Agorà. Manuale di filosofia. L’età antica e medievale [Vol. 1]
 978-8842452263

Table of contents :
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lezioni Profilo Conoscere il pensiero dei filosofi, capirne il linguaggio

l ezioni Testo Leggere i testi filosofici, saperli analizzare

agora' Riflettere sui problemi, imparare a discuterne

Elementi di filosofia Panorami sintetici di grandi filoni del pensiero Schede metodo Strume nt i per impara re a studiare fì losofìa

OIGILIBRO

--8 UBROMISTO

-

Dl Gl L18 RO • Il materiale online del libro misto secondo le disposizioni di legge

e

Ques t'opera, s econdo le d1SpOSIZoOno do legge, ha lerma mos ta cartacea e d1g1tale. parzoalme nte d1s po· nobole on onlernet e n marra ommu tata. nella s ua p;;rle cart acea. per ol pero odo do tempo ondocato dalle normatove Per la dura ta dovota dell'edozoone saranno peroodocamente reso dosponobolo materoalo doaggoorna· mento

È disponobole online: • repert orio di testi d'autore aggountivi con guida all'analisi Tutto omateroalo e le informazoon1s ulle estensoon1d1gotalo dellobro su: www.pearson.it

Agorà 1

EdlllOOI SCOiasllChe Bruno Mondadon

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9 788842 452263

Fabio Cioffi Giorgio Luppi Amedeo Vigorelli Emilio Zanette Anna Bianchi li

l'età a e medi

(l) Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori

Conoscere il pensie ro dei filo:sofi, capirn e il linguaggio Profilo, È questa la finalità delle ossatura fondamentale del corso. Lezioni non lunghe, focalizzate su un argomento, con schemi, mappe concettuali, immagini, che aiutano a "visualizzare" le idee; piccole glosse che mettono a fuoco parole e concetti; una verifica per controllare la comprensione. In ogni volume, poi, un capitolo speciale, Elementi di filosofia, riassume lo sviluppo di alcune fondamentali tematiche della storia del pensiero (logica, politica, etica, scienza).

2

testi filosofici, saperli analizzare

Nelle Lezioni Testo incontriamo direttamente la parola dei filosofi. Una guida alla lettura ci aiuta a comprendere testi spesso non facili, ma sempre ricchi e profondi, a ricostruire la logica dell'argomentazione filosofica, a scoprire quello che si annida nelle pieghe del testo. Un laboratorio ci dà spunti e suggerimenti per essere attivi di fronte al testo.

· ttere sui problemi, imparare a discuterne La storia della filosofia si occupa di problemi molto spesso analoghi a quelli che ci poniamo noi oggi. Chiunque, che abbia studiato filosofia o meno, ha diritto ad avere opinioni e a esprimerle: ma il lavoro della filosofia consiste proprio nel chiarire, fondare e argomentare razionalmente ciò che si pensa. Perché ci appartenga davvero, perché possiamo condividerlo con altri. È quanto propongono le Agorà di questo corso.

3

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Lezione Testo

Sezione l La filosofia nella Grecia classica La nascita della filosofia Il FOCUS Atene

~~

24

Parmenide

Presocratici

,j

L'ORIZZONTE STORICO E CULTURALE

Nera

CITAZIONI

18

Essere e non essete

21

Ili VITA E OPERE DI Parmenide Ili FOCUS Poesia e filosofia Ili FOCUS Essere Ili FOCUS Ente Ili FOCUS opinione e il mondo naturale

Aristotele

Il problema del!'arché VERIFICA

46

r.:

'- J

t~d

VERIFICA

51

Il viaggio verso la conoscenza

52

Talete, Anassimandro, Anassimene

La filosofia degli ionid

22

Sulla natura

Le testimonianze su Talete Il VITA E OPERE DI Anassimandro Il VITA E OPERE DI Anassimene Il CITAZION 1Anassimene Dall'aria nascono tutte le cose Il FOCUS Senofane FOCUS

53

La dottrina della verità

54

Sulla natura LABORATORIO

25

VERIFICA

LABORATORIO ·

55

Zenone, Melisso

agorà PROBLEMI Mito e Jogos

i'-~~

26

Rielaborare, discutere, argomentare 31

lliJd Le filosofie pluraliste f_!

Rielaborare, discutere, argomentare 35

q fA

:J

limiti per quantità eper piccolezza»

'~ VERIFICA

63

~1

Pitagora e i pitagorici



Leucippo, Democrito

~ Il numero come arché ,;;~ Ili VITA DI Pitagora

;:!

~j

FOCUS La

36 dottrina della

trasmigrazione delle anime VERIFICA

39

:t~J

Panta rhei

40

Ili FOCUS Filosofi contro filosofi Ili VITA E OPERE DI Eraclito Ili FOCUS Il fuoco come simbolo del

divenire VERIFICA

43

Gli aforismi di Eraclito

44

Sulla natura 4

DI') V atomismo

64

Ili VITA E OPERE DI Leucippo e Democrito

fi

Il FOCUS

F1

VERIFICA

La politica e l'etica in Democrito

67

Protagora, Gorgia

Eraclito

LABORATORIO

58

Ili VITA E O~ERE ~l E~ pedocle FOCUS Il poema Sulle puriflcaztont Ili CITAZIONI Empedocle Il ciclo cosmico di Amore e Odio Ili VITA E OPERE DI Anassagora Ili CITAZION l Anassagora I semi, «il-

