Teologia del Nuovo Testamento. L'opera di Gesù nel suo significato teologico [Vol. 1]

« Il Nuovo Testamento ascolta l'Antico Testamento come 'Scrittura', ma questo avviene sempre e solo nel q

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Teologia del Nuovo Testamento. L'opera di Gesù nel suo significato teologico [Vol. 1]

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LEONHARD GOPPELT

TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO L'opera di Gesù nel suo significato teologico a cura di Jlirgen Roloff

Volume primo

Introduzione di Giuseppe Segalla

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Theologie des Neuen Testaments Erster Teil- Jesu Wirken in seiner theologischen Bedeutung

Herausgegeben von Jiirgen Roloff © 1976 by Vandenhoeck & Ruprech t in GOttingen Traduzione di Adolfo Fabbio e Clara di Zoppola Aggi u nte bibliografiche di Mauro Orsatti

© 1982 by Editrice Morcelliana S.p.A. - Brescia

Tipolitografia La Nuova Cartografica

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Brescia 1982

LA TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO COME « STORIA DELLA SALVEZZA» IN CRISTO

Una buona teologia del Nuovo Testamento rappresenta sempre il brillante coronamento di una lunga e seria carriera esegetica. � anche il caso della presente Teologia del Nuovo Testamento di Leonhard Gop­ pelt. Purt roppo l'Autore non l'ha potuta portare a termine, perché la morte ha interrotto prematuramente il suo decennale lavoro, verso la fine del 1973. Un suo val id o discepolo, Jtirgen Roloff, ha curato e pub­ blicato con amorosa attenzione l'opera, lasciata i ncomp iut a dal mae­ stro. Il primo volume uscì nel 1976; il secondo l'anno dopo. Delle quattro grandi parti di cui si compone, la prim à: che corri­ sponde al primo volume, era quasi completa (e infatti è la migliore); la seconda e la terza erano pure a buon punto, mentre la quarta (la teologia postpaolina) è stata ricostruita dal Roloff con l'ausilio di appunti e di registrazioni di corsi, tenuti dal profe ssore. La morte pre­ matura ha lasciato quindi qualche traccia, anche perché il di scepolo ha inteso rispettare al massimo il lavoro del maestro, solo completan­ do ciò che quello aveva scritto, non aggiungend o nulla di proprio. In tal modo risultano mancanti dal quadro generale del NT: il Vangelo di Marco, le Lettere deutero-paoline (eccetto Col ) e quelle pastorali. Forse lo stesso Goppelt pensava che gli studi attuali non fossero arri­ vati a tal punto da permettere un quadro preciso della teologia di questi scritti. Mancano pure dalla teologia di Paolo l'etica e l'escatolo­ gia, sebbene previste nel piano delineato all ini zio ( P arte II, cap . 1, § 3 1 , in fine); e sono chiaram en te sommarie alcune parti di Paolo e la teolo­ gia giovannea. Delineata così la genesi di quest'opera, passiamo ad esaminarne la prospettiva ermeneutica che la guida, la metodologia e la s truttura .

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Giuseppe Segalla

La prospettiva ermeneutica di «storia della salvezza»

Quando si fa teologia del NT, si deve affrontare subito il problema dell 'interpretazione . Goppelt era perfettamente cosciente di ciò, come appare dalla lettera che scrisse prima della morte all'editore portoghe­ se, riportata nella promessa dal Roloff. Egli sa e intende dialogare con la teologia sistematica, rispettando comunque il testo e la storia del NT. � si gnificativo, a questo proposito, il capitolo introduttivo, che va letto con molta attenzione per capire la collocazione de lla sua teologia. Si tratta di una breve storia della disciplina in chiave ermeneutica (vicina, in questo senso, agli Epilegomena di Bultmann alla fine della sua Teologia). Egli divide la storia della disciplina in quattro grandi orientamenti ermeneutici: il primo , puramente storico e storic�reli­ gioso, fino al 1920; il secondo corrisponde alla teologia dialettica e kerigmatica di Barth, Bultmann e della sua scuola; il terzo è l'orienta­ mento storic�positivo di Weiss, Beyschlag, Feine, Stauffer, Kiimmel e Jeremias ; il quarto è quello di «storia della salvezza» , tra cui pone Schlatter, Zahn, l'opera di CullnÌ-ann e, per l'AT, anche il Von Rad. L'A. si colloca in quest'ultimo orientamento o prospettiva ermeneutica. Il problema di fondo di una teologia impostata in tal modo è il rappor­ to del Nuovo Testamento con l'Antico. «> indica sufficientemente l'intenzione di unire insieme storia e fede. Solo la fede infatti riesce a vedere nella «storia» di Gesù la storia della salvezza. Goppelt con ciò intende unire insieme la critica storica seria alla fede come comprensione vera e propria di tale storia. Egli pren de sul serio quindi sia fed� che storia, ed intende venire così ad un dialogo fra er­ meneu tica storica ed ermeneutica esistenziale, superando la dicotomia che se n 'era fatta nell'orientamento storico-positiy.Q (storia senza in­ flusso della fede) e in ��lQ i< erigmaticQ_ ( l'interpretazione di fede staccata dalla storia). Il NT si presenta come compimento dell'AT, al cui centro sta la persona di Gesù. Qual è in questa prospettiva ermeneutica il punto di partenza di una teologia del NT? Tale punto di partenza è il kerygma della morte e ri­ surrezione (l Cor. 15,1-5). Anche i Vangeli sono stati scritti nella pr� sp-ettiva della morte-risurrezione di Gesù. Il Goppelt qui polemizza con coloro che considerano la Q una fonte indipendente dei Vangeli, in concorrenza con Marco. In essa sarebbe mancato il kerygma pasquale della morte-risurrezione; la comunità della Q avrebbe aspettato Gesù ___

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come Figlio dell'uomo. Ora, la ricostruzione della Q e della sua comuni­ tà, cui sono state dedicate recentemente grosse monografie in ambiente tedesco (Ltihrmann, Hoffmann, Polag) viene squalificata ironicamente da Goppelt come «Un resto del moderno romanticismo della 'vita di Gesù',, ( Parte 1, cap. 1, § 2). Il kerygma pasquale si sviluppò quindi in due direzioni: una al­ l'indietro verso il Gesù storico (At. 1 0,37-43 ) con interesse per la storia di Gesù, e rappresenta il fondamento storico-teologico del kerygma; la seconda linea si sviluppa in avanti verso la storia della Chiesa, appro­ fondendo la cristologia e la soteriologia. La prima linea è rappresentata dai Vangeli, la seconda dalla letteratura epistolare. L'interesse per il Gesù storico non ha di mira la ricostruzione di una vita di Gesù (Le­ ben-Jesu-Forschung); « tuttavia la teologia del NT si interroga su Gesù come si è presentato ai suoi discepoli, si interroga sulla sua vita terre­ na, e questo è anche il Gesù che continuò poi ad operare». Ed è proprio la continuazione della sua opera con la risurrezione ciò che è specifico di Gesù e non trova nessuna analogia negli ambienti culturali paralleli giudaico e greco-romano. Il kerygma pasquale, in questo senso, è sem­ plicemente unico. Ora, l'opera di Gesù è fondamento di questo kerygma in quanto conduce alla morte-risurrezione. Se è vero questo, non si può costruire una teologia del NT partendo dalla fede pasquale senza il fondamento che vi conduce (contro Bultmann e la sua scuola ). Perciò, non solo la struttura teologica del NT, ma anche una profonda moti­ vazione storica postulano una �ologia che parta dall'opera terrena di G esù. L'argomentazione per provarlo non è fondata su una critica sto­ rico-letteraria stringente che pensi di possedere i mezzi per poter ar­ rivare alla ipsissima vox Jesu, al messaggio di Gesù (cfr. il capitolo in­ troduttivo della Teologia del NT di Jeremias ), ma su una seria ricerca insieme storica e teologica nel senso di avvenimenti concatenati nella realtà storica e il cui significato si percepisce solo con la fede. Questa scelta ermeneutica lo distanzia da Bultmann, il quale fa ini­ ziare la teologia del NT dal kerygma, ma senza il fondamento del Gesù storico che pone fra·te premesse; ma lo distanzia anche dallo Jeremias che, fondandosi sul principio dell'incarnazione, va alla ricerca affan­ nosa del messaggio di Gesù, pretendendo di utilizzare solo la critica storico-letteraria, ed escludendo, per di più, l'opera di Gesù e la sua continuazione nella storia della Chiesa. Sono quindi soprattutto Bult­ mann e Jeremias i due autori importanti con cui più spesso si confron­ ta anche nel corso dell'opera. In particolare allo Jeremias muove alcu­ ne critiche precise: l. intenpreta la predicazione di Gesù colorandola troppo dell'apocalittica giudaica; 2. rapporta la salvezza alla predica-

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Giuseppe Segalla

zione di Gesù e alla sua morte espiatrice, e non direttamente alla sua persona; 3. trasferisce all'attività terrena di Gesù la situazione postpa­ squale, in particolare il kerygma e la ecclesiologia; 4. e infine identifica la risurrezione con la parusia. Goppelt invece sostiene che la storia della salvezza è una storia concatenata, al cui centro. sta la persona di Gesù. La predicazione di Gesù non va quindi considerata - come fa Io Jeremias - un momento assoluto e privilegiato chiuso in sé fra la chiamata alla missione e la parusia . Il conflitto ermeneutico si riflette anche nel metodo.

Il metodo Il Goppelt utilizza il metodo storico-critico, includendovi anche l'acquisizione recente della «storia della redazione» (lo fa per Matteo e Luca). E in questo supera sia Bultmann che Jeremias. Il processo che parte da Gesù e, passando per l'evento della morte-risurrezione, conti� nua nella Chiesa, è un processo insieme di storia e di interpretazione, che si può ricostruire appunto col metodo storico-critico. Accetta quindi per i Vangeli come teologicamente importanti tutti e tre gli stadi della loro formazione: l'opera di Gesù, la tradizione orale di essa e la reda­ zione evangelica. Non si tratta solo di formazione letteraria, ma nello stesso tempo di processo storico, cioè di «opera di Gesù » che continua con la risurrezione e l'invio dello Spirito. Ma neppure il metodo stori­ co-critico è � assoluto. Insieme con esso va coniugato anche quello teologico, animato dall'interpretazione di fede; è per questo che l'A. accetta il limite del canone ( Parte introduttiva, §l, IV, 4), anche se utilizza altre fonti per comprendere ed illustrare la teologia del NT. L'A. è convinto che per arrivare a conclusioni il più possibile obiet� tive è necessario misurarsi con la discussione attuale e prende perciò in considerazione tutto l'ampio ventaglio delle possibilità offerte dalla ricerca quale oggi è in atto. Da questo punto di vista considero la sua come la teologia del NT recente scientificamente più onesta. Sia all'inizio di ogni paragrafo che all'interno della trattazione Goppelt si mette sempre a confronto con proposte diverse dalla sua. Cito solo un breve esempio. Trattando di Rom. 9-1 1 , dove si parla della elezione di Israele e del suo rifiuto della fede cristiana egli afferma: «Dio rimane fedele alla chiamata con cui si lega agli uomini. La sua parola non è richiamo puntuale a decidere, inteso nel senso di Bultmann, e neppure risposta alle sue disposizioni, per la quale ubi et quando visum est deo vien dato lo Spirito inteso nel senso di Barth, ma è vincolo di Dio at­

trave rso una vocazione legata a una promessa e impegno nei confronti

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di determinati partner nella storia. Costituisce una continuità del vin­ colo tra Dio e l'uomo nella storia e in questo senso è storia della sal­ vezza)) ( Parte II, cap. III, § 36,4 ). Le opzioni critiche sono in genere moderate e mirano a sfoltire il campo da troppe e troppo raffinate ipotesi, rendendo il discorso più lineare e comprensibile anche all'uomo di cultura media, più legato ai testi che non a modelli precostituiti. Perciò egli parte quasi sempre dalla rilevazione filologico-statistica del tema che tratta e partendo da lì sviluppa poi il discorso di critica letteraria per concludere con l'in­ terpretazione teologica vera e propria. In tal modo risulta forse meno vivace di Bultmann e meno partecipato di un Cullmann. Ma, soprattut­ to nel primo volume, al di là dell'obiettività scientifica sempre cercata, si sente l'appassionante ricerca del contatto con l'opera storico-salvifi­ ca di Gesù e con la sua persona stessa. La struttura La macrostruttura è articolata in quattro parti: l'opera di Gesù nel suo significato teologico; la comunità primitiva (la Chiesa sotto Israele); Paolo e il cristianesimo ellenistico; la teologia degli scritti postpaolini. Le due parti più importanti per ampiezza ed impegno sono la prima e terza. Ma vediamo più da vicino la struttura interna delle quattro parti, che grosso modo seguono lo sviluppo storico : la fondazione storica del kerygma ( Parte I), il kerygma (Parte II), lo sviluppo del kerygma nella storia della Chiesa con Paolo ( Parte III) e gli autori post­ paolini, secondo i vari ambienti storico-culturali e le varie prospettive (Parte rv). L'opera di Gesù nel suo significato teologico, che costituisce il pri­ mo volume, è indubbiamente la più bella ed unitaria. In un capitolo introduttivo si precisa la problematica teologica e storica con le fonti (sostanzialmente i Vangeli sinottici ), quindi il quadro storico-geogra­ fico (per il quale viene utilizzato anche il IV Vangelo) e infine il punto di partenza dell'attività di Gesù, il suo rapporto con Giovanni Battista. Questo capitolo introduttivo è particolarmente polemico con la pre­ giudiziale di Bultmann. Nei successivi sette capitoli espone l'opera salvifica di Gesù dalla predicazione del Regno fino alla morte-risurre­ zionC! e invio dello Spirito. Nella missione di Gesù annuncio ed opera di salvezza vengono continuamente e direttamente collegati fra loro e alla persona stessa di Gesù, cosicché la salvezza si realizza mediante un rapporto pe rsonale con lui. E poiché questa relazione diviene possi­ bile per tutti solo mediante e dopo la morte-risurrezione, il rapporto

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Giuseppe Segalla

storico degli Apostoli e degli altri, a cui Gesù annunciò e per i quali ope­ rò la salvezza, non era che un segno reale, una promessa concreta della futura salvezza per tutti . Questo principio ermeneutico distacca ancora una volta Goppelt sia da Bultmann ( la salvezza si realizza mediante la risposta positiva al kerygma di Cristo) che dallo Jeremias (Gesù annun­ cia la fine del mondo e la venuta del Figlio dell'uomo nella parusia, identificata con la risurrezione). Egli rivaluta, in tal modo, sia l'aspet­ to d'incarnazione e sacramentale nell'opera salvifica di Gesù, che avviene mediante un contatto reale di fede con lui, sia l'aspetto comu­ nitario-ecclesiale postpasquale (ciò che non rientra secondo lo Jere­ mias nelle prospettive di Gesù). Il Goppelt evita quindi l'escatologia presenziale kerigmatica, che distrugge la vera tensione di storia della salvezza verso il futuro (Bultmann) come anche l'escatologia apocalit­ tica, che toglie l'elemento realmente futuro, perché vede già tutto rea­ lizzato in Gesù, sia pure in modo diverso dall'apocalittica giudaica (Jeremias). L'opera di Gesù si inquadra quindi in una storia della sal­ vezza che ha dietro di sé l'AT come preparazione e promessa, e che si apre in avanti al tempo della Chiesa, in cui essa continua proprio me­ diante il messaggio e la potenza della risurrezione. Il passaggio da Gesù a Paolo avviene attraverso la Chiesa primitiva, che si distanzia progressivamente dall'ambiente giudaico, ma che ri­ mane pur sempre « sotto Israele». Le fonti che l'A. utilizza per delineare la teologia della Chiesa primitiva sono essenzialmente tre: le tradizioni prepaoline, gli Atti e le tradizioni sinottiche. Poco invece offrono Apo­ calisse, Didachè e alcune tradizioni dei Padri. L'esposizione si articola in due parti : la prima, storico-ecclesiale, d�linea la Chiesa come disce­ polato di Gesù, e che quindi si qualifica progressivamente come «Co-> munità nuova » rispetto alla comunità ebraica; la seconda, cristologica, è dedicata agli inizi della cristologia. La terza grande parte è costituita dalla teologia di Paolo. Fonti ne sono le lettere certamente paoline, inclusa la lettera ai Colossesi e forse anche quella agli Efesini. Anzitutto sono delineate le premesse storico­ culturali in cui inquadrare la teologia di Paolo: il cristianesimo elle­ nistico, Paolo e le tradizioni cristiane, le interpretazioni culturali di­ verse dell'evento cristologico (apocalittico, ellenistico-sincretistico, An­ tico Testa1pento), infine Paolo e l'AT. Contro Bultmann, che fa della teologia di· Paolo un'antropologia kerigmatica e contro Kiimmel e Ridderbos che ne fanno una « Storia della salvezza» a partire da Rom. 4, per Goppelt invece la teologia di Paolo si qualifica dall'accogliere e sviluppare la tradizione di Cristo (Parte II, cap . I, § 3 1 ). Prendendo co­ me modello lo sviluppo della lettera ai Romani, la struttura conseguen-

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te della teologia paolina viene articolata così: la cristologia (Figlio di Dio, Signore, la Croce), quindi l'annuncio o kerygma, la soteriologia come effetto dell'evento di Cristo (il vangelo come rivelazione della giu­ stizia di Dio); il vangelo acquista la sua configurazione nella Chiesa. Invece l'etica e l'escatologia annun ciate come s'è già visto, non vengono poi svi luppate . La quarta ed ultima parte espone la teologia degli scritti p os t­ paolini. E: la più problematica nella sua impostazione strutturale. Gop­ pelt discute previamente il prob lema del tempo postapostolico (che egli preferisce però chiamare «postpaolino ») e lo configura come tempo che ha perso la carica apocalittica iniziale e in cui la Chiesa ormai si installa nel mondo, contando su « tempi lunghi » . Le teolo gie postpaoli­ ne vengono qualificate in rapporto con la società e con gli ambienti ecclesiali diversi. In tal mo do vengono configurati quattro ambiti: l. i cristiani nella società: le due proposte diverse, una nella l Pt. dove si parla della loro responsabilità, e l'altra nell'Apocalisse dove si delinea invece una situazione critica, in quanto la società appare come nemica dei cristiani. 2. L'annuncio della Lettera di Giacomo e del Vangelo di Matteo nella Chiesa di Siria. Viene qui rivalutata la teolog ia pare­ netica della prassi di Giacomo in contrasto con una certa tradizione protestante che risale a Lutero. Buona è anche la presentazione del messaggio del Vangelo di Matteo. 3. La via larga della Chiesa nella sto­ ria raccoglie le teologie della Lettera agli Ebrei e di Luca, avvicinando­ le in quanto rivolte ad una comunità di Roma, tentata di assopirsi. 4. L'ul tima teologia presentata è quella di Giovanni qualificata come «l'eschaton presente nella rivelazione del Logos incarnatO>>, esposta però molto som mariamente, sia pure attraverso gli elementi più ca­ ratteristici di Giovanni. Non vi è nessuna riflessione conclusiva, essen­ dovi stata già la presentazione previa, che configurava lo svolgimento ermeneutico e strutturale. Nonostante le amorose cure del redattore Roloff, l'opera rimane « incompiuta>>. Però l'edificio appare ben costruito nelle sue linee fon d amen t ali . Debbo dire, a conclusione di questa presentazione, che la presente Teologia del NT dà un grànde apporto di equilibrio all'attuale panora­ ma delle >. Nonostante l'intimidazione critica della scuola bultmanniana, Goppelt ha il coraggio di partire dal Gesù stori� co, dalla sua opera globale di salvezza (e non solo dalla predicazione di Gesù come fa lo Jeremias). La sua prospettiva di >; S "" Sonderquelle, « fonte particolare».

