Teologia del Nuovo Testamento
 8870166341, 9788870166347

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François Vouga

TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO Prefazione di André Gounelle Edizione italiana a cura di AldoComba

Claudiana - Torino www.claudiana.it - e-mail: [email protected]

François Vouga è docente di esegesi del Nuovo Testamento presso la Facoltà di teo­ logia protes tante di Bielefeld (Germania). Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: Dopo la mo rte ... ? I cristian i e l'aldilà (1995, conA. Gou­ nelle) e Il cristianesimo delle o rig ini Scritti protat?onisti - dibattiti (2001), pubblicati da Claudiana. .

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Questo volume è stato pubblicato con il contributo dell'8%o della Chiesa evan­ gelica va/dese (Unione delle chiese valdesi e metodiste) cui va il nostro ringrazia mento.

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Scheda bibliografica CIP Vouga, François

Teologia del Nuovo Testamento

l François Vouga ; traduzione di Aldo

Comba

2007 544 p. ; 24 cm. - (Strumenti)

Torino : Claudiana,

ISBN 978-88-7016-634-7

1. Bibbia. Nuovo Testamento- Teologia

225 (CDD 21.)

ISBN

978 -88-7016-634-7

Titolo originale:

©

l}ne théologie du Nouveau Testament

Editions Labor et Fides, Ginevra, 2001

Per la traduzione italiana: Claudiana srl, 2007 Via San Pio V 15 - 10125 Torino Tel. 011.668.98.04- Fax 011.65.75.42 e- mail: [email protected] sito internet: www.claudiana.it Tutti i diritti riservati - Printed in ltaly

©

Ristampe: 11 10

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l 2 3 4 5 6

Redazione: Sergio Ronchi Copertina: Umberto Stagnare Stampa: Multimedia scarl, Giugliano (Na)

Sommario dell'opera

Premessa

9

Prefazione di ANDRÉ GOUNELLE

13

1.

Introduzione

23

2.

L'evento della Parola. L'evangelo

35

3.

L'emergere del soggetto. L'esistenza cristiana

121

4. Il fondamento cristologico. La proclamazione della risurrezione e della morte di Gesù

231

5.

luo ghi della fedeltà all'evento. La riflessione sulla chiesa

I

6. Il compimento: le cose ultime

329

393

5

Teologia del Nuovo Testamento 7.

La diversità teologica come principio di unità del cristianesimo

443

Appendice l Interpretazioni classiche della teologia del Nuovo Testamento

451

Appendice 2 Dia grammi strutturali e teologici

469

Bibliografia

477

Indice dei nomi

487

Indice dei testi citati

491

6

Premessa

Questo volume è un tentativo di parlare del messaggio essenziale del Nuovo Testamento nella sua diversità, nella sua coerenza e nella sua spe­ cifica pertinenza a una cultura pluralista. L'interpretazione dell'opera e del­ la persona di Gesù di Nazareth che ci viene offerta dagli scritti neotesta­ mentari fa della risurrezione del Signore crocifisso il fondamento e il pun­ to di partenza della scoperta - avvenuta nella civiltà occidentale - della vi­ ta spirituale dell'individuo, riconosciuto come soggettività personale e re­ sponsabile. Tale modo di comprendere la persona umana conduce alla crea­ zione di un nuovo tipo di società, in cui l'universalismo e il pluralismo, an­ ziché trovarsi in reciproca tensione, si rafforzano a vicenda. In questi ultimi decenni la teologia del Nuovo Testamento è diventata una disciplina storica: vi si presenta l'evoluzione del pensiero cristiano nel­ le sue prime e più importanti manifestazioni. La predicazione delle prime comunità, come appare nei vangeli, nell'«evangelo>> dell'apostolo Paolo e successivamente nel cristianesimo giovanneo ne costituiscono in pari tem­ po le colonne e le tappe ineludibili. A tale visione storica ho preferito un or­ dine di presentazione sistematico. Ritengo infatti che il problema a cui oc­ corre dare oggi una risposta sia semplicemente il seguente: quali sono le affermazioni centrali del Nuovo Testamento sulla salvezza (cap. 2), sulla condizione umana (cap. 3), sulla politica (cap. 5), sull'esistenza dopo la mor­ te (cap. 7) e sul loro fondamento nell'evento della risurrezione e della mor9

Teolog ia del Nuovo Testamento te di Gesù di Nazareth (cap. 4). I due paradigmi moderni della teologia del Nuovo Testamento, ossia la filosofia della storia di Ferdinand Christian Baur e l'interpretazione esistenziale di Rudolf Bultmann, non hanno una funzione fondante, ma appartengono piu ttosto alla storia della fedeltà; per­ ciò la loro presentazione si ricollega immediatamente a quella dell'eccle­ siologia (cap. 6). Il presente testo è stato concepito al tempo stesso come un saggio e co­ me un manuale. In quanto saggio pu ò essere letto di seguito, poiché i di­ versi capitoli danno continuità all'argomentazione. Ma il lettore potrà pu­ re utilizzar lo come un manuale, orientandosi sulla base dell'indice dei pas­ si biblici, che riporta l'insieme dei testi che sono oggetto di un'analisi par­ ticolare, oppure in base all'indice dei capitoli. Quest'ultimo è organizzato in modo da permettere a chiunque di trovare senza difficoltà i vari elementi di una presentazione dei pensieri essenziali del Nuovo Testamento: i con­ tributi teologici apportati all'insieme del canone dai quattro vangeli, da Paolo, dalle epistole agli Efesini e agli Ebrei, da quella di Giacomo, dalla prima di Pietro e dall'Apocalisse. I nomi citati qua e là a piè di pagina non hanno la funzione di una bi­ bliografia (per la quale si rimanda a fine volume; N.d.R.), ma rinviano sem­ plicemente a persone o a scritti che mi hanno aiutato a capire il Nuovo Te­ stamento. Molti amici hanno avuto una funzione determinante nella redazione di questo libro. In primo luogo, non l'avrei mai scritto senza l'impulso ri­ cevuto da Pierre-André Stucki, che nelle nostre conversazioni di Neu­ chatel, della Conversion e di Verbier, mi ha dato l'idea ma anche la forza di convinzione necessaria alla realizzazione del progetto. Il posto impor­ tante, e giustificato, che hanno assunto in questo lavoro l'opera di Luca, l'Epistola agli Efesini e le epistole pastorali, si deve in parte alle settima­ ne trascorse presso il mio collega di Louisville, Marty Soards. Qui a Bie­ lefeld ho ricevuto molti incoraggiamenti da Martin Stiewe per l'insieme del lavoro. Yann Redalié, mio collega a Roma, ha seguito fedelmente le varie tappe della sua formazione e ne ha riletto le successive versioni con spirito critico e fraterno. Prima di assumere la sua forma attuale, il contenuto di diversi capitoli è stato oggetto di corsi e di seminari alla Kirchliche Hochschule Bethel (Bie­ lefeld), alla Facoltà valdese di teologia di Roma, alla Facoltà libera di teo­ logia protestante di Montpellier e alla Facoltà di teologia e di scienze reli­ giose dell'Università Lavai (Québec). Il dialogo con gli studenti e con i col­ leghi ha fortemente contribuito all'elaborazione del testo. Vanno qui ricor­ date le amichevoli discussioni con cui}ean Richard, Arme Pasquier, Jacques Racine, André Couture, Anne Fortin, Robert Hurley e Pierre-René Còté, al­ l'Università Lavai, ne hanno seguito gran parte della redazione. Da ag­ giungere, inoltre, due incontri personali: Claude Papin a Nantes mi ha re­ so attento a uno dei Pensieri di Pasca! [Br. 323], il quale, seguendo, a quanlO

Premessa to ritengo, Gesù e la sua interpretazione paolina, fa una distinzione tra la persona e le sue qualità. Il dialogo esistenziale che ho avuto con Alain Ba­ diou durante la sessione interdisciplinare d'inizio anno alla Facoltà libera di Montpellier nell'ottobre 1998 mi ha permesso, al di là di un ampio con­ senso, di affinare la mia presentazione del pensiero paolino. Desidero infine esprimere la mia particolare riconoscenza al mio amico Henri Hofer, di Dole, e a mio padre Paul, che hanno riletto l'intero mano­ scritto. L'insieme delle loro correzioni, delle loro osservazioni critiche e dei loro suggerimenti mi è risultato assai prezioso. F. V.

11

Prefazione

La richiesta rivoltami da François Vouga di redigere la prefazione di que­ sta Teologia del Nuovo Testamento mi ha commosso (sono tanto più sensibile a questo segno di amicizia e di stima essendo consapevole di meritarlo ben poco) e, in un primo tempo, mi ha pure messo in imbarazzo. Infatti, da trent'anni a questa parte il mio insegnamento e la mia ricerca riguardano alcuni specifici settori della teologia moderna e contemporanea (grosso­ modo dal XVI secolo ai giorni nostri). Viceversa, per quanto attiene al Nuo­ vo Testamento, mi sono limitato a tenermi più o meno al corrente delle nuo­ ve pubblicazioni. Non mi sento dunque affatto competente per situare il la­ voro di François Vouga nel campo delle ricerche neotestamentarie, mentre uno specialista sarebbe stato meglio qualificato per mettere in luce la per­ tinenza e l'originalità del suo contributo. Tuttavia, mi sono subito reso con­ to che le mie obiezioni e le mie reticenze erano fuori posto, e che dovevo }asciarle da parte. Infatti, da un lato, in quanto credente e teologo cristia­ no, il Nuovo Testamento ha per me un'importanza centrale anche se non lo studio come specialista; lo medito e ci rifletto sopra continuamente, e non posso pretendere che quanto se ne dice non mi riguardi. D'altro lato, tra coloro che vengono detti talvolta si nota oggi una tendenza contro la quale François Vouga e io stesso abbiamo reagito: quel­ la di frammentare la teologia in settori indipendenti e di suddividerla in discipline e competenze accuratamente delimitate. Ciascuno si dice stori-

13

Teologia del Nuovo Testamento co, dogmatico, specialista di teologia pratica o biblista, e si ritaglia un pro­ prio ambito che protegge dalle incursioni altrui e da cui evita di uscire, at­ teggiamento peraltro perfettamente legittimo sul piano strettamente tmi­ versitario. Ma la teologia, a differenza del sapere scientifico o della scien­ za delle religioni, non si riduce a un insieme di specializzazioni; non si de­ finisce per delimitazioni, bensì per una costante circolazione di pensieri, che viola le frontiere dei diversi territori. Senza dubbio esistono determi­ nati" oggetti" di studio (per esempio, le lettere di Paolo, la storia della Rifor­ ma, la teologia di Rudolf Bultmann o quella di Paul Tillich), ma la voca­ zione autentica della teologia consiste nel collegare tali "oggetti". Implica il dialogo tra coloro che, con funzioni diverse, partecipano a un compito comune, ossia quello di capire la fede cristiana e di renderla intelligibile e intelligente. Spero che questa prefazione, nella sua modestia, contribuisca a quella circolazione. L'ho articolata su tre temi: in primo luogo la teologia, quindi l'essenza della fede, infine l'esegesi.

I Il vocabolo «teologia» non esiste affatto nei libri che compongono il Nuo­ vo Testamento. D'altronde, non vi si trova neppure l'espressione «Nuovo Testamento» per designare quell'insieme di scritti. I testi a cui i cristiani fan­ no riferimento, e che considerano come fonte e norma della loro fede, igno­ rano tanto il concetto di «teologia», quanto quello di «Nuovo Testamento». In queste condizioni può sembrare strano che qualcuno scriva una Teologia del Nuovo Testamento. E quando si assume quel rischio non ci si colloca for­ se fin dall'inizio in una prospettiva esterna ed estranea agli scritti che si vo­ gliono studiare? Non ci si sforza forse di rendere conto del contenuto di ta­ li scritti, imponendo loro un titolo e delle nozioni di altra origine? Una preoccupazione un po' meticolosa e rigida della fedeltà linguistica potreb­ be indurci a squalificare a priori un tale lavoro. In realtà, questa constata­ zione suggerisce piuttosto di precisare che cosa si debba intendere per«Teo­ logia del Nuovo Testamento». Non si tratta della teologia insegnata dal Nuovo Testamento, bensì di leggerlo teologicamente. Nella misura in cui si deve respingere la pretesa di scrivere la teologia del Nuovo Testamento (il quale, infatti, non è affatto un manuale o un trattato di teologia), altret­ tanto va invece riconosciuto come legittimo e necessario il proporre e svi­ luppare una teologia (una lettura teologica) del Nuovo Testamento. Che cosa vuoi dire «lettura teologica»? Paul Tillich all'inizio della sua Teologia sistematica scrive che sono teologiche quelle proposizioni che par­ lano di ciò che ci riguarda in via assoluta. Una lettura teologica non si li­ mita dunque a esaminare gli scritti del Nuovo Testamento da un punto di vista puramente storico (cioè come documenti che illuminano il passato), 14

Prefazione né da un punto di vista unicamente filosofico (come scritti che esprimono una certa concezione di Dio, del mondo e dell'essere umano), bensì li esa­ mina nella misura in cui si riferiscono a ciò che riguarda, tocca e trasforma, in modo decisivo e totale, la mia esistenza. La fede, in quanto rapporto esi­ stenziale con Cristo, determina il carattere teologico di una lettura. In questo senso la teologia si presenta come un'antropologia o, più esat­ tamente, come un trattato della vita cristiana, ovvero dell'esistenza in un rapporto decisivo con Dio. ll primo capitolo dell'Istituzione della religione cristiana di Giovanni Calvino ha come titolo un'affermazione che François Vouga cita più volte, ossia che «conoscendo Dio ciascuno di noi [conosce] anche se stesso» 1 . In realtà, questa affermazione può giustificare due per­ corsi teologici diversi, ma non necessariamente contraddittori o contrap­ posti. Il primo mette l'accento sulla persona umana e conferisce grande im­ portanza al modo in cui l'io si costruisce nell'incontro con il messaggio evangelico. È la linea predominante in questo libro, e può richiamarsi a Martin Lutero e a Seren Kierkegaard (di cui si noteranno le numerose cita­ zioni). Il secondo percorso tende a eclissare la persona umana, conside­ rando che la sua verità si trova fuori di essa, e mette l'accento sull'essere o sull'azione di Dio. Si interessa a ciò che Dio fa, piuttosto che a ciò che il cre­ dente vive. Perciò, specialmente nella tradizione riformata, si manifesta tal­ volta una certa diffidenza verso lo «psicologismo», il «soggettivismo>> o ver­ so il predominio dell'elemento esistenziale che deriva dal primo percorso. Tale diffidenza è comprensibile, ma rischia d'altra parte di condurre a un disastroso oggettivismo che snatura l'evangelo, riducendolo a una dottri­ na. Tralasciando il rischio di deviazioni, diremo che in un caso il discorso si riferisce alla vita del credente, in quanto implica una relazione con Dio; nell'altro caso si riferisce a Dio in quanto determina l'esistenza del creden­ te. Karl Barth, volendo rendere conto in pari tempo della loro affinità e del­ le loro differenze, ha proposto di definire il primo percorso come antropo­ teologia e il secondo come teoantropologia. L'impresa di scrivere una teologia del Nuovo Testamento è dunque ri­ schiosa: naviga tra scogli e pericoli di cui François Vouga è ben consape­ vole. Egli dimostra un coraggio che ammiro, come ammiro la sua scienza e la sua competenza. Correndo quel rischio, che si è sempre tentati di evi­ tare, egli adempie la missione specifica del teologo. Se questi si accontenta di conoscenze storiche e linguistiche, se si limita all'analisi letteraria e filo­ logica dei documenti, ha fatto soltanto una parte del proprio lavoro: deve spingersi oltre e proporre un'interpretazione esistenziale dei testi. Una let­ tura teologica non può ridursi a esporre ciò che il testo dice, ma deve mo­ strare in quale modo quanto viene detto ci interpella esistenzialmente: es­ sa crea il ponte fra il testo e la vita.

1G. CALVJNO,lstituzionedella religionecristiana,2 voll., Torino, Utet, 1971, vol. 1,1,1,1 [N.d.R.).

15

Teolo gia del Nuovo Testamento II

In che cosa consiste esattamente il cristianesimo, e come possiamo de­ finirlo? Nelle sue celebri conferenze pubblicate nel 1900 con il titolo L'es­ senza del cristianesima2, lo storico Adolf von Hamack dà a quella domanda una risposta che a prima vista sembra incontestabile, ma che a un più at­ tento esame si dimostra fragile e discutibile. Semplificando alquanto, si po­ trebbe dire che per Hamack l'insegnamento e la predicazione di Gesù de­ finiscono e costituiscono il cristianesimo: se ne scopre l'essenza appunto identificando e studiando ciò che Gesù ha realmente fatto ed effettivamente detto. Una lettura critica dei testi del Nuovo Testamento permette di risa­ lire, almeno per le cose essenziali anche se mai totalmente, dall eva ngelium de Christo (ossia da ciò che gli evangelisti e gli apostoli dicono di Gesù) al­ l'evangelium Christi (a ciò che Gesù stesso ha detto). Una Teologia del Nuovo Tes tam en to scritta da questo punto di vista, cercherà nei testi le tracce di Ge­ sù e non sarà altro che un'esegesi storico-critica commentata. Sessant'anni dopo, nel1959, il teologo Gerhard Ebeling3 ha suggerito una risposta diversa in un libro sul quale François Vouga e io stesso abbiamo di­ retto insieme un seminario una ventina d'anni fa, alla Facoltà di teologia protestante di Montpellier. Secondo Ebeling (anche in questo caso sempli­ fico) l'essenza del cristianesimo sta nella fede in Cristo, ossia nel rapporto di dipendenza, di accoglienza e di fiducia che si stabilisce tra il credente e Cristo. Hamack si colloca in una prospettiva storica. Servendosi con il mas­ simo rigore dei metodi convalidati, egli cerca di ricostruire i fatti e i detti: cerca l'essenza del cristianesimo nel passato e più esattamente nella sua ori­ gine. Ebeling si colloca in una prospettiva esistenziale; si incentra su ciò che il messaggio evangelico produce nella vita di coloro che lo ricevono e l'ac­ cettano, e situa l'essenza del cristianesimo nel presente vissuto dal creden­ te. Evidentemente, non bisogna cadere nella caricatura esagerando la con­ trapposizione. Hamack non ignora né la fede né la dimensione esistenziale e attuale dell'evangelo; Ebeling tiene in gran conto il passato e i dati storici; tuttavia, le loro accentuazioni presentano delle differenze significative. Non voglio sminuire i meriti della posizione di Hamack, che ritengo no­ tevoli. Come sottolinea egli stesso nel1923 nella sua controversia con Barth, la sua posizione evita che si sostituisca al «Cristo reale» un «Cristo imma­ ginario», che è appunto il pericolo dell'atteggiamento esistenziale, nonché della metafisica dogmatica (per esempio, di quella seguita dai grandi con­ cili)4. Tuttavia, dal punto di vista stesso dello storico, tale posizione è espo­ sta a tre grandi obiezioni. '

2 Cfr. A. VON HARNACK, L'essenza del cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1980. 3 Cfr. G. EBELING, La chiamata all'esistenza nella fede, Torino Gribaudì, 1971 (il titolo origi­ nale rìecheggia quello hamackiano: L'essenza della fede cristiana [N.d.R.]). 4 Il riferimento è alla polemica epistolare fra Maestro e discepolo circa il compito della teologia scientifica: per il primo si tratta di possedere !"'oggetto" attraverso la conoscenza; ,

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Prefazione Bultmann e la sua scuola ne hanno messo in evidenza la prima. Non ab­ biamo nessun modo di risalire con certezza dall'evangelium de Christo all'e­ vangelium Christi. Quand'anche si giunga a qualche probabilità, non si può mai affermare categoricamente che Gesù ha realmente fatto o detto questo o quello. Gli storici, partendo dai documenti a loro disposizione, giungo­ no soltanto a definire in quale modo i primi testimoni e le comunità delle origini ne abbiano percepito e capito gli interventi e le azioni. Mi pare che questa obiezione conservi tutta la sua validità, nonostante la seconda e la terza ricerca del Gesù storico, sviluppatesi dopo la critica bultmanniana. Non si vede mai Gesù in se stesso, ma, secondo l'espressione spesso usata da Tillich, abbiamo una o parecchie immagini che ne sono il riflesso, ma che non possiamo mai paragonare all'originale. François Vouga ne tiene conto molto attentamente e il lettore noterà il modo in cui egli si riferisce, senza possibilità di malintesi, agli evangelisti e agli apostoli, e alla loro com­ prensione di Cristo. Ci troviamo in una situazione simile a quella dei pel­ legrini di Emmaus: quando vedono fisicamente Cristo, non lo riconosco­ no, e quando lo riconoscono, non lo vedono più. Noi lo vediamo e non pos­ siamo descriverlo, ma lo riconosciamo nei racconti, nelle predicazioni, ne­ gli avvenimenti che dicono qualche cosa di lui attraverso ciò che proviamo e viviamo. Una teologia del Nuovo Testamento deve vedersela con > (Mc. 8,33). La differenza tra l'evange­ lo di Dio e gli «altri evangeli>>, che non esistono (Gal. 1,7), non sta in una questione di definizioni, bensì nella sua efficacia di trasformazione e di libera­ zione (Gal. 5,1.12). un sistema

2. 1 . 1 .3

La definizione che l'evangelo paolina dà di se stesso

L'evangelo paolino ha il proprio fondamento nella «Croce>>, ossia nella proclamazione della risurrezione del Crocifisso: Paolo ha «visto>> il Signo­ re (I Cor. 9,1), il Risorto gli «apparve>> (I Cor. 15,8). Dio gli ha rivelato il suo 40

2. L'evento della Parola Figlio (Gal. 1,12.16), la conoscenza di Cristo gli è stata data (Fil. 3,8). L'e­ vento di tale rivelazione, che costituisce in pari tempo la vocazione e l'in­ vio di Paolo come apostolo dei pagani (Gal. 1,13-17), è la scoperta che Dio giustifica mediante la fede e non per mezzo delle opere della legge (Rom 3,21-31; Gal. 2,14b 21). Infatti, Dio si è rivelato all'apostolo come il Dio la cui sa­ pienza e potenza sono follia (I Cor. 1,18 - 3,4) e che ha sempre giustificato, giustifica e giustificherà sempre senza la legge e mediante la fede di o in Gesù Cristo (Rom. 3,21-26). La grande originalità del modo in cui Paolo comprende l'evangelo sta in una distinzione fra due atteggiamenti esistenziali fondamentali, che la perso­ na umana può assumere davanti a Dio, di fronte a se stessa e agli altri. O l'individuo non significa altro che «trovarsi in una relazione adeguata con Dio>> (Ferdinand Christian Baur, 1792-18603). li secondo presupposto di quella distinzione, che spiega perché Paolo proclami la giustizia di Dio (Rom. 1,16-17) e parli di «essere giustificato» al passivo, sta nel fatto che per Paolo, come per il pensiero ebraico in cui è radicata la sua precom­ prensione della realtà, soltanto Dio può stabilire una relazione adeguata tra la sua creatura e se stesso. Quando, nella formula lapidaria di Fil. 3,9, Pao­ lo contrappone la sua propria giustizia a quella che viene da Dio, vuoi di­ re che l'uomo si è messo al posto di Dio. Il problema è dunque il seguente: in quale modo e a quali condizioni la persona si trova in una relazione adeguata con Dio? La risposta paolina de­ scrive due vie, la seconda della quali non lo è affatto. Queste due vie sono designate da locuzioni introdotte dalle preposizioni «fuori di>> e «per» da un lato, e «derivante>> e «mediante>> dall'altro: da una parte «una giustizia derivante dalla legge>>, e dall'altro «quella che si ha mediante la fede in Cri­ sto>>. La prima espressione significa «per mezzo delle opere della legge>>, nel senso di «proveniente dalle opere della legge», «avente la sua origine nelle opere della legge>>; la seconda dice «mediante la fede di>> o «in Gesù Cristo>>, ossia «proveniente dalla fede di>> o «in Gesù Cristo>>, «avente la sua origine nella fede di>> o «in Gesù Cristo». Tale contrapposizione ci rinvia a -

due origini possibili, attraverso le quali l'individuo definisce la sua identità. È importante osservare che Paolo non scrive: «Nessuno sarà giustifica­ to mediante le opere della legge, ma per la fede di o in Gesù Cristo», ma scrive: (Gal. 2,16). La differenza è notevole. La prima formulazione, che trasforma dei termini opposti in proposizioni contrad-

3 Cfr. F.C. BAUR, Vorlesungen iiber Neutestamentliche Theologie, Upsia, 1864.

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Teologia del Nuovo Testamento dittorie, permetterebbe di pensare che si contrappongono due vie dello stes­ so valore. La seconda formulazione, che pone in antitesi due contrari, met­ te in luce la loro asimmetria. Come l'evangelo va distinto dagli altri evan­ geli che non esistono (Gal. 1,6-7), così i due atteggiamenti esistenziali nei quali il soggetto umano aspetta da Dio la propria giustificazione non han­ no affatto un uguale valore. L'espressione «mediante le opere della legge» si richiama alla tradizione se­ condo cui Dio si è rivelato mediante il dono della legge, secondo cui è pre­ sente nel Patto con il suo popolo come elargitore della legge, e secondo cui l'esistenza umana trova la sua identità e la sua dignità nel privilegio, nel­ l'adempimento dei doveri e nel servizio della legge. Dio è il Dio presente come l'Altro nel volto dell'Altro, che in esso mi interpella e suscita la mia responsabilità (Emmanuel Lévinas). Il presupposto di tale definizione identitaria è di considerare l'essere umano a partire dalle sue qualità e dalle sue opere: da un lato fa parte, o no, del popolo dell'elezione a cui è stato conferito il privilegio della legge, e dall'altro adempie o meno il suo dovere e la sua responsabilità di osservare la legge (cfr. Rom. 1,32 - 3,8). Questi due criteri stabiliscono un ideale di per­ fezione, che trova espressione nell'appello programmatico del Levitico alla santità: . L'istituzione del perdono costrui­ sce il ponte necessario tra il dovere («siate santi>>) e l'essere («come io sono santo>>), e ricolloca l'individuo davanti alla sua responsabilità di fronte a Dio e al prossimo. Ma Dio - rivelando suo Figlio nella persona del suo Figlio crocifisso (Gal. 1,12.26) e maledetto dalla legge (Gal. 3,13, cfr. Rom. 8,3) - ha mo­ strato che non stava dalla parte della legge, ma piuttosto da quella del trasgressore. L'espressione o «in Cristo>> è una formulazione po­ sitiva del contenuto dell'evangelo nella misura in cui rende conto della rivelazione divina di cui l'apostolo è stato il destinatario: la giusta rela­ zione dell'uomo con Dio, con se stesso e con il prossimo è conferita alla fede in e di Gesù Cristo, ossia a chi pone la sua fiducia nella fiducia che Ge­ sù Cristo ha posto nel Padre suo (Gal. 2,16). '

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2. L'evento della Parola Il significato dell'evangelo della giustificazione gratuita tramite la so­ la fiducia nella fiducia di Gesù Cristo costituisce l'apparizione di una nuo­ va creatura (Gal. 6, 15) e la nascita di una nuova identità: l' giustifi­ cato è morto alla legge al fine di vivere per Dio, perciò non è più egli a vi­ vere ma è Cristo, il nuovo uomo della fiducia, che vive in lui (Gal. 2,1920). In che cosa consiste quella novità? Facendo apparire come suo Figlio il trasgressore crocifisso e maledetto; ossia, secondo i due criteri della leg­ ge, l'uomo per eccellenza privo di qualità, Dio si rivela come colui che giustifica, che qualifica e costituisce l'individuo come persona indipendente­

mente dalle sue qualità. Che cosa è l'io?

Se

un

uomo si mette alla finestra per vedere chi passa, e io passo di là, pos­

so dire che si è messo là per vedere me? No, poiché non pensa a me in par­ ticolare; e chi ama una persona per la sua bellezza, l'ama forse? No, poiché

il vaiolo, che distruggerà la bellezza senza toglier via la persona, farà sì che quegli non l'ami più.

Se mi ama per il mio ingegno, per la mia memoria, si ama forse me? No, per­ ché posso perdere quelle qualità, senza perdenni io. Dove è dunque que­ st'io, se non è né nel corpo, né nell'anima?

E come si ama il corpo o l'anima,

se non per le qualità che non costituiscono affatto l'io, poiché sono transito­

rie? Si può amare forse la sostanza dell'anima di una persona, in astratto, prescindendo dalle sue qualità? Non si può, né sarebbe giusto. Non si ama dunque mai nessuno, ma solo delle qualità. 4 Non burliamoci dunque più di coloro, che per qualità prese a prestito .

Potremo dunque dire che l'evangelo paolino è la potenza creatrice di Dio che trasforma l'individuo in un nuovo essere; riconoscendolo incon­ dizionatamente quale persona, ossia un «tu>>, lo costituisce come soggetto in prima persona e, distinguendo la persona dalle sue qualità, la ri-crea co­ me un io autoriflessivos .

4 B. PASCAL, Pensées, Br323=MLS688 (trad. it. Pensieri. Scritti scientifici e politici, Padova, Liviana Editrice, 1990, pp. 153-154). 5 Jean-Pierre VERNANT, L'individu, la mort, /'amour. Soi-meme et /'autre en Grèce ancienne, Parigi, Gallimard, 1989, pp. 211-232, si appoggia su Michel Foucault e propone una distin­ zione operativa fra tre termini: quello di individuo, che corrisponde alla valorizzazione di fi­ gure singolari nel loro contesto sociale; quello di soggetto, che caratterizza l'individuo che si esprime in prima persona e parla in nome proprio; e quello di io, che designa la persona co­ sciente della propria interiorità e della propria unicità. A ciascuna delle diverse tappe che conducono alla presa di coscienza dell'individuo in quanto tale corrisponde la comparsa di un nuovo genere letterario: alla scoperta dell'individuo il genere della biografia; a quella del soggetto l'autobiografia, e a quella dell'io le confessioni e i diari intimi. Classicamente, si ricol­ lega la scoperta dell'individuo all'epopea omerica, quella del soggetto alla lirica greca e quel­ la dell'io alle Confessioni di Agostino. Quest'ultima, secondo me, è opera di Paolo in quanto interprete della vita e della morte di Gesù.

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Teologia del Nuovo Testamento

2 . 1 . 1 .4 La definizione che il Vangelo di Marco dà dell'evangelo Parallelamente al suo uso tecnico paolina, che designa e qualifica la pre­ dicazione dell'apostolo come comunicazione della potenza liberatrice e creatrice di Dio, il concetto di evangelo è usato in modo programmatico dal Vangelo di Marco per presentare la sua narrazione come trasmissione del­ la Buona Notizia di Dio proclamata da Gesù Cristo (Mc. 1,1; cfr. 14,9). L'«evangelo» indica il libro o il suo contenuto? L'espressione «inizio del­ l'evangelo di Gesù Cristo>> è ambigua sotto molti punti di vista. Che cos'è che è l'inizio di che cosa? La citazione di Isaia (Mc. 1,2-3) è l'inizio del li­ bro, oppure la comparsa di Giovanni (Mc. 1,2-11) è l'inizio della storia di Gesù; o ancora, la predicazione di Gesù Cristo è essa stessa l'inizio della proclamazione e della diffusione universale dell'evangelo di Dio (Mc. 13,913)? Quanto all'«evangelo di Gesù Cristo>>, trattasi dell'annuncio di Gesù come del Signore di cui Giovanni Battista prepara la via («di Gesù Cristo» in questo caso è un genitivo oggettivo), oppure della buona notizia porta­ ta da Gesù inviato a preparare le vie della presenza di Dio nel mondo de­ gli umani («di Gesù Cristo» è allora un genitivo soggettivo)? Il Vangelo di Marco non sembra preoccuparsi di tali distinzioni: da un lato, il libro è l'e­ vangelo stesso, nella misura in cui l'evento del leggerlo può diventare l'oc­ casione per incontrare la presenza del regno, di modo che il libro e il suo contenuto non hanno nessuna ragione di essere dissociati l'uno dall'altro, più di quanto non ne abbiano l'evento e l'oggetto della predicazione pao­ lina. D'altra parte, il Gesù Cristo Figlio di Dio che ci viene presentato dal­ la narrazione di Marco non ha altra funzione se non quella di proclamare la > (la usa 5 volte, oltre al­ l'espressione «il regno del Padre mio>> [Mt. 6,10; 13,43; 25,34; 26,29 ] ) , ma spesso la corregge a favore del sembra designare tanto la misteriosa vicinanza, quan­ to la futura venuta del regno del Signore come promessa (Mt. 5,3.10.19.20; 7,21; 8,11; 11,11.12; 13,11; 16,19; 18,1 .3.4.; 19,14.23; 23,13), come ricom­ pensa per coloro che avranno compiuto la volontà di Dio e praticato la giustizia (Mt. 3,2; 5,3.10; 4,1 7; 10,7; e, nel contesto delle parabole, Mt. 13,24.31 .33.44.47; 18,23; 20,1; 22,2; 25,1) e come luogo cui appartengono i giusti (Mt. 13,52; 19,12). A differenza del Vangelo di Matteo, quello di Luca ha conservato il con­ cetto di «regno di Dio>> già impiegato dal Vangelo di Marco (Le. 4,43; 6,20; 7,28; 8,1 .10; 9,2.11.27.60.62; 10,9.11; 11,20; 13,18.28.29.30; 14,15; 16,16; 17,20.21; 18,16.1 7.24.25.29; 19,11; 21,31; 22,16.18; 23,51; e implicitamente Le. 11,2 e 12,31 .32; mentre Le . 1,33 riprende l'espressione «regno di Davide», già pre­ sente in Mc. 11,12). L'idea di regno ha perso tuttavia il suo significato prin­ cipale. Luca ricorda senza dubbio che il «regno di Dio>>, la missione di «por­ tare la buona notizia del regno di DiO>> nelle sinagoghe della Giudea (Le. 4,43), le parabole del regno (Le. 8,1 .10; 13,18.20) e l'affermazione secondo cui «il regno si è avvicinato>> (Le. 10,9.11), erano tutti dei temi caratteristici di Gesù e dei suoi discepoli. Dalle tradizioni di cui dispone, Luca conser­ va pure l'idea del regno come di una realtà contemporanea e misteriosa che fa la sua strada all'interno e in mezzo agli uomini (Le. 11,20; 17,20.21), co­ me pure di una realtà che determina il presente con l'imminenza della sua venuta, attesa e desiderata (Le . 6,2; 11,2), nonché quella delle condizioni ra­ dicali che permettono di entrarvi (Le. 9,27.60.62; 18,16.1 7.24.25.29). Presen­ ta pure l'annuncio del «regno di Dio>> come un elemento di continuità tra il passato storico dell'insegnamento del Salvatore e la missione apostolica destinata ad andare fino alle estremità della terra (Le. 9,2; 10,9.11; At. 8,12; 14,22; 19,8; 20,25; 28,23.31). Per Luca, il «regno>> caratterizza storicamente la nuova èra, come pure l'appartenenza alla via inaugurata da Gesù (Le. 7,28; 16,16). Tuttavia, omette di parlarne nel racconto della prima predica­ zione, quella programmatica, di Gesù a Nazareth (Le. 4,1 6-20). Evidente­ mente, ci sono altre categorie di pensiero che gli sembrano più concrete, più attuali o più eloquenti: l'affermazione dell'adempimento delle profe­ zie, la venuta della salvezza e la triade tipicamente lucana della promessa della risurrezione, dell'appello alla conversione e al pentimento (At. 4,2; 17,32; 24,21; 26,23). Ciò nonostante, nella narrazione di Luca compaiono due idee nuove. La prima riguarda la promessa di una convivialità degli ultimi tempi simboleggiata dall'idea di mangiare il pane nel regno di Dio (Le. 14, 15) e annunciata fin d'o­ ra dallo spezzare il pane e dalla benedizione della coppa (Le. 22,16.18). L'al­ tra, che Luca commenta nella parabola delle mine (Le 19,11-27), concerne la consegna fu tura del regno al Figlio da parte del Padre, poi ai discepoli da parte del Figlio (Le. 22,29). Il «regno di Dio>> diventa il «mio regno>> (Le. 22,30) e, in boc­ ca al compagno di crocifissione, il «tuo regno>> (Le. 23,42). .

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Teologia del Nuovo Testamento

2.1 .2.3 La buona notizia del regno dei cieli in Matteo L'annuncio della vicinanza del regno dei cieli, su cui si basa l'appello iniziale alla conversione, costituisce il contenuto programmatico della pre­ dicazione di Giovanni Battista, come pure di quella del Gesù di Matteo: «ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino>> (Mt. 3,2 4,17b); e questa promessa del regno diventa il tema di ciò che, a partire da Agostino6, si suo­ le chiamare il Sermone sul mon te (Mt. 5,3.10.19.20; 7,21). La promessa del regno dei cieli inquadra in primo luogo il discorso inau­ gurale delle beatitudini (Mt. 5,3-12): l'appello alla conversione, richiesto dalla prossimità del regno, viene ripreso e commentato nella forma di una duplice proclamazione, secondo la quale il regno dei cieli appartiene a co­ loro che sono puri di cuore (Mt. 5,3) e a coloro che sono perseguitati per la giustizia (Mt. 5,10). =

- La prima affermazione, il cui compimento è annunciato in Mt. 11,5, è la proclamazione di un motivo di speranza per coloro che per vivere han­ no soltanto la mano di Dio. L'aggiunta, operata da Matteo, delle due pa ­ role «in spirito>> (cfr. la versione di Le. 6,20, molto probabilmente origi­ naria) mostra tuttavia che il primo vangelo non pensa a un'appartenenza sociale o economica, ossia a una determinata qualità, bensì all'adozio­ ne di un atteggiamento esistenziale: il regno di Dio appartiene a coloro che odono la proclamazione dei nuovi tempi e decidono di affida rsi alla provviden­ za di

Dio.

- La seconda affermazione ricollega la promessa del regno all'esigenza del­ la giustizia: il regno appartiene a quelli che, tra i discepoli e gli uditori del Gesù di Matteo (Mt. 5,1), praticano la giustizia. Matteo 5,6 parla di coloro che hann o fame e sete di giustizia. Matteo 5,1 O ricorda quanti so­ no perseguitati perché partecipano alla pratica della giustizia. Un paragone tra le due versioni delle beatitudini, trasmesse rispettiva­ mente da Matteo (M t. 5,1-12) e da Luca (Le. 6,20-26), mostra che quella du­ plice proclamazione della promessa e dell'esigenza della giustizia costi­ tuisce il centro del programma evangelico di Matteo.

6

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ACOSTINO, De sermone Domini in monte.

