La teologia del Nuovo Testamento. Gesù, Paolo, Giovanni
 8839401660, 9788839401663

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NUOVO TESTAMENTO Supplementi A

cura

di GERHARD FRIEDRICH VOLUME 3

LA TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO

GESù PAOLO GIOVANNI

PAIDEIA EDITRICE BRESCIA

LA TEOLOGIA DEI.J NUOVO 11ESTAMENTO

GESÙ PAOLO GIOVANNI DI

WERNER GEoRG KuMMEL

PAIDEIA EDITRICE BRESCIA

Titolo originale dell,opera:

Werner Georg Ki.immel Die Theologie des Neuen Testaments nach seinen Hauptzeugen ]esus, Paulus, ]ohannes Traduzione di Francesco Tomasoni Revisione di Enzo Gatti © Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1969 © Paideia Editrice, Brescia r976

Al Senato delfUniversità di Glasgow in segno di gratitudine per il conferimento del dottorato in Teologia

INTRODUZIONE

1.

La problematica di una teologia del Nuovo Testamento

cristiano che legge la Bibbia sa bene che essa consiste di due parti diverse, i cui pensieri non coincidono s-emplicemen­ te tra loro ; esse sono l'Antico Testamento, riconosciuto come Sacra Scrittura anche dagli Ebrei e, più importante per i cri­ stiani , il Nuovo Testamento. Ma lo stesso lettore pensa con altrettanta tranquillità - a meno che non sia già influenzato dalle posizioni della teologia moderna - che l'Antico e il Nuo­ vo Testamento sono due realtà unitarie e che quindi ci si può a buon diritto interrogare sulla dottrina dell'Antico Testa­ mento e Stl quella del Nuovo Testamento . Ebbene, già l'idea che le concezioni dell'Antico e del Nuovo Testamento non concordano tra loro è stata per lungo tempo niente affatto ovvia per i crjstiani ; d'altra parte, l 'opinione che l'Antico e il Nuovo Testamento costituiscono ciascuno per conto pro­ prio un'unità di fatto è stata messa in questione nello stesso tempo in cui fu posta in crisi la convinzione dell'accordo tra l'Antico e il Nuovo Testamento. Di fatto c'è · un rapporto necessario tra il problema dell'accordo dei due Testamenti e quello dell 'unità dell'Antico e del Nuovo Testamento. Se quindi poniamo il problema di una teologia del Nuovo Te­ stamento e non di tutta la Bibbia, automaticamente ci tro­ viamo di fronte anche alla questione dell 'unità del Nuovo Testamento stesso e dell'eventuale molteplicità delle voci che vi risuonano . Ciò diventa evidente appena gettiamo uno sguardo sull 'origine della questione di una teologia neote­ stamentaria . Il

IO

Introduz.ione

Martin Lutero davanti alla dieta di Worm del r 5 2 r ave­ va affermato di non credere né al papa né ai concili, ma sol­ tanto alla Sacra Scrittura e ad argomenti inequivocabili ; gli altri riformatori in modo analogo avevano proclamato la Bib­ bia come unica autorità nei confronti della dottrina della chiesa . La Bibbia fu cosl posta al centro come unica autorità con una chiarezza fino ad allora sconosciuta; il rifiuto della autorità della tradizione ecclesiastica a favore dell'unica au­ torità della Bibbia da parte della teologia riformata si rivol­ geva sostanzialmente solo contro la dottrina e la configura­ zione della chiesa medioevale; l'ortodossia riformata come quella protestante mantennero ferma fino alla metà del sec. XVIII la convinzione che la dottrina della Bibbia fosse in sin­ tonia con le concezioni e le confessioni di fede dell'antica chiesa. Lutero stesso però, lavorando alla traduzione del Nuo­ vo Testamento a Wartburg nel 1521-22, scopriva che all'in­ terno di esso si hanno contraddizioni tra i vari scritti, soprat­ tutto tra la Lettera di Giacomo e quella agli Ebrei da un lato e le Lettere paoline dall'altro, scontrandosi così con il dato di fatto della molteplicità e contraddittorietà dei testimoni della fede neotestamentaria. Ma queste osservazioni espresse nella presentazione della sua traduzione del r 5 2 2 non pote­ rono farsi strada, poiché proprio la convinzione appena ac­ quisita dell'esclusiva autorità della Sacra Scrittura s'oppone .. va all'assunzione di tali punti di vista da parte della chiesa protestante. Un'esposizione dei pensieri della Bibbia comple­ tamente indipendente dalla tradizione ecclesiastica e che te­ nesse presente le peculiarità dei vari scritti non fu quindi possibile neppure all'interno della teologia evangelica per più di due secoli dopo Lutero ; e anche quando nel secolo XVII si cominciò a scrivere libri intitolati « teologia biblica» que­ sto avvenne solo per scegliere e raccogliere citazioni bibliche che servissero alla dogmatica ortodossa. Le cose cambiarono solo allorché nella seconda metà del secolo XVIII, in connessione con il movimento illuminista,

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II

incominciò a prendere piede e ad imporsi all'interno della teologia protestante la coscienza che la Bibbia era un libro scritto da uomini, che come ogni altra opera della mente umana poteva essere compreso adeguatamente solo con l'uso dei metodi della storiografia. Di qui l'inevitabile conseguen­ za che anche l'esposizione del contenuto spirituale della Bib .. bia, la « teologia biblica» , potesse farsi adeguatamente solo con l'ausilio della ricerca storica, se lo si voleva veramente individuare all'infuori di ogni influenza della dogmatica e nella sua piena autonomia . Tuttavia, appena s'iniziò a pre11dere sul serio tale problematica storica riferita al conte­ nuto biblico, come si cominciò a fare attorno al r 8 oo, non solo si avvertì la necessità di separare completamente l'e­ sposizione dell'Antico da quella del Nuovo Testam·ento, ma anche di individuare e rispettare nella descrizione dei concetti del Nuovo Testamento il modo di esprimersi di Ge­ sù e di ciascuno dei diversi scrittori apostolici . E non ci si poteva fermare a metà strada : se la Bibbia, in quanto opera di autori umani, va studiata con criteri storiografici per com­ prenderne il vero senso, non ci si può attenere al presup­ posto che l'Antico e il Nuovo Testamento costituiscono cia­ scuno un'unità; occorre piuttosto badare alle differenze al­ l'interno dei due Testamenti e fare i conti con la possibilità di un eventuale sviluppo o falsificazione del pensiero . Per questo fin dall 'inizio la teologia neotestamentaria dovette af­ frontare il problema della diversità e u11ità nel N.T. Lo sforzo per esporre il contenuto teologico del Nuovo Testamento come una entità storica a sé stante creò quindi fin dall'inizio una tensione nei confronti di ogni forma di teologia dogtnatica . Infatti, l'esposizione della dottrina cri­ stiana come risposta alla domanda sull'essenza della rivela­ zione di Dio in Gesù Cristo deve ovviamente aver per scopo - qualunque siano i suoi presupposti o le direttive che si autoimpone - quello di esporre una dottrina unitaria; essa va quindi inevitabilmente incontro a difficoltà quando vuole

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l ntroduzione

appoggiarsi al Nuovo Testamento come base dei suoi assiomi o delle sue espressioni, mentre la teologia biblica non è in grado di presentarle nessuna dottrina unitaria del Nuovo Te­ stamento. Eccoci così davanti al problema vero e proprio di una «teologia del Nuovo Testamento>>. Questo problema è evidentemente soltanto un caso spe­ ciale all'interno delle difficoltà davanti alle quali si vede po­ sta qualunque esegesi del Nuovo Testamento che voglia es­ sere adeguata e coerente. L'esegeta infatti, fin da quando si affatica a individuare il significato dei singoli scritti neotesta­ mentari- ed è questo ovviamente il presupposto per la que­ stione della teologia del Nuovo Testamento - si trova di fronte ad un compito impossibile. Gli scritti raccolti nel Nuo­ vo Testamento sono secondo la loro natura documenti anti­ chi di storia delle religioni, scritti in una lingua morta e in categorie e concetti che per noi non sono più immediatamen­ te comprensibili. Solo quindi percorrendo la strada della ri­ cerca storiografica si può restituire loro una voce autentica, e solo per questa via è possibile acquisire una comprensione almeno approssimativa del pensiero dell'autore. Questo sfor­ zo per una comprensione scientifica del testo biblico può portare, per forza di cose, a risultati sempre più discutibili e !abili e spesso soltanto ad ipotesi, con la conseguente neces­ sità di giudicare ponderatamente se attenersi al risultato rag­ giunto o se sostituirlo con nuovi tentativi e ricerche. Ma questi stessi scritti del Nuovo Testamento sono stati ordinati dalla chiesa antica in un canone di scritti sacri, la cui estensione non fu più seriamente posta in discussione a par­ tire dal secolo IV; essi hanno quindi ricevuto il carattere di scritti normativi, fondamentali per la fede dei cristiani; ad essi il credente deve incondizionatamente obbedire. È facile però vedere che in fin dei conti è impossibile affrontare con­ temporaneamente gli scritti del Nuovo Testamento con l'at­ teggiamento dello studioso critico e con quello dell'uomo credente in ascolto. Tutti i tentativi fatti e ripetuti in ogni

La problematica di

una

teologia del N.T.

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modo - come è comprensibile - per risolvere questo dilem­ ma furono destinati e sono destinati al fallimento, poiché non rispettano il dato di fatto. Il lavoro scientifico per la com­ prensione del Nuovo Testamento, proprio quando è intra­ preso nell'ambito della chiesa e partendo da presupposti di f.ede> deve tenere presente il fatto che noi possiamo pervenire ad un ascolto di fede del messaggio neotestamentario solo percorrendo questa strada: quella di tentare di rendere com­ prensibili le espressioni degli antichi autori degli scritti neo­ testamentari così come erano in grado di comprenderle gli ascoltatori o i lettori loro contemporanei. Alla comprensione degli scritti neotestamentari non si dà quindi accesso diver­ so da quello di tutti gli altri scritti dell'antichità: quello del­ la valida e sana ricerca storica. Molto, evidentemente, dipen­ de dall'intraprendere tale studio in modo imparziale e alla debita distanza o con interiore partecipazione e quindi, in ultima analisi, con l'adesione dell'ascolto. Chi dunque si interroga sul contenuto d'uno scritto neo­ testamentario si trova posto di fronte alla necessità di arri­ vare all'ascolto personale e partecipato percorrendo le sco­ mode strade della illuminazione scientifica dell'antico testo; ma le difficoltà in questa rielaborazione di una teologia del Nuovo Testamento risultano veramente straordinarie. Infatti la ricerca scientifica a partire dal sec. XIX ha inconfutabilmen­ te dimostrato ciò che Lutero osservava come esempi spora­ dici e singoli: nel Nuovo Testamento risuonano voci diffe­ renti, tali da non poter essere armonizzate immediatamente e di primo acchito. Il compito primario di una teologia del Nuovo Testamento non può quindi essere, in nessun caso, quello di esporre sinteticamente come un tutto unitario le concezioni neotestamentarie. In questo caso sarebbe inevita­ bile o la riduzione di concezioni di singoli scritti o gruppi di scritti ad una visione unitaria armonizzante o il sacrificio dei concetti meno rappresentati a favore di quelli dominanti. Il compito di una teologia del Nuovo Testamento può essere

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Introduzione

piuttosto soltanto quello di far parlare prima di tutto i singoli autori secondo il loro linguaggio e solo in un secondo mo­ mento interrogarsi sull'unità che ne può risultare o anche constatare le differenze non conciliabili. La predicazione di Gesù Cristo mediante i testimoni neotestamentari deve quin­ di dapprima interrogarsi sulle diverse forme e solo in seguito sul loro contenuto comune. Evidentemente non sarà possibile stabilire a priori il rap­ porto di successione temporale e di eventuale dipendenza degli scritti tra loro. E poiché queste domande devono rice­ vere una risposta solo per via storica e quindi in base a giu­ dizi scientifici, esse saranno passibili di molte e diverse ri­ sposte. Per la successione cronologica degli scritti costituisce senz'altro un presupposto importante la determinazione dei rispettivi rapporti di origine e di sviluppo; ma proprio il giudizio su questi rapporti è in molti casi del tutto incerto ; il giudizio e la decisione ultima quindi sul rapporto storico e la successione cronologica delle diverse forme di predicazione neotestamentaria può essere fatto solo in base al confronto contenutistico. Perciò molto div·erse sono le opinioni, per esempio, sul problema della collocazione cronologica della teologia giovannea (Vangelo e Lettere ) ; si discute anche se è giusto e possibile iniziare la teologia del Nuovo Testamento con una esposizione della predicazione di Gesù, poiché di questa noi sappiamo solo qualcosa grazie alla testimonianza della comunità credente, che ha trovato stesura scritta nei tre sinottici . La soluzione a queste domande può venire solo qualora il contenuto dei singoli scritti o gruppi di scritti venga reso comprensibile e chiarito dapprima indipendentemente da al­ tre forme espressive. Il che implica che l'ordinamento e la esposizione di una « teologia del Nuovo Testamento» può essere solo il risultato dell'impegno per comprendere le di­ verse forme della predicazione neotestamentaria. Partendo da queste posizioni metodologiche si cercherà in

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quest'opera di esporre la predicazione di Gesù, la teologia di Paolo sullo sfondo della comunità primitiva e il messaggio· cristologico giovanneo nei loro tratti essenziali; partendo da questa esposizione ci si interrogherà poi sull'unità di queste diverse forme di annuncio. Questa delimitazione potrebbe apparire arbitraria; essa non è affatto determinata dalla con­ vinzione che gli altri scritti del Nuovo Testamento siano non essenziali o in ogni caso senza valore . Ma non ci può essere dubbio che queste tre forme della predicazione neotestamen­ taria si distinguono non solo per estensione, ma soprattutto per importanza, dagli altri scritti neotestamentari, e che è quindi lecito e possibile farsi, in base ad esse, un quadro chiaro ed esauriente del nucleo del messaggio neotestamen­ tario ; in rapporto con esso si può quindi porre il messaggio degli altri scritti . Si renderà necessario affrontare la teologia di questi altri scritti in un altro volume di questa serie ; ma è · anche essenziale ed utile partire da queste forme principali della predicazione neotestamentaria per giungere col loro aiuto a una vision·e fondamentale dell 'essenza del mondo con­ cettuale neotestamentario. È importante evitare di sottoporre le diverse forme di annuncio ad uno schema imposto dal­ l'esterno. Infatti ciascuna delle forme di predicazione neo­ testamentaria ha le sue preferenze e i suoi orientamenti. Sa­ rà quindi necessario farsi indicare in ogni caso l'ordin·e da seguire nella esposizione dal carattere stesso di questa predi­ cazione, per arrivare così ad una comprensione storicamente adeguata di ogni forma di annuncio. Rispettando il carattere della collana di cui fa parte, que­ st'opera non vuole sostituirsi ai manuali di insegnamento ; non sarà possibile quindi né prendere in considerazione tutte le questioni né riportare per i problemi trattati tutte le cita­ zioni bibliche . Se non viene espressamente notato, dalle ci­ tazioni dei passi non si deduca che non vi siano altri passi ti­ ferentesi a un determinato termine o a una determinata con­ cezione.

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lntroduzione

Le traduzioni dei passi neotestamentari offerte in questo libro intendono solo rendere nel modo più chiaro possibile l'interpretazione delle citazioni presupposte dall'autore, a scapito anche della fluidità del linguaggio . Il lettore facendo uso di una traduzione moderna del Nuovo Testamento do­ vrebbe continuamente assicurarsi se non sia possibile anche un'altra interpretazione dei testi; egli dovrebbe inoltre com­ pletare la lettura dei testi citati in modo incompleto anqando alla Bibbia direttamente. Per la prima parte si raccomanda l'uso di una sinossi dei primi tre vangeli. Poiché usando la sinossi è facile trovare i passi paralleli di un testo citato, essi verranno di solito indicati con un par. che segue al passo ci­ tato. Si noti al riguardo che questa indicazione significa solo che esiste un passo parallelo ; non è detto che esso ne­ cessariamente coincide con quello citato . Solo di tanto in tanto si è fatto riferimento all'esegesi e agli excursus dei commenti della collana . Benché le opinioni sul loro reciproco rapporto letterario continuino ancora ad essere divergenti, è invalsa la convinzione che gli autori dei due Vangeli più ampi, quello di Matteo e quello di Luca, abbiano usato come loro base l'attuale Vangelo di Marco, ampliandolo con materiale prove­ niente da una comune fonte perduta e con altro contenuto loro peculiare. Se ne è dedotto che la narrazione della vita di Gesù contenuta nel Vangelo di Marco, essendo la più an­ tica, doveva essere considerata come storicamente attendi­ bile ed essere usata come base per presentare l'attività di Ge­ sù, con la convinzione parallela che la comune tradizione del Vangelo di Matteo e di Luca ( la cosiddetta Redenquelle, «fonte dei discorsi» ) contenesse il materiale più attendibile per presentare la predicazione di Gesù . Su questi presuppo­ sti si basa la ricerca scientifica ( in parte ancor oggi seguita ) che il secolo xrx ha condotto su Gesù e che è stata tanto se­ veramente criticata da A. Schweitzer nella sua Geschichte der Leben-Jesu-Forschung. Questa fiducia nell'attendibilità storica del Vangelo di Marco e della fonte dei discorsi è stata tuttavia scossa fin dal­ l'inizio del nostro secolo per due motivi . Da una parte l'e­ same più preciso della struttura del Vangelo di Marco ha mo­ strato che questa più antica presentazione dell'attività di Ge­ sù non si fonda su una conoscenza della successione storica

Il problema del Gesù storico

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degli avvenimenti, ma dipende dall'evangelista Marco, che ha ordinato i singoli racconti o gruppi di racconti a lui tra­ mandati, secondo una concezione teologica di fondo e così ha creato una narrazione solo tenuamente connessa. L'antico patrimonio della tradizione soggiacente al Vangelo di Marco è costituito quindi solo da singoli racconti o da singoli detti. Questo vale ancor più per la fonte dei discorsi, che evidente­ mente aveva ordinato per argomenti i detti o i gruppi di detti di Gesù, trasmessi nella tradizione. Non si può quindi trarre alcuna conclusione storica dalla successione e dalla ordina­ zione dei singoli testi nell'ambito dei Vangeli. D'altra parte, l'indagine sui singoli racconti e sui singoli detti ha provato che essi non rappresentano semplicemente un ricordo tra­ smesso in modo invariato, ma che il complesso della tradizio­ ne orale soggiacente ai nostri Vangeli si è formato e trasfor­ mato nel contesto della predicazione e dell'insegnamento del­ la comunità cristiana, sicché non possiamo fondarci sempli­ cemente sulla persuasione che i racconti e i detti trasmessi corrispondano alla realtà storica della vita e dell'insegnamen­ to di Gesù. Perciò di fronte alla necessità che ne risulta d'una analisi critica, oggi con varia intensità si pone in questione o si limita la possibilità di dare un quadro storicamente atten­ dibile della vita e dell'insegnamento di Gesù. 2.

La problematica teologica

La questione del Gesù storico però, oltre che perdere la sicurezza storica, ha subito fin dall'inizio del secolo obiezio­ ni teologiche che ne negavano la legittimità. Il teologo di Halle Martin Kahler, ammise l'impossibilità di fondare la fe­ de nella salvezza di Dio per opera di Gesù Cristo sui risultati incerti e mutevoli della ricerca scientifica e contestò quindi il diritto della teologia di ricercare il Gesù prepasquale di Nazaret risalendo oltre i racconti dei Vangeli: la vera imma­ gine di Cristo non è il «Gesù storico» dell'indagine moderna,

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La predicazione di Gesù

ma il Cristo predicato dai testimoni apostolici. E una gene­ razione dopo Rudolf Bultmann accolse la tesi del Kahler, persuaso che sul Gesù storico si potesse sapere solo poco e che la fede venisse suscitata mediante la predicazione (il ke­ rygma ) dei testimoni neotestamentari. Egli sostenne questa opinione: «Non si può risalire dietro al cherigma per rico­ struire un Gesù storico. Non il Gesù storico, ma Gesù Cri­ sto, quello predicato, è il Signore>>. Cosl però la questione del Gesù storico era diventata superflua per chi si proponeva di comprendere la teologia del Nuovo Testamento; di conse­ guenza il Bultmann nel contesto della sua presentazione de

Il cristianesimo primitivo nel quadro delle religioni antiche

ha trattato la predicazione di Gesù all'interno del giudaismo. Se questa opinione fosse esatta sarebbe impossibile ed erra­ to cominciare l'esposizione della teologia del Nuovo Testa­ mento secondo i suoi testimoni principali presentando la pre­ dicazione di Gesù. È però molto discutibile e di fatto recentemente si è molto discusso se questo rifiuto teologico della questione riguar­ dante il Gesù storico sia corretto e se, qualora errato, sia ne­ cessario un atteggiamento scettico di fronte alla possibilità di ottenere un'immagine storica di Gesù. Ovviamente, nel nostro contesto è soprattutto determinante la questione se, occupandoci della teologia del Nuovo Testamento, dobbia­ mo rivolgere la nostra ricerca al Gesù storico. Ora, certa­ mente lo storico non si lascerà precludere tale questione, poi­ ché deve sapere qualcosa di Gesù se vuole davvero compren­ dere l'origine del cristianesimo. Ma anche il cristiano, che nella testimonianza degli apostoli ascolta il messaggio riguar­ dante il Signore risorto, Gesù Cristo, e vi presta fede, incon­ tra in questo messaggio l'affermazione che il Signore risorto si identifica con l'uomo Gesù di Nazaret, in compagnia del quale durante la sua attività terrena visse una parte dei testi­ moni della risurrezione. La fede perciò, se vuoi rendere con­ to di se stessa, se vuole cioè riflettere teologicamente, è ar-

Il problema del Gesù storico

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dentemente interessata a scoprire se e in qual misura esista o no una concordanza fra l 'imm agine che essa ha di Cristo in base alla predicazione apostolica e la realtà storica di que­ sto Gesù, alla quale essa si rifà. La persona e la predicazione di Gesù fanno da presupposto alla confessione di fede nel ri­ sorto e alla predicazione della comunità sulla rivelazione di Dio nel figlio suo Gesù Cristo; perciò il cristiano che esamina il messaggio del Nuovo Testamento deve anche ricercare quel Gesù che fonda la sua fede. Così è indubbio che all'inizio dello studio della teologia neotestamentaria si pone la que­ stione del Gesù storico. Ma è possibile risolvere tale questione anche scientifica­ mente ? L'impossibilità di comporre una biografia di Gesù e di presentare lo sviluppo della sua predicazione è oggi am­ piamente riconosciuta, poiché sappiamo che nella primitiva tradizione orale furono conservati non il contesto e la suc­ cessione delle azioni e delle parole di Gesù, ma solo racconti e detti o gruppi di detti staccati ; unica eccezione è la passio­ ne. La presentazione della predicazione di Gesù nel contesto della teologia del Nuovo Testamento deve perciò rinunciare con decisione e coerenza a ogni tentativo di arguire dalla suc­ cessione dei racconti evangelici la genesi e i cambiamenti del pensiero di Gesù . Ma con ciò si affaccia appunto il problema metodologico vero e proprio . Infatti l'analisi dei Vangeli, co­ me ha rilevato con certezza che i singoli testi rappresentano la tradizione originaria, così ha pure mostrato che tutto il materiale della tradizione assunto nei Vangeli non è stato formato e trasmesso per interessi biografici o storici, ma in rapporto con la predicazione e l'insegnamento della comunità cristiana, cioè in rapporto con la fede nella risurrezione e nella sovranità celeste di Gesù Cristo . Ciò non significa af­ fatto che la fede abbia creato la tradizione, ma che è del tutto impossibile accostarsi a uno strato della tradizione di Gesù che si sia conservato indipendente dalla fede e sia stato così trasmesso. E anche l'ipotesi recentemente esposta secondo

La predicazione di Gesù

cui Gesù stesso avrebbe avuto cura che i suoi discepo li fis­ sassero con precisione nella memo ria le sue az ion i e le sue parole, cont ra ddice al carattere cangiante della t r ad iz ione su Gesù. Questa i potesi è tanto inadeguata a provare l'attendi­ bilità storica della tra dizion e su Ges ù nel suo ins ie me quanto lo è l'osservaz ione che il nucleo fondamentale della tra dizio ­ ne su Gesù risalirebbe a testi mo n i oculari della vita di Gesù di v enuti poi tes timon i della sua risurrezione. Il complesso della tradizione su Gesù utilizzata nei Van geli proviene piut­ tos to dalla fede e dalla predi cazi one della co munità ed è so ­ lo l'esame critico dei si ngoli frammenti di tra di zione che può deci de re se e in quale proporzione questa tradizione risale al tempo prepasquale e riproduce in modo attendibile la real­ tà stori ca di Gesù e de l suo insegnamento. Se questo è vero, è d'altra parte errato aff ronta re questo lavoro con la pretesa, spesso avanzata recentemente, che deb­ ba essere dimostrata l' «autenticità» di ogni singola parola di Gesù e la s torici tà di ogni singolo racconto; infatti non c'è pro prio motivo di supporre che l'attendibilità storica di un frammento di tradiz ion·e possa per sé costituire solo un ' ecce­ zione. Il rice rcatore che es ami na la per sona e la predicazione di Gesù si troverà piu ttosto di fronte al compito di scoprire all'interno di tutto il corpo della tradiz ione quello strato che può essere dimostrato come il più antico. In ques to compito accorgimenti metodologici indispensabili sono il confronto letterario fra i raccont i paralleli dei Van g el i la delimitazione analitica dei singoli frammenti della tradizione, la disti nzio­ ne delle diverse for me di narrazione e di dis corso secondo la storia delle forme e la lo ro collocazione nell'ambiente d'ori­ gine loro a deguato il confronto delle idee con il pensiero contemporaneo giudaico ed ellenistico, la scoperta di par ti ­ colari forme di discorso · e di pensieri di Gesù oppure di com­ portamenti a lui tipici, la separazione di con cezioni espl ici ta­ men te giuda iche o protocristiane ecc. Ma il controllo deter­ minante sulla cor re ttezza d'una tale separazione del più an,

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,

,

Il regno di Dio

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tico corpo della tradizione può essere fatto solo verificando che dal coordinamento dei frammenti di tradizione così otte­ nuti risulti un quadro storicamente comprensibile e unitario di Gesù e della sua predicazione e tale da rendere intelligibi­ le l 'ulteriore evoluzione del cristianesimo primitivo. Natu­ ralmente, data l'ambiguità di alcuni argomenti e il pe rico lo della dipendenza del ricercatore da pregiudizi ecclesiastici, scientifico-storici o personali, resta innegabile che i pareri riguardanti l'età di singoli frammenti di tradizione e anche di interi gruppi di essa risultano spesso divergenti. Ma l'incer­ tezza e l'inesattezza di tutti questi pareri non possono pro­ vocare dubbi sulla necessità ed importanza della questione della persona e della predicazione di Gesù nell'ambito della teologia neotestamentaria. Infatti > (E. Kasemann). 2.

Il regno di Dio

I.

Giovanni Battista

I nostri Vangeli sono scritti per rendere testimonianza della vita, dell'azione, della morte e della risurrezione di Ge­ sù Cristo e tuttavia cominciano tutti la loro narrazione con Giovanni Battista. Essi hanno indubbiamente le loro buone ragioni per farlo. Era necessario ricordare Giovanni Battista già per il motivo che Gesù prima di iniziare la sua attività pubblica si è fatto da lui battezzare ; ma a questo scopo sa­ rebbe certo bastato accennare al battesimo di Giovanni . In­ vece i V angeli si sofiermano tutti a riferire sulla predicazio­ ne e sul comportamento del Battista. Il Vangelo di Marco comincia espressamente con l'annotazione : « L'inizio del lie­ to annuncio di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, [avvenne ] co­ me sta scritto nel profeta Isaia: Ecco, io mando il mio mes­ saggero davanti a te, egli preparerà la tua via. [ Risuona ] la

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La predicazione di Gesù

voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Si­ gnore, raddrizzate i suoi sentieri>>. Giovanni Battista com­ parve nel deserto predicando il battesimo della conversione per il perdono dei peccati (Mc. r,r-4). In connessione con parole profetiche dell'Antico Testamento (Mal. 3,1; Is. 40,3) il Battista è quindi descritto come il battistrada di Gesù, funzione che evidentemente i primi cristiani hanno rilevato soprattutto nella esigenza da lui proclamata del battesimo di conversione per il perdono dei peccati . Questo appello al bat­ tesimo però è in relazione inscindibile con tutto il resto della predicazione del Battista. Da questo risulta la necessità che si parlasse del Battista nei Vangeli e quindi anche, a mo' di introduzione, in questa presentazione della predicazione di Gesù . Il giudizio imminente

Non è certo facile raggiungere una visione oggettiva e sto­ rica di Giovanni Battista, poiché i racconti dei Vangeli de­ scrivono il Battista fondandosi sul presupposto di fede che egli sia stato il precursore di Gesù, mentre l'unico riferimen­ to non cristiano, ancora verificabile, quello dello storico giu­ daico Flavio Giuseppe (ant. r8,rr6-119), si sforza di pre­ sentare il Battista come un predicatore morale politicamente innocuo, benché in questo modo rimanga incomprensibile la decisione del suo sovrano di farlo giustiziare . Se quindi pa­ recchie cose restano incerte, si possono tuttavia ben ricono­ scere i tratti fondamentali della predicazione del Battista, so­ prattutto in quanto servono a delineare il rapporto fra la sua predicazione e quella di Cristo . Anzitutto è inequivocabile che il Battista .annuncia !}imminenza del giudizio di Dio: « Già la scure è posta alla radice degli alberi ; ogni albero che non fa bt1on frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt. 3,10 par.). Tale predicazione del giudizio è spesso riecheg­ giata nella storia d'Israele fin dai tempi di Amos ; inoltre

Il regno

di Dio

l'annuncio che questo giudizio comporterà una separazione definitiva e verrà eseguito da un giudice sovrumano (Mt. 3,12 par . ) corrisponde all'attesa apocalittica . Questa predi­ cazione tradizionale del giudizio viene ora attualizzata da Giovanni in due modi . Da un lato egli toglie ai ·suoi ascolta­ tori ogni possibilità di sottrarsi personalmente alla minaccia del giudizio precisando loro che esso è già iniziato; la scure si trova già alla radice degli alberi, e nessuno deve illudersi di poter sfuggire all 'ira di Dio (Mt. 3,10 .7 par.). D'altra par­ te distrugge la vana speranza che Dio giudicherà meno seve­ ramente un giudeo unicamente a motivo della sua p rovenien­ za dal padre Abramo : «Non crediate di poter dire dentro di voi : 'Abbiamo per padre Abramo' ; infatti vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere figli di Abramo>> (Mt. 3,9 par . ) . Così si nega ogni preminenza religiosa del giudeo da­ vanti a Dio e si dichiara che egli come ogni altro uomo è re­ sponsabile di se stesso di fronte a Dio . In questo modo la predicazione del Battista sul giudizio non solo si rivolge con la stessa urgenza a ogni individuo , ma in fondo stabilisce il rapporto dell'uomo con Dio solo sulla base della natura umana e non più sull'appartenenza al popolo giudaico o a un qualsiasi altro gruppo umano . La conversione e il battesimo

Il Battista non è solo un predicatore del giudizio , come ri­ sulta anche dal suo modo di vestire e di vivere asceticamente ( Mc. r,6 par. ); egli indica anche una via alla salvezza : pre­ dica il battesimo di penitenza in remissione dei peccati : «Fa­ te un frutto che sia degno della penitenza>> (Mt. 3,8 pa r ) Una cosa è senz'altro chiara in questa esortazione : Giovanni riprende l'invito profetico alla conversione. Infatti il voca­ bolo aramaico ambiguamente tradotto con « penitenza>> de­ signa in realtà il cambiamento di direzione, l'abbandono del­ la via falsa e il cammino deciso sulla via retta. Le concrete .

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La predicazione di Gesù

richieste presentate dal Battista alle singole professioni (Le. 3 , I 0- 1 4 ) e l'immagine dell'albero che deve portare buoni frutti (Mt. 3 , 1 0 par. ) indicano chiaramente che, secondo Gio­ vanni, per ottenere la salvezza nel giudizio ormai incipiente è necessario volgersi decisamente a compiere la volontà di Dio : solo chi porta tali frutti, dimostra in questo modo che si è convertito . Giovanni congiunge questo richiamo profetico alla con­ versione con l 'invito a farsi battezzare nel Giordano per ot­ tenere la remissione dei peccati . Cos'ha in comune l'immer­ sione nel Giordano con la conversione, e come può un tale battesimo operare la remissione dei peccati ? Il battesimo di immersione deve avvenire soltanto una volta ; in esso è Gio­ vanni che attivamente agisce, di qui il suo appellativo di « Battista» o «Battezzatore>> ; e poiché i battezzati durante il battesimo confessavano i loro peccati ( Mc. r ,5 par. ), scopo del battesimo è evidentemente la remissione dei peccati. Co­ me però questo rapporto venga inteso in particolare, non è detto con chiarezza dagli evangelisti, e poiché non sappiamo con certezza in quale contesto storico-religioso si debba col­ locare il battesimo del Battista, possiamo spiegare questo rap­ porto solo per via di supposizioni. È certo molto diffusa la opinione che il Battista abbia ripreso l'usanza giudaica del battesimo dei pagani che passavano al giudaismo, il cosid­ detto battesimo dei proseliti, e l'abbia usata per i suoi con­ nazionali , i Giudei , che venivano così equiparati ai pagani. Ma contro di essa va osservato che il Giordano, ritualmente impuro, non era idoneo a un tale atto rituale e che il batte­ simo dei proseliti non aveva nulla a che fare con la remissio­ ne dei peccati e il giudizio finale. Anche l'ipotesi, recente­ mente più volte avanzata, secondo cui il Battista si sarebbe trovato personalmente in contatto con quel particolare grup­ po giudaico da noi conosciuto tramite i reperti di Qumran, del quale avrebbe assunto le abluzioni, è estremamente im­ probabile, poiché non è stato dimostrato né che questo grup-

Il regno di Dio

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po giudaico avesse una abluzione unica come rito d i ammis­ sione, né che vi sia un qualsiasi rapporto fra le abluzioni ivi consuete e il giudizio fìnale. Tuttavia le abluzioni praticate a Qumran potrebbero inserirsi nel più ampio contesto d·ei grup­ pi di battezzatori, presenti allora ai margini del giudaismo e residenti soprattutto nella Giordania orientale, e dei quali sappiamo che consideravano talora una abluzione anche co­ me una preparazione per poter essere salvi nel giudizio fi­ nale . Se è dunque verosimile che il Battista abbia istituito il suo battesimo in connessione con un simile fenomeno margi­ nale del giudaismo, la particolare forma del suo battesimo però sembra essere senza reali precedenti. Per questa incer­ tezza nel comprendere l'ambiente storico-religioso del batte­ simo di Giovanni, ci rimane nascosto il suo preciso significa­ to; tuttavia si può dire con grande probabilità che il battesi­ mo , come sacramento riferito al prossimo tempo finale, premuniva l 'uomo che fermamente deciso alla conversione si faceva battezzare, purificandolo perché potesse essere sal­ vo nel giudizio finale. La venuta del « più forte»

Questo giudizio finale secondo la predicazione del Batti­ sta spetterà a uno più potente : «Viene dopo di me colui che è più forte di me; io non sono degno di chinarmi a sciogliere la cinghia dei suoi sandali. lo vi ho battezzato con acqua, egli vi battezzerà con Spirito Santo. Il suo v·entilabro è nella sua mano per purgare la sua aia e raccogliere il frumento nel suo granaio ; la pula però brucerà con fuoco inestinguibile>> (Mc. r , 7 par. ; Le. 3 , 1 7 par. ). Queste parole del Battista sono state tramandate in vario modo e ben difficilmente si potran­ no ricostruire nel loro tenore originario. Due elementi sono però chiari : il Battista si riconosce come il battistrada del giudice celeste che Dio manderà e che, come figura celeste, è molto superiore a lui ; il giudizio di questi sarà definitivo. Ora, secondo il racconto di Marco, il Battista ha detto sol-

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La predicazione di Gesù

tanto che il più forte battezzerà con Spirito Santo, mentre Matteo e Luca parlano del battesimo con Spirito Santo e fuoco. In essi la metafora dell' «immersione nel fuoco» si può ben intendere come un accenno alla prova del fuoco nel giu­ dizio, l' «immersione nello Spirito Santo» però è un'imma­ gine inconcepibile e per di più potrebbe essere intesa solo come un annuncio di salvezza, impossibile nella stessa frase in cui si minaccia il giudizio . Alcuni tentativi di modificare il testo o di tradurlo differentemente per rendere la metafora inoltre corrispondono l' «ingresso nel­ la gioia» (M t. 2 5 , 2 r .2 3 ) e la «partecipazione alla gloria» (Mc. r o,37 ) come pure la «partecipazione alla luce » (Le. r 6 , 8 ). Tutte queste immagini raffigurano lo stesso contenu­ to : chi può entrare nel regno di Dio imminente, può aver parte alla vita e alla gloria di Dio, è accolto nella casa pater­ na (Le. I 5 ,2 4 . 3 I ). Quando Dio stabilirà il suo regno, nes­ suna potenza potrà più separare i «figli del regno di Dio» ( Mt. 8,r 2 ) da Dio. Ma questa promessa vale solo per il «pic­ colo gregge» , a cui il Padre ha deciso di dare il regno ( Le. r 2 , 3 2 ) e nella maggior parte delle parole di Gesù ora citate la promessa della vita, ecc. è accompagnata dal richiamo al pericolo di ereditare la morte, l'oscurità, l'inferno ( Mc. 9,43 . . 45 ·47 par. ; Mt. 2 5 ,4 1 ; 7 , 1 3 ; 2 5 , 3 0 ; 8 , 1 2 ) . Gesù promette sì la partecipazione al regno di Dio, ma questa promessa del­ la salvezza non vale per chiunque, bensì è legata a determi­ nate condizioni, sicché Gesù può dire : o «padre celeste» ; si trova anche l'invocazione «padre nostro» o «padre nostro, re nostro», ma non ricorre mai l'espressione «padre mio » . Gesù invece, come rileva una analisi critica dell'uso lingui­ stico quale si è sviluppato nei Vangeli, ha indubbiamente parlato non solo del «padre celeste » ( Mt. 7 , r r par. ), ma an­ che, in riferimento ai discepoli, del « vostro padre» (Le. 6 , 3 6 ; r 2 , 3 o par. 3 2 ) o del «vostro padre celeste>> (Mc. I 1 , 2 5 par ; M t. 2 3 , 9 ) ; soprattutto però egli ha invoca to Dio nella pre­ gl1iera chiamandolo personalmente «padre» (Mc. 1 4 , 3 6 par. ; Mt. r r , 2 5 par . ) ed ha insegnato pure ai discepoli a pregare così ( Le. r r , 2 par . ) . Questo è del tutto singolare. Perciò il modo migliore per riconoscere la concezione di Dio avuta da Gesù è di osservare come egli ha parlato di Dio padre . Qui in primo luogo colpisce la forma linguistica con cui Gesù parla del padre e invoca Dio. L'evangelista Marco e l'uso linguistico delle comunità paoline hanno infatti man­ tenuto l'invocazione a Dio nel suo tenore originario : 'abba' ..