jl

32

56 57

Empedocle, Anassagora

hl

agora' PROBLEMI A che cosa serve la filosofia?

~~~1 La scuola di Elea {d VERIFICA

45

La filosofia nell'età dei sofisti

68

Ili FOCUS Sofista VITA E OPERE DI Protagora ~{1 ~~; Ili FOCUS Relativismo VITA E OPERE DI Gorgia N Il CITAZIONI

t~

id

Gorgia Nulla è

VERIFICA

72

Il relativismo di Protagora

74

Sesto Empirico Schizzi pirroniani Platone Teeteto LABORATORIO

75

Encomio di Elena Gorgia Encomio di Elena

76

LABORATORIO

77

li.J I:inseg.namento socratico ·'

agorà DIBATTITI Il giusto è l'utile del più forte?

94 Il FOCUS Il problema Socrate: fonti e testimonianze Il FOCUS Eristica VERIFICA 97

Socrate è come un sileno Platone Simposio

78

98

LABORATORIO

101

Socrate e le leggi della polis Platone Critone

102

LABORATORIO

103

n metodo socratico

104

Rielaborare, discutere, argomentare 81

agorà PROBLEMI Antigone aveva ragione? Rielaborare, discutere, argomentare

82 87

Il FOCUS Il

Socrate

IIJcl t--~:

Il FOCUS

Kl

VERIFICA

89

Sapere di non sapere Platone Apologia di Socrate

90

LABORATORIO

93

r, ~-'l

La mot·te di un filosofo

metodo dell'ironia

VERIFICA

107

Il problema della definizione

108

Platone Eutifrone

88

109

LABORATORIO

Il volto del filosofo

Cinici, cirenaid, megarici

j

Le scuole socratiche mi.nol'i Il FOCUS

Euclide e la scuola megarica 113

VERIFICA

Sezione 2 La filosofia nelf età di Platone e Aristotele Platone

11·.• :.'

Filosofia come dialogo

• . .l,

118

·;

Dialoghi di Platone Il CITAZIONI Plai.'l tone Filosofia, una scienza diversa dalle altre ;;j n FOCUS La critica della scrittura nel Fedro ..; ~~

f'"

Il FOCUS l

110

-

L'ORIZZONTE STORICO E CULTURALE

114

I: eredità di Socrate e l'eros

130

· Il VITA DI Platone fino : J l'Accademia VITA DI

alla fondazione delPlatone dal secondo viaggio siracusano alla morte

133

~,--~

~~j VERIFICA

Fl

Tavola del lessico platonico

121 122

Oralità e scrittura Fedro

124

LABORATORIO

125

Scienza e credenza Gorgia

126

LABORATORIO

128

Il demone Eros Simposio

134

LABORATORIO

135

agorà PROBLEMI Amore

136

Rielaborare, discutere, argomentare 141

5

Idee e conoscenza

La geometria del mondo

142

La riduzione protagorea del conoscere alla doxa sensibile Il FOCUS Sensazio-

Il FOCUS La parziale rivalutazione Il! FOCUS Le difficoltà del dualismo

1111 CITAZION 1Platone

ne e percezione

180 della doxa

183

VERIFICA

145

La caverna Repubblica

146

Il Demiurgo Timeo

184

LABORATORIO

148

LABORATORIO

185

La linea Repubblica

150

LABORATORIO

151

agorà PROBLEMI Educazione

186

Rielaborare, discutere, argomentare 191

Uno e molti: la dialettica

152

agorà DIBATTITI

Il problema del non essere e il "pan·icidio" ai danni di Parmenide

Il FOCUS

Individuo, famiglia o stato?

192 Rielaborare, discutere, argomentare 19 5

155

VERIFICA

agorà PROBLEMI

agorà PROBLEMI

l'arte: imitazione o creazione?

linguaggio

156 Rielaborare, discutere, argomentare 161

196

Rielaborare, discutere, argomentare 199 Aristotele

IDJ'j Il filosofo dell'esperienza ,_-j

!!uomo e l'anima 1111 CITAZIONI

VERIFICA

162

Platone La teoria delle due anime 165

Vimmortalità dell'anima

166

200

; l 111 VITA DI Aristotele ~ -~

~~ VERIFICA

203

Tavola del lessico aristotelico

204

Pedone LABORATORIO

168

206 Dialettica, logica e scienza Il Focus I principi comuni e il principio di

Il mito di Er Repubblica

170

non contraddizione

LABORATORIO

171

La città giusta

172

211

Il CITAZIONI Platone I veri medici della città sono ifilosofi Il FOCUS Il "comunismo" platonico Il! FOCUS La costituzione mista

Il principio di non contraddizione 212 Metafisica 213

LABORATORIO

agorà PROBLEMI

VERIFICA

175

Dialettica

Il tiranno Gorgia

176

Rielaborare, discutere, argomentara218

LABORATORIO

177

214

220

6

Il politico e la legge Politico

178

Il Focus Le categorie come generi di predicati Il Focus Le cause come "classi di cause"

LABORATORIO

179

VERIFICA

225

C ente e la sostanza Metafisica

226

La saggezza Etica Nicomachea

250

LABORATORIO

227

LABORATORIO

251

228

Sapienza e meraviglia Metafisica

252

Il cosmo e il motore immobile

LABORATORIO

253

La politica, l'arte e la tragedia

254

Il FOCUS Aristotele

e l'eternità del mondo

231

VERIFICA

Gli enti naturali e le quattro cause 232 Fisica, De caelo

Il FOCUS

La critica di Aristotele alla Repubbli-

ca di Platone

LABORATORIO

233

Il motore immobile Metafisica

234

LABORATORIO

235

Le specie viventi e l'anima

236

VERIFICA

237

Elogio della biologia De partibus animalium

238

LABORATORIO

239

La definizione dell'anima De anima

240

Rielaborare, discutere, argomentare263

LABORATORIO

241

agorà PROBLEMI

257

La polis come organismo Politica

259

La storia, la poesia e la tragedia 260 Poetica

agorà DIBATTITI Perché fare il bene?

agorà DIBATTITI Strumenti animati?

248

Sezione 3 La filosofia nel mondo ellenistico-romano

l'ecumene? Il CITAZIONI Epicuro L'autosuffi-

~'~ cienza del saggio ~A

Tavola del lessico ellenistico

Una filosofia per la felicità

280

~·i_' Il FOCUS Un'ipotesi interpretativa: filosofie per

VERIFICA

L'ORIZZONTE. STORICO E CULTURALE

274

Epicuro

Ellenismo

~ij

270

Rielaborare, discutere, argomentare2 7 3

249

lill-;~

264

Rielaborare, discutere, argomentare269

Etica Nicomachea

lllf.·;.·.i. La filosofia ellenistica

262

Democrazia

242 Il FOCUS Sensibili propri e sensibili comuni Il FOCUS Aristotele, la morale aristocratica e l'intellettualismo etico VERIFICA 247

LABORATORIO

261

LABORATORIO

Conoscenza, felicità e virtù

Felicità è virtù.

258

283 284

286

[;

il mondo 111 FOCUS Quali fonti abbiamo di e su Epicuro? Il CITAZIONI Epicuro Perché non dobbiamo temere la

r~~

morte

!J

111 FOCUS Non divinizzare

291 7

mtJIfil ~~

~~

Vivere da epicurei Lettera a Meneceo

292

agorà PROBLEMI

LABORATORIO

293

Impero

322

Rielaborare, discutere, argomentare 32 5

Stoicismo

Ordine del mondo e vita saggia 294

agorà PROBLEMI

Zenone, Cleante e Crisippo FOCUS Il ciclo cosmico degli stoici FOCUS C'è libertà morale nel mondo stoico? 299

Il VITA E OPERE DI

Vivere da stoici Diogene Laerzio Vite di filosofi

300

Retorica

Rielaborare, discutere, argomentare331

Plotino

Filosofia come

30 1

LABORATORIO

326

332

, j il VITA E OPERE DI Platino Il FOCUS Il dualismo

agorà DIBATTITI

l,~>.

FOttUS La dottrina della trasmigrazione delle anime Le fonti attribuiscono al pitagorismo la dottrina della metempsicosi (dal greco metempsjchosis, "passaggio delle . ") . amme Influenzata dall' orfismo e forse dalle religioni orientali, essa sosteneva la trasmigrazione o reincarnazione delle anime: l'anima, di origine divina, per potersi liberare dalla prigionia del corpo in cui è stata obbligata a incarnarsi a causa di una

colpa originaria, e in cui si trova come in una tomba, deve passare attraverso molte vite e trasmigrare in corpi successivi, sia animali, sia umani, fino a giungere alla purifìcazione finale (catarsi), dopo la quale potrà tornare alla patria celeste. Giustificato da questa teoria era forse il divieto, in vigore tra i pitagorici, di cibarsi della carne di quegli animali in cui poteva trovarsi incarnata un'anima. orfismo

pitagorismo cammino di conoscenza e studio (il sapiente come incarnazione suprema dell'anima purificata)

pu.rl6cazione deU'anima

apertura mistica alla rivelazione divina attraverso pratiche misteriche e iniziatiche

1. La filosofia nella Grecia classica

37

modello della musica, numero e armonia. Per questo essi videro nella scienza del numero la via per la conoscenza della natura più profonda delle cose: il numero rende intelligibile la realtà, in quanto ne rivela la struttura quantitativa, geometrica. I numeri esprimono la "sostanzi' delle cose e ad ogni cosa corrisponde un numero: dunque la natura è ordinabile e misurabile attraverso la matematica. Non estranea a queste considerazioni fu anche la rilevazione dell'importanza dei numeri nei fenomeni della vita: le stagioni e gli anni, i mesi e le ore, i cicli naturali seguono infatti un tempo che è regolato da numeri.

4.' La dottrina dei numeri: pari, dispari, • • par1mpar1 Secondo i pitagorici, tutte le opposizioni tra le cose vanno ricondotte a opposizioni tra numeri. I.:opposizione numerica fondamentale è quella tra pari e dispari: pari è quel numero che può essere diviso in due parti uguali, entrambe pari o entrambe dispari; una volta diviso un numero dispari, invece, se una sua parte è pari, l'altra è obbligatoriamente dispari. Si sottrae a questa distinzione l'Uno, che i pitagorici chiamavano parimpari, perché se è sommato a un numero pari diventa dispari e se è sommato a un numero dispari diventa pari. Per questo l'Uno ha in sé sia la natura del pari, sia quella del dispari. I pitagorici collegavano la distinzione tra pari e dispari a quella tra limite (péras) e illimitato (dpeiron). Nei numeri pari domina l'illimitato: per questo essi sono imperfetti; in quelli dispari domina il limite: per questo essi sono perfetti. Infatti, se immaginiamo i numeri come un insieme di punti geometricamente disposti, quando il numero dispari viene diviso in due parti, rimane sempre interposta tra esse un'unità che pone un limite alla divisione. Il numero dispari è dunque sempre delimitato. Al contrario, quando viene diviso in due parti il pari, rimane un campo vuoto, senza limite. La figura risultante in questo caso è aperta, non determinata e quindi imperfetta.

6

5

4

7

Per studiare le proprietà dei numeri, i pitagorici li rappresentavano disponendoli "a squadra", in modo da formare un angolo retto. È possibile generare tutti i numeri dispari partendo dall'unità e applicando ripetutamente la squadra.

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••••• ••••• ••••• • •••

Nel caso dei numeri pari, invece, se i punti vengono disposti in parti uguali lungo i lati, viene a mancare il vertice della squadra, ossia l'elemento divisore. I numeri pari erano considerati "numeri rettangolari", quelli dispari "numeri quadrati". Infatti, se, come nella figura a sinistra, disponiamo a squadra attorno al numero uno le unità costituenti i numeri dispari (3, 5, 7 ecc.), otterremo sempre un quadrato. Viceversa, se, come nella figura a destra, inquadriamo le unità costituenti i numeri pari (2, 4, 6 ecc.), ne risulterà sempre un rettangolo. A ogni numero corrisponde una figura geometrica determinata: l'uno è il punto, il due la linea, il tre il triangolo (per i pitagorici "figura piana primissimi'), il quattro il tetraedro (''figura solida primissimi').

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e i pitagorid

5. Sui numeri si fonda farmonia del cosmo I pitagorici individuarono corrispondenze magico-religiose tra i numeri e i fenomeni della vita: il numero uno esprime l'intelligenza, immobile e identica a se stessa; il due la mobile opinione, che oscilla incerta verso direzioni opposte; il quattro o il nove (il quadrato del primo numero pari e di quello dispari) rappresentano la giustizia; il cinque il matrimonio, perché unione del primo pari e del primo dispari; il sette è il tempo critico (kairos) dei periodi cruciali della vita umana (parto settimino, cambio dei denti a sette anni, pubertà a quattordici, maturità a ventuno). Il dieci è, infine, il numero perfetto, rappresentato da un triangolo equilatero, su cui i pitagorici erano soliti giurare. Raffigurato come un "numero triangolare", esso rappresenta la mistica decade (tetractys): formato dai primi quattro numeri, contiene egualmente il pari (quattro numeri pari: 2, 4, 6, 8) e il dispari (quattro numeri dispari: 3, 5, 7, 9) .

• •• ••• ••••

Dieci erano anche le opposizioni fondamentali: limitato/illimitato, dispari/pari, uno/molti, destra/sinistra, maschio/femmina, luce/tenebra, buono/cattivo, immobile/mobile, retta/curva, quadrato/rettangolo. Attraverso questa tavola dei contrari, la realtà veniva divisa in due campi opposti. Dalla parte del dispari (numero limitato, perfetto) stavano le determinazioni positive; da quella del pari (numero illimitato, imperfetto) quelle negative. Da queste opposizioni scaturisce l'armonia esistente tra le cose, legge dell'universo che trova la sua espressione piu sublime nella musica, il modello dell'armonia universale~.

6.

Per l'armonia e l'ordine che egli vedeva in tutte le cose, Pitagora fu forse il primo a chiamare l'universo "cosmo", parola che in greco significa originariamente "ordine".

n problema delfincommensurabile

Con i pitagorici, l'universo non viene piu visto come ricettacolo di forze oscure, ma diventa comprensibile razionalmente. La tradizione attribuisce tuttavia ai pitagorici la scoperta dell'incommensurabile: essi avrebbero scoperto l'esistenza di grandezze che non hanno una misura comune e il cui rapporto (per esempio, quello tra il lato e la diagonale del quadrato) non può essere espresso da una frazione con numeratore e denominatore interi. Ciò costituiva una "scandalosa eccezione" alla teoria del numero come arché, in grado di minare la dottrina dei pitagorici, fondata sulla convinzione che il rapporto tra grandezze potesse sempre essere espresso mediante numeri interi. Non a caso, a proposito di queste grandezze, i pitagorici parlarono non solo di "incommensurabile", ma anche di "irrazionale": esse infatti sfuggivano al criterio pitagorico di razionalità. Le testimonianze raccontano dello scandalo suscitato dalla divulgazione di questa scoperta, a opera forse di Ippaso, il quale, per questo, fu cacciato dalla comunità e forse ucciso.

verifica

a

Ccmoscenza dei termini Definisci: metempsicosi, numero, limite/illimitato, armonia, incommensurabile.

bcomprensione di concetti e relazioni 1 Quali erano i rituali e le regole morali in uso nelle scuole pitagoriche? 2 Che cosa indicava la distinzione fra discepoli "acusmatici" e "matematici"?

3 Che cosa afferma la dottrina della metempsicosi? 4 Quale concezione del numero avevano i pitagorici? 5 Qual è, per i pitagorici, il rapporto fra numero e figura geometrica? 6 Che cosa caratterizzavano, rispettivamente, il pari e il dispari nella dottrina pitagorica? 7 Perché la scuola pitagorica adottò il termine "cosmo" per indicare l'insieme dell'universo? 8 Perché la "scoperta" dell'incommensurabile mandò in crisi il pitagorismo? 1. La filosofia nella Grecia classica

39

Lezione Profilo

Rntarh



1.

Temi

Concetti-cltit:tve

*L'uomo come problema filosofico* La critica del sapere enciclopedico* 11/ogos come legge, ragione e discorso* L'identità di linguaggio e realtà* La lotta e l'unità dei contrari *L'armonia come legge del divenire* Il fuoco come simbolo del divenire universale

logos, contrari, polemos, armonia, divenire, fuoco

1. I:uomo come problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . _....,

~ Ricorda c::he... La filosofia nasce come ricerca razionale sul principio della natura, rispondendo alle domande: "Che cosa sono le cose?", "Qual è la loro origine?".

La filosofia di Eraclito di Efeso risente dell'influenza sia dei pensatori ionici, in particolare di Anassimandro, sia della scuola pitagorica. Egli non può tuttavia essere considerato un semplice prosecutore della scuola di Mileto. La sua è piuttosto la figura di un pensatore isolato, senza maestri e senza una vera e propria scuola. Eraclito stesso dice di non essere stato discepolo di alcun maestro, tranne che di se stesso. Punto di partenza della filosofia di Eraclito è l'uomo. Come i filosofi precedenti, anch'egli si interroga sui principi del cosmo e sulle leggi della natura~. ma l'uomo, per la prima volta, diventa l'elemento determinante di questa ricerca. Per Eraclito, infatti, la verità va cercata in primo luogo dentro di noi: solo chi impara a vedere nella propria anima può dirsi un uomo saggio. La maggior parte degli uomini tuttavia è ignara di questa verità. Essi infatti non riescono a capire la natura reale delle cose che li circondano e si lasciano ingannare dalle apparenze: tra gli eventi che accadono tutti i giorni, si muovono con indifferenza, in modo superficiale, spinti solo dall'abitudine, incapaci di comprendere la verità. Essi vivono come in un sogno, in un mondo di cose a loro estranee.

2. La criti~ca d,el sapere enci~clo;.P~ed:l«:o perTmete era l'acqua per Anassimand.ro l'dpeiron per Anassintene l'aria per i pimgorid il numero

lfoèus "~--~-- -,~·"'

Eraclito critica non solo la mentalità comune degli uomini, ma anche i sapienti del suo tempo, senza risparmiare poeti, storici e i filosofi che lo hanno preceduto. Essi sono "multiscienti", ma la loro polymathfa (dal greco polys, "molto" e la radice math-, "sapere" = sapienza molteplice) non riesce a cogliere la verità. La loro sapienza non insegna infatti a pensare; conduce a conoscenze svariate, ma disordinate e superficiali. Gli esperti di tecniche e di discipline particolari conoscono molte cose, ma non il logos, la legge universale che governa il mondo naturale e umano. La loro conoscenza è dunque parziale. Chi invece conosce illogos ha una visione complessiva della natura.

Filosofi contro filosofi

Nella sua critica contro i cosiddetti "sapienti", Eraclito mette sullo stesso piano Omero e Archiloco, Esiodo ed Ecateo di Mileto: nei loro scritti, costoro hanno parlato di tutto- di morale, astronomia, religione-, ma non sono stati capaci di cogliere la verità delle cose. Più grave, secondo

40

Eraclito, è la colpa di Pitagora: egli infatti godeva fama di grande sapiente e, in quanto filosofo, doveva, più degli altri, prestare ascolto allogos. Per Eraclito, egli non era tuttavia un vero filosofo, quanto piuttosto «l'iniziatore della schiera di coloro che ingannano con le loro chiacchiere».

VITA E OPERE DI ERACLITO • Eraclito nacque verso il 540 a.C. a Efeso, colonia ateniese dell'Asia Minore, da famiglia nobile. Morì verso il 480 a.C. Secondo Diogene Laerzio, Eraclito "fiorì" infatti intorno al500 (con questa espressione i greci indicavano l'età della maturazione di un uomo,

intorno ai quarant'anni), all'epoca della sessantanovesima olimpiade. Questa datazione fa di Eraclito un contemporaneo di Parmenide. • Le notizie sulla sua biografia sono poche. Le leggende lo presentano come un uomo altero e superbo, ostile al regime democratico e critico dei costumi degli abitanti della sua città,

che avversò per aver esiliato l'amico Ermodoro. •Non prese parte alla vita politica e quando i suoi concittadini gli chiesero di stendere la nuova costituzwne della polis rifiutò. Abbandonò infine Efeso e si ritirò nel tempio di Artemide, dove visse in contemplazione e poi, negli ultimi anni, sui monti, dove si cibò

di erbe e di verdure e morì di idropisia. • Quasi sicuramente conobbe il pensiero di Pitagora e di Senofane, filosofi che egli cita nella sua opera. Non si ha notizia invece che fosse a conoscenza del pensiero di Parmenide, autore a cui non dedica alcuna citazione, almeno nei frammenti a noi pervenuti.

3. Illogos: realtà, ragione, linguaggio Il termine logos ha in Eraclito tre significati principali: l. Logos come legge. Innanzitutto logos designa la legge generale del cosmo, l'armonia e l'ordine a cui obbediscono sia il mondo naturale, sia quello umano. In questo senso, logos è contemporaneamente legge divina e principio razionale interno alla natura, secondo cui tutte le cose nascono e muoiono: tutto si produce in forza di questo logos eterno, in quanto tutto si conforma alla legge che esso esprime. Esso è legge unitaria, poiché esprime l'unità sottostante all'apparente molteplicità di tutto ciò che accade. 2. Logos come ragione. In secondo luogo, logos è la ragione umana che comprende e spiega la legge del mondo. È il «pensiero che è a tutti comune», che rispecchia il logos universale e indica all'uomo la via della vera sapienza, accordando la sua anima con la legge divina.

' . 'fi1ca "d'tscorso ", "paro la". N el . In fime, wgos stgm 3. L ogos come dtscorso. frammento con cui forse iniziava l'opera eraditea, logos è la parola stessa di Eraclito (vedi Lezione Testo 5 Gli aforismi di Eraclito). In un senso più vasto, logos è la parola che annuncia la verità. Essa manifesta e rende intelligibile la legge che governa il mondo. Illogos, in quest'ultimo senso, è ciò che dà espressione al nostro intelletto (noùs). Un logos privo di noùs è vuoto, falso. Logos (linguaggio) e noùs (intelletto) sono gli strumenti attraverso i quali l'uomo ricerca la verità.

4. La via della verità Non tutti gli uomini però sono guidati da un giusto uso del pensiero e del linguaggio. Eraclito sottolinea anzi l'insipienza dell'umanità. Illogos si offre all' ascolto di tutti, ma i più non sanno né vogliono ascoltarlo; piuttosto che rivolgere il loro sguardo alla legge che è principio di ogni cosa, essi, come se vivessero in un sogno, si arrestano alle loro opinioni private, «trastulli di bimbi», che li allontanano dalla verità. Per questi motivi illogos non trova espressione nel linguaggio abituale degli uomini, ma ne richiede uno che sia in grado di manifestarlo adeguatamente. Questo linguaggio è quello della filosofia, che Eraclito distingue sia dai saperi tecnici particolari, sia dal senso comune degli uomini. Con Eraclito la filosofia si costituisce come un sapere specifico, che conduce alla verità. Filosofo è dunque colui che segue la via della verità~. Questo sentiero non può essere percorso senza fatica e solo pochi saranno in grado di farlo. Chi sceglierà di percorrerlo sarà tuttavia il migliore.

~

Ricorda che ...

Secondo la tradizione, il primo filosofo a definirsi tale fu Pitagora.

1. La filosofia nella Grecia classica

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Confronti Se Eraclito è il filosofo del divenire, Parmenide di Elea sarà il filosofo dell'essere, unico, immobile ed eterno.

5. I:identità di linguaggio e realtà Eraclito è il primo filosofo - insieme con Parmenide di Elea - a porre esplicitamente il problema del rapporto tra realtà e ragione. Tra i due ambiti esiste, per il filosofo di Efeso, una stretta connessione. Essi obbediscono infatti alla stessa legge. Poiché il logos esprime sia la legge interna al mondo, sia la ragione in grado di comprenderla, esso costituisce anche il fondamento del linguaggio. Quest'ultimo è, di conseguenza, "vero logos" quando spiega il principio più profondo delle cose. Per questo Eraclito adopera lo stesso termine per denominare sia la legge della realtà, sia il pensare e il parlare degli uomini. In questo modo egli esprime quell'unità tra uomo e natura e quella connessione tra realtà, verità e parola (cioè tra il piano oggettivo della realtà, quello logico del pensiero e quello linguistico), che è il tratto caratteristico della filosofia presocratica.

6. Polemos: la lotta e funità dei contrari ~

Ricorda che ...

Concordia/discordia; dirittofcurvo; immortali/mortali; guerrafpace; giorno/ notte; svegliofdormiente; giovane/vecchio; giusto/ ingiusto; malattiafsalute; freddofcaldo; umidofsecco sono alcune delle coppie di opposti che compaiono nei frammenti eraclitei.

Confronti Già Anassimandro "aveva pensato che la vita fosse possibile grazie all'opposizione di elementi contrari.

Quale verità enuncia il logos? Per Eraclito la realtà si presenta come una immane raccolta di elementi contrari ~ perennemente in lotta tra loro. Ogni aspetto della realtà, il divenire delle cose e il loro continuo trasformarsi, sono determinati dalla lotta dei contrari. La guerra è dunque la vera legge che presiede alla vita di tutte le cose. «Polemos (la guerra) - scrive Eraclito - è padre di tutte le cose, di tutte re». Per Eraclito i contrari non sono ciascuno per se stesso, isolati: pur nella lotta, ciascun elemento è inscindibilmente unito al suo opposto. Molti ritengono che un contrario possa esistere indipendentemente dal suo opposto: si crede così che il bene possa esistere senza il male, il giorno senza la notte, la salute senza la malattia. Questa convinzione è del tutto ingenua. A essa Eraclito oppone la teoria dell'unità degli opposti, secondo la quale ciascun contrario è strettamente legato al suo opposto. Tale legame è determinato proprio dal fatto di essere l'uno il contrario dell'altro. Ogni coppia di opposti esprime infatti una complementarità. E solo in virtù del rapporto reciproco che li unisce, i contrari acquistano un significato. In questo senso, essi sono momenti opposti di una stessa realtà, di una stessa "unità". Se il bene non si opponesse al male, il giorno alla notte, la salute alla malattia, la vita alla morte, non si avrebbero bene, giorno, salute, vita.

Alcuni esempi di unità dei contrad. contrari dèi/uomini schiavi/liberi

"guerra, lottà': l'armonia e l'unità sono risultanti dalla reciproca tensione e dalla lotta dei contrari

malattia/salute fame/ sazietà fatica/ riposo

"correlatività": non è possibile conoscere correttamente un contrario senza tener conto dell'altro. I contrari si condizionano reciprocamente: l'uno presuppone l'altro

in su/in giù

acqua pura/acqua impura

vivente/ morto sveglio/dormiente

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causa dell'unità

"compresenza in un'unica cosà': i contrari sono uniti in quanto sono "compresenti" nel medesimo oggetto: per esempio, una via, un cerchio una medesima cosa, per esempio il mare, nasconde una separazione tra contrari, dovuta ai differenti punti di vista dell'osservatore esterno (per esempio uomini e pesci) "convertibilità": una cosa si trasforma necessariamente nel suo opposto

Era dito

lfo> «Congiungimenti sono intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose.» «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell'arco e della lira.»

l. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Profilo

ssere e non essere Temi

Colfcettt~cltitJve

*Il problema della verità e la definizione dell'essere* La via dell'essere e la via del non essere* La fìlosofìa come ontologia *Il primato della conoscenza razionale su quella sensibile* L! identità di essere, pensiero e linguaggio* La terza via: l'apparenza *l sette attributi dell'essere

essere, non essere, nulla, ente, apparenza, opinione, ontologia

1. Il problema della verità

~ Ricorda che ... Due sono i problemi fondamentali di Parmenide: il problema dell'essere delle cose e il problema di come poter garantire che i nostri discorsi su queste ultime conducano alla verità.

