Teologia del Nuovo Testamento. Molteplicità e unità della testimonianza apostolica di Cristo [Vol. 2]

« Il Nuovo Testamento ascolta l'Antico Testamento come 'Scrittura', ma questo avviene sempre e solo nel q

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Teologia del Nuovo Testamento. Molteplicità e unità della testimonianza apostolica di Cristo [Vol. 2]

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LEONHARD GOPPELT

TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO Molteplicità e unità della testimonianza apostolica di Cristo a

cura di Jtirgen Roloff Volume secondo

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera: Theologie des Neuen Testaments Zweiter

Teil



Vielfalt und Einheit des apostolischen Christuszeugnisses Herausgegeben von Jtirgen Roloff

© 1976 by Vandenhoeck

& Ruprecht in Gottingen

Traduzione di Nerea Ponzanelli Aggiunte bibliografiche di Giuseppe Segalla

© 1983 by Editrice Morcelliana S.p.A.- Brescia Tipolitografia La Nuova Cartografica- Brescia 1983

PREMESSA

Con questo secondo volume Leonhard Goppelt completa ormai, per quanto possibile nelle condizioni attuali, lo schema della teologia neo­ testamentaria. Raggiunge la compiutezza soprattutto per quanto riguar­ da il profilo globale, come del resto era sostanzialmente nei suoi intenti. Nulla fa supporre che Goppelt avesse previsto altre sezioni e capitoli. Se ha tralasciato d'accennare a certi documenti o gruppi di scritti ne� testamentari, dev'essere perché a suo avviso non ritenne di poterne curare oggi la sintesi e valutazione, in quanto l'attività di ricerca in materia era ancora aperta. Questo vale soprattutto per il vangelo di Marco; date le divergenze metodologiche e oggettive tuttora esistenti, i lavori sulla storia della redazione degli ultimi anni non hanno portato Goppelt alla convinzione che il proposito di ricostruire nell'ambito' d'una teologia neotestamentaria il profilo teologico dell'evangelista più antico potesse avere un senso. Questa prudenza di giudizio, propria del­ l'Autore, l'ha trattenuto pure dal dedicare un capitolo apposito alle Let­ tere deuteropaoline *.A scopo esplicativo gioverà notare come Goppelt - abbandonando completamente la propria opinione primitiva - ab­ bia ritenuto di annoverare anche la Lettera agli Efesini tra le Lettere deuteropaoline accanto alle Lettere pastorali, mentre è rimasto fermo * Per lettere deuteropaoline nella crit ica protestante si intendono la seconda ai Tessalonicesi , quella agli Efesini e le lettere cosiddette pastorali (l e 2 Timoteo, Tito); con ciò si vuoi accentuare che la loro auten ticità è dubbia, anche se si riconosce in genere una magg iore o minore continuità di pensiero con Rom. l e 2 Cor., Gal., Flm., l Tess. La lettera agli Ebrei ormai è riconosciuta unani:nemente anche daali studiosi cattolici come non paolin a . (n.d.r.).

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Jurgen Roloff

fino all'ultimo nell'attribuire a Paolo la paternità della Lettera ai Colos­ sesi (cfr. § 28,1 ) . Al lettore non sfuggirlt come, nonostante la compiutezza della strut­ turazione globale, in certi capitoli siano rimaste necessariamente aperte alcune dolorose lacune. Sono solo sommariamente abbozzati l'esposi­ zione della dottrina della giustificazione ( § 39) e dell'ecclesiologia ( § 40) di Paolo e il capitolo conclusivo sulla teologia di Giovanni (§ 49) . Sono stati omessi completamente due paragrafi previsti nello schema di Goppelt per la terza parte, sull'etica e sull'escatologia di Paolo. Co­ munque non è una grave carenza, dato che i due temi sono trattati con relativa ampiezza nella quarta sezione; nei §§ 43 e 45 l'etica paolina viene proposta come base di raffronto con l'etica della I Lettera di Pie­ tro e della Lettera di Giacomo, e in modo analogo i paragrafi sull'esca­ tologia degli scritti postpaolini (§ 44,8; § 48,3; § 49,c) contengono svi­ luppi sull'escatologia paolina. Al riguardo si veda l'indice analitico. Nel secondo volume l'eterogeneità del materiale disponibile ha reso necessario, da parte del curatore, un intervento più incisivo che nel pri­ mo volume. Quindi vorrei dar conto al lettore della natura obiettiva del mio lavoro redazionale. La seconda e terza parte sono tratte per la maggior parte da manoscritti di Goppelt. Qui, oltre a rivedere e limare qua e là, si sono dovute tappare alcune piccole falle, inserendo brani di saggi e conferenze tematiche affini scritti dall'Autore. Invece per la quarta parte esisteva solo il manoscritto d'una conferenza e il testo ricavato da una registrazione su nastro d'una relazione tenuta da Goppelt nel semestre estivo 1973. Qui s'è dovuto condensare, limare e documentare il testo, per conferire all'opera la necessaria unitarietà formale. Comunque ho badato esclusivamente a far parlare sempre nel modo più chiaro possibile lo stesso Leonhard Goppelt. Affrontando questo compito, non ho voluto soltanto assolvere un debito di riconoscenza dell'allievo verso il maestro, ma sono stato solle­ citato anche dalla convinzione che la voce di Goppelt meriti considera­ zione proprio nella situazione attuale della teologia. Infatti la sua pa­ rola ci incoraggia a non scendere rassegnatamente ad alcun compro­ messo con la molteplicità delle posizioni teologiche di ieri e di oggi, così atta a confondere, ma a cercare nel loro sottofondo la testimo­ nianza apostolica di Cristo, per comprenderla e sviluppar/a poi in rife­ rimento alla realtà attuale, come unica norma di fede e di vita cristiana. Questo volume è stato approntato in tempi relativamente brevi gra­ zie all'aiuto determinante offertomi da più parti con volonterosità e grande sacrificio di tempo e energie. Ringrazio anzitutto la signora Dora Goppelt, p er la fattiva collaborazione data nella revisione e redazione

Premessa

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del materiale, la baronessa Marie.Ciicilie von Recum per la trascrizione delle registrazioni su nastro, il signor Hans Joachim Stark per la rilet­ tura e correzioni e i signori Dr. Hans Bald e Hans-Jurgen Vierzigmann per la compilazione degli indici. JtlRGEN ROLOFF

Erlangen, marzo 1976

PARTE SECONDA

LA COMUNITÀ PRIMITIVA ( LA CHIESA IN ISRAELE)

§ 24: Le fonti e loro utilizzazione LEONHARD GoPPELT, Apostolische Zeit, § 1 (rassegna degli studi e bibliografia meno recente), §§ 5- 1 1 (la comunità primitiva) ; FLOYD VrvrAN FILSON, Geschichte des Christentums in neutestamentlicher Zeit, 1967, pp. 17 1-2 14; HANS CoNZELMANN, Geschichte des Urchristentums, 1969 (1971'), pp. 10-52; tr. it., Le origini del cristia­ nesimo, Claudiana, Torino 1976, pp. 1544; per ulteriore bi bliografia , v. nota 2.

1. Le fonti Le fonti ebraiche ignorano- quasi completamente i gruppi di disce­ poli di Gesù - e pure Gesù stesso - formatisi nell'ambito della teocra­ zia giudaica palestinese dopo la dipartita di Gesù 1• Invece hanno rile­ vanza storica le notizie assai precise che queste fonti ci forniscono sul­ l'ambiente della prima comunità, per il quale però noi ci basiamo quasi esclusivamente su fonti cristiane. Le documentazioni letterarie più anti­ che del cristianesimo - le lettere paoline - sono nate tra il 50 e il 62 nell'area fra l'Asia Minore e Roma per le comunità di quei luoghi, quindi a notevole distanza di tempo e di spazio dagli inizi in Palestina. Sui 20 anni «Oscuri » trascorsi tra la fine di Gesù e l'epoca delle Lettere paoline possiamo acquisire notizie solo attraverso- illazioni dedotte dalle seguenti fonti:

a) Le Lettere paoline risalgono occasionalmente all'epoca primitiva in alcuni resoconti retrospettivi, specialmente in Gal. l s. Qua e là citano tradizioni dottrinali che possono risalire alla comunità primitiva, la quale parlava in aramaico (l Cor. 11,23 ; 15 ,1-3). Inoltre, con criteri di 1 Giuseppe Flavio, lo storico ebreo dell'epoca, porta soltanto una breve notizia sulla fine di Giacomo (Ant. 20,9, 1}, mentre Ant. 18,3,3 è un'interpo!azione. B ibl . H. L. STRACK,

:

Jesus, die Hiiretiker und die Christen nach den iiltesten judischen Angaben. 1910; SCHOEPS, Aus fruhchrist/icher Zeit, 1950, pp. 239-254; P. BILLERBECK, ci t., IV, p. 1241 .

H. J.

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§ 24: Le fonti e la loro utiliu.azione

storia delle forme, nelle lettere si possono rilevare formule tramandate dal periodo prepaolino in misura notevole (§ 26,2). b) Intorno all'SO, quindi 40-50 anni dopo gli inizi, nella Chiesa occi­ dentale Luca scrive gli Atti degli Apostoli, una cronaca della via per­ corsa dal vangelo da Gerusalemme a Roma, intesa ad illustrare il for­ marsi della Chiesa nei lineamenti fondamentali. Dal suo rapporto esau­ riente sulla comunità primitiva, se lo si utilizza in termini di critica della tradizione, si possono trarre importanti tradizioni 2• Criterio essen­ ziale sarà certo il raffronto con le notizie fomite in proprio da Paolo. c) Le tradizioni sull'attività terrena di Gesù, che, dopo essere state tramandate per lungo tempo, vennero messe per iscritto nei Vangeli sinottici tra il 65 e 1'85, furono concepite fondamentalmente nella Chiesa palestinese. Esse vennero formulate sempre anche con riferimento alla situazione della comunità. Quindi nella tradizione sinottica si rispec­ chiano situazioni della comunità, per la quale essa fu concepita, traman­ data e infine redatta. In quale misura vi si trovino accenni ai primi stadi della Chiesa palestinese, è cosa sicuramente molto incerta e controversa nei singoli casi . Se ne possono trarre questi accenni in una fonna scien­ tificamente accettabile coll'aiuto dell'analisi effettuata secondo i criteri della storia delle forme, solo raffrontandoli criticamente con la situa­ zione storica deducibile da Paolo e dagli Atti degli Apostoli (per la di­ scussione cfr. § 3). d) Queste tre fonti si possono integrare solo in scarsa misura con le tradizioni palestinesi dell'Apocaliss e di Giovanni e della Didachè e con singole notizie fornite dai Padri della Chiesa. Data la situazione, l'immagine della comunità primitiva sembra fon­ data su notizie molto casuali. Però a un esame più approfondito queste notizie non risultano più tanto casuali, ma sembrano derivare volta per volta da una problematica intenzionale specifica delle fonti che le con­ tengono. 2. La problematica delle fonti e dell'esposizione

Le tre fonti neotestamentarie che abbiamo citate non intendono ren­ dere ciò che singoli membri della comunità primitiva, quali che fossero, pensavano e sostenevano, ma ciò che era annuncio normativa e valido. Paolo riprende le formule tradizionali della comunità primitiva per tra1 Resoconti di studi: E. GIIAssER, Die Apostelgeschichte in der Forschung der Gegen­ wart, ThR NF 26 ( 1 960), pp. 93-167; l. H. MARSHALL, Recent Study of the Acts of the Apos­ tels, •Expository Times• 80, 1%8/69, pp. 292-2%; dello stesso, Luke: Historian and Theo­ logian, 1970. l commenti di H. CoNZELMANN (Hdb, 5, 19722) e E. HAENCHEN (Meyer-K. III, 1%8') intendono troppo unilateralmente gli Atti degli Apostoli come kerygma per la comunità del loro tempo. Per contro G. SriiHLIN (NTD 5, 1970'), C. S. C. WILLIAMS (A Commentary on the Acts of the Apostles, 1964') e K. LAKE-H. J. CADBURY (Beginnings I-V)

cercano in primo luoso le informazioni pervenuteci dalla comunità primitiva.

2. La problematica delle fonti e dell'esposizione

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mandarle a noi e a tal fine al Concilio apostolico circa il consenso degli stessi Apostoli e dei rappresentanti della comunità di Gerusalemme (Gal. 2,2.8 s.; l Cor. 15,1-5. 1 1 ). Certo per l'aspetto storico ha scelto anche e interpretato sempre le tradizioni secondo il proprio punto di vista teologico. Secondo Luca nella Chiesa deve per sempre segnare l'indi­ rizzo ciò che è stato affermato prima «dagli Apostoli » a Gerusalemme e poi da Paolo tra Gerusalemme e Roma (Le. 1 , 1-4; At. 1 ,21 s . 42; 28,23-3 1 ) e ciò che s i documenta nella struttura della Chiesa cresciuta su questa linea. Dal punto di vista storico, egli descrive la parola e l'attività « degli Apostoli» e di Paolo, riportando spesso scarne tradizioni, che interpreta liberamente. Infine, dietro gli accenni da derivare dalla tradizione sinot­ tica, sta l'altro principio, condiviso anche da Paolo e da Luca: in ultima istanza normativa è ciò che v'è da dire sulla situazione della comunità partendo da Gesù. Quindi sotto l'aspetto storico c'è da chiedersi se que­ sta configurazione interpretativa della tradizione di Gesù corrisponda veramente all'intendimento di Gesù. Queste intenzioni delle fonti neotestamentarie, nonostante richie­ dano verifiche critiche, sono fondamentalmente rispondenti alla realtà e quindi nella nostra esposizione vanno prese in considerazione non solo per motivi storici. Da una parte ci dobbiamo domandare: quali concezioni teologiche vennero sostenute di fatto nella predicazione della Chiesa primitiva palestinese, soprattutto nella comunità primitiva di Gerusalemme ? Ma nello stesso tempo ci dobbiamo domandare : se­ condo i criteri appena accennati, affermati dalle nostre fonti neotesta­ mentarie, che cosa veniva considerato normativa? A entrambe le do­ mande si può rispondere solo entro certi limiti a causa della scarsità delle notizie - diversamente da quanto avverrà più tardi per la Chiesa ellenistica intorno a Paolo -. Il problema di storia della tradizione, ovunque presente, deriverà costantemente dal rapporto fra loro delle notizie contenute in queste tre fonti, aventi un orientamento distinto. La riflessione teologica, che s'estrinseca dalle espressioni della comu­ nità primitiva, inizia contenutisticamente con due tematiche derivanti dalla situazione: l. con l'autocomprensione della comunità e delle sue azioni liturgiche nell'ambito della comunità etnica ebraica; 2. con la interpretazione della comparsa di Gesù sullo sfondo delle tradizioni religiose. d'Israele. I due temi sono correlati fra loro: i discepoli cer­ cano d'interpretare continuamente la propria situazione partendo dal Maestro e in tal modo acquisiscono anche nuovi aspetti della sua appa­ rizione. Finora (§§ 6-23) abbiamo riprodotto ciò che da Gesù era venuto agli uomini fino alla Pentecoste. Ora iniziamo, sia pure per sommi capi, a

§ 25: l discepoli di Gesil come Chiesa

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ricalcare l'autocomprensione della prima comunità, per seguire, par­ tendo da essa, la riflessione cristologica che essa sviluppò per la propria situazione 3•

§ 25: I discepoli di Gesù come Chiesa Su 1 e 5 a: ADOLF VON HARNACK, Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten 1-11, 1924'; JoACHIM JEREMIAS, Jesu Verheissung fur die Vi:ilker, 1959'; FERDI N A N D HAHN, Das Verstiindnis der Mission im Neuen Tes tament, 1965'; DIBTBR GEORG I , Die Gegner der Paulus im 2. Korintherbrief. Stu­ dien zur religii:isen Propaganda in der Spiitantike, 1964; HEINRICH KAsTING, Die Anfiinge der urchristlichen Mission, 1 969; MARTIN HENGEL, Die Ursprunge der Chri­ stlichen Mission, NTSt 18 ( 1 97 1 /72), pp. 1 5-38. - Su 2: OsCAR CULLMANN, Die Tauf· lehre des Neuen Testaments, 1958'; JOACHIM JEREMIAS, Die Kindertaufe in den ersten vier Jahrhunderten, 1958; GEORG BRAUMANN, Vorpaulinische christliche Taufverkundigung bei Paulus, 1962; OTTO Kuss, Zur vorpaulinischen Tauflehre im Neuen Testament, in: ID., Auslegung und Verkundigung I, 1963, pp. 98-120; GERHARD DELLING, Die Taufe im Neuen Testament, 1963; GEORG KRETSCHMAR, Die Geschichte des Taufgottesdienstes in der alten Kirche, in: «Lei turgia» v, 1964/65, pp. 1-160; GEORGE R. BEASLBY-MURRAY, Die christliche Taufe, 1968; FRITZLEO LBNTZEN-DBIS, Die Taufe Jesu nach den Synoptikern, 1970; KURT ALANO, Taufe und Kindertaufe, 1 97 1 ; ROBERTO TURA (a c ur a di), 1 1 battesimo dei bambini: revisione in vista?, « Studia Patavina» 21 ( 1974 ), pp. 51 1-585 . - Su 3: KARL HoLL, Der Kirchenbegriff des Paulus in seinem Verhiiltnis zu dem der Urgemeinde ( SAB 192 1 ), in: ID., Ges. Aufs. n, 1928, pp. 4+67; OLOF LI N TON , Das Problem der Urkirche in der neueren Forschung, 1932 (bibl. più vecchia) ; NILS ALSTRUP DAHL, Das Volk Gottes, 1941 (rist. 1963) ; ALBRECHT 0EPKE, Das neue Gottesvolk, 1950; E DU ARD SCHWEIZER, Gemeinde und Ge­ meindeordmmg im Ne�ten Testament, 1962'; RU DOLF SCHNACKENBURG, Die Kirche im Neuen Testament, 1961'; tr. it., La Chiesa nel NT, Morcelliana, Brescia 1968'; WER­ NER GEORG KUMMEL, Kirchenbegriff und Geschichtsbewusstsein in der Urgemeinde und bei Jesus, 1943 ( 1 968'). - Su 4 a: cfr. § 21 bibl. e LEO NH ARD GoPPELT, Die apo­ stolische Zeit, § 7, 2 s.; § 22; GERHARD DELLING, Der Got tesdienst im Neuen Testa­ meni, 1952 ; GREGORY Dix, The Shape of the Liturgy, 1945 (1959'); OsCAR CULLMANN, Urchristentum und Gottesdienst, 1962'; FERDINAND HA H N , Der urchristliche Gottes­ dienst, 1970. - Su 4 c: M ARCEL SIMON, St Stephen and the Hellenists of Acts, 1958; Jo HANNBS BIHLER, Die Stephanusgeschichte im Zusammenhang der Apostel­ geschichte, 1963. - Su 5 d: J. HowARD MARSHALL, Palestinian and Hellenistic Chri­ stianity: Some Criticai Comments, NTSt 19 (1972/73 ), pp. 27 1-287.

1. La testimonianza missionaria

a) Il movimento derivante da Gesù

Gesù non s'era votato alla meditazione religiosa, ma all 'at tiv i tà fra gli uomini. Non era andato a cercare alcune persone che avessero gli stessi suoi orientamenti [di pensiero e di prassi], ma s 'era preoccupato ' Per la ricostruzione della situazione storica cfr. L. GoPPELT, Apostolische Zeit, cit.,

§§ S-8.

l.lA testimonianza missionaria

367

di tutto Israele, concentrandosi infine su Gerusalemme. Perciò dopo la sua dipartita i suoi discepoli, seguendo le sue orme, percorsero un cam­ mino affatto diverso rispetto al movimento, per molti aspetti compara­ bile, degli esseni. Non s 'isolarono dalla società, come apocalittici entu­ siasti, per attendere la prossima apparizione del Figlio dell'uomo. I discepoli, originari in gran parte dalla Galilea, si trasferirono prevalen­ temente a Gerusalemme. Questo non risulta solo dagli Atti degli Apo­ stoli ( 1,4; 8, 1 ); a Gerusalemme cercò i suoi rappresentanti autorevoli anche Paol o tre anni dopo la conversione fra il 35 e il 40 (Gal. 1,18). Da Gerusalemme i discepoli intesero raggiungere tutto Israele, in quanto la gente vi affiuiva in pellegrinaggio anche dalla diaspora, e a Gerusa­ lemme aspettarono la salvezza imminente ( Is. 2, 1-4; 60; Mt. 8, 1 1 s. par.; Ap. 2 1 ). Certo però la testimonianza venne propagata fin dall'inizio an­ che fuori di Gerusalemme, in Giudea e Galilea (At. 9,3 1 ; Gal. 1,22 ) e nella diaspora. Già all'epoca della conversione Paolo incontrò discepoli di Gesù nella lontana Damasco (2 Cor. 1 1,32 s.; At. 9, 1 s.). Dietro questo movimento v'era la missione, ordinata nel corso delle apparizioni pasquali e confermata dallo Spirito Santo. Secondo gli Atti degli Apostoli l'iniziarono 1 gli «Apostoli• e poi uomini come Stefano e Filippo (At. 6,8; 8), indicati poi come evangelisti (21 ,8 ), ma infine nella misura più ampia membri innominati della comunità, gli ellenisti fug­ giti da Gerusalemme ( 8,4; 1 1,19 ss.). Questi dati schematici e frammen­ tari corrispondono largamente ai processi storici: la missione fu soste­ nuta dapprima dagli Apostoli incaricati nel corso delle apparizioni pa­ squali, il cui numero però, secondo Paolo, superava comunque i dodici (cfr. l Cor. 1 5,7; Rom. 1 6,7) 2 e ben presto anche da missionari itine­ ranti, su incarico dello Spirito Santo e della comunità, i quali in � ale­ stina furono chiamati parimenti apostoli (At. 14,4.14; 2 Cor. 1 1 ,13), ma ai quali poi nell'ambito paolina venne attribuito l'appellativo di evan­ gelisti ( Ef. 4, 1 1 ; 2 Tim. 4,5). La rapidità dell'espansione si spiega solo col fatto che ogni discepolo divenne testimone missionario per la pro­ pria zona. A Gerusalemme gen eralmen te la missione evitò di reali zzarsi attra­ verso grandi assemblee pubbliche come indicano gli Atti degli Apostoli (2,6.41 ; 4,4.33 ; 5, 12-16.28), ma cercò i colloqui in piccoli gruppi e da uomo a uomo, quali risultavano dai contatti di tutti i giorni (At. 2,6.4 1 ; 4,4.33 ; 5 , 1 2- 1 6.28). Una missione itinerante a coppie di casa i n casa, com'è descritta nei discorsi missionari della tradizione sinottica (Mc. 1

Per la discussione sull'origine della missione apostolica cfr. J. ROI.DFF, Apostolat­

Verkundigung-Kirche, 1965, pp. 9-37. z lbid., pp. 57-64.

368

§ 25: l discepoli di Gesù come Chiesa

6,7-11 par. Le.; Lc.10,3-12 [Q]; Mt . lO ,S- 1 6 ), stando a tutto quanto si può sapere da Paolo e dagli Atti degli Apostoli non si verificò né in Palestina nel periodo iniziale né in seguito altrove; infatti l Cor. 9,4 s. dà un qua­ dro completamente diverso dei viaggi degli Apostoli. Secondo Did. 1 1-13 queste prescrizioni vennero seguite anche alla lettera solo più tardi in Siria. b) Il più antico kerygma missionario La predicazione di Pietro in At. 2-5 è formulata da Luca, com'è deducibile fra l'altro dallo stile e dall'uso dei Settanta 3• Però non è un materiale strutturato personalmente dall'evangelista per caratterizzare la situazione, come ci si aspettava dallo storico antico, ma è una riela­ borazione di tradizioni esistenti, intesa a testimoniare anche qui, in una forma gradevole per i suoi lettori, l'avvenimento che sta alla base della Chiesa. Pertanto i discorsi contengono non pochi elementi estranei alla sua teologia. Però la prospettiva coincide in maniera sorprendente col kerygma primitivo di l Cor. 15,3-5, rivelandosi in tal modo storica nel­ l'impostazione 4• Quindi al centro della predicazione missionaria stava senza dubbio la testimonianza della Pasqua: «Voi avete ucciso Gesù» - « ma Dio lo ha risuscitato » (At. 2,22 ss.; 3,13 ss.; 4,1 1 ; 5,30 s.) - « que­ sto è avvenuto secondo la Scrittura» (2,25-3 1 ; 3,18; 4,1 1 ) - «noi ne siamo testimoni» ( 2,32-36; 3,15b.-16; 5,32). Sulla base di questa testimo­ nianza, tutto Israele era chiamato a convertirsi al suo Dio, che adesso, adempiendo la profezia, si volge definitivamente con benevolenza al suo popolo (2,38 s.; 3,19; 4,12; 5,31b). Indubbiamente, all'inizio questo in­ vito alla conversione fu più energico di quanto facciano intendere gli Atti degli Apostoli, in quanto era sottolineato dall'accenno all'imminen­ te compimento in virtù della venuta del Messia Gesù (cfr. At. 3,19 s. e § 2 5 , 5). L'attesa d'una prossima fine del mondo trovava credito anche altrove, nell'ambiente dei discepoli, però il loro tratto specifico fu la testimonianza della Pasqua. Con gli eventi della Pasqua e della Penteco­ ste, per loro s'era aperta la vicenda finale, che ora sarebbe dovuta arri­ vare entro breve al compimento attraverso la formazione della comu­ nità della salvezza e la venuta, che tutto avrebbe trasformato, del «suo Signore» . L o scopo della testimonianza missionaria, i n questo ambito escato­ l ogico, fu fin dall'inizio il battesimo, nel quale si sarebbe dovuta com• U. WILCKENS, Die Missionsreden der Apostelgeschichte, 1974'. 4 L. GoPPELT, Die Apostolische Zeit, cit., pp. 24 ss.

2. Il battesimo

369

piere la conversione sollecitata e offerta e quindi l'ammissione nella comunità della salvezza (At. 2,38). 2. Il

battesimo

a) Sua origine Fin dai primi inizi s'affermò generalmente fra i discepoli di Gesù la pratica d'un battesimo inteso come rito d'ammissione e iniziazione. Questa indicazione degli Atti degli Apostoli (2,38.4 1; 8,1 2 s. 36 .38; 9,18 ecc.) è confermata anche da Paolo, il quale afferma che si battezzava generalmente già all'epoca della sua conversione (l Cor. 12, 1 3) e che nella comunità di Roma, a lui sconosciuta, tutti erano battezzati (Rom. 6,3 ). b) Suo significato Secondo At. 2,38 nel corso dell'attività missionaria il battesimo ve­ niva offerto con questa frase: « Pentitevi e ciascuno di voi si faccia bat­ tezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo>> . Questa frase, come già rivela la locuzione «Gesù Cristo», è una formulazione più tarda, certo lucana, ma contiene una tradizione più antica. Bisogna esaminare fino a che punto i tre elementi citati fossero collegati col battesimo già nel primo periodo. l. Senza dubbio il battesimo dei discepoli fu, al pari di quello di Giovanni, un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, cioè un bagno nell'acqua che lavava dalle colpe commesse fino allora, co­ municando quindi la remissione e la corrispondente conversione. (Fin dagli inizi era amministrato parte sotto forma di bagno battesimale, parte per aspersione) 5•

2. Secondo ogni verosimiglianza questo atto era collegato fin dagli inizi con l'invocazione del nome di Gesù. Come secondo At. 3,6 s'invo­ cava il nome di Gesù per impetrare la guarigione, così più che mai nel battesimo, dato che per i discepoli conversione e remissione erano co­ municate attraverso Gesù. Il suo nome s'invocava sopra l'atto del bat­ tesimo, non sopra l'acqua o sopra il battezzando. L'invocazione la faceva ' baptizein (baptisma), propriamente «immergere•, sta nei LXX per tiibal (rbilah), che nell'epoca giudaica è il termine per i bagni religiosi a immersione, per mezzo dei quali si procura purificazione (A. OEPKE, ThW 1, pp. 532, 31 ss.). Per l'esecuzione formale cfr. At. 8,36; Dìd. 7,1-3 e L. GoPPELT, ThW VIII, p. 332, 29 ss.

§ 25: l discepoli di Gesù come Chiesa

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colui che battezzava, non, come si volle dedurre da A t. 22, 16 6, dal bat­ tezzando sotto forma di preghiera; invece il battezzando era tenuto a dare il suo assenso all'invocazione con una professione battesimale (per es. Rom. 10,9; cfr. At. 8,37). L'invocazione del «Nome» era formu­ lata con la locuzione ebraica z• sem, che negli atti del culto esprime la relazione sia causale sia finale 7, motivo per cui in greco venne tradotta con due locuzioni diverse. Si battezzava « nel nome di Gesù» (en [ epi] to onomati Jesou, At. 10,48; 2,38), volendo dire: Gesù esaltato alla gloria operi attraverso il battesimo ciò che questo promette, cioè remissione e conversione Più spesso si usava la formula eis to onoma, sul (verso il, in direzione del ) nome 8: il battesimo dà (il battezzando) in proprietà a Gesù elevato alla gloria. Le due locuzioni unite significano: il battesimo opera remissione e conversione perché Gesù glorificato mette il battez­ zando in relazione con sé. .

3. A colui che in questo modo veniva battezzato si prometteva lo Spirito. Rudolf Bu l tmann 9 suppone che questo terzo elemento, forse anche il secondo, si sia aggiunto solo nella Chiesa ellenistica. Questa ipotesi è priva di fondamento. Gli Atti degli Apostoli riferiscono che in casi isolati battesimo e conferimento dello Spirito erano amministrati separatamente: 8,12; 10,44.47 s.; 1 1 ,15 s.; 19,2-6. Però questo dipendeva senz'altro da situazioni particolari; quindi queste narrazioni presup­ pongono che di norma battesimo e conferimento dello Spirito erano col­ legati fra loro. Certo la venuta dello Spirito non era mai legata esclusi­ vamente al battesimo, ma la si prometteva al battezzando, che la speri­ mentava in vari modi, e anzi fin dall'inizio. Questo corrisponde al con­ cetto: chi viene consegnato in proprietà a Gesù glorificato è esposto ' anche all'azione del suo Spirito 10• I tre elementi citati in At. 2,38 non sono un'interpretazione teologica del processo battesimale, ma un contesto costitutivo oggettivo dal quale sviluppare l'ulteriore chiarimento dell'azione efficace del battesimo, ad esempio come rinascita, o l'evolversi dell'invocazione di Gesù fino a divenire la formula battesimale trinitaria di Mt. 28,19. Il problema fon­ damentale è però: che cosa legittima i discepoli a battezzare in questo modo ? • Così p. es. G. STXHLIN, Die Apostelgeschichte, 1970', p. 285; però al contrario G. DEILING (§ 25,2 bibl.), p. 78. 7 H. BIETENHARD, ThW V, pp. 274 s. 1 At. 8,16; l Cor. 1 ,13.15; cfr. Rom. 6,3; Gal. 3).7: eis Christon; l Cor. 10,2: eis ton Moysen ; M t. 28.19 per la prima volta sviluppato trinitariamente, parimenti ancora Did. 7,1; JUSTINUS, Apol. I, 61; cfr. G. KREISCHMAR (§ 25,2 bibl . ), pp. 32-36. 9 R. BULTMANN, Theol. § 6,3. 1° Cfr. E. ScHWEIZER, ThW VI, p. 410; L. GoPPELT, Die apostolische Zeit, cit., § 10,1.

2.11 battesimo

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c) Sua motivazione Gesù in persona non aveva mai battezzato 11, ma solo mediato con­ versione e remissione attraverso la propria benevolenza rivolta perso­ nalmente soprattutto con la vocazione alla sequela (§ 13). Dopo una tale esperienza dei discepoli, c'era oggettivamente ancora posto per una me­ diazione rituale come quella tentata- in fondo invano - da Giovanni Battista? Non basta spiegare il battesimo dei discepoli secondo il prin­ cipio di correlazione della storia delle religioni, osservando : «La Chiesa ha adottato questa usanza da Giovanni Batti sta» 12• Senza dubbio il bat­ tesimo della comunità primitiva si riallaccia a quello di G i ovanni e al pari di quello esso si colloca nella corrente dei riti di purificazione ebraici (§ 5,3). Ma che cosa può motivare oggettivamente un riallacciarsi a esso ? Già nella Chiesa antica si citavano due motivi, i quali però abbi­ sognano d'una correzione storica e oggettiva fondamentale: l. Secondo M t. 28,19 s. e il capitolo conclusivo non au ten t ico di Marco (Mc. 16,15 s.), nel corso delle apparizioni pasquali i discepoli avevano avuto un «ordine di battezzare» . Da un punto di vista reda­ zionale, queste indicazioni sono formulate in conformità alla prassi battesimale del loro tempo. Sotto l'aspetto della storia della tradizione, alla base delle parole con cui Gesù invita i discepoli a convertire le genti in Mt. 28,18b-20b ; Le. 24,46-49; Mc. 16,15-18 sta uno schema comune tri­ partito, che esprime come Gesù abbia avuto la pienezza del potere attra­ verso l 'elevazione alla gloria ed enuncia la sua missione e la promessa della sua assistenza. Secondo l Cor. 1 5,7 s., indubbiamente la missione risale alle apparizioni pasq uali, ma resta il problema se vi sia stato collegato l'ordine di battezzare. Questo certo chiarirebbe perché gene­ ralmente si battezza va fin dall'inizio, ma non è dimostrabile sotto l'aspetto della storia della tradizione. Comunque, dal punto di vista teologico questa notizia non acquisterebbe un valore di posizione supe­ riore a quello della notizia dell'ordine di ripetizione dell'istituzione del­ l'Eucaristia (§ 2 1 ,6). A ogni modo, per mezzo della missione i discepoli erano autorizzati a operare «nel nome di Gesù» e quindi a invocarlo an­ che nel battesimo. Inoltre per analogia la promessa fatta nella notte del tradimento aveva annunciato loro che d'ora in poi l'attenzione di Gesù rivolta a soccorrere personalmente si sarebbe esplicata attraverso un'azione simbolica. 11 Una storicizzazione dell'osservazione di Gv. 3,22, che riproduce una situazione della comunità, viene impedìta già da Gv. 4,2. " H. CoNZELMANN, Theol. ci t., 64, tr. it. Teologia del NT, a cura di R. PENNA, Paideia, Brescia 1972, p. 74.