2. Letteratura ebraica utracanonica* Arist. Asc. les.

Ass. Mos, Bar. Bar. Gr. Bar. syr, Dam. 4Esr. Hen. aet. Jo s. As. Josephus, Ant., Ap., Bell., Vit,

Lett era di Ari stea ( circa 90 a.C.) Ascensio Jesaiae (Ascensione al c ielo di Isaia, scritto giudeo­

cristiano, II sec. d.C.)

Assumptio Mosis {Assunzione di Mosé, circa 4 a.C.)

Libro apocrifo di Baruch {Settanta) Apocali s se di Baruch greca (circa 200 d.C.) Apocali sse di Baruch siriaca (circa 100 d.C.) Scritt o di Damasco ( = frammento sadochitico, CD) (Scritto di Qumrfm, II/I sec . d.C.) IV libro di Esra o Esdra (Apocalisse, circa 95 d.C.) Libro etiopico di Enoch (Apocalisse, II/I sec. d . C . ) Joseph e Aseneth (Scritto missionario ellenistico-ebraico dall'Egit­ to, fine del 1 sec. a.C.) Giuseppe Flavio (storico ebreo, 37-'17 d.C.) Antiquitates ludaicae,

Contra Apionem, Bellum Judaicum, Vita

noti che alcuni libri ( come quelli dei Mac cabei) sono considerati canonici dalla Chiesa cattolica ( n .d. r. ) .

* Si

18 Sib. Jub. 1,2,3Macc. 4Macc.

Mar t. Jes. Philo (Alexandrinus)

Ps. Sal. 1 (4) Q l QH lQM l QpHab l QS l O Sa l Q Sb 4 Q test 4 Q fior 4 Q patr 11 Q Melch Sap Sir Test. xn Test., As., Ben., Dan., Gad., los., Iss., Jud., Lev., Nef., Rub., Sim., Seb. Tob Vit. Ad.

Elenco delle abbreviazioni

Oracoli sibillini (scritti giude:ntaria orientata per problemi. Rispetto ai singoli temi, devono apparire le possibilità di soluzione discusse negli studi e i loro presupposti, non solo la concezione propria. In que­ sto modo il lettore viene fatto partecipe del dialogo che si svolge negli studi, e reso capace d'un giudizio autonomo. I risultati della ricerca neotestamentaria, che di volta in volta ven­ gono riassunti nella teologia neotestamentaria, possono assumere effi­ cacia fecondatrice nel dialogo teologico attuale solo quando le analisi storiche e i presupposti di pensiero, da cui partono, divengono traspa­ renti e consentono che si indaghi a monte. Noi non possiamo sottopor­ re la comprensione del Nuovo Testamento ai presupposti statici di pen­ siero propri dell'epoca moderna come, viceversa, nemmeno confron­ tare l'uomo e la società di oggi esclusivamente con la « lettera» di enun­ ciazioni neotesta,p1entarie. I due aspetti, il Nuovo Testamento e gli uomini di oggi, devono essere piuttosto portati a entrare in un dialogo critico reciproco, che va sviluppato in particolare tra la teologia ese­ getica e quella sistematica. Solo così si può giungere ad una compren­ sione delle enunciazioni neotestamentarie, in modo che si possano per­ cepire come esigenza e promessa supreme. Così compresa, la teologia neotestamentaria assume la posizione­ chiave decisiva nella totalità della teologia cristiana .

PARTE INTRODUTTIVA

STORIA E AMBITO DEI PROBLEMI DELLA DISCIPLINA

§ 1 : Lo svolgimento della ricerca ALBERr SCHWEITZER, Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, 19 1 3 (rist. 1966); LEONHARD GoPPELT, Christentum und J uden t um im ersten und zwe i t e n Jahrhundert, 1954; Io., Die Pluralitiit der Theologie im NT und die Einheit des Evangeliums als okum enisch es Problem, in: E vangel ium und Einheit, a cura di V. VAJTA, 1971, pp. 1 03- 125; WERNER GEORG KtiMMBL, Das Neue Testament. Geschichte der Erfor­ schung seiner Probleme, 1958 ( 1 97()1 );tr . it., Il Nuovo Testamento, Il Mulino, Bo­ logna 1976 ; Io., Das Neue Testament im 20. Jahrhundert. Ein Fo rschungsb e richt , 1970; R uo oLF SCHNACKENBURG, Neu test amentliche Theologie. Der Stand der For­ schung , 1 963 (1965'); BÉDA RIGAUX, Pau lus und seine Briefe. Der Stand der For­ schung, 1964; HEINRICH SCHLIER, Ober Sinn u n d Au fgabe einer Theologie des Neuen Testaments, in: B esinnung auf das Neue Testament, 1964, pp. 1-24 ; tr. it., Riflessioni sul Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1969, pp. 1 1-32; STEPHEN NlliL, The lnter­ pretation of the New Testament 1861-1961, 1964; GERHARD EBBLING, Was heisst «Bi· blische Tlzeologie?», in: «Wort und Glaube » , I, 1967, pp. 69-89; PETER STUHLMACHER, Neu es Testament und Hermeneutik. Versuch einer Bestandsaufnahme, ZThK 68 ( 1971 ), pp. 121-16 1 ; Io., Zur Methoden- und Sachproblematik ein er interkonfessio­ nellen Auslegung des Neuen Testaments, in : Evangelisch-katholischer Kommentar zum Neuen Testament. Vorarbeiten 4, 1 9 7 2 , pp. 1 1-15; JosEF ERNST, a cura di, Schrift­ auslegung. Beitriige zur Hermeneutik des NT und im NT, 1972; OTTo MERK, Bi· blische Theologie des NT in ih rer Anfangszeit, 1972 (pp. 205-270 , rassegna dello sviluppo fino ad oggi); HARTMUT GESE, Erwiigungen zur Einheit der biblischen Theologie, ZThK 67 ( 1 970), pp. 417-436; HANs-JoACHIM KRAUS, Di e Biblische Theo­ logie. Ihre Geschichte und Pro b lemati k , 1970; tr. it., La teologia biblica, Paideia, Brescia 1979; ERNST KASEMANN, The Problem of a New Testament Th eology , NTSt 19 ( 1972-73), pp. 235-245; JAM:Es M. RoBINSON, Die Zukunft der neutestam en tlich en Theologie, in: Neues Tes ta m ent und christliche Existenz, Fes tschrif t H. Brau n, 1973, pp. 387-400. Sulla s toria dell'ermèneutica: GEORG HEINRICI, Hermeneu tik , RE 1• (1899), pp. 7 1 8-750 ; GERHARO EBELING, Hermeneutik, RGG III', pp. 242-262 (bibl.); EMILIO BETTI , Teoria generale dell'interpretazione, 2 voli., Gi uffré, Milano 1955. XAVIER LÉON-DUFOUR, I Vangeli e la storia di Gesù, Paoline, Milano 1973'; JuAN CABA, Dai Vangeli al Gesù storico, Paoline, Roma 1978'; RI!NÉ LATOURBLLI!, A GesÌl at t rave rso i Vangeli , Cittadella, Assisi 1979.

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§ l: Lo svolgimento della ricerca

l. L'origine della disciplina JoHANN JAKOB WBTISTEIN, Novum Tes tamentum Graecum editionis receptae cum lectionibus variantibus ... necnon commentario pleniore ... opera et studio Joannis Jacobi Wetstenii, 1/11, 175 1-52; JoHANN SALOMO SEMLER, Abhandlung von freier Untersuchung des Canons, I-IV, 177 1-75; Io., Vorbereitung zur theologischen Hermeneutik, 1760; MAX MEINERTZ, Theologie des Neuen Testaments, l/II, 1950; JOSEPH BONSIRVEN, Théologie du Nouveau Testament, 195 1 ; KARL HERMANN SCHEL­ KLE, Theologie des Neuen Testaments, I-I II, 1968; JosEF SCHREINER, a cura di, Gestalt und Anspruch des Neuen Testaments, 1969.

L'origine e lo sviluppo della teologia neotestamentaria come di­ sciplina della ricerca storica biblica sono diventati oggi la parte più stimolante della storia della teologia; infatti la sua formazione si compì come l'incontro più immediato del cristianesimo con lo spirito del­ l'epoca moderna. Gli inizi della teologia neotestamentaria si trovano solo nel diciotte­ simo secolo. Fino allora si conoscevano - cosa ci si può immaginare ancora a stento ":"""" solo dogmatica, esposizioni della dottrina della Chiesa di volta in volta dominante, che in misura maggiore o minore si rifacevano alla Scrittura. Da che cosa fosse in particolare ostacolata la nascita d'una teologia biblica, diventa evidente nel secondo secolo già nell'accoglienza del Nuovo Testamento che si andava per l'appunto formando. 1. La Chiesa antica La Chiesa cattolica primitiva, che si andava costituendo verso la fine del secondo secolo, accolse gli scritti « apostolici », ad essa tramanc. dati quali letture della liturgia, come l'unica testimonianza di Cristo, autentica e perciò normativa; essi divennero il canone del Nuovo Te­ stamento - senza che dapprima si facesse uso di questa designa­ zione -. Ma contemporaneamente s'era fatta l'esperienza che questi scritti avevano molteplici significati, anche gli eretici si richiamavano ad essi. Perciò la Chiesa cattolica primitiva sviluppò il seguente prin­ cipio: il contenuto essenziale del canone, correttamente inteso, è iden­ tico alla dottrina, che è valida nella Chiesa kath' holen tén gén, sulla terra intera. Coincide cioè con la dottrina cattolica della Chiesa, che è riassunta nel Credo apostolico ed è sostenuta dal legittimo episcopato 1 • Dottrina della Chiesa ovvero tradizione apostolica è, come per più di mille anni viene tenuto fermo di contro ad ogni richiamo degli eretici 1 Per es. T!lRTULLIANUS, Praescr., 13.15.19 (20-32). O. Kuss, Zur Hermeneutik Tertul­ lians, in: ERNST, loc. cit. (§ l bibl.), pp. 55-87.

2. II cattolicesimo moderno

alla Scrittura, ciò «che è stato creduto ovunque, sempre, da tutti» 2• Sulla base di questo principio, gli scritti neotestamentari nella Chiesa come nella teologia in vario modo esercitarono la loro efficacia, ma non come contrapposto critico; infatti furono letti in ogni tempo con pro­ cedimenti armonizzanti a partire dalla tradizione ecclesiastica e in ordine ad essa. 2. Il cattolicesimo moderno

Questa assimilazione della Scrittura alla tradizione ecclesiastica ri­ mase anche quando nel cattolicesimo posttridentino e soprattutto nel cattolicesimo moderno mutò in maniera fondamentale la comprensione della tradizione. Ora la tradizione diventa un'entità vivente, pneuma­ tica, ch'è di continuo ulteriormente sviluppata dal magistero ecclesia­ stico. Questo concetto evoluzionistico della tradizione, nella nostra epoca, a metà del ventesimo secolo, fece spazio anche qui a una scienza biblica; infatti, secondo esso, l'odierna dottrina della Chiesa è cresciuta ampiamente al di là del senso letterale della Scrittura inteso allora, quale l'esegesi storica Io accerta. Cosl poté essere dato spazio a tale scienza . Essa fu suscitata, come 200 anni prima quella protestante, dal pen­ siero storico dell'epoca moderna, che in particolare si fece sempre più chiaramente sentire nella scienza biblica protestante. Quando il con­ trollo dottrinale della Chiesa liberalizzò la ricerca storica sulla Scrit­ tura, la scienza biblica cattolica si sviluppò molto rapidamente fino a divenire un part ner consimile a quella protestante. Questa liberalizza­ zione avvenne con l'enciclica Humani generis di Pio XII del 1952 e so­ prattutto con la Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla divina rivelazione, che accolse un decreto più particolareggiato della Commissione biblica del 2 1-4-1964 3• Anche tali dichiarazioni ecclesia­ stiche tengono fermo fondamentalmente quanto la Sessione IV del Con­ cilio di Trento aveva un tempo nettamente e strettamente formulato in antitesi alla Riforma: il lavoro esegetico deve rimanere nel quadro ' Vincenzo di Lerino (450 circa), considerando l'esperienza: «Ouia videlicet scripturam sacram pro ipsa sui altitudine non uno eodemque sensu universi accipiunt, sed eiusdem e!oquia aliter atque aliter alius atque alius interpretatur, ut paene, quot homines sunt, tot illinc sententiae erui posse videantur. Aliter namque illam Novatianus, aliter Sabel· lius ... » (Commonitorium, c. 2). ' H. GRASS, Grulidsèitze katholischer Bibelauslegung, ThLZ 77 (1952), pp. 487494; R. ScHNACKE!>iBURG, De r Weg der katholischen Exegese, BZ NF 2 ( 1958 ) pp. l61-176; ora in : Io., Schriften Ztlm NT, 1 971, pp. 1 5-33 (bibl. l ); G. HASENHUTTL, R udo lf Bultmann und die Entwicklung der katholischen Theologie, ZThK 65 ( 1968 ), pp. 53 -69 ; J. ERNST, loc. cit., pp. 4549.

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§ 1: Lo svolgimento della ricerca

della tradizione dottrinale della Chiesa. La scienza biblica cattolica non lo avverte tuttavia come restrizione del lavoro della sua ricerca, al con­ trario: uno dei suoi rappresentanti di maggior spicco, Rudolf Schnac­ kenburg, dichiarò nel 1958: il cattolico non può vedere nessuna frat­ tura tra gli scritti neotestamentari e la tradizione ecclesiale; infatti Cristo gli viene incontro come chi continua a vivere nella Chiesa. «L'ese­ geta cattolico ha bisogno quindi, per la più intima convinzione teol� gica, dell'interpretazione autoritativa della Chiesa; ma non ne fa uso in modo metodico nel ritrovamento del senso letterale. Gli serve come impostazione ermeneutica di fondo, come elemento di regola e con­ trollo, ma non come metodo di lavoro » 4• Questa dichiarazione è ancor oggi rappresentativa. Frattanto la scienza biblica nel cattolicesimo è diventata l'impulso più importante del movimento riformatore entro la Chiesa e del pen­ siero ecumenico. Collane come le «Stuttgarter Bibelstudien >> cer­ cano di farne partecipi cerchie più ampie in modo scientificamente attendibile. Le prime teologie cattoliche del Nuovo Testamento furono - a pre­ scindere da insignificanti precursori - i libri di Joseph Bonsirven ( 1 95 1 ) e Max Meinertz ( 1950). Solo nella teologia neotestamentaria di Rudolf Schnackenburg tuttavia, apparsa nel 1963 (in francese nel 1 96 1 ) vengono accolti senza riserve problematica e metodo, che s'erano svi­ luppati nella ricerca per questa disciplina. Il libro porta il sottotitolo : Der Stand der Forschung (Lo stato della ricerca). Non offre un'esp� sizione sua propria compiuta, ma una relazione sugli studi, che per altro fa chiaramente conoscere il proprio punto di vista. Molto indi­ pendente è la Theologie des NT di Karl Hermann Schelkle (voli. 1-3, 1 968-73), che è articolata secondo temi teologici, non storicamente. L'utile introduzione - edita nel 1 969 da Joseph Schreiner - alle in­ tenzioni teologiche dei singoli scritti neotestamentari ovvero degli strati della tradizione, che fu elaborata da una serie di esegeti cattolici più giovani, potrebbe essere sorta, in ampia misura, nella cerchia della scuola di Bultmann. Sono pregevoli gli excursus teologici del primo commentario scientifico cattolico al Nuovo Testamento in lingua te­ desca, quello della editrice Herder. Così la scienza biblica ha trovato negli ultimi 25 anni un posto considerevole anche nella teologia cattolica . Fu in tal modo assunta una parte della Riforma?

• R. SclrNACKENBURG, Der Weg der katholischen Exegese, 'BZ NF 2, 1958, pp. 161-176.172.

3. La Riforma

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3. La Riforma La Riforma non ha fatto nascere la scienza biblica protestante, ben­ sì le ha dato, nel diciottesimo secolo, un importante impulso, poiché aveva assegnato alla Scrittura una rilevanza decisiva nei confronti della dottrina della Chiesa, che fu accolta dall 'Illuminismo in termini di an­ titesi e insieme di prosecuzione. Lutero giunge alla Scrittura a partire dalla dottrina della Chiesa del suo tempo e scopre che questa è in contraddizione con essa su punti essenziali. In questo contrasto si pone dalla parte della Scrittura e svi­ luppa la sua teologia come esegeta. Ma non diventa biblicista. In par­ ticolare non si rifugia nella concezione entusiastico-illuminata secondo la quale ognuno dovrebbe ascoltare e trasmettere sempre solo da sé la Scrittura come parola di Dio. Esercita critica sulla tradizione eccle­ siastica aherata, ma non respinge la tradizione in quanto tale; mette in evidenza ad es. i tre simboli della Chiesa antica. lovero, ciò facendo, capovolge quasi il rapporto in vigore, dal secondo secolo, tra Scrittura e tradizione. Non la tradizione e il magistero ecclesiastico decidono che cosa oggi si deve sostenere come vero nella Chiesa, ma la Scrittura. Ma come può decidere la Scrittura, se, come si vide, già nel secondo secolo, ha molti significati ? La risposta, che Lutero dà a questa do­ manda, è il principio della Riforma, ancora di gran lunga non discusso a fondo. Egli ritiene: la Scrittura esprime inequivocabilmente ciò che è decisivo, se la si interpreta secondo la sua propria struttura·. Il che avviene, quando si applichi il doppio principio ermeneutico da essa stessa richiesto: 1 . la Scrittura va interpretata con la Scrittura: Scrip­ tura sacra «sui ipsius interpres » S, e ciò significa ad un tempo: 2. la Scrittura va interpretata a partire dal suo centro, Cristo. Qui, Cristo non è per lui una cifra, ma il Cristo, che aveva conosciuto nel messag­ gio della giustificazione della lettera ai Romani 6 e ch e le comunità della Riforma professavano magno consensu nelle loro confessioni. Così in virtù del principio della Scrittura viene assegnata all'ermeneutica una posizione-chiave nella teologia; l'ermeneutica della Riforma però si radica da un lato nell'autocomprensione della Scrittura e dall'altro nella confessione della comunità. Nella teologia protestante antica il principio ermeneutico di Lutero fu ri dotto alla formula: la Scrittura va interpretata secondo l'analogia Scripturae sacrae e secondo l'analogia fidei, a cui già Agostino aveva ri­ mandato. La fides, la fede, è però la fede in Cristo in quanto è il centro 5

WA 7, p. 97, l. 23. • WA 39, I, p. 46, 1. 19; 56, p.