Con Parmenide di Elea la filosofia perviene a una prima e radicale soluzione del problema della verità (alétheia). I.:influenza di tale soluzione sul pensiero greco successivo sarà immensa, tale da esercitare un'attrazione profonda su tutta la filosofia posteriore. Parmenide afferma che tra la realtà, la ragione umana e il linguaggio che l'uomo adopera per parlare delle cose esiste una sostanziale identità. Questi ambiti obbediscono a una medesima legge che è contemporaneamente una legge del pensiero e una legge della realtà. In secondo luogo, Parmenide pone il problema del metodo attraverso il quale l'uomo può avere un'esperienza non illusoria della realtà e può imparare a distinguere ciò che è vero da ciò che è falso ~. Riprendendo una distinzione già del pitagorismo e della dottrina eraditea, egli individua due forme di conoscenza: il pensiero e i sensi. Solo il pensiero, per il filosofo di Elea, è in grado di conoscere la realtà per ciò che essa veramente è; i sensi, invece, si arrestano all'apparenza (doxa) delle cose e presentano all'uomo una mescolanza contraddittoria di illusioni.

2. Il poema filosofico Sulla natura ~ Ricorda che ... Al tempo dei presocratici l'abitudine di intitolare le opere letterarie era poco diffusa. La titolazione dell'opera di Parmenide si deve alla scuola aristotelica che intendeva riferirsi agli scritti dei primi filosofi, che Aristotele chiamava "fisici", studiosi della

physis.

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Parmenide espose la sua filosofia in un poema in versi, intitolato dai commentatori Sulla natura (Perì physeos) ~. Di esso ci restano 154 versi, raggruppati in 19 frammenti, che sono stati conservati da Sesto Empirico, filosofo vissuto tra il I e il II secolo d.C., e da Simplicio, filosofo del VI secolo d.C. Il poema consiste di due parti, rispettivamente dedicate all'esposizione della verità (alétheia) e delle opinioni (doxai) degli uomini, precedute da un Proemio che possediamo integralmente. La prima parte è ricostruibile in ampia misura sulla base dei frammenti conservati. Della seconda, invece, sono stati tramandati solo alcuni brevi frammenti. Il Proemio costituisce la cornice narrativa attraverso cui il lettore viene introdotto al nucleo filosofico esposto nelle parti successive. Con un linguaggio di grande suggestione, che riecheggia lo stile poetico di Esiodo e della poesia orfica, Parmenide racconta un viaggio, che immagina di compiere in giovane età, verso la dimora della dea Dike (la Giustizia), che possiede le chiavi della verità e che può insegnare al filosofo come distinguere il discorso vero da quello falso. Attraverso le parole rivelatrici della divinità, Parmenide intraprende un cammino di allontanamento dal mondo degli uomini (fatto solo di ingannevoli apparenze), cammino che lo porta ad apprendere l'esistenza di un altro mondo, il regno della verità, cui solo il sapiente, guidato dagli dèi, può accedere.

Parmenide VITA E OPERE DI PARMENIDE

• Parmenide nacque aElea, colonia tirrenica della Magna Grecia, in prossimità di Paestum, intorno al515-510 a.C., secondo Platone o, meno probabilmente, intorno al540 a.C., secondoApollodoro. • Pochissime sono le notizie certe sulla sua vita. Di estrazione aristocratica, svolse ope-

radi legislatore. Il468 è la data probabile di stesura del Perì physeos. Intorno al450-445 si recò ad Atene, con il discepolo Zenone, forse per stringere un patto di alleanza con Pericle. • La sua formazione filosofica fu influenzata dal pitagorismo. Per Platone e Aristotele fu discepolo di Senofane di

Colofone, ma ciò è ritenuto oggi assai dubbio. Per alcuni il suo insegnamento fùosofico si svolse in diretta polemica con Eraclito; per altri, invece, fu Eraclito a subirne l'influenza. Nessuna delle due tesi è stata comunque provata con sufficiente attendibilità. Morl attorno ai 75 anni.

3. Le dottrine della verità e deJJopinione Segue al Proemio la prima parte del poema, in cui attraverso le rivelazioni di Dike, il filosofo riceve l'iniziazione alla verità. Mediante un esame preliminare delle vie o modi di ricerca possibili che si aprono al filosofo, egli giunge a escludere quei metodi di pensiero fallaci, che allontanano la nostra ragione dal vero. Viene poi esposta l' • ontologia parmenidea; ossia si procede alla definizione dell' essere e delle sue proprietà fondamentali. Infine, la seconda parte dell'opera, la più frammentaria e di difficile comprensione, riguarda la dottrina della doxa e contiene una filosofia della natura, nello stile del pensiero ionico. La partizione dell'opera è pertanto la seguente: l. un prologo, in forma narrativa, di argomento mitico-allegorico; 2. una parte preliminare, metodologica, che contiene la posizione parmenidea sulla verità; 3. la presentazione dell'antologia parmenidea, organizzata intorno alla definizione delle proprietà dell'essere; 4. un'esposizione frammentaria di un embrione di filosofia della natura.

e

Lessico

Il termine deriva dal greco an (ente) e logos (discorso) e indica lo studio dell'essere e dei principi primi della realtà.

0NTOLOGIA

4. La riflessione su ciò che è e ciò che non è La filosofia di Parmenide inizia con un esame delle possibilità del pensiero e del linguaggio. Parmenide individua due vie di ricerca, due modi opposti di pensare, che ritiene i soli logicamente possibili: l. uno «che dice che è e che non è possibile che non sia»; 2. l'altro «che dice che non è e che è necessario che non sia».

roà=us ~_,/

Poesia e filosofia

Il poema di Parmenide è la prima opera filosofica che, seppure in maniera parziale, è giunta sino a noi nella sua forma originale. Nel V secolo a.C., i filosofi conoscevano ancora assai poco l'uso del testo scritto: è quindi certo che la filosofia di Parmenide abbia ricevuto anche un'esposizione orale, probabilmente più ampia di quanto espresso nel libro. r opera è un poema in versi. Può sembrare strano che la filosofia si servisse della lingua poetica e della forma narrativa. Occorre tenere presente che, fino al V secolo a.C., la poesia era assai più sviluppata dell~ prosa. Solo con l' affermarsi della retorica quest'ultima troverà una propria caratterizzazione autonoma. Per questo i primi filosofi si esprimono frequentemente in versi. Nel linguaggio poetico essi trovano un repertorio di significati già sperimentati e com-

prensibili. Nel precedente periodo preomerico e omerico, tra il1200 e il 700 a.C., la cultura e le tradizioni venivano trasmesse oralmente: per poter conservare quanto appreso in forma stabile e sicura, ci si affidava alla memoria e all'impiego di ritmi poetici. A partire dall'VIII secolo, con l'introduzione della scrittura alfabetica, la poesia viene fissata per iscritto, consolidando il suo ruolo di forma privilegiata di trasmissione del sapere. I primi filosofi, nel VI-V secolo a.C., si trovano dunque a operare nel momento di passaggio da una cultura orale e legata alla narrazione poetica a una nuova cultura scritta. _ Di qui deriva il carattere duplice dell'opera dei presocratici: essi sono artefici di una cultura diversa da quella mitica dei secoli precedenti, eppure adoperano ancora lo stile e le immagini mitologiche tipici della cultura orale. 1. La filosofia nella Grecia classica

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È possibile distinguere due funzioni principali del verbo "essere" (èinai) e della sua terza persona singolare "è"

(est!): l. una funzione predicativa, quando il verbo essere è la copula di un giudizio. La sua funzione in questo caso è di unire un predicato (P) a un soggetto (S). Per esempio: "Socrate è mortale" (S è P); 2. una funzione esistenziale, quando serve ad affermare l'esistenza di qualcosa. Per esempio: "Socrate è" (cioè esiste realmente). Parmenide non distingue mai tra queste due diverse fun-

~ Ricorda che ...

Ciò che non è non può essere vero, non può venir pensato, né espresso con il linguaggio. Esso non esiste.

• Lessico Tutto ciò di cui possiamo dire "che è", di cui affermiamo cioè l'essere. L: acqua è, l'aria è, il fuoco è.

ENTE

~ Ricorda che... Parmenide non cessa di riferirsi alle cose concrete, agli elementi della natura (di cui si erano occupati gli altri presocratici che hai finora studiato), ma li pensa in quanto essi sono, in quanto enti.

Queste due vie (quella dell'essere e quella del non essere) sono per Parmenide le' sole pensabili. Tuttavia solo la prima è percorribile e tale da condurre alla verità; la seconda è invece una via impossibile e tale da condurre unicamente all'errore. Quando noi parliamo o pensiamo, infatti, il nostro linguaggio e il nostro pensiero presuppongono necessariamente che ciò di cui essi si occupano "sià'. Ogni nostra affermazione, ogni nostro giudizio sono in primo luogo un dire e un pensare che ciò su cui si afferma e si giudica è. In altre parole, qualsiasi cosa per poter essere pensata, deve, prima di ogni altra determinazione, "essere". Al contrario, pensare ed esprimere ciò che non è, il "non essere", appare impossibile. Ciò che è e che «non è possibile che non sia» è dunque quell'essere che è implicito nel pensare e nel dire degli uomini. Il pensiero pensa obbligatoriamente ciò che è, cioè l'essere delle cose; non pensa mai il non essere, cioè le cose in quanto non esistenti. Pensare il non essere equivale a non pensare, a pensare il nulla ~. Pertanto, conclude Parmenide, solo l'essere può venir pensato ed espresso con il linguaggio.

5. La filosofia come antologia I.:originalità di Parmenide consiste nell'aver rivolto attenzione ai presupposti che agiscono quando usiamo la parola "essere", cioè quando compiamo una delle azioni apparentemente più banali e ordinarie del nostro modo di parlare. Per i filosofi ionici il termine • ente non assume un significato diverso dalle parole che indicano le cose concrete e reali. Volti alla ricerca dell' arché, essi danno per scontato che le cose di cui stanno parlando siano. Solo con Parmenide, la filosofia diventa invece discorso sull'essere: essa si accorge cioè delle cose non in quanto cose, non di questo o quell'ente particolare, ma- come dirà Aristotele - dell' ente in quanto ente ~. Questa esperienza dell'essere è precedente rispetto a ogni esperienza e cono-

Per indicare ciò che è e ciò che non è, Parmenide usa anche le espressioni "ente" (in greco arcaico to eon) e il suo negativo "non ente" (to me eon). Gli enti sono le cose concrete e reali del mondo. Esse non sono tuttavia indicate nella loro particolarità di cose, ognuna differente dalle altre, bensl definite rispetto alloro fondamento comune, cioè rispetto a quel carat-

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zioni. Come rileverà in seguito Aristotele, a fondamento del ragionamento parmenideo sta infatti un uso del termine "essere" ancora indeterminato. Esso viene inteso in un solo senso (monachòs) e non secondo i molti sensi (pollachòs) che la parola può assumere. Nel IV secolo a.C., Platone e Aristotele sentiranno la concezione parmenidea dell'essere come condizionata negativamente da questa ambiguità originaria e cercheranno quindi di distinguere i vari sensi del termine in un modo logicamente più coerente. Ciò li porterà a negare la contrapposizione assoluta tra essere e non essere.

tere generale che le rende tutte identiche. Questo carattere è appunto quello di essere cose che sono, enti. Il greco to eon viene tradotto a volte genericamente con "essere". Ciò può produrre qualche confusione, in quanto non viene in questo modo rilevata la differenza tra "essere" inteso come verbo ed "essere" inteso come sostantivo, appunto l'ente.

scenza: noi possiamo conoscere le cose solo se le comprendiamo innanzitutto in quanto esse sono. Questa attenzione rivolta all'essere delle cose verrà chiamata, nel corso della storia della filosofia, con il termine ontologia. Essa compare per la prima volta con Parmenide, a cui si riferiranno le due antologie fondamentali del pensiero antico: quella platonica e quella aristotelica.

6. Il primato della conoscenza razionale su quella sensibile Alla contrapposizione tra essere e non essere, Parmenide fa corrispondere quella tra pensiero e sensi. Nei confronti delle cose, il pensiero segue infatti una via diversa da quella percorsa dai sensi. Questi ultimi si fermano alla percezione di ciò che appare; ma le apparenze si mostrano ora in un modo, ora nel suo contrario, mescolando continuamente essere e non essere. Il pensiero, invece, è in grado di cogliere l'essere in modo stabile e certo. Si può infatti pensare solo ciò che è. Pensare, anzi, significa pensare che una cosa è, mai che non è. Parola e pensiero non possono mai esprimere ciò che non è. Parmenide afferma dunque il primato della conoscenza razionale su quella sensibile. Legati alla mutevolezza di un mondo in continua trasformazione, i sensi offrono all'uomo una visione menzognera della realtà. Il pensiero, invece, supera le apparenze e rivela la legge profonda che governa la natura: solo con un atto del pensiero l'uomo ha la possibilità di distinguere, senza mescolanze errate, ciò che è e ciò che non è.

7. ridentità di essere, pensiero e linguaggio Se l'essere viene appreso con il pensiero, questo a sua volta trova la necessaria espressione attraverso il linguaggio. Una legge profonda collega il pensare (noèin) e il dire (léghein): il linguaggio si presenta infatti sempre come affermazione dell'essere delle cose. Tre sono quindi le tesi fondamentali della filosofia parmenidea: , l. tesi ontologica, l'essere è e il non essere non è

2. tesi gnoseologica, relativa cioè alla conoscenza: l'essere è conoscibile solo attraverso il pensiero e solo ciò che è è pensabile 3. tesi linguistica, per cui l'essere è il riferimento del discorso, trova cioè espressione nel linguaggio Per Parmenide l'identità di essere, pensiero e linguaggio costituisce la legge fondamentale della realtà~. r.:ordine del mondo coincide con l'ordine del pensiero, le leggi della realtà con le leggi del pensiero e del linguaggio. Conoscere ed essere sono la medesima cosa, perché la conoscenza è vera solo se è conoscenza di ciò che è. I principi metodologici affermati da Parmenide si possono riassumere così: 1. esiste un metodo che mette l'uomo in grado di pervenire alla verità; 2. seguendo tale metodo, è possibile conoscere l'essere, senza farsi fuorviare dalle false indicazioni che conducono al nulla; 3. questo metodo insegna che è con il pensiero, e non con i sensi, che l'essere viene appreso; 4. l'essere è dunque conoscibile mediante il pensiero (noùs) ed è esprimibile con il linguaggio (logos).

~

Ricorda che...

Nel poema Sulla natura, l'identità fondamentale di essere e pensiero viene enunciata in un breve frammento, in cui Parmenide scrive: «Lo stesso è il pensare e l'essere>>. Ritorna in un altro frammento che recita: «È necessario dire e pensare che l'essere è>>. Viene infine formulata in forma estesa in un terzo frammento: «È la stessa cosa pensare e pensare che è: perché senza l'essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare>>.

1. La filosofia nella Grecia classica

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8. Le tre vie

~ Ricorda che ... Secondo Parmenide, la prima via è logicamente coerente; la seconda è impossibile e la terza è percorribile solo sulla base di premesse confuse e non coerenti. Di quest'ultima sono preda gli uomini comuni, che formulano le proprie opinioni in base ai sensi.

Attraverso questi principi, si articola la prima via, la via della verità. La seconda via, la via dell'errore, è al contrario quella che afferma l'esistenza del nulla, che dice cioè che il non essere è ed è necessario che sia. Tale via si presenta sul piano logico come un errore. Infatti il nulla non esiste, non è pensabile, né esprimibile. Esiste tuttavia, per Parmenide, anche una terza via, la via dell' apparenza. Da essa, al pari che dalla seconda, occorre allontanarsi. Questa è la via percorsa da coloro i quali si affidano ai propri sensi. Costoro ragionano come se avessero una «doppia testa»: sulla base delle apparenze, ritengono in modo contraddittorio che l'essere e il non essere siano contemporaneamente identici e non identici. Ragionando in modo duplice, essi finiscono per ammettere l'esistenza e la pensabilità anche di ciò che non è: il nulla e l'essere vengono in questo modo erroneamente uniti ~. Il significato delle tre vie è riassumibile nel seguente schema:

Prima via

l'essere è

Seconda via

il non essere

Terza via

è

l'essere è e il non essere è

è la via dell'essere e della verità

è la via del nulla e dell'errore

è la via dell'apparenza, che afferma che essere e non essere contemporaneamente sono e non sono la medesima cosa

9. Gli attributi costitutivi dell'essere All'essere Parmenide attribuisce una serie di caratteri, che derivano logicamente dal fatto di pensarlo. Finora il concetto di essere era stato indagato da un punto di vista logico e linguistico. Ora esso viene "antologizzato", diventa cioè una realtà esistente: l'essere perde la sua natura verbale e acquista una natura sostantiva, di cui è quindi possibile individuare gli attributi. Questo momento della filosofia parmenidea ha fatto lungamente discutere gli studiosi. I.:argomentazione muove dalla premessa, fin qui guadagnata, secondo cui il non essere non è e non si può né dire, né pensare. Il pericolo che un errato accoglimento del non essere comprometta la conoscenza della realtà spinge Parmenide a una definizione delle proprietà dell'essere, proprietà che diventeranno il bersaglio della confutazione dei filosofi successivi. I.:essere (to eon) è: l. Ingenerato e imperituro. Se l'essere nascesse, infatti, dovrebbe nascere dal non essere, ma da "ciò che non è" nulla può provenire; se poi perisse dovrebbe scomparire nel non essere, ma il non essere, come si è detto, non esiste. Dunque l'essere non nasce, né muore, perché fuori di esso (prima e dopo) c'è solo il nulla. 2. Privo di passato e di futuro, vive in un eterno presente. Come potrebbe l'essere . ., "; se "sara"' esistere nel fu turo o essere stato nel passato.? se "era"aliora "non e' p1u allora "non e' ancora", mentre l' essere "'" e . Esso d unque non è nel passato, ne' nel futuro, ma esiste solo in un presente senza mutamenti. 50

Parmenide ,;.?-~'"'"~,

I(OG:US Copinione e il mondo naturale v# Il mondo concreto in cui viviamo può diventare oggetto della nostra conoscenza? Oppure la realtà naturale, molteplice e in continuo divenire, la cui esistenza è testimoniata dai sensi, dovrà essere considerata pura falsità? Nella seconda parte del suo poema, il filosofo di Elea afferma che il mondo sensibile è apparenza, doxa. Di esso non si avrà mai dunque una conoscenza vera, il che sarebbe impossibile, ma neppure una totalmente falsa,

bensl piuttosto una conoscenza verosimile, cioè apparentemente vera e quindi credibile. Conoscenze di questo tipo sono le opinioni che gli uomini formulano sul mondo naturale. Pur non essendo veritiere, esse sono comunque necessarie in quanto rendono l'uomo in grado di indagare la realtà in modo completo. Rispetto alla verità dell'essere, sono tuttavia conoscenze imprecise, imperfette.

3. Senza fine. Ciò che ha una fine non è più, il che, come si è appena visto, è assurdo. 4. Intero, continuo, indivisibile. I.;essere è intero e continuo; se infatti non lo fosse, ogni sua "frattura'' lo porterebbe a "confinare" con ciò che non è, con il vuoto; viceversa, esso ha la natura di un tutto omogeneo e compatto, privo di parti; infatti, se fosse diviso in parti, ognuna di esse si distinguerebbe dalle altre solo in virtù del non essere. 5. Unico. Se l'essere fosse non uno, ma molteplice, dovremmo necessariamente ammettere che ognuna di queste molteplicità non è le altre; ma, ancora una volta, non è possibile mai dire di "ciò che è" che "non è". 6. Immobile. Se l'essere si muovesse, vorrebbe dire che prima di muoversi non è ancora dove sarà dopo e, dopo essersi mosso, non sarà più dove era prima. Ma poiché, ancora una volta, il non essere non può essere detto, né pensato, l'essere non può che venir concepito come immobile. 7. Definito da tutti i lati e simile a una sfera. È necessario infatti che l'essere non sia infinito. Se lo fosse "mancherebbe di tutto", mentre esso non è manchevole di nulla. Poiché l'essere è limitato, esso non potrà che essere pensato secondo una forma (la sfera) che esclude da ogni parte qualsiasi mancanza o aumento d'essere.

Confronti Parmenide concepisce ·l'infinità come mancanza e quindi come '"non essere". Viceversa ciò che è finito è compiuto e perfetto. Per questo l'est sere viene descritto come limitato da ogni lato e simile a una sfera, secondo un'immagine di ' perfezione forse mutua•. ta dal pitagorismo.

verifica

a

Conoscenza dei termini

Definisci: essere, non essere, nulla, ente, apparenza, opinione, antologia.

bcomprensione di concetti e relazioni l Qual è, per Parmenide, lo strumento di conoscenza adeguato per cogliere la verità? 2 Quali sono i significati principali del termine "essere"? 3 Perché, secondo Parmenide, l'essere è il primo

e fondamentale oggetto del pensiero e del linguaggio? 4 Che cosa indica il termine "ontologia"? 5 Perché "pensare il non essere equivale a non pensare"? 6 Qual è il significato della cosiddetta "terza via"? 7 Perché l'essere, per Parmenide, è uno, indivisibile e immobile? 8 Perché, per Parmenide, il mondo sen~ibile è pura apparenza, doxa?

1. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Testo

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II viaggio verso la conoscenza

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• 468 a.C. ca

Il Parmenide Sulla natura

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• :poema. filosofico m versi

Il Proemio del poema parmenideo Sulla natura racconta un viaggio. Salito su di un carro guidato dalle figlie del Sole, il filosofo lascia le case della Notte (la città dei mortali) e giunge nel luogo dove una porta divide le vie della Notte e del Giorno, separando la luce dalle tenebre. Ne è guardiana la dea Dike (la Giustizia), che vieta il passaggio a chi non è degno di essere iniziato alla Verità. Dalla dea il viandante apprende di essere stato guidato lungo un cammino sconosciuto ai più, in cui imparerà a distinguere la Verità dalle opinioni dei mortali.

Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il [mio animo lo poteva desiderare 8 mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto [celebrata che per ogni regione guida l'uomo che sa. Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi corsieri che trascinano il carro, e le fanciulle [le figlie del Sole] mostrarono [il cammino. I.:asse nei mozzi mandava un suono sibilante, tutto in fuoco (perché premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall'altra) allorché si slanciarono le fanciulle figlie del Sole, lasciate le case della Notte, a spingere il carro verso la luce, levatisi dal capo i veli. Là è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno, E) e un architrave e una soglia di pietra la puntellano: essa stessa nella sua altezza è riempita da grandi battenti, di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono [e chiudono. Le fanciulle allora, rivolgendole discorsi insinuanti, la convinsero accortamente a togliere per loro la sbarra velocemente dalla porta. O La porta spalancandosi aprì ampiamente il vano dell'intelaiatura, i robusti bronzei FRAMMENTO l

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3

Il testo è costruito sul dualismo di luce e tenebra: due sono i mondi in cui si svolge l'azione (la tenebra delle case della Notte, la luce della dimora degli dèi); due sono i sentieri (uno che si diparte dalla Notte, uno che penetra nella luce del Giorno); duplice è la condizione umana (di chi giace nelle tenebre dell'ignoranza, come la massa dei mortali; di chi, come il filosofo, ha il privilegio dell'accesso alla luce, alla Verità).

4

Il viaggio di Parmenide è voluto non da un destino malvagio, ma dagli dèi: la Verità è un sapere divino, a cui

1

Parmenide non sa, ma è mosso dal desiderio, di conoscere. Filosofo non è chi già possiede la verità, ma chi la persegue, attraverso l'uso della ragione. La conoscenza viene intesa come un orientamento totale dell'uomo che impegna non solo l'intelletto, ma anche il desiderio.

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Il viaggio di Parmenide è voluto da una forza superiore e non può essere spiegato sulla base delle esperienze ordinarie degli uomini. La via che conduce presso la dea Dike è la via del sapere che consente al sapiente di attraversare tutte le regioni, ossia di esplorare tutti i campi della conoscenza.

il filosofo viene iniziato. Le figlie del Sole mostrano il cammino, spingono il carro verso la luce, persuadono Dike ad aprire la porta. Dike possiede le chiavi della porta che divide la via del sapere da quella dell'ignoranza. "Punisce", tenendo chiusa la porta; "ricompensà' aprendola. Quello di Parmenide non è tuttavia un viaggio mistico di ascesi, ma un cammino verso il sapere.



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ide assi facendo girare nei loro incavi uno dopo l'altro: gli assi fissati con cavicchi e punte. Per di là attraverso la porta subitamente diressero lungo la carreggiata carro e cavalli. La dea mi accolse benevolmente, con la mano la mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole: «0 giovane, che insieme a immortali guidatrici giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano, salute a te! Non è un potere maligno, quello che ti ha condotto per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli uomini), ma un divino comando e la giustizia: bisogna che tu impari [a conoscere ogni cosa, sia l'animo inconcusso della ben rotonda Verità nelle quali non risiede legittima sia le opinioni dei mortali, [credibilità. 0 Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi. G

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5 La dea annuncia al filosofo che egli dovrà imparare a conoscere sia la «ben rotonda Verità», sia le ) sono canti in onore di Dioniso; si tratta di componimenti o discorsi destinati a lodare qualcuno.

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In questa sequenza troviamo due motivi tipicamente socratici: l. ogni mestiere si basa su una specifica competenza tecnica. Nessuno è portatore di un sapere assoluto; ciascuno deve essere impiegato per quel che sa e può fare; 2. Socrate tuttavia preferisce non possedere alcun sapere tecnico specifico e quindi essere consapevole della propria ignoranza, piuttosto che, conoscendo una qualche arte particolare, credersi davvero un sapiente.

