunque gli ambiziosi sono senza onor proprio sempre. MADRIGALE 2

Se fusse meglio a tutto l'universo, alla gloria divina e a me ancora, ch'io di guai fosse fuora, liberato m'avria l'Omnipotente; ch'astuzia e forza contra lui non fora. Tiranno, incrudelisci ad ogni verso;

s

Can::one IV. Del medesimo tema. - 1. l'llltime due tuniche: sembra alludere alla metafora di Platone, Pliaed., 64 A sgg. 2. seco vuole e disvòle: vuole e disvuole conforme al voler divino.

TOMMASO CAMPANELLA

sbrani e mangi I il perverso: ché non è mal là dove Dio consente. Non doni legge al medico il languente. Vero argomento che, se non viene cosa senza Dio, il carcere di esso autore sarebbe già finito; perché contra Dio non può la violenza e astuzia di quelli che lo tenevano carcerato in una fossa, dove fece queste quattro canzoni. Però si risolve voler la morte, se a Dio piace. I guai sono medicina. E ch'egli, infermo, non deve dar legge a Dio, suo medico. MADRIGALE

3

Empio colui non sol, ma ancora stolto, che, 'n croce giubilar Piero ed Andrea veggendo, e che si bea Attilio ne' tormenti e Muzio e Polo,2 non sa avanzar la setta epicurea, che sol piacer ha del piacer raccolto, 3 traendo gaudio molto, pur come fan gli amanti, anche dal duolo; ché 'l Primo Amor ci leva a tanto volo.

s

Non solo eresia, ma pazzia pare che l'uomo, vedendo tanti santi ed eroi godere degli tormenti ed eternarsi in Dio e nella fama, non sa far lo stesso nelroccasione, e pigliar allegrezza anche dagli affanni, come gli apostoli: e gli innamorati godono patir per la loro diva. 4 Dunque, l'Amor divino più ci alza a questo gaudio, anche ne' travagli. Onde si condanna Epicuro e ,I macchiavcllismo, che non sanno cavar piacere e gaudio dagli affanni, ma solo dalle prosperità; come le bestie, le quali deve avanzar l'uomo savio, ecc. MADRIGALE

4

Fuggite, amici, le scuole mondane; alto filosofar a noi conviensi. sbrani ~ mangi: passa alla persona terza. 2. Piero ... Polo: mescolati gli eroi della virtù naturale coi santi del cristianesimo. Polo è Paolo. 3. sol • •. raccolto: ha raccolto piacere soltanto dal piacere. Connetti sol con del piacer. 4. Non solo ... diva: questa tesi stoicizzante del Campanella trovasi svolta largamente nella Tlieol., lib. vn, cap. I, art. 3, dove la si attribuisce anche a sant' Ambrogio, sant' Agostino, al Crisostomo e a san Leone papa. I.

905

POESIE

Or, c'han visto i miei sensi, non più opinante son, ma testimonio, né sciocche pruove ho de' secreti immensi. Già gusto quel che sia di Cristo il pane. Deh l sien da noi lontane quelle dottrine, che 'l celeste conio non ha segnato; ch'io vidi il demonio.

s

Richiama gli amici alla scuola di Cristo, poich'egli ha conosciuto per esperienza esser vero l'altro secolo dopo la morte, ed ebbe molte visioni manifeste al senso esteriore, e gli demoni lo travagliarono e vollero ingannarlo, fingendosi angeli. Ed allora fece questa canzone, e si dedicò tutto alla religione vera. E predica agli altri che la sua sperienza è vera, e non di femminella né d'uomo deluso, ma di filosofo, ch'andò investigando questa verità, ed allora scrisse l' Antimacchiavellismo. 1 MADRIGALE

5

Credendosi i demòn malvagi e fieri indiavolarmi con l'inganni loro, benché con mio martoro, m'han fatto certo ch'io sono immortale; che sia invisibil più d'un consistoro ;2 che l'alme, uscendo, van co' bianchi e neri, e co' fallaci e veri, a cui più simil le fe' il bene e il male, che più studiàro3 in questa vita frale.

s

L 1 utilità, la quale e' cavò d'aver visto gli diavoli e trattato con esso loro, è ch'egli s'accertò che ci sieno anche degli angeli ed un'altra vita; e che però trattano con gli uomini, perché alla schiera de' L' Antimacchiavellismo è, come già fu notato, il libro che da Gaspare Scioppio ebbe poi il titolo di Atheismus triumphatus. Fu composto prima in italiano e poi rifatto in latino tra l'aprile 1605 e il giugno 1607. Qui l'autore lega l'idea di un tal libro colle esperienze di evocazioni diaboliche avute per mezzo di frà Felice Gagliardo, le quali, pur riuscendo ingannevoli quanto alla profezia, gli avrebbero formato nelPanimo la persuasione della esistenza di angeli e diavoli. L'asserzione si trova anche in Ath. triumph., cap. 10, Historia veri experimenti quod angeli et daemones sint, in Met., p. 111, lib. XII, cap. 2, e passim. 2. che sia ... consistoro: che esista più di un ordine di spiriti invisibili. 3. studiaro: vedi la Tavola delle emendazioni. 1.

906

TOMMASO CAMPANELLA

buoni o rei ha l'uomo d'aggregarsi dopo la morte, secondo a chi si fece simile di loro con le operazioni buone o rie. Appartenghiamo dunque ad un'altra vita. Se no, perché tratterebbono con esso noi? MADRIGALE 6

Altri spinge a servir Dio vii temenza, altri an1bizion di paradiso, altri ipocrita viso; ma noi, ch'è Primo Senno e Sommo Bene amabile per sé, tenemo avviso, a cui farci conformi è preminenza, bench'avessimo scienza che n'abbia scritti alle tartaree pene. Nel Primo Amor null'odio por conviene.

s

Che, datosi l'uomo al culto divino, non deve servir Dio per timore dell'inferno né per amor della gloria ch'aspetta; che questo servire è vile, di schiavo o di mercenario, secondo che dice san Bemardo. 1 Ma deve servire a Dio perch' è Sommo Bene, degno di sommo amore; e queste speranze debbono essere seconde, e non prime, secondo l'intenzione. E, se pure pensassimo andare all'inferno, e lo sapessimo, dovremmo servire a Dio, perché questo è il vero paradiso; se ben pure schifiamo l'inferno; perché chi s'accosta al Sommo Bene, non può cadere in male. 2

De dii. Dea, vn, 17. 2. Il concetto del madrigale è iperbolico e non ha riscontro, pare, in altre scritture del Campanella; quand'anche il frutto dell'amor di Dio fosse la dannazione, ancora sarebbe buono e doveroso all'uomo l'amor di Dio. Non è precorrimento della celebre tesi del quietismo, ma formulazione iperbolica dell'assoluta necessità morale del divino servizio, al quale non dovrebbe l'uomo sottrarsi quando pure, per impossibile, egli fosse per tale servizio riprovato nell'inferno. A simile formulazione iperbolica de impossibili ricorre il Campanella anche per rilevare l'eccellenza della virtù, insegnando che, se pure, per impossibile, l'anima fosse mortale, la vita virtuosa riuscirebbe all'uomo più beata che la vita viziosa. Cfr. per questo punto il mio Campanella, Brescia, La Scuola, 1947, p. 177. D'altronde la metafisica delle primalità colla dottrina dell'amor sui essenziale a ogni ente e coll'impossibilità di un amore gratuito è incompatibile con ogni forma di quietismo. La frase se be,1 pure schifiamo l'inferno è da intendere nel senso che il servizio di Dio, anche se fossimo sicuri di andare all'inferno, sarebbe ugualmente il vero paradiso, poiché in effetto, cosi facendo, anche schiviamo l'inferno. 1.

POESIE

MADRIGALE

7

Chi dagli effetti Dio conoscer brama per seco unirsi e lodarlo, sia certo, come in me sono esperto, delle sue colpe segreto perdono conseguire• e scienza dell'incerto. Dio osserva la pariglia: ama chi l'ama, e risponde a chi il chiama. Odia, disprezza il mal, sendo uno e buono; chi a lui si dona, lo guadagna in dono. a

5

Conchiude quel che ha provato, che Dio perdona i peccati e l'esaudisce, ed invocato risponde, ed insegna con più amore che il padre, e più presto3 che gli diavoli. E che noi non siamo intesi né veggiamo, perché trascuriamo il suo culto, e non lo chiamiamo per ben nostro e per vero amore, né ci diamo in tutto e per tutto a lui. Ma chi si dà a Dio, guadagna Dio e se stesso. MADRIGALE

8

Se mai fia ch'uomo ascolte queste sotterra ed in silenzio nate rime mie sventurate, pria che nascan, sepolte, pensier muti e costume; ch'io non ragiono a caso; ma sperienza e Nume e legge natural m'hanno persuaso.

s

Nel prender commiato dice che queste rime sono fatte in una fossa, e però sepolte avanti che nate; ed esorta le genti a mutar vita e sospetto, perché non si è mosso a parlar cosi, se non per esperienza, e per Nume divino che l'ha .insegnato, e per ragion naturale filosofica; e assicura tutti del vero. conseguire: vedi la Tavola delle emendazioni. 2. lo gr1adagna in dono: espressione profonda, per la quale l'autore intende notare come lo stesso venire nell'uomo della grazia divina non sia propriamente congruo acquisto, ma mero dono. Ed è concetto della teologia tomistica, alla quale sembra che nelle Poesie il Campanella si tenga più fedele che non nelle teoriche molinizzanti della sua Theologia. 3. e piri presto: vedi la Tavola delle emenda1.

zio11i.

908

TOMMASO CAMPANELLA

CANZONE A BERILLO DI PENTIMENTO

DESIDEROSO DI CONFESSIONE ECC.

FATTA NEL CAUCASO MADRIGALE I

Signor, troppo peccai, troppo, il conosco; Signor, più non m'ammiro 1 del mio atroce rnartìro. Né le mie abbominevoli preghiere di n1edicina, ma di mortai tosco fur degne. Ahi, stolto e losco! Dissi: - Giudica, Dio - , non: - Miserere. Ma l'alta tua benigna sofferenza, per cui più volte non mi fulminasti, mi dà qualche credenza che perdonanza alfin mi riserbasti.

s

10

Parla a Dio e riconosce quelli peccati, che gli parean atti meritorii.

Canzone a Berillo di pentimento desideroso di confessione ecc. fatta nel Caucaso. Insieme colla già citata Oratio ad Deu.m Deorum pro legatione sua del Reminiscentur è la rivelazione autobiografica più alta e commovente della tragica metabasi delPuomo dal titanismo della mentalità giovanile alla religiosità cattolica della sua maturità. La confessione della apostasia e dell'empietà è manifesta. Lo slancio di contrizione e di umiltà, con cui l'uomo risale il passo della caduta e si solleva oltre quello, risuona di intimità e di veracità. La parte centrale del carme, poeticamente meno vibrante, è però intrinsecamente necessaria all'insieme, poiché palesa il carattere radicale del conato calabrese, palliato con involuzioni e reticenze nelle altre scritture. Il carme risale ai primi mesi del 1606, l'anno dei messaggi a Paolo V, ali' Imperatore, ai cardinali per promulgare il nuovo disegno di riforma cattolica. Berillo è il padre Basilio Berillario di Pavia, che fu confessore e consolatore del Campanella nel carcere di Sant'Elmo tra il 1604 e il 1607 (vedi L. FIRPO, Ricerche campanelliane, Firenze, Sansoni, 1947, p. 36 sgg.). Il pseudonimo, derivato dalla pietra preziosa di tal nome, vale quanto «lente 11 od «occhiale», e allude alle qualità di penetrazione e di prudenza del confessore. - I. non m'ammiro: non vuol dire che non si stupisce più del suo martirio riconoscendolo per giusto, ma che non ammira più se stesso come faceva prima della conversione, esaltando dentro se stesso la propria indomita fortezza.

9o9

POESIE

MADRIGALE 2

Quattordici anni1 invan patisco (ahi lasso!), sempre errore accrescendo a me stesso, ed agli altri persuadendo ch'io per difender verità e giustizia da Dio, c'ho sconosciuto, sia qua basso, qual Cristo, eletto sasso2 a franger l'ignoranza e la malizia. Or ti vorrei pregar che, per discolpa di tanti errori, accetti tante pene; se non è nuova colpa chieder ch'agli empi guai segua alcun bene. MADRIGALE

10

3

Io merito in niente esser disfatto, Signor mio, quando penso l' opere prave mie e 'l perverso senso. Poi, mirando ch'io son pur tua fattura, che tocca riconciarla a chi l'ha fatto, ch'io bramo esser rifatto nel tuo cospetto nuova creatura, questa sola ragion sola mi resta. Onde sol fine al mio lungo tormento chieggio, non quella festa né del prodigo figlio il gran contento. MADRIGALE

s

5

IO

4

Io mi credevo Dio tener in mano, non seguitando Dio, ma l' argute ragion del senno mio, che a me ed a tanti ministrar la morte. Benché sagace e pio, l'ingegno umano

s

Quattordici anni: anche in questa canzone l'autore misura il tempo dei suoi travagli cominciando dal 1592, in cui ebbe il primo processo in Napoli. · 2. eleÙo sasso: allusione a Ephes., 2, 20. I.

910

TOMMASO CAMPANELLA

divien cieco e profano, se pensa migliorar la comun sorte, pria che mostrarti a' sensi suoi, Dio vero, e n1andarlo ed armarlo non ti degni, come tuo messaggiero, di miracolo e pruove e contrassegni.

IO

Niuno deve predicare novità o cose donde pensa che s'abbia a migliorare la Repubblica, se da Dio visibilmente non è mandato e, come Moise, armato di miracoli e contrassegni, ecc. MADRIGALE

5

Altri il demonio, altri l'astuzia propia spinse a far cose nuove, permettente Colui che '1 tutto muove, 1 per ragion parte chiare e parte oscure. Laonde chi di senso ha maggior copia, spesso sente più inopia, empiendosi di false conghietture, che i divi ambasciator sien anche tali; e la bontà di Dio, che condescende e si mostra a' mortali, disconosce, discrede e non intende.

3

IO

Come quelli che predicarono novità, non tutti furon da Dio mandati, ma dal demonio, come Maometto e Minos; altri dalla prudenza, come Pitagora, ecc.; onde molti pensano che anche Moise e gli profeti sieno cosi venuti, e s'ingannano. MADRIGALE

6

Osserva, uomo, osserva quella legge, nella qual nato sei: prencipe e sacerdoti sienti dèi, e i lor precetti divini, 2 quantunque Altri ... m"ove: che dei legislatori di religioni altri abbiano missione da Dio, altri sian mossi da astuzia o senno, ed altri infine da inganno diabolico, è dottrina del Campanella in Met., proemi"m, in Ath. triumph., cap. 13 e in Theol., lib. xiv, cap. 5, art. 2. 2. precetti ti siano divini. 1.

POESIE

911

paiano ingiusti a te ed a tutto il gregge; 1 se Dio, per cui si regge, 2 diluvi, incendi e ferro usa, quandunque3 par giusto, e cosi que' ministri d'ira. 4 Dove Dio tace e vuole, taci e vogli; con voti al porto aspira, schifando via, non offendendo, 5 i scogli.

s

10

Che l'uomo deve comportare i tiranni, mentre da Dio sono permessi, il quale usa questi flagelli e fuoco e peste e guerra; e dove non ti dice altro, sta chieto, prega, ecc., e non ti mettere ad aiutare con novità, ecc. MADRIGALE

7

Chi schernisce i decreti, ovvero ammenda, 6 o col peccato scherza, o di quel gode, o per la prima sferza da errar non fugge più che dal colubro, o l'occulta giustizia7 non gli è orrenda, costui misero intenda ch'è preso all'ami; e que' ch'al lido rubro ostinati perir, giungi al mio esempio.8 Quanto ha il peccato in sé bruttezza e puzza pria non conosce l'empio, che, qual Antioco, 9 inverminisce e puzza.

s

10

1. q11a11tunq11e . .. gregge: in questo madrigale gli spiriti dell'autore, dopo le altere clazioni del periodo giovanile, calano per contrappasso a una soggezione troppo abbandonata verso la fatalità divina. 2. per cui si regge: cfr. Prov., 8, 15: a per me regnant reges etc.». 3. quandunque: ogni volta che (latino quandoc,mque). 4. e così ... d'ira: cosi similmente usan quei flagelli i potenti della terra, i quali sono ministri della collera divina. Per il concetto cfr. Rom., 13 1 3-6. 5. offendendo: urtando (latinismo). 6. ammenda: pretende correggere. 7. l'occulta giustizia: è l'interiore verme del malvagio. 8. e qlle' ... esempio: gran balzo dalla vicenda personale alla catastrofe esiziale di tutta una nazione. Sulla sommersione degli Egizi nel Mar Rosso vedi Ex., 14 1 26. 9. Antioco, persecutore delle libertà religiose del popolo ebreo, finì per schifoso morbo di vermini, secondo narra Il Mach., 9, 10: •Et ermi iam nec ipsefoetorem s1mmferreposset, ita ait: - l11stmn est subditum esse Deo, et mortalem 110n paria Deo sentire» ( a E non potendo egli stesso sopportare il proprio fetore, disse: - È giusto star soggetto a Dio e non pareggiarsi a lui, essendo mortale»).

912

TOMMASO CAMPANELLA

8. Grande avvertimento e chiaro. I I. Mira quando uno empio arriva a conoscer il peccato. MADRIGALE

8

Ma tu quei miri, che peccano impune, lieti e tranquilli sempre; ma non penètri le segrete tempre dell'uomo interior, e però sparli; ché forse è di quel mal, 1 che pensi, immune; o pene ha più importune, sdegno, sospetto, zelo, interni tarli; né guardi il fine, né le divine ire, quanto più tarde, tanto più gagliarde. O ciò ne forza a dire: - Necessario è l'inferno, che sempre arde.

s

10

Nota che non segue, perché non si vede la pena de' malvagi, che però ella non ci sia, sendo o occulta o futura; o e' non sono tristi come a te pare. O vero questo è, perché conosciamo che ci resta la giustizia dell'altro secolo, e crediamo l'inferno, ecc. MADRIGALE

9

Tardi, Padre, ritorno al tuo consiglio, tardi il medico invoco; tanto aggravato, il morbo non dà loco. Quanto più alzar vo' gli occhi al tuo splendore, più mi sento abbagliar, gravarmi il ciglio. Poi con fiero periglio dal lago inferior tento uscir fuore con quelle forze, che non ho, meschino. Meschino me, per me stesso perduto: ché l'aiuto divino, che sol salvarmi può, bramo e rifiuto!

s

10

Mira come la risoluzione di viver bene è impedita da' mali abiti, come cerca con la prudenza umana uscir da quel male, donde non può umanamente. I.

quel mal: il peccato, di cui tu lo credi macchiato e impunito.