S, 1. 10;

-

DB 7,2.15.

§ l: Lo svolgimento della ricerca

30

della Scrittura, come viene definito negli scritti delle confessioni*. Il rapporto delle confessioni alla Scrittura è tuttavia un dialogo critico, in cui la Scrittura deve avere l'ultima parola. In questo senso esisten­ tivo la Scrittura è, come dice l'epitome della Formula concordiae**,

unica regula et norma. Nonostante questo principio della Scrittura, la teologia protestante antica non delineò nessuna teologia biblica; infatti sentì la Scrittura immediatamente come parola rivolta al presente e perciò assunse di­ rettamente le singole parole della Scrittura nelle proprie enunciazioni . La dogmatica protestante antica conobbe solo raccolte di passi, docu­ mentazioni, testimonianze. Di fronte ad un consolidamento scolastico della dogmatica che ne risultava sempre più nella teologia protestante antica, il pietismo cercò di far nuovamente valere la Scrittura. Con una riforma dello studio della teologia spostò al centro lo studio della Bibbia. Non si giunse tut­ tavia ad una teologia biblica, ma solo ad una dogmatica biblicistica. Le affermazioni bibliche vengono attualizzate «a corto circuito» . Questa tendenza continua ad influire ancora fino ad oggi qua e là nella ricerca neotestamentaria. 4. L'Illuminismo

Una teologia biblica si costituì solo quando il principio della Scrit­ tura della Riforma, per lo più in modificazione pietistica, incontrò il pensiero storico dell Ill u m in ismo 7• Pensiero storico significa più del lavoro filologico-storico, che per altro era stato svolto già sempre. Già Origene e Gerolamo avevano of­ ferto prestazioni notevoli in questo ambito, più che mai gli umanisti e numerosi studiosi del diciassettesimo e diciottesimo secolo, in parti­ colare anche dalle file del pietismo. Vogliamo rico rdare un nome, poi­ ché ancor oggi gioca un ruolo nella ricerca. Nel 175 1-SÌ Johann Jakob Wettstein pubblicò un'edizione del Nuovo Testamento, che portava un esauriente apparato di critica testuale e una vasta raccolta di passi analoghi di provenienza giudaica ed ellenistica, che fino ad oggi viene utilizzata vantaggiosamente. Ma solo l'Illuminismo del diciottesimo secolo rese possibile il pensiero storico - interpose una distanza tra '

* Sono intese qui le confessioni di fede dei riformati e protestanti in genere come quella di Augusta, la belgica, le elvetiche, la gallicana, le valdesi ( talvolta chiamate anche •articoli», o >, ma fedeltà e appello di Dio ! Quanto Karl Barth obietta qui all'indagine puramente storica del Nuovo Testamento, avevano già a lungo fatto valere esegeti della ten­ denza rappresentata ad es. da Adolf Schlatter, ma solo ora che veniva dalle proprie fila e la situazione del tempo parlava chiaramente in favore, fu ascoltato anche dagli esegeti della generazione più giovane provenienti dalla scuola storica delle religioni, così anzitutto da Rudolf Bultmann. D'altro lato, quanto più si avanzava nel tempo, tanto più consapevolmente si colse in che cosa l'impostazione ermeneutica di Barth non renda ragione al Nuovo Testamento : il principio della con­ temporaneità scavalca la distanza storica del Nuovo Testamento. Non rende ragione al carattere storico del Nuovo Testamento. In altre pa­ role Barth aveva di nuovo fatto risaltare un aspetto della Scrittura: voleva comunicare l'appello che parte da Dio, logos; ma aveva troppo poco osservato che questo avviene « nella carne», nella forma storica, rapportata alla situazione. ...

...

...

2. Rudolf Bultmann

Al confronto, Rudolf Bultmann tentò di soddisfare contemporanea­ mente entrambi gli aspetti della Scrittura, quello storico attraverso la problematica storica radicale, e il suo carattere in quanto logos con l'interpretazione come kérygma. E questa impostazione, non Karl Barth, caratterizzò un nuovo indirizzo della ricerca neotestamentaria, appunto la Scuola di Bultmann, e rimosse sempre più dopo il 1945 Karl Barth anche dalla discussione teologica nel suo complesso. Bultmann sviluppò la sua concezione già negli anni venti , non in una grande opera, ma in saggi, che apparvero nel 1933 nel volume

2. Rudolf Bultmann

miscellaneo Glauben und Verstehen [Credere

41 e

comprendere ] .

a ) Gene ticamente egli assume tre impos tazioni o spunti: l . viene dall'indirizzo gazione su entrambi i logia: gazioni eludono la rivendicazione posta da questi logia. Li spieghiamo correttamente solo se analizziamo più oltre (§ 16) i cosiddetti miracoli di Gesù sotto questo interrogativo-chiave: nel contesto della sua atti­ vità globale, non sono realmente nulla più che ad es. i miracoli di Elia, esteriormente simili ? Non sono piuttosto in verità eventi del compimen­ to, segni della signoria di Dio che si fa presente � La prosecuzione della risposta a Giovanni Battista pone anche l'in­ tera predicazione di Gesù sotto il corrispondente interrogativo-chiave: è essa «Vangelo» ? b ) I l Vangelo La prosecuzione suona cioè : « E ai poveri viene annunciato il Van­ gelo•. Anche qui viene ripresa una profezia veterotestamentaria ( Is. 6 1 , 1 s.). In essa però, in particolare per il Deutero-lsaia, il termine " R. BULTMANN, Theol., p. 6; similmente J. JEREMIAS, Theol., pp. 105 s., vede nel passo solo un'immagine che, senza rapporto al guarire e al predicare di Gesù, fa esclusiva­ mente in generale l 'asserzione: • ... il compimento del mondo è vi cino . E invero molto vicino•. '0 H. CoNZELMANN, Gegenwart und Zukunft in der synoptischen Tradition, ZThK . 54 ( 1957), p. 86. " Così P. SrUHLMACHER, Das paulinische Evangelium 1, 1968, pp. 220 s.; K. KERTELGE, Die Ueberlieferzmg der Wunder Jesu und die Frage nach dem historischen Jesus, in: Rilckfrage nach Jesus, a cura di K. KERTELGE, 1974, pp. 187 s.

§ 7: La venuta futura del Regno e la venuta nel presente

126

euangelizesthai (annunciare la buona novella) è diventato il termine per la proclamazione della signoria salvifica finale di Dio, che attraverso di essa irrompe. La lieta novella suona: « > e tutto il resto viene invocato come sua conseguenza. 3. Se il discepolo, a cui è data questa preghiera, chiede come le sue petizioni vengano esaudite, egli vede colui che libera dalla preoccupa­ zione e accoglie i peccatori. Ogni richiesta del Padrenostro ha il suo compimento in ciò che Gesù opera ora, anche se di fronte alla totalità delle richieste ciò è un granello di senape. Grazie a questa opera giunge di fatti la signoria di Dio, seppur in forma provvisoria 8• Che ne risulta globalmente ? Se la signoria di Dio è determinata con� tenutisticamente in questo modo, diventa comprensibile che giunge nel presente e insieme nel futuro. Se il centro puramente e semplicemente decisivo della signoria di Dio è che il rapporto di Dio verso l'uomo divenga sano, integro, essa irrompe ovunque per opera di Gesù la rela­ zione d'un uomo a Dio si rinnova, anche se la vita corporea e il mondo non sono ancora stati resi integri. Allora la sua venuta non può neppure rimanere limitata al nuovo rapporto con Dio, allora devono essere coinvolte anche la vita corporea e la storia; infatti Dio è il creatore. Perciò la venuta del Regno ha già ora la sua ripercussione sul mondo nella sua consistenza. 2. Il Regno venturo e il divenire della storia del mondo

a) L'immagine apocalittica del mondo

Quanto abbiamo finora dedotto dal contenuto della rappresenta­ zione del Regno di Dio, cioè la sua indipendenza da un supporto cosmi­ co, si conferma quando poniamo il problema delle enunciazioni di Gesù sull'immagine apocalittica del mondo, specialmente sulla rappresenta­ zione dei due eoni. Questa rappresentazione si è sviluppata, come è apparso chiaro (§ 6,4a), solo al tempo di Gesù. In ogni caso, secondo essa, l'eone futuro (ha 'olam habba' = ho aion ho erchomenos o ho mel­ lon) è il mondo venturo e insieme l'epoca ventura del mondo; come 7 P. FIEBIG, Das Vaterunser, 1927; G. DALMAN , Worte Jesu, pp. 283-321 (365); U!RBECK IV, pp. 208-220. ' Cosi l'eccellente interpretazione di J. ScHNIBWIND, NTD Matthiius, a 6,9-13.

P. Bn.­

§ 8: Il contenuto della signoria di Dio

136

nuovo cosmo sostituisce questo eone (ha 'olam hazze' = ho aion houtos). Per l'apocalittica la signoria escatologica di Dio giunge nella misura in cui in assoluto se ne parla (§ 6,4 a), per così dire nel pacchetto del nuovo eone. Nella predicazione di Gesù però questa immagine apocalittica del mondo non gioca nessun ruolo. Il concetto di aiòn nel significato di ceone» affiora solo raramente nelle parole sinottiche di Gesù. In quasi tutti i passi già la tradizione parallela dimostra che esso è posterior­ mente interpolato a partire dalla teologia della comunità. In Mt. 12,32 si dice: «Non gli sarà perdonato, né in questo eone né in quello ven­ turo », ma questa espressione manca nella tradizione parallela in Mc. 3,29 come in Lc. l2,10. In Mc. 10,30 viene contrapposto : « In questo tempo (en to kairo touto) e «nel venturo eone >> ; entrambi mancano in Mt. 19,29. Anche in Le. 20,34 s., la distinzione tra cquesto» e «quel­ l'eone », di contro ai paralleli Mc./Mt., è inserita in un secondo mo­ mento. Di conseguenza, Gesù personalmente non ha in assoluto parlato dell'ueone futuro » 9; questa espressione non era appropriata ad espri­ mere il suo messaggio, perché include la venuta escatologica di Dio in un processo di divenire cosmico. Anche l'unica espressione, che çita, al di là di queste, «questo eone» (Le. 16,8), è, come dimostra la sua ri­ petizione in Le. 20,34, secondaria 10• Così la venuta della signoria di Di o per Gesù non è inserita nel dive­ nire del mondo e subordinata ad esso, ma certo, per contro, conferisce al mondo futuro, come a quello attuale, la fisionomia. Entrambi gli aspetti saranno da discutere ancora brevemente nelle pagine seguenti. b) ·L'immagine del mondo futuro A differenza dell'apocalittica e del rabbinismo, Gesù rinuncia ad ogni raffigurazione oggettiva del mondo futuro, che sarà strutturato dalla signoria di Dio. Egli designa questo essere sovramondano esclu­ sivamente in duplice modo: l. Accoglie ripetutamente l'immagine giudaico-veterotestamentaria del co nvito escatologico. Secondo l'apocalisse di Isaia, Is. 25,6, Dio nel compimento prepara un convito a tutti i popoli; secondo l QS a, il Messia alla sua venuta raccoglie gli esseni al convito 1 1 • Gesù riprende questa immagine che s'incontra qui e spesso, per esprimere che il com­ pimento è un esser-insieme. «Molti verranno dall'Oriente e dall'Occi' Lo stesso vale, cosa che per lo più è troppo poco osservata, per Paolo, che parla esclusivamente di «questo eone», per designare l'attuale situazione del mondo. 10 In una serie di passi, che originariamente parlano solo di aion = mondo, è pene­ trato in dive rsi modi l'houtos, (questo) secondario sotto l'aspetto critico-testuale, cosi in Marco ( 4,19) par. M t. 13,22; Mt. 13,(39)40,49; 24,3; (28.20). u l Q Sa. 2,1 1-21; cfr. P. BILLERBECK IV, pp. 1 146 s.; ThW II, pp. 34 s.

2. Il Regno venturo e il divenire della storia del mondo

137

dente e se deranno a tavola con Abramo, lsacco e Giacobb e nel Regno di Dio>> (Mt. 8, 1 1 par.). «Amen, [ ... ] non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno in cui ne berrò di nuovo nel Regno di Dio» (Mc. 14,25 par.), e in Mt. 26,29 si completa coerentemente: «con voi» . Nel compi­ mento la comunione alla mensa di Gesù con i suoi viene rinnovata. In Le. 22,15-18 questo annuncio viene più estesamente esposto e comple­ tato con la frase caratteristica: «Vi lascio in eredità il Regno, affinché mangiate e beviate con me alla mia mensa» (Le. 22,29 s.). La formula­ zione di quest o annuncio è secondaria, come mostra ad es., il concetto assoluto cdl Regno >> ; tuttavia vi potrebbe stare alla base un'enuncia­ zione originaria di Gesù. La tendenza fondamentale di queste parole è evidente: il Regno di Dio, anche nel compimento futuro, è primaria­ mente non uno stato paradisiaco, ma la comunione con Gesù e così la comunione conviviale escatologica con Dio. 2. Del resto Gesù ha da dire ancor solo una cosa dell'essere venturo: sarà assolutamente nuovo! Secondo Mc. 14,25, il bere sarà «nuovo ». « Nuovo », forse, in questa espressione è qualificato nello stesso senso che appare nella metafora del vino e degli otri, Mc. 2,22 par. Secondo esso, l'età della salvezza porta il nuovo, che non può essere mescolato con il vecchio. Porta il nuovo nel senso della profezia veterotestamen­ taria: «Vedi, ora creo una cosa nuova ... >> (Is. 43,19). Ma Gesù non ha ancora utilizzato il concetto è un concetto rias­ suntivo, in cui soprattutto gli evangelisti riassumono quanto Gesù vuole dall'uomo. Ma egli stesso definisce concentrandolo in modo dif­ ferenziato quanto conviene all'uomo, cioè il farsi povero nel senso delle beatitudini e il totale impegno nel senso delle singole indicazioni del sermone della montagna. Ciò che lui stesso cerca in ultima analisi nel­ l'uomo, lo riassume in due concetti nuovi, cioè seguire e credere. Il con­ cetto tradizionale di «conversione», se lo si intende nel senso della pro­ fezia o del kerygma missionario della comunità (At. 2,38; 3,19; 17,30 tra l'altro) tutto ciò, fede e sequela, farsi povero e obbedienza totale. Perciò lo utilizziamo qui. 2. Eppure si deve chiedere: «conversione (Mc. 1 0,5), ma la volontà originaria del Creatore è il matrimonio indissolubile. Il divieto di Gesù coglie quindi una possi­ bilità, senza la quale il matrimonio fra persone umane non è possibile. Chiede a ciascuno come prima cosa di non essere « duro di cuore» . Questa parola [ sklerokardia ] , sconosciuta alla lingua greca extra-bi­ blica, rammenta la profezia veterotestamentaria 11, secondo cui la du­ rezza di cuore sarà vinta solo nel tempo della salvezza (Ez. 1 1 ,17-19; 36,26). Il divieto di Gesù sarebbe quindi una condanna priva di senso se non apportasse allo stesso tempo il rinnovamento promesso. Solo allora diventerà possibile anche il matrimonio indissolubile. (E per­ sino allora, come insegna l Cor. 7,10-16, la realizzazione sarà messa in discussione non solo per il fallimento del singolo, ma anche per la situazione sociale.)

2. Gesù proibisce ogni divorzio, così come condanna già quale adulterio lo sguardo pieno di concupiscenza (Mt. 5,28 ); d'altro canto, però, egli accoglie perdonando, senza porre condizioni, prostitute nella comunione sua e del Regno di Dio (Le. 7,36-50), così che «prostitute e pubblicani» entrano in virtù di lui nel Regno di Dio ( Mt . 2 1 ,3 1 s.). Questo afferma la pericope apocrifa * dell adultera , Gv. 7,53-8 , 1 1 ; ivi questo perdono, veramente, assume la forma di una regola sapienziale (8,7). Come si può conciliare questa « mitezza » con le esigenze rigorose? '

1 1 Ne i Settanta: Dt. l0,16; Ger. 4,4 (ebr. «prepuzio del cuore»). Sir. 16,10; Ez. 3,7; sino­ nimi: Ez. 1 1 ,19; 36,26 ( «CUore di pietra»). * Per i critici cattolici, questa pericope, che testualmente non risulta giovannea, (mancando nei più antichi manoscritti greci, nella Peshitta e nelle versioni copte, me n tre è nota agli scrittori latini), è da considerarsi comunque storica e di carattere ispirato ( n.d.r.).