2. L'evento della Parola Matteo 5,1 - 1 2

Luca 6,20-23

Luca 6,24-26

(I) Beati i poveri in spirito, perché di loro è il regno dei cieli (II) Beati quelli che sono afflitti, perché saranno conso lati.

(I) Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è

(l) Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazion e . (III) Guai a voi che ora ride-

(III) Beati i mansueti, perché erediteranno la terra. (IV) Beati quelli che sono affama ti e assetati di giustizia, perché saranno saziati (V) Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia

vostro. (III) Beati voi che ora piangete, perché riderete.

te,perchésareteaffli tti e pian-

gerete. (II) Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati.

(Il) Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.

(IV) Beati voi, quando gli uomini vi odieranno, e quando vi scacceranno da loro, e vi insulteranno e metteranno al bando il vostro nome come malvagio, a motivo del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno e saltate di gioia, perché, ecco, il vostro premio è grande nei cieli.

(IV) Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene

sarà fatta. (VI) Beati i puri di cuore, per-

ché vedranno Dio. (VII) Bea ti quelli che si adoperano per la pace, perché sarannochiamati figli di Dio (VIII) Beati i perseguitati per motivo di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. (IX) Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male per causa mia.

Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli.

Poiché così hanno perseguitato i profeti che sono stati prima di voi.

Perché i padri loro facevano lo stesso ai profeti.

di voi.

Perché i loro padri facevano lo stesso con i falsi profeti.

Da un punto di vista formale, constatiamo che la struttura di base di ognuna delle beatitudini è costituita da tre elementi: l. Una dichiarazione di felicità: «beati». 2. Una descrizione dei destinatari di tale dichiarazione per mezzo di un sostantivo, di una proposizione principale o relativa che defini­ sce la qualità o la condizione presupposta dalla dichiarazione di beatitudine.

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Teologia del Nuovo Testamento 3. Un'indicazione del motivo concreto e oggettivo che giustifica la di­ chiarazione iniziale. Quattro beatitudini sono comuni ai due vangeli. Le prime tre riguarda­ no i poveri, gli affamati e gli afflitti. Le completa una quarta che si rivolge ai discepoli perseguitati. È evidente che il Vangelo di Luca ha costruito una serie di quattro maledizioni che rispecchiano le quattro beatitudini origi­ narie e ha formulato il tutto alla seconda persona plurale: «Beati voi ... ». Il suo tema è la salvezza portata da Gesù: questi è venuto per chiamare i pec­ catori al pentimento e alla conversione. Matteo, da parte sua, ha modifica­ to profondamente il significato delle beatitudini esistenti, non soltanto so­ stituendo il tema economico dei poveri con quello esistenziale dei poveri in spirito, ma anche quello fisico della fame con quello religioso ed etico della fame e sete di giustizia. Ha inoltre aggiunto cinque nuove beatitudi­ ni. Il messaggio essenziale di queste ultime è duplice: - Da una parte, per via del loro linguaggio, si collocano su una linea di continuità con le promesse dell'Antico Testamento: una buona notizia è annunciata agli afflitti (Es. 61,2) che riceveranno la loro consolazione (Is. 40 55; 66,13), quelli che hanno compassione saranno oggetto di mise­ ricordia (Prov. 17,5 [LXX]; Sir. 28,1-7), e la purezza del cuore è la condi­ zione richiesta a coloro che compaiono davanti a Dio nel suo santuario (Sal. 24,2-4). Il discorso inaugurale di Gesù si presenta dunque come la realizzazione delle attese della Scrittura e delle profezie di cui costitui­ sce l'adempimento. - D'altra parte, i temi delle nuove beatitudini sono tutti collegati, nel Vangelo di Matteo, alla promessa e all'adempimento della giustizia. La misericordia è promessa a coloro che vivranno nello spirito del do­ no ed eserciteranno la misericordia («misericordia»: M t. 9,13; 12,7; 23,23; «avere o esercitare la misericordia» 7: Mt. 5,7; 9,27; 15,22; 17,15; 18,33; 20,30.31), l'accesso al Padre celeste è annunciato ai cuori puri che vi­ vono della bontà della sua provvidenza e che, a differenza degli ipo­ criti, non praticano l'elemosina e il digiuno calcolando la ricompensa che ne ricaveranno; infine, la terra appartiene ai mansueti («mansue­ ti»: Mt. 5,5; 11,29; 21,5). -

Possiamo dire pertanto che l'insegnamento del Gesù di Matteo comin­ cia promettendo il regno dei cieli a tutti coloro che si convertiranno, ossia a chi si lascerà trasformare dall'appello a mettere la propria fiducia in Dio, e da quello a mettersi al servizio della giustizia e della sua misericordia provvi­ denziale. Per questo motivo i discepoli che seguono Gesù e le folle che lo ascoltano sono il sale della terra e la luce del mondo.

7 In italiano spesso tradotto con «avere pietà>> [N.d.T.].

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2. L'evento della Parola Matteo 5,1 7-20 porta avanti e combina le due dichiarazioni. - La prima, negativa, sostiene che Gesù non è venuto per abolire la legge (Mt. 5,5.17a). Questa prima asserzione si fonda sulla solenne dichiara­ zione («in verità, in verità, io vi dico>>) che la legge, se anche non è eter­ na, rimarrà tuttavia in vigore finché sussisteranno il cielo e la terra (Mt. 5,18). La logica conseguenza di tale convinzione è un avvertimento se­ condo cui l'osservanza dell'insieme dei comandamenti determinerà il posto di ciascuno nel regno dei cieli (Mt. 5,19). - La seconda affermazione, costruita formalmente come antitesi alla pri­ ma, asserisce che Gesù è venuto per portare a compimento la legge. ll sen­ so di questa dichiarazione sull'intento dell'insegnamento del Gesù di Matteo, e sulla sua venuta, si chiarisce a partire da una seconda frase so­ lenne («in verità, io vi dico. .. » ) che la commenta: se la giustizia dei di­ scepoli e delle folle degli ascoltatori di Gesù (cfr. Mt. 5,1) non supera quella degli scribi e dei farisei, essi non entreranno nel regno dei cieli (Mt. 5,20). L'apparente tensione tra i due avvertimenti che si susseguono (essere chiamato il più piccolo nel regno è una cosa diversa dal non entrarvi; Mt. 5,19 e 20) appare chiara quando si considera che il Gesù di Matteo collega due problematiche distinte e complementari. La prima dichiarazione del Gesù di Matteo mette in guardia contro la trasgressione di uno dei minimi comandamenti, perché è un modo per sottrarsi alla volontà di Dio e, in pa­ ri tempo, alla promessa di rinnovamento che contiene. La seconda indica con esattezza il senso della volontà di Dio: a differenza dell'ermeneutica farisea che definisce la giustizia a partire dall'osservanza della legge, il Ge­ sù di Matteo subordina l'obbedienza alla legge al criterio della giustizia. In tal modo rovescia il punto di vista secondo cui colui che osserva la legge pra­ tica la giustizia, per affermare invece che chi pratica la giustizia ha perciò stesso adempiuto la legge. Ma che cos'è la giustizia? Le antitesi di Mt. 5,21-48, la triplice messa in guardia contro l' «ipocrisia>> (Mt. 6,1-18), i tre aforismi sul sistema di riferi­ mento che l'esistenza sceglie per costituire la propria identità (Mt. 6,19-24) e l'insegnamento sulla provvidenza di Dio (Mt. 6,25-34) permettono di de­ finire il senso che le attribuisce il Gesù di Matteo. - Nelle prime tre antitesi (M t. 5,21-32), la parola di Gesù invita gli ascol­ tatori a rinunciare a una logica che considera gli altri come oggetto della propria ira, della propria cupidigia e della legge, per riconoscerli invece come , ossia come dei soggetti in prima persona. Nel­ la quarta antitesi (Mt. 5,33-37), quella parola opera lo stesso rovescia­ mento per quanto riguarda il rapporto con Dio. Nelle due ultime (Mt. 5,38-48), ridefinisce l'ideale di perfezione implicito nell'imperativo dell'osservanza della legge. Tale ridefinizione della perfezione è di una radicalità che non va sottovalutata: il carattere proprio del concetto

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Teologia del Nuovo Testamento stesso di perfezione sta nel definire ogni essere in base alle sue qua­ lità e ai suoi atti, secondo i criteri di una scala discriminatoria. Ma la peculiari tà della perfezione del Padre celeste consiste, secondo il Ge­ sù di Matteo, nel mettere fine a qualsiasi ideale di perfezione: Dio è perfetto in quanto fa levare il suo sole e cadere la pioggia sui gi usti e sugli ingi usti, di modo che la perfezione sta nella p rovvid enza mise­ ricordiosa che fa vivere ogni persona ind i pendentemente dalle sue qualità e dalle sue opere. - Il triplice insegnamento sull'elemosina sulla preghiera e sul diginno (M t. 6, 1 18 ) continua sulla stessa linea: !'«ipocrisia» consiste in una stru­ mentalizzazione di Dio, di se stesso o degli > (Mt. 6,1 .5.16) nel riconoscimento, da parte degli «uomini>>, delle sue qua­ lità (Biaise Pascal). La «migliore giustizia>> vive della mano di Dio e nella riconoscenza mi­

sericordiosa e gratuita di se stessi e degli altri. L'idea della ricompensa escatologica promessa alla giustizia («Dio [ . . ] te ne darà la ricompen­ sa>>: Mt. 6,4.6.18) è l'equivalente di quella dell'entrata nel regno dei cie­ li, che viene resa possibile (Mt. 5,20) .

.

Matteo 6,25-34 mette in guardia contro un orientamento poco felice del­ l'esistenza, e definisce la ricerca del regno e della giustizia come il solo og­ getto degno una preoccupazione ragionevole e raccomandabile. - Il Gesù di Matteo non mette in guardia contro le preoccupazioni, ma contro quelle dei pagani. Queste sono superflue, perché attraverso di es­ se 1'esistenza mira ad assicurare il proprio avvenire e la propria sussi­ stenza. - I discepoli e le folle che ascoltano Gesù ricevono dunque vocazione a rio­ rientare le loro preoccupazione fuori da se stessi, verso la promessa del regno e verso la responsabilità che essa conferisce loro di adempiere la giustizia. Sanno infatti che né il loro presente né il loro avvenire appar­ tengono loro, ma che la loro vita è in mano alla provvidenza di Dio ijean­ Claude Courvoisier) che rivela la sua bontà nel nutrire gli uccelli del cie-

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Teologia del Nuovo Testamento lo e che manifesta la gratuità e l'abbondanza della sua opera nel vestito lussureggiante dei gigli del campo e nella bellezza del creato. Matteo 7,1-12 riassume le due tesi direttive del Sermone del Gesù di Mat­ teo e della promessa. - I discepoli di Gesù e la folla dei suoi ascoltatori sono chiamati a vivere di ciò che il Padre celeste dà loro generosamente e quindi a domandar­ gli con fiducia ciò di cui avranno bisogno (Mt. 7,7-11 ). - La loro «migliore giustizia>>, in cui trovano adempimento la legge e i pro­ feti, consisterà nel fare agli «uomini» ciò che desiderano che quelli fac­ ciano per loro (Mt. 7,12). Il senso che viene dato qui alla regola d'oro è determinato, da un lato, dalla sua formulazione positiva e, dall'altro, dal suo contesto. La volontà di Dio, come viene interpretata dal Gesù di Mat­ teo, non si realizza in una posizione di ripiegamento su se stessi («non fate agli uomini ciò che non volete che facciano a voi»), bensì in un at­ teggiamento offensivo di non-giudizio, di gratuità e di generosità (Mt. 7,1-6). La messa in guardia di Mt. 7,13-27 conclude il discorso riprendendo l'av­ vertimento della dichiarazione iniziale di Mt. 5,1 7-20: la «migl iore giusti­ zia» insegnata dal Gesù di Matteo si distingue dalla falsa profezia per via dei suoi frutti (Mt. 7,15-23). È la via stretta della promessa che conduce al­ l'adempimento della volontà di Dio, alla vita e all'entrata nel regno (Mt. 7,13-14.24-27). Potremo dunque dire che, secondo il Vangelo di Matteo, la «giustizia» consiste in un atteggiamento esistenziale che riceve un significato e un auvenire come un dono della bontà prouvidenziale di Dio. Trasformata in soggettività indi­ viduale e responsabile dall'evento dell'incontro con la vicinanza del regno, ricono­ sce incondizionatamente nell'altro una soggettività individuale e responsabile, in una logica di gratuità e di dono9, il cui esempio è dato dalla paradossale perfezio­ ne di Dio che nutre gli uccelli del cielo, che veste i gigli del campo, che fa levare il suo sole sui buoni e sui cattivi e piovere sui giusti e sugli ingiusti. Le conseguenze di questa interpretazione della giustizia si trovano su una linea di continuità con il dibattito con «gli scribi e i farisei» che appa­ rirà nel seguito del vangelo. La subordinazione dell'adempimento della legge e dei suoi comanda­ menti al principio della giustizia in quanto relazione interpersonale di sog­ gettività individuali con Dio, con se stessi e con gli altri, si esprime nel pro­ porre il doppio comandamento dell'amore (Mt. 5,43; 19,19; 22,34-40) o del­ la regola d'oro (Mt. 7,12), della misericordia (Mt. 9,13; 12,7; 23,23), della fi­ ducia e della giustizia (Mt. 23,23) come chiave ermeneutica che pcrmt'ttc di capire la volontà di Dio attraverso la lettura della legge e dei profeti. 9 Cfr. J.T. GooBOtrr (in collaborazione con Alain CAILLÉ}, L'Esprit du don. Essai, Montréal, Boréal, 1995 (trad. it. Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri, 2002).

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2. L'evento della Parola Ne deriva, come altra conseguenza necessaria, una de-nazionalizzazione e una universalizzazione antropologica della promessa. Come in Paolo, anche qui il riconoscimento della persona in quanto soggettività individuale indipen­ dentemente dalle sue qualità fonda un universalismo pluralista. La vicinanza del regno è separata dall'elezione di Israele, e i discepoli, incaricati inizial­ mente di preparare al giudizio finale le pecore perdute del popolo eletto (Mt. 10,5-7), vengono successivamente inviati a tutte le nazioni per battezzarle nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, e per istruirle a osserva­ re tutto ciò che il Gesù di Matteo ha loro insegnato (Mt. 28,18-20). Questo wùversalismo pluralista, secondo cui ciascuno è chiamato e riconosciuto come persona, indipendentemente dalle sue qualità, e secondo cui ognuno è riconosciuto con le sue qualità e particolarità proprie, trae con sé una duplice conseguenza. - Il dono e la pratica della legge, nel senso di adempiere la volontà di Dio, non presuppongono più delle qualifiche previe. Non sono più il privi­ legio di un popolo eletto, in senso proprio o in senso figurato, e si tro­ vano dei giusti, dei profeti e dei martiri tanto nella storia veterotesta­ mentaria quanto nella «chiesa>> (Mt. 16,17) che vive tra i pagani (Mt. 25,31-46). Ciò che risulta decisivo non è né l'invocazione del Signore (M t. 17,15-23), né l'appartenenza al giudaismo o al corpus mixtum della co­ mwùtà cristiana (Mt. 13,24-30.36-43; 22,11-14), ma l'obbedienza alla vo­ lontà di Dio (Mt. 7,15-23). Di conseguenza, tutti sono qualificatiper adem­ piere la volontà di Dio. - Così, la realizzazione della «migliore giustizia>> dipende dalla decisio­ ne individuale di ciascuno. 2.1 .3.4 La giustizia secondo

le lettere di Paolo

La «giustizia>> costituisce il tema centrale dell'Epistola ai Romani (Rom. 1,17; 3,5; 4 volte in 3,22-26; 6 volte in 4,1-12; 4,13.22; 5,17.21; 6,13; 4 volte in 6,15-23; 8,10; 2 volte in 9,30-31; 7 volte in 10,1-13; 14,1 7) e un tema secon­ dario in quella ai Galati (Gal. 2,21; 3,6.21; 5,5), che usa piuttosto il verbo ••giustificare » (3 volte in Gal. 2,16; 2,17; 3,8.11 .24; 5,4), e lo stesso concetto si incontra occasionalmente nella Prima epistola ai Corinzi {l Cor. 1,30), nel­ la Seconda epistola ai Corinzi (Il Cor, 3,9; 5,21; 6,7.14; 2 volte in 9,9.10; 11,15 e nell'Epistola ai Filippesi (Fil. 1,1; 3,6 e 2 volte in 3,9). I.: Epistola ai Romani fornisce una serie di definizioni della giustizia. In Rom. 1,16-1 7, Paolo proclama che l'evangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, indipendentemente dalle sua qualità di ebreo o di greco, perché rivela la giustizia di Dio mediante la fede e per la fede. Questo programma di predicazione dell'apostolo significa: - che la giustizia di Dio non è descritta come una qualifica di Dio, ma co­ me un dono che egli trasmette, e quindi come una potenza di trasfor­ mazione (Agostino, Martin Lutero);

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Teologia del Nuovo Testamento - che questo dono è il dono della salvezza; - che la buona notizia di quel dono è stata senza dubbio annunciata in primo luogo all'ebreo, poi al greco, ma che si tratta di un dono offerto in­ condizionatamente a ogni persona, indipendentemente dalle sue qua­ lità e dalle sue appartenenze; - che lo si riceve con un atteggiamento esistenziale di fiducia; - che crea la fiducia.

In Rom. 3,2 1 -26, Paolo riprende la tesi che aveva avanzato programma­ ticamente in Rom. 1,16-17, e interpreta la morte di Gesù come evento di li­ berazione (Rom. 3,24) in quanto evento di rivelazione della giustizia di Dio. - Il fatto della morte di Gesù, reso presente nell'evento della predicazione apostolica («ora però»), è l'inizio di un'epoca nuova, non perché si sa­ rebbe prodotto un cambiamento in Dio, ma perché si tratta di una rive­ lazione che (Rom. 3,21a) elimina il malinteso di una falsa conoscenza e di una falsa comprensione di Dio: gli uomini hanno conosciuto Dio, ma non lo hanno riconosciuto in quanto Dio, di modo che sono stati preda della follia e hanno confuso il Creatore con la creatura (Rom. 1,18 - 3,20). - La morte di Gesù rivela che il giusto rapporto da Dio stabilito con le sue creature è sempre stato e sempre sarà un rapporto «senza la legge» (Rom. 3,21a), «gratuitamente>> (Rom. 3,24) e >. La giustizia in tal caso viene intesa come la potenza giustifi­ catrice di Dio che si comunica all'esistenza e la giustifica, di modo che la giustizia di Dio non è altro che l'evento della giustificazione10. Nel secon­ do caso si insiste sulla dimensione apocalittica dell'interpretazione paoli­ na dell'evento della Croce, ossia della proclamazione della rivelazione del­ la risurrezione del Crocifisso che «spezza in due» (Alain Badiou) la storia dell'umanità. In tal caso, la giustizia di Dio va compresa tanto come fedeltà di Dio verso la sua creazione, quanto come la rivendicazione, contro le po­ tenze del peccato e della morte, del suo diritto sulla creatura (Emst Kase­ mann, J. Christiaan Beker, J. Louis Martyn11 ). A ogni modo è importante sottolineare che la giustificazione e la tra­ sformazione effettuate dalla giustizia di Dio non sono affatto equivalenti all'immagine del perdono, come la si trova nell'Antico Testamento, nel giu­ daismo e in altre teologie neotestamentarie (particolarmente in Luca).

- Per Paolo l'esistenza umana non è mai autonoma: è sempre gestita da potenze che la dominano e ne determinano tanto la comprensione che 1° Cfr. R. 8ULlMANN, Theologie des Neuen Testaments, Tubinga, Mohr, 1948-1953, 19949, parr. 28-30 (trad. it. Teologia del Nuovo Testamento, Brescia, Queriniana, 19922 ). 1 1 Cfr. E. KAsEMANN, Gottesgerechtigkeit bei Paulus, in: Exegetische Versuche und Besinnun­ gen, Il, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1964, pp. 181-193 (trad. it. Saggi esegetici, Casale Monferrato, Marietti, 1985); J.C. BEKER, Paul the Apostle. The Triumph of God in Life and Thou­ ght, Filadelfia, Fortress Press, 1980; J.L. MARTYN, Theological lssues in the Pauline Letters, Edim­ burgo, T&T Clark, 1997.

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Teologia del Nuovo Testamento essa ha di se stessa, quanto il suo volere e il suo fare. Secondo l'Episto­ la ai Romani, essa è soggetta alla potenza personificata dal peccato (un termine che Paolo usa sempre al singolare) e alla potenza della morte, oppure alla potenza di vita e alla potenza giustificante di Dio (Rom. 5,12 8,39). Secondo l'Epistola ai Galati, l'esistenza si trova sotto la potenza della carne, asservendosi a se stessa nel cercare di darsi la sua propria origine, oppure è sotto la potenza dello Spirito. Nel primo caso, produ­ ce le opere della carne e, nel secondo, porta il molteplice frutto dello Spi­ rito (Gal. 5,16 - 6,10). Ne consegue che la giustificazione viene intesa co­ me il passaggio da una sovranità all'altra, come una trasformazione del­ la persona e come una nuova creatura (II Cor. 5,17; Gal. 6,15). - li modo in cui Paolo comprende l'evangelo concepisce la giustificazio­ ne come una frattura, invece la teologia del perdono presuppone tanto la realtà del libero arbitrio, quanto quella di una continuità dell'obbe­ dienza: il perdono, infatti, non è né una liberazione, né la trasformazio­ ne dell'essere in una nuova creatura, bensì il ristabilimento di una si­ tuazione originariamente buona. Poiché i peccati (al plw-ale), nel senso di trasgressioni, sono perdonati, il soggetto è rimesso nella situazione di poter adempiere la legge. -

2 . 1 .3.5 La giustizia

secondo le lettere di Paolo e il Vangelo di Matteo

Le differenze significative tra le concezioni della giustizia di Paolo e di Matteo dipendono, da un lato, dalle tradizioni giudaiche a cui si ispirano e si ricollegano, ossia alle loro diverse competenze linguistiche, e, dall'al­ tro lato, alle loro diverse comprensioni dell'essere umano. - n Vangelo di Matteo conduce il dibattito ermeneutico sull'obbedienza e sull'adempimento della volontà di Dio come una messa in pratica del­ la giustizia, con un concetto classico di giustizia, proprio delle scuole profetiche, farisee e prerabbiniche. Praticare la giustizia è la responsa­ bilità dinanzi alla quale l'elezione e il Patto mettono il popolo eletto. Pao­ lo, invece, interpreta l'evento della risurrezione e della morte di Gesù a partire dalle categorie apocalittiche della giustizia di Dio come espres­ sione della sua fedeltà al suo popolo. - n Vangelo di Matteo presuppone una visione ottimista dell'essere uma­ no, secondo la quale una buona comprensione della legge, in quanto adempimento della giustizia, gli permette di compiere la volontà di Dio. Questa psicologia si situa in continuità con l'Antico Testamento e con il giudaismo, come pure con la tradizione socratica per la quale il male compiuto deriva da una mancanza di conoscenza: chi sa, agisce bene. Per Paolo, invece, la rivelazione di Dio in Gesù Cristo, che inaugura la nuova era, è al tempo stesso la manifestazione della schiavitù dell'esi­ stenza precedente sotto la potenza del peccato, dell'ambiguità dell'oh64

2. L'evento della Parola bedienza alla legge e della divisione che regna nel soggetto stesso («ve­ do un'altra legge nelle mie membra, ossia la struttura di questo feno­ meno: non faccio quello che voglio, e ciò che faccio è quello che non vo­ glio» ) Questa visione pessimista dell'essere umano lasciato a se stesso è il corollario della scoperta della potenza liberatrice dell'evangelo e del­ la comprensione dell'identità del credente come nuova crt'atura. .

La continuità tra Paolo e il Vangelo di Matteo sta nella scoperta comu­ ne della soggettività individuale e della vita spirituale come istanza di un rapporto con Dio, con se stesso e con gli altri.

- La persona umana non viene definita in base alle sue qualità, ma è ri­ conosciuta come soggettività giusti ficata e amata, che può agire e por­ tare i frutti dello Spirito. - La scoperta della soggettività individuale ha come conseguenza imme­ diata la fondazione di un universalismo pluralista che riconosce ciascu­ no come soggetto in prima persona con le qualità che gli appartengono. Un elemento di complementarità tra i due sta nel fatto che l'invito del Gesù di Matteo alla «migliore giustizia>> chiama a realizzare ciò che l'e­ vangelo paolino proclama a proposito della giustizia di Dio: essa sottoli­ nea il fatto decisivo del riconoscimento di un Dio a cui l'esistenza può da­ re fiducia, che riconosce e ama l'individuo in quanto persona e porta i suoi frutti (Matteo) o i frutti dello Spirito (Paolo) in lui.

2 . 1 .4 L'elezione: Paolo e I Pietro 2 . 1 .4. 1 L'elezione nel Nuovo Testamento

Da un punto di vista quantitativo, il concetto di elezione negli scritti del Nuovo Testamento si collega prima di tutto con la problematica ecclesio­ logica della scelta. È quanto accade, in particolare, negli scritti di Luca ( «sce­ gliere»: Le. 6,13; At. 1,2.24; 6,5; 15,7.22.25; viceversa in Le. 10,41 e 14.7 si trat­ ta di decisioni personali) e nel Vangelo di Giovann i (Giov. 6,70; 13,18; 15,16.16.19). Gesù ha scelto i discepoli, e non il contrario, e Dio, lo Spirito, gli apostoli e gli anziani sceglieranno altri apostoli, altri diaconi o altri fratelli per qual­ che missione speciale. La seconda cerchia di problemi riguarda la questione dell'«elezione>> di Israele (Rom. 9,11; 11,5.7; cfr. At. 13,17 con il verbo «eleggere»). Si tratta di un argomento importante per Paolo, perché mette in questione la fedeltà di Dio alla sua parola: Dio mantiene la sua promessa (Rom. 9,6)? La soluzio­ ne, logicamente elaborata in Rom. 9,1 - 11,36 a partire dalla comprensione paolina dell'evangelo, trae le conseguenze della sua fiducia nella gratuità e nella bontà della grazia di Dio: Israele sarà salvato, perché tutti saranno 65

Teologia del Nuovo Testamento salvati: Dio, infatti, ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per esercitare la sua misericordia verso tutti (Rom. 11,32). In una sola frase ci sono due idee distinte e separate. La prima è che Dio giustifica adesso chiunque creda in lui, ebreo o greco, di modo che chi crede riceve l'identità di una nuova crea­ tura. La beatitudine è concessa qui e ora nell'evento della giustificazione (Rom. 3,21-26; 9,30-33). La seconda idea è che la misericordia di Dio si ma­ nifesterà nei riguardi di tutti, senza distinzione, perché tutti sono giusti, soltanto per via della sua grazia, nella salvezza eterna 12 • Il presupposto di tale duplice affermazione sta nella paradossale radi­ calizzazione dell'idea di elezione, già visibile in Rom. 8,38-39: Dio chiama quelli che ha scelto e giustifica quelli che chiama (Rom. 8,29-30.33). L'idea corrisponderebbe alle concezioni classiche della predestinazione, se non si sapesse che Dio giustifica chiunque ha fiducia nella fiducia che era in Ge­ sù Cristo: chiunque decida di credere entra pertanto nella miriade degli eletti. Il principio dell'elezione è quello della grazia che giustifica (Rom. 9,11; 11,5-7), perché, davanti a Dio, non ci sono differenze (Rom. 2,11; 3,22c). Il terzo uso che ne fa il Nuovo Testamento, risultante dalla reinterpre­ tazione di quel concetto così come si trova esplicitamente attestata in Pao­ lo, è quello della designazione di Gesù (Le. 9,35; 23,35), degli angeli (I Tim. 5,21) e dei credenti come degli «eletti>>: i destinatari di Ef. 1,4 sono coloro che il Padre del nostro Signore Gesù Cristo ha eletto fin dalla fondazione del mondo, mentre Mt. 24,22.24.31 // Mc. 13,20.22.27; Le. 18,7; Rom. 16,13; Col. 3,12; II Tim. 2,10; Tito 1,1; e Apoc. 1 7,14 parlano semplicemente degli «eletti» per designare i fratelli o le sorelle della comunità cristiana. Questa autocomprensione dell'elezione non impedisce che vi siano dei dibattiti all'interno del canone stesso del Nuovo Testamento. Da un lato, i lettori di II Pie. 1,10 vengono esortati a consolidare la loro vocazione e la loro elezione. D'altro lato, si elevano le voci critiche dell'Epistola di Giaco­ mo, secondo la quale sono i poveri e non i ricchi l'oggetto dell'elezione di Dio (Giac. 2,5), e del Vangelo di Matteo, secondo il quale ci sono molti chia­ mati ma pochi eletti (Mt. 22,14). - Per Matteo, l'adempimento della giustizia e l'orientamento dell'esisten­ za secondo la promessa del regno dei cieli costituiscono la distanza tra la vocazione e l'elezione (Mt. 22,1 -14). - Per Giacomo, il cristianesimo non può comprendersi e comportarsi se non come una dissidenza dei poveri d i Dio in una società unica, traver­ sata dalle ineguaglianze sociali e affascinata dalle ricchezze delle gran­ di famiglie (Giac. 2,1-13; 5,1-6) e degli uomini d'affari (Giac. 1,5-8; 4,1317). L'intrusione di ricchi, di proprietari e di speculatori non mette sol­ tanto in pericolo la vita della e nella comunità, perché la ricchezza è un 12 Cfr. C. SENFr, L'élection d'Israe/ et la justification (Rmnains 9 11), in: L'Évangile hier et aujourd' hui. Mélanges offerts au Professeur Leenhardt, Ginevra, Labor et Fides, 1968, pp. 131-142. -

66

2. L'evento della Parola veleno che corrode la vita (Giac. 1,9-11; 5,1-6) e compromette il mutuo riconoscimento dei piccoli (Giac. 2,1-13), essa è anche illegittima: i dra­ telli» sono per definizione «poveri». Nel linguaggio del cristianesimo neotestamentario risaltano tre scritti ­

I Tessalonicesi, l'inno di Ef 1,3-14 (Giovanni Calvino) e I Pietro - che fanno

dell'elezione il concetto interpretativo dell'esperienza fondamentale del lo­ ro incontro con ciò che Paolo e Marco chiamano l'evangelo. La singolarità dell'evento che determina la loro comprensione del cristianesimo è l'esse­ re stati messi a parte da Dio (l Tess. 1,4; Ef. 1,4; I Pie. l); 2,4.6.9), e di rice­ vere da quel privilegio la loro identità, la loro dignità e la loro speranza. 2 . 1 .4.2

L'elezione nella Prima epistola di Pietro

L'idea che i cristiani costituiscano una dissidenza nell'ecumenismo ideo­ logico, culturale e religioso della società ellenistica e romana dell'impero avvicina la I Pietro all'Epistola di Giacomo. Tale convinzione non soltanto sta al centro della sua esperienza e di quella dei suoi destinatari, ma è ra­ dicata nell'insieme della teologia e della cristologia dell'epistola. L'identità dei credenti, infatti, è definita da un doppio programma, annunciato fin dal saluto (I Pie. 1,1-2): - I destinatari sono degli eletti (l Pie. 1,1) che Dio ha scelto e qualificato (l

Pie. 1,2) perché costituissero la sua famiglia e il suo popolo santo (l Pie. 1,3-12; 2,1-10). Per questo motivo essi sono degli stranieri per il mondo dell'impero e per le (I Pie. 1,1) o di Silvano (l Pie. 5,12) e dei suoi destina­ tari perché è stato l'evento di un incontro esistenziale particolare, che per­ mette loro di capire la propria situazione presente e di orientame la fedeltà. L'evento fondatore viene dunque compreso come un compiersi della sto­ ria: esso la sovrasta dall'inizio alla fine. Quell'evento è una manifestazione divina {l Pie. 1,20) che l'epistola chiama la «rivelazione di Gesù Cristo» (I Pie. 1,7.13). È stato preparato da Dio sin dalla fondazione del mondo (I Pie. 1,20). Lo Spirito santo ha testimoniato della sua venuta per mezzo dei pro­ feti (I Pie. 1,10-11). Essi hanno cercato nelle scritture l'annuncio del mo­ mento del suo avvento, e hanno avuto la rivelazione che si sarebbe mani­ festato non per loro, ma per i destinatari dell'epistola {l Pie. 1,12). 13 Cfr. A. ZINOV'EV, Les hauteurs béantes, Losanna, L'Age d'homme, 1977; ID., L aven ir ra­ dieux, Losanna, L' Age d'homme, 1978. '

67

Teologia del Nuovo Testamento In che cosa consiste la singolarità di quell'evento? Per il cristianesimo di I Pietro, la «rivelazione di Gesù Cristo>> è l'e­ vento fondante, perché è il fatto della risurrezione di Gesù dai morti (l Pie. 1,3; 3,21), nel quale Dio si è manifestato come il Dio che lo ha risuscitato dai morti (I Pie. 1,21). Questa rivelazione costituisce per gli uditori un es­ sere generati di nuovo, che li ha trasformati e li ha fatti rinascere ((a una speranza viva» (I Pie. 1,3) e a una fede che li conduce alla salvezza (I Pie. 1,9). Essi formano ormai «una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gen­ te santa, un popolo che Dio si è acquistato>> (l Pie. 2,9, citazione di Is. 43, 20 21 e di Es. 19,6), essendo stati santificati dallo Spirito e lavati dal sangue di Gesù Cristo (l Pie. 1,2). Il linguaggio della santità, della purezza e del sacerdozio, che serve a interpretare tanto la nuova condizione dei credenti (l Pie. 2,4-10), quanto il significato che la morte di Gesù ha assunto per lo­ ro (cfr. I Pie. 1,1 9), non è usato in senso cultuale o sacrificale, bensì in un senso immaginoso che sottolinea la portata assunta dalla - come il suo «regno>>, la sua «perfezione», la sua «misericordia» o la sua «giustizia» - costituisce per gli scritti del Nuovo Te­ stamento Wl modo di documentare che la sua provvidenza, la sua presen­ za creatrice e sua potenza di trasformazione sono all'opera nell'esistenza umana e nel mondo. Sebbene qualsiasi riflessione speculativa sulla trinità sia loro estranea, e benché la sola formula trinitaria che il canone conosca sia quella dell'invio in missione di Mt. 28,19 (> di Lev. 19,18b per fame il fon­ damento reale su cui costruisce una struttura simmetrica: ciascuno deve ri­ conoscere o amare il suo prossimo nella misura in cui quest'ultimo lo rico­ nosce o l'ama. La reciprocità che caratterizza il mutuo riconoscimento de­ finisce pertanto le condizioni nelle quali va praticato il comandamento del­ l'amore. Ne consegue che ognuno è invitato ad amare i propri amici e a sa­ lutare i fratelli (Mt. 5,46.47), ma può odiare i nemici (M t. 5,43). Come si può notare, il quadro di simmetria fornito al mutuo riconosci­ mento da una simile incomprensione del comandamento dell'amore è quel­ lo del sistema dello scambio. Tuttavia, tanto l'invito ad amare i nemici e a pregare per i persecutori, quanto il richiamo fondamentale alla provvidenza del Padre celeste, che fa alzare il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piove­ re sui giusti e sugli ingiusti, sopprimono quella simmetria, nonché il siste­ ma dello scambio, a cui essa appartiene.

49 Cfr. A. BADIOU, op. cit.

212

3. L'emergere del so ggetto Il comandamento dell'amore per i nemici implica prima di tutto una dis­ sociazione tra l'atteggiamento altrui e quello che dovrebbe essere adottato dai discepoli di Gesù e dalle folle che lo ascoltano. Fare del comportamen­ to altrui la causa, la misura o il fondamento delle proprie azioni è infatti in­ compatibile con l'esigenza della giustizia (Mt. 5,20). La misericordia che la giustizia richiede, e che ha il suo fondamento e modello nella prodiga gra­ tuità della provvidenza di Dio (Mt. 5,45; 6,25-34), significa viceversa l'in­ terruzione di qualsiasi sequenza mimetica che possa trovare negli atti o nel­ le disposizioni altrui la ragion d'essere delle proprie reazioni. Perciò il co­ mandamento dell'amore del prossimo, inteso come espressione della vo­ lontà di Dio, che il Vangelo di Matteo definisce servendosi dei concetti di «giustizia» (Mt. 5,20) e di «misericordia» (Mt. 9,13; 12,7), presuppone ap­ punto l'abbandono degli argomenti di reciprocità, cosicché il suo effetto pragmatico paradossale consiste nello spezzare la catena della violenza (René Girard50 ). L'amore per i nemici implica pertanto la rinrmcia a un com­ portamento difensivo e l'adozione di un atteggiamento offensivo e inven­ tivo che non si fonda né su se stesso, né sugli altri, bensì sulla perfezione dell'amore del Padre. Ora, la caratteristica della provvidenza di Dio è precisamente l'asimmetria implicita nella gratuità del sistema del dono. Diremo dunque che la radicaliz­ zazione del comandamento dell'amore operata dal Gesù di Matteo svin­ cola l'amore da qualsiasi prospettiva utilitaria. L'appello ad amare persino i nemici è un invito ad accettare la magnanimità della misericordia di Dio e a en­

trare nello spirito del dono della sua provvidenza e del suo regno e a partecipare al­ la gratuità e alla bontà del suo amore. Infatti, come il Padre celeste nutre gli uc­ celli del cielo e riveste i gigli del campo, fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, e piovere sui buoni e sui cattivi, così i discepoli ricevono la vo­

cazione a vivere difiducia nelle sue premure, a entrare nella perfezione del suo amo­ re e ad assumere il rischio di esercitare il loro amore verso i propri amici e i propri nemzcz. 3.3. 1 .4 L'amore come potenza

della fede e della fiducia nell'avvenire dell'Altro

Dire che l'amore comandato dal Gesù di Matteo o dall'evangelo paoli­ no sopprime la struttura di simmetria del sistema dello scambio implica che quell'amore non si limiti alla benevola neutralità di un atteggiamento di rispetto per l'altro, ma definisca un atteggiamento attivo verso il prossimo. Infatti, l'amore del prossimo, se lo si comprende nella prospettiva del­ la più grande giustizia della misericordia e del dono, implica non soltan50 Cfr. R. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, Parigi, Grasset, 1961; Ùl vio­ lence et le sacré, Parigi, Grasset, 1972 (trad. it. ùz violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 2000); Cri­ tique dans un souterrain, Losanna, Amers, 1976.