POESIE

91 3

MADRIGALE IO

Desio di desiar tue grazie tengo, certa, evidente vita, 1 quando voglia possente a te m'invita, e quando è fiacca, avaccio2 sento il danno; su l' aie del voler non mi sostengo rotte e bagnate. Vengo a que' favor, che sì pregar mi fanno: - Deh! pregate per me voi, ch'io non posso, voi, Piero e Paolo, luminar del cielo, 3 Radamante e Minosso della celeste legge e del Vangelo.4

s

10

Vedendo che ha il desiderio di desiderare, ma non del desiderato aiuto, e che quando si movea a Dio, subito sentia aiuto; e quando la voglia era lenta, sentia il danno, si risolve di dirnandare aiuto, ecc. MADRIGALE I I

Merti non ho per quelli gran peccata, che contra te ho commesso. Madre di Cristo, e voi che state appresso, spirti beati, abitator del lume che 'l mondo adempie5 e sol la terra ingrata

s

1. certa, evidente vita è oggetto di sento del v. 4. 2. avaccio: tosto, subito. 3. Deh! ... cielo: per l'invocazione dei santi Pietro e Paolo e il sentimento del Campanella circa l'intercessione dei beati è notevole questo luogo del Quod reminiscentur, lib. I, Responsiones super Epistola antilutherana p. 170 (Padova, Cedam, 1949): •Ego fateor me, dum peccata mea considero, non audere ad Deum accedere, nisi accitis patroni.s Petro et Paulo et Dominica: attamen quando meliuscule conscientia valet, aut in trib11latione nimia agito,, ad Deum subito potentiuimum, sapientissimum et amorosissimum, cuius opera investigans f actorem inveni, semper confugio » (•Io confesso che quando considero i miei peccati, non oso presentarmi a Dio senza prima invocare i miei patroni Pietro, Paolo e Domenico, ma quando la mia coscienza è in migliore stato oppure son travagliato da una grave tribolazione allora mi volgo direttamente a Dio potentissimo, sapientissimo e amorosissimo che io trovai creatore dell'universo studiando le opere sue»). 4. Radamante .•. Vangelo: Radamante e Minosse sono i mitici custodi della giustizia divina nel regno delle anime. 5. adempie: riempie, e quasi completa.

58

TOMMASO CAMPANELLA

ancor non ha purgata; prego contra ragion, contra il costume, ch'al vostro capitai fiero inimico impetrate da lui qualche perdono, ch'a' peccator fu amico; poiché tra gli empi il maggior empio io sono.

10

MADRIGALE 12

Ah come mi sta sempre innanzi agli occhi! come mi fere e punge I come l'alma dal corpo mi disgiunge, e la fiducia dall'alma mi svelle il gran fallo mio, gli atti miei sciocchi! - Tu, che mi senti e tocchi, aria, tu, vivo ciel, voi, sacre stelle, e voi, spirti volanti dentro a loro, ch'or m'ascoltate, ed io non veggio voi, mirate al mio martoro; di voi sicuri, pregate per noi. MADRIGALE I

5

JO

3

Canzon grave e dolente delle mie iniquitati, corri a Berillo vivo, da Dio eletto a purgar l'alme da' brutti peccati. Di' che la mia si pente; ch'e' faccia il sacro effetto/ invocando per me l'Omnipotente.

s

Berillo è don Basilioa di Pavia, di santità e carità ed amicizia singolare con esso lui.

il sacro effetto: l'assoluzione sacramentale. delle emendazioni. 1.

2.

Basilio: vedi la Tavola

POESIE

DELLA PRIMA POSSANZA

Canzone. MADRIGALE I

Le potestati umane tanto m'hanno travagliato, ch'omai vengo a pensare, ch'io peccai contra te, Possanza Prima; però che di Saturno più d'un anno 1 tutto del Senno Primo a contemplare mi diedi, e al Primo Amor volsi ogni rima, di te tanto scrivendo quanto per lor ti intendo, di cui dovevo far principal stima.z Or io volgo il mio stile alla tua dignitade, perdon chiedendo umile ed aiuto, o Suprema Podestade.

s

10

Dovea l'autore, per ordine metafisico, scrivere della Prima Possanza avanti che del Primo Senno. Ma non ne parlò mai, se non in questa canzone, pentitosi d'aver in trenta anni, ch'è l'anno satumino, scritto e parlato solo d'Amore e del Senno. Ed ora chiede perdono e domanda aiuto alla Possanza dentro la stessa fossa ecc.

Della Prima Possanza. Più che in ogni altro canne filosofico del Campanella l'astratteggiare consumatissimo dei teoremi rilutta alla trasfigurazione e sinanco alla contaminazione poetica. Che l'autore, mancando al voto dell'ultimo madrigale, non abbia fatto continuazione alla presente canzone, è bene un indizio del fine avvertimento che era in lui. Anche l'elocuzione è in questo componimento meno accurata e originale. Fu scritto nella fossa di Sant Elmo nel luglio 1607. - 1. di Saturno più d'un anno: l'anno satumino essendo di 29 anni, il Campanella viene a dire che, benché egli poetasse dai nove anni di sua età, aveva sino a quel momento cantato soltanto la seconda e la terza primalità. 2. di te ••• stima: scrivendo della Potenza solo indirettamente, in quanto essa gli si rivelava attraverso la Sapienza e l'Amore (per /or), quantunque di essa avrebbe dovuto far considerazione precipua, che è la prima e fondamentale delle tre essenzialità. 1

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TOMMASO CAMPANEI.LA

MADRIGALE 2

Dove manca possanza, il patimento, ch'al non esser le cose sempre tira, abbonda, 1 e 'l caso avverso, ed ogni male; onde io tant'anni mi truovo scontento. A te, Valor, dunque, oggi alzo la mira a cui soggiace ogni forza fatale: ché 'l Senno e l'Amor pio, com'or ben confesso io, senza la tua difesa poco vale. Può amar chi ha potenza e sa chi può sapere, ed è chi aver può essenza; dunque, ogni quiddità vien dal Potere.

s

10

4. I guai che vengono per mancanza di Potere. 13. t pruova che dal Potere viene l'Essere, l'Amare e 'l Sapere. MADRIGALE

3

L'intrinseco poter fa che sossista ogn'essere; e l'estrinseco il difende, si è d'altri, o parte, e non da sé, né tutto/' Sta il mondo e gli enti magni in questa lista,

Dove . .. abbonda: la passività e il patimento, secondo la metafisica dell'autore, sono espressione di impotenza e inclinano gli enti verso il nonessere. Cfr. Met., p. 11, lib. x, cap. 3, art. 1. :i. L'intrinseco ... tutto: come vi ha una sapienza innata, onde ciascun ente conosce il proprio essere, e una sapienza illata, onde conosce gli oggetti estrinseci, cosi vi ha una potenza innata, onde ciascun ente può essere se stesso, e una potenza illata, onde può l'altro da sé. Per la potenza intrinseca, identica colla sussistenza, l'ente sussiste, per la potenza estrinseca invece esso opera sugli altri o patisce dagli altri in vista della conservazione. Soltanto in Dio non si dà potenza estrinseca, poiché egli non ha cosa alcuna estrinseca su cui agire e da cui patire. Il mondo ha potenza intrinseca perché è un tutto, fuori del quale non è ente alcuno, ma l'ha ricevuta da Dio. Le cose del mondo hanno potenza intrinseca, identica col loro essere, e potenza estrinseca, in quanto danno e ricevono, come parti, dalle altre cose del mondo. Cfr. Met., p. u, lib. v1, cap. s e 6. 1.

917

POESIE

a cui precede chi da nulJo pende, Dio, che interno valor solo ha per tutto. Ma può, se poter vuole e se poter sa; e suole (in sé volgendo quel che 'n lui è produtto) saper, se puote ed ama; e voler, se può e sape. Dunque «tre in un» si chiama, e distinzion d'origine sol cape.

s

10

Ha bisogno di poter estrinseco chi è parte e non tutto, o procede d'altri e non da sé. Intrinseco l'ha il mondo, e forse gli angeli in parte: se bene da Dio hanno l'essere, e 'l potere per conseguenza, pure possono sempre essere, per quel che Dio gli donò essere, come totale e come da sé. Ma Dio solo è vero potere interno. Ma, perché Dio può volendo e sapendo, e sa potendo e volendo, e vòle potendo e sapendo, per questo è in tre uno, e solo si distingue per le relazioni d'origine. Vedi questa sottile disputa nella seconda parte della Metafisica1 dell'autore. MADRIGALE

4

Possanza e Senno producono Amore unitamente; e però tutte cose aman l'esser, però che sanno e ponno, ma sanno perché panno solo. Autore dunque del Senno primo ben si pose il primario Poter, degli enti danno. Ma, perché regge amando, ed opera insegnando, e l'esser, quando è desto e quando è in sonno, d'essi tre si compone, saran tre preminenze, d'ogni effetto e cagione semplici metafisiche semenze.

s

10

L'Amor procede dalla Conoscenza e dalla Potenza, ,ma la Conoscenza dalla Potenza. Dunque la Potenza precede tutte le primalità metafisiche; ma, perch'essa non è Potenza senza Senno e senza Amore, 1.

Cfr. Met., p.

11,

lib.

VI,

cap. 6, art. 9.

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TOMMASO CAMPANELLA

però sono tutti tre preminenze, e semi, e cause metafisicali di tutte le cause e causati fisici, ecc. Vedi la 1'1etafisica. MADRIGALE

5

È, ciò ch'è, perché puote, sape ed ama; non è, quel ch'esser non può, ignora o abborre, per sé, o per forza d'altri, o del Primo Ente, ch'è monotriade. E quel ch'all'esser chiama/ partecipando tre eminenze, corre, pur limitato sempre dal niente, ali' esser suo finito, che sta in quello infinito esser, eterno, solo, independente, che creò, come base d'ogni essenza seconda, lo spazio, immenso vase, ch'è penetrato, penetra e circonda.

s

ro

Pruova che l'essere viene dal potere, sapere ed amare, e 'I nonessere dal nonpotere, nonsapere ed odiare per sé, ma dal Primo Ente per accidente, in quanto toglie il potere o il sapere o l'amore, ma non lo annichila. E che, nascendo da lui, piglia ogni ente partecipazione di queste tre primalità; ma, finite, vengono a lui per la partecipazion del niente, che ha le sue opposte primalità; e che pure l'ente nato sta nel Primo Ente, e non fuori. E che il luogo è base dell'essere delli secondi enti, che penetra incorporalmente, e penetrato è2 corporalmente e cinge tutto. MADRIGALE

6

Quando di contener virtù donasti al luogo, e dal tuo Senno senso prese, e dall'Amor amor di farsi pieno, la gran mole corporea ingenerasti,3 delle virtuti agenti atta all'imprese,

5

quel ch'all'esser chiama: quello che il Primo Ente chiama all'essere. penetrato è: vedi la Tavola delle emendazioni. 3. Quando . .. ingenerasti: secondo il Campanella anche lo spazio, essendo ente, è dotato di senso e di amore. Cfr. Del senso delle cose, lib. 1, cap. J 2. 1. 2.

919

POESIE

in due triadi consimili a quel seno. Poscia i maschi, possenti, che di lei due elementi, cielo e terra, formaro: e del più e meno di lor gare e rovine ogni mistura uscìa, Dio influendo a tal fine Necessitate, Fato ed Armonia.

10

Dice come Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza ed Amore; e che dentro a quello pose la materia, ch'è la mole corporea, consimile al seno, cioè al luogo, in due triadi, cioè nel potere, sapere ed amare, e nella lunghezza, larghezza e profondità ecc. Nella materia poi Dio seminò due maschi principii, cioè gli attivi, caldo e freddo, perché la materia e 'I luogo sono femmine, passivi principii. E questi maschi d'essa materia divisa, combattendo, formiro due elementi, cielo e terra, gli quali combattendo tra loro, della languida fatta virtù loro nascono i secondi enti, per guida avendo della generazione le tre influenze, Necessità, Fato e Armonia, che portan l'Idea. MADRIGALE

7

La vita, agli enti vari che seguiva, 1 era virtute, in quanto da te nacque. Ma quel che dal non esser timor venne, a ogni vizio produsse, e la nociva ragion di Stato, e poi 'I mal proprio piacque, che 'I senso indi impotente a ciò s'attenne. Ma, se ti svegli3 ornai, in meglio muterai natura madre e i figli, come accenne.4 L'impotenza e 'l peccato torrai da' senni umani;

s

10

1. La vita .•. seguiva: la vita è l'oggetto della potenza: perciò dice il Campanella che essa conseguiva alla costituzione dei vari enti. 2. Costruisci: quel timor che venne dal non esser. 3. ti svegli: modo biblico, frequente nei Salmi. 4. come accenne: allude ai segni celesti, indagati negli Articuli prophetales e in altre scritture, preannunzianti la palingenesia universale.

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TOMMASO CAMPANELLA

tutti in un lieto stato gl'imperi adducerai vari profani. Che la virtù venga dall,entità, che sono Valore, Senno ed Amore, e gli vizi dal timore del nonessere, perché da questo è nata la pugna degli elementi, e poi la ragion di Stato, ogni ente volendo esser sempre, e distruggere quel che l'impedisce l'essere in qualche modo. Quindi piacque a tutti il proprio male, perché il senso, partecipando il nonessere proprio, non conosce gli altri modi d'essere, e crede solo il suo essere ottimo, e sprezza per il suo anche il divino essere. Poi dice alla Prima Potenza che si pieghi a migliorare la Natura e gli enti naturali, e levar l'impotenza, l'ignoranza ed odio, onde nasce il peccato; e condurre il mondo sotto una legge e uno imperio, perché cosi cessa la ragion ria di Stato. MADRIGALE

8

Darai alla vita di durar virtute, 1 forza alla legge, che 'l gran Senno mise, vigor all'amicizie, d'amor prole. Senza te, gli enti han le bontà perdute; venner l'insidie e l'unità divise,~ ch'invidia partoriro e false scuole: timidità e pigrizia, sconfìdenza, avarizia, viltate e crudeltà, che starsi sole non san l'una dall'altra. Ma, dove è tua fortezza, ogni natura è scaltra, né teme il male, onde di farne sprezza.

s

IO

Mirabilmente mostra come, tornando il Valore, dona vita all'essere da lui nato, forza alla legge nata dal Senno, vigor all'amicizia nata d'Amore. E che la bontà è perduta per mancamento di essa potenza senza valore; perché chi non ha valore, s'appiglia all'insidie; e la divisione, che disunisce lo essere e la possanza, genera invidia fra gli enti impotenti e divisi, e diverse sètte e scuole false. Poi il timore, la pigrizia, la sconfidenza, l'avarizia, la viltà, che sempre è accompagnata con la crudeltà, perché teme da ogni cosa e vorrebbe tutti gli enti 1. Darai . . • virtute: nel secolo aureo torneranno le schiatte alla longevità primitiva. a. l'unità divise non sono vere unità.

POESIE

921

morti ed estinti, perché non gli dien paura. Ma dove ci è valore, v'è industria e coraggio, e chi non teme il male d'altri, neanche ne fa ad altri. Nota che da' mali degli elementi passa a' mali degli uomini, perché questi in quegli si fondano. MADRIGALE

9

Canzon, di al Poter Primo che per mancanza sua sto in tal paura, che meditar non posso la Scrittura. Traggami da questo imo inferno. Ed in effetto, se tutto il mio soggetto ei non sarà, me stesso empio condanno da mò al perpetuo lagrimoso affanno.

s

Scrisse nella fossa questa canzone, e non tanto lunga quanto quella d'Amore e del Senno, perché stava quasi disfatto. E promette, uscendo, complire; e n'è uscito otto mesi dapoi, se bene ci stette tre anni ed otto mesi. Non so se ha poi serbato questo voto, se bene so che in Metafisica scrisse assai della Potenza e di Dio cose altissime.

DELLA PROVIDENZA Sonetto.

La fabbrica del mondo e di sue parti, e di lor particelle e parti loro gli usi accertati, il mirabil lavoro pòn, saggio Autor, buon senza fin provarti. Poi gli abusi de' bruti e di nostre arti, de' mali il gaudio e de' buoni il martora, l'errar ciascun dal fine, a me ch'ignoro, dicon che 'l fabbro dal rettor s'apparti. 1 Possanza, Senno, Amor, dunque, infinito commette altrui il governo e si riposa; dunque si invecchia o si fa negligente ?

s

ro

Della Providenza. - 1. che 'lfabbro .. . s'apparti: che il creatore del mondo sia altro dal reggitore, dal momento che le creature, pur fatte con arte, trasviano nelle loro operazioni.

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TOMMASO CAMPANELLA

Ma un solo è Dio, da cui sarà finito tanto scompiglio, e la ragion nascosa aperta, onde peccò cotanta gente. Dice in questo mirabile sonetto, che la costruzione del mondo e delle parti e l'uso loro mostrano che sia Fattor loro un infinito Senno ottimo. Ma poi gli abusi de' bruti e nostri ecc. mostrano ch'altro ci governi men savio principe. E questo Io dice dubitando. E poi argomenta che non può essere. E conchiude che questi mali sono per qualche disegno di Dio, e che saranno da quello tolti, e levato l'argomento donde pecca Epicuro e tanti filosofi e nazioni intere.

DELLA POSSANZA DELL'UOMO

Gloria a colui che 'l tutto sape e puote! O arte mia, nipote - al Primo Senno, fa' qualche cenno - di su' immagin I bella, ch'uomo s'appella. Uomo s'appella chi di fango nacque, senza ingegno soggiacque, - inerme, ignudo : patrigno crudo - a lui parve il Primo Ente, d'altri parente. 2 D'altri parente, a' cui nati die' forza bastante, industria, scorza, - pelo e squame. Vincon la fame, - han corso, artiglio e corno contro ogni scorno. Ma ad ogni scorno l'uomo cede e plora; del suo saper vien l'ora - troppo tarda; ma si gagliarda, - che del basso mondo par dio secondo.3

s

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I

s

Della possanza dell'uomo. Il motivo della eccellenza della creatura umana, altamente trattato nella presente saffica, trovasi svolto parimenti in ispirate pagine del Senso delle cose, lib. n, cap. zs, e in due ampie trattazioni dell'Atlieismus, cap. 7, e della Metaphysica, p. 111, lib. XIV, cap. 2, art. I. Il carme fu composto in Castel Sant'Elmo nel 1606. - I. su' immagi11: reminiscenza di Gen., 1, z6 e 9, 6, da cui derivano molti concetti de!Pantropologia patristica e scolastica. z. parente: padre. 3. Ma .. . secondo: il concetto deriva da Mercurio Trismegisto, come appare da Met., p. 111, lib. xv, cap. 3, art. 1, ma è notevole che mentre nel luogo citato dio secondo è il mondo, e l'uomo soltanto dio terzo, qui al contrario la creatura umana

POESIE

E, dio secondo, miracol del primo, egli comanda all'imo, - e 'n ciel sormonta senz'ali, e conta - i suoi moti e misure e le nature. 1 Sa le nature delle stelle e 'l nome, perch'altra ha le chiome,2· - ed altra è calva; chi strugge o salva3 - e pur quando4 l'eclisse a lor venisse, quando venisse all'aria, all'acqua, all'humo. Il vento e 'l mar ha domo, - e 'l terren globbo con legno gobbo5 - accerchia, vince e vede, merca e fa prede. Merca e fa prede; a lui poca è una terra. Tuona, qual Giove, in guerra - un nato inerme ;6 porta sue inferme - membra e sottogiace cavallo audace. Cavallo audace e possente elefante; piega il leon innante - a lui il ginocchio; già tirò il cocchio - del roman guerriero: ardir ben fiero! Ogni ardir fiero ed ogni astuzia abbatte, con l'or7 s'orna e combatte, - s'arma e corre. Giardino, torre - e gran città compone e leggi pone. Ei leggi pone, come un dio. Egli astuto ha dato al cuoio muto8 - ed alle carte di parlar arte; - e che i tempi distingua dà al rame lingua. 9

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3S

venga inalzata sopra il mondo, come dio del mondo. Che il pensiero circolasse nella Rinascenza appare per esempio da F. DONI, I mondi (Venezia, Farri, 1567), p. 2: « Onde quesehuomo, Mondo picciolo, s,è accostato al Mondo grande, quale è questa machina che si vede, et cercato d'unirsi con il Mondo Massimo, Iddio onnipotente.» Vedi la Tavola delle emendazioni. 1. le nature celesti, cioè gli astri. 2. altra ... chiome: significa la cometa. 3. altra . .. saltJa: allude agli influssi benigni o funesti degli astri. 4. quando: dipende da Sa del v. 21. 5. gobbo: ricurvo (epiteto omerico di nave). 6. un nato inerme: intendi: un essere che nacque inerme. 7. con l'or: vedi la Tavola delle emendazioni. 8. cuoio muto: la pergamena. 9. e che ... lingua: allude al congegno degli orologi.