3. Parole di Gesù su istituzioni della società

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C'è, come si vedrà (§ 13,2 e 3), solo una spiegazione : quando Gesù acco­ glie i peccatori, viene prodotta la conversione totale, che è richiesta dai comandamenti «totali » ! 3. Infine Gesù non solo esige e rende possibile i l matrimonio indis­ solubile, ma presenta anche l'eventualità di rinunziare al matrimonio per amore del Regno di Dio e di abbandonare la famiglia per amore della sequela. Mt 19,12 [ S ] : «Vi sono eunuchi che si sono fatti tali per il Regno dei cieli. Chi può capire capisca ! » (20, 13). Il Signore è giusto nel senso dell 'AT; egli agisce se­ condo un libero accordo. Così ora chi si fa assumere a servizio , è ac-

2. L'abrogazione dell'ordine salvifico della legge

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cettato nel Regno di Dio indipendentemente dalla sua prestazione. Ciò significa: l'alleanza che rende la salvezza dipendente anche dall'opertll dell'uomo, è abrogata; perciò cade ogni calcolo e ogni pretesa. L'uomo che Dio prende a servizio non ha, come rileva la dura parabola dei servi (Le. 17,7-10 [ S ] ), alcun diritto 2• Ma ancor più importante è ve­ dere la bontà e la giustizia che elargiscono come «compenso», libera­ mente eppur basandosi su un patto, l'appartenenza al Regno di Dio. I racconti delle parabole sul fariseo e il pubblicano (Le. 18,10-14) e sul figliol prodigo (Le. 15,1 1-32; cfr. 7,42) insegnano a scorgere questa bontà nell'agire di Gesù. Proprio in queste parabole si può riconoscere l'accoglienza fatta ai peccatori, la chiamata alla sequela o alla fede come assegnazione di salvezza, come «patto», «accordo». Questa asse­ gnazione, che avviene nell'incontro con il singolo, è però contenuta nella promessa delle beatitudini. b) A chi è rivolta l'offerta contenuta nelle beatitudini? Le quattro beatitudini in Le. 6,20-23 nominano gli indigenti : i poveri, gli affamati, gli afflitti, i perseguitati. Invece, in un secondo gruppo di quattro beati­ tudini che c'è solo in Mt. 5,7-10, diventano beati coloro che si preoccu­ pano misericordiosamente delle necessità degli altri, coloro che per­ corrono una strada diritta, gli operatori di pace e i perseguitati per amore della giustizia.

Martin Dibelius parlò per molti esegeti quando spiegò che queste beatitudini sarebbero « Condizioni per l'accesso » al Regno di Dio op­ pure «Un catalogo di virtù da viversi nella comunità cristiana ». Anzi, Matteo avrebbe già inteso in questo senso anche le prime quattro beati­ tudini : la fame di giustizia significherebbe lo sforzo teso alla loro realizzazione 3• Questa interpretazione morale del secondo gruppo è tuttavia sba­ gliata proprio come l'interpretazione in senso sociale degli ebioniti del primo gruppo (cfr. § 9,1 a). Chi siano i misericordiosi qui menzionati si deve desumere innanzi tutto dall'uso linguistico dell'evangelista Matteo, che parla insistentemente della misericordia e ha dato una sua forma a queste beatitudini. Già nel modo in cui i farisei esercitano la «misericordia» e dispensano denaro, si capisce che essi sono orientati alla realizzazione di sé e non verso l'altro (Mt. 6,2-4). Quando si indi­ gnano dei miracoli di Gesù, fraintendono completamente ciò che già • n · servo o schiavo, diversamente dal salariato, non riceve alcun compenso; solo questo si può desumere dalla parabola, non che l'uomo dinanzi a Dio sia del tutto si­ mile a un servo senza diritti. ' M. DIBELIUS, Botsclzaft und Geschichte I, p. 120; così ancora G. STRECKER, Der Weg der Gerechtigkeit, 1966', pp. 157 ss.

§ 12: L'ordine salvifico della legge, riconoscimento e abrogazione

194

Os. 6,6 aveva chiesto: «Voglio la rnisèricordia e non il sacrificio » (Mt. 9,13; 12,7) . :E: misericordioso soltanto chi ha misericordia per gli altri e può quindi rallegrarsi vedendo come Gesù li aiuti, perché egli stesso opera solo nella misericordia di Dio. Vale a dire misericordioso nel

senso della beatitudine diventa colui che attende il suo futuro in base alle promesse d'essa, non chi vuoi ottenere con prestazioni umanitarie un cortese riconoscimento . Secondo questo esempio, il secondo gruppo

delle beatitudini, come pure il primo, non è rivolto a una determinata cerchia di persone, ma conduce entro l'esistenza, che viene dichiarata beata, alla quale cioè già ora si riconosce che il significato dell'esistere è ricolmato. Se il secondo gruppo, a norma del contesto di Matteo, va compreso in questo modo, lo si può attribuire nel nucleo iniziale, senza che ciò sia dimostrabile nei singoli punti, a Gesù stesso; poiché era un tratto fondamentale della sua attività dimostrare agli uomini misericordia, per renderli misericordiosi. Al servo iniquo della parabola vien det­ to: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te ?» (Mt. 18,33). Comunque, le beatitudini assegnano in tutto e per tutto la salvezza escatologica, senza assolutamente menzionare come condizione l'osser­ vanza della legge. L'attribuiscono a tutti quelli che per questa pro­ messa scoprono di essere poveri din:;mzi a Dio e di tendere verso di lui le mani vuote. Anche il secondo gruppo di beatitudini non intende ciò che gli ebrei chiamano giustizia o i greci virtù. Secondo questo gruppo hanno già raggiunto il significato dell'esistenza tutti i misericordiosi perché aspettano la misericordia di Dio, i semplici perché vedranno Dio, gli operatori di pace perché collaborano con la volontà di Dio, i perseguitati perché cercano solo Dio. In questo senso divenire poveri o misericordiosi significa convertirsi ! Le beatitudini offrono quello che le antitesi esigono. Insieme con la partecipazione al Regno di Dio offro­ no la conversione. La stessa cosa vale per la parabola del giudizio universale (Mt. 25,3 1-46 [ S ] ), discorso di Gesù notevolmente sviluppato : pare che parli di un cristianesimo latente dell'umanità. Il giudice del mondo dice a coloro che accoglie (25 ,34 s.): «Ricevete in eredità il Regno pre­ parato per voi [ .. ] ; perché io ho avuto fame e mi avete dato da man­ giare ... » . E loro di contro : « Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato ?» Ed egli risponde: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me ». .

Secondo J. Jeremias 4 questa parabola vuole rispondere alla do-

2. L'abrogazione dell'ordine salvifico della legge

195

manda : con quale misura saranno giudicati i pagani? Ma evidente­ mente non vuole informare sul comportamento del giudice con gli altri, bensì domandare allo stesso ascoltatore se egli aiuta senza guar­ dare al suo operato (Mt. 6,3 s.). La richiesta diventa particolarmente pressante per la speciale solidarietà del giudice del mondo con i biso­ gnosi. Non è concepita in modo gnostico o idealistico, bensì giuridico: il giudice del mondo considera ogni dimostrazione come fatta a lui stesso. Viene applicato al Figlio dell'uomo ciò che i rabbini insegnano di Dio: « Se avete dato da man fiare ai poveri, ne tengo conto come se aveste dato da mangiare a me» . Inoltre questa solidarietà del Figlio dell'uomo-giudice del mondo è qui direttamente fondata sulla realtà oggettiva; poiché, secondo Mt. 1 1 ,29, egli stesso era un 'an4w (un povero). Ciononostante anche la co­ munità neotestamentaria non considera mai i bisognosi come rappre­ sentanti ideali di Gesù. c) La parabola chiede in modo ancora più pressante delle beatitu­ dini: come si formano tali uomini, che dimostrano amor del prossimo in questo senso ? E sufficiente, per farli nascere, la parola della

prom essa?

Una risposta risulta dal contesto della tradizione dei logia. Secondo Mt. 1 1 ,6 la beatitudine non vale più per i poveri e i misericordiosi, ma per coloro che non si scandalizzano di Gesù - che, anzi, dinanzi a lui dimostrano fede in Dio. Alla stessa risposta conduce la composizione di Matteo, che collega il discorso della montagna dei capp. 5-7 al rac­ conto dei miracoli di Gesù del cap . 8 inquadrandoli con annotazioni (4,23 ; 9,35). Persone come quelle descritte dalle beatitudini e dal di­ scorso della montagna, non scaturiscono automaticamente da questo annuncio; ciò non è detto in nessun passo. Sono il risultato soltanto dell'opera salvifica di Gesù ; sono i seguaci e i credenti. Ma quest'opera salvifica comincia molto in basso nella società ebraica, negli uomini che nell'ambiente di Gesù si chiamavano «peccatori».

§ 1 3 : Salvezza per i peccatori KARL HI!INRICH RI!NGSTORF, hamartolos, ThW 1, pp. 320.326; tr. it., GLNT r, coli. 862-903; RuDOLF BuLTMANN, aphiemi, ThW 1, pp. 506-509; tr. it., GLNT 1, coli. 1 3531 362 ; Orro MICHEL, telonès, ThW VIII, pp. 88-106; t . it., GLNT XIII (in corso di pub­ blicazione ); ERIK SJiiBERG, Gott und die Sunder im paliistinischen Judentum, 1938;

r

• J. JEREMIAS, Gleichnisse, 6 ed., pp. 206 s. (tr. i t., cit. p. 247) . ' Citato da J. JEREMIAS, Gleichnisse, 6 ed., p. 205 (tr. it. cit., p. 245) (cfr. Rom. 2,26).Bibl.:

J.A.T. ROBINSON, The Parable of the Sheep and the Goats,

GoPPELT, Calwer Predigthilfen 11, 1972, pp. 221-228.

NTSt 2, 1955-56,

pp.

225-237; L.

§ 13: Salvezza per i peccatori

196

Juuu s ScHNII!WIND, Die Freude der Busse, 1958'; HI!RBERT BRAUN, Radikalismus II, pp. l lS-136; JtlRGEN BECKER, Das Heil Gottes. Heils- und Sii.ndenbegriffe in den Qumrantexten und im Neuen Testament, 1964; RoLF KNIERIM, Die Hauptbegritfe fii.r Sunde im Alten Testament, 1965 ; KLAus KocH, Sii.nde und Sii.ndenvergebung um die Wende von der exilischen zur nachexilischen Zeit, EvTheol 26 ( 1 966), pp. 217-239; HARTWIG THYEN, Studien zur Sundenvergebung im Neuen Testam ent und seinen alttestamentlichen und judischen Voraussetzungen, 1970; v. anche § 5,2b (conversione) e § 16,3 e 4 (fede).

I racconti dei miracoli di Gesù distinguono sempre fra peccatori e giusti e riferiscono che Gesù si è preoccupato soprattutto dei pecca­ tori, mentre ai giusti rivolgeva il suo invito alla penitenza. l.

l

peccatori

Il vocabolo hamartolos, raramente usato, in greco indica colui che viola in modo straordinario la legge , l'ordinamento e il costume. Nei Settanta è largamente usato per i r"saim, gli empi dei Salmi. Il Salmo 1 , scritto in stile dell'i nsegnamento sapienziale, contrappone gli «em­ pi» ai «giusti »: l'empio è pula che il vento disperde; egli si esclude dalla comunione con Dio e con il suo popolo, perché non vuole vivere nell'ambito della Tora. Mentre il giusto spera in Dio, egli confida nella sua forza { Sal. 49,7; cfr. 10,4; 36,2). Nel giudaismo si sottolinea esclusi­ vamente il rapporto con la legge. Misna 'A.bot 5,14 può dire : «Chi va [ nella sinagoga ] e agisce in conformità, è pio. E chi non ci va e non agisce in conformità, è un rasa, un peccatore ». Così «peccatore » è colui che non conosce la legge, vale a dire non la prende sul serio. Perciò la comprensione della legge è per i giudei determinante per di­ stinguere il gruppo dei peccatori. Secondo Gv. 7,49 i farisei maledicono «il popolo, che non conosce la legge», l"am hii'iires. Per gli esseni sono peccatori tutti coloro che non condividono la loro interpretazione e la loro pratica della Tora 1 • Nella tradizione dei sinottici, sono indicati come «peccatori » innan­ zitutto i pubblicani (Mc. 2,17 par ; Le. 18,13; 19,7 ; cfr. 6,32; 15,7.10), poi una prostituta (Le. 7,34.37.39) e infine i pagani (Mc. 14,4 1 par.; Le. 6,33 per par. Mt. 5,47). Perciò la locuzione «pubblicani e peccatori » com­ parsa nel nucleo della tradizione, in Mc. (2, 1 5 s. par.) e in Q (Mt. 1 1 ,19 par.) come nel patrimonio particolare di Le. ( 1 5, 1 ) vuoi dire: i pubbli­ cani sono peccatori. I narratori condividono questo uso della lingua, che troviamo anche in L e 1 3,2, con i logia di Gesù. Si distingue solo Le. 5,8 in cui il vocabolo è usato come linguaggio della comunità. Sulla base di questo uso del concetto, Joachim Jeremias 2 credette di poter definire che i peccatori qui nel senso inteso dal popolo sono coloro che hanno esercitato mestieri disonesti o hanno condotto una vita immorale. Tuttavia in questa interpretazione, non è chiara l'inten­ zione kerygmatica di Gesù in cui riprende tale designazione propria .

.

1 P. BILLHRBECK II, pp. 494-519; H. BRAUN, Radikalisrnus I, pp. 41 s. 2 J. JEREMIAS, Zollner zmd Siiltder, ZNW 30, 1931, pp. 295·300; Io. , Jerusalern, 3 ed., pp.

337-347.

197

l. l peccatori

del suo ambiente. Egli non vuole delimitare una cerchia di peccatori, ma manifestare con esempi inequivocabili che cosa egli offre ai «pec­ catori ». Nell'incontro di Gesù con i pubblicani, per tutti diventa chiaro in modo esemplare quale posizione Gesù prende nei confronti dei pec­ catori, e quindi anche dei giusti. 2. Il volgersi pieno di benenvolenza verso i peccatori Secondo una relazione ben caratterizzata della tradizione dei logia (Mt. 1 1 , 19 par. Le. 7,34), Gesù veniva designato con termine spregiati­ vo come «compagno dei pubblicani e dei peccatori». Il comportamento che fu causa di questo rimprovero è illu strato nel racconto di Zaccheo (Le. 19,1-10 [ S ] ). Quan do il profeta di Nazaret in pellegrinaggio vers o Gerusalemme arriva a Gerico, è ospitato dal capo dei gabellieri Zac­ cheo, in tal modo scandalizzando non solo i farisei, ma tutti (Le. 19,7). Di tale contatto con i peccatori ci riferisce la tradizione di Marco come quella dei logia, ma innanzi tutto Luca nel suo pat ri m onio specifico (Mc. 2,14. 1 5-17 par.; Mt. 1 1 , 1 9 par.; Le. 7,36-50 ; 15,1 s. 19,1-10; cfr. 18,9-14). Il significato di questo comport amento è chia rito innanzi tut to nella pericope della cena in casa del gabelliere (Mc. 2,15-17 par.) Gesù siede a tavola con alcuni pubblicani insieme con i suoi discepoli. La bene­ dizione unisce coloro che mangiano dallo stesso pane in una comunità di commensali, il che significa la comunità più stretta. Ciò induc e gli « scribi della setta dei farisei » a rivolgere a suoi d i s cepoli la domanda piena di indignazione: «Come mai egli mangia e beve in comp agnia dei pubblicani e dei peccatori ? » Egli trasgre disce visibilmente la regola autorevole del Sal . 1 , 1 : «Beato l uomo [ .. ] che non siede in compagnia degli stolti ! » Chi è solidale con i peccatori disprezza la Tora e si espo­ ne all impurità. Perciò la risposta di Gesù scopre i loro pensieri : «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati » . Gesù si siede fra i peccatori, non per divenire simile a loro ma come medico. Ciò viene sottolineato nel v. 17 b mediante un detto con l'èlthon program­ matico : è missione di Gesù chiamare i peccatori, vale a dire chiamarli al Regno di Dio, e cioè indirettamente, come completa Luca, an che alla convers i one La scena è oggettivamente compatta, ma storicamente non plastica Come mai gli scribi della setta dei farisei vanno al convito ? Perché interrogano i discepoli di Gesù e non lui ? Ma proprio una scena co­ struita sarebbe certo plastica . Pare che qui siano riprodotti elementi tipici della tradizione. Non riflettono una situazione della comunità; poiché nella comunità si parlava di ammettere al battesimo e alla cena del Signore, ma non di sedersi a mensa con i peccatori . Questo era un .

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§ 13: Salvezza per i peccatorz

198

tratto caratteristico di Gesù. Viene spiegato dal discorso sul medico, non costruito ad illustrazione di questo logion. Ma la comunità deve sapere dalla pericope che cosa le perviene in altra forma da parte di Gesù. Sedendosi a tavola con i p u bblicani senza porre condizioni, Gesù vuole diventare «medico dei peccatori>>. La problematica oggettiva di questa pretesa risulta chiara osservando quanto si agitano i farisei per i peccatori 3: essi esortano di continuo nella sinagoga a distogliersi concretamente dalle trasgressioni dei comandamenti Per grosse man­ canze decretano il bando ed escludono dalla comunità della sinagoga, fino a che il peccatore non si corregga. Nella vita quotidiana esercitano una pressione sociale, evitando il rapporto con i peccatori. Come può Gesù, dall'impegno della sua persona, aspettarsi di ottenere ciò che questi provvedimenti pedagogici e sociopolitici, intrapresi con auto­ rità sacrale, ottenevano in misura sempre solo insufficiente ? .

3. La spiegazione del volgersi pieno di benevolenza verso i peccator�

Secondo l'introduzione redazionale (v. l s.) le tre parabole su ciò che si è perdu to (Le. 15,1-32) devono far comprendere ai giusti la co­ munione di Gesù con i peccatori. L'introduzione racconta nello stile generalizzante della redazione: « Si avvicinavano a lui tutti i pubb li cani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro",,, Luca ha in tal modo riferito le parabole direttamente alla situazione di Gesù ? Partiamo dalle parabole stesse. La duplice parabola della pecorella smarrita e della dramma per,. duta, l'una tratta dal mondo dell'uomo, l'altra dal mondo della donna, vuole inculcare: ritrovare quello che si è perduto signi fica gioia (Le. 15,5 s. 9). Questo nucleo allude indubbiamente alle premure di Gesù per i peccatori. ( In Mt 1 8,12 ss. la parabola della pecorella smarrita deve essere ripetuta per i «farisei» nella comunità). Ma per opera di Gesù i peccatori sono veramente riconquistati a Dio? A questa domanda risponde la para b o la del figliuol prodigo (Le. 15,1 1-32). Nell'applicarla alla situazione di G esù, si distinguono da sempre due linee interpretative: gli uni vedono nella parabola un'im­ m agi ne con cui Gesù illustra il suo annuncio, gli altri , in linea di prin­

.

' P. BILLERBECK 1, pp. 170 ss., 878 s.: l'esortazione alla penitenza quotidiana; IV , pp. 297-304: il bando dalla sinagoga; 1, p. 787: l'obbligo fondamentalmente ri con osciuto di preoccuparsi del prossimo in errore, viene più tardi sostituito dalla teoria secondo cui � ancor me glio un discreto riserbo.