213

Teolo gia del Nuovo Testamento to che si amino i nemici, ma anche, secondo il Sermone sul monte, che si preghi per coloro che perseguitano i discepoli e le folle che vengono ad ascoltare Gesù. La menzione delle persecuzioni, nello spirito di Matteo, è indubbiamente una concreta allusione alla situazione di conflitto che separa la chiesa (M t. 16,18) dalle sinagoghe ormai dominate dai farisei e dai loro scribi. In esse, appunto, i missionari e i profeti cristiani corrono il rischio costante di essere respinti, picchiati e persino messi a morte (M t. 5,10.11.12; 10,22.23; 23,34). Ma la specifica situazione in cui si colloca l'in­ terpretazione che Matteo dà del comandamento dell'amore fornisce l'oc­ casione per una riflessione più fondamentale sul suo significato. Infatti, il rifiuto dell'evangelo da parte delle città incredule e delle loro sinago­ ghe mette in luce la linea di demarcazione tra l'accettazione e il rifiuto dello spirito del dono. Ne consegue che quando Gesù, secondo Matteo, include nell'amore del prossimo anche la preghiera per coloro che rifiu­ tano la buona notizia della misericordiosa gratuità del Padre, fa dell'a­ more un atteggiamento esistenziale che non soltanto riconosce l'Altro co­ me soggettività individuale e come controparte di un dialogo, ma che lo

avvicina a partire dall'avvenire che gli è proprio, che spera per lui e che assume con lui la responsabilità del suo futuro. Si potrebbe quindi affermare che il Sermone sul monte definisca l'a­ simmetria dell'amore evangelico come il rischio gratuitamente assunto, nel­

la fiducia verso la provvidenza di Dio e senza l'aspettativa di vantaggi o di con­ tropartite, di accogliere il futuro dell'altro come un adempimento possibile della promessa. Il fatto che l'amore, che si richiama allo spirito del dono, non possa esi­ mersi né da rischi né dall'essere disposto a donare la propria vita, è bene mes­ so in evidenza dall'Epistola ai Galati là dove raccomanda ai suoi lettori di portare i pesi gli uni degli altri e di adempiere la legge di Cristo (Gal. 6,2). Beninteso, quando Paolo usa o crea tale espressione (che risulta un po' pa­ radossale sotto la sua penna), non fa altro che interpretare il comandamento dell'amore a partire dalla rivelazione della giustizia e dell'amore di Dio in Gesù Cristo che egli stesso ha ricevuto. Ma, nel fare di Cristo la norma e il modello dell'atteggiamento definito dall'amore, egli ricorda che l'amore di Cristo è consistito appunto nel darefiducia alla misericordia incondizionata di Dio e nell'offrire la propria vita per molti (Gal. 1,4; 2,10; 6,2). L'amore, come viene inteso dal Sermone sul monte e dalle lettere paoli­ ne, è una potenza trasjormatrice. Come l'amore gratuito che ne costituisce il fondamento, esso - per via della trasgressione introdotta nei rapporti di scambio, per il rischio che assume a favore dell'Altro e per l'asimmetria che instaura incondizionatamente a favore dei suoi destinatari - appartiene ai paradossi della comunicazione e ai discorsi di cambiamento. Lo stesso spi­ rito di gratuità che, mediante la rivelazione della giustizia di Dio, chiama l'essere umano alla libertà in quanto persona riconosciuta indipendente­ mente dalle sue qualità e fa sorgere la coscienza riflessiva dell'«io», fa sor214

3. L'emergere del so ggetto gere pure mediante l'amore la soggettività individuale dell'Altro, la rico­ nosce e la rende responsabile delle sue decisioni personali. I carismi che lo Spirito dona a ogni credente (l Cor. 12,4-31a ) perdono ogni potere se non sono accompagnati dall'amore: è questo il messaggio essenziale della meditazione poetica (l Cor. 12,31b - 14,1) che Paolo intro­ duce nella sua riflessione sui fondamenti costitu tivi della comunità cristiana e sulle relazioni interpersonali che essi implicano (l Cor. 12,1 - 14,40).

- I Corinzi 13,1-3: la prima parte dell'inno definisce il posto dell'amore nel sistema di valori fondati dall'evangelo. La presa di posizione di Paolo di fronte agli ideali di saggezza dei corinzi (cfr. I Cor. 1,4 - 4,13) afferma che la conoscenza profetica, il fervore più convinto e la massima gene­ rosità non sono nulla se rimangono imprigionati nel sistema dello scam­ bio, della ricerca di un riconoscimento e nell'attesa di reciprocità. La for­ mulazione negativa, che rifiuta di descrivere positivamente l'effettiva potenza dell'amore e di elencarne le meraviglie, ma si contenta di di­ chiarare, forse un po' ironicamente, l'impotenza dei carisnù che non ven­ gano esercitati nello spirito dell'amore («se non ho amore non sono nul­ la l non mi serve a nulla>>): tale formulazione testimonia il carattere im­ prevedibile e la dimensione d'incertezza connessi alla gratuità del do­ no Oacques T. Godbout51 ). - I Corinzi 13,4-7. La seconda parte dell'inno è una descrizione della com­

petenza dell'amore, ossia della sua capacità di far essere e di far sorge­ re l'Altro (Danielle Thibault). L'accento non insiste soltanto sul decen­ tramento da sé e sul ricentrarsi sull'altro o sul suo avvenire, ma soprat­ tutto sulla dissimmetria che ciò implica. L'amore non dipende dall'Al­ tro, che non è neppure menzionato: è fiducia nell'Altro, comprensione e sollecitudine gratuita e incondizionata, speranza nell'avvenire del­ l' Altro. Però tale dissimmetria è orientata: cerca la giustizia e la verità. I cristiani sono chiamati a vivere della grazia e della potenza di Dio, per­ ciò praticano il loro amore sullo sfondo della speranza nella riconcilia­ zione e nella redenzione (Marion L. Soards52 ).

- I Corinzi 13,8-13. La terza parte indica i contrastanti risultati della cono­ scenza e dell'amore. La tensione tra il tempo presente e l'adempimento finale stabilisce una duplice dissociazione. La prima opera una distin­ zione tra, da un lato, la visione faccia a faccia e la perfetta comprensio­ ne, nella quale conosceremo allora come siamo stati conosciuti da Dio (I Cor. 13,12 ), e, d'altro lato, la conoscenza parziale (l Cor. 13,8.12) , co­ me in uno specchio, per enigmi (l Cor. 13,12), che ci è attualmente con­ cessa (I Cor. 13,8.13). 51 Cfr. J.T. GooBOUT, L'Esprit du don dt. 52 Cfr. M.L. SoARDS, I Corinthiens, NIBC 7, Peabody, Hendrickson Publishers, 1999.

215

Teologia del Nuovo Testamento La tesi che ne deriva è quella secondo cui la sola conoscenza autentica

è la conoscenza perfetta che conoscerà come solo Dio ci conosce. Tale co­ noscenza ci sarà data soltanto al momento dell'adempimento finale: è la conoscenza della grazia e della gratuità dell'amore di Dio.

I Corinzi 13,1-13 53 1Se parlo le lingue degli uomini e degli angeli ma non ho amore, non sono altro che un gong che risuona o un cembalo squillante. 2E se ho il dono di profezia e ho la conoscenza di tutti i misteri e di tutta la scienza

e ho tutta la fede al punto di trasportare i mondi ma non ho l'amore, non sono niente.

3E se distribuisco tutti i miei beni per nutrire i poveri

e do il mio corpo alle fiamme, ma non ho amore, non serve a niente.

4 L'amore è paziente, è servizievole: l'amore non avanza pretese, l'amore non si vanta, non si gonfia;

Snon fa niente di sconveniente, non cerca il proprio interesse; non si irrita non tiene conto del male, 6non si rallegra per l'ingiustizia, ma si rallegra molto della verità; 7soffre tutto, crede tutto spera tutto, sopporta tutto. 8L'amore non cadrà mai. Ma le profezie? Saranno soppresse. Le lingue? Finiranno. La conoscenza? Sarà abolita. 9poiché la nostra conoscenza è parziale, e parziale la nostra profezia. 10Ma quando verrà la perfezione, ciò che è parziale sarà abolito. 11 Quand'ero bambino parlavo come un bambino, pensavo come un bambino, ragionavo come un bambino; diventato uomo, ho smesso ciò che è tipico del bambino. 12Adesso vediamo come in uno specchio, per enigmi, allora vedremo faccia a faccia; adesso conosco in parte allora conoscerò come sono stato conosciuto. 1 30r dunque, queste tre cose durano: la fede, la speranza e l'amore. Ma delle tre, la maggiore è l'amore.

53

216

Traduzione secondo C. SENFT, op. cit.

3.

L'emergere del soggetto

3.3.2 L'amore come autodefinizione del cristianesimo: Giovanni

� singolare il fatto che il Vangelo e le epistole di Giovanni, in cui più frequentemente ritorna la terminologia dell'amore, non conoscano il dop­ pio comandamento dell'amore di sé e del prossimo che, tanto nei tre pri­ mi vangeli (Mc. 12,31 .33; Mt. 22,39; Le. 10,27; Mt. 5,43; 19,19), quanto in Paolo (Rom. 13,9; Gal. 5,14) è presentato come riassunto, chiave di lettura o adempimento della legge. Viceversa, nella letteratura giovannea com­ pare un comandamento dell'amore reciproco che i discepoli sono chiamati a praticare tra di loro a immagine di quello che esprime l'unità del Padre e del Figlio. - Dio ha tanto amato il mondo che ha mandato il suo unico Figlio affin­ ché chiunque crede in lui abbia vita eterna (Giov. 3,16), ma il mondo e gli ebrei hanno preferito le tenebre alla luce. - Di conseguenza, l'amore descrive la comunione offerta dal Padre al Fi­ glio, dal Padre ai discepoli, dal Figlio ai discepoli, dai discepoli gli uni agli altri e dai discepoli al Figlio. In altri termini, nel Vangelo e nelle epi­ stole di Giovanni, l'amore è l'appartenenza reciproca del Padre, del Fi­ glio e dei discepoli a uno stesso universo della rivelazione di Dio, della conoscenza della verità e del dono della vita. In Giovanni, il vocabolario dell'amore fa parte del linguaggio della ri­ velazione. - n Padre ama il Figlio e il Figlio ama i discepoli nella misura in cui il Pa­

dre mostra ogni cosa al Figlio e questi mostra ai discepoli tutto ciò che gli è stato mostrato dal Padre. - Il Padre ha conferito al Figlio la capacità di fare tutto ciò che fa egli stes­ so (dare la vita eterna, esercitare il giudizio), e il Figlio ha conferito ai discepoli quella di amarsi gli uni gli altri e di ripetere l'offerta della ri­ velazione nel mondo. - Il Figlio dimora nell'amore del Padre osservando i suoi comandamen­ ti, e i discepoli dimorano nell'amore del Figlio osservandone i coman­ . damenti. Come si vede, i l (Giov. 13,34-35) del quarto vangelo non è una semplice variante del doppio comandamento dell'a­ more di sé e del prossimo. Peraltro, Giovanni non cita mai Lev. 19,18b. L'amore giovanneo ha il suo senso e la sua funzione nella trasmissione della rivelazione, e L

2Misure concrete: esclu-

3Motivo: non hanno

4• Messa

sioni dalla sinagoga (! l Giov. 9,22; 12,42) lapidazione deimaestri eretici (/l Giov. 8,59; 10,31).

3.3.2.4

ricevuto né il Padre né il Figlio.

in guardia:

Il Figlio ha avvertito i discepoli affinché al momento opportuno se ne ricordino.

La preghiera di Gesù per l'unità

La seconda serie di discorsi di addio (Giov. 15,1 - 16,33) si presentava come una rilettura della prima conversazione di Gesù con i suoi discepoli (Giov. 13,31 - 14,31).

- Giov. 15,1-17 era una rilettura del nuovo comandamento dato ai disce­ poli dal Figlio in procinto di salire verso il Padre (Giov. 13,34). - Giov. 15,18 - 16,4a era una rilettura della riflessione sulla funzione del­ la testimonianza esercitata nel mondo dall'unità dei discepoli che si ama­ no reciprocamente (Giov. 13,35). La preghiera di Giov, 17,1-26 si presenta adesso come una rilettura del­ l'insieme della prima e della seconda serie di discorsi d'addio (Giov. 13,1 16,33): l. Giov. 17,1-5: preghiera per la glorificazione del Figlio affinché dia vi­

ta a coloro che hanno creduto. 2. Giov. 17,6-13: retrospettiva sull'opera del Figlio (Giov. 1 7,6-8) e pre­ ghiera a favore dei discepoli che hanno creduto, ma che rimangono per ora nel mondo, affinché partecipino all'unità del Padre e del Fi­ glio, essendo uno così come il Padre e il Figlio sono uno (Giov. 17,913, rilettura di Giov. 15,9-17). 3. Giov. 1 7,14-19, rilettura di Giov. 15,18 - 16,4a: preghiera per coloro che hanno creduto e che sono vittime dell'odio del mondo, affinché siano preservati dal male (Giov. 17,15) e santificati (Giov. 17,17). 4. Giov. 17,20-23: preghiera per coloro che crederanno a motivo della parola dei discepoli affinché siano tutti uno e che la loro unità sia l'oc­ casione che permette al mondo di riconoscere l'opera salvifica del Pa­ dre manifestata nell'amore del Padre per il suo Figlio, e nell'evento assolutamente singolare e unico dell'invio del Figlio.

221

Teologia del Nuovo Testamento 5. Giov. 17,24, rilettura di Giov. 16,16-25: preghiera per tutti coloro che hanno creduto, affinché partecipino, alla fine dei tempi, al compi­ mento ultimo.

6-l:lpreghie­ ra per i di­ scepoli

t4-19preghiera per i discepoli odiati dal

20-2lpreghiera per i discepoli di seconda

n nuovo elemento apportato dalla rilettura che Giov. 17,6-13 fa di Giov. 15,9-17 consiste nel collegare esplicitamente il problema dell'assenza del Figlio con il tema dell'unità dei discepoli. La difficoltà costituita dall'allontanamento del Figlio è ben comprensi­ bile e sta nel fatto che, nell'immediato, i discepoli rimangono nel mondo (Giov. 17,11). Fino a quel momento il Figlio, in nome del Padre, li ha cu­ stoditi e preservati dalla perdizione (Giov. 17,12). Ma, ormai, i ruoli del Pa­ dre e del Figlio sono invertiti: il Padre li conserverà nel suo nome (Giov. 17,11) affinché rimangano uno così come il Padre e il Figlio sono uno. Co­ me si vede, l'unità che i discepoli sono chiamati a costituire ha la funzione di testimoniare della loro appartenenza alla comunione del Padre e del Fi­ glio, e di impedire che perdano la loro identità e si reintegrino al mondo. L'unità che il Padre renderà possibile custodendo i discepoli ha dunque, per il Vangelo di Giovanni, la stessa funzione dell'amore reciproco che il comandamento nuovo impone loro di esercitare gli uni verso gli altri. Es­ sa determina l'esistenza dei discepoli nella misura in cui rende presente la loro origine nell'unità del Padre e del Figlio. La rilettura di Giov. 15,18 - 16,4a da parte di Giov. 17,14-19 permette di definire la condizione dei discepoli, i cui simboli sono l'amore reciproco e l'unità. La loro situazione nel mondo viene dapprima descritta negati­ vamente (Giov. 17,14-16). Giovanni si serve dell'espressione polisemica «del mondo» per affermare che i discepoli non sono più di quanto non lo siano il Figlio inviato dal Padre. Perciò essi sono vittime dell'odio del mondo (Giov. 1 7,14.16). Di conseguenza, la formula usata nella preghiera del Figlio a favore dei suoi compagni è dialettica: il Figlio non domanda al Padre di togliere i discepoli «dal mondo» (Giov. 1 7,15), bensì di preservar li «dal male>> . Devono essere liberati dal mondo, ma non dal mondo in quanto luogo della loro vita quotidiana, bensì dal mondo come realtà che basta a se stessa e si chiude all'evento-verità rivelatosi nell'istante dell'invio del Figlio. L'esistenza dei discepoli dai quali Gesù si congeda per tornare al Padre è caratterizzata dal fatto che essi sono , che devono rimanere provvisoriamente nel mondo, che il mon­ do è il luogo in cui devono svolgere il loro compito di rendere testimo222

3.

L'emergere del so ggetto

nianza dell'assoluta singolarità dell'evento costituito dall'invio del Figlio da parte del Padre, ma che non sono più «del mondo>> nella misura in cui la loro origine non si trova in ciò che «c'è» nel mondo, bensì nell'unità del Padre e del Figlio manifestata nel paradosso assoluto dell'incarnazione della parola creatrice di Dio. Si può concludere dicendo che il nuovo comandamento che il Gesù gio­ vanneo impartisce ai discepoli di amarsi gli uni gli altri, e la preghiera del Figlio per la loro unità hanno un duplice significato. In primo luogo, dopo la partenza di Gesù per salire al Padre, garanti­ scono la contemporaneità con la presenza dell'evento assolutamente sin­ golare e unico dell'incarnazione della parola di Dio. Tale contemporaneità con una realtà esterna al mondo si manifesta, da un lato, nella coesione dei discepoli e degli > è stato crocifisso tra due malfattori (Le. 23,47; At. 7,52; 22,14). Luca, infine, separa la croce dal significato della risurrezione di Gesù, poiché per lui l'evento pasquale non è una rilettura della sua morte, bensì la conferma da parte di Dio della sua venuta come Salvatore, nonché del­ la sua giustizia. Così facendo, conferisce uno speciale significato alle sue sofferenze, che viene messo in evidenza dalla costruzione letteraria di nn parallelismo narrativo tra il racconto della passione e quello della lapida­ zione di Stefano (At. 6,8-15 e 7,55 - 8,3): Gesù ha subìto il martirio. Il mar­ tirio del Signore acquista nn carattere doppiamente esemplare: da un lato, permette di comprendere la sorte dei testimoni perseguitati (At. 8,2-3); e d'altra parte, il suo atteggiamento di fiducia verso Dio e di misericordia nei confronti dell'ignoranza di quelli che lo mettono ingiustamente a morte ser­ ve di esempio (At. 7,55-60). La morte di Gesù in quanto tale non ha per Luca alcnn significato teo­ logico e soteriologico, tuttavia non è nn semplice omicidio. L'idea secondo cui Gesù avrebbe dato la sua vita per il nostro riscatto, per la nostra sal­ vezza o per la nostra giustificazione, o secondo cui, in un modo o nell'al­ tro, sarebbe morto per i nostri peccati (tradizioni prepaoline), o morto per noi (Paolo), è certamente estranea al pensiero lucano. Ma, pur sprovvista di una intenzionalità salvifica, la morte di Gesù non è priva di significato e di conseguenze storiche. - Da un lato, benché le Scritture, Mosè, i profeti e i salmi abbiano annun­ ciato le sofferenze e la risurrezione, ma non la morte del Cristo (Le. 24,25-

297

Teologia del Nuovo Testamento

27.46-47), questa sembra far parte di una logica di arroganza e di ostilità verso Dio, che lo Spirito santo aveva già denunciato per bocca di Davi­ de (At. 4,25-28, con citazione del Sal. 2,1-2). Il discorso di Stefano, che è il testo fondamentale dell'interpretazione lucana della morte di Gesù (At. 7,1-53), sviluppa il tema della resistenza del popolo contro lo Spirito san­ to e contro la promessa. L'idea sostenuta in quell'ampio sguardo gene­ rale sulla storia della salvezza, che comincia con Abramo e termina prov­ visoriamente in At. 7,53 con la morte di Gesù, è quella della continuità della disobbedienza d'Israele. Quella storia di incredulità e di perdizio­ ne comincia con l'episodio della ribellione nel deserto (At. 7,35-39) e del vitello d'oro (At. 7,39-43), prosegue poi con la costruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Salomone (At. 7,47-50), e trova ampia espres­ sione nella costante persecuzione e nella ripetuta uccisione dei profeti (At. 7,51-53, cfr. Le. 6,23.26; 13,34-35); giunge al suo culmine con la mor­ te del Giusto (At. 7,52) e si prolunga logicamente con il martirio dei suoi testimoni (At. 7,54-60; cfr. Le. 6,23.26). Responsabili della morte di Gesù sono il popolo, gli ebrei, i sommi sacerdoti e i sadducei che non credono alla risurrezione dei morti (Le. 20,27; At. 4,1; 5,17; 23,6.7.8). Innocenti ri­ mangono i farisei, che credono alla risurrezione dei morti e si compor­ tano come alleati di Gesù, poi degli apostoli (Le. 19,39; At. 5,34; 23,6.7.8.9). D'altra parte, tanto il discorso programmatico di Paolo e Barnaba ad An­ tiochia di Pisidia, quanto le ultime parole che Paolo pronuncia negli At­ ti degli apostoli rivolgendosi agli ebrei di Roma, fanno dell'incredulità di Israele, manifestatasi nell'uccisione del Giusto e nel rifiuto della pre­ dicazione apostolica, il motivo della svolta assunta dalla storia della sal­ vezza. Atti degli apostoli 13,46b-47

Atti degli apostoli 28,25b-28

Era necessario che a voi [= agli ebrei] per primi si annunciasse la Parola di Dio; ma poiché la respingeste e non vi riteneste de­ gni della vita eterna, ecco, ci rivolgiamo agli stranieri. Così infatti ci ha ordinato il Si­ gnore:

Ben parlò lo Spirito Santo quando per mez­ zo del profeta Isaia disse ai vostri padri:

"Io ti ho posto come luce dei popoli perché tu porti la salvezza fino alle estremità della terra " (ls. 49,61 [LXX)).

Va' da questo popolo e di': "Voi udrete con i vostri orecchi e non com­ prenderete; guarderete con i vostri occhi, e non vedrete; perché il cuore di questo popolo si è fatto in­ sensibile, sono divenuti duri d'orecchi, e hanno chiuso gli occhi affinché non vedano con gli occhi e non odano con gli orecchi, non comprendano con il cuore, non si convertano, e io non li guarisca " [Is. 6,9-10]. Sappiate dunque che questa salvezza di Dio è rivolta alle nazioni [ ai pagani]; ed esse presteranno ascolto. =

298

4. Il fondamento cristologico Tuttavia, la ragione immediata della morte di Gesù è di ordine politico. Dipende da un errore umano delle competenti autorità romane (Le. 23,6-12). Nel racconto della comparsa di Paolo di fronte a Gallione, fratello di Sene­ ca, a Corinto (At. 18,12-17), e in quello del processo dell'apostolo a Cesarea dinanzi a Felice, a Festo e ad Agrippa (At. 23,23 - 26,32), Luca espone la sua etica politica. Secondo la presentazione che ne fa, l'amministrazione ro­ mana è ovviamente capace di distinguere con precisione la libertà che la predicazione apostolica prende nei riguardi della legge ebraica e il suo ri­ spetto per la giurisdizione romana. In tal modo smonta le accuse ebraiche secondo cui trasgredirebbe la «legge>>: la legge romana in vigore, di cui è garante, non è la legge religiosa degli ebrei. Pertanto, le autorità romane ri­ conoscono la conformità del cristianesimo con l'ordinamento dell'impero, e garantiscono la protezione dei cristiani contro le ingiuste accuse di cui so­ no vittime da parte degli ebrei. Viceversa, i cristiani, che possono fare ri­ corso a quelle autorità e contare sul loro regolare funzionamento, devono riconoscerne la legittimità. Detto questo, gli inconvenienti sono sempre possibili. Uno di essi si pro­ duce quando Felice, che da un lato si preoccupa di far piacere agli ebrei (At. 24,27) e spera d'altra parte di farsi subornare da Paolo (At. 24,26), ne tira in lungo la prigionia a Cesarea. Un altro inghippo si verifica nella condotta incoerente e codarda adottata da Pilato, da Erode e poi di nuovo da Pilato dinanzi all'insistente ostilità degli ebrei contro Gesù (Le. 23,2-25). Questi incidenti hanno senza dubbio delle conseguenze spiacevoli, ma non met­ tono in causa le buone ragioni che i cristiani hanno di avere fiducia nelle autorità romane. Il racconto lucano della crocifissione e della morte di Gesù (Le. 23,26-49) è composto in modo tale che Luca, nel quadro della sua concezione della storia della salvezza, vi può combinare quattro temi centrali della sua com­ prensione del cristianesimo. l. La morte di Gesù come iniqua esecuzione del «Giusto>>. 2. La morte di Gesù come martirio esemplare e come modello. 3. La morte di Gesù come il luogo per eccellenza dell'appello al penti­ mento. 4. L'invocazione di Gesù e il pentimento come condizioni necessarie e sufficienti per il perdono dei peccati e per la salvezza (qui: la comu­ nione con Gesù nel paradiso). Prima di tutto, Luca modifica profondamente la funzione del centurio­ ne, che nel Vangelo di Marco stava di fronte a Gesù (Mc. 15,39) e che nel Vangelo di Matteo comanda e accompagna gli uomini incaricati di fare la guardia al crocifisso (Mt. 27,54). Il centurione del racconto lucano non con­ fessa che Gesù è Figlio di Dio (Mc. 15,39), ma riceve la funzione di glorifi­ care Dio proclamando l'innocenza del Giusto che muore ingiustamente e che ha appena rimesso il suo spirito nelle mani del Padre (Le. 23,47). La sua constatazione ufficializza la confessione del secondo malfattore in croce: 299

Teologia del Nuovo Testamento

«Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male» (Le. 23,40b-41). In secondo luogo, l'autore degli scritti lucani stabilisce un parallelismo fra la morte di Gesù (Le. 23,26-49) e la lapidazione di Stefano {A t. 6,8 - 8,1), che si interpretano reciprocamente. Con questo stretto rapporto tra le due scene, il racconto della morte del testimone Stefano fa apparire la morte di Gesù come quella del primo martire e questo primo martire serve di mo­ dello per il suo duplice carattere esemplare: Gesù, per primo, è stato vitti­ ma dell'ingiustizia, e in quella situazione ha definito l'atteggiamento che i cristiani avrebbero dovuto adottare dinanzi a fenomeni di persecuzione. l. Le prime parole di Stefano riprendono le due ultime parole con le quali Gesù, sulla croce, prega per i peccati dei suoi persecutori («Si­ gnore, non imputar loro questo peccato»: A t. 7,60 Il Le. 23,34) e ri­ mette il suo spirito nelle mani di Dio (At. 7,59 // Le. 23,46). 2. Luca elimina dal racconto della passione il detto di Gesù sul Tempio, di Mc. 14,58, per inserirlo nel processo di Stefano (At. 6,14). 3. La morte dei due martiri è preceduta da un appello al pentimento (Le. 23,27-31 // At. 7,1-53) che conferisce loro un duplice significato: Gesù e Stefano muoiono a causa dell'incredulità, ma la loro morte dovreb­ be essere, per il popolo, un'occasione di pentimento (Le. 23,48). Marco 14,[5fr57]58

Atti degli apostoli 6,{11-13]14

ssr capi sacerdoti e tutto il sinedrio cerca-

11 Allora istigarono degli uomini che disse-

vano qualche testimonianza contro Gesù �er farlo morire; ma non ne trovavano. Molti deponevano il falso contro di lui; ma le loro testimonianze non erano concordi. 57E alcuni si alzarono e testimoniarono falsamente contro di lui dicendo: 58«Noi

ro: . 12Essi misero in agitazione il popolo, gli anziani, gli scribi; e, venutigli addosso, lo afferrarono e lo condussero al sinedrio; 13e presentarono dei falsi testimoni che dicevano: «Quest'uomo non cessa di proferire parole contro il luogo santo e contro la legge. 14Infatti lo abbiamo udito

l'abbiamo udito che diceva: "Io distruggerò questo tempio fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne ricostruirò un altro, non fatto da mani d'uomo"».

affermare che quel Nazareno, Gesù, distruggerà questo luogo e cambierà gli usi che Mosè ci ha tramandati».

Luca 23,34

Atti degli apostoli 7,60

.

.

Luca 23,46

Atti degli apostoli 7,59

.

300

4. n fondamento cristologico

La messa in scena del popolo (Israele) e dell'avvertimento profetico di Gesù alle figlie di Gerusalemme prima della crocifissione (Le. 23,2632), come pure il lamento della folla dopo la morte di Gesù (Le. 23,48), che Luca intercala tra la dichiarazione del centurione (Le. 23,47) e la men­ zione del gruppo di conoscenti di Gesù e delle donne (Le. 23,49), fanno parte dell'interpretazione della morte del Giusto nell'ampio quadro di una visione d'insieme della storia della salvezza. Israele si è reso colpe­ vole della morte del Signore e sarà chiamato dagli apostoli a convertirsi e a pentirsi. Infine, il dialogo con il secondo malfattore sulla croce è costruito non soltanto in contrapposizione alla richiesta del primo dei due («Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!>>: Le. 23,39b), ma soprattutto in riferimento al popolo. Quel malfattore è la figura esemplare del pentimento che ci si aspetta e si spera dai peccatori; confessa i suoi peccati («Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male>>: Le. 23,41), chiede di essere perdonato, si affida al nome di Gesù («Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!>>: Le. 23,42) e riceve la promessa della salvezza da parte di colui che è venu­ to per cercare e salvare dei peccatori che si pentono («lo ti dico in verità che oggi tu sarai con me in paradiso >>: Le. 23,43).

sofferenza e la gloria di Cristo e dei cristiani: I Pietro

4.3. 1 .2 La

Anche la Prima epistola di Pietro utilizza il concetto di sofferenza per interpretare la morte di Gesù. Come Luca, mette in parallelo le sofferenze subite da Gesù con quelle che devono sopportare i suoi lettori, in modo ta­ le che in essa, come negli scritti lucani, il destino di Gesù serve al tempo stesso quale spiegazione delle difficoltà incontrate dai credenti nel mondo pagano circostante e quale modello di comportamento che definisce le linee direttrici di una strategia da poter opporre loro. Vanno tuttavia notate tre differenze. La prima differenza riguarda l'analisi delle condizioni di esistenza degli eletti nel mondo. Per la I Pietro, i rapporti conflittuali tra le comunità cri­ stiane e la società che le circonda non sono né accidentali né imputabili a semplici errori umani. l cristiani, che sono gli eletti di Dio (l Pie. 1,1) e le pietre viventi della casa di Dio nel mondo (I Pie. 2,1-10), costituiscono una diaspora, tanto per la loro nuova identità quanto per i tipi di com­ portamento sociale che ne derivano: una diaspora (l Pie. 1,1) di dissidenti e di stranieri (l Pie. 1,1; 2, 11) nell'universo ecumenico e nell'ideologia uni­ ficante del mondo ellenistico e romano. Il carattere inevitabile del con­ flitto, che deriva dall'appartenenza a due sistemi di valori incompatibi­ li, assume per tutti delle forme concrete (l Pie. 3,8-12), ma è particolar­ mente acuto per gli schiavi delle case pagane (l Pie. 2,18-20) e per le don301

Teologia del Nuovo Testamento

ne sposate a mariti non cristiani (I Pie. 3,1-6). Sono riconosciuti come fra­ telli e sorelle e valorizzati come soggettività individuali nella casa di Dio, dove non c'è né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né don­ na, ma tornati nella «loro» casa si ritrovano in un sistema di obbedienza e di sottomissione gerarchica. La seconda differenza tra I Pietro e l'opera lucana sta nella strategia apo­ logetica e missionaria messa in opera. A motivo del suo ottimismo politico, Lu­ ca si accontenta di affidarsi alle simpatie che il cristianesimo ha incontrato nella buona società (At. 17,4. 12.34). La Prima epistola di Pietro - avendo constatato la situazione di doppia costrizione in cui le due lealtà collocano i cristiani, come pure la potenzialità rivoluzionaria che il cristianesimo rap­ presenta per l'ordine sociale - fonda sulla cristologia una duplice strategia pastorale e missionaria. Da un lato, le sofferenze di Gesù permettono di comprendere quelle a cui sono sottoposti gli eletti di Dio; d'altro lato, la condotta che egli ha adottato permette di delineare una tattica offensiva di ir­

reprensibilità e di non-violenza mediante la quale i cristiani possono sperare di gua­ dagnare le coscienze (l Pie. 3,1). La terza differenza riguarda il significato della corrispondenza che I Pie­ tro stabilisce tra le sofferenze e la gloria di Cristo. Infatti, se la sofferenza di Cristo è messa in parallelo con quella dei credenti, la sua risurrezione non pone il fondamento per la risurrezione dei morti (At. 4,2; 17,32), ma signi­ fica in primo luogo la manifestazione della sua gloria (I Pie. 1,11; cfr. 1,21). La manifestazione della gloria di colui che ha sofferto in maniera esemplare costituisce la rivelazione di una storia della salvezza che dà compimento a un decreto di Dio che precede la creazione stessa del mondo (I Pie. 1,20). In quanto tale, non soltanto fonda la fede, ma è pure il motivo della spe­ ranza e della dissidenza dei credenti. Le sofferenze e la gloria di Cristo

e

Le sofferenze la speranza dei cristiani

l Le sofferenze n concetto interpretativo della morte di Ge-

sù è «le sofferenze» (l Pie. 1,11; 4,13; 5,1). Gesù non è , dell'«agnello>> «senza difetto>> e «senza macchia>> vanno lette, qui come in I Pie. 1,1-2, in senso fi­ gurato. D'altronde, l'epistola non identifica il Cristo con l'agnello pasqua­ le, ma interpreta la sua morte, cui allude il , a partire della cate­ goria della santità introdotta programmaticamente in I Pie. 1,2. La santità di Cristo è consistita nella manifestazione della sua totale appartenenza a quel Padre che ora i cristiani invocano. Infatti, quell'atteggiamento di ob­ bedienza esemplare adottato da Gesù fino alla morte ha reso possibile la li­ berazione degli eletti. In che cosa la morte di Gesù ha offerto ai credenti la condizione della lo­ ro libertà? Lo ha fatto perché la manifestazione del Risorto, rivelata nell'e­ vento pasquale da colui che lo ha risuscitato e gli ha dato la gloria, mette in luce la fedeltà coerente della sua dissidenza in quanto adempimento di un piano eterno di Dio {l Pie. 1,20). Dunque, questa rivelazione di Dio che glorifica Cristo, il quale aveva manifestato la sua appartenenza al Padre fi­ no alla morte, è l'elemento che fornisce un fondamento alla fede e alla spe­ ranza di coloro che credono in Dio (l Pie. 1,2 1) .

I Pietro 2,21-25 21Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, !asciandovi esempio, perché seguiate le sue orme. 22Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno. 230ltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente; 24egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, noi vivessimo per la giustizia, e mediante le sue lividure siete stati guariti. 25Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime. un

L'autore dell'epistola considera esplicitamente le sofferenze di Cristo co­ me fondamento (: I Pie. 2,21) della sofferenza degli eletti e della strategia che devono se­ guire. La combinazione di due strutture logiche, di cui una fa del destino di Cristo la causa di quello dei credenti («poiché>>), mentre l'altra mette i 304

4. n fondamento cristologico

due destini in parallelo («anche>>), è unica nel Nuovo Testamento, ma tipi­ ca del modo di argomentare di I Pietro. In tre modi diversi Cristo funge da fondamento e da modello per i cri­ stiani in generale (> (Mt. 23,34). In continuità con la protesta dell'oracolo profetico, le invettive presen­ tano un Gesù iracondo. La collera di Gesù stupisce nel contesto dei vange­ li, poiché, a un'osservazione superficiale, sembra una parola distruttrice ri­ volta a tma o più persone che essa riduce alla loro funzione e/ o reifica. Pe­ raltro, le invettive sono principalmente una parola che Gesù rivolge agli scribi e ai farisei e non delle valutazioni su di loro: una parola che ne fa dei soggetti e non degli oggetti della collera. D'altra parte, la parola profetica ...

...

21 Cfr. H. Marru, F. VOUGA, lA passion de la parole. Jlsus invectivant et souffrant, in: "Bul­ letin du Centre Protestant d'Études de Genève" 30 (1978), Nr. 3-4, pp. 38-46.

309

Teologia del Nuovo Testamento che Gesù destina loro è una parola che li mette in guardia rivelando la lo­ ro «ipocrisia», ossia l'equivoco di cui sono vittime. Dunque, l'ira evangeli­ ca non è una collera contro gli scribi e i farisei, ma una collera per loro: essa è in pari tempo il segno della serietà della parola che viene loro rivolta, del­ la verità che essa rivela e della necessità di cambiamento dinanzi al quale essa li pone. Il fatto che le invettive siano delle parole per gli scribi e i farisei determi­ na la forma e il contenuto particolare che ricevono nel Vangelo di Matteo. - La formula di giudizio (M t. 23,34-36) non proclama la condanna di Israe­ le, bensì l'iniziativa presa dal Signore di rivolgergli ancora un ultimo ap­ pello al cambiamento. Essa annuncia il tentativo che i missionari cri­ stiani intraprenderanno ancora, dopo la morte di Gesù, per convincere scribi e farisei a pentirsi. Lo schema storico corrisponde a quello costruito dalla parabola delle nozze regali (Mt. 22,1-14): dopo lo scacco subìto da un primo gruppo di servi tori, che rappresentano evidentemente i pro­ feti veterotestamentari, vengono inviati agli invitati, ossia a Israele, dei nuovi profeti che questa volta sono i missionari cristiani che si rivolgo­ no alla sinagoga. Analogamente, le invettive si concludono con una pro­ messa accompagnata da un'ultima messa in guardia: poiché gli scribi e farisei ipocriti avranno messo a morte Gesù come hanno versato il san­ gue dei profeti, Gesù manderà loro dei profeti, dei saggi e degli scribi (Mt. 23,34a), ossia degli scribi istruiti dal regno dei cieli (Mt. 13,52), i qua­ li non sono altro che i discepoli mandati in missione in Mt. 9,35 - 10,42.

Matteo 23,34a 34Perciò, ecco, io vi mando dei profeti, dei saggi e degli scribi.

- L'invio di nuovi profeti, di saggi e di scribi cristiani è accompagnato da un nuovo avvertimento. Infatti, scribi e farisei respingeranno la predi­ cazione del regno e respingeranno i profeti cristiani, come i loro padri respinsero i profeti (Mt. 23,29-33), come essi stessi si preparano a met­ tere a morte Gesù, ma come anche Gesù l'ha annunciato ai suoi disce­ poli quando li ha mandati in missione (Mt. 10,17-18.23). La parola di Ge­ sù segue lo sviluppo storico annunciato dalla parabola delle nozze (M t. 22,1-14): gli invitati che avevano respinto i primi servitori maltrattano e mettono a morte i secondi, di modo che la collera del re contro la città di Gerusalemme e i suoi omicidi (Mt. 22,7 fa un'evidente allusione agli eventi della guerra giudaica) non è motivata dalla morte di Gesù, ben­ sì dal rifiuto di Israele di ascoltare l'invito della profezia cristiana.