TOMMASO CAMPANELLA

Dà al rame lingua, perch'ha divina alma. 45 1 La scimia e l'orso han palma, - e non sì industre, che 'l fuoco illustre - maneggiasse; ei solo s'alzò a tal volo. S'alzò a tal volo, e dal pianetaa il tolse; con questo i monti sciolse, - ammazza il ferro, so accende un cerro, - e se ne scalda e cuoce vivanda atroce; vivanda atroce d'animai che guasta. 3 Latte ed acqua non basta, - ogn'erba è seme per lui; ma preme - l'uve e ne fa vino, 55 liquor divino. Liquor divino, che gli animi allegra. Con sale ed olio intègra - il cibo, e sana. Fa alla sua tana - giorno quando è notte: 6o oh, leggi rotte! Oh, leggi rotte! ch'un sol verme sia re, epilogo, armonia, - fin d'ogni cosa. O virtù ascosa, - di tua gloria propia pur gli fai copia. 4 Pur gli fai copia, se altri avviva il morto; 65 passa altri, e non è assorto, s - l'Eritreo; canta Eliseo - il futuro; Elia se 'n vola alla tua scuola ;6 alla tua scuola Paolo ascende, e truova con manifesta pruova - Cristo a destra 70 della maestra - Potestade immensa. Pensa, uomo, pensai Pensa, uomo, pensa; giubila ed esalta la Prima Cagion alta; - quella osserva, perch'a te serva - ogn'altra sua fattura, 75 seco ti unisca gentil fede pura, e 'I tuo canto del lor vada in più altura.

1. palma: mano. 2. dal pianeta: dal sole (antonomasia). 3. guasta: macella (latinismo). 4. di tua gloria •.. fai copia: colla grazia Dio comunica all'uomo la sua propria gloria. 5. assorto: inghiottito. 6. Elia . •. scuola: fu assunto in cielo. Cfr. IV Reg., 2, 8 sgg.

POESIE

8. L'uomo, fatto ad immagine di Dio, nasce senza senno e senza forza e senza vesti e senza arme, le quali son concedute alle bestie dalla Natura. Dunque, par figliastro di Dio; e gli altri, figli. 16. Ma poi, quando mette senno, diventa dio del mondo. 20. E mostra la sua divinità in comandar a tutte cose terrene e marine, e di più ascendere in cielo con la matematica, e saper le nature e moti e misure delle cose celesti. 23. La divinatoria è segno della divinità umana. 37. L'uomo vince l'astuzia e la forza degli animali solo col senno. 44. Il far parlare le carte, scrivendo, e gli orologi fu pur segno d'ingegno divino. 48. Dice che l'uomo non facci ciò per la mano ch'e' ha, ma per lo senno; poiché le sci.mie ed orsi hanno mano, e pure non trattano il fuoco. E questa arte è propria del senno solo, per segno che l'uomo non ha l'anima dal fuoco, ma più divina. s3. Mangiar carne è pasto fiero, disse Pitagora. 64. Fare miracoli è proprio di Dio; e pure ciò ha concesso all'uomo; e così l'andare in cielo. 77. Finalmente dice all'uomo che conosca la propria nobiltà, e che s'unisca a Dio, se vuole essere signore di tutte le cose create, sendo amico d'esso vero Signore. E però dobbiamo lodarlo più che le altre creature, perché siamo di loro più nobili, ecc. SALMODIA

CHE INVITA LE CREATURE IN COMMUNE E GLI PRIMI ENTI FISICI A LODAR DIO

Belle, buone e felici e senza ammenda, onde laude si renda - al Creatore, che tanto amore - ed arte in farle pose, son tutte cose. Voi, tutte cose, a celebrar invito Colui, che n'ha largito - ciò che siamo, poi che eravamo - nulla. E per memoria, cantiamo in gloria. Cantiamo in gloria Dio, Prima Potenza, Dio, Prima Sapienza, - Amor Primero, Ben vivo e vero, - senza fin giocondo. Cominci il mondo,

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IO

Salmodia che _invita le creature in commrme e gli primi enti fisici a lodar Dio. Spiriti e cronologia come della precedente.

TOMMASO CAMPANELLA

cominci il mondo, statua altèra e degna1 di lui che sempre regna - e gran trofeo, di ciò che feo - armario sacrosanto, un nuovo canto. Di' un nuovo canto tu, che l'universo penetri, ad ogni verso - penetrato, spazio, al creato - esser base immota, che giace o mota. 2 Se giace o mota, la corporea mole, unita o sparta, cole - l'alta Idea, per cui si bea - di forme ognor novelle, soavi e belle. Soavi e belle pompe del gran Dio, lodate il vostro e mio - Signor, di cui uscendo nui, - fu il tempo, eh' è il successo3 degli enti, espresso. Fu agli enti impresso anche 'l vigor nativo che dal nascer descrivo - poi Natura,4 interna cura - ed arte, che dà loro quel Dio ch'adoro. Quel Dio, ch'adoro, a voi laudar conviensi, calor e freddo, immensi - di possanza, per cui sostanza, - guerreggiando, fue partita in due. 5 Partite in due dunque i vostri accenti, magnifici elementi, - Cielo e Terra, dalla cui guerra - poi nasce ogni misto, che Dio ha provvisto.

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I. statua ... degna: cfr. Del senso delle cose, tit. 2. al creato ... ,noia: lo spazio è base immota a ogni essere creato, il quale sta o si muove (nrota). 3. sr1ecesso: il tempo è la successione e vicissitudine dell'essere creato. Cfr. Theol., lib. 1, cap. 7, art. 2. 4. vigor ... Natura: la forza costitutiva, che essendo data nel nascimento della cosa io descrivo poi come natura di essa. La natura poi è l'arte intrinseca agli enti, così come l'arte è una sorta dinatura estrinseca. Cfr. Met., p. 1, lib. 11, cap. 1, art. 2. 5. calor . .. dtle: la materia, per l'azione delle due cause attive, caldo e freddo, tra di loro pugnanti, fu divisa in due primi corpi, che sono il cielo e la terra, e da questi due, per il medesimo antagonismo, si generano tutti i corpi secondi.

POESIE

Dio ha provvisto che l'un porti '1 giorno, l'altro la notte, intorno - raggirando, manifestando - il Creator sovrano di mano in mano. Di mano in mano, voi, tenebre e luce, cantate il sommo Duce, - e voi, quiete e moto, avete - parte in tanto carme per più svegliarme. Per più svegliarme, raro e denso, estreme tempre, mentre uno teme - e l'altro spera, prendete sfera - di sorti diverse, e cause avverse. 1 Fra cause avverse e simili, adornate, Fato, Necessitate - ed Armonia, che Dio v'invia - in ogni parte e tutto ciò che ha costrutto. Ciò che ha costrutto in Dio si sta e si muove, e con secrete pruove - ancora sente la Prin1a Mente - e, come sa, l'adora; ed in lui vive, benché par che mora, grazie a Colui che sempre mi ristora.

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5. Parla a tutti in commune. 12. Parla al mondo. 17. Al luogo in cui sta il mondo. 21. Alla materia, divisa in Cielo mobile e Terra immobile. 25. All'idee e forme degli enti. 28. Del tempo e sua quiddità. 30. Della natura e sua quiddità. 34. A' duo principii attivi, che fecero i due elementi della sostanza materiale. 38. A' due elementi, da' quali nascono gli elementati. 42. Che 'l Sole o Cielo, padre elemento, fa il giorno; e la Terra, elemento femmina, la notte. 45. Alle tenebre e luce, vòlte della Terra e del Cielo. 48. Alla quiete e moto, operazioni de' predetti elementi. 1. Per più ... aflverse: raro e denso, che sono le disposizioni opposte della materia, occupano sfere opposte agenti con causalità opposta, mentre il denso corpe per timore si ristringe, e il raro, come per speranza, tutto si dilata. Cfr. Quaest. phys., q. xx, art. 8.

TOMMASO CAMPANELLA

49. Al raro e denso, disposizioni degli elementi, gli quali tutt'e due rotondi: il Cielo per moversi, e la Terra per fuggir dal Cielo, cd anche per unir il valore. Vedi la Filosofia. 1 54. Alle tre influenze, Fato, Necessità ed Armonia, che modellano ogni tutto e parte degli enti per l'Idea. 61. Conchiude ch'ogni ente sta in Dio e conosce Dio 'bel suo modo, chi naturale, chi razionale, chi più, chi meno, ecc.; e cosi l'adorano, e non muoiono mai, ma solo si trasmutano, vivendo sempre in lui.

SALMODIA CHE INVITA IL CIELO E LE SUE PARTI ED ABITATORI A LODAR DIO BENEDETTO

Dal ciel la gloria del gran Dio rimbomba: egli è sonora tromba - a pregi tanti; i lumi stanti - e que' eh' errando vanno, musica fanno. Musica fanno per ogni confino, dove il calor divino - il ciel dispiega, 1 ed Amor lega - tante luci, e muove altronde altrove. 2 Altronde altrove tutti van correndo, te, Dio, benedicendo - e predicando, dolce sanando, - ch'ogni moto è suono, . . come 10 ragiono. Cosi io ragiono. Ahimè! ch'udir non posso; ch'innato rumor grosso - è, che m'occùpa l'orecchia cupa, - ed un molino vivo me ne fa privo. Se mi fa privo, voi, spiriti eletti, che non siete soggetti - a corpo sordo, fate un accordo - al suon di tai strumenti co' vostri accenti. J.

Per Filosofia intende l'Epilogo Magno, al lib.

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XXIII.

Salmodia che invita il cielo e le sue parti ed abitatori a lodar Dio benedetto. 1. il ciel dispiega: reminiscenza biblica, cfr. lob, 9, 8. 2. altronde altrove: latino alio aliunde. Vale: alcune da un luogo ad un altro, e altre da altri luoghi ad altri.

POESIE

Co' vostri accenti, sacri, intellettuali, d'una spiegando l'ali - in altra stella, vostra favella - Santo, Santo, Santo I dicete intanto. Dicete intanto, ardenti Serafini, sagaci Cherubini, - e giusti Troni, Dominazioni, - Virtù e Potestati e Principati; principiate, Arcangeli; e seguite, Angeli, che venite - a darmi aiuto. Da voi, perduto - il corpo, in cielo accolte son l' alme sciolte. O alme sciolte, o patriarchi grandi, profeti venerandi, - in cortesia, la salmodia - di Davide canoro dicete in coro. Dicete in coro, apostoli, eh' è1 il mondo vinto e reso fecondo - di virtuti, e risoluti - fatto avete noi di seguir voi. z Di seguir voi gli martiri non tardi, con l'animo gagliardi - e sparso sangue, fan che non langue - la musica nostra nell'alta chiostra. Dall'alta chiostra, con varie dottrine, anime pellegrine - confessare odo per mare, - per terra e per cielo vero il Vangelo. Vero il Vangelo voi, vergini caste, virilmente provaste - a chi udir vuole: l'eterea mole - or per questo e le stelle son vostre celle. Oh sante celle, murate di luce, che '1 passar vi conduce, - non ritiene, ad ogni benel - E quelle vie di latte per voi son fatte.

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ch 1 l: vedi la Tavola delle emendazioni. 2. e risoluti ... voi: avete con la vostra predicazione e miracoli resi gli uomini fermi e risoluti a seguirvi. 1.

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Per voi son fatte le scene e l'istorie delle divine glorie, - ché a mirarle e cerebrarle - vi dà il primo fuoco possanza e luoco. Per ogni luoco Dio quant'have in mente vuol che si rappresente - in cielo. E poi de' segni suoi- tu, suolo e mar, ti adempi di tempi in tempi. Di tempi in tempi Ariete, Cancro e Libra e Capricorno vibra - l'alte idee: quanta si dée - all'arte, a la Natura virtù e figura, virtù e figura per il sol deriva, 1 statua, immagin più diva - del Monarca, lucerna ed arca - di deitate in suso, padre quaggiuso. Padre è quaggiuso, che la terra impregna, perch'a' figli sovvegna. - Poi la luna virtute aduna - d'ogni stella, e dice esser nutrice. È ben nutrice amorosa e veloce: se 'l gielo e l'ardor nuoce, - il fa soave. Or sembra nave, - or globo, or mezzo tondo per ben del mondo. Per ben del mondo ne' splendor superni degli enti non eterni - è misurato la vita e 'l stato; - e nelli sacri giri panni che 'l miri. Parmi ch'io miri quella Provvidenza, che da tanta eloquenza2 - si celèbra. Mia squilla è ebra - per troppo desio di cantar vosco, o stelle, il grande Dio: gloria all'omnipotente Signor mio!

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1. Di tnnpi ... deriva: le stagioni (indicate per i segni dello zodiaco) vibrano Patte idee, ossia esercitano sulla terra le loro influenze conformi alle idee. Dal sole deriva all'arte e alla natura tanta virtù e figuro, quanta è dovuta. Vedi la Tavola delle emendazioni. 2. da tanta eloquenza: quella appunto degli splendori supemi.

POESIE

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ena"ant gloriam Dei. , 1 4. Ch'e• faccino musica è noto, perché ogni moto è suono, e ben lo disse Pitagora, e molti santi l'udiro, ecc. 6. Che il calore spiegò il cielo, e le stelle sieno d'amore della conservazione unite e mosse. Vedi la Filosofia e Metafisica. 2 16. Perché non si sente da noi la musica del cielo, come il molinaro non ode le parole, ecc. 17. Parla agli Angeli. 21. I nove cori degli Angeli secondo san Dionigi, e conformi alle metafisiche primalità. 30. Gli Angeli della ultima ierarchia amministrano le cose nostre. 34. Parla a• santi del Vecchio Testamento. 37. Poi a quegli del Nuovo. Mirabile encomio degli Apostoli. 41. A' martiri. 46. A• confessori. 49. Alle vergini. 52. Le stelle sono celle dell'anime beate, che non ritengono né il moto né la vista, ma più la aiutano. 56. La Galassia essere fatta per via de' santi spiriti, fu opinione anche di Pitagora; e 'nvero senza tal fine non par che si possa di lei dire cosa probabile, oltre quello che dice l'autore per la varietà degli enti inferiori in Filosofia. 3 57. Scene ed istorie chiama l'esistenza e la diversità degli enti. 64. Nota come le cose si multiplicano da Dio negli angeli, dagli angeli nel cielo, dal cielo in terra e mare. 66. Pe' quattro segni cardinali le influenze più scendono con l'idea. 7 4. Encomio vero del sole in cielo e 'n terra. 77. Della luna l'uso, ecc. 80. La luna col calar blando apre e fa esalare il calor robusto, e mitiga il freddo grande, e con la varietà di sue facce lucenti fa la varietà in terra, e gli tempi, ecc. 84. Che ne' moti delle stelle stia la misura delle cose e vite inferiori, altrove s'è detto, e Platone ed Aristotile lo confermano. 89. Commiato della canzone, parlando alle cose chiamate alla glorificazione di Dio.

1. Ps., 18, 1: • I cieli cantano la gloria di Dio.• 2. Cfr. Epilogo Mag,ro, lib. 1, Discorso v, e Met., p. 111, lib. XI, cap. 5, art. 4. 3. Cfr. Epilogo Magno, lib. 11, Discorso xvn, dove dice la Galassia ordinata dal Primo Senno per far varietà in terra.

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SALMODIA CHE INVITA LA TERRA E LE COSE IN QUELLA NATE A LODAR DIO E DECLARA LOR FINE E LA PROVIDENZA DIVINA

La terra nostra di far giuoco e festa nullo tempo si resta - al sommo Dio; da che l'unlo - l'Amor, pésola1 in mezzo, gioisce al rezzo. :i Gioisce al rezzo, e 'I circondante caldo schifando, viver saldo - e freddo gode; rendendo lode - all'Eterno, eternarsi vuol, non disfarsi. Vuol non disfarsi; e 'I sol vorrìa disfarla non per odio; per farla - mole amica, seco l'intrica, - e con focose braccia cinge ed abbraccia. Cinge ed abbraccia anch'ella lui nel seno: ché, schifandolo, pieno - pur se 'l vede3 di calor: fede/ - che al destin più incorre chi più l'abborre. Chi più l'abborre, poscia più l'aggrada; che sua fuga sia strada - a quel s'ammira. 5 Ch'alla sua mira - e gloria gli rivolge chi il mondo volge. Chi il mondo volge cosi fece madre la terra, e 'l sole padre - d'infinita prole, ch'addita - del Primero Ingegno l'arte e 'I disegno. L'arte e 'l disegno su esaltate, o monti, della gran madre pronti - alle difese, ossa distese, - e fini a' regni nostri: stanza a' gran mostri.

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Salmodia che invita la terra e le cose in quella nate a lodar Dio e declara lor fine e la Providenza divina. - 1. p,sola: pendula. 2. rezzo: freddo. 3. se '7 vede: vede il suo seno. 4./ede: e questo fa fede che ecc. 5. che sua . .. s'ammira: stupisce che il fuggire l'elemento nemico sia invece via che mena ad incorrervi.

POESIE

Stanze a' gran mostri e piccioli prestate, acque, che circondate - il nostro suolo: voi date il volo - a' pesci ed alle navi, si in terra gravi. La terra aggravi, e pur non la sommergi, tu, oceàn, che t'ergi - sì superbo. Per divin verbo - dal suo ventre uscisti, e 'l mondo unisti. Tu 'l mondo unisti, ch'è il primo animale. Tra l'etra spirituale - e 'I terreo grosso sangue ti posso - dir, che nutre, e viene, va tra le vene. Va tra le vene e per li fonti spiccia, dove la terra arsiccia - ha più bevuto; indi il perduto - alle campagne rende; poi in alto ascende. In alto ascende a far giuoco al Signore col terrestre vapore - insieme misto; or stella è visto, - ed or, come bombarde, rimbomba ed arde. Rimbomba ed arde ed atterrisce gli empii. Non perdona agli tempii, - o vivi o morti. Tu, Dio, n'esorti - a be' celesti nidi con questi gridi. Con questi gridi gli animai richiami, perché non restin grami - alle tempeste. Gioconde feste - agli angeli, a' demòni fatiche doni. 1 Fatiche doni con saper immenso sotterra al fuoco accenso, - che fracassa, cuoce e relassa, - e dentro fa i metalli, fuor monti e valli. Co' monti e valli, e fiumi e mar, distingui i paesi: altri impingui, - altri fai macri, e dolci ed acri - agli abitanti vari più necessari;

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Gioconck ... doni: nelle tempeste e nelle meteore violente vengono, secondo un 1 antichissima immaginazione, travagliati i diavoli, mentre lo spettacolo grandioso delle forze naturali è festa agli angeli. 1.