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Socrate dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m'è rimasto più tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema miseria per questo mio servigio del dio. Sappiate inoltre che quei giovani che hanno più tempo degli altri, i figlioli delle famiglie più ricche, si accompagnano volentieri con me, e si compiacciono di assistere a questo mio esame degli uomini; e più volte cercano imitarmi e si provano anch'essi per proprio conto a esaminare altrui. E allora, si capisce, grande abbondanza trovano di questi uomini che credono saper qualche cosa e sanno poco e niente; e cosl avviene che quelli che sono esaminati da loro si adirano con me e non con se stessi, e vanno dicendo che Socrate è uomo turpissimo e che corrompe i giovani: e se uno domanda loro, "Ma che cosa fa e che cosa insegna questo Socrate per corrompere i giovani", - non hanno niente da dire, perché non lo sanno; e solo, per non far vedere che sono nell'imbarazzo, dicono le solite cose che si sogliano dire contro tutti i filosofi, e che specula su le cose del cielo e di sottoterra, e che insegna a non riconoscere gli dèi, e che fa apparire migliore la ragione peggiore. La verità è che costoro si sono rivelati gente che non sa nulla e si dà l'aria di saper tutto; ma la verità, naturalmente, non la vorranno dire.» O

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6 La sapienza umana, rispetto a quella del dio, è poca cosa; l'uomo più sapiente è colui che, come Socrate, sa di non sapere nulla. Per poter esercitare la sua missione, Socrate smise di praticare il mestiere dello scultore, accettando un modesto aiuto economico dall' amico Critone.

7

Qui Socrate riassume i capi d'accusa del processo a suo carico, capi d' accusa non nuovi peraltro in quanto erano già stati usati contro Anassagora e Protagora. A questi ultimi forse Socrate si riferisce quando osserva che ad Atene si era soliti rivolgere tali accuse a «tutti i filosofi».

Platone, Apologia di Socrate (20c-23e), trad. it. di M. Valgimigli, in Platone, Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1988S, vol. I

laboratorio

a

Analisi del testo 1 Definisci le accuse rivolte a Socrate e per ognuna riassumi le argomentazioni difensive del filosofo. 2 Perché la professione socratica di ignoranza -«lo, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né molto » - viene posta da Platone all'origine delle calunnie contro il maestro? 3 Qual è il risultato dell'indagine che il filosofo compie per comprendere il responso dell'oracolo delfico? 4 Socrate si definisce «né sapiente, né ignorante». Che cosa significa questa affermazione?

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Riflessione l Esprimi una valutazione personale sulle accuse e sul comportamento processuale del filosofo, che tenga conto sia del contesto storico-politico, sia della personalità socratica. 2 lpotizza una diversa apologia che Socrate avrebbe potuto seguire, qualora avesse fatto suo il relativismo sofistico.

1. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Profilo

Socrate

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insegnamento socratico

Temi

Concett,~cltiave

*Le testimonianze su Socrate *L'ignoranza socratica: il "sapere di non sapere" *«Conosci te stesso»* La posizione politica di Socrate *Le accuse di empietà e di ateismo* Affinità e differenze con i sofìsti

sofistica, eristica, dialettica, logos, saggezza

1. Cignoranza socratica Le convinzioni filosofiche di Socrate sono per noi, in larga parte, irrimediabilmente perdute. Quel che ci è noto del suo pensiero ci è giunto solo per via indiretta, atttaverso le testimonianze dei filosofi a lui contemporanei o posteriori. Socrate, infatti, non scrive nulla: egli preferisce comunicare il proprio pensiero attraverso il dialogo con gli altri filosofi e con i giovani che seguono il suo insegnamento. Secondo un aneddoto riportato da Platone, è l'oracolo di D elfi, interrogato dall'amico Cherefonte, ad avviare Socrate verso la filosofia. Il responso dell'oracolo, secondo il quale «degli uomini tutti Socrate è il più sapiente», determina una svolta nella sua ricerca intellettuale. Le parole dell'oracolo sono infatti un enigma, per risolvere il quale Socrate, all'incirca a partire dal430 a.C., decide di intraprendere il suo cammino filosofico. Durante il processo, davanti ai suoi accusatori, il filosofo racconta, trent'anni dopo, questa fase decisiva della sua vita. Non credendosi un sapiente e tuttavia sapendo che l'oracolo non può mentire, egli interroga i più sapienti tra i cittadini: politici, poeti, tecnici. Non petviene tuttavia ad alcuna risposta soddisfacente: il sapere di costoro appare ristretto e specialistico, incapace di giungere alla verità.

2. «Conosci te stesso>> È invece interrogando se stesso che Socrate riesce a interpretare le parole dell'oracolo: quel che il dio intende dire è che la sapienza umana vale in realtà poco o nulla. Il più sapiente tra tutti è dunque proprio colui che, come Socrate, "sa di non sapere". Per il resto della sua vita, Soctate si dedicherà alla missione di rendere consapevoli gli uomini della loto "ignoranza", cosl da indurii ad avere cura della propria anima, secondo la presctizione dell'antico motto delfico

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Il problema Socrate: fonti e testimonianze

Le principali testimonianze su Socrate in nostro possesso sono quella del commediografo Aristofane, la fonte più antica; quella dello storico Senofonte; quella del discepolo Platone, la più completa e attendibile, che fa di Socrate il protagonista di quasi tutti i suoi Dialoghi, e infine quella di Aristotele. Tali testimonianze rivelano non poche discordanze e ci offrono ritratti assai diversi. Più che ricostruzioni obiettive,

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si tratta di interpretazioni, influenzate dalle personali convinzioni filosofiche di chi le esprime. Nessuna di esse ha carattere pienamente storico e nessuna ha valore assoluto. Abbiamo dunque diverse immagini del filosofo, a seconda delle tradizioni interpretative cui facciamo riferimento. In certa misura, si può dire che la figura di Socrate è stata "costruirà' dai suoi interpreti come uno dei più controversi ed enigmatici miti della storia della cultura.

«Conosci te stesso». Quale che sia la sostanza storica dell'episodio dell'oracolo (da molti messo in dubbio), attorno ai quarant'anni Socrate conosce una crisi intellettuale, che lo porta a criticare la cultura e la religione ufficiali e a spostare i suoi interessi dal mondo della natura, che lo aveva interessato nel primo periodo della sua vita, a quello dell'uomo. In particolare, Socrate si mostra insoddisfatto della filosofia di Anassagora che, pur ricercando la causa di tutte le cose, è in realtà incapace di parlare adeguatamente dell'uomo~. Se il metodo delle indagini naturalistiche è valido nel proprio ambito specifico, quello appunto della natura, la vita dell'uomo ha bisogno di un "altro metodo", rispetto al quale non basta la conoscenza che ci proviene dai sensi, ma è invece più conveniente utilizzare i ragionamenti e i discorsi (logoi).

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Ricorda che...

Per Anassagora, tutto in natura si genera a partire da «semi», principi di numero infinito che hanno in sé le caratteristiche di ciascuna cosa.

3. Socrate filosofo e cittadino Socrate partecipa ai principali eventi storici della polis ateniese. Prende parte alla guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), salvando la vita al giovane discepolo Alcibiade. A Delio, nel 424 a.C., combatte contro i beoti; ad Anfipoli nel 422 a.C., partecipa alla battaglia tra gli ateniesi guidati da Cleone e gli spartani capeggiati da Brasi da. Anche in guerra, non rinuncia alla meditazione: celebre l' aneddoto narrato da Platone in cui Socrate, al campo militare, «tutto assorto in qualche idea s'era piantato ritto lì, fino dall'alba, meditando ... E già era mezzogiorno e alcuni uomini se n'erano accorti e meravigliati dicevano l'un l'altro: "Socrate se ne sta lì impalato dall'alba in un qualche pensiero"». Le notizie circa il suo matrimonio sono contrastanti: a parere di alcuni ha una sola moglie, Santippe; per altri ne ha anche una seconda, Mirto. Ha tre figli: Lamprocle, Sofronisco e Menesseno. Platone tace sui rapporti tra il filosofo e Santippe; Senofonte descrive invece il rapporto come regolato da un misurato affetto~.

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Ricorda che...

La leggenda di una Santippe insopportabile, che non tollera che il marito stia tutto il giorno a discutere con gli amici, si deve ad Antistene, ma non è provata.

4. la posizione politica di Socrate Cittadino ateniese di estrazione non aristocratica, Socrate si avvicina alla politica con cautela. Nel 406-405 a.C., viene eletto membro del Consiglio dei Cinquecento ed entra nel Comitato dei pritani, dove si oppone al procedimento illegale con il quale si volevano giudicare i generali vincitori della battaglia navale delle Arginuse, accusati di non aver salvato i soldati rimasti in mare. Dopo la sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso, vive in disparte il periodo della dittatura dei Trenta tiranni, capeggiati da Crizia, e della guerra civile che ne segue (404 a.C.). Si oppone però a Crizia, che aveva fatto parte in precedenza della sua cerchia di amici, allorché questi gli comanda di arrestare il democratico Leonte. Nonostante ciò, quando viene restaurato il regime demoel'atico (403 a.C.), i legami che ha mantenuto con gli ambienti aristocratici gli alienano i favori del nuovo governo di Trasibulo: la sua figura è troppo compromessa con il regime precedente (anche se in realtà Socrate non lo aveva mai appoggiato) e il suo insegnamento filosofico troppo spregiudicato, per una classe politica che intende restaurare i valori e le tradizioni della polis.

5. Socrate nemico della democrazia? Socrate è un nemico del governo democratico? Certamente, egli denuncia la crisi delle istituzioni ateniesi successive alla scomparsa di Pericle e punta il dito contro una politica caratterizzata dalla corruzione, dalla lotta fra gruppi di interesse, che lascia spazio e potere a pochi e abili demagoghi. Nel fragile regime democratico di Trasibulo, questa posizione viene ritenuta pericolosa, tanto più 1. La filosofia nella Grecia classica

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l. Confronti · Pur criticata da Platone e Aristotele, la sofistica possiede una specifica utilità. Platone definisce il sofista come «purificatore delle opinioni che impediscono all'anima di imparare». Per Aristotele smontare i sofismi altrui serve a individuare gli errori nei nostri ragionamenti.

grave quanto più Socrate si rivolge, nella sua denuncia, ai giovani. Di qui l'accusa, al processo, di corrompere le menti delle nuove generazioni. Scomodo per il potere politico, Socrate è tuttavia uno degli intellettuali ateniesi più stimati. La sua amicizia è ambita dalle famiglie importanti della città, che a lui, piuttosto che all'insegnamento a pagamento dei sofisti, affidano l'educazione dei propri figli. Socrate non utilizza gli artifici dell'eristica, che giudica improduttiva, ma si serve di esempi, ricorre alla forma del racconto, pone in modo insistente dubbi e domande. I.:abitudine alla critica, l'atteggiamento ironico nei confronti del senso comune dei concittadini, oltre che attirargli non pochi odi politici, vengono scambiati per mancanza di rispetto verso le istituzioni. Pur venendo spesso identificato come un sofista, Socrate non può tuttavia essere scacciato dalla città come un retore a pagamento. I legami che egli mantiene con le famiglie più potenti e con la casta sacerdotale ne fanno una figura influente. Inoltre la sua fedeltà alle leggi è indiscutibile, tanto da essere riaffermata anche durante il processo e perfino in punto di morte.

6. Socrate

innocente?

Socrate è dunque vittima dell'intolleranza politica e religiosa dei governanti del tempo? Ritorniamo ai capi d'accusa: l. corrompere i giovani; 2. indagare la natura, giungendo a conclusioni empie; 3. non riconoscere gli dèi della polis. Le tte accuse si trovano già nella commedia Le nuvole di Aristofane, rappresentata nel423 a.C., quando Socrate ha 47 anni. Il commediografo aveva dipinto il filosofo come un astuto e pericoloso sofista, ateo e, come Anassagora, dedito a indagini naturalistiche. Nella costituzione dei capi d'accusa, questa rappresentazione ha sicuramente un forte peso. I.:accusa di ateismo, in particolare, per la quale già Anassagora aveva conosciuto l'esilio, trova un certo fondamento. Socrate, pur senza giungere mai a disprezzare gli dèi pubblici, non aderisce alle credenze popolari e probabilmente non crede neanche alla personificazione delle divinità tradizionali della polis. La religiosità di Socrate, come quella di molti intellettuali ateniesi, non coincide con quella popolare, ancora profondamente legata ai culti del pantheon olimpico.

7. Le ragioni della condanna Il processo a Socrate cade in un momento delicato della vita ateniese: la democrazia è stata reintrodotta da quattro anni, dopo la tragica sconfitta a opera degli spartani e il terrore instaurato dai Trenta tiranni. Le forze democratiche stanno faticosamente cercando di restaurare un regime che si rifaccia alla tradizione politica e religiosa. Per favorire la riconciliazione e l'unità della comunità, il nuovo governo avvia una riforma delle leggi, comprese quelle in materia religiosa, al fine di dare ai cittadini maggiori garanzie di legalità. Ora, la filosofia di Socrate mal si accorda con questa situazione politica. Facendo della giustizia un problema di coscienza, di conquista morale individuale, egli può indurre negli

Fotus Eristica Il termine deriva dal verbo erfzein, "battagliare"; l' espressione eristikè téchne, inventata da Platone, indica l'arte di battagliare con le parole. I.: eristica è la degenerazione della sofistica: gli eristi sono sofisti che si vantano di saper «confutare qualsiasi cosa si dica, vera o falsa che sia» (Platone) e di saper mettere in scac-

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co chiunque in una discussione. Essi portano all'estremo la tecnica dei "discorsi doppi" di Protagora e la confutazione dialettica di Gorgia. Nelle mani degli eristi questi strumenti sono utilizzati allo scopo di prevalere sull'avversario, a prescindere dal valore di verità delle tesi in gioco.

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Socrate ateniesi un atteggiamento di svalutazione delle leggi e della religione pubblica. Pur rappresentando un modello di fedeltà alla città, Socrate si affianca pertanto all'azione corrosiva dei sofisti. Si aggiunga che la sua attività di proselitismo, pur circoscritta all'ambito della filosofia, poteva apparire ai suoi avversari una predicazione che mirava alla costituzione di una comunità alternativa alla polis.

8. Socrate e i sofisti La filosofia di Socrate si sviluppa contemporaneamente a quella dei sofisti ~. Simili sono le occasioni del loro insegnamento, i pubblici dibattiti e i destinatari, i giovani aristocratici della città. Socrate stesso è in familiarità con numerosi sofisti. Comune è anche l'intenzione di spostare la ricerca filosofica dallo studio della natura (all'interno del quale si era svolta la riflessione filosofico-scientifica ionica) a quello dell'uomo e del cittadino. Come quella dei sofisti, infine, la filosofia di Socrate si fonda sul linguaggio e sul ragionamento (logos). Numerose e prevalenti sono tuttavia le differenze fra Socrate e i sofisti:

~ Ricorda che... l due principali sofisti sono Protagora, per cui «l'uomo è misura di tutte le cose>>(relativismo), e Gorgia, per cui «nulla è>> (nichilismo).

Confronti sofisti strumento retorico di persuasione tecnica di confutazione

logws metodo dialettico

la verità è sempre soggettiva, particolare e molteplice (relativismo)

9.

verità

Socrate mezzo attraverso il quale l'uomo perviene alla verità strumento di purifìcazione intellettuale l'anima può arrivare a una verità certa, : universale e condivisa da tutti

r educazione alla dialettica

Per Socrate, l'uomo non perviene alla verità spontaneamente, come se essa fosse già da sempre un suo patrimonio naturale, né attraverso una rivelazione divina, di cui egli è solo ascoltatore passivo. La verità viene invece guadagnata attraverso un faticoso processo di educazione, che si costruisce per mezzo di un esercizio tecnico specifico rappresentato dall'arte del "discorso", la dialettica ~. Anche il saper agire bene all'interno della polis non è una disposizione spontanea, ma il risultato di un processo formativo, fondato sul dialogo, che ha come obiettivo la conoscenza del bene. ~ La conoscenza di sé e la cura dell'anima diventano lo scopo della filosofia, secondo un ideale di saggezza (sophrosjne), che avvicina Socrate alle filosofie di Pitagora e di Eraclito. Fin dai primi anni della sua formazione, Socrate aveva avuto intensi rapporti con le comunità pitagoriche. Lontana dalla tradizione filosofica delle origini e ostile al pitagorismo, la democrazia ateniese non poteva non trovare in queste affinità un ulteriore motivo di diffidenza nei confronti di Socrate.

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Ricorda che...

Le nozioni di dialettica e di Bene sono centrali nella filosofia antica. Le ritroveremo, con diversi significati, sia in Platone, sia in Aristotele.

verifica

a Conoscenza dei termini l l l

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Definisci: sofistica, eristica, dialettica.

bcomprensione di concetti e relazioni l Quali sono le fonti principali sulla vita e sul pensiero di Socrate? 2 Che cosa significa l'affermazione di Socrate per cui egli "sa di non sapere"?

3 Perché Socrate afferma che occorre "conoscere se stessi"? 4 Quali sono le posizioni politiche di Socrate? 5 Quali aspetti del pensiero di Socrate sono comuni anche alla sofistica? 6 Quali sono le principali differenze fra Socrate e i sofisti? 7 Che cosa intende Socrate per "dialettica"? 1. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Testo

ocrate è come un sileno Il Platone Simposio

l ••dialogo 385-375 a.C.

Protagonista del dialogo è il giovane Alcibiade, il quale giunge incoronato di viole e di foglie d'edera, ebbro e in compagnia di una flautista, a una festa in onore di Agatone, vincitore delle gare tragiche. Al convito partecipano Socrate, Aristofane, Aristodemo, il medico Eurissimaco, Fedro e Pausania, tutti noti personaggi dell'Atene del tempo. l convitati, a turno, pronunciano l'elogio del dio Amore. Anche Alcibiade accetta le regole del convito, ma invece che tessere le lodi di Eros, pronuncia l'elogio di Socrate.

Questo elogio di Socrate, o amici, mi proverò a farlo cosl, per immagini. O Lui crederà che lo faccia per dire cose più ridicole, ma l'immagine sarà per cogliere il vero, non per far ridere. Io dico cioè che costui è somigliantissimo a quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli .artisti figurano con zampogne e flauti, i quali, se li apri in due, mostrano dentro simulacri degli dei. E dico ancora che lui assomiglia al satiro Marsia E) e che almeno nell'aspetto tu sia uguale a costoro, o Socrate, nemmeno tu potresti negarlo; e come somigli loro in tutto il resto, ascolta. Sei insolente, no? Se non consenti produrrò dei testimoni. E non flautista? Sl, e molto più meraviglioso di Marsia. Costui almeno incantava gli uomini per mezzo dei suoi strumenti, con la potenza che gli usciva di bocca, e ancora fa cosl chi esegue le sue melodie. [... ] Ma tu sei diverso da lui solo in questo, che ottieni lo stesso effetto senza strumenti e con le nude parole. Noi, certo, quando ascoltiamo qualcun altro parlare, anche un bravo oratore, su altri argomenti, non ce ne importa nulla, per dirlo chiaro, di nessuno; ma quando si ascolta te o qualcun altro riporti, anche se è uno sciocco qualunque, i tuoi discorsi e li ascolti una donna, o un uomo, o un ragazzo, ne rimaniamo sbigottiti ed invasati. Io, sinceramente, o amici, se non fosse che potreste credermi ubriaco del tutto, vi direi giurando quali profonde emozioni ho provato ai discorsi di quest'uomo e provo tutt'ora. Perché quando lo ascolto, molto di più che ai coribanti il cuore mi salta dentro e mi prendono le lacrime per effetto delle sue parole e vedo che anche moltissimi altri provano la stessa emozione. [... ] Perché lui mi piega a confessare che, mentre difetto di mille cose, di me stesso non mi curo, ma m'occupo degli affari di Atene. E solo di fronte a quest'uomo io ho provato, cosa che nessuno sospetterebbe me, la vergogna di fronte a qualcuno. Ma io di lui solo provo gna perché riconosco in me stesso che non sono capace di tere che ciò che lui pretende non si debba fare; ma, appena mi tana da lui, sono vinto dall'ambizione di onori pubblici. Lo come schiavo fuggitivo e lo abbandono, e quando lo vedo, mi vergogna per le cose che mi ha fatto riconoscere. E spesso sarei se non fosse più tra i vivi! Ma so bene che se ciò avvenisse, ne

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1 Parlare per immagini, nella t·etorica greca, era sinonimo di parlare per scherzo. Questo spiega il seguito dell' affermazione di Alcibiade. Personaggio molto noto nei circoli aristocratici ateniesi, parente di Crizia, Alcibiade all'epoca in cui è ambientato il dialogo (all'incirca il416 a.C.) è al culmine del successo politico e ormai da molti anni lontano da Socrate, di cui era stato allievo in gioventù.

I sileni, a cui qui ci si riferisce, erano spesso confusi con i satiri, anche se diversa era la raffigurazione; i secondi, giovani e simili a un capro; i primi, più anziani. Ai sileni la cultura del tempo riconosceva una grande attività erotica.

3

Marsia è una leggendaria figura di sileno, inventore del flauto. Il paragone tra Socrate e Marsia ha questo significato: come la musica del sileno conduce le anime al delirio a causa del suo potere divino, allo stesso modo incantavano le parole di Socrate. I "coriband", di cui si parla più avanti, sono i devoti al culto orgiastico di Ci bel e, la dea frigia della natura.

più angosciato, così che non so proprio cosa farne di quest'uomo. O Proprio dalle melodie del flauto di questo satira qui, io e molti altri abbiamo provato questi effetti. Ma ascoltate ancora come è simile a coloro ai quali l'ho confrontato e il meraviglioso potere che possiede. Perché, sappiatelo bene, nessuno di voi lo conosce. 8 Ma io ve lo scoprirò giacché mi ci son messo. Voi vedete che Socrate è sempre in amore con le belle persone, gli è sempre intorno e ne è tutto turbato, poi ignora tutto e non sa nulla ... almeno all'apparenza! E non è da sileno questo? Ma è tutto lui! Perché questa è la sua veste di fuori, come nel sileno scolpito; ma, apritelo dentro, e immaginate mai, miei cari bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che, se uno è bello, a lui non importa niente, ma lo sdegna quanto nessuno crederebbe, né gli importa se è ricco o possiede qualunque altra fortuna di quelle strabenedette dalla gente. Lui ritiene che tutti questi possessi non valgono nulla e che noi siamo nulla: ve lo dico io e passa il suo tempo a far l'ingenuo e a prendersi gioco della gente: ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno ha mai visto i simulacri che ha dentro! ma io una volta li vidi e li sentii così divini e preziosi e così stupendi e meravigliosi che non mi rimase se non fare all'istante ciò che Socrate voleva. 0 Ora, poiché credevo che egli prendesse sul serio la mia bellezza, pensai ch'ero ben fortunato ed avevo una straordinaria occasione, perché potevo, compiacendo Socrate, ascoltare tutto quanto lui sapeva. Perché della mia bellezza ero incredibilmente superbo. Pensato tutto questo, mentre prima solevo starmi con lui insieme a un servo e mai solo, da allora, congedato il servo, rimanevo solo con lui. Bisogna naturalmente che vi dica tutta la verità: state attenti e se mento, Socrate, sbugiardami. Lo incontravo, o amici, solo a solo e pensavo che presto mi avrebbe fatto quei discorsi che un amante fa al suo amore quando si trovino soli, e ne ero pieno di gioia. Ma di tutto ciò non avveniva nulla: discorreva con me secondo il solito, e trascorsa insieme la giornata, mi piantava e partiva. Allora lo invitai a far ginnastica insieme ed io mi esercitavo con lui sperando che lì avrei concluso qualcosa. Ebbene egli faceva gli esercizi con me, e spesso la lotta, senza alcuno presente, e che debbo dire? non ne veniva fuori nulla. Ed ecco che lo invito a cena proprio come un amante che tende la trappola al suo amore. Ma neppure in questo mi dette retta alla svelta, tuttavia col tempo si lasciò persuadere. Quando venne la prima volta, appena finito di cenare voleva andarsene, e per allora, vergognandomi, lo lasciai partire. Ma di nuovo ripetei la trappola, e dopo ch'ebbe cenato m'intrattenni a parlare con lui fino a notte inoltrata e, quando volle andarsene, lo convinsi a rimanere col pretesto che era tardi. Riposava dunque sul letto vicino al mio, lì dove aveva cenato: nella stanza non dormiva nessuno, solo noi. [... ] Quando dunque, o amici, si spense il lume e i servi furono usciti, mi parve che non fosse il caso di fare il sottile con lui, ma di dirgli liberamente quello che pensavo. Così lo scossi e dissi: «Socrate, dormi?» «No» mi rispose. «Sai cos'ho pensato?» «Che cosa mai?» disse. «Ho pensato - risposi - che tu sei l'unico amante degno che io abbia e vedo che esiti a dichiararti. Ora, io la sento così: ritengo che sarebbe del tutto stupido se non ti compiacessi anche in questo come in tutto

4 Alcibiade è da tempo lontano da Socrate e i convitati ignorano la relazione personale che era esistita tra i due. Sarà Alcibiade stesso a renderla esplicita. Il suo atteggiamento nei confronti dell'antico maestro è duplice: egli mescola la lode e il biasimo, senza riuscire a nascondere un certo risentimento.

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Socrate si era interessato dell'educazione del giovane Alcibiade, verso cui era attratto per il desiderio che questi dimostrava di «acquisire qualcosa di più grande». Aveva cercato quindi di educarlo all'ideale della sophrosjne. Ora la presenza del filosofo e il ricordo della loro frequentazione turbano Alcibiade. In lui convivono due tensioni opposte: l'amore per il sapere, che egli collega alla figura di Socrate, e la sete di onori e riconoscimenti pubblici. I.: ambizione lo ha condotto adesiderare il potere; la sua hybris lo ha spinto a violare l'ammonimento socratico alla temperanza. Dal suo "elogio" traspare tuttavia come il suo giovanile entusiasmo per la filosofia non sia del tutto sopito.