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§ 25: I discepoli di Gesù come Chiesa

2. Gesù stesso era stato chiamato alla sua nuova esistenza attraverso il battesimo di Giovanni. Questo non si poteva intendere come istituzio­ ne della chiamata a seguirlo successiva alla Pasqua ? Comunque, questa visione del battesimo di Gesù viene espressa non nel Nuovo Testamento, ma solo in Ignazio e in un modo sorprendente 13• Gesù s'era fatto bat­ tezzare da Giovanni (Mc. 1 ,9 ss.), dimostrando così anche col suo com­ portamento che riconosceva il battesimo di Giovanni come il segno, dato da Dio, della conversione escatologica (Mc. 1 1 ,30 par.). Nella tradi­ zione sinottica la pericop e del battesimo di Gesù (Mc. 1 ,9 ss. par.) vuoi fare anzitutto solo un'asserzione cristologica (cfr. Gv. 1 ,3 1 ); anche l'ela­ borazione redazionale non allude mai al battesimo cristiano. Però né ai vari elaboratori di questa pericope né ai lettori sarà potuto sfuggire che qui, con l'accedere di Gesù al battesimo di penitenza di Giovanni, era avvenuto ciò che il battesimo in suo nome comunicava; qui come là si comunicavano filiazione e Spirito 14• Se si ammette questa connes­ sione 15, il battesimo, come la cena eucaristica, non è un rito nato per caso, ma un'istituzione che nasce, come quella, dall'ingresso personale di Gesù nella comunione dei peccatori chiamati alla conversione. Queste due motivazioni teologiche del battesimo, la abilitazione a compiere un atto simbolico nel nome di Gesù e la sua «istituzione >> at­ traverso il comportamento stesso di Gesù, sono date da Gesù, anche se rimane incerto fino a che punto la comunità primitiva ne fosse esplici­ tamente consapevole. Quindi il battesimo non è semplicemente un ri­ torno a un ritualismo antico. Anche Gesù non s'era limitato a una chia­ mata generica alla conversione, ma ne aveva provocato l'attuazione attraverso la proposta della sequela fisica. Nella situazione creatasi . dopo la Pasqua, l'atto simbolico universale del battesimo prese oggetti­ vamente il posto della chiamata alle sequela, limitata a pochi . Il battesimo lega il battezzato non solo a Gesù elevato alla gloria, ma nello stesso tempo agli altri battezzati e ai discepoli che a Pente­ coste hanno ricevuto lo Spirito senza battesimo, distinguendolo dal resto della comunità del popolo ebreo . 11 IGNATIUS, Eph. 18,2: «Fu partorito e battezzato per purificare l'acqua con la sua sofferenza»; CLEMENS ALEXANDRINUS, Paed. I, 6,25 s.; Ecloge prophet. 7,1; TERTULLIANUS, Bapt. 4,8,9; PsEUDO·CIPRIAN., De pascha computus 22; comunque la pericope del battesimo, diversamente dal resoconto dell'istituzione dell'Eucaristia, non viene mai accolta come parola istitutiva nella liturgia della Chiesa antica (G. KREiscHMAR, loc. ci t., pp. 89 ss.). " L'esperienza cristiana del battesimo ha contribuito notevolmente alla struttura­ zione della pericope. 15 Così pure G. KREISCHMAR, Ioc. cit., pp. l6 s.

4. La nuova liturgia accanto all'antica

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3. La ekklesia

Diversamente da coloro che un tempo tornavano dal battesimo di Giovanni, nella comunità del popolo ebreo i battezzati formavano un gruppo a sé. « Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazion e del pane e nelle preghiere» (At. 2,42 ). Gli elementi qui citati sono al tempo stesso indicativamente ele­ menti strutturali della comunione di vita del gruppo come anche della sua liturgia. Quale comprensione di sé ebbe questo gruppo? Dagli Atti degli Apo­ stoli si trae l'impressione che dopo la Pentecoste, guidato dagli Apo­ stoli, condusse vita indipendente come Chiesa e nei primi tempi sostan­ zialmente esplicò indisturbato e con notevole successo attività missio­ naria nel proprio ambiente ebraico. Al riguardo Ernst von Dobschiitz disse a suo tempo, nel 1904, come da quasi 100 anni appaia essere un risultato consolidato della ricerca storica il fatto che la comunità pri­ mitiva non era una Chiesa tra gli ebrei e neanche voleva esserlo. Piut­ tosto era «Una conventicola di ebrei che credevano nel Messia >>, con la tendenza ad acquisire proseliti nel popolo per la sua confessione parti­ colare, esercitando una propaganda il più possibile discreta 16• Questa spiegazione evidenzia giustamente una situazione sociologica di fatto che gli Atti degli Apostol i presuppongono tacitamente: sotto l'aspetto sociologico il gruppo dei discepoli di Gesù viveva all'interno della co­ munità di popolo ebrea. Dal loro ambiente ebraico essi venivano consi­ derati come una hairesis (At. 24,5.14; 28,22) al pari dei farisei (At. 1 5,5; 26,5 ) o degli esseni (Josephus, Bell. 2,8,7). Hairesis, ebr. min, è un grup­ po politiCo-religioso nell'ambito della collettività ebraica; la parola assume il senso di «eresia» solo verso la fine del 1 secolo. Fondamental­ mente il criterio per l 'appa rtenenza all'ebraismo era il riconoscimento della legge di Mosé, mentre sull'attesa della fine e su molt e altre cose si poteva essere d'opinione diversa. Secondo tutte le notizie disponibili, i discepoli di Gesù, a differenza del Maestro, s'attenevano alla legge e an­ che alle norme levitiche della purificazione. Lo assicura Pietro in At. 10, 14 e l'osservazione sull 'episodio di Antiochia, Gal. 2,12, conferma questo punto degli Atti degli Apostoli. Inoltre, secondo At . 2,46; 3 , 1 , i discepoli di Gesù partecipavano alla liturgia nel Tempio e frequentavano le sina­ goghe (Mt. 10,17), vivendo a più stretto contatto con la comunità del popolo ebreo rispetto agli esseni. La comunità sociologicamente più analoga alla loro era quella dei farisei. Ma come hanno compreso se stessi ? La loro autocomprensione si esprime nelle loro autodefi.nizioni. Sia in Paolo che negli Atti degli Apo­ stoli la comunità di Gerusalemme è chiamata con enfasi particolare «i santi» ( hai hagioi); molto probabilmente questa definizione trae origine " E. VON DollscHt!Tz, Probleme des apostolischen Zeitalters, 1904, p. 28.

§ 25: I discepoli di Gesù come Chiesa

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dalle loro stesse file (Rom. 15,25 s . 3 1 ; l Cor. 16,1 ; 2 Cor. 8,4; 9,1 .1 2 ; At. 9, 13.32.4 1 ; 26, 10). Lo stesso vale per l'Apocalisse sinottica, quando parla degli «eletti>> ( Mc. 1 3,20.22.27 par. Mt.) e certamente per la parola di Pietro, quando accenna (Mt. 16,18) all'ekklesia, il popolo di Dio o di Gesù. Solo verso la fine del 1 secolo gli ebrei convertiti della Palestina si sono chiamati «i poveri », gli ebioniti. Fino a questo punto i ricerca­ tori sono concordi, invece rimane controverso il modo d'intendere più esattamente queste autodefinizioni. L'opinione di Bultmann s'è evidenziata con precisione quando nella prefazione alla sua teologia, scritta dopo la scoperta dei manoscritti di Qumran, ha dichiarato: «L'analogia più rilevante (cioè rispetto alla co­ munità di Qumran) potrebbe essere che, al pari della setta di Qumran, la comunità primitiva cristiana intese se stessa come il vero Israele della fine dei tempi» 17• Infatti pure il gruppo di Qumran s'era definito in termini esclusivi «i santi>>, «gli eletti>>, la ekklesia (ebr. qahiil). Vole­ vano essere il vero Israele, che prossimamente avrebbe ereditato le promesse d'Israele. Quando si chiamavano >, sostanzialmente avanzavano questa pretesa anche i farisei. Forse anche i discepoli di Gesù hanno inteso se stessi come il «vero Israele >> , che prima della fine si separa dalla massa renitente della «Chiesa del popolO>> d'Israele, per ereditare la salvezza d'Israele? Iso­ late dal contesto della loro proclamazione , quasi tutte le loro autodefi­ nizioni si possono intendere in questo modo; una sola esclude questa comprensione. Secondo Mt. 16,18 18, essi non si chiamano più ekklesia di Dio, come quella [ d'Israele n.d. t. ] , ma ekklesia di Gesù : «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Nei Settanta ekklesia sta per qàhal. Il q•hal jhwh ekklesia kyriou) è il popolo chiamato da Dio 19• Quando, su questo sfondo, la comunità si chiama ekklesia di Gesù, ciò significa: essa è il popolo del Signore messianico Gesù, essa appartiene a Dio attraverso lui. Essa è comunità di salvezza della fine dei tempi. «Le 'porte degli inferi'» (Is. 38,10), che si chiudono dietro ogni uomo, « non la sopraffaranno >> . Essa deve essere costruita come il tempio spirituale - al quale si paragonavano pure gli esseni - su Pietro, la pietra. Pietro è la pietra, perché ha riconosciuto Gesù come il Cristo e da lui ha avuto affidate le chiavi, perché è Apostolo. La parola =

11 R. 11

BULTMANN, Theo[., cit ., p. 3, VII. Analisi approfondita di questa parola, formulata nella Chiesa primitiva palestinese, in O. CuLLMANN, Petrus. Junger-Apostel-Martyrer, 1960', ( t!'. it. S. Pietro. Discepolo-Apo­ stolo-Martire, in: Primato di Pietro nel pensiero cristiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 1975 ); e A. Vi:iGTLE, Messiasbekenntnis und Petrusverheissung. Per la composizio­ ne di Mt. 16,13-23 par., in: ID., Das Evangelium und die Evangelien, 197 1 , pp. 137-170 . .. K. L. ScHMIDT, ThW III, p. 533.

4. La nuova liturgia accanto all'antica

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dice di Pietro ciò che in Ef. 2,20 e Ap. 21.14 viene attribuito a tutti gli Apostoli. Gli Apostoli sono il fondamento proprio perché, secondo l Cor. 3,1 1 , la Chiesa è costruita sli Gesù; cioè gli Apostoli comunicano la testimonianza originaria di Gesù . Secondo tutto questo, l'ekklesia di Gesù ha inteso se stessa non come il vero Israele, alla stregua degli esseni e dei farisei, ma come l'Israele escatologico già compreso nella basileia del Messia alla fine dei tempi e quindi di Dio. Per usare una frase sviluppatasi solo più tardi, essa è non il vero Israele nell'ambito di quello deformato, ma il nuovo Israele, che chiama nella realtà nuova l'intero popolo della promessa d'Abramo e del patto del Sinai, al di là del confine stabilito dalla con­ danna e risurrezione di Gesù. Perciò i discepoli di Gesù non hanno biso­ gno d'emigrare fuori d'Israele come gli esseni o più tardi fuori della società ellenistica, ma possono convivere con loro nella distanza del già e non-ancora. 4. La nuova liturgia accanto all'antica

a) Spezzare il pane In At. 2,46 viene tramandato come tradizione, nell'ambito d un reso­ conto sintetico: « Ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» . Frequentavano il Tempio non solo per fare opera missionaria, ma anche per parteciparvi alla liturgia (At. 3,1 ). Quindi i pasti nominati in parallelo accanto alla visita al Tempio avevano carattere liturgico, erano la nuova liturgia propria della comunità. Questi pasti venivano definiti con «spezzare il pane» . Nell'ebraismo quello di spezzare il pane era un atto che si faceva all'inizio di ogni pasto (§ 2 1 ,4). Nella comunità era un termine per indicare il suo spe­ ciale pasto liturgico. Più tardi, in At. 20,7, Luca chiama « spezzare il pane» la cerimonia liturgica che in l Cor. 1 1 ,20 Paolo indica come con­ vito del Signore. Nella strutturazione della cerimonia già esistono diffe­ renze tra la descrizione lucana e quella paolina, però in entrambi i casi la cerimonia è costituita dal mangiare e bere sacramentale, ben definiti dalla formula liturgica di l Cor. 1 1 ,23 ss., il cosiddetto racconto del­ l 'istituzione [ dell'Eucaristia ] . Questo vale anche per lo « Spezzarç il pane » della Chiesa primitiva di Gerusalemme? Secondo Hans Lietz­ mann lO e Rudolf Bultmann 21, la cerimonia conviviale della comunità primitiva era un tipo di pasto diverso dal convito del Signore della '

20 H. LIETZMANN, Messe und Herrenmahl, 1926 ( 1953 ), pp. 238-244. 11 R. BULTMANN, Theo[. § 6,4; 8,3.

§ 25: I discepoli di Gesù come Chiesa

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comunità ellenistica. Secondo At. 2,46 la prima si celebrava ccon leti­ zia» (per la salvezza della fine dei tempi) come banchetto escatologico, la seconda (stando all'interpretazione di Paolo in l Cor. 1 1 ,26) annun­ ziava la morte del Signore. Le preghiere di Did. 9 s. presuppongono un banchetto senza relazione con i racconti dell'istituzione. E così Lietz­ mann ha supposto che in esse continuasse a sopravvivere il tipo di convito palestinese. Nella notte del tradimento la prima comunità non avrebbe accolto l'istituzione (presunta), ma avrebbe continuato la co­ munione della mensa dei giorni terreni. Essa sarebbe stata consapevole della presenza di Gesù risorto invisibile in mezzo a loro, come i disce­ poli di Emmaus l'avevano sperimentato forse in una visione. Nel frat­ tempo, in contrasto con questa ipotesi, si è chiarito: in origine le pre­ ghiere di Did. 9 s. si riferivano per natura loro al pranzo normale per saziare la fame, che era collegato al mangiare e bere sacramentale. Nello stesso tempo il nucleo dei racconti dell'istituzione si dimostra sto­ ricamente accertato (§ 2 1 , 1 ). La loro promessa corrispondeva al modo in cui Gesù elevato alla gloria è diventato effettivamente operante dopo la Pentecoste. Come viene sottolineato più drasticamente dalla tradizio­ ne palestinese (Mt. 18,20; 28,20; Apoc. 3,20), rispetto a Paolo e Giovanni, egli era presente fra loro in modo divino, e precisamente sempre in modo da essere operante in loro attraverso il suo Spirito o su di loro attraverso il suo nome. Così ai pasti quotidiani consumati in comune si collegava un mangiare e bere secondo i racconti dell'istituzione, che nel loro ambiente appariva singolare, come tutto ciò che derivava dal­ l'evento della Pasqua.

b) La cosiddetta comunione dei beni I pasti in comune non erano raccomandati solo dalla significatività della comunione di mensa dei giorni terreni, ma determinati anche dalla situazione sociale. Molti fra i discepoli avevano abbandonato la loro attività lavorativa in Galilea, per trasferirsi a Gerusalemme, che sotto l'aspetto economic o in cambio offriva ben poco. Attraverso una donazione volontaria dei pochi possidenti, per la quale si cedevano anche mezzi economici fondamentali per l'esistenza come case e campi, si procurava il necessario per tutti. I resoconti sintetici di At. 2,44 s.; 4,32.34 s . danno l'impressione d'una comunione dei beni. Però, stando ai singoli resoconti di At. 4,36 s.; 5,1-1 1 non s'introdusse un'economia col­ lettivistica basata sulla legge come a Qumràn 22, s'aiutò la comunità con " JosEPHUS, Beli. 2,8,3 s.; Ant. 18,1 ,5; l QS 1 , 1 1-13; 5,2 s.; 6,18-23; Dam. 16; per l'assistenza ai poveri della sinagoga: P. Bru.EI!BECK, n, pp. 643 ss.; bibl.: H. BoLKENSrEIN, Wohltiitigkeit und Armenpflege im vorchristlichen Altertum, 1939; M. HENGEL, Eigentum und Reichtum in der fruhen Kirche, 1973, spec . pp. 3942.

4. La nuova liturgia accanto all'antica

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elargizioni volontarie che mettevano a disposizione anche il necessario

per vivere e superavano di molto le donazioni rilevanti che si racco­ glievano per l'assistenza ai poveri da parte delle comunità delle sinago­ ghe. Queste donazioni inconsuete erano richieste dalla particolare situa­ zione sociale della comunità primitiva e pertanto nel cristianesimo pri­ mitivo non si ripeterono più in nessun luogo. Luca ne parla non come d'un modello da imitare, ma come d'una dimostrazione di ciò che è la Chiesa. Era una dimostrazione della fede fondata da Gesù, che è libera di dare al prossimo ciò che gli è necessario, perché ha rinunziato al calcolo gravato da preoccupazione (M t. 6,25). c) Il Vangelo e la legge - conflitto e compromesso La comunità viveva sulla base del kerygma secondo il discorso della montagna di Gesù e però nello stesso tempo osservava ancora la legge di Mosé, che era insieme legge dello stato. Essa viveva secondo la regola: «Queste cose bisognava praticare senza omettere quelle>> (Mt. 23,23). Per quanto possa sembrare strano, essa viveva una specie di etica dei due regni *. Ben presto anche qui emerse la difficoltà di soste­ nere la tensione tra i due regni. La tensione condusse al conflitto e pertanto pure a un compromesso che risolvesse la tensione. Il conflitto nacque quando Stefano, uno degli ellenisti (A t. 6,5), sot­ tolineò, nella sua predicazione missionaria, la preminenza del nuovo. Probabilmente i suoi interlocutori ebrei si volevano sottrarre alla chia­ mata così radicale alla penitenza, facendo riferimento alla presenza misericordiosa di Dio nel Tempio. Ad ogni modo Stefano diede risalto alla parola di Gesù sulla fine del Tempio, che i discepoli palestinesi avevano tramandato, ma non attualizzato (At. 6,14; cfr. § 24, 1 ): la sal­ vezza di Dio non si deve aspettare in modo definitivo dal Tempio. Per il resto, stando a quanto fanno capire le scarse notizie tramandateci, Stefano non aveva ripreso le espressioni critiche di Gesù nei riguardi della legge. A quanto sembra gli ellenisti di Gerusalemme, che egli rap­ presentava, non avevano ancora propugnato la libertà dalla legge; a Gerusalemme non era un problema acuto. Già la dichiarazione critica sul Tempio bastò a fare espellere Ste­ fano dalla comunità del popolo ebreo. La sua esecuzione capitale me­ diante la giustizia del popolo causò ulteriori attacchi contro i cristiani. Tutti i discepoli che ne sostenevano la concezione, se vollero evitare d'esporsi a un destino analogo, dovettero lasciare Gerusalemme. In pre­ valenza facevano parte del gruppo degli ellenisti, cioè della parte della * Cfr. vol. I, p. 185 (n.d.t.).

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§ 25: l discepoli di Gesù come Chiesa

comunità che parlava in greco, forn'lata da ebrei della diaspora ritor­

nati a Gerusalemme (così va inteso il racconto di At. 7,54-8,3). Per questi discepoli il ritorno alla diaspora fu agevole, specialmente se era loro presente la parola di Gesù sulla fine del Tempio, ponendo da parte l'idea d'un'attuazione della salvezza in Sion. I fatti accaduti a Stefano e agli ellenisti dimostrano fino a che punto s'atteneva alla legge il resto della comunità di Gerusalemme. Come rife­ risce la tradizione sinottica di Gesù, essa non pensò d'infrangere il sabato o i comandamenti sulla purità legale (§ 10,2). Pericopi come Mc. 2,2 1-28; 3,1-6 non sono state formulate per giustificare il compor­ tamento della comunità, ma piuttosto per spiegare la via singolare di Gesù 23• Questo è accertato : la comunità rimasta a Gerusalemme dopo l'emigrazione degli ellenisti si legò alla legge tanto maggiormente quanto più il tempo trascorreva. Perciò perse di vista la preminenza della chiamata al nuovo, come anche la critica di Gesù al vecchio. Più tardi la Chiesa palestinese corse il rischio di diventare, secondo la sua struttura, quello che all'inizio non era, cioè un'hairesis ebraica, che onorava Gesù come Messia e viveva secondo una legge radicalizzata. Per la Chiesa palestinese nel suo compless o questo pericolo fu sventato anzitutto dall'allargamento dell'orizzonte, prodotto dalla fuga degli ellenisti. 5. Il cambiamento della situazione missionaria e l'inizio

del cristianesimo dei pagani libero dalla legge a) La missione centripeta in Gerusalemme Sorprendentemente, durante i primi anni seguiti alla dipartita di Gesù, gli Apostoli erano rimasti a Gerusalemme e non erano usciti per svolgere opera di missione itinerante. Secondo Gal. 1 , 1 8 s . , Paolo li andò a cercare a Gerusalemme. Gli Atti degli Apostoli (cfr. 8,1 ) forniscono notizie analoghe. Questo comportamento si può comprendere oggetti­ vamente: essi aspettavano che in breve tempo Israele si volgesse al suo Messia e che poi i popoli gli s'aggregassero, cioè speravano in uno svi­ luppo del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, corrispondente alla tra­ dizione ( I s. 2,2-4 ). In questo senso avevano inteso la parola di Gesù: «Molti verranno dall'oriente e dall'occidente e sederanno a mensa con Abramo, !sacco e Giacobbe» (Mt. 8,10 s.). 23 R. BuLTMANN (Theol. , cit . , § 8 ,2 ) per la verità ritiene che l a comunità di Gerusalem­ me abbia conosciuto un periodo primitivo liberale, nel quale le cose andavano diversa­ mente; però questo è un postulato non verificabile attraverso nessun accenno storico.

5. Il cambiamento della situazione missionaria

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b) L'inizio della missione itinerante

Pochi anni dopo si vide che il messaggio degli Aposto l i non veniva ascoltato né dalla massa del popolo né dai rappresentanti d'Israele. Dapprima gli Apostoli e i discepoli della Palestina non ne vollero pren­ dere atto. Così, secondo il racconto leggendario di Egesippo, Giacomo, il fratello del Signore, pregò quotidianamente nel Tempio ancora per decenni, invocando la conversione d'Israele 24, finché nel 62 il sommo sacerdote lo fece processare, interrompendo così il contatto della comu­ nità col Tempio. Mentre la comunità di Gerusalemme continuava a preoccuparsi d'Israele, la cacciata degli ellenisti da Gerusalemme diede spontaneamente inizio a una missione itinerante. Cosi già circa tre anni dopo la fine di Gesù, oltre alla missione centripeta in Gerusalemme, si ebbe una missione itinerante centrifuga (A t. 8,4 s.; 1 1 , 19 s.). c) La comunità-madre del cristianesimo dei pagani Dopo breve tempo, in seguito a questa missione itinerante sponta­ nea, ad Antiochia sull'Oronte in Siria, una grande città ellenistica che allora contava circa 300.000 abitanti, sorse una comunità cristiana pre­ valentemente costituita da pagani convertiti, la quale nel complesso ' non viveva più secondo la legge di Mosé (cfr. Gal. 2,1 1 s.). Essa diventò la comunità-madre del cristianesimo dei Gentili, nata sulla base non d'un programma teologico o d'una pianificazione ecclesiale, ma attra­ verso la dinamica del Vangelo. In seguito alla predicazione degli «elle­ nisti» nelle sinagoghe, arrivarono alla fede uomini ellenisti non circon­ cisi, che qui come ovunque avevano contatti con le sinagoghe, e vennero battezzati senza esigere la circoncisione e con ciò la sottomissione alla legge. Questo avvenimento, che fece epoca, viene raccontato solo breve­ mente da Luca in At. 1 1 ,20 s. L'evangelista tenta di spiegarlo sostanzial­ mente come uno sviluppo da Gerusalemme, in quanto prima illustra estesamente il battesimo del non circonciso Cornelio da parte di Pietro e la discussione seguitane a Gerusalemme (At. 10, 1-1 1 , 1 8). Fa giustifi­ care a Pietro il battesimo del non circonciso davanti alla comunità di Gerusalemme con queste parole: « Se dunque Dio ha dato loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impediment o a Dio ?» ( 1 1 ,17). Con questa frase viene descritta esattamente l'empiria, l'esperienza pratica ; in questo modo nasce la Chiesa. Però il cristianesimo dei Gentili, che si è sviluppato in questo modo, potè comunque reggersi e acquisire una struttura come Chiesa •

EuSEBius,

H.E. 2,23,1 1-19.

§ 26: Gli inizi della cristologia

380

solo quando venne chiarito teol ogicamente . B sotto l'aspetto teologico c'era da chiarire molto di più dei problemi affrontati nel racconto su Cornelio. Si doveva portare avanti il discorso sul fondamento della predicazione e della Chiesa sotto Israele, fino al configurarsi della Chiesa formata da ebrei e da Gentili e di una proclamazione e d'una teologia che le riunisse e sostenesse. d) La preparazione del passaggio al cristianesimo ellenistico Per l ulteriore evoluzione che si attuò partendo da Antiochia fu molto importante che la transizione dall'ambito linguistico aramaico a quello greco fosse già avvenuta a Gerusalemme durante i primi anni, in modo che la tradizione della comunità primitiva fosse bilingue fin dall'inizio. Con questo s'era compiuto anche un primo passo dal mondo del pensiero e delle idee dell'ebraismo palestinese a quello dell 'elle­ nismo. Certamente - l'ha rivelato l 'esito delle ricerche più recenti - in Palestina lo scambio tra ebraismo ed ellenismo era in corso da lungo tempo 25• Nonostante ciò, per il cristianesimo il passo da un ambito all'altro fu tutt'altro che privo di problemi. Già in Gerusalemme sorsero notevoli tensioni fra la parte della comunità primitiva d'origine pale­ stinese e quella proveniente dalla diaspora ebrea. Lo stesso Luca, il quale tende a minimizzare e semp lificare molto i contrasti del periodo primitivo, riferisce del conflitto sorto fra questi due gruppi, gli « ebrei,. e gli «ellenisti » (At. 6, 1-6). Così bisogna vedere se queste divergenze siano già rilevabili nelle scarse tradizioni dottrinali della prima Chiesa palestinese. Vedremo di tenere sott'occhio questo problema nel cer­ care ora d'individuare il nucleo centrale che sostenne la formazione e la vita di questa comunità, preparandone sostanzialmente l'ulteriore evoluzione, cioè la cristologia che si esprime dalla sua predicazione, dalla sua professione di fede e dalla sua preghiera. '

,

§ 26 : Gli inizi della cristologia Esposizioni complessive: WILHELM BoussET, Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfiingen des Christentums bis Ireniius, 1921' ( 1967'); OscAR CULLMANN, Die Christologie des Neuen Testaments, 1957 ( 1966' ) ; tr. i t., La cristologia del NT (dall'ed. ted. del 1966) con intr. di C.M. MARTINI, Bologna 1970; EDU ARD SCHWEIZER, Erniedrigung und Erhohung bei Jesus und seinen Nachfol­ gern, 1 914'; FERDINAND HAHN, Christologische Hoheitstitel. Ihre Geschichte im

" M.

HENGEL, Judentum und Hellenismus, 1973'.

1. Il rapporto con la predicazione di Gesù

381

fruhen Christentum, 1 963 ( 1 966'); WERNER KRAMER, Christos Kyrios Gottessohn, 1 963 ; PHILIP VIELHAUER, Ein Weg zur neutestamentlichen Christologie? Prufung der Thesen Ferdinand Hahns, Ev. Theol. 25 ( 1965 ), pp. 24-72; KLAUS WENGST, Chri­ stologische Forme/n und Lieder des Urchristentums, 1 974'. - Sulla metodologia: HoRST ROBERT BALZ, Methodische Probleme der neutestamentlichen Christologie, 1 967; FERDINAND HAHN, Methodenprobleme einer Christologie des Neuen Testa­ ments, VF 15 ( 1 970), pp. 3-4 1 . - Zu 2 e 6: ERNST HAENCHEN, Die friihe Christologie, ZThK 63 ( 1966), pp. 145- 159; WILHELM THtlSING, Erhohungsvorstellung und Paru­ sieerwartung in der iiltesten nachosterlichen Christologie, BZ NF I l ( 1967 ), pp. 95-108; JOS EF ERNST, Anfiinge der Christologie, 1 972; MARTIN HENGEL, Christologie und neutestamentliche Chronologie, in: Neues Testament und Geschichte, Fest­ schr. fur O. Cullmann, 1 972, pp. 43-67. - Su 3: AooLF voN HARNACK, Die Bezeich­ nung Jesu als «Knecht Gottes• und ihre Geschichte in der alten Kirche, SAB 1926, pp. 2 1 2-238; JoACHIM JEREMIAS, pais theou, ThW v, pp. 698-703; tr. i t., GLNT IX, coli. 393-406. - Su 5: KARL GEORG KUHN, maranatha, ThW IV, pp. 470-475; tr. it., GLNT VI, coli . 1249-1265 ; SIEGFRIED SCHULZ, Maranatha und Kyrios Jesus, ZNW 53 ( 1 962 ), 1 25-144; BJORN SANDVIK, Das Kommen des Herrn beim Abendmahl im Neuen Testament, 1 970; GIUSEPPE SEGALLA, Cristologia del NT, in AA.VV., Il pro­ blema cristologico oggi, Assisi 1 973, pp. 13-142.

1. Il rapporto con la predicaz ione di Gesù

a) La differenza Il più antico kerygma missionario segue lo schema che sta alla base della predicazione di Pietro in At. 2-5 : voi avete ucciso Gesù, Dio l'ha risuscitato, perciò convertitevi (§ 25,1 b)! Però Gesù aveva predicato « Convertitevi, perché il Regno di Dio è vicino ». La differenza è evi­ dente: Gesù chiama alla conversione in vista dell'imminente venuta del Regno, i discepoli in vista della sua avvenuta risurrezione. Adolf von Harnack ha riassunto questa differenza nel suo corso di lezioni su Das Wesen des Christentums ( 1900) * con la seguente formula molto incisiva: Dal Vangelo di Gesù è venu to il Vangelo di Gesù Cristo 1 • Bultmann formula l o stesso concetto così : 4• Analogo il giudizio di Hans Conzelmann : prima della Pasqua si ha una cristologia «indiretta », dopo la Pasqua una . Gesù storico ha inteso se stesso come annun­ ciatore del messaggio divino, ma non come mediatore. Mediatore è diventato solo dopo la Pasqua nelle professioni di fede. Quindi > della promessa (Rom. 4,16), non quale « adempi­ mento>> come in Matteo 22 • Con ciò all'intera storia d'Israele raccontata nell'AT viene imposto il segno della «promessa», ma non solo, diventa promessa essa stessa. b ) Il typos In Rom. 4 viene fatta prima l'esegesi del racconto della giustificazio­ ne di Abramo (vv. 1-8), poi, contrariamente alla visione ebraica e storica dell'AT, viene stabilito che questa giustificazione vale indipendentemen­ te dalla circoncisione e dalla legge (vv. 9-12. 1 3-17) e infine nei vv. 1 8-25 viene esteso l'arco dalla giustificazione di Abramo a quella dei cristiani : esse non sono collegate fra loro dalla continuità della storia, in quanto tale continuità era data dalla circoncisione e dalla legge e viene messa da parte con esse. Abramo è collegato ai cristiani dall'affinità della chia­ mata alla fede, che là derivava dalla promessa (vv. 1 8-22 ) e qui dalla sua realizzazione (vv. 23-25): «E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato [ la fede ] come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà egualmente accreditato : a noi che crediamo in colui che ha risusci­ tato dai morti Gesù nostro Signore>> (4,23 s.). Nel passo, avente lo stes­ so tenore, di l Cor. 10, 1 1 Paolo inserisce il termine con il quale enuncia la relazione qui intesa fra vicende dell'AT e del NT: «Tutte queste cose (cioè gli avvenimenti del tempo del deserto) però accaddero a loro come esempio ( typikos), e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi >> . Le vicende del tempo del de­ serto, com'è detto brevemente sopra, sono esempi promettenti del tempo della salvezza ( typoi). In Rom. 5,14 Paolo chiama Adamo typos tou mellontos, prefigurazione dell'(Adamo ) eh� verrà: Adamo è il pre­ annuncio antitetico del secondo Adamo, di Cristo. Il vocabolo greco typos, ricco di significato, in origine voleva dire l'immagine previa che dà l'impronta, come l'impronta di un sigillo, che viene impressa. Di questo vocabolo Paolo fa un termine ermeneutico 23 per un modo di interpretare la storia dell'AT che era corrente nella tra" Cfr. G. DELLING, ThW VI, pp. 293 ss.; su pleroma in Gal. 4,4; Ef. 1,10 vedi ivi, pp. 303 s. , L. GoPPBLT, ThW VIII, pp. 251-257.