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. ' necessari. e p1u .' capaci. ancora p1u di vite, che si fora - ugual per tutto; e perché tutto - pur le cose stesse non producesse; 1 ma producesse biade la campagna, s,alzasse alla montagna - il fumn10 e l'onda: arte profonda - d1 doppi lambicchi per farci ricchi. Per farci ricchi altrove oro ed argento nasce; altrove frumento, - augelli e fiere, rivi e peschiere, - macchie, salti e boschi, perch'io 'l conoschi. Perch'io conoschi, l,alta Cagion Prima2 fa mancar al mio clima - molte cose. Commerzio puose, - amor e conoscenza tal Providenza. Tal Providenza in due quadranti opposti fa che in su il mar s, accosti : - in uno bolle, raltro s' estolle - per l' acque pendenti, là concorrenti. 3 Son concorrenti di diversi fianchi in cui avvien che manchi: - e in tutti i lidi

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1. e perché ... producesse: e affinché tutto non producesse soltanto le medesime cose, ma fosse la varietà nella natura. 2. Perch'io . .. Prima: vedi la Tavola delle emendazioni. 3. in due . .. concorrenti: cfr. Epilogo Magno, lib. 11, Discorso 11. Secondo il Campanella la marea è un effetto di ebollizione dell'acqua per opera del sole. E precisamente: nel punto dove il sole è allo zenith le acque levano il bollore e si inalzano: attorno a un tale punto le acque rarefatte sfuggono all'altra banda e concorrendovi producono, all'antipodo, un rigonfiamento opposto al primo, Tra le due maree si hanno quindi due depressioni laterali, appunto perché ai lati non c'è né bollore né confluenza. E siccome il sole cammina di quadrante in quadrante, accade che ogni sei ore la medesima parte di mare cresca e cali. Vedi la Tavola delle emendazioni e intendi: la provvidenza fa che il mare s'inalzi (in su s'accosti) in due quadranti opposti: in uno di questi bolle, l'altro invece (l'antipodo) si gonfia non per bollore, ma per il concorso delle acque fluenti dal punto del bollore, che lì stanno quasi sospese.

POESIE

sei ore vidi - alzarsi e sei abbassarsi, per più avvivarsi. 1 Per più avvivarsi fa il medesmo raria, e pur qual mar si varia, - dove accolti son vapor molti, - che capir non ponno, e spazio vonno. E spazio vonno e spazio van cercando purgando, ventilando, - trasferendo e convertendo - il fummo in util pioggia: stupenda foggia! Stupenda foggia, ch'a più parti giove. Fiere ed augelli altrove - e pesci porta: le navi esorta - al corso, noi a consulta; altri sepulta. Altri sepulta in sonno, ed altri in sabbia; svelle arbori con rabbia - e gran cittati. 2 Son fecondati - i campi, ove dolce aura il verde innaura. 3 Fa verdi, innaura e purpuree le nubbi, il Sol, perch'io non dubbi - or, che più pèra la nostra sfera - in mare :4 in suo ben vale ciò che in su sale. 5 Quando in su sale, in grandini s'ingroppa grosso vapor, che scoppia- in caldo loco;6 ma non a poco a poco, - qual la neve, che il freddo beve. 7

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1. Per più a'V'Vivarsi: le maree attivano e vivificano l'oceano. 2. cittati: città. 3. inr1aura: indoro. 4. Fa verdi .•. in mare: accenna all'arcobaleno che, secondo Gen., 9, 13, fu dato da Dio dopo il diluvio come «segno dell'unione del Cielo et della Terra et della tregua dell' Auttor della natura» (Epilogo Magno, lib. 11, Discorso XVI). Vedendo l'iride l'uomo non teme più che la sfera terrestre vada distrutta dalle acque. 5. in suo • .• sale: ciò che del mare vapora in su non produce rovina, come nel diluvio, ma vale a bene della nostra sfera. Vedi la Tavola delle emendazioni. 6. in grandini .•. loco: la grandine è effetto di vapori grossi che inalzatisi si raffreddano e si rapprendono. Lo stesso vapore grosso scoppia in fulmine, quando si incendia in zona calda. Cfr. Epilogo Magno, lib. II, Discorsi v e xn. 7. qual . .. beve: la neve è da una congelazione lenta, la grandine da una subitanea.

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Il freddo beve, e si congela in brina quel ch'aura mattutina - o sera agguaglia, 1 come si quaglia - in pioggia il fummo, e cade dolce alle biade. Per far le biade e' manca nell'Egitto, onde il Nil fu prescritto - che inondasse,a che Assur fruttasse - e l'India in questa guisa, che Dio n'avvisa. 3 Dio pur n'avvisa, che l'Arabia ottenne solo rugiada, e fenne - incenso e manna, nettarea canna, - e ragia, di che degni fur i miei regni.4 Tutti anche i regni han piani, balze e selve, pasto e casa di belve. - Oh maraviglial quanta famiglia - per te, Signor, nasce, s1 cresce e pasce. Si cresce e pasce di liquor terrestre il ferro, il sasso alpestre;5 - un grasso e molle l'erbe satolle - immobili animali. 6 Fa' a que' c'han l'ali, a que' c'han l'ali, a chi serpe, a chi anda foglie, radice, ghianda, - grani e pomi ;7 altri ne domi, - altri armi, altri fai inermi, né senza schermi.8 Hanno per schermi i ricci, e gli arboscelli spina contro gli augelli - asini e bovi, . altura trovi - in querce, abeti e faggi per tali oltraggi.

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I. agguaglia: fa cadere. 2. inondasse: straripasse (intransitivo). 3. che Assur . .. n'avvisa: fu prescritto che l'Assiria e l'India divenissero fertili (fruttasse) grazie alle inondazioni di grandi fiumi, e non per la frescura portata dalle piogge. E questa provvidenza rende manifesto Dio. 4. i miei regni: la mia patria. Secondo l'autore, la manna e l'incenso, prodotti dell'Arabia e della Calabria, sono un succo stillato dalPalbero e condensato dal fresco notturno. Cfr. Epilogo Magno, lib. n, Discorso Vili; ragia val quanto resina. s. Si cresce ••. alpestre: le pietre e i metalli crescono, secondo il Campanella, e hanno senso e amicizia ecc. Cfr. Epilogo Magno, lib. III, Discorso n. 6. un grasso . .. animali: un umore grasso e molle satolla le erbe, che sono animali immobili. Vedi la Tavola delle emenda:,ioni. 7. Fa' •.. pomi: fai, o Signore (v. 127), quale cibo per gli animali che volano, che strisciano e che camminano, foglie, radici ecc. 8. né senza schermi: sono cioè senza armi, ma non senza protezione.

POESIE

Per tali oltraggi han le quaquiglie1 e i pini guscio; e vesti d'uncini - contra i colpi, che ghiro non le spolpi, - han le castagne; ma pur le fragne. 2 Però le fragne che Dio ha destinato ch'ogni ente non sol nato - sia d'ogn'altro, ma l'uno all'altro - sia cibo ed avello, or questo, or quello. Ma questo e quello, resistendo, addita godersi in ogni vita, - che Dio dona: e, perch'è buona - ogn'altra viva norma, 3 pur si trasforma. Chi lo trasforma con tanta sua laude, che sieno molti gaude - gl'innocenti :4 pochi possenti - orsi e leon vedrai, . pecore assai. Pecore assai, che dal caldo e dal gelo solo difende il pelo. - Frutti e fiori, tu, fronda, onori: - a' timidi è soccorso la tana e 'l corso. La tana e 'l corso ha il cervo, il lepre, il capro; corna il bue: sanne l'apro :5 - onghie il cavallo; vivezza il gallo, - ch'al fiero leone spavento pone. 6 Spavento pone all'elefante il drago. Oh spettacolo vago - di lor gesti! Falcon, tu avesti - rostro, e duro artiglio l'aquila e 'l niglio.7 L'aquila e 'l niglio han pur la vista acuta, come il can lunge fiuta - la sua preda; perché provveda8 - ode lontano il lupo al ventre cupo.

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1 • 'lUaquiglie: conchiglie. 2. ma pur lefragne: e tuttavia il ghiro le rompe. J. ogn'altra viva norma: ogni altra creatura, poiché ogni creatura è come una incarnazione vivente di legge provvidenziale. 4. innocenti: non nel senso morale di incolpevoli, ma in quello fisico di non nocenti. 5. apro: cinghiale. 6. vivezza . .. pone: il gallo, secondo la credenza antica, incute spavento al leone. 7. niglio: nibbio (in dialetto calabrese). 8. provfJeda: connetti con al tJmtre cupo.

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Pel ventre cupo ha forza la balena, molta astuzia ha la iena, - industria l'ape. Oh come sape - politia1 e governo, d' està e d'inverno l D,està e d'inverno han città le formiche; stanze altri sempre apriche - si procaccia; va il ragno a caccia, - e si fa rete e stanza di sua sostanza. Di sua sostanza si circonda e cova, prende l'ali, e fa uova - quindi uscendo, varie vivendo -vite un verme: ahi lasso! Oltre io non passo. Oltre io non passo, non posso; assai ignoro l'anatomia, il lavoro, - fraudi ed ire, gioie e martìre - di quanti il mar serra, l'aria e la terra. O aria, o terra, o mar, mirar potrei ne' vostri colisei2 - ta' giuochi io sciolto l Ma chi è sepolto - in corpo, sol s,accorge che poco scorge. Se poco scorge, potrà dirne meno. Ma il sermon vostro appieno - a tutti è aperto; non è coperto - a nazione alcuna sotto la luna. Sotto la luna il nostro dir trascenda al Re della tremenda - maestate. 3 Transumanate - menti, voci e note, ite al Signor, che tutto sape e puote.

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6. La terra sta pésola in mezzo al mondo, unita dall'amor della conservazione, e gode del freddo per contrastare al sole, caldo, che vuol disfarla. 8. Le cose, volendo esser sempre, com•è Dio, lodano ed amano Dio in questo atto. 10. Il sole, non per odio, per sé,4 ma per amore, age contra la terra. 1. come sape politia: come ritiene del perfetto regime politico. 2. colisei: quelli che nella Metafisica chiama in più luoghi teatri o anfiteatri. 3. Cfr. nel Dies irae il verso 22: a Rex tremendae maiestatis•· 4. -per si: direttamente, di prima intenzione.

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Nota come il sole abbraccia la terra per farla cielo, e come ella abbraccia il sole, mentre lo fugge e combatte, perché unisce il calor dentro sé; circondandolo col freddo, più lo rinforza; dal che si vede ch'ella, fuggendo il fato, incorre in quello, e cosi tutti gli enti, ecc. 20. Stupenda cosa, che poi aggrada quel che prima abborre, perché diventa natura, e si perde il senso d'altro miglior essere; e pure s'am .. mira che, fuggendo, incorre nel mal fuggito e poi amato. E questo è per divino ordinamento, onde adiviene che il Sole sia padre e la Terra madre del mondo e delle cose, nelle quali riluce l'arte divina. 25. Parla a' monti, che, con tante utilità a chi servono, mostrano i primi la divina arte. 32. L'uso dell'acque. Le navi in esse leggiere sono, e gravi in terra. 36. Nota come l'oceano esce dalla terra come sudore; e per legge naturale del Verbo eterno non sommerge la terra, ma non per miracolo nuovo, com'altri dicono. E come il mare unisce le nazioni con la navigazione. 40. Nota che di più unisce il cielo con la terra esso mare, perché, se quello non fosse, non si farebbono vapori, e si spartirebbe l'un dall'altro. E come e' nutrica la terra e l'etera. 44. Vedi come si lambica, e va sopra i monti, e poi scende per fiumi e pioggie, e ritorna in circolo. 48. Non fa consistenze cli comete e di tuoni e di pioggie, se non è misto il vapor acqueo col terreo, cioè il sottile col grosso. Vedi Filosofia. 1 52. Nota l'uso de' tuoni, da nullo così altamente cantato; e come l'autore truovò la causa finale di tutti gli enti secondi, ignota alli antichi, assai desiderata da Socrate. Vedi Platone in Phaedone. a 60. Uso del fuoco intra la terra. 64. Come la varietà della terra sia utile alla varia vita di vari enti. 66. Come è più capace, sendo montuosa ed avvallata, che piana o tonda. 69. Mira che i diversi climi, per diverso calore variati, e gli diversi siti producono la diversità degli enti, onde noi conoschiamo la divina arte, di virtù multiplicissima. 72. Nota come del fummo si fa l'acque nelle caverne de' monti; e più dell'acqua del mare lambicata come per spogna o per feltro. 80. Come Dio dispose che non in ogni paese ogni cosa necessaria nasca, perché andassimo cercando, e così conoscessimo Dio in tante opere sue, e con le altre genti facessimo commerzio. 84. Dell'uso mirabile del flusso e reflusso del mare e dell'aria, 12.

1.

Cfr. Epilogo Mag,,o, lib. n, Discorsi

III

e xn.

2.

Cfr. Phaed., 9S sgg.

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secondo la nostra filosofia, non inteso dagli antichi come si faccia né per che fine. 95. L'uso de 1 venti. 102. Il vento, portando gli odori e 'l freddo e 'l caldo, tira gli animali a• diversi paesi, e di più le navigazioni, ed invita a consulta il vento freddo e forte, che unisce i spiriti dentro. Ma il grosso australe fa dormire, ed in Libia atterra nel sabbione i passaggeri. 104. Uso dell'aura. 107. Come il sole fa l'iride, segno di pace. 1 12. De' grandini e loro differenza dalle nevi. 116. Della rugiada e brina. 120. Providenza divina che nell 1 Egitto, mancando vapor atto a farsi pioggia, ci sia l'inondazione del Nilo, e così nell'lndie del Pegù e Menan, 1 e 'I Tigri in Assiria. 124. Come l'Arabia solo ha la rugiada, e però fa incenso, manna, ecc. ; e che la Calabria ha la stessa grazia della manna e zuccaro. I 30. Donde si nutrisce il ferro e li metalli. 131. E donde I' erbe, le quali sono fatte per gli animali, e questi per gli uomini, e l'uomo per gli angeli, e questi per Dio. E nota come le piante altre son domestiche, altre silvestri, altre armate di spine, altre disarmate, ecc. 145. Come non giova la difesa, se non quanto Dio ha destinato cosi agli animali com'agli arbori. 148. E come l'uno è sepolcro dell'altro, che si mangia. 152. E che la resistenza degli enti al morire sia argomento che ogni vita sia buona; e come finalmente pure si muta in altra vita, perché in tutto riluce l'Idea divina. 154. Nota che gli animali crudeli sono pochi, e gli innocenti assai. 168. Nota la difesa di tutti animali e piante in che consista. 180. Quale animale di che sensi prevale. 183. Questo verme è quello che fa la seta, e si serra nel cuculloa e poi esce alato. 185. Essere impossibile dire de' costumi de tutti gli animali, ecc., e delle loro parti ed uso. 192. Dice che, stando l'alma sepolta nel corpo, non può sapere le cose del cielo e della terra e l'uso loro; ma assai scorge, mentre conosce che non può sapere e non presume di dire quello che non sa, come se 'I sapesse. Vedi la Canzone del Primo Senno. 3 199. Commiato.

Pegù e Menan: fiumi dell'India. 2. cucullo: bozzolo (voce del dialetto calabrese). 3. Cfr. in questo volume p. 808 sgg. 1.

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POESIE

APPENDICE DELLE TRE ELEGIE FATTE CON MISURA LATINA AL SENNO LATINO

Ch'e' tJolga il suo parlare e misura di tJersificare dal latino al barbaro idioma.

Musa latina, è forza che prendi la barbara lingua; quando eri tu donna, il mondo beò la tua. Volgesi l'universo: ogni ente ha certa vicenda, libero e soggetto ond'ogni paese fue. Cogliesi dal nesto 1 generoso ed amabile pomo. Concorri adunque al nostro idioma nuovo. Tanto più, che il Fato a te die' certo favore, perché, comunque soni, d'altri imitata sei: d'Italia augurio antico e mal cognito, ch'ella d'imperii gravida e madre sovente sia.a

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Appendice delle tre elegie fatte con misura latina. Alla rinnovazione generale del cristianesimo in tutti gli ordini dell'intelletto non doveva, secondo il Campanella, mancare una nuova arte versificatoria, quale egli dettò in un apposito trattato oggi perduto, in cui affermava altamente la capacità dell'idioma moderno a rifare il numenu della poesia latina, e la necessità di una tale prova. cr Ma i nostri italiani• scriveva il Campanella nella Poetica • non han potuto ancora trovar il modo di far versi misurati in quella maniera de' latini, che si dicono piedi, e benché si siano affaticati alcuni gentili spiriti guidati da Claudio Tolomeo senese, avvenga che facessero bene, pure, per l'usanza delle nostre orecchie in questi versi nate romanzi, li quali hanno estinto con la stirpe magnanima del Lazio la lingua ancora, non abbiamo potuto distaccarsi da questi modi di parlar in rima ... È gran pazzia di coloro, che dicono la nostra lingua non essere capace di tali numeri, perché n'ho visti affatto buonissimi ... Ecco la sperienza: O servili petti, perché la gloria tanta de' nostri antichi fate che non fii mooa? • (Poetica, ed. cit., pp. 198 sg.). Il Tolomei, qui citato, aveva già composto carmi in volgare su metro latino e teorizzato il tentativo, dettandone le regole in un'opera intitolata Verso e regole della poesia nuooa, uscita nel 1539. I due versi della sperienza sono probabilmente del Campanella medesimo, che molti ne scrisse e di vario genere, tutti peraltro, ad eccezione delle presenti tre elegie, andati perduti. Il canne Al senno lah·no e quello Al Sole sono del periodo di Castel Sant'Elmo (1604-1608). Il Salmo è anteriore alla congiura e sa di esercitazione. È noto come il Carducci mettesse in epigrafe al secondo libro delle Odi barbare l'undecimo e il sedicesimo verso della prima elegia. Al senno latino. - 1. nesto: ramo innestato. gilio, Aen., '1v, 229.

2.

d'imperii ... sia: cfr. Vir-

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TOMMASO CAMPANELLA

Musa latina, vieni meco a canzone novella: te al novo onor chiama quinci la squilla mia, 1 sperando in1poner fine al miserabile verso, per te tornando al già lagrimato die. Al novo secolo lingua nova instrumento rinasca: può nova progenie il canto novello2 fare.

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Questi versi sono fatti con la misura latina elegantemente; cosa insolita in Italia. Notasi che bisogna accommodarsi al tempo, e che i Latini s'abbassino alla lingua introdotta da' Barbari in Italia; e la loda eh' è mista, com'inserto che fa meglior frutto, e ch'ltalia sempre è imitata, comunque ella parli. Il che è segno e causa d'imperio, perché l'imitato dona legge agl'imitanti. Poi si vede che, facendo novelle rime e modi di poetare, sperava dar fine al vecchio secolo, in cui piangeva intra la fossa, ecc. SALMO CXI

Beatus vir qui timet etc.

Quegli beato è del Signor c'ha santa temenza; sicuro e lieto il fa sua legge pia. Di costui in terra alligna il seme potente, del giusto il germe ognor benedetto fia. Ne' cui bei tetti ricchezza e gloria abonda, in tutti tempi alberga la giustizia.