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Il Socrate descritto da Alcibiade è figura strana e inquietante. Alcibiade insiste sulla eccentricità della sua personalità. Solitamente- egli dice- gli individui corrispondono a dei tipi ideali. Ebbene, Socrate non assomiglia a nessuno. Egli è sconcertante, non classificabile. Il paragone è quello secondo cui Soct·ate assomiglia a un "sileno", una sorta di demone, metà animale e metà uomo, dal carattere sfrontato e buffonesco, che, secondo l'immaginazione popolare, seguiva il corteo di Dioniso. La figura del sileno è tuttavia solo una maschera dietro alla quale si nasconde qualcosa di diverso. Alcibiade paragona infatti Socrate ai sileni esposti nelle botteghe degli scultori, i quali servono come cofanetti in cui mettere le immaginette degli dèi.

l. La filosofia nella Grecia classica

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quello di cui tu avessi bisogno, dei miei beni e dei miei amici. Per me nulla è più importante che divenire quanto è possibile migliore, e io credo che per questo nessuno mi può essere di più valido aiuto che te. E certo di fronte alla gente che sa mi vergognerei di non concedermi a un uomo come te, molto di più che di fronte al volgo ignorante, se ti compiacessi». Egli mi stava a sentire e poi, con quella solita aria innocente ed ironica, tutta sua: «Mio caro Alcibiade - disse rischi di non essere affatto sciocco se per caso son vere le cose che dici di me e se c'è dio sa quale potere in me che ti potrebbe rendere migliore. Ecco tu vedresti in me una irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle tue forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con bellezza, miri a guadagnarci non poco alle mie spalle! Via, in cambio di una bellezza apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla lettera, di scambiare "oro con rame". Ma, o beato, guarda meglio, che io non sia nulla e tu non te ne accorgi! Certo la vista della mente comincia a vedere più acutamente quando quella degli occhi tende a declinare: e tu ci sei ancora lontano». f) [... ] Io naturalmente dopo quello che avevo udito e quello che avevo detto, lanciando per così dire i miei strali, credevo che egli fosse ferito. Mi rizzai e senza !asciargli dire più nulla lo ricopersi con il mantello che avevo (poiché era inverno), e, sdraiatomi sotto questo suo solito gabbano, gettai le braccia attorno a quest'uomo veramente demoniaco e straordinario e giacqui con lui l'intera notte. E neppure adesso puoi dire, Socrate, che mento. Malgrado tutti questi miei sforzi, costui di tanto mi superò, sdegnò e derise la mia bellezza, e la offese ... eppure credevo che valesse qualcosa, o giudici (ché voi siete giudici della superbia di Socrate) ... ebbene, sappiatelo, lo giuro per gli dei e per le dee, dormii con Socrate e mi levai né più né meno che se avessi dormito col padre o con un fratello maggiore. [... ] Tutti questi fatti mi erano già accaduti, quando in seguito fummo insieme soldati al campo di Potidea, dove avevamo il rancio in comune. Per cominciare, nelle fatiche non solo era superiore a me, ma a tutti quanti. Ma nelle baldorie, invece, lui solo sapeva godere fino in fondo e a bere, - non che lo volesse, ma quando lo si forzava - vinceva tutti; ma ciò che più meraviglia è che Socrate nessuno uomo mai l'ha visto ubriaco. E di ciò, credo, presto se ne avrà la prova. Quanto a sopportare l'inverno (perché là erano tremendi) faceva miracoli e, fra gli altri, una volta che c'era un gelo da inorridire e tutti stavano rintanati dentro o se uno usciva si avvolgeva in una incredibile quantità di panni, si calzava e si fasciava i piedi con feltri e pellicce, lui, con un tempo simile, se ne usciva con questa gabbanina che ha sempre, e scalzo camminava sul ghiaccio, più tranquillo che gli altri tutti iscarponati. E i soldati lo sbirciavano credendo che li volesse mortificare. E questo basti per tale argomento. «Ma che compì e sostenne il forte eroe» una volta, laggiù al campo, merita ascoltarlo. Tutto assorto in qualche idea s'era piantato ritto lì, fino dall'alba, meditando; e poiché non ne veniva a capo, continuava, ritto in piedi, la sua ricerca. E già era mezzogiorno e alcuni uomini se n'erano accorti e meravigliati dicevano l'un l'altro: «Socrate se ne sta lì impalato dall'alba in un qual-

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Ritorna il motivo del "sapere di non sapere": Socrate "è nulla'' eAlcibiade non se ne accorge, innamorato com'è solo con gli "occhi" e non con quello sguardo interiore che proviene dall'anima, il solo grazie al quale un uomo può conoscere se stesso e migliorarsi. La maschera di Socrate è quella dell'ironia. Fingendo ignoranza, atteggiandosi «a far l'ingenuo e a prendersi gioco della gente», Socrate si mostra diverso da quello che è. Chi si limitasse a un ascolto superficiale dei suoi discorsi li troverebbe strani o ridicoli; chi, al contrario, lasciandosi guidare dalla dialettica socratica, "penetrasse" in quei discorsi, troverebbe il tesoro di virtù e di ammaestramenti che essi contengono. Alcibiade racconta di essere stato indotto, ascoltando le parole di Socrate, a provar vergogna delle proprie debolezze e di aver compreso la possibilità di una vita vissuta secondo verità. Superbo della propria bellezza giovanile, aveva creduto che Socrate se ne potesse innamorare, giacché quest'ultimo amava frequentare i giovani. Ma a Socrate la bellezza esteriore non importa. È Alcibiade, invece, a innamorarsi del filosofo, non già tuttavia del suo aspetto esteriore, ma della sua "bellezza interiore".

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La temperanza di Socrate si rivela nella sua capacità di sopportare fatiche e avversità, nella compostezza nel momento del pericolo, nella padronanza di se stesso. Proprio per questi atteggiamenti, tuttavia, egli riusciva a volte irritante e "strano" a chi lo frequentava. Quella della riga successiva è una citazione dall' Odissea (IV, 242).

Socrate che pensiero». Alla fine, alcuni Ioni, scesa la sera, dopo aver cenatopoiché allora era estate - portarono fuori i giacigli e si misero a riposare all'aperto e nello stesso tempo a controllare se stesse piantato là tutta la notte. Ed egli vi stette finché fu l'alba e si levò il sole. Allora si mosse e se ne andò dopo aver fatto la sua preghiera al sole. [... ] In molte altre cose e meravigliose si potrebbe lodare Socrate, ma di altre sue qualità si potrebbero dire le stesse cose anche di un altro, invece che egli non somigli ad alcuno fra tutti gli uomini antichi e moderni questa è la maggior meraviglia. Così le qualità di Achille si potrebbero assomigliare a quelle di Brasida e d'altri, e quelle di Peride a Nestore e Antenore, e non sono i soli; e tutti gli altri potrebbero essere confrontati in questo modo. Ma un uomo come questo qui, con le singolarità sue e dei suoi discorsi, non lo si troverebbe che gli somigli neppur di lontano, a cercarlo fra gli uomini d'oggi né fra quelli di ieri; a meno che non lo si paragoni, non a uomini, ma a quelli che dicevo, ai sileni e ai satiri, lui e i suoi discorsi. Perché c'è ancora questo, che ho tralasciato all'inizio: i suoi discorsi sono quasi identici ai sileni che si aprono in due. Chi dunque si mette a sentire i discorsi di Socrate, sulle prime li troverebbe del tutto ridicoli, tali sono le parole e le espressioni di cui s'avvolgono di fuori, qualcosa come la pelle d'un satiro insolente: parla di asini bastati, di certi fabbri, ciabattini e conciapelli e con le stesse voci pare sempre che ripeta le stesse cose. Cosicché ogni inesperto o sciocco potrebbe riderei sopra a questi discorsi. Ma chi li veda aperti e vi penetri dentro, troverà innanzitutto che essi soli, fra tutti i discorsi, hanno una mente, e poi che sono i più divini e pieni di ogni immagine di virtù e tendono a ciò che v'è di più grande, anzi a tutto quanto bisogna mirare per chi vuole diventare un uomo nobile e eccellente. 0

9 Nel racconto di Alcibiade, Socrate acquista le sembianze di Eros. Strettamente legata all'ironia del dialogo, emerge un"'ironia dell'amore", i cui effetti di rovesciamento e di sconcerto sono analoghi. Essa consiste nel fingere di essere innamorato, finché colui che è il destinatario di tale passione apparente finisce a sua volta per innamorarsi realmente.

Platone, Simposio (215a-222a), trad. it. di P. Pucci, in Platone, Opere complete, cit., vol. III

laboratorio

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Analisi del testo l Che significato ha il paragone fra Socrate e un sileno? 2 Che collegamento pone Alcibiade fra eros e filosofia? 3 Quali sono gli atteggiamenti e i sentimenti che Alcibiade manifesta, nel suo racconto, verso il suo maestro? In quali espressioni si rivelano? Si tratta di atteggiamenti e sentimenti coerenti o contraddittori? Infine, ti sembra sincero Alcibiade? 4 Che cosa si intende per "ironia dell'amore"? Quale analogia è possibile stabilire tra essa e !"'ironia del dialogo"?

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Riflessione l !.:amore qui considerato è l'eros omosessuale tra adulto e giovane, la cui funzione educatrice era

un elemento tipico delle società guerriere greche arcaiche. In questo contesto, l'incontro amoroso diventa un'occasione in cui, maieuticamente, l'amato indirizza l'eros dell'amante verso l'obiettivo del perfezionamento della sua personalità. !.:insegnamento socratico suscita un rovesciamento di valori che spinge colui che si avvicina al filosofo a superare le apparenze di una vita sciupata nella banalità, e a camminare verso la consapevolezza di sé, verso la virtù. Quando gli uomini amano Socrate, amano in realtà questa aspirazione. Svolgi una ricerca sul rapporto che la cultura greca stabilisce fra eros e filosofia. Stendi poi una relazione orale o scritta sull'argomento, prendendo in considerazione, fra i molti collegamenti possibili, il tema della paidéia (educazione) classica. 1. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Testo

ocrate e le leggi della polis Il Platone Critone

• 396-388 a.C. ca l • dialogo

Nel dialogo Critone, Platone racconta del rifiuto di Socrate di fuggire da Atene, evadendo dalla prigione in cui attende l'esecuzione capitale. lnterlocutore del filosofo è Critone, uno dei suoi amici più fedeli, il quale si reca in carcere a visitare il maestro, offrendogli la possibilità della fuga. Il brano contiene la famosa personificazione delle Leggi, che Socrate immagina si rivolgano a lui, nel caso scegliesse la fuga, rimproverandogli la mancata fedeltà alla polis.

SOCRATE- Bisogna vedere se sia giusto che io tenti di uscire di qui pur contro il volere degli Ateniesi, o se non sia giusto: 8 e, se ci paia giusto, tentiamo pure; altrimenti, lasciamo stare. [... ] SOCRATE - Muovi dunque di qui e drizza bene la mente. Se io me ne vado via da questo carcere contro il volere della città, faccio io male a qualcuno, e precisamente a chi meno si dovrebbe, o no? Ancora: restiamo fermi in quei principi che riconoscemmo insieme essere giusti, o no? CRITONE - Non so rispondere, o Socrate, alla tua domanda, perché non capisco. SocRATE - Bene: considera la cosa da questo lato. Se, mentre noi siamo sul punto ... sì, di svignarcela di qui, o come altrimenti tu voglia dire, ci venissero incontro le leggi e la città tutta quanta, e ci si fermassero innanzi e ci domandassero: «Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? non mediti forse, con codesta azione a cui ti accingi, di distruggere noi, cioè le leggi, e con noi tutta insieme la città, per quanto sta in te? o credi possa vive~ re tuttavia e non essere sovvertita da cima a fondo quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno valore, e anzi, da privati cittadi~ ni, sono fatte vane e distrutte?», - che cosa tisponderemo noi, o Critone, a queste e ad altre simili parole? Perché molte se ne potreb~ bero dire, massimamente se uno è oratore, in difesa di questa legge che noi avremmo violata, la quale esige che le sentenze una volta pro~ nunciate abbiano esecuzione. O forse risponderemo loro che la città commise contro noi ingiustizia e non sentenziò rettamente? Questo risponderemo, o che altro? CRITONE - Questo, sicuramente, o Socrate. SOCRATE - E allora, che cosa risponderemmo se le leggi seguitassero così: «0 Socrate, che forse anche in questo ci si trovò d'accordo, tu e noi; o non piuttosto che bisogna sottostare alle sentenze, quali elle siano, che la città pronuncia?» E se noi ci meravi~ gliassimo di codesto loro parlare, elle forse riprenderebbero così: «0 Socrate, non meravigliarti del nostro parlare, ma rispondi: sei pur uso anche tu a valetti di questo mezzo, di domandare e rispondere. Di', dunque, che cosa hai da reclamare tu contro di noi e contro la città, che stai tentando di darci la morte? E anzi tutto, non fummo noi che ti demmo la vita, e per mezzo nostro tuo padre prese in moglie tua madre e ti generò? Parla dunque: credi forse non siano buone leggi

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1 La condanna che Socrate subisce è di fatto ingiusta, ma sul piano formale del tutto legale. Dovere di ogni buon cittadino è quello di accettare un verdetto legale, quand'anche ingiusto, altrimenti sarebbe la fine di qualsiasi ordine sociale. Fondamento dell'agire non deve essere l'opinione dei più, ma la ragione. Se in base alla ragione la fu~ ga risulterà essere giusta, allora Socrate fuggirà; altrimenti sarà meglio morire, anziché, fuggendo, commettere un'in~ giustizia.

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Ha inizio il dialogo tra Socrate e le Leggi, qui immaginate come solenni figure maschili (la parola greca nomos è di genere maschile). La personificazione rafforza emotivamente la dichiara~ zione di principio che Socrate intende sviluppare. Da un punto di vista reto~ rico, l'immagine delle Leggi che sbar~ rano a Socrate la via della fuga, chie~ dendogli conto della sua fedeltà alla città, è di grande efficacia: fuggendo Socrate distruggerebbe le leggi e la città stessa. Le leggi vivono e hanno valo~ re solo in quanto vengono rispettate dai cittadini.

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La soluzione che Socrate finge di prospettare raccoglie l'assenso di Critone: la sentenza dei giudici ateniesi è ingiusta; è lecito pertanto sottrarsi alla condanna a morte fuggendo.

quelle di noi che regolano i matrimoni, e hai da rimproverare loro qualche cosa?». - «Non ho nulla da rimproverare», risponderei io. «E allora, a quelle di noi che regolano l'allevamento e la educazione dei figli, onde fosti anche tu allevato e educato, hai rimproveri da fare? [... ]».-«Bene», direi io. «E sia. Ma ora che sei nato, che sei stato allevato, che sei stato educato, potresti tu dire che non sei figliolo nostro e un nostro servo e tu e tutti quanti i progenitori tuoi? C) E se questo è così, pensi tu forse che ci sia un diritto da pari a pari fra te e noi, e che, se alcuna cosa noi tentiamo di fare contro di te, abbia il diritto anche tu di fare altrettanto contro di noi? O che forse, mentre di fronte al padre tu riconoscevi di non avere un diritto da pari a pari, e così di fronte al padrone se ne avevi uno; il diritto, dico, se alcun male pativi da costoro, di ricambiarli con altrettanto male; e nemmeno se oltraggiato di oltraggiarli, e se percosso percuoterli, né altro di questo genere: ecco che invece, di fronte alla patria e di fronte alle leggi, questo diritto ti sarà lecito; cosicché, se noi tentiamo di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù? O sei così sapiente da avere dimenticato che più della madre e più del padre e più degli altri progenitori presi tutti insieme è da onorare la patria? E che la patria si deve rispettare, e più del padre si deve obbedire e adorare, anche nelle sue collere; e che, o si deve persuaderla o s'ha da fare ciò che ella ordina di fare, e soffrire se ella ci ordina di soffrire, con cuore silenzioso e tranquillo, e !asciarci percuotere se ella ci vuole percuotere, e !asciarci incatenare se ella ci vuole incatenare, [... ] e non bisogna abbandonare il proprio posto, ma sempre, e in guerra e nel tribunale e dovunque, bisogna fare ciò che la patria e la città comandano, o almeno persuaderla da che parte è il giusto; ma far violenza non è cosa santa, né contro la madre né contro il padre, e molto meno ancora contro la patria?». Che cosa risponderemo noi, o Critone, a queste parole? che le leggi dicono il vero o no? CRITONE - A me sembra che le leggi dicano il vero. ()

4 Le Leggi spiegano perché Socrate debba sottomettersi alla città. A esse Socrate deve tutto: suo padre e sua madre si sono sposati secondo le leggi, e secondo le leggi egli è stato allevato ed educato. E come il rapporto tra genitori e figli e tra padroni e servi non è un rapporto paritario, ma i secondi devono ubbidire ai primi, così è anche il rapporto tra la città e i suoi sudditi. Il fuggire dalle carceri dopo una condanna - dicono le Leggi - non fa certo parte dell'accordo che tu, Socrate, hai stipulato con noi.

5 L'ubbidienza alle leggi non è assoluta. Esse possono sbagliare e quando sbagliano bisogna persuaderle. Se la persuasione si dimostra impossibile, al cittadino è obbligo comunque di ubbidire.

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Platone, Critone (48b-51c), trad. it. di M. Valgimigli, in Platone, Opere complete, cit., vol. I

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t perché, per un uomo che ha per tutta la

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vita seguito i nomoi (le leggi) della città, la fuga significherebbe rinnegare la propria esistenza. Al di fuori di Atene, Socrate non sarebbe più se stesso: ciascun uomo è infatti utile al proprio mondo, e solo al suo interno può avere consapevolezza di sé. Per questo Socrate accetta la morte, non come atto di eroismo, né come cieca ubbidienza, ma perché riconosce la legittimità del giudizio dei concittadini, per quanto ingiusto esso sia.

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Socrate rifiuta l'invito di Critone, non già perché vuole la morte, ma

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Analisi del testo

l Perché la fuga di Socrate sarebbe un atto contrario alla sua morale? 2 Valuta la persuasività e la coerenza del discorso delle Leggi. 3 Spiega in un testo scritto la seguente apparente contraddizione, argomentandone le possibili soluzioni: "Socrate è fedele alle leggi della città, ma gli ateniesi lo condannano a morte".

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Riflessione

l Per Socrate, il principio di ubbidienza alle leggi ha

un valore universale. A prova di ciò sta il fatto che, in fondo, non fu una legge ingiusta a condannare il filosofo, bensì una sua ingiusta applicazione da parte degli uomini. Condividi questa affermazione? 2 Critone incita Socrate a fuggire; il filosofo si rifiuta, appellandosi alla propria morale. A Costruisci un dialogo che riprenda e ampli le argomentazioni di Critone e di Socrate. B Valuta la persuasività, la forza retorica e la coerenza dei due punti di vista. 1. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Profilo

II metodo socratico Temi

Concett,~cltklve

*Il metodo dialogico: discorso breve contro discorso lungo* La ricerca della definizione universale* Il metodoinduttivo socratico *L'esortazione alla vita virtuosa L'intellettualismo etico* Il demone: un oracolo interiore

*

dialettica, ironia, maieutica, ti èsti, idea; essenzajforma, omologhfa

• lessico IRONIA Il termine deriva

dal greco eironéia (''dissimulazione", "finzione") e indica un atteggiamento di svalutazione, reale o simulata, di se stessi e del proprio pensiero. Eiron ("dissimulatore") è "colui che domanda fingendo di non sapere". ~ Ricorda che ... L:ironia critica le opinioni e i pregiudizi dell'interlocutore, attraverso la confutazione del suo presunto sapere. La maieutica conduce il dialogante ad acquisire coscienza della verità che egli porta in sé senza saperlo.

1. Il dialogo socratico: ironia e maieutica Il metodo socratico è costituito dal dialogo. Il dialogo socratico è orientato alla ricerca della verità; per questo si contrappone all'eristica, che è volta invece a far prevalere una tesi indipendentemente dalla sua verità, sfruttando puri artifici retorici. La dialettica socratica si fonda su due momenti: 1. quello critico-negativo dell'e ironia; 2 • .quello costruttivo-positivo della maieutica ~. È Platone ad attribuire a Socrate l'invenzione dell'arte maieutica, attraverso una celebre similitudine: come la madre di Socrate, la levatrice Fenarete, aveva praticato l'arte di far partorire i corpi, così il figlio possiede l'arte di far "partorire" le anime, cioè di far nascere nell'animo di chi dialoga con lui la consapevolezza di sé. La verità, infatti, non viene data all'uomo dall'esterno. Essa non è mai assicurata dal semplice possesso di qualche dottrina particolare. Per questo Socrate non ha nulla da insegnare ai suoi discepoli. Saranno essi stessi a scoprire la verità, in quanto essi l'hanno già in sé. Socrate può solo aiutarli, maieuticamente, a generarla dalla loro anima.

Con il termine "ironia'' si indica il primo momento, critico-negativo, del metodo socratico, caratterizzato dall' apparente sottovalutazione che Socrate fa di sé e delle proprie capacità, nei confronti della persona con cui discute. Obiettivo dell'ironia è quello di confutare la tesi dell'interlocutore, ponendo continue domande, fingendosi ignorante, mostrandosi incapace di argomentare. L atteggiamento ironico ripete uno schema costante.

1. Dapprima Socrate si mostra inferiore a quello che realmente è. Egli finge di dare ragione all'avversario, di cui adotta apparentemente il punto di vista. Si presenta come un uomo qualsiasi, un "uomo della strada'', e chiede al proprio interlocutore di manifestare la sua sapienza. Socrate non ha una tesi propria da sostenere (egli non sa nulla) e pertanto non può che interrogare gli altri.

2. Nel corso della discussione, egli si mostra però dubbio104

so su tutto. In questo modo rende via via esplicite le contraddizioni contenute nella posizione dell'interlocutore.

3. Socrate rende il suo interlocutore consapevole di essere in errore, non attraverso una confutazione diretta, ma guidando il dialogo in maniera che la contraddittorietà della posizione inizialmente sostenuta risulti evidente e accettata dal suo stesso avversario. Quest'ultimo viene così ad avvicinarsi gradualmente all'argomentazione di Socrate (omologhia), finendo per cadere in preda al dubbio circa le proprie apparenti certezze. Egli impara così a esaminare se stesso, a vedere più chiaramente nella propria coscienza.

4. A questo punto il dialogante, libero dai pregiudizi e dalle presunzioni iniziali, è pronto, secondo le indicazioni della maieutica socratica, per "partorire" quella verità che, senza saperlo, portava potenzialmente dentro di sé.

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Socrate

momento critico-negativo dell'ironia

momento costruttivo-positivo della maieutica

critica le opinioni e i pregiudizi dell'interlocutore

conduce l'interlocutore ad acquisire coscienza della verità

attraverso la confutazione del suo presunto sapere

che egli porta inconsapevolmente in sé

2. Il ragionare insieme e romologhfa La dialettica socratica ha la forma del discorso breve (brachilogia); la retorica sofistica invece adopera il discorso lungo (macrologia). Il discorso lungo si fonda sulla retorica, vale a dire su argomenti trovati nella sfera dell'opinione e si svolge secondo la forma dell' antilogia, limitandosi cioè a porre una tesi e un'antitesi per ogni problema discusso, per esempio: "se la virtù sia insegnabile o no", senza interrogarsi sul valore di verità del concetto in discussione, in questo caso, la virtù. Il discorso breve, invece, consiste nello spezzare continuamente l' argomentazione dell'interlocutore, mettendo in dubbio le premesse che egli dà per scontate, mostrando come siano il frutto di un'accettazione passiva dei pregiudizi e delle opinioni diffuse. Attraverso il "ragionare insieme", l'interlocutore è così aiutato a chiarire la reale essenza del problema; segnatamente, è indotto, dall'analisi di numerose situazioni particolari in cui il problema può avere applicazione, a trovare la definizione corretta di ciò di cui si sta parlando. Discutendo le ipotesi via via introdotte, Socrate guida il dialogante verso una definizione della questione, che non è più opinabile, ma su cui sono possibili un accordo razionale (omologhia) e una comune comprensione, la cui validità è quindi universale.

3. La ricerca della definizione Il metodo socratico pone una domanda di definizione, espressa nell'interrogativo "che cosa è?" (ti èsti). Quando il filosofo chiede, per esempio, che cosa è il coraggio, oppure che cosa è la giustizia, muove una richiesta di definizione nuova per i suoi interlocutori, che sono abituati a riferirsi solo alla singola opinione, al giudizio singolare. Socrate, invece, non si accontenta del relativismo ~ dei singoli punti di vista e insiste nell'interrogare sul significato universale della virtù in questione. Egli muove dalla difficoltà di definire un significato stabile e condiviso da tutti attorno a ciò di cui si sta parlando. Si discute per esempio di giustizia e ingiustizia, di bene e male, ma non si è capaci di definire che cosa siano la giustizia e il bene. Si crede di saperlo, giacché si sanno indicare una o più azioni ritenute giuste e buone; ma la giustizia e la bontà in sé non sono nessuna di queste singole azioni. Qualsiasi nostro comportamento particolare infatti potrebbe apparire giusto o non giusto, a seconda della situazione, della prospettiva e dell'opinione soggettiva attraverso cui viene valutato. Solo sapendo che cosa è la giustizia in se stessa, io posso decidere se essa si realizza o no nell'azione che sto esaminando.

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Ricorda che...

Il relativismo, sostenuto dai sofisti, è una posizione filosofica che esclude la possibilità di un riferimento oggettivo e universale sia in campo gnoseologico (verità), sia in campo morale (bene).

1. La filosofia nella Grecia classica

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4. Il metodo induttivo Il "che cosa è?" socratico, attraverso l'esame dei casi particolari, ricerca quella nozione generale che li accomuna. Aristotele chiamerà induzione questo procedimento, che dai casi particolari giunge, attraverso una generalizzazione, al concetto. Sul piano linguistico, il metodo socratico consente il costituirsi di un discorso corretto nel suo significato; sul piano dell'educazione morale, conduce a una definizione stabile delle virtù capace di confutare il relativismo morale, insito a parere di Socrate nei sofisti. Superando le opinioni e i pregiudizi, gli uomini possono costruire un terreno comune di dialogo, in cui il confronto avvenga non per mezzo della persuasione retorica o dei moti degli affetti, ma per mezzo della ragione (logos).