310

4. Il fondamento cristologico

Matteo 23,34b Alcuni ne ucciderete e metterete in croce; altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città.

Matteo 10,1 7.23 17Guardatevi dagli uomini; perché vi met­ teranno in mano ai tribunali e vi flagelle­ ranno nelle loro sinagoghe [ ]. 23Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra; perché io vi dico in verità che non avrete finito di percorrere le città d'Israele prima che il Figlio dell'uomo sia venuto. ...

Trattando i profeti cristiani come i loro padri hanno fatto con i profeti che venerano attualmente (Mt. 23,34b Il Mt. 23,29-33), gli scribi e i fari­ sei pronunceranno la loro propria condanna. Manifesteranno per la se­ conda volta, dopo aver messo a morte Gesù, di essere degni figli dei lo­ ro padri che hanno ucciso i giusti e i profeti dall'inizio alla fine. Il nome di Zaccaria allude forse a II Cr. 24,15-22, oppure all'assassinio di Zacca­ ria figlio di Baris, avvenuto nel Tempio durante la guerra giudaica e di cui parla Giuseppe Flavio22 . Matteo 23,35-36 35Affinché ricada su di voi tutto il sangue giusto sparso sulla terra, dal sangue del giusto

di Abele, fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che voi uccideste fra il tempio e

l'altare. 36Io vi dico in verità che tutto ciò ricadrà su questa generazione.

Gli scribi e ifarisei vengono dichiarati «ipocriti>> (Mt. 23,13.15.23.25.27.28.29) perché dicono e fanno cose diverse da quelle che credono di dire e di fare. L'ipocrisia qui denunciata dal Vangelo di Matteo consiste, come in Mt. 6,118, nel l ' illusione dell'esistenza che crede di adempiere la volontà di Dio e la giu­ stizia, ma che, anziché vivere della misericordia e del dono, riduce se stessa e ridu­ ce pure Dio e gli altri a diventare delle semplici funzioni della propria osservanza. L'oggetto della collera di Gesù è dunque l'illusione in cui si trovano gli scribi e i farisei. Essa si manifesta nel loro falso rapporto con la storia. Tale falso rapporto si esprime in una doppia negazione: una negazione temporale: non c'eravamo al tempo dei nostri padri, ma se ci fossimo stati non avremmo agito come loro. La variante spaziale di questa negazione sarebbe: non eravamo sul posto, ma se ci fossimo sta­ ti avremmo agito altrimenti; - una negazione di identità: non sono complici dei loro padri e dunque non ne sono figli.

22 Cfr. GrusEPPE FLAVIO, Guerra giudaica 4,334-344.

311

Teologia del Nuovo Testamento Questa doppia negazione è precisamente quella che li rende figli dei lo­ ro padri. Infatti, adornano le tombe dei giusti assassinati dai loro padri, ma, in nome di quei sepolcri, continuano ancora oggi a uccidere i profeti e co­ sì portano a compimento, in Gesù e nei suoi inviati, l'opera dei loro padri.

Matteo 23,29-33 29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri ai profeti e adornate le tom­ be dei giusti, 30e dite: >, per cui ormai non gli rimane che salvare la sua propria vita (Mc. 15,31 = Mc. 8,34-37). 2. Anche il narratore, da parte sua, ironizza. Tutti hanno udito, ma nes­ suno ha capito (cfr. Mc. 4,10-12). Gesù infatti ha insegnato che biso­ gna perdere la propria vita per salvaria e che occorre prendere la pro­ pria croce per salvare la vita (Mc. 15,30-32 //Mc. 8,34-37), che egli non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita co­ me prezzo di riscatto per molti (Mc. 10,45). Quanto al Tempio, con la morte di Gesù esso perde la sua antica funzione: essendosi squarciata la cortina, Dio è presente senza mediazione e il Tempio diventa luo­ go di preghiera per le nazioni (Mc. 15,38 //Mc. 11,15-19). L'unico per­ sonaggio che non è vittima dell'ironia del vangelo è il centurione che confessa che Gesù è il Figlio di Dio (Mc. 15,39) e sembra capire che questo è il motivo della sua condanna (Mc. 14,61-62). Il Vangelo di Marco, nel suo insieme, sembra prendere posizione per tre volte su quella reciproca incomprensione. Infatti, la controversia che cul­ mina con gli sbeffeggiamenti e la morte di Gesù viene collocata nella più ampia cornice di un fondamentale malinteso tra Dio e l'umanità.

314

4. Il fondamento cristologico l. Nel primo annuncio che Gesù fa della sua passione, avverte i suoi di­

scepoli e i suoi ascoltatori che il Figlio dell'uomo deve morire (Mc. 8,31). Per il Vangelo di Marco, la condanna e la messa a morte del Fi­ glio di Dio non sono affatto un incidente di percorso dovuto alla de­ bolezza umana delle autorità competenti, come invece suggeriscono il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli, e neppure un errore giu­ diziario: risultano da una necessità. La parola stessa di Gesù in questo caso non dice nulla sui motivi di tale necessità. Si può pensare che la riflessione di Gesù derivi da un'analisi psicologica, sociale o politica dei comportamenti umani: Gesù costituisce per l'ordine antico una minaccia che può soltanto condurre alla sua espulsione violenta (Mc. 2,7: «costui bestemmia»). Ovvero si può pensare che quella necessità risponda alla comprensione che egli stesso ha della propria missio­ ne (Mc. 10,45: «il Figlio dell'uomo è venuto [ } per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti»). 2. La seconda presa di posizione dell'evangelista, che segue immedia­ tamente la prima, mostra come queste due interpretazioni della ne­ cessità della morte di Gesù non si escludano, ma siano complemen­ tari e testimonino due aspetti del medesimo conflitto. Infatti, nel dram­ ma del Figlio di Dio si esplica il carattere contraddittorio della visio­ ne della realtà offerta dalle due logiche. La struttura del reale dei tem­ pi antichi o dell'ordine costituito, che è difesa dagli scribi e a cui rimane le­ gata l'incredulità dei discepoli, si basa sui pensieri degli uomini. La nuova struttura possibile del reale, proclamata dall'evangelo di Dio predicato da Gesù e il suo appello ad aver fede in Dio (Mc. 11 ,22) si fonda sui «pensieri di Dio>>. Il Vangelo di Marco nel suo insieme si presenta come una pro­ cedura di verità che contrappone quelli che Gesù ritiene siano i pensieri di Dio ai pensieri degli uomini (Mc. 7,8-9; 8,33). 3. La terza presa di posizione dell'evangelista avviene nel suo raccon­ to di Pasqua. La proclamazione del giovane (Mc. 16,5-7) conferma la parola della voce di Dio che, al battesimo e alla trasfigurazione, ha designato e proclamato Gesù come suo Figlio (Mc. 1,11 e 9,7) . Essa dà senza dubbio ragione al Crocifisso contro coloro che se ne fanno beffe, ma il silenzio delle donne ristabilisce l'ambiguità che regnava sulla narrazione della crocifissione e della morte. ...

4.3.3.2 Il prezzo di

riscatto per molti e il nuovo patto

Nel dramma del Figlio di Dio, che contrappone il regno e i pensieri di Dio all'antico ordine dei pensieri degli uomini, la morte di Gesù assume un significato centrale per il fatto stesso che ne costituisce l'epilogo. Come nel Vangelo di Matteo, ma in un senso un po' diverso, essa funziona come ve­ rifica e dimostrazione della procedura di verità che si è istaurata sul cam­ mino seguito da Gesù.

315

Teologia del Nuovo Testamento

È singolare il fatto che nessuno dei tre annunci della passione, della mor­ te e della risurrezione del Figlio dell'uomo (Mc. 8,31-33; 9,30-32; 10,32-34) attribuisca un significato salvifico alla morte di Gesù. Il primo annuncio della passione, come abbiamo visto, afferma la necessità delle sofferenze e della morte di Gesù (Mc. 8,31). Manca invece un elemento essenziale che si trova nelle formule analoghe del Nuovo Testamento e che spiegano la morte di Gesù dicendo che è avvenuta «per i nostri peccati» (I Cor. 15,3) o «per le nostre offese>> (Rom. 4,25). Tuttavia, sarebbe errato ricavare da questa assenza l'impressione che la morte di Gesù non ha un significato salvifico per il Vangelo di Marco. An­ zi, l'insieme del dramma messo in scena dal racconto ne spiega il signifi­ cato liberatorio. La prima interpretazione del destino e della morte di Gesù presentata dal Vangelo di Marco si trova in Mc. 10,45. Marco 10,45 Anche il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.

L'affermazione, forse già formulata prima di Marco, secondo cui Gesù ha dato la sua vita come prezzo di riscatto per molti, interpreta la morte di Gesù servendosi di una metafora ricavata dalla vita economica e sociale. L'idea è la seguente: lo schiavo economizza o riceve una certa somma di denaro, chiamata peculio, mediante la quale potrà ricomprare se stesso dal suo padrone e diventare libero. Si tratta dunque di una transazione tra due attori principali: il padrone, proprietario dello schiavo, a cui lo schiavo con­ segna il prezzo della propria libertà. Può inoltre intervenire un terzo per­ sonaggio, un patrono o liberatore che versa a favore dello schiavo la som­ ma necessaria per la transazione. Secondo quella formula, in cui si dichiara che Gesù ha fatto dono della sua vita come prezzo di riscatto per molti, l'immagine diventa quasi un'al­ legoria: la vita di Gesù rappresenta esplicitamente il peculio che è stato ver­ sato per molti. Essa implica che i beneficiari di quel dono si trovavano in una condizione di schiavitù e che la loro esistenza è stata trasformata dal­ la morte di Gesù: da schiavi che erano sono diventati liberi. Il messaggio essenziale della dichiarazione di Gesù è dunque che egli è morto per noi, per affrancarci da una condizione di schiavi e darci la libertà. Ciò che la formula non indica è l'identità del «beneficiario>> della tran­ sazione: a chi Gesù ha versato il prezzo della nostra libertà facendo dono della sua vita? Un'interpretazione classica della morte di Gesù, brillante­ mente rappresentata da Anselmo d'Aosta (Cur Deus homo), suggerisce che Gesù abbia fatto dono della sua vita a Dio. Gesù, che era senza peccato, rap-

316

4. n fondamento cristologico presentando l'umanità peccatrice grazie all'incarnazione, ha dato la sod­ disfazione necessaria al ristabilimento dell'onore di Dio offrendo la propria vita come compenso per la nostra disobbedienza. Il presupposto di tale let­ tura della morte salvifica di Gesù è la visione medievale, propria della so­ cietà feudale, secondo cui l'infedeltà del vassallo reca offesa all'onore del suo feudatario, e pertanto l'ordine sociale esige non soltanto una rinnova­ ta obbedienza del vassallo, ma anche un indennizzo, che permetta di ri­ stabilire l'onore perduto. È evidente che questa spiegazione non corrisponde all'interpretazione proposta in Mc. 10,45. Infatti, spiegare la dichiarazione di Mc. 10,45 con il modello descritto e sviluppato da Anselmo d'Aosta im­ plicherebbe che l'umanità si trovi in schiavitù sotto il potere di Dio e che Gesù ha fatto dono della sua vita per liberarci da Dio. Nel contesto di Marco, i «beneficiari» della morte di Gesù non possono essere altri che Satana (Mc. 8,33}, Belzebù (Mc. 3,20-25}, la complicità degli indemoniati con i loro demoni (Mc. 1,21-28; Mc. 5,1-20; 9,14-29), ossia, in realtà, i «pensieri degli uomini» (Mc. 7,8-9; 8,33) o ciò che il vangelo chia­ ma la «non-fede» (Mc. 6,6; 9,24). Il riscatto che Gesù paga per la nostra li­ berazione è il prezzo della possibilità che egli ci offre, di vivere nel regno, ossia di pensare e di comportarci secondo i «pensieri di Dio» e di avere fe­ de in Dio (Mc. 1,15; 11,22). Tale possibilità non può essere concessa se non si libera l'essere umano dalle potenze che, in lui, lo rendono schiavo della sua paura di perdere la propria identità e la vita (Mc. 8,34-37}, e che lo pre­ cipitano nell'accecamento, nella disperazione e nella complicità con le po­ tenze demoniache. Gesù deve morire perché la linea di demarcazione tra i «pen­ sieri di Dio» e i l «servire» contrappone infatti due atteggia­ menti esistenziali opposti; nel Vangelo di Marco essi paiono equivalere a «voler essere primo>> l «essere servo di tutti» (Mc. 10,44), «perdere la pro­ pria vita» l «salvare la propria vita» (Mc. 8,34-37}, «essere il primo» l «esse­ re l'ultimo» (Mc. 9,35), «essere il primo»l «essere il servitore» (Mc. 9,35), «essere il primo» l «essere l'ultimo» (Mc. 10,31 ), «essere grande» l «essere il

317

Teologia del Nuovo Testamento servitore» (Mc. 10,43; cfr. Mc. 9,34). Secondo il Gesù del Vangelo di Marco, questi due atteggiamenti esistenziali, che implicano due visioni della realtà, hanno ciascuno il suo posto. Tra coloro che sembrano comandare le nazio­ ni predomina un primo tipo di logica; viceversa, l'altra, quella cioè secon­ do la quale dare ciò che si ha a favore dell'evangelo è in pari tempo la pro­ messa di ricevere adesso cento volte tanto e poi la vita eterna (Mc. 10,2830), prevale tra i discepoli (indicativo, Mc. 10,42-43). Queste due visioni della realtà e questi due atteggiamenti esistenziali corrispondono a ciò che il Vangelo di Marco definisce come la logica dei pensieri umani e quella dei pensieri divini (Mc. 8,34-37 è infatti l'imme­ diato commento di Mc. 8,31-33). Il salto qualitativo che collega la proposi­ zione etica (secondo cui il Figlio dell'uomo si è comportato in modo esem­ plare venendo per servire: Mc. 10,45a) con la proposizione kerygmatica (se­ condo la quale è venuto a dare la sua vita come prezzo di riscatto per mol­ ti Mc. 10,45b) mette in evidenza la necessità della conversione. La presenza del regno stabilisce ogni essere umano come soggettività responsabile, invitando­ lo a trasformare la propria visione del mondo e il proprio atteggiamento esisten­ ziale. La condotta esemplare di Gesù (Mc. 10,45a) indica la necessità del cambiamento. Accettando di «perdere la sua vita» per la proclamazione del re­ gno e per la liberazione di molti (Mc. 10,45b), ha reso possibile quel cambiamento rivelando che vivere secondo i pensieri di Dio e nella fiducia non può essere altro che un dono di Dio. I racconti di esorcismo del Vangelo di Marco mettono in evidenza il ca­ rattere paradossale dell'impossibile possibilità di tale liberazione. L'azione terapeutica di Gesù nei riguardi degli indemoniati non viene presentata nel Vangelo di Marco come un trattamento di pazienti individuali. Certi sinto­ mi isolati, riguardanti la descrizione di malattie che non hanno nulla in co­ mune tra loro, o ristrutturati in funzione di una logica tutt'altro che medi­ ca, vengono combinati in modo da contribuire all'analisi di un problema umano fondamentale. Quest'ultimo è senza dubbio affine a quello che Pao­ lo descrive e poi interpreta in Rom. 7,7-23. Si tratta di una contraddizione interna all'essere umano che si manifesta nella ricerca della protezione con­ tro i demoni, nella susseguente ambivalenza nei riguardi della presenza del­ l'autorità liberatrice di Gesù, nella sua incapacità di presentarsi come sog­ getto individuale e responsabile. Il fatto che Gesù riveli la condizione di pos­ sessione demoniaca (Mc. 1,23; 5,8), il dialogo interpersonale con l'indemo­ niato (Mc. 5,6-10) e il dono, da parte di Gesù, della condizione della fede (Mc. 9,23-24), ricreano la soggettività personale. Infatti, «questa specie di spiriti» - vale a dire i pensieri umani e la malattia mortale, la disperazione rappresentata dalla possessione demoniaca - «non si può fare uscire in al­ tro modo che con la preghiera» (Mc. 9,29), cioè con la confessione del padre che esclama: «Io credo, vieni in aiuto alla mia incredulità>> (Mc. 9,24). Infat­ ti, «tutto è possibile a chi crede>> (Mc. 9,23), ossia in particolare e in primo luogo il miracolo della conversione: «Abbiate fede in Dio>> (Mc. 11,22).

318

4. Il fondamento cristologico La seconda interpretazione della morte di Gesù, presentata dal Vange­ lo di Marco, si legge nel racconto dell'istituzione della cena del Signore (Mc. 14,22-25). Marco 14,23-25 23Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. 24Poi Gesù disse: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti.

25In verità vi dico che non berrò più del frutto della vigna fino al giorno che lo berrò nuovo nel regno di Dio>> .

È assolutamente evidente che i vangeli, nel raccontare l'istituzione del­ la cena del Signore, annunciano e interpretano la morte di Gesù. La ver­ sione fornita da Marco colpisce per la sua asimmetria. La designazione del pane come simbolo del suo corpo non riceve nessun'altra spiegazione da parte di Gesù: in Mc. 14,24, come pure in Mc. 10,45, è inclusivo, non esclusi­ vo) - è il prezzo pagato dal Figlio di Dio ai pensieri umani e al loro rifiuto dei pen319

Teologia del Nuovo Testamento

sieri di Dio, per aver loro annunciato un regno di Dio in cui regnano i pensieri di Dio, la fede e la fiducia, e per averli invitati a entrarvi. Ma, d'altra parte, il simbolismo del sangue è collegato, per questo stes­ so motivo, alla comunione post-pasquale che avranno ormai con Gesù i membri del nuovo patto, ossia tutti coloro che, in tutte le nazioni, porteranno frutto, a differenza del fico sterile (Mc. 11 ,20-25) e avranno fede in Dio (Mc. 11,22). Con loro egli berrà il vino nuovo nella presenza misteriosa del regno di Dio sulla terra e nella storia degli uomini.

4.3.4 La Croce: Marco e Paolo 4.3.4.1 La croce nel Nuovo Testamento: significato proprio, simbolico e metaforico

I termini «croce» e sono usati nel loro senso proprio quan­ do si riferiscono al legno sul quale Gesù è stato appeso o al modo in cui è morto. Ma sono usati in senso simbolico quando al loro significato proprio si aggiunge un'interpretazione di tipo morale o religioso. Così accade, per esempio, quando Paolo dichiara di aver annunciato «il Crocifisso>> (I Cor. 1,23; 2,2; Gal. 3,1). Sono poi utilizzati in senso metaforico quando non in­ dicano più la croce, ma quando la croce è diventata ormai un'immagine o un concetto per indicare un'altra realtà. Così, per esempio, quando il Gesù lucano raccomanda di portare ogni giorno la propria croce (Le. 9,23). l. Nel loro significato proprio, è un termine tecnico che de­ signa la rivelazione di Dio nel duplice evento della morte e della risurre­ zione di Gesù (l Cor. 1,17.18; Gal. 5,11; 6,12.14; Fil. 2,8; 3,18 +Col. 1,20; 2,14; Ef. 2,16). Il concetto di «croce>> è pertanto usato talvolta in mo­ do simbolico, per indicare al tempo stesso le condizioni storiche del­ la morte di Gesù e il suo significato come rivelazione di Dio, altre vol­ te invece come metafora per parlare del significato esistenziale del­ la rivelazione di Dio nella morte e risurrezione di Gesù.

320

4. n fondamento cristologico Il verbo «crocifiggere» è usato 2,2; Gal. 3,1 .

tre

volte in modo simbolico: I Cor. 1,23;

I Corinzi 1,23 Ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i giudei è scandalo, e per gli stranieri paz­

zia.

l Corinzi 2,2

Poiché mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo e lui crocifisso.

Galati 3,1

O Galati insensati, chi vi ha ammaliati, voi, davanti ai cui occhi Gesù Cristo è stato rappresentato crocifisso?

Lo stesso verbo è usato due volte in senso metaforico: Gal. 5,24 e 6,14. Galati 5,24 Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri.

Galati 6,14

Ma quanto a me, non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso e io sono stato croci­ fisso per il mondo.

A ciò si aggiungono due usi metaforici simili del verbo >) e la ricerca della libertà e della fiducia («credere))) è, nel Van-

322

4. Il fondamento cristologico gelo di Marco, l'argomento degli episodi di esorcismo (Mc. 1,23-28; 5,1-20; 9,14-29). Infatti, secondo questo vangelo, non è la situazione di prigionia sotto la potenza dei demoni che definisce gli indemo­ niati, bensì un conflitto interiore che li conduce alla disperazione (Mc. 1,24; 5,7-1024 ) e li spinge a cercare e a trovare rifugio nei demoni (Mc.

1,23; 5,2). 2. Il presupposto di questa analisi dell'animo umano sta nel constata­

re che il conflitto non è tra Gesù e i demoni. Anzi, i demoni, nel Van­ gelo di Marco, sembra che riconoscano l'autorità di Gesù e vi si sot­ tomettano (Mc. 3,11-12). Il conflitto messo in scena dagli esorcismi avviene, al contrario, all'interno dell'indemoniato. Esso contrappo­ ne il regno di Dio e l'autorità liberatrice di Gesù alla persona dell'in­ demoniato, ossia all'essere umano che teme di essere spogliato dei suoi demoni. Se Gesù «deve» morire (Mc. 8,31), ciò avviene perché chi lascia morire una persona salva la propria vita, ma colui che do­ na la propria vita per far vivere l'altro deve morire (Mc. 3,4-6). 3. Nel Vangelo di Marco, la morte di Gesù risulta necessaria e possie­ de una potenza di liberazione per il fatto che il Figlio di Dio si è con­ segnato nelle mani degli uomini (Mc. 8 31 ; 9,31) proclamando, con­ ferendo e garantendo la possibilità, che è dono di Dio, di essere libe­ rati da se stessi e dai propri pensieri umani. Infatti, il Figlio dell'uo­ mo è venuto per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscat­ to per molti (Mc. 10,45). Tuttavia, il riscatto pagato per la nostra li­ berazione può essere versato soltanto ai pensieri umani, ossia alla paura dell'esistenza di andare in perdizione e alla complicità che es­ sa cerca nelle potenze demoniache. 4. Il dono che Gesù fa della propria vita, simboleggiato dal concetto di «croce», e il rifiuto che oppone a chi lo sollecita a scendere dalla cro­ ce (Mc. 15,30.32) sono direttamente impliciti nell'autorità di Gesù, di­ versa da quella degli scribi a motivo della sua potenza di liberazio­ ne (Mc. 1,21-22). Il rifiuto di scendere dalla croce (Mc. 15,30.32) è in­ fatti un'affermazione simbolica: il Figlio di Dio e il suo messaggio so­ no credibili (Mc. 15,39) nella misura in cui Gesù, davanti alla morte, non rinnega la fiducia a cui la sua predicazione ha chiamato i disce­ poli e le folle in ascolto (Mc. 1,15: «Credete all'evangelo di Dio>>; 11,22: ), e per la quale egli resiste definitivamente al­ la tentazione di pensare «i pensieri degli uomini>>. Perciò, nella pro­ clamazione di Pasqua, egli rimane «il Crocifisso>> (il participio è al perfetto: Mc. 16,6). 5. «Prendere la propria croce>> è dunque un'espressione meta forica per descrivere l'atteggiamento esistenziale della soggettività individua,

24 Cfr.

S. l> implica una morte e una risurrezione (Rom. 6,1-14): con Cri­ sto siamo nati a una nuova vita, perché, con lui, siamo morti alla carne e al­ la potenza del peccato, ossia alla disperazione che nasce dal fatto che l'es­ sere umano pensa di dover trovare l'origine e il senso della sua esistenza nel rapporto che ha con se stesso (Rom. 6,6; Gal. 5,24). I due aspetti di quella morte e di quella risurrezione si trovano riuniti nella metafora con cui Paolo dichiara che «il mondo, per me, è stato croci­ fisso e io sono stato crocifisso per il mondo» (Gal. 6,14). Da un lato, il cre­ dente è stato liberato «dal presente secolo malvagio» (Gal. 1,3-4), governato dal­ la «carne», dal peccato e dalla legge, perché è stato trasformato in una nuo­ va creatura (Gal. 6,15). Dall'altro lato, egli comprende se stesso in quanto nuova creazione e nuova soggettività individuale, riconosciuta e amata da Dio, che non trae più la propria identità da questo mondo. Tanto l'affermazione teologica secondo cui Dio si rivela in un crocifisso, quanto il suo corollario antropologico secondo cui ogni essere umano è giu­ stificato da Dio per la sua fiducia nella fiducia che era in Cristo, indipen­ dentemente dalle proprie qualità, dai propri successi, dalle proprie appar-

326

4. Il fondamento cristologico tenenze e dalle proprie fedeltà, sono delle affermazioni paradossali, che ri­ chiedono una decisione esistenziale da parte di ogni individuo. l. L'affermazione secondo cui Dio non soltanto si è rivelato in un uo­

mo, ma si è fatto carne in un uomo particolare, e che inoltre non si è incarnato un uomo singolo qualsiasi, ma nella persona di quel cro­ cifisso, è una variante di ciò che Seren Kierkegaard chiama il para­ dosso assoluto. Paolo ne parla come di uno scandalo e di una paz­ zia. Egli constata, inoltre, che quel paradosso costringe ciascuno a prendere posizione. Per coloro che non credono è una pazzia e il fat­ to che la considerino una pazzia è il motivo per cui vanno in perdi­ zione e soccombono alla disperazione. Per coloro che credono, è la potenza di Dio che li salva (I Cor. 1)8.23; Gal. 5) 1). 2. La dichiarazione secondo cui la persona di ogni individuo è giusti­ ficata dalla fiducia che ha dato a Dio («per niente», «per la fede di/in Gesù Cristo»), senza dover dimostrare niente, presuppone che il sog­ getto muoia a questo mondo e alla carne, ossia a se stesso (il Vange­ lo di Marco scrive: «prenda la sua croce»: Mc. 8,34), per essere sal­ vato e vivere nella libertà.

327

5 I luo ghi della fedeltà all'evento. La riflessione sulla chiesa

La fede, la speranza e l'amore costituiscono dei luoghi di fedeltà alla ve­ rità-evento. Ciò che conta non sono né la forma, né la struttura sociale di quei luoghi, bensì ciò che li sostanzia: l'universalità della rivelazione che, in Gesù Cristo, fa sorgere il soggetto come un «io» riflessivo e responsabi­ le e, conseguentemente, suscita gli spazi in cui si sperimenta e si verifica il dialogo «io»-«tu», nonché il riconoscimento reciproco delle persone che es­ sa rende possibile e necessario. Due temi guidano gli scritti neotestamentari nella loro riflessione sulle comunità cristiane e sulla chiesa. - Il primo tema riguarda il modo in cui le comunità cristiane organizza­ no lo spazio della nuova creazione: che cosa è costitutivo della chiesa e ne fa il luogo della fedeltà all'extraterritorialità e alla singolarità dell'e­ vento fondatore, interpretato come la venuta della parola di Dio incar­ nata nella persona storica di Gesù di Nazareth, o come la morte e la ri­ surrezione del Figlio di Dio? Qual è la presenza della verità fatta carne e rivelata nell'istante dell'incontro con il Crocifisso? - Il secondo tema riguarda la definizione istituzionale dei luoghi di fe­ deltà nel tempo e nella storia. Da un lato, la pretesa del soggetto di es­ sere fedele alla verità implica l'interpretazione o la costruzione di una continuità con l'evento fondatore. D'altro lato, essa presuppone una de­ finizione di se stessa, nonché la fissazione di confini che separino gli spa­ zi della verità soggettiva dai luoghi della non-verità.

329

Teologia del Nuovo Testamento Le forme che l'elezione divina, la presenza del Crocifisso e l'azione del­ lo Spirito assumono nelle comunità cristiane del I secolo non si riducono mai a un comune modello. È forse vero il contrario: i tentativi di unificare istituzionalmente l'organizzazione tra le chiese e all'interno delle stesse, sfociano in una netta diversificazione e in una «complessificazione» dei mo­ delli, persino quando creano l'impressione di diventare dominanti. Il quin­ tetto di apostoli, profeti, evangelisti, pastori e dottori di cui parla l'Episto­ la agli Efesini (Ef. 4,1-16), o il quartetto di anziani retribuiti (l Tim. 5,17), ve­ scovi, diaconi e vedove delle lettere pastorali (I Tim. 3,1-16 e 5,1.22), il trio di profeti, saggi e scribi del Vangelo di Matteo (Mt. 23,34; cfr. Mt. 13,52), o il duo dei dottori e degli anziani dell'Epistola di Giacomo (Giac. 3,1 e 5,14) e l'episcopato monarchico di Ignazio di Antiochia, hanno tutti assunto, in momenti diversi, la funzione di punti di riferimento per la definizione dei ministeri. Vederli come delle tappe sulla via di un'unificazione generale co­ stringe a confondere l'ideologia e la realtà.

5.1 La presenza del Crocifisso La varietà dei linguaggi inventati per definire i luoghi della fedeltà al­ l'evento fondatore costituisce il corollario della diversità dei linguaggi mes­ si in opera per esprimere l'evento-verità della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Non è sorprendente constatare che, anche in questo caso, la caotica abbondanza di rappresentazioni, di simboli e di metafore utilizzati per ren­ dere conto dell'esperienza comunitaria, e per strutturarne gli sviluppi, pre­ cede qualsiasi tentativo di armonizzazione. La forza e l'autorità della riflessione su ciò che costituisce l'essenza stes­ sa della chiesa, consiste nella coerenza teologica con cui l'interpretazione dell'evento-verità rivelato in Gesù Cristo determina le dichiarazioni atti­ nenti alle comunità che essa suscita come luoghi di fedeltà. Infatti, le co­ munità cristiane non sono altro che una forma assunta dalla presenza del Crocifisso nel tempo e nella storia del mondo.

5 . 1 . 1 La nuova comunità: Paolo e Giovanni La chiesa, per Paolo, è il corpo di Cristo, che riunisce in un tutto orga­ nico e diversificato i doni conferiti dallo Spirito a ogni nuova creatura. Per Giovanni, essa è l'insieme delle greggi del buon pastore, che si abbevera­ no dell'acqua viva e si saziano con il pane di Dio, sceso dal cielo. Nei due casi la comunità è fondata e definita dalla contemporaneità con il para­ dossale evento-verità dell'incarnazione della parola di Dio nella persona di Gesù di Nazareth, il Crocifisso. 330

5. I luoghi della fedeltà all'evento

5. 1 . 1 . 1 I concetti e le metafore della nuova comunità Testi e temi Paolo

Giovanni

Romani 6,1-14 12,1 - 13,14 14,1 - 15,13

Primo discorso di addio:

li battesimo.

Sromdodiswrso

di addio:

- 14,40

11,2-16 11,1 7-34 12,1 - 13,13

l.

Il ritorno del Salvatore dai 14,18-20.27-

discepoli (Giov. 28).

13,1 - 14,31 I cristiani nel mondo. 2. La promessa dello Spirito Giudeo-cristiani e pagano- Il Problema: (=del paracleto, Giov. 14,15l'assenza del 17.25-26). cristiani nella comunità. Salvatore 3. Il comandamento dell'amore (Giov. 13,34-35; 14,2124). 4. La liberazione definitiva dei d iscep ol i (Giov. 14,1-14).

I Corinzi 11,2

Soluzioni:

Soluzioni:

l . L'appello a dimorai'! in Cristo (Giov. 15,1-8). 2. La promessa del paracleto (Giov. 15,26-27; 16,7-11). Il Problema: Le donne profetizzano. 3. Il comandamento dell'aIl conflitto del- more reciproco e dell'unità La cena del Signore. La comunità come corpo gli la comunità (Giov. 15,9-17; e 17,1-26). individui come membra del con ii mondo 4. Spiegazione dell'odio del corpo e i diversi doni dello mondo (Giov. 15,1 8 - 16,4) . Sp irito 5. La liberazione definitiva La comunicazione cristiana dei discepoli (Giov. 16,16-25). deve essere comprensibile.

L'edificazione della comunità.

15,1

-

17,26

,

.

14,1-40

331

Teologia del Nuovo Testamento

Concetti e metafore Paolo La

comunità cristiana

Giovanni

L'assemblea (= la chiesa) in quan- Le pecore del buon Pastore (Giov. 9,1 - 10,1 8). l tralci della vera vigna (Giov. zione della comunità locale (I 15,1-8). L'amore reciproco e /'unità coCor. 12,1-31a). Il corpo di Cristo come defini- me segno dell'unità dei dizionedell'insieme dei cristiani scepoli con il Figlio e con il Padre (Giov. 13,34-35; 14,21(Rom. 12,3 -8) . 24; 15,9-17; 17,1-26). to comunità locale.

Il corpo di Cristo come definì-

L'identità simbolica della comunicazione cristiana

...,
>. I suoi connotati sono più politici che religiosi. Paolo se ne serve di solito al plurale, per designare collettivaménte le comunità che egli stesso ha fondato oppure l'insieme del cristianesimo (Rom. 16,4.16; I Cor. 7,17; 11,16; 16,1.19; II Cor. 8,1 .18.1 9.23.24; 11 ,8.28; 12,13; Gal. 1,2.22; I Tess. 2,14 ) , al singolare per parlare di una particolare comu­ nità locale (Rom. 16,1 .5.23; I Cor. 1,2; 4,17; 11,18; 14,4.5.12.19.23.28; II Cor. 1,1; Fil. 4,15; I Tess. 1,1; Filem. 2 ) e, più raramente, al singolare, per parlare della chiesa universale (I Cor. 6,4; 10,32; 11 ,22: certi atti implicano disprez­ zo o distruzione della chiesa di Dio; I Cor. 15,9; Gal. 1,13; Fil. 3,6: Paolo ha perseguitato la chiesa di Dio) . Per Paolo, ciò che costituisce la chiesa è il battesimo (Gal. 3,26-29 ) . L'i­ dea non è quella di attribuire al battesimo un qualsiasi specifico significa-

332

5. I luoghi della fedeltà all'evento to magico o giuridico. Anzi, in I Cor. 1,10-17 Paolo sembra manifestare un certo disinteresse e un'evidente libertà nei riguardi della pratica sacra­ mentale. Il battesimo, per lui, è piuttosto il segno della morte dell'indivi­ duo alla sua vita precedente e della sua rinascita in novità di vita (Rom. 6,114). Per mezzo di quella partecipazione alla morte e alla risurrezione di Ge­ sù, il battezzato è «rivestito di Cristo>> (Gal. 3,26-29) e si trova incorporato a quell'unità che i credenti costituiscono in Cristo. Il costituirsi della chiesa, a partire dalla nascita del soggetto e dal gesto battesimale che la simboleggia, determina l'identità della chiesa, la defini­ zione che dà di se stessa e i principi in base ai quali si organizza. Ciò che ne costituisce l'essenza stessa, ossia il riconoscimento di ogni individuo, e quindi di ogni battezzato in quanto persona indipendentemente dalle sue qualità, implica un universalismo pluralista che le conferisce la sua forma: - ognuno dev'essere ricevuto, riconosciuto e amato con le sue proprie qualità, ossia nella sua particolarità e nella sua propria diversità; ognuno dev'essere considerato, in maniera egualitaria, come fratello o come sorella a pieno titolo. Per esprimere concretamente tanto l'universalismo pluralista ed egua­ litario che caratterizza la chiesa, quanto la singolarità trascendente della verità-evento che ne costituisce il fondamento Paolo usa tre volte l'imma­ gine del corpo. Tale immagine, per lui, può designare il corpo crocifisso di Cristo (Rom. 7,4), oppure, metaforicamente, il corpo di Cristo presente nel pane della Cena (I Cor. 10,16; 11 ,24.27), o ancora la comunità locale (l Cor. 10,17 e I Cor. 12,12.27 nell'argomentazione di I Cor. 12,4-31a), oppure la chiesa universale (Rom. 12,4-5 nell'argomentazione di Rom. 12,3-8). La metafora ha un duplice significato. - In primo luogo, la chiesa è il corpo di Cristo presente sulla terra sotto la forma della comunità. - Inoltre, la chiesa si struttura come un corpo le cui membra, diverse ed eguali, si completano reciprocamente. L'immagine del corpo, in quanto metafora che permette di interpretare la struttura di gruppi o di organismi sociali, era ben nota nell'antichità. Es­ sa consente di mettere in evidenza la necessità dell 'unità del corpo, come anche di coordinare reciprocamente le varie membra nella loro diversità. - L'idea dell'unità del corpo si applica perfettamente al cosmo intero (il mondo ha la struttura di un grande corpo 1 ), come pure alla società uma­ na (il saggio stoico sa che egli è solo una parte e un membro dell'insie­ me costituito dagli esseri dotati di ragione 2).

1 Cfr. PLAIDNE, Timeo; SENECA, Lettere XIV,92,30. 2 Cfr. EPITI'ETO, Dissertazioni, Il,10,3-4; MARCO AURELIO, Ricordi VII, l3.

333

Teologia del Nuovo Testamento L'idea della necessaria diversità delle membra serve come fondamento per una grande varietà di principi politici. Possono essere conservatori. La critica della rivolta delle membra attive contro lo stomaco indolente legittima, con un riferimento all'ordine della natura, la gerarchia delle classi socialè, oppure il richiamo ai rapporti del corpo con la testa giu­ stifica la struttura gerarchica dell'impero4. Ma possono anche essere egualitari: il sistema migliore è quello che stabilisce un equo rapporto tra i suoi membri, poiché qualsiasi squilibrio mette in pericolo l'insie­ me5 . E, per finire, possono essere dei principi di solidarietà: essendo membro e parte del tutto, il cittadino ha il dovere di cercare il bene co­ mune prima dei vantaggi personali 6• La forza dell'argomentazione di Paolo sta nel modo in cui collega le due idee. Da un lato, il corpo della comunità non è un dato naturale, ma è il cor­ po di Cristo costituito dai doni diversi dell'unico e medesimo Spirito. Per­ ciò la sua unità deriva dalla diversità che la costituisce: ciascuno ha rice­ vuto dallo Spirito un dono specifico, che gli conferisce una fW1Zione unica e privilegiata nell'insieme, cosicché il pluralismo fonda l'universalismo egualitario. D'altro lato, il vincolo che collega i membri gli uni agli altri è un evento di verità che ne fa dei soggetti in prima persona, chiamati ad amare se stessi e ad amare il loro prossimo come se stessi, nonché a colti­ vare tra di loro un rapporto «io-tu>> che li edifichi reciprocamente.

I Corinzi 12,4-31a l. Il medesimo Spirito è la sola fonte dei doni diversi concessi per l'utile comune. l.