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(Mc. 1 4 , 3 6 ; Rom. 8 , r 6 ; Gal. 4,6 ) e la forma del padrenostro tramandata da Luca ( Le. 1 1 , 2 ) presenta pure la sempli­ ce invocazione «padre » , che risalirebbe appunto alla mede­ sima parola aramaica. Ma questa parola aramaica 'abba' non è mai stata usata nel giudaismo per invocare o designare Dio ; Gesù ha preso una parola del linguaggio infantile , usata in genere per chiamare familiarmente il padre, e l'ha resa un attributo di Dio , manifestando così già nella forma lingui­ stica di non voler parlare di Dio con titoli tradizionali, ma di voler predicare con insistenza concreta il proposito divino di incontrare l'uomo con amore paterno. E come Gesù ha parlato del futuro intervento di Dio quale re e giudice, così ha soprattutto indicato la futura azione di Dio come padre . Come padre Dio provvederà per i suoi figli . Se Dio prov­ vede per tutte le sue creature (Mt. 6 , 2 6-3 1 par. ), tanto più per gli uomini ; la cura per il nutrimento e il vestito non è perciò necessaria : «vostro Padre sa che ne avete bisogno» (Le. 1 2 , 3 0 par . , cfr. Mt. 6 , 8 ) ; ancor più di un padre terreno «il Padre vostro celeste darà ciò che è bene a quanti lo in­ vocano» (Mt. 7 , r r par. ) . Benché il Padre quindi sappia di che cosa abbiano bisogno i figli, questi devono pregarlo, sic­ ché Gesù ha dato anche istruzioni ai suoi discepoli su quanto devono chiedere al Padre. La forma del padrenostro conte­ nuta in Luca, più breve e certo anche più originaria (Le. I r , 2-4 ), non riguarda però in primo luogo la necessità del pre­ sente, ma principalmente l'azione del Padre nel tempo fina­ le; le due invocazioni per la santificazione del nome di Dio e per la venuta del regno di Dio e quelle per il perdono dei nostri peccati e per la preservazione dalla tentazione racchiu­ dono fra loro l'unica invocazione che concerne il presente : «dacci oggi il pane necessario» . A dire il vero, non si è mai potuto stabilire con certezza il significato della parola greca tradotta con l'aggettivo « necessario» ( Lutero : «quotidia­ no» ) ; alcuni studiosi si richiamano alla testimonianza di Ge­ rolamo, secondo cui la parola era resa dai giudeo-cristiani

La predicazione di Gesù

con l'espressione «per domani» e interpretano così l'invoca­ zione del «pane per domani» come una invocazione del pane del tempo finale. Questo è però discutibile per motivi sia lin­ guistici , sia di contenuto, ed è più probabile l'ipotesi che l'in­ vocazione del pane riguardi la cura di Dio per i bisogni uma­ ni indispensabili del presente . Quanto al resto però le prime due invocazioni implorano che il Padre faccia venire il tempo finale, in cui lui solo venga onorato e non ci sia più alcun pericolo di perdizione per i suoi figli, anzi in cui divenga real­ tà la promessa : «Non temere, piccolo gregge, poiché è pia­ ciuto al Padre vostro darvi il regno [ di Dio ] » ( Le. 1 2 , 3 2 ) e si adempia la promessa : «Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio» ( Mt. 5 , 9 ; cfr. anche Mt. 5 ,45 ). Certamente l'uomo può raggiungere il regno di Dio solo se Dio l'accoglie e lo custodisce ; per questo la preghiera termi­ na invocando il perdono nel giudizio e la preservazione dalla caduta nelle tentazioni degli ultimi tempi. Gesù quindi inse­ gna ai suoi discepoli a pregare per la venuta di Dio nella sua gloria e per la .n ostra partecipazione a questa gloria e pro­ mette loro, qualora preghino in segreto senza volersi far ve­ dere : « tuo padre che vede nel segreto ti ricompenserà>> ( Mt. 6 , 6 ) , cioè Dio accoglierà nella sua gloria colui che pregando pone interamente in lui la sua speranza . Secondo la predicazione di Gesù, Dio si manifesta come il padre che in futuro agirà soprattutto in quanto promette agli uomini il perdono : « Quando state pregando, se avete qual­ cosa contro qualcuno, perdonate, affinché anche il Padre vo­ stro celeste vi perdoni le vostre trasgressioni» ( Mc. r 1 , 2 5 ) . Come il giudaismo, anche Gesù sa che l'uomo di fronte a Dio è obbligato a un servizio senza condizioni ( Le. 1 7 ,7- I O ) e de­ ve rendere conto del suo servizio ( Mt. 2 4 ,45 ss. par . ) . Ma poiché l'uomo è malvagio (Mt. 7 , r r par. ; 1 2 , 3 4 ) e non si può da solo liberare dalla sua colpa né può stare di fron­ te a Dio ( Le. r 8 , 1 3 ), la sua angustia più profonda riguar­ do alla venuta del regno di Dio è la colpa; perciò anche Gesù

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ha insegnato ai suoi discepoli a chiedere il perdono dei pec­ cati ( Le. r r ,4 par. ), conforme ad una usanza giudaica di pre­ ghiera. Gesù però non invita semplicemente i suoi discepoli a sperare nel perdono di Dio, ma presenta loro Dio come co­ lui che prova gioia per la conversione del peccatore. Egli de­ scrive nelle p�rabole la gioia del pastore, che ha trovato una pecora perduta, e quella della donna, che ha ricuperato la dramma smarrita e conclude : «Io vi dico che così nel cielo ( cioè presso Dio ) ci sarà più gioia per un peccatore che si con­ verte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione » ( Le. I 5 , 7 . I o ). E nella parabola dei due fig] i ( I_Jc. I 5, r I ss . ) fa vedere la gioia del padre per il ritorno del figlio, che sembrava perduto ed ora, al di là di ogni sua più lontana speranza, è accolto dal padre a braccia aperte, semplicemen­ te perché il padre ama il figlio pur non essendoci in questi più nulla che sia degno d'amore. Anche se Dio nell'imma­ gine di un padre terreno appare come colui che, pur giusta­ mente adirato per l'uomo peccatore, va incontro col perdono­ al peccatore pentito, Gesù però intende chiarire assolutamen­ te che tale amore misericordioso di Dio è inaspettato e in­ giustificabile. La parabola del vignaiuolo ( Mt. 2 o , r ss . ) pre­ senta un uomo che in tempi diversi della medesima giornata porta dei lavoratori a lavorare nella sua vigna. Costui alla fine fa dare a tutti la stessa paga giornaliera normale e ai lavoratori malcontenti che, pur avendo lavorato tutto il giorno, hanno ricevuto la stessa paga degli altri spiega : «Ami­ co, non ti faccio torto ; non hai convenuto con me per un denaro ? Prendi ciò che ti spetta e vattene ! Io voglio però dare a quest'ultimo lo stesso come a te. Non posso fare del­ la mia roba ciò che voglio ? O sei invidioso perché io sono buono ? » . Il comportamento di questo padrone, giuridica­ mente inoppugnabile, ma tuttavia così lontano dal senso di giustizia dell'uomo, fa intravvedere Dio che dona per pura bontà quando un dono secondo il giudizio umano sembra sconveniente. Certamente, come Gesù dice, Dio può anche

La predicazione di Gesù

punire inesorabilmente l'uomo, se costui non è disposto al­ la conversione ( Le. 1 3 , 1 -9 ); ma Gesù osa predicare che Dio non si compiace del giusto che si gloria davanti a Dio per la sua giustizia, ma del peccatore cosciente del suo smarri­ mento (Le. r 8 ,9- 1 4 ) . E in questo Gesù si distingue radical­ mente dal giudaismo contemporaneo, che sottolinea forte­ mente la disposizione di Dio al perdono e la necessità del­ l 'uomo di ricorrere al perdono di Dio, ma aggiunge imman­ cabilmente : « Se questo è impartito a quanti trasgrediscono la sua volontà, quanto più lo è a quelli che fanno la sua vo­ lontà» (Talmud babilonese ). 3.

La richiesta di conversione

Tuttavia se Gesù avesse parlato solo dell'azione futura di Dio, questa promessa di perdono da parte di Gesù si ri­ durrebbe, come nel giudaismo contemporaneo, a una pro­ messa che non cambia il presente. Ma non è così . E solo do­ po aver riconosciuto in che misura Gesù abbia messo in lu­ ce l'azione di Dio nel presente, possiamo realmente rispon­ dere alla domanda se la predicazione di Gesù sul regno di Dio sia stata predicazione di salvezza, evangelo . Abbiamo visto che Gesù annuncia il futuro giudizio di Dio e che que­ sto futuro giudizìo proietta la sua ombra nel presente degli ascoltatori di Gesù mediante la richiesta collegata con l'an­ nuncio della prossima venuta del regno di Dio : «Converti­ tevi» ( Mc. r , r 5 ). La necessità che ha l'uomo di « convertir­ s i » se vuole stare di fronte a Dio, è una delle idee fondamen­ tali del giudaismo contemporaneo a Gesù , e così anche Gesù ha menzionato espressamente la conversione come condizio­ ne per entrare nel regno di Dio ( Mt. 1 1 ,2 1 s. par. ; 1 2 ,4 1 par. ; Le. 1 6 , 2 9 s . ). Chi sentendo parlare di disgrazie pensa che i colpiti siano responsabili di peccati particolarmente gravi non ha ancora capito che lui stesso deve convertirsi perché non gli succeda la stessa sorte (Le. 1 3 , 1 -5 ). Tutti gli

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uomini hanno bisogno di conversione, perciò i discepoli ven­ gono inviati con l'incarico di predicare che bisogna conver­ tirsi ( Mc. 6 , 1 2 ) L'invito di Gesù alla conversione è particolarmente pres­ sante non solo perché è collegato con l'annuncio del prossi­ mo regno di Dio. Un simile legame esiste già anche nella predicazione di Giovanni Battista. Gesù piuttosto con que­ sto invito pone al tempo stesso i suoi ascoltatori dinanzi al­ la volontà definitiva di Dio come egli, in contrasto con l'in­ terpretazione degli «antichi» , finora vigente ( Mt. 5 , 2 1 ss. ), la può proclamare. Secondo Gesù quindi la decisione di convertirsi è richiesta di fronte a un uomo, che ora ha il compito di proclamare la volontà di Dio in pienezza e in­ vita perciò all'immediata conversione : «Chi pone la mano all'aratro e poi si volta indietro , non è adatto per il regno di Dio » ( Le. 9,62 ). Il futuro giudice va ora incontro all'uo­ mo nella proclamazione della volontà divina e, mediante la richiesta di Dio avanzata per mezzo di Gesù, il presente è legato in modo singolare con il prossimo futuro del regno di Dio . E noi dovremo esaminare la natura di queste richie­ ste di Dio, proclamate da Gesù, se vogliamo capire il senso preciso di questa azione di Dio nel presente. .



Il Padre che agisce nel presente

Gesù però, come abbiamo visto, ha presentato l'azione futura di Dio soprattutto come una azione paterna. Questa azione paterna incide anche nel presente ? Gesù ha parlato della cura del Padre per gli uomini, cura che si estende tan­ to al presente quanto al futuro, e ha definito « scarsità di fe­ de» ( Mt. 6 , 2 8- 3 0 par. ) il dubbio riguardo a questa cura . Ma si può realmente parlare di una attuale cura di Dio per gli uomini se Dio di fatto non esercita ancora realmente il suo dominio nel presente, se anzi i demoni infestano il mondo cercando di impossessarsi degli uomini ( Mt. 1 2 ,43-45 par. )

La predicazione di Gesù

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e Satana come una potenza compatta non vuole lasciarsi strappare nulla ( Mc. 3 , 2 3 2 6 par. ) ? Gesù ha acuito ancor più l'idea giudaica della potenza dei demoni nel presente considerando il regno dei demoni come una grandezza uni­ taria che si può conquistare soltanto se si riesce a superare Satana stesso . Ora però Gesù, proclamando : «Ho visto Sa­ tana cadere come un fulmine dal cielo» ( Le. I O , I 8 ), avanza la pretesa che la potenza di Satana sia già infranta ( sia che si tratti di una visione o di una metafora ). E noi abbiamo anche già visto che egli avvertiva l'inizio del regno di Dio nelle azioni con cui cacciava il demonio ( v . p. 4 0 ) . Gesù non ha quindi negato che i demoni sotto il loro capo Satana siano ancora all'opera ; e tuttavia ha visto realizzarsi al pre­ sente nelle sue potenti azioni il dominio di Dio del tempo finale e così la vittoria di Dio sul regno di Satana. Dio, il Padre che vuole dare ai suoi il regno , mediante l'attività di Gesù fa del presente già un tempo di salvezza . Gesù ha predicato l'azione salvifìca di Dio padre nel fu­ turo soprattutto come perdono dei peccati . Ma non ha solo promesso questo perdono, bensì l'ha anche fatto diventare una realtà presente . I suoi avversari hanno definito Gesù come «amico dei pubblicani e dei peccatori>> ( Mt. I I , I 9 ) e questa accusa contraddistingue il comportamento di Gesù in modo del tutto conforme ai fatti : si è seduto a mensa con pubblicani e peccatori, cioè con appartenenti a professioni che passavano per particolarmente esposte alle �rasgressioni della legge di Dio (Mc. 2 , 1 5 s. par. ), ha reso suo discepolo un pubblicano ( Mc. 2 , I 4 par. ), ha sostato presso un pubbli­ cano ( Le. I 9 , I ss. ), anzi si è lasciato ungere i piedi da una «peccatrice » ( Lc. 7 , 3 6 ss . ) . Ed ha espressamente difeso un tale comportamento, intollerabile per un pio giudeo, con le parole : « l sani non hanno bisogno del medico, ma i malati ; non sono venuto a chiamare i giusti , ma i peccatori » ( Mc. 2, I 7 par. ); e analogamente spiega ai suoi avversari : «In ve­ rità vi dico, i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel -

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regno di Dio» (Mt. 2 1 ,3 r- ) . Gesù dunque nel suo comporta­ mento ha applicato fermamente la volontà di Dio, da lui proclamata, di accogliere il peccatore e di perdonarlo, e già per questo ha fatto diventare realtà presente la volontà di­ vina di perdono. Ma è andato ancora più avanti. Quando attraverso il tet­ to viene calato davanti a lui un paralitico, che non si è po­ tuto portare per la via ordinaria, «Gesù vista la loro fede, dice al paralitico : Figlio, i tuoi peccati ti sono rimessi» . E allorché gli scribi presenti dicono che è una bestemmia que­ sto suo disporre del perdono di Dio, Gesù chiede : «Cos'è più facile, dire al p arali ti co : ti sono rimessi i tuoi pecca ti , o dire : alzati , prendi il tuo giaciglio e vattene a casa ? » . Il rac­ conto continua : «Affinché sappiate che il Figlio dell'uomo ha potere di rimettere i peccati sulla terra, io ti dico - dice al paralitico - : levati, prendi il tuo lettuccio e vattene a ca­ sa » ; ed il paralitico se ne va risanato (Mc. 2 , 1 ss . par . ). In questa narrazione, di cui a torto si mette spesso in dubbio l'unità, Gesù si arroga quindi il diritto di conferire il perdo­ no divino dei peccati richiamandosi al potere che ha il «Fi­ glio dell'uomo» di rimettere i peccati . Gesù dunque in ma­ niera molto concreta e con una autorità che solo gli avversari possono designare come blasfema realizza qui la promessa divina di perdono e fa diventare tempo salvifico la sua pre­ senza. In modo del tutto analogo Gesù si comporta nei con­ fronti di una peccatrice che a un convito in casa di un fari­ seo gli bagna i piedi con le sue lacrime , glieli asciuga con i suoi capelli e poi glieli unge. Poiché Gesù si compiace di questo ossequio prestatogli da una peccatrice, il suo ospite deduce che egli non può essere un profeta, ma Gesù con la parabola dei due debitori illustra la verità per cui il condo­ no di un debito maggiore ha anche come conseguenza una riconoscenza maggiore, e spiega poi in rapporto con l'azione della peccatrice : « l suoi molti peccati le sono perdonati per­ ché ha amato molto ; ma colui al quale poco si dona, ha [ an-

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che ] poco amore>> . E alla donna Gesù dice ancora : « l tuoi peccati sono perdonati », e suscita lo scandalo con questa pre­ tesa (Le. 7 , 3 6 ss . ). Anche in questo caso Gesù porta nel pre­ sente il perdono del Padre che ricerca il peccatore. Il messaggio di Gesù sulla prossima \o-enuta e sulla pre­ senza del regno di Dio è quindi il contesto della predicazio­ ne sull'azione giudiziaria e paterna di Dio, e questa azione raggiunge il presente e diventa per il credente una realtà concreta nella persona di Gesù, nel suo insegnamento e nel­ la sua attività. Benché il regno di Dio rimanga futuro e l'uo­ mo vada incontro alla decisione divina e alla salvezza di Dio ancora in situazione di attesa, colui che nell'insegnamento e nell'azione di Gesù vede realizzarsi l 'opera salvifìca di Dio incontra già ora nella persona di Gesù quel Dio che ci vuole conferire i suoi .doni salvifici del tempo finale. Solo quando avremo compreso le richieste di Dio rivolteci nella predica­ zione di Gesù e la pretesa che vi viene presentata in lui, po­ tremo vedere con piena chiarezza la portata e il senso pe­ renne di questa azione realizzatasi mediante la realtà di Cristo. 4·

La richiesta di Dio

Gesù ha collegato l'annuncio della prossima venuta del regno di Dio con l'invito alla conversione. Però non si è limitato a questa richiesta generale , ma ha congiunto molto chiaramente l'accesso al regno di Dio con l 'adempimento di determinate condizioni : «Se la vostra giustizia non è supe­ riore a quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel re­ gno dei cieli>> ( M t. 5 , 2 0 ). Questo detto, anche se nella sua formulazione dovesse provenire da Matteo, ipotesi che non è affatto necessario ammettere, sintetizza bene il pensiero di Gesù . Infatti Gesù in parole che indubbiamente risalgono a lui, comanda di tagliare la mano e di cavare l'occhio, se questi impediscono di entrare nel regno di Dio ( Mc. 9 ,4 3 ss.

La richiesta di Dio

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par . ) ed esorta a non avanzare alcuna pretesa di fronte a Dio : « In verità vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non vi entrerà» ( Mc. r o , r 5 par. ) . Nelle parabole del tesoro nel campo e della perla preziosa ( Mt. 1 3 ,44-46 ) egli fa vedere la necessità di impegnare ogni cosa per otte­ nere il regno di Dio. E la richiesta di Gesù, indicata come l'unica cosa essenziale, suona così : «Cercate però il suo re­ gno e questo [ cioè l 'aiuto di Dio per soddisfare i bisogni terreni ] vi sarà dato in aggiunta» ( Le. 1 2 ,3 1 par . ) . Per con­ trasto vale però il principio : «Nessuno che pone mano all'a­ ratro e si volta indietro è utile per il regno di Dio» ( Le. 9 , 6 2 ) . Gesù predica quindi la richiesta di Dio nella prospetti­ va del venturo regno di Dio conferendole cosi il suo carat­ tere di urgenza. Perciò egli, a quanti sono disposti a rinunciare a se stessi e a professare senza paura la loro fede in lui, promette la ri­ compensa, a quelli invece che sono egoisti e lo rinnegano, preannuncia la punizione ( «Chi vuoi salvare la sua vita la perderà ; chi invece perderà la sua vita per me . . . , la salverà » , Mc. 8 , 3 5 par . ; « Se uno si dichiarerà per m e davanti agli uo­ mini , il Figlio dell'uomo si dichiarerà per lui davanti agli angeli di Dio ; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio » , Le. 1 2 ,8 s . par . ) . La stessa cosa è affermata d a Gesù sotto forma di parabole : lo schiavo fedele all'arrivo del suo signore riceverà un posto da principe, lo schiavo infedele sarà punito ( Mt. 24,45-5 1 par. ). E così Gesù parla anche della ricom p ensa riservata da Dio per quelli che fanno la sua volontà : « Se amate quelli che vi amano che ricompensa avete ? ( Mt 5 ,46 par . ) ; gli uo­ mini che fanno elemosine, pregano o digiunano per essere visti dagli altri «hanno [ già ] ricevuto la loro ricompensa» (Mt. 6 , 2 . 5 . r 6 ) ; chi invece per causa di Gesù viene odiato od oltraggiato deve rallegrarsi : « Infatti, ecco, la vostra ricom­ pensa è abbondante nel cielo» ( Le. 6 , 2 3 par . ; cfr. anche Mc. 9 , 4 1 par. ). Tale ricompensa celeste è designata come « teso.

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La predicazione d i Gesù

ro nel cielo>> , che deve essere acquistato ( Mt. 6 , 2 0 par . ) ; e ad un ricco attaccato al suo patrimonio Gesù dice : «Una co­ sa ti manca : va' , vendi ciò che hai e dallo ai poveri, allora avrai un tesoro nel cielo, e vieni e seguimi» (Mc. r o , 2 r par . ) . Dinanzi a questa ampia tradizione non s i può dubitare che Gesù ha collegato la predicazione sull'azione futura e pre­ sente di Dio con la richiesta dell'obbedienza alla volontà di­ vina in due modi : r . Gesù era un giudeo e nella sua predicazione si è rivolto a Giudei. Per un giudeo era naturale che Dio venisse incon­ tro all'uomo con dei precetti che l'uomo deve adempiere e il cui adempimento è decisivo di fronte a Dio per il suo de­ stino finale. Era perciò naturale che anche Gesù collegasse la predicazione sul prossimo regno di Dio con il richiamo alla volontà di quel Dio il cui regno si sarebbe presto realiz­ zato e già si stava realizzando in Cristo . Ma questa predica­ zione della volontà di Dio da parte di Gesù acquistò la sua urgenza ineluttabile proprio perché legata all'annuncio del­ la prossima venuta del regno di Dio, e c 'è da chiedersi in qual modo la richiesta di Gesù abbia attinto da questo lega­ me il suo carattere specifico. 2 . Gesù, anche in questo in accordo con il giudaismo, ha collegato la promessa della partecipazione al regno di Dio con l 'azione dell'uomo mediante la concezione della ricom­ pensa e della punizione. A questo punto però sorge la diffi­ coltà : la partecipazione al regno di Dio non sembra essere interamente e unicamente dono di Dio , ma qualcosa che l'uo­ mo può ottenere mediante sue prestazioni, sicché di nuovo, benché da un altro lato, emerge la questione se Gesù abbia realmente potuto designare l'annuncio del regno di Dio ven­ turo come lieto messaggio. Questi due problemi vanno esa­ minati più a fondo .

La richiesta di Dio I.

jj

Il regno di Dio e il compimento della volontà divina

Se Gesù collega l'annuncio della prossima venuta del re­ gno di Dio con la richiesta del compimento della volontà di­ vina non aderisce con questo alla concezione giudaica espres­ sa nelle parole : « Se gli Israeliti si convertono, sono reden­ ti; se non si convertono non vengono redenti>> ( Talmud Ba­ bilonese ). La fede dei Giudei nella possibilità di accelerare la venuta del regno di Dio con la loro osservanza della legge urta indubbiamente contro la concezione di Gesù, secondo cui la venuta del regno di Dio nella sua scadenza dipende unicamente dalla volontà di Dio e non abbisogna di alcun intervento umano ( Mt. 2 4 ,44 . 5 0 par. ; Mc. 1 3 , 3 2 par . ; 4 , 2 6 ss . ) . Certamente per sostenere l'ipotesi che Gesù abbia par­ lato anche di un regno di Dio acquistato con forza, si è ripe­ tutamente citato Le. 1 6 , r 6 : « La legge e i profeti [ vanno ] fino a Giovanni ; da allora è annunciato il lieto messaggio del regno di Dio e ognuno fa violenza per entrarvi» . Ma non c'è dubbio che Luca abbia modificato il tenore originario del detto secondo la sua visione del tempo della chiesa ; il testo originario, documentato in Mt. r r , r 2 però ( «Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli soffre violen­ za e i violenti se ne impadroniscono» ) non si può interpreta­ re come riferito allo sforzo meritevole dell'uomo per il re­ gno di Dio. Gli sforzi umani di fatto non possono secondo Gesù affrettare e trattenere la venuta del regno di Dio. Etica interinale

Il legame fra l'annuncio della prossima venuta del regno di Dio e la richiesta di Dio proclamata da Gesù non è stabi­ lito in modo tale che il carattere radicale e incondizionato di tale richiesta dipenda dalla consapevolezza dell'imminenza del giudizio e del regno di Dio, cosi che la volontà di Dio proclamata da Gesù abbia valore soltanto per poco tempo

La predicazione di Gesù

fino alla venuta del regno di Dio. A. Schweitzer interpretò così la richiesta di Gesù e parlò quindi di un' eti ca interi­ nate. Questa tesi è falsa già per il fatto che Gesù poté mo­ tivare l'invito a fare la volontà di Dio non solo col richiamo alla prossima venuta del regno di Dio. Egli si riferì piuttosto all'agire di Dio : «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli ; infatti egli fa sorgere il sole sui cattivi e sui buo­ ni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» ( Mt. 5 ,44 s . ) e in­ vitò a imitare Dio : « Siate misericordiosi come vostro Padre è misericordioso» ( Le. 6 ,3 6 ). Matteo nel riprodurre questo detto del discorso della montagna ha sostituito probabilmen­ te il predicato «misericordiosi» con «perfetti » ( Mt. 5 ,48 ) termine che non significa però la perfezione morale, da rag­ giungere attraverso un progresso, ma l'integrità, simile a quella d'un olocausto, e non intende indicare nulla di essen­ zialmente diverso da una condotta conforme all'agire di Dio. Accanto al motivo dell'amore di Dio, che è modello del com­ portamento umano, Gesù pone quello della gloria di Dio, che l'uomo deve accrescere : «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini affinché vedano le vostre buone azioni e glorifichino il Padre vostro nei cieli » ( Mt. 5 , 1 6 ). E talvolta Gesù si è rifatto anche al suo proprio esempio : «Chi è più grande, chi siede a tavola o chi serve ? Non forse chi siede a tavola ? Io però sono in mezzo a voi come colui che serve» ( Le. 2 2 ,27 ) Se da una parte queste motivazioni dimostrano che Gesù non giustifica la peculiarità del suo annuncio della volontà di Dio con la brevità del tempo prima della venuta del regno di Dio, d'altra parte nella predicazione di Gesù si accenna solo sporadicamente al breve tempo che ancora rimane per poter adempiere la volontà di Dio ( Le. 1 3 ,6-9 ; Mt. 2 5 , 1 ss . ). C'è inoltre da osservare che Gesù ha predicato non solo la prossimità del regno di Dio, ma anche l'inizio di esso nelle sue opere e nella sua predicazione ; perciò la richiesta di Dio ,

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presentata da Gesù non può essere determinata solo dalla consapevolezza della prossimità del regno, ma è altrettanto fortemente caratterizzata dall'evento salvifico presente, che si realizza nel Cristo . In questo evento salvifìco però il so­ vrano che viene irrompe nel presente come il padre amoro­ so, sicché sia le parole che richiamano la brevità del tempo come quelle che indicano l'attuazione anticipata del compi­ mento finale nel presente servono in fondo a porre inevita­ bilmente l'uomo di fronte a Dio stesso : «Alle richieste di Gesì1 - che pure possono essere giustificate accidentalmente dalla visuale escatologica - soggiace evidentemente una pre­ coscienza : la coscienza dell'assoluta santità di Dio, che in­ vita all 'estremo teocentrismo . . . In tutte le richieste morali alla fin fine Gesù mira sempre radicalmente a Dio : che la grande santità di Dio non venga lesa ! Qui ha la sua origine la radicalità di molte richieste di GesÙ» (H. Schiirmann). L'etica di Gesù nonostante l 'annuncio del prossimo regno di Dio non va quindi intesa come un' «etica interinale» ; essa va designata più adeguatamente come « etica del tempo sal­ vifico o etica del nuovo patto» ( A . Wilder ). La validità e la. forza obbligante della richiesta di Gesù non è perciò neppu­ re legata soltanto alla situazione della generazione di Gesù, ma al riconoscimento, nella fede, dell'azione salvifica di Dio iniziata nella persona di Gesù e proiettata verso il suo futu­ ro compimento. La richiesta di Gesù e la tradizione giudaica

Se Gesù, partendo da questo presupposto, predica la vo­ lontà di Dio, deve ovviamente prendere posizione di fronte al fatto che pure i maestri giudaici, a lui contemporanei, pre­ dicavano la volontà di Dio. Essi non si limitavano ad appel­ larsi alla Sacra Scrittura dei Giudei , cioè a quella raccol­ ta di libri chiamata poi dai cristiani Antico Testamento, benché la Sacra Scrittura, soprattutto la «Dottrina» ( Torà,.

La predicazione di Gesù

cioè il Pentateuco ) fosse riconosciuta come autorità asso­ luta : «La sapienza è il libro dei comandamenti di Dio e la legge che permane in eterno ; tutti quelli che la osservano giungono . alla vita, quelli che l'abbandonano moriranno» (Bar. gr. 4 , 1 ). Dio però secondo la convinzione dei Giudei ha dato i suoi comandamenti perché regolino tutta la vita del popolo di Dio : « Il nostro legislatore . . . non ha abbando­ nato nulla, neppure delle minuzie, al libero arbitrio di quelli cui è rivolta la sua legge . . . , perché noi vivessimo sotto di essa [ cioè la legge ] come sotto un padre e signore e non peccassimo né per volontà né per ignoranza» ( Flav. los . , Ap. 2 , 1 7 3 s . ). Nell'applicazione di questo assioma però si crea­ vano delle difficoltà, poiché la legge scritta non dava diret­ tive per ogni caso della vita e per ogni circostanza. La men­ talità dominante al tempo di Gesù, propugnata dai farisei, non ha mai limitato la legge alla Sacra Scrittura scritta, ma ha sempre considerato la Scrittura come parte della tradi­ zione . Per quanto gli scribi si siano sempre sforzati di giu­ stificare con la Sacra Scrittura l'interpretazione più minu­ ziosa di un comandamento, un comandamento o l'interpre­ tazione di un comandamento avevano anch'essi valore inop­ pugnabile come espressione della volontà di Dio, se si po­ teva dimostrare che tale comandamento poteva essere fatto risalire fino a Mosè o almeno molto indietro nella catena del­ la tradizione. L'annotazione: «Queste sono parole che fu­ rono dette a Mosè sul Sinai» (T. Pea 3 ,2 ) senza fornire al­ tre prove dichiara che le parole in questione sono un ordi­ namento divino e perciò obbligante. Norma per provare le­ gittimamente la volontà divina è quindi per il giudaismo contemporaneo a Gesù, con in prima fila i farisei, l 'insieme della tradizione conservata dagli scribi ; e i precetti di Dio contenuti nella Sacra Scrittura sono solo una parte di questa tradizione e potrebbero essere capiti solo nella tradizione, trasmessa in gran parte oralmente . Gesù è cresciuto in questa fede nella tradizione e si è at-

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tenuto alle comuni usanze religiose, anche quando erano in­ segnate solo nella tradizione orale ( per esempio secondo Mt. 9 , 2 0 porta le frange al vestito prescritte in Num. 1 5 , 3 8 , secondo Mc. r ,2 r frequenta la sinagoga al sabato, anche questo in conformità con la tradizione orale) . Così Gesù si richiama ai comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo contenuti nei libri di Mosè per rispondere alla questione del comandamento più importante ( Mc. 1 2 ,2 8-3 1 par.), ma si rifà anche alla disposizione fissata nella tradizione secon­ do cui di sabato si poteva estrarre dal pozzo un animale (Mt. r 2, I I par . ) . Ci colpisce però la disinvoltura con cui lo stesso Gesù non teme di lasciar da parte sia la legge scritta sia le regole degli scribi, come dimostrano numerosi esempi della tradizione evangelica . Gesù non solo ha trascurato di propo­ sito, come abbiamo visto, le disposizioni farisaiche circa la separazione dai «senza legge», bensì ha pure permesso ai suoi discepoli di strappare spighe il sabato per saziare la lo­ ro fame ( Mc. 2 , 2 3 ss. par. ) e lui stesso ha guarito di sabato la mano rattrappita di un uomo ; queste azioni significavano un disprezzo del precetto del sabato cosi come veniva inteso dalla tradizione giudaica. La domanda di Gesù in Mc. 3 ,4 par. : «È lecito di sa ba to fare del bene o del male, sal v are una persona o ucciderla? » indica molto chiaramente che per Gesù omettere questa azione · risanatrice, come vorrebbe la interpretazione tradizionale del comandamento del sabato non si tratta di un caso in cui non è in pericolo la vita - si­ gnifica fare il male, uccidere, mentre è volontà di Dio il ri­ sanare, cioè fare il bene e salvare l 'uomo . Gesù quindi, co­ me dimostrano questi esempi, pretende di conoscere il co­ mandamento di Dio meglio dei maestri farisei e, ancor più, prende chiaramente posizione contro certe disposizioni del­ la legge scritta . La frase : «Nulla che entri nell'uomo dall'e­ sterno può contaminarlo, ma è ciò che esce dall'uomo a con­ taminarlo » ( Mc. 7, I 5 par. ), in opposizione alla legge scritta, dichiara non conforme alla volontà di Dio la distinzione fra

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La predicazione di Gesù

cibi puri e impuri, senza che Gesù giustifichi in qualsiasi mo­ do questa affermazione con argomenti tratti dalla Scrittura o dalla tradizione ; ed alla domanda se un uomo possa rila­ sciare sua moglie, Gesù richiamandosi all'ordinamento della creazione stabilisce : «Ciò che Dio ha legato, l'uomo non se­ pari » (Mc. 1 0,2-9 par. ), e dichiara pure non conforme alla volontà di Dio la legislazione sul divorzio (Deut. 2 4 ) e la tradizione ad essa congiunta. Gesù contrappone perciò la sua conoscenza e la sua interpretazione della volontà di Dio alla intelligenza che di essa aveva la tradizione farisaica che si rifaceva alla Sacra Scrittura, e contraddice così più di una volta allo stesso testo della Sacra Scrittura. Questo atteggiamento di Gesù, che, pur riconoscendo fon­ damentalmente l'autorità della legge e della tradizione, si contrappone tanto nettamente alla concezione giudaica con­ temporanea riguardo alla legge, si manifesta nel suo signifi­ cato e nella sua portata soprattutto nelle cosiddette « anti­ tesi>> del discor::o della montagna ( Mt. 5 , 2 1 -4 8 par . ) . È pro­ babile, come risulta dal confronto con Luca, che di queste sei antitesi solo tre siano state originariamente formulate in modo antitetico·, cioè le direttive sull'omicidio , sull'adulte­ rio e sul giuramento (Mt. 5 ,2 1 s. 2 7 s . 3 3 - 3 7 ), mentre le al­ tre tre potrebbero essere state assimilate alle prime soltanto da Matteo ( divorzio, vendetta, amore dei nemici, M t. 5 , 3 I s . 3 8 s . 4 3 s . par. ). Le tre antitesi originarie s i possono far risa­ lire molto probabilmente a Gesù : in esse egli , a un precetto veterotestamentario introdotto con « avete udito che fu det­ to agli antichi » o « avete udito che fu detto», contrappone la sua interpretazione della volontà di Dio, introdotta con « ma io vi dico>> . La formulazione di queste antitesi indica chiaramente che il comandamento veterotestamentario è vi­ sto sempre come un elemento della tradizione e quindi nel senso di questa tradizione, ma che Gesù, per la sua interpre­ tazione della volontà di Dio, non si rifà né ad altre parole della Scrittura, né ad una qualsiasi tradizione, bensì con un

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«io» ben accentuato oppone autoritativamente alla interpre­ tazione tradizionale della volontà di Dio il suo insegnamen­ to. Ma con altrettanta autorità Gesù, come abbiamo visto, ha pure dichiarato contrari alla volontà di Dio la distinzione fra cibi puri e impuri e il diritto di rilasciare la moglie . Così le antitesi ci indicano che Gesù con tale predicazione auto­ ritativa della volontà di Dio rigetta espressamente la vali­ dità illimitata dell'interpretazione del comandamento divi­ no finora data e al posto di essa pone come normativa la sua spiegazione . Dicendo : « La legge e i profeti [ vanno ] fino a Giovanni» ( Le. r 6 , r 6 a ) egli pretende evidentemente di af­ fermare che con la sua predicazione della volontà di Dio è giunta un'era nuova, definitiva per la rivelazione di tale vo­ lontà, e perciò indica anche come suo compito quello di dare alla rivelazione tramandata il suo vero senso : «N·on crediate che sia venuto a dichiarare invalidi la legge e i profeti; non sono venuto a dichiararli invalidi, ma a portarli a compimen­ to [ con la mia spiegazione ] » ( Mt. 5 , 1 7 ). E queste afferma­ zioni di Gesù concordano con quelle in cui dichiara che nella sua predicazione si compie l'evento escatologico (M t. r r , 5 par. ). Poiché in Gesù, nel suo insegnamento e nel suo agire, Dio fa già diventare realtà la sua azione salvifica escatologi­ ca, l'ascolto della predicazione della volontà di Dio fatta da Gesù è d'una importanza decisiva per gli uomini che voglio­ no entrare nel regno di Dio. Per questo quei Giudei che con fede videro in Gesù l'inizio del regno di Dio imminente, per­ cepirono la richiesta di Gesù come «etica del tempo salvifi­ co » , in cui veniva predicata la volontà di Dio in modo nor­ mativa e definitivo. Chi, ascoltando la predicazione di Gesù, si persuadeva che egli « insegnava come uno che ha autorità e non come gli seribi» ( così Mc. r ,2 2 par . ), doveva vedere nella richiesta di Gesù una parte dell'azione salvifìca escato­ logica di Dio iniziata in Gesù stesso.

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La predicazione di Gesù

La volontà illimitata di Dio

La richiesta di Gesù non era quindi collegata con la sua predicazione sulla prossimità del regno in un modo tale che la breve attesa prima dell'inizio di esso ne facesse una legi­ slazione eccezionale di breve durata ; piuttosto, la predicazio­ ne della volontà di Dio fatta da Gesù ha ricevuto il suo ca­ rattere radicale e assolutamente obbligante dall'autorità di Gesù stesso , mediante il quale Dio comunicava definitiva­ mente la sua volontà e faceva diventare realtà già presente il suo regno venturo. Se, conoscendo ormai questa origine della richiesta di Gesù, vogliamo esaminarne in particolare il contenuto, ciò non è compito di questa presentazione dei tratti principali della predicazione di Gesù ; tale compito sa­ rà affrontato da un altro volume di questa collana. Tuttavia la domanda sul carattere globale di questa richiesta non può essere tralasciata. In proposito giova ritornare ancora una volta alle antitesi del discorso della montagna. Gesù nelle antitesi originarie contrappone la sua interpretazione della volontà di Dio al precetto della Sacra Scrittura interpretato dalla tradizione , e ogni volta la sua interpretazione proclama­ ta con autorità oltrepassa il precetto tradizionale : non solo l'omicidio merita la punizione divina, ma anche l'ingiuria del prossimo incorre nel giudizio di Dio; non solo il compimento dell'adulterio è contrario alla volontà di Dio, ma costituisce già adulterio lo sguardo di concupiscenza rivolto alla donna d'altri ; non solo i futili giuramenti sulle proprie affermazio­ ni sono contrari alla volontà di Dio, ma Dio esige anche un modo di parlare in cui ogni giuramento sia superfluo . In tut­ ti questi casi Gesù inasprisce la richiesta divina e in questo è d 'accordo con alcune posizioni di maestri giudei ; egli però facendo cosi non estende ad altri casi la validità del precet­ to, cosa che corrisponderebbe al pensiero rabbinico, ma pre­ dica la volontà di Dio senza alcuna limitazione come impe­ gno di tutto l'uomo. Questo dato di fatto diventa ancor più

La richiesta di Dio

evidente se consideriamo le altre tre antitesi del discorso della montagna, cui probabilmente Matteo per primo ha im presso la forma antitetica ( Mt. 5 , 3 1 s. 3 8 s. 4 3 s.par.). Qui il precetto veterotestamentario non viene inasprito, ma abolito e sostituito dalla volontà incondizionata di Dio : rilasciare un libello di ripudio non è permesso, anzi il ripudio della mo­ glie è assolutamente proibito; nessuna vendetta è permessa, anzi viene imposta l'accettazione di altre offese ; non si co­ manda mai l'odio, ma addirittura l'amore rivolto proprio a quegli uomini che vogliono offenderei . In questi casi non può affatto trattarsi del problema della retta delimitazione di un precetto veterotestamentario, ma qui Gesù, fondando­ si sulla sua autorità, predica la volontà illimitata di Dio e obbliga l'uomo non a una norma scritta o formulata, ma alla volontà del Padre, che egli ha il compito di predicare : « Siate misericordiosi come vostro Padre è misericordioso» (Le. 6 , 3 6 par. ). ..