5. La ricerca sulle virtù Nel corso dei dialoghi, così come sono narrati negli scritti giovanili di Platone, Socrate discute le virtù elaborate dalla civiltà greca (il coraggio, la temperanza, la pietà, la giustizia, l' areté politica) e pone il problema di quale sia la loro essenza, la loro forma generale (èidos). Nel dialogo Eutiftone, per esempio, il ti èsti socratico viene formulato attraverso la ricerca dell' èidos, ossia dell'idea generale di "santità", in virtù della quale poter distinguere in maniera certa le azioni "sante" da quelle "non sante". Secondo il racconto di Platone, Socrate tuttavia non dà mai alcuna definizione positiva delle virtù attorno a cui dialoga con i suoi discepoli. Allo sforzo di rendere consapevoli gli altri della loro ignoranza, non fa seguito alcuna risposta circa la sua domanda di definizione. Socrate dunque interroga senza mai rispondere? Questa è l'accusa che i sofisti lanciano al filosofo di Atene, irritati dal suo atteggiamento ironico.

6. La domanda senza risposta sulle virtù

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Ricorda che...

La tesi socratica che la verità non possa essere imposta all'uomo dall'esterno, ma scaturisca dalla coscienza, dove è già virtualmente, verrà ripresa dalle filosofie successive, a cominciare da quella di Platone.

Per i sofisti, Socrate è un abile e sfuggente oratore, che confuta gli altri, senza tuttavia dare mai risposte. Egli è un maestro nell'esortare alla vita virtuosa, ma non dice che cosa sia la virtù, lasciando i discepoli di fronte a definizioni diverse e contraddittorie. Socrate invita alla sapienza e alla giustizia, ma qual è la vera sapienza e quale la vera giustizia? Senza una risposta a queste domande, la dialettica socratica rischia di essere solo una «nobile sofistica» (come la chiamerà lo stesso Platone), egregia nel preparare l'animo umano alla vita buona, ma vuota di contenuti e quindi debole e disarmata di fronte al relativismo sofistico. Gli studiosi hanno fornito, su questo aspetto del pensiero socratico, risposte e interpretazioni diverse. Per alcuni, la filosofia socratica non ha contenuti determinati e va intesa come una pura esortazione alla vita virtuosa. Per altri, è una filosofia del dubbio, che spinge a guardare nel proprio animo e a superare pregiudizi e false opinioni. Per altri ancora, se è vero che manca nel Socrate presentato da Platone una definizione positiva delle virtù, è anche vero che il filosofo ateniese offre un'indicazione ai suoi seguaci quando invita a vedere nell'anima la componente essenziale dell'uomo: sarà indagando nella propria anima che ciascuno potrà scoprire ciò che è bene ~.

7. ridentifìcazione di virtù e sapere I.:importanza della filosofia socratica sta nel messaggio razionale che il filosofo rivolge all'uomo. Il suo insegnamento si fonda sulla convinzione che la conoscenza del bene sia anche la condizione perché gli uomini agiscano pubblicamente in modo virtuoso. La comprensione della verità, cioè che il bene è il 106

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Socrate vero fine della vita, motiva necessariamente l'uomo a una esistenza moralmente buona ~. Questa tesi socratica, che verrà in seguito definita intellettualismo etico, si contrappone all'opinione che l'uomo possa invece sapere che cosa sia il bene e tuttavia possa decidere di commettere il male. Per Socrate, nessuno commette il male volontariamente: sapere che cosa è il bene rende impossibile l'azione malvagia. Giacché tutti vogliono il proprio bene, si commette il male solo per ignoranza della verità. È dunque attraverso il sapere, la scienza, che l'uomo giunge al bene. E il bene è il contenuto di quella virtù fondamentale che conduce alla sophrosjne, alla saggezza.

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Ricorda che...

Attraverso l'identificazione socratica di virtù e sapere, la filosofia pone per la prima volta in stretto rapporto verità e vita, scienza ed esistenza. La filosofia diventa esercizio spirituale, capace di produrre comportamenti virtuosi.

n metodo socratico Ironia l. Socrate finge di non sapere e pone domande

2. Socrate pone dubbi

3. Socrate induce il dubbio nell'interlocutore

4. omologhia: anche l'interlocutore dubita

Maieutica 'll

l'interlocutore perviene alla verità che aveva dentro l'anima

8. Il demone, un oracolo interiore

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Socrate ripete spesso di essersi lasciato guidare, nel corso della sua vita, dagli ammonimenti di un daimonion, una voce divina che egli avverte nella sua anima «fin da fanciullo», che lo distoglie dalle azioni malvagie e lo aiuta a indirizzarsi verso una vita virtuosa. Socrate attinge il motivo del demone dai primi filosofi, in cui si trova l'idea di una presenza divina nel mondo, da cui l'uomo deve lasciarsi governare. Esso è tuttavia strettamente collegato con i motivi più propri della filosofia socratica. Non va inteso in senso mistico, né come una voce della coscienza in senso psicologico moderno. Secondo Senofonte, il daimonion è la «Voce di Dio che dà a Socrate ammonimenti e consigli su quel che egli debba fare, quasi oracolo interiore». Il tema del demone ci riporta al motivo socratico della consapevolezza critica di sé, del sapersi "vergognate" di fare ciò che non è giusto. Esso testimonia tuttavia anche dell'ispirazione religiosa che è propria del filosofo: dando ascolto al suo demone interiore, Socrate comprende la missione filosofica che gli compete e giunge ad accettare con serenità la condanna a morte. Estraneo ai culti e alle credenze della religione popolare greca, il motivo del daimonion verrà tuttavia interpretato dai suoi accusatori come un segno di empietà.

verifica

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Conoscenza dei termini

Definisci: ironia, maieutica, ideafessenzajforma.

bcomprensione di concetti e relazioni 1 Quali sono i momenti tipici del dialogo socratico? 2 Qual è l'obiettivo finale del metodo socratico? 3 Perché Socrate è stato definito l'inventore della "definizione"? 4 Qual è il significato del "che cos'è?" socratico?

5 Quale concetto di verità Socrate difende contro i sofisti? 6 Qual è la finalità della ricerca socratica sulle virtù? 7 Perché Platone dirà che quella di Socrate è una «nobile sofistica»? 8 Che cosa indica l'espressione "intellettualismo etico"? 9 Come va interpretata l'affermazione di Socrate secondo la quale sarebbe stato guidato da un

daim6nion? 1. La filosofia nella Grecia classica

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Lezione Testo

II problema della definizione Il Platone Eutifrone

• 396-388 a.C. ca l • dialogo

Il brano contiene un esempio del procedimento attraverso cui Socrate pone il problema della definizione universale delle virtù. Nel dialogo ci si chiede: che cos'è il santo e che cos'è il suo contrario, il non santo, l'empio?

SOCRATE- Ora dunque dimmi che cos'è quello che or ora affermavi di conoscere così sicuramente: che cosa è che chiami il pio e che cosa l'empio, sia riguardo all'omicidio O sia riguardo ad altre azioni. Non è il santo, come tale, identico sempre a se stesso in tutte le azioni? e non è a sua volta il non santo il contrario di tutto ciò che è santo, ma identico sempre anche questo, come tale, a se stesso; cosicché viene ad avere- tutto ciò, dico, che è per essere non santo- una sua forma unica f) relativamente alla sua non santità? EUTIFRONE- Senza dubbio, o Socrate. SOCRATE- Via dunque, che cosa dici che sono il santo e il non santo? EUTIFRONE- Dico che il santo è quello che faccio ora io: se uno commette ingiustizia rendendosi colpevole o di omicidio o di sacrilegio o di altro reato simile, trascinarlo in giudizio, sia pure costui tuo padre o tua madre o chiunque altro; non trascinarlo in giudizio non è santo. [... ] SocRATE - Ora vedi di dirmi più chiaro quello che ti domandai poco fa; perché con quella tua prima risposta, amico mio, non mi hai istruito abbastanza. Io ti domandavo che cosa è il santo, e tu mi hai detto solamente che è santo ciò che stai facendo tu ora, accusando d'omicidio tuo padre. EuTIFRONE - E dicevo la verità, o SoCI·ate. SocRATE - Può darsi: ma certo, o Eutifrone, molte altre azioni ancora tu dici che sono sante. EUTIFRONE- Molte altre, senza dubbio. SOCRATE- Ebbene, tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensì di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che per un'idea unica le azioni non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi? EUTIFRONE - Sì, mi ricordo. SOCRATE - E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell'azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è. EUTIFRONE - Se vuoi così, o Socrate, sta bene, ti risponderò così. SoCRATE - Bravo, proprio così voglio. EUTIFRONE -Ecco qua dunque: ciò che è caro agli dei è santo, ciò che non è caro non è santo. SocRATE- Benissimo, o Eutifrone: proprio com'io volevo tu mi rispondessi, così ora mi hai risposto [... ]. G EUTIFRONE Senza dubbio. SocRATE - O via, esaminiamo quello che stiamo dicendo. La cosa cara agli dei è santa, l'uomo caro agli dei è santo; la

e

108

1 Anche Eutifrone, l'indovino interlocutore di Socrate, è coinvolto in un processo: egli ha accusato il padre, colpevole dell'omicidio di un contadino, che aveva lasciato morire incatenato in una fossa. Quest'ultimo aveva infatti ucciso un servo ed era stato messo in catene dal padre di Eutifrone. Dimenticato dal padre nella fossa, era morto. Eutifrone non ha dubbi che il padre sia colpevole e a coloro che lo rimproverano di aver commesso un' empietà, accusando il genitore, risponde che l'uccisore va sempre incriminato. I suoi critici «non distinguono affatto che cosa è il santo e che cosa il non santo». Egli invece ne ha chiara coscienza. Di fronte alla sicurezza di Eutifrone, Socrate, secondo la sua tipica modalità ironica, si offre di diventare suo scolaro: per imparare anch'egli che cosa è santo e difendersi dall'accusa di empietà.

Socrate pone una domanda di definizione universale: che cosa è il santo? Le azioni sante sono numerose e ognuna differente dalle altre; tuttavia, in quanto sante, devono essere anche tutte identiche tra loro. Ci deve essere cioè qualcosa grazie a cui tutte le azioni sante sono appunto sante.

3

Eutifrone fornisce una prima risposta: il santo consiste nel condannare chi ha commesso un'ingiustizia. Socrate non è soddisfatto della risposta. Essa infatti si riferisce a un singolo esempio di azione santa; il filosofo invece

Socrate cosa in odio agli dei non è santa, l'uomo in odio agli dei non è santo. Non sono la stessa cosa il santo e il non santo, ma anzi, tutto l' opposto l'uno dell'altro: non è così? EUTIFRONE- Proprio così. SocRATE - Ed è stato detto bene, ti pare? EuTIFRONE - Mi pare, o Socrate. SOCRATE - E che gli dei sono in lite fra loro, e che ci sono tra loro dissensi e inimicizie degli uni contro gli altri, non è stato detto anche questo, o Eutifrone? EUTIFRONE - Sì, è stato detto. 0 SOCRATE - E dimmi, brav'uomo, su quali cose può essere il dissenso quando produce inimicizia e collere? Vediamo bene questo punto. Se ci fosse dissenso fra me e te intorno a un numero, per esempio, quale di due serie di oggetti è più numerosa, che forse questo dissenso ci farebbe nemici e irosi l'uno contro l'altro; oppure, fatto il conto, almeno su codesta questione, ci troveremmo sùbito d'accordo? EUTIFRONE Certamente. [... ] SOCRATE- E allora, quali sono i punti e quali i giudizi per cui, essendoci dissenso fra noi e non potendo giungere a un accordo, diventeremmo irosi e nemici gli uni contro gli altri? Forse non ti vengono a mente ora, ma te li dirò io: considera se non siano il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non sono questi i punti per i quali, quando ci sia dissenso e non si possa venire a un giù'diZio soddisfacente, accade talora che diventiamo nemici gli uili degli altri, e io e tu e tutti gli uomini in generale? EUTIFRONE :_ Sì, ·o 'Socrate, questo è il dissenso, e su questi punti. SocRATE :__ Orbene, EutifrOne, gli dei, se è vero che hanno tra loro qualche ·dissenso, non l'avranno appunto su questioni di questo genere? E) EuTIFRONE - Necessariamente. SocRATE - E dunque, mio bravo Eutifrone, secondo il tuo ragionamento, chi degli dei giu:dica giusta una cosa e chi un'altra, e chi bella e chi brutta, e chi buona e chi cattiva: ché di certo non avrebbero liti fra loro se non dissentissero su questi giudizi. Non è così? EuTIFRONE- Dici bene. SOCRATE - Dimmi ora, quelle azioni che ognuno degli dei reputi belle e buone e giuste, codeste azioni non le amano essi anche, e le contrarie le odiano? EUTIFRONE - Precisamente. SocRATE - Ma le medesime cose, lo dici tu, alcuni reputano giuste, altri ingiuste; e appunto perché disputano intorno a queste, sono in lite e in guerra fra loro. Non è così? EUTIFRONE- Sì. SOCRATE- E dunque,. è evidente, le stesse cose gli dei odiano e amano; che è quanto dire odiose agli dei e care agli dei saranno le stesse cose. EuTIFRONE - È chiaro. Platone, Eutifrone (7d-8a), trad. Ìt. di M. Valgimigli, in Platone, Opere complete, cit., vol. I ~

Analisi del testo Lo schema dell'argomentazione è . l domanda di Socrate; 2 prima definizione di Eutifrone; ·•· 3 prima confutazione di Socrate; 4 seconda definizione di Eutifrone; 5 seconda confutazione di Socrate. a. Individua le sequenze e definisci il contenuto. b. Perché nella prima definizione Eutifrone commette un errore sul piano del metodo, mentre nella seconda lo commette sul piano del contenuto? c. Che cosa intende Socrate con i termini "idea", "forma", "essenza"?

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4

AEutifrone non è bastato il primo fallimento. Egli fornisce una seconda risposta: le azioni "care" agli dèi, cioè conformi a quelle degli dèi, sono sante. Socrate approva Eutifrone in quanto questi ha fornito questa volta una definizione metodologicamente corretta: non vengono più citati casi particolari, ma si è pervenuti a una definizione generale. Socrate però non è ancora soddisfatto; egli ora criticherà il contenuto della tesi di Eutifrone.

5

Si seguano i passi della confutazione 1 socratica: a. egli accetta la definizione di Eutifrone; b. fa accettare a Eutifrone una tesi apparentemente ovvia (che cioè esistano contrasti tra gli dèi); c. mostra come, partendo dalle premesse poste dal suo stesso interlocutore, non può che discendere la falsità della definizione di partenza.

6 Gli dèi sono spesso in disaccordo sulle stesse cose su cui gli uomini litigano fi:a di loro. Le medesime cose sembreranno dunque ad alcuni dèi giuste e ad altri ingiuste.

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chiede qual è quella idea del santo, per cui alcune azioni possono dirsi sante e altre no. La domanda socratica richiede una definizione universale; la risposta consiste nell'addurre un caso particolare. Si tratta di un errore sul piano del metodo. A Socrate interessa quale sia l'essenza, l'idea, la forma del santo, a cui tutti possono riferirsi come modello.

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Jyéhgono dapprima esaminate determinate ipotesi; :··'}J:'~ :, ·i ida esse vengono tratte conseguenze determinate; ,. 1! 1 3 se tali conseguenze sono inaccettabili, i'· 1 4 allora le ipotesi dovranno essere respinte. 11 Ecco lo schema logico del ragionamento: "se P, allora l'l Q; ma non Q, dunque non P". Costruisci oralmente j'.l. o per iscritto due confutazioni, basate su argomenti comuni, che adoperino questo schema logico. Ili

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Lezione Profilo

Cinici, cirenaici, megarici

l e scuole socratiche minori Temi

Concettt~cltktve

*La filosofia come liberazione dalle passioni e dai beni materiali* L'impossibilità della dialettica come metodo per giungere alla verità* L'ideale ascetico dell'etica cinica e quello edonistico della cirenaica* L'impossibilità della comunicazione* L'equivalenza megarica tra essere, bene e virtù* La negazione dell'identificazione socratica di sapere e virtù* La sapienza come conoscenza di sé

1.

dialettica, autarchia, edonismo, esercizio, libertà

n ritratto del filosofo cinico

Chi è il personaggio che vediamo raffigurato in questo quadro di Nicolas Poussin (1594-1665)? Non certo un filosofo, verrebbe da dire, pensando a figure austere e autorevoli, quasi severe, di intellettuali come Protagora e Socrate, come Platone e Aristotele. E invece si tratta di Diogene di Sinope, il più importante esponente, insieme con Antistene, di una scuola socratica, quella dei filosofi cinici. Avviciniamoci alla scena del quadro: Poussin disegna un paesaggio naturale; sullo sfondo i palazzi di una polis greca. Il filosofo è fuori dalle mura della città ed è raffigurato vestito poveramente, nell'attimo in cui osserva, quasi con sorpresa, un ragazzo bere con le mani. È Diogene Laerzio a narrare che il filosofo «una volta vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: "Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità"». E secondo un altro aneddoto, egli aveva buttato via anche il catino «avendo visto un fanciullo che, rotto il piatto, aveva posto alcune lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane». Da questi esempi capiamo che Diogene è una figura diversa dai modelli di filosofo tramandati dalla tradizione. Spregiudicato nei costumi, indipendente dalle istituzioni e dai potenti, Diogene non risiede in un luogo stabile e non raccoglie intorno a sé discepoli. La filosofia per lui è una pratica di vita.

2. La filosofia come pratica di vita Nessuno degli scritti di Diogene ci è pervenuto, ma intorno alla sua figura è fiorita una vasta letteratura di aneddoti, più o meno attendibili, come quello per cui: «Avendo scritto a un tale di provvedergli una casetta e tardando questi, 110

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Diogene si prese per casa una botte». O come quello secondo cui egli raddoppiò il mantello per la necessità anche di dormirci dentro, e portava solo una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie. Diogene rivendica la completa autosufficienza, ossia la liberazione dell'uomo dalle passioni, dai beni esteriori, dalla stessa partecipazione alla vita cittadina. I dati caratteristici della sua figura sono la ribellione contro le convenzioni sociali e la semplicità del suo stile di vita. Tanto da trovare i suoi modelli di comportamento non negli uomini, ma negli animali, nei bambini, nei mendicanti, ossia in coloro che non subiscono le lusinghe e gli inganni dei beni materiali. Per lui non sono importanti i ragionamenti, ma i gesti della vita pratica. Attraverso l'esercizio fisico e morale, egli ha imparato a rifiutare la ricchezza, il potere, la gloria. Sradicato dalla città, Diogene il cinico vive come un viandante. Cittadino del mondo, bandito dalla patria, mendico, sembra che avesse come motto l'affermazione «Cerco l'uomo!» e che, per questo, se ne andasse in giro con una lanterna, appunto cercando l'uomo, un uomo che immaginiamo perso tra le lusinghe della vita, gli agi, gli appetiti materiali, i lacci della vita pubblica.

3. Le scuole socratiche minori Si è soliti definire con l'espressione "scuole socratiche minori" quelle correnti che, pur prendendo spunto dall'insegnamento socratico, non si inseriscono nella "via regia'' della filosofia che conduce a Platone e Aristotele. Queste scuole sono tre: la cinica, la cirenaica e la megarica (per quest'ultima vedi il Focus alla pagina successiva). Esse sviluppano la riflessione socratica sulla virtù e sulla dialettica ~ in una direzione opposta a quella di Platone. Questi cercherà di fornire un contenuto positivo alla dialettica socratica, elaborando una dottrina della verità (la dottrina delle idee) su cui fondare il discorso filosofico. Cinici, cirenaici e megarici, invece, mettono a fuoco l'aspetto confutatorio e ironico dell'insegnamento socratico, affermando l'impossibilità della dialettica come metodo per giungere alla verità. Questa posizione, che elimina ogni possibilità di comunicazione intersoggettiva, implica anche l'abbandono della valenza politica dell'insegnamento di Socrate. La politica si presenta infatti agli occhi dei socratici minori come il palcoscenico di uno scontro tra opinioni contrapposte, a nessuna delle quali è possibile attribuire un valore di verità ~. Il rifiuto della dialettica e l'abbandono della politica conducono i socratici minori a negare l'identificazione socratica di sapere e virtù. I.:ideale del «conosci te stesso» viene ridotto a pura ricerca individualistica. Di qui il carattere ascetico dell'etica cinica e quello edonistico della cirenaica.

I socratici minori sono quasi contemporanei di Platone e di Aristotele e anticipano molti temi dei filosofi stoici ed epicurei, di età ellenistica, a cui possono essere ricondotti. ~ Ricorda che ...

Per Socrate e poi per Platone, la dialettica è l'arte del dialogo e della discussione, orientata al· la ricerca consensuale della verità. ~ Ricorda che ...

L'opinione (doxa) è ciò che viene ritenuto come vero o verosimile, ma non esclude la possibilità dell'errore; è perciò inter· media fra l'ignoranza e la conoscenza vera.

4. Antistene e il cinismo Antistene di Atene (444-365 a.C.) è allievo di Gorgia e frequenta il circolo di Socrate; dopo la sua condanna a morte, si rifugia a Megara, a casa di Euclide, il fondatore della scuola megarica. In seguito stabilisce la sua dimora alla periferia di Atene, in un ginnasio chiamato Cinosarge, letteralmente "cane bianco" o "cane agile", da cui deriva l'epiteto di cinici che identificherà Antistene e i suoi allievi. La filosofia di Antistene sviluppa fino alle estreme conseguenze il tema dell'ignoranza socratica. Ricollegandosi alla dottrina sofistica, Antistene sostiene che di ogni affermazione si può dimostrare tanto la sua verità quanto la sua falsità, senza la possibilità di individuare un criterio di verità certo. Egli nega dunque la possibilità di conoscere la realtà attraverso il linguaggio e afferma, di conseguenza, l'impossibilità della comunicazione. Da qui prende corpo la polemica nei confronti della teoria delle idee di Platone, a cui Antistene obietta che, se è 1. La filosofia nella Grecia classica

111

e lessico IDEA In senso platonico,

l'idea è l'essenza, la forma unitaria, eterna e immutabile delle cose empiriche e molteplici; essa non viene compresa dai sensi, ma dalla sola ragione.

possibile vedere un cavallo, non è certo possibile vedere e quindi comunicare l'e idea universale e astratta della cavallinità. Antistene si spinge oltre: egli sostiene che tutto quello che il linguaggio può fare è affermare che una tale cosa è quella che è; per esempio che un cavallo è un cavallo, che un tavolo è un tavolo. Non è dunque possibile connettere in una definizione due nomi, dal momento che affermare che "il cavallo è un animale" significherebbe identificare il termine "cavallo" con il termine "animale". Se non è possibile connettere attraverso la definizione due termini, cade la validità razionale del linguaggio e cade anche ogni possibilità di una comunicazione vera.

5. Cetica cinica e f ascetismo di Diogene

• lessico AUTARCHIA Nell'accezio-

ne cinica e poi stoica, indica l'assoluta autosufficienza del saggio, la cui felicità non dipende da fattori esterni, di ordine materiale o passionale. Il saggio "basta a se stesso", quando è libero dal bisogno delle cose e degli altri uomini.

Questa posizione, che distrugge la validità logica di ogni ragionamento e rende impossibile la discussione in campo scientifico e politico, ha importanti conseguenze in campo etico: la virtù non può infatti essere ricercata nella conoscenza, impossibile per definizione. Ciò che può fare il saggio è solo raccogliersi in se stesso, liberarsi dai bisogni che lo rendono schiavo e offrire un concreto esempio di moralità. Solo l'esercizio e la fatica consentono di raggiungere la vera sapienza, che consiste nella conoscenza di sé e nel rifiuto di tutto ciò che è superfluo. Si disegna così la figura del saggio cinico che spregia le comodità e le agiatezze della vita comune per dedicarsi a un'esistenza e autarchica, libera dal bisogno, paragonabile alla vita randagia dei cani. Un ideale di vita che avrà appunto in Diogene di Sinope (413-323 a.C. ca), successore di Antistene, la sua più chiara rappresentazione: Diogene abbandona ogni interesse teorico e scientifico, per affidare all'esempio concreto della sua esistenza il proprio messaggio etico. Egli incarna il modello di "vita cinica'': trascuratezza nel vestire, disprezzo per le convenzioni sociali, un mantello e una bisaccia come casa. Un atteggiamento anticonformista che diverrà una vera e propria critica ai costumi della Grecia tra IV e III secolo a.C. con i successori di Diogene: Cratete e sua moglie Ipparchia, poi Bione di Boristene, Menippo di Gadara, Cercida di Megalopoli.

6 .. Aristippo e la scuola cirenaica Al rigorismo morale e autarchico dei cinici fa da contraltare il raffinato distacco dalle cose che caratterizza i cirenaici. Aristippo, il fondatore di questa corrente, nasce nel435 a.C. a Cirene, da cui deriva il nome della sua scuola. Nel

(~Jtus Euclide e la scuola megarica Euclide nasce a Megara verso il450 a.C.; si forma alla scuola eleatica e successivamente, durante un viaggio ad Atene, a quella socratica. Presente forse alla morte del maestro, 'accoglie a Megara gli amici di Socrate che si erano allontanati da Atene nel timore di rappresaglie; muore probabilmente nel375 a.C. La filosofia di Euclide, come quella di Antistene, prende le mosse dall'indagine socratica sulla dialettica, ma imposta il problema a partire dal postulato parmenideo dell'unità dell'essere. Se l'essere, come vuole Parmenide, è uno, allora una è anche la virtù che coincide con il bene. Lessere, dunque, in quanto unità, si identifica con il bene e con la virtù. Posta l'equivalenza essere= bene= virtù, il movimento e il divenire si rivelano contraddittori e perciò inesistenti, poiché se fossero reali si scinderebbe l'ori112

ginaria unità dell'essere. Per Euclide, quindi, è un errore considerare le cose come enti separati; e anche le parole che nominano le cose vengono di conseguenza ridotte a pura opinione non veritiera. Il linguaggio, e con esso la dialettica, è solo una convenzione umana, dal momento che rompe l'unità dell'essere. Risulta così impossibile tanto pensare quanto discorrere. Ogni affermazione infatti può, sulla base della paradossale posizione di Euclide, essere ridotta all'assurdo; può cioè essere evidenziata la sua contraddittorietà rispetto al principio dell'unità dell'essere. Di qui i sofismi, i paradossi che caratterizzarono la critica del linguaggio che costituisce il nucleo della filosofia di megarici, come Eubulide, Diodoro Crono, Stilpone, attivi tra il IV e il III secolo a.C.