Prima affermazione: l'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito è la fonte d i tutti i doni. 4Vi è d iversità di carismi, ma vi è un medesimo Spi rito. 5Vi è diversità di ministeri, ma non v'è che un medesimo Signore. 6Vi è varietà di operazioni, ma non vi è che un medesimo Dio, il quale opera tutte le

2.

Seconda affermazione: ogni dono

cose in tutti.

rito per il bene comune.

[carisma], che è manifestazione dello Spirito, è confe­

7A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune. 3. Illustrazioni: i carismi della riflessione teologica (I Cor. 12,8), i carismi dei miracoli e del­ le guarigioni (I Cor. 12,9-IOa) e i carismi di profezia e di discernimento degli spiriti (I Cor. 12,10b-c). 4. Riassunto e conclusioni 11 Ma tutte queste cose le opera quell'unico e medesimo Spirito, distribuendo i doni a ciascuno in particolare come vuole.

3 Cfr. LNIO, Ab urbe condita libri ll,32,9-12. 4 Cfr. SENECA, De clementia 1,2,1 . 5 Cfr. PLATONE, Repubblica V,462c-d; ARISIOTELE, Politica V,l302b-1303a. 6 Cfr. EPIITETO, op. cit., TI,l0,3-4.

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5. I luoghi della fedeltà all'evento Il. L'unità del corpo è costituita dalla diversità delle membra.

Si riprende la seconda affermazione: il corpo di Cristo è formato da molte membra che costituiscono un unico organismo. 12Poiché, come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo. 2. Prima spiegazione: le membra sono state tutte battezzate in un solo corpo. 13Infatti noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito, per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito. 3. Seconda spiegazione: un corpo è fatto di molte membra. 14Infatti il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra. 4. Illustrazioni: il piede e la mano (I Cor. 12,15), l'occhio e l'orecchio (I C or. 12,16-17). 5. Riassunto e conclusione 18Ma ora Dio ha collocato ciascun membro nel corpo, come ha voluto. 19Se tutte le membra fossero un unico membro, dove sarebbe il corpo? 2°Ci son dunque molte membra, ma c'è un unico corpo. l.

m. Le membra sono disposte nel corpo in modo da prendere cura partecipare alle sofferenze e alle gioie le une delle altre.

le une delle altre e da

l . Transizione: due illustrazioni, l'occhio e la mano (I Cor. 12,21a), i l capo e i piedi (I Cor. 2,21b). 2. Terza affermazione: le membra più deboli sono necessarie e hanno bisogno di particolari riguardi. 22Al contrario, le membra del corpo che sembrano essere più deboli, sono invece necessarie; 3. Illustrazione: i riguardi dovuti alle membra meno onorevoli. 23E quelle parti del corpo che stimiamo essere le meno onorevoli, le circondiamo di mag�ior onore; le nostre parti indecorose sono trattate con maggior decoro, 4mentre le parti nostre decorose non ne hanno bisogno; 4. Fondamento teologico ( / l I Cor. 12,18): Dio ha costruito il corpo in modo che le membra meno considerate siano oggetto di riguardi maggiori. 24ma Dio ha formato il corpo in modo da dare maggior onore alla parte che ne mancava, 5. Fondamento tramite lo scopo del dono di Dio: l'unità per mezzo dell'amore reciproco, 25perché non ci fosse divisione nel corpo, ma le membra avessero la medesima cura le une per le altre. 6. Conseguenza: la solidarietà delle membra nella sofferenza e nella gioia. 26Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui. IV. Diversità e unità dei ministeri.

Quarta affermazione: i membri della comunità costituiscono, in quanto membra di lui, il corpo di Cristo. 270ra voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua. 2. Fondamento teologico: (/l I Cor. 12,18 e 24b ): le membra che Dio ha collocato nel corpo di Cristo. 28E Dio ha posto nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori, poi miracoli, poi doni di guarigioni, assistenze, doni di govemo, diversità di lingue. 3. Illustrazioni: tutti non possono essere lo stesso membro. 29Sono forse tutti apostoli? Sono forse tutti profeti? Sono forse tutti dottori? Fanno tutti dei miracoli? :lfrJ"utti hanno forse i doni di guarigioni? Parlano tutti in altre lingue? Interpretano tutti? 4. Conclusione: transizione verso l'inno di I Cor. 13,1-13 ed esortazione a cercare il dono più importante, senza il quale gli altri non sono nulla: l'amore. 31Voi, però, desiderate ardentemente i carismi maggiori! l.

335

Teologia del Nuovo Testamento Le conseguenze della concezione paolina della chiesa come corpo di Cri­ sto e del riconoscimento fondamentale di ciascuno dei suoi membri come membro del corpo (Rom. 12,3-8; I Cor. 10,16; I Cor. 12,4-31) sono molto im­ portanti. In primo luogo, e contrariamente alle figurazioni politiche e religiose che prevalevano tanto nell'ebraismo quanto nel mondo ellenistico, la vi­ sione paolina della giustizia di Dio e del battesimo esclude ogni idea di cle­ ro e di conseguenza sopprime qualsiasi distinzione tra un ipotetico clero e un laicato. L'esistenza di un clero implica infatti la necessità di tma media­ zione tra la verità e i suoi adepti. Quindi, per Paolo, ciò che costituisce la diversità tra l'evangelo di Dio e gli evangeli degli uomini (che p oi non so­ no affatto evangeli) è apptmto la mancanza di tma mediazione religiosa della verità. L'evangelo di Paolo si eleva infatti come unicità assoluta di nn evento di verità che è verità del soggetto, il quale vi depone la sua fiducia e che sfugge a qualsiasi ordinamento istituzionale o religioso. Viceversa, tanto la vanità-evento dell'evangelo, quanto la conseguente concezione di tma chiesa in qualità di comunità di battezzati implicano che ogni credente, costituito dall'evangelo come soggettività individuale e re­ sponsabile, abbia ricevuto dallo Spirito un dono (nn «carisma>>) mediante il quale Dio agisce nell'insieme del corpo e rende ciascuno dei suoi mem­ bri un ministro della comunità (l Cor. 12,5). Con la metafora del corpo, Paolo non afferma, né in Rom. 12,3-8, né in I Cor. 12,4-31, una correlazione tra la diversità delle funzioni dell'organi­ smo e tma diversità di ministeri ecclesiastici. L'argomentazione paolina non si occupa delle capacità del corpo, bensì dei suoi singoli membri e dei nes­ si organici che li collegano; analogamente, non definisce l'ordinamento og­ gettivo di una disciplina ecclesiastica, bensì la nuova realtà che determina i rapporti interpersonali tra quegli uomini e quelle donne che la potenza dell'evangelo ha trasformato in nuove creature. Mantiene così, con coe­ renza, la sua prospettiva. Paolo parla di persone che, in quanto soggetti in­ dividuali, hanno ricevuto dallo Spirito dei doni che conferiscono a ciascu­ no la propria specificità nella comunità. Si tratta delle persone a cui è stata affidata la responsabilità di nn servizio (= di un ministero), a motivo del dono specifico che hanno ricevuto. Questa prospettiva soggettiva, che deriva da ciò che costituisce per Pao­ lo la realtà dell'evangelo, spiega perché le liste dei doni non possano coin­ cidere le une con le altre. Né l'enumerazione dell'Epistola ai Romani - che menziona i doni di profezia, di servizio, di insegnamento, di esortazione, di presidenza e di esercizio della misericordia (Rom. 12,6-8), né il saluto dell'Epistola ai Filippesi che menziona gli episcopi e i diaconi (Fil. 1,1) ­ coincidono con i diversi carismi menzionati nella Prima epistola ai Corin­ zi (l Cor. 12,8-10 e 27-29). Evidentemente, i doni delle persone che com­ pongono la comunità locale determinano in ogni singolo luogo la sua or­ ganizzazione.

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5. I luoghi della fedeltà all'evento Si potrebbe dire pertanto che Paolo definisce la comunità cristiana co­ me il luogo in cui si manifesta la fedeltà del soggetto individuale, luogo nel quale ogni persona, ri-creata dalla verità-evento in vista di una vita rinno­ vata di cui il battesimo è il segno, contribuisce con i doni particolari che ha ricevuto dallo Spirito per l'edificazione di ciascuno dei fratelli e delle so­ relle e dell'insieme del corpo di Cristo sulla terra.

5. 1 . 1 .3 La comunità giovannea come luogo della contemporaneità con il Figlio e con il Padre Si possono ricostituire soltanto in modo lacunoso le condizioni di vita delle comunità in cui ha avuto luogo l'elaborazione e la redazione del Van­ gelo di Giovanni . Secondo questo stesso vangelo, si può capire che il luo­ go in cui tali elaborazioni si sono sviluppate è quello delle sinagoghe libe­ rali di lingua greca della Siria e dell'Asia Minore da cui, contro voglia, quel­ le comunità sono state espulse (Giov. 9,22 ; 12,42; 16,2) nel quadro della ri­ strutturazione dell'ebraismo che ha fatto seguito alla distruzione del Tem­ pio di Gerusalemme. Sebbene esse riconoscano l'importanza assunta dal­ la persona di Pietro nel protocristianesimo (Giov. 21,1 5-19), la figura cen­ trale a cui si riferiscono è la persona del discepolo che Gesù amava (Giov. 13,21-30; 19,25-27; 20, 1-10; 21.1-14.20-25), la cui autorità è testimoniata da una cerchia di testimoni della rivelazione (Giov 1,14. 16; 3,11; 4,22; 9,4; 21,2425; I Giov. 1,1-5; 4,6.14). Le epistole di Giovanni, per la loro forma epistolare e per il loro conte­ nuto, implicano che il cristianesimo giovanneo era costituito da parecchie chiese (II Giov. 1.13; III Giov. 9.15). D'altra parte, si ignora quale tipo di rap­ porti tali chiese avessero mantenuto con le altre comunità della Siria e del­ l' Asia. Forse, nel luogo dove si trovavano, avevano costituito delle chiese locali o forse dei cenacoli particolari ai margini delle altre chiese. I termini tecnici, che nel cristianesimo delle origini designano la chiesa o i ministeri, non compaiono affatto nel Vangelo di Giovanni: «chiesa», «dia­ coni» ( «ministri»), «apostolo>>, nel mondo. Il peccato dei farisei sta nella loro pretesa di ve­ dere, ossia nell'atteggiamento esistenziale che consiste nel fondare la pro­ pria esistenza sul mondo, ossia su se stessi, e in tal modo a immunizzarsi contro l'evento della verità. Giovanni 10,1-6: la constatazione della necessità del fraintendimento, del­ l'accecamento e dell'incredulità è seguita, secondo la logica dal Vangelo di Giovanni (Giov. 6,36-40; 6,41-46; 6,60-65; 8,21-30; 12,37-50), da un'offerta di salvezza che assume la forma della (Giov. 10,6) del buon pasto­ re :

- il buon pastore entra dalla porta; - il portinaio gli apre;

338

5. I luoghi della fedeltà all'evento -

le pecore ascoltano la sua voce; chiama per nome le pecore che gli appartengono; le conduce fuori; cammina davanti a loro ed esse lo seguono perché conoscono la voce.

sua

n messaggio è il seguente: il Figlio sceso dal cielo, incarnazione della pa­ rola di Dio, è il legittimo buon pastore, che entra dalla porta perché è man­ dato dal Padre, e il Padre gli apre la porta perché a lui ha affidato le peco­ re (cfr. Giov. 6,39.65; 1 7,6.9.12). La caratteristica del pastore incaricato dal Padre consiste nello stabilire con le pecore un rapporto di reciproca fidu­ cia: il Figlio le chiama per nome e conferisce loro un'identità, mentre le pe­ core ascoltano la sua parola e lo seguono.

Giovanni 1 0,7-1 0: seguito del discorso di rivelazione e delle prime di­ chiarazione con la formula «io sono>>: «Io sono la Porta delle pecore» (Giov. 10,7), «io sono la Porta» (Giov. 10,9). - Gesù è la Porta delle pecore (Giov. 10,7) perché dà loro accesso al Padre. Ma il dare accesso al Padre dipende dal fatto che, nella sua persona e nella sua parola, egli è la verità-evento che conferisce la possibilità della sal­ vezza e comunica la vita. Egli comunica la salvezza appunto perché non è «del mondo>>, come i «ladri e briganti», ossia come i maestri di questo mondo che sono i farisei (Giov. 10,8), ma è il Figlio sceso dal cielo, in­ carnazione della parola di Dio. Pertanto, le pecore, ossia gli eletti del Pa­ dre («quelli che il Padre ha dato al Figlio>>), Giov. 6,39, o «coloro a cui il Padre ha dato di venire verso il Figlio» (Giov. 6,65), lo hanno ascoltato (Giov. 10,7-8). - Gesù è la Porta perché non è venuto per prendere («rubare, ammazzare e distruggere>>), ma perché è stato mandato per dare (Giov. 10,10). Se dunque non prende ma dà, è perché non appartiene al mondo che va in perdizione in quanto cerca di trovare la vita fondandosi su se stesso, ma perché, in quanto incarnazione della parola di Dio, egli è l'interruzione di ciò che «c'è» nel mondo. Egli è la singolarità assoluta della presenza di Dio nel mondo, che dà alle sue pecore la salvezza, la libertà di anda­ re e venire, il cibo che sazia e la vita in abbondanza (Giov. 10,9).

Giovanni 10,11-13: seguito del discorso di rivelazione e seconda dichiarazione con la formula «io sono>>: «lo sono il buon pastore>> (Giov. 10,11). Ciò che qualifica Gesù come buon pastore, e al tempo stesso lo distingue dai mercenari, ossia dai maestri di questo mondo, è, da un lato, il fatto che le pecore affidategli sono «le sue pecore» (Giov. 10,10 e 11-13), e, dall'altro, il fatto che per loro egli dà la vita (Giov. 10,10). La contrapposizione fra l'at­ teggiamento dei mercenari che sono pronti a fuggire e a perdere le pecore, e quello del buon pastore che è stato mandato per donare la vita per le pe­ core (Giov. 10,12-13) riprende il contrasto rubare-uccidere-distruggere l da339

Teologia del Nuovo Testamento re la propria vita (Giov. 10,10). Il paradosso dell'incarnazione provoca l'af­ frontarsi di due logiche esistenziali: quella dei ladri, dei briganti e dei mer­ cenari, e quella del buon pastore. I primi rappresentano la logica del mon­ do che consiste nell'ammassare per paura di perdere (Alexander Zinov' ev8), che riemerge e conduce alla morte. La logica del buon pastore è condotta dallo spirito del dono e della fiducia che determina tanto l'invio del Figlio da parte del Padre, e l'atto del Figlio che dona la sua vita per la sue peco­ re, quanto l'atteggiamento di fiducia di queste ultime. È una logica di vita, che viene dal Padre: il Figlio di Dio sceso dal cielo dà la sua vita offrendo­ la per le pecore, e il dono della vita da parte del buon pastore è il fonda­ mento della certezza e della fiducia di coloro che il Padre gli dà, ossia dei discepoli e di coloro che crederanno senza aver visto (Giov. 20,29).

Giovanni 10,14-18: seguito del discorso di rivelazione e terza dichiara­ zione con la formula (Giov. 10,14). - Gesù è il buon pastore a motivo del duplice rapporto di comunione re­ ciproca tra il Padre e il Figlio, e tra il Figlio e le pecore (Giov. 10,14-15), confermato dalla libertà del Figlio di fare dono della propria vita. La strut­ tura triangolare viene sviluppata nei discorsi di addio (Giov. 14,20; 15,910; 1 7,22-23): la reciproca conoscenza del Padre e del Figlio, e la cono­ scenza reciproca del pastore e delle sue pecore forniscono ai discepoli la condizione per partecipare alla conoscenza del Padre, cosicché il para­ dosso dell'incarnazione istituisce un triplice rapporto di comunione tra il Padre e il Figlio, tra il Figlio e i discepoli, e tra il Padre e i discepoli. Giovanni 1 0,14-15 � 14Io sono il buon pastore � --

14conosco le mie [pecore] e le mie conoscono me

41(



�e

lScome il Padre mi co e io conosco il Padre

- La comunione con il Padre e il Figlio, resa possibile dal buon pastore, non si limita alla prima generazione dei contemporanei storici di Gesù, ma si allarga ad altre pecore che non fanno parte di quell'ovile (Giov. 10,16). La promessa introduce una prospettiva storica che ingloba in un'unica comunità («un solo gregge e un solo pastore») l'insieme pas­ sato, presente e futuro di tutti coloro che udranno la sua voce. Presen­ tandosi come colui che è fin d'ora il loro pastore («ho altre pecore») che dovrà condurle e che esse ascolteranno, Gesù non si accontenta di assi­ milare i discepoli di seconda mano a quelli di prima mano che avranno offerto loro l'occasione di credere, ma garantisce egli stesso, con il pa­ racleto (Giov. 14,26), la loro contemporaneità con la sua parola e la sua 8 Cfr. A. Z!NOV'EV, Notes d'un veilleur de nuit, Losanna, L'Age d'homme, 1979, pp. 155-156.

340

5. I luoghi della fedeltà all'evento persona. La chiesa di Giovanni vive dunque del paradosso secondo il quale la verità-evento prodottasi nella singolarità storica dell'incarna­ zione rimane presente, e la conduce nell'istante dell'incontro sempre at­ tuale con la parola fatta carne. - Se il Figlio rende contemporaneo il contenuto della rivelazione del Pa­ dre, ciò dipende dall'amore del Padre per il Figlio. Tale amore del Pa­ dre per il Figlio deriva dal fatto che il Figlio adempie il comandamento del Padre (Giov. 10,17-18). Tuttavia, il Figlio adempie la volontà dal Pa­ dre (Giov. 15,10) dando e riprendendo la propria vita. La dichiarazione secondo la quale il Figlio dà la propria vita e la riprende implica un'in­ terpretazione della morte di Gesù e dell'evento pasquale che fa di lui il soggetto della sua traiettoria terrestre. Il racconto giovanneo della pas­ sione (Giov. 18,1 - 19,30), che attribuisce a Gesù l'iniziativa del proprio arresto, del suo dialogo con Pilato e della sua crocifissione, sottolinea la prima parte della dichiarazione seguente: «Nessuno me la toglie [= la mia vita], ma la depongo da me» (Giov. 10,18a). L'interpretazione della morte di Gesù come innalzamento (Giov. 3,14; 8,28; 12,32}, come glori­ ficazione (Giov. 13,31 -33; 17,1-5) e come ritorno al Padre (Giov. 7,33-36; 8,21-22; 13,31-33) rende conto della seconda parte di quella dichiarazio­ ne: Gesù riprende la sua vita nel ritornare al Padre. Se dunque il Van­ gelo di Giovanni fa di Gesù un soggetto libero dal principio alla fine del­ la sua traiettoria terrestre, ciò dipende dal fatto che l'invio del Figlio da parte del Padre ha lo scopo di manifestare, con il paradosso dell'incar­ nazione e con quello della morte in croce, l'esteriorità del Padre e del Fi­ glio rispetto al mondo. Si potrà quindi sostenere che a fondare l'autocomprensione della co­ munità giovannea è la confessione della fede che afferma la trascenden­ za della rivelazione che la costituisce: la chiesa del Figlio di Dio sceso dal cielo è stata costituita dal Padre che ha inviato il Figlio per affidargli le pecore che aveva già ritirato dal mondo per affidargliele. Essa quindi si autodefinisce come la cerchia dei discepoli scelti dal Padre (Giov. 6,39.65; 17,2.9.12) o dal Figlio (Giov. 15,16) per partecipare alla comunione del Pa­ dre e del Figlio. L'insistenza sulla predestinazione non chiude la cerchia dei discepoli. Infatti, fin dalla sua fondazione quella cerchia è aperta a tutti coloro che crederanno, tanto a causa della persona e delle opere del Figlio, quanto a motivo della testimonianza del paracleto (= Spirito santo) o della parola dei discepoli della prima generazione. Il messaggio essenziale della predesti­ nazione consiste nell'eliminare il malinteso secondo cui la fede e la nuova nascita > sul puro e l'impuro (Mc. 7,1 7), spiega loro il motivo per cui non hanno potuto cacciare lo spirito immondo dal ra­ gazzo indemoniato (Mc. 9,33) e indica loro l'applicazione del detto sul di­ vorzio (Mc. 10,10). Ovviamente, l'immagine di un Gesù che rientra regolarmente in casa con i discepoli per commentare con loro la propria attività all'esterno pa­ re contraddire l'idea del cammino e di un'esistenza itinerante che parte dalla Galilea e persino da Cesarea di Filippo (Mc. 8,27) per recarsi in Giu­ dea (Mc. 10,1). La logica infatti non risiede nella rappresentazione sim­ bolica, bensì nel significato a cui essa rinvia: ritrovarsi con Gesù nella sua

casa, ascoltarvi la Parola o i suoi insegnamenti, significa vivere la convivialità 343

Teologia del Nuovo Testamento

con Gesù e prendere la via che egli stesso ha seguito, quella del dono di sé e del­ la fiducia (Mc. 8,34-38). Il terzo luogo simbolico è la barca. In generale, Gesù vi si trova con i suoi discepoli, con (Mc. 4,11) e dipendono dalle spiegazioni supple­ mentari di Gesù (Mc. 4,13). Gli altri tre episodi che avvengono sulla barca (Mc. 4,35-41; 6,45-52; 8,1421) si svolgono in modo parallelo. I discepoli prendono Gesù nella barca (Mc. 4,35-36), Gesù li obbliga a salire da soli sulla barca (Mc. 6,45) per rag­ giungerveli più tardi (Mc. 6,48-50), oppure vi si ritrovano insieme (Mc. 8,14). Poi si produce una situazione che spinge i discepoli alla disperazione. La prima volta si tratta della tempesta in cui credono di andare in malora, seb­ bene Gesù sia con loro e dorma placidamente. La seconda volta li spaven­ ta il fatto che arrivi di notte camminando sulle acque (Mc. 6,49-50). La ter­ za volta si inquietano perché non hanno altro che un solo pane nella barca (Mc. 8,14). La prima volta Gesù chiede loro perché essi non hanno ancora fede (Mc. 4,40). Il gesto di Gesù che esorcizza il mare motiva il suo impli­ cito appello alla fiducia. La secondo volta si presenta («sono io>> = «io so­ no»: Mc. 6,50; cfr. Giov. 8,28; 18,5.6.8; Es. 3,14), li invita a non avere paura e a riprendere coraggio, e il vangelo constata che non hanno capito il mi­ racolo dei pani (Mc. 6,30-44) perché il loro cuore era indurito. La terza vol­ ta Gesù li mette in guardia contro il lievito dei farisei e di Erode, ossia con­ tro la loro incomprensione (Mc. 8,15), domanda loro se non afferrano e non capiscono (Mc. 8,17), se il loro cuore è indurito (Mc. 8,1 7), se, come «quelli di fuori» di Mc. 4,1 1, abbiano degli occhi ma non vedano, delle orecchie ma non odano (Mc. 8,18), e ricorda loro i due miracoli dei pani (Mc. 8,19-21; cfr. Mc. 6,30-44 // 8,1-10). La barca è un luogo cruciale della strutturazione drammatica del Van­ gelo di Marco nella misura in cui mostra che la vicinanza di Gesù non im­ pedisce affatto l'incomprensione e l'umana impossibilità di credere. 344

5. I luoghi della fedeltà all'evento

5. 1.2.2 L'incomprensione dei discepoli e la fede dei ciechi: l'ecclesiologia di Marco Il messaggio essenziale del Vangelo di Marco, drammaticamente rap­ presentato in due modi diversi dai discepoli e dai ciechi, è l'appello a cre­ dere in Dio, alla sua buona notizia (all' > (Mc. 1,1 7.20; 8,33.34) e del verbo «seguire» è una reminiscenza della vocazione rivolta da Elia a Eliseo (I Re 19,19-21). Il duplice compito affidato ai quattro viene precisato nell'appel­ lo rivolto ai Dodici (Mc. 3,13-19); Gesù forma il gruppo dei suoi discepoli affinché essi rimangano con lui allo scopo di mandarli a predicare e abbia­ no autorità di cacciare i demoni (Mc. 3,15-16). A questo scopo li invia due a due conferendo loro autorità sugli spiriti impuri (Mc. 6,6b-13). Gli invia­ ti (: Mc. 6,30) adempiono la loro missione con successo: pre­ dicano la conversione, cacciano molti demoni, ungono parecchi malati e li guariscono (Mc. 6,12-13), cosicché che le folle confluisc o;\0 verso Gesù (Mc. 6,30-33). I discepoli, che hanno abbandonato le loro imprese e le loro fami­ glie allargate, accompagnano Gesù (Mc. 4,35-53; 8,13-21; 8,27-30) e conver­ sano con lui a proposito del suo insegnamento (Mc. 4,10-34; 7,1 7-23; 9,3050; 10,10-12; 10,23-31; 10,33-45). Nel Vangelo di Marco, il verbo (Mc. 10,42-43). La loro ragion d'essere è la vocazione che è loro rivolta e il compito loro affidato di annunciare al­ le folle la Buona Novella trasformatrice della presenza incondizionata del regno di Dio, di cacciare i loro demoni, di liberarle dalla loro disperazio­ ne e di guarirle.

5. 1 .2.3 La chiesa del Vangelo di Matteo: seguire il Signor Gesù Tra la riflessione del Vangelo di Marco sulla chiesa e la sua presenta­ zione nel Vangelo di Matteo si notano chiaramente degli spostamenti di ac­ centi. Infatti, la realtà della chiesa non vi è più prospettata soltanto come implicazione di un'analisi della condizione umana stretta tra la dispera­ zione e la fiducia, bensì, direttamente e indirettamente, come un tema del­ l'insegnamento di Gesù. Il concetto stesso di «chiesa» compare nella promessa che segue la con­ fessione di Pietro. Questi riconosce Gesù come il Cristo e il Figlio del Dio vivente (Mt. 16,16) e Gesù replica dichiarando, da un lato, che la compren­ sione petrina non è di origine umana, ma che deriva da una rivelazione del Padre celeste (Mt. 16,17), e, d'altro Iato, annunciando che Pietro è la pietra su cui egli edificherà la sua chiesa (Mt. 16,18). Qui il termine de­ signa la chiesa universale e non la comunità locale, come avviene invece quasi sempre nelle lettere di Paolo. La chiesa pertanto non è la chiesa di Dio, bensì la chiesa di Cristo, che Cristo edifica. Ne consegue che Cristo non è più il messaggero del regno di Dio, che chiama alla fede in Dio, ma è il Signore del mondo e della chiesa. 347

Teologia del Nuovo Testamento Tale spostamento della cristologia ha come conseguenza immediata un cambiamento nella comprensione della condizione del discepolo. La figura dei discepoli - che nella presentazione di Marco era quella di compagni di Ge­ sù e di alunni che imparano da lui a non più vivere secondo i pensieri de­ gli uomini, bensì, fiduciosamente, secondo i pensieri di Dio - assume nel­ la narrazione di Matteo una nuova consistenza (Jean Zumstein9). - Da un lato, Matteo ha, rispetto a Marco, la tendenza a presentare i disce­ poli di Gesù come un gruppo omogeneo e non differenziato. In Mt. 21,20 e in Mt. 28,7 sostituisce il nome di Pietro con «i discepoli>>. Il gruppo dei tre o dei quattro discepoli intimi di Gesù è ripreso in Mt. 1 7,1 e in 26,37, ma Matteo evita di menzionarlo in Mt. 9,23 e 17,14, mentre in Mt. 17,6 e in Mt. 24,3 il gruppo sparisce a favore dell'insieme dei discepoli. In Mt. 13,10 Matteo omette la distinzione che Marco fa tra i Dodici e altre per­ sone che circondano Gesù (Mc. 4,10), inoltre, in Mt. 24,1 è la domanda dei discepoli e non quella di di loro che introduce il discorso apo­ calittico di Gesù. Invece di ridurre i personaggi esemplari che servono a con­

trapporre gli atteggiamenti esistenziali e a interpretare la condizione umana, il primo vangelo crea la categoria del discepolo che, nella narrazione, rappresen­ ta la comunità dei credenti.

- Tale tendenza, da un lato, è chiaramente rafforzata dalla netta distin­ zione che Matteo introduce tra il gruppo dei discepoli e la folla (Mt. 5,1; 13,10; 14,19; 15,36). Sono i discepoli che fanno la volontà di Dio (Mt. 12,49) e non un gruppo indeterminato (Mc. 3,34). Infine, e soprattutto, gli appelli alla sequela sono rivolti soltanto ai discepoli (Mt. 8,21; 10,5; 10,37-39; 16,24; 19,23-30) e non ai discepoli e alla folla (Mc. 8,34), cui si rivolgono gli appelli alla sequela (Mt. 8,21; 10,5; 10,37-39; 16,24; 19,2330) . Sebbene la presentazione della trama della storia di Gesù abbia una prospettiva universale, l'interesse del Vangelo di Matteo non si concentra

sulla condizione umana, bensì su quella dei discepoli. La funzione che il vangelo attribuisce al gru ppo dei discepoli emerge in modo particolarmente netto nei racconti di controversie e in quelli di miracoli. I racconti di controversie in cui compaiono i discepoli (Mt. 9,9-13; 9,1417; 12,1-8; 15,1-20; 19,3-12) sono tutti costruiti sullo stesso schema argo­ mentativo. Salvo Mt. 19,3-12, i discepoli fanno la figura degli accusati. I fa­ risei (Mt. 9,11; 12,1; 19,3), accompagnati talvolta da altri gruppi (i discepo­ li di Giovanni Battista: Mt. 9,14; gli scribi: Mt. 15,1), ritengono di constata­ re che il loro comportamento trasgredisce la legge. Infatti, seguendo l'e­ sempio di Gesù, essi mangiano con i peccatori (Mt. 9,11), non digiunano (Mt. 9,14), violano il sabato (Mt. 12,2) o hanno rinunciato a praticare le ablu9 Cfr. J. ZUMSTEIN, La condition du croyant dans l 'évangil e de Matthieu, Friburgo-Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1977.

348

5. I luoghi della fedeltà all'evento zioni rituali prescritte dalla tradizione degli anziani (Mt. 15,2). Nel rispon­ dere, Gesù prende le difese dei discepoli, mostrando come il loro compor­ tamento sia conforme al principio della misericordia (Mt. 9,13; 12,8 Os. 6,6) e alla volontà creatrice di Dio (Mt. 19,4-5 Gen. 1,27 e 2,24). Dal punto di vista dell'adempimento della legge, così come è venuto a insegnar/o e a prati­ carlo il Gesù di Matteo, che subordina il rispetto dei comandamenti alla giustizia manifestata nella bontà universale della misericordia di Dio (Mt. 5,1 7-20), essi sono dunque innocenti (Mt. 12,5.7). =

=

- I tre racconti di miracoli che mettono in scena i discepoli sono tutti in­ centrati sul loro rapporto con Gesù. Il primo è quello della tempesta se­ data (Mt. 8,23-27) che Matteo riduce a illustrazione dell'appello alla se­ quela (Mt. 8,18-22). Tanto la paura dei discepoli sulla barca circondata dai marosi, quanto l'insuccesso di Pietro nel camminare sulle acque nel secondo racconto (Mt. 14,22-33), come pure l'incapacità dei discepoli di guarire il bambino epilettico nel terzo (Mt. 17,14-20) hanno tutti una so­ la e medesima spiegazione: la loro poca fede. Matteo ha incontrato in­ cidentalmente il concetto di > (Mt. 4,20.22.25; 8,1 . 1 0 . 19.22.23; 9,9.19 .27; 10,38; 12,15; 14,13; 16,24; 19,2.21 .27.28; 20,29.34; 21,9; 26,58; 27,55; redazionale in Mt. 4,25; 8,1; 8,23; 9,27; 14,13; 19,2; 20,29) è diventato per Matteo un termine tecnico. Indica l'atteggiamento esistenziale di colui che rinuncia a tutto per vivere nella fi­ ducia nella magnanimità provvidenziale del Padre celeste e per compiere la sua volontà, che consiste nel vivere della gratuità del dono e della mu-

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Teologia del Nuovo Testamento tua riconoscenza tra le persone che ne deriva. Nella storia della sequela 10, i discepoli sono afferrati dalla paura e dal dubbio a causa della loro poca fede. Tuttavia, gli atti provvidenziali e miracolosi di Gesù rendono testi­ monianza della presenza di colui che è ormai il Signore del mondo (Mt. 28,18-20), che risponde alla preghiera di coloro che lo invocano (Mt. 8,25; 1 7,15) e che salva la sua chiesa dallo sconforto. 5. 1 . 2.4

La missione universale del giudeo-cristianesimo

Un punto importante nell'interpretazione del Vangelo di Matteo è il du­ plice problema del rapporto del cristianesimo con Israele e dell'apertura del­ la missione universale. L'invio pasquale dei discepoli, incaricati dal Signo­ re risorto di andare e di battezzare tutti i popoli (Mt. 28,18-20), contraddice con il suo universalismo le istruzioni che Gesù aveva dato nel suo discorso prepasquale con cui inviava i discepoli in missione (Mt. 9,35 - 1 0,42). M.atteo 1 0,5-8

M.atteo 28,18-20

SOuesti sono i dodici che Gesù mandò [in missione], dando loro queste istruzioni: «Non andate tra i pagani e non entrate in nessuna città dei Sarnaritani, 6rna andate piuttosto verso le pecore per­ dute della casa d'Israele. 7Andando, predicate e dite: "ll regno dei cieli è vicino". Bcuarite gli ammalati, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamen­ te date».

18E Gesù, avvicinatosi, parlò loro [agli Un­ dici] dicendo: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sul­ la terra. 19Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli (pagani] battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente».

Evidentemente, lo spostamento con cui si passa dalle istruzioni del di­ scorso missionario ( Mt . 10,5-8) all'insegnamento del Risorto (Mt. 28,18-20) corrisponde a una modifica delle rappresentazioni dell'opera e della per­ sona di Cristo. La consegna di limitare la missione al popolo d'Israele {Mt. 10,5b-6) adempie il programma annunciato nei racconti dell'infanzia di Gesù (Mt. 1,1 - 2,23). Infatti, nel racconto dell'annunciazione, l'angelo del Signore ave­ va promesso a Giuseppe un figlio al quale doveva dare il nome di Gesù perché doveva essere l'Emmanuele inviato per salvare il suo popolo dai lo­ ro peccati (Mt. 1,21-23). Coerentemente, la descrizione della missione dei discepoli in M t. 10,5-42, in Mt. 23,34-36 e in Mt. 24,9-14 rimane nel quadro dell'ebraismo: il Signore invia a Israele dei profeti, dei saggi e degli scribi 1° Cfr.

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D. BoNHOEFFER, Sequela, Brescia, Queriniana,

19712.

5. I luoghi della fedeltà all'evento (Mt. 23,34; a proposito degli scribi, cfr. Mt. 13,52) che sono dei missionari cristiani verso le sinagoghe. I pagani riceveranno al massimo una testimo· nianza quando i discepoli, tradotti davanti ai tribunali dalla comunità ebrai­ ca della diaspora, dovranno rendere conto della loro fede (Mt. 10,18; 24,14). Viceversa, l'invio pasquale degli Undici è preceduto da una dichiara­ zione nella quale Gesù si presenta come colui a cui è stato dato ogni pot� re in cielo e sulla terra. La prospettiva è dunque cosmica e universale, di modo che il mandato ricevuto dai discepoli è di fare di tutti gli abitanti del­ la terra dei discepoli del Risorto. Come si può vedere, Matteo presenta, al pari di Paolo, una visione del­ l'umanità spezzata in due. Per l'apostolo dei pagani la rottura è operata dalla «croce>>, ossia dall'incontro con il Crocifisso, che fa nascere la nuova creatura. Nel Vangelo di Matteo se ne trova la traccia nel fatto che l'an­ nuncio del futuro giudizio finale sulle nazioni (Mt. 25, 3 1-46) è preceduto dal giudizio già pronunciato dal Gesù terreno su Israele e su Gerusalem­ me (Mt. 23,34-39). Un modo di spiegare la frattura consiste nell'applicare a Matteo la con· cezione paolina del tempo e della storia. Matteo dà testimonianza della svol­ ta di Pasqua che per via del messaggio pasquale trasforma il cristianesimo, rimasto fino ad allora un movimento ebraico, in una buona notizia univer· sale. Tale costruzione si armonizza perfettamente con la parabola dei vi­ gnaioli omicidi (Mt. 21,33-46) : l'assunzione di nuovi operai affinché portino frutto è la reazione del padrone della vigna, ossia del Padre, alla morte di Gesù. Ne consegue che la predicazione pre-pasquale di Gesù e dei discepo­ li dev'essere intesa, in continuità con quella dei profeti, come l'ultimo av­ vertimento rivolto a Israele, e che la morte violenta di Gesù è il punto di par­ tenza di un'epoca nuova. A tutto ciò si può obiettare che, diversamente da Mc. 6,6b-13, tanto il discorso di invio di M t. 9,35 - 10,42 quanto quelli di Mt. 23,34-36 e Mt. 24,9-14, annunciano la missione dei profeti cristiani dopo la morte di Gesù. La parola sul giudizio di Mt. 23,34-39 presuppone effettiva­ mente un'altra visione della storia, che coincide con quella esposta nella pa· rabola della festa nuziale (M t. 22,1-14). La morte di Gesù, secondo questo se­ condo schema della storia della salvezza, costituisce il punto di partenza di un nuovo appello di Dio (Mt. 22,8-10) o del Signore (Mt. 23,34) alla conver­ sione di Israele, di modo che il giudizio contro Israele manifestatosi nella di­ struzione del Tempio è provocato dal rifiuto, dalla persecuzione e dall'ucci­ sione dei profeti cristiani da parte della sinagoga. L'apertura della missione ai pagani deriva pertanto, come nella storiografia lucana, dall'incredulità di Israele. Quest'ultima, tuttavia, non trova la sua espressione suprema nella morte del Giusto, bensì nel rifiuto dei suoi avvertimenti profetici (Mt. 23,1336) e dell'ultima opportunità offerta dai suoi inviati (Mt. 23,34-36). Il concorrere di due diversi modelli di storia della salvezza ci costringe a cercare altrove la logica che unisce l'apparente nazionalismo e l'univer­ salismo di Matteo.