L'incontro con l'amore d i Dio

Gesù non ha solo parlato del Padre, ma col suo comporta­ mento ha fatto diventare realtà l'amore di questo Padre . La richiesta di Dio, così come viene predicata da Gesù, si rivol­ ge perciò a uomini ai quali Dio nel suo perdono e nella sua ricerca del peccatore è andato incontro in Gesù ; il quale non si appella alla buona volontà o alla responsabilità morale dell'uomo, ma gli indica Dio che gli viene incontro. La para­ bola del servo spietato ( Mt. r 8 , 2 3 ss . ) descrive un re che con.. dona ad uno schiavo un debito inverosimilmente alto. Lo schiavo se ne va e fa chiudere in carcere un suo compagno di servizio per un piccolo debito. Quando il padrone viene a sapere di questa azione, s'adira e consegna lo schiavo ingrato agli aguzzini ( Le. I 7, r o ) . Riguardo al fariseo, che essenzialmente fa più di quanto la legge gli chiede e rin­ faccia questo a Dio : «Dio ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri o anche come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la deci­ ma di tutto ciò che ho» , Gesù dice : « Costui non se ne tornò a casa giustificato » ( Le. r 8 ,9- 1 4 ). Dio chiede che l'uomo si converta e percorra la via stretta (Le. r 8 , 1 3 ; 1 3 ,3 .5 ; Mt. 7 , r 4 ), e se l'uomo f a questo, egli gli risponde come, secondo la parabola di Gesù, quel padrone di fronte al suo schiavo che aveva lavorato il massimo possibile con il denaro a lui affidato : «Bene, schiavo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto : entra nella gioia del tuo si­ gnore» (Mt. 2 5 , 2 1 . 23 ). Dio chiede certamente l'obbedien­ za e la preoccupazione esclusiva per il regno dei cieli e solo per questa completa obbedienza egli promette il dono della filiazione divina ( Le. 6 , 3 2·3 5 ; 1 2 ,3 1 par . ), ma non esige né riconosce prestazioni speciali (cfr. Mt. 2 3 , 2 3 a .b par. ). 3 . Con questo però abbiamo toccato il punto decisivo in cui Gesù si distingue dalla concezione di ricompensa dei Giudei a lui contemporanei . Quando si parla di ( Mc. 6 , 1 4 . 1 6 par.). A testimoniare che Gesù ha fatto azioni che dovevano essere percepite come straordinarie sta quindi sia il richiamo stes­ so di Gesù come anche l'affermazione di suoi contempora­ nei lontani dalle sue posizioni. Ma nei Vangeli abbiamo an­ che una grande quantità di racconti di guarigioni, di resurre­ zioni di morti e di cosiddetti «miracoli sulla natura» operati da Gesù; anche se i pareri riguardo al valore storico e al si­ gnificato di questi racconti rimangono sempre discordi . È incontestabile che essi trovano riscontro in quelle narrazioni che al tempo di Gesù attribuivano miracoli a divinità salva­ trici, a imperatori, a determinate figure pagane di salvatori, e anche, in forma un po' diversa, a maestri giudaici , e le ana­ logie esistenti fra queste storie di miracoli fuori del cristia-

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nesimo e quelle dei Vangeli sono numerose soprattutto nei particolari . È però altrettanto indiscutibile che certe forme di narrazioni di miracoli diffuse nell'ambiente circostante non si trovano affatto o soltanto sporadicamente nei Vange­ li sinottici ( miracoli per infliggere una punizione, per supe­ rare una difficoltà, per dare una ricompensa, per dimostrare un potere magico ; eccezioni da prendere con riserva critica sono Mt. 1 7,24 ss . ; Mc. I I , I 2 ss. par.). In particolare però c'è da dire che alcune narrazioni evangeliche corrispondono in modo sorprendente ai racconti di miracoli diffusi nell'am­ biente circostante per le loro pratiche magiche e la mancan­ za di un rapporto personale fra il taumaturgo e l'uomo risa­ nato (per es . la guarigione del cieco, Mc. 8 ,2 2-26), mentre altre narrazioni mostrano difficilmente tali tratti ( come la guarigione della mano rattrappita, Mc. 3 , 1 - 5 par. ). Questa constatazione sul piano della storia delle religioni concorda con il giudizio della storia delle forme, secondo cui quei rac­ conti, che mostrano numerosi tratti «prodigiosi » , general­ mente non insegnano nulla su Gesù e sul suo messaggio, mentre negli altri racconti l'azione di Gesù prepara l'am .. biente per una discussione su di lui e sull a sua dottrina. Se da queste constatazioni risulta chiaro che i racconti evange­ lici su azioni straordinarie di Gesù non hanno assolutamen­ te tutti lo stesso carattere, risulta pure che una parte dei racconti è saldamente ancorata alla tradizione più antica in quanto, nel contesto della narrazione di una azione di Gesù, presenta la persona di Gesù nella sua peculiarità e la sua predicazione sotto un determinato aspetto, e pone quindi di­ nanzi agli ascoltatori non semplicemente un avvenimento· prodigioso, ma Gesù stesso. Se non si può dubitare della at­ tendibilità storica di simili racconti, d'altra parte però rima­ ne necessariamente discutibile se i racconti che sono inte­ ressati in primo luogo o esclusivamente all'avvenimento pro­ digioso avessero originariamente a che fare con Gesù o al­ meno rappresentino una modificazione di una narrazione più

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antica. A questo problema non si potrà rispondere con cer­ tezza in tutti i casi; ma in nessun caso la rispos t a può essere derivata dal presupposto che nessun racconto che oltrepassi l esperienza a noi nota o da noi verifìcabile può rivendicare una attendibilità storica . Infatti, la concezione della neces­ sità causale, in cui non ci possono essere eccezioni, è del tut­ to estranea all'uomo antico, eccettuati sporadici scettici, ed è più che mai impossibile per Gesù, che conta sulla potenza sovrana di Dio. Se si tiene nel dovuto conto questa prospet­ tiva, allora per esempio la narrazione del centurione di Ca­ farnao ( Mt. 8 ,5- 1 0 . 1 3 par. ) si presenta come un racconto in cui si parla dell'atteggiamento di Gesù verso il suo popolo e verso i pagan i e del problema di credere in lui, mentre la guarigione del figlio ( o dello schiavo) del centurione viene narrata senza alcu n interesse per i particolari . Non c'è diffi­ coltà perciò a riconoscere la narrazione come un racconto proveniente dalla vita di Gesù; e contro questa conclusione non si può obiettare che questa guarigione si compie a di­ stanza senza che Gesù proferisca una sola pa rola di guari­ gione, po r tan do come unico motivo che un tale avvenimen­ to contraddice alla nostra esperienza ed è razionalmente in­ spiegabile. Al cont r ario , la narrazione della cacciata dei de­ moni da un indemoniato in una mandria di porci che corre nel lago e affoga (Mc. 5 , 1 -2 0 ) ci rappresenta in realtà un ' a­ zione di Gesù molto sorprendente e poco comprensibile nel suo significato, ma non dice nulla della peculiari t à della sua persona e della sua p redicazion e, e perciò resta fortemente discutibile se questo racconto risalg a alla tradizione più an� tica e riporti un avvenimento della vita di Gesù . Tuttavia la questione sulla attendibilità storica di un singolo racconto, come già abbiamo detto, non può essere sempre decisa con certezza ; e per comprendere la pretesa personale di Gesù non è neppure essenziale chiedersi quante azioni strabilianti abbia compiuto e quali elementi nei casi singoli si possano riconoscere o presumere come storici . Per il nostro argomen'

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to è decisivo unicamente chiedersi che senso ha attribuito Gesù alle sue azioni in rapporto con la sua predicazione sul­ la venuta del regno di Dio . Ora, è anzitutto chiaro che nell'opinione di Gesù le sue azioni non possono e non devono in nessun modo avere for­ za probante per la sua missione divina e per giudicare della sua persona. Ciò risulta già dal fatto che gli avversari di Ge­ sù possono tentare di far risalire il suo potere sui demoni al suo legame con il principe dei demoni : « Scaccia i demoni in virtù del principe dei demoni » ( Mc. 3 , 2 2b par. ) ; non si può quindi affatto riconoscere con chiarezza l'azione di Dio nelle opere di Gesù. A dimostrare che le azioni di Gesù non hanno forza probante sta il rifiuto di Gesù dell'accusa che egli sia alleato del principe dei demoni : « Se io scaccio i de­ moni in virtù di Beelzebub, in virtù di chi li scacciano i vo­ stri figli ? Perciò saranno essi i vostri giudici >> ( Mt. 1 2 ,2 7 par. ). Infatti qui Gesù riconosce senza circonlocuzioni che lo stesso potere sui demoni l'hanno come lui anche gli esor­ cisti giudei e nel loro caso, come in quello di Gesù, non si può senz'altro capire donde provenga il loro potere. Ma Ge­ sù non soltanto constata che le sue azioni non hanno carat­ tere dimostrativo, ma addirittura si rifiuta esplicitamente di provare con qualsiasi azione la sua missione divina: «E so­ sopravvennero i farisei e cominciarono a discutere con lui chiedendogli un segno dal cielo e mettendolo così alla pro­ va. Egli sospirò nel suo spirito e disse : 'Perché questa ge­ nerazione chiede un segno ? In verità vi dico, non sarà dato alcun segno a questa generazione'» ( Mc. 8 , 1 1 s . par . ) . Gli av­ versari di Gesù vogliono dunque una prova inequivocabile che Gesù è mandato da Dio, ma Gesù rifiuta assolutamente di soddisfare questa richiesta. Così almeno Marco ha traman­ dato la risposta di Gesù. Secondo la tradizione parallela pe­ rò , contenuta nella Fonte dei discorsi , Gesù dichiara : «A questa generazione non sarà dato alcun segno tranne quello di Giona » (Le. I I ,29 par. ). Se dovesse aver ragione l'ipote-

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si, suggerita da vari elementi, secondo cui la Fonte dei di­ scorsi avrebbe conservato questo detto di Gesù in una for­ mulazione più antica di quella di Marco, allora resta incerto che cosa significasse sulla bocca di Gesù il segno di Giona ( con la massima probabilità : il Figlio dell'uomo, come Gio­ na ai Niniviti , sarebbe apparso alla sua generazione come predicatore del giudizio ) ; ma anche in questa formulazione Gesù rifiuta un segno dimostrativo richiesto a lui come le­ gittimazione. Secondo quanto lo stesso Gesù afferma, le a­ zioni di Gesù possono essere capite nella loro vera natura solo se si ascolta il messaggio che le accompagna . Gesù però ha interpretato chiaramente queste azioni : (Mt. 8 , 1 0 par . ) ; al cieco Bartimeo, che lo prega di guarirlo gridando : «Figlio di Davide, abbi pietà di me», Gesù comanda : «Va', la tua fede ti ha salvato» ( Mc. r o , 5 2 par . ) . In modo del tutto analogo dice al capo della sinagoga Giairo, che aveva pregato per la guarigione della figlia e che altri cerca di distogliere da ulteriori preghiere con la notizia della morte della figlia : «Non temere, credi sol­ tanto ! » (Mc. 5 ,3 6 par . ) . Così parla della fede anche l'antica tradizione in cui si racconta del paralitico calato davanti a Gesù attraverso il tetto : «Gesù avendo visto la loro fede . . . » ( Mc. 2 , 5 par . ) . Spesso si è sostenuto l'ipotesi che in questi contesti fede non significhi altro che fiducia nella forza tau­ maturgica di Gesù. Tale fede nel taumaturgo Gesù sarebbe semplicemente giustapposta alla fede in Dio che Gesù ri­ chiede, ma non avrebbe con essa alcun rapporto . Questo però è impossibile se si considera Mc. 9 , 1 9 par . 2 3 , dove l'incre­ dulità dei discepoli è attribuita chiaramente al fatto che essi non si sono lasciati condurre da Gesù alla vera fede. E inoltre il testo di M t. 7 , 2 4 par. : «Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio che ha edi­ ficato la sua casa sulla roccia» e la risposta in Le. I 1 ,2 8 alla beatitudine in onore della madre di Gesù : «Beati sono piut­ tosto quanti ascoltano la parola di Dio e l'osservano» , mo­ strano che Gesù esige che l'uomo giunga alla fede e all'obbe-

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dienza a Dio ascoltando la sua parola. Il riconoscimento ri­ chiesto da Gesù del fatto che nelle azioni con cui egli scaccia i demoni si realizza il regno di Dio (Mt. 1 2 , 2 8 ), presuppone la fede che incontra il Dio che salva nell azione salvifica di Gesù. Anche se Gesù non ha parlato della fede nella sua per­ sona, tuttavia per lui l'incontro con il regno escatologico di Dio dipende totalmente dall'incontro, nella fede , con le sue azioni e il suo insegnamento, in cui si realizza l 'atto salvifìco escatologico di Dio. Con tale conclusione concordano le affermazioni esplicite di Gesù sul senso della sua venuta e sulla missione affidatagli da Dio. «Non crediate che sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma la spada» (Mt. 1 0,34 par . ) ; ciò non significa altro se non che la venuta di Gesù provoca una separazione fra gli uomini secondo la loro differente presa di posizione di fronte a lui. Forse va com­ preso in modo simile anche Le. 1 2 , 4 9 : « Sono venuto a por­ tare fuoco sulla terra e vorrei che già divampasse», cioè la missione di Gesù produce gli stessi effetti del fuoco del giudizio che separa la pula dal grano; in ogni caso però anche questo passo attribuisce alla venuta di Gesù un effetto esca­ tologico. Che Gesù si attribuisca un compito escatologico è indicato anche da Mt. 5 , 1 7 : «Non crediate che sia venuto ad abolire la legge e i profeti ; non sono venuto ad abolire , ma a portare a compimento» . Qui Gesù si definisce l'interprete autorizzato e definitivo della parola di Dio e parla anche della sua missione divina : « Sono mandato soltanto alle pecore perdute della casa di Israele » ( Mt. 1 5 2 4 ) Dopo tutto questo non può esservi dubbio che Gesù ha attribuito al suo compito e alla sua attività un significato centrale nell'avvenimento sal­ vifìco escatologico da lui annunciato e inaugurato. '

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Gesù, il profeta?

Si è voluto spesso motivare questa spiegazione fatta da

La predicazione di Gesù

Gesù della sua missione affermando che Gesù ha rivendicato per sé il ruolo di profeta, e a sostegno di questa opinione si può citare da un lato il proverbio con cui Gesù spiegò l'atteg­ giamento di rifiuto adottato verso di lui dai suoi compaesani di Nazaret : «Nessun profeta è onorato nella sua patria, fra i suoi parenti e nella sua famiglia>> ( Mc. 6,4 par . ) e si possono menzionare le parole con cui parlò del suo destino definitivo : «Oggi, domani e posdomani devo camminare, perché non è possibile che un profeta perisca fuori di Gerusalemme» (Le. 1 3 , 3 3 ). D'altra parte si può notare che Gesù mostra certi tratti proprii del modo di agire dei profeti : invito alla con­ versione (Le. 1 3 ,3-5 ); predizione del futuro (Mt. 2 3 , 3 8 par. ; Mc. 1 3 , 2 par . ) ; annuncio della prossima fine (Mc. I , I J par . ) ; visioni (Le. 1 o , r 8 ). Inoltre, non v'è dubbio che Gesù duran­ te la sua vita sia stato considerato un profeta (Mc. 6 , 1 5 par. ; 8 , 2 8 par. ; 14,65 par . ; Mt. 2 1 ,4 6 ; secondo Le. 7 , 3 9 questo giudizio è respinto da un fariseo a causa del comportamento di Gesù con una peccatrice). Da tutto questo però non segue affatto che Gesù si sia riconosciuto come un profeta. Infatti le formule tradizionali ( Mc. 6,4 par . ; Le. 1 3 , 3 3 ) non dimo­ strano nulla circa l'uso linguistico proprio di Gesù e il resto della tradizione non contiene neanche una affermazione in cui Gesù si definisca profeta. Gesù piuttosto ha spiegato chia­ ramente che non può essere ben compreso con l'appellativo di «profeta» : « Gli uomini di Ninive risorgeranno, nel giudi­ zio, con questa generazione e la condanneranno; infatti essi fecero penitenza alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c'è più che Giona» (Mt. 1 2 ,4 1 par. ; cfr . anche Mt. 1 2 ,42 par . ) . Così non ci s i può meravigliare della convinzione d i Gesù secondo cui con Giovanni Battista era concluso il tempo dei profeti : «La legge e i profeti [ vanno ] fino a Giovanni ; dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli su­ bisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Le. 1 6 , I 6a ; Mt. 1 1 , 1 2 ). Gesù afferma qui chiaramente che con la sua venuta il tempo della legge e dei profeti è finito; e a que-

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sto corrisponde non solo la pretesa di Gesù di predicare de­ finitivamente la volontà di Dio con autorità propria ( « lo vi dico . . . » Mt. 5 , 2 2 . 2 8 . 3 4 , v. sopra pp. 6o s . ) , ma anche la sua ardita affermazione che le sue parole rimarranno per sem­ pre : « Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » (Mc. 1 3 ,3 1 par . ) . 4 · Il

messia

La domanda sul significato attribuito da Gesù alla sua persona nell'ambito della sua predicazione sulla venuta del regno di Dio e sulla volontà divina, porta a riconoscere chia­ ramente che Gesù nel suo insegnamento e nella sua azione vide realizzarsi l'azione salvifica escatologica di Dio e perciò pose gli uomini che incontrava di fronte alla decisione di riconoscere o di respingere questa pretesa. Però, quanto è stato facile chiarire questo dato di fatto, altrettanto è difficile illustrare su quale fondamento Gesù vedesse fondata que­ sta pretesa e quali altre istanze fossero con essa collegate. Bisogna quindi chiedersi se Gesù non abbia anche rivestito questa pretesa con una di quelle forme che erano a sua di­ sposizione nell'aspettativa giudaica del tempo finale a lui conte1nporanea . Questa domanda si profila già per il motivo che la tradizione evangelica fa usare chiaramente a Gesù al­ meno i titoli di «Figlio» e di « Figlio dell 'uomo >> e fa indub­ biamente rispondere in modo affermativo alla questione se lui fosse «l'unto » . Essa è pure suggerita dal fatto che il giu­ daismo del tempo di Gesù ha nutrito un'attesa vivissima, ma anche multiforme, del salvatore e sarebbe per lo meno sorprendente se, data la sua pretesa personale cosl elevata, Gesù non si fosse confrontato con questa aspettativa. Non si può dimenticare che l 'attesa giudaica del venturo regno di Dio o più generalmente del giudizio e della salvezza finale non era necessariamente e sempre collegata con l'attesa di un salvatore escatologico. Fra gli scritti giudaici, chiamati

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« apocrifi» nella traduzione della Bibbia di Lutero, Tobia e Giuditta per esempio non conoscono una tale figura e lo stes .. so si dica, per esempio fra gli altri scritti giudaici degli ultimi secoli prima di Cristo, del libro dei Giubilei e dell'Assunzio­ ne di Mosè (in questa apocalisse farisaica composta nei primi decenni dell'era cristiana interviene Dio stesso ad eseguire il giudizio e ad annientare Satana ). Ma nel popolo l'attesa di un salvatore escatologico doveva essere talmente viva che comparvero e trovarono consensi false «figure di messia» ( cfr. Act. 5 ,3 6 s . ), sicché furono necessari avvertimenti perché non si fosse facili a credere a tali figure ( Mc. I 3 , 6 par . ; I 3 , 2 r s . par. ). Numerosi scritti giudaici del periodo posteriore all'Antico Testamento conoscono anch'essi un'aspettativa del salvatore, ma in forme molto varie e non sempre nettamente delimitabili e distinguibili fra loro. Si possono tuttavia distin­ guere nel giudaismo d'allora tre forme in cui il salvatore era atteso : il messia, re della casa di Davide ; il sommo sacerdote escatologico della casa di Aronne ; il «Figlio dell'uomo», pro­ veniente dal cielo. Ebbene, l'attesa d 'un sommo sacerdote messianico manca completamete nei vangeli sinottici, mentre le altre due forme di attesa del salvatore ricorrono diretta­ mente nelle parole di Gesù. Anche i dati evangelici quindi ci pongono la questione se Gesù abbia assunto queste forme dell'aspettativa giudaica d'un salvatore o almeno abbia preso posizione di fronte ad esse. Sarà opportuno a questo proposito partire dall'aspettativa di un «unto» , poiché già Marco ha definito il suo libro come «lieto messaggio di Gesù Cristo >> ( Mc. I , I ) e ha riportato la risposta affermativa di Gesù alla domanda del sommo sacer­ dote se egli fosse «l'unto, il Figlio di Dio benedetto» (Mc. 1 4 , 6 1 s. par. ). L'attesa di un ricorre anche in rela­ zione con altre attese escatologiche, come avviene in rapporto con la figura, che analizzeremo più tardi, del « Figlio dell'uo­ mo » nei discorsi simbolici precristiani del libro di Enoch etiopico, oppure con una figura profetica designata come «messaggero di gioia» del tempo finale, come si verifica in un testo della grotta r r di Qumran pubblicato solo recentemen­ te. Da tutto questo risulta che l'appellativo «l'unto» era ap­ plicato al salvatore soprattutto in rapporto con l'aspettativa politica del tempo finale, ma anche in altri contesti; sicché solo il contesto in cui viene usato di volta in volta l'appellati­ vo può chiarirne il senso esatto . Se l'attesa giudaica del sal­ vatore al tempo di Gesù non era necessariamente tenuta a servirsi del titolo « l'unto » , era però facile utilizzarlo in que­ sto o quel contesto, e non è affatto sorprendente che tale titolo abbia svolto un ruolo anche all'apparire di Gesù . Ora il termine christus non ricorre sulla bocca di Gesù come appellativo per designare se stesso nei testi antichi dei Vangeli sinottici (Mt. 2 3 , 1 0 e Mc. 9 , 4 1 sono palesemente se-

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condari ) . E ambedue i testi in cui Gesù è messo a confronto con questo titolo sono storicamente molto difficili da preci­ sare. Nel racconto di Mc. 8 , 2 7-30 par. Gesù stesso nei pressi di Cesarea di Filippo chiede ai suoi discepoli chi dice la gente che egli sia e riceve questa risposta : « Alcuni Giovanni Bat­ tista, altri Elia, altri un profeta» . All'ulteriore domanda : ] e giunse fino all'Anziano e fu presentato al suo cospetto. A lui furono dati potenza e maestà e regno, sicché i popoli di tutte le nazioni e le lingue lo servivano e mai il suo regno sarà distrutto » . Questa figu­ ra «simile a un uomo» è contrapposta a quattro bestie che vengono dal mare ; queste quattro bestie sono poi interpre­ tate come simboli di quattro re o di quattro regni terreni, «l'uomo>> invece è identificato con «i Santi dell'Altissimo» ( 7 , I 7 S . 2 2 . 2 5 . 2 7 ) . Non c'è dubbio che il libro di Daniele abbia inteso la figura del « simile a un uomo » in senso col­ lettivo, riferendolo al popolo giudaico in contrasto con i po­ poli pagani, ma le immagini qui usate delle quattro bestie e del > sulle nubi del cielo per fare il giudizio e in questo contesto risuona evidentemente Dan. 7 , 1 3 . D'altra parte egli parla dell'«uomo » come di una persona presente, e infine riferendosi a quest' «uomo» pre­ sente predice che soffrirà, morirà e risorgerà. A questo pro­ posito ci sorprende che un'identificazione esplicita fra Gesù che parla e l'«uomo», presupposta d'altronde dai Vangeli e occasionalmente suggerita pure dal contesto narrativo, ri .. corre solo sporadicamente nelle parole di Gesù e per di più - questo è indubbio - sempre in brani secondari ( cfr. Mt. 1 6 , 1 3 con Mc. 8 , 2 7 ; Le. 2 2 ,4 8 par . ) . Data . questa tradizione complicata e varia, da lungo tempo ci sono nella discussione scientifica pareri molto divergenti riguardo alla questione se Gesù potesse usare questo concetto e di fatto l'abbia usato e se, qualora l'abbia usato, intendesse con esso indicare se stesso. Ma se è innegabile che il concetto dell' «uomo» ricorre anche in testi che non potrebbero avanzare nessuna pretesa di essere originari (v. per es. Le. 2 r ,3 6 ; Mt. I 2 , 3 2 cfr. con Mc. 3 , 2 9 ) , è necessario concludere che la questione dell'ori­ ginalità e dell'eventuale significato di questo termine sulla bocca di Gesù può essere risolta solo mediante un'analisi spassionata di ogni singolo testo; naturalmente però nell'am ... bito del nostro studio è impossibile trattare così tutti i testi. Poiché la tradizione giudaica attendeva l' «uomo>> come essere celeste per il tempo finale, è per lo meno sorpren­ dente l'uso del termine all'interno della tradizione di Gesù . Già abbiamo trovato l'annuncio di Gesù riguardo alla prossi­ ma venuta dell' «uomo » considerando il detto : « Non avrete finito con le città di Israele che il Figlio dell'uomo sarà ve­ nuto» (Mt. r o ,2 3 v. sopra p . 3 5 ), e abbiamo pure visto che tutto converge a din1ostrare che Gesù ha risposto affermati­ vamente alla domanda del sommo sacerdote sul suo atteggia­ mento di fronte all'aspettativa di un «unto» ed ha subito

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spiegato l'affermazione riferendosi alla futura posizione del­ l' « uomo» seduto alla destra di Dio e alla sua venuta sulle nubi del cielo ( Mc. 1 4,62 par . ) . Il primo di questi due passi, Mt. 1 0, 2 3 b, indica però soltanto che Gesù ha atteso la pros­ sima venuta dell' «uomo» come l'avvenimento conclusivo di questo tempo storico, ma non ha alluso ad un rapporto fra l' «uomo» e Gesù. Neppure la risposta al sommo sacer­ dote tuttavia stabilisce un rapporto chiaro fra Gesù e l' «uo­ mo» ; tuttavia trattandosi della risposta alla domanda : « Sei tu l'unto ? » , il riferimento alla apparizione dell' «unto» ha senso soltanto se spiega il sì di Gesù a questa domanda, se cioè si dice qualcosa sulla venuta di Gesù come l' «uomo>> . Questa conclusone si deduce però anche da altre parole di Gesù. Da una parte Gesù fa avvertimenti riferendosi alla in­ certezza riguardo alla venuta di un ladro : «Perciò anche voi siate preparati, perché a quell'ora che voi non supponete, il Figlio dell'uomo viene» ( Mt. 2 4 ,44 par . ) e mostra il carattere improvviso di questa venuta : « Infatti, come il lampo brilla e guizza da un'estremità all'altra del cielo, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno» ( Le. 1 7 ,24 par. ; similmente Le. 1 7 ,26-3o par . ) . In queste parole, che fanno avvertire l'ur­ genza dell'attesa escatologica di Gesù, non si indica nulla riguardo al rapporto fra Gesù e l' « uomo» venturo. Diversa­ mente però capita nel detto di M c. 8 ,3 8 par. : « Chi si vergo­ gnerà di me e delle mie parole in seno a questa generazione adultera e peccatrice, di lui si vergognerà a sua volta il fi .. glia dell'uomo quando verrà nella gloria di suo Padre con gli angeli santi » . Il confronto di questo detto con la tradi­ zione parallela contenuta nella fonte dei discorsi ( «Chiun ... que si dichiarerà per me davanti agli uomini, per lui si di­ chiarerà anche il Figlio dell'uomo dinanzi agli angeli di Dio, ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnega­ to dinanzi agli angeli di Dio» Le. r 2 , 8 s . par . ) indica che originariamente alla proclamazione della propria fedeltà a Gesù veniva contrapposto il rinnegamento di Gesù e che a questo

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comportamento verso il Gesù terreno veniva associata la corrispondente reazione futura dell'«uomo» . Anche qui c'è distinzione fra Gesù e l' «uomo», ma è pure chiaro che al comportamento di una persona verso il Gesù terreno corri­ sponde la reazione futura dell' «uomo» in termini cosi esatti che fra questo Gesù e l' «uomo» esiste un legame molto stret­ to; tanto da .sollevare almeno la questione dell'identità fra le due figure. Certo questa identificazione non è compiuta in modo esplicito e avviene perciò solo velatamente. Va notato però che a questo sorprendente dato di fatto corrisponde quanto si può intravvedere nelle espressioni di Gesù riguardo all'«uomo» presente. Anche il detto : «Le vol­ pi hanno tane e gli uccelli del cielo hanno nid i , ma il Figlio dell'uomo non ha dove [ poter ] pos are il capo» ( Mt. 8 , 2 0 par. ) non dice con chiarezza chi si intenda con questo «uo­ mo» ; tuttavia non può trattarsi in modo del tutto generico di ogni uomo e d'altronde la comunità non ha neppure de­ scritto Gesù come senza patria. Perciò, in questo detto può essere solo Gesù a parlare cosi di se stesso indicando con que­ sta caratteristica o la sua esistenza errabonda, che rinuncia alla sicura vita domestica, o, meno probabilmente, il fatto del rifiuto e della lotta contro di lui da parte dei circoli diret­ tivi del suo popolo. Accanto a questo detto che parla solo velatamente del destino di Gesù come «l'uomo >> ce n'è ora da collocare un altro che rimanda chiaramente a Gesù come all'«uomo» . «A chi posso paragonare questa generazione? Essa assomiglia a bambini che stanno nella piazza e danno la voce ad altri dicendo : 'Vi suonammo il flauto e non avete ballato, abbiamo intonato lamenti e non vi siete picchiati [ il petto ] ' . È venuto infatti Giovanni che non mangia e beve e si dice [ di lui ] : ha un demonio. È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve e si dice [ di lui ] : ecco un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori» (Mt. I I , r 6- 1 9 a par . ) . In questo passo il comportamento dei Giudei contem­ poranei di Gesù è paragonato a quello di bambini capricciosi

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che non gradiscono nessun tipo di musica: proprio così i suoi contemporanei hanno respinto Giovani Battista per le sue maniere ascetiche e l' «uomo >> per il suo comportamento mon­ dano e di amicizia verso i peccatori . Questa aspra contrap­ posizione di Giovanni Battista e Gesù non corrisponde alla mentalità della chiesa primitiva cristiana; invece la critica a Gesù, come viene presentata, corrisponde pienamente a quanto sappiamo sull'opposizione a Gesù. Non c'è perciò la minima ragione per negare che questo detto sia di Gesù . E se è così, ne deriva evidentemente che Gesù parlando del­ l' escato­ logico riferendosi alla sua persona. «Come poteva un uomo spiritualmente sano nutrire tali pensieri su se stesso ? » ci si è domandati ancora recentemente ( A .J .B . Higgins ). Ma que.. sta questione non è solo posta in modo sbagliato, ma dimen­ tica anche che questa pretesa non implica affatto da parte di Gesù una sopravvalutazione patologica o blasfema del suo essere uomo . Gesù ha respinto con grande chiarezza qualsiasi venerazione rivolta alla sua persona : quando un ricco lo in­ terroga sulla via per giungere alla vita eterna interpellandolo con l'espressione «maestro buono», Gesù risponde : «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono tranne Dio» ( Mc. I o , r 8 par. ); e quando una donna proclama beata la madre di Gesù, egli ribatte : «Beati piuttosto quelli che ascoltano al parola di Dio e la osservano» ( Lc. 1 I , 2 8 ) . Anzi, Gesù ha esplicita­ mente negato di aver parte alla potenza e alla conoscenza di Dio : i figli di Zebedeo vogliono ricevere alla sua venuta nella gloria i posti d'onore accanto a Gesù, ma Gesù dichiara loro : « Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non spetta a me concederlo, ma [ è concesso a coloro ] per i quali è stato pre­ parato» ( Mc. 1 0 ,40 par . ) . Sulla venuta del Figlio dell'uomo egli può dire soltanto che apparirà in modo imprevedibile come un lampo ( Mt. 2 4 , 2 7 par. : forse Gesù ha anche espli­ citamente negato di conoscere il giorno e l'ora della fine, ma il testo originario del detto di Mc. 1 3 , 3 2 par. è incerto ). Ma anch� se Gesù, nella sua realtà umana, si mette chiaramente

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in second'ordine nei confronti di Dio, egli tuttavia sa altret­ tanto chiaramente che nella sua attività e nella sua predica­ zione, quindi anche nella sua persona, Dio è escatologica­ mente attivo, sicché modificando l'attesa giudaica dell' «uo­ mo» e annunciando come più vicina la sua venuta, mira solo ad esprimere questa consapevolezza. Proprio in questo dupli­ ce atteggiamento però appare chiaro che Gesù non si basa semplicemente su se stesso, ma si riconosce come l'inviato e­ scatologico di Dio, in cui Dio stesso con la sua azione viene incontro all'uomo. Di fronte a questa coscienza che ha Gesù della sua missione è sbagliato chiedersi se essa è ammissibile in un uomo psicologicamente sano. Infatti la critica storica non può decidere se Gesù aveva ragione o no a sostenere que­ sta pretesa, perciò non ha alcun diritto di negare la possibilità storica che Gesù abbia avanzato una tale pretesa e abbia potuto avanzarla, dato che essa corrispondeva alla realtà . La critica storica può solo constatare che una tale pretesa nel­ l'ambito dell'esperienza umana è senza possibilità di verifica e perciò essenzialmente senza analogia, ma non può conside­ rare questo un motivo per negare l'attendibilità della tradi­ zione. Poiché contro la tradizione vagliata criticamente delle parole di Gesù sull' «uomo» non si possono sollevare obie­ zioni determinanti, lo storico deve lasciare senza risposta la questione se Gesù potesse con ragione affermare che nella sua persona l 'attesa dell' «uomo>> escatologico si era fatta realtà preliminare e si sarebbe poi avverata pienamente nella gloria in un prossimo futuro. Ma chi prenda l'azione e la predica­ zione di Gesù come prova che Dio ha parlato e operato defi­ nitivamente mediante quest' > può risalire solo a Gesù stesso . Ora, come abbiamo già ricordato, nella tradizione di Gesù ricorrono anche una serie di parole di Gesù che predicano la passione dell' e così nella sua forma ori­ ginaria presunta non insegnerebbe nulla riguardo alla inter­ pretazione data da Gesù della sua morte. È difficile quindi c"he Mc. 1 0 , 4 5 par., nella forma in cui è stato tramandato, appartenga alla più antica tradizione di Gesù ; e una ipotetica formulazione è senza importanza nel nostro contesto in cui esaminiamo l'interpretazione data da Gesù alla sua passione. E lo stesso vale anche per le parole che Gesù, secondo il rac­ conto di Marco, ha detto nel Getsemani ai discepoli addor­ mentati dopo aver lottato davanti alla necessità della sua morte: «L'ora è venuta, ecco il Figlio dell'uomo sta per esse­ re consegnato nelle mani dei peccatori» ( Mc. 1 4 ,4 1 par . ) . Qui si parla dell' «uomo » che è «consegnato» e questo con­ cetto usato per indicare l'essere consegnato alla passione si ritrova soltanto in quei detti sull' «uomo» la cui originalità può · essere difficilmente accettata ( Mc. 9 , 3 1 par . ; 1 0 , 3 3 par . ; 1 4 , 2 1 par.). Rimane perciò discutibile s e Mc. 1 4 ,4 1 par. in questa forma risalga a Gesù, ma se pure dovesse essere così, potremmo ricavare dal passo solo il pensiero della inevita­ bilità della morte dell' «uomo>> . È molto più esplicito invece Le. I 7 , 2 5 : «Ma prima è ne­ cessario che egli soffra molto e sia ripudiato da questa gene­ razione» . Il contesto rivela che il soggetto di questa frase presupposto da Luca è il «Figlio dell'uomo» : il detto è in­ cluso in una composizione di parole di Gesù che proviene dalla fonte di discorsi e riguarda la venuta escatologica dell'«uomo» ; il contesto manifesta inoltre che mediante il > presente e venturo, era combinata con la pronta sottomissione alla volontà di Dio e con la continua consapevolezza della dipendenza da Dio, il Padre. 3·

Getsemani e ultima cena

Questa tesi è confermata da altri due testi, in cui Gesù è posto immediatamente di fronte alla morte imminente. Il racconto dell'agonia di Gesù davanti alla ineluttabilità della morte nel Getsemani ( Mc. 1 4 , 3 2-42 par . ) è certo storicamente molto discusso, poiché resta dubbio se i discepoli potessero in qualche modo udire la preghiera di Gesù, dato che il racconto li descrive come addormentati e manifesta per di più evidenti ripetizioni. Sarà quindi difficile poter considerare il racconto come una precisa riproduzione dell'avvenimento ; d'altra par­ te però è estremamente improbabile che la chiesa primitiva, senza aver avuto un aggancio con la tradizione storica, abbia raccontato di una agonia di Gesù davanti alla inevitabilità del destino di morte e abbia parlato del totale abbandono da parte dei discepoli in questa situazione di pericolo. Va inoltre

La passione e la morte di Gesù

III

aggiunto che nella orazione di Mc. 1 4 , 3 6 par. : «Abba, pa­ dre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice ; tut­ tavia non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu» è contenuta l 'invocazione a Dio tipica del linguaggio di Gesù. Benché quindi non possiamo fondarci sulle singole parole prese alla lettera, tuttavia il racconto nel suo insieme dimostra che i discepoli tennero a mente che Gesù, immediatamente prima del suo arresto si impose con sforzo una piena sotto­ missione alla volontà di Dio, cosa che è s oltanto una conferma di quella sua decisione già riscontrabile in Le. 1 7 , 2 5 . E ancora più vicino alla morte di Gesù c i conduce quanto pos siamo ricostruire dell'ultima cena con i discepoli. In real­ tà, di fronte ai racconti fortemente divergenti tra loro, è estremamente difficile giungere qui a un giudizio storico suf­ fragato da prove in certo modo sicure; alcuni studiosi riten­ gono perciò che tutto il racconto dell'ultima cena sia stato talmente plasmato dall'uso liturgico e dalla fede della comu­ nità cristiana da non lasciare più intravvedere nulla delle pa· role e dei pensieri di qu ella sera . Se però, in base al confronto dei diversi racconti, si riconosce che all'inizio della tradi­ zione ci doveva essere un racconto molto semplice, che si è congegnato proprio con la più antica tradizione su Gesù, al­ lora è legittimo ammettere che in questo più antico racconto riconoscibile ci accostiamo moltissimo alla realtà storica del­ l'ultima cena, anche se ovviamente non perveniamo ad an­ notazioni protocollari . Dei quattro racconti dell'ultima cena di Gesù con i disce poli ( Mc. 1 4 , 2 2- 2 5 ; Mt. 2 6 , 2 6-29 ; Le. 2 2 , 1 5- 2 0 ; z Cor. 1 1 ,2 3- 2 6 in base a una tradizione ripresa da Paolo ), Marco-Matteo da una parte e Luca-Paolo dall'altra coincidono nei punti essenziali. Inoltre è certo che Matteo ha ampliato il testo di Marco e quindi non vale come testi­ mone indipendente. Se perciò confrontiamo fra loro soltanto Marco e Luca-Paolo, alla breve frase di Marco sul pane : «Questo è il mio corpo» fanno riscontro in Luca l'aggiunta : «che è dato per voi» e in Paolo : «che [ è ] pet voi» e inoltre ,

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in tutti e due l'invito : «fate questo in memoria di me» . Non ci può essere qui alcun dubbio che la forma breve di Marco è la più originaria. Nelle parole sul calice invece Marco e Luca-Paolo differiscono fra loro interamente. In Marco leg­ giamo : « Questo è il mio sangue dell'alleanza che è sparso per molti» . Paolo dice:. « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue», cui Luca aggiunge « che è sparso per voi>> . Luca quindi h a ampliato l a versione che h a in comune con Paolo, ma il testo di Marco e quello di Paolo non si pos­ sono far derivare uno dall'altro. Bisogna quindi decidere quale delle due versioni vada considerata più antica; molti studiosi ritengono anche qui come più originario il testo of­ ferto da Marco. Contro questa opinione bisogna però osser­ vare che è sostanzialmente più probabile una assimilazione successiva d.elle due espressioni sul pane e sul calice piutto­ sto che una loro successiva differenziazione, e l'invito a bere del sangue è difficilmente concepibile nel giudaismo palesti­ nese. È perciò molto probabile che la più antica forma a noi accessibile delle parole sul calice sia conservata in Paolo. In­ fine, dopo le due espressioni sul pane e sul calice, Marco presenta ancora la seguente frase : « In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio » . Luca, invece di questa visione escatologica dopo le parole del pane e del calice, presenta prima delle due affermazioni l'annuncio di Gesù ( 2 2 , I j - r 8 ) secondo cui non avrebbe più mangiato la cena pasquale fino al regno di Dio e non avrebbe più bevuto il vino fino alla venuta del regno di Dio. Benché alcuni studiosi pensino che qui Luca presenta un racc:onto indipendente e molto antico, sono maggiori le ragioni a favore dell'ipotesi secondo cui Lu­ ca avrebbe ampliato quella visione escatologica contenuta in Marco, estendendola alla consumazione della Pasqua e l'avrebbe posta davanti alle parole sul pane e sul calice. A confermare che in questo caso Marco ha mantenuto la for­ mulazione più antica della visione escatologica c'è Paolo, il

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quale al racconto da lui ripreso sull'ultima cena di Gesù ag­ giunge la frase : «Ogni volta infatti che voi m angiate questo pane o bevete questo calice, voi annunciate la morte del Si­ gnore finché egli venga» . Anche Paolo quindi sapeva che secondo la volontà di Gesù l'ultima cena doveva essere il segno che preannunciava la venuta del regno di Dio . Se perciò è probabile che la tradizione più antica sia stata conservata da Marco per quanto riguarda le parole sul pane e l'aggiunta escatologica e da Paolo per quanto riguarda le parole sul calice, rimane però da chiedersi che senso essa ab­ bia. Secondo Mc. 1 4 , 1 2 l'ultima cena di Gesù fu una cena pasquale; Matteo e Luca hanno assunto da lui questa deter­ minazione cronologica. Il racconto ripreso da Paolo e Paolo stesso non dicono affatto che si sia trattato di tlna cena pa­ squale; inoltre il racconto dell'ultima cena di Gesù in Marco, preso in se stesso, non contiene alcun accenno alla cena pa­ squale ; vi manca soprattutto la menzione dell'agnello pa­ squale. Perciò, per questi ed altri motivi è molto improbabile che Gesù abbia celebrato come cena pasquale la sua ultima cena con i discepoli . Per questo non possiamo ricercare il senso delle parole dette in questa cena partendo dal simbo­ lismo della festa pasquale, ma dobbiamo attenerci al testo stesso delle affermazioni . Chiarissimo è il detto escatologico di Mc. 1 4 , 25 : «Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio » . Qui Gesù, porgendo ai discepoli il calice con il vino, dichiara, sotto forma di un voto di asti­ nenza, di non voler più bere vino finché non sia venuto il regno di Dio. Questa cena è quindi cena di commiato , in cui, come faranno anche in seguito nelle loro adunanze, i disce­ poli devono bere insieme il vino nell'attesa della prossima venuta di Gesù nella figura dell' «uomo » : quando l' « uomo» verrà, i discepoli celebreranno insieme con lui il pasto messia­ nico. L'ultimo pasto di Gesù con i suoi discepoli deve creare l'unità dei discepoli con Gesù, proprio nel momento in cui

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egli si separa da loro, e consolidare la certezza che essi sie­ deranno di nuovo a mensa insieme con lui quando apparirà nella gloria. In proposito si presuppone indubbiamente che i discepoli debbano conservare tale vicendevole comunione della mensa anche dopo la dipartita di Gesù, anche nel caso in cui il più antico racconto, a differenza di Luca e Paolo, non contenesse l'ordine esplicito di ripetere quell'assemblea . In questo contesto d'un banchetto comunitario proiettato verso la comunione del banchetto definitivo vanno comprese le pa­ role sul pane e sul calice. Le parole alla distribuzione del pane spezzato suonano, secondo Marco, così : « Questo è il mio corpo » . Poiché lo spezzare il pane viene prima della sua distribuzione, le pa­ role di Gesù si riferiscono soltanto alla distribuzione del pa­ ne spezzato . Per il . significato di queste parole sulla bocca di Gesù sarebbe di decisiva importanza conoscere il testo ara­ maico, che invece possiamo soltanto congetturare. Secondo l'ipotesi più probabile Gesù ha usato un vocabolo aramaico ( guf ), che può significare sia «corpo» che « Se stesso>>, sicché questo sarebbe il senso della frase che in greco è stata tradotta troppo letteralmente : «Questo sono io » . Gesù quindi nel contesto della cena escatologica d'addio, riferendosi al pane · d istribuito ai discepoli, dice : questo pane rappresenta me. I discepoli, mangiando insieme il pane loro distribuito, ri­ mangono nella comunione con Gesù e Gesù promette loro che ora, e anche in seguito quando mangeranno insieme il pane, rimarranno in comunione con lui . La morte imminente di Gesù non deve quindi eliminare la comunione dei disce­ poli con lui ; la sua morte è vista come una parte del suo cammino voluto da Dio e orientato verso la gloria escatolo­ gica. A differenza delle parole sul pane, le parole sul calice si riferiscono esplicitamente alla morte di Gesù. Secondo Paolo suonano così : « Questo calice è la nuova alleanza nel mio san­ gue » . Anche queste parole vengono pronunciate mentre il

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calice colmo di vino viene fatto girare; non spiegano quindi l'atto del versare il vino, ma quello del bere insieme allo stesso calice. È evidente inoltre che Gesù si collega alla pro­ messa contenuta nel libro del profeta Geremia ( 3 1 ,3 1 ss. ) : «Ecco, vengono giorni - dice i l Signore - in cui concludo con la casa di Israele e con la casa di Giuda una nuova alleanza . . . Porrò la mia legge nel loro intimo e la scriverò nel loro cuo­ re; sarò il loro Dio e saranno il mio popolo . . . Perdonerò la loro colpa e non mi ricorderò più dei loro peccati» . È eviden­ te infine che questa alleanza si realizza mediante il sangue di Gesù, cioè mediante la sua morte. Questo vuoi dire però che Gesù promette ai discepoli, invitati per l'ultima volta prima della sua morte a bere allo stesso calice, che avranno parte alla nuova alleanza con Dio, stipulata mediante la sua morte . Si è pensato spesso che la morte di Gesù in questo contesto sia intesa come morte espiatrice o sacrifìcatrice; ma le parole sul calice nella loro forma più antica non accennano a nulla di tutto questo; esse affermano soltanto che la morte di Ge­ sù apre la strada a questa alleanza. E secondo quanto già sappiamo della predicazione di Gesù è molto improbabile che la morte di Gesù debba essere qui valutata e spiegata come un singolo avvenimento e non piuttosto come la conclusione di tutta l'azione di Dio in quest'uomo. È perciò più ovvio supporre - qui non possiamo sapere nulla con assoluta cer­ tezza - che Gesù con le parole sul calice intenda dire che la sua morte porta a compimento la stipulazione del nuovo patto escatologico fra Dio e gli uomini, già avviata dalla sua azione e dal suo insegnamento, sicché con essa è diventato definiti­ vamente operante nella persona di Gesù l'inizio del regno di Dio. Gesù quindi ha avuto talmente la coscienza di esser il pro­ motore del regno di Dio incipiente, che ha percorso fino alla morte il cammino da Dio imposto , e ha portato così a com­ pimento la sua missione. In questo abbandono ai peccatori, impostogli da Dio e attuato da lui senza reticenze, raggiunge

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pienamente il suo effetto l'amore divino che in Gesù ricerc� il peccatore e s'imbatte contro il rifiuto di questi. Anche se Gesù molto probabilmente non ha dato sulla sua morte spie­ gazioni più dettagliate, nella realtà di questa morte accettata volontariamente appare un'azione divina che toccherà poi ai cristiani rendere comprensibile. E benché Gesù non abbia forse parlato direttamente della sua risurrezione per opera di Dio - in ogni caso non abbiamo una testimonianza antica che provi ciò con certezza --- tuttavia egli ha senza dubbio con­ siderato la sua morte come passaggio alla sua venuta nella figura dell' «uomo » proveniente da Dio, ed ha così posto i cristiani di fronte al compito di interpretare la sua persona, la sua opera e la sua morte partendo dall'esperienza della ri­ surrezione, che al tempo dell'ultima cena era ancora avvolta nell'oscurità del futuro. Ciò significa che l'inserzione della morte e della risurrezione di Gesù nella comprensione della sua persona per opera della più antica cristianità era già im­ plicita nella interpretazione data da Gesù stesso alla sua mor­ te e non è stata un'aggiunta arbitraria della prima comunità, che avrebbe introdotto così nella interpretazione di Gesù un corpo estraneo e del tutto nuovo. Gesù non ha spiegato la sua morte, ma l'ha accettata come la conclusione della sua missione divina, manifestandosi così come l' «uomo» venuto e venturo, che non solo ha avanzato la sua pretesa a parole e l 'ha resa ·evidente con azioni , ma anche l'ha provata median­ te la sua condotta obbediente fino alla morte. La morte di Gesù è perciò o la tragica fine di un idealista o di un fanati co , oppure un avvenimento che trascende se stesso e che ha ricevuto il suo significato da quanto si compì al di là della morte. Nessuna comprensione di Gesù che desideri dare una risposta alla sua pretesa personale può quindi prescindere dalla testimonianza della comunità, che presenta questa pre­ tesa come confermata dall'azione di Dio e chiede quindi a noi se siamo o no disposti a riconoscere questa conferma divina. ­

II LA FEDE DELLA COMUNITÀ PRIMITIVA

I.