4. Principi ermeneutici

427

dizione veterotestamentaria dal tempo del Deuteroisaia: avvenimenti della storia passata dell'elezione venivano intesi come annuncio dell'in­ tervento escatologico di Dio. Il primo esodo diventa annuncio del secon­ do, che sarà più splendido ( Is. 43, 1 8 s.), Davide diventa allusione al da­ vidico re della salvezza (2 Sam. 7,12; ls. 1 1 , 1 ) e Mosé ai profeti della fine dei tempi (Dt. 1 8 , 1 8 ) 24• Gesù per primo aveva messo i n relazione questa utilizzazione della storia dell'elezione per l'attesa della fine dei tempi non col futuro escatologico, ma con il suo presente (§ 7,3). Paolo lo segue in questo modo di considerare le co se L'utilizzazione tipologica dell'AT non è un metodo esegetico, ma certo un modo di considerare le cose ben definito, applicato meditatamente: con una visione retrospet­ tiva, che parte dagli eventi della storia di Cristo, Paolo rileva in persone, istituzioni o avvenimenti dell'AT rappresentazioni previe annunziatrici dell'azione di Dio alla fine dei tempi. Questi tipi non sono, poniamo, analogie storiche, ma rapporti di Dio con l'uomo testimoniati dall'AT, rapporti che annunciano, in modo positivo o antitetico, un rapporto ple nario con Dio, corrispondente ma allo stesso tempo intensificato in senso escatologico . Il carattere di annuncio si basa sulla fedeltà di Dio alla promessa. Perciò la tipologia è indipendente d'un tratto note­ volmente ampio dalla storicità della rappresentazione storica dell'AT. Per esempio, il rapporto di Abramo con Dio, che troviamo in Gn. 1 5 ,6, è uno schema profetico, che vale anche indipendentemente dalla religio­ sità storica di Abramo. Come acquisisce Paolo i tipi dell'AT ? Sulla base della tradizione in­ terpretativa tipologica che già si avvia nell'AT, il suo sguardo si muove alternativamente fra la vicenda di Cristo e la storia dell'AT, per inter­ pretarle l'una con l'altra. In questo modo nasce la tipologia di Adamo­ Cristo in Rom. 5,12-2 1 (cfr. l Cor 15,21 .44-49), che abbraccia l'intera sto­ ria dell'umanità e la tipologia di Abramo in Rom. 4,1-25; Gal. 3,6-18, che illumina la storia dell'elezione. In questo modo Paolo può anche ribat­ tere puntualmente in l Cor. 10,1-1 1 un'errata comprensione dei sacra­ menti con la tipologia del periodo del deserto e fornire un chiarimento della sua implicazione etica. Dunque in realtà non è affatto vero che verrebbero introdotti nell'AT punti di vista neotestamentari solo per un interesse apologetico. Tra i molti rimandi dell'Apostolo all'AT, le tipologie numericamente sono soltanto una piccola parte 25, ma insieme al rinvio alla > (Rom. 8,28-30; 1 1 ,28 s.). Così Paolo conosce la di Dio s'incontrano in un determinato > come > . Egli conosce la storia della salvezza come storia di elezione, promessa e chiamata 34 • In l Cor. 1 5,20-28 e Rom. 8,1 8-30 Paolo dichiara con un repertorio concettuale apocalittico che il compimento nel > ecc. In Paolo la parola «divino>>, che qui continua a ritornare, non viene mai riferita a Gesù; in tutto il NT compare solo due volte e senza alcun riferimento cristo­ logico (At. 17,29; 2 Pt. 1 ,3 s.). Il titolo «Figlio di Dio » mette Gesù, anche per i cristiani ellenistici, in un rapporto particolare col Dio dell'AT, che non è la profondità del cosmo, ma il «TU>> di carattere personale che sta di fronte a tutto l'essere del mondo. Così la teoria del trasferimento trascura il decisivo problema di fondo oggettivo per l'origine della cri­ stologia ellenistica e cioè: come potè Gesù, morto da pochi anni, essere messo in rapporto con il Dio dell'AT, così come esprime il titolo «Figlio di Dio >> nella tradizione della Chiesa ellenistica ripresa da Paolo? 2. Panoramica sull'uso della designazione «Figlio di Dio » a) L'uso della parola Già l'uso della parola è illuminante al riguardo. In Paolo il titolo « Figlio di Dio>> e l'assoluto «il Figlio>> si trovano solo una volta o due ciascuno (2 Cor. 1 , 19; cfr. Ef. 4,13 e 1 Cor. 15,28), altrimenti «Figlio» è sempre collegato col pronome possessivo: «suo Figlio », perché il sog­ getto dell'enunciazione è Dio. Quindi la locuzione viene usata non come titolo tradizionale, ma in conformità al suo contenuto specifico per enunciare il rapporto di Gesù con Dio. Figlio ( di Dio) è «nell'uso paolina la designazione del portatore della salvezza sotto l'aspetto della sua ap partenenza a Dio >> 10• 10

W. KRAMER, Christos, cit., p. 185.

§ 33: Il Figlio di Dio

442

b) Le ricorrenze Nel complesso Paolo usa la designazione relativamente meno che nella Lettera agli Ebrei o nel Vangelo secondo Giovanni, cioè 1 5 volte. Sotto l 'aspetto della storia delle tradizioni, sei di questi passi rientrano in formule o locuzioni tramandate (Rom. 1 ,4 ; 8 ,3 .32 ; Gal. 2,20; 4,4 s.; l Tess. 1 , 1 0), nove in formulazioni proprie dell 'Apostolo ( Rom. 1 ,3.9; 5,10; 8,29; l Cor. l ,9; 1 5 ,28; 2 Cor. l , l9; Gal. 1 , 1 6 ; 4 ;6 ) 11 • Le enunciazioni tramandateci sono - tranne la formula dell'eleva­ zione alla gloria proveniente dalla Chiesa palestinese in Rom. 1 ,3 .4 una formula dell'invio (Rom. 8,3), due formule della donazione ( Rom. 8,32; Gal. 2,20) e una formula della parusia ( l Tess. l ,9 b.lO). Le formu­ lazioni paoline non si possono classificare in categorie specifiche di enunciazioni. Se si bada al contenuto delle enunciazioni nel loro complesso, tra la professione della Chiesa palestinese in Rom. 1 ,3 s. e Paolo si nota un notevole sviluppo. 3. L'inizio dell'opera del Figlio

a) Secondo la più antica professione della Chiesa palestinese, con la risurrezione e con la glorificazione Gesù era stato «costituito Figlio di Di o con potenza» (Rom. 1 ,3 s.; § 26,4 ). Che cos'era prima? Figlio di Dio in debolezza ? Non è detto. La professione vuole enunciare la vocazione a un operare, non un essere. b) Questa enunciazione della cristologia palestinese dell'elevazione alla gloria sull'operare come Figlio fu sviluppata per un verso in vista del suo presentarsi storico e per un altro verso in vista del suo rapporto con il cosmo. l . Secondo uno strato molto primitivo della tradizione sinottica, nel battesimo di Giovanni Gesù viene chiamato a operare come « il Figlio prediletto ( unico)» ( Mc. 1 , 1 0 s.; § 5,3). Così la sua attività terrena sta sotto questo indice. Negli antefatti secondo Matteo e Luca s 'indaga retrospettivamente sull'origine storica della sua venuta e si spiega: la vita storica di Gesù è determinata fin dalla radice in un modo unico nel suo genere dallo Spirito di Dio. Perciò, secondo Le. 1 ,35, lo si deve chiamare « Figlio di Dio» fin dalla nascita - non perché la nascita dallo Spirito corri­ sponda al concepimento mitologico da parte di una divinità (cfr. § 4,2). In Paolo queste due enunciazioni non compaiono, anche se già ai suoi tempi la prima di sicuro, la seconda probabilmente esisteva in tra=

11

Lo indica come verosimile W. KRAMER, Christos, cit., p. 183.

4. Origine dell'enunciazione della preesistenza

443

dizioni della Chiesa palestinese. Esse rientrano nella cornice della tradi­ zione dei Vangeli. 2. Invece Paolo riprende quello che dalla cristologia dell'elevazione alla gloria è stato derivato nella professione della Chiesa ellenistica: Gesù è l'incarnazione del Figlio preesistente. Come s'è potuto caratteriz­ zare un uomo in questo modo appena 15 anni dopo la sua fine ? Com'è nata la cristologia della preesistenza ? 4. Origine dell'enunciazione della preesistenza

a) Il motivo oggettivo Se, come ammette la scuola della storia delle religioni, la cristologia fosse sorta semplicemente attraverso il trasferimento di schemi mitici su Gesù, non si vedrebbe perché, già nella tradizione sinottica, non sa­ rebbe stata dichiarata una preesistenza del Figlio dell'uomo, dato che secondo l'apocalittica ebraica 12 il Figlio dell'uomo è nascosto dall 'eter­ nità accanto al trono dell'Altissimo. Parimenti l'interpretazione di Gesù come rappresentante della sapienza di Mt. 1 1 ,25 s. e a. avrebbe potuto ti­ rarsi dietro la rappresentazione della preesistenza della Sapienza ( Prov. 8,22 ss.; Sir. 24,3 ss.). Comunque la cristologia della preesistenza si è sviluppata nel momento in cui s'è reso necessario a causa del kerygma e della fede, cioè quando l 'evangelo ha incontrato l'uomo ellenistico. L'uomo palestinese ebreo esperiva il mondo come storia e perciò com­ prendeva Gesù come colui che dà compimento escatologico alla storia. Invece per l'uomo ellenistico il mondo era il cosmo, l'edificio del mondo dominato da varie potenze. Perciò tutte le enunciazioni su Gesù desti­ nate ad avere significato per l'esistenza di questo uomo ellenistico do­ vevano anche essere messe in relazione con il cosmo. Da questa motiva­ zione si può oggettivamente comprendere l 'origine dell'enunciazione della preesistenza: si è sviluppata una cognizione di fede che metteva in rapporto la venuta di Gesù per sua e ssenza con il cosmo. b) I mezzi linguistici Per esprimere questa cognizione di fede l'ebraismo ellenistico offri­ va vari mezzi di linguaggio e di rappresentazione. Esso aveva messo in relazione la Sapienza personificata con il cosmo. Stretti contatti dimo­ strano che il cristianesimo ellenistico si riallacciò a questa rappresen12

Hen. aet. 39,6; 40,5; 48,3.6; 62,7; 4 Esd. 13,20.52.

§ 33: Il Figlio di Dio

444

tazione 13• Gal. 4,4 parla dell'invio del Figlio come Sap. 9,10 di quello della Sapienza: «Mandala dai cieli santi, dal tuo trono glorioso». Come in Gal . 4,6, in Sap. 9,17 segue un'enunciazione parallela sull'invio dello Spirito e solo in questi due punti Paolo usa per « inviare» il verbo exapostello, che sta anche nel libro della Sapienza. Poi la venuta nel mondo conduce comunque solo a un abitare della Sapienza in Israele nella figura della Tora ( Sir. 24,1 1 ) o ad un'ispirazione di uomini con mis­ sione profetica, « E attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti >> ( Sap. 7,27 ), ma non a un'incarnazione. La preesistenza, precedente alla venuta nel mondo, qui come là enun­ cia una mediazione della creazione sia da parte di Cristo in l Cor. 8,6 e a., sia da parte della Sapienza in Prov. 3,19; 8,22-3 1 ; Sap. 9,1 s.; Sir. 24,3; Philo Det. Pot. /ns. 54 e a. Con l'aiuto di questi mezzi linguistici, per il motivo oggettivo citato, si ebbero le enunciazioni raccolte qui di seguito sulla preesistenza. S. Invio e incarnazione del Figlio preesistente

a) Formule In Gal. 4,4 s. e in Rom. 8,3 troviamo l'enunciazione «Dio mandò suo Figlio ». Essa ha il carattere di formula, perché ritorna indipendente­ mente da Paolo in Gv. 3,( 16.)17; l Gv. 4,9. Nelle frasi con elthon (Mc. 2,17; Lc. 19,10) la tradizione sinottica aveva parlato d'una venuta di Gesù, con ciò intendendo soltanto il suo incarico da parte di Dio. In coordinate cosmiche questa venuta doveva essere caratterizzata come un «venire» dal «TU» che è di fronte a tutto ciò che si chiama mondo; e il suo scopo non poteva essere semplicemente una missione storica, ma solo l'incarnazione: « ... Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge » (Gal. 4,4). Egli viene partorito come uomo e, in modo eguale a tutti, soggetto alla legge. E tuttavia si distingue da tutti; viene inviato «in carne simile a quella del peccato >> (Rom. 8,3 s.): egli diventa «carne» (Gv. 1 , 14), potrebbe dire anche Paolo, ma non « Carne del pec­ cato». Appartiene alla carne ( Rom. 9,5; cfr. 2 Cor. 5,1 6), ma non se ne lascia determinare: non segue > (2 Cor. 4,4). « Immagine (eikon) di Dio >> per 2 Cor. 4 è Cristo come il Crocifisso e l'elevato alla gloria, per Col. 1 , 13 è il > . Con l'aiuto di questa immagine Paolo dichiara ciò che nella fede ha vist o in Cristo: l'essenza di Dio nel suo rivolgersi al mondo. Eikon non è solo l'immagine, ma anche la figura d'una cosa stessa ( cfr. Rom. 1 23 ) 22 • Al riguardo Eh. 1 ,3 dice che il Figlio è « irradia­ zione (apaugasma) della sua gloria e impronta della sua sostanza ». Se­ condo Gv. 1 , 1-1 8 egli è il Logos di Dio stesso; chi lo vede, vede il Padre (Gv. 14,9). ,

b) Paolo chiama Cristo «immagine di Dio », però non «Dio » . Il passo di Rom. 9,5 che spesso è stato interpretato in questo senso è una dosso­ logia di Dio, non di Cristo 23, però Cristo da Paolo viene associato a Dio in una sequenza graduata: «Tutto è vostro ! Ma voi siete di Cristo e Cri­ sto è di Dio» (l Cor. 3,23; cfr. 1 1 ,3). Quindi dal compimento ci si può at­ tendere: « E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti (o « tutte le cose », panta en pasin)>> ( 1 Cor. 15,23 s . 28). La fine non è, come affermano formule analoghe ellenistiche 24, l'identità di Dio con l'universo, ma la sua sovranità salvatrice esclusiva, nella quale si risolve quella del Figlio adesso promanata da lui. c) Conformemente a questo coordinamento, l'atteggiarsi dei due fra loro viene presentato come un'unità personale: Dio invia il Figlio e lo dà in dedizione; però il Figlio è obbediente, s'umilia ( Fil. 2,26 s.) e dà se stesso ( Gal. 2,20). Solo per tal via diviene ciò che è per la comunità; la cristologia della preesistenza non svuota ciò che la cristologia dell'ele­ vazione alla gloria, propria della Chiesa palestinese, ha messo in rilievo. Secondo Rom. 1 ,3 s., il « Figlio>> preesistente diventa « Figlio di Dio con potenza>> solo attraverso il cammino terreno e attraverso l'elevazione alla gloria. Gesù glorificato è Figlio in un senso diverso rispetto al Preesistente, egli viene «esaltato al di sopra di ogni altro>> ( Fil. 2,9), di­ venta il Kyrios (Fil. 2,10 s.).

u H. Ku!JNKNECHT, ThW I I , p. 386. " E. KXSEMANN, Hdb. su Rom. 9,5 ( ivi è riportata la discussione ). [Cfr. comunque l'excursus ( Nota 23) La formula di Rom. 9,5 c.d. : •che è al di sopra di ogni cosa Dio benedetto nei secoli. Amen•, in O. Kuss, La lettera ai Romani, ( tr. it.}, vol . III, Morcel­ liana, Brescia 1981, pp. 94-1 10. n.d. t. ] . " Cfr. E. NORDEN, Agnostos Theos, cit., 19715, p . 241 .

l. La confessione del Kyrios nella Chiesa ellenistica

451

§ 34: Il Kyrios WILHELM BoUSSET, Kyrios, cit., pp. 75-104; WBRNER FOBRSTBR, k y rios , ThW III, pp 1081-1094 ; tr. i t., GLNT v , coli. 1450.1488; OSCAR CuLLMANN, Christol. , pp. 199-244; tr i t., cit., pp. 301-358; SrEGFRIED SCHULZ, Maranatha und Kyrios Jesus, ZNW 53 ( 1 962), pp. 125-144; FERDINAND HAHN, Hoheitstitel, ci t., pp. 67-125; WERNER KRAMER, Christos, §§ 1 5-23; PHILIPP VIELHAUER, Aufsiitze zum Neuen Testamen t, 1965, pp. 147-175; JosEPH A. FITZMYER, Der semitische Hin tergrund des neutestamentlichen Kyrios·

titels, in: Jesus Christus in Historie und Theologie. Festschr. f. H. Conzelmann, cura di G. STRECKER, 1 975, pp. 267-298.

a

Nelle Lettere paolinè il nome Kyrios (Signore) viene usato esclusi­ vamente come designazione di Cristo e occasionalmente, in connessione coi Settanta, come designazione di Dio. Locuzioni del tipo delle formule lasciano capire che qui Paolo riprende la designazione centrale di Cri­ sto della Chiesa ellenistica. l. La confessione del Kyrios della Chiesa ellenistica

a) Tre volte si trova in Paolo la formula «Gesù è il Signore» ( Rom. 10,9; l Cor. 12,3; Fil. 2,1 1 ). Dev'essere stata la confessione fondamentale della Chiesa ellenistica, perché con essa già si conclude l'inno prepaoli­ no di Fil. 2,6-1 1 nel v. 1 1 . Questa è la confessione o professione che reci­ tava il battezzando all'atto del battesimo, poiché Rom. 10,9 suona come una promessa battesimale: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, ... sarai salvo >>. Contemporaneamente trova posto nella litur­ gia della comunità: con l'inno di Fil . 2,10 s., la comunità l'esprime per il momento in funzione dell'intera creazione, fino a quando sarà pro­ clamata universalmente al compimento. Nell'assemblea della comunità essa è contemporaneamente il criterio sul quale gli spiriti si dividono (l Cor. 12,3). In Rom . 10,9 e in Fil. 2,1 1 pronunciare questa formula viene desi­ gnato esplicitamente come confessare ( homologein) . Secondo Rom. 10,9 in questa confessione si manifesta la fede, che si rivolge al Croci­ fisso come al suo Signore, perché Dio l'ha risuscitato e con ciò esaltato a sovrano escatologico del cosmo. In Fil. 2,9-1 1 questa confessione assu­ me il posto dell'acclamazione nel cerimoniale orientale dell'intronizza­ zione ( § 33,5). Nell'antichità 1 l'intronizzazione è l'applauso spontaneo della folla nell'assemblea del popolo che esprime un riconoscimento ri­ chiesto dalla situazione. Questo riconoscimento vale come atto giuri1 E. I'BTBRsoN, Heis Theos, 1926, pp. 133

s.,

141-145.

§ 34: Il Kyrios

452

dico vincolante e come tale viene fissato in un documento 2• La confes­ sione assume questo carattere quando nel compimento tutto il creato riconosce il suo Creatore. Nella comunità tuttavia difficilmente la con­ fessione [ della fede ] del Kyrios si estrinsecava in questa forma, in ogni caso la sua impegnatività non era mai quella d'un atto giuridico col­ lettivo, ma quella della fede personale attuale. Quindi non la si dovreb­ be definire acclamazione della comunità l. b) Già in ragione di questa confessione i cristiani sono chiamati co­ loro che « invocano il nome del Signore » ( Rom. 10,12 s., con riferimento al v. 9). Con questa confessione Gesù viene riconosciuto col nome di Kyrios ( Fil. 2,9-1 1 ), chi confessa [ la fede ] si mette sotto la sua prote­ zione e la sua direttiva, « lo invoca». Lo stesso avviene ancora attraver­ so tutti gli atti liturgici nei quali viene chiamato «il Signore», affinché operi secondo la sua promessa. Il battesimo purifica nel suo nome ( l Cor. 6,1 1 ) e « nel nome del Signore Gesù Cristo, essendo radunati insie­ me », la comunità col suo « potere » deve espellere il reo d'incesto ( l Cor. 5,4 ) Lo > «tollerato>> (paresis ), di modo che Dio si dimostra fedele a se stesso. In modo analogo si parla ancora più chiaramente in Eh. 9, 1 5 .22. In base a questa espiazione per mezzo della morte di Gesù, cioè «nel suo san­ gue », questa Nuova Alleanza può sostituire legittimamente un rapporto nuovo con Dio a quello esistente fin allora. Però l'espiazione, per la quale ciò avviene, in Rom. 3,25 a è caratterizzata da un'altra tradizione ideale, che anche in Eh . 9 è collegata a quella appena citata. 3. La parola centrale sull'hilasterion di Rom. 3,25 a, dice così: « Dio lo ( cioè Cristo crocifisso) ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo del suo sangue (hilasterion en to autou haimati), al fine di manifestare la sua giustizia>> . Che cosa s'intende dire con hilasterion? La parola indica in greco l elemento espiante, il mezzo dell'espiazione ( cfr. 4 Macc. 17,22) . Se qui si usa questo significato generale, com'è avvenuto spesso 18, ne deriva una enunciazione molto sbiadita: la morte pubblica di Gesù era stata mezzo dell'espiazione e quindi « dimostrazione della giustizia di Dio » . Comunque, nessuno può spiegare perché u n atto d'espiazione come tale debba essere dimostrazione della giustizia, della fedeltà all'alleanza di '

11

Presa di posizione meditata sulla discussione in W. HUBER, Passa und Ostern,

1%9, pp. 108 s.

17 Es. 34,6 s.: • Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che per­ dona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione •. Infine questo viene ripreso in Dam. 2,4 s.: •Longanimità è in lui e ricco perdono, per creare espiazione per coloro che si sono allontanati dal peccato•, cioè per coloro che sono entrati nella Nuova ( rinnovata) Alleanza. 11 Così per ultimo E. KASEMANN, Hdb. su Rom. 3,25; K. WeNGST, loc. cit., p . 83; W. ScHRAGE, loc. cit. (§ 35,4 bibl. ) , p. 8 1 .

4. Gli sviluppi della formula con 'hyper'

469

Dio. Però ai lettori della Lettera ai Romani, che conoscevano i Settanta, questa parola raramente usata nella lingua greca era resa familiare dal­ l'uso centrale che se ne faceva: i Settanta traducono con hilasterion il vocabolo ebraico kapporet 19• La kapporet è la lastra che copre l'arca dell'alleanza conservata nel Sancta sanctorum del primo Tempio, il segno della presenza misericordiosa di Dio fra il suo popolo. Questa lastra (e rispettivamente il suo posto nel secondo Tempio), secondo Lv. 16,14 s., nel grand& giorno della riconciliazione (più esattamente: « il giorno della espiazione» [ hemera exhilasmou ] Lv. 23,27; cfr. 16,30; 25,9) veniva aspersa dal sommo sacerdote con il sangue della vittima espiatoria. Dio, presente in questo luogo, accoglie qui l'espiazione che ha istituita. Ancora nel periodo neotestamentario il giorno della ricon­ ciliazione era per ogni ebreo il grande giorno del condono; per mezzo di questo atto d'espiazione erano estinti tutti i peccati dell'anno tra­ scorso di cui ci si era pentiti 20• Il brano citato ricorda quasi inevita­ bilmente questo rito espiatorio, se designa Cristo crocifisso come I'« hilasterion nel suo sangue >> 21 • L'immagine tuttavia è molto sovraccarica: nel Crocifisso sono pre­ senti contemporaneamente « la lastra espiatoria», la quale simboleggia la presenza del Dio che istituisce e che accoglie l'espiazione, e il sangue espiatorio, la morte espiatoria. Ciò serve a significare che Dio era pre­ sente nel Crocifisso e ha accolto la sua morte come espiazione. Questa rappresentazione corrisponde alla struttura della teologia paolina. t=. caratteristico di Paolo intendere la morte di Gesù in primo luogo come atto di Dio: « t=. stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in CristO>> (2 Cor. 5,19). Questa frase dà copertura alla nostra immagine, anche se riconciliare non vuoi dire espiare (§ 39,3 ). Le immagini di cui si serve Paolo non sono certamente senz'altro felici. In Rom. 3,25 non si tratta inoltre di immagini ; Paolo non vuole sem­ plicemente illustrare l'argomento. L'atto espiatorio di Lv. 16 per lui è, non meno degli eventi del tempo di Mosè ( l Cor. 1 0,6. 1 1 ), rappresenta­ zione profetica promessa del compimento, typos. Se la morte di Gesù è il corrispondente tipologico dell'atto espiatorio di Lv. 16, allora il venerdì santo era il giorno escatologico della riconciliazione, che recava una volta per tutte l'espiazione di ogni « trasgressione >> (Rom. 4,25 ; cfr. 3,25 b) e con ciò la libertà dalla schiavitù del peccato come potenza ( Rom. 6,10). Essendo stato attuato in conformità con l'istituzione del­ l'Antica Alleanza secondo Lv. 16, questo atto espiatorio era la dimostra­ zione della fedeltà di Dio all'alleanza, in altre parole : era dimostraLXX (p. es. Es. 25,16 ss. Lv. 16,2.13 ss.). "' P. BILLERBECK III, pp. 165-185. Così, secondo altri, A. SCHLATTER, Gottes Gerechtigkeit, cit.; F. BtJCHSI!L, ThW III, p. 32 1 ; H .-J. SCHOEPS, Paulus, cit., pp. 133 ss.

" Circa 20 volte nei

21

470

§ 35: Il cammino di Cristo come rivelazione di salvezza: la croce

zione della sua giustizia. Il venerdì santo, come giorno escatologico. della riconciliazione, era la dimostrazione della giustizia di Dio. Il riferimento a Lv. 16, che in Rom. 3,25 è indicato implicitamente dalla terminologia, in Eh. 8-10 viene dichiarato esplicitamente (9,7. 1 1-14.24-28; 10,3). Là Cristo è il sommo sacerdote che presenta a Dio il suo proprio sangue, mentre qui è la lastra espiatoria sulla quale Dio accoglie il suo sangue. Verosimilmente la Lettera agli Ebrei e Paolo hanno usato in modo diverso la stessa tradizione del cristianesimo pri­ mitivo, un'interpretazione tipologica della morte di Gesù con l'aiuto di Lv. 16 (cfr. § 47,4 c). Senz'altro molti segni lasciano capire che in Rom. 3,25 Paolo elabora elementi della tradizione 22• Appare decisivo il fatto che questa meditazione scritta non presenti la formula con 'hyper' semplicemente in una costruzione di pensiero, ma la inserisca nella realtà del rapporto fra Dio e uomo come l'AT lo sco­ pre e come è stato ristrutturato da Gesù : finora la vita umana stava universalmente sotto la tutela e la remunerazione temporanea che il patto del Sinai stabilisce esplicitamente per Israele. La parola della croce non annulla questa realtà, non la elimina come fosse una teoria sbagliata, ma la riconosce e la trasvaluta superandola per mezzo del­ l'espiazione. Soltanto così la realtà empirica fissata dal patto della legge può essere credibilmente superata per mezzo dell'alleanza esca­ tologica, che poggia solo sulla nuova dimostrazione di grazia di Dio e solo sulla libera responsabilità dell'uomo, ch'essa produce. Così la rappresentazione veterotestamentaria del sacrificio espiatorio può aiu­ tare a capire la formula con 'hyper' e a verificare dall'interno se questo ordine è inteso non come una teoria d'una religiosità antica, ma come statuizione di Dio corrispondente alla realtà e che al tempo stesso, nella promessa come typos, rimanda oltre se stessa. Questa linea si prolunga riprendendo una seconda serie di enuncia­ zioni paoline sul diritto divino, allo scopo di spiegare il significato espiatorio della croce. ·

b) n d�ritto di Dio La dottrina della soddisfazione di Anselmo di Canterbury, che ha influenzato la teologia occidentale fino ai nostri giorni, spiega il signi" Per la verità nel v. 22 non compare un concetto della giustizia di Dio diverso da quello che troviamo altrove in Paolo (§ 39). Ma la relazione bilaterale della dimostra· zione della giustizia con !"una volta' universale della pazienza (v. 25 b . ) e nei riguardi dell" adesso' della giustizia (v. 26 a.), il cui rovescio è l'ira ( 1 ,18), non è specificamente paolina, ma viene suggerita dalla tradizione della tipologia del giorno della riconcilia· zione e del rinnovo dell'alleanza (vedi nota 17). Inoltre la frase è linguisticamente so­ vraccarica: dia pisteos sta fra hilasterion e en to autou haimati.

4. Gli sviluppi della formula con 'hyper'

471

ficato espiatorio della morte di Gesù sulla base del pensiero giuridico germanico, cioè partendo da un presupposto che le era storicamente e oggettivamente estraneo. Invece Paolo parte dal diritto divino dell'AT, quando in Gal. 3 , 1 0 cita la conclusione del cerimoniale della maledizio­ ne di Dt. 27,1 5-26: « Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle». Questa formula di ma­ ledizione è stata ripresa cultualmente non solo in occasione dell'impe­ gno a rispettare il decalogo di Sichem (Dt. 27, [ 1 1 . ] 1 5-26), ma per la fe­ sta del rinnovo dell'alleanza a Qumrfm ( lQS 2,4-19). Secondo questa tradizione veterotestamentaria corrente nell'ebraismo, Paolo vede che gli uomini per i quali vale l'ordine di punizione della legge (e secondo Rom. 2,6 sono tutti) sono caduti sotto questa maledizione. E poi guarda al Crocifisso e in Gal. 3 , 1 3 spiega ulteriormente: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto : Maledetto chi pende dal legno» (Dt. 2 1 ,23 ). Cristo di­ venta una maledizione, non, poniamo, un maledetto; porta la maledi­ zione della legge, non la somma delle punizioni meritate dagli uomini. 2 Cor. 5,2 1 spiega più esattamente: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato per noi, perché noi potessimo diven­ tare per mezzo di lui giustizia di Dio ». Non diventò peccatore, ma uno segnato dal peccato. Il peccato separa da Dio e consegna alla morte. Nella sua morte Gesù ha sofferto questa separazione e questa consegna in rappresentanza vicaria e in espiazione. La serie di enunciazioni che deriva dal diritto dell'AT sottolinea di più la rappresentanza vicaria, quella che deriva dai riti espiatori accentua di più l'espiazione; però le due cose sono legate costantemente fra loro. Questo portare la maledizione in rappresentanza, essendo nello stesso tempo espiazione, ci ha « riscattati» (Gal. 3,13). Ci ha riscattati dalla maledizione della legge e - secondo Gal. 4,5 - contemporanea­ mente dal suo diritto, ponendoci in un rapporto di filiazione con Dio. Al posto di «riscattare>> (exagorazein), in l Cor. 6,20 e 7,23 c'è «compe­ rare» (agorazein), per chiarire che si è potuto sostituire il vincolo esi­ stente fin allora con uno nuovo. Questa locuzione, tradizionale nel cri­ stianesimo primitivo (cfr. Ap. 5 9; 14,3 s.), non vuole indicare la morte di Gesù come prezzo di acquisto, ad esempio come si pagava per il ri­ scatto degli schiavi 23• Tanto meno pensa a potenze che ricevano un tale prezzo d'acquisto. Vuoi dire soltanto: la morte ha affrancato in linea di diritto, perché è stata espiazione per tutti. Inoltre in Rom. 8,3 s., la liberazione viene motivata così: «Mandando [ Dio ] il proprio Figlio in -

11 F. BtlCHSEL, ThW I, pp. 125-128.

,

§ 35: Il càmmino di Cristo come rivelazione di salvezza: la croce

472

una carne simile a quella del peccato e in vista del [per il ] peccato [ cioè come sacrificio espiatorio ] , egli ha condannato il peccato nella carne, affinché si adempisse in noi la giustizia della legge >> * . Qui oltre al «per» compare un «COn » : «il peccato nella carne>> è condannato in noi al pari che in Cristo. Paolo non ha solo sviluppato teologicamente la formula con 'hyper' della professione della comunità, ma l'ha anche promossa fino alle for­ mule con 'syn' e 'en', che delineano una comunanza con Cristo derivan­ te dal « per». All ' hyper ben caratterizzato in Rom. 3,2 1-5,2 1 segue in Rom. 6,1-10 un syn con altrettanto nitida specificità {6,4.6.8). 5. L'essere con Cristo ( syn Christo) e il battesimo

a) Rassegna Le locuzioni con 'syn' riferite a Cristo , che sono formate parte con un verbo composto 24 e parte con un verbo semplice, e la preposizione syn ( con) e il dativo associativo, in Paolo si suddividono in quattro serie diverse di enunciazioni: =

l. In Paolo troviamo enunciazioni con 'syn' che intendono un essere­ con come ritrovarsi insieme con cristiani.

Con lo stesso significato nel resto del NT si trova una serie di enun­ ciazioni comunque formate non con syn e il dativo associativo, ma con meta ( con) e il genitivo. Così viene sottolineata la comunanza con Gesù nella tradizione sinottica, in particolare il mangiare assieme a lui 25 (Mc. 2 , 1 6 par.; Le. 1 5,1 s.) e viene promessa una comunanza corri­ spondente nel compimento 26 • Questa linea viene ripresa nell'Apocalisse: a coloro che perseverano è promessa la vittoria e il compimento all'«Agnello >> 27• =

In Paolo le enunciazioni con il «COn» hanno il baricentro nella sua risposta al problema della morte: i cristiani defunti dopo la morte sa­ ranno , cioè presso di lui, sia nella parusia ( l Tess. 4,15-17) che indipendentemente da quella ( Fil. 1 ,23; cfr. 2 Cor. 5,8). Per noi que­ sto essere-con è motivato per il presente e per il futuro dalla morte di Gesù: egli «è morto per noi, perché, sia che vegliamo, sia che dormia­ mo, viviamo insieme con lui >> ( l Tess. 5,10). * L'Autore traduce esplicativamente: •affinché fosse adempiuto d a noi ciò che la legge esige a buon diritto» (n.d.r.). " Paolo usa 14 comnosti del genere (W. GRUNDMANN, ThW v n , pp. 786 s.). 15 Mc . 3,14 par.; 14,67 par.; cfr. Le. 15,3 1 . 26 N ella parola escatologica d i Mc. 14,25, in par . M t. 26,29 viene inserito, conforme­ mente al senso, •con voi»; cfr. M t. 8,1 1 ; Le. 22,29 s.; 23,43. " Ap. 17,14; 3,4.20 s.; 14, 1 ; 20,4.6.

5. L'essere con Cristo (syn Christo) e il battesimo

473

2. Il futuro essere escatologico accanto a Cristo ci porta a diven­ tare suoi «coeredi» e a «essere con-glorificati», che corrisponde a un «con-patire con lui » nel presente (Rom. 8,17; cfr. Col . 3,4; l Pt. 4 , 1 3 ; 5,1 ). I credenti vengono a essere «conformi all'immagine » (symmorfos) sua e in questo modo partecipano alla somiglianza con Dio (Rom. 8,29; Fil. 3,20 s.) 28 • Chi è presso Cristo viene conformato a sua immagine. Questo era già il senso della sequela dei discepoli (Le. 10,16) come del mangiare insieme con i pubblicani (Mc. 2,17 ). Qui si profila un ponte verso altre due serie di rappresentazioni, la particolarità delle quali però non si può cancellare. 3. Solo Paolo e le lettere deuteropaoline conoscono un «con Cristo » che non intend e un trovarsi insieme con lui e una conseguente confor­ mazione a sua immagine, ma una partecipazione spirituale alla sua. morte e risurrezione. Secondo Rom. 6,4.6; Col. 2,12 e verosimilmente anche secondo Gal . 2 , 1 9 questo vivere insieme è operato dalla morte e risurrezione di Gesù attraverso il battesimo. Secondo 2 Cor. 5,14 (cfr. 4,14) deriva direttamente dalla croce e dalla risurrezione di Cristo; co­ munque, qui non si parla di un « COn». Il > . Quest'effetto non è mediato solo attraverso il battesimo, ma vale già in virtù della croce. Già per la morte di Cristo tutti sono segnati con la croce prima "' Questo punto viene esaminato attentamente pure da E . LARSsoN, loc. cit., pp. 25 s.; e E. SCHWEIZER, Erniedrigung, cit., pp. 140-143.