351

Teologia del Nuovo Testamento Dunque, la massima che conclude gli ordini del discorso missionario è rinvio al messaggio essenziale del Sermone sul monte. Il principio che dirige la concezione matteana della missione verso Israele non è quello dell'elezione, come nel caso dei falsi fratelli denunciati da Paolo (Gal. 2,110) o dei missionari che esigono la circoncisione degli etnico-cristiani (Gal. 5,2-12; 6,11-18), bensì quello dello spirito del dono: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt. 10,8). La missione dei discepoli si orien­ ta in primo luogo verso la sinagoga non perché i pagani siano esclusi dal regno, ma perché Israele costituisce una priorità. La ragione di tale prio­ rità è poi fornita dallo stesso Sermone sul monte. Essa non appartiene a un nazionalismo del Patto che limiterebbe al popolo eletto l'invito divino. A questo proposito è importante osservare che le due parabole dei vignaioli omicidi (Mt. 21 ,33-46) e della festa di nozze (Mt. 22,1-14), che presuppon­ gono l'elezione speciale di Israele, sono presentate da Matteo come degli avvertimenti rivolti ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo e non co­ me un programma teologico. Infatti, una proclamazione del regno e della volontà di Dio, che si limitasse sia pur provvisoriamente all'uditorio par­ ticolare di una cerchia di eletti, sarebbe in contraddizione con l'universa­ lismo implicito nella logica della gratuità, che ne costituisce una caratteri­ stica essenziale. I discepoli di Matteo hanno una responsabilità verso Israele per il fat­ to che i membri della sinagoga sono i loro fratelli nemici, e perché il rap­ porto «io»-«tu», che sta alla base della paternità della magnanima prov­ videnza del loro Padre celeste, esige che essi cerchino in primo luogo la riconciliazione con coloro che sono loro più prossimi (Mt. 5,23-24: «Se [ . . . ] ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te [ ... ] va' prima a riconci­ liarti con tuo fratello»; Mt. 5,44: > a costituirsi nella fiducia, nell'amore e nell'in­ condizionato riconoscimento di Dio, non è dunque un incitamento a pec­ care, ma è la liberazione dalla potenza del peccato. L'argomentazione evoca il gesto simbolico del battesimo: l'immersione e il riemergere del battezzato fuori dall'acqua simboleggiano la morte dell' «uomo vecchio>> (Rom. 6,6) e la rinascita della soggettività individua­ le della nuova creatura. Mediante quella morte e quella risurrezione, i cre­ denti sono stati associati al destino di Cristo (Rom. 6,3). Sono stati sepolti con lui (Rom. 6,4), inseriti, innestati sulla sua morte, crocifissi (Rom. 6,5-7) e sono morti con lui (Rom. 6,8-10), di modo che, come Cristo è risuscitato di tra i morti, così anch'essi conducono una nuova vita (Rom. 6,4), sono li­ berati dal peccato che regnava sul loro «uomo vecchio>>, partecipano alla sua risurrezione (Rom. 6,5-7) e vivranno con lui (Rom. 6,8-10). L'argomentazione si sviluppa sulle due dimensioni del parallelismo e dell'asimmetria, che sono indissolubilmente connesse. - Il destino dei credenti è parallelo al destino di Cristo. Con la sua morte, egli è morto una volta per tutte, di modo che, essendo stato risuscitato dai morti, egli sfugge definitivamente al regno della morte. Similmen­ te, i credenti, morendo alla loro vecchia esistenza, sono anch'essi libe­ rati una volta per tutte dall'impero del peccato. - Il destino dei credenti è asinunetrico rispetto a quello di Cristo. Infatti, se Cristo è stato crocifisso e risuscitato dai morti, il morire dei credenti alla potenza del peccato li conduce in pari tempo al presente di una vi­ ta nuova e alla promessa di una risurrezione futura. La tensione tra la vita nuova già conferita e l'adempimento ancora fu turo lascia spazio al­ la dialettica istituita da Paolo tra l'indicativo (Rom 6,1-10) e l'imperati­ vo (Rom. 6,11-14): se i credenti non sono più sotto l'impero del peccato, debbono condursi come persone libere nei suoi confronti. Potremo dunque dire che, per Paolo, il battesimo è un gesto simbolico che interpreta il sorgere della nuova creazione suscitata dall'incontrare, nel­ l'evangelo, la verità-evento della giustizia di Dio come associazione alla morte e alla risurrezione di Cristo, mediante la quale il nuovo soggetto muo­ re al peccato per rinascere come nuova creatura . Esistenzialmente, esso im­ plica un cambiamento di signoria: liberato dal peccato, ossia dalla dispe­ rante sforzo di fondarsi su se stesso, l' «uomo nuovo>> è chiamato a mette­ re la sue membra al servizio del Crocifisso.

356

5. I luoghi della fedeltà all'evento

5.1 .3.2 Giovanni: mangiare il pane disceso dal cielo L'idea di morire alla passata esistenza per una rinascita, che può venire intesa soltanto come una ri-creazione da parte di Dio, si trova anche nel Vangelo di Giovanni. l due grandi dialoghi di Gesù con Nicodemo (Giov. 3,1-21 ) e con ia don­ na samaritana (Giov. 4,4-26), che dominano l'inizio del quarto vangelo, ri­ velano in due modi assai diversi come, per entrare nel regno del Padre, sia necessario rinascere dall'alto e riceve l'acqua della vita che Gesù dà ed è. «Se uno non è nato d'acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Giov. 3,5). Questa dichiarazione chiarisce quella che precede: «Se uno non è nato di nuovo [il francese dice: «se uno non rinasce dall'alto»; N.d. T.] non può vedere il regno di Dio» (Giov. 3,3). Lo Spirito è la potenza che rende possibile una rinascita mediante la quale la soggettività individuale non ri­ cava più la propria origine e identità dal mondo, bensì dal Padre (cfr. Giov. 6,44.65). Ne consegue che, per Giovanni, il battesimo è il gesto simbolico della nuova nascita dallo Spirito, «dall'alto», ed è il segno della fede, dell'ade­ sione al Figlio sceso dal cielo e della fiducia nella sua parola. L'insegnamento sulla cena del Signore forma la conclusione del lungo episodio (Giov. 6,1-59), che è introdotto dal segno della moltiplicazione dei pani, nel quale Gesù è presentato come il pane di vita sceso dal cielo. La sequenza comincia con due racconti di segni (la moltiplicazione dei pani e la rivelazione di Gesù che cammina sulle acque: Giov. 6,1-15 e 1621). Gesù, che si è ritirato, viene raggiunto dalla folla (Giov. 6,22-25a). Dal­ le domande di quest'ultima nascono due dialoghi. - Il primo avviene tra Gesù e la folla (Giov. 6,25b-40) sul significato del pane ricevuto al momento della moltiplicazione miracolosa e sull'iden­ tità del pane sceso dal cielo che Dio dona in Gesù e mediante Gesù. - Il secondo è un doppio dialogo tra Gesù e gli ebrei (Giov. 6,41-50), i qua­ li prima si scandalizzano per la presentazione che Gesù fa di se stesso come pane di vita sceso dal cielo (Giov. 6,41-51) e poi per il suo invito a mangiare la sua carne (Giov. 6,52-59). Il dialogo tra Gesù e la folla (Giov. 6,25b-40) ha lo scopo di rivelare che Gesù è il vero pane di vita sceso dal cielo e, pertanto, di eliminare i malintesi che impediscono la comprensione da parte dei suoi interlocutori. La difficoltà di com­ prensione di costoro dipende dall'incapacità dell'umanità, rappresentata dalla folla e dagli ebrei, di capire Dio e l'invio di suo Figlio altrimenti che come un fenomeno immanente che deriva da ciò che «c'è» nel mondo. La folla rappresenta la prima forma assunta, nel Vangelo di Giovanni, da quel­ l' incomprensione: la folla, con la sua percezione bidimensionale, riduce l' as­ soluta unicità dell'incarnazione a un evento interno all'umana realtà. l. La prima domanda della folla (Giov. 6,25b), provocata dai due «segni» operati da Gesù (Giov. 6,1-15 e 16-21), lo interroga sul procedimento miracoloso per il quale egli si trova sulla riva opposta del lago.

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Teologia del Nuovo Testamento La risposta di Gesù (Giov. 6,26-27) introduce un primo distinguo. Le fol­ le non lo cercano perché hanno visto un segno, ma perché sono state sa­ ziate. Tale contrapposizione tra «vedere un segno» ed «essere saziati» met­ te in evidenza la distanza esistente fra i due modi di percepire il gesto di Gesù: la percezione «dal basso» e quella «dall'alto>>. La folla è impressio­ nata, a giusto titolo, dall'azione miracolosa di Gesù e si rallegra con ragio­ ne per l'abbondanza di pane che ne è risultato. Tuttavia, Gesù l'invita a ren­ dersi conto che il miracolo, in quando segno, ha un altro significato: se so­ no stati saziati, cerchino dunque il pane che è offerto dal Figlio dell'uomo e che dà la vita eterna. cercare il pane del Figlio che dà la vita eterna

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significato simbolico

saziarsi con i pani

La prima domanda della folla (Giov. 6,28) si collega immediatamente al­ la risposta di Gesù e deriva dalla distinzione che egli ha appena effettuato: satollata dai pani, la folla spera ora di ricevere il cibo che non perisce, ma che permane. La sua nuova domanda è dunque: come ci si può impegna­ re per le opere di Dio. La risposta di Gesù (Giov. 6,29) afferma che occorre credere a colui che il Padre ha mandato.

2. La seconda domanda della folla (Giov. 6,30-31) discende nuovamen­ te dalla dichiarazione che la precede. Essa esige che Gesù, che si pre­ senta come l'inviato del Padre, offra un segno che legittimi le sue pre­ tese e che dia alla folla una ragione per credere in lui. L'esempio che viene citato, della manna che i padri hanno mangiato nel deserto, mostra come la folla abbia capito che i pani che l'hanno saziata pos­ siedano un significato simbolico, ma mostra pure come essa intenda tuttora la realtà che essi simboleggiano come una realtà interna a ciò che «vi è>> nel mondo. Infatti, la particolarità della manna consiste nell'essere effettivamente un pane «di questo mondo>>, disceso dal cielo, mentre il Figlio, inviato dal Padre, costituisce un pane che non è «di questo mondo>>. La risposta di Gesù (Giov. 6,32-33) introduce quindi una seconda di­ stinzione tra il pane che Dio ha dato nel deserto e il pane che Dio dà ades­ so per trasmettere la vita al mondo. 358

5. I luoghi della fedeltà all'evento ricevere da Dio il pane autentico (= non dal fornaio) che dà la vita eterna al mondo

\

,;gn;ficoto >) introduce, do­ po i due «segni» di Giov. 6,1-15 e Giov. 6,16-21, un terzo gesto sim­ bolico che riguarda il dono e l'accoglienza del pane di vita sceso dal cielo. La risposta di Gesù comincia con una dichiarazione assiomatica: masti­ care la carne del Figlio di Dio e bere il suo sangue è la condizione necessa­ ria per avere la vita eterna e per essere risuscitati all'ultimo giorno (Giov. 6,53-54). Segue una spiegazione che riprende la distinzione tra la manna e il vero pane sceso dal cielo (Giov. 6,32): il vero cibo è la carne del Figlio di Dio e la vera bevanda è il suo sangue (Giov. 6,55). La ripetizione della pro-

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5. I luoghi della fedeltà all'evento

messa secondo cui chi mangerà la carne e berrà il sangue di Gesù vivrà in lui e rimarrà nella comunione del Padre e del Figlio (Giov. 6,56-57) intro­ duce la seconda ripetizione della contrapposizione tra la manna e questo pane (Giov. 6,58 Il Giov. 6,48-50 Il Giov. 6,31-32). La seconda sequenza del dialogo tra Gesù e gli ebrei (Giov. 6,52-59) non è probabilmente né un'aggiunta secondaria all'insieme della sequenza sul pane di vita (come hanno proposto Alfred Loisy 13 e Rudolf Bultmann14), né il culmine del discorso. Le evidenti allusioni alla santa Cena («mangia­ re /masticare la mia carne>>, ) fanno che il pane e il vi­ no siano simboli del pane sceso dal cielo per dare la vita al mondo. Le di­ chiarazioni del Gesù giovanneo sulla Cena non si riferiscono né alla pas­ sata unicità della morte di Gesù, né alla seconda unicità della sua futura venuta. Viceversa, Giovanni afferma la possibilità sempre presente, con­ cessa dal Padre (Giov. 6,37.44.65) di mangiare del pane e di credere. È stato spesso sottolineato il carattere provocatoriamente concreto (ma non realistico, beninteso) del linguaggio del Gesù giovanneo. Ma la giu­ stapposizione insostenibile tra e > Gal. 2,20), ma vuol dire anche diventa-

15 Tradotto seguendo C. SENFr, La première épftre de saint Paul aux Carinthiens, Ginevra, La­ bor et Fides, 19902. 362

5. I luoghi della fedeltà all'evento re· un membro del suo corpo che è presente sulla terra sotto la forma della comunità di coloro che, morti e rinati con lui a una vita nuova, partecipa­ no dell'unico pane. Questa duplice dimensione ricompare con forza in quella parte della let­ tera che Paolo consacra direttamente alla celebrazione della cena del Si­ gnore (I Cor. 11,17-34). I Corinzi 11,23-29 23

[

.••

] Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che

il Gesù, nella notte in cui ruppe e disse:

Signore

fu tradito, prese del pane, 24e dopo aver reso grazie, lo

«Questo è il m io corpo che è dato per voi;

fate questo in memoria di me>>, 25Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, d icend o: >) e preconizzata dal manuale di vita cri­ stiana costituito dalla Prima epistola ai Corinzi, è una convinzione di cui si constata che ha determinato la realtà della vita quotidiana delle comunità paoline. Il correttivo e la smentita che le è stata applicata due generazioni più tardi nelle lettere trito-paoline, ne sottolineano la radicalità. Infatti, tan­ to le epistole pastorali (l Tim. 2,8-15), quanto l'editore della Prima epistola ai Corinzi (l Cor. 14,33b-36) vogliono ristabilire, nel nome di Paolo, un or­ dine che corrisponde stranamente alla divisione tradizionale dei ruoli nel­ la sinagoga. Un secondo ambito della vita quotidiana in cui l'universalismo plurali­ sta esercita una funzione riguarda il rapporto delle comunità con i loro aposto­ li. Le dichiarazioni di Paolo a proposito dei suoi colleghi sono apparente­ mente paradossali. Da un lato, mette in guardia le comunità della Galazia e di Corinto contro «alcuni>> (Gal. 1,7; 3,1; 5,7) e contro dei pretesi «sommi apostoli>> (II Cor. 11,5.13; 12,11) che mettono in pericolo l'essenza dell'e­ vangelo. D'altra parte, invece, incoraggia il lavoro di Apollo a Corinto, seb­ bene quest'ultimo difenda una teologia della saggezza che non è affatto quella dell'apostolo (I Cor. 1,12; 3,4.5.6.22; 4,6; 16,12).

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5. I luoghi della fedeltà all'evento In un caso come nell'altro, l'apostolo chiama le sue comunità a giudicare es­ se stesse e il criterio di giudizio che propone loro è quello della collaborazione al­ l'edificazione della costruzione di Dio. Il dibattito che Paolo instaura con i corinzi, che suddividono la loro fe­ deltà tra i vari apostoli che hanno operato a Corinto (l Cor. 3,4-23), è uno dei più interessanti a proposito dell'universalismo e del pluralismo della chiesa di Dio. La comunità pare un luogo di dispute, poiché ciascuno si appella all'autorità dell'uno o dell'altro personaggio fondatore. Sembra dunque che si affrontino un partito di Paolo, uno di Apollo e uno di Pie­ tro. Il «partito di Cristo>> è una trovata umoristica, forse dei membri della comunità di Corinto sensibili all'assurdità della situazione, o forse di Pao­ lo stesso19 . Servendosi delle due metafore del giardino e dell'edificio, l'a­ postolo rovescia le immagini che occupano la mente dei corinzi. Le due metafore, infatti, rendono conto in pari tempo della ricchezza, della di­ versità e del carattere specifico del contributo di ciascun apostolo. Ma Pao­ lo, Apollo o Pietro, con tutta la specificità e la qualità dei loro rispettivi ap­ porti, sono soltanto dei giardinieri. Infatti, è Dio che fa crescere. Oppure sono i vari costruttori, che con i materiali loro propri edificano sul fonda­ mento che è già stato posto e che è Gesù Cristo. In ogni caso, sono prima di tutto dei servi tori del giardino e dell'edificio, in quanto collaboratori di Dio che dà la crescita e ha posto il fondamento (l Cor. 3,5-12) e il giudizio finale rivelerà esattamente il valore del contributo degli uni e degli altri (l Cor. 3,13-15). Ma facendo di Paolo, di Apollo e di Pietro i servi tori del giardino e del­ la costruzione a cui danno il loro contributo, Paolo rovescia i rapporti di gerarchia e di dipendenza che i corinzi avevano stabilito con gli apostoli che li avevano convertiti e battezzati. Da un lato, il loro rapporto con Dio non passa attraverso gli apostoli, ma attraverso lo Spirito che è in ciascuno di loro (l Cor. 3,16-17). D'altro lato, l'evangelo non è una parola di sapien­ za che stabilisce delle gerarchie di potere e di sapere, bensì una pazzia che crea ogni persona come soggettività individuale, libera e responsabile, di modo che sono gli stessi corinzi, in quanto appartengono a Cristo e a Dio (l Cor. 3,23), essi stessi a disporre di quanto gli apostoli danno loro (l Cor. 3,18-23). Essi non sono «di Paolo>>, «di Apollo>>, «di Cefa>> (I Cor. 1,12), ma Paolo, Apollo e Cefa appartengono a loro (l Cor. 3,22).

19 Henri Hofer fa giustamente osservare che si può leggere tanto come un'osservazione ironica che spin ge la situazione all'assurdo, quanto come la rep lica di Pao­ lo ai discorsi dei corinzi che si ap p ellano agli apostoli (che era già l'ipotesi di von Dobschi.itz nel 1903) senza modificare il senso dell'argomentazione.

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Teologia del Nuovo Testamento I Corinzi 1 ,10-13 e 3,4-23 l. Voi, che vi appellate ai vari apostoli.

1 •10 Ora, fratelli, vi esorto, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad aver tutti un me­ desimo parlare e a non aver divisioni tra di voi, ma a stare perfettamente uniti nel me­ desimo modo di pensare e di sentire. 11Infatti, fratelli miei, mi è stato riferito da quelli di casa Cloe che tra di voi ci sono contese. 12Voglio dire che ciascuno di voi dichiara: «lo sono di Paolo»; ; non siete forse uomini carnali?

n. Ecco che cosa sono gli apostoli.

SChe cos'è dunque Apollo? E che cos'è Paolo? Sono servitori, per mezzo dei quali avete creduto; e lo sono nel modo che il Signore ha dato a ciascuno di loro. 6Io ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere; 7quindi colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla: Dio fa crescere! SOra, co­ lui che pianta e colui che annaffia sono una medesima cosa, ma ciascuno riceverà il pro­ prio premio, secondo la propria fatica. 9Noi siamo infatti collaboratori di Dio, voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio. 10Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come esperto architetto, ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra. Ma ciascuno ba­ di a come vi costruisce sopra; 11poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quel­ lo già posto, cioè Cristo Gesù. 1ZOra, se uno costruisce su questo fondamento con oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia, 13l'opera di ciascuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la renderà visibile; poiché quel giorno apparirà come un fuo­ co; e il fuoco proverà quale sia l'opera di ciascuno. 14Se l'opera che uno ha costruita sul fondamento rimane, egli ne riceverà ricompensa; 15se l'opera sua sarà arsa, egli ne avrà il danno; ma egli stesso sarà salvo; però come attraverso il fuoco.

m. Il vostro rapporto con Dio passa per lo Spirito che è in voi.

16Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? 17Se uno gua­ sta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.

IV. Gli apostoli non sono dei mediatori, ma voi siete di Cristo.

18Nessuno s'inganni. Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio in questo se­ colo, diventi pazzo per diventare saggio; 19perché la sapienza di questo mondo è paz­ zia davanti a Dio. Infatti è scritto: «Egli prende i sapienti nella loro astuzia»; 20e altro­ ve: «Il Signore conosce i pensieri dei sapienti; sa che sono vani>>. 21Nessuno dunque si vanti degli uomini, perché tutto vi appartiene. 22Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, le cose presenti, le cose future, tutto è vostro! 23E voi siete di Cristo; e Cristo è di Dio.

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5. I luoghi della fedeltà all'evento Si potrà dire pertanto che per Paolo né gli apostoli, né altri ministri han­ no la funzione di garanti della verità o della fedeltà della fede. Infatti, per ogni credente, diventato una nuova creatura, la sua fedeltà soggettiva al­ l'evento fondatore dell'incontro con la potenza trasformatrice dell'evan­ gelo, è quella che serve come criterio di verità. Quindi l'universalismo plu­ ralista della chiesa paolina deriva precisamente dal fatto che la soggetti­ vità, nella sua comprensione di sé, è portatrice della verità-evento che la fonda. 5.2. 1 . 2

Come viene accolta la metafora del corpo nell'Epistola agli Efesini: crescere verso il capo

Dalla Prima epistola ai Corinzi fino all'Epistola agli Efesini, la metafo­ ra del corpo si è trasformata su più di un punto. - Il corpo non è più il corpo di Cristo, ma il corpo della chiesa di cui Cri­ sto è la testa. - Il corpo non è più una realtà data dai doni dello Spirito, ma un organi­ smo che è chiamato a crescere verso la sua testa. - Il paradosso della metafora paolina, secondo cui l'unità fondata dai do­ ni di uno stesso Spirito e la diversità costituita dai differenti carismi si rafforzano reciprocamente per il loro carattere complementare, è aboli­ to mediante una subordinazione delle diversità all'esigenza di unità. - L'idea di una diversità della grazia conferita a ciascuno non è intera­ mente abbandonata (Ef. 4,7). Tuttavia, è doppiamente reinterpretata. Da un lato, i carismi non sono più i doni dello Spirito, ma del Cristo che si è abbassato ed è stato elevato al di sopra di tutti i cieli. D'altro lato, l'i­ dea della necessaria diversità e complementarità dei doni affidati a cia­ scuno, che fa di ogni membro un organo indispensabile all'insieme del corpo, è sostituita da una nuova distinzione tra le articolazioni e le altre parti del corpo che esse adattano le une alle altre per garantirne l'unità. - I doni di Cristo che devono essere esplicitamente menzionati si riduco­ no ormai a quelle articolazioni (Ef. 4,11). Queste ultime sono costituite dal quintetto di apostoli, profeti, evangelisti, pastori e dottori. Si constata pertanto che nella Prima epistola ai Corinzi la metafora del corpo serviva a fornire una rappresentazione visibile dell'idea di un uni­ versalismo pluralista e ugualitario, nel quale ogni soggettività individua­ le contribuiva, con il dono che lo Spirito le aveva fatto, a far vivere l'insie­ me del corpo di Cristo incarnato in forma di comunità; ora, invece, quella metafora è diventata l'immagine di una grandezza cosmica che è fondata dall'elezione divina e che si trova in un processo di crescita. Per questa cre­ scita della chiesa occorre una certa organizzazione. La relativa responsabi­ lità non è più sostenuta dal rispetto e dal riconoscimento reciproci dell'in­ sieme dei membri gli uni per gli altri, ma è delegata a delle articolazioni.

373

Teologia del Nuovo Testamento Queste hanno un duplice compito. Sono incaricate di vegliare all'unità del corpo, affinché le sue diverse parti non siano sospinte da qualsiasi vento di dottrina e non divengano preda degli inganni degli uomini20, come pure alla sua crescita nell'unità e nell'amore, fino a giungere alla pienezza di co­ lui che ne è la testa, il Cristo. Lo specifico paradosso dell'Epistola agli Efesini consiste nell'attualiz­ zare Paolo secondo una duplice tendenza. Da una parte, la concentrazio­ ne del corpo sulle sue articolazioni corrisponde a un'evoluzione dovuta alla distanza storica: l'autore evita di designare i credenti come membri del corpo, probabilmente perché Paolo collegava la qualifica di membro al ministero compiuto da ciascuno. Viceversa, qui compare una netta di­ stinzione tra gli uomini che ricoprono un ministero e il popolo dei fedeli (Charles Masson 21 ) . Questo spostamento può avere un carattere pro­ grammatico: la chiesa deve affrontare i problemi del tempo. Ma può dar­ si che l'autore dell'epistola tenga conto della sua propria visione della chie­ sa del suo tempo. Questo modo di prendere sul serio la storia contrasta d'altra parte con la tendenza manifestata dall'argomentazione dall'Epi­ stola agli Efesini, che considera la chiesa come la grandezza cosmica e atemporale nella cui crescita l'umanità ritrova la propria unità e parteci­ pa della pienezza divina.

20 La traduzione che segue si ispira a quella di C. MASSON, L'épitre de saint Pau/ aux Éphé­ siens, Neuchàtel, Delachaux & Niestlé, 1953. 21 Cfr. ibid.

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5. I luoghi della fedeltà all'evento

Efesini 4,1 -16 1 Io dWlque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vo­ cazione che vi è stata rivolta,

l.

L'unità del corpo.

2con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, 3sforzandovi di conservare l'unità dello Spirito con il vincolo della pace. 4Vi è W1 corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, �uella della vostra vocazione. V'è un solo Signore, una sola fede, W1 solo battesimo, "un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti. n. lA diversità dei doni di Cristo nel corpo.

7Ma a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono di Cristo. Sper que­ sto è detto: (Mt. 16,18) e a trovarvi una giustificazione per i loro interventi nelle altre chie­ se. Questo ricorso relativamente tardivo alla dichiarazione di Gesù che fa di Simone la pietra sulla quale il Signore edificherà la sua chiesa stupisce soltanto a partire dall 'accoglienza che quel racconto ha ricevuto nella suc­ cessiva storia del cristianesimo. Senza dubbio, infatti, il Vangelo di Matteo

non si preoccupava certo di stabilire un primato di Pietro. La sua intenzio­ ne era piuttosto quella di app oggiarsi sulla figura internazionale e univer­ salista di Pietro per conferire legittimità alla sua grande apertura missio­ naria verso i pagani (M t. 28,18-20).

Matteo 1 6,15-19 15Ed egli disse loro: «E voi, chi dite che io sia?». 16Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17Gesù, replicando, disse: >, e soprattutto il gioco di parole sul nome di Pietro, che non riesce bene in greco (Petros = Pietro l petra = la pietra), fun­ ziona invece in aramaico: Képha = Pietro l képha = la pietra; come in fran­ cese: Pierre = Pietro l pierre = la pietra. Forse Matteo rielabora e integra al suo racconto una tradizione di origine aramaica, o forse - concordando con il significato e la funzione del messaggio essenziale dell'epi sodio - ha cer­ cato di conferirgli una patina di antichità. Comunque sia, la dichiarazione attribuita a Gesù presuppone l'esistenza di una chiesa consapevole di se stessa, in pieno sviluppo e destinata a durare. Possiamo concludere che, se Matteo si fa carico di elementi che egli stesso ha ricevuto, questi non pos­ sono trasmettere altro che una variante relativamente tardiva dei racconti di apparizione del Risorto.

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Teologia del Nuovo Testamento ll racconto di Matteo parla di una rivelazione speciale fatta a Pietro (Mt. 16,17), cui viene conferito in tal modo un posto a parte tra i discepoli. Con­ fessando Gesù come il Cristo e il Figlio del Dio vivente, Pietro non è dun­ que più soltanto il portavoce dei discepoli, come era nella versione data dal Vangelo di Marco (Mc. 8,29). La funzione eccezionale attribuita a Pietro vie­ ne inoltre sottolineata dal nuovo nome datogli da Gesù: per quanto il Van­ gelo di Matteo talvolta anticipi e parli di Pietro (Mt. 8,14; 14,28.29; 15,15) e di Simone detto Pietro (Mt. 4,18; 10,2) prima che Gesù gli abbia cambiato il nome, successivamente lo chiama sempre soltanto Pietro (Mt. 16,22.23; 17,1 .4.24; 18,21; 19,27; 26,33.35.37.40.58.69.73.75). Assieme con il nuovo no­ me, Pietro riceve anche una nuova missione: sarà la pietra su cui il Signore risuscitato costruirà la sua chiesa. Sono importanti, a questo punto, alcune osservazioni. Prima di tutto, è Gesù stesso, e non Pietro, che costruirà quel­ la comunità messianica. Poi, sebbene Pietro fosse morto da almeno vent' an­ ni quando Matteo scriveva il suo racconto, la promessa di Gesù riguarda esclusivamente la persona storica dell'apostolo: Matteo non prevede che Pietro abbia un successore. D'altronde, l'idea di una successione in senso stretto sarebbe in contraddizione con la metafora sulla prima pietra dell'e­ dificio: la prima pietra, infatti, ha come successione soltanto l'edificio nel suo complesso; cosicché, secondo la logica dell'immagine, i successori di Pietro sono tutti coloro che, nella storia universale, diventeranno discepoli di Gesù Cristo e si metteranno a seguirlo. Se ne può concludere che, da un lato, pare che il vangelo prenda atto dell'importanza storica della persona di Pietro. A questo riguardo esso distingue tra la funzione di Pietro duran­ te il ministero di Gesù e nella storia della Passione (Mt. 16,23!) e l'impor­ tanza di primo piano che ha assunto dopo le apparizioni pasquali e la ri­ surrezione di Gesù. D'altra parte, su questa stessa base, il vangelo ne fa il personaggio fondatore della missione cristiana e della chiesa universale. In quale modo il Vangelo di Matteo interpreta la funzione particolare conferita dal Gesù post-pasquale al personaggio di Pietro? Con il potere delle chiavi, Pietro riceve la vocazione di aprire le porte del regno mediante la sua predicazione missionaria, permettendo così alle nazioni di entrare nel regno. In ciò differisce dagli scribi e dai farisei ipocriti ai quali l'invet­ tiva di Gesù rimprovera di avere sbarrato l'entrata al regno dei cieli (Mt. 23,13). Pertanto, possiamo dire che il potere delle chiavi non è altro che l'auto­ rità e la responsabilità di offrire agli abitanti di tutte le nazioni l'occasione di vi­ vere nello spirito del dono che Gesù, compiendo la volontà di Dio, ha insegnato ai suoi discepoli e alle folle che lo circondavano. A proposito del potere di legare e sciogliere, va detto che esso, da un la­ to, indica l'autorità di perdonare i peccati e, dall'altro, designa la possibi­ lità di ammettere qualcuno nella comunità, o eventualmente di escluderlo, come nella letteratura rabbinica. Come prima approssimazione possiamo dunque dire che le due metafore, quella del potere delle chiavi e quella del legare e sciogliere, rinviano alla realtà stessa della proclamazione del regno

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5. I luoghi della fedeltà all'evento e della sua giustizia. Tuttavia, in Mt. 16,19 l'autorità di legare e sciogliere è conferita a Pietro, ma in Mt. 18,18 (come in Giov. 20,23) la stessa autorità è attribuita all'insieme dei discepoli, ossia ai credenti di tutti i tempi.

Matteo 18,18 Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tut­ te le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo.

Pertanto, possiamo ormai precisare: la vocazione particolare che Gesù rivolge a Pietro non è quella di comunicare l'evangelo e di perdonare, ri­ volta invece a tutti i discepoli di prima e di seconda mano, ossia a tutti i credenti, sino alla fine del mondo (Mt. 28,18-20), bensì molto specificamente quella del potere delle chiavi. Dunque, come abbiamo visto, il potere delle chiavi, di cui hanno fatto cattivo uso gli scribi e i farisei, è quello di fare en­ trare gli individui nel regno della giustizia, ossia della gratuità e della misericor­ dia di Dio. In altri termini, l'autorità che Gesù conferisce alla persona di Pie­ tro è quella di aprire al mondo intero la porte del regno. Se peraltro si tiene con­ to del fatto che il dialogo di Matteo presuppone non soltanto la morte di Pietro ma anche, di conseguenza, l'insieme della sua opera missionaria da Gerusalemme a Roma, la dichiarazione del Cristo di Matteo significa che l'am­ piezza data da Pietro all'apertura della missione è destinata a servire come criterio su cui dovrà misurarsi l'allargarsi della chiesa alle nazioni. Potremo quindi concludere dicendo che il racconto della rivelazione e della vocazione particolari rivolte a Pietro, partendo dall'ampiezza che Pie­ tro e altri attorno a lui danno alla diffusione dell'evangelo tra i pagani, ha lo scopo di legittimare l'universalismo della missione a cui sono inviati i discepoli, nella prospettiva di Matteo (Mt. 28,18-20). 5.2.2.2 Il discepolo

che Gesù amava

TI Vangelo di Giovanni, in quanto libro della rivelazione giovannea, si fonda sulla testimonianza di una duplice autorità: il gruppo confessante dei «noi», la cui voce si fa sentire a varie riprese nel corso del vangelo (Giov. 1,14.16; 3,11-12; 4,22; 9,4; 21 ,24), e la figura enigmatica del disce­ polo, che il gruppo dei «noi» presenta come testimone e autore di Gio­ vanni (Giov. 21 ,24-25).

Giovanni 21,24 Questo è il discepolo che rende testimonianza di queste cose, e che ha scritto queste cose; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.

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Teologia del Nuovo Testamento Tutto ciò che riguarda il discepolo prediletto è enigmatico. Il Vangelo di Giovanni mette in scena un individuo storico, o ha creato un personaggio ideale e fittizio? Se poi il discepolo prediletto rappresenta un personaggio storico, di chi si tratta? Le principali ipotesi sono le seguenti. l. L'ipotesi tradizionale - accettata come ovvia dal II al XVIII secolo ­ considera il discepolo prediletto un personaggio storico e lo identi­ fica con Giovanni, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo. 2. Il discepolo prediletto è uno sconosciuto discepolo di Gesù, che non apparteneva alla cerchia dei Dodici, che proveniva probabilmente da Gerusalemme (cfr. Giov. 18,15-16) e che ha fondato la scuola gio­ vannea. 3. Il discepolo prediletto è un individuo storico ma sconosciuto, che è diventato il personaggio fondatore e la voce preopinante del cristia­ nesimo giovanneo. 4. Il discepolo prediletto è un personaggio noto nel Vangelo di Giovanni o nel Nuovo Testamento, per esempio Lazzaro, }'>: Giov. 20,2; «il discepolo che Gesù amava>>: Giov. 20,2.3.4.8). - Il racconto dell'apparizione sulla riva del lago (Giov. 21,7): «il discepolo che Gesù amava>> è il solo che riconosce Gesù dopo la pesca miracolosa. - L'ultimo dialogo del Risorto (Giov. 21,20-24): Gesù incarica Pietro di pa­ scere le sue pecore e gli annuncia con quale morte glorificherà Dio. Com23

380

Cfr. R.

FABRIS, op. cit., pp. 71-75.

5. I luoghi della fedeltà all'evento pare allora il discepolo prediletto e Pietro interroga Gesù sulla sorte che attende costui.

Giovanni 21,20-23 20Pietro, voltatosi, vide venirgli dietro il discepolo che Gesù amava; quello stesso che du­ rante la cena stava inclinato sul seno di Gesù e aveva detto: >,

6Gesù gli disse: > nel mondo. Ma la verità è esterna al mondo. 387

Teologia del Nuovo Testamento - L'altro atteggiamento esistenziale possibile è quello della verità. Tutta­ via, la conoscenza della verità supera le possibilità umane, perché la nuo­ va nascita dall'alto è un dono di Dio. Appunto tale conoscenza della ve­ rità - ossia il riconoscere il Dio che si rivela nell'unicità assoluta del pa­ radosso - è quella che libera dal peccato (Giov. 8,32), vale a dire dallo sciagurato tentativo del mondo di fondare la propria esistenza su se stes­ so, che salva il soggetto dalla disperazione e che gli conferisce la vita. ll dialogo di Gesù con Pilato ha un carattere programmatico. Pilato, che è incaricato di giudicare la verità, ossia la parola di Dio incarnata in Gesù di Nazareth che compare dinanzi a lui, non può afferrare che cosa sia la ve­ rità (Giov. 18,38). Qualsiasi tentativo di capire la trascendenza della verità­ evento a partire dalla bidimensionalità di questo mondo è destinato al frain­ tendimento. Infatti, per capire la verità occorre essere dalla verità (Giov. 18,37), di modo che la verità-evento rivelata dal paradosso assoluto sfugge ai ra­ gionamenti rinchiusi nei limiti che questo mondo impone alla razionalità. 5.2.3.4 La

verità come dottrina: le epistole pastorali

Lo slittamento semantico che le epistole pastorali fanno subire al con­ cetto di verità non si presenta in tutta la sua ampiezza se non progressiva­ mente, nel corso della lettura delle tre epistole. Il primo rovesciamento ri­ spetto alle lettere di Paolo si può tuttavia percepire fin dall'inizio (l Tim. 2,4.7): Paolo si presenta come «predicatore e apostolo, per istruire i pagani nella fede e nella verità» (I Tim. 2,7). Una formula analoga si trova in II Tim. 1,10-11 in cui ricorda di essere stato «costituito araldo, apostolo e dottore». La continuità tra la consapevolezza di Paolo di essere stato chiamato a es­ sere apostolo dei pagani (Rom. U4; 15,16; Gal. 1,13-17) e l'immagine che ne dà l'autore delle epistole pastorali è innegabile. Si può tuttavia percepi­ re un'evidente discontinuità nella comprensione dell'evangelo, della fede e della verità. Per le lettere paoline, l'evangelo e la manifestazione della ve­ rità non si possono mai definire altrimenti che come l'incontro con un even­ to trasformatore, e la fede è il risultato dello sconvolgimento che esso pro­ voca nel rapporto che la soggettività individuale mantiene con Dio, con se stessa e con l'alterità dell'altro e del mondo. Presentare l'apostolo come «predicatore per istruire nella fede e nella verità>> (l Tim. 2,7), o come >: Apoc. 20,11; «poi vidi i morti»: Apoc. 20,12) la fine della storia è già co­ minciata il Venerdì santo e a Pasqua, e si svolge in due tempi. - Il primo tempo, che deve durare mille anni, è il tempo della prima ri­ surrezione. Da un lato, il Dragone, identificato con il serpente di Gen. 3, con il diavolo e con Satana, è stato vinto. Un angelo lo fa scendere dal cielo, incatenato, e lo rinchiude, prigioniero, nell'abisso affinché cessi di sedurre le nazioni. Fuor di metafora: le potenze del male sono state pri­ vate del loro ascendente, sono state spogliate del loro potere di sedu­ zione, ma non sono ancora state distrutte. D'altra parte, quel periodo di mille anni è il tempo del regno dei testimoni fedeli. Costoro hanno ri­ cevuto la vita, hanno avuto il potere di esercitare il giudizio e regnano con Cristo (Apoc. 20,4). - Il secondo tempo è quello del giudizio finale. L'estremo tentativo del Dragone di sedurre le nazioni conduce a un ultimo combattimento, che Dio interrompe facendo scendere dal cielo un fuoco che lo divora. La storia termina con l'apparizione del Cristo giudice, con la risurrezione dei morti che non facevano parte dei testimoni fedeli, e con la loro com-

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6. Il compimento: le cose ultime parsa davanti al trono, con il loro giudizio e la condanna della morte, dell'inferno e di coloro che, piccoli e grandi, si erano sottoposti al pote­ re del Dragone. Questa visione della fine della storia non si può capire se non la si col­ loca nell'insieme del grande affresco costituito dall'intera Apocalisse. Nel­ la successione dei quadri visionari dell'Apocalisse, la visione del capitolo 20 e dei mille anni di regno dei testimoni fedeli è il modo di riprendere, da un altro punto di vista, una diversa visione, ossia quella della vittoria del­ l'Agnello sulla potenza del Dragone di Apoc. 12,1 - 14,5. Tale visione in­ clude tre scene. - La prima scena si svolge in cielo (Apoc. 12,1-17). li Dragone, che tenta di divorare il Messia, è vinto e cacciato dal cielo dalla morte dell'Agnello e dalla fedele testimonianza dei credenti (Apoc. 12,10-12). In chiaro, ha perso la sua forza di seduzione e può esercitare il suo potere distruttivo solo sulla terra. - La seconda scena si svolge sulla terra (Apoc. 13,1-18). Il dragone si sfor­ za di regnare sulla terra per l'intermediario di due bestie, quella di un potere politico che regna mediante la forza e quella di una propaganda ideologica che gli conferisce la sua efficacia per mezzo della seduzione e dell'intimidazione. La testimonianza di resistenza dei credenti fedeli, che rifiutano di lasciarsi sedurre, gli fa scacco (Apoc. 13,7-10; 13,15; 13, 18). - La terza scena è l'apparizione dell'Agnello e dei 144.000 testimoni fe­ deli, vincitori del Dragone, riscattati e viventi (Apoc. 14,1-5). Come si vede, la storia che separa la Pasqua dal giudizio finale è pre­ sentata come una lotta condotta dai testimoni fedeli che hanno il loro no­ me scritto nel libro della vita, ossia dei credenti pronti a confessare la loro fede e a rifiutare i compromessi con le potenze del male. Nell'Apocalisse esse vengono simboleggiate da un pensiero unico che risulta dall'ideolo­ gia politica unificatrice dell'impero romano e dalla prosperità economica che garantisce. - Quel periodo di tempo, secondo Apoc. 20, è quello del regno e del giu­ dizio messi in opera dai fedeli testimoni, mentre, secondo Apoc. 12,1 14,5, è quello della loro testimonianza e della loro militanza. La testi­ monianza militante, il giudizio sulla realtà ossia il rifiuto di rinunciare a esercitare la propria capacità di discernimento e il regno, in quanto le potenze hanno perso il loro potere di incantamento e di seduzione, so­ no tuttavia una sola e medesima cosa. - La visione dell'Apocalisse fa apparire la fedeltà della testimonianza co­ me vittoria dell'Agnello sul Dragone: il periodo di mille anni è para­ dossalmente quello di una vittoria conseguita in cielo da una lotta con­ dotta sulla terra. Nella quotidianità delle decisioni individuali il Dra­ gone è privato del suo potere sulle coscienze e sulla realtà.