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,.la squilla mia: allusione al nome dell'autore. 2.novello: è predicato di fare. Per il concetto ricorda che « la misura dei suoni è dalla misura del movimento del nostro spirito natio originata» e la rigenerazione dello spirito ha da produrre novità nei suoni: pensiero derivato al Campanella da Platone. Salmo CXI. Ecco il testo del Salmo nella Vulgata: 11 Beatus vir qr,i timet Dominum: in mandatis eius volet nimis. Potens in terra erit semen ei11s: generatio rectorum benedicetur. Gloria et divitiae in domo eius: et iustitia eius manet in seculum seculi. Exort11m est in tenebris lume,i rectis: misericors et miserator et iustw. lucundw homo qui miseretur et commodat, disponet sermones suos in iudicio: quia in aeternum non commovebitur. In memoria aeterna erit iustus: ab auditione mala non timebit. Paratum cor eius sperare in Domino, confirmat11m est cor eius: non commovebitur, donec despiciat inimicos suos. Dispersit, dedit pauperibus: iwtitia eius manet in sec11lum secrlli, corntl eius exaltabitur in gloria. Peccator videbit et irascetur, dentibus suis frnnet et tabescet: desiderium peccatorum peribit. »

POESIE

Pur nelle tenebre a' santi il bel lume si mostra del pietoso Dio splendido tuttavia. Giocondo è sempre il donator largo e benigno; dal buon giudizio non si rimove mai. Il suo nome mai non potrà estinguere morte, né mala fama teme, e vittorioso vola. Sta nel Signor fermo e sempre di speme ripieno: non si movrà innanzi ch'ogni nemico pèra. Il suo divise, e mangiaro i poveri amici; gloria sublima il corno 1 potente suo. Il che vedendo poi, il peccator tristo s'adira, dibatte i denti, e pur rabioso crepa. Del giusto, ancor che al tardo, il disegno riesce, e de' malvagi l'empia voglia père.

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AL SOLE

Nella primavera, per desio di caldo.

M'esaudì al contrario Giano. 1 La giusta preghiera drìzzola a te, Febo, ch'orni la scola mia. 2 Veggoti nelr Ariete, levato a gloria, ed ogni vital sostanza or emola farsi tua. 3 Tu subblimi, avvivi e chiami a festa novella ogni segreta cosa, languida, morta e pigra. Deh! avviva coll'altre me anche, o nume potente, cui più ch'agli altri caro ed amato sei. Se innanzi a tutti te, Sole altissin10, onoro, perché di tutti più, al buio, gelato tremo ? Esca io dal chiuso, mentre al tuo lume sereno d'ime radici sorge la verde cima. Le virtù ascose ne' tronchi d'alberi, in alto in fior conversi, a prole soave tiri. 1.

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il corno: metafora biblica per la forza.

Al Sole. Scritta nella fossa di Sant'Elmo in un giorno di Pasqua. - 1. Gia110 dio delle porte non già largì la fuga. 2. Febo ... mia: il sole fu preso dal Campanella come insegna della sua città ideale, forse per suggestione di due luoghi biblici (los., 191 41 e ]sai., 19, 18), e diede il titolo al dialogo famoso. 3. emola .•. t11a: le creature si fanno per il calore primaverile vive come il sole.

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TOMMASO CAMPANELLA

Le gelide vene ascose si risolvono in acqua pura, che, sgorgando lieta, la terra riga. I tassi e ghiri dal sonno destansi lungo; a' mininù vermi spirito e moto dài. Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive: invidio, misero, tutta la schera loro. Muoiono in Irlanda per mesi cinque, gelando, gli augelli, e mò pur s'alzano ad alto volo. Tutte queste opere son del tuo santo vigore, a me conteso, fervido amante tuo. Credesi ch'ogge anche Giesù da morte resurse, quando me vivo il rigido avello preme. L'olive secche han da te pur tanto favore: rampolli verdi mandano spesso sopra. Vivo io, non morto, verde e non secco mi trovo, benché cadavero per te seppelito sia. Scrissero le genti a te senso e vita negando, e delle mosche fecerti degno meno. Scriss'io ch'egli erano eretici/ a te ingrati e ribelli; m'han sotterrato, vindice fatto tuo. Da te le mosche e gl'inimici prendono gioia; esserti, se séguiti, mosca o nemico meglio è. Nullo di te conto si farà, se io spento rimango: quel tuo gran titolo meco sepolto fia. Tempio vivo sei, statua e venerabile volto, del verace Dio pompa e suprema face. Padre di natura e degli astri rege beato, vita, anima e senso d'ogni seconda cosa; sotto gli auspici di cui, ammirabile scola al Primo Senno filosofando fei. Gli angelici spirti in te fan lietissima vita: a si gran vite viva si deve casa. Cerco io per tanti meriti quel candido lume, ch'a nullo mostro non si ritenne mai.

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1. Scrissero ... eretici: tesi maggiore della filosofia campanellinna è il pansensismo, impugnato aspramente dagli avversari del filosofo e da lui sostenuto in moltissime scritture, segnatamente nel Senso delle cose e nell'Apologia di quest'opera.

POESIE

Se 'l Fato è contra, tu appella al Principe Senno, ch'al simolacro suo grazia nulla nega. Angelici spirti, invocate il principe Cristo, del mondo erede, a darmi la luce sua. Omnipotente Dio, gli empi accuso ministri, ch'a me contendon quel che benigno dài. Tu miserere, Dio, tu che sei larghissimo fonte di tutte luci: venga la Luce Tua.

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Il Sole è insegna della semblea d'esso autore. Tutti gli effetti che fa il Sole la primavera. 32. Dicono molti che la mosca è più nobile del Sole, perché ha anima. E l'autore dice che il Sole è tutto senso e vita, e la dà agli enti bassi. 42. Titoli del Sole, dati dall'autore. 56. Solo desidera vedere la luce del Sole, che, dentro alla fossa stando, non potea veder mai. E dice al Sole che, s'e' non può, egli appelli a Dio, Primo Senno; e così si volge a Dio dal Sole, e prega che gli dia la sua luce, che gli negano i ministri della giustizia finta in terra. 2.

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LETTERE

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PAOLO

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Beatissimo Padre, Vinti giorni dopo scritto, non potendo mandar la lettera, intesi murmurar dal barbiere e soldati che li Veneziani sono scomunicati 1 da Vostra Beatitudine, e che correno intrichi per questo. Il che mi fece lacrimare « quia tacui », z se ben non per colpa mia; e pensai che per questo li reverendissimi non me aiutano come deveno, per non guastar gli animi di principi. Però supplicando, prima che mi dimanda, 3 con condizione di rendermi a loro s'io mento o che non finisca il negozio, finché Dio farà sereno, se li piace, vengo a dirli una parte di revelazione ch'ho intorno a questo, serbando il resto, eh' è assaissimo, a suo tempo e luogo. Or son tre anni, avendo interrogato il demonio che si facea angelo e dio, 4 e compariva ad una persona da me instrutta a pigliar l'influsso divino, al qual mi parea disposta dalle stelle per la sua natività che mirai, rispose di tutti regni che dimandai, oltre di me e degli amici; e di Roma disse ch'al 1607 il pontefice perderà gran parte d'autorità, e che alli 1625 sarà scisma di due pontefici, e si struggeranno l'un l'altro ed abbasseranno il papato assai. Poi sarà fatto un papa da gente meschina e povera e poca, fuor di RoA Paolo V. Movendo dal grave conflitto tra la repubblica di Venezia e Paolo V, che ai 17 di aprile 1606 l'aveva interdetta, il Campanella espone al sommo Pontefice, non senza intento apologetico e con copia grande di autorità canoniche ed extracanoniche, il suo disegno di riforma della cristianità. Egli mostra come, attraverso un generale movimento di penitenza e di resipiscenza, cominciante dalle prelature ecclesiastiche e dagli Ordini monastici, la Chiesa possa ritirarsi alla sua genuina spiritualità e in questo modo, lungi dal sequestrarsi dal mondo in una astrazione solinga, ripigliare invece la signoria anche temporale del mondo, tirando a sé il governo di tutte le parti dell'umana vita. Il mito politico e religioso dell'ecumene palingenetica, che qui appare già liberato dagli elementi messianici personali che lo intorbidavano nella predicazione giovanile del filosofo, andrà regolarizzandosi sempre più nella commisurazione coll'opportunità storica, ma non subirà alterazione sostanziale: il Ren,iniscentur, che forma il testo espresso e speciale della riforma campanelliana, e l'Ecloga per la nascita del Delfino, che rappresenta l'ultimo canto, non risuonano di voce diversa.I. Vinti ... scomunicati: si riferisce a una precedente lettera inviata al Papa il 17 agosto del medesimo anno. z. Isai., 6, s: •perché tacqui». 3. mpplicando ..• dimanda: vedi la Tavola delle emendazioni. 4. interrogato ..• dia: da frà Felice Gagliardo, compagno di carcere, il Campanella aveva avuto rivelazioni ingannevoli dell'avvenire e promesse di liberazione, che l'evento deluse poi, essendo fallita l'ordita evasione e inasprita la condizione del prigioniero.

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TOMMASO CAMPANELLA

ma, fiacco e di valor languido, e questo poi in breve sarà spento: e qui finirà tutta la pontificai dignità e 'l senato di cardinali sarà annichilato. Fra l'altre, poi, visioni, vide una vecchia seguitata da fanciulli a pietre, ch'entrò in una casa; ed esso seguendo appresso, entrò e la vide sepolta in una cassa, con queste lettere sopra: C. V. C. E dopo un mese ci dichiarò il falso angelo, che volean dire: certo Ve11ezia caderà; e disse che quella persona che vedea tali visioni, sarà mandata da esso Dio a far certi miracoli in Venezia, e sarà da' Veneziani carcerato; poi fuggirà di carcere ed averà tutta l'Italia in favore e struggerà Venezia. Dopo queste e moltissime altre visioni, che ci n'è un libro, io accorto ch'era diavolo in molti segni, ed avvisando quella persona dicendoli che dimandasse segnali come Gedeone, 1 ed altre industrie, promesse il diavolo darli poi; ma comparse ad un signore in uno specchio, che trattava farmi fuggire, e lo fe' ·che mi tradisse e rivelasse; e fui posto in questa fossa pur dal diavolo medesimo predettarni. Qui aspettai, per tal successo verificato, scienze dal cielo e libertà promesse dal diavolo, perché il desiderio del sapere e libertà mi facea esser mal giudice e non stavo certo ancor se era diavolo. Passò il tempo della sua promessa, e vennero li diavoli spesso e m'afflissero in varie forme in questo luoco; e questo mi servìo assai per accertarmi della fede e pregai Dio: fui soccorso, ebbi revelazioni vere e mi fur dichiarati gl'inganni del diavolo e di sue profezie, e detto2 che avvisassi Vostra Beatitudine di molte cose, che non basta sei fogli di carta, da mia sorella3 che fu sibilla, e da san Paolo e san Pietro e san Bonaventura; e come li diavoli nelle stelle e nelle cause agenti veggono molti eventi, e per il più essi s'ingannano ed ingannano. Questo di Venezia antevidero nella congiunzion magna del 16034 ed eclissi e comete etc., e nell'animi di Veneziani che si governano più per ragion di stato che per l'Edimandasse ... Gedeone: Gedeone, condottiero degli Ebrei, per prova della sua vocazione a liberare la nazione ottenne da Dio il prodigio del vello, che esposto alla rugiada rimase asciutto e tutto il terreno attorno molle, e un'altra notte viceversa, quello molle, e il terreno attorno asciutto. Cfr. ]ud., 6, 37 sgg. 2. profezie, e detto: vedi la Tavola delle emendazioni. 3. mia sorella: propriamente una cugina convulsionaria di cui l'autore scrive nel Senso delle cose (vedi in questo volume a p. 1059), che di tratto in tratto si mostrava chiaroveggente e sapientissima in teologia senza imparare. 4. congiunzion magna del I603: una particolare disposizione degli astri che non si era veduta più dalla natività di Cristo e che il Campanella nella sua astrologia riteneva faustissima a grandi mutazioni nei regni e nella religione. 1.

LETTERE

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vangelio; e che certo sta in procinto di ruinare se non fa penitenza, e scotendo il giogo del padre pigliarà il giogo del padrone, e farà libri per provocar a gelosia il padre e Dio, e mostrarà scherzare e poi farà da vero; ch'entraran oltramontani, scriveranno di libertà e saranno animati da gente forastiera alla vanità loro: «et erit illis in ruinam et scandalum, nisi revertantur ad virum adolescentiae suae ». 1 Seppi ancora eh' al clero soprasta gran procella di sangue e sarà ruina nel papato, e poi surgerà un papa divino ed altri spiriti buoni e ch'averan lo Spirito Santo manifesto come gli Apostoli, e convocaranno il mondo tutto ad una legge, e li Turchi e settentrionali correranno alla fede vera; ed assai altre cose di ciò e dell'Anticristo. Però senza mirar al mio danno, ché sapendosi che scrivo sarìa peggio per me, e perché mi fu questa carità inspirata da Dio, 2 mi parve avvisar Vostra Beatitudine che preghi Dio come Ezechia, che almeno faccia «pacem in diebus nostris», e sappia che non caderà iota di quanto fu rivelato a santa Caterina senese ed a san Vincenzo etc. E per tutto si murmura tra' savi e pii che Roma patirà nel secondo avvento quel che patìo Gerosolima nel primo. Già siamo al tempo che predisse san Pietro: «venient illusores iuxta propriam concupiscentiam ambulantes, dicentes: "Ubi est promissio aut adventus ei,us? ex quo dormierunt patres, omnia perseverant ut ab initio creaturae" ». 3 E si dice per proverbio il «cito »4 dell' Apocalissi; e tutti credono ad Aristotele, ch'il mondo sia eterno; e così allevata la gioventù, né trovando lo Spirito Santo in noi se non gelato, pensano che 'l Vangelio sia cosa d'astuto o di malinconico5 sciocco. Non volemo creder li segni che Dio mostra, perché ci abbia a cogliere come ladro di notte. cc Turtur et hirundo custodierunt tempus adventus sui: populus autem meus non cognovit tempus visitationis suae. Vere mendacium operatus est stylus ,nendax scri'barum»;6 dice Dio. Ci mandò san Gregorio e sant' Ambrosio a mostrar li segni, e poi le femine per confonderci, Brigida e Caterina, poi ci pose in 1. • et erit ... s11ae »: • e sarà loro di scandalo e di rovina, se non faran ritorno allo sposo della loro giovinezza»; centone biblico. 2. mi fu .•. Dio: vedi la Tavola delle emendazioni. 3.11 Petr., 3, 3-4: a verranno a ingannarvi uomini, che seguono la propria concupiscenza, dicendo: "Dove sono le sue promesse e dov,è il suo avvento? Dacché morirono i nostri padri tutto continua come dal principio del mondo,,•· Vedi la Tavola delle emendazioni. 4. Apoc., 1, 1. 5. malinconico: uomo di temperamento cogitativo. 6. ler., 8, 7-8: •La rondine e la tortora osservano il tempo della loro venuta, ma il mio popolo non ha riconosciuto il tempo della mia visita. Veramente la penna mendace degli scribi ha vergato menzogne. »

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TOMMASO CAMPANELLA

burla de' poeti Aretini, Franchi1 etc.: né si fe' penitenza se non in apparenza; e mò ci mostra li segni in fatti, non in parole, che Germania è il flagello delle creature fatto per purgar il tempio, mostrato a santa Caterina, e Venezia lo fornisce. Santissimo Padre, non tener fede nelli principi: cc sunt baculi anmdi11ei»; 2 han per Vangelio il Macchiavello dato a loro per scandalo di rovinarli, come si vede in tutti suoi discepoli. E perché li sacerdoti pur viveno come quelli, seguendo la ragione di stato, vedrete che «sunt canes muti nescientes latrare». 3 E Dio per li secolari e clerici dice: ,, apprehendam sapientes in astutia eorum »;4 e «qui adducit sacerdotes inglorios et optimates supplantat et consiliarios in stultum finem». 5 Per guadagnar l'entrate delle chiese, tutti s'accordaranno. Spagna repugnerà, per non perder l'altro emisfero che sta unito con questo per lo vincolo della religione; e rotto questo, certo si perderìa. Abram per timore dirà che la moglie gli è sorella, e Faraone la piglierà per sé, ed al fine per flagello di Dio la renderà con refuso. 6 Vero rimedio secondo Dio è: che tutto il clero, rosso o bianco o verde o negro, vadano alle chiese scalzi e digiunino e bevan vino romanesco7 e pane plebeo mangino. cc Expergiscimini, qui bibitis vinum in dulcedine, quia pen:it ab ore vestro. »8 Ma se noi ci privaremo da per noi, non ci privarà la creatura per flagello di Dio: «si nosmetipsos iudicaremus, non iudicaremur ». 9 E non si pensino d'ammalarsi o morire. Dio pose meta alla vita: «praeteriri non poterunt », 10 dice lob. Nell'altre cose s'obedisca alli medici, non negli atti religiosi. Romoaldo, Geronimo, Antonio, Paolo e tanti altri remiti vissero lunga vita con l'astinenza: la crapula l'abbrevia nelli sacerdoti d'oggi, e le piume etc.; e lo grasso spirito cc nil coeleste sapit », dice san Geronimo allegando pur Galeno medico: e però prevale la ragion di stato, la prudenza carnale, «Deo non subiecta ». 11 Quando 1. Franchi: allude a Niccolò Franco (1515-1570), poeta osceno. 2. Cfr. ]sai., 36, 6: •son bastoni fragili». 3. /sai., 56, 10: •son cani muti che non sanno abbaiare». 4. lob, 5, 13: a coglierò i sapienti alla loro stessa sapienza». 5. lob, 12, 19: upriva di gloria i sacerdoti, soppianta gli ottimati, fa finire nella stoltezza gli uomini di consiglio». 6. Abram ... re/11so: accenna alla narrazione di Gm., 12, dove Abramo, recatosi in Egitto per cagion della carestia, dà alla moglie il nome di sorella. 7. vino romanesco: aspro assai. 8. Ioel, 1, s: a Destatevi, voi che allegramente bevete il vino, poiché vi sarà levato dalla bocca.• 9. J Cor., II, 31: •se ci giudicassimo da noi stessi, non saremmo certo giudicati•. 10. lob, 14, s: •non potranno essere oltrepassati•. II. Rom., 8, 7: • non soggetta a Dio».

LETTERE

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san Pietro usò la ragion di stato a Cristo, dicendo che non tornasse in Giudea, che sarìa ammazzato, e non era bene, ma si dovea conservar per utile d'altri, Cristo rispose: ((vade retro, Satanas, non en1."m quae Dei, sunt scis, sed quae sunt hominum »; 1 e fu in quel dì che lo fece papa. Ecco dunque che tutti siamo Satana a Cristo quando sequemo la ragion umana, opposta, non dico la sottoposta, alla divina: «nisi granum frumenti etc. »; «qui amaf' etc. ». So che non mancaran teologi venduti a dir il contrario, dicendo che la penitenza è tentar Dio; e com'è scritto: «sanabant contritio11em fi/iae populi mei, dicentes: "pax, pax", et non erat 3 etc. », ed altrove di questo tempo fu detto: «peribit cor regis, cor principum, obstupescent sacerdotes et prophetae consternabuntur ».4 Leggiamo ben san Paolo: (( erunt in novissi"mo homi"nes se ipsos amantes etc., voluptatis amatores magis quam Dei etc., speciem habentes pietatis ( ... religionis), virtutem vero abnegantes». 5 Dunque manco si fidi Vostra Beatitudine delli vescovi che faran come in Germania; e li teologi diranno: , 1 quando gaudium magnum de nato Salvatore praedicabant, attende nunc et vide, quantis urgemur discordiis, sceleribus vincimur, inimicis declimus manum et profanis. Adiuva nos, ut praevaleat annunciata veritas in omnes fines terrae. Gloria non inanis vestra est salus nostra: neque enim proficitis in vobis, sed in no bis, qui vestrae gloriae gradum essentialem accepistis. Satagite, Angeli gloriosi, ut cumuletur gloria vestra, augeatur in toto orbe nostro gaudium vestrum, et qui speratis ruinas civitatis vivae intellectualis vestrae de nostro genere instaurari, nolite permittere nos inutiliter perdi. lntercedite apud Altissimum, ut quam primum praedicetur Evangelium omni tandem creaturae, et reminiscantur et convertantur ad Dominum universi fines terrae.