3. La spiegazione del volgersi pieno di benevolenza verso i peccatori

199

cipio come Luca, una spiegazione del suo comportamento. Nella prima linea Adolf Jtilicher e la teologia liberale intendono la parabola come una notificazione intesa a chiarire: Dio non è, come immaginano gli ebrei, il giudice severo; egli è il padre benevolo che perdona l'uomo che si pente 4• Rudolf Bultmann rimane ermeneuticamente in questa linea, ma secondo la sua teologia kerygmatica della crisi spiega: la parabola non vuole illuminare, per così dire, sulla bontà · paterna di Dio; vuole annunziare in modo profetico, autoritario: la bontà paterna di Dio perdona incondizionatamente l'uomo che, condannando se stes­ so, si pente 5• Di contro Herbert Braun insisteva con sempre maggior forza: l'accoglimento dei peccatori, rappresentato nella parabola del figliuol prodigo, non si attua per una sentenza dall'alto, ma per il vol­ gersi pieno di benevolenza dell'uomo Gesù verso il loro. «Dio dimostra grazia, mentre degli uomini accettano il suo ruolo di medico che è venuto per i malati» 6• Così Bultmann vede solo il rivolgersi da parte di Dio, e Braun solo l'evento dell'accoglienza da parte dell'uomo Gesù; ma secondo la tradizione su Gesù le due linee sono strettamente con­ giunte. Perciò noi possiamo parafrasare così il significato della para­ bola nel senso della seconda interpretazione 7 : essa spiega e annunzia il volgersi con benevolenza di Gesù verso i peccatori come accogli� mento d'essi da parte di Dio. Non descrive ciò che compiono consape­ volmente i peccatori accolti e i giusti che mormorano; annunzia l'at­ teggiamento di Dio. Gesù diventa medico dei peccatori, perché nel suo volgersi con benevolenza verso i peccatori, Dio Padre stesso li accoglie. Come si può dire questo oggettivamente della persona di Gesù? Gesù si volge verso i peccatori come la persona che egli è in tutti i suoi discorsi e azioni. Egli è presente presso di loro come colui attraverso i cui discorsi e le cui azioni il Regno escatologico di Dio si esprime in parole e diviene effettivo. Cosi le parabole di quanto è perduto rivelano il significato essen­ ziale dell'opera terrena di Gesù: là dove Gesù dona ai peccatori la co­ munione con sé, sia partecipando a un banchetto, sia guarendo un malato, sia chiamando a seguirlo, si attua sempre, senza che ciò sia espresso, il perdono da parte di Dio. E questo perdono è molto di più di quanto dica questo concetto tradizionale di per sé stesso: perdono • A. JUuCHER, Die Gleichnisreden Jesu II, 1910', p. 363. 5 R. BULTMANN, Trad., p. 212; Theol., § 3,2. ' H. BRAUN, Jesus , p. 167; Radikalismus II, pp. 25, 37 s., 132 ss. 7 Noi portiamo avanti cosl la linea Schlatter - Schniewind. ETA LINNEMANN, Gleichnis­ se Jesu, 1965\ pp. 156 s., note 24 e 26, riportando la discussione, obietta contro la loro interpretazione con una certa ragione dicendo che essa considera la parabola eccessivamente come una descrizione dei peccatori accolti e dei farisei mormoranti.

§ 13: Salvezza per i peccatori

200

significa non solo cancellazione della colpa, ma restaurazione di comu­ nione, il rinnovato accoglimento della creatura da parte del suo Creato­ re, quale assunzione nella vita del Regno escatologico di Dio. Ma l'ab­ bandonarsi dei peccatori alla comunione con Gesù è la loro conversio­ ne al Regno di Dio. Il peccatore che si converte è sempre accolto senza condizioni in proporzione del suo convertirsi. Ovviamente, Luca inserisce a questo proposito le formule tradizio­ nali, che si riempiono di contenuto nuovo a motivo del nuovo avveni­ mento. Colui che è perduto ed è ritrovato è, secondo Le. 1 5 ,7-10, il pec­ catore che si converte ( ho hamarti5lòs m e tan oi5n ) . E della peccatrice accolta da Gesù, Le. dice 7,47: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato ». ( In greco c'è il verbo aphienai, che corrispon­ de al sostantivo aphesis). Questa frase è, accanto a Mc . 2,5 par., l'unico passo nella tradizione sinottica in cui Gesù parla espressamente di perdono dei peccati. Sta alla fine del racconto della grande peccatrice per così dire come un'aggiunta. In essa non viene assegnato il perdono, bensì si annunzia che il perdono si è compiuto. Le dimostrazioni di amore della donna sono presentate come motivo per cui si ha cono­ scenza del perdono, non come causa d'esso. Il perdono non fu un atto ma un processo; si compì quando Gesù accolse la donna con un atteg­ giamento che corrispondeva al volgersi della donna verso di lui . Il per­ dono da parte di Gesù si compie mediante il suo volgersi pieno di benevolenza ed è espresso in parole mediante le sue parabole. Soltanto in un passo, cioè in Mc. 2,5, è concesso in modo quasi provocante per rivelare al pubblico un contesto di grande portata. 4. Guarigione - Perdono dei peccati - Fede

La pericope della guarigione del paralitico (Mc. 2,1-12 par.) contiene due componenti diverse quanto al genere: il racconto di un miracolo ai vv; 1-5 e lOb-12 e, i.ilserita in esso, una discussione sul perdono dei peccati ai vv. 6-lOa. Si è spesso supposto che qui siano stati uniti in un secondo momento due brani della tradizione originariamente indi­ pendenti. Per contro si vede sempre meglio: la discussione è stata costruita a priori a commento del racconto del miracolo che presenta un avvenimento storico. Le parole che assegnano il perdono dei peccati (v. Sb) appartengono già alla parte originaria del racconto; poiché il nesso fra perdono dei peccati e guarigione è tipico di Gesù, mentre nella situazione della comunità la relazione stretta è fra perdono dei peccati e conferimento dello Spirito (At. 2,38) 8• •

Cfr. E. ScHWEIZER,

Mc. in loco.

4. Guarigione - Perdono dei peccati - Fede

201

L'introduzione al racconto del miracolo interpreta il fatto di por­ tare il malato come un prova di fede. In vista di questa fede, Gesù dichiara pubblicamente ciò che ha da dare al malato il quale cerca presso di lui l'aiuto di Dio. Mentre tutti aspettano la guarigione, egli concede innanzitutto il perdono dei peccati. Seguono poi in 2,1 1 le pa­ role che recano la guarigione. I due comportamenti affiancati vogliono dire: perdono significa salvezza di tutto l'uomo e viceversa: le guari­ gioni di Gesù implicano il volgersi di Dio con benevolenza a perdonare. Questo comportamento di Gesù deve necessariamente provocare la protesta degli scribi, così come le guarigioni operate di sabato. Questa protesta si articola nella disputa: «Bestemmia; chi può rimettere i peccati se non Dio solo ?» (2,7). Infatti con queste parole di perdono dei peccati da parte di Gesù, non c'è nessuna analogia ebraica veterotestamentaria. Nell'AT si sotto­ linea già in Es. 34,6 che Dio è ricco di grazia e perdona i peccati, ma in realtà lui solo. Questo perdono è occasionalmente annunziato dai pro­ feti. Secondo 2 Sam. 12,13 Natan dice a Davide : « > (Mt. 8,8.10). La fede quindi è l atto fo n damentale della conversione; poiché credere significa non co­ struire più sulle proprie possibilità, ma arrendersi al perdono e al­ l'aiuto di Dio. Chi crede, è un povero degno di essere chiamato beato (M t. 5,3; 1 1 ,5). ...

'

6. La prova della conversione

Da che cosa si vede infine che i peccatori a cui Gesù concede il suo aiuto nella comunione con sé, si convertano realmente? Questo non si può mostrare; si può percepire solo in segni. La tradizione sinottica fa menzione dei segni seguenti: in Le. 19,8 Zaccheo, quando Gesù gli ha proposto di essere suo ospite, dichiara: « Ecco, Signore, io dò la metà dei miei beni ai poveri...». Secondo Le. 7,44-47, il fariseo, dalle dimo­ strazioni di amore della peccatrice, deve riconoscere che molto le è stato perdonato. Ma innanzi tutto il pubblicano o gabelliere Levi, non appena Gesù si rivolge a lui e lo •accoglie come discepolo, parte e lo segue (Mc. 2,14 par.). Nella sequela, si è avverato ciò che spiega la peri­ cape seguente sul pranzo in casa del pubblicano : Gesù è andato incon­ tro al pubblicano come medico. Tutto questo, il cambiamento nel com­ portamento sociale, la dimostrazione di amore, la sequela sono segni, ma non sono prove della conversione.

7. Perdono e amore del prossimo

203

Lo stesso vale d'altra parte per il perdono di Gesù: la guarigione del paralitico, nella discussione , è indicata come segno del pieno potere di perdonare da parte di Gesù (Mc. 2,10). Per nessun ebreo la guari­ gione è una prova dell'intervento di Dio; anche la guarigione può essere soltanto un segno ( cfr . § 16,2 e 4; § 7 ,3a). 7. Perdono e amore del prossimo

Come l'uomo riceve sempre il perdono di Dio quando a lui si volge e ritorna, così può anche conservarlo solo aprendosi al prossimo. Lo spiega in modo incisivo la parabola del servo iniquo (Mt. 1 8 ,23-35 [ S ] ). Essa va riferita al perdono di Gesù: p oi ché il perdono di Gesù schiude una comunione personale con Dio, esso va perduto quando l'uo­ mo si chiude, quanto all'altro aspetto della sua vita personale. A chi ri­ ceve il perdono di Dio e non perdona al suo prossimo, viene sottratto anche il perdono di Dio. Così va intesa anche la quinta petizione del Pa­ drenost ro , M t. 6,12 par. : «Rimetti ... come anche noi li abbiamo rimes­ si ». Questo non è l'inizio, ma la continuazione. Come ogni petizione del Padrenostro, è la preghiera del discepolo, che scaturisce dal grande perdono di Dio ricevuto attraverso Gesù. La stessa connessione si trova in una serie di logia: Mc. 1 1 ,25 s. par.; Mt. 6,14 s.; 5,23 s.; 1 8 ,35. Questa reciprocità di relazioni non è un rapporto di do-ut-des 10, ma circola­ zione del sangue: la circolazione fra il perdono di Dio e quello del­ l'uomo, se quest'ultimo manca , è interrotta. Come il perdono di Gesù, anche il perdono umano nei confronti del prossimo non consiste soltanto in dichiarazioni a parole , ma nel la co­ munione restaurata. Come il perdono di Dio non cessa, non deve avere termine neanche il perdono del prossimo: «Non sette volte, ma set­ tanta volte sette ! )) (M t. 18,21 ss.). Concludendo, occorre sottolineare ancora: il perdono di Gesù in­ duce in questo modo i peccatori ad aprirsi a Di o come al prossimo, perché dona loro anticipatamente, senza porre condizioni, la completa comunione con Dio. Questo perdono di Dio è sempre legato al suo per­ sonale volgersi con benevolenza al singolo, non viene mai annunziato come assoluzione generale 11• E non rimane limitato ai peccatori a cui egli si volge e ai bisognosi di aiuto che lo cercano. L'accoglimento dei peccatori riguarda anche i giusti e proprio loro. •• Contro H. BRAUN, Radikalismus 11, p. 127, nota 1. 11 Qu esto tratto decisivo viene cancellato in J. JERI!MIAS, Theol., pp. llS.ll9, quando l'opera salvifica di Gesù diviene una «buona novella» indifferenziata per •i poveria, che vengono semplicemente equipara ti ai «peccatori•. L'opera di Gesù in linea di principio

ha una forma diversa da quella della predicazione post-pasquale!

§ 14: Il perdono di Gesù e i giustt

204

§ 14: Il per dono di Gesù e i giusti Vedi su § 9 e § 13; inoltre: lsRAEL ABRAHAMS, Studies in Pharisaism and the Gospels, 1917 (ripr. l 967); WoLFGANG BEILNER, Christus und die Pharisiier, 1959; AsHE FINKEL, The Pharisees and the Teacher of Nazareth, 1964; SAMUEL UMBN, Pharisaism and Jesus, 1963; HUGO OoEBERG, Pharisaism and Christianity, 1964; HAN5-FRIEDRICH WEiss, Der Pharisiiismus im Licht der Oberlieferung des NT SAS vol. 1 10,2, 1 965; JACOB NEUSNER, The Rabbinic Traditions about the Pharisees before 70, 1971. ,

Con l'accoglimento dei peccatori, si fa più evidente il fallimento dei giusti come anche la loro chance. Lo vediamo nel fratello del figliuol prodigo (Le. 15,25-32). l; Il fallimento

a) Il festoso accoglimento del prodigo induce il fratello maggiore a fare dei calcoli sul comportamento che ha avuto fino a quel momento : « di Qumran . Delle tradizioni sui miracoli operati sulla natura, solo la moltiplicazione dei -

7 R. BULTMANN, Trad., pp. 246-255. 1 M. DIBELIUS, Jesus, 2 ed., pp. 72-n. ' Nei racconti neotestamentari la topica degli antichi raccont i di miracoli (la gravità della mala t tia e i tentativi fino allora vani di guarire, il processo della guarigione, che si svolge con gesti e pratiche, la dimostrazione dell'avvenuta guarigione, la conclusione corale, che esprime l'impressione provocata dalla guarigione) si trova espressa in parte in maniera ben caratterizzante ed esplici t a, in part e in modo molto frammentario, o assolutamente non è espressa (v. G. DELLI NG, Antike Wundertexte, 1 960'). J. JEREMIAS, Theol., pp. 93 s. assegna in modo troppo sbrigativo i racconti con topica esplic i ta alla versione ellenistica della tradizione, quelli privi di tale topica alla versione palestinese.

214

§ 15: L'analisi storica delle narrazioni dei miracoli

pani e la tempesta sedata sembrano avere addentellati nei giorni della vita terrena di Gesù. Ma all'inizio ci sono degli avvenimenti che già per gli interessati non erano chiari . In questi miracoli gli interessati sono significativamente senza eccezione i discepoli. Anche la moltipli­ cazione dei pani in fondo è percepita soltanto da loro; nulla è riferito dello stupore della folla, eccetto in Gv. 6,14 s. 4. La critica oggettiva

Nei racconti di miracoli la critica oggettiva è collegata più che al­ trove con la critica storica. Una breve osservazione su di essa sembra quindi opportuna. a) Il principio: ciò che secondo la scienza naturale non è possibile, non può nemmeno essere avvenuto storicamente, considerato dal pun­ to di vista critico, è applicabile solo in modo ipotetico; perché può subito sorgere la domanda: che cosa è propriamente « impossibile• secondo le scienze naturali ? Che cosa è « impossibile» dal punto di vista medico ? Poiché occorre storicamente considerare che l'uomo an­ tico non solo vede il mondo in modo diverso da noi, ma lo vive anche diversamente da noi. I missionari all'opera in un ambiente corrispon­ dente ci parlano ancor oggi di esorcismi. Si deve anche osservare che i racconti evangelici si sottraggono in ampia misura con la loro for­ mulazione a una constatazione medico-scientifica. Infine non si dovreb­ be parlare in favore di una irriflessa scientificità, ma piuttosto ren­ dersi conto che oggi non c'è alcuna concezione filosofica della realtà definita e riconosciuta. Perciò è ovviamente più che mai sbagliato con­ statare delle lacune nelle scienze naturali, per inservirvi un «miracolo». Dopo questi brevi accenni sorge la necessità di una riflessione filoso­ fica e teologica a fondo. b) Accanto alla problematica scientifico-filosofica, deve esprimersi quella teologica. Di che cosa si tratta in tale questione dal punto di vista propriamente teologico ? Teologicamente, cioè sulla questione concernente Dio, non c'è di sicuro alcun interesse a salvare apologeti­ camente, in un punto della storia del mondo, alcuni avvenimenti mi­ racolistici *. Ma i racconti di miracoli dei Vangeli hanno offerto lo spunto attraverso i secoli per una riflessione sull'atteggiamento di Dio nei confronti degli avvenimenti storici del mondo. Sotto questo aspet* Mirakelhafte: in tedesco si distingue Wunder, «miracolo•, «p rodigio •, da Mirakel, •esibizione di meraviglie», cazione miracolistica• ( n.d.r.).

l. La terminolog ia

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to, tu tti i grandi teologi, Agostino come Tommaso, Lutero come Schle­ iermacher, se ne sono occupati. Gli avvenimenti storici del mondo sono soltanto il prodotto del destino e il risultato di ciò che l'uomo può fare, e Dio è soltanto una « cifra» per indicare il lontano orizzonte, dinanzi al quale tutto si svolge una «cifra» che attualmente appare sempre più inutile ? O attraverso tutta la tecnicizzazione e la manipolazione si può vedere all'opera Dio ? Un sacrificium intellectus, di cui a questo proposito si è spesso parlato, sarebbe certamente sbaglia to. Fede e pen­ siero, fede e ragione sono strettamente congiunti. Ma noi dobbiamo di­ stinguere tra un pensiero che postula come pre supposto la calcola­ bilità del mondo e un pensiero derivante dalla fede, aperto all'incon­ tro con la realtà di Dio, che cambia il mondo. Ma che cosa significa realtà di Dio, con cui ci si incontra ? Ci incontra nei racconti sui mira­ coli di Gesù ? Così noi troviamo il punto di vista decisivo: possiamo parlare del significato dei miracoli di Gesù soltanto sostituendo l'aspet­ to esteriore, la problematica storico-filosofica come quella teologico­ sistematica, con l'aspetto interiore e interrogandoci sull'intenzione specifica dei racconti di miracoli. In che cosa vedono i Vangeli, o, cor­ relativamente, Gesù, il significato dei suoi miracoli ? -