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6. Canima come microcosmo Questa più complessa e articolata visione dell'anima consente a Platone di affrontare in termini psicologici molti problemi, che si potrebbero meglio definire di natura etico-politica o pedagogica, ma anche problemi scientifici e cosmologici. Vedremo meglio nelle prossime lezioni questi aspetti, ma bisogna anticiparne la visione generale, richiamando un'analogia che unifica più aspetti della filosofia di Platone: quella tra l'anima individuale, vista come microcosmo, in cui si unificano molteplici aspetti dell'esperienza, e l'anima come principio universale, come macrocosmo, al centro della stessa teoria delle idee. Il concetto socratico della cura dell'anima non viene mai abbandonato da Platone. Mentre però nei dialoghi giovanili esso veniva inteso come ammonimento etico-religioso, come avviamento a una vita morale ispirata a criteri di giu-

CITAZION l Platone La teoria delle due anime Abbiamo convenuto che se ci fosse risultato essere l'anima precedente in ordine di tempo al corpo, anche tutto ciò che è dell'anima sarebbe precedente in ordine di tempo a tutto ciò che è del corpo. [... ] I costumi, le indoli, le volizioni, i ragionamenti, le opinioni vere, le previsioni e i ricordi sarebbero venuti all'essere prima della lunghezza dei corpi, della larghezza, della profondità, della forza, se fosse venuta all'essere anche l'anima prima del corpo. [... ] Dopo di ciò non è neces-

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sario convenire quindi che la causa del bene e del male, del bello e del brutto, del giusto e dell'ingiusto e di tutti i contrari è l'anima, sempre se noi porremo l'anima come causa di tutte le cose?- Sicuro. - Un'anima o più anime? Più d'una, risponderò io per voi. Non poniamone certo meno di due, quella che opera il bene e. quella che opera il male.

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stizia e di pietà, nei più maturi dialoghi esso si allarga a una visione metafisica più ampia, che recupera (come già abbiamo detto) talune suggestioni della filosofia dei presocratici.

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7. Canima come armonia e ordine Cura dell'anima può significare consapevolezza del necessario rapporto della vita umana con l'eterno. ranima è infatti sinonimo di ordine, di armonia, di misura, come affermato dalla ~ tradizione pitagorica, che vedeva nel numero e nella matematica il simbolo della perennità. ranima si pone inoltre in rapporto con l'essere, con quella dimensione della realtà che è completamente sottratta al tempo, come affermato dalla tradizione eleatica. Tuttavia questa esigenza metafisica è recuperata da Platone dopo l'esperienza della sofistica, che ha ribadito il valore della dimensione storica e sociale della vita umana. Cura dell'anima diventa allora, in Platone, sforzo di autoeducazione da parte dell'uomo, per attuare in se stesso, e al di fuori di sé, quella perfetta armonia di struttura, che è tipica delle idee. Discendono da questo principio alcune delle più ardite ipotesi epistemologiche adottate da Platone, come l'immagine della "città giustà', oggetto dell'indagine etico-politica del filosofo nella Repubblica. Essa si modella sulla forma dell'anima: come illustra il paragone tra l'individuo moralmente autonomo (uomo in piccolo) e la città autogovernata (uomo in grande). O come l'ipotesi cosmologica, oggetto dell'indagine naturalistica del Timeo, che istituisce un'analogia tra microcosmo e macrocosmo, anima individuale e anima del mondo, biologia e astronomia. O come l'ipotesi (che si incontra in alcuni dialoghi tardi e in particolare nelle Leggi) delle due anime, una buona e una malvagia, che sarebbero all'origine della perfezione e della i~perfe­ zione della realtà universale, sia del bene e del male in rapporto alle leggi della città, sia dei movimenti ciclici di ordine e disordine, di creazione e distjuzione, che si alternano nel tempo e nella storia. j

~ Ricorda che... Il concetto dell'armonia espressa dal numero è esteso dai pitagorici dalla musica all'intero ordine cosmico.

verifica

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Conoscenza dei termini

Definisci: psyché, sòma, epithymetik6n, loghistik6n, thymik6n, epimélesthai tes psychès, metempsicosi.

bcomprensione di concetti e relazioni l Quali sono le tre dimostrazioni dell'immortalità dell'anima contenute nel Fedone?

2 Perché il filosofo concepisce la vita come continua

meditatio mortis? 3 4 5 6

Che cosa si intende per dualismo antropologico? ~anima è unica o molteplice? Quali fono le principali funzioni dell'anima? Che cosa si intende con microcosmo?

l 2. La filosofia nell'età di Platone e Aristotele

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Lezione Testo

[immortalità delfanima Il Platone Pedone

• dialogo della maturità l. • dialogo

Nell'attesa della morte, Socrate si intrattiene in carcere con alcuni dei discepoli più cari, affrontando il tema dell'immortalità dell'anima. Il brano contiene la seconda prova a sostegno dell'immortalità. Essa si basa sull'argomento del semplice e del composto, e applica il principio- il simile conosce il simile -al rapporto tra anima e "sovrasensibile". L'anima, che a differenza del corpo conosce l'essere eterno e immutabile delle idee, gli è affine, e dunque immortale.

Ebbene, riprese Socrate, bisogna che noi ci facciamo ora una domanda in questo modo: qual è la cosa cui si conviene essere soggetta al rischio di disperdersi e per cui c'è da temere che codesta dispersione avvenga; e quale è quella a cui tutto ciò non si conviene? E, dopo ciò, bisogna rifarsi a considerare quale di queste due cose è l'anima; e, secondo quello che ne risulti, sperare o disperare per l'anima nostra. [... ] Or dunque, non è a cosa la quale sia stata composta, o già sia composta per natura sua, che si conviene esser soggetta al rischio di essere decomposta nello stesso modo in cui fu composta? e se c'è cosa che appunto sia non composta, non è a questa sola, se mai ad alcuna, che si conviene non esser soggetta a questa decomposizione? O - Mi pare che sia così, disse Cebete. - Dunque, le cose che permangon'o sempre costanti e invariabili, non è naturale che unicamente queste siano le non composte, e quelle invece che sono variabili e non sono mai costanti, queste siano composte? - Mi par bene che sia così. 8- Torniamo ora, egli disse, a ciò di cui ragionavamo precedentemente. La realtà dell'essere, che è ciò di cui interrogando e rispondendo siamo soliti dare la definizione, permane invariabilmente costante o è variabile? :Leguale in sé, il bello in sé, e insomma ogni data cosa che è in sé, l'ente, c'è mai caso che patisca mutazione veruna, sia pure in qualunque modo? oppure, ciascuna di queste cose che è in sé, che è uniforme in quanto si consideri esclusivamente in sé, permane invariabilmente costante, e non si dà mai il caso che per nessuna via e per nessun modo patisca alterazione veruna? - Necessariamente, o Socrate, disse Cebete, permane invariabilmente costante. E) - E dimmi: che pensi tu delle infinite cose, come uomini, cavalli, vesti e così via, di tutte le altre quali esse siano o eguali o belle, e insomma di tutte quante alle quali diamo lo stesso nome che alle cose in sé? Permangono esse costanti, oppure tutto il contrario che a quelle, non si dà mai che conservino lo stesso rapporto, né esse rispetto a se stesse né le une rispetto alle altre, e insomma non siano mai per nessun modo costanti? C) -Vero anche questo, disse Cebete: non sono mai allo stesso modo. - Bene: e tu codeste cose puoi toccarle, puoi vederle, puoi comunque percepirle con gli altri sensi; ma quelle che permangono costanti non c'è altro mezzo col quale tu le

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l La questione è impostata in questo modo: l. si ricerca dapprima qual è la cosa che, per sua stessa natura, è destinata alla morte e alla corruzione, e qual è invece quella che non è soggetta a tale destino di mortalità; 2. in secondo luogo se l'anima corrisponda alla prima o alla seconda di queste due cose. Si risponde alla prima domanda identificando nella natura del "composto" e del "semplice" le due rispettive caratteristiche di cui siamo alla ricerca: quale cosa sia cioè soggetta al rischio di disperdersi, e quale non gli sia soggetta.

Si identificano quindi «semplice» con «invariabile» e «composto» con «variabile».

3

Si identifica con «invariabile» (dunque con «semplice») l'essere ideale: l' «eguale in sé», il «bello in sé», cioè l'idea. Essa corrisponde in modo essenziale all' oggetto della definizione: rispecchia cioè la natura del linguaggio.

4.

Si identifica con «variabile» (dunque con «composto») l'essere empirico. Le realtà molteplici che solo verbalmente corrispondono ai loro modelli ideali sono e non sono, in quanto mutano sempre.

possa apprendere se non col pensiero e con la meditazione: perché quelle di questa specie sono invisibili e non si possono percepire con la vista. Non è vero? - Perfettamente vero, egli disse, è questo che dici. Vuoi tu dunque, disse, che poniamo due specie di cose, l'una visibile, l'altra invisibile? - Poniamole, disse. - E che l'invisibile sia sempre costante, il visibile non sia mai? -Anche questo, disse, poniamo. O - Ora dimmi, soggiunse, non ci sono in noi stessi due cose, da una parte il corpo, dall'altra l'anima? - Precisamente, disse. -E qual è delle due specie sopra dette quella a cui diremo che sia più simile e più congenere il corpo?- È chiaro a tutti, disse, che è la visibile. -E l'anima? è visibile o invisibile? -Non certo dagli uomini, egli disse, o Socrate, è visibile. -Ma evidentemente le cose visibili e le non visibili noi le dicevamo così riferendoci alla natura umana: o tu forse pensi riferirti a qualche altra natura? - No; alla natura umana. - Dunque, che cosa diciamo dell'anima, che è visibile o non è visibile? - Che non è visibile. - Dunque è invisibile. - Sì. - E allora l'anima è, più del corpo, simile all'invisibile, e il corpo al visibile. - Necessariamente, o Socrate. - E dicevamo da un pezzo anche questo, che l'anima, quando per qualche sua ricerca si vale del corpo, adoperando la vista o l'udito o altro senso qualunque, -perché ricercare mediante il corpo è come dir ricercare mediante i sensi, -allora l'anima è trascinata dal corpo a cose che non sono mai costanti, ed ella medesima va errando qua e là e si conturba e barcolla come ebbra, perché tali appunto sono le cose a cui si appiglia. - Precisamente. - Quando invece l'anima procede tutta sola in se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà dov'è il puro, dov'è l'eterno e l'immortale e l'invariabile; e, come di questi è congenere, così sempre insieme con questi si genera, ogni volta che le accade di raccogliersi in se medesima e le è possibile; e cessa dal suo errare, e rimane sempre rispetto a essi invariabilmente costante, perché tali sono appunto codesti esseri a cui egli si appiglia. E questa sua condizione è ciò che diciamo intelligenza. O- Proprio così, disse; tu dici bene e con verità, o Socrate. - Orsù, dunque, ancora una volta, da ciò che si disse prima e da ciò che s'è detto ora, a quale di queste due specie pare a te che l'anima sia più congenere e più somigliante? - Chiunque, diss' egli, anche il più rozzo, messo così su la traccia, pare a me debba convenire in questo, che l'anima è simile in tutto e per tutto a ciò che è sempre invariabile che a ciò che non è. - E il corpo? -All'altra specie. - Guarda ora anche da questo punto: quando sono insieme anima e corpo, all'uno la natura ordina di servire e di obbedire, all'altra di comandare e dominare. Ciò posto, quale dei due credi sia simile al divino e quale al mortale? Non pare a te che il divino per sua propria natura sia atto a dirigere e a comandare, e il mortale a obbedire e a servire? - Così pare. - E allora, a quali di questi due l'anima si assomiglia? - È ben chiaro, o Socrate, che l'anima al divino e il corpo al mortale. -Considera ora, disse, o Cebete, se da quanto s'è detto possiamo concludere questo, che al divino all'immortale all'intelligibile all'uniforme all'indissolubile e insomma a ciò che rimane sempre con se medesimo invariabilmente costante, è simigliantissima l'anima; e, viceversa, all'umano al mortale al multiforme al sensibile al dissolubile, e insomma a ciò che non è mai con se medesimo

5 Si pongono due nuove identificazioni: tra «variabile» e «visibile» (nel significato di sensibile) e tra «invariabile» e «invisibile» (nel significato di sovrasensibile).

6

Si arriva all'identificazione finale: quella tra il corpo e il «visibile» (dunque con il variabile e il composto) e tra l'anima e !' ~

--TERMINE~

SIGNIFICATO IN ARISTOTELE

•----.--t NELLE FILOSOFIE_

Ente

Tutto ciò di cui si può affermare l'esistenza. "Ente" ha molteplici significati; innanzitutto indica le categorie. Enti in senso più proprio sono le sostanze (prime); anche gli accidenti esistono, ma solo come proprietà della sostanza.

Essenza

Corrispettivo antologico della definizione, l'essenza coincide con il "che cos'è" (ti èsti) di un ente. In questo senso, l'essenza coincide con la forma.

Forma/ Materia

Vedi causa (formale/materiale).

Motore

"Motore" è ciò che produce il mutamento (o il movimento locale) e coincide con la causa motrice o efficiente.

Mutamento/ Movimento

Caratterizza tutti gli enti naturali. Aristotele distingue il mutamento: secondo la sostanza (generazione e corruzione), la qualità (alterazione), la quantità (crescita e diminuzione) e il luogo (movimento propriamente detto). l movimenti si distinguono in naturali e violenti.

PRECEDENTI

-------------~~---------------------------------------------------4----------------------~ Saggezza/l Virtù dianoetiche. Sapienza La saggezza - virtù della componente pratica dell'anima razionale - è attitudine a calcolare il giusto mezzo e a deliberare intorno agli strumenti idonei per conseguirlo. l La sapienza- virtù della componente teorica dell'anima razionale- consiste nel possesso e nell'esercizio della scienza (dimostrativa) e dell'intelligenza (conoscenza dei principi).

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~·----------~------------------------------------------------+---------------------4 1 Scienza La scienza (apodittica, dimostrativa) consiste nella conoscenza della Platone distingue, nell'epicausa per cui una cosa è in un determinato modo o si trasforma. Il meto- stéme (scienza): a. le scienze do della scienza è la dimostrazione o sillogismo scientifico. La ricerca dianoetiche, quali la matedelle premesse vere ("principi propri") da cui muove la dimostrazione in matica, che partono da prinogni ambito disciplinare avviene con procedure dialettiche o "induttive". cipi ipotetici e fanno ricorso all'esperienza per condurre le proprie dimostrazioni; b. il noùs, o dialettica filosofica, scienza puramente ideale, cui spetta di saggiare i principi delle precedenti.

l

Sillogismo

Ragionamento in cui la conclusione consegue necessariamente da due premesse, come nell'esempio: "Tutti gli uomini sono razionali; tutti i greci sono uomini; tutti i greci sono razionali".

Sinolo

Letteralmente, "tutto insieme", "tutt'uno", dal greco syn (con) e o/an (tutto). È il composto di materia e forma da cui risulta una sostanza unica e compiuta, cioè il concreto individuo o sostanza individuale.

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Sostanza

Indica il sostrato di un ente che permane nel mutare delle proprietà che ineriscono a esso (accidenti). ln senso proprio, la sostanza è sostanza individuale (sostanza prima); meno propriamente sostanze (sostanze seconde) sono le specie e i generi. Aristotele afferma che, nel sinolo, sostanza nel senso più proprio è la forma: quest'ultima, infatti, è il principio che fa sì che una certa materia dia luogo a una sostanza di una certa specie e non di un'altra, per esem-

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In Democrito, sostanza sono gli atomi. ln Platone, sostanze sono propriamente soltanto le idee.

r-·--~~~~e no~a~n_e_._________________ -·---------~------1 Virtù

l Disposizione permanente, o attitudine -

acquisita mediante lunga consuetudine- a esercitare le facoltà proprie dell'uomo. In tale disposizione consiste la felicità, ovvero il bene supremo pratico. Le virtù si distinguono in "etiche" e "dianoetiche". Le prime sono le virtù 1 dell'anima sensitivo-desiderativa e consistono nel giusto mezzo tra due eccessi; le seconde sono le virtù dell'anima razionale, e precisamente delle due facoltà, contemplativa (sapienza) e pratica (saggezza).

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2. La fùosofia nelYetà di Platone e Aristotele

205

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Lezione Profilo

Aristotele

Dialettica, logica e scienza Temi

Concettì-chìtlve

* L:Organon aristotelico* Il rapporto tra dialettica e logica* Confutazione e dimostrazione per assurdo* Termini, proposizioni, sillogismi La scienza e la suddivisione delle scienze

univocità ed equivocità di un termine, genere, specie, definizione, proposizioni categoriche e non categoriche, verità e validità di un sillogismo, logica formale, il sillogismo scientifico e le sue premesse, la ricerca dei principi delle scienze, scienze teoretichefpratichefpoietiche

*

1. La dialettica, metodo per prevalere nelle discussioni Gli studi sulla dialettica- e sulla parte di essa che viene comunemente chiamata logica - costituiscono il tema fondamentale dell' Organon aristotelico. Per Aristotele la dialettica è la tecnica che, in una discussione, mette in grado chi la padroneggia di confutare la tesi sostenuta dall'avversario e di far prevalere (indirettamente) la propria opinione. Mfinché possa aver luogo un confronto dialettico, è indispensabile che entrambi i contendenti concordino su alcune premesse: sulla base di esse si svolgerà la discussione. Per confutare la tesi dell'avversario, bisogna dimostrare che ne derivano conseguenze che contraddicono le premesse condivise. Si tratta di una dimostrazione "per assurdo". Le premesse su cui i due avversari concordano non debbono necessariamente essere vere (anche se possono esserlo). È invece indispensabile che tali premesse siano ritenute vere o appaiano verosimili al pubblico che assiste alla discussione, cui spetta il compito di decidere sull'esito del confronto. Non avrebbe infatti senso mettersi a discutere sulla base di premesse ritenute false o inaccettabili dal pubblico che giudica.

La dialettica per Adstotele Premesse comuni su cui concordano i contendenti A e B (e il pubblico). Né le tesi sostenute da A e B, né le conseguenze da esse derivanti, possono essere in contraddizione con queste premesse. Il contendente B sostiene una tesi

Il contendente A sostiene una tesi

per affer~are dialetticamerite la propria tesi

il contendente A deve

il contendente B deve

confutare la tesi di B

confutare la tesi di A

cioè dimostrare che dalla tesi di B

dimostrare che dalla tesi di A

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e che B l contraddice

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206

2. Il significato dei termini e la definizione Per prevalere in una discussione, il buon dialettico deve padroneggiare le regole che governano il discorso. A questo scopo, egli deve in primo luogo conoscere il significato dei termini, che rappresentano gli elementi minimi di cui il discorso è costituito. Deve poi aver chiaro se un termine ha un solo significato o più di uno. Alcuni termini, infatti, possono essere usati solo in un senso: hanno cioè un significato univoco, come per esempio "corvo" che denota esclusivamente un tipo di volatile. Altri termini, invece, sono equivoci, cioè portatori di molteplici significati: per esempio, il termine greco onos significa sia "asino", sia "vaso". Il significato di un termine è espresso dalla definizione: questa dice la natura o essenza di qualcosa, il suo "che cos'è" (ti èstt). Per comprendere che cosa Aristotele intenda per "definizione" è indispensabile soffermarci su due termini-chiave della terminologia . l"1ca: "genere" e "spec1e . anstote o

Il problema della ricerca del "che cos'è" e della definizione fu impostato da Socrate ed è affrontato per esempio nel dialogo platonico Eutiftone.

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3. Genere e specie "Genere" e "specie" esprimono una gerarchia logica tra classi (o insiemi) di individui. Per esempio, sia "animale", sia "uomo" designano classi di individui (quali Socrate, Giovanni, Callia ecc.). Ma "animale" designa una classe più ampia · · s·1d'ua' nspetto a "uomo" ; 1a c1asse "uomo" e' compresa come sottoc1asse ne11a pnma. allora che "animale" è genere della specie "uomo". Viceversa, la specie è meno ampia del genere e ne risulta compresa: "uomo" è dunque specie del genere "animale". Rispetto al genere, la specie individua un ambito più ristretto e tuttavia meglio determinato e più omogeneo al suo interno. Genere e specie sono nozioni relative, non assolute: ciò che è genere rispetto a una determinata specie, può essere a sua volta visto come specie di un genere più ampio. Per esempio: "animale" è genere di "uomo" ma specie di "vivente" (vedi schema Sostanza e Q}talità nella Lezione Profilo 43 La filosofia prima).

l

4. Gli elementi della definizione Torniamo alla definizione. Una definizione precisa è composta da due elementi:

il genere

la differenza specifica

indica l'ambito cui il termine, o soggetto definito, appartiene; il genere cui dobbiamo far riferimento per produrre una buona definizione è il genere prossimo, cioè quello più vicino al termine da definire e quindi meno generale e generico: dovendo definire il termine "uomo", il genere che indicheremo sarà quello prossimo di "animale" e non quello troppo ampio di "vivente"

(o le differenze specifiche) sono le caratteristiche che distinguono la specie del termine definito da altre dello stesso genere. Per dare un'appropriata definizione di uomo, oltre al genere prossimo (''animale") dovremo indicare le differenze in ragione delle quali l'uomo si distingue dagli altri animali, in primo luogo il fatto che possiede la ragione

Una buona definizione di uomo sarà dunque "animale (genere prossimo) razionale (differenza specifica)".

5. Proposizioni e ragionamenti: la logica Oltre al significato dei termini, espresso dalla definizione, il dialettico deve conoscere i criteri che regolano l'attribuzione di un predicato a un soggetto, ossia i modi in cui si combinano i diversi termini in una proposizione. Deve inoltre conoscere le norme che presiedono alla costruzione di un ragionamento. Un ragionamento consiste in un certo numero di proposizioni ben legate tra loro. Sappiamo 2. La filosofia nelfetà di Platone e Aristotele

207

l

che confutare una tesi equivale a dimostrare che essa comporta conseguenze contraddittorie (rispetto alle premesse comuni): è allora di grande importanza sapere come si collegano tra loro le proposizioni e come da certe premesse si possono trarre determinate conseguenze. Le riflessioni sulla proposizione e sul ragionamento (che Aristotele chiama "sillogismo") fanno dunque parte a pieno titolo della dialettica. È però consuetudine considerare a parte la teoria della proposizione e quella del sillogismo: questa sezione della dialettica è chiamata logica (da logos "pensiero") a causa del grande rilievo che esse presentano per lo studio dei procedimenti del pensiero umano in generale. La logica aristotelica è ampiamente trattata in Elementi di filosofia. La logica. Qui ci limitiamo a presentarne alcuni aspetti essenziali.

6. La proposizione: verità e falsità Ogni proposizione si presenta come una combinazione di termini. Per esempio, la proposizione "Socrate ride" è la combinazione dei due termini "Socrate" e "ride". r.: unione dei termini fra loro dà luogo a un'affermazione o, come si dice con espressione moderna, a un giudizio. È attraverso un giudizio che noi affermiamo o neghiamo qualcosa di qualcos'altro: verità e falsità sono dunque proprietà non dei termini singoli, che isolatamente non sono né veri, né falsi, ma del giudizio che li connette. La proposizione è l'espressione verbale di un giudizio. La forma di proposizione su cui si sofferma Aristotele è quella riduci bile a un rapporto predicativo, cioè a un enunciato composto da un Soggetto (S), da una copula (''è") e da un Predicato (P). Per esempio, "Socrate è un filosofo" (S è P). Vera è una proposizione in cui il giudizio che si formula congiunge ciò che nella realtà è congiunto (o disgiunge ciò che è disgiunto: "Soe1·ate non è un cammello"); falsa è una proposizione in cui si congiunge ciò che non è congiunto nella realtà: "Socrate è un cammello" (o si disgiunge ciò che non è disgiunto: "Socrate non è un filosofo").

7. Le proposizioni categoriche

• Lessico È

lOGICA PROPOSIZIONALE

la logica che studia la proposizione.

Non ogni combinazione di termini è sottoponibile al criterio di verità/falsità: una preghiera, per esempio, non è né vera, né falsa, e lo stesso accade per i comandi, le invocazioni, le esclamazioni. Tutte queste espressioni, e altre simili, fuoriescono dalla • logica proposizionale aristotelica e rientrano piuttosto in altri ambiti, come per esempio quello poetico. All'interno delle proposizioni, dunque, la logica aristotelica ne prende in considerazione una classe particolare, cui soltanto appartiene la possibilità di essere vera o falsa, la classe delle proposizioni dichiarative o categoriche, che Aristotele chiama apofantiche.

8. Il ragionamento o sillogismo ~

Ricorda che ...

Lo studio del sillogismo, avviato da Aristotele e proseguito poi dai logici ellenisti e medievali, rappresenta la parte più importante della logica formale tradizionale. Si parla di logica formale perché essa studia appunto la forma generale del ragionamento (e non i suoi contenuti).

208

r..:affermazione o la negazione di qualcosa non è ancora un ragionamento. Quando noi formuliamo singoli giudizi, oppure elenchiamo una serie di proposizioni slegate tra loro, non compiamo ancora un ragionamento o, come anche si dice, un'inferenza. Lo facciamo, invece, quando colleghiamo tra loro giudizi e proposizioni, individuando i legami di consequenzialità che li tengono assieme. La teoria delle proposizioni fa dunque da premessa e conduce alla teoria del sillogismo, che tratta dei collegamenti fra giudizi (e proposizioni che li esprimono) ~. Aristotele studia il sillogismo negli Analitici primi. In quest'opera, il filosofo lo definisce come «un discorso in cui, poste certe proposizioni, segue necessariamente qualcosa di diverso da ciò che è posto». Si tratta di una definizione ampia, che ammette ogni ragionamento nel quale si pervenga a una conclusione, a partire da più premesse (per esempio, il seguente: "se ci sarà il sole, farà caldo; ma il sole ci sarà, dunque farà caldo").