La fede pasquale

Considerando le affermazioni di Gesù sulla sua morte im­ minente ci è sembrato di poter dire che Gesù abbia atteso e abbia indicato ai suoi discepoli la sua morte come passaggio alla gloria dell'«uomo» . È chiaro però che i discepoli, oppo­ stisi a questo annuncio già inizialmente nella persona di Pie­ tro (Mc. 8 , 3 2b . 3 3 par.), non furono in grado neppure alla fine di credere alla predizione di Gesù. Marco, dopo aver ri­ ferito che Gesù fu arrestato dagli uomini del sinedrio guidati da Giuda Iscariota, aggiunge : «e tutti lo abbandonarono e fuggirono >> ( Mc. 1 4 , 5 0 par . ) . Questa notizia non trova al­ cuna smentita nel seguito della più antica narrazione della passione ; solo più tardi si è cercato di attenuarla : Luca non riporta Mc. 1 4 , 5 0 , ma in 2 3 ,4 9 , dopo la morte di Gesù, ri­ ferisce piuttosto : si riferisce a un avvenimento reale c'è l'annotazione « e fu visto da Cefa, poi dai dodici » . La visione del risorto da parte di Cefa e dei dodici fonda quindi, secondo il pensiero della comunità primitiva, la possibilità di credere alla risurrezione del crocifisso, così come la sepoltura di Gesù porta ad affer­ mare la realtà della sua morte, riguardo alla quale la fede con­ fessa che essa è avvenuta per i nostri peccati . Sia la comunità più antica, sia Paolo vogliono parlare di un avvenimento quando confessano : «Cristo risorse il terzo giorno secondo le Scritture» , ma essi per questa confessione non hanno altro so­ stegno oltre al fatto che il risorto è stato visto da una serie di testimoni. Se qui Paolo riferendosi al gruppo dei cinquecento fratelli, che aggiunge all'antica formula, dice esplicitamente che la maggior parte di essi sono ancora in vita, egli intende indubbiamente mostrare la possibilità di interrogare questi testimoni ancora vivi. Paolo in questo contesto non precisa . come egli concepisca l'avvenimento della risurrezione del Cristo. Ma più oltre, nel seguito di I Co r. I 5 , parlando della attesa risurrezione dei cristiani, dichiara in proposito che «carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio» ( 1 .5 , ; o ) e che i cristiani alla risurrezione avranno un « corpo spi.. rituale» ( 1 5 ,4 4 cfr. 4 9 ) . Ne deriva quindi con sicurezza l'im­ possibilità per Paolo di aver pensato che il Cristo risorto sia stato visto nel suo corpo terreno di « carne e sangue» . Non ci è neanche possibile stabilire se Paolo fosse persuaso che la tomba del risorto era vuota o no. Infatti l'antico racconto della comunità primitiva, citato da Paolo, non rammenta che la tomba fosse stata trovata vuota e neppure Paolo vi ag.. giunge questo dato. Né per la comunità più antica, né per Paolo quindi la menzione della tomba vuota è richiesta per

La fede pasquale

I2I

giustificare la fede nella risurrezione di Cristo. E a farci sup­ porre che Paolo non avrebbe tralasciato di ricordare il ritro­ vamento della tomba vuota, se avesse a vu to qualche notizia in proposito, c'è la sua intenzione esplicita in z Cor. I 5 , I - I I di esporre tutto quanto fa da sostegno alla fede nella risurre­ zione del Cristo, per partire da questo punto riconosciuto da tutti i cristiani e poter parlare poi della risurrezione dei cri­ stiani. La professione di fede della comunità, ricevuta da Paolo, e integrata con tutte le notizie da lui conosciute, è in se stessa completa e non richiede aggiunte. 2.

Il racconto del Vangelo di Marco

Oltre a I Cor. 1 5 , 1 - I I abbiamo il racconto di Mc. I 6, I - 8 , che secondo la tradizione dei migliori manoscritti è l a con­ clusione del Vangelo di Marco : «E passato il sabato, Maria di Magdala, Maria [ madre ] di Giacomo, e Salomone com­ prarono aromi per andare a imbalsamare Gesù. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, al levar del sole, ven­ gono al sepolcro. Esse dicevano tra loro : Chi ci farà rotolare la pietra della porta del sepolcro? Ma, alzati gli occhi, vi­ dero che la pietra era stata fatta rotolare ; eppure era molto grande . Entrarono nel sepolcro e videro seduto sulla destra un giovane, vestito di una candida veste, e furono sgomen­ tate. Ma egli disse loro : « Non vi sgomentate ! Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso ; è risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto . Andate dunque [ e ] dite ai suoi discepoli e a Pietro : egli vi precede in Galilea . Là lo vedrete, come vi ha detto. Esse allora uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano state colte da tremore e da sbigottimento; e non dissero nulla a nessuno perché avevano paura» . Anche prescindendo completamente dalla questione se il Vangelo di Marco terminasse originariamente così, una questione che non deve essere trattata qui, il racconto termina in modo molto strano. Infatti l'angelo, che alle donne dà la

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La fede della comunità primitiva

spiegazione della tomba trovata vuota con sgomento, in r 6 ,7 aggiunge a questa spiegazione l'ordine rivolto ai discepoli di incontrarsi nuovamente con Gesù in Galilea. Le donne però non obbediscono a questo comando e non raccontano a nessuno ciò che è loro accaduto. È molto improbabile che il racconto di Mc. 1 6 , r-8, finché circolò indipendente, abbia avuto una conclusione così contraddittoria ; è piuttosto proba­ bile che il comando dell'angelo alle donne in 1 6 ,7, che ri­ manda a una precedente parola di Gesù in Mc. r 4 , 2 8 sia stato introdotto dall'evangelista nella narrazione a lui tra­ mandata. Se infatti si lascia da parte r 6 ,7 si ha una concate­ nazione molto chiara : l'angelo accenna all'avvenuta risurre­ zione e le donne fuggono via spaventate e non osano raccon­ tare nulla. Questo racconto sul ritrovamento della tomba vuota che si può supporre come il più originario contiene però una se­ rie di difficoltà storiche. Tènuto conto del clima palestinese, non è concepibile che le donne il terzo giorno dopo la morte vogliano ancora ungere un cadavere, né è comprensibile che esse vadano al sepolcro con l'intenzione di imbalsamarlo pur non sapendo chi farà rotolare la pesante pietra davanti al sepolcro ; inoltre, fra i Giudei non si era soliti usare unguenti aromatici per la conservazione dei morti. Considerate queste inverosimiglianze, è difficile prendere questo racconto come storicamente attendibile; e una indagine più precisa indica per di più che tale racconto non vuole primariamente nar­ rare il ritrovamento della tomba vuota da parte delle donne - le donne dapprima sono sbigottite solo per il sepolcro aper­ to ed è per primo l'angelo ad avvertirle che la tomba è vuo­ ta -, ma ha come centro l'annuncio dell'angelo, secondo cui Gesù prima sepolto è risuscitato . La narrazione quindi inten­ de fondare la fede nella risurrezione di Gesù sul fatto che un angelo sulla tomba vuota ha proclamato alle donne l'annun­ cio della risurrezione del crocifisso . Anche in questa narra­ zione perciò la fede nella risurrezione di Gesù non è garantita

La fede pasquale

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d a u n fatto accessibile a ognuno indipendentemente dalla fe­ de ; tuttavia è qui riferito un fatto, il ritrovamento della tom­ ba vuota, che rende la risurrezione di Gesù sostanzialmente più palese che non il racconto della visione del risorto da par­ te di Pietro e degli altri testimoni. Perciò secondo molti cri­ stiani l'atteggiamento preso di fronte al racconto del ritrova­ mento della tomba vuota è decisivo per determinare se si prende sul serio o no la risurrezione di Gesù come evento divino. Riguardo a questo però bisogna dire che contro l'at­ tendibilità storica del racconto del ritrovamento della tomba vuota non militano soltanto le difficoltà storiche già esposte, ma soprattutto la mancanza nel Nuovo Testamento, tranne che in Mc. 1 6 , 1 -8 e nei racconti degli altri tre Vangeli di­ pendenti da questo testo, di ogni traccia sia pur minima a conferma che si era a conoscenza del ritrovamento della tom­ ba vuota di Gesù o anche semplicemente che si riteneva im­ portante, quando si parlava della fede nella risurrezione di Gesù, sottolineare che la tomba era vuota. Inoltre, bisogna notare che anche nel racconto di Marco a suscitare la fede nella risurrezione di colui che era stato sepolto non deve es­ sere il fatto della tomba vuota - già nell'antichità si è cer­ cato di spiegare questo fatto anche in altro modi, cfr. Mt. 2 7 , 6 4 -, ma l'annuncio dell'angelo, che non si preoccupa di pre­ sentare alcuna prova. Perciò, anche se il ritrovamento della tomba vuota di Gesù fosse attestato in forma sostanzialmen­ te migliore di quanto non lo sia, tenuto conto non solo di Paolo, ma anche di tutto il Nuovo Testamento fuori dei Van­ geli, si dovrebbe concludere : è evidente che per i cristiani più antichi il può anche essere intesa nel senso di «Fi­ glio di Dio » . In questo senso sicuramente il cristianesimo

La fede in Cristo della comunità palestinese

I 35

primitivo di lingua greca ha inteso presto il titolo, e in que­ sto senso l'autore degli Atti degli Apostoli poteva usare il titolo antico a lui tramandato . Ma essendo ambigua, l'espres­ sione è presto scomparsa, soppiantata da quella più chiara di «Figlio di Dio » . 4 · Il Figlio di Dio

È certo molto difficile dire quando i cristiani cominciaro­ no a designare Gesù come «Figlio di Dio » . Infatti, abbiamo già visto che «Figlio di Dio» non era un titolo messianico giudaico e che molto probabilmente Gesù non ha usato per... sonalmente questo appellativo . Ma ci sono testimonianze · che molto chiaramente fanno pensare ad una elevata antichi­ tà di questa concezione nell'uso linguistico cristiano. Paolo, come si riconosce ampiamente, all'inizio della Lettera ai Ro­ mani utilizza una formula precedente ( Rom. 1 , 3 s . ), che de­ ve essere stata press'a poco in questi termini : « [ Gesù Cri­ sto ] , nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito, a nartire dall�. ri.surrezione dai morti , Figlio di Dio secondo lo Spirito Santo» . Qui, alla dignità messianica terrena, indicata col titolo « hf?;lio di Davide» è fatto seguire nel tempo, a par­ tire dalla risurrezione, l'insediamento a Figlio di Dio . Se in questo modo la dignità messianica del Gesù terreno è > , non si rivolge a Gesù, ma ai disce­ poli e così pure agli ascoltatori della narrazione, indicando loro che in questo cambiamento e in questo modo celeste di

La feèle in Cristo della comunità ellenistica

1 .5 3

manifestarsi si rivela la filiazione divina di colui che è tra­ sfigurato. E come improvvisamente Gesù mutandosi fa ve­ dere la sua vera essenza, così altrettanto improvvisamente torna ad essere davanti ai discepoli quel Gesù a loro fami­ liare . In tutti questi testi compare una concezione estranea al giudaismo, ma corrente nell'ellenismo, che riguarda una do­ tazione naturale ed essenziale di potenza, cui corrisponde l'epifania, l'apparizione dell'essere divino agli occhi di de­ terminati uomini. Nell'ellenismo pagano esisteva la conce­ zione di uomini che avevano forze e capacità divine ed era­ no in grado di dimostrarle con miracoli ; e questa idea era penetrata anche in forma attenuata nella considerazione el­ lenistico-giudaica di figure veterotestamentarie. Queste idee furono ora assunte dai cristiani ellenisti per esprimere la fe­ de nel fatto che l'uomo Gesù era stato mandato da Dio. Non sembra però che si sia anche pensato fin dall'inizio alla ma­ niera in cui spiegare questo modo di essere divino di Gesù. 3·

Lo Spirito come possesso e il concepimento verginale di Gesù

In seguito però si è posta anche questa questione, e alla mente dei cristiani ellenisti si sono presentate due idee, che, pur affiorando solo occasionalmente, cercavano di rendere comprensibile la natura divina di Gesù. Da un lato si era persuasi che Gesù al battesimo aveva ricevuto in possesso lo Spirito divino, sicché egli da allora in poi l'aveva avuto a sua disposizione. Almeno nell'interpretazione dei cristiani elle­ nisti e poi anche del Vangelo di Marco la narrazione del bat­ tesimo (Mc. 1 , 9 - 1 I par . ) afferma che lo Spirito, disceso su Gesù come una colomba, rimase presso di lui ; Io. 1 , 3 2 lo sottolinea esplicitamente e Mc. I , I o può anche essere tradot­ to così : «Vide lo Spirito discendere come una colomba den­ tro di lui» . E il fatto che le parole di Gesù : «Chi bestemmia contro lo Spirito Santo, non ottiene perdono in eterno» ven-

I .5 4

La fede della comunità prifnitiva

gana riferite dall'evangelista all'accusa mossa dagli avversa­ ri di Gesù : «ha uno spirito impuro» ( Mc. 3 ,2 9 ), significa che anche qui si suppone che Gesù sia in possesso dello Spi­ rito Santo. Oltre a questa idea però, e indubbiamente già nel cristia­ nesimo ellenistico-giudaico, se ne è formata un'altra secon­ do cui Gesù sarebbe stato generato da madre umana senza l'intervento d'un uomo. Questa idea, più accennata che espo­ sta in Le. I , 2 6 ss ., non riguarda affatto una generazione per mezzo d'un seme divino, prospettiva che sarebbe stata con­ forme alla mentalità pagana, ma intende la concezione del bambino per mezzo d'una azione divina creatrice in modo simile a quanto si raccontava nel giudaismo ellenistico ri­ guardo alla maternità di determinate donne dell'Antico Te­ stamento. In Luca la filiazione divina di Gesù ( Le. 1 ,3 2 : « sarà grande e sarà chiamato figlio dell'Altissimo» ) viene quindi fatta risalire a un atto creativo particolare di Dio al momento della sua concezione e perciò neanche qui si parla di una filiazione fisica divina . Se poi Matteo ha questa for­ mula: « Sua madre, Maria, che era fidanzata a Giuseppe, pri­ ma che venissero a convivere insieme, si trovò incinta per opera di Spirito Santo» (Mt. r , I 8 , cfr. 1 ,2 o ), questo modo di esprimersi s'avvicina all'idea di una filiazione divina in senso fisico e in questo senso si è inteso poi ben presto ( ma solo dopo il Nuovo Testamento ) il concetto del concepimen­ to verginale di Gesù. Questi due tentativi di rendere comprensibile la fìliazio ... ne divina naturale di Gesù, come abbiamo già ricordato , so­ no attestati solo in modo molto tenue nel Nuovo Testamen­ to , poiché evidentemente all'inizio non si sentiva dappertut­ to l'esigenza di sviluppare ulteriormente l'idea che si predi­ cava della filiazione divina naturale di Gesù. Non v'è dub­ bio però che nel cristianesimo giudaico ellenistico e nel cri­ stianesimo pagano, prima di Paolo e prima del sorgere degli scritti evangelici, si era già incominciato a rendere compren-

La coscienza ecclesiale

I 55

sibile la persona di Gesù anche mediante l'idea della sua fì liazione divina naturale che si esprimeva nella capacità illi­ mitata di fare miracoli e nella possibilità di mutare il suo aspetto. Se la conoscenza di questa evoluzione è indispensa­ bile per comprendere il Vangelo di Giovanni , nello studio di esso ci si porrà la questione se questo ulteriore sviluppo del­ la fede nel Figlio di Dio apparso in Gesù nasconda in sé, an .. cor più del concetto dell'inviato celeste, il pericolo che l'uma­ nità di Gesù non venga più presa in tutta la sua realtà. La comunità primitiva però ha creato i presupposti al pen­ siero dei grandi teologi del cristianesimo non solo sviluppan­ do la fede in Cristo in base alla sua esperienza della risurre­ zione del crocifisso Gesù ; essa ha imparato anche con il sor­ gere di questa fede, a prendere coscienza di essere la comu­ nità del Cristo risorto. Perciò se vogliamo conoscere i pre­ supposti del pensiero teologico di Paolo e degli scritti gio­ vannei nei loro tratti essenziali dobbiamo studiare anche l'origine della comunità primitiva. ..

4 · La coscienza ecclesiale

Non sappiamo con certezza dove i primi testimoni abbia­ no visto Gesù risorto e perciò non sappiamo neppure con sicurezza dove si siano ritrovati insieme per la prima volta i testimoni della risurrezione. È però molto probabile che l'apparizione a Pietro e ai dodici abbia avuto luogo in Gali­ lea ( Mc. 1 4 , 2 8 par. ; r 6 ,7 par. ) ed è altrettanto probabile che l'apparizione ai cinquecento fratelli ( r Cor. 1 5 6 ) sia avve­ nuta a Gerusalemme. Se queste supposizioni sono vere, si dovrà concludere che, al tempo dell'apparizione ai cinque­ cento fratelli, quanti erano stati testimoni della risurrezione in Galilea si erano già trasferiti a Gerusalemme ; e gli Atti degli Apostoli presuppongono proprio che i testimoni della risurrezione si siano riuniti dapprima a Gerusalemme ( Act. I , r 2- 1 5 ) e che là, nella festa giudaica delle settimane, dopo ,

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La fede della comunità primitiva

la pasqua in cui Gesù era stato ucciso, fosse raccolto un gruppo più ampio di credenti in Cristo e abbia avuto un'espe­ rienza decisiva dello Spirito ( Act. 2 , 1 - 1 3 ). Si è messo in que­ stione sotto un duplice profilo questo quadro storico degli Atti degli Apostoli secondo cui la comunità primitiva si sa­ rebbe sviluppata partendo dal centro di Gerusalemme. Da un lato si è pensato che la comunità cristiana di Gerusalem­ me sia sorta soltanto alcuni anni dopo quella di Galilea; Paolo ancora tre anni dopo la sua conversione non presup­ porrebbe una comunità a Gerusalemme, giacché in Gal. r , 1 8 non ne fa menzione . D'altro lato si è supposto che fin dal­ l'inizio ci siano stati due centri della cristianità, in Galilea e a Gerusalemme, e che la comunità di Gerusalemme sia pas­ sata in primo piano solo nel corso degli anni. Ora non è esclu­ so che in Galilea fin dall'inizio o comunque molto presto ci siano state comunità cristiane, sorte e sviluppatesi indipen­ dentemente da Gerusalemme ; ma di tali comunità non sap­ piamo assolutamente nulla di concreto e perciò non sappia­ mo neppure quali prospettive di fede dominassero in esse e se abbiano avuto un qualche influsso sull'evoluzione del cri .. stianesimo primitivo. C'è pure da osservare che Paolo, se­ condo Gal. r , 1 8 , conosce evidentemente solo un luogo, do­ ve dopo la sua conversione avrebbe potuto entrare in rap­ porto normativa con la comunità cristiana. D'altra parte è arbitrario pensare che Pietro e Giacomo per più di tre anni dopo la morte di Gesù abbiano svolto la loro attività a Ge­ rusalemme ( così Gal. I , I 8 s . ) senza che si sia formata una qualche comunità cristiana ; ed è altrettanto ingiustificato ri­ tenere che l 'autore degli Atti degli Apostoli non fosse più in grado di sapere assolutamente nulla di attendibile riguar­ do agli inizi della chiesa cristiana. L'ipotesi che resta ancora più probabile è quella che in realtà i primi testimoni della resurrezione siano ritornati ben presto dalla Galilea a Geru­ salemme e si siano riuniti con i testimoni della resurrezione che erano là. Perché sia avvenuto questo ritorno possiamo

La coscienza ecclesiale

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arguirlo soltanto mediante congetture; tuttavia si potrà rite­ nere con fondati motivi che la causa era data dal fatto che la crocifissione e la risurrezione di Gesù ( non la sua apparizio­ ne) erano avvenute in Gerusalemme, così come là si era formata la coscienza di sé di questi primi cristiani, che analiz­ zeremo ora. 1.

L' autocom prensione della comunità primitiva

La questione decisiva perciò sta ne1 chiedersi quale inter­ pretazione i testimoni ritornati a Gerusalemme e i seguaci di Cristo raccoltisi attorno a loro abbiano dato della loro co­ munità e quali forme religiose di vita corrispondessero a que­ sta autocomprensione. Gli Atti degli Apostoli presuppongo­ no che i primi cristiani partecipassero alla preghiera nel tem­ pio, si trattenessero anche altre volte nel tempio e seguissero la legge ( Act. 2 ,46 ; 3 , 1 ; 5 , 1 2 .4 2 ; r o , r 4 ) ; non si parla però di una partecipazione al sacrificio del tempio . Questa imma­ gine degli Atti degli Apostoli, riguardante la naturale fedel­ tà dei primi cristiani agli usi religiosi e al comportamento prescritto nel loro ambiente, è confermata dal fatto che Pao­ lo nel cosiddetto concilio apostolico , circa 1 6 - r 7 anni dopo la sua conversione, si scontra a Gerusalemme con la richie­ sta di circoncidere i cristiani provenienti dal paganesimo e anche dal fatto che ad Antiochia s'imbatte con il punto di vista propugnato da quelli di Gerusalemme, secondo cui i cristiani provenienti dal paganesimo non possono avere co­ munione di mensa con quelli provenienti dal giudaismo. Co­ sì pure nei sinottici alcune espressioni di Gesù, che , rigida­ mente fedeli alla legge, contraddicono al suo atteggiamento critico in proposito ( cfr. p . 6o ), dimostrano che sono esisti­ ti per lo meno dei circoli della comunità primitiva che per­ sistevano nell'osservanza integrale della legge e richiedeva­ no da tutti i seguaci del Cristo risorto tale comportamento ( cfr. Mt. 5 , I 8 par. I 9 ; 2 3 ,2 . 3 a ; 2 3 , 2 3 par. ; 2 4 , 2 0 ). Si potrà

La fede della comunità primitiva

perciò ritenere con fondati motivi che la cristianità geroso­ limitana dei primi anni si attenesse alla osservanza della leg­ ge giudaica e delle usanze religiose dei Giudei . Tuttavia, pro­ babilmente molto presto è apparsa una differenza all'inter­ no della comunità primitiva, quando la predicazione di Cri­ sto in Gerusalemme conquistò anche Giudei della diaspora di lingua greca. Anche se è difficile utilizzare il discorso mes­ so in bocca a Stefano in Act 7 , 2 ss. come fonte per ricavare il pensiero di questo capo dei giudeo-cristiani di lingua greca di Gerusalemme, tuttavia l'ostilità dei Giudei verso questi giudeo-cristiani ellenisti ( Act. 8 , I . 3 s . ; I r , r 9 ), dimostra che questi ultimi, a differenza della comunità primitiva di lingua aramaica, recavano ai Giudei uno scandalo maggiore. Perciò � molto illuminante la notizia che presso questi giudeo-cri­ stiani ellenisti si riscontrasse un esplicito rifiuto del culto del tempio (Act 6 , 1 1 s . ; 7,48 ) ed è pure sostanzialmente vero­ simile l'accusa contro Stefano di essere andato contro la legge ( Act. 6 , r 3 s . ), poiché i giudeo-cristiani ellenisti, di­ spersi dopo la persecuzione di Stefano, proclamavano ad An­ tiochia il « lieto messaggio del Signore GesÙ» ( Act. I I ,20 ) anche di fronte ai pagani . Difficilmente avrebbero potuto at­ tenervi successo, se essi avessero richiesto anche la circonci­ sione e l'adempimento di tutta la legge giudaica. Probabil­ mente si ebbe quindi già molto presto a Gerusalemme, nella cristianità di lingua aramaica e in quella di lingua greca, un atteggiamento di maggiore o minore severità di fronte alla pietà tradizionale giudaica riguardante la legge ; e il raccon­ to dell'elezione dei «sette » ellenisti ( Act. 6 , r ss . ) tradisce an­ ch'esso , secondo un'ipotesi molto probabile, un certo con­ trasto fra questi due gruppi della comunità primitiva . Per questi dati di fatto si è spesso concluso che la comu­ nità primitiva si sia ritenuta come uno degli innumerevoli gruppi particolari all'interno del giudaismo, che si distin­ gueva dagli altri Giudei solo perché poteva testimoniare la risurrezione del crocifisso Gesù e proclamare che l'atteso .

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L a coscienza ecclesiale

I ;9

salvatore escatologico era venuto, invitando così a credere in questa azione salvifica escatologica di Dio operata nei con­ fronti del suo popolo ( cfr . Act. 2 ,2 4 . 3 I s . ). C'erano già nel giudaismo d'allora vari gruppi (farisei, sadducei, esseni, mo­ naci di Qumran ), che si consideravano allora come i veri Giudei e che in parte, come per esempio i monaci di Qum­ ran, contestavano agli altri Giudei il diritto di ritenersi an­ cora il popolo di Dio. Ci è quindi facile supporre che la co­ munità primitiva cristiana sia stata vista all'inizio dai Giu­ dei come uno di questi gruppi particolari e questa ipotesi è suffragata dal fatto che l'autore degli Atti degli Apostoli po­ ne in bocca ai Giudei la qualifica di « setta » ( hairesis ) rife­ rita alla comunità cristiana ( 24 , 5 . 1 4 ; 2 8 , 2 2 ). Si possono ad­ durre anche dati che sembrano corroborare l'ipotesi che la comunità primitiva stessa si sia ritenuta come uno di questi gruppi particolari. Gli Atti degli Apostoli presuppongono che i cristiani della comunità primitiva si attribuissero l'ap­ pellativo «la via» ( 9 , 2 ; I 9 ,9 . 2 3 ; 2 2 ,4 ; 2 4 , 1 4 . 2 2 ) e questo appellativo che definisce il proprio gruppo nei confronti di tutte le altre forme giudaiche di interpretazione della legge riappare altrove solo nel gruppo qumranico ( I QS 9 , 1 8 ; r o , 2 I ). Va anche tenuto presente che la comunità si è definita con le espressioni «i santi» o > , «gli elet­ ti» - con i quali la comunità primitiva designava se stessa, non provano con sicurezza che essa avesse la pretesa di costi-

La fede della comunità primitiva

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tuire il gruppo particolare eletto del popolo giudaico. Contro questa interpretazione degli attributi usati dalla comunità primitiva per autodefinirsi stanno ora due inequi­ vocabili dati di fatto. Per prima cosa, manca nella comunità primitiva, come già in Gesù, il concetto noto per l'uso dei profeti e rivendicato allora dai farisei e dai monaci di Qum­ ran, secondo cui il loro gruppo era il santo « resto» del po­ polo di Dio, l 'unico conservato da Dio per il tempo finale. Gesù aveva parlato piuttosto della «nuova alleanza» che Dio avrebbe stabilito mediante la sua morte ( I Cor. r r , 2 5 , v . sopra pp. I 1 5 s . ) e con la cerchia dei « dodici» raccolta at­ torno alla sua persona aveva espresso la pretesa di Dio su tut­ to il popolo delle dodici tribù. In modo del tutto analogo, la comunità primitiva ritenne di essere costituita dai membri del nuovo patto escatologico instaurato da Gesù : « Voi siete i figli dei profeti e del patto che Dio ha concluso con i vostri padri » (Act. 3 , 2 5 ). Questo patto aveva il compito di attira­ re a sé tutto il popolo della salvezza : « Sappia quindi con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito signore e messia questo Gesù che voi avete crocifisso » ( Act. 2 , 3 6 ) . I n questo senso poi, forse soltanto nel cristianesimo giu­ daico-ellenistico, sono state anche trasformate le parole sul calice durante l'ultima cena ( I Co r. r r ,2 5 ), così che si par­ lasse chiaramente della stipulazione del patto a favore dei « molti» ( la totalità ) ( « Questo è il mio sangue dell'allean­ za, che è versato per molti », Mc. 1 4 , 24 ). La comunità pri­ mitiva era quindi persuasa che Dio per mezzo di Cristo aves­ se stipulato in mezzo ad essa il nuovo patto salvifico escato­ logico, che doveva abbracciare tutto il popolo. Nella stessa direzione ci orienta un secondo dato di fatto, cioè il titolo di « comunità ( o anche di 'chiesa' ) di GesÙ >> o di «con1unità del Cristo>>, attribuitosi dalla comunità primi­ tiva . Ciò risulta dalle parole di Gesù a Pietro , inserite nella narrazione della confessione messianica a Cesarea di Filippo ( v . sopra ): «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché ==

La coscienza ecclesiale

non carne e sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io ti dico che tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia comunità e le porte dell'ade non prevar­ ranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli e tut­ to ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» ( Mt. r 6 , r 7r 9 ) . Abbiamo visto che questa promessa a Pietro può essere sorta soltanto nella comunità cristiana, tuttavia il linguaggio e la struttura del detto dimostrano chiaramente che in esso la comunità primitiva di lingua aramaica ha espresso la co­ scienza che essa aveva di sé. Il detto è sorprendente e im­ portante soprattutto perché afferma l'esistenza della comu­ nità di Gesù Cristo nel presente e l'importanza fondamen­ tale di Pietro per l'esistenza della comunità voluta da Gesù. Si discute, non essendo immediatamente chiaro, quale espres­ sione aramaica stia alla base della parola greca ecclesia che ricorre in Mt. r 6 , r 8 , ma con tutta probabilità è qui as­ sunto il concetto veterotestamentario della « comunità di Dio» ( qahal, aramaico qehala ' ) e mediante la scelta di questo concetto è espressa la pretesa della comunità primitiva, per la quale i credenti in Cristo rappresentano il popolo di Dio e sono così subentrati al posto dell'antico popolo di Dio. Va notato però che questo popolo di Dio non è più designa­ to come « comunità di Dio» , ma come «comunità di GesÙ» o > . Infatti, anche in Paolo, come nell'attesa del­ l' «uomo» che compare sulle nubi del cielo nell'apocalittica giudaica, e in Gesù ( v . pp . 9 3 ss . ), «uomo» designa in questi contesti la figura del salvatore celeste del tempo finale . Il modo con cui Paolo usa il concetto dell'uomo celeste in contrasto con il primo uomo Adamo esclude tuttavia l'ipo­ tesi che Paolo dipenda direttamente dalla tradizione del «Fi­ glio dell'uomo>> giudaico-apocalittica ed evangelica. Infatti in questa manca il parallelismo tra il primo e il secondo uo­ mo ; e anche l'idea dell'appartenenza delle corrispondenti serie di umanità a questi « uomini». Ma la figura giudaico­ apocalittica dell' «uomo » è dal canto suo indubbiamente una trasformazione escatologica del « mito del tempo primordia­ le diffuso nel Medio Oriente e riguardante il primo uomo e il re del paradiso» (M. Schenke ), che in quanto «uomo pri­ mordiale» include l 'intera umanità o anche, in un'altra ver­ sione del mito, la totalità dei salvati . Questa concezione pa­ gana dell'uomo primordiale era stata assunta dal giudaismo apocalittico in senso escatologico, come attesa dell' «uomo» escatologico, e il giudaismo ellenistico aveva utilizzato la concezione per descrivere il mediatore primigenio della crea­ zione, che sta in contrasto con il primo uomo, quello terreno, Adamo . Il cristianesimo ellenistico e con esso Paolo si sono associati in questa utilizzazione ellenistico-giudaica del mito dell' «uomo » celeste. Paolo però interpreta questa concezione dell' «uomo » celeste in senso strettamente escatologico per descrivere in questo modo l 'appartenenza dei cristiani al sal­ vatore del tempo finale venuto e atteso e l'attesa della loro partecipazione alla sua gloria. Paolo dice che l' « ultimo uo­ mo» proviene « dal cielo» ( r Cor. r 5 ,47 ) ; pensa quindi pro-

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La teologia di Paolo

babilmente anche all'uomo terreno Gesù quando parla del­ l' «ultimo uomo » ( cfr. anche il discorso dell' « obbedienza dell'uno» , Rom. 5 , 1 9 ). Ma l'interesse specifico nell'uso di questa concezione mitica da parte di Paolo si rivolge al Cri­ sto risorto e atteso nella gloria, che è diventato « spirito vi­ vificante>> e di cui i cristiani dovranno portare l' «immagine» celeste, quando alla sua apparizione escatologica avranno ri­ vestito il suo corpo di gloria ( I Cor. 1 5 ,45 .49 ; cfr. Phil. 3 , 2 0 s . ). Paolo assume quindi dalla tradizione il mito dell'uo­ mo finale celeste, ma questo non gli serve per descrivere speculativamente la figura del Gesù terreno o risorto,. ma gli rende possibile una affermazione soteriologica : poiché i cristiani appartengono all' «uomo» celeste, essi hanno parte alla sua vittoria sulla morte e alla sua vita nello Spirito di Dio. «Noi porteremo l'immagine dell'uomo celeste» ( I Co r. I 5 ,49 ) : questa è la certezza che Paolo vuole esprimere quando parla di Gesù « uomo» celeste. Ma neppure questo titolo ha avuto un'importanza centrale per la predicazione di Pao­ lo riguardo al Cristo. 4·

Il Signore ( Kyrios )

Molto frequentemente invece ricorre in Paolo l'appella­ tivo «il Signore » (Kyrios ) per indicare Gesù Cristo ; e noi abbiamo già visto che Paolo nell 'inno di Cristo della Lettera ai Filippesi ha indicato come scopo dell'azione di Dio per mezzo di Gesù Cristo il fatto che « ogni lingua confessi 'Ge­ sù Cristo è Signore' a gloria di Dio Padre» ( Phil. 2 , 1 I ) . Giacché in modo del tutto analogo la confessione ' Gesù è il Signore' è menzionata come l'espressione tipica della fede dei cristiani ( Rom. 1 0 ,9 ; I Cor. r 2 , 3 ), è sicuramente giustificato ritenere che questo appellativo di dignità sia particolarmen­ te indicativo della concezione paolina di Cristo. Paolo ha già trovato nell'uso linguistico della comunità ellenistico­ giudaica l'invocazione a Gesù come al Signore. In esso i cri-

L} evento Cristo

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stiani si definiscono come coloro anche il Cristo preesistente : « Conoscete la grazia di nostro Signore Gesù Cristo : egli, ricco qual era, divenne per noi povero» ( 2 Cor. 8 ,9 ). Il fatto che questo uso linguistico ricorra così raramente in Paolo fa capire che Paolo ha trasferito il titolo di Gesù come « Si­ .gnore» dal risorto al Gesù terreno e poi anche al preesisten­ te . Ma proprio questo è caratteristico e importante. Infatti da questo risulta assolutamente chiaro che Paolo, quando parla del Signore risorto , pensa sempre anche all'uomo Ge­ sù e che per lui quindi si dà una unità ininterrotta fra l'uomo Gesù e il Signore risorto. 5.