§ 1 6 : Il significato teologico dei miracoli di Gesù Su l e 2: ERNEST KASEMANN, Wunder im NT, RGG VI', pp. 1835-1837; H. VAN Loos , The Miracles of Jesus, 1965; REGINALD H. FULLP.R, Die Wunder Jesu in Exegese und Verkundigung, 1 967; URBAN FoRELL, Wunderbegriffe und logische Ana­ lyse, 1967; KARL HEINRlCH RENGSTORF, sem eion , ThW vn, pp. 229-26 1 ; tr. it., GLNT xn, coli. 94-172; ID., teras, ThW vm, pp. 125-127; tr. i t., GLNT xm (in corso di pub­ blicazione). Su 3 e 4: ADOLF SCHLATTER, Der Glaube im NT, 1927 ( = 1963'); GERHARD EBHLING, Jesus und der Glaube, ZThK 55 ( 1 958), pp. 64- 1 10 ( In., Wort und Glaub e , 1967', pp. 203-254); ERNST FucHs, Jesus und der Glaube, ZThK 55 ( 1958 ), pp. 170.185; LEONHARD GoPPELT, Begrundung des Glaubens durch Jesus, in: Christologie und Ethik, 1968, pp. 44-65 ; OTTo BETZ, The Concept of the So-called «Divine Man » in Mark's Christology, in: Studies in New Testament and Early Christian Literature, a cura d i DAVID EDWARD AUNE, 1972 (NT Suppl. 33). FRANZ MussNER, I miracoli di Gesù, Queriniana, Brescia 1969 ; XAVIER LMN· DuFOUR (a cura di), I miracoli di Gesù, Queriniana, Brescia 1980. DER

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1. La terminologia

Come i Vangeli intendono i miracoli di Gesù, possiamo desumerlo an che dai vocaboli scelti. Gli evangelisti non parlano in ne s sun pa sso

§ 16: Il significato teologico dei miracoli di Gesù

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di «miracolo» (gr. to thauma, lat. miraculum) 1• Vale a dire questi avve­ nimenti, per essi, non sono caratterizzati dal fatto che siano eventi straordinari, inspiegabili, che debbano provocare ammirazione o vene­ razione per il taumaturgo. Non sono esibizione miracolistiche (Mira­ kel). Noi usiamo perciò qui di seguito il vocabolo «miracolo» (Wunder) solo come «cifra » . Gli avvenimenti da noi indicati in tal modo sono designati nei Si­ nottici come nel resto del NT con i tre concetti di semeia, terata e dynameis; sono citati tutti e tre insieme in At. 2,22; 2 Cor. 12,12 e Eh. 2,4. a) Il NT as sume questi concetti dai Settanta; to teras nel greco extrabiblico è il segno divino ammonitore e incoraggiante, il prodi­ gium. Il NT è tuttavia collegato direttamente con i Settanta. Usa teras sempre insieme a semeion. Con questa combinazione i Settanta desi­ gnano molto spesso atti straordinari di Dio, per es., quanto succede agli egiziani nell'Esodo ( Es. 7,3 ; Dt. 4,34). Per conseguenza teras è l'av­ venimento straordinario, attribuit o a Dio, che in breve si può tradurre «miracolo>> 2• Semeion è per i Settanta, teologicamente usato, quel­ l'avvenimento che fa pensare a Dio, specialmente alla sua disponibilità ad aiutare, così che si può tradurlo con « segno » . Dynamis 3 è teolo­ gicamente nei Settanta la forza di Dio, che dà forma alla storia. Questa forza Israele l'ha esperimentata quando fu salvato dall'Egitto (Es. 6,26 ; 7,4; Dt. 3,24). Soltanto nel NT il vocabolo assume il particolare signi­ ficato di « atto della forza>> (di Dio) 4• b) Come vengono usate nei Sin ottici queste designazioni neotesta­ mentarie del miracolo? La formula semeia kai terata si trova una volta sola; con essa Mc. 13,22 pa�. annunzia « segni e prodigi » di falsi pro­ feti. Semeion nei Sinottici indica il segno che i giudei pretendono da Gesù e che deve dimostrare inequivocabilmente come egli venga da Dio (Mc. 8,1 1-13 par.; Mt. 12 ,38 s. par.; Le. 23,8). Forse Paolo intende questo quando in l Cor. 1 ,22 dice : i giudei chiedono sèmeia. Mentre il concetto è usato dai Sinottici così in malam partem, nel Vangelo di Giovanni è la costante designazione dei miracoli di Gesù in senso positivo. I Sinottici stessi indicano sempre i miracoli di Gesù nei logia come nella narrazione come dynameis; così nei logia (per es. Mt. 1 1 ,2 1 par. Le.), in osservazioni di contemporanei (Mc. 6,2 par. Mt. 13,54) e nella narrazione (Mc. 6,5 par. Mt. 13,58). Così i miracoli di Gesù sono intesi come espressioni della forza di Dio che nella storia opera salvezza e guida verso la salvezza. Quanto nel corso degli avvenimenti del mondo essi siano inspiegabili, non è considerato. A ciò corrisponde il duplice contesto oggettivo in cui Gesù inserisce, spiegandoli, i suoi miracoli. ·

' Solo isolatamente: thaumasios in M t . 21,15 e paradoxon in Le. 5,26. K. H. RENGSTORF, ThW VIII, pp. 115-121 .125 s . • K.H. R.ENGSTORF, ThW VII, pp. 214 s., 219 s., 232 ss. • W. GRUNDMANN, ThW II, pp. 302 ss. •

2. l miracoli e la venuta del Regno di Dio

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2. ' I miracoli e la venuta del Regno di Dio

a) Nella risposta a Giovanni Battista (Mt. 1 1 ,2-6 par. Le.) Gesù de­ scrive la sua opera taumaturgica senza citarla direttamente, con parole della profezia veterotestamentaria (§ 6,3 a). Egli propone velatamente la rivendicazione che attraverso la sua opera e il suo annunzio avvenga quanto è stato promesso per il tempo della salvezza: il male e la morte sono vinti, ogni cosa è salvata, è rifatta integra 5• Eppure, anche considerando storiche le narrazioni, non avviene in virtù di lui, visto da fuori, niente di più di quanto I'AT riporta su Elia ed Eliseo : alcuni malati vengono transitoriamente guariti e altri appena morti sono ri­ chiamati transitoriamente in questa vita. (In questo contesto si pre­ scinda dai miracoli sulla natura; questi hanno un altro carattere, sono riferiti ai discepoli). Perciò non deve sorprendere se nell'esegesi que­ sto discorso a Giovanni Battista viene spesso smorzato o viene attri­ buito come spiegazione successiva dell'attività terrena alla comunità. Eppure, anche Mt. 12,28 par. Le. 1 1 ,20 non pretende di dire null'altro: «Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il Regno di Dio » . Così si pone inevitabilmente la domanda: i miracoli di Gesù non significano infine qualcosa di più di quelli di Elia ? b) Confrontando i racconti, l'attività taumaturgica di Gesù, vista dall'esterno, si distingue già fondamentalmente da quella di Elia in due modi: l . In Gesù manca, attraverso tutti gli strati della tradizione, il miracolo punitivo. L'unico sarebbe la maledizione del fico, Mc. 1 1 ,12 ss. 20 s. par. Mt. 2 1 , 1 8-22. Ma questo atto di giudizio è comunque un'azione allegorica, probabilmente in origine fu solo una espressione metaforica. Non a caso manca il miracolo punitivo; la mancanza cor­ risponde precisamente al modo in cui Gesù porta il Regno di Dio : con­ trariamente all'attesa di tutte le tendenze del giudaismo, egli non Io edificava con prove di forza ed esecuzioni di giustizia, ma dimostrando amore incondizionato anche nei confronti dei nemici di Dio, appunto -con il suo perdono. Conformemente Le. 9,5 1-56 (S) a ragione fa re­ spingere da Gesù in linea di principio il miracolo punitivo quando i figli di Zebedeo chiedono che egli come Elia (2 Re 1 , 10) faccia «scen' Secondo J. JBREMHS, Theol., pp. 106 s. Ma tte o e Luca inten dono la parola di Mt. 1 1 ,5 par. Le. 7,23 com e una «enumerazione di fatti prodigiosi», mentre essa originariamente enuncia solo in modo generale l'inizio del •compimento del mondo•. Secondo la mia 1lpinione, ciò è vero al massimo solo per Luca {cfr. 7,21 ). Ma Matteo comprende in fondo il discorso, come intendeva essere (par. 6,3 a), quale allusione all'opera salvifica di Gesù nel suo complesso (M t. 5-9 ), an che al suo operare m i raco l i . Egli non vede certo più il di­ vario tra la profezia citata e l'opera salvifica di Gesù così gra n de , come originariamente R l'immaginava.

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§ 16: Il significato teologico dei miracoli di Gesù

dere un fuoco dal cielo» . Già questa caratteristica fondamentaie del­ l'attività taumaturgica di Gesù, costante attraverso tutti gli stadi della tradizione, dimostra che essa corrisponde non all'attività di Elia, ma all'intervento salvifico escatologico di Gesù. 2. Perché la salvezza del mondo - contrariamente all'apparenza constatabile - abbia inizio in lui, va desunto da un'altra sorprendente differenza : Gesù, diversamente da Elia, riferisce la sua attività tauma­ turgica alla fede: perciò egli rifiuta il miracolo spettacolare. Secondo­ Mc. 6,5 par. Mt. 13,58 egli nella sua città natale non poteva far miracoli a causa della loro incredulità . «Non poteva », non perché mancasse la predisposizione psicologica, ma perché sarebbe stato in contraddizio­ ne con l'essenza della sua missione soddisfare il bisogno di sensazione con miracoli spettacolari. Gesù stesso esprime quanto l'evangelista ri­ ferisce qui, rifiutando la richiesta di un segno. Secondo Mc. (8,1 1 ss. par.) come secondo Q (Mt. 1 2,38 s.), i rappresentanti del giudaismo gl i chiedono «Un segno dal cielo » . Esso deve dimostrare in modo inequi­ vocabile che la sua potestà viene da Dio; poiché i suoi miracoli sono­ ambigui, possono avere origine anche da demoni (Mc. 3,22 par.). Gesù rifiuta la richiesta; esaudirla contraddirebbe la sua missione. Una ma­ nifestazione di Dio non può essere un'ostentazione spettacolare neutra­ le, ma sempre soltanto grazia o giudizi o per l'uomo che ne è colpito. Un segno inequivocabile di Dio di fronte agli uomini di «questa gene­ razione >> sarebbe un giudizio escatol ogico. Ma la missione di Gesù � quella di salvare, non di giudicare. Perciò egli deve rifiutare il segno richiesto. Mentre la tradizione di Marco si accontenta di questo rifiuto­ (Mc. 8,12), Q tuttavia annuncia ancora un segno, il segno di Giona. In che cosa consiste ? Già per gli evangelisti non è chiaro. Secondo Mt. 1 2,40, il segno sembra essere il fatto che Gesù supera la morte; secon ­ do Mt. 28,4, le guardie percepiscono l'apertura del sepolcro. Invece, se­ condo Le. 1 1 ,30, il segno è Giona stesso, dice ora il Figlio dell'uomo. Lo sarà - al futuro - quale giudice del mondo che appare come uno che ha superato la morte. Forse questa spiegazione si avvicina al senso originario del discorso sul segno di Giona. L'accenno al segno di Giona allora conferma ciò che è apparso chiaro finora sul rifiuto del mira­ colo punitivo o spettacolare: nessuno di questi miracoli si accorda con la missione attuale di Gesù, di salvare i credenti attraverso il ser­ vizio e la dimostrazione di amore. Come è rifiutato il miracolo spettacolare, così è concesso il mira­ colo che aiuta. E in relazione con esso, Gesù introduce ciò che da allora è considerato come l'atteggiamento religioso centrale del cristianesi­ mo, vale a dire la fede.

3. Il rapporto con la fede

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3. Il rapporto con la fede ·

a) L'ambiente che fa da sfondo Nel campo degli studi, Adolf Schlatter, nella sua monografia inno­ vatrice Der Glaube im Neuen Testament [La fede nel NT], spiegò che il discorso neotestamentario sulla fede, derivante da Gesù, era, nell'ambiente della storia delle religioni, assolutamente nuovo. La teo­ logia liberale e la scuola religionista non accettarono questa indica­ zione ; intendevano la religione del cristianesimo primitivo come ap­ prensione intuitiva o come esperienza vissuta. Bultmann e la sua scuola compresero che, per la comunità post-pasquale e innanzi tutto per il cristianesimo di Paolo, la fede era centrale. Ma soltanto volgen­ dosi a studiare il Gesù storico, si scoprì, in questa linea della ricerca, che la fede, come ha formulato Gerhard Ebeling nel suo saggio fonda­ mentale 6, è cdi dono decisivo di Gesù» . Infatti nell'ambiente ellenistico di Gesù non vi era nessuna reli­ gione che cercasse di ottenere la fede nella divinità. La religione del­ l'uomo greco procedeva da sempre dalla seguente idea: che la profon­ dità del mondo sia divina, ognuno lo può percepire riflettendo, e per .questo non occorre la fede. Anche il culto del sovrano non si basava sulla fede; che un principe come Augusto sia divino, è evidente, per ogni persona perspicace, dal suo potere, dall'ordine, dalla pace e dal benes­ sere estesi a tutti . Nella filosofia popolare stoica la divinità è dimo­ strata con deduzioni razionali tratte dalla natura e dalla storia. Nei misteri e nella gnosi essa è però vissuta in modo estatico, vale a dire è contemplata misticamente. Così all'uomo ellenistico risulta estraneo parlare di fede nella religione 7 • Nell'ambiente giudaico di Gesù tutta­ via l'obbedienza nei confron ti della Torà era il comportamento reli­ gioso di norma; la fede era considerata come riconoscimento o con­ fessione di Dio, richiesta dalla legge, che doveva a sua volta confer­ ma rsi nell'obbedienza alla legge. Diventa un'opera fra le opere. è tipico che la caratterizazione estrema del giudai s m o a Qumran insegni la grazia rende pos sibi le l 'obbedien­ una giustificazione sola gratia za alla legge e supplisce all'incapacità, al fallimento - ma che la fede non svolga nessuna funzione 8• In questo ambiente Gesù coniò la sua frase-chiave: «La tua fede ti ha salvato». -

b ) L'esito dell'indagine storica sulla tradizione Se si esaminano le espressioni sinottiche sul credere e sulla fede

(pisteuein e pistis) dal punto di vista della storia della tradizione 9, ' G. EBELING, Jesus und der Glaube, ZThK 55, 1958, p. 102. 7 H. Kl.EINKNECHT, ThW III, pp. 65·79; R. BULTMANN, ThW VI, pp. 178 s. 1 A. SCHI.ATIER, Glaube, 19635, pp. 9-80; P. BILLERBECK, I I I , pp. 187-193; J. BBCKI!R, Das Heil Gottes, 1964, pp. 176-180 (specialmente nell'uso di Ab. 2,4 in l QpHab 8,2), pp. 276-279. ' Cfr. G. EBELING, loc. cit. (nota 6), pp. 86-95; J. ROLOFF, Kerygma, pp. 152-173.

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§ 16: Il significato teologico dei miracoli di Gesù

spiccano numerosi passi in cui le parole sono usate come nel linguag­ gio della comunità, per es. Mc. 1 , 1 5 : «Credete al Vangelo» 10• Ma allo stesso tempo si scopre un discorso di fede che si distingue dall'am­ biente giudaico come dal linguaggio della comunità, e che indubbia­ mente è proprio di Gesù. Questi passi si dividono in due precisi con­ testi: in una serie di logia i discepoli sono chiamati a mettere alla prova la fede, come, innanzi tutto, nel discorso riportato quattro volte sulla fede che sposta le montagne (Mc. 1 1 ,23 par. Mt. 2 1 ,2 1 ; Mt. 17,20 par. Le. 17,6; cfr. l Cor. 1 3,2) e nel logion della preghiera di fede (Mc . 1 1 ,24 par. Mt. 2 1 ,22). - Di questi logia fa parte anche l'esortazione a credere in occasione dela tempesta sedata (Mc. 4,40 par.) 1 1 • D'altro canto, noi troviamo sei volte, nel nucleo fondamentale dei racconti sulle guarigioni, accenni di Gesù alla fede: Mt. 5,34 par. 36b par. Le. 8,50; 10,52 par. Le. 18,42; Le. 17,19 (S); M t. 8,10 par. Le. 7,9; e Mc. 9,23 s. (S). In alcuni altri passi, Matteo ha aggiunto questo accen­ no, in modo coerente, nel nucleo fondamentale: 8,13; 9,29 e 15,28. La stessa cosa vale per le parole dette alla grande peccatrice in Le. 7,50. In due passi non è Gesù, ma il narratore che nello stesso contesto fa appello alla fede : Mc. 2,5 par.; 6,6 par. M t. 13,58. Due volte in tali passi secondari è in relazione con la fede non una guarigione, ma il perdono dei peccati: Mc. 2,5 par.; Le. 7,50 ( S ). Che la sostanza di queste espressioni risalga a Gesù stesso, appare chiaro nella formula la quale spesso conclude i racconti sulle guari­ gioni: « La tua fede ti ha salvato » (Mc. 5,34 par.; 10,52 par.; Le. 17,19 [ S ] ; cfr. 7,50 [ S ] ) 12• Questa frase ricorda indubbiamente la formula cristiana primitiva di missione: « Credi nel Signore Gesù e sarai sal­ vato » (At. 16,31 ; cfr. Rom. 10,9) u. Tuttavia la locuzione assoluta «la tua fede» si stacca in modo così caratteristico da questa formula che le parole così rivolte non si possono intendere come una proiezione 10 Parimenti Mc. 1 1 ,22: «Abbiate fede in Dio!»; Le. 8,12 s. (v. nota 13); 18,8. Inoltre sono da escludere i passi che non si riferiscono all'attività terrena di Gesù: Mc. 1 1 ,31 par.; Mt. 21 ,32 ( S ) (G i ovanni Battista); Mc. 13,21 par.; Mt. 24,23.26 (parole d'ordine escatologiche che ingannano) come pure passi sull'infanzia (Le. 1,20.45) e la storia pasquale (Le. 24,1 1.41 ). In legame non rigoroso con l'uso del concetto nella vita terrena sta la derisione del Crocifisso: M t. 1 5 ,32 par.; M t. 27,42 ( Matteo qui, rispetto a Marco, aggiunge: «gli•; parimenti in 18,6 rispetto a Mc. 9 ,42 ) . 11 In luogo della domanda in tono di rimprovero: cNon avete fede?», in par. Mt. 8,26 c'è cuomini di poca fede•; Matteo mette queste parole, che hanno un parallelo ( in Luca) soltanto in M t. 6,30, anche in 14,31 e 16,8, parimenti in altra forma (il sostantivo «fede•) in 17,20. L'inserimento del vocabolo, che non ha precedenti storici greci, ma certo­ aramaici (R. BuLTMANN, ThW vr, p. 205 ), è certo una semiti zzazione successiva. " Una seconda formula: •Ti avvenga secondo la tua fede» si trova solo in Matteo. cioè in 8,13 e similmente in 9,29 e 15,28. " Ad essa corrisponde la spiegazione lucana della parabola del seminatore: Le. 8,12 s . : « • • •perché non credano e così siano salvati•.