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Teologia del Nuovo Testamento - La cifra simbolica di 1000, che compare in Apoc. 20,2.3.4.5.6.7, è para­ dossale. Da un lato, simboleggia la massa, come nel numero 144.000, do­ ve il fattore 1000 amplia a una quasi-infinità il numero dei 144 testimo­ ni che risulta dalla moltiplicazione delle 12 tribù d'Israele per i 12 apo­ stoli. D'altro lato, è l'equivalente dei 1260 giorni di Apoc. 11,3 e 12,6, che deriva da Dan. 7,25 e designa simbolicamente la tipica durata di ogni persecuzione, mentre annuncia il carattere limitato del tempo che ri­ mane prima del giudizio finale. I 1000 anni significano dunque simul­ taneamente il tempo - lungo - che Dio lascia alla testimonianza fedele dei credenti; i quali, con la loro parola e con la loro resistenza, sono i pa­ droni della storia (Apoc. 11,1-13) e, d'altra parte, la certezza che Dio è il padrone di questa storia e che il Cristo vittorioso pronuncerà su di essa l'ultima parola.

6.1 .2.2 Mille anni sono come un giorno: II Pietro 3 L'intuizione fondamentale dell'autore della Seconda epistola di Pietro afferma che non si può abbandonare la «promessa della parusia» (Il Pie. 3,4) senza compromettere l'essenza stessa dell'evangelo. L'argomentazione sviluppata per dare un fondamento a questa tesi com­ prende due aspetti. - Il primo è di ordine cosmologico (Il Pie. 3,5-7). - Il secondo riguarda la comprensione della temporalità e del tempo (Il Pie. 3,8-9). La prima discussione condotta dall'autore contro gli schemitori beffar­ di (II Pie. 3,3) contrappone loro due tesi. Gli «schemi tori beffardi» partono da un'osservazione empirica: da quan­ do i padri sono morti tutto rimane nelle condizioni in cui era fin dal prin­ cipio della creazione (II Pie. 3,4). Constatano la permanenza della realtà. Da quest'idea deducono la tesi dell'au tonom ia del creato: il fatto che, nonostan­ te il passare del tempo, il mondo rimanga stabile mostra che è retto dalle sue proprie leggi e da un ordine che gli è immanente; cosicché l'ipotesi se­ condo cui Dio potrebbe interferire nel corso della storia, come è implicito nell'attesa della parusia, si può rifiutare in base all'evidenza. A questa tesi della permanenza e dell'autonomia dell'ordine cosmico l'argomentazione dell'epistola contrappone un'altra interpretazione della realtà, che è solidale di un'altra cosmologia. II Pietro 3,5-7 5Ma costoro dimenticano volontariamente che nel passato, per effetto della parola di Dio, esistettero dei cieli e una terra tratta dall'acqua e sussistente in me zzo all'acqua; 6 e che, per queste stesse cause, il mondo di allora, sommerso dall'acqua, perì; 7mentre i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione degli empi.

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6. n comp imento: le cose ultime La tesi sostenuta dall'argomentazione dell'epistola riposa anch'essa sul­ le conoscenze della fisica. Lo stato attuale dell'universo, lungi dall'essere stabilito come tm sistema immobile e senza cambiamenti, è il risultato di una serie di processi evolutivi. Il mondo che conosciamo non è sempre esi­ stito, ma è sorto dall'acqua e apprmto l'acqua ha permesso che emergesse la terra abitata (II Pie. 3,5). La prova che l'acqua va considerata come l'ele­ mento motore della genesi dell'universo è l'episodio del diluvio. Si tratta infatti delle stesse forze che si trovano all'opera tanto nell'emergere della terra primigenia, quanto nella sua drammatica scomparsa {Il Pie. 3,6). D'altronde, l'idea che l'esistenza della terra abitata sia il risultato di pro­ cessi caotici permette di introdurre la tesi della creazione. L'argomenta­ zione è parallela a quella di Charles Darwin, il quale osservava che la gran­ dezza del Creatore non risulta minore se egli ha creato una terra capace di evolvere e di diversificarsi, che se avesse creato tutte le specie in rma for­ ma definitiva e immutabile. Per l'autore di II Pietro, le cause fisiche che hanno prodotto l'emergere del mondo conosciuto sono dovute all'acqua, ma questa interpretazione non esclude la confessione di fede secondo cui, nel processo naturale che ha portato il mondo all'esistenza, era all'opera la parola di Dio. L'epistola può combinare senza difficoltà una spiegazio­ ne fisica e una dichiarazione di fede, nella misura in cui la prima non si pronunci sul significato della realtà per l'esistenza e la seconda non sia di tipo esplicativo. La tesi secondo cui la realtà empirica risulterebbe da tm processo fisico e biologico dipendente dall'acqua implica che la terra abitata è oggetto di trasformazione e che il suo avvenire è suscettibile di comportare nuovi cam­ biamenti di tipo caotico. Dopo aver introdotto la tesi della creazione, l'ar­ gomentazione fa un passo ulteriore: dichiara infatti, sulla base di una pro­ fessione di fede, che Dio è colui che mediante la sua parola conduce la sto­ ria del mondo. Ma la parola di Dio conduce adesso la storia verso la paro­ sia promessa e verso il giudizio finale. La seconda discussione che l'epistola conduce con gli «schernitori bef­ fardi» riguarda la comprensione del tempo e della temporalità. II Pietro 3,8-9 8Ma voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: per il Signore un giorno è come mil­ le anni, e mille anni sono come un giorno [Sal. 90,4]. 911 Signore non ritarda l'adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno p erisca, ma che tutti giungano al rav­ vedimento.

Contro gli «schernitori beffardi», che con la loro cosmologia hanno fer­ mato il tempo, II Pietro difende due tesi. La prima è che Dio determina il tempo: è lui a darne la misura e il senso. 403

Teologia del Nuovo Testamento La seconda è che il Creatore dà non soltanto il tempo e la misura del tempo, ma che il tempo dato è strutturato in base a una doppia certezza che determina la temporalità dell'esistenza. - Il tempo presente è un tempo colmato dall'attesa e dalla speranza del­ l'adempimento della promessa. - Il tempo presente è il tempo che la pazienza di Dio concede a ciascuno affinché non perisca ma si penta. Come si vede, il messaggio essenziale dell ep i stola è duplice. Da un la­ to, risponde alla domanda critica suscitata dal ritardo della parusia con pa­ role che conferiscono il suo vero significato alla storia della terra abitata e ai pro­ cessi evolutivi di cui è oggetto. Il fine della storia sta nel far sì che nessuna si per­ da, ma che tutti siano salvati. D'altro lato, l'epistola considera la storia glo­ bale come quadro della storia personale dell'esistenza individuale e della sua temporalità: il tempo concesso è il tempo della pazienza di Dio ed è struttu­ rato dall'appello al pentimento rivolto a ciascuno. '

6.2 L'adempimento della promessa

La vita dopo la morte nel Nuovo Testamento

Matteo

l.Jl risurrezio-

Regno di Dio e dei cieli

l.Jl parusia

Presente

Mt. 24,29-51 Mt. 25,1-46 (il Giudizio) La parusia: Mt24,327.3731

Mt. 23,23-33

Mt. 19,16-30

e futuro

come promessa

ne dei morti

l..a

vita eterna

Marco

Presente

Mc. 13,24-27

Mc. 12,1 8-27

Mc. 10,17-31

Luca

Futuro (eccezioni: Le. 1 1 ,20; 17,20.21) At. 1,.3;8,12; 14,22; 19,8;28,23.31

Le. Le.

19.11-28; 21 ,25-27; At. 1,11

Le. 20,27-40; Le.

Lc.2,34; 14,14;

Le. 10,25-28;

(Giov. 3,3.5)

Presente Giov. 14,1S.20; Giov. 14,27-28 Futuro: Giov. 16,16-27

Giovanni

404

At. 4,2; 17,32; 23,6.8; 24,21; 26,23

Giov. 5,2S-29;

6,39.40.44.54; Giov. 1 1 ,2326

L'immortalità

Altre rappresentazioni

18,1 8-30; At. 13,46-48

Presente Giov. 3,15.16.36; 4,14.36; 5,24.39; 6,27.40.47.54. 68; 1 0,28; 12,25.50; 17,2.3 (eccezione: Giov. 1 1,2326)

I:innalzamenlD: Giov. 12,32; nelle dimore della casa del Padre: Giov. 14,1-4; Il Padre e il Figlio stabiliscono la loro dimora: Giov. 14,15-24; Essere con Cristo: Giov. 16,16-28

6. Il compimento: le cose ultime Paolo

La vita già

I Tess. 4,B-18;

ICor. 15.1-58;

d ona ta :

I Cor. 11,23-

Fil.

Rom. 14,17;

26; 15,24-

1Tess . 4,13-18

I Cor. 4,20;

6,9.10; 15,50;

Gal. 5,21

3.10;

La vita già donata: Rom. 2,7;

5,2 1 ; 6,22.23; Gal. 6,8

27.51-58

La parusia: I Cor. 1 5,23; I Tess.2,19;

L'incorruttibilità del

Il trasloco l il cambia-

risuscitato:

abito: II Cor. 5,1-5; Essere

corpo

! Cor.

15,53.54

con Cristo: Fil. 1, 1 9-26;

Appartenere

3,13; 4,15; 5,23

a l Signore:

Rom. 14,7-9

II Tun. 2,18

Epistole

mento di

pastorali

I Tun.

1,16;

6.12;

I Tun. 6,16

Tito 1,2; 3,7

Ehrei

Come tema

di insegna-

men to elementare: Ebr. 6,2

Apocalisse

La signoria di Dio sul cosmo: Apoc. 5,9;

Il riposo: Ebr. 3,1 1 . 1 8: 4,1.3.5.5.10.11; l'attraversa-

mento del velo: Ebr. 10,19-20

La prima risurrezione Apoc. 20,5-6

11,15; 12,10

I modi in cui il Nuovo Testamento presenta l'adempimento finale va­ riano sia per la loro concettualità, sia per i simboli e le metafore che ven­ gono adoperati. Tali variazioni d'altronde si possono osservare all'interno di ciascun insieme letterario: né il Vangelo di Matteo, né l'epistolario di Pao­ lo, né il Vangelo di Giovanni, per prendere i tre autori di cui sono più evi­ denti le affermazioni sul giudizio finale, sulla risurrezione dei morti e sul­ la vita eterna, permettono di farsi un quadro uniforme e preciso sulla sor­ te dei trapassati. Anzi, in ciascuno di questi le immagini successive sem­ brano giustapporre degli elementi spesso contraddittori. Le variazioni di linguaggio e delle sue rappresentazioni mostrano tut­ tavia un certo numero di costanti, che appunto rendono conto del messag­ gio essenziale che trasmettono. La prima di tali costanti consiste nell'annuncio di un giudizio finale di Dio sull'esistenza individuale e sulla storia. Questo annuncio può assumere forme differenti. Nessuno, nel Nuovo Testamento, ha interesse a farsene un'idea concreta. Infatti, l'affermazione fondamentale degli autori neote­ stamentari non riguarda le immagini che si dovrebbe fare, bensì il sempli­ ce fatto che la storia, sia personale sia universale, si chiude in una manife­ stazione divina che ne rivela il senso. Il significato di questa affermazione di un giudizio finale sta nel sottolineare la realtà dell'evangelo: quest'ulti­ mo è una buona notizia perché è la buona notizia del Creatore che dà la vi405

Teologia del Nuovo Testamento ta e che giustifica; e il Dio che dà vita e giustifica è il Creatore, nel senso in cui, alla fine della storia, ne sarà il giudice. Non c'è realtà al di fuori della storia e l'evangelo deriva la propria verità dal fatto che Dio è il dominato­ re della storia. Di conseguenza, l'evangelo non si presenta come una paro­ la tra le tante nel discorso culturale, bensì come la parola di verità che ri­ vela la verità della realtà. L'annuncio del giudizio si presenta pertanto come l'adempimento del­ l'evangelo della giustizia, della misericordia e dell'amore di Dio, nel senso della sua realizzazione definitiva. La promessa della ricompensa, dell'en­ trata nel regno dei cieli, della trasformazione finale, della risurrezione del­ la soggettività individuale in un corpo incorruttibile o della comunione per­ fetta con Dio sono le conseguenze estreme della grazia e della bontà prov­ videnziale del Padre celeste che ha mandato il suo Emanuele nel mondo e che, nel momento presente, ci giustifica. La metafora del giudizio, in Matteo come in Paolo, si collega al simbo­ lismo del fuoco. Il fuoco può essere purificatore. Questo è il significato che ha in Paolo, dove rende efficace la parola definitiva di perdono sull'esi­ stenza, liberando la persona dal peso delle opere fallite. Può tuttavia pren­ dere anche un senso distruttivo: è il fuoco della fornace ardente e della > (Mc. 10,17) è usata dall'interlocutore di Gesù in un senso parallelo a (Mc. 10,24.25) e a «es­ sere salvato>> (Mc. 10,26). Per il Vangelo di Marco - che è responsabile della composizione lette­ raria che combina il dialogo fra Gesù e l'uomo ricco (Mc. 10,17-22), il dia­ logo dei discepoli con Gesù che commenta il fatto (Mc. 10,23-28) e il dialo­ go di Gesù con Pietro (Mc. 10,29-31) - l'interazione delle tre scene consen­ te di mettere in evidenza due insegnamenti.

436

6. Il comp imento: le cose ultime l . Da una parte, la libertà di seguire Gesù è la condizione necessaria

per ereditare la vita eterna. Su questo punto il dialogo fa l'impres­ sione di un mercanteggiamento. ln realtà, è vero il contrario. La pa­ rola di Gesù si presenta come offerta di cambiare sistema e di pas­ sare da quello dell'avere, del mercato e dello scambio, a quello del­ la gratuità e del dono. Ai , o semplicemente , è la vita nuova che, nell'istante stesso dell'incontro con il paradosso del Figlio in­ carnato, è ricevuta da ogni soggetto che crede e che è ri-generato dall'al­ to dallo Spirito di Dio (Giov. 3,1-11). In questo senso, appunto, Gesù è il buon pastore che mette la sua vita per le sue pecore (Giov. 10,28), è il pa­ ne di vita sceso dal cielo che dà la vita a quelli che credono o che il Padre gli dà (Giov. 6,33.35.48.51 .53.63), è la luce che ha brillato nelle tenebre (Giov. 1,4), che è venuta nel mondo e che conduce alla vita (Giov. 8,12). La vita nuova è caratterizzata dalla comunione con il Padre e con il Fi­ glio. Questi stabilisce la comunione di coloro che credono il lui con il Pa­ dre, perciò appunto Gesù è la via, la verità e la vita (Giov. 14,6). La co­ munione dei discepoli con il Padre e con il Figlio si manifesta nella tra­ sformazione dei rapporti umani, simboleggiata dall'unità dei discepoli e dal loro reciproco amore (Giov. 17 e 13,34-35; 15,9-17). Ta le comunione non ha la sua origine nel mondo (non è più «del mondo»), bensì nell'u­ nità del Padre e del Figlio. Viceversa, essa ha nel mondo il suo luogo di vita e di responsabilità. Perciò è libertà nella vita quotidiana. Per Giovanni, come già per Paolo, il contrario della vita eterna non è semplicemente la morte nel senso del limite dell'esistenza umana (Giov. 6,27), ma l'appartenenza a ciò che >. Collocano l'esistenza davanti a un'alternativa: colui che ama la propria vita la perderà, e colui che odierà la sua vita in questo mon­ do la conserverà in vita eterna (Giov. 12,25). Perciò il , di cui il Fi­ glio sceso dal cielo fissa la condizione e a cui chiama gli ebrei, i farisei, i di­ scepoli e le folle, implica un salto con il quale i credenti sono passati dalla

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6. Il compimento: le cose ultime morte alla vita (Giov. 4,14; 5,24.39-40). La vita eterna è la promessa rivolta a chiunque crede che Gesù è il Figlio di Dio (Giov. 3,36; 5,24.39; 17,3; 20,31), ossia presta fede alla verità che si rivela in lui e trova la propria identità e le proprie radici presso il Padre. L'affermazione essenziale del Vangelo di Giovanni, secondo la quale chiunque crede al Figlio sceso dal cielo è passato dalla morte alla vita (Giov. 5,24) e alla vita eterna (Giov. 3,15.16; 6,40.47.54), costituisce il presente co­ me istante nel quale il Padre e il Figlio vengono a stabilire presso di lui la loro dimora. La vita eterna fa della vita quotidiana il luogo e il tempo del­ la loro presenza e della loro fedeltà alla loro parola.

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7 La diversità teolo gica . . . come prmc1p1o di unità del cristianesimo

Abbiamo imparato da Rudolf Bultmann che la lettura adeguata dei te­ sti del Nuovo Testamento, ossia quella che rende testimonianza della loro intenzionalità specifica, è la lettura esistenziale. Il messaggio fondamenta­ le dei testi neotestamentari non va compreso come la costruzione di una mitologia, cioè, secondo la definizione che Bultmann dà di questo termine, come l'espressione di un sistema esplicativo del mondo, di carattere spe­ culativo, mediante il quale l'esistenza vuole oggettivare il proprio ambiente per tenerlo a distanza e immunizzarsi contro di esso. Il messaggio dei testi neotestamentari, anche quando assume delle linee mitiche, vuole essere compreso come una parola che è al tempo stesso liberazione, promessa e appello alla responsabilità. In altri termini, l'argomento dei testi del Nuovo Testamento riguarda la comprensione che il lettore o l'ascoltatore ha di se stesso, ossia del rappor­ to che la soggettività individuale intrattiene davanti a Dio con se stessa e con l'Altro. Infatti, secondo la formulazione assai precisa non meno che programmatica di Giovanni Calvino, la conoscenza di Dio e dell'uomo so­ no congiunte.

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Teologia del Nuovo Testamento

7.1 La necessaria unità del cristianesimo

Il tentativo di ricostruire e di proiettare nel passato un'unità delle ori­ gini del cristianesimo è già presente all'interno del canone del Nuovo Te­ stamento. Tale ricerca di un'unità fondatrice non è casuale. Deriva dalla neces­ sità che ha il cristianesimo di definire ciò che costituisce la sua propria identità. - Da un punto di vista fondamentale, la predicazione dell' «evangelo di Dio» (Paolo, Vangelo di Marco), che si manifesta come potenza di libera­ zione, implica una netta distinzione tra l'evangelo di Dio e le tradizioni umane. - Da un punto di vista storico, una generazione separa già il cristianesi­ mo della terza generazione (vangeli di Matteo, Luca e Giovanni, gli At­ ti degli apostoli, l'Epistola agli Ebrei, l'Apocalisse e forse le epistole pa­ storali) dalla morte degli apostoli. Secondo ogni verosimiglianza, Gia­ como fratello del Signore, Pietro e Paolo erano già morti martiri tra il 62 e il 64 d.C. Separato dalle figure dei fondatori, quel cristianesimo subi­ sce la tentazione di trovare la propria unità nella ricerca di possibili con­ sensi, nella formulazione di soluzioni di compromesso o nell'esclusio­ ne delle voci discordanti che rischiavano di minacciame l'unità. Scate­ nare la lotta contro le eresie è un'arma dei deboli per affermare la pro­ pria identità. Non si può costruire senza inconvenienti una fittizia unità originaria. Le conseguenze della proiezione di un'unità delle origini del cristianesimo si possono osservare storicamente tanto nella storiografia degli Atti degli apostoli, quanto nella ricerca di un'unità istituzionale che caratterizza nu­ merosi scritti nel passaggio dal I al n secolo. - La diversità e le differenze vengono ridotte, per quanto possibile, a di­ mensioni tollerabili. - Le differenze che non si possono ridurre a dimensioni tollerabili sono vittime dell'oblio, sia che sfuggano al campo visivo, sia che non si vo­ glia prendeme conoscenza. - Ciò che non entra nell'unità è oggetto di esclusione: le forze unificatri­ ci dell'ortodossia inventano e producono l'eresia.

L'alternativa a questa problematica ricerca di un 'unità originaria è offerta dal­ l'universalismo pluralista di cui Paolo, in quanto interprete di Gesù Cristo, è l'in­ ventore. 444

7. La diversità teologica come principio di unità 7.2 Il necessario universalismo del cristianesimo Considerato dal punto di vista dell'intenzionalità degli scritti neotesta­ mentari, l'universalismo del cristianesimo deriva dalla verità della procla­ mazione pasquale che è rivelazione di Gesù come Figlio di Dio. - La proclamazione pasquale significa che Dio si è solidarizzato con il tra­ sgressore della legge, che ha annunciato la presenza di Dio mangiando con i gabellieri e i peccatori. - Nel manifestare la presenza immediata di Dio, che i vangeli chiamano il suo regno (o reame), presso persone squalificate come i gabellieri e i peccatori, Gesù rivela che esiste nell'essere umano un'istanza che viene incondizionatamente riconosciuta da Dio e che deve essere distinta dal­ le sue qualità. - Di conseguenza, un'affermazione essenziale dell'evangelo è la tesi teo­ logica secondo cui l'individuo è incondizionatamente riconosciuto da Dio come persona, indipendentemente dalle sue qualità.

L'universalismo è logicamente implicito nella tesi del riconoscimento dell'essere umano come persona, indipendentemente dalle sue qualità. Dal punto di vista dell'ascolto dell'evangelo, di cui rendono testimo­ nianza gli scritti neotestamentari, l'universalismo della fede cristiana de­ riva dalla definizione che essa dà di se stessa e dalla comprensione pro­ pria del credente di essere incondizionatamente riconosciuto da Dio co­ me persona. - Comprendere se stesso in quanto accettato da Dio senza condizioni pre­ suppone la consapevolezza dell'individuo di esistere in quanto perso­ na e in quanto soggetto. - Comprendere se stesso in quanto accettato da Dio come persona, indi­ pendentemente dalle proprie qualità, implica la scoperta di un rappor­ to dell'individuo con se stesso, che ne fa un «io» autoriflessivo. L'universalismo è una logica conseguenza della tesi secondo cui il destinatario costituito dalla predicazione dell'evangelo è la soggettività indi­ viduale in quanto «io» autoriflessivo e responsabile.

7.3 Il necessario pluralismo del cristianesimo La possibilità del pluralismo viene offerta dall'elemento essenziale del messaggio dell'evangelo: l'accettazione senza condizioni di ogni essere umano in quanto persona, indipendentemente dalle sue qualità, implica ne-

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Teologia del Nuovo Testamento cessariamente l'accettazione di ogni persona con le sue qualità. Quindi il ri­ conoscimento di ogni persona, con le sue qualità, in quanto soggettività in­ dividuale, implica la necessità del pluralismo. Considerato dal punto di vista dell'intenzionalità degli scritti neotesta­ mentari, il necessario pluralismo del cristianesimo risulta dalla definizione che es­ so dà di se stesso in quanto rivelazione di Dio nell'evento della venuta, dell'incar­ nazione, della vita e della morte di Gesù Cristo. - Il cristianesimo si costituisce come interpretazione esistenziale della ri­ velazione di Dio in Gesù Cristo. - Tale processo interpretativo è soggetto a due criteri. l) Il primo criterio è quello della contemporaneità della rivelazione di Dio in Gesù Cristo (S0ren Kierkegaard), dell'attualizzazione della rivelazione di Dio in Ge­ sù Cristo o della fedeltà agli avvenimenti fondatori della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. 2) Il secondo criterio è dato dall'attuale pertinenza di tale rivelazione per l'ascoltatore o il lettore. - La pertinenza attuale e soggettiva della rivelazione, che permette all'a­ scoltatore o al lettore di dire che la proclamazione della rivelazione di Dio in Gesù Cristo è per lui («per me>>) liberazione, promessa e appello alla responsabilità, implica una dimensione creatrice che presuppone in quanto tale la necessaria pluralità delle interpretazioni legittime della rivelazione. - Gli interpreti della rivelazione avvenuta in Gesù Cristo, per il fatto di presentarsi come proponenti varie interpretazioni dello stesso evento storico, si trovano nella necessità di entrare in dialogo tra di loro. Il cristianesimo si autodefinisce come conflitto di interpretazioni della ri­ velazione storica di Dio in Gesù Cristo, di modo che il dialogo aperto è laforma ap­ propriata dell'unità del cristianesimo. Dal punto di vista dell'ascolto dell'evangelo, di cui testimoniano gli scrit­ ti neotestamentari, il necessario pluralismo del cristianesimo scaturisce dal­ la definizione che la fede cristiana dà di se stessa. - La fede cristiana si autodefinisce come comprensione dell'esistenza o della soggettività che risulta determinata dalla rivelazione di Dio in Ge­ sù Cristo e che vive, nello spirito del dono, della fiducia in Dio. - La fede cristiana risulta costituita dall'evento per il quale la soggettività dell'individuo è diventata contemporanea della rivelazione di Dio, o per il quale la rivelazione di Dio in Gesù Cristo è diventata attuale per es­ sa. Perciò la fede è evento liberatore e confessione personale, soggetti­ va e responsabile.

La fede cristiana si definisce come rapporto intersoggettivofra il Dio che si è ri­ velato in Gesù Cristo e la soggettività dell'individuo. Per questo motivo essa non può venire ridotta alle semplici dimensioni di adesione a una formula di consenso o a un compromesso ortodosso. 446

7. La diversità teologica come principio di unità 7.4 Il dialogo intersoggettivo

quale forma universalista e pluralista dell'unità La ricerca della verità dell'evangelo non può prendere una forma diversa da quella di un dialogo. La necessità di tale dialogo scaturisce dalla ten­ sione irriducibile tra l'ipseità e la non-stessità del Dio che si è rivelato in Ge­ sù Cristo. - L'unità del cristianesimo si fonda sull'ipseità del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, ossia sull'identità di Dio con se stesso che è simboleggiata dal nome di Gesù Cristo, di modo che l'identità del cristianesimo si fon­ da sull'identità del Dio della fede e della confessione di fede cristiana. - La diversità del cristianesimo si fonda sulla non-stessità, ossia sulle va­ riazioni del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Tale variabilità si deve al fatto che la contemporaneità con la rivelazione di Dio in Gesù Cristo o l'attualizzazione di tale rivelazione non si trasforma in evento se non nella singolarità della soggettività degli individui, e non si realizza al­ trimenti che nel pluralismo delle interpretazioni. L'unità del cristianesimo è quindi costituita dalla singolarità della defi­ nizione che la fede cristiana dà di se stessa. Infatti, la definizione che la fede cristiana dà di se stessa implica che l'unità e la diversità non sono né delle forze contrarie, né delle esigenze contraddittorie. La verità dell'evangelo non è defi­ nibile mediante un consenso o in dichiarazioni di compromesso, ma è per definizione l'oggetto di una procedura di interpretazione e di una ricerca la cui forma è necessariamente quella di un dialogo aperto. La diversità è parte integrante della definizione che il cristianesimo dà della propria unità. - L'unità del cristianesimo, che risulta sia dall'impegno ermeneutico di interpretare la rivelazione di Dio in Gesù Cristo, sia dalla definizione che la fede dà di se stessa in quanto rapporto intersoggettivo, consiste necessariamente in un «conflitto di interpretazioni». - Il conflitto delle interpretazioni di un evento fondatore crea un'unità che diventa tanto più forte quanto più le posizioni in presenza si allontana­ no sostanzialmente. La solidarietà che il cristianesimo stabilisce fra l'unità e la diversità è un paradosso: l'esistenza di tensioni difficilmente solubili tra tendenze centri­ fughe e forze centripete è piuttosto di regola nei gruppi sociali e politici (Emmanuel Todd 1 ). Ma la definizione che il cristianesimo dà di se stesso si ca­ ratterizza appunto per il fatto che unità e diversità non si oppongono, bensì costi­ tuiscono le dimensioni complementari e solidali di un universalismo pluralista. 1 Cfr.

dentales,

E. Tooo, Le destin des ilnmfgrts. Assimilation et ségrégation dans les démocraties occi­

Parigi, Seui), 1994.

447

Teologia del Nuovo Testamento

diversità

Il lettore del Nuovo Testamento che si interessa alla storia di come esso sia stato accolto nella storia della chiesa e del pensiero occidentale deve prendere atto di un fatto storico sorprendente, tuttavia ben comprensibile: il messaggio originario e fondatore degli scritti neto testamentari, con la diversità delle sue espressioni e il conflitto delle interpretazioni che vi si presentano, fonda e può continuare a fondare l'unità del cristianesimo. Viceversa, tale unità non può fondarsi sui fattori di apparente unità, dovuti, in modo contingente, all'appartenenza comune dei primi cristiani alla società e alla storia del mondo mediterraneo dell'alto impero. Occorre constatare, d'altronde, che i presupposti culturali, filosofici e religiosi comuni ai cristiani del I secolo, e di conseguenza agli scritti del Nuovo Testamento, sono stati tutti rimes­ si in questione in uno o nell'altro momento della storia della teologia cri­ stiana e dei movimenti che vi si sono richiamati. Una prima parte di tali riferimenti comuni si rifà all'identità giudaica poi alle radici ebraiche delle prime comunità cristiane: - il monoteismo in quanto fede in un Dio unico; l'interpretazione della realtà in quanto creazione; - il riconoscimento dell'autorità della «Scrittura>>. Tuttavia, se la modernità, per buone ragioni conformi al messaggio evangelico stesso, ha contestato la validità del linguaggio speculativo che voleva fondare la verità dell'evangelo sul postulato metafisico dell'esi­ stenza di Dio, tanto la confessione di fede in un unico Dio creatore di tut­ te le cose, quanto l'accettazione del mondo come creazione buona di Dio sono state al centro dei dibattiti teologici che hanno opposto, fin dal I se­ colo, l'ortodossia e la gnosi. Inoltre, il rifiuto dell'autorità dell'Antico Te­ stamento ha costituito la convinzione fondamentale di Marcione, a cui sen­ za dubbio si deve la formazione del primo canone degli scritti del Nuovo Testamento. Una seconda parte di tali presupposti risulta dall'influenza dei movi­ menti filosofici greci e dell'umanesimo ellenistico sul pensiero nel bacino mediterraneo - la credenza nell'esistenza di un consenso dell'insegnamento morale del­ le grandi scuole filosofiche e religiose,

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7. La diversità teologica come principio di unità - la convinzione che una vita dell'individuo dopo la morte facesse parte di qualsiasi concezione della salvezza. La questione del senso della vita ha però assunto senza dubbio un'im­ portanza altrettanto grande quanto quella dell'esistenza dopo la morte, e l'idea di un consenso morale che unifichi i giudizi di valore universalmente ammessi non è sopravvissuta di molto alla visione ellenistica e romana che poteva immaginare il mondo civilizzato come il corpo di un unico organi­ smo cosmico. La verità del cristianesimo e, di conseguenza, anche la sua unità e plu­ ralità hanno il loro fondamento in una duplice convinzione. l. Il Dio che fa vivere e in cui ogni essere umano è chiamato a riporre la sua fiducia si è rivelato in Gesù Cristo, e si differenzia da tutte le altre divinità e potenze che si esercitano nel mondo. 2. La rivelazione di questo Dio esige da parte dell'individuo una deci­ sione che lo costituisce quale soggettività individuale.

L'unità e la diversità del cristianesimo sono dei fatti osservabili che scaturisco­ no dalla definizione che il cristianesimo dà di se stesso nella confessione di fede nel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. - Il cristianesimo è fondato su un evento e non su una verità astratta. Ap­ partiene alla comunità dell'unità cristiana ogni persona che confessa il paradosso dell'incarnazione storica di Dio. - La decisione implicita nell'atto di confessione di fede è, in quanto dono, l'evento che fa, della soggettività dell' autoriflessivo, una nuova creatura. L'unità e la diversità del cristianesimo sono dei fatti osservabili che de­ rivano dall'antropologia teologica comune che li fonda. - Mediante la confessione di fede, cioè con la decisione richiesta dall'e­ vangelo a favore di un Dio unico e contro gli altri, l'individuo si costitui­ sce come soggetto responsabile e come «ÌO» autoriflessivo. - La fede nel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo, vale a dire nella perso­ na storica che ha manifestato la presenza del suo regno mangiando con i gabellieri e con i peccatori, e che è morto sulla croce, implica una di­ stinzione tra la persona, accolta e amata incondizionatamente da Dio, e l'insieme delle sue qualità e dei suoi atti. Tale distinzione implica il ri­ conoscimento dell'Altro come un «tu», riconosciuto e amato indipen­ dentemente dalle sue qualità. Il riconoscimento dell'Altro come un , la confessione comune del Dio che trasforma la soggettività in una nuova creatura, e il dialogo che conduce alla com­ prensione della rivelazione di Dio in Gesù Cristo sono la forma visibile dell'unità del cristianesimo.

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Appendice l Interp retazioni classiche della teo lo gia del Nuovo Testamento

Le grandi figure della storia della teologia neotestamentaria non sono maestri, ma compagni di strada e intellettuali privilegiati. Le Briciole filoso­ fiche di Seren Kierkegaard ci hanno infatti ricordato che esistono maestri cristiani soltanto secondo il metodo di Socrate: il maestro cristiano non è né la verità, né colui che rende possibile comunicarla e neppure, per esse­ re precisi, colui che apre la porta alla sua comprensione. Può essere soltanto la persona che offre l'occasione di incontrare colui che è, davvero, la verità e che conferisce la condizione della contemporaneità con l'evento fonda­ tore e quella della fede. Perciò la presentazione dei paradigmi della teolo­ gia neotestamentaria fa parte della storia della fedeltà all'unicità del para­ dosso assoluto.

1. A proposito della storia della teologia del Nuovo Testamento

La lingua non è soltanto un mezzo di comunicazione, ma innanzitutto un modo di dare forma alla comprensione e al sapere, perciò non è privo di significato il fatto che da un secolo i paesi francofoni non abbiano pro-

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Teologia del Nuovo Testamento dotto alcuna teologia del Nuovo Testamento. D'altro lato, questa situazio­ ne è stupefacente. Infatti, la ricerca biblica in lingua francese si è distinta sia nel campo della storia del testo biblico, sia in quello dei commentari scientifici, teologici oppure di taglio omiletico. Inoltre, ha dato vita a ope­ re di grande importanza nel duplice campo della storia del cristianesimo e di quella della sua produzione letteraria. Le grandi sintesi originali sono di carattere storico. Si possono menzionare, per esempio, quelle di Alfred Loi­ sy (1933) 1 , quella assai ampia di Maurice Goguel (1932-1947) 2 o quella di Jean Daniélou (1958-1978)3 . Anche la teologia biblica di Oscar Cullmann4 è interamente orientata sul problema del tempo e su quello del rapporto con la storia. A eccezione del manuale di Daniel von Allmen5, le ultime teologie del Nuovo Testamento apparse nel mondo francofono sono infatti quelle che già poteva menzionare Heinrich Julius Holtzmann (1897) 6 : Il pensiero reli­ gioso del Nuovo Testamento di Georges Fulliquet (1893) e la Teologia del Nuo­ vo Testamento di Jules Bovon (1852-1904). Georges Fulliquet (1863-1924), pa­ store a Lione, poi professore di teologia pratica e sistematica presso la Fa­ coltà teologica di Ginevra dal 1906, si inserisce nella continuità del suo mae­ stro Gaston Frommef e interpreta il messaggio neotestamentario secondo le categorie della psicologia e dell'esperienza interiore. Per quanto concer­ ne Jules Bovon, pastore a Grandson (1878), poi professore di teologia si­ stematica e di Nuovo Testamento presso la Facoltà teologica della Chiesa libera di Losanna dal 1880, egli fa della teologia del Nuovo Testamento (due volumi, 1893 e 1894) il punto di partenza di uno Studio sull'opera della re­ denzione che comprende inoltre due volumi sulla Dogmatica cristiana (18951896) e altri due sulla Morale cristiana (1897-1898). Questa situazione è paradossale soltanto in apparenza: riflette senza dubbio due aspetti della fedeltà della teologia francofona moderna al suo evento fondatore. La lettura liberale prende sul serio la singolarità dell'e1 Cfr. A. LoiSY, La naissance du christianisme, Parigi, Gabalda, 1933. 2 Cfr. M. GoGUEL, jésus et les origines du christianisme, vol. l. La vie de Jésus, vol. Il. La nais­ sance du christianisme, vol. III. L'Église primitive, Parigi, Payot, 1932, 1946, 1947 (trad. ing. Je­ sus and the Origins of Christianity, 2 voli., New York, Harper & Brothers, 1960). 3 Cfr. J. DANIÉLOU, Histoire des doctrines chrétiennes avant Nicée, vol. l. Théologie du judéo­ christianisme, vol. II. Message évangélique et culture hellénistique aux Il' et III' siècles, vol. m. I..es origines du christianisme latin, Tournai, Desclée, 1958, 1 978 (trad. it. Le origini del cristianesimo latino. Storia delle dottrine cristiane prima di Nicea, Bologna, EDB, 1993). 4 Cfr. O. CULLMANN, Le salut dans l'histoire. L'existence chrétienne selon le Nouveau Testa­ meni, Neuchatel-Parigi, Delachaux & N iestlé, 1966 (trad it. Il mistero della redenzione nella sto­ ria, Bologna, il Carlino, 1966). 5 Cfr. D. VON ALLMEN, L' Évangile de Jésus-Christ. Naissance de la théologie dans le N. T., .