Il Figlio di Dio

Questa unità si manifesta con chiarezza singolare nel mo­ do con cui Paolo usa per Gesù Cristo l'espressione «Figlio di Dio>>. Essa ricorre in Paolo con relativa scarsità , ma è molto sottolineata. In essa Paolo indubbiamente non è in­ fluenzato dalle idee pagane del concepimento fisico del figlio divino da parte di un Dio; egli presuppone piuttosto la nor­ male nascita umana del Figlio di Dio : il vangelo « del suo Figlio, che è nato dal seme di Davide secondo la carne>> ( Ro1n. r ,3 ) ; «Dio mandò il suo figlio, nato da una donna» ( Gal. 4 , 4 ). Paolo attribuisce valore decisivo alla piena umanità del Figlio di Dio : «Dio mandò il suo Figlio nella figura della car­ ne di peccato» ( Rom. 8 , 3 ) . Queste parole sulla missione del Figlio di Dio indicano però anche che per Paolo Gesù Cristo

L'evento Cristo

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era già Figlio di Dio prima di nascere come uomo e che, nato come uomo, rimase anche come tale Figlio di Dio : «Fummo riconciliati con Dio per la morte di suo Figlio» ( Rom. 5 , I o ) ; «Vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi amò e diede se stesso per me » ( Gal. 2 , 2 0 ). Dalla sua risurrezione Cristo è «costituito Figlio di Dio in potenza>> ( Rom. 1 ,4 ) ; Dio può rivelarlo come il risorto ( Gal. r , r 6 ) e «mandare nei nostri èuori lo Spirito del suo Figlio» ( Gal. 4 , 6 ) . Il Figlio di Dio quindi per mezzo della sua risurrezione ha assunto il suo po­ tere celeste - Paolo parla del «governo regale» riferendosi al Figlio di Dio risorto ( I Co r. I 5 , 2 5 . 2 8 ) - e perciò i cri­ stiani possono credere che Dio li ha « trasferiti nel regno del suo diletto Figlio » (Col. r , r 3 ). Il risorto apparirà dal cielo ( « aspettare dal cielo il suo figlio, che egli ha risuscitato dai morti , Gesù» , I Thess. I , 1 o ) e allora i cristiani «saranno conformati all'immagine del suo Figlio, affinché egli sia pri .. mogenito tra molti fratelli >> ( Rom. 8 , 2 9 ) . Paolo quindi con il titolo di «Figlio di Dio» da lui assunto desc rive l'intera « storia» del Cristo dalla preesistenza fino alla parusia, e per questo aspetto tale espressione non solo manifesta nel modo più completo che Paolo vede l'azione di Dio in Cristo come un'unità piena, ma fa anche riferimento con la massima chia­ rezza alla connessione esistente fra l'azione di Dio e l'avve­ nimento del Cristo. Nelle affermazioni paoline riguardo al Figlio di Dio si dice continuamente che Dio agisce per mezzo del suo Figlio ; Dio manda il Figlio, si riconcilia con noi mediante la morte del suo Figlio , costituisce il Figlio come Figlio di Dio in po­ tenza, lo rivela a Paolo, trasferisce i cristian.i nel regno del suo Figlio, manda lo Spirito di suo Figlio nei loro cuori e fa loro attendere il Figlio di Dio dal cielo ( Rom. 8 , 3 ; Gal. 4,4 ; Rom. 5 , r ; 1 ,4 ; Gal. r , r 6 ; Col. 1 , 1 3 ; Gal. 4,6 ; I Thess. I , r o ) . Il soggetto vero e proprio dell'avvenimento qui è sem­ pre Dio e così il termine Figlio di Dio è « nell'uso paolin a la designazione del portatore della salvezza nel suo aspetto

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La teologia di Paolo

di appartenenza a Dio» (W. Kramer ). Dio Padre opera lui stesso la salvezza in ciò che è accaduto e accadrà per Gesù Cristo : questo vuole sottolineare Paolo quando parla del Figlio di Dio. Paolo indica ancor più chiaramente che cosa significhi questo per il cristiano. Egli richiama con vigore alla comu­ nità di Roma quanto intensamente Dio partecipi personal­ mente all'azione di suo Figlio : ( Rom. 5 , 1 9 ). Paolo può dire : « Gesù fu consegnato [ da Dio ] per le nostre trasgressioni >> (Rom. 4 , 2 5 ) , e può anche affer­ mare : « lo vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi amò e diede se stesso per me» ( Gal. 2 , 2 0 ; cfr. anche Rom. 5 ,8 con 14,1 5). 6.

La formula «per mezzo di Cristo»

Questa convinzione che Dio agi s ce per mezzo del Figlio

L'evento Cristo

2 05

in quanto il Figlio adempie docilmente la volontà del Padre, porta alla formula usata frequentemente da Paolo «per mez­ zo di Cristo » . Con questa formula Paolo può esprimere da un lato la fede che Dio per mezzo dell'uomo Gesù ha ope­ rato la salvezza nel passato, rende partecipi ora i cristiani di questa salvezza e la porterà a compimento nella parusia : «Dio si è riconciliato con noi per mezzo di Cristo» ( 2 Co r. 5 , 1 8 ) ; « In quanto giustificati per la fede abbiamo pace con Dio per il nostro Signore GesÙ>> ( Rom. 5 , 1 ) ; «Dio non ci ha destinati all'ira, ma all'acquisto della salvezza per il no­ stro Signore Gesù Cristo » ( I Thess. 5 ,9 ) . Analogamente, Paolo con questa formula, anche senza menzionare contem­ poraneamente Dio, parla del fatto che Cristo ci ha ottenuto la salvezza o ci chiama al suo servizio : « Quanto più [ quan­ to più sicuramente ] noi, che ora siamo stati giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo suo» ( Rom. 5 ,9 ); « Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale ab­ biamo ricevuto la grazia e l'ufficio di apostolo per suscitare l'obbedienza della fede fra tutti i popoli a gloria del suo no­ me» ( Rom. I ,4 s . ). Paolo parla d'altra parte di esortazioni e di ringraziamenti dei cristiani , che avvengono « per mezzo di Cristo» : «Vi esorto . . . per il nome di nostro Signore Gesù Cristo» ( I Cor. r , r o ) ; «Anzitutto ringrazio il mio Dio per mezzo di Gesù Cristo per voi tutti» ( Rom. I , 8 ). Qui però né si pensa che Cristo agisca da sé o indipendentemente da Dio, né Paolo potrebbe mai immaginarsi che il rapporto fra i cristiani e Dio esiga una istanza mediatrice interposta. Al contrario, la formula «per mezzo di Cristo» concretizza pro­ prio l'azione di Dio e la relazione del cristiano con lui. Paolo parla dell'universale efficacia dell'azione di Dio per mezzo di Cristo : « Per noi [ c'è ] un solo Dio, il Padre, dal quale [ ha origine ] tutto e al quale noi siamo ordinati, e un Signo­ re Gesù Cristo, per mezzo del quale tutto [ avviene ] e noi per mezzo di lui» ( I Co r. 8 , 6 ) ; cfr. anche « Paolo, apostolo . . . per opera di Gesù Cristo e di Dio Padre» ( Gal. I , I ). Paolo ==

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La teologia di Paolo

lascia quindi inequivocabilmente trasparire che tutto il com­ portamento di Dio senza eccezioni , nella creazione e nell'o­ pera della salvezza , si compie nell'azione di Cristo. E giacché così la relazione del cristiano con Dio ha il suo unico e radi­ cale fondamento nel Cristo, Cristo è non solo il mediatore della salvezza, ma anche l'unica via del cristiano per accedere a Dio : «Tutte le promesse sono in lui [ il Figlio di Dio Gesù Cristo ] compiute; per questo [ risuona ] anche per mezzo suo [ come risposta ] il nostro amen a gloria di Dio» ( 2 Cor. I , 2 0 ) . Con tutto ques to diciamo però che la formula « per mez­ zo di Cristo» esprime con particolare incisività la completa appartenenza di Gesù Cristo come Figlio di Dio al Padre , sicché il cristiano può essere fermamente convinto che in Gesù Cristo egli incontra lo stesso Dio Padre. 7.

L'

Paolo con questa confessione di fede non vuole certo egua­ gliare il Figlio di Dio a Dio . Ciò si manifesta già nell 'occa­ sionale assunzione del titolo «immagine di Dio» riferito a Cristo : « Il dio di questo eone ha accecato la mente degli in­ fedeli così che non vedono la luce dell'evangelo della gloria di Cristo , che è l'immagine di Dio >> ( 2 C or. 4 , 4 ); nel diletto Figlio di Dio « abbiamo la redenzione , la remissione dei pec­ cati ; egli è l'immagine del Dio invisibile, il primogenito di tutta la creazione» ( Col. 1 , 1 4 s . ). « Immagine di Dio » in que­ ste espressioni indica chiaramente il Figlio di Dio, che nella creazione, come pure nella nuova creazione, - 2 Cor. 4 , 4 allude presumibilmente alla vocazione di Paolo - rende vi­ sibile l'azione di Dio, rappresenta di fronte agli uomini Dio invisibile . Non v'è dubbio che Paolo trasferisca a Cristo un attributo della sapienza divina, consueto nel giudaismo con­ temporaneo : la sapienza «è splendore della luce eterna, spec­ chio tersissimo del vigore di Dio e immagine della sua bontà» (Sap. 7,26 ). Ciò implica anche che l'origine del concetto ren-

L'evento Cristo

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de già in se stessa estremamente improbabile una equipara­ zione del Figlio di Dio con Dio ; e Paolo usa evidentemente questo concetto per il fatto che con esso può dire chiaramen­ te che nel Figlio di Dio Dio stesso ci viene incontro, pur ri­ manendo al tempo stesso l'invisibile. Che qui non si pensi ad una equiparazione risulta inoltre dal fatto che Paolo evita di chiamare Dio il Cristo . Ciò appare del tutto evidente in due passi, I C or. 3 , 2 3 e I I , 3 : tutto ap­ partiene a voi , « ma voi appartenete a Cristo, Cristo però ap­ partiene a Dio » ; «voglio che sappiate ch.e il capo di ogni uo­ mo è Cristo e capo della donna è l'uomo ; capo del Cristo è Dio >> . Ambedue le volte il riferimento alla relazione di Cristo con Dio non è realmente necessario nel contesto; se Paolo ambedue le volte aggiunge che Cristo dipende da Dio, egli intende con questo sottolineare che è proprio la relazione del cristiano con il Cristo a stabilire la vera relazione con Dio. Ba­ sta tener presente questi testi per non dubitare neppure che i l detto di lode di Rom. 9 , 5 , molto discusso ( « da loro [ gli Israeliti ] discende Cristo secondo la carne ; il Dio, che è al di sopra di tutto, è benedetto in eterno, amen » ) si può riferire solo a Dio, benché sintatticamente sarebbe del tutto possi­ bile che si riferisca a Cristo . Che qui si debba intendere Dio, è confermato dall'uso linguistico di Paolo, che senza ecce­ zioni usa Dio per Dio Padre e che inoltre non potrebbe designare il « Cristo secondo la carne» come > che dona libertà . Secondo il contesto Paolo .

L'evento Cristo

213

con la frase « il Signore è lo Spirito» vuole quindi dire che Cristo dona lo Spirito della filiazione, che ci libera dalla leg­ ge di morte ( cfr . Rom. 8 , 1 5 . 2 ), e così in questa frase si parla dello Spirito di Cristo e non dell'uguaglianza di Cristo con lo Spirito. Paolo quindi, anche se fa molte affermazioni che possono riferirsi allo stesso modo sia al Cristo che allo Spi­ rito, non ha mai dimenticato che il cristiano sta di fronte al suo Signore personale, Gesù Cristo, e sa di essere personal­ mente assunto dal Signore risorto al suo servizio . Se Paolo non di meno parla anche dell'azione di Dio me­ diante lo Spirito e fa in proposito molte affermazioni simili a quelle che può fare allo stesso modo riguardo all'azione di Dio in Cristo, questo non ha soltanto il suo fondamento nella tradizione - già la formula della comunità primitiva assunta da Paolo in Rom. 1 ,4 parla dell'insediamento di Cri­ sto a Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito santo -, ma dipende dalla realtà stessa. Dio mediante lo Spirito santo ha risuscitato il Figlio di Dio umiliatosi fino alla morte di croce e da allora lo Spirito è efficace per opera di Dio e di Cristo : «costituito a partire dalla sua risurrezione dai morti Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito santo » ( Rom. r , 4 ) ; «l 'ultimo Adamo è diventato spirito vivificante » ( I Cor. 1 5 ,45 b ) ; « Dio ha risuscitato il Signore e risusciterà anche noi con la sua potenza» ( I Cor. 6 , r 4 ) ; frase questa che va messa a confronto con > si lascia determinare dagli «elementi del mondo e non da Cristo » ( Col. 2 , 8 ; cfr . la contrapposizio­ ne di « tristezza conforme a Dio » e di « tristezza del mondo » , 2 Cor. 7 , r o ) e questo «fondarsi s u di s é » del mondo d i fron­ te a Dio è chiamato da Paolo «vantarsi di fronte a Dio» ( I Cor. 1 ,2 7-2 9 ) . Paolo di conseguenza vede l'uomo sempre di fronte a Dio ( « affinché la vostra fede non si fondi sulla sapienza degli uomini , ma sulla potenza di Dio » , I Cor. 2 , 5 ) , ma l'uomo che si trova nel mondo adora «la creazione al posto del creatore» ( Rom. r ,2 5 ) ed è perciò alienato : « [ Ab­ biamo ] un solo Dio, il Padre, dal quale [ ha origine ] tutto e al quale noi [ siamo ordinati ] » ( r Cor. 8 , 6 ) . Questa imma­ gine dell 'uomo prende con altrettanta serietà sia il fatto che l'uomo è creatura di Dio, sia il fatto che egli ha sempre evi­ tato di riconoscere questa realtà creaturale . r.

L'uomo come carne

Paolo qualifica l'uomo situato nel mondo con tutta una serie di concetti che è particolarmente difficile comprendere per il fatto che egli non usa una terminologia fissa e univo­ ca. Prima di tutto egli vede l'uomo in una situazione di con­ trasto definito in termini di > ( «Non siamo debitori di fronte alla carne, così da [ dover ] vivere secondo la carne» , Rom. 8 , 1 2 ), è facile supporre che Paolo consideri la carne come una potenza cattiva, come un demone, che cerca di do­ minare sugli uomini . Ma contro questa supposizione bisogna notare che Paolo può usare in modo del tutto intercambia­ bile «carne» e «corpo » . La speranza che «la vita di Gesù divenga manifesta nel nostro corpo » sta accanto alla speran­ za che «la vita di Gesù divenga manifestata nella nostra car­ ne mortale » ( 2 Cor. 4 , I o . r r ), e all'« assenza nel corpo» cor­ risponde !'« assenza nella carne » ( I Cor. 5 , 3 ; Col. 2 ,5 ). Cosi pure , «corpo e spirito » designano l 'uomo in quanto totalità proprio come «carne e ragione» ( I C or. 7 , 3 4 accanto a Rom. 7, 2 5 ) . Carne indica quindi l'uomo nella sua corporeità terre ... na. Tuttavia «carne» e «corpo» per Paolo non sono semplice­ mente identici : «carne» è circoscritta all'uomo nella sua real­ tà mortale : «carne e sangue non erediteranno il regno di Dio » ( I Cor. I 5 � 5 o ) ; «corpo» può indicare invece anche l'esi­ stenza del cristiano risuscitato : « risorge un corpo spirituale» ( I Co r. I 5 ,44 ) ; Dio « vivificherà anche i nostri corpi morta­ li » ( Rom . 8 , r I ) . Anche se Paolo può parlare del «corpo del peccato >>, cioè del «vecchio uomo» , che deve essere distrut ... to ( « Il nostro vecchio uomo fu crocifisso con lui, affinché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non prestassimo più servizio al peccato» , .Ront . 6 , 6 ; > . Carne designa così l'uomo solo nella sua corpo­ reità terrena, limitata a questa vita ; e proprio questo uomo che si trova nella carne e vive secondo la carne è per Paolo un peccatore.

Il male dell'uomo nel mondo

223

Questa peccaminosità dell'uomo carnale non deriva però semplicemente dal fatto che l 'uomo ha un corpo carnale, che lo induce al peccato. Anche se qua e là le espressioni di Pao­ lo sembrano far trasparire questa idea ( « io però sono car­ nale, venduto al peccato >> , Rom. 7 , 1 4 ) si cadrebbe in un ma­ linteso, se le si interpretasse in questo modo. Paolo sottoli­ nea espressamente che l'uomo può vivere nella carne, senza per questo dover peccare : « Camminiamo nella carne, com­ battiamo non in modo conforme alla carne>> ( 2 Cor. 1 0,3 ) ; > loro con­ ferita sono diventati colpevoli. E la frase che ricorre in Rom . 2 , 1 5 : gli uomini « mostrano che è scritta nei loro cuori l'ope­ ra della legge» è una conseguenza dell'affermazione secondo cui i pagani, quando compiono le opere della legge senza conoscere la legge giudaica , danno a se stessi direttive e leggi , e perciò dinanzi a Dio sono responsabili della loro condotta proprio allo stesso modo dei Giudei . In ambedue i casi Paolo indica che l'uomo non coglie in realtà la possibilità, offertagli dalla creazione di Dio, di porsi di fronte a Dio, e cl1e quindi, nonostante queste capacità « spirituali» , > , Rom. 8 , 7 ) e segue « le voglie della carne» ( Gal. 5 , r 6 ; cfr. 5 , 1 3 ). Paolo quindi descrive l'uomo che vive « secondo la carne» non diversamente dal­ l'uomo che vive nel «mondo» ; e la sottomissione alla carne può essere del tutto assimilata all'orientamento verso il « mondo » : «finite ora nella carne ? >> corrisponde a «come potete volgervi di nuovo agli elementi deboli e poveri [ del mondo ] ? » ( Gal. 3 ,3 ; 4,9 ) ; e riguardo al passato dei cristiani si dice parimenti : «Quando eravamo minorenni , eravamo asserviti agli elementi del mondo» , come di essi si afferma : > ( A . Schlat­ ter) e definisce l'uomo non dal punto di vista della sua esi .. stenza, ma dal punto di vista del suo comportamento storico nel mondo che passa. .

Il male dell'uomo nel mondo

, 2 27

2 . L'universalità del peccato

Se Paolo in questo senso sostiene che tutti gli uomini sono schiavi del peccato ( « lutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio » , Rom. 3 ,2 3 ; «la Scrittura ha racchiuso ogni cosa sotto il dominio del peccato» , Gal. 3 ,2 2 ), in genere egli pone questo fatto semplicemente come presente : « lo sono carnale, venduto al peccato » ( Rom. 7 , 1 4 ). Una volta però egli parla anche dell'inizio di questa sottomissione umana al peccato ( Rom. 5 , r 2-1 9 ). Anche in questo contesto però egli non è tanto guidato dall'intento di spiegare la provenien­ za o l'origine del peccato ; suo scopo in questa sezione è piut­ tosto quello di contrapporre all'universalità del peccato, ve­ nuto nel mondo per opera di un solo uomo, la vita portata da un solo uomo Gesù, presentata come il dono di Dio molto superiore in grandezza al peccato stesso. In questo contesto si parla del principio del peccato : «Come per opera di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e attraverso il peccato la morte e cosl la morte passò su sutti gli uomini, perché tutti peccarono . . . » (Rom . 5 , 1 2 ). Questa frase molto discussa è grammaticalmente sospesa; viene però ripresa dopo una interruzione piuttosto lunga : «Dunque, come per una tra­ sgressione [ ricadde ] su tutti gli uomini la condanna, cosi per un'azione di giustizia [ perviene ] a tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita» ( v . I 8 ). Nella frase introduttiva al versetto I 2 , come pure nella ripresa di essa al v. 1 8 , viene anzitutto detto con chiarezza che l'azione peccaminosa di Adamo portò nel mondo il peccato e come sua conseguenza la morte, poiché « soldo del peccato è la morte » ( Rom. 6 , 2 3 ) ; si dice cioè che il peccato di Adamo ebbe come conseguenza l'imposizione della morte come castigo. Se Paolo poi aggiun­ ge che così la morte passò su tutti gli uomini ( v . 1 2 c), egli intende con questo dire che, a partire dalla punizione di Adamo con la morte, tutti gli uomini devono morire. Si po­ trebbe interpretare questa affermazione nel senso che Ada-

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La teologia di Paolo

mo con la sua azione peccaminosa ha apportato la punizione della morte su tutti gli uomini (cfr. anche v. 1 7 : « Infatti se per la trasgressione di uno la morte instaurò il suo regno per opera di quel solo . . . » ). In tal caso quindi la punizione collettiva di tutti gli uomini sarebbe presentata senza ulte­ riori motivazioni come la conseguenza dell'azione peccami... nasa del primo uomo (cosiddetta « morte ereditaria» ). Ma Paolo aggiunge al v. 1 2 d: «poiché tutti hanno peccato» , giustificando così l'affermazione che a partire dalla morte di Adamo tutti devono morire con la motivazione che ognuno deve morire in base alla sua propria colpa. Questa connes­ sione fra i due pensieri : « fin dalla punizione di Adamo pec­ catore tutti gli uomini devono morire » e « ognuno deve mo­ rire in base alla sua propria colpa» sembra essere contraddit­ toria. Paolo però segue qui semplicemente una concezione giudaica, secondo cui Adamo è responsabile dell'unione di peccato e castigo ; ogni uomo però contrae questa punizione con il suo proprio peccato. « Se Adamo per primo ha peccato e a tutti ha portato la morte prematura, tuttavia, ciascuno di coloro che da lui provengono si è attirato la pena futura e d'altro lato ognuno di essi si è scelto la gloria futura» ( Bar. syr. 54 , 1 5 ). Paolo propugna quindi integralmente il pensiero della morte causata da Adamo, ma niente affatto il pensiero del peccato originale, poiché egli, in piena armonia con il pen­ siero giudaico, ritiene che ogni uomo è responsabile della sua condotta davanti a Dio ; cfr. anche Rom. r , 2o s . : (Rom. 6 , 1 _3 ) : così ammonisce Paolo i cristiani che prima « avevano offerto le loro membra come schiave dell'immondizia e della ribellione per essere dei ri­ ·belli » ( Rom. 6, 1 9 ). Gli uomini hanno avuto conoscenza del Dio invisibile e sono perciò inescusabili . Ciò vale per tutti gli uomini e in modo particolare per i Giudei : «Essi hanno zelo per Dio, ma non in modo illuminato ; misconobbero infatti la giustizia di Dio e si sforzarono di stabilire la loro giustizia, sicché non vollero sottomettersi alla giustizia di Dio» ( Rom. 1 0 ,2 s . ). L'uomo , sia esso pagano o giudeo , si oppone alla volontà di Dio ; infatti « i pensieri della carne sono nemici di Dio poiché non si piegano alla legge di Dio, anzi neppure lo possono. Coloro però che sono carnali non possono piacere a Dio » ( Rom. 8 ,7 s . ) . Naturalmente c i si può chiedere, e l o si è fatto spesso, come Paolo possa parlare della responsabilità dell'uomo di fronte a Dio, se l'uomo in quanto carne è venduto al peccato e non può fare altro che gridare : ( Rom. 7 , 1 3 ) . Dal momento che la salvezza viene da Cristo, la legge non può essere donata per dare la vita : « Se fosse stata data una legge capace di comunicare la vita, ci sarebbe in realtà giustizia basata sulla legge >> ( Gal. 3 , 2 I ) ; « lo non rigetto la grazia di Dio ; poiché se la giusti­ zia [ venisse ] dalla legge, Cristo sarebbe morto invano» ( Gal. 2 , 2 I ). L'espressione «il precetto [ che porta ] alla vita» ( Rom. 7, I o) rimanda invece soltanto alla legge, senza prendere in considerazione l 'intervento del peccato. L'ultimo scopo del­ la legge è quindi, secondo la volontà di Dio , quello di mo­ strare agli uomini che essi possono essere giustificati dinan.

Il male dell'uomo nel mondo

235

zi a Dio solo per la fede e non per le opere della legge : «Per­ ciò la legge è stata il nostro pedagogo fino a Cristo, affinché fossimo giustificati in virtù della fede; ma da quando è venuta la fede non siamo più sotto il pedagogo» ( Gal. 3 , 2 4 s . ). Per­ ciò Paolo può dire ai Galati : il termine tedesco Heil e con «salvazione» il termine tedesco Rettung col quale l'autore traduce qui il greco soteria (N.d.T . ) .

La salvezza in Gesù Cristo

23 7

2 , 1 5 ; Phil. 1 ,2 8 ). Ai cristiani però Paolo può dire : «Dio non ci ha destinati all'ira, ma all'acquisto della salvazione per il Signore nostro Gesù Cristo» ( I Thess. 5 , 9 ) . Così si parla spesso della salvazione che è imminente per i cristiani : il vangelo «è potenza divina a salvazione di ogni credente» ( Rotn . I , I 6 ) ; « Se con la tua bocca confessi che Gesù è Si­ gnore e col tuo cuore credi che Dio lo ha risuscitato dai mor­ ti, sarai salvato» (Rom. 1 0 ,9 ) . Che Paolo attenda questa salvazione per la venuta di Cristo nella gloria attesa nel pros­ simo futuro, cioè per la prossima fine, è dimostrato da Rom. r 3 , I r s . : > ( Gal. 3 ,6 9 ). Ancora una terza volta nella Lettera ai Filippesi Paolo, dopo aver detto che ha appreso a considerare l'inec­ cepibile giustizia del suo passato giudaico conforme alla legge come perdita a motivo di Cristo, parla piuttosto diffusamen­ te della giustificazione : « lo però ritengo ora tutte queste cose una perdita a causa della sovrabbondante conoscenza di Cri­ sto Gesù mio Signore, per il quale io mi spogliai di tutte queste cose e le ritengo tutte una spazzatura per poter gua­ dagnare Cristo ed essere trovato in lui, io che non ho la mia giustizia dalla legge, ma dalla fede in Cristo, dotato di quella giustizia che viene da Dio in base alla fede » ( Phil. 3 , 8 s . ). Ma anche altrove Paolo accenna più volte alla giustifica­ zione dei cristiani o alla giustificazione per la fede ( Rom. 5 ,9 . 1 8 ; 8 ,3 0 .3 3 ; r o ,4 . I o ; I Cor. r ,3 o ; 6 , 1 1 ) e alla «giu­ stizia di Dio» ( Rom. 3 ,5 ; 5 , 1 7 ; 1 0,3 ; 2 Cor. 5 ,2 r ); e basta considerare la posizione dominante di questa dottrina nelle Lettere di Paolo per veder crollare l'opinione spesso soste­ nuta che la dottrina paolina della giustificazione sia una semplice «dottrina di battaglia» e perciò non rappresenti un'espressione centrale del suo messaggio di salvezza. Al con­ trario, è facile vedere che la dottrina della giustificazione rappresenta l'espressione fondamentale e più personale del messaggio paolina dell'azione salvifica escatologica di Dio. Questa espressione del messaggio paolino di salvezza tro­ va da un lato la sua ragione storica nella disputa con la dot­ trina soteriologica dei Giudei , che Paolo da fariseo aveva so­ stenuto e che veniva contrapposta dai Giudei e dagli estre­ misti giudeo-cristiani alla predicazione paolina della salvez-

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La teologia di Paolo

za in Cristo. Questo carattere polemico delle affermazioni paolin·e riguardo alla giustificazione risulta incontestabilmen­ te dall'insistenza con cui Paolo sottolinea che la giustifica­ zione divina è conferita «senza le opere della legge» o «sen­ za la légge » ( Rom . 3 ,20 s. 2 8 ; 4 , 6 ; Gal. 2 , r 6 ; 3 , r I ) e per­ ciò « senza meriti » da parte dell'uomo ( Rom. 3 , 2 4 ) e senza «la mia giustizia secondo la legge » ( Phil. 3 ,9 ). Da questa antitesi polemica si spiegano anche le formulazioni parados­ sali : «l'uomo è giustificato per la fede» oppure « al credente la sua fede è ascritta a giustizia » ( Rom . 3 ,2 8 ; 4 , 5 ), che han­ no portato continuamente al malinteso di pensare che Paolo richieda la fede umana al posto delle opere della legge come predisposizione dell'uomo alla giustificazione divina. La dot­ trina paolina della giustificazione ha però d'altro lato il suo presupposto storico nel fatto che nel giudaismo degli ultimi secoli prima di Cristo il concetto di è stato usato sulla stregua di concetti veterotestamentari col signi­ ficato di fedeltà di Dio, che mantiene il suo patto: > ( Col. I ,4-6 ). Così la fede non è una prestazione umana, non è un'«opera» , ma un «libero atto di obbedienza» ( R . Bult­ mann), in base al quale il credente sa di essere « strappato dal malvagio eone presente per la volontà di Dio nostro pa­ dre», poiché «Gesù Cristo si è sacrificato per i nostri peccati » ( Gal. 1 ,4 ) . Per questo atto di obbedienza il credente sa pure di essere trasferito «nel regno del suo diletto Figlio, nel quale

La salvezza in Gesù Cristo

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abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati>> ( Col. 1 , I 3 s . ). Solo il credente può sapere che «Dio volle mostare nel tempo presente la sua giustizia, per essere giusto e giustifi­ care chi ha fede in GesÙ» ( Rom. 3 ,2 6 ) ; se invece non si ha fede, non si può dire nulla dell'azione giustificante di Dio. Questo fatto però implica appunto la precisazione che sol­ tanto Dio «ci dà la vittoria per mezzo di Gesù Cristo » ( I Co r. I 5 , I 7 ) e quindi la chiara consapevolezza per il credente che ogni vanto è «escluso. Per quale legge? Quella delle opere? No , per la legge della fede» ( Rom. 3 , 2 7 ) . Solo chi crede, riconosce che « la giustizia di Dio è stata rivelata . . . per tutti i credenti>> ( Rom. 3 , 2 r s . ) e che Dio «giacché il mondo al tempo della sapienza di Dio non ha saputo riconoscere Dio attraverso la sapienza, ha deciso di salvare i credenti me­ diante la stoltezza della predicazione» ( I Cor. I , 2 I ). Chi crede, sa di essere stato posto nel tempo salvifico, iniziato con la croce e la risurrezione di Cristo, ma sa pure che tale salvezza ricevuta vale per lui fin tanto che vive in tale fede : « Siete staccati da Cristo in quanto [ volete ] essere giustifi­ cati con l'aiuto della legge ; siete [ quil1di ] decaduti dalla grazia» ( Gal. 5 ,4 ). Anche il messaggio paolina della giustificazione del pec­ catore per la fede descrive quindi l'esistenza del cristiano nel tempo presente, visto come il tempo salvifico che inizia, mentre l'antico eone corre verso la sua fine . A questo corri­ sponde il susseguirsi di espressioni sull'avvenimento della giustificazione che riguardano il presente e il futuro . Spesso della giustificazione ricevuta si dice : «Giacché siamo giustifi­ cati per la fede, abbiamo pace con Dio » ; « noi che ora siamo stati giustificati per il suo sangue» ; «le genti . . . hanno rice­ vuto la giustizia, anzi la giustizia per la fede» ; «Voi siete purificati, santificati, giustificati» ( Rom. 5 , 1 . 9 ; 9 , 3 o ; I Cor. 6 , r r ; cfr . Ronz. 5 , 1 7 ; 8 , 3 0 ; 2 Cor. 5 , 2 1 ) . Altrettanto chia­ ramente però la giustificazione è attesa nel futuro : «Così

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La teologia di Paolo

per l'obbedienza di uno solo i molti saranno costituiti giu­ sti » ; « se è unico il Dio che giustificherà per la fede i circon­ cisi e gli incirconcisi mediante la fede » ; «noi attendiamo nel­ lo Spirito in virtù della fede la sospirata giustizia» ( Rom . 5 , 1 9 ; 3 , 3 0 ; Gal. 5 , 5 ). Analogamente Paolo può dire di sé : «Non che io abbia già raggiunto lo scopo o sia arrivato a per­ fezione, ma mi sforzo per afferrarlo, poiché anche io sono stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, penso di non averlo ancora afferrato» ( Phil. 3 , 1 2 s . ). In altri termini ogni pre­ ghiera di ringraziamento per l'avvenuta giustificazione con­ tiene anche l'attesa della giustificazione definitiva come dono di Dio. L'azione di Dio che giustifica l'uomo è avvenuta e in quanto grazia ricevuta è per il credente una presenza cer­ ta; ma poiché sussiste ancora la possibilità di decadere dalla grazia ( Gal. 5 ,4 ) , così è espressa la condizione per potere alla fine comparire davanti a Dio senza macchia : « Se rima­ nete nella fede, ben saldi e stabili, e non vi allontanate dalla speranza del vangelo, che avete udito e che è stato predi­ cato davanti a tutte le creature sotto il cielo» ( Col. I ,2 3 ) . Bisognerà perciò chiedersi quale ruolo svolga il comporta­ mento presente del cristiano, la « fede che si effettua nel­ l'amore» ( Gal. 5 , 6 ), in rapporto con la giustificazione defini­ tiva di Dio. 6 . La riconciliazione

Ma prima dobbiamo rifarci ad un ultimo concetto con cui Paolo indica la liberazione dell'uomo nel mondo, quello della riconciliazione. Paolo lo usa solo due volte un po' dif­ fusamente e in entrambi i casi in connessione con il con­ cetto della giustificazione : > ( I Cor. r , 1 3 ) ; quando la mancanza di ri­ guardo dei membri della comunità fra loro impedisce il pa­ sto comunitario ed è perciò «impossibile consumare la cena del Signore», questi cristiani che mangiano lautamente senza riguardo per gli altri si rendono « colpevoli verso il corpo e il sangue di Cristo » , poiché « non distinguono il corpo » ( I Cor. 1 1 , 2 0 . 2 7 . 2 9 ) . Con quale realismo questa apparte­ nenza al corpo di Cristo significhi per Paolo l'aver parte a Cristo stesso, è indicato poi dalla argomentazione paolina contro i rapporti sessuali fra un cristiano e una prostituta : «Non sapete che i vostri corpi sono membra d.i Cristo ? Devo io prendere le membra di Cristo e renderle membra di una prostituta? >> ( I Cor. 6 , 1 5 , cfr. i commentari ad loc. ) . E infi­ ne bisogna osservare che Paolo può anche dire dell'inserimen­ to nel corpo di Cristo mediante il battesimo : «Voi avete rive­ stito Cristo>> ( Gal. 3 , 2 7 ). Non è possibile spiegare con piena certezza donde proven­ ga l'immagine del « rivestire Cristo» , ma molto probabil-

Il dono della salvezza di Dio

mente essa racchiude l'idea che Cristo avvolge come un in­ dumento il battezzato e in questo caso tale immagine pro­ viene dallo stesso ambiente spirituale dell'immagine del cor­ po di Cristo. Infatti la giustapposizione delle frasi «Avete rivestito il Cristo» e « Siete tutti uno in Cristo GesÙ» ( Gal. 3 , 2 7 ) da una parte, e l'affermazione «Come il corpo è unico . . . così anche il Cristo; infatti siamo stati tutti battezzati in un unico corpo» ( I Cor. 1 2 , 1 2 s . ) dall'altra, indicano chiaramen­ te che Cristo è concepito come l'uomo universale, il « corpo di Cristo» . Poiché Paolo, come abbiamo visto prima, desi­ gna Cristo come l' «ultimo uomo» o l' «uomo celeste » e que­ sto titolo risale a�la concezione pagana del primo uomo nella forma modificata dai Giudei, l'immagine del corpo di Cristo è anch'essa probabilmente uno sviluppo della concezione di Cristo come il «celeste » o l' «ultimo uomo» . Ma anche se la questione della provenienza di questa immagine del corpo di Cristo per ora non può ancora trovare risposta sicura, tut ... tavia è indubbio che Paolo concepisca l'appartenenza dei cri­ stiani al corpo di Cristo come una partecipazione all'avveni­ mento salvifico escatologico iniziato con Cristo, cioè presenti come effetto del battesimo l'ingresso nel gruppo di uomini che appartengono a Cristo ed hanno parte alla salvezza fina­ le, già iniziata. Non c'-è dubbio inoltre che il > ( 2 , 1 2 ), ma a questa affermazione fa poi riscontro la speranza che all'apparire di Cristo anche i cristiani : «appariranno con lui nella gloria» ( Col. 3 ,4 ). Non è affatto ovvio interpretare il rito dell'immersione nell'acqua come un morire e un ritor­ nare a nuova vita o un risorgere; si è perciò recentemente

Il dono della salvezza di Dio

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pensato che Paolo abbia parlato di un morire da parte del cristiano per esprimere con esso il cambiamento di padrone che il cristiano sperimenta quando nella fede si sottrae al dominio del peccato e si abbandona al dominio di Cristo, sicché solo secondariamente Paolo avrebbe collegato questo concetto con il battesimo. Ma ciò è molto improbabile ; in­ fatti con questa ipotesi da un lato non si spiega affatto l'im­ magine della morte con Cristo ; d'altro lato rimane da ca­ pire perché Paolo parli della sepoltura con lui mediante il battesimo ( Rom . 6 ,4 ; Col. 2 , 1 2 ) . Dato che il fatto della sepoltura di Gesù , oltre che in questi due passi, è ricordato soltanto nella formula di I Cor. 1 5 ,4 , proveniente dalla comunità primitiva - e in questo contesto, senza far riferimento ai cristiani, come semplice ri­ ferimento alla realtà della morte di Gesù - si comprende perché Paolo parli proprio dell' «essere sepolti con lui nella morte per il battesimo» ; l'essere sepolti con lui designa evi­ dentemente lo stesso avvenimento del morire con Cristo ( Rom . 6 ,4 . 8 ). Questo porta a ritenere che l 'immersione del battesimo deve essere stata interpretata da Paolo come una sepoltura e perciò come una morte, ed è allo stesso tem·po evidente che questa morte è stata intesa come una morte > . Il credente è quindi colui che accoglie l'azione giustificatrice e riconciliante di Dio nel­ la risurrezione di Cristo e perciò si fa battezzare e in tale battesimo sperimenta la morte con Cristo e la nuova vita in Cristo come realtà che lo toccano personalmente. Il battez­ zato non ha così parte alla morte di Gesù in croce, già av­ venuta, ma all'effetto di essa, poiché il crocifisso è risorto e perciò l'effetto della sua morte per noi , essendo l'evento salvifìco escatologico, può essere ricevuto dal credente nel presente. Non è il battesimo a operare la morte con Cristo e a trasferire in una nuova vita ; il credente tuttavia, quando è battezzato e sepolto con Cristo, sperimenta la morte con lui e il passaggio ad una nuova vita. Così l'effetto del batte­ simo non è affatto diverso da quello della fede; entrambi fanno sì che il battezzato in quanto credente appartenga a Cristo e sia perciò sottratto « al malvagio eone presente se­ secondo la volontà di Dio, nostro Padre» ( Gal. I ,4 ) .

.

La teologia di Paolo

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Lo Spirito santo

e

l'essere in Cristo

Nel contesto� delle espressioni sul battesimo ci siamo però incontrati con altre due idee che ancor meglio illustrano come Paolo intenda la realtà presente del battezzato : « Sia-­ mo stati tutti battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo » ( I Co r. I 2 , I 3 ) e « Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo GesÙ>> ( Gal. 3 , 2 6 ). Per capire anzitutto l'ac­ cenno di Paolo allo Spirito , dobbiamo osservare che egli par-­ la in un senso del tutto identico dello « Spirito santo» ( Rom. 5 , 5 ; 9 , 1 ) , dello « Spirito di Dio» ( Rom. 8 , 9 . I 4 ) e dello « Spi­ rito di Cristo» ( Rom. 8 ,9 ; Phil. r , I 9 ) ; e abbiamo già visto che il dono dello Spirito santo, ricevuto dal cristiano come caparra della gloria futura, stabilisce secondo Paolo il lega­ me del cristiano con il Signore elevato in cielo, fino al suo ritor11o . È inoltre significativo osservare sia che Paolo può dire che i cristiani hanno ricevuto lo Spirito col battesimo ( I Cor. I 2 , r 3 ) , sia che egli può far risalire la recezione dello Spirito all'ascolto di fede : «Soltanto vorrei sapere da voi : avete ricevuto lo Spirito in base alle opere della legge o in base all'ascolto di fede? » ( Gal. 3 , 2 ) . Lo Spirito è quindi la realtà concreta attraverso la quale il credente ha avuto parte alla salvezza escatologica iniziata con la risurrezione di Cri­ sto . Di conseguenza, per Paolo la mutata situazione del cri­ stiano si esprime nel fatto che questi «presta servizio in uno Spirito nuovo e non nella vecchia lettera>> ( Rom . 7 , 6 ) e può essere caratterizzato come colui che cammina « non secon­ do la carne, ma secondo lo Spirito» ( Rom. 8 ,4 ) ed è « sospin­ to dallo Spirito» ( Gal. 5 , I 8 ) . Lo Spirito essendo la caparra del futuro compimento escatologico, può dare certamente al cristiano la capacità di compiere prodigi ( I Cor. 2 ,4 ; I Thess . 1 , 5 ; Rom. I 5 , r 9 ), specialmente d i parlare lingue nell'estasi ( I C or. 1 4 ,2 ) . Ma Paolo non pone l'accento su que· sto ; egli fa risalire tutte le capacità che un cristiano può svi­ luppare nella comunità all'azione dello Spirito ( I Co r. I 2 ,7-

Il dono della salvezza di Dio

2 79

r I ) e vede nell'edificazione della comunità, non nell'esibizio­ ne dell'effetto dello Spirito in quanto tale, il criterio per giu­ dicare di queste potenzialità ( I Cor. 1 4 ,4 · 1 2 ) . Importanti so­ no per lui due cose : «Noi che abbiamo lo stesso Spirito di fede secondo le parole della Scrittura : 'Ho creduto, perciò ho parlato', crediamo e perciò pure parliamo, giacché sap­ piamo che colui che ha risuscitato Gesù, risusciterà anche noi con lui» ( 2 Cor. 4 , 1 3 s . , cfr. Gal. 5 ,5 ; Rom . 8 , r r ) . Ciò significa che lo Spirito rende il cristiano capace di credere e di sperare nella salvezza definitiva, anzi dà la certezza che i cristiani sono stati adottati come figli di Dio ( «Avete rice­ vuto lo Spirito di adozione a figli. In lui gridiamo 'Abba, padre' ; lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo Figli di Dio», Rom . 8 , 1 5 s . , cfr. Gal. 4,6 e saremo gli eredi di Dio Gal. 4 , 7 ; Rom. 8 , 1 7 ). Altra realtà sottolineata è che lo Spirito rende possibile il superamento della carne e una condotta conforme alla volontà di Dio : « Se nello Spirito uc­ cidete le azioni del corpo, vivrete» ( Rom. 8 , 1 3 , cfr. Gal. 5 , 2 5 ; 6 , 8 ) ; « lo però dico : camminate nello Spirito e non sod­ disferete i desideri della carne>> ( Gal. 5 , 1 6 ). Certo nel con­ testo di queste espressioni riguardo alla potenza dello Spi­ rito sulla carne emergono continuamente imperativi, e do­ vremo ritornare sulla questione della necessità di questo be­ ne salvifico per l'azione del cristiano . La seconda delle idee menzionate, con cui Paolo descrive la realtà presente del credente battezzato, è la formula « in Cristo » . Si è a lungo pensato che Paolo con questa formula e con espressioni simili come « in Cristo Gesù» e > descrive la nuova creazione partecipata al cri­ stiano per l'azione di Dio in Cristo : « Se uno è in Cristo, è una nuova creazione» ( 2 Cor. 5 , 1 7 ) ; «Per lui [ Dio ] siete in Cristo Gesù, che per noi è stato reso da Dio sapienza, giu­ stizia, santificazione e redenzione » ( I Co r. 1 ,3 o ) ; «Noi vivia.