1.

Luc.,

:i,

14.

QUOD REMINISCENTUR

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delr Artide e dell'Antartide, gli Americani, gli Africani, i Tartari e i Cinesi tengono il diavolo per Dio: sopporterai dunque che sia scancellato il tuo nome? Non potrai dunque esser chiamato Michele, cioè cc chi è come Dio ?», tranne che in cielo? Hai piantato in cielo un titolo di vittoria: erigi anche in terra un trionfo di gloria. O Raffaele, tu che sei chiamato cc medicina di Dio», forse che Dio ha bisogno di medicina per sé, oppure per noi ? A che gloriarti di un tanto nome, se il genere umano è così gravemente infermo e delirante, se alcuni neppure conoscono Dio e se quelli che lo riconoscono, non lo onorano e son peggiori dei primi? Non è forse la medicina delle anime più preziosa che quella dei corpi? Ebbene, le anime soffrono della peste dei vizi, dell'idolatria, dell'antropofagia, della sodomia, dell'avarizia, della libidine, dell'invidia, della superbia. Esponi dunque, ti prego, in mezzo a noi le celesti medicine, chiama i tuoi soci e accingiti a una cura universale, affinché rientrati in noi stessi, espulsi i mali, abbiamo a servire Dio insieme con voi, tutti unanimi. O Gabriele, cioè «fortezza di Dio», sguaina il gladio potentissimo contro Satana e i suoi soci, che hanno usurpato la divina signoria sopra gli uomini. Sostieni la nostra debolezza, solleva le nostre speranze. Tu che annunciasti alla beata Vergine la pace tra Dio e gli uomini, perché ci rallegrassimo dell'avvento del Salvatore, tu che forse cantasti« Gloria a Dio nelle altezze e pace in terra agli uomini » con quegli angeli che annunziavano il gaudio magno della nascita del Salvatore, riguardaci e considera, da quante discordie siam tormentati, a quanti delitti ci troviamo incatenati, e a quanti nemici ed esseri impuri ci siamo arresi. Aiutaci, affinché la verità, che fu annunziata, prevalga in tutti i paesi della terra. La vera gloria vostra è la nostra salvezza, poiché voi non fate frutto in voi, ma in noi, avendo ricevuto una misura fissa della vostra gloria essenziale. Fate, o angeli gloriosi, che la vostra gloria si cumuli, che il vostro gaudio cresca in tutto il mondo umano e, mentre sperate di risarcire con gli uomini le perdite della vostra viva città spirituale, non permettete che noi andiamo perduti senza frutto. Intercedete presso rAltissimo, affinché il Vangelo sia al più presto predicato finalmente ad ogni creatura, e si rammentino e si convertano al Signore tutti i paesi della terra.

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TOMMASO CAMPANELLA LEGATIO AD DIABOLOS, UT REMINISCANTUR ET IPSI VEL NOSTRAM NON IMPEDIANT REMINISCENTIAM

Cap. 3, art. 3.

Quanta foelicitas illa fuit, de qua potuistis ita superbire, ut Dei aequalitatem omnipotentis, omniscii omnivolique ambiretis, ex hoc, o diaboli, cogitamus et cogitatis. Ergo quam amarum sit de tanta sublimitate in tantam cecidisse vilitatem pariter perpendimus. Quare igitur ad vos reversi Deum vestrum non recognoscitis? Numquid hominum modo Deus, et non etiam angelorum et diabolorum? Sanctus ille magnus Martinus uni ex vobis dixit, quod: - Si tu, o miserabilis, ab hominum infestatione desisteres, et te factorum tuorum vel hoc tempore, cum dies iudicii in proximo est, poeniteret, ego tibi vere confisus in Domino Christi misericordiam pollicerer. 1 - Ergo non per Deum stat, quin pristinam recuperetis foelicitatem, sed vestra obstinatio est vobis crimen et poena. Cur patimini, o miserabiles, ut homo, vilior natu, regnorum divinorum Deo se humilians haeres fiat, vosque in sempiterna miseria torqueamini? Si nos novimus peccando reverti ad Deum, quomodo et vos sapientiores id non nostis? et invidetis nobis id, quod vos adipisci non vultis? Haud equidem credam vos in malo natura obfirmatos esse, sed culpa. Etsi enim bonus Deus angelos confi.rrnat in bono, quod elegerunt, non est par ratio, ut in malo vos, qui omne malum odit, confirmet. Neque puto ingenium esse vestrum immobiliter omnia capessere: naturale enim est cuilibet enti, cum cadit in malum, velle ex malo resurgere, dum sana mens est. Vos autem sani mente, in naturalibus non mulctati, quo lethargo in vestra obstinatione tenemini? Superbia vos induravit: pudet vos retractare, quod tam male coepistis, et tamen non pudet mala rnalis continuo addere, nec nostri invidia exemplumque vos admonet, ut, magnanima deliberatione facta, in summi boni bonitatem suspiceretis. Desistite 'iam nos insectari. Quid enim de nostra perditione lucramini ? regnum et cultum? An non magis vestra

1.

Si tu ••• pollicerer: cfr. Vita S. Martini di Severo Sulpizio, cap. 24.

QUOD REMINISCBNTUR

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LEGAZIONE Al DIAVOLI, , AFFINCHE SI RAMMENTINO ANCH'ESSI O ALMENO NON IMPEDISCANO LA NOSTRA REMINISCENZA

Cap. 3, art. 3.

Quanto grande fu la vostra felicità, o diavoli, lo misuriamo e lo misurate dal fatto che tanto poteste insuperbirne, da ambire l'uguaglianza con Dio onnipotente, onnisciente e onnivolente. E dunque noi andiamo parimenti considerando quanto amaro vi riesca l'essere precipitati da tanta sublimità a tanta bassezza. Perché dunque, rientrati in voi stessi, non riconoscete il vostro Dio? È egli forse Dio soltanto degli uomini, o non pure degli angeli e dei diavoli ? Quel gran san Martino disse ad uno di voi: - Se tu, o miserabile, desistessi dall'infestare gli uomini e ti pentissi della tua malvagità, anche soltanto ora che è imminente il giorno del giudizio, io, confidando veramente nel Signore, ti assicurerei la misericordia di Cristo. - Dunque non da Dio dipende, se non ricuperate la pristina felicità, ma dalla vostra ostinazione, che è a voi colpa insieme e castigo. Perché tollerate, o miserabili, che l'uomo, creatura di voi più bassa, divenga, umiliandosi a Dio, erede del regno divino, mentre voi andate torturandovi in sempiterna miseria? Se noi uomini sappiamo dopo il peccato tornare a Dio, come non lo sapete voi, che siete più sapienti? E perché ci invidiate e contrastate quel che non volete conseguire? Non potrei credere invero che voi siate confermati e iodurati nel male per natura, ma per colpa. Quantunque infatti lddio buono confermi gli angeli nel bene, che essi elessero, tuttavia non c'è parità, perché confermi voi nel male, egli che odia ogni male. E neppure penso che sia vostra indole fissarvi immobilmente in ciascuna cosa, poiché è naturale a ciascun ente, mentre il suo intelletto è sano, voler risorgere dal male, quando cade nel male. Voi invece, sani nell'intelletto, non penalizzati nei doni naturali, da qual letargo siete tenuti nella vostra ostinazione? È la superbia, che vi ha iodurati: vi vergognate di ritrattare quel che così infelicemente avete iniziato, e non vi vergognate tuttavia di aggiungere del continuo mali a mali e neppure l'invidia, che provate per noi, o il nostro esempio vi spingono a fare una magnanima deliberazione e ad alzar lo sguardo alla bontà del sommo bene. Cessate ormai di osteggiarci. Che cosa lucrate dalla nostra perdizione? Forse culto e signoria? O non

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hinc poena augetur? Et si experimini, cur pergitis? O immanissima contra te superbia diabolica, cur non potius indignaris, quod derisorie coleris? Velis nolis, lictor et carnifex es tibi et tuis, et in hoc Dei iustitiae servis, non regnas. Hominesque inferioris naturae, cum e solo metu, et non ex corde, sibi exhiberi cultum aut ex ludibrio persentiscunt, indignantur omnino execranturque colentes amicosque fictitios: vos autem colimini titulis nefandis. Alius enim vocatur Beelzabub, idest rex muscarum, alius Asmodeus, idest libidinis rex, alius Satan, idest tentator, alius alio nomine ex vitiis et vilissimis rebus desumpto gaudet. Hoccine decus est, o profani? Sacraque vobis fiunt piena spurcitiis. Novimus reverentias: pro genuflexione natium ostensionem apud Americanos exigebatis: 1 quid ridiculosius viliusque ? Gaudetisne, quod vobiscum deliramus? sed quale gaudium est ili ud, quo poena et cruciatus cumulantur? O superbi, nonne ab hominibus vilissimis virtute Dei, cui adhaerent, ex corporibus hominum expellimini, ligamini, cogimini ad servitium et eiulatum et in fugam saepe convertimini? Scitis, quos de vobis triumphos retulit Antonius, Gregorius Thaumaturgus, Paulinus, Bernardus aliique innumeri homines. Uhi ergo fortitudo vestra, regnum vestrum, potestas, de qua gloriamini? Solo crucis signo, quae furca olim fuit, fugamini, dispergimini, prosternimini; alii frusto tunicae sanctorum, alii ossiculo, alii pulvere pedum, alii solo nomine fugantur cacodaemones. Hoccine regnum vestrum, o cruentae bestiae, quae tam vilissimis rebus superamini? Quapropter convertimini et agnoscite Deum vestrum: sic enim erit ut humilitas regnum solidum vobis resarciat, quod superbia tantopere constituit inane. Sic sic libeat superbire, idest super ire, et non subter. Tam ignorantes estis, ut nondum post tot experimenta intelligatis servire Deo esse regnare, amicos eius videndo cunctis rebus et vobis etiam imperare? Amicorum enim omnia communia, ergo et imperium. Hoc bonum superbire est: ad Dei amicitiam erigi altissimi omnium dominatoris. Vanum superbire vestrum est: propriis desideriis subiici, ergo sub pro genr,flexione ... exigebatis: il costume degli indigeni americani di far riverenza al nume con ostensione delle cluni è ricordato dal Campanella anche nella Legatio ad reges et princi.pes genti/es mediter,aneos Americae borealis: • cum in Lima idolum Pacacama adorarent, nates illi, retro,sum inclinati caput, non f aciem ostentaba,it » («quando in Lima adoravano l'idolo Pacacama gli mostravan le cluni, non la faccia, torcendo questa all'indietro•). Cfr. Reminiscentur, ed. cit., lib. 11, p. 260. I.

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piuttosto riesce da queste cose aggravata la vostra pena? E se sentite in voi tale aggravamento, perché continuate ? O immanissima superbia diabolica, che ti rivolgi contro te stessa, perché piuttosto non ti sdegni che ti si prestino onori schernevoli ? Voglia o non voglia, tu sei aguzzino e carnefice di te stessa e dei tuoi, e cosi non regni, ma sei serva della giustizia di Dio. Gli uomini, che pure sono di natura inferiore, quando avvertono di essere onorati soltanto per paura e non di cuore, oppure soltanto per ischerno, se ne sdegnano sommamente e detestano adoratori e amici fittizi: ora voi diavoli siete onorati sotto titoli nefandi. Uno di voi infatti si chiama Beelzebub, cioè re delle mosche, un altro Asmodeo, cioè re della libidine, un altro Satana, cioè tentatore, altri godono di titoli desunti da vizi o da cose vilissime. È questa la vostra gloria, o sacrileghi ? E i vostri culti son pieni di immondezze. Conosciamo le riverenze: presso gli Americani in luogo della genuflessione esigevate che vi si mostrassero le cluni: che cosa c'è di più ridicolo e basso? E voi vi rallegrate, perché deliriamo con voi? Ma che allegrezza è quella onde riescono acuiti la pena e il tormento ? O superbi, non è forse vero che uomini bassissimi, in virtù di Dio a cui son famigliari, vi espellono dagli umani corpi, vi legano, vi costringono a servire, a gridare e a fuggire ? Voi sapete bene quali trionfi abbian riportati sopra di voi Antonio, Gregorio Taumaturgo, Paolino, Bernardo ed altri innumerevoli uomini. Dove è dunque la fortezza, il regno, la potenza, di cui vi gloriate? Basta un segno di croce, la quale un tempo fu un patibolo, per mettervi in fuga, disperdervi, prosternarvi. Ora un pezzetto di tunica dei santi, ora un ossicino, ora un po' di polvere dei piedi, ora il solo nome dei santi basta a scacciare i cacodemoni. È questa la vostra potenza, o bestie cruente, che da così vili cose siete vinte? Convertitevi dunque, e riconoscete il vostro Dio: allora l'umiltà vi restituirà solido quel regno, che la superbia vi ha procacciato cosi vano. In questa maniera, in questa maniera vi piaccia andare in superbia, cioè in superiorità, e non in bassezza. Siete voi cosi ignoranti da non intendere ancora, dopo tante esperienze, che servire a Dio significa regnare, mentre pur vedete che gli amici di lui comandano a tutte le cose e a voi stessi? Infatti tutte le cose son comuni tra gli amici, e perciò anche il comando. Questo è il vero andare in superbia, innalzarsi cioè all'amicizia di Dio, Signore altissimo di tutte le creature. Vano invece è il vostro andare in superbia, cioè farsi

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se humiliari, ergo servire illis, unde evaditis deteriores et servi servorum vestrorum. Vel ergo vestrum studium superbiendi vos admoneat, ut revertamini, unde cecidistis. Quod si non vultis, coniuro vos per Deum vivum, per Deum verum, per Deum sanctum, ut desistatis ab hominum infestatione, nec hanc, quam paramus, reminiscentiam audeatis impedire. Quod si perrexeritis, scitote quod in bonum nostrum vestra malitia insectatioque cedet atque unde lucrum illud tam vanum speratis, inde detrimenta solida in vos ipsos accersitis. LEGATIO AD OMNES CHRISTIANOS

Cap. 4, art.

1.

Quare, o Christigenae, qui Deo per cognitionem proximi super omnes terrigenas sumus, per affectionem et operationem remotissimi tamen invenimur? Nobis praeceptum est, ut vigilemus super iudiciis et adventu Dei, ne sicut fur in nocte nos, qui filii lucis sumus, cum dormientibus in somno ignorantiae expectationum nos comprehendat, utque luceamus in medio nationis pravae per verbum vitae,. praecincti lumbis, et lucernas sanctarum operationum et doctrinarum in manibus tenentes, ut gentes in lumine isto viam salutis agnoscant ambulentque reminiscentes, quoniam homines sunt, ut rationales de summa ratione Dei Christo iustius nominati convertantur nobiscum ad Iesum pastorem et episcopum animarum. Nos autem discincti lumbis abiectisque lucernis peiora facimus et cogitamus. Quasi in occulto alii devorant pauperem, tanquam non videat Deus; alii verberant fratres, quasi non sit venturus iudex; alii domum ad domum et agrum ad agrum copulant, quasi habitaturi soli et semper super terram; ali i libidinibus tam ardenter inserviunt, ut porcis et simiis non sint castiores. Omnia insuper ambitio possidet perituri honoris: certant principes de palmo terrae uno et immolant decem millia animas militum, tam contra rationem pugnantium, diabolo. Dicam insuper cum Bernardo, quandoquidem « meliora sunt vulnera amici, quam oscula inimici », 1 dixit Dominus: praelati olim plerumque multi opcs Ecclesiarum, non labores, amplexi sunt, quasi sui ipsorum, et non

1.

Prov., 27, 6.

QUOD RBMINISCBNTUR

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schiavi dei propri desideri e quindi abbassarsi sotto se stessi, onde riuscite peggiori e schiavi dei vostri schiavi. La vostra stessa ricerca di superiorità vi renda adunque avvertiti di ritornare là onde siete precipitati. Che se non volete, allora vi scongiuro per Dio vivo, per Dio vero, per Dio santo, di desistere dall'infestare gli uomini e di non osare impedire questa reminiscenza, che stiamo preparando. Che se tuttavia persisterete, sappiate che la vostra malvagità e persecuzione torneranno in bene nostro: proprio donde sperate acquistare quel vano lucro, tirerete sopra di voi una totale rovina. LEGAZIONE A TUTTI I CRISTIANI

Cap. 4, art.

1.

Perché, o creature di Cristo, noi che siamo più vicini a Dio nella cognizione che tutti gli altri terrestri, nell'amore e nella azione ci troviamo tuttavia ad esserne i più lontani ? A noi è stato comandato di vigilare sopra i giudizi e l'avvento di Dio, perché non sorprenda come ladro nella notte noi, che siamo i figli della luce, insieme con quelli che dormono ignorando l'aspettazione delle sue visite, e perché abbiamo a risplendere in mezzo alla moltitudine malvagia col verbo di vita, cinti i lombi, reggendo in mano le lucerne delle buone opere e della sacra dottrina, affinché le genti, rischiarate da questo lume, riconoscano la via della salvezza e vi camminino, rammentando che sono uomini, affinché giustificando il titolo di razionali, che essi derivano da Cristo somma razionalità divina, si convertano insieme con noi a Gesù pastore ed episcopo delle anime. Ma noi invece, discinti i lombi, e gettate le lucerne, pensiamo e operiamo il peggio. Altri divorano il povero nascostamente, come se Dio non li vedesse, altri flagellano i fratelli, come se non dovesse venire il giudice, altri aggiungono casa a casa e campo a campo, come se dovessero abitare essi soli e in perpetuo sopra la terra, altri si abbandonano così ardentemente alle libidini, che son men casti dei porci e delle scimmie. Tutti noi inoltre domina l'ambizione di onori perituri: i principi contendono per un palmo di terra e sacrificano al diavolo migliaia di vite di soldati, che combattono contro ragione. E poiché «migliori sono le ferite dell'amico che i baci del nemico», secondo il Signore, dirò anch'io con Bernardo: i prelati banno abbracciato per lo più le ricchezze, e non le fa-

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divini gregis pastores. Hinc in ultramontanis regionibus haereses, rixae, discordiae ubique perpetes, libri pieni iurgiis, blasphemiis, execrationibus. ludaei et Machomettani et Gentiles, ista perpendentes, nos non lege Dei, sed diaboli existimant duci; et qui eis, ut reminiscantur et convertantur ad Deum, organa a Christo facti eramus, iam scandalo sumus, ut avertantur, sanctisque viris inter nos viventibus impedimento, quominus mundum ad hanc reminiscentiam reducant. Quapropter rogo vos per regnum sanctorum, per Christi redemptionem, per spem futurae gloriae, ut nos iam prius reminiscamur originis nostrae, et sic erit, ut nobiscum convertantur nationes ad Deum suum. Non enim colligere de spinis uvas nec de tribulis ficos norunt. An nescimus, quod in morte haec omnia relinquenda sunt, filii, uxores, opes, regnum, servi, episcopatus, esca, venter et corpus ipsum? Operemur ergo cibum, qui non perit, lucremur bona, quae nos usque ad Dei tribunal comitabuntur. Bona immortalia sunt animae immortales. O quam stultum est Turcarum regnum et pecunias tam avide lucrari velie, animas vero ipsorum, quae Paulo Apostolo sunt corona et gaudium ante Deum, tam vilibus postponere rebus. Cunctis dictum est «Nolite cogitare de crastino », 1 et victu et vestitu contenti simus, quo vere perennes divitias procuremus. Nos autem quasi quibus dictum sit: «divitiae aeternae non sunt vestrae nec vos beant; luteum metallum et densa lana et linum et stercus et menstruum et urina sunt vestrae coronae et gaudia sempiterna immarcescibilia: haec curate». Pudeat nos ista audire, pudeat et velle et operari. Satagamus ergo, carissimi, ut praedicetur Evangelium omni creaturae. Praedicant alii verbo, ut theologi, alii exemplo, ut boni operatores, alii oratione, petentes a Deo, ut, quod coepit, perficiat. Si hoc humero uno servientes Deo inceperimus, cessabunt lites de minimis, nemine aliorum profectui invidente, fraudes, bella, principum quoque pugnae, haereses: ingenia enim contra hostes Ecclesiae, non contra Ecclesias exercebuntur, et tunc totius humani generis domini erimus. « Decem homines apprehendent vestem viri» Christiani, ut

I.