Yaoundé, 1972. 6 Cfr. H.J. HOLTZMANN, Lehrbuch der neutestamentlichen Theologie, vol. I, Friburgo-Lipsia, Mohr, 1897. 7 Cfr. A. BERCHTOLD, La Suisse romande au cap du XX' siècle. Portrait littéraire et mora/, Lo­ sanna, Payot, 1966, pp. 97-108.

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Appendice l. Interpretazioni classiche vento e, implicitamente, il carattere contingente della verità, perciò attra­ verso il Nuovo Testamento persegue, come fa Ferdinand Christian Baur a cui essa fa costante riferimento, la storia e l'evoluzione religiosa del pen­ siero. Di conseguenza, la presentazione dell'essenza del cristianesimo e del­ la sua produzione teologica e letteraria consiste nella ricostruzione critica della sua storia. D'altro lato, il movimento del rinnovamento biblico che ha segnato le chiese riformate francofone dal 1945, come pure gli incoraggia­ menti espressi da parte cattolica dall'enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), e dalla Costituzione Dei Verbum promulgata dal Concilio Vaticano II, han­ no valorizzato la potenza trasformatrice e la rilevanza del messaggio bi­ blico per l'esistenza umana e per l'etica politica e sociale. La fedeltà non è garantita soltanto da una continuità storica, spirituale o istituzionale, ma dalla contemporaneità dell'esistenza con la Parola incarnata. Il movimen­ to protestante del rinnovamento biblico, influenzato anche dal diffondersi nel mondo francofono del pensiero di Karl Barth e della teologia dialetti­ ca8, ha emancipato le scienze bibliche dalle discipline puramente storiche. Il rinnovamento cattolico, poi, ha contribuito a indebolire la subordinazio­ ne della teologia biblica alla scolastica. Tuttavia, ambedue hanno portato i loro frutti nel momento in cui appariva, come un'evidenza nuova, l'indi­ vidualità letteraria dei testi, la pluralità delle teologie neotestamentarie e la difficoltà di ricondurle a un'unica teologia del Nuovo Testamento9 .

2. I paradigmi per l'interpretazione

del Nuovo Testamento

È merito di Ernst Kasemann10 l'aver ricordato il posto singolare che oc­

cupano le opere di Ferdinand Christian Baur (1791-1860) e di Rudolf Bult­ mann (1884-1876) nella storia dell'interpretazione del Nuovo Testamento. La loro particolare importanza si deve in parte alla loro capacità di combi­ nare un'erudizione eccezionale, sostenuta da una notevole conoscenza del­ la filologia classica, con una passione sistematica alimentata da una gran­ de padronanza dei problemi filosofici.

8 Cfr. B. REYMOND, Théologien ou prophète. Les francophones et Karl Barth avant 1 945, Lo­

sanna, L'Age d'homme, 1985. 9 E. KASEMANN, Begriindet der neutestamentliche Kanon die Einheit der Kirche?, in: EvTh, 11 (1951 / 52) , pp. 13-21 , ora in: Exegetische Versuche und Besinnungen vol. l, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1 960, pp. 214·223 (trad. it. Saggi esegetici, Ca sa le Monferrato, Marietti, 1985). 10 Cfr. E. KAsEMANN, Problèmes néotestamentaires actue/s, in: Essais exégétiques, Neuchfìtel­ Ginevra, Delachaux & Niestlé-Labor et Fides, 1972, pp. 123-144.

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Teologia del Nuovo Testamento D radicalismo storico e teologico è l'elemento che ha unito Baur e Bultmann.

Da loro abbiamo imparato che finché si interroga in modo ragionevole non si finisce mai di porre domande, che si deve andare sino in fondo a tutto e a ogni cosa, che la radicalità non è soltanto un metodo scientifico ma il presupposto della vita spirituale. D'altra parte, Baur e Bultmann si sono distinti l'uno dal­ l'altro perché uno cercava di afferrare il cammino della storia del mondo, l'al­ tro voleva comprendere l'antropologia del credente. Perciò ciascuno dei due è stato influenzato dal suo tempo e dal suo proprio ambiente11 .

Il carattere esplosivo dell'opera di Ferdinand Christian Baur e di quel­ la di Rudolf Bultmann si deve soprattutto al modo in cui essi hanno in pa­ ri tempo ricapitolato la storia intellettuale che li precedeva e ne hanno fat­ to la sintesi basandosi su un paradigma nuovo. Hanno avuto e continuano ad avere a questo proposito un ruolo analogo a quello di Igor Stravinsky o di Pablo Picasso nella storia dell'arte moderna (George Steiner12), di modo che le generazioni che li hanno seguiti si sono trovate davanti al compito prioritario di discutere i loro rispettivi contributi. Baur ci pone di fronte al­ la responsabilità di prendere sul serio la storia e le circostanze come luogo di verità. Da Bultmann ereditiamo l'esigenza di un'interpretazione esi­ stenziale dei testi biblici e del loro messaggio essenziale.

2.1 Ferdinand Christian Baur (1864) Ferdinand Christian Baur13 nacque il 21 giugno 1792 a Schmiden nel Wiirttemberg e morì il 2 dicembre 1860 nella città universitaria di Tubinga. L'insieme della sua attività è legato all'università di quella città, dove Baur era stato chiamato nel 1826 come professore delle discipline storiche della teologia (Nuovo Testamento, storia della chiesa e storia dei dogmi). Tutta la sua opera si caratterizza per lo sforzo di capire in modo siste­ matico l'evoluzione della teologia cristiana. Si tratta di un'impresa storica nella misura in cui non soltanto la teologia ha una storia, ma è essa stessa storia; per cui il compito di comprendere e di spiegare concettualmente la rivelazione impone un pensiero teologico che non può essere altro che una riflessione storica e critica. 11 E. KASEMANN, Was ich als deutscher Theologe in fonfzig Jahren verlernte, in: Kirchliche Kon­ flikte vol. I, Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1982, pp. 233-244 (qui p. 238). 12 Cfr. G. STEINER, After Babel. Aspects of Longuage and Translation, New York-Londra, Oxford University Press, 1975 (trad. it. Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Mi­

lano, Garzanti, 1994). 1 3 Per una presentazione sintetica dell'opera di Baur, vedi C. SENFT, Wahrhaftigkeit und Wahrheit. Die Theologie des 19. jahrhunderts zwischen Orthodoxie und Aufkliirung, Tubinga, Mohr, 1956, pp. 47-86 (cfr. anche H.-J. KRAUS, La teologia biblica. Storia e problematica, Brescia, Pai­ deia, 1979, pp. 167-174).

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Appendice l . Interpretazioni classiche Le pubblicazioni di Ferdinand Christian Baur comprendono l'insieme della storia del cristianesimo. Il campo a cui ha consacrato le sue ricerche comincia infatti con i rapporti fra il giudaismo e l'ellenismo come appaio­ no nella gnosi, trova il suo centro nel Nuovo Testamento, dominato intel­ lettualmente dalle due grandi figure di Paolo e di Giovanni, e con i primi secoli del cristianesimo poi si allarga alla storia dei dogmi e a quella della storiografia cristiana fino al XIX secolo. L'unità dell'opera di Baur non è data soltanto dal carattere storico del suo approccio: lo è soprattutto per la coerenza logica con cui adopera, in modo consapevole, un modello dialettico della filosofia della storia come metodo per ricostruire e interpretare le diverse epoche che strutturano l'e­ voluzione della teologia cristiana. È data, infine, dal modo in cui definisce il suo oggetto. L'insieme delle ricerche di Ferdinand Christian Baur ha co­ me tema la storia, ma beninteso non si tratta né della storia degli eventi né della storia delle idee, bensì della storia della comprensione mediante la quale lo spirito umano si appropria di se stesso e, perciò, nell'evoluzione delle dottrine teologiche, della storia della coscienza religiosa. Dunque, il con­ cetto di «storia della coscienza religiosa>> ha il vantaggio di permettere una combinazione di tre esigenze apparentemente incompatibili fra loro.

L'esigenza intellettuale della critica storica rappresentata da David Friedrich Strauss, il maestro di Baur. 2. La concezione, ereditata da Friedrich Schleiermacher, che valorizza la dimensione soggettiva della fede, descritta come sentimento reli­ gioso. 3. Il carattere oggettivo della rivelazione. l.

I tentativi paralleli e successivi che sono stati fatti nella storia cristiana per rendere giustizia a queste tre dimensioni, storica, soggettiva e oggetti­ va del sentimento religioso, definiscono secondo Ferdinand Christian Baur una successione di epoche, caratterizzate, da un lato, dal costituirsi di op­ posizioni e, dall'altro, dalla loro trasformazione in nuove sintesi. Come si vede, la filosofia della storia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel con il suo schema dialettico della tensione fra la tesi e l'antitesi che viene riassorbita nella sintesi, fornisce a Baur il modello filosofico che gli permette di de­ scrivere al tempo stesso la diversità, la continuità storica e l'evoluzione del­ la coscienza religiosa quale si esprime nelle dottrine cristiane. Ferdinand Christian Baur ha consacrato il suo primo libro alla gnosi e ai rapporti della storia delle religioni con quella dei dogmi (Die christliche Gnosis oder die christliche Religions-Philosophie in ihrer geschichtlichen Entwick­ lung, 1835). Le due opere seguenti portano avanti le sue ricerche di storico dei dogmi e si concentrano sulla dottrina cristiana della riconciliazione (Die christliche Lehre von der Versohnung, 1 838) e su quella della trinità e dell'in­ carnazione (Die christliche Lehre von der Dreieinigkeit und Menschwerdung Got­ tes, I-III, 1841-1843). Il risultato di questo lavoro sarà, da un lato, il Com457

Teologia del Nuovo Testamento

pendio di storia dei dogmi pubblicato nel 1847 (Lehrbuch der christlichen Dog­ mengeschichte, 1847, 18582, 18673) e, d'altro lato, come contrappunto, La sto­ ria e le epoche della storiografia ecclesiastica (Die Epochen der kirchlichen Geschichts­ chreibung, 1852). In parallelo con la sua ricerca nel campo della storia dei dogmi, Baur pubblica diversi importanti saggi sulla storia del cristianesimo delle origi­ ni, in particolare uno che diventerà programmatico per le sintesi ulteriori, sul contrasto fra il cristianesimo di Pietro e quello di Paolo a Corinto. Se­ guono poi due opere importanti che si occupano, da un lato, di Paolo e, dal­ l'altro, dei rapporti storici e teologici tra i vangeli. Dei due lavori, il gran­ de studio su Paolo avrà le maggiori ripercussioni sulla storia dell'interpre­ tazione del Nuovo Testamento. I due testi hanno peraltro una funzione im­ portante nell'opera di Baur perché preparano, ciascuno a modo suo, la vi­ sione dell'insieme sulla storia e sulla teologia del Nuovo Testamento, che egli presenterà in seguito. Nel 1845 appare innanzitutto il suo libro più importante sull'apostolo Paolo, che per l'essenziale rimane il punto di partenza e l'opera di riferi­ mento della ricerca recente: Paolo, l'apostolo di Gesù Cristo, la sua vita e la sua

opera, le sue lettere e la sua dottrina (Paulus, der Apostel Jesu Christi. Sein Leben und Wirken, seine Briefe und seine Lehre. Ein Beitrag zu einer kritischen Geschi­ chte des Urchristentums). La prima parte è una ricostruzione biografica e cri­ tica della vita e dell'azione dell'apostolo. Si deve all'analisi di Baur l'atteg­ giamento prudente della storiografia moderna sul valore storico degli At­ ti degli apostoli 14 . La seconda parte è destinata allo studio delle lettere pao­ line. Secondo Baur, soltanto le quattro grandi epistole (Romani, I e II Co­ rinzi e Galati) possono essere attribuite all'apostolo stesso. Il criterio di­ scriminatorio che permette di distinguere le epistole pseudoepigrafe è l' as­ senza del tema della giustificazione, che è proprio della teologia di Paolo e che lo contrappone all'altra corrente dominante della prima generazione cristiana, il giudeo-cristianesimo di Pietro. Il tema della giustificazione co­ stituisce il centro della terza parte del lavoro, consacrata alla dottrina del­ l'apostolo. La giustificazione paolina è interpretata come il segno del pas­ saggio dall'oggettività del legalismo ebraico alla soggettività della coscienza che prende possesso di se stessa 15 • La seconda opera di rilevante importanza sul Nuovo Testamento, pub­ blicata nel 1847, sono gli Studi critici sui vangeli canonici, sui loro rapporti, il

loro carattere e la loro origine (Kritische Untersuchung iiber die kanonischen Evan­ gelien, ihr Verhiiltnis zueinander, ihren Character und Ursprung) . Lo studio ha lo scopo di definire, mediante l'analisi del loro contenuto rispettivo, le ten14 Cfr. E. PLOMACHER, T!::RATEIA, Fiktion und Wunder in der hellenistisch-ri:imischen Geschichts­ schreibung und in der Apostelgeschichte, ZNW, 89 (1998), pp. 66-90. 1 5 Cfr. C. SENFT, Ferdinand Christian Baur. Apport méthodologique et in terpréta tion de Luc 15,11-32, in: F. BoVON, G. ROUILLER (a cura di), Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture, Neuchàtel, Delachaux & Niestlé, 1975, pp. 56-68.

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Appendice l . Interpretazioru classiche denze di ciascuno, per poter determinarne il posto nel processo dialettico che conduce al Vangelo di Giovanni, che ne costituisce lo sbocco. Secondo la ricostruzione di Baur, il Vangelo di Matteo esprime il principio cristiano nel linguaggio dell'ambiente lega lista del giudeo-cristianesimo, mentre un Protoluca, che rappresenta la posizione paolina, ne costituisce l'antitesi. Sia il vangelo canonico di Luca, sia quello di Marco, che riassume Matteo e Lu­ ca, costituiscono delle mediazioni tra i due, mentre Giovanni ne realizza la sintesi finale, cioè il compimento assoluto della salvezza mediante la co­ municazione immediata dell'essenza divina all' wnanità (Christophe Senft16). Le tre ultime opere di Baur sono una Storia del cristianesimo e della chiesa cristiana nei primi tre secoli (Das Christentum und die christliche Kirche der drei ersten fahrhunderte, 1853), una Storia dell'evoluzione della chiesa tra il quarto e il sesto secolo (Die christliche Kirche vom Anfang des vierten bis zum Ende des se­ chsten Jahrhunderts in den Hauptmomenten ihrer Entwicklung, 1859) e la Teo­ logia del Nuovo Testamento. Quest'ultima (Vorlesungen uber Neutestamentliche Theologie von Dr Ferdi­ nand Christian Baur) venne pubblicata dal figlio Ferdinand Friedrich nel 1864, dopo la morte del padre, sulla base dei corsi svolti fra il 1852 e il 1860. L'opera comprende due parti sbilanciate fra di loro. La prima tratta del­ l'insegnamento di Gesù (pp. 45-121). La tesi di Baur è che Gesù ha inteso la sua missione come quella di un Messia universalista e che la sua predi­ cazione mirava all'interiorizzazione della religione ebraica. La seconda par­ te è dedicata all'insegnamento degli apostoli (pp. 122-407) i cui presuppo­ sti comuni sono la risurrezione di Gesù e, di conseguenza, l'interpretazio­ ne teologica della sua morte. Ferdinand Christian Baur distingue tre epoche successive dell'insegna­ mento apostolico. l. Il primo periodo è segnato dall'opposizione dell'evangelo paolina al

giudeo-cristianesimo di Pietro (pp. 122-230). Stranamente, Baur lo trova espresso nell'Apocalisse di Giovanni. Secondo lui, essa si tro­ va in una linea di continuità diretta e immediata con la legge e i pro­ feti ebrei (pp. 207-230). L'insegnamento di Paolo è presentato come la sua antitesi, perché è l'antitesi al giudaismo: infatti, si basa sul­ l'affermazione che la giustificazione mediante le opere della legge è impossibile. Il capovolgimento della coscienza religiosa dell'aposto­ lo ha la sua origine nell'evento della morte di Gesù: un Messia ebreo non potrebbe essere un Messia crocifisso (pp. 128-207). 2. Il secondo periodo, che conclude il I secolo della nostra era cristiana, è quello dei tentativi di sintesi fra il paolinismo e il giudaismo dei giudeo-cristiani (pp. 230-238). Ne fanno parte l'Epistola agli Ebrei (pp. 230-256), le lettere deutero-paoline (Efesini, Colossesi e Filippe16 Cfr. ibid.

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Teologia del Nuovo Testamento si: pp. 256-277), l'Epistola di Giacomo, le due epistole di Pietro (pp. 277-297), i vangeli sinottici e gli Atti degli apostoli (pp. 297-338). Es­ so trova il suo sbocco nell'associazione delle due figure di Pietro e di Paolo con la città di Roma (Epistola di Clemente Romano, 5). 3. Il terzo periodo, che arriva fino alla metà del II secolo (pp. 338-407), vede nelle epistole pastorali la difesa del paolinismo contro la sua ri­ vendicazione da parte degli gnostici (pp. 338-351) ed è, d'altra par­ te, il periodo del Vangelo di Giovanni (pp. 351-407). Quest'ultimo rie­ sce a fare una sintesi ideale del paolinismo, del giudaismo e dell'el­ lenismo, cioè della gnosi. Costituisce al tempo stesso la conclusione storica e il compimento spirituale del cristianesimo delle origini. Le ricostruzioni complessive di Ferdinand Christian Baur appaiono con­ testabili su diversi punti di dettaglio e non sono state molto seguite. Non hanno ottenuto né una convinta adesione, né l'interpretazione della difesa dell'evangelo paolino come espressione di una opposizione fra Pietro e Pao­ lo, né la datazione alta dell'Apocalisse di Giovanni, né l'idea che Matteo e Luca fossero anteriori a Marco, sostenuta da Baur per ragioni di coerenza teologica e ripresa in un piccolo libro polemico dedicato al Vangelo di Mar­ co (Das MarkusEvangelium nach seinem Ursprung und Charakter, 1851). Vice­ versa, tanto l'aver messo in evidenza l'importanza centrale delle concezio­ ni teologiche di Paolo e di Giovanni nel Nuovo Testamento, quanto l'aver considerato il dibattito con il giudeo-cristianesimo come elemento deter­ minante nella produzione delle epistole paoline hanno fornito per tutto un secolo il paradigma della teologia neotestamentaria.

2.2 Rudolf Bulhnann (1948-1953) Se Ferdinand Christian Baur era un discepolo di Hegel, segnato dalla teologia liberale di Schleiermacher, l'impresa ermeneutica di Rudolf Bult­ mann si spiega soltanto con la duplice influenza della fenomenologia di Edmund Husserl e del pensiero esistenzialista di Soren Kierkegaard 1 7. Ciò significa che la storia si trova anche al centro della riflessione di Bultmann. Ma il significato che quel termine ha per lui è abbastanza diverso da quel­ lo che gli attribuiva Baur. Infatti, per Bultmann la categoria centrale non è quella della storia delle idee e dell'evoluzione della coscienza religiosa che l'accompagna, bensì il rapporto dell'individuo con il vissuto della sua pro­ pria storia. In tal modo Bultmann si allontana dalle prospettive dell'idea17 n termine di ermeneutica nell'opera di Bultmann ha il significato tecnico di una ri­ flessione sul lavori di interpretazione dei testi. Per una presentazione sintetica dell'opera di Rudolf Bultmann, vedi A. MALET, Mythos et Logos. La pensée de Rudolf Bultmann, Ginevra, La­ bor et Fides, 1962 (cfr. anche S. RONCHI, Rudolph Bultmann. Il teologo del Dio non oggettivabile, Torino, Claudiana, 2005).

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Appendice l. Interpretazioni classiche lismo per inserirsi in una tradizione spirituale che risale, al di là di Kierke­ gaard, fino a Martin Lutero e a sant'Agostino. Il nesso fra il cristianesimo e la storia passa per la comprensione che l'individuo ha della propria esi­ stenza davanti a Dio, davanti a se stesso e davanti all'Altro in quanto sog­ gettività personale. Rudolf Bultmann nacque a Oldenburg il 30 agosto 1884 e morì a Mar­ burgo, dove trascorse praticamente tutta la sua vita, il 3 luglio 1976. Chia­ mato a Marburgo nel 1921 vi insegnò in parallelo con il filosofo Martin Hei­ degger, giunto poco dopo. Essi strinsero rapidamente amicizia e collabo­ rarono persino nel quadro dei loro seminari. L'avvento del nazionalsocia­ lismo li ha tuttavia divisi in modo definitivo. Rudolf Bultmann e il suo col­ lega Hans von Soden si impegnarono fin dal settembre 1933 sulla questio­ ne ebraica, poi nella critica teologica del paganesimo nazista e nell'ambito della chiesa confessante 18 . Il tema principale di Rudolf Bultmann è il suo programma di interpreta­ zione esistenziale19 . Per lui, leggere e capire i testi neotestamentari significa esprimere la comprensione di sé che propongono e a cui chiamano. La de­ finizione di questo programma è determinata dall'aggettivo stesso della ri­ cerca bultmanniana. Infatti, gli scritti che compongono il Nuovo Testamento non hanno lo scopo di trasmettere una conoscenza religiosa, ma rappre­ sentano gli sviluppi del messaggio cristiano il cui oggetto per eccellenza è l'annuncio di Gesù Cristo, crocifisso e risuscitato; esso esprime la singola­ rità assoluta dell'atto di salvezza di Dio per l'umanità, cioè per l'esistenza di ogni individuo. Tale messaggio è al tempo stesso il fondamento, l'og­ getto e il soggetto della fede cristiana, poiché la sua proclamazione fa di chi ascolta un contemporaneo della parola fatta carne e lo colloca dinanzi a una decisione che può essere sia quella di credere, sia quella di scandalizzarsi in presenza del paradosso assoluto dell'incarnazione. Il programma dell'interpretazione esistenziale dei testi neotestamenta­ ri trae, come conseguenza, quello della demitologizzazion e2° . La tesi di Bult­ mann sostiene che le formulazioni e le rappresentazioni mitiche presenti in quei testi devono essere lette come dichiarazioni di tipo esistenziale. Il loro significato non è di trasmettere verità oggettive, come se l'interesse dei vangeli stesse nel raccontare tutti i minimi particolari della vita e delle ge­ sta di Gesù, e nell'archiviare una massa di informazioni, e neppure di co18 Cfr. H. LIEBING (a cura di), Die Marburger Theologen und der Arierparagraph in der Kirche. Eine Sammlung von Texten aus den Jahren 1 933 und 1 934, Marburgo, Elwert, 1977 (in i taliano vedi, G. BoNOLA, Un no e un sì al «paragrafo ariano» nella chiesa [Gutachten di Marburg ed Er­ langen], "Annali di storia dell'esegesi", 16/12, 1999, pp. 459-483) . 19 Cfr. A. GOUNELLE, Hommage à Bultmann, in: EthR 51 (1976), pp. 435-442. 20 Testo fondamentale: R. BULTMANN, Neues Testament und Mythologie. Das Problem der Entmytho/ogisierung der neutestamentlichen Verkiindigung. Nachdruck der 1 941 erschienenen Fas­ sung, Monaco di B., Artemis, 1988 (trad. it. Nuovo Testamento e mitologia. Il manifesto della de­ mitizzazione, Brescia, Queriniana, 199Q6). ,

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Teologia del Nuovo Testamento struire una visione religiosa del mondo che consenta all'anima angosciata di proteggersi dagli avvenimenti quotidiani e dall'imprevedibilità della pa­ rola. Gli elementi di mito devono piuttosto essere interpretati come espres­ sione del messaggio essenziale del Nuovo Testamento, cioè come un'affer­ mazione sull'esistenza umana, che interpella chi legge e gli rivolge una pro­ messa. Come si vede, per Bultmann non è questione di «demitizzare>> il Nuovo Testamento, come se si trattasse di purificare i testi dalle scorie mi­ tiche che contengono. Il termine di «demitizzazione>> - che è stato adope­ rato talora per esprimere il suo pensiero - deriva da un profondo malinte­ so. Viceversa, è importante rispettare la distinzione fondamentale che Bult­ mann stabilisce fra il termine di mito e quello di mitologia. Per lui il mito è una forma di linguaggio prescientifico che serve per descrivere il mondo e spiegare i fenomeni osservabili. Però, tale forma di linguaggio può essere integrata tanto a una mitologia, cioè a una spiegazione razionalista della realtà che la rende oggettiva e distante, quanto a una parola che si rivolge all'esistenza e la interroga. È evidente che i racconti di miracoli dei vange­ li e le narrazioni di Pasqua non hanno affatto l'intento di informarci su ciò che Gesù ha compiuto in un lontano passato. I racconti di Pasqua procla­ mano al contrario la Signoria del Crocifisso sulla storia degli esseri umani qui ed ora, e la sua presenza attuale nella vita di coloro che pongono in lui la loro fiducia. Allo stesso modo i racconti di miracoli ci invitano a lasciar­ ci trasformare e rinnovare dalla sua autorità liberatrice. Si potrà dunque af­ fermare che la demitologizzazione bultmanniana non propone null' altro che un'interpretazione esistenziale del mito. Il contrario di tale interpreta­ zione consiste invece nell'aggettivazione del messaggio di cui i testi sono l'e­ spressione, cioè in una strategia con la quale il lettore si serve del linguag­ gio mitico per immunizzarsi contro la sua potenza di trasformazione. È paradossale il fatto che Ferdinand Christian Baur con il suo rapido esame, idealista e sintetico, della storia della coscienza religiosa, e Rudolf Bultmann con il suo programma di interpretazione esistenziale, si trovino al tempo stesso agli antipodi e nella continuità diretta l'uno dell'altro. Da un lato, Bultmann concentra sull' autocomprensione dell'individuo una ve­ rità che aveva per Baur le dimensioni di un'evoluzione millenaria. D'altro lato, sia Bultmann sia Baur propongono una sintesi fra le due eredità del­ l'ortodossia e del liberalismo teologico. La concezione bultmanniana sta­ bilisce infatti un primo rapporto dialettico tra il punto di aggancio o la que­ stione esistenziale in cui si articola l'offerta dell'evangelo: da una parte, l'ac­ qua o il pane di vita che Gesù reca è il dono che sazia chiunque ha fame o sete; dall'altra parte, soltanto il lettore che cerca di scoprire il senso della sua vita porta la precomprensione necessaria per leggere e afferrare il mes­ saggio essenziale dei testi biblici. Questo primo rapporto dialettico è il co­ rollario di un secondo, ossia quello stabilito dall'interpretazione esisten­ ziale dei testi, cioè dall'interpretazione esistenziale dell'esteriorità (extra nos) della verità, che è il paradosso della parola fatta carne quale autocom-

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Appendice l . Interpretazioni classiche prensione della soggettività individuale. Con questa duplice dialettica, Bult­ mann si trova al tempo stesso in continuità con i suoi maestri liberali, che sottolineano la dimensione soggettiva della religione (Wilhelm Herrmann), e nel movimento della teologia dialettica che sostiene l'alterità e l'oggetti­ vità della Parola (Karl Barth). Le prime due opere importanti di Rudolf Bultmann sono la sua Storia della tradizione sinottica (1921 ) e il suo Gesù (1926, apparso stranamente co­ me primo e unico volume di una Collana intitolata «Gli immortali»). La Storia della tradizione sinottica è un'analisi dell'insieme delle tradizioni rac­ colte e trasmesse dai primi tre vangeli. La tesi iniziale dell'opera sostiene che le brevi sequenze narrative e discorsive di cui sono composti Marco e poi Matteo e Luca (racconti di miracoli, di controversie, parole di Gesù, pa­ rabole) appartengono alla «piccola letteratura», ossia a una produzione fun­ zionale delle prime comunità cristiane. La seconda tesi è conseguenza del­ la prima: il ritratto di Gesù che i vangeli ci presentano non è la figura del Gesù storico, bensì quella del Cristo. A partire da queste considerazioni il libro su Gesù mostra che la fede cristiana può trovare il suo fondamento soltanto nella proclamazione pasquale della sua morte e risurrezione, e non nella sua predicazione pre-pasquale, che presenta una sintesi fra il rabbino e il profeta, e appartiene alla storia del giudaismo. I tre capolavori principali di Bultmann sono poi il suo Commentario del Vangelo di Giovanni (1941 ), Il cristianesimo primitivo nel quadro delle religioni antiche (1949) e la Teologia del Nuovo Testamento (1948-1953). Il commentario al Vangelo di Giovanni presenta un'interpretazione esistenziale di questo vangelo. Il cristianesimo nel quadro delle religioni dell'antichità mette a confronto la comprensione dell'esistenza umana del cristianesimo delle ori­ gini con quella dell'Antico Testamento, del giudaismo, della Grecia classi­ ca e dell'ellenismo. Quanto alla Teologia del Nuovo Testamento, essa è intera­ mente costruita attorno alle due colonne rappresentate dalla comprensio­ ne della fede cristiana che sviluppano Paolo e Giovanni. L'ultima opera di Bultmann è un commentario alle Lettere di Giovanni (1967), e gli appunti esegetici preparati in vista di un commentario della Seconda lettera ai Corinzi (rimasto incompiuto) furono pubblicati nel 1976 da uno dei suoi allievi. L'essenziale della riflessione teologica ed erme­ neutica di Bultmann si trova nei saggi che sono stati raccolti e ristampa­ ti in quattro volumi dal titolo Glauben und Verstehen (Credere e comprende­ re, 1933, 1952, 1960 e 1965) 21 . La Teologia del Nuovo Testamento, pubblicata originariamente in tre fa­ scicoli (1948, 1951 e 1953), è costruita in tre parti. La prima e la terza, per la loro struttura e per il loro contenuto, apparten­ gono piuttosto alla storia della teologia del Nuovo Testamento. La prima par21

Cfr. R. BULTMANN, Fai et campréhension, Parigi, Seui!, Raccolta di articoli, Brescia, Queriniana, 19862).

prendere.

1969-1970 (trad. it. Credere e com­

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Teologia del Nuovo Testamento te presenta i presupposti e i motivi della teologia del Nuovo Testamento: innanzi­ tutto, la predicazione di Gesù, che fa parte dei presupposti (parr. 1-4), poi il kerygmtl della comunità delle origini, che si trova in un rapporto di continuità discontinua con la predicazione di Gesù nella duplice misura in cui presup­ pone l'evento pasquale e in cui fa di Gesù crocifisso e risorto l'oggetto della sua fede (parr. 5-8), e infine il kerygmtl della comunità ellenistica prima di Paolo e in contemporanea a lui (parr. 9-15), che introduce il complesso dei luoghi clas­ sici della teologia cristiana: i temi della predicazione nell'ambiente pagano, la costituzione della chiesa, la definizione dei sacramenti, i primi sviluppi della riflessione sulla cristologia e sullo Spirito santo, il rapporto con l' Anti­ co Testamento e l'influenza dei temi gnostici sul pensiero cristiano. Le ipotesi di base sono cambiate, ma la prospettiva non è molto diver­ sa da quella di Ferdinand Christian Baur. In modo ancor più chiaro che in quest'ultimo, la predicazione di Gesù non è considerata parte della teolo­ gia del Nuovo Testamento. Infatti, tale teologia si definisce come lo svi­ luppo dell'annuncio della morte e della risurrezione di Gesù. Tuttavia, è sparita l'antica contrapposizione tra il giudeo-cristianesimo petrino e l'et­ nico-cristianesimo paolina, che era per Baur il punto di partenza della teo­ logia apostolica. È stata invece sostituita da una distinzione fra la comunità palestinese delle origini e lo sviluppo del cristianesimo nel mondo greco e pagano: tale distinzione per molto tempo classica è stata poi relativizzata dalla recente scoperta dell'ampiezza dell'ellenizzazione della Palestina nel I secolo. La terza parte è dedicata all'evoluzione verso la chiesa antica. Quell'evolu­ zione è descritta e analizzata sotto tre aspetti complementari. Il primo ri­ guarda l'immagine che la Chiesa si fa di se stessa. A questo proposito si con­ stata la nascita e il primo sviluppo dell'ordinamento ecclesiastico, cioè di mini­ steri organizzati e di una nuova percezione che il cristianesimo ha di se stes­ so come religione e come istituzione di salvezza (parr. 51-53). Il secondo aspetto è quello dell'evoluzione della dottrina, con uno spostamento verso l'e­ tica. La riflessione sulla continuità della tradizione si affianca alla defini­ zione di una verità dottrinale, con una tendenza alla speculazione cosmo­ logica e con una concentrazione del pensiero teologico sul problema della salvezza (parr. 54-58). Il terzo aspetto riguarda il problema della condotta cri­ stiana di vita, in cui la morale e gli ideali di perfezione crescono d'importanza e tendono a essere sanciti dalla disciplina comunitaria (parr. 59-61). Anche questa terza parte si trova nel solco indiretto del modello storico di Ferdinand Christian Baur, come è stato ripreso e modificato da Adolf von Hamack, che parlava di cattolicesimo embrionale, e da Emst Troeltsch, che ha introdotto il concetto di «proto-cattolicesimo>> (1912)22 . 22 Cfr. E. TROELTSCH, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen, in Gesammelte Schriften, l, Tubinga, Mohr, 1912 (trad. it. Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani, Fi­ renze, La Nuova Italia, 19692).

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Appendice l. Interp retazioni classiche La seconda parte, dedicata a Paolo e a Giovanni, è al tempo stesso la più innovativa e la più impressionante. Seguendo due itinerari simili, presen­ ta la ristrutturazione della storia personale del soggetto umano grazie al­ l'incontro con l'evento della manifestazione della giustizia di Dio (Paolo) o della rivelazione del Rivelatore (Giovanni). Da un punto di vista programmatico, l'interpretazione della teologia paolina contrappone due parti. La prima è consacrata all'analisi della con­ dizione dell'esistenza umana prima della rivelazione della fede (parr. 17-27), mentre la seconda descrive quella dell'esistenza umana sotto la fede (parr. 28-40). La prima parte comincia con una definizione dei concetti antropo­ logici paolini (il corpo, l'anima, lo spirito e la vita, l'intelligenza e la co­ scienza, il cuore (parr. 17-20), per presentare poi il dramma dell'esistenza sotto il dominio della carne, del peccato, della morte, della legge (parr. 2127). L'individuo che si autoglorifica e pone la sua fiducia in se stesso si con­ danna all'angoscia e stabilisce la carne come una potenza a cui si sotto­ mette, diventando così lo schiavo del peccato. La seconda parte è costrui­ ta su quattro concetti chiave: la manifestazione della giustizia di Dio che di­ venta evento nell'istante presente, e l'affermazione di una riconciliazione già avvenuta (parr. 28-31). L'evento trasformatore è quello della grazia di Dio che è già stata rivelata nella morte e risurrezione di Cristo, e che di­ venta presente nella parola della predicazione, nella chiesa e nella celebra­ zione dei sacramenti (parr. 32-34). Accogliere la verità-evento nella sog­ gettività dell'esistenza individuale è accettazione della fede che è al tempo stesso ascolto, confessione, speranza, timore e fiducia (parr. 35-37). La con­ dizione del credente è quella della libertà; infatti, è stato affrancato dal pec­ cato per camminare nello Spirito, è stato liberato dalla legge per servire nel­ l'amore ed è stato liberato dalla morte in vista della promessa della vita eterna (parr. 38-40). La forza della presentazione deriva dalla semplicità della sua struttura, interamente determinata dal centro del messaggio essenziale dell'apostolo. La singolarità assoluta di un evento liberatore e, pertanto, fondatore, costi­ tuisce l'asse di simmetria di una dichiarazione dell'apostolo che rivela l'ori­ gine dell'esistenza umana, il suo significato e la sua vera responsabilità. La stessa simmetria e la stessa interpretazione esistenziale dominano la presentazione della teologia del Vangelo e delle epistole di Giovanni. Si comincia con l'interpretazione del dualismo giovanneo, che mette in evi­ denza la duplice possibile determinazione dell'esistenza (parr. 42-44). L'o­ scurità risiede in effetti nel fatto che l'essere umano trae la sua origine dal mondo e non da Dio. Perciò, mentre cerca disperatamente, con le sue sole forze, di essere se stesso, trasforma la verità in menzogna e nega al mondo la sua qualità di creazione, facendone un'entità opposta alla luce, e co­ struisce la sua sicurezza con una religione fondata sulla sua propria storia. In tali condizioni il determinismo di Giovanni esprime l'impossibilità per l'esistenza di accedere di per sé alla luce e alla verità: tale passaggio può

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Teologia del Nuovo Testamento essere ricevuto soltanto come un dono di Dio. Il centro della teologia gio­ vannea è quindi la singolarità della verità-evento assoluta dell'incarnazio­ ne, che rappresenta il giudizio del mondo (parr. 45-48) . Tale singolarità con­ siste nell'invio del Figlio da parte del Padre e nel suo ritorno presso il Pa­ dre, ed è, in realtà, l'evento che reca la salvezza al mondo. Ma in quale mo­ do il Rivelatore reca al mondo la salvezza? Perché rivela che egli stesso è il Rivelatore. Infatti, la rivelazione del Figlio inviato dal Padre non ha altro contenuto che l'affermazione del fatto stesso (non il