Il dono della salvezza di Dio

mo, se state nel Signore » ( I ·y hess. 3 ,8 , cfr. I Cor. 4 , 1 5 ; Phil .. I , I ) . Soprattutto però Paolo con questa espressione contrad­ distingue la nuova vita del cristiano, fondata sull'associa­ zione a Cristo e sulla morte con lui : «Così ritenetevi morti al peccato, ma vivi per Dio in Cristo GesÙ>> ( Rom. 6 , 1 I ) ; «Chi non conobbe peccato , è stato reso per noi peccato, af­ finché diventassimo in lui giustizia di Dio » ( 2 Co r. 5 ,2 I , cfr. anche Gal. 2 ,4 ; Phil. 2 ,2 4 ). È però significativo che Paolo usi poi questo concetto da una parte in modo esortativo, per lo più nella forma «nel Signore» : « State nel Signore, miei diletti ! » ( Phil. 4 , r ) ; «Vi raccomando Febo . . . perché lo ac­ cogliate nel Signore in modo degno dei santi » ( Rom. 1 6 , 1 s . , cfr. Phil. 3 , 1 ; 4,4 ); d'altra parte veda fondata «in Cristo» l'attesa salvezza definitiva dei cristiani : «Non c'è più quindi condanna per quelli che sono in Cristo Gesù» ( Rom. 8 , I ); « lo corro verso il traguardo per raggiungere il premio della chiamata suprema di Dio in Cristo Gesù» ( Phil. 3 , I 4 , cfr. 4,7 ). L'espressione «in Cristo » essendo anche usata per de­ signare l'azione di Dio nel passato (v. sopra ), è un'altra im­ magine che caratterizza l'essere storico del cristiano nel tem­ po finale già iniziato, prima dell'atteso compimento salvifico. Paolo fonda chiaramente sulla fede la salvezza presente indicat a con l'espressione « in Cristo» : « Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù» ( Gal. 3 ,� 6 ) ; ma è falso dire che egli con la formula « in Cristo» intenda designare una comunione mistica del credente con Cristo. I testi che so­ prattutto hanno indotto a questa falsa ipotesi devono essere spiegati in modo diverso . Ciò è evidente in Gal. 2 , 2 0 : «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me » , se si con­ sidera il seguito, in cui della vita del cristiano nella carne si dice : «Vivo nella fede nel Figlio di Dio, che mi ha amato e si è sacrificato per me» , secondo queste parole il credente sa che il Cristo morto e risorto è il suo Signore e governa la sua vita, e perciò può confessare : > ( 6 , 1 2 ); e andando avanti vengono posti continuamente di fronte agli occhi dei Roma­ ni le due possibilità: « Se avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e della ribellione per essere dei ribelli, ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la san tifìcazione » ( 6, I 9 ). Ali' espressione : « Quelli che ap­ partengono a Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le passioni e i desideri » segue immediatam_e nte l'esortazione : « Se viviamo nello Spirito, camminiamo pure nello Spirito» ( Gal. 5 , 2.4 s . , cfr . anche Col. 3 , 3 .5 ). Analogamente, Paolo può dire la stessa frase sia all'indicativo che all'imperativo : «Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo, avete rivestito Cristo» ( Gal. 3 , 2 7 ), accanto a «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non preoccupatevi della carne sì da far sorgere cat­ tivi desideri » ( Rom. I 3 , I 4 ); «Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con molte tri­ bolazioni nella gioia dello Spirito santo » ( r Thess. I ,6 ), ac­ canto a «Diventate miei imitatori, come io [ lo ] sono di Cri­ sto» ( I C or. I I , r ). Col risultato più paradossale i due modi sono congiunti nella metafora di I C or. 5 , 7 : «Spazzate via il vecchio fermento per essere nuovo lievito, giacché siete azzimi» . A questa giustapposizione di indicativo e di impe.. rativo corrisponde il fatto che Paolo in tutte le Lettere, tran­ ne che nella Lettera personale a Filemone, collega le esorta-

La teologia di Paolo

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zioni alle affermazioni sull'azione salvifica di Dio nei con­ fronti dei cristiani : «Dunque, fratelli, non siamo debitori verso la carne, così da vivere secondo la carne ; infatti se vi­ vrete secondo la carne, morirete . . . » ( Rom. 8 , 1 2 . 1 3 a ) ; «Chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere ! Nessuna ten­ tazione vi ha sorpreso che passasse la misura umana» ( I Cor. I O , r 2 . 1 3 a ) ; « Essendo collaboratori nell'edificazione del mes­ saggio della riconciliazione vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio» ( 2 Cor. 6 , r ) «Dunque, finché .abbiamo tempo, vogliamo fare del bene a ttltti» ( Gal. 6 , 1 9 ) ; « Soltanto comportatevi i n modo degno di Cristo» ( Phil. r , 2 7 ) ; « Se ora siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio; cercate le cose di lassù, non quelle della terra» ( Col. 3 , r s. ) ; «Pertanto vi preghiamo ed esortiamo nel Signore Gesù a camminare nel modo che avete appreso da noi per piacere a Dio ; come già fate» ( I Thess . 4 , 1 ) ; «Dunque state saldi , o fratelli , e te­ nete fede alle tradizioni nelle quali siete stati istruiti» ( 2 Th es s . 2 , 1 5 ) . Senza dubbio non è vero che Paolo ha pensato al cristiano come a una persona senza peccati ; ma queste esortazioni non stanno forse in irriducibile contrasto con tutto quanto Paolo ha detto del cristiano come morto al peccato e come nuova creatura ? Lo si è spesso sostenuto e si è cercato di trovare le spiegazioni più diverse, ma molte di esse non sono state in grado di spiegare convincentemente il susseguirsi di in­ dicativo e imperativo. Una spiegazione corretta deve pren­ dere le mosse dalla constatazione che Paolo invita a combat­ tere il peccato unicamente perché il cristiano è stato liberato dal giogo del peccato ( cfr. il «dunque» in Rom. 8 , 1 2 ; Gal. 6 , 1 0 ; Col. 3 , 5 ; 2 Th ess . 2 , 1 5 e il « poiché>> in r Cor. 5 , 7 ) . Per Paolo quindi il cri stiano non è un «povero peccatore» che non può fare altro se non confessare il peccato ; ma la liberazione del cristiano dal potere del peccato non muta il cristiano nella sua natura in modo tale che non possa più .

Il dono della salvezza di Dio

peccare. Piuttosto Paolo può dire di se stesso : «lo non mi sento colpevole di nulla», ma aggiunge subito : «ma non per questo sono giustificato» ( I Cor. 4,4 ), e ammonisce i cri­ stiani che pensano « a me tutto è permesso» con queste pa­ role : « io però non mi lascerò soggiogare da alcuna cosa» ( r Cor. 6 , 1 2 ). Nonostante ogni liberazione dal potere del peccato, il cristiano rimane sottoposto alla tentazione ( «af­ finché il tenta tore non vi tenti e la nostra fa tica risulti vana» , r Thess. 3 , 5 , cfr. r Cor. r o , 1 3 ) e ora come prima può ca­ dere in gravi peccati : «Non commettiamo impudicizia . . . non provochiamo il Cristo . . . non mormoriamo . . . Perciò chi pen­ sa di stare in piedi, guardi di non cadere» ( r Cor. r o , 8 - 1 2 ); «Mortificate le vostre membra terrene, l 'impudicizia, l'im­ purità, la passione, i cattivi desideri e l'avidità, che è una specie di idolatria» ( Col. 3 ,5 s . , cfr. Rom . 1 3 , 1 2 s . ) . Poiché il cristiano può cadere nella tentazione e nel peccato , Paolo ritiene del tutto possibile che un cristiano possa essere ri­ gettato da Dio : « Schiaffeggio il mio corpo e lo riduco in schiavitù, affinché dopo aver predicato agli altri, non finisca reprobo>> ( I Cor. 9 , 2 7 ) ; « Quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo educati, affinché non siamo condannati con il mondo» ( r Cor . r 1 , 3 2 , cfr. r Cor. 4 ,4 ; Rom. 1 4 , 2 3 a ) . Nel suo giudizio sulla situazione morale dei cristiani Paolo non parte affatto dalle esperienze fatte personalmente o più an­ cora con le sue comunità, ma dalla fede nell'azione salvifica di Dio in Gesù Cristo alla fine dei giorni. Da ciò derivano per lui due dati di fatto. Il cristiano sa che Dio lo ha sottratto al malvagio eone presente e lo ha trasferito nel regno del suo diletto Figlio , che Dio lo ha purificato dal peccato per la morte di Cristo e si è riconciliato con lui, che egli , avendo ricevuto lo Spiri­ to santo, è stato inserito nel corpo di Cristo e può adem­ piere nello Spirito le prescrizioni della legge ( Gal. I ,4 ; Col. r , r 3 ; Rom. 3 , 24 s . ; I Cor. 1 2 , 1 3 ; Rom. 8,4). Tutto questo è realmente avvenuto , il cristiano è veramente «libero dalla

La teologia di Paolo

legge del peccato e della morte» ( Rom. 8,2 ) , ha crocifisso la ·carne e vive nello Spirito ( Gal. 5 , 2 4 . 2 5 a), con l 'aiuto dello Spirito può gridare a Dio invocandolo come Padre; ciò si­ gnifica che è stato accolto da Dio come figlio ( Gal. 4 , 6 ; Rom . 8 , 1 5 b . r 6 ) . Tutto questo è realtà, ma solo per il credente ; infatti solo in quanto credente il cristiano sa dell'azione sal­ vifìca di Dio, solo in quanto credente può lasciarsi dirigere dallo Spirito. Se invece il cristiano si pone nuovamente sot­ to la legge, egli perde la libertà, che come credente possiede « in Cristo» ( Gal. 5 , 1 ; Rom. 8 , 1 s . ). Poiché la nuova crea­ zione, poiché la liberazione è opera di Dio, e solo nella fede può essere e rimane reale, la perseveranza nella fede è la condizione della libertà; perciò è anche possibile la per­ dita della libertà con l'affievolirsi e la perdita della fede. Già il legame della salvezza con la fede rende quindi indispen­ sabile l 'esortazione : « Guardate di stare nella fede » ( I Co r. r 6 , 1 3 ). Questo cristiano , che nella fede sa di essere sottratto al malvagio eone presente, continua tuttavia a vivere nell'an­ tico eone che passa. In quanto credente e dotato di Spirito divino, è morto al mondo, ma vive ancora nella carne; Sata­ na, il peccato, la legge sono sì superati nella morte e nella risurrezione di Cristo, ma non sono distrutti, e quindi il loro influsso anche sulla fede non è annientato . Il cristiano ha nel­ lo Spirito la caparra della salvezza, è giustificato e costituito Figlio di Dio, ma può soccombere alla tentazione, può ob­ bedire alla carne invece che allo Spirito, può decadere dalla grazia. La sua liberazione, la sua salvezza definitiva dipende dal lasciarsi dominare dallo Spirito, dal rimanere schiavo del­ la giustizia, dal presentare il suo corpo , e presti perciò un « culto spirituale» e non si adegui invece a «questo eone » ( Rom. 1 2 , 1 s . ) . Tutto ciò dimostra che, data l'esistenza del credente in ambedue gli eoni , la giustapposizione di indicativo e impe­ rativo è per Paolo una antinomia necessaria e irriducibile.

II dono della salvezza di Dio

L'indicativo descrive la salvezza escatologica, alla quale il credente partecipa nella fede : esso indica che il credente è stato rigenerato e ristabilito dall'azione salvi6ca di Dio nel passato e nel presente e dalla sicura speranza nel compimen-­ to salvifìco, atteso come prossimo. L'imperativo invece ca­ ratterizz a il cri stiano come minacciato dall'antico eone de-­ stinato a finire, e dalle sue potenze, e perciò come tenuto a perseverare nella salvezza ricevuta. Il cristiano può certo «adempiere le prescrizioni della legge » , se «cammina non secondo la carne, ma secondo lo Spirito » ( Rom. 8 ,4 ).Per que­ sto però deve tener presente il messaggio di salvezza ricevuto, come pure la dottrina etica insegna tagli ( I Cor. 1 5, I s . ; r I , 2 ; I Thess. 4 , r ; Gal. 5 , 2 1 ) . Poiché il cristiano può adempiere «le prescrizioni della legge>> ( Rom. 8 ,4 ) , gli viene nuovamen­ te rivolto il comandamento divino dell'amore, espresso nella legge e valevole per il cristiano : «La legge è adempiuta nei­ l'unica parola : 'Ama il tuo prossimo come te stesso' » ( Gal. 5 , 1 4 ; cfr . Rom. 1 3 ,8- r o ). Paolo riconosce la validità delle prescrizioni morali della legge, ma afferma anche che il co­ mandamento del Signore sta al di sopra della legge ( cfr. I Cor. 9 , 8 s. 1 3 con 9 , 1 4 ) e così, quando è possibile, adduce come ultima norma non la legge, ma il comandamento del Signore ( I Cor. 7 , 1 0 . 2 5 ), che paradossalmente egli può an­ che designare come « legge di Cristo>> ( Gal. 6 , 2 , cfr . I Cor. 9 , 2 r ) . Anche quando egli ci t a la legge come norma del cri­ stiano, non dimentica che il cristiano non sta «sotto la leg­ ge, ma sotto la grazia» ( Rom. 6 , I 5 ) ; «la libertà dalla legge in quanto via di salvezza è pure libertà per la legge vista nel suo contenuto di norme» (W. Schrage ; delle richieste etiche di Paolo in dettaglio si tratta in un altro volume della presente collana). Se l'imperativo nell'ambito della dottrina paolina di sal­ vezza è di fatto altrettanto corretto e necessario come l'indi­ cativo, è tuttavia essenziale notare che nella realtà l'impera­ tivo viene sempre dopo l'indicativo. Ciò che il cristiano

La teologia di Paolo

.compie, non lo compie per forza propria, ma in base alla salvezza divina da lui sperimentata ( è il presupposto che fonda l'esortazione : «Adoperatevi per la vostra salvezza con timore e tremore>> ( Phil. 2 , 1 2 s . ). Co­ sì infatti Paolo insieme con l'ammonizione a non cadere, esprime la certezza : «Nessuna tentazione vi ha sorpreso che passasse la misura umana; Dio è fedele e non permette­ rà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche il modo di sopportarla >> ( I Co r. I 0, 1 3 ). 3.

Il giudizio secondo le opere

A riprova infine del fatto che l'imperativo, cioè il richia­ mo al compito affidato ai cristiani di ( I Thess. 5 ,9 ) ; > . Il cristiano può quindi eu.

Il dono della salvezza di Dio

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rarsi della sua salvezza per il fatto che Dio stesso guida il suo volere e il suo agire, Dio stesso agisce attraverso di lui. La salvezza conferitagli offre a lui la possibilità di adempiere la volontà di Dio e perciò nel giudizio gli verrà chiesto non quali opere ha fatto, né quali sono i suoi meriti, ma soltanto se nel suo agire ha dato spazio a Dio mediante lo Spirito santo. Dio perciò giustifica il cristiano solo in base alla fede, anche se chiede conto dell'opera ( Rom. 3 , 3 0 ; 1 4 , 2 3 b); in­ fatti il credente vive realmente nella fede soltanto quando si lascia dirigere dallo Spiri to e uccide così le azioni del corpo ( Rom . 8 , 1 3 b ) ; inoltre soltanto per > ( Rom. 8 , 2 8-3 0 ) . Questo brano, facendo risalire alla decisione della elezione divina la vocazione del cristiano, attraverso la quale l'azione salvifi� ca di Dio è diventata per lui realtà personalmente sperimen.. tata, riconferma la solida persuasione che ai cristiani in quan­ to chiamati e giustificati è da Dio conferita la salvezza defi­ nitiva ( cfr . Rom . 8 , 3 2 ). Determinante è però Io scopo perseguito da Dio con que­ sta decisione e con la conseguente vocazione dei cristiani : i chiamati dovevano conformarsi all 'immagine di Gesù Cristo; in virtù della loro chiamata e del conferimento dello Spirito sono stati costituiti figli di Dio ( Rom. 8 , r 5 ; Gal. 4 , 6 ) , e co­ sì sono diventati fratelli del Figlio di Dio. Ne consegue che per Paolo la speranza nella partecipazione dei cristiani alla gloria del Figlio di Dio risorto ( « Egli confermerà il nostro misero corpo al suo corpo glorioso>>, Ph il. 3 , 2 r ) è così certa ch'e in Rom . 8 , 3 0 egli può dire : « Quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati » . Allo stesso modo però Rom. 8 , 2 8 s. dimostra chiaramente che Paolo parla della predestinazione e dell'elezione divina non per interessi speculativi, ma per dare espressione alla gioiosa certezza di fede che Dio in Cri­ sto porterà i chiamati alla sicura salvezza . È importante notare in proposito due cose: Paolo in que­ sti contesti non parla mai degli uomini a cui non è giunta la chiamata di Dio o che l'hanno rifiutata, né accenna a una de­ cisione divina di rigettare questi altri uomini . D'altra parte : anche se Dio ha chiamato quelli che prima aveva eletto , questo non include per Paolo la certezza incondizionata del­ la salvezza definitiva; anche il chiamato può decadere dalla

Il don o della salvezza di Dio

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fede ed essere rigettato: «Volendo essere giustificati dalla legge, siete decaduti dalla grazia» ( Gal. 5 ,4 , cfr. r ,6 ; 3 , 2 s . ; I Cor. r o, 1 2 , ecc. ) . «Anche il credente può cadere . Come si concilia questo con la stabilità eterna del consiglio divino? Paolo non ha conciliato i due assiomi con un concetto inter­ medio>> ( A. Schlatter ) . Infatti anche qui per Paolo rimane valida la verità riconosciuta nella fede, secondo cui è il Dio giusto che per grazia offre in Cristo la sua azione salvatrice, e anche qui dobbiamo accettare la contraddizione che ne de­ riva ; di fronte alla predicazione paolina della decisione di Dio di chiamare quanti sono salvati possiamo o riconoscervi con gratitudine il fondamento della nostra certe�za di essere sal­ vi o vedervi un assioma incomprensibile, che provoca il no­ stro rifiuto. 5 . Il

com

pimento finale

Paolo ha così mantenuto ambedue le verità : che «Dio ci ha chiamati come quelli che ha predisposto alla gloria» (Rom. 9 , 2 3 s. ), ma pure che lascerà venire >

L·' interesse di Paolo in questo contesto mira piuttosto in modo evidente a due cose : Quando Cristo apparirà dal cielo con tutti i suoi angeli, verranno distrutte tutte le potenze e le dominazioni, com­ preso Satana, e, come ultimo nemico, la morte ( I Thess. 2 , 1 9 ; 3 , 1 3 ; 4 , 1 5 s . ; 2 Th ess . 1 ,7 ; 2 , 1 . 8 ; I Cor. 1 5 ,2 3 -2 5 ; Rom. · J 6 , 2 0 ) . «Quando però gli sarà sottomessa ogni cosa, allora il Figlio stesso si sottometterà a colui che gli ha sottomesso tutto, cioè a Dio, affinché Dio sia tutto in tutti » ( I Cor. 1 5 , 2 8 ) L'attesa dell'avvento del Cristo nella gloria include quin­ .d i la ferma speranza che le potenze di questo mondo , spode­ state, ma non ancora annientate dall 'azione salvifica di Dio nella vita morte e risurrezione di Cristo, saranno definitiva­ mente neutralizzate, che quindi Dio assumerà da solo il do­ minio, sicché «né morte, né vita, né angeli, né principati, né futuro, né potenze, né altezze, né profondità, né altre crea­ ture ci potranno separare dall'amore di Dio in Gesù Cristo nostro Signore» ( Rom. 8 , 3 8 s . ). Questa assunzione di potere da parte di Cristo e infine di Dio, con la eliminazione di tut­ te le potenze avverse , è per Paolo la premessa determinan­ te della speranza nella salvezza definitiva, che non sarà più scossa da nulla . Tutte le immagini apocalittiche servono a dare espressione a questa ferma speranza. Quando il Cristo apparirà dal cielo > . Questa comunione piena e interminabile dei cristiani «con Cristo» e perciò con Dio, questa «liberazione dalla schiavitù della corruttibilità per la libertà sovrana dei Figli di Dio >> (Rom. 8 , 21) è a t tesa da Paolo per il giorno dell'apparizione di Cristo, quando «sarà manifestata su di noi la gloria futu­ ra » (Rom. 8 , r 8 , cfr. Col. 3,4 ). Certo Paolo sa che «carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né la co�rut­ tibilità può ereditare l 'incorruttibilità» (I Cor . I 5,5 0 ) . Per­ ciò « la peregrinazione dal corpo e il giungere alla casa del Signore » ( 2 Co r. 5 , 8 ) significano per lui la « liberazione del nostro corpo » (Rom. 8 , 2 3 ) , una vera e propria nuova creazio­ ne : se il Signore viene, « i morti risorgeranno incorrutti­ bili e noi saremo trasformati » (I Cor. I 5,5 2 ) . Paolo at­ tende quindi una risurrezione dei cristiani addormentati fi­ no alla parusia, in cui i risuscitati al posto del loro «corpo psich ico » riceveranno un «corpo spirituale» o, det'

La teologia di Paolo

to con un'altra immagine, > , come sua conseguenza immediata, non parla invece di risurrezione o di trasformazione all'apparizione fu.. tura di Cristo . In base a questi due testi si è sostenuta l 'ipo­ tesi che l 'attesa escatologica di Paolo abbia subito un muta­ mento : mentre all'inizio ( nella prima Lettera ai Tessalonice-­ si e nella prima Lettera ai Corinti ) egli contava fermamente di rimanere in vita fino all'apparizione di Cristo, si è visto poi spinto a mettere in conto la possibilità della sua morte prima della parusia e ha perciò sostituito o collegato la spe­ ranza di «essere con Cristo>> alla parusia con l'attesa di es­ sere «con Cristo» subito dopo la morte . Contro ques ta ipotesi però ci sono rilevanti obiezioni. An­ zitutto dobbiamo premettere che solo in parte conosciamo la successione cronologica delle Lettere paoline e, soprattutto, che non sappiamo con certezza il luogo e il tempo di compo­ sizione della Lettera ai Filippesi. Molti studiosi pensano che la Lettera ai Filippesi provenga da una prigionia - che però è soltanto presunta - di Paolo a Efeso ( cfr . l'introduzione alla Lettera ai Filippesi ); qualora questa supposizione sia vera, il che non è certo, la Lettera ai Filippesi sarebbe certamente più antica della seconda Lettera ai Corinti e quindi non potrebbe affatto documentare una forma tardiva della speranza sal­ vifica di Paolo . Così pure partendo da questo presupposto

La teologia di Paolo

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la Lettera ai Romani sarebbe stata scritta dopo la seconda Lettera ai Corinti . Ora nella Lettera ai Romani Paolo propu­ gna con grande lucidità e chiarezza la speranza nel prossimo compimento salvifico per i cristiani, quando avverrà la «ri­ velazione dei figli di Dio» (Rom. 8,19.23; I3 ,II). Paolo do vrebbe quindi aver nuovamente mutato la sua speranza, qua­ lora la Lettera ai Filippesi fosse la testimonianza di un simile cambiamento e fosse stata scritta fra la prima Lettera ai Co­ rinti e la Lettera ai Romani ; lo stesso vale per la seconda Let­ tera ai Corinti in rapporto con la Lettera ai Romani. Si do­ vrebbe quindi ipotizzare un duplice cambiamento della spe­ ranza di Paolo . In ogni caso la seconda Lettera ai Corinti e la Lettera ai Filippesi non possono servire a documen­ tare una forma tardiva della speranza paolina nella salvezza. A ciò si aggiunga che queste due Lettere, in cui si pensa di trovare un mutan1ento della speranza di Paolo, contengono chiare t e stimoni a nze della speranza di Paolo nel compimento salvifico all apparizio ne di Cris to, attesa come prossima : « Sap­ piamo che colui che ha risuscitato Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci farà comparire davanti a lui insieme con voi >> (2 Cor. 4 , 1 4 ) ; «io ho la giustizia da Dio in base alla fede e [ aspetto ] di arrivare alla risurrezione dai morti » ( Phil. 3,r r ) ; dal cielo « aspettiamo il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro misero corpo conformandolo al suo cor­ po di gloria con la forza per cui egli può anche sottomettere a sé tutte le cose» (Phil. 3 , 20 s . , cfr . 1,6 . r o; 4,.5) . Perciò i due testi citati di 2 Cor. 5, r ss . e Phil. 1 , 2 3 devo­ no essere intesi sullo sfondo di questa attesa, sempre domi­ nante in Paolo, di una consumazione della salvezza all 'ap­ parizione del Cristo . Inoltre è utile osservare che Paolo, già nella sua più antica Lettera conservataci , suppone che i cri­ stiani morti prima della parusia non siano separati da Cristo, anche se solo all'apparizione del Cristo avrà luogo la loro ma­ nifesta e definitiva unione con il Signore : «l morti in Cri­ sto risorgeranno per primi, poi noi, i viventi, superstiti, sa..

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Il dono de lla salvezza di Dio

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remo rapiti insieme con loro sulle nubi nell'aria incontro al Signore e così saremo sempre col Signore» (rThess. 4,r6b. I 7 ) Così Paolo dice poco dopo che l'autore di questo Vangelo e gli scritti « Vangelo di Giovanni » e > ( I 6 , I 3 ) ; di conseguenza i credenti che per­ severano nella parola di Gesù « riconosceranno la verità>> ( 8 , 3 I s . ) . « Poiché ormai Giovanni guidato dallo Spirito conosce tutta la verità, egli può far predicare già al Gesù terreno tut­ ta la verità» ( E . Haenchen ). Il problema che ci pone la teo­ logia giovannea perciò non sta nel chiedersi - benché la do­ manda in sé sia ovviamente giustificata - fino a che punto nel Vangelo di Giovanni i racconti della vita di Gesù e i suoi detti rappresentano nei dettagli notizie storicamente at ... tendibili , ma piuttosto se , partendo dalla situazione della comunità credente nei tempi tardivi del cristianesimo primi­ tivo, si possa intendere questa immagine di Gesù data dalla fede come una giusta spiegazione dell'azione di Dio nella per­ sona di Gesù .

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Il messaggio cristologico di Giovanni

3.

L'immagine giovannea di Cristo

1.

L'unto

Dicendo di aver scritto il suo Vangelo « affinché crediate che Gesù è l'unto, il Figlio di Dio» ( 2 0,3 I ), Giovanni in­ dica chiaramente che con questi due titoli egli intende espri­ mere in modo esauriente e definitivo il significato di Gesù ; è perciò opportuno partire da essi . Ora è subito evidente che se il titolo « l'unto » ( Cristo ) ricorre in Giovanni non molto di frequente, esso però è posto in forte rilievo . Già in r ,4 r Andrea parlando di Gesù a suo fratello Pietro dice : «Ab­ biamo trovato il messia» e l'evangelista aggiunge per i suoi lettori : «Che tradotto significa : l 'unto» (Cristo ) . Alla sama­ ritana, che accenna alla tradizionale attesa del messia, Gesù dichiara : > ( 4 , 2 5 s . ) . Marta intravveden­ do il significato di Gesù confessa : « lo ho creduto che tu sei l'unto, il Figlio di Dio, che viene nel mondo» ( r r , 2 7 ) . E secondo I Io. 5 , 1 è nato da Dio «chi crede che Gesù è l 'un­ to» . Analogamente i Giudei increduli negano la possibilità che Gesù sia il Cristo poiché se ne conosce la provenienza dal­ la Galilea ( Io. 7 , 2 6 s. 4 1 s . ) ; e chi « nega che Gesù è l 'unto» è l'anticristo, cioè l'avversario satanico di Cristo ( r Io . 2 , 2 2 ) In tutti questi passi «l 'unto» ha il senso di una confessione di fede . Oltre a questo titolo ricorre pure quello di «Cristo » che però, come già in Paolo, ha la funzione di un nome pro­ prio e appare nella locuzione « Gesù Cristo» ( Io . r , r 7 ; 1 7 , 3 e spesso nella prima e nella seconda Lettera di Giovanni) . Nei testi citati, richiedendo come decisiva la professione di fede in Gesù quale unto e usando due volte nelle parole di Pietro e di Gesù addirittura il vocabolo aramaico « messia » ( 1 ,4 r ; 4 , 2 5 ) , Giovanni mostra chiaramente di voler designare Gesù come il salvatore promesso ai Giudei ; per questo Fi­ lippo parlando di Gesù a Natanaele dice : «Colui di cui scris­ sero Mosè nella legge e i profeti, l'abbiamo trovato : Gesù •

L'immagine giovannea di Cristo

3 45

figlio di Giuseppe, da N azaret » ( I ,4 5, cfr. 5 , 3 9 ) ; e in segui t o Natanaele confessa : « Tu sei il re di Israele» ( r ,49 c, cfr. I 2 , I 3 ). Ma per quanto Giovanni con tutte queste espressioni metta in rilievo la confessione in Gesù come il salvatore at­ teso dai Giudei ( evidentemente non in senso politico, cfr . 6 , I 5 ) , il titolo « l'unto » non è tuttavia per lui il più essenziale e significa ti v o. Ciò risulta non solo dalla mutazione della confessione di Pietro in Gesù come unto, attestata dai sinottici ( Mc. 8 , 2 9 par . ) , nell 'espressione d i Io. 6 , 6 8 : «Tu sei il santo di Dio » ( 6 , 6 9 ) che probabilmente riprende un titolo usato raramente dai Giudei per indicare l'atteso salvatore, come avviene in 1 ,3 4 , dove il Battista dice di Gesù : « lo ho testimoniato che questi è l'eletto di Dio» ; bensì è evidente soprattutto se si osserva che nei passi decisivi di confessione di fede il titolo «unto » è accompagnato da un altro titolo ( « Il Figlio di Dio , che viene nel mondo » , I I , 2 7 ; similmente in 2 0 , 3 I ) o sem­ plicemente scambiato con « il Figlio dell'uomo » ( 1 2 , 3 4 ) . Sol­ tanto in I Io . 2 , 2 2 ; 5 , 1 è posta come unica condizione l a confessione d i fede i n Gesù come « unto» , m a qui si tratta della difesa da false dottrine. Per quanto quindi Giovanni ci tenga a confessare che Gesù è l'unto in cui si sono adem­ piute le promesse di Dio dell'Antico Testamento, questo con­ cetto tuttavia non ha per lui un contenuto indipendente ; riguardo quindi all'immagine di Cristo in Giovanni non può dirsi altro che questo : anche Giovanni ha visto in Gesù l'at­ teso salvatore escatologico . 2.

Il Figlio

Altra è l'importanza del secondo titolo menzionato in Io .. 2 0 , 3 I , quello di «Figlio di Dio » . È vero che anch'esso non ricorre in questa forma molto frequentemente ; è però molto· sottolineato . Già in I ,49 Natanaele, vista la conoscenza so­ .prannaturale di Gesù dichiara : «Rabbi, tu sei il Figlio di

Il messaggio cristologico di Giovanni

Dio , tu sei il re di Israele » ; e analogamente i Giudei che accusano Gesù alla fine del processo davanti a Pilato affer.. mano : «Noi abbiamo una legge e secondo la legge costui deve morire, poiché si è fatto Figlio di Dio » ; e poiché Pilato non è deciso a condannare Gesù , essi aggiungono : « Se tu rilasci costui , non sei amico di Cesare ; infatti chiunque si fa re, si oppone a Cesare» ( r 9 , 7 .. I 2 ) .. In questi due passi ven .. gono quindi messe sullo stesso piano la filiazione divina di Gesù e la sua dignità di «unto» , cioè di re di Israele . La filiazione divina di Gesù si fonda sul fatto che ;, ( I o. 5 , 2 3 , cfr . I Io. 2 , 2 2-2 4 ) . Il rapporto fra Padre e Figlio sembra essere di piena ugua­ glianza, sicché il Figlio sta accanto a Dio come un essere di­ vino e non potrebbe essere propriamente distinto da lui . Que­ sta impressione si accentua se notiamo ch·e Giovanni , benché raramente, designa l'inviato di Dio direttamente come > , non può essere ul­ teriormente precisato . Ed è sorprendente il fatto che il tito­ Io « il Signore» ( kyrios ), così essenziale in Paolo e frequen­ te anche nel cristianesimo primitivo dei tempi successivi co­ me appellativo di Gesù, non ricorra mai nel Vangelo di Gio­ vanni ( tranne che in I 1 , 2 ) per designare il Gesù terreno ( la parola « Signore » è per Giovanni una semplice formula di cortesia, come dimostra I 2 , 2 I ) , mentre ritorna spesso rife­ rito al risorto ( 2 0 , 2 . 1 3 . 1 8 . 2 5 ) ; è a lui che Tommaso si rivol­ ge chiamandolo > che si è fatta carne e si è chiamata Gesù Cristo ( r , I 4 . 1 7 ) e questo accade nel­ l'affermazione : > ( 5 , 20 ). Molte antiche religioni, compreso il giudaismo , pensavano che fosse la divinità a pos­ sedere la vita e a donarla , perciò le espressioni di Giovanni , che attribuiscono al Cristo la vita, non confessano altro se non che Gesù Cristo appartiene al mondo di Dio e può tra­ smettere la vita di Dio . Giovanni sottolinea però espressa­

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L)immagine giovannea di Cristo

mente che il Figlio ha ricevuto questa vita dal Padre : «Come il Padre ha in se stesso la vita, così ha dato anche al Figlio di avere in se stesso la vita» ( 5 , 2 6 ) ; «La vita si è manifesta­ ta e noi abbiamo veduto e testimoniamo e annunziamo a voi quella vita eterna che era presso il Padre e si manifestò a noi» ( I I o. r ,2 ) . Inoltre in I o . r r ,2 5 ( « Io sono la risurrezio­ ne e la vita » ) accanto alla vita è menzionata la risurrezione e questo indica che il Gesù terreno ha la vita e può donar­ la solo perché è colui che attraverso la morte e la risurre­ zione è innalzato al Padre, cioè è l'uomo che il Padre ama, poiché « io dò la mia vita per poi riprenderla » ( I O , I 7 ) . Strettamente connessa con «la vita» è « la luce >> , come già indica il prologo : «La vita era la luce degli uomini . E la luce splende nelle tenebre . . . La luce vera che illumina ogni uomo , venne nel mondo» ( r ,4 . 5 · 9 ) . Così Gesù si definisce la luce del mondo : « lo sono la luce del mondo » ( 8 , 1 2 ) ; «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo» ( 9 , 5 ) ; « lo sono venuto nel mondo per essere la luce » ( 1 2 ,4 6 ) ; «La luce è venuta nel mondo » ( 3 , 1 9 , cfr . 1 2 , 3 5 s . ) . Per constatare che anche queste affermazioni indicano prima di tutto l'appar­ tenenza di Gesù Cristo al mondo divino basta notare che in I Io. I , 5 lo stesso Dio è descritto come luce : «Dio è luce e in lui non v 'è tenebra>> . Ma anche qui l'affermazione decisi­ va è che la luce divina è stata mandata nel mondo nella per­ sona di Gesù e che incontrandosi con lui, la luce, ci si può liberare dalle tenebre : «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato . Io sono venuto nel mondo per ess-ere la luce , af­ finché chiunque crede in me, non resti nelle tenebre» (Io. 1 2 , 45 s . ) . Ciò significa che l'apparizione della luce divina nel mondo è legata alla storia dell'uomo Gesù nei suoi termini cronologici : « La luce vera già risplende» ( I Io. 1 2 , 3 4 b . 3 5 a ) . Se l'uomo vuole incontrarsi con l a luce divina, deve tener presente questo tempo della rivelazione divina : « Fin­ ché avete la luce, credete nella luce, affinché diventiate figli della luce » ( 1 2 ,3 6 a ) .

Il messaggio cristologico di Giovanni

Il terzo predicato che ricorre nel prologo per indicare il significato salvifico di Cristo è «la verità >> : ( 5 , 3 6 ). Da tutto questo risulta chiaramente che Giovanni vede rea­ lizzarsi in Gesù la salvezza di Dio sia nella sua parola come nella sua persona e perciò possiamo comprendere in che sen­ so lo consideri come salvatore solo dopo esserci chiesti che cosa dica Giovanni della salvezza realizzatasi in Gesù Cristo .

4 · La salvezza e la via allà salvezza I . ll male

Anche la predicazione giovannea della salvezza donata in Cristo presuppone che gli uomini vengano sottratti al male e possano così ricevere la salvezza. Questo male per Giovanni è caratterizzato nel modo più comprensivo dal termine «mon­ do » ( k6smos ) . Giovanni può usare questo termine, in lui molto frequente, con il significato neutrale di « creatura» ( ( I 2 ,2 5 ) . Questo contrasto fra il mondo e Dio è poi ulteriormente descritto da Giovanni senza far ricorso alla formula « questo mondo » : le opere degli uomini appartenenti al mondo sono cattive ( « Il mondo mi odia poiché io attesto che le sue opere sono malvagie » , 7 , 7 ; « Tutto ciò che è nel mondo, la concu­ piscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, il vanto della vita, non è dal Padre, ma dal mondo » , I Io. 2 , r 6 , cfr . Io . I 7 , I 5 h), poiché « tutto il mondo è sottomesso al maligno » ( I Io. 5 , 1 9 b ) . Perciò il mondo non è neppure capace di cre­ dere al Cristo risorto e il « soccorritore» «confonderà il mon­ do quanto a peccato . . . poiché non credono in me » ( Io . r 6 , 8 s . , cfr . 1 4 , 1 9 ; I Io. 3 , 1 ) ; esso non è i n grado d i comprendere lo Spirito divino : « Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere perché non lo conosce, né lo comprende» ( 1 4 , r 7 ) . Piuttosto , i l mondo odia Cristo e odia i cristiani : « Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me . . . Poiché non siete del mondo . . . per questo il mondo vi odia » ( I 5 , r 8 s . , cfr . I 6 , 3 3 ; r 7 , I 4 ; I Io . 3 , I 3 ) . Questo mondo che si oppone a Dio e a Cristo ed è retto dal diavolo, è definito qua e là come transitorio anche da Giovanni , come da Paolo : « Il mondo passa e la sua concu­ piscenza» ( I lo. 2 , 1 7 a ) ; in quanto provvisorio, è contrap­ posto alla vita eterna : > ( 1 7 , 1 5 ). Quindi il male non è essere nel mondo, ma essere « del mondo» , cioè essere determinati dal mondo : «Se voi foste del mondo , il mondo amerebbe ciò che è suo ; invece siccome non siete del mondo , ma io vi ho scelti dal mondo, perciò il mondo vi odia» ( r 5 , r 9 ) . S e questa distinzione mostra già che Giovanni intende il mondo non nel senso gnostico di «estraneità » , questo risul­ ta ancor più evidente se ci chiediamo in che cosa si mani­ festi generalmente il fatto di « essere nel mondo » . Abbiamo già visto che caratteristica degli uomini che sono «del mon­ do» è compiere il male ( r Io . 2 , 1 6 ; Io . 7 , 7 ; 1 7 , 1 5 b ) . Ma de­ terminante è solo l'opposizione del mondo all'avvenimento della salvezza : il mondo « non lo [ il Logos ] ha riconosciuto>> ( r , r o ) ; il « soccorritore» condannerà il mondo «poiché essi non credono in me» ( 1 6 , 9 ) ; il mondo « ha odiato me prima di voi » ( I 5 , I 8 h ) . Ciò significa che « solo nel suo negativo atteggiamento di rifiuto rispetto all 'avvenimento del Cristo il mondo assume il suo particolare aspetto di rigida chiusura » (J. Blank ) . Il mondo è perciò radicalmente ostile a Dio , poi­ ché gli uomini, che sono « di questo mondo» , « non conosco­ no colui che mi ha mandato » ( 1 5 ,2 1 b con 1 5 , 1 9 ) . Il male del mondo , inaspritosi in modo decisivo nell'op-

Il messaggio cristologico di Giovanni

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posizione alla venuta di Cristo , si manifesta nella morte e nel peccato . L'universalità della morte è naturalmente anche per Giovanni il presupposto da cui partire per spiegare il destino umano della morte : « Chi non ama rimane nella mor­ te» ( I Io. 3 , 1 4 b; Io. 5 ,24 ; 8 , .5 1 ; r r , 2 .5 ); ma in Giovanni non si dice nulla sull'origine e sulla causa di questo destino ut1iversale . La morte è senza fine : « Se uno osserva la mia pa­ rola, non vedrà la morte in eterno » , 8 ,5 r , e l'uomo non può da se stesso sottrarsi alla ineluttabilità della morte ( I Io . 3 , 1 4 h, v . sopra ) . Anche la credenza giudaica nella risurre­ zione futura ( « lo so che risorgerà nella risurrezione all'ul­ timo giorno >> , 1 1 , 2 4 ) è messa da parte : « Se non credete che io sono , morirete nei vostri peccati» ( 8 , 24 b ) . La morte eter­ na è quindi la fine inevitabile e irrevocabile dell'uomo nel mondo , ma questa ineluttabilità della morte non è un de­ stino inesplicabile , ma trova la sua giustificazione nel pec­ cato : «Vi ho detto che morirete nei vostri peccati » ( 8 ,2 4 a ) . Anche per Giovanni l a morte è l a conseguenza del peccato ; è ovvio anche per lui quindi che tutti gli uomini sono pec­ catori . Questo però non è detto esplicitamente, ma si può facilmente dedt1rre dall'espressione : « l'agnello , che toglie il peccato del mondo» ( 1 , 2 9 ) riferita a Gesù . Questa univer­ salità del peccato si può ravvisare soprattutto nel fatto che dietro al peccato si nasconde il diavolo, il principe di questo mondo : « Voi avete come padre il diavolo e sono i desideri di vostro padre che volete fare» ( Io . 8 ,44 a ) ; «Chi fa il pec­ cato viene dal diavolo, poiché fin dal principio il diavolo è peccatore » (I Io. 3 , 8 ) Naturalmente, anche per Giovanni gli uomini dimostrano di essere peccatori e quindi desti­ nati alla morte con le loro azioni peccaminose . In lui tutta­ via il plurale « peccati » è raro ( Io . 8 , 2 4 ; 9 , 3 4 ; più spesso nel­ la prima Lettera di Giovanni : 1 ,9 ; 2 ,2 . r 2 ; 3 , 5 ; 4 , r o , per lo più in formule già fatte ) e neppure si parla spesso del fatto di compiere peccati ( « Ognuno che compie peccati, è uno schiavo », Io. 8 , 3 4 ; I Io. 3 ,4 . 8 s . ) . Affermazione decisiva è .