5. L'essere con Cristo (syn Christo) e il battesimo

ancora di saperlo. Perché ? Con la morte di Gesù è stata eseguita la con­ danna da parte di Dio su tutti gli uomini della stirpe di Adamo (Rom. 8,3). Perciò agli occhi di Dio tutti gli uomini della discendenza di Ada­ mo stanno sotto una condanna a morte eseguita in loro rappresentanza. Secondo la sentenza di Dio e quindi agli occhi di Dio essi sono morti per vivere - in virtù della rappresentanza - a colui che è morto e risorto per loro. Poiché Paolo vede la morte e risurrezione di Gesù in modo rigorosamente teocentrico come atto di Dio per l'umanità, lo intende al tempo stesso come atto di Dio su essa, che pone il suo segno su tutti. d) Il battesimo come morire con Cristo l . Il difficile versetto Rom. 6,5 parla d'un 41• L'homoioma (somiglianza) alla morte di Gesù è appunto il morire d'ogni uomo della stirpe di Adamo secondo 2 Cor. 5,14, cioè il morire di Gesù come evento universale. Pri­ ma del battesimo il morire di Gesù significa una sentenza di Dio che incombe su tutti gli uomini (Rom. 8,3 ) e come tale viene annunciata nel senso di 2 Cor. 5,14: « tutti sono morti>>. Attraverso il battesimo, que­ sto annuncio diventa esperienza viva che il singolo incontra. In questo giudizio l'uomo singolo viene coinvolto in un atto storico-corporeo unico, irripetibile in modo che di lui si possa dire: è morto insieme. 2. Questa derivazione genetica del motivo del morire insieme per vivere insieme al tempo stesso aiuta a chiarire in quale senso, secondo Rom. 6,3 ss., tutti i battezzati sono morti insieme per vivere insieme. Osserviamo come Paolo, considerando quanto accade nel battesimo, in Rom. 6,3-10 prima enunci con l 'indicativo come avvenuto ciò che si deve riconoscere come tale solo secondo le successive proposizioni im­ perative (6,1 1-13). Accanto al v. 4: « Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme con lui nella morte >> sta il v. 1 1 : « Così an­ che voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio ... >>. Indica­ tivo e imperativo non si rapportano semplicemente come teoria e pra­ tica. Affermano invece che il morire insieme per vivere insieme non è dato empirico preesistente; non è né un'esperienza vissuta di conver­ sione né una metamorfosi iperfisica. L'indicativo annuncia invece la condanna a morte degli uomini discendenti da Adamo, che è stata ese­ guita su Cristo in rappresentanza [ di essi ] e alla quale, pertanto, assog41 Discussione approfondita in J. SCHNEIDER, ThW

v, pp. 191-195.

478

§ 35: Il cammino di Cristo come rivelazione di salvezza: la croce

getta il battesimo. L'imperativo sollecita a far valere questa sentenza per sé : «Consideratevi morti ... >>. «Considerarsi » (logizesthai) vuoi dire guardarsi con gli ochi di Dio, far valere ciò che è avvenuto per opera di Dio, cioè credere. L'indicativo : « Il nostro uomo vecchio è stato (attra­ verso il battesimo) crocifisso con lui » (Rom. 6,6) quindi ha in linea di principio lo stesso significato dell'indicativo di 2 Cor. 5 , 1 8 s.: Dio ha riappacifìcato il mondo, l'umanità, con se medesimo, ancora prima che essa lo apprendesse per mezzo della predicazione missionaria, attra­ verso la morte di Gesù. Entrambe le volte viene testimoniato ciò che è avvenuto per opera di Dio. Sotto l'aspetto storico, il battesimo, al pari della croce, è un'azione umana con duplice significato. Ciò che è avve­ nuto da parte di Dio in, con e durante questa azione si può annunciare e conoscere solo per fede. L'imperativo c'invita a farlo diventare ope­ rativo per noi e su noi per mezzo della fede. 3. Il modo in cui collega il viveré insieme con il morire insiem€!4 conferma che quest'annuncio è vero per tutti i battezzati. Paolo non dice mai : siete morti e risorti insieme nel battesimo. Il vivere insieme invece viene fatto derivare dal morire insieme in tre modi : 3 . 1 È futuro escatologico per la speranza : « Se siamo morti con Cri­ sto, crediamo che anche vivrem o con lui >> (Rom. 6,8; cfr. 6,5). 3 .2 È presente per la fede : «Consideratevi morti al peccato, ma vi­ venti per Dio» (Rom. 6,1 1 ). 3.3 Perciò è richiamo all'obbedienza di fede, alla dimostrazione del­ l'amore : « Siamo stati sepolti con lui, [ . . ] perché possiamo camminare in una vita nuova>> (Rom. 6,4). La «vita nuova>> non è uno stato di carat­ tere naturale o etico, ma - come la giustizia - la nuova realtà che condiziona l'uomo e che Dio ha fatto emergere nella risurrezione di Gesù; in Rom. 8,14 Paolo chiama questa realtà lo Spirito Santo. .

4. In Rom. 6,6-10.12 s., Paolo spiega come appare in pratica il nuovo atteggiamento del nostro essere uomini. L'io che vive e vivrà con Cri­ sto è l'io della fede. Secondo 6,6 s., gli si contrappone l'io dell'uomo di­ scendente da Adamo : esso è bensì giustiziato per mezzo della croce di Cristo e sepolto insieme nel battesimo e tuttavia, finché noi viviamo nella carne, non è mai passato . Lo dobbiamo considerare continuamen­ t e crocifisso insieme di nuovo. Come spiega ulteriormente Gal. 5,16-24, la nuova vita si svolge sempre solo come lotta dello Spirito, che so­ stiene e prende al suo servizio il nuovo io contro la carne. Il nuovo io può sussistere solo se viene tenuto in vita con la parola della predi­ cazione e con lo Spirito presente in essa. Questo consente pure che il nuovo io prenda al suo servizio le membra dell'uomo vecchio, la sua

5. L'essere con Cristo (syn Christo) e il battesimo

479

bocca, le sue mani : « Non offrite le vostre membra al peccato come stru­ menti d'ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti, e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio » (Rom. 6,12 s.). 5 . È in concordanza di principio con Rom. 6 l 'affermazione di Col. 2,12, che dice in forma di inno: «Con lui infatti siete stati sepolti insie­ me nel battesimo, in lui siete anche stati risuscitati insieme per la fede . . » . La proposizione condizionale di Col . 3,1 : « Se dunque siete risorti . » quindi non va intesa in senso perfezionistico, ma imperati­ vo, nel senso cioè di Rom. 6,1 1 . Col. 2,13, parallelamente a 2,12, parla dell'evento del battesimo con un linguaggio analogo a quello dei Sinot­ tici: «Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vo­ stri peccati (non crocifissi insieme mediante la croce) ... , perdonandoci tutti i peccati ». In questo versetto solo il «con>> va oltre Le. 5 ,24. Inve­ ce l'enunciazione sotto forma di inno di Ef. 2,4-6, che incomincia come Col. 2,13, nell'anticipare il compimento, con linguaggio dossologico, va troppo oltre Rom. 8,30: «Ci ha fatti rivivere con Cristo, [ . . ] con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù » . .

..

.

e) Il farsi operante della morte e risurrezione d i Cristo nella storia dell'Apostolo In 2 Cor. 4,1 1 Paolo sottolinea su di sé: « Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo ( da Dio ) esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale » e l'ulti­ ma condizione si verifica non solo nel compimento ( 4,14 ), ma proprio già anche adesso in tutte le esperienze della potenza di Dio, che comu­ nica salvezza e riuscita (4,8 s. 12.16; 6,3-10). Questa esistenza dell 'Apo­ stolo non nasce dall'imitazione o dalla contemplazione mistica. Egli invece l 'intende come il farsi operante e il rivelarsi della morte e risur­ rezione di Cristo 42• Ciò però viene comunicato dal fatto che Cristo assu­ me in servizio l'Apostolo. Per esempio l'essere dato in balìa della morte (2 Cor. 4,1 1 ) avviene nell'Apostolo come in Cristo stesso (Rom. 4,25 ), perché essi percorrono la via dell'obbedienza. Questo è detto dall'Apo­ stolo in 2 Cor. 4,1-6 come introduzione a 4,7-18, e in Fil. 2,8 da Cristo. Nessuno tuttavia si fa obbediente se non morendo insieme per vi­ vere insieme secondo Rom. 6,1-1 3 . Se la storia dell'Apostolo è nasco" E. GtiTTGEMANNS, loc. cit., pp. 195-198, unitamente a E. KASEMANN (ZNW 41 [ 1942 ) , pp. 5 3 s . ) sviluppa questa spiegazione: •Dato che l e sofferenze dell'Apostolo diventano comprensibili soltanto come epifania cristologica, nell'interpretazione si devono evitare accuratamente concetti come quelli dell"analogia', dell"imitazione', della 'sequela' e della 'continuazione'• ( ib id., p. 195).

§ 35: Il cammino di Cristo come rivelazione di salvezz.a: la croce

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stamente segnata dalla morte e risurrezione di Cristo, questo rappre­ senta una conseguenza del suo morire insieme spirituale per vivere insieme. L'essere morto insieme si documenta nel soffrire insieme. Ma in Paolo questo nesso oggettivo non è mai espresso. Non è in Paolo, ma nella I Lettera di Pietro che i patimenti dei cristiani sono interpre­ tati nello stesso tempo come partecipazione alla Passione di Cristo (4, 1 3 ) e come mortificazione della carne (4, 1 .6). Ad ogni modo però in Paolo il syn non intende un legame di partner­ ship, ma un accadimento posto e operato da Dio per mezzo della morte e risurrezione di Gesù. Pertanto questo syn spesso conduce più avanti, fino all'incomparabilmente più frequente en: al syn Christo di Rom . 6,2-10 e di 2 Cor. 5,14 s., segue in 6,1 1 e 5,17 un en Christo. 6. «In Cristo»

a) La ricorrenza

In Paolo questa locuzione s'incontra molto più spesso del syn, cioè circa 164 volte. Anch'essa gli è propria; altrove, nel NT si trova soltan­ to nelle lettere deuteropaoline e nella I Lettera di Pietro. Le locuzioni con en degli scritti giovannei hanno un'altra forma e un altro signifi­ cato: per la struttura sono formule di reciprocità: «noi in Cristo» e «Cristo in noi » . Esse esprimono contenutisticamente il rapporto di reciprocità fra Gesù elevato alla gloria e il discepolo. Invece la formula paolina en Christo indica un'operazione che proviene unilateralmente da Cristo. b) Il significato variabile Naturalmente il significato della locuzione ha un'impronta diversa a seconda dei vari passi in cui la si trova. Essa corrisponde alle molte altre locuzioni paoline con en: l'uomo esiste en sarki (nella carne), en nomo (sotto la legge), en pneumati (nello Spirito), en Kyrio (nel Signore). In queste locuzioni l'en può avere un significato causale, stru­ mentale o modale. Comunque in nessun punto ha un significato locale, perché soprattutto Cristo è sempre evento e persona che sta di fronte . La locuzione en Christo può voler dire : � ssere sotto l'influsso determi­ nante di Cristo o anche soltanto appartenere a lui . Nel secondo signi­ ficato sta spesso per l'aggettivo «cristiano », che non era ancora dispo­ nibile. Però il preciso significato fondamentale è importante anche per l'uso abitudinario e logoro.

6. «In Cristo»

481

c) n significato fondamentale

Il significato preciso è quello causale e strumentale: è « in Cristo » chi viene determinato da lui. Ma com'è visto qui Cristo ? In linea prima­ ria non viene inteso con riferimento a Gesù glorificato come per en Kyrio. Albrecht Oepke 43 deriva giustamente il significato preciso della locuzione da l Cor. 15,22: «E come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo ». :E: «in Adamo» colui che viene detenni­ nato dalla caduta di Adamo ; di conseguenza, è «in Cristo » colui che viene determinato dalla sua obbedienza, vale a dire dalla sua morte e risurrezione 44• Comunque morte e risurrezione ora sono presenti con le virtù di determinare in Gesù elevato alla gloria, che opera attraverso lo Spirito 45 • Egli afferra il singolo attraverso l'annuncio, e in forma portata al culmine mediante il battesimo. Pertanto sono > coloro che per il battesimo sono articolati nel suo corpo, nella comu­ nità, e in tal modo sono esposti all'azione del suo Spirito attraverso la parola, e così ricevono l'impronta personale da lui pure come singoli. Questo accadimento è accolto per mezzo della fede, alla quale però preesiste sempre come suo fondamento, in modo che quanti sono > non s'identificano semplicemente coi credenti. Pure questo si­ gnificato del morire di Gesù si può enunciare appieno solo in termini soteriologici ed ecclesiologici. Così in virtù del suo significato molteplice la morte di Gesù attinge l'uomo in vari modi. Mira ai singoli e tuttavia non cerca solo individui religiosi che si raccolgano in una società di culto, come fanno i misteri, ma un cambiamento dell'umanità intera:· > (2 Cor. 5,14-17). .

43 ThW II, pp. 537-539. " Analogamente anche F. NEUGilBAUER, loc. cit. (§ 35,6 bibl.): en Christo rimanda al­ l'evento della croce e della risurrezione e vuole cogliervi il compimento finale già adesso ( ibid., pp. 34-44 .147- 149). " J. GNILKA, Herder-K., su Fil. 2,5, sottolinea questo aspetto in contrasto con Neugebauer. Però naturalmente neppure lui ritorna alla concezione di A. DEISSMANN (loc. cit. [ § 35,6 bibl. ] ), cui s'uni anche W. BoussET (Kyrios, ci t., pp. 104-129 ), secondo il quale en Christo definirebbe «il dimorare in un elemento pneumatico paragonabile all'aria•.

CAPITOLO TERZO

L'INFLUSSO EFFICACE ESERCITATO DA GESù NEL TEMPO

§ 36: L'evento della proclamazione ( il Vangelo ) R.AGNAR AsTING, Die Verkundigung des Wortes im Urchristentum, 1 939; DIETER LUHRMANN, Das Offenbarungsverstii11dnis bei Paulus und in den paulinischen Ge­ meinden, 1 965. - Su 3: ERICH KLOSTERMANN, Hdb. su Mc . 1 , 1 ; J ULIUS SCHNIEWIND, Euangelion I/II, 1 927/3 1 ; GERHARD FRIEDRICH, euangelizomai ecc., ThW II, pp. 705735 ; tr. it., GLNT III, coli. 1 023- 1 1 06 ; GERHARD KITTEL, lego, ThW IV, pp. 1 15-1 2 1 ; tr. it., GLNT VI, coli. 320-335; PETER STUHLMACHER, Das paulinische Evangelium. I. Vorgeschichte, 1968; OTTO MICHEL, Evangelium, RAC vr, pp. 1 1 07-1 160; ERNST KA­ SEMANN, Hdb. SU Rom. 1 , 1 . - Su 4 : WILHELM MICHAELIS, mimeomai kt/., ThW IV, pp. 668�76; tr. i t., GLNT VI I , coli. 272-293 ; HANS DIETER BETZ, Nachfolge und Nach­ ahmung ]esu Christi im NT, 1967, pp. 1 37-169; LEONHARD GOPPELT, typos ktl., ThW VIII, pp. 249 s.; tr. it., GLNT XIII, col!. 1 473-1478; HANS CONZELMANN, Meyer-K su l Cor 1 1 ,1 (bibl .).

1. Introduzione: la problematica

a) Analogie Per Paolo Gesù nella storia non si pone, come i profeti per l'AT o i martiri o i rabbini per il giudaismo, come un testimone di Dio, ma come evento personale di salvezza: con la sua morte e risurrezione Dio è intervenuto escatologicamente nella storia. Secondo Paolo le analogie ebraiche dell'AT con l'influsso operante di Gesù nel tempo sono quindi l'esodo, specialmente la Pasqua ( l Cor. 5,7; cfr. 10,5) o, antiteticamente, la caduta di Adamo (Rom. 5 , 1 2-2 1 ; l Cor. 1 5,20.22.44-49). Come quei fatti dell'AT, così la comparsa di Gesù viene rappresentata attraverso predicazione, professione di fede e culto. Nel mondo ellenistico l'ana­ logia più prossima non è Socrate, ma Giulio Cesare, al quale, attraverso una propaganda politico-ideologica e una celebrazione cultuale, venne

l. Introduzione: la problematica

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dedicata un'apoteosi, così che continuò a influire sulla storia nei secoli come 'cosmocratore' ideale. Su questo sfondo vediamo d'inquadrare con maggior precisione la struttura dell'influsso operante di Gesù nel tempo. b) Struttura dell'influsso operante di Gesù nel tempo L'influsso operante di Gesù nel tempo s'esplica per così dire su due piani distinti: l . Gesù viene comunicato alla posterità dall'alto in certo senso in tre modi, se vogliamo «trinitariamente» : Gesù è presente come i l Kyrios che intercede presso Dio per i suoi seguaci (Rom. 8,34) e nel tempo stesso erige il proprio regno escatolo­ gico sul mondo, raccogliendo i suoi nella ekklesia ed escludendo le po­ tenze ostili a Dio ( l Cor. 15,23-28). Nello stesso tempo egli è presente, perché Dio ha creato una situa­ zione nuova del mondo per suo mezzo, in modo determinante median­ te la sua croce e la sua risurrezione: per suo mezzo ha istituito la Nuo­ va Alleanza ( l Cor. 1 1 ,25; 2 Cor. 3,6), riconciliando con sé il mondo e l'umanità (2 Cor. 5,18 s.). Però gli uomini incontrano l'intervento escatologico dei due, di Dio e del Kyrios, nel presente, quando essi sono afferrati dallo Spirito di Dio (2 Cor. 3,6). Secondo l Cor. 1 2 ,4-6 il nuovo 'Al-di-sopra' o 'Alto' pro­ duce il formarsi d'una nuova umanità attraverso tre processi oggetti­ vamente identici : «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio » . Carisma, ministero e operazioni sono tre aspetti dello stesso avve­ nimento. I tre che li producono, nella loro opera sono un solo Dio. Quest'opera è escatologica, perché reca il nuovo rapporto definitivo con Dio, che trascende il campo delle relazioni storiche. Ma è nel tem­ po stesso essenzialmente storica, in quanto tocca l'uomo non vistosa­ mente come avvenimento apocalittico, ma occultamente in processi immanenti al mondo, che lo rinnovano escatologicamente per mezzo della fede ( l Cor. 2,6-1 1 ; 2 Cor. 5,7). 2. Secondo 2 Cor. 5 , 1 8 s., nella storia la mediazione dall'alto avvie­ ne attraverso «la parola della riconciliazione » e attraverso «il ministe­ ro della riconciliazione», l'« ufficio » che porta la parola. Questa parola, strutturalmente, è tradizione, che viene tramandata come kerygma,

§ 36: L'evento della proclamazione

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cioè come una parola dell'uomo derivante dalla tradizione, che è in­ sieme un appello, un interpellare dall'alto. Il kerygma si condensa nei sacramenti. Viene rappresentato per mezzo della testimonianza del comportamento (§ 36,5). Dall'incontro della linea pneumatico-escatologica « dall'alto» con la linea storica «dal basso» risulta la problematica di questa impostazione. c) La problematica Dopo l'avvento dell'illuminismo, il pensiero moderno riuscì a ve­ dere in Gesù anzitutto solo un'apparizione storica, non un intervento di Dio nella storia, e un proseguimento dell'opera di Gesù glorificato, attraverso l'attività ecclesiale. Pertanto, come può operare nel pre­ sente la figura di Gesù, così lontana nel tempo ? La scuola di Tubinga di Ferdinand Christian Baur ha risposto : con la potenza dell'idea che si andava progressivamente sviluppando e che s 'era incarnata in Gesù . La scuola di Albrecht Ritschl ha spiegato: per mezzo dell'influenza psi­ cologica della personalità religiosa di Gesù; Rudolf Bultmann e la sua scuola : in quanto un resoconto umano assume la forma del rivolgere la parola, che dall'ex tra nos offre una nuova autocomprensione: « ... l'evento di salvezza non (è) presente in alcun luogo all'infuori della parola che proclama, interpella, esige e promette» 1• Ma in effetti que­ sto appello alla decisione, emanante della predicazione dell'evento Cri­ sto, è stato veramente efficace ? Con questo interrogativo dell'empiri­ smo critico ha avuto inizio nel 1 968 la crisi della teologia della parola e del kerygma. Perché quel kerygma non ha operato la trasformazione che per mezzo della predicazione di Paolo s'è verificata su dimensione mondiale, come fanno intendere le sue lettere ? Tenendo sott'occhio questa problematica, esaminiamo i fattori determinanti del processo d'intermediazione preso in considerazione da Paolo e anzitutto l'an­ nuncio. 2. Statistica della terminologia dell'annuncio

Come caratterizza Paolo la parola con cui rappresenta l'evento Cri­ sto nella sua attività missionaria e pastorale ? L'elemento caratteristico si rileva più chiaramente confrontando l'insieme dei suoi concetti con quelli usati dagli Atti degli Apostoli per descrivere l'attività missionaria propria e degli altri . Essi caratterizza­ no con frequenza pressoché uniforme queste vicende della parola me1

R. BULTMANN, Theol., § 33,5.

3. «Vangelo» come concetto religioso prima di Paolo

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diante i seguenti verbi: euangelizomai (annunciare il vangelo : At. 13,32; 14,15.2 1 ; 1 5 ,35; 16, 10), didasko (insegnare: 18,1 1 ; 20,20; 2 1 ,28; 28,3 1 ), martyreo (testimoniare: 13,22; 14,3; 23 ,1 1 ), kerysso (annunciare: 19,13; 20,25 ; 28,3 1 ) e parakaleo (ammonire, incoraggiare: 1 1 ,23 ; 20,2 ). Questo è l'uso linguistico usuale nella Chiesa del tempo, in tutta la sua esten­ sione. In Paolo euangelizomai sta al vertice (circa 20 pas si); è ancora più frequente (57 volte ) il sostantivo euangelion ( evangelium, predicazione del Vangelo), che negli Atti degli Apostoli s'incontra solo 2 volte e nel resto del NT solo circa 15 volte. Al secondo posto segue kerysso (annun­ ciare, 1 5 volte), mentre kerygma ( la proclamazione) non svolge una funzione specifica né in lui (4 volte) né altrove nel NT (4 volte). In con­ fronto agli Atti degli Apostoli, appaiono sorprendentemente molto arretrati didasko (insegnare, 7 volte) e martyreo ( testimoniare, in nes­ sun punto in senso pregnante), che è caratteristico degli Atti degli Apo­ stoli e, però con un altro senso insieme a martyria ( testimonianza), di Giovanni. È da notare come parakaleo (ammonire, incoraggiare, con­ fortare) compaia molto spesso (44 volte; il sostantivo corrispondente paraklesis si trova in 22 passi, di cui 12 nella 11 Lettera ai Corinzi ). È integrato da noutheteo (ammonire, 6 volte, nel resto del NT solo l volta). Di conseguenza Paolo si vede come araldo, che deve rappresentare una buona novella, e come paracleto, che deve rivolgersi e dare confor­ to personalmente agli uomini . Qualifica questo suo discorso, soprat­ tutto riferendosi alla propria missione, come «la parola di Dio » o « del Signore » o «la parola» (cfr. § 36,4 c). Fa consapevolmente propria que­ sta terminologia missionaria del cristianesimo primitivo e, analoga­ mente alla locuzione usata pu re altrove >, Paolo propone la tesi che funge da tema di Rom . 9- 1 1 e da base della sua teologia e della sua fede: (Rom. 9,6). La chiamata d'Israele, legata alla promessa e basata sull'elezione, non diventa un inganno, una disillusione nemmeno per il fatto che Israele, nella sua massa, rifiuta d'accettare il Vangelo. Dio rimane fedele alla ' chiamata con cui si lega agli uomini. La sua parola non è appello pun­ tuale a decidere inteso nel senso di Bultmann e neanche risposta pun­ tuale circa le sue disposizion i, per la quale ubi et quando visum est Dea vien dato lo Spirito nel senso inteso da Barth, ma è vincolo di Dio attra­ verso una vocazione legata a una promessa e impegno nei confronti di determinati partner nella storia. Costituisce una continuità del vincolo tra Dio e uomo nella storia e in questo senso è storia della salvezza. Nella comprensione di Rom. 9-1 1 si decide la comprensione «della pa­ rola» e con ciò della predicazione e dell'esistenza nella Chiesa 20• In Rom. 9-10 Paolo acquista la certezza : la Parola di Dio a Israele sarà 11

Gc. 1,18 .21 ss.; E b. 4,12; 13,7; Ap. 1 ,2.9; 6,9 e a.; cfr. G. KITTEL, ThW IV, pp. l lS, 27 ss. • La Parola di D io•: l Tess. 2,13; l Cor. 14,36; 2 Cor. 2,17; 4,2; Col . 1 ,25; «la Parola• (assoluto ) : l Tess. 1 .6; Gal . 6,6; ( Fil. 1 , 14); Col . 4,3; « la Paro la del Signore•: l Tess. 1 ,8; 2 Tess. 3,1. « Una Parola del Signore• diventa ben presto definizione per singoli logia di Gesù in terra: l Tess. 4,15; per essa anc he «il Signore ordina• e s i mi l i ( l Cor. 7,10; 9,14). " Invece il c rive l are• (apokalypto, fanero) non è legat o a eia Parola• ( § 28,3 a). 20 Adesso questo vien fatto rilevare giustamente pure da E. KASEMANN, Hdb. Rom., pp. 241-25 1 . Discussione e bibl. su Rom. 9-1 1, vedi § 37. 11

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§ 36: L'evento della proclamaztone

realizzata esattamente così com'era inteso. Anzi, alla fine Dio farà anco­ ra più di quanto ha promesso: farà parte a tutto Israele della salvezza garantita (Rom. 1 1 ,25). La (Rom. 1 ,5), pure se epistrefò (convertirsi, rivolgersi ) rimane un termine missionario ( l Tess. 1 ,9 s.; cfr. 2 Cor. 3,16; Gal. 4,9 e a. negli At.). A ogni modo poi si indirizza ai battezzati per chiedere la fede, ma quasi mai la >, cioè in «Gesù Cristo » ( Rom. 3,22; Gal . 2,16; 3,22), «Gesù » ( Rom. 3,26), > . Così non solo il darsi di Cristo per noi, come dice Rom. 3,2 1-26, ma anche il «con Cristo >> e > e « per mezzo della>> fede. Paolo li riassume entrambi concisamente nello stile d'una professione di fede personale in Gal. 2,14-2 1 : per mezzo della fede intesa come il rivolgersi a Cristo egli fu trasposto nel giusto rapporto con Dio (v. 15 s.). Ne è de­ rivata la nuova situazione di vita: egli è crocifisso con Cristo e ora Cristo vive in lui, come soggetto che lo determina; però egli vive di per sé «nella fede nel Figlio di Dio>>, il quale gli ha dimostrato amore dandosi per lui (v. 19 s.). Quindi, come la fede non viene sostituita da una comunione mistica con Cristo, ma comunica permanentemente il rapporto con Cristo, così, viceversa, il rapporto con Cristo e con Dio non può essere sostituito dall'atto di fede come tale. Non è affatto conseguenza di questo con­ cetto della fede, che Paolo non ha ancora tirato, come invece ritiene ' Nel NT, nella formula missionaria di At. 16,3 1 : «Credi nel Signore Gesù ... •. Questa sviluppa una formula dei racconti sinottici di guarigioni, che in Mc. 5,36 par. Le. 8,50 si presenta, secondariamente, all'imperativo: «Non temere, continua solo ad aver fede•; cfr. anche Mc. 1 , 1 5 : •Credete al Vangelo•. 10 In Rom. 6,8 syzesomen (vivremo con ) è futuro non logico, ma escatologico e per­ tanto •crediamo• equivale a «speriamo».

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Herbert Braun 11, che esso, come « rinuncia al vanto» e « conoscenza del­ la dimostrazione paradossale di grazia di Dio >>, possa rinunciare ai « dati metafisici della cristologia », cioè che esso da solo come nuovo rap­ porto esistenziale sia già salvezza. La fede invece porta salvezza solo per mezzo del collegamento dell 'uomo col suo Creatore. Lo stare nella fede (2 Cor. 1 ,24) corrisponde allo stare «nel Signore » ( l Tess. 3,8), «nel Vangelo» ( l Cor. l 5 , 1 ) e « nella grazia» (Rom. 5,2). 3. Questo è chiarito ulteriormente dal modo in cui Paolo collega fra loro fede e salvezza. Le proposizioni condizionali di Rom. 10,9 ( « ... se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore [ ... ], sarai salvo >>) potrebbero dare l'impressione d'essere ' imperativi indiretti, che pongono la fede come condizione della sal­ vezza. Tuttavia, il contesto, vv. 5-13, sta sotto l 'antitesi nei vv. 5-8 : al «fare», che la « giustificazione dalla legge» rende condizione della «vita» (v. 5), non si contrappone la fede, ma la «parola della fede », il Vangelo, che, dando fondamento alla fede, s'avvicina all'uomo (vv. 6 ss.). Le pro­ posizioni condizionali nel v. 9, che si aggiungono in senso causale, spie­ gano come questa parola «vicina» generi salvezza : il «Confessare» e il «credere>> sono presupposti della « salvezza», non condizioni da assol­ vere da parte dell'uomo. L'intero periodo non è una richiesta, un'esi­ genza, ma, come il v. 1 1 , promessa, verosimilmente promessa battesi­ male, che come Vangelo opera quello che dice. Il passo di Rom. 1 0,5-13 spiega che cosa significano le formule brevi «giustizia » e «vita » « dalla » o «per mezzo della fede » 12• Il credente è giusto non perché ha adempito la condizione, ma in quanto fede signi­ fica di per sé lasciarsi mettere nel giusto rapporto con Dio. La giusti­ zia, il giusto rapporto dell'uomo con Dio, posto da Dio stesso, è l'altro lato della fede, dell 'entrare o stare in questo rapporto. Questo stare è tanto poco una posizione propria dell'uomo, la quale venga ricono­ sciuta, che Rom. 4,5 sottolinea esplicitamente: la fede non viene rico­ nosciuta come l 'opera, ma «accreditata come giustizia», vale a dire che viene accolta solo per grazia, come risposta sempre inadeguata alla promessa di Dio - e tuttavia la fede non è semplicemente l'eco della parola! 11 H . BRAUN, Gesammelte Studien zum Neuen Testament und seiner Umwelt, 1962, pp. 244 s. 12 • Giustizia della fede•: Rom. 1 , 17; 4,16; 5,1 ; 9,30.32; 14,23; Gal. 2,16; 3,8.12.22.24; (5,5); - «per mezzo della fede• : Rom. 3,22.25.3 1 ; Gal. 2,16; Fil. 3,9; per indicare questo anche dativo strumentale Rom . 3,28; - •vivere di fede•: Rom. 1 , 17; Gal. 3 . 1 1 .(9); - uper mezzo della fede•: Col. 2,12 (cfr. Ef. 2,8; 3,17), analogamente Gal. 3,14.26.

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3. La nascita della fede

a) Il problema posto dalle enunciazioni sulla origine o nascita della fede è evidenziato dall'osservazione che Paolo non invita mai a credere con l'imperativo, ma lo scopo della sua attività tuttavia è caratteriz­ zato come « obbedienza alla fede » (Rom. 1 ,5). Nella discussione Rudolf Bultmann ha messo l'accento unilateral­ mente sull'ultima, caratterizzando la fede come decisione all'obbedien­ za 13• Per contro Fritz Neugebauer 14 riteneva che la fede fosse in primo luogo decisione di Dio e, richiamandosi a lui, Eberhard Jiingel pensava «che la fede non è opera dell'uomo, ma un avvenimento che si svolge con l 'uomo », perché second o Gal. 3,25 la fede « Verrebbe» all'uomo 15• Comunque la parola accentuata di Gal . 3,23.25 non spiega il sorgere della fede, ma la sostituzione dell'ordinamento di salvezza della legge con quello della fede. Ma il problema della nascita della fede sta nella domanda : Paolo come può caratterizzarla contemporaneamente come opera di Dio e come atteggiamento responsabile dell'uomo? b ) In nessun punto Paolo s'è espresso sulla nascita della fede con maggiore profondità e partecipazione che in Rom. 9-1 1 16, dove riflet­ te sull'incredulità d'Israele, perché questa non solo lo opprime sotto l'aspetto umano, ma anche contesta il fondamento della sua certezza della salvezza, cioè del fatto che il richiamo alla fede e l'elezione alla salvezza sono indissolubilmente collegati fra loro. In Rom. 9-1 1 Paolo alla sua domanda « Perché Israele non crede ?» dà tre risposte: l. Rom. 9,6-29: «Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia» (9,16). Colui che crede, lo deve soltanto alla grazia di Dio. Quindi in ogni incredulità si deve ve­ dere e temere l'indurimento permesso da Dio (Rom. 9,18.22-24).

2 . Però, in antinomia insolubile con tale situazione, secondo Rom . 9,30--- 1 0,21 l'incredulità è contemporaneamente disobbedienza e colpa dell'uomo: «Ma non tutti hanno obbedito al Vangelo. Lo dice Isaia: 'Siu R. BULTMANN, Theol .• cit .. § 35; parimenti H . CoNZI!LMANN, Theol .• cit .• p. 193; tr. i t. cit., pp. 419 s.; e E. Kiis EMANN, Hdb. Rom .• p. 102 ( Tat und Entscheidung des einzelnen Menschen). 14 F . NEUGEBAUER, loc. cit., pp. 165 ss. " E. Jii NGEL, « Theo/ogische Wissenschaft und Glaube• im Blick aut die Armut Jesu, EvTheol 24 ( 1 964), p. 430; concorda con lui E. ScHWEIZER, ( ibid., p. 417) con l 'osservazione: do arrivo alla fede sempre solo perché la fede viene sopra di me• come una potenza che viene sopra il mondo. Con grande unilateralità H. BI NDER ( loc. cit. [§ 38 bibl . ] , pp. 56 ss . • 64 ss. ) caratterizza la fede come realtà divina e transsoggettiva d'un accadere. 16 Per la discussione in merito alla comprensione di Rom. 9-1 1 cfr. L. GOPPELT, Christentum und Judentum, cit., pp. 1 1 2-125; ID., Christologie, ci t .• pp. t n ss.

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gnore, chi ha creduto alla nostra predicazione ?'» ( 10,16). Pertanto la fedeltà all'elezione da parte di Dio, il quale continua a invitare i reni­ tenti, appare tanto più grande ( 10,2 1 ). 3. Dopo queste due dichiarazioni di Paolo, infine in Rom. 1 1 viene dato l'annuncio profetico: «l'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a che non sia entrato l 'insieme dei pagani. Allora tutto Israele sarà salvato» ( 1 1 ,25 s.). Vale a dire non tutti i singoli, ma la totalità d'Israele sarà guidata alla fede nel Dio che la cerca per mezzo di Cristo, e in tal modo alla salvezza. Paolo attende questi eventi certo in seguito a una svolta portentosa immediatamente prima della prossima parusia (Rom. 1 3 , 1 1 ), dopo che il mondo delle genti, nella sua totalità, si sarà rivolto al suo Creatore. Questa predizione non s'è adempiuta nel modo che Paolo si rappre­ sentava. Nel mondo delle genti e in Israele la grande svolta non s'è verificata, così come nemmeno la parusia prossima. Nell 'Apocalisse dal volgersi apocalittico del mondo delle genti a Cristo, che Rom. 1 5 , 1 9-24 ha nella sua prospettiva, è venuto l'opposto (Ap. 1 1 ,7-10), e però anche Giovanni al compimento vede una schiera innumerevole (Ap. 7,9 s.). Tuttavia l'accorciamento della prospettiva non annulla il contenuto teologico dell'attesa universale di Rom. 1 1 , perché la sua motivazione in Rom. 1 1 ,26-32 corrisponde centralmente al Vangelo 17: già la predi­ zione dell'AT ha annunciato costantemente per Israele una svolta sal­ vifica dopo la caduta (vv. 26 s.), ciò corrisponde alla fedeltà con cui Dio tiene ferma la sua chiamata (vv. 28 s.). Ma l'attesa corrisponde soprattutto al modo in cui Dio opera la salvezza per mezzo di Gesù: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia>> ( 1 1 ,30 ss.). Il giudizio di Dio alla fine dev'essere superato dal suo amore, passando attraverso la sua ira dev'essere colto come istanza ultima il suo amore. Secondo Rom. 5,5-8 questa certezza è data per mezzo della croce ma, d'altra parte, anche l'immagine opposta nel­ l'Apocalisse ( 1 1 ,8). Attraverso queste considerazioni sulla realizzazione e la motivazione della predizione, in Rom. 1 1 ,25 ne diventa visibile il significato vero e proprio: 3 . 1 La fede è sempre preceduta dalla chiamata di Dio e dall'ele­ zione che le sta dietro. Essa vive del fatto che l'amore di Dio, che 17 Questa particolare elezione per amore del Padre fa del popolo ebreo non l'altra ala della Chiesa, ma una continuazione dell'Israele dell'AT: gli ebrei continuano a vivere sul piano della promessa della legge, però si differenziano dall'Israele dell'AT in quanto non sono entrati nel piano dell'adempimento, più ancora, in quanto stanno in opposi· zione a esso: s'at tengono fermamente contro Cristo alla loro alleanza con Dio, già abolita in virtù di Cristo (2 Cor. 3,12·18).