Matth., 6, 34.

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tiche per la Chiesa, come dovessero pasturare se stessi e non il gregge di Dio. Onde son sorte nelle nazioni ultramontane eresie, risse, discordie perpetue dappertutto e libri pieni di oltraggi, di bestemmie e di maledizioni. I Giudei e i Maomettani e i Gentili, considerando questi fatti, stimano che noi siam guidati non dalla legge di Dio, ma da quella del diavolo; e mentre eravamo stati costituiti da Cristo strumenti, affinché essi si rammentassero e si convertissero a Dio, siamo a loro di scandalo, onde invece di accostarsi, si alienano da Dio e anche ai santi, che vivono in mezzo a noi, impediamo di ridurre il mondo a questa reminiscenza. Perciò io vi supplico per il regno dei santi, per la redenzione di Cristo, per la speranza della futura gloria, che noi abbiamo per i primi a rammentarci ormai della nostra origine, e così anche le nazioni si convertiranno con noi al loro Dio. Non si possono infatti raccogliere uve dagli spini né fichi dai triboli. Non sappiam noi che in morte tutto si deve abbandonare, e figli e spose e ricchezze e regno e servi e vescovado e cibi e ventre e sino il corpo? Procuriamoci dunque il cibo che non perisce e acquistiamo i beni che ci accompagneranno fino al tribunale di Dio. I beni immortali sono le anime immortali. Qual stoltezza è mai questa: bramare avidamente di acquistare il regno e le ricchezze dei Turchi, e posporre a cose tanto vili le loro anime, che all'apostolo Paolo sono gaudio e corona al cospetto di Dio? A tutti è stato detto « Non vogliate pensare al domani»: contentiamoci dunque nel vitto e nel vestito, onde possiam procurarci ricchezze veramente perenni. Noi invece viviamo come ci fosse stato detto: « le ricchezze eterne non sono per voi e non vi beano: vostra corona e gaudio sempiterno sono il fangoso metallo e la densa lana e il lino e lo sterco e il mestruo e l'urina: queste cose dovete curare». Vergogniamoci di tali parole, vergogniamoci di tali aspirazioni e di tali opere. Facciamo dunque, o carissimi, che sia predicato il Vangelo ad ogni creatura. Alcuni predicar;io colla parola, come i teologi, altri coll'esempio, come gli uomini di sante operazioni, altri colla preghiera, domandando a Dio di portare a compimento ciò che egli ha iniziato. Se intraprenderemo unanimi in servizio di Dio una tale fatica, cesseranno le futili liti, le frodi, le guerre, le lotte fra i principi, e le eresie, poiché nessuno porterà invidia agli avanzamenti degli altri: gli ingegni si eserciteranno infatti contro i nemici della Chiesa, e non contro la Chiesa. E allora saremo signori di tutto il genere umano. «Dieci uomini tocche78

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dicit Zacharias, «dicentes: Audivimus, quia Deus vobiscum est: transimus ad vos », 1 non quod dominemur fidei illorum, sed quorum animos lucraris, corpora quoque et fortunas tibi subiicis ex consequentia, sicut in Policitis demonstravimus. 2 Haec enim omnia adiicientur quaerentibus regnum Dei, quod intra animas hominum est. Nonne Hispani in America et orientalibus regionibus et meridianis Africae et Asiae pluribus imperant propter religionem propagatam, quam gladio? 1am Chinenses, laponenses, Indi et Eoi insulani, aliique populi credunt. Satagendum est nunc ne Batavi et Angli labores vestros comedant, aut ne, sicut olim Tartari sub Magno Cham, invadentes Asiam et Ierusalem, facti sunt Christiani, nostrorum verbo devicti, mox autem, videntes regum Christianorum discordiam et modicam episcoporum curam de spiritualibus, ut scribit Ioannes Villanus, habuerunt nos pro falsariis, et in Machomettismum aliasque sectas recesserunt, sic et novi isti Christiani recedant. Nam et aurum liquatum in os Hispani cuiusdam per vim in detestationem avaritiae, sicut olim Parthi in os M. Crassi, immiserunt. Quanto deteriora putamus scandala ex aliis vitiis nostris, ipsorum eradicantia fidem, suboriri? Naturale est autem cuilibet melioribus se subiicere, non deterioribus: propterea se dignos, qui no bis imperent, non qui obediant, intelligunt, nisi verbo simul praedicemus et opere. QUAE REMEDIA IN TOTO CLERO CHRISTIANO UTILISSIMA AD FACIENDUM UNUM GREGEM AC PASTOREM PER REMINISCENTIAM CURANDAM TRACTANDA FORENT

Cap. 4, art. a.

Aequum arbitror recensere, quae pro communi totius cleri bono in ordine ad faciendum unum ex toto mundo gregem pastoremque unum in lib. De Regimine ecclesiastico scribebamus, et sub Paulo III cardinales praefecti reformationi meditabantur. I. Primum stricta lege ac consuetudine Pontifices Summi curent, ne ad cardinalatum admittantur, nisi post trigesimum an-

1. Cfr. Zach., 8, 23. 2. Cfr. Aforismi politici, Torino, Libreria scientifica G. Giappichelli, 1941, p. 91, n. 7.

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ranno la veste di un uomo» cristiano, come dice Zaccaria, «dicendo: Abbiamo udito che Dio è con voi e perciò veniamo con voi». E questo non perché metteremo il giogo alla loro fede, ma perché, conquistate le anime, anche i corpi e le fortune si assoggettano per conseguenza, come abbiam dimostrato nella Politica. A chi ricerca il regno di Dio, che è dentro le anime degli uomini, tutti questi altri beni saranno aggiunti in sovrappiù. Non è forse vero che gli Spagnuoli in America, in Oriente e nel meridione dell'Africa e dell'Asia hanno più sudditi a cagione della religione, da loro propagatavi, che non in forza della spada? Ormai i Cinesi, i Giapponesi, gli Indiani, gli abitanti delle Isole Orientali e tanti altri popoli hanno ricevuto la fede. Bisogna adesso procurare che Olandesi e Inglesi non distruggano le vostre fatiche o che, come un tempo i Tartari, penetrati in Asia e a Gerusalemme sotto il Gran Can, divennero cristiani, vinti dal verbo dei nostri sacerdoti, ma poi scorgendo la discordia dei re cristiani e la poca cura dei vescovi per lo spirituale, come scrive Giovanni Villani, ci tennero per falsari e ritornarono al maomettismo e ad altre sètte, alla stessa guisa codesti nuovi Cristiani non ritornino ai loro errori. Infatti in esecrazione della nostra avarizia versarono oro fuso nella bocca di certo Spagnuolo, come un tempo fecero i Parti nella bocca di Marco Crasso. Quanto più gravi scandali penseremo noi che debban sorgere dagli altri nostri vizi e sradicare la loro fede? Ad ogni uomo è naturale sottomettersi ai migliori, non ai peggiori di sé: e per questo, se non predichiamo loro colla parola e coll'opera insieme, essi si ritengon degni di comandarci e non di obbedirci. QUALI RIMEDI SI DOVREBBERO TRATTARE

IN TUTTO IL CLERO CRISTIANO, UTILISSIMI PER FARE UN GREGGE E UN PASTORE MEDIANTE LA REMINISCENZA

Cap. 4, art.

2.

Ritengo opportuno elencare i rimedi già trattati nel libro De Regimine ecclesiastico e ventilati sotto Paolo III dai cardinali preposti alla riforma, per il bene comune di tutto il clero, in vista di fare di tutto il mondo un sol gregge e un sol pastore. 1. Per prima cosa i Sommi Pontefici procurino, facendone stretta legge e stabilendone la consuetudine, che non siano ammessi al cardinalato se non coloro i quali, con trent'anni almeno di età,

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num, illi modo, qui pro Ecclesia labores graves, praedicando, legendo et convocando principes et populos ad collationem generalissimam pro reminiscentia, pertulerint. 2. Filii regum et principum nec admittantur, nisi ipsi et parentes hoc idem diligenter curaverint. 3. Quicunque legatus mittitur ad Turcarum regem vel Catainorum. vel Chinensium etc., et doctrina · et arte saltem converterit eos ad acceptandum sermonem et disputationes, inquirentes veritatem fidei, honoretur cardinalatu vel alia dignitate fulgenti, praesertim in provincia, quam acquisierit. Id saepe fit a Summis Pontificibus: non est novum. 4. Quicunque civitatem haereticam aut infi.delem ad fidem converterit, fi.at episcopus illius, ut Bonifacius olim in Germania, et si ultra vult laborare, ibi suffraganeum ipse ponat; nam et Apostoli episcopi erant in provincia acquisita et substituebant alios. Quod Summi Pontifices indultu nunc imitari queant. 5. Cardinales vel non habeant redditus ecclesiasticos supra 12 millia scutorum aureorum, vel quidquid supra habent, in ecclesiastico reponant thesauro quotannis illud superfluum vel portionem. Idem effi.ciant episcopi et primates orbis totius, ut cumuletu.r pecunia pro fidelium defensione in bellis, de quibus sermo subsequitur. 6. Praeterea de superfluis redditibus teneantur alere seminaria in civitatibus singulis sub praeceptoribus doctrina et probitate insignibus. Collegia etiam bonarum artium in regionibus infidelium nutriant, ut multi cardinales nunc etiam recte faciunt curantque. 7. Nullas annuas pecunias, quas vocant ccii piatto», a principi bus accipiant: esca enim ex eis capta sanguinem et spiritum facit subditum quadam magica vi principibus terrae; et haec est fornicatio, quam sacri scriptores abominantur. Vestes etiam pro principi bus, non pro Ecclesia loquuntur. Praeveniat ergo Summus Pontifex exaltando viros bonos, antequam a principibus postulentur, donec principes Constantino et Ludovico Sancto aequales in obedientia et amore erga Ecclesiam non fuerint. 8. Monachorum pinguissimae domus collegia alere, parva vel

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abbiano sostenuto gravi fatiche in favore della Chiesa predicando, insegnando, e invitando i principi e i popoli all'assemblea generalissima per la reminiscenza. 2. I figli dei re e dei principi non vi siano ammessi, se non a condizione che essi e i loro parenti abbiano curato diligentemente questa medesima impresa. 3. Chiunque sia stato inviato al re dei Turchi o dei Cataini o dei Cinesi ecc. e li abbia colla dottrina e coll'abilità sua indotti almeno ad accettare conversazioni e discussioni sopra la verità della fede, sia insignito del cardinalato o di qualche altra dignità eminente, soprattutto nel paese ch'egli avrà conquistato. Questo provvedimento non è nuovo, ma già praticato sovente dai Sommi Pontefici. 4. Chiunque avrà convertito alla fede una città eretica o infedele, sia fatto vescovo di quella, come un tempo Bonifacio in Germania, e se vuol continuare le fatiche della predicazione, lasci in quella un proprio suffraganeo. Anche gli Apostoli infatti eran vescovi nelle regioni conquistate, ma sostituivano altri. I Sommi Pontefici potrebbero con un indulto rinnovare adesso questo costume. 5. I cardinali o non abbiano rendite ecclesiastiche superanti i dodicimila scudi aurei, oppure ripongano ogni anno nel tesoro della Chiesa il superfluo o porzione del superfluo. E il medesimo facciano i vescovi e i primati di tutto il mondo, così da accumulare il denaro per la difesa dei fedeli nelle guerre di cui si dirà. 6. Coll'avanzo delle rendite siano inoltre tenuti a mantenere seminari nelle singole città con maestri insigni per probità e dottrina. Mantengano similmente collegi di educazione nei paesi degli infedeli, come già sin d'ora fanno provvidamente molti cardinali. 7. Non ricevano dai principi nessuna di quelle rendite annue che si chiamano « il piatto». Infatti l'alimento ricevuto dai principi della terra, per una cotale magia, rende il loro sangue e il loro spirito soggetto ai principi, e questa è la fornicazione abominata dagli scrittori sacri. Anche le loro vesti parlano in favore dei principi, e non in favore della Chiesa. Dunque il Sonnno Pontefice esalti alle dignità gli uomini di valore, prevenendo le sollecitazioni dei principi, finché i principi non saranno uguali a Costantino e a san Luigi nell'obbedienza e nell'amore verso la Chiesa. 8. Le comunità più ricche dei monaci siano tenute a mantenere

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magna pro rata census, teneantur prope se, et monachi studia repetant collapsa; fratres mendicantes dent magistros. 9. Et medicina et mathematica et scientiae omnes floreant in monasteriis et conventibus, et saeculares indigeant religiosis in omni re. Fratres B. loannis de Dios medicinae et pharmacopeae operam dent; similiter et Iesuitae legibus, Summaschi, Crucillarii1 et alii ordines clericorum, qui teneantur, illi medicari pauperibus et per civitates ad hoc munus discurrere et villas, isti defendere causas omnium viduarum, pupillorum et pauperum. Ut quid enim religio duobus instrumentis trahendi mundum ad se, medicina scilicet et lege, privatur, cum Moyses legum curam et leprosorum sacerdotibus imponat? Theatinorum2 saecularis nobilitas et ecclesiastica eloquentia et doctrina legationibus et defensionibus utilissima foret. 10. Dixi alibi,3 quomodo omnes leges imperiales et civiles oh superfluitatem et saporem Gentilismi abolendae essent, et relinquendae solum canonicae, si quid eis deest, addendo, et recapitulando eas in unum deuteronomium facile, ne tanta volumina et repetitio dictorum difficultatem studiosis, laqueos ignaris, immortalitatem litibus pariant. Et hic modus arctius alligat religioni et Ecclesiae saeculum. 11. Dixi etiam, quomodo auctoritas Gentilium philosophorum minuenda et Christianorum augenda, et quomodo scientiae omnes instaurari debent ad S. Scripturae normam et veracitatem et brevitatem, ut etiam Concilium Lateranense sub lulio II optat et nos facere conati sumus, Deo auxiliante, ne Gentiles et alii infideles scandalizentur, et lulianus et Machiavellus garriant, quod nos Christum Dei sapientiam profitentes habere nobiscum, sapientiam tamen a Gentilibus mendicamus, quantum etiam prosit moribus scholarium, et ne ex hoc primo scandalo, quod de dogmatis fidei a gentili philosophia et poesi in corde eorum movetur, assuescant principibus sacculi, spreta religione, favere. Volunt enim esse falsam, quod suis utilitatibus apud principes obstat, et sic philo-

1. Crucillarii: i Crucillari o Crociferi sono i chierici regolari fondati da san Camillo Lellis (1550-1611) per la cura degli infermi. 2. Theatinorum: Ordine fondato da san Gaetano Thiene (1480-1547) per l'istruzione del popolo e la lotta contro l'eresia. 3. Dixi alibi: nei citati Discorsi. Cfr. qui a p. 1135, n. 18.

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accanto a sé collegi più o meno grandi secondo il censo, e i monaci ritornino a coltivare gli studi decaduti: i frati mendicanti forniscano i maestri. 9. Nei monasteri e nei conventi fioriscano anche la medicina e la matematica e tutte le scienze, e i secolari dipendano dai religiosi in ogni cosa. I frati di san Giovanni di Dio si dedichino alla medicina e alla farmacopea e similmente i Gesuiti alle leggi, e i Somaschi e i Crociferi e gli altri ordini di chierici. Questi sian tenuti a medicare i poveri, scorrendo a questo scopo per le città e per le campagne, e quelli a difendere le cause delle vedove, dei pupilli e dei poveri. Perché infatti dovrebbe la religione privarsi dei due strumenti che tirano a sé il mondo, la medicina cioè e la legge, mentre Mosè impone ai sacerdoti la cura dei lebbrosi e delle leggi? La nobiltà secolare e l'eloquenza ecclesiastica e la dottrina dei Teatini sarebbe utilissima nelle legazioni e nelle difese. 10. Ho detto altrove come tutte le leggi imperiali e civili dovrebbero essere abolite come superflue e odoranti il paganesimo, e come si debbano lasciare soltanto le leggi canoniche, completandole, se qualche cosa manca, e ricapitolandole in una specie di deuteronomio facile, perché tanti volumi e tante ripetizioni non ingenerino difficoltà agli studiosi, tranelli agli ignari e lunghezza infinita alle liti. E questo espediente lega più strettamente il mondo alla religione e alla Chiesa. 11. Ho anche spiegato come bisogni fiaccare l'autorità dei filosofi pagani e fortificare quella dei cristiani, e come si debbano restaurare tutte le scienze a norma della Sacra Scrittura, secondo veracità e brevità, come anche il Concilio Lateranense sotto Giulio II desidera e come noi abbiam tentato di fare, coll'aiuto di Dio, affinché i Gentili e gli altri infedeli non si scandalizzino e Giuliano e Machiavelli non garriscano che noi, professando di aver con noi Cristo sapienza di Dio, mendichian10 tuttavia la sapienza dai Gentili. Ho detto anche quanto una tale restaurazione giovi al costume degli scolari e a impedire che, in conseguenza di questo primo scandalo suscitato nei loro cuori dalla filosofia e dalla poesia gentilesca nelle cose riguardanti i dogmi della fede, i discepoli si avvezzino a disprezzare la religione e a parteggiare per i principi del secolo. Presumono infatti che la religione sia falsa perché si oppone ai loro interessi presso i principi e cosi inclinano a ritenere che si debba credere più alla filosofia che alla

TOMMASO CAMPANELLA

sophiae magis credendum incipiunt velie. Hinc Marsilii, Arnaldi, Pauli 1 et alii huius farinae, contemnentes iussa Pontificum, laicis principibus et schismaticis adhaeserunt. 12. In ordinibus religiosorum nemo ascendat ad praelaturam, nisi literatissimus sui conventus. Etsi enim sanctiores et prudentiores sunt literatis ad munia meliores, at qui sint isti, plerumque non agnoscuntur: hypocrisis omnia tegit, et qui putatur bonus, est plerumque pessimus; literatura autem nota est nec potest virtutis expers esse. Et sic omnes studebunt fieri revera docti: uhi enim pares, ibi disputatio publica litem dirimit. 13. At hi praelati teneantur legere quotidie theologiam aut philosophiam aliamve scientiam, quae in suo conventu solet; et ubi nulla scientia, ibi legat omnibus fratribus quotidie morales conscientiae casus, aut unum capitulum Bibliorum moraliter et literaliter exponat. Et hoc eius munus, pascere verbo; in caeteris mechanicis vicarium aut subpriorem habeat, qui sit prudens et probus omnium iudicio, et singulis hebdomadis et mensibus rationem reddat praelato et fratribus, et in arduis consulat eundem. Sic enim fiet, ut omnes fieri velint quam doctissimi, et conventus in temporalibus optime se habeat, nec despiciantur sapientes ab hypocritis (propterea enim ponuntur in primo gradu ), nec audeant vicarii ad libitum res conventuales tractare. Et electiones faciliores erunt: scitur enim subito quis futurus praelatus, si doctissimus. Hunc S. Bernardus, cum esset abbas, morem servavit; lectioni et meditationi et scriptioni vacando, curam monasterii Gerardo committebat, et omnia recte procedebant, uti narrat super Cantico 2 in lamentatione de morte Gerardi fratris. 14. Idem utinam episcopi observarent aliique praelati, curas inferiores nlittendo sollertioribus. Sed e contra aliquando ipsi pecuniarum curam gerunt, verbi praedicationem et lecturas aliis demandant. In quo murmurant sacri scriptores.