3. Il rapporto con la fede

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retrospettiva nei giorni della vita terrena. D'altra parte, essa non ha nessuna corrispondenza neanche nell'ambiente giudaico di Gesù, ha

però una storia precedente, che fa comprendere come sia stato Gesù a formarla. Nell'AT salvare (sozein, ebr. hosia' ) è un termine per indicare la salvezza di Dio in ogni tribolazione. In questo senso i Salmi parlano circa 80 volte di salvezza e la promettono soprattutto all"anaw, all'uo­ mo umiliato, a colui che sta in basso, per il quale valgono anche le bea­ titudini di Gesù 14• Questa promessa dei Salmi veterotestamentari fu ri­ presa accentuatamente nell'ambiente di Gesù nelle Hodajot di Qumràn ( l Q H 2,32; 5,18), ma anche nei farisaici Salmi di Salomone (6, 1 ; 15,1). L'elemento nuovo e prop rio di Gesù è il fatto che egli assegna la sal­ vezza esclusivamente alla fede. Certo, già l'AT in una linea di fondo si aspetta tutta la salvezza dalla fede; ma solo raramente ne parla in modo esplicito , e allora si tratta di altre formulazioni 15• c) Il rapporto con l'opera di Gesù Questo riferimento alla fede, proprio di Gesù, assume un posto par­ ticolare nel complesso della sua opera. Nell'annunzio che Gesù fa pub­ blicamente, anch 'egli promette, per es. nelle beatitudini, la salvezza agli 'anawim, n on, come in seguito la predicazione missionaria, ai cre­ denti. Conformemente nemmeno si riferisce mai che gli uomini aves­ sero creduto in vista della predicazione pubblica di Gesù 16• Ad una « fede» si giunge sempre e soltanto nell' incontro effettivo individuale con la persona di Gesù. La fede nasce quando Gesù, certo con la totalità del suo operare, si rivolge a un uomo che, in una de ter­ minata situazione disperata, lo cerca, e parlandogli e dandogli un aiuto concreto, gli offre di essere in comunione con lui. Tipico è il racconto sul centurione di Cafarnao . Egli cerca l'aiuto di Gesù , la sua richiesta viene resa più limpida in un dialogo e alla fine Gesù dichiara: « In Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande » (M t. 8,10 par. Le. 7,9). Anche altre volte non sono i postulanti o il narratore a par­ lare per primi della fede, ma Gesù stesso. E attraverso questa fede, •• G. FoHRBR, ThW VII, p. 9TI. n parallel o più vicino in un brano narrativo è 1 Sam. 1 ,17 (Eli ad Anna): «Va' in pace ed il Dio di Israele ascolti la domanda che gli hai fatto». " G. VoN RAD, Theol. Il, pp. 402-407; tr. it. ci t., pp. 456-461. Uno dei pochi passi espliciti dei primi tem pi è Es. l4,31 (dopo la salvezza avvenuta con il passaggio del Mare di canne): cll popolo temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè» (J); cfr. anche Is. 7,9; 28,16. " Quando J. JEREMIAS, Theol. , p. 163, dichiara: «Quel piano oggettivo, tutto il mes­ saggio di Gesù è un unico invito ad accettare l'offerta di sa l vezza, [ . . . ] cioè è un invito alla fede, anche se la parola non compare spesso•, attraverso questo ampliamento del­ l'uso del concetto, ampliamento non garantito dall'esegesi, il contorno del concetto di •fede» viene cancella to, così come quello del l 'ope ra di Gesù. Questa viene portata al livello della missione post-pasquale fatta nel suo nome.

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§ 16: Il significato teologico dei miracoli di Gesù

come è stato chiarito (§ 13,5), si realizza ciò cui tende l'opera globale di Gesù, la conversione dell'uomo dalle vie sue proprie al Regno di Dio, che reca salvezza. Così la fede ha il suo posto al centro dell'opera di G esù. Per comprendere questo, se ne devono chiarire il contenuto e il fondamento. d) Il contenuto

Sorprendentemente, nei passi che si riferiscono alla situazione di Gesù, non è mai espresso che cosa viene veramente creduto. Si parla sempre e solo della «fede» in modo assoluto. Come unica specificazione si trova il pronome possessivo: « La tua fede ti ha salvato» o « Ti avvenga secondo la tua fede» (Mt. 9,29 [ S ] ; cfr. 8,13) oppure « grande è la tua fede; ti avvenga come desideri» (Mt. 15,28 [ S ] ). Questo modo di parlare fa dedurre: quello che viene cre­ duto, lo si può supporre. Ora si tratta solo di credere. Non è richiesta una credulità generale, cui ci si associ, ma una fede come impegno attuale, personale. Perciò viene riconosciuta la fede soltanto al centu­ rione di Cafarnao, mentre è pur vero che in Israele ogni devoto profes­ sa due volte al giorno, nello S•ma', il Dio dei padri come suo Dio e cerca di dimostrarlo vivendo secondo la legge 17 • Questa credulità, que­ sto sapere permanente e questa sicurezza, per Gesù non è ancora fede che salva . La fede prende forma soltanto quando nella situazione con­ creta l'individuo rinuncia alla presunzione e alla sicurezza di sé e cerca e trova aiuto in Lui. Fede deve essere un uscire dallo status quo. Eppure anche questo uscire non sarebbe ancora fede, se non fosse una uscita verso Dio. Qui la fede non è certo, come intendeva ancora Bultmann, esclusivamente «fede nella forza taumaturgica di Gesù» 18 • Secondo Ebeling la fede è, sì, riferita a Dio, ma è intesa in primo luogo come cambiamento della coscienza nell'uomo. Non ha nessuna impor­ tanza quale contenuto la colmi; anche al centurione non ebreo viene attribuita la fede. La fede sarebbe certezza, anzi . be essere collegato, dato il grande intervallo di tempo, con una serie di anelli intermedi sconosciuti, allora nella ripresa di questa rappre­ sentazione, le enunciazioni veterotestamentarie su Dio sarebbero state applicate in modo simile a quello usato più tardi, quando nella cristo­ logia le enunciazioni veterotestamentarie sulla comparsa escatologica di Dio ( ls. 45,22 ss.) furono trasferite sul Crocifisso come Kyrìos ( Fil. 2,10 s.). Questa derivazione spiegherebbe comunque perché il Figlio dell'uomo assume le funzioni escatologiche di Dio 13• Sullo sfondo di questa discussione, occorre qui di seguito tentare di sviluppare una concezione propria. 4. Il Figlio dell'uomo che viene

a) Prendiamo innanzitutto i brani più importanti concernenti que­ sto argomento. Dei tre passi della tradizione di Marco riguardanti una futura venuta del Figlio dell'uomo, Mc. 13,26b e 14,62b sono costruiti in modo secondario con appoggio in Dn. 7,13. Invece Mc. 8,38 par. Le. 9,26 è un antico duplicato di tradizione di Mt. 10,32 par. Le. 12,8. Degli altri tre passi provenienti da Q, uno è l'esortazione di Mt. 24,44, men­ tre due richiamano «il giorno del Figlio dell'uomo» (Le. 17,24.26; par. M t. 24,27 [ = 30] .37 parla della «parusia del Figlio dell'uomo»). Inol" Questa non può essere l'ipotesi di J. JFREMIAS, Theol., pp. 257 s., secondo cui il Figlio dell'uomo sarebbe un uomo rapito in Dio, che ritorna. In fondo può riferirsi solo all'appendice secondaria dei discorsi allegorici, il rapimento di Enoch (cfr. Hen. aet. 70 s.).

4. Il Figlio dell'uomo che viene

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tre troviamo in proposito alcune antiche tradizioni, come Mt. 10,23 ; 19,28 (cfr. Le. 22,30) e Le. 1 8,8. Invece Mt. 24,30 e 25,3 1 sono, come Le. 17,22.30 e 2 1 ,36, costruzioni redazionali. Secondo Colpe (pp. 435-44 1 ) probabilmente risalgono a Gesù otto logia sul Figlio dell'uomo che verrà: Le. 17,24.26 par. Mt.; 17,30 ( S ); 18,8 (S); 2 1 ,26 (S); 22,69 ( S ); Mt. 10,33 ( S). Queste parole, a prescindere dal passo ( secondo me reda­ zionale) Le. 22,69, secondo il contesto dominante sono rivolte nel loro complesso ai discepoli; molto probabilmente le parole sul Figlio del­ l'uomo erano per natura loro parole ai discepoli. Ma il riportarle a Gesù deve decisamente dipendere dal discorso sul confessare e rinne­ gare, che Colpe considera come detto in prima persona {p. 441 ). Nella forma più antica, Le. 12,8 s., esso suona così: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di D i o . Ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio » . In quale funzione è immaginato qui il Figlio dell'uomo ? Non è testimone al giudizio universale, ma giudice al posto di Dio. Quale tradizione a quale situazione possono spiegare questa enunciazione ?

b) Enunciazioni paragonabili sul Figlio dell'uomo si trovano nel­ l'apocalittica giudaica veterotestamentaria in tre testi:

l. In Dn. 7 in una visione apocalittica a quattro bestie che salgono dal mare, segue «uno simile ad un Figlio di uomo», che appare sulle nubi. A lui, secondo 7,14, viene conferito il potere dal « Vegliardo » . Le quattro bestie rappresentano gli ultimi quattro regni, l'uomo che viene dall'alto è il simbolo del regno « dei Santi dell 'Altissimo » (7,27 ). 2. Nei discorsi allegorici del libro etiopico di Enoch, cap. 37-7 1, che sono probabilmente del I sec. av. C. 1\ il Figlio dell'uomo non è un sim­ bolo di una visione, ma una figura celeste preesistente, che all a fine compare non solo come signore del mondo, ma anche come giudice . Egli esisteva già prima della creazione del mondo sul trono dell'Altis­ simo (48,3.6 s.; 62,7); alla fine egli non solo, come in Daniele, assumerà il potere del mondo (48,5 ; 69,26), ma farà anche il giudizio (62,5 ; 69,27 .29). In particolare, le espressioni sono molto diverse. Parlano " Secondo E. SJI!Bmtc, Der Menschensohn im iithiopisclten Hen och b u ch . 1946, e secondo J. JEREMIAS, Theol., p. 257, come si può de du rre anche da Hen. aet. 56,7, essi furono redatti dopo l'invasione dei Parti in Palestina ( 40-39 a.C.); difficilmente come vuole J.C. HINDLEY, Towards a date for the Similitudes of Enoch, NTSt 14, 1%7-68, pp. 551-565, solo dopo la guerra di Traiano contro i Parti. Il fatto che finora a Qumriìn si siano trovati dei frammenti delle a lt re quattro parti di Hen. aet., ma nessuno dei discorsi allegorici, rende dubbia non la loro origine giudaica, ma la loro diffusione al tempo di Gesù.

§ 19: Il Figlio dell'uomo

256

anche non del «Figlio dell 'uomo», ma di « questo Figlio dell'uomo », ecc. e accanto a lui nominano !'«eletto », certo a lui identico. 3. Nel IV libro di Esdra redatto intorno al 90 d.C., il Figlio dell'uomo è innanzitutto come in Daniele una figura di una visione apocalittica: dal mare esce «qualcosa come un uomo » e «questo uomo » vola sulle nuvole del cielo, sgomina un esercito innumerevole e raduna un eserw cito pacifico ( 1 3 ,1-1 3 ). Secondo l'interpretazione del simbolo ( 1 3 ,25-52), «l'uomo» è colui mediante il quale Dio > che in ls. 53 si trova quattro volte (52,14 s.; 53, 1 1 s.) è ripreso anche nella espressione sul calice in Mc. 14,24 par. Mt. 26,28: il sangue è «versato per molti ». Entrambe le volte si intende: Gesù muore come il servo di Dio per espiare il peccato di tutta l'umanità. (Con questa morte, secondo la frase sul calice, si instaura una «allean­ za» , la nuova alleanza di Ger. 3 1 ,3 1 ss . ; l'umanità entra in un nuovo rapporto con Dio.)

Come si pervenne a interpretare la morte di Gesù in questo modo secondo Is. 53 ? Spesso si è creduto 41 che nell'ambiente giudaico della Chiesa palestinese fosse generalmente diffusa l'idea che la morte dei martiri significasse parzialmente anche espiazione per altri e dalla comunità fosse stata applicata alla morte di Gesù. In questo modo sarebbe derivata la formula 'yper' del kerygma originario : «Egli è morto per i nostri peccati secondo le Scritture » ( l Cor. 15,3). Mediante un'ul­ teriore riflessione, questa formula avrebbe assunto Is. 53, e in tal modo si sarebbe formata, nella frase sul riscatto e sul calice, l'enun­ ciazione sull'espiazione . Frattanto i presupposti di questa ricostruzione si sono rivelati non storici: l . nel tempo neotestamentario la morte dei martiri fu inter­ pretata come espiazione per altri soltanto nel giudaismo ellenistico, ma in quello palestinese solo più tardi. A prescindere dal passo sin­ golare e incerto Test. Ben. 3,8, si trova per la prima volta in 4 Macc. (6,28 s.; 17,20 ss.) 42• 2. Sembra molto difficile che anche Is. 53 sia stato inserito dalla comunità primitiva nella riflessione teologica; gli ac­ cenni nella letteratura neotestamentaria sono scarsi e tardivi 43• Queste osservazioni portano a rovesciare il rapporto di origine fra la formula 'yper' e i logia sull'espiazione : la formula 'yper' è una cleriUn'analisi più specifica del rapporto in H. PATSCH, loc. cit. (nota 23), pp. l'n s. Kyrios, cit., 1973'; F. H AH N , Hoheitstitel, cit., p. 56. 42 Lo dimostra K. WENGST, Christologische Forme/n und Lieder des Urchristentums, 1972, pp. 62-70 in discussione con E. LoHSE, loc. cit. (nota 36); parimenti H. PATSCH, pp. 155-158. " H. PATSCB, pp. 159-167. 40

•• W. BoussBT,

8. La morte di Gesù come espiazione vicaria

269

vazione generalizzante tratta dai logia sull'espiazione e questi non traggono origine da riflessione teologica, ma da una vita con Gesù. Perciò si deve supporre con nostra sorpresa che p r o b a b i lmen te provengono da Gesù stesso 44• Gesù precederebbe allora la Chiesa tanto per l'interpretazione del suo rifiuto quanto con i precetti del ser­ mone della montagna; i logia parlano del carattere espiatorio della sua morte in modo oggettivamente più esatto delle stesse formule paoline! c) Il significato dei logia di Gesù sull'espiazione

l . Espiazione in senso religioso, come si riteneva in tutto il mondo antico, presuppone che il mondo so tt o stia a un ordine, la cui viola­ zione potenze sovrumane non lasciano impunita. Perciò solo l'espia­ zione può interrompere una reazione a catena di colpa e di sventura. A seconda del tipo di queste potenze e del loro ordine, l'espiaz ione assume caratteri diversi. Nell'AT 45 l'espiazione compare solo in epoca postesilica. I riti espiatori, sviluppati nel sacerdozio, non sono un mezzo per disporre favorevolmente la divinità, ma disposizioni di grazia da parte di Dio, mediante le quali egli stesso interrompe il collegamento fra peccato e sventura. Questi riti corrispondono dunque nella loro intenzione pro­ pria all'immagine veterotestamentaria di Dio : Dio istituisce un rap­ porto di alleanza con l'uomo, non è l 'u om o che m agari si faccia pa­ drone della divinità. Ma l'atto espiatorio rimane, anche come sacri­ ficio di animali, un rito materiale. L'idea dell'espiazione della teologia del martirio in 4 Macc. è invece personalistica, ma essa poggia sul pensiero fondato nella prestazione, secondo cui sono conteggiate le opere della legge. L'opera di Gesù è in contrasto con tutt'e due le idee di espiazione. Egli rifiuta tanto la sacralità materiale come il calcolo della prestazione. Perciò non si dovrebbe parlare, trasponendo idee giu­ daiche, di una «forza espiatoria» o di una «prestazione espiatoria » della sua morte. Così è decisivo oggettivamente che l e due frasi che in ducon o a in­ terpretare la morte di Gesù come un'espiazione, non riprendano idee espiatorie comuni del mondo giudaico, ma l' i mmagine, unica ad esi­ stere n ell'AT, del servo di Jahvé in Is. 53. La morte del servo di Jahvé indicata da ls. 53 è l ontana da ogni aspetto rituale e da calcoli. Il servo di Jahvé muore perché serviva in obbedienza e perché Dio, stabilendo 44 Così H. P.o\TSCH, pp. 176-180; con altra motivazione anche C. CoLPE, ThW VIII, pp. 458, riga 14 ss.; J. JEREMIAS, Theol., p. 279. " Sommario e bibl. in H. PATSCH, pp. 151-158.

270

§ 19: Il Figlio dell'uomo

l espiazione, ha decretato questo esito. Quando il Deuteroisaia tracciò questa immagine nello spirito della profezia 46, aveva dinanzi agli oc­ chi come modello la via dei grandi profeti: Geremia che soffre allo stesso tempo per la resistenza del popolo contro Dio e con il popolo sotto il giudizio di Dio, oppure: Mosè che, secondo il Deuteronomio, rappresenta non solo la causa di Dio di fronte al popolo, ma allo stesso tempo perora dinanzi a Dio la causa del popolo e ne condivide il destino (Dt. 3,26; 9,18). Ma la figura del servo di Jahvé supera tutti questi modelli come tutte le esperienze storiche; è profezia. La profezia fa confessare agli uomini tra cui il servo di Jahvé soffrì, dopo che fu innalzato: «Quando offrirà se stesso in espiazione (o: in cambio), vedrà una discendenza, vivrà a lungo» (Is. 53,10). 2. La morte di Gesù, vista dalla tradizione su Gesù, aveva una struttura paragonabile? Poteva riconoscere egli stesso la sua via in l s. 53 ? Gesù vede la sua morte, proprio secondo le due espressioni metaforiche di Mc. 10,38 (par. Mt. 20,22), per la cui autenticità molto depone, anche come calice e battesimo, che significano giudizio. La sofferenza della morte per lui, come per l'uomo dell'AT, è l'essere cac­ ciato dalla vita davanti a Dio, cioè giudizio. Perciò egli muore con il grido del Sal. 22,2, e con l'invocazione «Mio Dio» egli allo stesso tempo fa breccia attraverso il giudizio, la tenebra che nasconde Dio. Così la morte di Gesù secondo la sua struttura reale è un'espia­ zione vicaria per tutti, perché con essa, secondo il volere di Dio, egli assume su di sé anche il giudizio di Dio, decretato sulla perversità di tutti, e santifica così lo statuto dato da Dio all'umanità, la legge. 3. Eppure : tale idea di espiazione non contrasta con il semplice perdono che Gesù concedeva agli uomini durante la sua vita terrena? Molti giudicano come Heinrich Julius Holtzmann 47: secondo Gesù chiunque si pente seriamente riceve il perdono di Dio; non c'è bisogno di una morte espiatoria! Allora, Gesù avrebbe unicamente semplifi­ cato il sistema del perdono che offriva la sinagoga (§ 5,2b )! Ma egli concedeva il perdono soltanto in quanto lui stesso si rivolgeva con amore al singolo e gli rendeva possibile un nuovo rapporto con Dio, senza porre condizioni preliminari, senza chiedere, per esempio il pentimento. Perciò il suo perdono non si può scindere dal suo cammi­ no. Egli, operando e garantendo il perdono con l'impegno della sua persona, percorreva la via del profeta, che allo stesso tempo sosteneva '

40

41

Cfr. per quanto segue G. VoN RAn, Theol., II, S ed., pp. 263-270; tr. it. cit., pp. 294-306. HJ. HOLTZMANN, Theol., I, p. 255.