La salvezza e la via alla salvezza

37 5

piuttosto quella che gli uomini sono sottomessi al peccato : «Chi fa il peccato viene dal diavolo » · ( I Io . 3 ,8 , cfr. Io . 8 , 3 4 · 4 4 a ) . Questa sottomissione al peccato porta a respingere il Cristo e quindi all'incredulità e al rifiuto della rivelazione divina : « Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa ; ma adesso non hanno scusa per il loro peccato» ( 1 .5 , 2 2 , cfr . 1 5 , 2 3 s . ) ; « Se foste ciechi, non avreste colpa, ma dal momento che dite ' ci vediamo' il vostro pec­ cato rimane » ( 9 ,4 1 , cfr. 8 , 2 4 ; r 6 , 9 ) . Ciò significa che come il mondo si manifesta tale proprio nel fatto che non crede al Cristo , così gli uomini soggiaciono in modo decisivo al po­ tere del peccato e vanno in rovina perché non credono : « Mo­ rirete nei vostri peccati ; infatti se non credete che io sono , morirete nei vostri peccati » ( 8 , 24 ) . Da tutto questo risulta chiaro che la concezione giovannea del male dell'uomo che si trova nel mondo ed è così sottoposto alla morte e al peccato non viene da una considerazione pessimistica del mondo in­ teso come « estraneità» , né da un giudizio sfiduciato sulla caducità e la cattiveria dell'uomo, ma proviene dal credere che Dio in Gesù Cristo ha posto fine a questo male : «Chi è mai il vincitore del mondo se non colui il quale crede che Gesù è il Figlio di Dio ? » ( I Io .5 , .5 ) . Giovanni nel considera­ re se stesso e gli uomini non si fonda perciò su una sua per­ sonale visione del male, ma parte dalla fede e solo così ri­ conosce davvero in quale male vivono gli uomini e a quale rovina vanno incontro . .

2 . La liberazione dal mondo e dalla morte

Il messaggio decisivo di Giovanni è quindi che Dio in Cri­ sto vince questo male : Cristo libera l 'uomo dalla schiavitù del mondo . Giovanni può dire questo in modo del tutto ge­ nerale richiamandosi all'amore e alla volontà salvifìca di Dio : «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio , l'unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma

Il messaggio cristo logico di Giovanni

abbia la vita eterna» ( Io. 3 , 1 6 ) ; « Dio mandò il Figlio nel mondo . . . , affinché il mondo venga salvato per mezzo di lui » ( 3 , 1 7 , cfr. 4 , 4 2 ; 1 2 ,4 7 ; I Io. 4 , 1 4 ) . Giovanni può anche sot­ tolineare che Gesù Cristo ha già vinto il mondo e così ha .reso possibile a quanti credono in lui di vincere il mondo : « Nel mondo avrete tribolazioni , ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo » ( Io. 1 6 , 3 3 ) ; « Chiunque è generato da Dio sa vincere il mondo ; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo : la nostra fede . Chi è mai il vincitore del mondo se · non colui il quale crede che Gesù è il Figlio di Dio ? >> ( I Io. 5 ,4 s . ) . Analogamente afferma che i discepoli per mezzo di Cristo sono stati liberati dal mondo : «Poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo , per questo il mondo vi odia» (Io . r 5 , r 9 ) ; «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» ( r 7 , I 6 , cfr. r 7 , 6 ) . È però anche evi­ dente che la liberazione dal mondo non significa la fuga dal mondo, ma la liberazione dal potere tirannico del mondo : > ( Io. 4 , 1 4 ) . Così «vita» e « vita eterna» ricorrono evidente­ mente in modo intercambiabile con lo stesso significato : « Chi crede nel Figlio ha la vita eterna ; chi però si rifiuta di cre­ dere al Figlio non vedrà la vita» ( 3 ,3 6 ) ; « Chi ascolta la mia parola . . . ha la vita eterna e non è sottoposto a giudizio, ma è passato dalla morte alla vita » ( 5 ,24, cfr . 5 ,3 9 . 40; 6 , 6 3 . 6 8 ecc . ) . I n questo caso è sorprendente notare che nei passi ap­ pena citati e spesso anche altrove Giovanni dice che il cre­ dente ha già ora la vita eterna : «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna>> ( 6 , .5 4 ) ; « Questa è la testimonianza: Dio ci ha dato la vita eterna>> ( I Io . 5 , 1 1 cfr. Io . 3 , 1 5 s . ; 5 ,40; 6 ,40.47 · .5 3 ; 1 0 , 2 8 ; I Io. 3 , 1 4 ; 5 , 1 3 ) . Poiché « vita eterna» indica una cosa che è già posseduta al presente , si è spesso sostenuto l'ipotesi che con questo con­ cetto Giovanni intenda un atteggiamento spirituale , una co­ scienza o un sentire religioso, e alcune sue espressioni sem­ brano rendere più verosimile questa ipotesi : « Il Figlio del­ l'uomo deve essere innalzato affinché ognuno che crede ab­ bia in lui la vita eterna » ( 3 , 1 4 b . r 5 ) ; « Sono venuto affinché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » ( I o , l o ) ; « Que­ sta è la vita eterna : che conoscano te unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo » ( I 7 , 3 ) ; « Chi mi segue, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» ( 8 , 1 2 b , cfr. 6 , 5 3 c ) . Qui sembrerebbe che l a speranza dei primi cri­ stiani in un futuro compimento salvifìco abbia ceduto il po­ sto alla fede nel compimento presente della salvezza che si realizzerebbe nella conoscenza e nella visione . Giovanni però in modo sorprendente, a queste frasi al pre­ sente affianca chiare promesse per il futuro. Questo vale an­ zitutto per le affermazioni riguardo alla vita eterna : « Chi mangia me, vivrà per me . . . Chi mangia di questo pane, vivrà in eterno» ( 6 ,57 s . ) ; « Chi . . . odia la sua vita in questo mon,

Il messaggio cristologico di G iovanni

do la conserverà per la vita eterna» ( 1 2 ,2 5 ) ; « Questa è la promessa che egli stesso ci fece : la vita eterna» (I Io. 2 , 2 5 ; cfr. Io. 8 , 1 2 ) . Inoltre, accanto al possesso della vita eterna è menzionata la risurrezione nell'ultimo giorno : « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risuscite rò nell'ultimo giorno» ( 6 , 5 4 cfr. 6 ,3 9 ·4 0 .44 ) ; così pure si parla della « risurrezione di vita» ( 5 ,2 9 a ) . Ma queste non sono le uniche affermazioni escatologiche al futuro . Si parla del futuro ingresso nel regno di Dio : «Nessuno , se non nasce da acqua e Spirito, può entrare nel regno di Dio » ( 3 , 5 , cfr . 3 , 3 ); della futura salvezza ed elevazione ( 1 0 ,9 ; 1 2 , 3 2 ); del giud iz io futuro : « La parola che ho annunziato , quella lo condannerà nell'ultimo giorno » ( 1 2 ,4 8 , cfr. 5 , 2 8 s . ; 1 2 , 3 1 h ; I Io . 4, 1 7 ) . Così Cristo al momento dell'addio promet­ te anche il suo ritorno : «Quando sarò partito e avrò prepa­ rato un posto per voi , ritornerò e vi p renderò con me» ( Io . 1 4 , 3 , cfr. 1 4 , 2 8 ) ; « Ed ora figliol etti miei , rimanete in lui , affinché, quando si manife s terà, abbiamo fiducia e non siamo svergognati da lui alla sua venuta» (I Io . 2 , 2 8 ) . La prima Lettera di Giovanni· parla ancora più chiaramente dell'ulti­ ma ora : «Figlioletti miei , è l'ultima ora » (I Io. 2 , r 8 ) ; e del futuro compimento salvifico : « Carissimi , già adesso siamo figli di Dio, ma non si è ancora manifestato quel che saremo . Sappiamo che quando si manifesterà, saremo simili a lui , poi­ ché lo vedremo come egli è» ( I Io. 3 , 2 ) . Queste promesse della prima Lettera di Giovanni differiscono solo per chia­ rezza non nella sostanza da quelle del Vangelo, che nel tes to a noi tramandato dimostra chiaramente di attendere il giu­ dizio e il compimento salvifico dell'ultimo giorno, la venuta del risorto nella gloria e l'inizio del regno di Dio . Non v'è dubbio che questo alternarsi di espressioni che collocano al presente la pienezza della salvezza e di altre che la promettono alla fine dei tempi appare contraddittorio , spe­ cialmen te perché spe s so espressioni contrastanti si trovano immediatamente l 'una accanto all'altra : l'assicurazione che

La salvezza e la via alla salvezza

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il credente non è sottoposto al giudizio è subito seguita dalla predizione dell'ora in cui tutti i morti udranno la voce del Figlio dell'uomo e usciranno [ dai sepolcri ] per la risurrezio­ ne di vita o per la risurrezione di condanna ( Io . 5 , 2 4 . 2 8 s . ) ; e la promessa: « lo ritornerò e vi prenderò con me » ( I 4 , 3 . 2 8 s . ) cozza contro la promessa che il risorto rimarrà sempre fra i suoi : « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo presso di lui e dimoreremo in lui » ( I 4 ,2 3 , cfr. anche 6 ,4o a con 6 ,4o b ; 6 , 5 4 a con 6 ,5 4 b; r 2 , 3 I a con r 2 , 3 I b ) . Perciò si è spesso ritenuto che le espres­ sioni al futuro, relativamente scarse, siano aggiunte di un re­ dattore preoccupato della conformità alla fede cristiana uni­ versale o che almeno non siano da intendere nel senso di una attesa escatologica futura . Ma a sostegno dell'ipotesi delle interpolazioni non v'è altro motivo al di là del semplice ri­ corso alle contraddizioni logiche e per contestare il senso escatologico futuro delle frasi citate bisogna far violenza al testo. Piuttosto non dipende affatto dal caso, ma da necessità logica se anche nella teologia giovannea non manca l'attesa del futuro conzpimento salvifico . Infatti Giovanni sa che il Cristo elevato in cielo ha « vinto il mondo » ; ma sa anche che questo mondo continua a sussistere e i cristiani perciò hanno « tribolazioni nel mondo» ( I 6 , 3 3 ) ; e così pure sa che « il prin­ cipe di questo mondo è condannato» ( I 6 , I I ), ma non è stato ancora annientato , sicché da qui deriva l'affermazione para­ dossale : « È adesso la condanna di questo mondo : adesso il principe di questo mondo sarà cacciato fuori » ( I 2 , 3 I ) . Già ora i credenti hanno visto la gloria del Figlio di Dio incar­ nato ed elevato al cielo ( I , I 4 ; I 6 , 2o b ) , ma questa gloria è rimasta nascosta al mondo ( r 6 ,2o a ; I , I o b ) . Perciò come Gesù e come Paolo, anche Giovanni attende che il principe di questo mondo venga definitivamente spodestato e che la gloria di Cristo sia manifestata agli occhi del mondo . Af­ fiancando quindi alle espressioni riguardo al presente, forte-

Il messaggio cristologico di Giovanni

mente sottolineate, accenni al futuro compimento salvifico, dimostra che anche per lui l'esistenza presente del cristiano è determinata dall'azione salvifica divina, che, iniziatasi in Gesù Cristo e diventata così realtà presente, attende ancora il compimento promesso . Di conseguenza la liberazione dalla morte e il dono della vita è per Giovanni una realtà che si avvera al presente nella vita del cristiano ; tuttavia questo mondo, finché sussiste, op­ prime i cristiani : «Nel mondo avrete tribolazioni » ( r 6 , 3 3 a ) ; « Adesso siete tristi» ( r 6 , 2 2 a ) ; « Il mondo vi odia» ( r 5 , I 9 c ) ; e i cristiani corrono il pericolo di lasciarsi turbare da esso : «Non meravigliatevi più, o fratelli, se il mondo vi odia» ( I Io. 3 , 1 3 ) ; « Non si turbi il vostro cuore , né si scoraggi » ( Io . 1 4 , 2 7 c ) . Tale scoraggiamento però secondo Giovanni in­ dica soltanto che i discepoli non hanno ancora compreso la realtà del dono della vita . Infatti Cristo dona al discepolo la pace : « lo vi dò la pace , la mia pace vi dò » ( 1 4 , 2 7 a ) ; « Que­ ste cose vi ho detto affinché in me abbiate pace » ( r 6 ,3 3 a ) . Con questo termine non si intende uno stato d'animo, m a la certezza che Cristo ha vinto il mondo ( r 6 , 3 3 c) e che così il cristiano, che « in Cristo» ha la pace , è anch'egli sottratto al potere tirannico del mondo : «Voi siete da Dio, o figlioletti , e li [ gli eretici , che sono del mondo , cfr . v . 5 a ] avete vinti ; infatti colui che è in voi, è più grande di colui che è nel mondo » ( I Io . 4 , 4 ) . Il cristiano vive perciò nella gioia della vittoria di Dio sulla morte mediante la risurrezione di Cri­ sto : « lo vi rivedrò e il vostro cuore gioirà, e la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire » ( I 6 , 2 2 b ; la promessa va riferi­ ta alle apparizioni dopo la pasqua ) . I cristiani hanno quindi una gioia stabile, fondata sull'azione salvifìca di Dio in Cri­ sto : « Se mi amaste, vi rallegrereste che vado al Padre, in­ fatti il Padre è più grande di me » ( 1 4 , 2 8 b ) ; ( 1 2 ,44 ) . Ciò equivale a dire da un lato che per Giovanni la fede in Dio e la fede in Cristo coincidono poiché Dio si fa presente in Cristo : > ( 1 4 , 9 , cfr . 1 4 , 1 ; r 7 , 3 ) e poiché « nessuno viene al Padre se non per mezzo mio» ( 1 4 , 6 b ) . D'altro lato questo implica anche che la fede non sia rivolta ad un sem plice fatto o a una dottrina, ma che abbracci l'azione di Dio in Gesù Cristo : « Il Padre mio con­ tinua ad agire e anch'io agisco . . . infatti quanto egli fa, il Fi­ glio similmente lo fa . . . Chi ascolta la mia parola e crede a

La salvezza e la via alla sa lvezza

colui che mi ha mandato ha la vita eterna» ( .5 , I 7 . I 9 C . 2 4 a ) . Perciò se per Giovanni s i può aver fede nei miracoli di Gesù, ci si può anche però limitare a constatare i fatti senza giun­ gere alla fed·e : i sommi sacerdoti e i farisei dicono : «Che co­ sa possiamo fare, giacché quest'uomo fa molti segni ? » ( I I , 4 7 ) ; Nicodemo dice : « Rabbi, noi sappiamo che tu sei ve­ nuto da parte di Dio come maestro, infatti nessuno può fare i segni che fai tu, se Dio non è con lui » ( 3 , 2 ) ; « I suoi [ di Gesù ] fratelli gli dissero : ' Va in Giudea affinché anche i tuoi discepoli vedano le opere che fai ' . Infatti neppure i suoi fratelli credevano in lui » ( 7 , 3 -5 , cfr. 1 0 , 2 5 s . ). Per Giovanni, quindi , una fede suscitata dai miracoli è solo un primo passo, una fede incerta, che riconosce il taumaturgo, ma non ha an­ cora visto in Gesù il Padre ed è perciò solo una via alla vera fede : « Se non faccio le opere di mio Padre, non credetemi ; ma se io le faccio, anche se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre » ( 1 0 , 3 7 s . ) ; « Credetemi che io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro , credetelo a motivo delle mie ope­ re» ( 1 4 , 1 1 , cfr . 4 ,4 8 ; 5 ,3 6 ; 6 , 2 6 . 3 6 ) . Il passo decisivo che l'uomo deve compiere per la sua sal­ vezza è perciò quello di credere senza aver bisogno di ve­ dere : Gesù dice a Tommaso : «Perché mi hai veduto, tu cre­ di ; beati quelli che credono senza avere visto>> ( 2 0 , 2 9 ). Tale fede è suscitata dalla parola di Gesù o da quella dei suoi te­ stimoni : «L'uomo [ il padre del figlio moribondo ] credette alla parola dettagli da Gesù e se ne andò » ( 4 , 5 o ) ; « Credetemi che io [ sono ] nel Padre e il Padre [ è ] in me » ( r 4 , 1 r a ) ; «Ti prego per tutti [ coloro ] che crederanno in me per mezzo del­ la loro parola>> ( r 7 , 2 0 ) . Poiché credere significa convertirsi a Gesù stesso, Giovanni può anche descrivere la « fede nel suo nome » come un « accogliere » Gesù ( r , I 2 , cfr. 5 ,4 3 ; r 3 , 2 o ) o le sue parole ( r 2 ,4 8 ; I 7 , 8 ) ; egli può usare le espres­ sioni « venire a Gesù» ( 6 , 3 5 ; 7 , 3 7 ), « seguire GesÙ >> ( 8 , r 2 ), «osservare la parola di Gesù» ( 8 ,5 I s . ) .

Il messaggio cristo logico di Giovanni

È molto importante in questo contesto non trascurare due fatti . Giovanni pressupone che il Cristo non trova accoglienza e neppure fede fra gli uomini : «Chi viene dal cielo, attesta ciò che ha visto ed ha ascoltato, e nessuno accetta la sua testimonianza» ( 3 , 3 1 b . 3 2 ) ; « La luce vera . . . era nel mondo, e il mondo non la riconobbe. Venne nella sua proprietà e i suoi non l'accolsero » ( r , r o s . ) ; « Il mondo non può odiare voi, odia invece me» ( 7 , 7 ) . Tuttavia alcuni credono ( cfr. 3 , 3 3 : «Chi accetta la sua testimonianza, certifica che Dio è verace >> ; similmente in 1 , 1 2 ) ; questo dimostra che la fede è op era di Dio nell'uomo : «L'opera di Dio è questa : che cre­ diate in colui che egli ha mandato» ( 6 , 2 9 ). Infatti nessuno può giungere alla fede da se stesso : «Vi ho detto che avete visto e tuttavia non avete creduto » ( 6 , 3 6 ) ; ma solo se vi è portato da Dio stesso : «Tutto quanto mi dà il Padre, verrà a me» ( 6 , 3 7 ) ; «Nessuno può venire a me, se il :Padre che mi ha mandato non lo abbia attirato » ( 6 ,44 , cfr. 6 , 6 5 ); « Chi è da Dio, ascolta la parola di Dio . Se io vi dico la verità, per­ ché non mi credete ? Chi è da Dio ascolta la parola di Dio ; per ques to voi non ascoltate, perché non siete da Dio» ( 8 , 4 7 ) ; «Voi non credete, perché non appartenete alle mie pe­ core» ( r o, 2 6 , cfr. 1 7 , 6 . 9 S . 2 4 ) . Quando un uomo quindi giunge alla fede, Dio ha fatto il primo passo ; ciò però non significa che l 'uomo non debba fare il secondo passo : « Pro­ curatevi . . . il nutrimento che resta per la vita eterna, quello che il Figlio dell'uomo vi darà >> ( 6 , 2 7 ). Certo Giovanni dice che giunge alla fede solo chi vi è «attirato » da Dio ; che osservano la parola di Dio solo coloro che il Padre ha dato al Figlio traendoli dal mondo ( 6 ,44 ; 1 7 , 6 ) ; ma questo non implica che Dio abbia deciso in modo definitivo chi debba appartenere alle pecore di Gesù e perciò ascoltare la sua voce ( 1 0 , 2 7 ). Piuttosto all'esortazione di farsi dare dal Figlio del­ l'uomo il nutrimento eterno ( 6 , 2 7 , v . sopra) corrisponde l 'af­ fermazione che alla fede giunge solo chi «ha ascoltato il Pa­ dre e ha accolto il suo insegnamento» ( 6 ,4 5 ). Il cieco nato

La salvezza e la via alla salvezza

all'inizio non sa affatto chi sia questo Gesù che lo ha guarito ( 9 , 1 7 b . 2 5 . 3 6 ) , ma quando Gesù gli si fa conoscere come il Figlio dell'uomo, allora egli si prostra davanti a lui ed escla­ ma : « Credo, Signore » ( 9 , 3 8 ) . Si tratta perciò non solo di ascoltare, ma anche di essere docili : «Chiunque è dalla ve­ rità ascolta la mia voce » ( 1 8 , 3 7 c ) ; « lo ho ancora altre peco­ re . . . anche quelle devo condurre e ascolteranno la mia voce, e ci sarà un solo gregge e un solo pastore» ( I o , I 6 s . , cfr. 5 , 2 4 ) . A ciò corrisponde non solo l'esortazione a credere : «Cre­ dete che io sono nel Padre e che il Padre è in me; se non altro credetelo a motivo delle opere » ( 1 4 , 1 I , cfr . r o , 3 8 ; 1 2 , 3 6 ; 1 4 , I ), ma anche la certezza che determinati avvenimenti susciteranno la fede : « E vi ho detto ora [ che vado al Pa­ dre ] , prima che ciò avvenga, affinché quando avverrà, cre­ diate» ( 1 4 , 2 9 , cfr. r r , r 5 .4 2 ; 1 3 , 1 9 ; 1 7 , 2 1 ; I 9 ,3 5 ). Di con­ seguenza il rifiuto di credere è la colpa di quanti cercano la loro gloria personale e non vogliono riconoscere la loro ce­ cità : « Come potete credere voi che prendete gloria l'uno dal­ l 'altro e non cercate la gloria che viene dall'unico Dio ? » ( .5 , 44 ) : « Se voi non credete che io sono morirete nei vostri peccati» ( 8 , 2 4 , cfr. 9 , 3 9-4 1 ; 1 2 ,3 7-4 3 ) . Anche Giovanni quindi, come Paolo ( v . pp . 2 9 8 s . ) sa che la fede si fonda sol­ tanto sull'azione di Dio , ma sa anche che Dio ci lascia la li­ bertà di accettare o di rigettare la sua azione in noi . Anche Giovanni non ha tentato di fondere insieme le due verità, poiché solo mantenendole tutte e due si salva l'azione salvifì­ ca divina e insieme la responsabilità dell'uomo . Poiché la fede è l'opera di Dio per mezzo nostro, la vera fede in quanto conversione a Cristo abbraccia tutta la vita del discepolo : « Chi crede in me, come ha detto la Scrittura : 'fiumi d'acqua viva scorreranno dal suo seno' » ( 7 , 3 8 ) . Il credente è quindi uno che può comunicare ad altri la vita divina, poiché aderendo a Cristo essa è diventata in lui la realtà sovrana . Perciò la verità della testimonianza di Cristo può essere riconosciuta solo da chi ha accettato di mettersi

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al servizio di questa verità : «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. Se qualcuno vuoi fare la volontà di lui, conoscerà se questa dottrina viene da Dio oppure se io parlo per conto mio» ( 7 , 1 6 s . ) . Così credere significa os­ servare le parole di Gesù : « Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, non sono io che lo condanno» ( 1 2 ,4 7 ) ; « Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola » ( 1 4 , 2 3 a ) ; i di­ scepoli sono amici di Gesù solo a patto che siano fedeli ai suoi comandamenti : «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» ( I 5 , r 4 ) . Poiché quindi parte essenziale della fede è l'osservanza dei comand�menti, Giovanni a volte pone in parallelo fede e amore : «E questo è il suo comandamento : che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo l'uno l'altro come ce ne diede comandamento » ( I Io . 3 , 2 3 , cfr. anche la connessione tra Io. 1 4 ,20 e 1 4 ,2 1 ) . Spesso egli esorta al­ l'amore. Più volte si parla dell'amore a Dio o a Cristo : « Se Dio fosse vostro Padre, mi amereste ; infatti io sono uscito da Dio e [ ora ] sono qui» ( 8 ,4 2 , cfr. 1 4 , 2 8 ). Ma in quasi tut­ ti questi casi l'amore a Dio o a Cristo è congiunto con l'amo­ re al fratello : , I Io . 2 , 7 b ) , senza però esclu­ dere che tale comandamento provenga dalla tradizione del­ l'Antico Testamento e del cristianesimo primitivo . Il coman­ damento però è nuovo dal momento che « già splende la ve­ ra luce » ( I I o . 2 , 8 b ) e che Gesù ha amato i discepoli ( I 3 , 3 4 b ) . Poiché Dio «ha tanto amato il mondo, da dare suo Figlio, l 'unigenito, affinché ognuno che crede in lui non pe­ risca, ma abbia la vita eterna» ( 3 , 1 6 ) , per questo il coman­ damento di amarsi reciprocamente è nuovo ; infatti la fede rende partecipe il credente dell ' azione salvifìca di Dio realiz­ zatasi per mezzo di Cristo asceso al cielo e solo per que sta azione divina il cristiano ha la vita e può trasmetterla agli altri : « Chi crede in me, come ha detto la Scrittura : Fiumi d'acqua viva scorreranno dal suo seno ' . Questo disse dello Spirito che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui . Infatti non c'era ancora lo Spirito, poiché Gesù non era sta to ancora glorificato » ( 7 , 3 8 s . ) . A questa spiegazione, secondo cui credere s ignifica per '

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Giovanni essere afferrati dall'azione di Dio in Cristo che ab­ braccia tutta la vita, sembra però opporsi il fatto che Gio­ vanni vede la fede e la conoscenza, o il sapere, in intima con­ nessione . Giovanni usa il verbo > ( r 7 , 8 ) ; « E noi ab­ biamo conosciuto e creduto all 'amore che Dio ha per noi» ( I Io. 4 , r 6 ). Se inoltre la fede è vista come la conseguenza della conoscenza ( « Ora sappiamo che tu sai tutto e non hai bisogno che qualcuno ti interroghi ; perciò crediamo che sei uscito da Dio » , r 6 , 3 o ) , e allo stesso tempo la conoscenza è vista come conseguenza della fede ( « Se non credete a me, credete alle opere , affinché sappiate e conosciate che il Padre [ è ] in me e io nel Padre » , r o , 3 8 ), allora ci potrebbe sem­ brare fuori dubbio che per Giovanni credere e conoscere o . sapere indichino lo stesso atteggiamento dell'uomo, sicché la fede dovrebbe essere definita come il riconoscimento in­ tellettuale di un fatto. E questa impressione si accentua an­ cor più se si considera che Giovanni parla spesso di fede e di conoscenza riferendosi allo stesso oggetto : «Affinché cre­ dano che tu mi hai mandato» ( r I ,4 2 ) accanto a «Che cono­ scano te . . . e colui che tu hai mandato » ( r 7 , 3 ) ; « Se voi non credete che io sono>> ( 8 ,2 4 ) accanto a «Allora riconoscerete che io sono» ( 8 , 2 8 ) ; «Non credi che io [ sono ] nel Padre e il Padre [ è ] in me ? » ( r 4 , 1 1 ) accanto a « In quel giorno ri­ conoscerete che io [ sono ] nel Padre mio e voi in me e io in voi» ( 1 4 , 2 0 ) ; inoltre si parla spesso di riconoscere o co­ . noscere Dio o Cristo ( 7 ,2 8 ; 8 , 9 ; 1 4 ,7 . 9 ; I Io. 2 , 3 ; 4 , 6 ) . Ma anche se da questi testi risulta chiaramente che Gio­ vanni può dire in gran parte le stesse cose della fede e della conoscenza, non è vero che per Giovanni i due concetti sia­ no identici , cosi da dover definire la fede come conoscenza .

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Ciò appare evidente se si considera che a Gesù Cristo non è attribuita una fede, ma una conoscenza del Padre, che cor­ risponde alla conoscenza di Dio da parte dei discepoli : «Pa­ dre giusto , il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho co­ nosciuto e questi [ i discepoli ] hanno riconosciuto che tu mi hai mandato » ( 1 7 , 2 5 , cfr . 7 , 2 9 ; 8 ,5 5 ; 1 0 , 1 5 ) . La distin­ zione tra fede e conoscenza risulta però soprattutto se si nota che per Giovanni la fede può essere designata come cono­ scenza solo se è una fede stabile : «Ai Giudei che avevano creduto in lui, Gesù dunque diceva : Se voi rimanete nella mia parola, siete veramente miei discepoli e conoscerete la verità, [ cioè la realtà di Dio, v. sopra p. 3 6 8 ] e la verità vi farà liberi » ( 8 , 3 1 s . ) . Con ciò non è detto però che la fede porti alla conoscenza della verità solo se dura nel tempo : « ri­ manere» significa qui piuttosto il fatto che tutto l'uomo è preso dalla verità liberatrice : « In verità, in verità vi dico, chiunque commette il peccato è schiavo del peccato . . . Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete realmente liberi » ( 8 , 3 4 . 3 6 ) . Ciò significa però che l a fede è stabile e può essere de­ finita come conoscenza della verità solo se porta ad allon­ tanarsi dal peccato e ad osservare le parole di Cristo. Ana­ logamente designa anche altrove con il vocabolo « rimanere » l'azione del credente, inseparabilmente connessa con la fe­ de : «Chi rimane in me e io in lui questi porta molto frut­ to» ( I 5 , 5 ) ; « lo vi ho scelto e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga . . . Questo vi co­ mando : che vi amiate scambievolmente » ( 1 5 , 1 6 s . ) ; «Chi di­ ce di dimorare in lui , deve anche camminare come egli cam­ minò» ( I Io. 2 ,6 ). Perciò Giovanni può dire in gran parte le stesse cose della fede e della conoscenza, ma la fede non è semplicemente conoscenza ; essa indica il fatto che tutto l'uo­ mo è afferrato dall'azione storico-salvifìca di Dio in Cristo ed è portato così a riconoscere la missione del Figlio da parte del Padre . «La fede non è quindi l'accettazione di un dog­ ma . . . bensì la fede è tutto . La conoscenza non può staccarsi

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dalla fede, né superarla; ma la fede è anche conoscenza . . . La conoscenza è un momento strutturale della fede» ( R. Bultmann ). 5 . L a nascita d a Dio e i sacramenti

Quando Giovanni parla della fede usa spesso le espres­ sioni «essere in Cristo» ed «essere in Dio » , e l'immagine della nascita da Dio, inducendo così molti a pensare che egli presenti una mistica ellenistica, che « consiste nel conseguire l 'immortalità immersi col proprio essere in colui che porta l'immortalità» ( A . Schweitzer ). In questo caso la fede sareb­ be in fondo un assorbimento atemporale nell'essenza divina e non, come finora abbiamo pensato, un essere presi dall'azio­ ne storica salvifìca di Dio in Gesù Cristo. Ma è giusto inter­ pretare le espressioni «essere in Dio » ed «essere in Cristo» e l'immagine della rigenerazione come espressioni di una mistica astorica ? L'essere in Dio e in Cristo

Giovanni dice chiaramente che i cristiani sono in Cristo, come Cristo è nel Padre : « In quel giorno [ dopo la risurre­ zione di Gesù ] voi conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» ( Io. 1 4 , 2 0 ) ; « . . . affinché tutti siano una cosa sola, come tu Padre sei in me e io in te, affinché an­ ch'essi siano in noi» ( r 7 , 2 I , cfr . 1 7 , 2 3 ) . Egli afferma anche che i cristiani rimangono in Cristo , come Cristo rimane in loro : « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui » ( 6 , 5 6 ) ; «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete ciò che volete e vi sarà fatto» ( I 5 ,7 ) ; «Chi osserva i suoi comandamenti , rimane in lui e quegli [ dimora ] in lui » ( I Io . 3 , 24, cfr. 2 ,5 b 2 7 c . ). Inoltre i cristiani rimangono in Dio, come è detto allusivamente nel Vangelo e in modo esplicito nella prima Lettera di Giovan.

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ni : « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo presso di lui e dimoreremo in lui » ( Io. 1 4 , 2 3 , cfr . 1 7 , 2 1 , v . sopra ) ; «Dio è amore e chi rimane nel­ l'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui >> ( r Io. 4 , r 6 b, cfr. 2 , 6 . 2 4 ; 4 , 1 2 s . 1 5 ) . Ma anche se questo discorso dell'essere in Cristo e in Dio corrisponde indubbiamente al linguaggio della mistica e sembra descrivere l'essere dei cristiani in ana­ logia con il rapporto eterno di comunione fra il Padre e il Figlio ( « Credetemi, io [ sono ] nel Padre e il Padre [ è ] in me » , 1 4 , 1 I a, cfr. 1 4 , 2 0 ; r 7 ,2 I , v. sopra ), tuttavia Giovanni con queste espressioni non vuole affatto parlare di una assi­ milazione essenziale dei credenti con il Padre e il Figlio, fine cui tende invece fondamentalmente ogni mistica . Questo appare evidente se si considera che Giovanni non parla solo dell'essere o del rimanere dei cristiani in Cristo e in Dio - o dell 'essere e del rimanere di Cristo e di Dio nei cristiani -, ma può anche usare espressioni del tutto ana­ loghe per indicare l'atteggiamento dei cristiani verso la pa­ rola, l'amore, ecc. : « affinché l'amore col quale mi hai amato sia in loro e io in essi» ( I 7 , 2 6 b, cfr. 5 ,4 2 ); « Se uno gli [ al fratello bisognoso ] chiude il suo cuore, come può rimanere in lui l'amore di Dio ? » ( I Io. 3 , 1 7 b , cfr . 4 , 1 2 ) ; «Rimanete nel mio amore» (Io . 1 5 ,9 b, cfr. 1 5 , r o ; I Io. 4 , 1 6 b ) ; > . Lo s viluppo di questa me­ tafora indica dunque chiaramente che rimanere in Cristo significa conservare la fede e l'amore ; non si tratta quindi di una comunione mistica con Cristo ; il credente, piuttosto , de­ ve assumere come criterio determinante della sua azione il messaggio di Cristo . « Se rimanete in me e le mie parole ri­ mangono in voi, chiedete ciò che volete e vi sarà fatto. Ciò che glorifica il Padre mio è che voi portiate molto frutto ; e così vi dimostrerete miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi : ri1nanete nel mio amore. Se osservate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore . Voi siete miei amici , se fate ciò che vi comando>> ( r 5 ,7- r o a. r 4 ). « Essere in Cristo » significa dunque che il credente è inte­ ramente compreso dall'azione divina in Cristo . Un'ultima prova di ciò è il fatto che secondo Giovanni la conquista di altri uomini alla fede e con ciò ali'« essere in» Dio e in Cris to è un avvenimento visibile, che deve portare ad ulteriori con­ quiste alla fede : «Ti prego anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro pa rola, affinché tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te, che an­ ch'essi siano una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato » ( 1 7 , 2 0 , cfr. 1 7 ,2 3 ) . La nasci t a da Dio

Anche l'i m magine della nascita da Dio non può indicare nel pensiero di Giovanni una redenzione in termini naturali-

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stici . Nel Vangelo di Giovanni si parla in due passi della nascita da Dio : « Ha dato il potere di diventare Figli di Dio a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere della carne, ma da Dio sono nati » ( I , I 2 s . ) . Nel colloquio con Nicodemo Gesù dice : ; tuttavia già nella chiesa antica al­ cuni cristiani hanno chiaramente avvertito che non si poteva rendere in un'altra lingua con un solo termine tale vocabolo e si sono accontentati perciò di assumere nella lingua latina o siriaca il termine di Paraclito come vocabolo straniero, e anche oggi la possibilità di equivoco dovrebbe essere ridotta al minimo, qualora si assumesse direttamente il termine stra­ niero e poi se ne spiegasse chiaramente la funzione . Senza dubbio Giovanni non ha creato questa immagine, ma l 'ha assunta dal giudaismo . Infatti anche se non si è an­ cora potuto dimostrare che nel giudaismo esistesse un con­ cetto analogo, ci sono buoni motivi per supporre che in esso già si fossero combinati insieme il titolo di « soccorritore » e le due idee presenti nel giudaismo di allora riguardo al rap­ porto fra profeta e seguace e alla funzione dello Spirito di Dio come testimone e accusatore . Per Giovanni però era ancor più facile assumere questa idea dello Spirito come aiu­ tante e continuatore per descrivere l'attività dello Spirito di­ vino dopo l'ascesa di Cristo al cielo, dal momento che già la tradizione cristiana più antica aveva qualificato sia Cristo che lo Spirito come « soccorritore >> , pur senza usare il titolo di Paraclito : «Chiunque si dichiarerà per me dinanzi agli uomi­ ni, anch 'io mi dichiarerò per lui dinanzi al Padre mio » ( Mt. r o , 3 2 par . ) ; «E quando vi condurranno per consegnarvi in giudizio, non siate preoccupati prima del tempo di quel che dovrete dire, ma direte ciò che in quell'ora vi sarà dato ; poiché non sarete voi a parlare, ma lo Spirito santo» ( Mc. 1 3 , 1 I par. , cfr. anche Rom . 8 , 2 6 ) . Certamente però non a caso

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Giovanni prima dei discorsi d'addio parla solo dello Spirito e solo in seguito del Paraclito, che viene equiparato allo Spi­ rito ( la sorprendente eccezione di Io. 2 0 , 2 2 è solo una con­ ferma alla regola, cfr . sopra p . 402 ). Infatti il Paraclito rap­ presenta la continuazione dell'opera di Gesù dopo la sua morte e la sua esaltazione ed è a questa nuova situazione storico-salvifica che nei discorsi d'addio le espressioni netta­ mente al futuro riguardo al Paraclito preparano i discepoli e poi la comunità cristiana . Questo implica non solo che lo Spirito divino prosegue l'azione storica di Dio realizzatasi nella persona di Gesù e perciò ha parte a questa realtà storica dell'avvenimento della salvezza, ma anche che questa attività dello Spirito si compie nella concreta realtà della comunità cristiana . Compito infatti del Paracli to è quello di insegnare e di ri­ cordare, di attestare e di accusare , di introdurre in tutta la verità e di glorificare Cristo ( r 4 , 2 6; I 5 , 2 6 ; I 6 , 8. I 3 s . ) ; tu t­ to questo avviene non con l 'intervento di esseri soprannatu­ rali o attraverso esperienze interiori , ma per mezzo della pre­ dicazione dei discepoli . Ciò risulta chiaro anzitutto da I 5 , 2 6 : « Quando verrà il Paraclito . . . egli mi darà testimonianza. Voi stessi mi siete testimoni poiché siete con me fin dal princi­ pio » . Qui si dice chiaramente che i discepoli , i quali pos­ sono parlare di Gesù avendo aderito a lui, diffondono la te­ stimonianza che il Paraclito dà di Gesù in quanto il Paraclito stesso parla per mezzo loro . L'azione del Paraclito consiste perciò secondo Giovanni proprio nel fatto che « il Paraclito vi insegnerà tutte queste cose e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto» ( I 4 ,26 ). Ciò significa però che dove è all'opera il Paraclito , là vengono trasmesse e interpretate le parole di Gesù e l'autore del Vangelo di Giovanni concepisce il suo Vangelo come una parte di tale insegnamento del Paraclito . Dove il messaggio di Gesù Cristo è riferito nella fede, è pre­ dicato ed è fatto rivivere come parola che dà la vita , là è all'opera Gesù stesso per mezzo del Paraclito ( cfr. 2 0 , 3 I ).