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s'esprime nella chiamata e nell'elezione, è più grande della sua ira e quindi più grande di ogni rifiuto e fallimento umano (Rom. 8,29 s.; Fil . 3 , 1 2). 3 .2 Ad Israele non tocca solo l'amore che Dio dimostra con l'invio di Gesù all'intera umanità che gli resiste ( Rom. 5,6-1 1 ), a lui è diretto l'amore elettivo di Dio specialmente «per amore dei padri (cioè per la promessa data ad Abramo)». Questa elezione particolare rimane in vigore anche se la promessa data ad Abramo s'adempie esclusivamente per mezzo di Gesù Cristo e quindi nella sua comunità (Gal. 3; Rom. 4). Rimane valida sulla base della fedeltà di Dio che si lega a uomini, qui a questo popolo (Rom. 9,4 s . ; 1 1 ,16), senza dare agli uomini un diritto ( Rom. 9) e nonostante ogni loro rifiuto (Rom. 10); infatti la promessa è basata fin dall'inizio sulla creatio ex nihilo (Rom. 4,7). 3 .3 Quello che si dice dell'elezione d'Israele attraverso la promessa ai padri vale anche per la chiamata attraverso il battesimo. In Rom. 8,30 Paolo dice dei battezzati: «quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che li ha chiamati anche giustificati ; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati >> . Quando infine un uomo attra­ verso avvenimenti apparentemente tanto casuali è chiamato alla fede per mezzo del battesimo, la fede non è una sua idea subitanea che in ogni momento può scomparire, ma invece in lui si manifesta storica­ mente l'elezione di Dio; perciò la fede può essere sicura che lui arriva alla mèta ( Fil. 3,1 2). Dato che questa certezza viene messa in dubbio dal rifiuto d'Israele, in Rom. 9-1 1 Paolo fa rilevare poi come anche la parola d'elezione data a Israele conduca alla mèta (Rom. 9,6; 1 1 ,25 s.). Così quanto si dice in Rom. 9-1 1 circa il rapporto d'Israele con la fede si può dire, usato in conformità al significato, anche per tutti i battez­ zati, pure se, come Israele, temporaneamente non trovano la strada verso la fede. 3 .4 Oltre a ciò l'attesa per « la moltitudine delle genti», Rom. 1 1 ,25, si può verificare partendo dal Vangelo paolina ? Cristo è morto per « tutti>>, allora non dovrebbero «entrare>> tutti con il loro Creatore anche nella comunità ? Le proposizioni universali di Rom. 5 , 1 8 s., e 1 1 ,32 (cfr. l Cor. 1 5,22) non sono intese nel senso di un « riportare >> tutti; questa rappresentazione è un postulato sbagliato. Invece l'attesa di Paolo è un'ultima impresa arrischiata della fede, che si basa sulla tradizione derivante dall'affermazione di Gesù su se stesso (Mc. 14,24) secondo cui egli sarebbe morto « per la totalità». Ne deriva non solo la missione universale, ma anche l'aspettativa che volontariamente «ogni ginoc-

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chio» si pieghi davanti a Gesù elevato alla gloria (Fil. 2,10). Il Vangelo non mira a una setta misterica, ma a una nuova creazione 1 8 • c) In questo modo si può parlare della chiamata alla fede, che Dio conduce alla mèta, perché la fede è stata fondata da Dio, pure essendo nel contempo atteggiamento responsabile dell'uomo. Paolo può caratterizzare la propria via verso la fede sempre solo dialetticamente: non può dire d'avere deciso di credere, ma neppure d'essere stato costretto da Dio a credere. Invece da un lato deve con­ fessare che in lui sarebbe stato creato un nuovo inizio: «E Dio che disse: 'Rifulga la luce dalle tenebre', rifulse nei nostri cuori, per far ri­ splendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor. 4,6). La parola che ha fatto nascere la fede era creatrice come quella che all'atto della creazione fece risplendere la luce. L'io che crede è un nuovo io (2 Cor. 5,17). La fede nasce non perché l'uomo cambi da sé la propria autocomprensione o arrivi alla visione, ma in quanto al vecchio io subentra un nuovo io. Il nuovo io considera il vec­ chio io «crocifisso con » ( Rom. 6,6. 1 1 ). Pertanto scritti successivi del NT chiamano il nascere della fede una rinascita (Gv. 3,3.5; l Pt. 1 ,3) o il di­ ventare-vedente di uno che era cieco dalla nascita (Gv. 9). E nondimeno tutto questo è solo l'uno degli aspetti: la fede è con­ temporaneamente risposta di tutto l'uomo. Nel suo nucleo essa - per descriverla come atteggiamento umano - è diventare-certo, credere nella promessa di Dio (Rom. 4,16-25), un esternare il sentire; è inoltre obbedienza (Rom. 1 ,5 ; 6,16 ss.; 10,16 s.), un nuovo orientamento della volontà e infine un conoscere ( l Cor. 8,2 s.), un nuovo pensare. Tutto l'uomo si rivolge alla verità di Dio e si comporta in conformità. Come secondo Rom. 1-8 la fede libera la volontà, così, secondo l Cor. l s., libera il conoscere ( l Cor. 1 ,21 .24; 2,9-16). Il nuovo atteggia­ mento nei riguardi di Dio, per mezzo del quale diventa possibile cono­ scere la sua verità, solitamente da Paolo viene chiamato non credere, ma amare: « Se alcuno crede di sapere qualche cosa [ di giusto ] , non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da lui co­ nosciuto [ = eletto ] » ( l Cor. 8,2 s.). «Tra i perfetti parliamo, sì, di sa­ pienza», cioè «quelle cose che 'occhio non vide, né orecchio udì' ... queste (cose) 'ha preparato Dio' 'per coloro che lo amano'» (l Cor. 2,6.9). Con ciò Paolo riprende il contesto concettuale ebraico-veterote­ stamentario, secondo cui riconosce Dio, vale a dire (nell'AT) lo ricono­ sce come giusto ( per esempio Is. 43, 1 0), solo colui che - quale mem­ bro del suo popolo - lo ama (cfr. Dt. 30,6), perché egli stesso è ricono•• Cfr. E KASEMANN, Hdb. Rom., p. 147.

3. La nascita della fede

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sciuto (per esempio Am . 3,2; Ger. 1 ,5) e amato (per esempio Dt. 7,6 ss.; Os. 1 1 ,1-4), vale a dire eletto 1 9 • Tuttavia Paolo è molto parco nel parlare d'un amore verso Dio, in fondo soltanto in questo ambito di rappresen­ tazione ( Rom. 8,28; l Cor. 2,9; 8 , 1 .3 ) , e sottolinea molto di più l'amore di Dio (o di Cristo) per noi, cioè ch'egli è qui per noi (Rom. 5,5.8; cfr. 1 5,30; 8,35.37.39; 9,1 3 .25; 2 Cor. 5,14; 9,7; 1 3, 1 1 . 1 3 ; Gal. 2,20). Così la fede porta con sé la conoscenza. Essa comprende non solo la rivelazione della salvezza di Dio, ma nel tempo stesso vede nella sua luce la struttura dell'esistenza precristiana sot to l'aspetto antropolo­ gico e della teologia della storia. Secondo Rom. 3,2 1-28 la fede non accoglie solo la rivelazione della salvezza, ma secondo Rom. 1 , 1 8-23 e 7,7-25 anche l'esistenza sotto la collera [ di Dio ] è vista solo in retrospet­ tiva ed esperita come la verità dell'uomo vecchio. Di questo parleremo nella prossima sezione. 4. Fede nella parenesi Oltre alla funzione determinante della fede descritta fin qui, come organo dell'uomo creato dalla rivelazione della salvezza per accoglierla, la fede compare di quando in quando anche nella parenesi, come atteg­ giamento nei confronti dell'ambiente; i cristiani affrontano il loro ambiente come uomini che sono sorretti dalla fede in Dio. Com'era con­ suetudine già prima di lui, Paolo non li chiama solo occasionalmente o con termine a mo' di formula «i credenti>> ( l Tess . 1 ,7; 2,10.13; cfr. Ef. 1 ,19; At. 2,44; 4,32 e a.), ma indica invece la fede insieme con la speranza e l'amore come la corazza con cui i cristiani possono vivere nel mondo ( l Tess. 5,8) e mette in evidenza questa triade, ch'era certo tradizione della comunità già prima di lui, anche in l Tess. 1 ,3; l Cor. 13,13.(7); Rom. 5,3 ss. 20•

" R. BULTMANN, ThW I, pp. 696-702. ,. In Paolo sono stadi preliminari di questa triade fede e amore (l Tess. 3,6; l Cor. 16,13 s.; Flm. 5; Gal. 5,6.22 [ in un catalogo delle virtù ] ; cfr. 2 Cor. 8,7); fede e speranza (Gal. 5,5). Si trova ancora in l Tm. 6,1 1 ; 2 Tim. 3,10; Ef. 1 ,3 ss. 15-18; Col. 1 ,4 s.; Eb. 10,2224; Barn. 1 ,6. Per la verità si trovano stadi preliminari anche nell'ambito ebraico deii'AT ( 4 Mac. 17,2.4: fede, speranza, pazienza), però nessun riscontro diretto. I paralleli gno­ stici (H. LIETZMANN, Hdb., exkursus su l Cor. 13,13) sono tardivi.

CAPITOLO QUARTO

L'EFFICACIA DI SALVEZZA DELL'EVENTO CRISTO : L'EVANGELO COME LA RIVELAZIONE DELLA GIUSTIZIA DI DIO

§ 39: Giustificazione e riconciliazione HERMANN CREMER, Die paulinische Rechtfertigungslehre im Zusammenhange ihrer geschichtlichen Voraussetzungen, 19 00' ; GoTTFRIED QUELL/ GorrLOB SCHRBN K, dike, dikaios (ecc.), ThW n , pp. 176-229; HEINZ-D I ETRICH WENDLAND, Die Mitte der paulinischen Botschaft. Die Rechtfertigungslehre des Paulus im Zusammenhange seiner Theologie, 1935; PBTER B L A SER , Das Gesetz bei Paulus, 194 1 ; ALFRED 0EPKE, Dikaiosyne theou bei Paulus, in: ThLZ 78 ( 1953 ), pp. 257-263; CHRISTOPH HAUFE, Die sittliche Rechtfertigungslehre des Paulus, 1957; AooLF ScHLATTER, Gottes Ge­ rechtigkeit. Ein Kommentar zum Romerbrief, 1 959'; ERNST Ki\sEMANN, Gottesge­ rech tigkeit bei Paulus, in: Exeg. Vers. n, pp. 1 8 1-193; EBERHARD Ji.iNGEL, Paulus und Jesus. Eine Untersuchung zur Priizisierung der Frage nach dem Ursprung der Christologie, 1962; RuooLF BULTMANN, Dikaiosyne theou, in: Exegetica, pp. 470-475; CHRISTI AN MOLLER, Gottes Gerechtigkeit und Gottes Volk, 1964; KARL KERTELGB, «Rechtfertigung» bei Paulus. Studien zur Struktur und zum Bedeutungsgehalt des paulinischen Rechtfertigungsbegritfs, 1967; LEONHARD GOPPELT , Christol., pp. 1 37146; JosEF BLANK, Warum sagt Paulus: «Aus Werken des Gesetzes wird niemand gerech t»?, in: Evangelisch-Katholischer Kommentar zum NT. Vorarbeiten Heft l, 1 969, pp. 79-96; Gi.iNTER KLEIN, Gottes Gerechtigkeit als Thema der neuesten Pau­ lusforschung, VF 12 ( 1 967), pp. 1-1 1 ( Io., Rekonstruk tion und Interpretation, 1969, pp. 225-236 ) ; ULRICH WILCKENS, Was heisst bei Paulus: «Aus Werken des Ge­ setzes wird kein Mensch gerecht»?, in: Evangelisch-Katholischer Kommentar zum NT. Vorarbeiten Heft l, 1969, pp. 5 1-78 ; J.A. ZIESLER, The Meaning of Righteous­ ness in Paul. A Linguistic and Theological Enquiry, 1 972; ERNST Ki\sEMANN, Hdb. Rom. 1 S.29; EDUARD LoHSB, Die Gerechtigkeit Gottes in der paulinischen Theolo­ gie, in: Io., Die Einheit des NT, 1 973, pp. 209-227; HANS CONZBLMANN , Die Rechtfer­ tigungslehre des Paulus. Theologie oder Anthropologie?, in: Io., Theologie als Schriftauslegung, 1 974, pp. 191-206. Sullo sfondo ebraico : FRIBDRICH Ni:irsCHER, Zur theologischen Terminologie der Qumran-Texte, 1956; SIEGFRIED ScHULZ, Zur Rechtfertigung aus Gnaden in Qumran und bei Paulus, ZThK 56 ( 1 959), pp. 155- 1 85 ; Ji.iRGBN BECKER, Das Heil Gottes. Heils­ und Sundenbegritfe in den Qumrantexten und im Neuen Testament, 1 964. - Su 3: FRIEDRICH Bi.iCHSEL, allasso, ... katallasso, ThW I, pp. 252-260; tr. i t. G LNT I, coli. 673-696; FRIEDRICH Bi.iCHSEL, hilasterion, ThW I I I , pp. 320-324; tr. i t. GLNT, IV, coli. 1001-101 1 ; ER NS T Ki\SEMANN, Erwiigungen zum Stichwort «Versohnungslehre im Neuen Testament», in: Zeit und Geschichte, Festschr. f. R. Bultmann, 1 964, pp. =

,

1. 1 concetti

515

47-60; Go'ITFRIED FITZER, Der Ort der Versohnung nach Paulus, ThZ 22 ( 1%6), pp. 161-183 ; LEONHARD GoPPELT, Versohnung durch Christus, in: Chris t ol . , pp. 147-164; HERMAN RIDDERBOS, Paulus, 1970, §§ 32-35.

1. I concetti

Paolo descrive l'effetto della rivelazione della salvezza di Dio con una serie di concetti diversi. Così in l Cor. 1 ,30 parla del fatto che per noi Cristo sarebbe diventato «giustizia (dikaiosyne), santificazione ( hagiasmos) e redenzione (apolytrosis)». Però, quello che successiva­ mente l'uso linguistico della Chiesa ripartì su questi concetti diversi, in Paolo ancora per largo tratto risulta coincidente. Per lui giustifica­ zione e santificazione non sono affatto avvenimenti che seguono uno all'altro, ma i concetti dikaioun ( giustificare) e hagiazein ( santificare) vogliono soltanto descrivere da lati diversi lo stesso avvenimento. Questo vale specialmente anche per dikaioun (giustificare) e katallas­ sein, katallage (riconciliare, riconciliazione), che Paolo usa in paralle­ lo in 2 Cor. 3,9 e 5 , 1 8 . Analoga situazione per zoe (vita) e soteria ( salvez­ za), in Rom. 10,9 s. sozein ( salvare) viene usato in parallelo con dikaio­ syne (giustizia). 2. I vari aspetti dell'opera di salvezza

Ora certo è determinante l'osservazione che tutti questi concetti si presentano sotto un triplice aspetto: a) L'indicativo Anzitutto vengono usati all'aoristo, per affermare che cosa al pre­ sente è stato già assegnato per mezzo della chiamata alla fede: «Quelli che ha chiamati li ha anche giustificati ; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati » (Rom. 8,30; cfr. Fil. 3 ,9; Rom. 5 , 1 .9 s.). Inoltre, diversamente dagli altri concetti citati, la riconciliazione si può dichiarare come avvenuta già prima della chiamata e della fede, direttamente dalla croce per il mondo intero: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor. 5,18 s.). Del resto questi con­ cetti definiscono anzitutto quello che è accaduto a partire dalla croce o dal battesimo per mezzo della chiamata alla fede. b) L'imperativo Contemporaneamente servono a descrivere uno dei compiti affidati

§ 39: Giustificazione e riconcdiazione

516

alla fede (Rom. 6,13.16.19; 1 Tess. 4,3; 5,23). Questo imperativo ha la forma del richiamo all'obbedienza della fede. c) La speranza Poiché sono sempre date solo come dono e compito, in questo pe­ riodo terreno la giustizia e la santificazione rimangono sempre anche oggetto della speranza: «Noi infatti, per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo» (Gal. 5,5). Questa tensione fra il già e il non-ancora è evidenziata soprattutto nella definizione del­ l'avvenimento della salvezza. Da una parte vale il già: « Ecco ora il giorno della salvezza » (2 Cor. 6,2; cfr. l Cor. 1 , 1 8 ; 2 Cor. 2,15); però dal­ l'altra parte c'è Rom. 8,24 : «Nella speranza noi siamo stati salvati». Di conseguenza la salvezza (soteria) ci appare come mèta che, sulla base della giustificazione presente (Rom. 5,9 s.; 13,1 1 }, si attende nel giudizio finale quale rischio nella fede. 3. Giustificazione e riconciliazione come concetti specificamente paolini

In Paolo due concetti acquistano un contorno particolare entro que­ sto ambito: «giustificare» e «riconciliare». In verità il numero dei passi che lo documentano è relativamente ridotto - di giustificazione parlano con una certa accentuazione soltanto la Lettera ai Romani e la Lettera ai Galati e i termini katallassein e katallage compaiono soltanto in tre passi (Rom. 5,10 s.; 1 1 ,15; 2 Cor. 5,1 8-20) , però il loro peso teologico è notevole. Si deve notare che sia in Rom. 5, sia pure in 2 Cor. 5 Paolo collega giustificazione e riconciliazione fra loro. In Rom. 5 ci conduce dalla giu­ stificazione (5,1a) alla riconciliazione (5,1b. 10) e in 2 Cor. 5 viceversa dalla riconciliazione (5,18-20) alla giustificazione (5,2 1 ). Evidentemente i due concetti descrivono lo stesso avvenimento, il ristabilirsi del rap­ porto fra Dio e uomo. Questo è chiarito pure dal fatto che Paolo li usa parallelamente fra loro in una serie di enunciazioni. Così l'enunciazione sulla riconciliazione di Rom. 5,10 corrisponde per forma e contenuto a quella sulla giustificazione di Rom. 5,9. Il ministero del Vangelo si può chiamare ministero della riconciliazione ( diakonia tes katallagès) o ministero della giustificazione (diakonia tes dikaiosynes) (2 Cor. 3,9; 5 , 18). I due concetti stanno per due contesti di rappresentazioni che descrivono l'evento di salvezza con immagini umane come rapporto fra Dio e uomo. E questo avviene partendo ogni volta da un contesto di­ verso, che è già stato coniato in precedenza dall'AT: -

J. Giustificazione e riconciliazione come concetti tipicamente paolini

517

a) La giustificazione (dikaiosis o dikaioun) spiega il rapporto con Dio partendo dal carattere giuridico del patto veterotestamentario d'al­ leanza con Dio (cfr. Rom. 3,2-6): prende le mosse dalla dimostrazione della «giustizia di Dio», che abolisce « la condanna» dell'« ingiusto » e lo fa «giusto». Con l'aiuto della giustificazione Paolo esprime il fatto che in Cristo il Dio dell'AT, agendo con fedeltà alla sua promessa, si vincola addi­ rittura legalmente all'uomo e lo fa suo partner nell 'alleanza. Il messag­ gio della giustificazione coglie il nucleo del rapporto di Dio con l'uomo e mette di fronte a Dio l 'uomo come singolo responsabile nel mezzo della massa dell'umanità. Quando in Rom. 3,25 s. designa l'effetto della croce come la dimo­ strazione della giustizia di Dio e in Rom. 1 , 1 7 tematicamente l'Evan­ gelo come la rivelazione della giustizia di Dio, Paolo riprende il con­ cetto teologico più centrale dell'AT. Nell'AT s'incontra Dio come il Dio dell'alleanza, vale a dire come colui che stabilisce il rapporto del quale deve vivere Israele. Pertanto tutto dipende dal fatto che Dio rimane fedele a questo rapporto e agisce in conformità di esso. Questa dimo­ strazione della sua fedeltà all'alleanza è la sua giustizia. Per l'AT dunque la giustizia non è un criterio di misura, come per il nostro pensiero occidentale, ma una relazione. Per l'uomo, tutto di­ pende dal corrispondere a questo rapporto stabilito da Dio, cioè dal­ l'essere «giusto» . Quindi per l'uomo dell'AT la giustizia è il massimo valore della vita 1• La rappresentazione della «giustificazione » comprende la profon­ dità del rapporto con Dio, quando designa la perdizione dell'uomo, la sua soggezione al peccato e alla morte, come condanna di Dio (Rom. 5,18 s .; 8 , 1 s.), e attende tutta la salvezza dalla giustizia di Dio, vale a dire dal fatto che Dio si attiene alla sua promessa (Rom. 3,2; 9,6), dalla dimostrazione della sua fedeltà alla promessa e all'alleanza (Rom. 3,3-6; 9,4 s.). Per Paolo la giustizia di Dio non è, come invece di recente si è sostenuto più volte 2, in generale la sua fedeltà alla propria creazione, ma la fedeltà alla promessa attestata dall'AT ; proprio come tale essa è universale, in quanto la promessa fatta ad Abramo comprende « tutti i popoli» (Rom. 4,16 s.). Per Paolo la promessa di Dio è l'avvio del cre­ dere e pensare: «Tuttavia non è possibile che la Parola di Dio sia ve­ nuta meno» ( Rom. 9,6). Cristo è il sì di Dio a tutte le sue promesse (2 1 G. VON RAD, Theol., cit., I, pp. 368-380; tr. it. cit . , I, pp. 418-432. ' E. KAsEMANN, Gottesgerechtigkeit bei Paulus, in: Exeg. Vers., cit., II, pp. l81-193; P. 5TUHLMACHER, loc. cit. (§ 39 bibl.), pp. 89 s.

§ 39: Giustificazione e riconciliazione

518

Cor. 1 ,20), la dimostrazione della giustizia di Dio fatta persona ( l Cor. 1 ,30). b) La riconciliazione ( katallage) spiega il rapporto con Dio parten­ do dall'alleanza con Dio dell'AT intesa come amore elettivo (cfr. Rom. 9,1 1 . 13; Col. 3,12): prende le mosse dalla dimostrazione dell'« amore di Dio», che del «nemico di Dio » fa uno che è in . S i deve notare come i l concetto parallelo sia ••pace » (eirene) e non, eventualmente, >, l'organismo di membra che agiscono, la comunità come suo corpo.

§ 41 : La cena del Signore Vedi anche bibl. per § 21 e § 25,4 a; HANS VON SooEN, Sakrament und Ethik bei Paulus, 1931 ( rist. in: Das Paulusbild in der neueren deutschen Forschung, a cura di K. H. RENGSTORF, 1 964 ); KARL SrliRMER, Das Abendmahl bei Paulus, EvTheol 7 ( 1 947/48 ), pp. 5().59 ; GuNTHER BORNKAMM, Zum Verstiindnis des Gottesdienstes bei Paulus, in: Io., Das Ende des Gesetzes, Ges. Aufs. I, 1961', pp. 1 1 3-132; ERNST KA SEMANN , Anliegen und Eigenart der paulinischen Abendmahlslehre, in : Exeg. Vers. I, pp. l l-34 ; PAUL NEUENZEIT , Das Herrenmahl. Studien zur paulinischen Eu­ charistieautfassung, 1960; LEONHARD GoPPELT, Apostolische Zeit, § 22; GERHARD DEL­ LING, Das Abendmahlsgeschehen nach Paulus, in: Io., Studien zum NT und zum hellenistischen Juden tum, 1970, pp. 318-335; Jt'RGEN ROWFF, Heil als Gemeinschaft, in : Gottesdienst und Otfentlichkeit, a cura di P. CORNBHL-H.-E. BAHR, 1970, pp. 881 17; LEONHARD GoPPELT, Der eucharistische Gottesdienst nach dem Neuen Testa­ ment, in : Erbe und Auftrag, « Benediktinische Monatsschrift», 49 ( 1973 ), pp. 435-447.

1. La celebrazione della cena del Signore nelle comunità paoline

a) Il modo in cui è stata accolta liturgicamente nella comunità elle­ nistica e interpretata teologicamente l'istituzione di Gesù ( § 2 1 ,6) si può 1 Cfr. la nota favola di Menenio Agrippa (Livio, Storia romana, n , 32) e il materiale di E. ScHWEIZER, ThW, VII, pp. 1035-1039. ' Così H. ScHLrER (§ 40 bibl.); E. KAsEMANN, Leib und Leib Christi, 1933; però in senso contrario E. PERcY, Der Leib Christi in den paulinischen Homologumena und Antilego­ mena, 1942; E. ScHWEIZER, Die Kirche als Leib Christi in den paulinischen Homologu­ mena, in: ID., Neotestamentica, 1963, pp. 272-292.

526

§ 41: La cena del Signore

dedurre dalla più antica tradizione esplicativa contenuta nel NT: in l Cor. 10, 1 5 Paolo rimanda la comunità a un'interpretazione dell'Ulti­ ma Cena ad essa apparentemente già ben nota e che cita in l Cor. 10,16, per trame poi (l Cor. 10, 17-22) conclusioni relative alla situazione della comunità. Che in l Cor. 10,16 d sia una formula tramandata è sugge­ rito anche dal fatto che il periodo parla con una terminologia non paolina ed è formulato in modo ingegnoso nel parallelismus membro­ rum: « > . I Gentili tolleravano bensì per principio questo distan­ ziamento degli ebrei, perché lo consideravano un carattere etnico pe­ culiare; infatti secondo Celso (Origenes, c. Cels. 5,34) rientra nell'ordi­ namento del mondo che ogni popolo conservi la propria religione e i costumi ereditati e tolleri gli altri, però non che avanzi una rivendica...

l. Nota preliminare: la situazione iniziale

543

zione di assolutezza come gli ebrei (Origenes, c. Cels. 5,4 1 ). Evidente­ mente, agli occhi dell'ambiente pagano pure i cristiani urtavano contro queste regole fondamentali della visione del mondo ellenistico: tra­ sgredivano il principio dell 'armonia e della convivenza pacifica ( harmo­ nia e eirene), che secondo la filosofia popolare viene indicato all'uomo dalla natura 1• Pertanto, nella vita di tutti i giorni dovette dar luogo a contrasti e sospetti il fatto che ora non membri del popolo straniero degli ebrei, ma veri e propri concittadini, conoscenti e parenti, in quan­ to cristiani si distanziassero personalmente dal modo di vivere del loro ambiente e facessero avvertire la rivendicazione d'assolutezza della loro religione, già considerata provocatoria negli ebrei . Il cristianesimo dovette apparire più o meno come lo caratterizzava costantemente Celso, come la stasis, la ribellione contro l'armonia divina (Origenes, c . Cels. 5 ,33 ss. 4 1 ; 8, 14), nella quale tutti convivono tollerandosi fra loro in un sincretismo di base, e cioè il cristianesimo appariva come una >. Questo conflitto improntò non casualmente, ma oggettivamente e necessariamente la situazione sociale dei cristiani, finché dopo 300 anni la visione ellenisti­ ca del mondo venne sostituita da quella cristiana; nella I Lettera di Pie­ tro esso si presenta per la prima volta. 4. Quando si raggiunse questo stadio dell'evoluzione storica? Le Let­ tere di Paolo e i riscontri degli Atti degli Apostoli sul periodo paolino presuppongono una situazione fondamentalmente diversa. Qui i con­ flitti con l'ambiente e con le autorità romane hanno un carattere asso­ lutamente locale e personale, comunque non di principio. I cristiani, al pari dei « timorati di Dio », appaiono al loro ambiente come un'appen­ dice delle comunità delle sinagoghe, della religione degli ebrei tollerata per principio. Ma per la 1 Lettera di Pietro i cristiani sono noti all'opi­ nione pubblica con la loro nuova propria denominazione Christianoi (4, 16). Secondo At. 1 1 ,26 questo nome s'è sviluppato dovunque il cri­ stianesimo s'è distinto dall'ebraismo come religione autonoma anche per chi ne stava fuori.

Per l'opinione pubblica dell'impero questo stadio, come si è già osservato sopra, si distingue in primo luogo per la persecuzione di Nerone. Ne parla in retrospettiva Tacito attorno al l l O (Annales xv,44): « Perciò Nerone, allo scopo di zittire la voce [ ch'egli avesse fatto met­ tere a fuoco Roma ] incriminò i colpevoli [ . ] cioè gli uomini odiati comunque per ogni genere d'infamie, che il popolo chiamava cristiani [ ... ] Così prima vennero presi coloro che ammettevano [ d'essere cri­ stiani ] ; poi, sulla base delle loro dichiarazioni, una moltitudine enor­ me, che fu accusata non tanto del delitto di avere provocato l 'incen­ dio, quanto d'odio contro il genere umano•• (cfr. § 3 ,4). Il non-confor­ mismo viene inteso come odium generis humani. ..

1 H.-U. M INKE ( § 43,2-3 bibL), pp. 24 ss_

544

§ 43: La responsabilità dei cristian i nella società secondo l Pt

Ascoltando questo resoconto, involontariamente vien fatto di pen­ sare a l Pt. 2 , 1 2 e 4,15. Frattanto l'atteggiamento nei confronti dei cri­ stiani, dal quale, a detta di Tacito, prese avvio l'azione di Nerone, se­ condo 5,9 s'era propagato all'intera ecumene. Questa situazione in linea di principio esisteva dal tempo della persecuzione di Nerone. In questa forma rimase fino a quando s'acuì verso la fine del governo di Domi­ ziano a motivo del culto dell'imperatore. Nella 1 Lettera di Pietro que­ sto inasprimento non appare ancora; però si riflette nell'Apocalisse. Secondo l Pt. 5,13 Roma è Babilonia, la capitale del mondo ostile a Dio e al suo popolo. Secondo Ap . 17,5, questo era Roma per i cristiani dal tempo della persecuzione di Nerone e per gli ebrei secondo 4 Esdra dal tempo della distruzione di Gerusalemme, anche se già prima, natu­ ralmente, si riferivano a Roma le enunciazioni del libro di Daniele su Babilonia. Però soltanto dopo Domiziano Roma prese a rappresentare l'anticristianesimo (Ap. 1 3 ; cfr. § 44,5 ). Da tutto quanto precede, sull'epoca in cui fu scritto consegue : stan­ do alla situazione presupposta dalla nostra lettera, essa potrebbe essere stata scritta fra il 64 e il 90. I suoi dati sulla situazione fanno pensare più all 'inizio che alla fine di questo periodo; infatti , per i destinatari di questa lettera il conflitto con la società è ancora un fatto nuovo e inaudito : «Carissimi, non siate sorpresi per l'incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qual­ cosa di strano » ( l Pt. 4,12 ) 2•

c) La -lettera fu spesso fraintesa, perché non se ne riconobbe il tema. Ancora l 'ultimo commento in lingua tedesca indica come tema: «Una situazione di tribolazione già incominciata e ancora crescente in futuro » 3 • Certo il problema delle sofferenze dei cristiani percorre la lettera come un filo d'Arianna. Però questo problema non è il suo tema, ma il pretesto per scrivere la lettera e l'argomentare partendo dal suo tema. In 1 , 1-2,1 1 ai lettori si rivolge la parola non come ai persegui­ tati, ma come a « stranieri eletti nella diaspora>> o come a «Stranieri e pellegrini » . Quindi la lettera li interroga sulla loro situazione nella so­ cietà; di conseguenza, il suo tema è il problema della responsabilità dei cristiani nella società, oggi discusso in tutti i sensi nell'ecumene.

' Questa frase ha dato adito spesso

a

considerazioni d i critica letteraria d a quando und das Problem des l. Pet rusb riefes, 1 91 1 ) espresse l'ipotesi che 1 ,3--4 , 1 1 sia un'allocuzione battesimale che successivamente, in occasione d'una persecuzione, sarebbe stata integrata con la parola di conforto e inco­ raggiamento di 4,12-5,14 e messa in circolazione come lettera con la dedica 1 , 1 s.; al riguardo cfr. W. G. KUM MEL, Einleitung, cit . , pp. 305 s. Però questa concezione non è sostenibile in quanto il capoverso che inizia con 4.12 non presuppone affatto una situa­ zione diversa da ciò che precede. Che si parli di sofferenze intervenute nel frattempo, soltanto a partire da 4,12, viene ribattuto già da 1 ,6. tl giusto soltanto dire che la lettera sviluppa materiale della tradizione in gradi progressivi. ' K. H. ScHELKLE, Herder·K. XIII, 2,3. R. PElwELWITz (Die Mysterienreligionen

2. L'essenza dell'essere-cristiani nella società

545

2. L'essenza dell'essere-cristiani nella società a) La situazione della diaspora Se si tiene conto, accanto alla dedica della l Pt. ( l , l s.), dell'intesta­ zione delle lettere paoline, appare chiaro come qui si parli in un'altra dimensione. Questa intestazione agli «Stranieri eletti nella diaspora» si rivolge in certo qual modo alla dimensione orizzontale dell'esistenza cristiana, mentre le dediche delle lettere paoline (per esempio l Cor. 1 ,2: >. D'ora in poi essi vivono come stranieri ( 1 , 1 . 1 7 ) e fino al compimento nella sofferen­ za ( 1 ,6), in quanto essi sono «eletti» ( l , l ), (2,9). In modo corrispondente in Dam. 4, 1-6 si dice a proposito degli esseni quasi con gli stessi termini : « Questi sono quelli d'Israele che hanno mutato vita, che hanno lasciato il paese di Giuda [ ... ] e gli eletti d'Israele, [ .. ] che alla fine dei giorni persevereranno [ . ] Questo è [ .. ] il numero dei loro tormenti e questi sono gli anni della loro permanenza in terra straniera [ . . ] i santi, ai quali Dio ha perdonato >>. Sulla base di queste e di molte altre corrispondenze c'è da sup­ porre che la I Lettera di Pietro abbia ripreso una tradizione del cri­ stianesimo primitivo, d'origine essena, per caratterizzare i cristiani co­ me un gruppo di uomini che è stato trasferito in un'esistenza comple­ tamente nuova e perciò estraniato dalla società, appunto come comu­ nità escatologica dell'esodo. .