1. Ma,silii . .. Pauli: Marsilio da Padova, fautore di Lodovico il Bavaro nella lotta contro Giovanni XXII, fu scomunicato nel 1327. Arnaldo da Brescia, discepolo di Abelardo, nemico della potestà pontificia, messo a morte da papa Adriano IV nel 1155. Paolo Sarpi infine (1552-1623) è il celebre segretario della repubblica di Venezia, che il Campanella considerava come venduto ai principi temporali e confutò negli A'1tive11eti. 2. uti . •. Cantico: cfr. In Cantic., serm. xxvi, n. 6.

QUOD REMINISCENTUR

teologia. Perciò i Marsili, gli Arnaldi, i Paoli e altri della stessa farina aderirono a principi laici e scismatici, disprezzando l'autorità dei Pontefici. 12. Negli ordini religiosi nessuno ascenda a una prelatura, se non sia il più dotto del suo convento. Quantunque infatti i religiosi più santi e più prudenti siano più atti dei letterati alle funzioni di governo, per lo più non appare quali di essi siano tali: l'ipocrisia copre ogni cosa e chi vien considerato buono, è per lo più pessimo; la dottrina invece è nota e non può andar del tutto scompagnata dalla virtù. In questo modo tutti si studieranno di diventare realmente dotti e dove sembreranno pari, lì la publica disputa deciderà. 13. Ma questi prelati siano tenuti a insegnare ogni giorno teologia o filosofia o qualche altra scienza, secondo la consuetudine del convento, e se nessuna scienza vi è coltivata, leggano ogni giorno a tutti i frati casi di coscienza o espongano nel senso letterale e in quello morale un capitolo della Bibbia. E questo è l'officio del prelato, di pasturare colla parola, mentre nelle altre faccende materiali avrà un vicario o un sottopriore, il quale sia, a giudizio di tutti, probo e prudente, e renda conto al prelato e ai frati ogni settimana ed ogni mese, e nelle difficoltà chieda consiglio al prelato. In questa guisa tutti vorranno crescere in dottrina, e il convento camminerà ottimamente nelle cose temporali e i sapienti non saran disprezzati dagli ipocriti (per la sapienza infatti ascendono ai più alti gradi), e i vicari non oseranno trattare a loro arbitrio gli interessi del convento. Anche le elezioni diventeranno più facili, poiché dalla dottrina si riconoscerà immediatamente chi sarà prelato. Questa massima seguì san Bernardo, quand' ~ra abate; attendendo egli alla lezione e alla meditazione e alla scrittura, commetteva la cura del monastero a Gerardo, e così tutto procedeva bene, come egli stesso narra nel commento sopra la Cantica, dove piange la morte di suo fratello Gerardo. 14. La medesima massima vorrei che osservassero anche i vescovi e gli altri prelati, affidando gli affari minori ai soggetti più solerti. Essi invece al contrario conducono talvolta personalmente gli affari di denaro e demandano ad altri la predicazione e l'insegnamento. Perciò mormorano gli scrittori sacri.

THOMAE CAMPANELLAE CALABRI, ORDINIS PRAEDICATORUM

APOLOGIA PRO GALILAEO MATHEMATICO FLORENTINO UBI DISQUIRITUR, UTRUM RATIO PHILOSOPHANDI, QUAM GALILAEUS CELEBRAT, FAVEAT SACRIS SCRIPTURIS, AN ADVERSETUR

* TOMMASO CAMPANELLA CALABRESE, DELL'ORDINE DEI PREDICATORI

APOLOGIA PER GALILEO ASTRONOMO FIORENTINO NELLA QUALE SI RICERCA SE LA FILOSOFIA SOSTENUTA DA GALILEO SIA CONFORME O CONTRARIA ALLA SACRA SCRITTURA

CAPUT III

Argumentis utrimque propositis pro veteribus et modernis theologis, Galileum defendentibus et oppugnanti bus, 1 respondebo, sed iactis heic prius solidis probatissimisque fundamentis sive hypothesibus ex Sanctorum doctrina, et naturae decretis, et nationum consensu. PRIMA HYPOTHESIS

Quicunque quaestionis, etiam ad religionem vel ex parte spectantis, iudices fieri volunt, zelum Dei habere debent et scientiam, ut docet S. Bernardus in Apologia2 ex dictis Apostoli Ad Rom., 10. Probatur prior pars huius copulativae. Qui enim scientiam habent absque zelo Dei, hominibus in tribunali vel gymnasio regnantibus adulantur; ac proinde pro veri tate definire non audent, ut loan., 12, [42-3], dicitur: «Ex principibus multi crediderunt in Iesum, sed propter Pharisaeos non confitebantur, ut e synagoga non eiicerentur; dilexerunt enim gloriam hominum magis quam gloriam Dei.» Item Apost. Rom., 1, philosophos condemnat, quod, cum Deum cognovissent, non tamen sicut Deum honorificassent, sed diis falsis sacrificassent, quoniam, ut Plato quoque in Apologia pro Socrate et Xenophon et Cicero et Plinius et alii narrant, timebant ne criminis haereseos accusarentur apud senatum; multique eorum tanquam impii interficiebantur. Alii vero, quoniam ex opinione, quam vulgus sectatur, pecunias lucrantur et honores, sic eam defendunt, ut videantur publicae utilitati saltem consulere; 1. L'Apologia pro Galilaeo fu composta nel carcere napolitano come consulto teologico ad istanza del cardinale Bonifacio Gaetani, che sedeva tra i giudici nel processo condotto sopra le scritture copernicane l'anno 1616. Il processo, come si sa, terminò con un decreto del 24 febbraio che qualificava come erronee le teorie eliocentriche, inscriveva nell'Indice dei libri proibiti alcuni libri di ispirazione copernicana e intimava a Galileo, nella forma di un praeceptum, di astenersi per l'avvenire dal tenere, insegnare o difendere in qualunque maniera, a voce o per iscritto, le dottrine della nuova astronomia. L'opuscolo campanelliano, che doveva sopperire argomenti e autorità in favore di Galileo lumeggiando la fondamentale estraneità dell'autorità della Bibbia alle controversie scientifiche e richiamando il Santo Officio alla più antica tradizione patristica incautamente abbandonata, giunse però nelle mani del cardinale Gaetani otto giorni dopo l'avvenuta condanna, come attesta il Campanella stesso (in un passo poco noto delle Quaest. phys., Parisiis 1637, q. x, art. 4, p. 106): « Post quinque annos ab huiru articuli inscriptione audivi Romae a Patrib,u danmari sente11tiam de mottl Telluris diario tanquam Scripturis contrariam, octavo die antequam nostra disp,ltatio de hac materia ad cardinalem B. Gaetanum perveniret» (•Cinque anni dopo aver

CAPITOLO III

Agli argomenti che son stati proposti per difendere o per impugnare Galileo, secondo i teologi antichi e moderni, farò risposta in seguito, soltanto dopo aver gettati alcuni solidi e indiscutibili fondamenti, o proposizioni, conformemente alla dottrina dei santi, alle leggi della natura e al consenso di tutti i popoli. PRIMA PROPOSIZIONE GENERALE

Chiunque vuol giudicare di una questione che concerna anche solo parzialmente la religione, deve possedere lo zelo di Dio e la scienza, come insegna san Bernardo nell'Apologia in base alle parole dcli' Apostolo Ai Romani, 10. Si prova la prima parte di questa affermazione. Chi infatti possiede la scienza senza lo zelo divino, si sottometterà con adulazioni alle potenze umane che regnano nei tribunali e nelle facoltà degli studi, e perciò non oserà definire la questione secondo verità, come è detto in Giovanni , 12, [ 42-3] : « Molti dei capi credettero in Gesù, ma non lo confessavano a cagione dei Farisei, per non essere espulsi dalla Sinagoga: infatti essi amarono di più la gloria umana che la gloria di Dio.» Anche san Paolo (Ai Romani, 1) condanna i filosofi per la ragione che, avendo conosciuto Dio, non gli prestarono l'onore debito a Dio, ma sacrificarono alle false divinità, perché, come anche Platone nell'Apologia di Socrate e Senofonte e Cicerone e Plinio e altri narrano, temevano di essere accusati di eresia al Senato, e molti di essi venivano uccisi come empi. Altri poi, siccome lucrano onori e ricchezza blandendo le erronee opinioni del volgo, le vanno difenscritto questo articolo seppi che a Roma i Padri dell'Inquisizione avevan condannato la teoria del moto diurno della Terra come contraria alla Bibbia, e questo sette giorni prima che la mia trattazione su questo soggetto arrivasse nelle mani del cardinale Benedetto Gaetani»). :t una congettura senza alcun fondamento quella avanzata dall'Amabile, che la dedicazione al Gaetani fosse apposta all'Apologia dopo la morte del Gaetani, avvenuta nel 1617, e soltanto per coprire coll'autorità di un prelato le dottrine professate nel libretto. Non soltanto infatti questo luogo delle Quaestiones, ma anche la lettera del Failla a Galileo (6 settembre 1616) provano, senza possibilità di dubbio, che l'apologia fu mandata a Roma al detto personaggio (non bene dunque L. F1RPO, Bibliog,-afia degli scritti di Tommaso Campanella, Torino, V. Bona, 1940, p. 72). La stampa dell'opuscolo ebbe luogo per le cure di Tobia Adami nel 1622. 2. in Apologia: nell'Apologia pro statu et moribw religiosorum non trovasi alcuna formola analoga a quella che il Campanella cita.

TOMMASO CAMPANELLA

nec pro veritate et iustitia certant aut laborant, sed pro gloriola et ventre; et relicto proprio iudicio in crimen transeunt alienum, ut dicit Leo Pontifex de Pilato; 1 utque Apostolus ait, «veritatem Dei in iniustitia detinent »;2 adeoque seipsos ita afficiunt, ut tandem videatur eis vera opinio, quam ore defendunt, et corde negabant. Sic fìt pestis animorum, ut dicit T. Livius, 3 et nos in Antimachiavellismo.4 Probatur posterior pars copulativae. Qui autem zelum Dei habent, et non scientiam, quamvis sanctissimi sint, nisi a Deo expressam revelationem acceperint, nequaquam de quaestione tali iudicare possunt. Unde Apostolus Rom., 10, [2] testimonium perhibet ludaeis, quod persequuti fuerint Christianos «ex zelo Dei, sed non secundum scientiam». De seipso quoque testatur, quod putarit, se obsequium praestare Deo. Et quamvis esset litteratus et eruditus in lege secus pedes Gamalielis et in doctrinis saecularibus, tamen ait: « Ignorans feci, et in incredulitate mea »:5 quia non per omnia argumenta examinarat fìdem Christianorum, sicuti debebat. Praeterea Lactantius Firmianus6 et S. Augustinus,7 cum essent sancti ac docti, negaverunt antipodas, moti ex zelo Dei et Scripturarum, sicut patet ex argumentis, quae inde educuntur; tum quia homines illi ex Adam non traherent originem, quod est contra Scripturam, tum quia sit impossibile, ex nostris illuc migrasse per Oceanum impertransibilem. Alii addunt, quia Christus heic et ibi crucifixus bis fuisset, quia Scriptura dicat, coelum esse extensum sicut cameram, cuius basis tellus (ait Iustinus)8 super qua aqua, et super hac coelum immobile. Nihilominus iam videmus falsas esse rationes hasce ex defectu mathematicae et cosmographiae ortas, proptereaque Scripturam quoque torqueri. Et sicut falsa esse deprehenditur sententia S. Thomae,9 quod sub aequinoctiali non extet habitatio hominum, idque physiologiae et geographiae itidem defectu, et ex zelo Aristotelis, cui magis credere voluit quam Alberti Magni et Avicennae rationibus, ita eodem zelo Scripturarum S. Ephrem,

... Pilato: nell'Epist., XXI, 4(Migne, P. L., voi. LIV, col.717). 2. Rom., 3. Cfr. Livio, XLIV, 3. 4. Cfr. Athei.smus triumphatus, Parisiis 1636, cap. 1, pp. 2.-3. 5. I Tim., 1, 13. 6. Cfr. De div. instit., lib. 111, cap. z5. 7. Cfr. De civ. Dei, lib. xvi, cap. 9. 8. ait lustinus: per tutta la questione cfr. Quaest. phys., ed. cit., q. x1, art. 1, p. 116. 9. Cfr. Quaest. disput., q. 11, art. 5, ad 1zum. 1. ut

1, 1z.

APOLOGIA PRO GALILAEO

1247

dendo affinché si creda che provvedano almeno al pubblico bene, e non faticano né combattono per la verità e la giustizia, ma per la loro gloriuzza e per il loro ventre. Costoro tradendo le proprie persuasioni accedono all'errore altrui, come papa Leone dice di Pilato, e, secondo la parola dell'Apostolo, « ritengono ingiustamente la divina verità»: anzi talmente suggestionano se stessi che finiscono con reputare vero nel loro intimo quello che difendono a parole e prima nel loro intimo negarono. In questo modo si sviluppa la peste delle anime, come dice Tito Livio e come noi abbiamo mostrato nell' Antimachiavellismo. Si prova la seconda parte. Chi invece possiede lo zelo divino, ma non la scienza, per santo che egli sia, non può giudicare di tali problemi, tranne che ne abbia espressa rivelazione da Dio. Perciò san Paolo (Ai Romani, 10, [2]), riconosce che i Giudei perseguitarono i Cristiani « per zelo divino sì, ma non secondo scienza», e attesta di se medesimo che, perseguitandoli, riteneva di prestare ossequio a Dio. E quantunque egli fosse letterato e versato nella legge alla scuola di Gamaliele, e dotto nelle discipline profane, dice tuttavia: « Operai così per ignoranza e nella mia incredulità». Infatti non aveva esaminato la fede cristiana attraverso tutte le prove, come avrebbe dovuto. Inoltre Firmiano Lattanzio e sant' Agostino, pur essendo e santi e dotti, negarono gli antipodi, mossi dallo zelo divino e dall'attaccamento alla Bibbia, come risulta dagli argomenti da essa ricavati, che cioè gli antipodi non potrebbero trarre origine da Adamo, il che è contro la Scrittura, e che sarebbe impossibile il passaggio dal nostro emisfero all'opposto, essendo l'oceano invalicabile. Altri aggiungono essere impossibile l'esistenza degli antipodi, perché in tal caso Cristo sarebbe stato crocifisso due volte, cioè da noi e da loro ; e perché la Scrittura dice che il cielo è esteso come una vòlta, la cui base, secondo san Giustino, è la terra, sopra della quale è effusa l'acqua e sopra ancora sta il cielo immobile. Tuttavia noi vediamo ormai che queste ragioni contro gli antipodi son false per manco di cognizioni matematiche e cosmografiche e sforzano anche la Bibbia. E cosi si trova falsa la sentenza di san Tommaso negante abitazioni umane sotto la linea equinoziale: e questo per manco di cognizioni fisiche e geografiche e per soverchia fedeltà ad Aristotele da lui in questo preferito alle ragioni di Alberto Magno e di Avicenna. Allo stesso modo, per· il medesimo attaccamento alla Scrittura, sant'Efrem,

TOMMASO CAMPANELLA

Anastasius Sinaita et Moyses, episcopi Syri, in altero hemisphaerio toto posuerunt paradisum terrestrem: non enim nisi in spatio bene magno, aiunt, quatuor illa paradisi flumina et arbores tot tantaeque esse potuerunt. Nihilominus iam deceptos eos ex navigantium testimonio apparet. Recte ergo diximus quod sine scientia non recte iudicet etiam sanctus. Unde D. Thomas in opusculo Contra impugnantes religionem, cap. I I, quia philosophabantur, ad hoc allegat glossam super Daniel, 1, inquientem: «Si quis imperitus huius artis adversus mathematicos scribat, aut expers philosophiae adversus philosophos agat, quis etiam ridendus vel ridendo non rideat? » Et poeta Comicus de tali iudice ait: Dii immortales, homine imperito nihil iniustius, qui nil rectum, nisi quod placeat sibi, ducit.

SECUNDA HYPOTHESIS

Sex sunt, quae iudicem harum quaestionum scire oportet, ut possit recte iudicare. Primum, quod philosophia de rebus caelestibus et inferioribus necessaria sit theologo speculativo contra sectarios disputaturo. Secundum, quod nondum a philosophis scientia de coelestibus perfecta sit. Tertium, quod neque sanctus Moyses neque Dominus Iesus nobis physiologiam et astronomiam aperuerint, sed « Deus tradiderit mundum disputationi hominum » (Eccle., 3, 11 ), ut « invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspicerent » (Rom., 1, 20), docuerint autem nos beate vivere ac dogmata supernaturalia, ad quae natura non sufficiebat. Quartum, quod qui vetat Christianis studium philosophiae et scientiarum, vetet etiam esse Christianos, et quod sola lex Christiana commendet suis omnes scientias, quia de falsitate sui non timet. Quintum, quod qui tamquam ex doctrina fidei Christianae philosophos, ratione et experimentis dogmata sua probantes, impugnant, quando illa non sunt expresse contraria Scripturis sanc• tis, expositionem non recipientibus per alios contextus, hic perni-ciose contra se et impie contra fidem et irrisorie ad alios se ha beat:

APOLOGIA PRO GALILABO

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Anastasio Sinaita e Mosè, vescovi della Siria, collocarono il paradiso terrestre nell'altro emisfero per tutta la sua estensione, ritenendo che soltanto in uno spazio così grande potessero trovarsi quei quattro fiumi del paradiso e tante e così grandi selve. Purtuttavia risulta ormai dalla testimonianza dei navigatori che essi stanno in errore. Giustamente dunque noi abbiamo affermato che senza scienza nemmeno chi è santo può giudicare rettamente. Onde san Tommaso nell'opuscolo scritto contro coloro che rinfacciavano ai religiosi gli studi filosofici (cap. 11) cita a questo proposito la glossa al cap. 1 di Da1ziele: «Se alcuno ignaro di matematica scrive contro i matematici o ignaro di filosofia contro i filosofi, chi, anche se diventasse oggetto di riso col suo ridere, mai non ne riderebbe?» E il poeta comico dice di siffatto giudice: « O dèi immortali, non v'è di peggio dell'uomo ignorante che non trova giusto se non quel che gli piace. » SECONDA PROPOSIZIONE GENERALE

Sei sono le massime che chi giudica di siffatte questioni deve tener presenti per poter ben giudicare. Prima, che la filosofia e la scienza fisica ed astronomica son necessarie al teologo speculativo che voglia disputare contro gli eterodossi. Seconda, che l'astronomia non è ancora pervenuta a perfezione. Terza, che né Mosè né il Signore Gesù ci hanno manifestate la fisica e l'astronomia, ma« Dio ha abbandonato il mondo all'indagine dell'uomo» (Ecclesiaste, 3, I I),