410

Il messaggio cristologico di Giovanni

La comunità

Il messaggio giovanneo dell'azione dello Spirito santo co­ me Paraclito presuppone perciò la realtà della comunità di Gesù Cristo. Tuttavia si è spesso dubitato che Giovanni sia in qualche modo interessato alla comunità o alla chiesa, di cui naturalmente conosce l'esistenza . Infatti negli scritti gio­ vannei il termine « chiesa» o «comunità» ricorre solo in 3 I o . 6 . 9 s . e qui solo per designare la comunità locale . Inoltre è soltanto nella terza Lettera di Giovanni che si parla di uno che detiene una funzione direttiva nella comunità del desti­ natario della Lettera ( «Diotrefe, che è bramoso di occupare il primo posto» , 3 Io. 9 ) . E oltre a questa considerazione ter­ minologica dobbiamo fare un'osservazione ancora più essen­ ziale : « Il quarto Vangelo è uno degli scritti più fortemente individualistici del Nuovo Testamento e 'la speranza nel fu­ turo, mutata in una visione del presente' , tratto così tipico di questo Vangelo, costituisce il risultato di questo indivi­ dualismo » ( C .F.D. Moule ). Tenuto conto del genere lette­ rario del Vangelo, che è appunto un « vangelo», non ha mol-· ta importanza se qui manca il nome di «chiesa» - lo stesso accade anche per Marco e Luca - che potrebbe essere pre­ sente solo in quanto proiezione del presente nel passato . È vero che neppure la prima Lettera di Giovanni parla di «chie­ sa » , tuttavia essa presuppone chiaramente il contrasto fra la chiesa e gli eretici staccati da essa: gli anticristi « sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri ; se infatti fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi . Bisognava infatti che si chiarisse che essi non sono dei nostri » ( 2 , r 9 ). Così pure egli contrappone la comunità cristiana al mondo : Cristo « è espiazione per i nostri peccati e non soltanto per i no­ stri , ma anche per quelli di tutto il mondo » ( 2 , 2 ) ; «Non me­ ravigliatevi, fratelli , se il mondo vi odia ; noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita poiché amiamo i fratelli » ( 3 , 1 3 s . ) . È certamente vero che la predicazione di Giovanni

La salvezza e la via alla salvezza

4I I

con il suo invito alla fede e con la sua confessione di fede nel­ la vita eterna a noi donata si rivolge in primo luogo agli in­ dividui ( cfr. per es. Io. 3 , I 8 ; 5 ,2 4 ) . Ma anche qui il contra­ sto con il mondo dimostra che Giovanni concepisce i disce­ poli come una unità : > ( r o , r 6 ), che a scoltano il buon pastore, sono i discepoli giudei di Gesù . Ma se questo legame della comunità cristiana con la storia del popolo giudaico realizzata da Dio non è molto sottoli nea to , è forte però l'insistenza di Giovanni nell'affermare che la comun i tà è fondata sulla morte e sulla risurrezione di Gesù e che l'effetto di questa morte e di questa risurrezione si estende al di là dei confini di Israele per abbracciare tutti i popoli : « Il buon pastore dà la sua vita per le pecore . . . Io sono il buon pastore e conosco le mie pecore e le mie peco­ re conoscono me . . E ho altre pecore che non sono di questo ovile ; anche quelle devo condurre e ascolteranno la mia voce e ci sarà un solo gregge e un solo pastore » ( r o , r r b. r 4 . r 6 ) ; Caifa « profetò che Gesù doveva morire per la nazione e non soltanto per la nazione, -m a affinché raccogliesse in unità i figli di Dio dispersi » ( r r ,5 r b .5 2 ) ; « Qu an do sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» ( 1 2 , 3 2 ) . In questo contesto ap­ pare evidente che per Giovanni l 'opera dello Spirito santo paraclito presuppone di fatto l'esistenza e l'attività della co­ munità cristiana : la testimonia nza della comunità, ispirata dal Paraclito , fa sì che il messaggio di Gesù Cristo continui e così la comunità si estenda : « Quando verrà il Paraclito . . . egli mi darà testimonianza. Voi stessi mi siete testimoni, poi­ ché siete con me dal principio» ( 1 5 , 2 6 s . ) ; «Non prego per questi soltanto, [ cioè per i discepoli giudei del Gesù terre­

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La sal vezza e la via alla salvezza

no ] , ma anche per coloro che crederanno in me per mezzo della loro parola, affinché tutti siano una cosa sola, come tu Padre [ sei ] in me ed io [ sono ] in te, affinché anch'essi siano in noi, e il mondo creda che tu mi hai mandato >> ( I 7 , 2 I s . ). Così per Giovanni l'azione dello Spirito come la realtà della chiesa sono collegate alla rivelazione storica di Dio in Gesù Cristo e «fra l 'ora dei discorsi d'addio e il giudizio fi­ nale intercorre il tempo della chiesa, in cui Gesù . . . è pre­ sente nella sua parola, che viene tramandata di generazione in generazione» (H. Van den Bussche ). Abbiamo rilevato in continuità che il messaggio giovan­ neo vede e presenta l'attività e la predicazione di Gesù Cristo partendo coscientemente e coerentemente dalla fede che ave­ va la comunità tardiva del cristianesimo primitivo nella mis­ sione e nella elevazione al cielo di Gesù da parte di Dio . Ma abbiamo pure constatato che tale fede, sublimando la realtà umana di Gesù, ha comportato a volte il pericolo di annulla­ re questa realtà umana; pericolo che Giovanni ha affrontato con grande lucidità riportando continuamente l'attenzione sulla umanità di Gesù. È pure apparso evidente che Giovan­ ni, nonostante il suo linguaggio e la sua mentalità ellenistica e nonostante l'attenuars i dell'attesa escatologica, congiunge strettamente non solo la persona di Gesù, ma anche la sua sal­ vezza, all 'azione storica di Dio in Cristo e proclama così che in essa si è realizzato l'avvenimento escatologico della salvez­ za. Se perciò a buon diritto la presentazione di una « teologia del Nuovo Testamento secondo i suoi testimoni principali » si chiude come un cerchio con l'esposizione del messaggio cristologico giovanneo in quanto «compimento della testimo­ nianza su Cristo del Nuovo Testamento » , ci rimane tuttavia da ultimo il compito di chiederci che cosa il messaggio di questi tre testimoni principali abbia in comune . .

CONCLUSIONE GESù - PAOLO - GIOVANNI : IL CENTRO DEL NUOVO TESTAMENTO

I.

Il «centro del Nuovo Testamento»

L'esposizione della predicazione di Gesù, della teologia di Paolo sullo sfondo della comunità primitiva e del messag­ gio cris t ologico degli scritti giovannei , offerta in questo vo­ lume, ha confermato il presupposto ( v . sopra p. r 4 ) che bi­ sogna anzitutto ascoltare quello che dicono i singoli scritti o gruppi di scritti del Nuovo Testamento ; in essi infatti par­ lano voci diverse, che non possono essere armonizzate fin dall'inizio . In conclusione ci chiediamo se nonostante la di­ versità di queste voci si può stabilire fra di esse una comu­ nanza ; tale domanda è inevitabile già per il fatto che noi sia­ mo partiti dal presupposto che le tre forme di predicazione qui esposte offrano un quadro esauriente della predicazione centrale del Nuovo Testamento (v. sopra p. 1 5 ). Questa do­ manda è indispensabile però soprattutto perché noi , in quan­ to cristiani, ci accostiamo al Nuovo Testamento non come a un qualsiasi documento storico del passato, ma nella con­ vinzione più o meno chiara di udire in esso l'annuncio della rivelazione di Dio in Gesù Cristo ; è essenziale quindi che ci chiediamo quale sia il messaggio d el Nuovo Testamento e che ne ricerchiamo l 'unità nella diversità Infatti se è innega­ bile, come è stato mostrato ancora una volta in questo volu­ me, che anche i testimoni principali del Nuovo Testamento non appaiono in accordo immediato tra loro, tuttavia non si potrebbe parlare di un messaggio del Nuovo Testamento se questi esponenti non presentassero nei punti e s senziali lo stesso messaggio e se il cristiano, nonostante tutte le diffe.

Conclusione

renze, non potesse recepire dalla molteplicità dei testimoni un unico messaggio essenziale . La questione che ci poniamo in conclusione riguardo a quel che ci può essere in comune nel messaggio dei tre testimoni principali del Nuovo Testa­ mento emerge quindi non dall'analisi della predicazione di essi, i quali non stanno in diretto rapporto l'uno con l 'altro, ma dalla consapevolezza che tutti appartengono al canone del Nuovo Testamento. Il Nuovo Testamento è una raccolta di scritti cristiani del periodo apostolico, formatasi nella chiesa antica in seguito alla separazione da altri e alla delimitazione fissata dall'auto­ rità della chiesa ; questa infatti ha sostenuto e sostiene che in tale raccolta sono contenuti tutti gli scritti che attestano autenticamente quello che Dio ha operato nella vita e nel­ l'azione, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo e nel­ la fondazione della chiesa per opera del suo Spirito . Si era sempre dato come ovvio che tutti questi scritti annunciassero sostanzialmente le stesse cose, finché dapprima M . Lutero e poi, a partire dalla seconda metà del secolo diciottesimo, la critica storica e teologica si convinsero che gli scritti del Nuovo Testamento non dicevano proprio le stesse cose, ma anzi in parte si contraddicevano chiaramente ( v . sopra p. r 3 ) . Se il Nuovo Testamento quindi non costituisce una unità, i suoi scritti tuttavia sono normativi per la fede del cristiano, sicché è necessario chiedersi quale sia il « centro del Nuovo Testamento» , in base al quale poter giudicare i singoli scritti o anche i singoli insegnamenti . Come è noto, Lutero nella sua prefazione alla traduzione del Nuovo Testamento del I 5 2 2 chiamò questo «nucleo » la « vera pietra di paragone, in base alla quale bisogna esaminare tutti i libri per vedere se trattano realmente di Cristo o no » e designò come « compito di un vero apostolo quello di predicare la passione, la risur­ rezione e il ministero di Cristo » . Anche se questa scoperta del posto del « vangelo» nel Nuovo Testamento da parte di Lutero deve costituire per noi un orientamento, tuttavia la

Il e il Cristo elevato fa sì che i suoi abbiano parte a questa salvezza per mezzo dello Spirito . E anche per Giovan­ ni la salvezza è per ora imperfetta ; anche secondo lui perciò il credente attende che il principe di questo mondo sia defi­ nitivamente estromesso . Poiché la salvezza è legata all'uomo Gesù e quindi all 'azione divina nella storia, anche in Giovan­ ni il credente sa di trovarsi nel tempo intermedio fra la ri­ surrezione di Gesù e la venuta escatologica del Signore glo­ rificato e in tale fede ha parte alla salvezza escatologica , iniziata i n Gesù Cristo, m a non ancora giunta al suo compi­ mento . Il messaggio cristologico giovanneo in tutti i suoi tratti essenziali non è direttamente influenzato dalla predicazione · di Gesù e tanto meno esso rappresenta uno sviluppo della teologia paolina . Tuttavia queste tre forme principali della predicazione neotestamentaria segnano una linea di evoluzio­ ne per un aspetto essenziale, cioè per la fede nell'azione esca­ tologico-salvifìca divina in Gesù . Gesù , Paolo e Giovanni predicano non semplicemente che il presente è tempo di sal­ vezza, ma fondano questa fede sul fatto che il salvatore esca­ tologico già appare o è apparso e opera o ha operato la sal­ vezza e che questo salvatore Gesù comparirà in futuro in tut­ ta la sua gloria. Ciò significa che questi tre testimoni princi­ pali hanno la stessa consapevolezza della ( prossima ) venuta del tempo salvifico-escatologico e della presenza di questa escatologia nell'uomo Gesù e nel risorto . Questa fede però ha subìto uno spostamento : se per Gesù questa presenza del­ la salvezza era reale solo nella sua persona , Paolo - in corri­ spondenza con l'esperienza della comunità primitiva - vede la presenza della salvezza escatologica anche nella esistenza

Conclusione

424

della comunità come corpo di Cristo e nel dono dello Spirito conferito ai singoli cristiani ; Giovanni sottolinea sostanzial­ mente, ancor più di Paolo , la presenza della vita eterna e de­ scrive soprattutto l'esistenza dei- singoli cristiani, senza di­ menticare però la comunità . A questa crescente accentuazio­ ne della fede nella presenza della salvezza corrisponde l'atte­ nuarsi dell'attesa escatologica : Paolo conta ancora di assiste­ re, mentre è in vita, alla venuta del signore celeste, ma ritie­ ne anche possibile una separazione dal Signore a causa della morte pritna della parusia, sicché nella Lettera ai Filippesi egli può oscillare nel dubbio se desiderare la morte o la visione della parusia durante la sua vita . Nel Vangelo di Giovanni non si parla più con chiarezza della prossimità del tempo escatologico I Io. 2 , 1 8 « è l'ultima ora» ripropone però questo tema -, benché non si estingua l'attesa della salvezza escatologica fu tura . Se dunque in questi testimoni principali della teologia del Nuovo Testamento si mette sempre più in risalto la presenza della salvezza e si attenua l'attesa di una prossima fìne, que­ sto indica che già i testimoni del tempo apostolico hanno av­ vertito la problematica dell'attesa della fine prossima. Non bisogna tuttavia dimenticare che la connessione tra fede nella salvezza divina divenuta presente nella missione di Gesù e · attesa del compimento salvifìco alla venuta di Gesù Cristo nella gloria è un elemento costitutivo per questi tre testimo­ ni principali del Nuovo Testamento. Infatti in tutti questi testimoni l'esperienza del presente come tempo della salvez­ za è condizionata dalla fede nell'azione escatologica di Dio in Gesù Cristo e perciò è legata sia alla venuta storica di Ge­ sù, sia all'attesa del compimento salvifico futuro . E poiché la consapevolezza della presenza della salvezza è condizionata dalla fede nell'azione escatologica di Dio in Gesù Cristo , essa è inscindibile dalla speranza nel compimento della salvezza per mezzo del salvatore escatologico . -

La misericordia di Dio

3 . La misericordia di Dio

Questo è ovviamente solo un aspetto della verità. Infatti la fede comune ai testimoni principali della predicazione neotestamentaria, secondo cui il tempo salvifico di Dio è ini­ ziato in Gesù Cristo e giungerà a compimento per mezzo di lui , sarebbe una vuota speculazione se non sfociasse in una affermazione molto chiara riguardo alla salvezza che si realiz­ za in questa azione escatologica di Dio . A una osservazione più attenta si nota che la fede nella presenza della salvezza, attesa per il futuro , fa da cornice al messaggio della miseri­ cordia di Dio in Gesù Cristo. Gesù non solo predica il venturo regno di Dio e non solo promette ai peccatori il perdono di Dio , ma mette in atto il regno di Dio vincendo i demoni e venendo in aiuto ai malati, soprattutto prendendo con sé quanti sono disprezzati e pec­ catori e attuando al presente la volontà salvifica escatologica di Dio col conferire il perdono di Dio . Così in Gesù l'amore di Dio Padre si avvicina agli uomini, ma non perché ad essi venga incontro un uomo amorevole che suscita la loro rispo­ sta d'amore o gratitudine. Piuttosto, in Gesù, secondo quatl­ to egli sostiene in forma velata, si presenta ai Giudei del suo tempo l' «uomo » atteso per il tempo finale , ma non nella sua gloria, bensì come uomo, che nonostante l 'autorità a lui con­ ferita, si piega alla volontà di Dio e va obbediente alla morte portando così a compimento la sua missione . Nell'abbandono di Gesù ai peccatori giunge a perfezione l 'an1ore di Dio , si attua in modo definitivo l 'inizio del regno di Dio ; questi , come un Padre, cerca i suoi figli proprio quando sembrano perduti . Ciò significa che in Gesù diviene presente il futuro regno di Dio per il fatto che in lui, l' «uomo >> del tempo esca­ tologico, Dio si abbassa e opera egli stesso la salvezza . La comunità primitiva fondandosi sulla fede nella risurre­ zione del crocifisso e sull'esperienza del dono dello Spirito ha ulteriormente sviluppato le prerogative che Gesù si era

Conclusione

attribuito giungendo ad affermare che il salvatore promesso del tempo finale governa già ora, come Signore celeste, la sua comunità escatologica ; in essa si trovano riuniti quelli che credono al Signore già operante al presente e sperimentano insieme la realtà della salvezza escatologica loro promessa. L'esperienza della risurrezione del crocifisso e la confessione di fede in Gesù, Figlio di Dio, sgorgata da essa, portarono la comunità primitiva a intendere in modo nuovo la morte di Gesù : Gesù morì « per i nostri peccati » , Dio per mezzo della morte di Gesù ha cancellato il peccato dell'umanità. In que­ sto modo la morte di Gesù è intesa come il compimento del­ la misericordia di Dio, dell'offerta divina di perdono, e quin­ di proprio come parte decisiva dell'avvenimento salvifico escatologico . Ciò significa che la confessione di fede della comunità primitiva nella salvezza escatologica, iniziata in Gesù Cristo, vuole in fondo rendere testimonianza all'amore di Dio che ci viene incontro in Gesù e accoglie in sé chi ha fede . Questa interpretazione della morte di Gesù data dalla co­ munità primitiva è il presupposto del pensiero teologico di Paolo. Paolo intende il presente come unione di tempo salvi­ fico e di speranza nel compimento della salvezza e fonda que­ sta unione sull'azione salvifica di Dio nella persona storica di Gesù Cristo ; e descrive questa azione di salvezza come li­ berazione dei credenti dalle potenze di questo mondo e so­ prattutto come liberazione dalla colpa e dal peccato per l'azio­ ne di giustificazione e di riconciliazione di Dio in Gesù Cri­ sto. Dal momento che Cristo « si è abbassato » e Dio ha « sa­ crificato per noi tutti » il suo Figlio, i credenti sono liberati dalla colpa, Dio si è riconciliato con noi e ci ha reso una «nuo­ va creazione » , anche se tutto questo attende ancora il compi­ mento escatologico . Anche qui è la misericordia di Dio verso l'uomo peccatore e senza scampo nel mondo che arreca la salvezza presente e futura ; a questo riguardo Paolo insiste in modo particolare sulla morte di Gesù come avvenimento di

La misericordia di Dio

espiazione operato da Dio e come sacrificio del Figlio di Dio a causa dei peccati. Tuttavia non bisogna accentuare troppo in Paolo il concetto della morte espiatoria , giacché egli può dire anche in altro modo che Dio in Gesù Cristo si è abbas­ sato fino all'estremo per salvare noi uomini . È comunque evi­ dente che anche per Paolo il messaggio della presenza e del­ l'attesa della salvezza escatologica fa da cornice al lieto mes­ saggio della misericordia divina che in Gesù Cristo si rivolge all 'uomo peccatore, e quindi al messaggio dell'amore di Dio verso gli uomini, che tende a renderei uomini capaci di amare . Se la predicazione di salvezza di Paolo rappresenta uno sviluppo diretto del messaggio di Gesù e della comunità pri­ mitiva , non altrettanto si può dire per il messaggio cristolo­ gico giovanneo . Giovanni descrive la figura e il messaggio di Gesù partendo dalla fede della comunità di un periodo po­ steriore e la sua interpretazione di Gesù Cristo come Figlio eterno di Dio incarnato porta la predicazione cristologica pao­ lina fino al punto in cui l 'unità della persona e della parola di Gesù con la volontà salvifica di Dio è espressa in modo in­ superabile , ma dove anche viene raggiunto il limite che non si può valicare senza pregiudicare l'umanità stessa di Gesù . ·se quindi la fede nella realizzazione della volontà salvifica escatologica di Dio nella persona dell 'uomo Gesù trova in Giovanni la sua massima espressione , in lui tuttavia passa in secondo piano, pur senza scomparire, il significato della morte di Gesù riguardo all 'avvenimento della salvezza . Anche in . G iovanni comunque il discorso della misericordia di Dio è centrale . Infatti la liberazione dei credenti dal potere del mondo e la promessa di una vita con Dio e con Cristo è la conseguenza dell'amore di Dio che ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo unigenito Figlio e da concedere ai credenti il potere di diventare suoi figli . Se quindi il pensie­ ro dell'annullamento della colpa del peccato per mezzo della · morte di Gesù non gioca in Giovanni un ruolo così impor­ tante come in Paolo e sotto questo aspetto la predicazione

Conclusione

di Giovanni riguardo alla salvezza non rappresenta uno svi­ luppo lineare della teologia paolina, anche per Giovanni tut­ tavia il messaggio essenziale è che Dio nell'avvenimento esca­ tologico di Cristo viene incontro agli uomini perduti nel mondo, per liberarli da esso e accoglierli nel suo amore così da renderli anch 'essi capaci di amare. 4 · Il

messaggio dei testimoni principali

I tre testimoni principali della teologia del Nuovo Testa­ mento, nonostante il grado diverso di sviluppo concettuale che si riscontra in essi, concordano nell'annunciare che Dio ha fatto iniziare in Gesù Cristo la salvezza promessa per la fine del mondo ; che Dio in questo avvenimento di Cristo ci è venuto incontro e ci vuoi incontrare come il Padre che in­ tende liberarci dalla schiavitù del mondo e renderei capaci di un amore fattivo . Se questo « centro del Nuovo Testamen­ to » sia verità divina, che si rivolge a noi senza condizioni , e non fantasia umana, sulla quale passar sopra incuranti, non può più essere stabilito dallo storico . Chi però crede che Dio in Gesù Cristo ci viene incontro per salvarci , trarrà dalla vi­ sione d'insieme dei testimoni principali del Nuovo Testa­ mento due insegname11ti. Benché non possiamo condividere l'attesa del prossimo compimento salvifico, con Gesù e Paolo, la nostra fede tutta­ via può abbracciare realmente il messaggio di salvezza del NuoT.To Testamento solo se prende sul serio la venuta di Ge­ sù come azione escatologica di Dio , di modo che il nostro presente venga determinato sia dal passato irrepetibile di questa azione di Dio , sia dalla speranza nel futuro compi­ mento di questa azione. Anche se i testimoni principali del Nuovo Testamento non concordano del tutto nell 'interpretazione della persona e della morte di Gesù, tuttavia in essi risuona l'unico mes­ saggio comune secondo cui Dio, signore del mondo, è venuto

Il messaggio dei testimoni principa lt

a noi in Gesù . Ques ta venuta però può diventare per noi realtà personale solo se ci lasciamo prendere dall'amore di Dio venuto a noi in Gesù Cristo, cosl da diventare uomini nuovi che fanno risplendere la loro luce davanti agli uo­ mini , « affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli » (M t. 5 , r 6 ) Il concetto fon­ damentale comune ai testimoni principali della teologia del Nuovo Testamento è stato perciò classicamente sintetizzato dalla Lettera agli Ebrei nel modo seguente : « Gesù Cristo [ è ] lo stesso ieri, oggi e in eterno » ( I 3 , 8 ) .

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INDICE ANALITICO

'abba, 44 , 90 , abluzioni , 30 Abramo, 29, r 8.5 ss ., 230, 248, 2.56 acqua, 399 s. Adamo, r 84 s., 1 9 .5 s., 204, 227, 2 3 3 alleanza, 2 50 s. , 3 2 1 ; nuova, 57, r r 2 , 1 I 5 , r 6o, r66, 324 allegoria, 9 r amtco, 4 1 1 amore, di Dio, ;6, 6 3 ss., 58, r r 6 , 2 1 1 , 24.5, 253 s . , 348, 3 76, 385 , 3 95, 426428 ; per Dio, 64, 381 , 3 86, 390, 395 ; per il prossimo, 59, 62-65 , 390 s . , 398 angelo, 1 2 1 s . , 234, 3 02, 353, 3 .5 6 Antico Testamento, 28, 57, 73, 9 3 , ro6 , 1 36, 1 3 9 , 144 S . , I jO , 185, 2 1 2 , 2 3 1 , 2_50, 270, 334, 340, 345, 3.57, 366, 369, 39 1 , 422 Anticristo, 344, 3 5 2 Antiochia, 1 5 7 s. antinomia, 290, 297 antitesi, 6o, 64, 340 anziani, r 66 apocalisse, 29, Bo, 93 , 1 82 Apocalisse di Enoch, 8 r , 9 3 Apocalisse di Esdra, 94 Apocalisse di Giovanni, 1 7 1 s . , 329, 334 apocalittico, 1 82, 1 97, 25 1 , 301 s . , 326, 357, 420 apocrifi, 8 o Apostolo, 24, 1 1 9 , 166-170, 1 76, 191, 416 apparizione, 1 1 8 , 1 24, 1 2 7 aramaico, 92, 9 9 , 1 14, 1 19, 1 29, 1 371 4 1 , 1 5 8 , I 6 r , 199, 344 ascoltare, 3 5 I

assoluzione, 247 attesa della fine, 34 s . , 39, 49, 55 , 79,

I O I , 103, 142, 17�180, 193, 237, 3 01 3 1 7 , 352, 425, 428 Atti degli Apostoli, 1 2 8 autorità, 5 1 , 62, 320, 323 azione salvifica, 40, 52, 57, 6 r , 77 , 79, I O I S ., 185 S . , 2 14, 218, 240, 249, 253, 258 s ., 27 1 , 275 , 280, 289, 29 1 , 295 ss . , 3 1 8 , 222 - 224, 3.53 , 370, 389, 394, 398, 400, 4 1 3 , 422, 426 Barnaba, r68

battesimo, d i Gesù, 3 3 , 89, 136, 1 .5 3 , 3 3 3 , 3 3 8 ; d i Giovanni, 3 0 s . , 34; del cristiano, 1 6 3 , 2 1 3 , 264 s ., 268, 272279 , 3 1 7, 324, 398-401 ; per immer­

sione, 29

battezzatori, 31

bontà, 67 Buber M., 3 1 4 buona novella, 3 9 s ., 4 2 , 5 5 , 6 8 , Bo, 1 9 I , 427 �anone, r 2 , I 7 3 , 416, 4 1 8 Capo del corpo, 27 1 , 32 5 carne, 1 20, 220-226, 229, 242, 246, 279, 28 1 , 290 s ., 340, 349, 360, 40 I , 42 I cena, 36, r r o-r I 6 ; ultima, 142, 339 cena del Signore, 138, 282-287, 3 1 8 , 324, 398-402 centro del N.T., I 7 3 , 4 1 5-41 8 , 428 chiesa, 1 56, r 6o, 170, 176, 270, 3 1 8 , 325, 410, 4 1 6 ; antica, 1 2 ; primitiva, IlO cielo, 3 9 , 7 9 , 203 , 2 3 1 , 302 , 323 , 340,

In dice analitico

.4 3 2 35 1 , 3.55 s ., 383, 401 circoncisione, 1 .5 7 s. Oemente di Aless andri a , 338 colpa, 46, 144, I85, 228, 244, 254, 262 , 383 s . , 427 comandamento, j i , .57-60, 2 3 3 , 29 1 , 390 compimento, 380, 422 , 428 compimen to finale, 55 s ., 301 comunione, I 14, 283, 303, 320, 324, 369, 3 96, 426 ; di mens a , .50, 1.57 comunità, 1 .5 , 4 1 s., 1 1 6 , 1 30, 144, 147· 1 5 7 , 1 6o-16.5, 169 s., 268, 280, 284, 3 1 0 , 317, 3 3 1 , 342, 356, 398, 400, 403 , 407 ·4 1 3 , 4 I 7 , 420, 423 s . , 426 ; particolare, 42 ; salvifica, 4 1 comunità primitiva 4 2 , 92, 104, 1 1 81 2o, I25-147, 1 5 .5 , 1 ,8, 162-172, 192, 1 94 s., 2 1 3, 270, 3 14, 318, 381, 418, 421 ; ellenistica, 172 concilio degli apos to li , 1 5 7 , 1 67 conoscere, 392 s., 398 consolatore, 407 conversione, 29 s ., 34, 47 s ., .52 , 66, 7.5 , 7 8 , I 8 8 , 320, 4 1 9 ; battesimo di, 28 corpo , celeste, 297, 303 s . ; spirituale, 1 20, 196, 304 ; terreno, 196, 222, 267, 297, 323, 385, 42 I corpo di Cristo, 1 14, 264-27 1 , 276, 28o2 8 .5 , 289 , 309, 324, 424 cosmo, 182, 200, 2 19 creazione , 149, I86, 206, 2 1 5 , 2 1 9-22 1 , 2 2 3 , 2 7 I , 34 I , 3 6 1 ; nuova, 28o; ordi­ namento della, 46 cristianesimo, 24 ; ellenistico, 90, 1 3 7 , 1 4 4 , 147- I5.5 , 1 9 3 , 1 98, 2 1 .5, 2 1 7 , 2 6 6 s., 2 7 3 , 3 2 4 , 3 5 2 ; primitivo, 27 Cristo (v . Gesù Cristo), predicato, 24; per, 204 ; in, 264, 274, 278-282, 3 1 2 , 3 9 4 s . ; con , 1 80, 2 I 4 , 272, 295 , 302· 306, 309 ; immagine d i, 2 3 , 198, 285 ; salmo di, 1 9 I , 207 ; test imoni anz a di, 406 cristologia, 322-326, 340 croce, 104, 178, I92, 2 1 3 , 239 -243, 2.5.5, 26I s., 266, 42 1 ; iscrizione sulla, 86 crocifissione, 86 cura, 45, 49, 76 ,

Daniele, 93 s.

data, 3 6 decisione, 79 demitologizzazione, 2 r 6 demonio, 37, 49, 7 I s ., 7.5, 89, I ,5 1 , r 82, 2 I 9, 222, 238 -242, 283, 325, 352, 371, 3 74, 419, 425 Deuteroisaia, I 34 Diciotto Benedizioni, 81 Dio, 29, 3 ' s . , 48, 77, 150, I98, 207 s. , 37.5 s . ; attribu ti di, 4 3 ; concetto d i, 43 s., 3 1 8 ; conoscenza di, 224; fe­ deltà di, 250 s . ; giustizia di, r 8 r , 18;, 248-252, 2.56, 259, 297 ; i mmagi n e di, 206 s . , 323 ; realtà di, 368 ; uguaglian­ za a, 1 9 1 Dio d i Israele, 64 discepoli, 40 s., ;o, 59, I 1 7, 124, 140, I 43 , 406 , 409 , 4 I I discepolo prediletto, 33.5 discorsi d'addio, 404, 407 discorso della montagna, 56, 62, 140 divinizzazione, 286 dodici, I I 9, 1 26, r;;, r 6o, r 66 s ., 333, 338 dogmatica, 9 s . dono salvifico, 5 2 , 6 5 , 2 6 3 s . dualismo, r ; o , 223, 225 , 2 3 6 , 340 ecclesia, 1 6 1 elezione, 298 s. , 346 eone, 1 8 2 s . , 1 87 s., 20 1 , 2 1 9, 238, 244 s ., 246, 259, 289, 290, 309, 42 1 epifania, 1 5 3 Epistula apostolorum, 240 esaltazione , I2 8, 137, I 42 , 1 6 1 , I 9 3 , 209 , 2 I 6 s., 3 1 7 , 323, 3 .5 5 s . , 367, 378, 382, 406, 408, 412 escatologia, 1 8 I esegesi, 1 2 esempio, , 6, 65 esorcismi, ;o, 77 esortazione, 287 s ., 292 espiazione, I I j , 146, 2.54 s ., 384, 427; mezzo d i, 2.54, 3 2 1 esseni, 1 59 etica interinale, 55 s.

Indice analitico etno-cristiani, 1 28 , I47, 1 5 3 , I)], I ]o1]2, I 9 5

evento salvifico, 40, 57, 6 8 , 7 .5 s., IO I , 237, 269, 280, 2 8 1 , 324 , 373, 384, 393, 404 , 409, 4 I 1 s., 427 s.

farisei, 58 s . , 84 s., I 5 9 s., I75, I89, 249 fede, I 2 , 24 S . , ] I , 75, 77, I OI , I03,

1 18-I30, I33, 1 3 8 , I44 , 178, 1 82 , I B6· I 90, 2 1 3 , 234, 240, 248 SS. , 2 56-260, 263 , 266, 2]5-278, 28r , 28j, 289, 297 S ., 30I , 3 1 5 , 322-324, 342 S ., 3.5 1 , 353, 356, 362, 375 s., 3 8 1 , 38.5-393, 395398, 401-404, 4 1 3 , 4 1 6 , 421 s., 427 s . ; obbedienza della, r 9 I figli di Dio, 278 , 300 figlio, 79, 90 s ., 340, 345 - 3.53, 385 , 390, 41 r (v. anche Figlio di Dio; Figlio

dell'uomo) Figlio dell'uomo, 36, 37, 79 - 8 I , 83 , 85, 96 s . , 1 02, 1 07 s . , 1 30 s., 195 s., 323, 355 - 357, 365, 41 9 figlio di Davide, 8 1 , 87 s., I 3 5 , I 9 I Figlio di Dio, 68, 83, 88-92, I 35-I3],

148- I jO, I 52·Ij4, I90 S ., 202-20B, 2 I 3-2 1 8 , 2 2 I , 255, 300, 338, 345, 3.52-35 5 , 399, 403 , 422, 427 s. filiazione divina, 66, 90, 2 1 3 , 3 3 8, 365 , 386, 397 fonte dei discorsi ( Q ), 22, 39, 73, 96, ro 8 , 142 formule di reciprocità, 350 fratello del Signore, 167, 169, 20 2 frutto, 294 fuoco, 3 2 ; giudizio del, 32 futuro, 4 1 8 s . ; attesa del, 182

Galilea, I r 8 , 12I, I 24, I 5 .5 s ., 344 Geremia, I 1 5 Gerusalemme, 4 3 , 1.29, 1.5.5-1 5 8 , I69 s . Gerolamo, 45 Getzemani, r o8, 1 1 0, 333 , 339 Gesù Cristo, 14 s., Bo ss., I04 , I 53 s ., 1 84, I 94 s., 344, 373 Gesù, storico, 22 - 25 ; persona, 43 ; azio. ni di, 69-75 ; immagine di, 2 3 , 300 Giacomo, I 26, 1 .5 6 , 1 66-I 69

43 3 gioia, 40, 47, 3Bo ; annuncio di, 3 2 , B r ; tempo della, I 05 Giordano, 30 giorno, 237 Giovanni apostolo, I 69, 329, 334 ; disce­ poli di, I O ) Giovanni Battista, 27-33 , 39, 69, 78, 89, 98, 330, 359, 362 s.; discepoli rli , 163

Giuda Iscariota, 1 I 7 giudaismo, Bo, 90 s., 99, I O], 1 4 1 , 1 5 7 , I65, r 66, 2 0 6 , 249 s., 2 6 I , 3 1 3 , 3 1 4 , 3 1 6, 3 5 7 , 408, 4 2 0 ; ellenistico, I jO,

I , I , 17.5, I 9 3 , I97, 3 1 6 , 340, J 6I , 3 97; eterodosso, 341 , 3.52 ; palestine­ se, 45, I ] ) , 340 Giudei, 29, 230 giudeo della diaspora, 1 7.5 giudeo-cristiani, 1 5 8 , r 7o; ellenisti, I .5 3 , 1 .5 8 s. giudice, 3 2 , 4 3 s., 49 , 5 2 , 67 , 94, 4 1 9 giudizio, 28, 3 4 , 37, 4 3 , 4 6 s ., 55 , 77, 79, 94, 1 00, 284, 286, 294, S. , J I I , 3 1 8 , 346, 3 .56 , 377; fin ale, J O, 3 1 , 178, 253, 4 2 2 ; giorno del, 34, 43 ; se­ condo le opere, 292 s., 297 Giuseppe, 28, 5 8 giusti, 47 giustificazione, 178, 247-2.5 1 , 253 s ., 260263 , 26 6, 271 , 277 ' 293, 297 ' 324 · giustizia, 8 1 , 23 1 , 25 2, 264, 290, 308, 320 s . gloria, 56, 207 glorificazione, 349, 408 glossolalia, 1 6 3 , 278 gnosi, 1 50, 240 , 34 1 , 3.52, 3 66 , 370, 3 73 , 399; giudaica, 362 grazia, I 7 8 , I 89, 23.5, 250, 258, 297, 30 1 , 363 gregge, 412 guarigione, 70 ·

imitazione, di Cristo, 210; di Dio, 56 immortalità, 303 imperativo, 279, 287 s., 290 s . incarnazione, 2 1 8 , 3 22, 359, 363 incredulità, 75

Indice analitico

43 4

indicativo, 287 s., 291 indurire, 298 inferno, 38 inimicizia, 260 inviato, 9 I , I49 s ., 1 ..5..5 , 193, 346 «io sono», 357, 365 ira, 247, 253 , 262 s ., 3 12, 31 9 Isaia, 6 9 , I04, I45 Israele, 36, I 87, 298, 370, 4 I 2 istituzione, parole di, I 6 j , 399 kyrios, I98, 354

legge , 58 S . , 66, I58 s., 1 8 I , I 85-188, 224 s . , 231 - 235, 242 -244 , 249, 252, 274, 289, 29 1 , 3 I 9 s ., 36 3 ; opere della, 235, 242, 250, 292 Lettera agli Ebrei, Io, I 5 I , I72 Lettera agli Efesini , I .5 r , I 7 2 , I 76 Lettera ai Filippesi, 30.5, 3 1 0 Lettera ai Galati, I 76 Lettera ai Romani, 1 76 Lettera ai Tessalonicesi, I76 Lettera ai Colossesi, I 76 Lettera di Giacomo, ro, 172 Lettere ai Corinti, 176 Lettere cattoliche, I 7 I Lettere di Giovanni, 1 5 , 172, 329, 3.5.5 ; . prima, 330, 334, 337; seconda e ter­ za, 330, 334 Lettere di Paolo, ro Lettere di Pietro, prima, 1 7 1 ; seconda, 172 Lettere pastorali, 1 72 , 1 76 libertà, 2 1 2 , 242 s., 290, 340, 389 luce, 38, 1 50, 340, 360 s . , 366 s. Lutero, Io, 1 3 , 1 78, 240 , 25 I , 416 male, 24 I s. maledizione, 24 3 mandei , 34I marana' ta' ' 1 38 s., I 99 Marco , 44 Maria, I35 menzogna, 340 merito, 66 messaggio, 396, 402 s., 409, 412, 416 Messia, 79-83 , 88 s., I 3 I-I39, 162, 344,

·

386; conoscenza del, 82 ; sofferente, 10 7 miracoli, 70, 74 s., 343, 387; racconti di, 7o; azioni miracolose, r .53 misericordia, 298, 3 1 3 , 425-428 missione, 1 09, 1 29, 148, r68, 1 7 1 , 173, 1 90, 202, 238, 3 16, 33 1 , 340, 349· 3 5 2 , 3 84, 394, 398 s ., 403 , 4 1 3 , 4 2 I , 4 2 2 , 425 misteri, 273 mistero, r 8 I mistica, 28 1 , 285 s . , 3 50 , 394, 398 mito, I 97 s ., 2 1 5 s . , 240, 323, 342, 35 1 , 357 ' 3 6 1-364 mondo, 149, I82, I92, 200 s ., 2 I 9 s., 226-229, 235, 242·245, 296, 225, 3.51 s., 362, 366, 37I-376, 380, 382 s . , 388, 406 s., 4 1 0 , 422 s . , 426 ; elemen­ ti del, 1 82 , 220, 238, 242 ; fine del, 237, 420; giudici del, 94, 140, 346; giudizio del, 3.5, 3.52 ; potenze del, 24 I , 271 monoteismo, 140, 219 morire con Cristo, 272-275, 280, 324 morte, 38, 1 84 s ., 221 , 227 s . , 233, 3 1 0, 374-377, 380; ereditaria, 228 morte di Gesù Cristo, 1 1 5, 120, 1 30, 142·147, 1 82, 200, 2 1 1 , 239, 244-246, 2.5 3 s. , 262 , 26 _5 , 272, 276 s., 309 , 3 I 7 s . , 322, 33 0 , 381 - 384, 400, 409 , 412, 426-428 Mosè, _5 8 , I 'j 2 , I 8 .5 , 233 , 363 nascita, verginale, 1.53 s., 209, 349; da Dio , 394, 397 s., 401 s. nome, 36, 164, 199, 349 obbedienza, 54, 64, 67, 76 s., 1 92, 1 95 , 204, 208, 2 1 7 , 250, 257 S ., 392 Odi di Salomone, 341 pace, 2 1 I , 26 I , 38o pane, 40 I ; spezzare il, 164 s. Padre, 36 , 3 8 , 44-49 , 56, 63 , 90 s., 1 10, 149, 204 s ., 303, 340, 346 s ., 350 ss., 367-372, 384, 387 S . , 405 , 4 1 1 , 419, 422, 425

l n dice analitico

padrenostro, 44