.

..

.

.

c) Esodo come fede - non come emigrazione Comunque, indipendentemente da questa corrispondenza, le formu­ le hanno in questa sede e nell'altra un senso fondamentalmente diverso. l. Così la nuova esistenza in quest'ambito e in quello è d'una specie diversa. Presso gli esseni, il nuovo essere s'annuncia nel modo in cui fin dalla Lettera di Giacomo (§ 45,3 ) una teologia dell'empiria lo cerca in continuazione presso i cristiani, cioè come una nuova forma di vita praticata secondo regole rigide. L'indicativo di l Pt. l ,3 («ci ha rigene­ rati [ . ] per una speranza viva ») non si può fraintendere come descri­ zione d'un dato empirico, perché subito lo segue l'imperativo di 1 , 1 3 (« sperate perfettamente»). Questa dialettica corrisponde all'esistenza che si alimenta dalla fede. 2. E, in realtà, questa differenza strutturale del nuovo essere deriva dalla diversità delle sue radici : a Qumran questa radice sta nella leg­ ge radicalizzata, la cui realizzazione controllabile è resa possibile da energie di grazia 4• Invece nella I Lettera di Pietro tutto scaturisce dal .

.

• E vero che Oumran conosce la sola grazia in assoluto. Ma in quel contesto la gra­ zia serve appunto a realizzare la legge radicalizzata; cfr. J. BECKER, Das Heil Gottes, 1964, spec. pp. 276 ss.

3. Comportamento responsabile nelle istituzioni della soc1età

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Vangelo della redenzione, che è avvenuta in modo nascosto per mezzo della croce e della risurrezione e si presenterà visibile solo in un pros­ simo futuro ( l Pt. 1 ,3 ss. 1 8 s.; 4,7). 3 . Perciò il punto di partenza soggettivo là è una esperienza di con­ versione confermata annualmente nella celebrazione del rinnovo del­ l'alleanza ( l QS 1 , 1 6--3 ,20), invece qui è la chiamata alla fede avvenuta per mezzo del battesimo. Alla fine della prima parte (2,9) e alla fine dell'intera lettera {5,10) viene definito chiamata ciò che prima in 1 ,3 era stato chiamato rina­ scita; qui esiste una corrispondenza reciproca tra rinascita e chiamata alla fede. E precisamente con questi concetti viene espressa l'imposta­ zione dell'esistenza cristiana. 4. Di conseguenza, l'essere straniero diventa immagine per rappre­ sentare l'esistenza escatologica nella quale i cristiani sono posti per mezzo della fede : chi ascolta i comandamenti del discorso della mon­ tagna e l 'appello alla sequela viene estraniato dalla vita di tutti i giorni della comunità e parte dalla forma di vita che gli è consueta verso un nuovo essere uomo. Questo passaggio, e non l'emigrazione dalla so· cietà, come presso gli esseni, è l'esodo comandato ai cristiani. 3. Comportamento responsabile nelle istituzioni della società 5

a) Motivazione (2, 1 1 s.) Le considerazioni sul comportamento dei cristiani nelle istituzioni della società iniziano in 2, 1 1 s., con due frasi intese a giustificare il per­ ché i cristiani non possono emigrare dalle istituzioni della società an­ che se la loro situazione è quella di una esistenza da stranieri . La prima frase è straordinariamente chiarificatrice: « Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dai desideri della carne» . Quindi di­ ventare stranieri alla società per i chiamati significa sempre anzitutto diventare stranieri alla propria condizione dell'uomo vecchio. Qui inco­ mincia l'esodo. Dato però che questo 'uomo vecchio' fino alla morte corporale non retrocede mai alle loro spalle (4,2), i cristiani devono attuare continua­ mente l'esodo dal vecchio al nuovo essere per mezzo della fede, che prima di tutto supera il proprio uomo vecchio, ma non lo può lasciare ' Ciò che attualmente nella terminologia sociologica viene indicato spesso come cistituzione• o, con un senso un po' diverso, come •struttura della società•, nella riforma si chiamò «i ceti (Stiinde ) secolari» e nella più recente etica sociale luterana da P. Althaus a H. Thielicke •ordinamenti della creazione o della conservazione•. La diversità di queste definizioni segnala certo un cambiamento dei modi di considerare le cose.

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§ 43: La responsabilità dei cristiani nella società secondo l Pt

in dietro. Sarebbe un'ipocrisia voler emigrare dalla società, come se il vecchio stesse dietro loro. Invece, come aggiunge 2,12, assai oltre, essi hanno un proprio mandato positivo nelle istituzioni: « la vostra con­ dotta fra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio ». I cristiani devono testimoniare anche per mezzo del loro comportamento nelle istituzioni della società il Vangelo che vuole salvare tutti gli uomini. Mentre nell'emigrazione la comunità di Qumnln si prepara come comunità d'azione per la guerra santa con­ tro gli ingiusti, i cristiani, come il loro Signore, devono andare fra gli uomini e annunciare per mezzo del loro comportamento anche nella politica, nell'economia e nel matrimonio che adesso Dio vuole condurre tutti a un'esistenza umana salva, integra. La responsabilità etico-sociale motivata dall'amore di Dio qui viene inclusa entro l'invio missionario. b) Il principio: retto comportamento nei confronti di ogni creatura per amore del Signore Nelle istituzioni della società dai cristiani si pretende non, poniamo, genericamente « amore», ma retto comportamento (agathopoiein) {2,13 s. 15 .20; 3 ,6.17). Ma come dev'essere questo retto comportamento ? Il brano 2,1 3--3 ,7 risponde a questa domanda riprendendo in 2,183,7 la tradizione del codice familiare, che s'incontra già in Col. 3,184,1 e in Ef. 5,22-6,9. In 2,13-17 vi troviamo collegata quella analoga sul comportamento politico, che appare già presso Paolo in Rom. 14,1-7. Il principio di questa etica sociale propria dell'intero NT e ripresa dalla I Lettera di Pietro è menzionato nelle parole della frase introduttiva 2,13: « Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Si­ gnore» 6• c) Il contenuto del retto comportamento: rimanere responsabil­ mente nelle istituzioni (i codici familiari o domestici). Appunto come stranieri i cristiani sono tenuti a inserirsi nelle isti­ tuzioni esistenti. l. Questo afferma anzitutto la parola-guida della tradizione del co­ dice familiare, che introduce le singole direttive al singolo partner so' Nelle sue due parti sono in certo qual modo collegati i principi che sono stati ripresi ciascuno per sé da due importanti e più recenti schemi di etica sociale evange­ lica. II richiamo a subordinarsi •a ogni creatura umana• (cioè che Dio ha sovraordinata), ricorda l'etica degli ordinamenti sostenuta da P. Althaus fino a H. Thielicke, mentre la lo· cuzione •per amore del Signore• ricorda l'etica cristocratica che fu opposta all'etica degli ordinamenti da K. Barth fino a E. Wolf.

3. Comportamento responsabile nelle istituzioni della società

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ciale,' cioè hypotagete (assoggettatevi, 2 , 1 3 . 1 8 ; 3 , 1 ; cfr. Rom. 13, 1 ; Col. 3 , 1 8 ; Ef. 5,24). Questa parola-guida dell'etica sociale neotestamentaria sorprenderà facilmente il lettore odierno e gli apparirà come espres­ sione di un orientamento sociale superato. Per lui il matrimonio non è subordinazione della donna all'uomo (Ef. 5,24), ma partnership. Però questa perplessità non colpisce il nucleo dell'enunciazione. Involon­ tariamente, ascoltiamo la parola partendo dal suo prefisso «Sotto». Ma nel NT l 'accento sta non sul prefisso, ma sul tema taxis (ordine) o tas­ sesthai (ordinarsi). In origine la direttiva era rivolta non contro la ribellione, ma contro l'emigrazione. In primo luogo vuoi dire: inseritevi nelle istituzioni esi­ stenti. Invece il prefisso « sottO>> , che corrisponde all'ordinamento so­ ciale di allora, è privo di ogni accento teologico. Quindi il senso vero e proprio della direttiva o prescrizione rimane valido anche dove le isti­ tuzioni vengono intese nel senso della partnership 1• La tarda antichità, nella misura in cui era influenzata dal pensiero stoico, conosceva un concetto di taxis molto preciso, che era stato ri­ preso molto presto nel cristianesimo. Così secondo l Clem. 20 come principio organizzativo l 'ordinamento della convivenza umana nello Stato, famiglia e Chiesa si può desumere da una lettura del cosmo 8• Questa concezione s'è potuta sviluppare ulteriormente fino a formare un diritto naturale. Per contro in Rom. 1 3 , 1 s., dove il concetto di taxis compare spesso, non si pensa affatto a un ordinamento che si possa ricavare dalla natura o dal cosmo, ma a un rapporto fra uomini stabi­ lito da Dio nella storia in modo contingente. Nei singoli passi nei quali il NT usa il sostantivo taxis in contesto parenetico ( l Cor. 14,40), Paolo collega questo concetto con quello della pace, vale a dire con Jalom, che Dio vuole e produce, secondo le rappresentazioni veterotestamen­ tarie e cristiane primitive. E in verità Jalom è il giusto rapporto di tutti fra loro, che per tutti significa benessere e vita 9• A questo benessere servono anche gli ordinamenti sociali, come si può dedurre anche da Rom. 13,4. Ma la pace di Dio non viene in virtù di questi ordinamenti in se stessi, bensì in virtù della costituzione della sovranità o regno escatologico (Rom. 8,6; 14,17). Nella 1 Lettera di Pietro meno ancora che in Paolo l'invito ad assog­ gettarsi non muove dall'immagine d'un ordinamento della società sto7 A questo senso del concetto, sviluppato dal contesto oggettivo, corrisponde anche il risultato dell'indagine filologica; cfr. G. DELLING, ThW VIII, pp. 43-46. Quindi nella pa· renesi la parola può abbracciare un'intera successione di gradazioni di significati, dalla sottomissione all 'autorità fino al rispettoso adattarsi. Diversamente da Delling, che parafrasa l'hypotassesthai dei codici domestici con •adattarsi entro un ordinamento posto da Dio», preferirei parlare d'un collocarsi dentro. Sarebbe anche meglio non parlare d'un ordinamento posto da Dio, perché questa designazione manca qui come anche altrove nel NT. 1 G. DELLING, ThW Vlll, p . 47. 1 Cfr. W. FOERSTER, ThW 11, pp. 410 s., e G. I>BLLI NG, ThW VII , p. 30, nota 22.

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ricamente necessario o addirittura da un ordinamento ideale motivato dal cosmo, ma dalla concezione che il cristiano è vincolato alle forme storiche di vita date volta per volta ed è responsabile in esse. 2. Questa impressione è confermata dall'origine dello schema del codice domestico legata alla storia della tradizione. Il modo in cui i codici domestici danno indicazioni di etica sociale e avviano al matrimonio, al rapporto di lavoro e all'ordinamento poli­ tico, ricorda l'etica delle relazioni della Stoa. Per esempio Epitteto in­ segna ai suoi discepoli: chi è divenuto saggio e ha trovato l'atteggia­ mento fondamentale o il sentimento giusto, poi deve tentare anche di adempiere le scheseis, le relazioni con altri uomini, in cui è inserito per sorte o per scelta. Le relazioni gli vengono indicate per mezzo dei «nomi » che porta: devo essere uno «che tiene conto delle relazioni, quelle naturali e quelle imposte, come devoto (nei confronti degli dèi), come figlio (nei confronti dei genitori), come fratello, come padre, come cittadino>> (Epitteto, Diss. 3,2,4; cfr. anche 4,6,26 ). Le obbligazioni ( ta kathekonta) che nei dettagli derivano dalle relazioni date, dalle sche­ seis o, come si potrebbe dire anche, dal ruolo particolare, in Epitteto non sono stabilite, perché è adeguato e giusto solo ciò che corrisponde alla natura dell'agente e della relazione con l'altro data di volta in volta. Dunque il saggio può e deve trovare i singoli obblighi da se stesso ; egli viene semplicemente rimandato a se stesso con una do­ manda che invita a riflettere: «Tu sei anzitutto uomo. Che cosa signi­ fica questo ? Inoltre sei cittadino del mondo e parte dello stesso. Ora, che cosa è la destinazione per il cittadino del mondo ? Ancora pensa che sei figlio. Ora, che cosa è il dovere del figlio ? » (Diss. 2,10,1 ss .). Sicuramente questo principio di etica sociale corrisponde ad un dipresso allo schema dei codici domestici: in entrambi non si danno regole da applicare casuisticamente, ma piuttosto qui come là si riman­ da a una relazione sociale che poi si deve adempiere con libera respon­ sabilità. Perciò Karl Weidinger 10 unitamente a Martin Dibelius 11 a suo tempo ha proposto l'ipotesi, ripresa più volte, secondo cui i cristiani, quando cominciarono a inserirsi nella società in seguito al ritardo della parusia, avrebbero semplicemente fatto proprio lo schema valorizzato dei codici stoici dei doveri, trasmessi loro attraverso l 'ebraismo elle­ nistico, e l'avrebbero cristianizzato solo mediante il rimando motivante al Kyrios (per esempio Ef. 4,17; 5,17.22; Col. 1 , 1 8 .20; l Pt. 2,13). Per con­ tro David Schroder 12 ha dimostrato che i codici domestici hanno cri­ stianizzato lo schema stoico non solo esteriormente, ma anche nella so­ stanza. Infatti si differenziano dai codici stoici dei doveri soprattutto sotto due aspetti: primo, nello stile. I codici dei doveri della Stoa par­ lano nello stile della diatriba stoica, mentre i codici parlano nello stile •• K. WBmiNGI!R, loc. cit. (§ 43,3 c bibl.). 11 M . DIBELIUS, Hdb. su Col. 4,1 e Ef. 5,14. 11 D. ScHRoEDER, loc. cit. (§ 43,3 c bibl.).

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del diritto apodittico di Dio. Essi sono totalmente stilizzati entro un de­ terminato schema, per esempio Ef. 6,1 : apostrofe ( « Figli ») - impera­ tivo ( «obbedite ai vostri genitori » ) motivazione (« perché questo è giusto »). Quando in l Pt. 2 , 1 8 ; 3 , 1 .7 al posto dell'imperativo c'è un par­ ticipio, si tratta d'una forma espressiva rabbinica. Dietro questa stìlistica, c'è una profonda differenza oggettiva. Per la Stoa le relazioni sociali citate sono soltanto possibilità, utilizzando le quali il saggio stoico si realizza da se stesso. Invece nei codici dome­ stici l'adempimento di queste relazioni sociali è comandamento di Dio. Ne segue che qui si prendono in considerazione di gran lunga un minor numero di relazioni che nei codici stoici dei doveri, cioè soltanto le for­ me elementari della vita storica: matrimonio, famiglia, rapporto di la­ voro, ordinamento politico. A esse si può essere vincolati effettivamen­ te in modo apodittico. Quindi sono menzionate non relazioni elettive, come per esempio l'amicizia, ma solo strutture o istituzioni della società. -

3. In questa nuova inflessione l'etica stoica delle relazioni si è po­ tuta riprendere solo in quanto una tradizione interna al cristianesimo ne offriva l'appiglio oggettivo. Non è affatto vero che il cristianesimo primitivo si sia occupato delle istituzioni della società solo sotto l'im­ pressione del ritardo della parusia. Già Io stesso Gesù, invece - oltre alla sua chiamata all'esistenza escatologica della sequela - aveva obbli­ gato in un modo nuovo al matrimonio e all'imposta da pagare all'im­ peratore (§ 1 1 ,3). Nell'occasione aveva sviluppato in modo preciso il principio dell'etica delle relazioni: per esempio, di fronte alla domanda relativa all'imposta da pagare all'imperatore, aveva messo da parte le considerazioni degli ebrei, i quali le derivavano dalla legge e dall'ele­ zione di Israele, per rimandare alla situazione storica indicata dalla moneta (Mc. 12,16 s.). Secondo lo stesso principio, Gesù aveva rispo­ sto alla domanda sul prossimo per mezzo della parabola del buon Sa­ maritano ( Le. 1 0,29-37) 13• In questo senso de terminato già dalla tradizione l'etica sociale neotestamentaria inizia con l'indicazione : i chiamati alla fede si devo­ no inserire negli ordinamenti sociali che per essi di volta in volta risultano dati e si devono comportare secondo le loro regole (cfr. l Cor. 7,17.20.24). Questo principio di etica sociale è straordinaria­ mente flessibile, perché deriva dalle strutture della società date stori­ camente volta per volta, non da un rigido diritto naturale o da un ordi­ namento ideale postulato. 4. Ma questo principio non deve condurre a un conformismo illi­ mitato, inducendo i cristiani ad adattarsi passivamente alle strutture e regole sociali date volta per volta e ad accettare, per esempio, anche la " Per Mc. 12,13-17 e la tradizione che ne deriva cfr. L. GoPPELT, Christol., cit., pp. 208-219.

§ 43: La responsabilità dei cristiani nella società secondo l P t

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schiavitù 14? Nella

1 Lettera di Pietro osserviamo il contrario e questa è la differenza più importante nella strut turazione della tradizione dei codici domestici rispetto a Paolo. La parenesi etico-sociale della I Let­ tera di Pietro si acutizza fino al conflitto, mentre Rom. 13,1-7, come i codici domestici della Lettera ai Colossesi e di quella agli Efesini, sem­ brano non conoscere un conflitto e quindi il male insito in queste isti­ tuzioni. Inoltre i codici domestici della Lettera ai Colossesi e di quella agli Efesini prendono in considerazione situazioni sociali diverse; essi presuppongono la situazione esistente tra cristiani in una casa cri­ stiana; invece l Pt. 2 pensa ai singoli cristiani nelle istituzioni di una società non cristiana. Questa tensione viene considerata esplicitamente nel caso degli schiavi e delle donne sposate, però in 2 , 1 3-17 si può av­ vertire anche nel caso dell'obbligazione nei confronti dell'imperatore. Così nella I Lettera di Pietro l'impostazione del cristianesimo pri­ mitivo viene fatta oggettivamente progredire : come Paolo essa rinvia alle istituzioni date, ma nello stesso tempo impegna con forza a un comportamento critico responsabile in esse (mentre Paolo presuppone tale atteggiamento più o meno tacitamente). Per essa «retto compor­ tamento » significa non solo inserirsi nelle istituzioni già esistenti, ma nel contempo comportarsi responsabilmente e criticamente in esse.

d) Responsabilità critica e suoi criteri L'impegno a un comportamento critico nelle istituzioni viene svi­ luppato sull 'esempio estremo degli schiavi. Vien detto loro : «Domestici, state soggetti con molto rispetto ai padroni [ . ] È una grazia se uno, per il suo legame di coscienza a Dio (dia syneidesin theou) subisce afflizioni soffrendo ingiustamente» (2,18 s.): dunque lo schiavo cristia­ no non deve scappare al suo padrone, però, se questo padrone pretende l'ingiusto, deve seguire la propria coscienza, rifiutare l'obbedienza e sopportare soffrendo le reazioni del padrone. Con questo esempio si chiarisce già un po' meglio il problema di come i cristiani possono prendere posizione responsabilmente e criticamente verso le istitu­ zìoni e le loro esigenze e precisamente si rimanda ai seguenti criteri e principi: ..

l. La cosèienza. 1 Pt. 2,19 nomina anzitutto un'istanza . formale, cioè la coscienza legata a Dio (he syneidesis tou theou) 15 • Qui la I Lettera di 1' Così ultimamente S . SCHULZ, Go t i ist kein Sklavenhalter, 1972, spec. pp. l93-219; però in senso contrario H. GUuow, Christentum und Sklaverei in den ersten drei Jahrhunderten, 1969; G . KLEIN, Christusglaube und Weltverantwortung als Interpreta­ tionsproblem neutestamentlicher Theologie, Vuf 18 ( 1973 ), pp . 47-54. " C. MAURER, ThW vn, pp. 912 ss.; J. SrELZENBERGER, Syneidesis im Neuen Testament, 1961 , pp. 45-49. Stelzenberger contesta la traduzione •coscienza• e propone al suo posto

3. Comportamento responsabile nelle istituzioni della società

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Pietro parla della coscienza similmente a Paolo, per il quale la coscien­ za è in primo luogo, in conformità alla concezione tradizionale elleni­ stico-giudaica 16, un'istanza che reagisce al comportamento dell'uomo giudicando ( l Cor. 4,4; Rom. 2,15; 2 Cor. 4,2; 5,1 1 ; cfr. anche Gv. 3,1922); però Paolo, andando al di là, sviluppa una rappresentazione della coscienza della quale nel mondo ellenistico s'erano formati in prece­ denza solo modesti spunti. Cioè, secondo Paolo la coscienza non giudi­ ca soltanto i fatti avvenuti, ma decide che cosa deve avvenire. it > (v. 19), « risorto» (v. 2 1 ), «salito al cielo, seduto alla destra » (v. 22). Questa formula cristologica è proprio uno stadio preliminare del secondo articolo di fede. 2. A questo itinerario nel suo complesso, non, poniamo, alle sue singole tappe, viene attribuita un'efficacia salvifica straordinariamente ampia. Essa vale anzitutto per « noi >> ( hemin; v. 1 8 ), cioè qui per la co­ munità; ma arriva molto al di là (v. 1 9 s.), in quanto coglie anche la parte più perduta dell'umanità precristiana, cioè la generazione del di­ luvio universale nel mondo dei morti. Infine il v. 2 1 s.: adesso questa opera salvifica viene offerta a tutti per mezzo del battesimo in un modo pienamente universale.

e) L'annuncio della salvezza ai morti ( l Pt. 3,19 s. e 4,6) l P t. 3, 1 9 s . («E così si recò ad annunziare la salvezza anche agli spi­ riti che attendevano in prigione; essi un tempo avevano rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè ») è l'unico punto del NT che parla d'una predicazione di Gesù nell'Ade. Con questo ha offerto il punto di riferimento per la parola oscura del secondo articolo di fede: «disceso agli inferi » . Gli spiriti in prigione non sono, come s'è ritenuto spesso nell'ese­ gesi più recente, angeli caduti, ma le anime della generazione del dilu­ vio universale. Se questo è esatto 24, il nostro passo contiene un'impor­ tante enunciazione soteriologica. Nella tradizione rabbinica la gene­ razione del diluvio universale viene considerata come totalmente e de­ finitivamente perduta o dannata 25• Però il nostro passo dice: Cristo ha offerto la salvezza anche a questa parte più perduta dell'umanità. L'opera di salvezza della sofferenza di morte di Gesù arriva anche agli >
> ) nei sette mes­ saggi (ca pp. 2-3 ); 2. la rivelazione del futuro ( > . Ciò che essa è diventata per mezzo di quanto è stato ope­ rato da lui finora, per mezzo della sua morte e della sua glorificazione, va certamente distinto da ciò che essa diventerà in futuro per mezzo della sua parusia. Questo dice la fine del periodo : «e regneranno sopra la terra» . Questa promessa viene ripetuta nelle visioni relative al com­ pimento per mezzo della parusia {20,6; 22,5; cfr. M t. 5,5). Il « regno» viene quando la nuova vita diventa visibile e tutta l 'oscurità è passata (22,5; cfr. l Cor. 4,8). 4. L'Evangelo e il mondo delle genti

Osservando superficialmente ciò che l'Apocalisse dice su Cristo a partire dal cap . 6, se ne potrebbe trarre l'impressione che Heinrich Julius Holtzmann ha formulato così : il Cristo dell 'Apocalisse è « il Messia bellicoso, anzi crudele, che qui celebra il suo trionfo in stridente contrasto con il pacifico pensiero messianico di Gesù. Tutto questo è

4. L'Evangelo e il mondo delle genti

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rip'reso dall'ebraismo " 7• Questa frase dice qualcosa di giusto, anche se ne trae una conseguenza distorta. Quello che viene detto di Cristo glorificato, a partire dal cap. 6, nelle tre volte sette visioni dei sigilli, coppe e trombe, in effetti è anzitutto una catena incessante di giudizi di condanna, di castighi. Come va intesa questa immagine complessiva? � decisivo tener presente il presupposto sviluppato appunto da Ap. 5,10 s .: per l'Apocalisse questi castighi sono soltanto il risveglio nega­ tivo della basileia, della sovranità per grazia dell'Agnello. Però è carat­ teristico dell 'Apocalisse evidenziare questo rovescio negativo con am­ piezza e intensità non riscontrabili in nessun altro libro neotestamen­ tario, anzi fargli assumere anche un carattere diverso. ···

La cosa si può chiarire confrontando questo rovescio negativo con l 'enunciazione corrispondente più prossima di Paolo in l Cor. 15,23-28. Anche là si dice: « Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» ( l Cor. 15,25 s.). Proprio da quest'ultima locuzione si vede che Paolo pensa a nemici diversi da quelli dell'Apocalisse, cioè alla morte e ad altre potenze sovrumane ostili a Dio. Invece l'Apocalis­ se pensa al mondo delle genti, che cade sotto l'influenza dell'anticristo. La differenza diventa particolarmente chiara per quanto riguarda la fine della storia: secondo Ap. 1 9, 1 9-21 davanti alla parusia il vegg�nte scorge la bestia e i re della terra radunati con i loro eserciti «per muo­ ver guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo eser­ cito ••, cioè contro Cristo che appare nella parusia. Questa battaglia delle genti termina con l'annientamento degli aggressori . Paolo vede la fine della storia in tutt'altro modo: «L'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti (cioè nel Regno di Dio). Allora tutto Israele sarà salvato•• ( Rom. 1 1 ,25 s.). Per lui alla fine c'è non il recupero d'ogni singolo, ma la con­ versione della totalità del mondo delle genti e d'Israele (§ 38,3 ). Per la verità l'opera storica di Luca non può più aspettarsi questo entro una generazione sotto forma d'una marcia trionfale apocalittica dell'Evan­ gelo attraverso l'ecumene, come Paolo l'attende secondo Rom . 15, ma guarda verso una progressione a lungo termine e tuttavia positiva del­ l'opera missionaria sul mondo delle genti (At. 28,28; cfr. § 48,4). Mettendo queste altre prospettive accanto a quella dell'Apocalisse, la peculiarità di quest'ultima appare evidente. Essa ha un'immagine dell'incontro dell'Evangelo con il mondo delle genti diversa rispetto a Paolo, a Luca e anche a tutti gli altri scritti del NT, fatta eccezione per il Vangelo secondo Giovanni. La basileia viene sì radunata da tutti i popoli ( 5,8 ss.), ma la massa del mondo delle genti e specialmente i loro rappresentanti politici la respingono. Pertanto lo scopo dell'Apo' H. J. HOLTZMANN, Theol. I, p. 541.

§ 44: 1 cristiani della fine dei tempi secondo l'Apocalisse

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calisse è quello di affermare che colui che è stato glorificato condurrà la storia al suo traguardo nonostante che il mondo delle genti e i suoi rappresentanti politici si pongano in gran numero contro l'Evangelo. Comunque, diversamente da Paolo (Rom. 9), questo rifiuto dell'Evan­ gelo è visto non come a termine, ma come definitivo. Qui non si analizzano semplicemente nuove esperienze della comu­ nità, ad esempio nella situazione delle persecuzioni 8• Il veggente invece vede il mondo intero centralmente partendo dalla vicenda della croce 9 e al tempo stesso coglie una tendenza che si va delineando nel suo am­ biente, per interpretarla profeticamente. Osserva una concezione poli­ tico-religiosa del mondo, cui l'intera società del suo tempo rende omag­ gio e che però i cristiani, nella misura in cui sono tali, devono respin­ gere. Questo principio viene sviluppato fondamentalmente in Ap . 13, verso la metà del libro . 5. Anticristianesim o politico e i veri discepoli ( Ap. 13)

Ap. 13 delinea l'immagine d'una situazione che i cristiani hanno riconosciuto costantemente come loro propria attraverso i secoli. Nella visione del veggente emergono due figure di bestie: a) La prima bestia La prima bestia (vv. 1-10) viene caratterizzata per mezzo della sua apparenza (vv. 1-4) in tre modi : l . Riunisce in sé tratti delle quattro figure di bestie di Dn. 7. Quindi è il sovrano del mondo per antonoma­ sia, la potenza di ciò che per l'uomo biblico era personificato in figure come Nabucodonosor, Alessandro o anche Augusto . 2. Inoltre la bestia è una riproduzione del drago descritto in 1 2,3 , del Satana. Come lui è corruttore degli uomini e avversario di Cristo. 3. Ancora più importan­ te è la terza precisazione: una delle teste di questo sovrano del mondo è «come colpita a morte» e la sua ferita mortale è stata guarita ( 1 3,3). Dunque è uno che, per così dire, dalla morte è ritornato in vita. Questo prodigio induce gli uomini a tributare alla bestia onori divini ( 13,3b. 4 ), un tratto ripreso dal mito orientale antico del dio-re che ritorna dalla morte e che qui caratterizza il sovrano escatologico del mondo come controfigura dell 'Agnello (5,6). Come l'Agnello così anche lui porta la ferita mortale e appare come uno che è risorto dalla morte. Dunque 1 Secondo le lettere alle sette Chiese le comunità dell'Asia non vivono in una situa· zione persecutoria dichiarata; soltanto in 2,13 si parla del martirio d'un singolo membro della comunità. ' Così la «grande città• ( 1 1 ,8) è immagine del mondo, •dove il loro Signore fu crocifisso•.

5.

Anticristianesimo politico e i veri discepoli (Ap. 13)

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l'escatologico sovrano del mondo si presenta non come un fosco tiran­ no, ma come la controfigura in mentite spoglie del Salvatore del mon­ do; sarà onorato e adorato come Salvatore del mondo. Perciò è l'anticristo politico.

Ciò che l'Apocalisse annuncia così con il suo linguaggio figurato, altrove, nel NT, viene espresso concettualmente in modo caratteristico solo negli scritti giovannei. Dell'antichristos parlano anche l Gv. 2,18. 22; 4,3 ; 2 Gv. 7 . Però l'anticristo delle Lettere giovannee è una figura non politica, ma teologica. Infatti con essa s'intendono i maestri d'er­ rore nella comunità. Anche 2 Tess. 2 , 1-12 10 delinea un'immagine del­ l'anticristo senza usarne la denominazione. Il comportamento dell'anticristo è caratterizzato dal fatto che be­ stemmia contro Dio ( 1 3 ,5 s.), in quanto s'attribuisce titoli divini e con ciò avanza la pretesa d'essere non «verga e ascia» nella mano di Dio ( Is. 10,12 ss.; 1 4, 1 3 s.), ma ultima istanza, e per il fatto che perseguita la comunità la quale gli nega l'adorazione ch'egli esige ( 1 3,7 s.). Mettere in guardia contro l'adorazione dell'anticristo è lo scopo di Ap. 1 3 . Qui si deve pensare al culto del sovrano nell'Antico Oriente, che attraverso l'ideologia romana dell'impero era stato trasferito in misura crescente sull'imperatore romano. Domiziano fu uno dei primi a esercitare pres­ sioni per essere venerato come un Dio quando ancora era in vita. Que­ sto culto della personalità non era affatto soltanto un gioco ideologico, ma espressione di autentica religiosità. Dopo Augusto, per gli uomini l'imperatore era effettivamente la divinità che garantiva il sostenta­ mento e consentiva un'esistenza che avesse un significato 11• Perciò lo si venerava. I cristiani, che soli fra gli abitanti della terra ( 1 3,8) per il pane quotidiano pregavano non il sovrano del mondo, ma Dio, al loro ambiente ideologizzato apparivano come una massa arrogante che mi­ nava la solidarietà dell'umanità impegnata ad aiutarsi. S'arrivò così a un conflitto totale tra la Chiesa e l'ideologia politica, che secondo Ap. 13,7a termina con la sconfitta della Chiesa (cfr. 1 1 ,7 s.). Ma come conseguenza per la comunità ne deriva non resistenza (cfr. Mt. 5,39), bensì (Gc. 2,24). Questa impressione si rafforza quando si vede come in 2,2 1 ss. Giacomo svi­ luppi la sua tesi polemicamente da una esegesi di Gen. 15,6, la parola sulla fede di Abramo, alla quale Paolo s'era richiamato in Rom. 4 e Gal. 3. Ma è un'impressione ingannevole. Infatti in Rom. 3 ,28 il principio suona diversamente dalla parola d'ordine contestata da Giacomo. Rom. 3,28 proclama la giustificazione per mezzo della fede > s'è sviluppato bensì indipendentemente da questo parlare figu­ rato, però indirettamente gli si è conferito contenuto a partire da questo. Così la parola centrale di Mt. 1 1 ,27, ripresa da Q, spiega : > . Quindi Gesù è il rivelatore esclusivo di Dio, perché sta egli stesso in un rapporto singolare con Dio. Per mezzo di lui Dio non viene semplicemente svelato come il Padre, ma comunicato, cioè Gesù ai discepoli apre l'accesso a Dio come Padre. Poiché è il Padre di Gesù , diventa il loro Padre. E in verità Matteo rafforza e accentua straordinariamente la defini­ zione di Dio come Padre rispetto a Marco e rispetto a Q: in Marco Dio viene introdotto come Padre solamente tre volte e cioè nel singolare appellativo di preghiera, abba (padre) (Mc. 14,36), poi in senso asso­ luto nell'immagine «il Padre - il FigliO>> (Mc. 1 3 ,32) e infine nella lo­ cuzione «il Padre vostro che è nei cieli>> (Mc. 1 1 ,25 [ 26 ] ). In Q Gesù parla ancora di Dio esclusivamente come «Padre mio >> (Le. 10,22 par. Mt. 1 1 ,27). Mentre Luca aggiunge soltanto ancora tre altri passi (Le . 2,49; 22,29; 24,49), Matteo ha 30 passi propri in più. In dodici di essi, Gesù parla di Dio come colui che è suo Padre in senso esclusivo e per­ ciò convalida escatologicamente la sua opera come giudice (per esempio Mt. 7,2 1 ; 1 0,32 s.; 18,10.19.35 ). Negli altri passi, la maggior parte dei quali sta nel discorso della montagna, Dio è il Padre dei discepoli, il

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§ 46: L'interpretazione della venuta di Gesù secondo Matteo

quale richiede il loro comportamento e lo ricompensa proprio quando è rivolto completamente a lui, senza autocompiacimento (per esempio Mt. 5,48; 6,1 .4.6). S. L'interpretazione del titolo Figlio dell'uomo. Mentre Matteo dà rilievo a entrambe le definizioni cristologiche « Signore >> e «Figlio >>, perché evidentemente hanno una funzione nella sua comunità, il titolo più antico «Figlio dell'uomo » (§ 19,2) da lui viene rimosso o circoscritto per via di interpretazione. Matteo interpreta il titolo Figlio dell'uomo in due modi. l . Lo inse­ risce redazionalmente, come nella domanda che introduce la profes­ sione di Pietro: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo ? » ( 1 6,3). La risposta suona: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» ( 16,16) Dunque Matteo sa ancora che Figlio dell'uomo è un titolo messianico, mentre già poco più tardi il vescovo siriaco Ignazio spiega che Gesù sarebbe stato Figlio dell'uomo e Figlio di Dio ( Ignatius, Eph. 20,2), per sostenere con ciò per la prima volta l'interpretazione errata, mante­ nutasi fino al XIX secolo, in conseguenza della quale « Figlio dell'uomo» indica l'appartenenza di Gesù al genere umano, e a essa si contrappone antiteticamente l'appartenenza a Dio nominata nel predicato Figlio di Dio. 2. Dato che per lui il Figlio dell'uomo è « Cristo, il Figlio del Dio vi­ vente», Matteo può sostituire spesso il predicato Figlio dell'uomo della tradizione, che nasconde le cose, con un'autoenunciazione di Gesù che lo caratterizza apertamente come «il Cristo>> . Ne è caratteristico il cam­ biamento del primo annuncio della Passione. In Mc. 8,31 suona: « E incominciò a insegnar loro che i l Figlio dell'uomo doveva molto sof­ frire ... ». Invece in 16,21 Matteo formula: « Da allora Gesù Cristo comin­ ciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusa­ lemme e soffrire molto ... ». Dunque Matteo ha compreso giustamente che l'annuncio della Passione non predice la sorte del profeta di Na­ zaret, ma insegna la decisione di salvezza di Dio su Gesù come il Pro­ messo, il christos ( § 19,6). Di conseguenza ha esplicitato in modo esatto l'annuncio dato velatamente in Marco. Nello stesso senso in 5,1 1 (par. Le. 6,22 [ Q ] ) e 10,32 (par. Le. 12,8 [ Q ] ) pone il pronome personale an­ che per « Figlio dell'uomo » 16•

A questa trasformazione interpretativa delle parole sul Figlio del­ l'uomo corrispon de, come qui si nota ancora aggiuntivamente, un gene­ rale emergere delle parole con l ego in Matteo. Nel discorso della mon­ tagna egli formula la parola di Gesù contro il divorzio (Le. 16,18 [ Q ] ) e i l comandamento di amare i l nemico (Le. 6,27-30 [ Q ] ) come antitesi, '

" J. JEREMIAS, Theol., cit., pp. 250 s. ( tr. it. Teologia del NT, ci t., pp. 299-300 ) è fuori strada quando ipotizza che il pronome personale sia originario.