8. La morte di Gesù come espiazione vicarìa

271

la causa di Dio e del popolo. Così è nella linea della sua opera il fatto che egli applicasse a sé quelle singolari parole dell'AI sul servo di Jahvé, che muore in espiazione per tutti e che nel giudaismo non erano mai state accolte. Questa interpretazione del suo rifiuto si può comprendere oggetti­ vamente in modo analogo all'immagine della morte espiatoria di Is. 53 nel quadro della promessa profetica di salvezza: dinanzi alla rot­ tura dell'alleanza, la profezia promette un'alleanza nuova, migliore, mediante la quale il rapporto fra Dio e il popolo deve risanarsi defi­ nitivamente -48. Ma secondo Is. 53 questa nuova alleanza è resa pos­ sibile dalla morte espiatoria del servo di Dio. Costui, secondo Is. 53, 1 1 giustifica > è stata appli­

cata a Gesù durante la sua vita terrena al massimo in stadi preliminari. ::B certo importante che l'uso della designazione provenga dalla struttu­

ra del rapporto veterotestamentario con Dio. Ed è decisivo che a Gesù fosse data coscienza di un vincolo di tipo unico con questo Dio. Egli non esprime questa consapevolezza con una designazione particolare, ma in modo incomparabilmente più autentico parlando effettivamente in modo figurato di Dio come Padre e forse anche già di sé come del Figlio. Queste immagini non vengono mai collegate con la designazione; un certo collegamento si trova nella parabola dei cattivi vignaioli, di rielaborazione in termini allegorici, compiuta in tempo successivo: alla fine il Signore manda «il figlio predilettO >> (Mc. 12,6). b) L'immagine Padre-Figlio L'immagine del rapporto padre-figlio si trova in tre diverse espres­ sioni: l. L'appellativo abba nella preghiera In tutte le preghiere di Gesù tramandate, eccetto le parole dette in croce Mc. 15,34 par. Mt. 27,46, egli si rivolge a Dio come Padre (pater) 58• In aramaico c'è senza dubbio abba come troviamo in Mc. 14,36 par. Per i discepoli questa invocazione era così importante che essa fu mante­ nuta ancora in aramaico nella Chiesa ellenistica (Rom. 8,16; Gal. 4,6). Nell'ambiente ebraico di Gesù era nuova e unica 59 : nelle preghiere ebraiche c'è occasionalmente «nostro padre» ( abinu, 'abunah) o nel gre­ co della diaspora pater (Sir. 23, 1 .4 LXX; 3 Macc. 6,3 .8; Sap. 14,3). Ma abba era molto lontano dall'ebreo che pregava; era l'invocazione familiare che esprimeva la fiducia del bambino nel padre. Se Gesù la usa nei con­ fronti di Dio, egli manifesta in tal modo un rapporto di unione e di ab­ bandono, caratterizzato da una familiarità unica. Gesù estende questo rapporto con Dio anche ai suoi discepoli ; il Padrenostro cominciava originariamente con questa invocazione (Le. 1 1 ,2; cfr. Rom . 8 , 1 5 ) . Nei discepoli è espressione della conversione escatologica: essi diventano «come i bambini » (Mt. 18,3 par.). In Gesù però questo abbandono non '

51 Mc. 14,36 par.; M t. (6,9); 17,1.5.11.2124 s.

11,25 s.; Le. 23,34.46; Vit. 26,42; cfr. Gv. 1 1 ,41;

12,27 s.;

276

§ 19: Il Figlio dell'uomo

è evidentemente nato con la conversione, ma è dato da un'unione radi­

cale, in vista della quale forse gli furono rivolte le parole nel battesimo (§ 5,2; § 19,9a). Questa invocazione incomparabile fa emergere l'aspetto interiore della rivendicazione [ d'autorità] che vediamo quando Gesù esige e per­ dona in luogo di Dio. Questa pretesa non è presunzione, ma espressione di un abbandono estremo : Gesù si abbandona alla volontà di Dio come il bambino che prega il padre. Questo è sviluppato cristologicamente in Gv. 5,19 s . L'unione che s i esprime nell'invocazione d i Gesù s i manifesta anche nell'uso della designazione metaforica di Padre : 2. « > . I n tutti gli strati della tradizione sinottica viene mantenuta, senza rilievo particolare, una distinzione sorprendente : quando indica figura­ tamente Dio come Padre, Gesù non si unisce mai con i suoi discepoli in un > promessa in Ger. 3 1 ,3 1 , che ora viene instaurata attraverso la morte di Gesù; il >) significa ine­ quivocabilmente «fatto risuscitare» , quando è meglio determinato da ek nekri5n (dai morti; così Rom. 1 0,9 e passim) o come qui da un accen­ no precedente alla morte. Perciò altri 12 presumono che la nostra formu­ la sia derivata, per interpretazione, da una «formula fondamentale » composta di due parti, che forse suonava così : « Cristo è morto e risu­ scitato ». Ma locuzioni come l Tess. 4,14: « Se noi crediamo che Gesù è morto e resuscitato ... » oppure Rom. 8,34; 14,9; 2 Cor. 5,15 hanno un Sitz im Leben diverso da l Cor. 15. Sono, come le formule brevi, formate di un membro solo, comprensibili solo nel contesto di svolgimenti teolo­ gici o di azioni liturgiche. Ma l Cor. 15,3 5 è un compendio catechetico autonomo dell'essenza del Vangelo, mentre per es. in Rom. 10,9 il bat­ tezzando risponde a questo annuncio o Le. 24,34 l'assume come procla­ mazione liturgica. Formule brevi non si sono semplicemente sviluppate fino a sostituire formule lunghe; sono invece sorte tutte secondo il loro fine kerygmatico o liturgico separatamente o una accanto all'altra. In questo senso, si può indicare la formula di l Cor. 15 come il kerygma -

10 B. KlAPPERT, Zur Frage des semitischen oder griechischen Urtexts von l Cor. l5,3-5, NTSt 13, 196(H)7, pp. 168-173, contro H. CoNZELMANN, Zur Analyse der Bekenntnisformel J Cor. 15,3-5, cEv. Theol.•, 25, 1965, pp. 1·11. 11 H. CONZELMANN, RGG 11, pp. 698 s.; W. KRAMER, op. cit., pp. 32 s. ,. G. Kl!GHL, op. crt. altrove (§ 23 Bibl.), pp. 30 s., che ricostruisce, semplificando, sulle tracce di Willi Marxsen.

2. Lo. tradizione delle formule

309

originario. Anch'essa non riproduce naturalmente l'impressione diretta delle apparizioni pasquali, ma è il risultato di una riflessione teologica fondamentale. Come tale però ebbe origine in primo luogo non come una somma di singoli dati ma come una unità contenutistica e formale. Così riesce difficile supporre uno sviluppo graduale partendo da stadi preliminari, in cui mancassero parti come , « secondo le Scritture», ripetuto due volte, e a lui (non: in lui). Nelle appa­ rizioni pasquali si rinnova quindi per i discepoli l'avvicinarsi di Dio attraverso Gesù, che era lo scopo dell'attività terrena. In esse Gesù si rivolge a loro invece di Dio, concedendo loro la comunione con lui e quindi con Dio. c) La conclusione non solo possibile, ma necessaria che risulta da questo argomento delle apparizioni è l'affermazione di l Cor. 15,4b: «� stato risuscitato » . Chi incontra colui che appare, non incontra un'im­ magine, ma, in person�, un Tu. Come taluno dei primi testimoni, attra­ verso l'incontro Paolo diventa apostolo, cioè non rappresentante di una causa, bensì vicario di una persona ( l Cor. 9,1 ; 1 5,8). Della sua opera egli può dire (2 Cor. 5,20): «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro ». Se si incontra un de­ funto in persona come un Tu, cioè vivente (§ 2 1 ,4a), allora, contro tutte le aspettative, di lui si deve proclamare: Dio lo ha risuscitato (vedi sopra, nota 9). Questo è proprio quanto vogliono dire i concetti di «risuscitare » e « risorgere» 16• Se applicati a un defunto i due vocaboli greci qui usati, egeiro e anistemi, hanno innanzitutto lo stesso significato delle radici dei due vocaboli tedeschi [ auferwecken e auferstehen ] : gli viene ride­ stato, ed egli si alza come uno che ha dormito. Perciò nell'ambito lingui­ stico greco questi vocaboli si applicano, per indicare per es. la rianima­ zione di un morto apparente e molto di rado, soprattutto in romanzi, la rianimazione di un defunto, cosa che tuttavia in seguito si dimostra sempre come una confusione o un inganno, ma non per indicare la sopravvivenza dell'anima dopo la morte. Nell'apocalittica ebraica vete­ rotestamentaria i due concetti diventano termini per indicare la riani­ mazione escatologica dei morti e assumono così lo speciale significato di «risorgere» e «resuscitare». Già nell'Apocalisse di Isaia (Is. 26, 19) i due concetti vengono usati quasi come sinonimi: «Di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgerano i loro cadaveri» . (Anche nel NT la locuzione «Gesù è risorto » ha lo stesso significato di «Dio lo ha resuscitato » ). Quello che l'apocalittica ebraica veterotestamentaria si aspettava dall'escatologia futura 17, i discepoli lo devono affermare di Gesù a mo11 Lo sviluppo dell'uso del vocabolo è accuratamente presentato da E. FASCHER, Anastasis - Resurrectio - Auferstehung, ZNW 40, 1941-42, pp. l66-229; cfr. A. OEPKE, ThW 1, pp. 368.370.372; II, pp. 332-334.

312

§ 23: L'evento

c

il kerygma pasquali

tivo delle apparizioni pasquali: in lui è avvenuto questo evento escato­ logico con cui s'inaugura un nuovo mondo (cfr. Mt. 1 1 ,5). Non trasferiscono su di lui attese o idee preesistenti; poiché la resur­ rezione di un singolo non è attesa né nell'apocalittica né nell'ebraismo, e meno che mai lo si enuncia come avvenimento accaduto a un uomo stO­ rico 18• I discepoli usano invece un concetto proveniente dalla fede ebraica veterotestamentaria in Dio, per esprimere in parole una espe­ rienza inaudita. Trasferiscono nel concetto in tal modo un contenuto che modifica fondamentalmente le idee ebraiche ad esso collegate. Nel loro ambiente ebraico, la loro enunciazione è estranea e singolare, così come più tardi in quello ellenistico 19• d) Ora il kerygma collega questo evento escatologico con cui ha inizio un mondo nuovo, con una data della storia che continua: egli risuscitò « il terzo giorno» dopo la sua morte. Questa data, la cui ori­ gine non può risalire al kerygma (§ 23,5a), annuncia teologicamente: l'eschaton si fa presente nella storia! Già secondo la tradizione ebraica veterotestamentaria Dio interviene salvando «al terzo giorno» (Os. 6,2). Nel Risorto il volgersi di Dio con benevolenza verso il mondo è definiti­ vamente presente. 17 Da un lato essa aspetta una rianimazione del giusto morto per una vita eterna, nella salvezza, in un mondo nuovo, così nell'Apocalisse di Isaia, Is. 24-27: 26,19: «Di nuo­ vo vivranno i tuoi morti• e 25,8: «Eliminerà la morte per sempre•; 2 Mac. 7,9.14; Ps. Sal. 3,10 ss.; da un altro lato una rianimazione (di tutti ) alla separazione che avverrà al giudizio: Dn. 12,2 s.: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglie­ ranno, gli uni alla vita eterna, gli altri [ . .. ] per l'infamia eterna . . . »; Hen. aet. 22; 51, l s.; 4 Esdra 7 (5), 30-33; Bar. syr. 30.1-5; 50,2-51,3. Al tempo di Gesù questa attesa era divenuta, al di là dei gruppi apocalittici, dottrina vincolante del rabbinismo farisaico. Tuttavia, come mostra la pericope sulle conversazioni di Gesù con i sadducei, da altri veniva rifiutata anche con scherno (Mc. 12,18-27 par.) B ibl . : P. BILLERBECK II, pp. 223-233; III, pp. 827 ss.; IV, pp. 971 ss., 1166-1198; K. SCHUBERT, Die Entwicklung der Auferstehungslehre von der nachexilischen bis zur f ru hrabbinischen Zeit, BZ NF 6, 1%2, pp. 177-214. 18 M t. 27,52 s. esprime per immagini quello che significa la risurrezione di Gesù; Mc. 6,14 intende una reincarnazione. t! corrente solo l'idea che singole persone come Enoch o Elia furono rapite, cioè non morirono. Dopo la distruzione del Tempio, l'opera di Elia rapito come patrono tutelare di Israele nel tempo presente e il suo ritorno nell'escato­ logia (Mal. 3,1.23 s.) sono ampiamente divulgati dai rabbini (P. BILLERBECK, IV, pp. 764 s.). " Il mondo ellenistico conosce come analogie prossime miti che narrano di alcune divinità che muoiono e tornano in vita, per es. Osiride, Attis e Adone; ciò avvenne nella preistoria e viene attualizzato mediante i riti nei misteri (cfr. G. WAGNER, Das religionsge­ schichtliche Problem von Rom. 6,1-11, 1962, pp. 69-269). Ancor più vicina ai racconti pa­ squali è l'apoteosi mediante il rapimento nel mondo degli dèi, che si documenta con apparizioni del rapito; nel mito greco-ellenistico fu narrata innanzi tutto a proposito di eroi quali Ercole ed Esculapio, in seguito anche di figure come Romolo e infine di so­ vrani ellenistici e di imperatori romani, ma anche di «uomini divini» come Apollonio di Tiana: E. RoHDE, Psych e n, 192!'-•, pp. 371-378; J. LEIPOLDT, Zu den Auferstehungs-Geschi­ chten, ThLZ 73, 1948, pp. 737-742; D. RoLOFF, Gottiihnlichkeit, Vergottlichung und ErhO. hung zu seligem Leben. Untersuchungen zur Herkunft der platonischen Angleichung an Gott, 1970. Ampia indagine sulle fonti in J.E. ALsuP, citato altrove, § 23 Bibl., pp. 231-254.

3. Il contenuto della testimonianza pasquale secondo il kerygma

313

e) Questa riflessione aiuta a comprendere che dai primissimi tempi in poi, del Crocifisso si sapeva non solo che fu resuscitato ma allo stesso tempo che fu elevato alla gloria. Questo significano anche le formule cristologiche provenienti dalla prima Chiesa palestinese di Rom. 1 ,3 s. e At. 2,36 e 13,33. Qui l'elevazione alla gloria non è, come nella dottrina protestante antica sugli stati di Gesù, il primo gradino dopo la resurre­ zione, ma per così dire l'altro aspetto di quella. Perciò i testimoni del NT possono dire anche elevazione alla gloria invece di resurrezione . Nell'inno a Cristo di Fil. 2,8 s., alla morte segue l'esaltazione. La lettera agli Ebrei sviluppa la sua cristologia senza menzionare la parola «resur­ rezione»; parla della esaltazione e la presenta nel quadro dell'ascensio­ ne al cielo del Sommo Sacerdote. Similmente procede il Vangelo di Giovanni, quando parafrasa gli annunci della Passione con i concetti c1. doppio significato di «innalzare », «glorificare» e «salire» . Questa osservazione si spiega approfondendo la preistoria del con­ cetto di « innalzare» 20• L'idea di un « innalzamento» o « esaltazione» si trova insieme a quella di una « resurrezione», senza che siano usati que­ sti concetti, in Is. 53, certo il più antico passo dell'AT che parli di una vita dopo la morte 21• Il servo di Dio dopo la morte espiatrice, da mar­ tire, «vivrà a lungo» ( Is. 53,10). E questo allo stesso tempo significherà: egli, il disprezzato, « sarà innalzato» ( Is . 52,13). Qui appare quello che in fondo induceva i testimoni dell'AT a sperare in una vita nell'aldilà. Essi non postulano, come i greci, nell'immortalità il compimento del signi­ ficato dell'esistenza. Raggiungono invece la certezza che l'unione con il loro Dio supera anche la morte. Nel Sal. 73 colui che prega riconosce: «Ma sono con te sempre, tu mi hai preso per la mano destra, mi gui­ derai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria ... Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre>> (Sal. 73,23-26). E ora Gesù stesso aveva già spiegato la sua via con l'aiuto di questa immagine veterotestamentaria di abbassamento e di esaltazione (§ 19,7c). Questi accenni aiutarono i discepoli a comprendere le apparizioni pasquali e a desumere da queste che Dio si era rivelato al Crocifisso e l'aveva portato al suo fine. L'aveva innalzato fino a sé per edificare per mezzo di lui il suo Regno. Qui non è stato arbitrariamente posto a fianco di Dio un qualsiasi uomo trasfi­ gurato ; qui è entrato in comunione con Dio colui che aveva rappresen­ tato in modo unico la volontà salvifica di Dio fra gli uomini, così, che, da allora in poi, l'opera salvifica di Dio avviene per mezzo di lui . .. G. BERTRAM, ThW VIII, pp. 604-6 1 1 . 21 W . ZIMMERLI, Der Mensch und seine Huffnung im AT, 1968.

§ 23: L'evento e il kerygma pasquale

314

f) Se la resurrezione è allo stesso tempo esaltazione, per la struttura delle apparizioni ne consegue che, secondo la tradizione più antica co­ me secondo Paolo, esse sono rivelazioni di colui che fu innalzato da Dio, in termini metaforici proveniente