4. La messianità di Gesù

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introì:lucendovi ostentatamente parole con l ego (Mt. 5,3 1 s. 38 s. 43 s.): «Avete inteso [ ... ] ma io vi dico ». Questo io è l'io di colui che parla in vece di Dio, l'io di colui che rivela. Per Matteo hanno lo stesso senso altre tipiche locuzioni con l'ego o il kago, cioè : « [ e ] io [ vi o ti ] dico . » ( 10,32 s ; 1 1 ,28; 16,18; 2 1 ,24). Inoltre: plen lego hymin (ma vi dico; 1 1 , 22.24; 26,64). E ancora: palin de lego hymin (vi dico ancora; 1 8,19; 19,24). In questo modo viene in un certo senso esplicitata la formula con l'amen, in origine propria di Gesù; è significativo che Matteo l'abbia anche moltiplicata redazionalmente (Mt. 5 , 1 8 .26; 8,10; 10, 1 5 ; 1 1 , 1 1 ; 18,13 e a., rispetto a Q , e 19,23 ; 24,2, rispetto a Mc.). '

.

.

..

c) L'immagine complessiva della messianità di Gesù Il modo in cui Matteo caratterizza Gesù come il Promesso dà modo di riconoscere determinate note strutturali costanti che si combinano facilmente in un'immagine complessiva. l . In nessun posto vengono trasposti semplicemente su Gesù pre­ dicati ebraici del Messia e le concezioni messianiche a essi collegate. Gesù non è Figlio di Dio nel senso che intende il sommo sacerdote nel­ l'interrogatorio (26,63 ), ma in conformità alla propria autotestimo­ nianza ( 1 1 ,27) e alla propria attività ( 14,33 ). Tanto meno è « Figlio di Davide>> nel senso rabbinico. I predicati vengono invece sviluppati, par­ tendo dalla venuta di Gesù, in un confronto con i predicati ebraici, e colmati a partire da un AT compreso cristianamente. Gesù è il pro­ messo dell'AT che adempie soltanto antiteticamente l'attesa ebraica.

2. Su questa base comune i singoli predicati lo caratterizzano sotto un aspetto diverso 17• Come Figlio di Davide porta la storia d'Israele al suo traguardo. Come Figlio di Dio è il rivelatore definitivo. Come Si­ gnore è il protettore degli uomini, che li soccorre. Con la stessa con­ sapevolezza con cui viene dato rilievo a questi predicati, vengono rimossi i predicati più antichi della tradizione evangelica Figlio del­ l'uomo e Cristo. 3 . All'uso dei predicati corrispondono le enunciazioni delle citazioni riflesse. Esse caratterizzano Gesù come colui che nell'umiltà è re mes­ sianico della stirpe di Davide (2,6 e 2 1 ,5; cfr. anche 1 , 1-17). Lo presen­ tano come il Figlio di Dio, che viene chiamato dall'Egitto (2, 1 5 ) come un tempo Israele, ma soprattutto come il soccorritore (8,17; 1 2 , 1 8-2 1 ), di cui si dice: «Emmanuele .. , Dio con noi» ( 1 ,23). .

1 7 Ora, d a quanto detto non si può trarre, per es., con R . WALKER, loc. cit. (nota 6), pp. 129 ss., la conclusione che per Matteo tutti questi predicati significano la stessa cosa. Naturalmente hanno tutti in comune la caratteristica di definire Gesù come il promesso, ma lo fanno ciascuno sotto un aspetto diverso.

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§ 46: L'interpretazione della venuta di Gesù secondo Mutteo

4. Così qui per mezzo d'un'interpretazione cristiana dell'AT si svi­ luppa una messianologia che nella Chiesa ha dato l'impronta all'im­ magine di Gesù, il Messia, attraverso i secoli. Matteo è il portavoce di una nuova dottrina scritturistica cristiana, che ha sviluppato una com­ prensione messianica dell'opera terrena di Gesù. S. Con ciò Matteo fa fare un decisivo passo avanti all'immagine della messianità di Gesù secondo Marco. In Marco Gesù parla e agisce come il Messia nascosto, la cui opera sta sotto l'indice del segreto messianico. Invece in Matteo agisce e parla come il Messia noto al let­ tore, che è tale proprio in quanto è l 'umile e misericordioso. Ma con questa presentazione Matteo non ha, poniamo, portato la sua immagine di Cristo retrospettivamente nei giorni terreni; ha invece interpretato la situazione di Gesù in modo adeguato. Non l'ha identificata sulla base della situazione della comunità, ma ha reso possibile e ha avviato la sua applicazione alla situazione della comunità. 5. L'adempimento della legge

a) _La problematica Nella parola di Mt. 5,17, che è tipica di Matteo e verosimilmente è stata addirittura formulata da lui 18, Gesù dichiara: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti ; non sono venuto per abolire, ma per dare compimentO >>. Anche questa frase si può intendere nuovamente come una difesa apologetica nei confronti dell'ebraismo e d'un cristianesimo che pensa second o i moduli del primo; però in essa si rileva pure subito l'intenzione positiva di presentare Gesù come colui che porta il compimento. Anzi, con questa parola incomincia il preambolo delle successive antitesi del discorso della montagna (5, 2 1-48). Qui ora sta certàmente anche il centro della discussione, che persi­ ste fino ad oggi, sullo scopo soteriologico di Matteo, che abbiamo già toccato all'inizio (§ 46,2}. Georg Strecker ha riassunto la sua conce­ zione al riguardo in questa frase: «Dunque secondo la comprensione di Matteo il compito vero e proprio di Gesù nella storia è l'annuncio dell'esigenza etica, nella quale s'è fatto presente il Regno di Dio non ancora arrivato, un'esigenza che viene rappresentata anche per mezzo del comportamento esemplare di Gesù, durante la sua vita terrena; perciò tutta la vita di Gesù, attraverso parola e azione, rappresenta " G. STRBCKI!R, cit., p. 144.

5. L'adempimento della legge

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l'esigenza etica e la 'via della giustizia'» 19• Successivamente Siegfried Schulz ha inasprito questa enunciazione con la tesi: «La legge retta­ mente intesa e applicata è il Vangelo >> 20• Però questa concezione, se­ condo cui per Matteo l'imperativo precede l'indicativo, anzi l'indica­ tivo viene assorbito dall'imperativo, è stata contraddetta da Hans Conzelmann, il quale ha stabilito che non si può > si dovrebbe ripetere ancora tutto quanto è stato detto sulla sua com­ prensione della richiesta e del dono di Gesù (§ 46,5 c). Indubbiamente il Regno di Dio è presente nella Chiesa non solamente nella forma della richiesta o esigenza posta da Gesù 30• Il Regno è stato dato invece alla Chiesa, perché essa è il popolo che «lo farà fruttificare » ( 2 1 ,43). Si tratta del frutto del , non solo della richiesta. O, in altre parole: con il Regno alla Chiesa è stata data la giustizia, il retto comportamento (6,33 ). Anzi, i suoi membri sono stati fatti discepoli per mezzo del battesimo e i grandi discorsi del Vangelo hanno definito incisivamente la dottrina cui il discepolo si deve atte­ nere in base al battesimo : guai al servo che nasconde sotto terra il talento affidatogli e non Io utilizza (25,30). "' P . BILLERBECK, cit., I, pp. 794 s. 30 In opposizione a G. STRECKER, cit., p. 215.

6. La sostituzione d'Israele da parte della Chiesa

625

3. Le regole della comunità in Mt. JB. Le regole della comunità di Mt. 18 confermano conclusivamente la linea fondamentale del Vangelo, che abbiamo visto. Non proclamano proprio (come ci si dovrebbe aspettare secondo la maggior parte delle presentazioni della teologia di Matteo) una disciplina rigorosa della comunità. In 1 8,1-14 incomin­ ciano invece con la regola: Grande nel Regno di Dio e quindi nella comunità è l'umile, l"anaw, che ha cura degli umili e si guarda dallo scandalizzare. Parimenti la parabola conclusiva del servitore spietato (vv. 2 1-35 ) impegna ad andare incontro al fratello con la misericordia che noi stessi si è avuta da Gesù. Aperta da queste due indicazioni, tro­ viamo la regola sul modo di trattare i membri della comunità che pec­ cano (vv. 1 5-20). I membri della comunità, non solo un qualche rive­ stito di un ministero, si devono preoccupare di coloro che sbagliano, indurii a cambiar vita e perdonarli con pieno potere. La misura estre­ ma è che l 'assemblea della comunità espella colui che in tal modo non si lascia distogliere dalla sua colpa: « Se poi non ascolterà neppure costoro [ ] . sia per te come un pagano e un pubblicano», cioè come uno che non appartiene alla comunità, ma per il quale vale ancora il messaggio ( 1 8,17). Però questa espulsione non è una misura discipli­ nare con intento pedagogico, come il bando dalle sinagoghe. In 1 8 , 1 8 il potere delle chiavi, che secondo 16,19 fu dato a Pietro, viene trasfe­ rito alla comunità intesa come tutto: « > . Questa enunciazione sulla breccia del battistrada, aperta quasi dal basso verso l'alto, ben presto viene completata dall 'accenno alla sua intercessione espiatoria per i suoi: « Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele [ . . . ] allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova [ ... ] , è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova>> (2,17 s.). Nello stesso modo le funzioni del battistrada e del sommo sacerdote che intercede per i suoi si collegano in 4,14-5,10; 10,19-2 1 e 12,1 s. " Verosimilmente il titolo archegos (guida ) allude alla designazione dei progenitori nel giudaismo ellenistico. Documentazioni in F. ScHWEIZER, Erniedrigung, cit., p. l38, nota 514. 19 E. ICASEMANN, loc. cit., p. 8 1 .

4. La cristologia del sommo sacerdote

645

c) L'origine della rappresentazione del sommo sacerdote In nessun altro punto del NT Gesù viene chiamato sommo sacer­ dote. Nondimeno, il titolo e la rappresentazione corrispondente si trovano nella I Lettera di Clemente e anche altrove nei Padri apostolici, precisamente come tradizione liturgica 20• Per noi presenta particolare interesse la I Lettera di Clemente. Nella grande orazione della Chiesa, che la conclude ( cap. 6 1 ), è detto: «Ti glorifichiamo per mezzo del sommo sacerdote e protettore delle nostre anime >> (1 Clem. 6 1 ,3; simil­ mente anche 64, 1 ). In 1 Clem. 36,1 Gesù elevato alla gloria viene chia­ mato «il sommo sacerdote del nostro sacrificiO >> . S'intende : egli reca il > , cioè le preghiere, davanti a Dio 21 • Con grande verosimi­ glianza questa rappresentazione liturgica-rituale del sommo sacerdote, il quale intercede per i suoi davanti a Dio, non s'è sviluppata soltanto dalla Lettera agli Ebrei, che la I Lettera di Clemente conosce; vice­ versa, potrebbe essere stata invece lo spunto dal quale la Lettera agli Ebrei ha sviluppato la propria cristologia del sommo sacerdote. Infatti in Eh. 2,17 il motivo del sommo sacerdote che intercede per i suoi viene introdotto con tutta immediatezza e come se si presupponesse che i lettori lo conoscano 22• t.

2. Però in ogni caso la tradizione del Glorificato che intercede per i suoi, confluita nella rappresentazione del sommo sacerdote, dimostra d'essere relativamente antica. E per la precisione, come indica Rom . 8 ,34, era collegata direttamente con la parola del salmo sull'assidersi alla destra, Sal . 1 1 0,1 . Però appunto nel v. 4 questo salmo contiene il principio-guida dal quale la Lettera agli Ebrei sviluppa la sua cristo­ logia del sommo sacerdote: «Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedeh ( Eb. 5,6). Forse Sal. 1 10,4 già molto precocemente ha dato l'impulso a caratterizzare come sacerdote colui che intercede per i suoi davanti a Dio. Però da Sal. 1 1 0,4 la Lettera agli Ebrei acquisisce anche l'enunciazione decisiva sul genere del sommo sacerdozio di Cri­ sto. Cristo non è sommo sacerdote come tutti i sommi sacerdoti ebrei veterotestamentari della stirpe di Aronne e di Levi: egli è sommo sa­ cerdote alla maniera di Melchisedek (5,10; 6,20; 7,1-28). "' 1 Clem. 36,1; lGNATIUS, Phld. 9,1; POLYCARPUS, Phil. 12,2; Mart. Polyc. 14,3; cfr. W. BAUER, Hdb. su !GNATIUS, Phld. 9,1. " Diversamente, certo, W. BoussET, Kyrios, cit., p. 350, e, dietro a lui, G . THEISSEN , loc. cit. (§ 47 bibl . ) , pp. 41 s. " Similmente F. HAHN, Hoheitstitel, cit., pp. 233 s. ( ivi presentazione d'una rassegna della discussione).

§ 47: La lettera agli Ebrei

646

3. Nei primi due passi in cui adopera questa denominazione (3, 1 ; 4,14), l a Lettera agli Ebrei rimanda alla homologia, l a confessione della comunità: > (4, 14). E in 1 0 , 1 9 ss., conclude le enunciazioni sul sommo sacerdozio con un terzo accenno alla confessione. Così l'im­ magine del sommo sacerdozio è connessa con la confessione della co­ munità. Qui la confessione non intende l'atto del confessare ma una formula di confessione. Questa conteneva sicuramente - come ci si può immaginare anche altrove in particolare quanto al contenuto l'enunciazione «assiso alla destra>> 23• Anzi essa si trova non solo nella confessione introduttiva del Cristo in forma d'inno ( 1 ,3), ma viene ri­ presa anche in 8 , 1 e in questo capitolo è interpretata totalmente nel senso dell'intercessione del sommo sacerdote. Così ne deriva un ulte­ riore spunto per le enunciazioni sul sommo sacerdote; per mezzo di essa, dev'essere interpretata l'homologia, la confessione per la comu­ nità. La confessione porge il contenuto del cammino del sommo sacer­ dote: il sacrificio di se stesso come sommo sacerdote e l'entrare attra­ verso i cieli, nel santo dei santi davanti a Dio. 4. Però la lettera riprende l'immagine dell ope ra del sommo sacer­ dote da Lv. 1 6, l'ordinamento per il grande giorno della riconciliazione. Questa era l'istituzione centrale dell 'espiazione dell'Antica Alleanza e come tale era stata collegata con la morte espiatrice di Gesù già prima della Lettera agli Ebrei, nel cristianesimo primitivo (§ 35,4a). Dopo che questa immagine è stata trattata per la prima volta in 6,19, in 8,110, 1 8 via e opere di Gesù vengono rappresentate in corrispondenza con il servizio del sommo sacerdote nel giorno della riconciliazione. '

S. In quale misura l'Autore, sviluppando la sua immagine dell'ope­ ra di Gesù, sommo sacerdote, ha attinto a tradizioni interpretative ebraiche? Negli studi sono state considerate le seguenti possibilità:

5 . 1 . L'ipotesi, formulata dopo la scoperta dei testi di Qumran, che la stesura della Lettera agli Ebrei fosse stata stimolata dall'attesa esse­ nica del Messia-sommo sacerdote, non ha trovato conferma. Il Messia­ sommo sacerdote viene da Aronne o Levi, quello della Lettera agli n G. BoRNKAMM, Aufs., ci t., II, pp. 190 ss., suppone che in 3,1; 4,14 e 10,39 la Lettera agli Ebrei intenda una confessione di fede battesimale, che, come A t. 8,37, suonava: «Gesù è Figlio di Dio•. Per contro, in 13,15 si prenderebbe in considerazione una con· fessione sotto forma di inno della comunità o della liturgia della comunità, così com'è in modo analogo nella confessione di fede in Cristo introduttiva ( 1 ,14). Però a mio avviso anche e proprio nei tre primi passi s'intende una tale confessione di fede relativa al cammino di vita di Gesù e non solamente un'enunciazione sulla sua dignità.

4. La cristologia del sommo sacerdote

647

Ebrei proprio no (7, 1 3 ) . Quel Messia-sommo sacerdote è un uomo, co­ me il Messia davidico che gli sta accanto, mentre secondo 7,3 il sommo sacerdote della Lettera agli Ebrei è come Melchisedek « Senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio » . Anche il servizio da sommo sacerdote non ha nulla in comune 24 in questo testo e in quello. 5.2. Parimenti anche tentativi di derivare gli elevati discorsi di 7, 1-10 su Melchisedek, il re sacerdote di Salem, da un midriii ebraico­ ellenistico intorno alla pericope di Melchisedek di Gn. 14, non hanno portato allo scopo 25• Prove dirette a favore d'una tale tradizione inter­ pretativa non se ne sono potute portare; l'allegoresi barocca di Filone a Gn. 14 è d'un genere diverso 26• 5.3. Ha più elementi a suo favore l'ipotesi d'un modello ebraico­ ellenistico per l'ascensione e per il servizio celeste del sommo sacerdote secondo Eh. 8 e 9. L'immagine del santuario celeste non è stata svi­ luppata direttamente da Es. 25,40. Il santuario celeste è qualificato come quello vero e autentico, quasi nel senso del dualismo ebraico­ ellenistico. Già per questo anche la rappresentazione d'un sommo sa­ cerdote celeste potrebbe essere stata stimolata da tradizioni ebraico­ ellenistiche r� . Andando oltre questa ipotesi, Ernst Kasemann 28 ha cer­ cato di derivare le enunciazioni della Lettera agli Ebrei e di Filone sul sommo sacerdote celeste da una speculazione gnostica sull'uomo pri­ mitivo-sommo sacerdote dell'ebraismo ellenistico. Però, vagliata se­ condo i principi metodologici della ricerca sulla gnosi, inaugurata da Bultmann , questa derivazione risulta fragile 29• Non si possono postu­ lare concezioni presuntivamente precristiane in questo modo, partendo da fonti successive. Così sullo sfondo di storia delle religioni che sta dietro la rappre­ sentazione del sommo sacerdote si può dire: la Lettera agli Ebrei o la tradizione cristiana della comunità su Cristo inteso quale sommo sa­ cerdote celeste, che l'ha preceduta, può avere avuto dall'ebraismo elle­ nistico impulsi, la cui importanza però non si dovrebbe sopravvalu­ tare. Per l'essenziale, partendo da una formula li.turgica, l'autore della lettera ha delineato la sua immagine, con l'ausilio della sua interpreta" Perciò anche H. BRAUN, Qumrdn, cit., II, pp. 18t.184, respinge questa connessione. " Per la discussione cfr. O. MICHEL, ThW IV, p. 574, 14 ss. " La setta gnostico-cristiana dei melchisedechiani, che emerge nel II secolo, si riallaccia alle enunciazioni di Eh. 7, non, magari, viceversa. Porta materiale su questo problema H. WINDISCH, H db. su Eb. 7,14 (excursus). 27 Filone caratterizza il logos celeste anche come sommo sacerdote; cfr. G . ScHRENK, ThW III, pp. 273, 74 ss. H. WINDISCH ( Hdb. su Eb. l ,4 [ excursus] ) e C. SPICO, L'Epitre aux Hébreux, 1954, pp. 39-9 1 , ipotizza che la concezione del sommo sacerdote celeste della Lettera agli Ebrei sia stata presa direttamente da queste speculazioni. Come modello dell'ascensione del sommo sacerdote H. WINDISCH ( Hdb. su Eb. 8,2) suppone la specula· zione apocalittica sull'ascensione di Henoch (Hen. aet. 70,7 1 ; Hen. slav. 67,68) e soprattutto sull'ascensione di Levi ( Test. Lev. 2-5 ). " E. KiisEMANN, loc. cit., pp. 131-140. " C. CoLPE, Die religionsgeschichtliche Schule, 1961 ; cfr. sopra § 29,2.

§ 47: La lettera agli Eb rei

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zione della Scrittura, quale interpretazione della confessione del Cristo da parte della comunità. d) L'interpretazione tipologica del cammino e dell'opera di Gesù secondo Lv. 16 in Eb. 8-10 Con l'aiuto d'una valorizzazione tipologica di Lv. 16, dietro la quale potrebbe stare la stessa tradizione che anche Paolo riprende in Rom. 3,24 ss. (cfr. § 35,4 a), in Eh. 8-- 1 0 cammino e opere di Gesù vengono interpretati come una vicenda di salvezza in sé conclusa, nella quale ogni singolo avvenimento ha il suo posto necessario e significativo . A ogni modo ricostruiamo anzitutto come si presenta nella visione della Lettera agli Ebrei l'atto di espiazione che nel testo di Lv. 16, rie­ laborato in molti modi, è descritto in maniera davvero poco unitaria. Una volta all'anno, nel giorno della riconciliazione, il sommo sacer­ dote attraversa il santuario e, oltrepassando il velo, entra nel santo dei santi dove Dio è presente sopra l'arca dell'alleanza (Eh. 9,7.25; 1 0, 1 .3 Lv. 16,34; cfr. 1 6 , 1 5 ) . Soltanto con il sangue della vittima espiatoria il sommo sacerdote può metter piede nel santo dei santi, dove viene accolto benignamente da Dio ( Eh. 9,7 . 1 2 s.; 10,4 Lv. 16,2 s.). Con que­ sto sangue purifica se stesso e il popolo ( Eh. 5,3; 7,27 Lv. 16,14 s., 24.30.33 ). Ciò che il sommo sacerdote della stirpe di Aronne esegue ogm anno in questo modo, quale vero sommo sacerdo te Cris to l'ha compiuto una volta per tutte. Se si parte dalla corrispondenza tipologica, diventano comprensibili le tappe del suo cammino, nominate dalla confessione . Ora seguiamo questo processo a partire dal suo traguardo, movendo dal quale esso è stato anche delineato in termini di storia della tradizione. =

=

=

l . Se secondo Eh. 1 ,3 e 8,1 la comunità confessa: « assiso alla de­ stra», essa deve vedere Gesù come il sommo sacerdote che nel santo dei santi celeste intercede per essa con il suo sangue (8,1 s.; 9,24). Que­ sta immagine tipologica esprime ancor più del simbolo visionario del­ l'agnello nell'Apocalisse (§ 44,3 a) il senso vero e proprio del confessare il Cristo seduto alla destra: sedere alla destra significa non imperium , ma dominium, sovranità escatologica della salvezza, perché in linea pri­ maria e contemporaneamente è intet:cessio. E veramente l'immagine tipologica che interpreta questa frase della professione costituisce nel tempo stesso il collegamento con il cammino di Cristo precedente. Infatti, secondo Lv. 1 6, presupposto di questa intercessio è il sacrificio espiatorio e l'entrare nel santo dei santi.

649

4. La cristologia del somma sacerdote

2. Per Cristo l'entrare nel santo dei santi diventa l' «entrare nel cielo» (9,24), un'ascensione come sommo sacerdote. Nella Lettera agli Ebrei questa concezione figurata sostituisce il tradizionale discorso sulla risurrezione o l'essere risuscitato e essere glorificato: non è per caso che in essa questi termini mancano. Il contenuto delle sue enun­ ciazioni viene reso come in terpretazione per mezzo dèll'immagine tipo­ logica: risurrezione e elevazione alla gloria costituivano l'entrare di Gesù nell'intervento salvifico di Dio e in tal modo la pienezza da lui rag­ giunta come mediatore di salvezza.

3. Però questo andare a Dio prendeva significato soltanto dal suo sacrificio espiatorio. Nella Lettera agli Ebrei nessuna fase del cammino di Gesù viene esplicata tanto minuziosamente come la morte di Gesù. Insieme con 10,19 ss., la frase 9,12 è uno dei due punti focali della let­ tera: «entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue . . » . Questo vuol dire: la morte di Gesù non fu un sacrificio materiale, ma un sacrificio personale di se stesso. Gesù «offrì se stesso senza macchia a Dio in virtù di uno Spirito eterno >> ( 9,1 4 ). Perciò vale lo a fortiori tipologico: «se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il san­ gue di Cristo [ .. . ] purificherà la nostra coscienza dalle opere morte» (9, 1 3 s.). Questa conclusione è rilevante soltanto se quelle purificazioni vete­ rotestamentarie, anche se solo come ombra ( 10,1 ), fanno conoscere l'ordinamento di salvezza di Dio. Dunque essa presuppone che il rituale espiatorio del giorno della riconciliazione sia un'istituzione di grazia da parte di Dio e che, attraverso l'espiazione, Dio voglia dare la salvezza alla sua creatura che fallisce. Il brano 9,16-28, in cui compaiono ben marcate le locuzioni ananche e dei, le quali rimandano retrospettiva­ mente al piano di salvezza di Dio (vv. 16.23.26 ), e al cui centro (v. 22b) sta la frase lapidaria: . Analogamente, in 7,22 Gesù viene chiamato «garante di un'alleanza migliore». L'« alleanza migliore» è quella promessa in Ger. 3 1 . Questa promessa viene citata in modo approfondito all'inizio e alla fine delle argomen­ tazioni sul servizio da sommo sacerdote (8,8-12; 10,16); anzi essa aveva già determinat o anche la visione teologica globale di Paolo (2 Cor. 3 ) e verosimilmente già pure l'autocomprensione d i Gesù (Mc. 14,24; § 2 1 ,4 b). Però, se Gesù è mediatore del nuovo rapporto promesso con Dio, per quello vigente finora, cioè il patto del Sinai, ne consegue: «Di­ cendo Nuova Alleanza, Dio ha dichiarato antiquata la prima; e ciò che diventa antico e invecchia è prossimo a sparire » (Eb. 8,13). Questa frase difficile dice che l'antica Alleanza non viene semplicemente sostituita cronologicamente dalla nuova, ma che, come la legge, essa cessa sol­ tanto con questa era del mondo. Pertanto anche la Lettera agli Ebrei conosce l'attualità dell'eschaton nella storia.

2. L'abrogazione della legge. Insieme col patto del Sinai, la venu­ ta di Gesù abroga la legge e precisamente in conformità con la pro­ messa (8,6) o impegno (7,28) proclamati nell'AT. Diversamente da Paolo, la Lettera agli Ebrei sviluppa l'abrogazione della legge partendo dal sacerdozio. Il sommo sacerdozio di Gesù secondo l'ordine di Mel­ chisedek, che è stato istituito per mezzo di Sal. 1 1 0,4, annulla il sacer-

4. La cristologia del sommo sacerdote

651

dozio di Aronne. In 7,18 s., si dichiara programmaticamente: « Si ha così l'abrogazione di un ordinamento precedente [ la legge mosaica ] a causa della sua debolezza e inutilità - poiché la legge non ha portato nulla alla perfezione - e l'introduzione d'una speranza migliore, gra­ zie alla quale ci avviciniamo a Dio». Nonostante assonanze terminolo­ giche esteriori, qui legge e alleanza sono viste in modo del tutto diverso che in Paolo. 3 . La legge nella Lettera agli Ebrei. Per Gesù e Paolo la legge è la volontà esigente di Dio, la quale pretende obbedienza e all'obbediente promette la vita. In altre parole : la legge è la richiesta d'obbedienza sotto il segno dell'ordinamento della ricompensa (Mt. 19, 17-19; Rom. 10,5). Invece, per la Lettera agli Ebrei al centro della legge stanno le disposizioni sul servizio sacerdotale (7, 1 2 ; 8,4; 10,8). Dunque il centro della legge qui è un'isti tuzione di salvezza, per mezzo della quale sono estinti i peccati e all'uomo si apre l'accesso a Dio. L'ordinamento del grande giorno della riconciliazione (Lv. 16) appare come il centro della legge. Naturalmente lo sfondo di queste istituzioni della salvezza è la richiesta dell'obbedienza; così i sacrifici espiatori sono necessari in quanto > ( 12,28 ). Per colui che ha messo piede in questo mondo permanente non c'è più alcun ritorno. Appartiene al popolo di Dio dell'esodo, che è in cammino (3,12--4, 1 1 ), alla schiera dei credenti che qui non ha una città stabile, ma cerca quella futura ( 1 1 , 1 3 s.). 5. La parenesi

La teologia della Lettera agli Ebrei somiglia a una ellisse con due punti focali. Uno è la cristologia del sommo sacerdote, l'altro la pare­ nesi, che culmina nel mettere in guardia contro la caduta irreparabile. Qui di seguito esporremo la parenesi partendo da questo ammoni­ mento e dall'enunciazione a esso collegata sull'impossibilità della se­ conda penitenza. a) Il repertorio di concetti soteriologici La retta comprensione degli ammonimenti contro la caduta irre­ parabile ( 3 , 1 8 s .; 6,14 ss. ; 10,26 ss.; 1 2 , 1 6 s.) dipende da un chiarimento adeguato della terminologia soteriologica impiegata da essi. Mentre Paolo e Giovanni sviluppano una terminologia soteriologica nuova e propria, la Lettera agli Ebrei segue la terminologia soteriolo­ gica della tradizione sinottica e delle prediche missionarie degli Atti degli Apostoli. Per esempio, Paolo parla di giustificazione, riconcilia­ zione o morire insieme per vivere insieme (§§ 35,5; 39), e Giovanni della rinascita, del passaggio dalla morte alla vita (§ 49,2). Invece la Lettera agli Ebrei rimane alle locuzioni tradizionali e parla di metanoia (con­ versione o penitenza; 6,1 .6; 12,17) e di afesis hamartion (remissione dei peccati; 9,22; 1 0, 1 8 ; cfr. 10,26). La stessa terminologia soteriologica predomina poi ancora nei pri­ mi scritti della comunità romana, nella I Lettera di Clemente e nel

5. La parenesi

653

Pastore di Erma, e di qui è entrata anche nella Chiesa occidentale. Quanto alla storia dei concetti, qui si attua un singolare movimento di curva: infatti già nel Pastore di Erma il contenuto di questi concetti si riavvicina all'uso sinagogale, dal quale Gesù li aveva tolti . Per la sina­ goga penitenza era il pentimento attivo per le trasgressioni dei coman­ damenti, pentimento da ripetere costantemente, e remissione era l'estinzione della colpa, raggiunta per mezzo di tale penitenza attiva. Ma Gesù esigeva un'unica conversione totale, un rivolgersi globale del­ l'uomo verso Dio, che corrisponde al rivolgersi di Dio verso lui, cioè alla remissione (Le. 15,1 1-32; cfr. § 1 3 ,5 ). Entrambe, conversione e remissio­ ne, si verificano quando Gesù chiama un uomo a entrare nella sequela. Davanti a questo orizzonte nella storia dei concetti vien fatto di do­ mandarsi : la Lettera agli Ebrei, con la sua dottrina della penitenza, sta dalla parte di Gesù o dalla parte della sinagoga, alla quale il Pastore di Erma torna ad avvicinarsi ? Dalla parte di Gesù sta certamente in quanto accentua l'unicità della conversione e l'unicità della remissione che le corrisponde. Ma le intende anche nel senso di Gesù ? b) L'impossibilità della seconda penitenza l . L'impossibilità della seconda penitenza viene affermata anzitutto in Eb. 6,4-6 : «Quelli infatti che furono una volta illuminati, gustarono il dono celeste, diventarono partecipi dello Spirito Santo e gustarono la buona Parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro e che tuttavia sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione>> . Dove sta questa impossibilità? Qui conversione e caduta vengono viste come processi escatologici totali. Il convertito ha sorpassato la soglia tra vecchio e nuovo mondo, come chiariscono le quattro locu­ zioni che in 6,4 definiscono l'assunzione nello stato della salvezza. Non si può essere condotti oltre questa soglia una seconda volta. Chi cade, non rinuncia semplicemente a una visione del mondo; piuttosto, come aggiunge 6,6b, ha ripetuto consapevolmente per sé quello che gli ebrei hanno fatto inconsapevolmente a Gesù nella crocifissione di Gesù.

'2. Eb. 10,26 s. chiarisce che questo « impossibile » non è formulato sotto l'aspetto dell'empiria psicologica e pastorale. Infatti qui si esclu­ de non una seconda penitenza, ma il suo corrispondente, la remissione dei peccati : > . Anche qui l a colpa non è una trasgressione grave d i u n comanda­ mento, ma la rinuncia alla grazia rappresentata da Cristo, che certo si attua non nell'ambito teorico, ma nella situazione concreta, come scambio della grazia contro una vita mondana. E veramente la locu­ zione « non trovò possibilità per la metanoia>> caratterizza l'impossi­ bilità della conversione dal punto di vista soggettivo e oggettivo nello stesso tempo : infatti Esaù s'è pentito soggettivamente come Giuda, ma questo pentimento non era ancora conversione ; però nel contempo oggettivamente non c'era più alcun > . Dato che non è stato ripreso il ter­ mine «sequela », per definirla si usano vari concetti. Così i cristiani sono detti metochoi Christou ( partecipi di Cristo; 3,14); essi vanno a lui fuori « dell'accampamento» ( 1 3,13) o « Camminano» sulla strada aperta da lui (Le. 4,16 ss.; At. 10,38 ) e c. il tempo della Chiesa come un periodo della tentazione e della pazienza u. 4. Per mezzo di questa periodizzazione Luca vuole chiarire alla Chiesa del suo tempo che le configurazioni della Chiesa cambiano 13 bensì, ma la struttura fondamentale deve essere conservata. Così Conzelmann trova il principio della teologia di Luca comples­ sivamente in una continuità nella linea della storia della salvezza, che nello stesso tempo si differenzia per epoche. Attraverso questo modo di considerare le cose, Luca renderebbe possibile un'esistenza positiva della Chiesa nella storia che si prolunga 14• Dei lavori che portano al di là di Conzelmann menzioneremo sol­ tanto quelli di William C. Robinson e Helmut Flender 15• Il libro di Flerider, che mescola spesso troppo intensamente riflessione esegetica e sistematica, critica l'uso irriflesso da parte di Conzelmann del con­ cetto di storia della salvezza e la sua suddivisione troppo schematica in periodi. Per Luca la storia della salvezza si svolgerebbe appunto non su un piano, ma su due piani sovrapposti l'uno all'altro. Secondo il suo modo di esistere umano, Gesù farebbe parte dell'inizio del tempo nuovo, però secondo il suo modo d'esistere celeste starebbe « nella con­ temporaneità di Dio con tutto il tempo umano » 16• Di conseguenza Luca incrocerebbe anche per gli uomini l'escatologia orizzontale con una verticale; per il singolo uomo l'ora della morte diverrebbe la parusia (Le. 23,43 ) 17• b) La situazione d'origine l . Per stile e impostazione il terzo Vangelo e gli Atti degli Apostoli hanno origine inequivocabilmente dal medesimo Autore. Sono conce­ piti come un'opera, ma redatti originariamente in due libri indipen­ denti. Lo si può vedere molto chiaramente da quanto segue: in Le. 24 il Vangelo termina con una relazione sulla Pasqua e un racconto del" Ibid. , p. 9. " Così p. es. vengono revocate (Le. 22,35 ss.) per l'avvenire le istruzioni relative all'equipaggiamento degli Apostoli nei giorni terreni (Le. 9 , 1 ss., 10,1 s s . ) e secondo At. 15 per la Chiesa dei Gentili il vincolo della comunità primitiva di Gerusalemme al Tempio e alla legge non vale più. " Questa concezione è stata ripresa da G. BoRNKAMM, Art. Evangelien, synoptische, RGG n', col!. 763 ss.; a lui aderisce però anche O. CuLLMANN, Unzeitgemiisse Bemer­ kungen zum «histo rischen Jesus• der Bultmannschule, in: Hist. Jesus, pp. 266-280, per identificare infine ampiamente nel suo libro programmatico Heil als Geschichte ( 1 964) la propria concezione dell'intera teologia neotestamentaria con la visione della teolo­ gia di Luca sviluppato da H. Conzelmann. Certamente O. Cullmann contesta che la con­ cezione che ha Luca della storia della salvezza sia una depravazione di quella paolina e giovannea. " H. FLENDER, loc. cit. (§ 48,1 bibl.). 16 H. FLENDER, cit. , p. l l3. 11 Ibid., pp. 19 s., 85-98. 142.

1. Condizioni d'origine, peculiarità letteraria e problematica teologica

667

l'ascensione, delineati entrambi come conclusione del Vangelo; in l , 1-1 1 gli Atti degli Apostoli iniziano con una relazione sulla Pasqua e un racconto dell'ascensione, che sono strutturati come introduzione del secondo lib ro. 2. L'opera è nata dopo il 70, perché in Le. 2 1 ,20.24 l'autore guarda retrospettivamente alla distruzione di Gerusalemme. D'altra parte si presuppone uno stadio della situazione della comunità che precede nettamente quello rispecchiantesi nella 1 Lettera di Clemente e in Ignazio. Quindi l'opera è stata redatta fra l'SO e il 90. 3. Come luogo della redazione, l'unica notizia della Chiesa antica al riguardo, cioè il prologo antimarcionita dei Vangeli, nomina la Gre­ cia. A ogni modo, secondo indizi intrinseci, l'opera è nata nel territo­ rio della Chiesa al quale conduce, cioè in Occidente. Contatti con la tradizione della comunità romana, in cui c'imbattemmo già nel raf­ fronto con la Lettera agli Ebrei, indicano Roma. 4. Come autore la tradizione della Chiesa antica, cioè il Canone Muratoriano e il prologo antimarcionita, nomina Luca, intendendo con ciò il collaboratore menzionato da Paolo in Col. 4,14 e Flm. 24. Il giudizio storico su questa tradizione dipende dal problema concer­ nente il rapporto che esiste tra la rappresentazione del cammino di vita e del messaggio di Paolo negli Atti degli Apostoli e le sue enuncia­ zioni su di sé nelle lettere. Se qui dovesse esistere più che una pura accentuazione diversa e se in quest'opera la situazione storica e la con­ cezione teologica di Paolo fossero presentate in contrasto con la sua testimonianza su di sé, sarebbe difficile poter chiamare in causa come autore un collaboratore di Paolo. Qui non possiamo trattare questo problema in modo esplicito, ma cercheremo di contribuire soltanto alla sua soluzione per mezzo della nostra presentazione della teologia lucana. c) L'intento letterario l . Il carattere letterario dell'opera di Luca è indicato dal prologo Le. 1 , 1-4. Luca è l'unico Autore neotestamentari o che inizi il proprio libro con un prologo secondo la consuetudine ellenistica: « Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti accaduti tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scri­ verne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto » . Que­ sto periodo stilizzato classicamente e strutturato con arte vuole affer-

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§ 48: Luca, il teologo della storia della salvezza

mare che l'Autore di questo libro è consapevole della . sua distanza sto­ rica dall'origine della propria fede, la venuta di Gesù, e che cerca di gettarvi sopra un ponte per dimostrare l'asfaleia, l'attendibilità della testimonianza che motiva la fede. Ma in che modo la vuole superare? Come deduce Giinter Klein 18, vuole motivare la certezza della salvezza con l'aiuto della certezza sto­ rica ? Già l'analisi del prologo consente di rilevare che Luca non riflette il compito, che vede, sulla base d'una semplice teologia della storia, ma scorge molto più chiaramente e profondamente la struttura del processo della tradizione come pure quella dell'oggetto tramandato . 2. Infatti, secondo Le. 1 ,2, Luca non cerca una tradizione puramente storica. Cerca invece che cosa tramandano i testimoni oculari che han­ no compreso per fede le cose percepite e quindi le hanno annunciate come messaggio, cioè cerca la tradizione apostolica nel senso della de­ finizione sua propria di At. 1 ,2 1 s . 3. Questa struttura della tradizione ricercata corrisponde all'og­ getto : per Luca si tratta «degli avvenimenti accaduti tra di noi » ( ton pepleroforemenon en hemin pragmaton ; Le. 1 , 1 ). Il passivo (peplero­ foremenon) è un passivum divinum : Dio - così si deve dire - ha «por­ tato alla pienezza questi avvenimenti», cioè la storia di Gesù. Qui viene in luce già un aspetto diverso rispetto a Matteo (§ 46,4): Dio non ha realizzato profezie, ma ha attuato il suo piano di salvezza, che si deve ricavare dalla Scrittura (At. 3,18.2 1 .24). Dunque ciò che Luca vuole pre­ sentare sono avvenimenti nella storia che corrispondono al piano di salvezza di Dio. 4. La presentazione ch'egli persegue in base a questo presupposto è caratterizzata da due fattori e perciò diversa dagli scritti evangelici

esistenti fino a quel momento (v. 3 ) : si basa su un esame approfondito della tradizione («di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi>> ) e cerca di presentare gli avvenimenti kathexes (secondo l'ordi­ ne). In effetti, confrontando Luca con Matteo e Marco, si deve osser­ vare come egli si sforzi di rappresentare l'opera di Gesù come un diveni­ re storico che procede con continuità. La continuità è un carattere essenziale della storia. Dunque Luca vuole presentare la venuta di Gesù come una storia corrispondente al piano di salvezza, cioè, appunto nel suo senso, come storia della salvezza. S . Ma con questo metodo come si può dimostrare l'attendibilità (asfaleia) della testimonianza di Gesù? Abbiamo visto come per Luca " G. Ku!IN, Rekonstruktièm und Interpretation, cit., p. 260.

2. La concezione della storia della salvezza in Luca

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sia la vicenda di Gesù che la sua tradizione siano non puramente sto­ riche, ma a due strati; perciò l'attendibilità della testimonianza di Gesù non si può dimostrare per mezzo della prova storica d'una «fatticità» storica. La certezza può essere motivata soltanto da una presentazione che dimostri la corrispondenza di questa serie di avvenimenti storici con il piano di salvezza, cioè da una rappresentazione sotto l'aspetto della storia della salvezza, che a sua volta è testimonianza di fede. Così il prologo contiene il programma teologico dell'autore, nasco­ sto nel linguaggio d'un uomo ellenistico colto. d) Linguaggio e stile Nel seguito, l'opera parla un linguaggio diverso, evidentemente in larga misura quello della tradizione pervenuta all'autore. Volendo svi­ luppare la teologia dell'autore per mezzo d'un'analisi secondo la storia della redazione, sulla base di criteri linguistici si deve badare a dove quest'autore prende la parola egli stesso. Al riguardo, appaiono im­ portanti soprattutto due osservazioni, che stanno in una certa tensione. fra loro . l . Il confronto sinottico fa rilevare che Luca nel riprendere mate­ riale di Marco elimina peculiarità stilistiche s emi tiche . Com'era da aspettarsi, caratteristiche dello stile suo proprio abbondano nel Van­ gelo, nei passaggi dell'introduzione e chiusura delle pericopi, cioè dove egli collega le varie tradizioni pervenutegli a formare una presentazio­ ne continuativa. E per la precisione queste peculiarità stilistiche s'ad­ densano specialmente nell'antefatto (Le. 1-2) e nel capitolo della Pa­ squa (Le. 24 ) . Negli Atti degli Apostoli le troviamo soprattutto nei re­ soconti riassuntivi della vita della comunità primitiva e nei discorsi.

2. D'altra parte, questo stile specifico di Luca si discosta notevol­ mente dallo stile classico del prologo (Le. 1 , 1-4). Infatti è improntato fortemente dai Settanta . Evidentemente, Luca inserisce di proposito come mezzo stilistico il linguaggio della Bibbia greca. Vuole presentare la storia del compimento, corrispondente al piano di salvezza annun­ ciato, anche con lo stile e con il linguaggio del suo annuncio nella Scrittura - che per lui sono i Settanta -. Così anche i caratteri sti­ listici conducono all'intenzione contenutistica 19• 2.

La

concezione della storia della salvezza in Luca

a) La dimensione della storia l . Accostando l'immagine dello svolgimento dell'attività missiona­ ria di Rom. 15 a quella delineata negli Atti degli Apostoli, si chiarisce 10

Cfr. W. GRUNDMANN, ThHK III, pp. 23 s.

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§ 48: Luca, il teologo della storia della salvezza

come Luca veda il mondo, nel quale appare Gesù e s'è formata la Chiesa, in un modo fondamentalmente diverso rispetto a Paolo e a Matteo. In Rom. 15,19.23 Paolo sviluppa una visione apocalittica della storia e del mondo: il Vangelo viene proclamato nell'emisfero orientale; «Così da Gerusalemme e dintorni fino all'Illiria, ho portato a termine la predicazione del Vangelo di Cristo>> ( 1 5,19); ora lo stesso deve ancora avvenire nella metà occidentale del mondo ( 1 5,23), e poi viene la fine. Gerusalemme è il centro, dal quale tutto è cominciato. Mondo e storia sono visti per così dire nella prospettiva d'un astronauta. Per contro, gli Atti degli Apostoli di Luca somigliano a un taccuino di viaggio: qui la missione paolina è l'inizio d'un lungo processo storico che non è ancora giunto alla fine. Luca coglie la dimensione della storia come la vede fino a oggi l'uomo occidentale. 2. La cosa si chiarisce ancor più quandò, come esempio ulteriore, paragoniamo la cornice storica della nascita di Gesù in Luca e in Mat­ teo. Luca pone la nascita di Gesù e l'apparizione del Battista nell'am­ bito della storia universale (Le. 2,1 s.): un decreto dell 'imperatore Augusto, che aveva fondato la Pax Romana ed era considerato il genio dell'impero, fa sì che Gesù venga partorito nella città davidica di Be­ tlemme ( Le. 2,4. 1 1 ). E poi un angelo proclama la nascita con una ter­ minologia che nell'impero in altre circostanze si collegava con Augu­ sto: « Non temete, ecco, vi annuncio (euangelizomai) una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Le. 2,10). La parola dell'angelo è conside­ rata un euangelizesthai, annuncio d'una lieta novella per il « popolo » - s'intende anzitutto Israele - e inoltre per l'intera umanità, special­ mente per i poveri. Però secondo l'ideologia dell'impero euangelia erano i decreti imperiali e precisamente per lo stesso motivo che anche qui viene trasferito per analogia a Gesù : perché il neonato è il sotér ( Salvatore; Le. 2, 14), che porta eiréné (pace; Le. 2,14) sulla terra. Infatti questo in altro contesto s'usava dirlo per Augusto (§ 36,3). Così Luca pone la nascita nella cornice della storia contemporanea. In confronto, la cornice storica della nascita secondo Matteo ha un orientamento del tutto diverso : qui vengono tre Magi dall'Oriente come rappresentanti del paganesimo (Mt. 2,1-12) e il re Erode (Mt. 2,3-8.13-19) sta come rappresentante d'Israele contro il « re neonato degli ebrei» (Mt. 2,2), il quale viene salvato con la fuga in Egitto, come un tempo Israele (Mt. 2 , 1 5 ). Matteo viene dalla visione del mondo d'un rabbi ebreo, invece Luca da quella d'un ellenista. 3. A ogni modo, la visione del mondo di Luca non è semplicemente quella d'un ellenista , scosso e sballottato da fanatismo, demonologia e

2. La concezione della storia della salvezza in

Luca

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ideologia. Si può chiarire invece partendo dall'AT. Questo risulta chia­ ramente quando per esempio Luca inserisce il presentarsi di Giovan­ ni il Battista con lo stile dei racconti profetici veterotestamentari : «Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea [ . . . ] sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa [ . . . ] , la Parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria» (Le. 3,1 s.). Questo è esattamente lo stile con cui i libri profetici veterotestamentari inseriscono nella storia la comparsa dei profeti (cfr. per esempio Ger. 1 ,2 s.; 25 , 1 ; 32, 1 ; Ez. 1 , 1-3 ; Am. l , l ). 4. Entro questa storia vista così, la storia di Gesù viene da Luca non soltanto inscritta nelle sue linee, ma piuttosto viene fatta crescere da essa. Come la sua nascita avviene a Betlemme, perché «ciascuno» deve farsi censire nel suo luogo di nascita (Le. 2,2), così s'arriva al battesimo da parte di Giovanni, che ne apre l'opera, perché « tutto il popolo fu battezzato >> (Le. 3,2 1 ). b ) Il piano di salvezza come piano d'azione di Dio l. La concezione del piano di salvezza in Luca s'incontra, delineata con particolare incisività, alla fine del Vangelo. Infatti un tratto fon­ damentale della relazione sulla Pasqua strutturata da Luca (Le. 24) è che nell'apparizione pasquale Gesù risorto apre ai discepoli la mente a cogliere come la sua dipartita, così come il cammino ulteriore dei discepoli e il formarsi della Chiesa, siano preindicati in un piano di salvezza che si può rilevare dalla Scrittura. Questo accenno al piano di salvezza viene ripetuto tre volte : vv. 6 s . ; vv . 24-27 e vv. 44-49. Alla fine (vv. 45-49) s i afferma: «Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse : 'Così sta scritto : il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome sa­ ranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io man­ derò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto'». Queste parole stanno nel passo che in Matteo (28,1 8-20} include il cosiddetto ordine della missione (§ 46,6 b). Diversamente da là, qui soltanto l'ultimo versetto è un'indicazione data ai discepoli, tutto il resto è non ordine, ma annuncio. Per mezzo dell 'incarico da parte di Gesù risorto, Luca ba cambiato l'invio già presupposto nell'antica tradizione di l Cor. 15,7 s., in un annuncio che sviluppa quello della Passione, proprio della tradizione sinottica (Mc. 8,3 1 par.; 9,3 1 par.; 10,33 s. par.).

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§ 48: Luca, il teologo della storia della salvezza

Questa enunciazione, secondo cui il Cristo deve soffrire, morire e risorgere, viene prolungata: così ora «nel suo nome» si deve predicare «a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» . Questo «si deve » Luca - come già la tradizione si­ nottica prima di lui (Mc. 8,3 1 ) l'intende non come uno sviluppo determinato da un destino immutabile nel senso dell'ellenismo, né come piano storico di Dio per la fine dei tempi nel senso dell'apoca­ littica (cfr. § 1 9,6), ma come proposito di salvezza di Dio, indicato nella Scrittura. Però in lui questo proposito di salvezza viene prolungato e messo in relazione con la storia; in lui diventa per così dire un piano di salvezza, che deve diventare manifesto nella storia. Certo questo piano di salvezza non è un programma che venga espli­ citato ai discepoli per l'esecuzione. Viene eseguito da Dio stesso, come si può dedurre già esteriormente dal recedere dell'imperativo in Le. 24,45-49 . In questo i discepoli sono soltanto i suoi strumenti (cfr. At. 9,15). Per loro l'istruzione si limita solamente al prossimo passo: de­ vono rimanere a Gerusalemme e aspettare la «potenza dall'alto», lo Spirito Santo. Tutto il resto sarà messo in azione poi al tempo giusto da Dio. -

2. A questa conclusione del Vangelo corrisponde l'introduzione degli Atti degli Apostoli ( 1 ,6-8 ). Alla domanda dei discepoli: « Signore, è que­ sto il tempo in cui ricostruirai il regno d'Israele ?» segue la risposta: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riser­ vato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» . Qui la negazione è de­ gna di nota quanto l'annuncio positivo. Anzitutto, Luca respinge il cal­ colo apocalittico di periodi e termini nonché l'attesa della costituzione del dominio messianico nella storia. Per la sua Chiesa, questo signi­ fica: egli vieta di fissare lo sguardo sulla prossima parusia. Lo sguardo dei discepoli deve andare in tutt'altra direzione; devono aspettare come e dove lo Spirito li inserisce come testimoni. In questo modo, cioè per mezzo della direzione e della forza dello Spirito, si realizzerà un determinato piano : la testimonianza si dovrà propagare in Geru­ salemme, in Giudea e Samaria e fino ai confini della terra (At. 1 ,8). In piena corrispondenza con ciò, in seguito viene descritto lo svol­ gimento della missione. Essa non viene pianificata dagli Apostoli e dalla comunità, ma soltanto da Dio, che degli oppositori fa i suoi stru­ menti. Questo si può dimostrare con particolare incisività in riferi­ mento alla rappresentazione degli avvenimenti connessi al primo bat-

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tesimo d'un non circonciso (At. 10,1-1 1 ,18). Per mezzo di visioni, Pie­ tro, recalcitrante, viene portato nella casa di Cornelio (At. 10, 1-33) e là è indotto a battezzarlo in seguito all'intervento dello Spirito ( 10,44-48). Davanti alla comunità di Gerusalemme, indignata per questo passo, si scusa del suo comportamento con la frase che caratterizza tutti gli Atti degli Apostoli: « Se dunque Dio ha dato a loro [cioè ai pagani ] lo stesso dono che a noi [ .. ] , chi ero io per porre impedimento a Dio ? » . Infine, allo stesso modo Paolo raggiunge l a mèta dell'annuncio di At. 1 ,8, gli «estremi confini della terra », cioè Roma. Paolo viene a Roma non nel modo che aveva progettato e desiderato (At. 19,2 1 ; Rom. 1 5 ,25), ma perché trasportatovi come prigioniero. Così si verifica ciò che le ultime parole degli Atti degli Apostoli enunciano: «, .. annunziando il Regno di Dio» - appunto in Roma - « con tutta franchezza e senza impedimento» . Dunque secondo Luca per mezzo dell'attività dei discepoli s i realiz: za un piano di salvezza delineato nella Scrittura. Non è progettato ed eseguito come programma dei discepoli, ma « da sopra» realizzato da Dio per mezzo di Cristo e per mezzo dello Spirito. I discepoli hanno da fare sempre e solo il prossimo passo, che viene loro manifestato e in­ dicato. Ora, se secondo la presentazione di Luca, la loro attività pro­ duce un contesto d'azione progressivo, dunque ciò che chiamiamo storia, ciò allora è concesso dall'alto. Dunque qui non si dichiara storia della salvezza uno squarcio di storia delimitato in un modo speciale; piuttosto un'attività umana in sé non coerente in ragione di un piano di salvezza viene compresa come continuità e in questo senso come storia della salvezza. .

c) La continuità della storia della salvezza l . Ma ora approfondiamo ancora un po', sulla scorta degli Atti degli Apostoli, questa continuità evidenziata da Luca nel costituirsi del cristianesimo. Che questa continuità non sia quella d'uno sviluppo storico viene chiarito fra l'altro da come Luca presenta in At. 8-1 1 il passaggio dalla Chiesa d'Israele in Gerusalemme al cristianesimo dei pagani, libero dalla legge, in Antiochia. 8,4 riferisce il punto d'inizio : in seguito alla persecuzione di Stefano - dunque nuovamente non per una program­ mazione dei discepoli - avviene che discepoli percorrano il paese svolgendo opera missionaria. At. 1 1 ,19 rimanda al risultato finale prov­ visorio di questo fatto: a opera di due discepoli fuggiti, nasce ad An­ tiochia la prima comunità di pagani convertiti. Ma tra 8,4 e 1 1 ,1 9 si raccontano avvenimenti, che conducono bensì oggettivamente in linea

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progressiva a questo traguardo, ma che però storicamente non sono collegati in nessun modo fra loro: così la conversione dei samaritani, che non facevano parte della comunità cultuale ebraica (A t. 8,4-25), il battesimo del sovrintendente al tesoro etiopico, che era sì un timorato di Dio, ma come eunuco non poteva essere circonciso (At. 8,26-40 ) e in­ fine il battesimo del primo incirconciso da parte di Pietro ( 1 0,1 1-1 1 ,18). Passo passo, attraverso questi avvenimenti, nella barriera della circon­ cisione si apre un varco e la comunità di Gerusalemme s'avvicina alla comunità ecclesiale con battezzati incirconcisi. Quindi Luca presenta bensì uno sviluppo continuativo, ma la sua continuità è la realizzazione oggettiva del piano di salvezza, non uno sviluppo coerente storicamente. Partendo di qui, ora diventa comprensibile anche l'intenzione teolo­ gica degli Atti degli Apostoli. Il programma letterario, presentato in 1 ,8, di riprodurre quale sia stata la testimonianza nei discepoli di Ge­ rusalemme fino agli estremi della terra, non viene attuato nella forma d'una presentazione delle vie multiformi della missione. Piuttosto Luca traccia una linea unica, che dagli Apostoli in Gerusalemme attraverso Paolo conduce a Roma. Ma ora in Roma sono raggiunti «gli estremi confini della terra» ? ( 1 ,8). Secondo At. 28,3 1 , l'ultimo versetto del libro, la missione continua oltre. Ma Paolo, che l'aveva sostenuta fino allora, ha raggiunto il traguardo postogli secondo 13,47; è diventato « luce per le genti [ . ] fino all'estremità della terra». Infatti per mezzo della via che ha percorso da Gerusalemme a Roma, sostanzialmente ha preso forma la Chiesa di tutti i popoli, ch'era stata anticipata program­ maticamente nella storia della Pentecoste (At. 2,1 1 ). Dunque gli Atti degli Apostoli vogliono rappresentare non lo svol­ gimento della missione, ma la linea fondamentale della storia della salvezza, sulla quale ha preso forma la Chiesa. La sua intenzione è quella di chiarire come soltanto ciò che sta nel prolungamento di que­ sta linea meriti il nome di Chiesa. Quindi la norma che vale ulterior­ mente per la Chiesa si può cercare soltanto nel prolungamento di que­ sta linea. Essa non sta affatto - e questo è un concetto d'importanza decisiva nei confronti di tante errate interpretazioni di At. 1-6 in una situazione originaria normativa per tutti i tempi. Per Luca la strut­ tura della comunità primitiva non è la norma della formazione della comunità valida per tutti i tempi. Questa linea fondamentale di Luca si può caratterizzare nel modo più adeguato con: con tinuità e progresso. Negli Atti degli Apostoli il «progresso» più importante è il decreto apostolico ( 1 5 ,28 s.). Per mezzo di questo decreto, viene decisa una volta per tutte la libertà dei pagani convertiti nei confronti della legge. Quello che secondo le lettere pao.

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line si è ottenuto solamente con un lungo conflitto e lottando contro pe­ ricolose ricadute, secondo la rappresentazione certamente molto sem­ plificativa e schematizzante di Luca viene deciso una volta per tutte dal decreto apostolico come conclusione dello sviluppo di storia della salvezza appena caratterizzato, da Gerusalemme ad Antiochia lll. 2. Evidentemente anche nel suo Vangelo Luca si preoccupa della continuità di quanto ha esposto. Mentre Matteo ordina la tradizione tematicamente, Luca mediante un'incorniciatura della pericope si sforza di comunicare l'impressione d'una progressione ordinata del­ l 'opera di Gesù. Egli dà l'impressione d'un cammino continuativo di Gesù dalla Galilea alla Passione in Gerusalemme ( Le. 23,5 ). E in verità anche questa via corre per fasi o stadi progressivi. La prima fase è la predicazione itinerante in Galilea. In 4,14 s., Luca tra­ sforma il sommario del comparire di Gesù in Galilea (Mc. 1 ,14) nella comunicazione del fatto che Gesù, girando, insegnava nelle sinagoghe della Galilea. Questo primo stadio ha inizio con l 'ingresso di Gesù nella vita pubblica con una predica programmatica nella sinagoga di Nazaret (Le. 4,16-30). Il resoconto seguente sull'attività in Galilea (4,3 1-9,50) è nato da pericopi della tradizione di Marco originariamente slegate, ma che Luca ha combinato in uno svolgimento di eventi che progredisce con continuità, per mezzo di abili osservazioni redazionali d'inquadra­ mento (per esempio 4,38 .40.42 ). In Le. 9,5 1 questa via attraverso la Galilea si conclude con le pa­ role: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme ». Quest'annota­ zione conduce alla seconda fase, il cosiddetto resoconto di viaggio in Luca, che va da 9,5 1 a 19,27. La rappresentazione soggiacente d'una spe­ dizione dalla Galilea a Gerusalemme di natura sua non si riallaccia alle pericopi qui riunite da Q e dalla tradizione particolare di Luca; viene inserita per mezzo di annotazioni redazionali ( 1 3,22.33 ; 17,1 1 ; 1 8,3 1 .35). Le pericopi usate suffragano l'impressione dell'essere in cammino sol­ tanto in quanto mostrano più volte Gesù come colui che prosegue o come l'ospite (9,56 s.; 10,1 .38; 1 1 ,37; 14, 1 ; 15,1 s.; 1 9,5.1 1 ). Il resoconto di viaggio persegue lo scopo letterario di condurre Gesù con continuità dalla Galilea a Gerusalemme. Specialmente vuole mostrare Gesù come ,. Secondo H. CoNZELMANN, Mitte der Zeit, cit., p. 196, negli Atti degli Apostoli Luca avrebbe voluto presentare due stadi della storia della salvezza, che sono separati da At. 15. Ma forse corrisponde meglio all'intenzione di Luca parlare solamente d'una pro­ gressione costante della storia della salvezza. In tal caso, At. 15 sarebbe il traguardo provvisorio della evoluzione, che incomincia con la missione presso i pagani in Antio­ chia (A t. 1 1 ,20 s . ) e partendo dalla quale poi si registra di nuovo a sua volta un pro­ gresso ulteriore.

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colui che va incontro alla sua analempsis, alla sua assunzione-in-alto (9,5 1 ), attraverso la Passione. Nella terza fase, il periodo in Gerusalemme ( 19,28--2 4,53), per Luca è importante soprattutto il fatto che all'ingresso in Gerusalemme Gesù viene salutato come re; e precisamente non ( come in Mt. 2 1 ,9} dal po­ polo, ma dai suoi discepoli ( 1 9,37). Da allora in poi, quando «Ogni giorno insegnava nel Tempio» { 19,47), con questo aveva raggiunto la mèta della sua via terrena, che nel tempo stesso era punto d'inizio per il formarsi della Chiesa (At. 2,46; 3 , 1 ; 5,42). 3. Però il tempo di Gesù è preceduto già da un'altra epoca della storia della salvezza. A essa rimanda la concezione lucana del cosiddetto versetto dei violenti (Le. 16,16 par. Mt. 1 1 , 12 s.): > (At. 7,5 1 ). d) Epoche della storia della salvezza Così in Luca si delineano tre epoche della storia della salvezza, che si seguono l'una all'altra, cioè tre epoche d'una continuità progressiva secondo il piano di salvezza di Dio. Il loro carattere principale è l'opera di volta in volta diversa dell o Spirito. All 'opera dello Spirito per mezzo dei profeti, che dura fino a Gio­ vanni il Battista - invece secondo la concezione rabbinica era cessata

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già in Esdra 21 - segue una concentrazione di tutta l'opera dello Spirito su Gesù e inoltre ancora l'opera generale dello Spirito della Pentecos te nella comunità 22• Luca delimita una dall'altra queste tre epoche che si susseguono con continuità, per mezzo di tagli inequivocabili, in modo che la progres­ sione diventi chiara. Per dare rilievo alla successione nel senso della storia della salvezza, prima del battesimo di G�sù da parte di Giovanni (Le. 3,21 s.), ne riferisce l'incarcerazione - questo in contrasto con la continuità storica - che mise fine alla sua opera (i.c. 3,18-20). Pari­ menti le apparizioni pasquali di Gesù risorto vengono concluse con l'ascensione dopo 40 giorni (At. 1 ,3) - contrariamente alla presenta­ zione paolina e giovannea - e dopo un intervallo di dieci giorni inizia l'opera dello Spirito della Pentecoste (At. 2,1-1 3). Ora, quale genere d'opera dello Spirito viene assodata di volta in volta con le singole epoche? In Israele anzitutto sono sempre soltanto singoli individui, i profeti, a essere afferrati in modo attuale dallo Spi­ rito. Ma a Pentecoste viene mantenuta la promessa del dono generale dello Spirito (Gl. 3,1-5): « (Gv. 4,14) è tutto ciò con cui l'uomo soddisfa la sua sete, •• pane>> (Gv. 6,35.41 .48.50 s. 58) tutto ciò che significa minimo esistenziale e standard di vita, e •< luce» (Gv. 8,12; cfr. 1 ,4 s.; 3,19 ss.; 9,5) tutto ciò che porta certezza e chiarezza nella minacciosa incertezza dell'esistenza. Il «pastore» significa protezione e orientamento sotto ogni aspetto (Gv. 10,1 1-16) e per l'uomo dell'anti­ chità la , viene messo di fronte quello che «opera la verità>> (poiein ten aletheian). Però, secondo 6,29, « Operare la verità» non è altro che credere in Gesù. Così 5,29 dice : per il singolo il modo della futura risurrezione cor­ porale dipende dalla fede o dalla mancanza di fede nei confronti di Gesù. e) L'enunciazione di 5,28 s., si può collegare oggettivamente con quella di 5,24-27 ? I vv. 24-27 accentuano la definitività escatologica delle cose che accadono per opera di Gesù; alla fede viene dato non soltanto il titolo per attendersi la vita eterna, ma questa stessa. In aggiunta a ciò, ha ancora un posto il v. 28 s . ?

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§ 49: La struttura della teologia giovannea

A questo si deve rispondere affermativamente, appena si vede che secondo v. 28 s. la decisione è già stata presa, così che la risurrezione ha un carattere a priori differenziato: mediante essa viene soltanto eseguito quello che era già dato prima. E precisamente questa esecu­ zione consta di due elementi: 1. Essa consiste nella corporeità della risurrezione; mentre il v. 25 parlava dei morti spiritualmente, il v. 28 prende in considerazione i morti nei sepolcri.

2. Secondo il v. 25, l'ora escatologica è attuale e in arrivo nello stesso tempo; secondo il v. 28, l'ultim'ora inizia anche per il mondo Così il v. 28 s. annuncia un'ora in cui la parola di Gesù fa diventare corporeo e definitivo ciò che adesso produce per la fede in modo occulto, cioè la vita o la condanna. Quest'ora trova posto accanto a quella del v. 25 ? Adesso il v. 24 fa dipendere esplicitamente dalla fede l'ingresso nella vita. Anche per Giovanni, la fede non sarebbe più fede se non aspettasse che si faccia definitivo e corporeo ciò che ora per essa è soltanto una nuova rela­ zione comunicata per mezzo della parola. Vivere è di più che un com­ prendersi definitivo, cioè la nuova relazione dell'io che crede con il Tu di Dio. Questa relazione mira a diventare visibile corporeamente e definitivamente. Il v. 28 s'oppone a una comprensione errata dell'«escatologia del presente>>, che circolava fin dal tempo della 1 Lettera ai Corinzi. Essa venne fraintesa in senso perfezionistico già presso gli avversari entu­ siastici di Paolo a Corinto; nel tempo stesso veniva negata da loro una futura risurrezione corporea ( l Cor. 4,8; 15,12-19). Questa errata com­ prensione ritorna anche nell'affermazione citata in 2 Tm. 2,18, secondo la quale la risurrezione sarebbe già avvenuta. Il Vangelo secondo Giovanni sottolinea con un vigore non rileva­ bile in nessun altro scritto neotestamentario, che l'eschaton è presente nell'operare di Gesù : colui che crede è già passato dalla morte alla vita. Colui che non crede è già condannato. Questa antitesi apologetica mira non a una decisione in direzione perfezionistica, ma alla fede che in Gesù trova tutto quello che significa salvezza di Dio: «