9. Il sillogism.o: due premesse e una conclusione Aristotele restringe la sua analisi allo studio di ragionamenti in cui la conclusione segue necessariamente da due premesse. Un esempio tipico di sillogismo è il seguente: · l. Tutti gli uomini sono mortali

Premesse

· 2. Tutti i filosofi sono uomini dunque

Conclusioni

3. Tutti i filosofi sono mortali

Il predicato della conclusione è detto termine maggiore; la premessa in cui compare, premessa maggiore. Il soggetto della conclusione è chiamato termine minore; la premessa in cui compare premessa minore. Il termine comune alle due premesse, che rappresenta il "perno" del ragionamento, è chiamato, infine, termine medio. Nel nostro esempio: l. è la premessa maggiore; 2. è la premessa minore; "mortali" è il termine maggiore; "filosofi" il termine minore; "uomini" è il termine medio. Il sillogismo è un'inferenza di tipo • deduttivo. Si chiama così un'inferenza che permette di ricavare una conclusione di carattere particolare - nel nostro caso riguardante i filosofi - da una premessa di ordine universale - qui quella riguardante tutti gli uomini.

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• lessico

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È il procedimento logico che da proposizioni universali trae (necessariamente) una conseguenza particolare. INDUZIONE Conduce da proposizioni particolari (o singolari) ad affermazioni di ordine generale (o universale). DEDUZIONE

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10. Validità e verità di un sillogismo Soltanto i sillogismi costruiti in determinati modi sono validi, cioè ricavano dalle premesse le conclusioni seguendo correttamente le regole logiche di inferenza. Un sillogismo valido è un sillogismo di forma tale da non potere, muovendo da premesse vere, portare a conclusioni false (o, partendo da premesse di cui una almeno sia falsa, portare a conclusioni vere). È opportuno insistere a questo proposito sulla distinzione tra validità di un sillogismo (che riguarda la correttezza formale) e verità delle sue conclusioni. La verità o la falsità delle conclusioni, in un sillogismo valido, dipende dalla verità o falsità delle premesse. Un sillogismo valido porterà a conclusioni vere se le sue premesse sono vere; ma un sillogismo valido porterà a conclusioni false se almeno una delle sue premesse è falsa, come appare evidente dall'esempio seguente: Premesse

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l. Tutti gli uomini sono immortali • (premessa falsa) 2. Tutti i greci sono uomini i:

dunque

Conclusioni

· 3. Tutti i greci sono immortali

11. Il sillogismo scientifico Fin qui abbiamo esaminato i caràtteri generali del procedimento sillogistico; dobbiamo ora considerare un particolare tipo di sillogismo: il sillogismo scientifico, che è alla base dell'apodittica, o scienza dimostrativa, studiata da Aristotele negli Analitici secondi. Conoscere scientificamente una cosa, avere scienza di essa, significa per Aristotele conoscere la causa per cui essa è in un determinato modo. In altre parole, perché si abbia scienza (epistéme) non è sufficiente sapere che a una cosa 2. La filosofia nelr età di Platone e Aristotele

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209

di fatto appartengono determinate proprietà, ma è necessario conoscere perché (o la ragione per cui) tali proprietà le appartengono con assoluta necessità (cioè, non possono non appartenerle). Che cosa distingue il sillogismo scientifico da qualsiasi altro sillogismo valido, e dunque logicamente ben costruito? Una particolare caratteristica delle premesse: perché si dia sillogismo scientifico, infatti, è indispensabile che le premesse siano vere. La scienza pretende di essere conoscenza vera dell'effettiva realtà delle cose; e non sarebbe tale se non fossero vere le sue premesse. Inoltre, affinché il sillogismo sia scientifico, le premesse devono essere prime. Questo significa che esse non devono essere tratte da altre premesse, altrimenti la ricerca delle cause si trasformerebbe in un infinito regresso, e dell'infinito- afferma Aristotele - non è possibile scienza.

12. I principi propri di ogni scienza ~

Ricorda che...

ln Platone, le scienze dianoetiche non erano autonome, perché i loro principi erano subordinati al vaglio della «massima disciplina>>, la dialettica. ~

Ricorda che ...

L: idea che il mondo fisico

avesse una struttura geometrico-matematica era stata avanzata dai pitagorici, da Democrito e da Platone nel Timeo: tradizioni poi riprese all'alba della scienza moderna.

Le proposizioni vere e prime da cui, nei vari ambiti del sapere, muove la dimostrazione rappresentano i principi propri delle diverse scienze. Tra questi, Aristotele colloca per esempio le definizioni, che esprimono l'essenza degli enti oggetto della scienza. Nel caso della geometria, la definizione delle figure; nel caso della biologia, le definizioni dei differenti tipi di viventi. Ogni scienza studia un campo suo proprio di oggetti, cioè un genere particolare di enti (fisici, matematici ecc.)~. I principi propri di ogni disciplina sono differenti da quelli da cui muovono le altre scienze. La dimostrazione deve mantenersi entro i confini di un singolo comparto scientifico. È dunque esclusa la possibilità di passare, in una dimostrazione scientifica, da un genere di enti all'altro, e di utilizzare per esempio principi e procedimenti propri della matematica nel campo della fisica. Questo è uno dei punti di maggior distanza tra la fisica aristotelica e la fisica moderna nata dalle ricerche di Galileo Galilei, per la quale è essenziale l'impiego di linguaggi e modelli matematici~.

13. La conoscenza dei principi: induzione e dialettica Ma allora, come possono essere conosciuti i principi delle scienze? In quanto "primi", essi non possono essere derivati da altri principi. Aristotele indica due modi: l. per induzione (in greco, epagoghé), che ha due significati: a. indica in primo luogo un processo psicologico: ripetute percezioni relative a enti dello stesso genere si conservano nella memoria e da quelle immagini di origine sensibile l'intelletto trae il concetto (o essenza), espresso nella definizione; e questo è principio proprio della scienza; b. in un secondo senso, il termine "induzione" denota un procedimento logico, quello induttivo. Esso permette - muovendo da premesse particolari, desunte

~o> La virtù etica è una «disposizione permanente» o un «abito» virtuoso del carattere: non possiamo infatti dirci virtuosi, se ci comportiamo bene solo in qualche occasione. La disposizione virtuosa si fonda sull'abitudine. La virtù infatti non è innata e gli uomini per natura sono dotati soltanto della capacità di acquisire la virtù. Tale capacità, tuttavia, rimane allo stato potenziale e non perviene ad attuarsi, se non in seguito al ripetuto esercizio di azioni virtuose, che rende virtuoso il carattere di chi le compie.

9. La virtù etica come giusto mezzo tra due . eccessi Per essere virtuosi, non è necessario negare il desiderio e neutralizzare le passioni. Aristotele anzi è convinto che provare desiderio e volere razionalmente qualcosa siano tendenze tra loro affini, entrambe naturalmente radicate nell'anima umana e incaricate di un compito essenziale: quello di spingere l'uomo ad agire (se non si desiderasse qualcosa, pensa Aristotele, non si farebbe nulla). Il desiderio e le passioni, tuttavia, pervengono all'eccellenza e si attuano come virtù, solo nella misura in cui si conformano a una regola imposta dalla ragione. Tale regola coincide con la ricerca del punto di equilibrio tra due estremi. Aristotele definisce la virtù etica quale medietà (mesotes), ossia disposizione a desiderare sempre il giusto mezzo tra due vizi, «uno per eccesso e uno per difetto» ~. La virtù etica del coraggio, per esempio, è la disposizione ad agire in situazione di pericolo evitando sia la viltà, cioè l'eccesso di paura, sia la temerarietà, cioè il difetto vizioso di paura. Il giusto mezzo, però, non può essere definito in astratto, in modo identico per tutti, ma deve essere commisurato a chi compie l'azione e alle circostanze in cui essa si svolge: la medesimà quantità di cibo può rappresentare il giusto mezzo per un atleta in allenamento, ed essere eccessiva per un intellettuale, impegnato a scrivere un libro.

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Ricorda che...

La messa in valore della "medietà" passa da Aristotele a molta cultura successiva: si pensi, per esempio, all'aurea mediocritas del poeta latino Orazio.

Aristotele, la morale aristocratica e fintellettualismo etico

Negando che la virtù sia un dono di natura, Aristotele si pone in aperto contrasto con la morale aristocratica, che concepisce la virtù come qualità innata dei soli nobili (aristo i). l:idea che la formazione di un carattere virtuoso richieda molto esercizio e la ripetizione di azioni virtuose distingue poi Aristotele dall'intellettualismo etico di Socrate e Platone. Questi - identificando virtù e conoscenza- fanno derivare l'acquisizione della virtù dal puro insegnamento o apprendimento teorico. Aristotele individua invece il compito primario dell'educazione non nella trasmissione di conoscenze teoriche, ma nella formazione del carattere, attraverso l'imposizione di pratiche virtuose, da parte del padre, dei buoni maestri e delle leggi cittadine.

Il ruolo della volontà rappresenta un ulteriore aspetto di distinzione della prospettiva aristotelica da quella socraticoplatonica. Per l'intellettualismo etico, la virtù si risolve nella conoscenza del bene: il male viene compiuto involontariamente, a causa dell'ignoranza di ciò che è bene. Per Aristotele, invece, la conoscenza del fine buono non è sufficiente a determinare l'agire virtuoso. Per questo si richiede il concorso della volontà: se non siamo animati dalla volontà di agire in vista del raggiungimento di un fine buono - anche se sappiamo che esso è bene- non potremo conseguirlo. E, se l'agire virtuoso dipende dalla volontà, da questa, e non da ignoranza, dipendono anche i vizi di cui dunque siamo responsabili. i1

2. La filosofia nelfetà di Platone e Aristotele

245 i,

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~ Ricorda che ... Esempio di giustizia distributiva se mi impegno e ottengo migliori risultati nello studio, è giusto che prenda un voto più alto.

~ Ricorda che... Esempio di giustizia commutativa: se commetto un furto a danno di un altro cittadino, è giusto che io venga punito (ejo costretto a risarcirlo).

1O. La virtù etica della giustizia Un rilievo particolare, tra le virtù etiche, assume la giustizia (dikaiosjne). In generale, la giustizia corrisponde alla virtù, poiché è capacità di tenere un comportamento virtuoso e mediano non solo in rapporto a se stessi, ma anche in relazione agli altri. Aristotele considera anche due significati particolari di giustizia, dal valore squisitamente politico: l. la giustizia distributiva ~' che assicura che nella polis onori, ricchezze e beni vengano assegnati in proporzione ai meriti; 2. la giustizia commutativa ~' o regolatrice, che ristabilisce l'equità nei rapporti tra i singoli cittadini - indipendentemente dai meriti - quando essa sia stata violata (per esempio, nel caso di un furto).

11. Le virtù dianoetiche. La sapienza (sophfa) e la saggezza (phr6nesis) Nelle virtù dianoetiche si manifesta l'eccellenza dell'anima razionale. Di questa, nell'Etica Nicomachea, Aristotele distingue due facoltà: l. la facoltà scientifica, o intelletto teoretico, che si esercita nella conoscenza; 2. la facoltà calcolativa, o intelletto pratico, che ci guida nell'azione. La virtù propria della facoltà scientifica è la sapienza (sophia), che comprende la scienza (attitudine alla dimostrazione apodittica) e l'intelligenza (capacità di conoscere i principi della scienza). Le virtù proprie della facoltà calcolativa sono invece l'arte (téchne) e la saggezza o prudenza (phr6nesis). La saggezza è la virtù di chi agisce in modo eccellente nella vita pratica, e si esplica in due modi: • permette di calcolare quale sia il giusto mezzo, per noi, in rapporto alla particolare situazione nella quale ci troviamo a operare; • aiuta a ben deliberare riguardo ai mezzi più efficaci per conseguire il giusto mezzo. Facoltà dell'anima e virtù

anima

teoretico , pratico ...................... ........... . ······· ···~·· ' virti1· ......... .... ··· ... vrrtu /······· ·· dianoetiche dianoetiche saggezza sapjem~ : ·~·

razionale

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vegetativa

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246

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nella dimensione morale

La sapienza coincide con l'eccellenza nella conoscenza teorica, anche quando la ricerca verte intorno a ciò che è bene per l'uomo: le stesse scienze pratiche -etica e politica- sono espressioni della ragione scientifica, anche se le studiamo in vista dei vantaggi che possono derivarne per l'azione.

12. La virtù del cittadino e quella del filosofo. Il bios theoretikos Come esempio di saggio, Aristotele propone un grande politico quale Pericle; ma saggio è anche il cittadino comune, se sa partecipare con onore alla vita della polis e amministra bene la casa e il patrimonio. Come esempi di sapienti, Aristotele guarda a filosofi quali Talete, Anassagora e Socrate. Saggezza e sapienza assicurano entrambe forme di vita felice perché virtuosa, ma sono virtù distinte e autonome l'una dall'altra. La saggezza è alla portata di tutti. La sapienza è propria del filosofo che si dedica alla conoscenza. La vita teoretica (bios theoretik6s) del sapiente è per Aristotele quella in assoluto più degna, portatrice della massima felicità, la felicità mentale: essa rende l'uomo simile al dio, anche se per un tempo troppo fugace (gli dèi infatti sono immortali e - nella sua breve vita - il filosofo non sempre riesce a dedicarsi alla prediletta attività teoretica, essendone spesso distolto dagli altri impegni della vita). [eccellenza della conoscenza teorica, però, non è sufficiente a rendere saggio chi la detiene: non basta a ispirare decisioni appropriate (anche se può aiutare a deliberare a ragion veduta) ~- Non necessariamente dunque per Aristotele un buon filosofo è un buon politico o sa condursi saggiamente nei suoi affari privati.

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Ricorda che ... Per Platone la conoscenza teorica è condizione sufficiente per agire bene. Per questo solo i filosofi - che conoscono il bene- sanno agire a vantaggio della città.

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verifica

aConoscenza dei termini Definisci: anima, felicità, virtù, virtù etica/ dianoetica, saggezza, sapienza, vita teoretica.

bcomprensione di concetti e relazioni l Perché la dottrina dell'anima è importante anche ai fini della filosofia pratica di Aristotele?

2 Che cos'è la sapienza per Aristotele? e la saggezza? 3 Quali aspetti dell'intellettualismo etico platonico vengono negati dalla filosofia pratica aristotelica? 4 Qual è la felicità più grande per l'uomo? 5 Perché, secondo Aristotele, il filosofo non è necessariamente un buon governante? 2. La filosofia nelfetà di Platone e Aristotele

247 l

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Lezione Testo

elicità è virtù • 335-323 a.C. l • silloge di testi

Il Aristotele Etica Nicomachea

Aristotele nel passo che segue- tratto dal libro l dell'Etica Nicomachea- elabora il proprio concetto della felicità, il massimo bene pratico per l'uomo: la felicità è l'«attività dell'anima secondo virtù».

Ma senza dubbio dire che la felicità è il bene supremo risulta sì una cosa sulla quale si è tutti d'accordo, ma si desidera che sia esposto più chiaramente che cos'è. O Forse questo potrebbe avvenire se si comprendesse l'opera propria dell'uomo. Infatti come per un suonatore di flauto e per uno scultore e per ogni artigiano e, in generale, per le cose di cui vi è un'opera ed un'azione è nell'opera che, ad avviso unanime, risiedono il bene e la perfezione, così tutti ammetteranno che è anche per l'uomo, se è vero che vi è un'opera propria di lui. Ma forse che di un carpentiere e di un calzolaio vi sono alcune opere ed azioni proprie, mentre propria dell'uomo non ne è nessuna, ma la natura l'ha generato come essere privo di un'opera specifica? Oppure, come dell'occhio e della mano e del piede e, in generale, di ciascuna delle parti del corpo vi è manifestamente un'opera propria, così anche dell'uomo oltre a tutte queste si porrà un'opera propria? Pertanto quale mai potrebbe essere quest'opera? Infatti il vivere è in tutta evidenza una cosa comune anche alle piante, mentre si cerca ciò che gli è proprio. Bisogna dunque escludere la vita di nutrizione e di crescita. Seguirebbe la vita sensitiva, ma è evidente che anch'essa è comune al cavallo ed al bue e ad ogni animale. $ Resta pertanto una certa vita attiva della parte dell'anima che possiede la regola. Di questa una parte è come obbediente alla regola, l'altra come possedente la regola e pensante. Essendo detta anche questa in due sensi, bisogna porre quella che è secondo l'attività; infatti, ad avviso unanime, questa è detta in senso più proprio.

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3 Ma l'attività di quale pat·te dell'anima comporta la felicità dell'uomo? Non può identificarsi con il semplice vivere, che è l'opera propria della facoltà nutritiva, essendo questa comune anche agli altri animali e alle stesse piante. La felicità non può neppure coincidere con l'attività della facoltà sensitiva, che accomuna l'uomo agli altri animali.

l Cominciamo la nostra analisi con un chiarimento su un termine-chiave dell'etica aristotelica, eudaimonla. I.: italiano "felicità" ne rende infatti solo parzialmente il significato. Composto da eu, "bene", e daimon, "demone", eudaimonla significa letteralmente "essere in compagnia di un buon demone", e quindi denota, nel linguaggio comune, una condizione di complessivo benessere. Ma che cos'è la felicità? 248

In quanto fine ultimo dell'agire umano, la felicità deve essere «alcunché di perfetto e di autosufficiente». Tale appare ad Aristotele «l'opera propria dell'uomo», cioè l'esercizio delle facoltà propriamente umane. La felicità coincide con l'esercizio di tali facoltà a livello di eccellenza, ovvero con il loro esercizio virtuoso, come chiarisce l'esempio del suonato re. La felicità viene definita come «attività dell'anima secondo virtù».

La felicità è attività che coinvolga la ragione («che possiede la regola»): questa solo distingue l'uomo dagli altri animali. Per Aristotele, però, partecipa della ragione non solo la facoltà razionale (che svolge una funzione direttiva nella vita pratica) ma anche la facoltà desiderativa, nella misura in cui si subordina alla ragione e le obbedisce.

Ma se opera propria dell'uomo è un'attività dell'anima conforme alla regola o non sprovvista di regola, e noi diciamo che è genericamente identica l'opera di un uomo e di un uomo virtuoso (come identica è l'opera di un suonato re di cetra e di un virtuoso suonato re di cetra; eppertanto questo vale in assoluto in tutti i casi), aggiungendosi l' eccellenza secondo la virtù all'opera (infatti compito di un suonato re di cetra è suonare la cetra, e di un virtuoso suonatore di cetra il suonarla bene); se è così, [se poniamo come opera propria dell'uomo una certa vita, e questa consiste in un'attività e in un'azione accompagnate da ragione, ed è proprio dell'uomo virtuoso realizzare bene e perfettamente queste cose, ed ogni cosa è ben compiuta secondo la virtù che le è propria; se è così], il bene umano consiste in un'attività dell' anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta. Inoltre, in una vita compiuta. Infatti una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; e così un solo giorno né poco tempo non rendono l'uomo neppure beato e felice.

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5 Per rendere l'uomo felice, l'attività dell'anima deve essere «secondo virtù)), ossia esercitata a livello di eccellenza (come l'opera o attività del suonato re di cetra capace di suonarla in modo virtuoso). Nell'ambito della vita della facoltà propriamente razionale, Aristotele distingue l'intelletto teoretico dall'intelletto pratico. Entrambi possono essere esercitati a livello d' eccellenza, possono comportare cioè una virtù. La più alta felicità umana («il bene umano») consisterà però nella virtù (o esercizio virtuoso) della funzione più alta, ossia dell'intelletto teoretico, che è la sapienza. È qui formulata la tesi dell'eccellenza del bios theoretikds, della vita dedicata allo studio (che tuttavia non esclude la messa in valore della felicità legata alla virtù pratica).

6

Felice soprattutto sarà l'uomo cui avvenga di esercitare la sapienza non per un breve momento, ma per tut' ta la vita. Anche se questo - Aristotele lo sa- è un ideale difficilmente realizzabile, a causa degli impegni della vita pratica che distolgono il filosofo daAristotele, Etica Nicomachea, I, 6, 1097b22-1098a20, trad. it. di M. Zanotto, Rizzoli, Milano 1986 gli studi prediletti.

laboratorio

a

Analisi del testo l Che cosa intende Aristotele con l'espressione «opera propria»? Illustrala con esempi relativi a un lavoro e ad un organo corporeo. 2. Perché il vivere in quanto tale non può rappresentare l'opera propria dell'uomo? 3 Qual è la funzione specifica che caratterizza l'uomo? 4 Quali sono le facoltà dell'anima la cui attività coincide con la felicità? 5 Qual è la virtù «più eccellente e più perfetta», cui Aristotele accenna in conclusione? Si tratta di una virtù etica o dianoetica?

b

Riflessione 1 Rifletti sulla nozione aristotelica di felicità

e confrontala con la tua: ci sono differenze significative? 2 l n particolare, secondo te, è plausibile la tesi che suonare bene renda felice chi suona? Ti convince l'idea che la conoscenza e lo studio rendano felice chi vi si dedica? 3 Nella concezione aristotelica della felicità come «attività dell'anima secondo virtù», un filosofo contemporaneo, Amartya Sen, ha cercato la base per una ridefinizione del concetto di libertà. Questa viene da Sen intesa come «capacità di funzionare», ossia di dispiegare appieno da parte di ciascuno le facoltà proprie dell'uomo: non sono veramente liberi in questa prospettiva il misero; il malato senza cure; chi è privo degli strumenti culturali essenziali. Ti convince questa definizione di libertà? 2. La filosofia nelfetà di Platone e Aristotele

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Lezione Testo

saggezza • 335-323 a.C.

Il Aristotele Etica Nicomachea

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silloge di testi

Nel testo che segue- tratto dal libro VI dell'Etica Nicomachea- Aristotele si dedica allo studio della saggezza, la virtù della parte calcolativa dell'anima razionale, che ha una grande importanza per la vita pratica dell'uomo.

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Un modo per comprendere che cos'è la saggezza è considerare quali uomini noi indichiamo dicendo "i saggi". O È opinione comune che proprio del saggio è l'esser capace di deliberare bene sulle cose che sono buone e vantaggiose per lui: non da un punto di vista particolare, come ad esempio quali giovano alla salute od alla forza fisica, ma quali conducono a vivere bene, in senso totale. Ne è prova il fatto che noi chiamiamo saggi anche quelli che lo sono in un determinato settore, quando calcolano bene in vista di un fine virtuoso particolare [... ]. Di conseguenza, anche in senso generale sarà saggio chi sa deliberare. Ma nessuno delibera sulle cose che non possono essere altrimenti da quelle che sono, né su quelle che gli è impossibile compiere. Di conseguenza, se la scienza s'accompagna a dimostrazione, ma delle cose i cui principi possono essere diversamente da quello che sono, di queste non c'è dimostrazione (tutte infatti possono essere anche diversamente da quel che sono); e se non è possibile deliberare sulle cose che sono necessariamente, la saggezza non sarà una scienza né un'arte: una scienza perché ciò che è oggetto d'azione può essere altrimenti da quello che è; un'arte perché il genere dell'azione è diverso da quello della produzione. Infatti il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, mentre non potrebbe esserlo quello dell'azione: ché la stessa condotta virtuosa è un fine. Resta pertanto che essa è una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l'agire, concernente le cose che per l'uomo sono buone e cattive. E) Per questo riteniamo che Pericle e gli individui come lui sono saggi, perché sono capaci di vedere le cose che sono buone per loro e quelle che lo sono per gli uomini; e pensiamo che tali sono gli uomini che governano le case e le città. [... ] O

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1 Notazione di metodo: per comprendere che cos'è la saggezza, dobbiamo osservare i comportamenti degli uomini ritenuti saggi. In generale, le scienze pratiche si basano sullo studio dei comportamenti concreti degli uomini.

250

Aristotele t·ileva che viene chiamato saggio chi delibera bene su ciò che gli è vantaggioso, soprattutto in generale, con riguardo al viver bene. Più precisamente, la saggezza è la capacità di ben deliberare sui mezzi per realizzare il giusto mezzo («fìne virtuoso»).

3 Aristotele nota qui che non si delibera intorno a ciò che non dipende da noi, distinguendo sia tra saggezza (ragione applicata alla vita pratica) e scienza (che studia apoditticamente cose che non dipendono da noi, come per esempio l'ordine della natura); sia tra saggezza e arte (che è, diremmo, ragione applicata alla produzione di qualcosa). La phrrJnesis, in quanto virtù, è una disposizione permanente (héxis). Ma essa è virtù dell'anima razionale: specificamente, della facoltà calcolativa. Essa si esplica dunque attraverso il ragionamento, volto a ricercare con verità dò che è buono e dò che è cattivo (non il vero o il falso, oggetto della scienza e della sapienza).

4

Aristotele procede attraverso alcuni esempi a illustl'are la virtù pt·atica della saggezza, distinguendola dalla sapienza. Un politico avveduto come Pericle è portato a esempio di saggezza pratica. I.: immagine di Talete estraneo a interessi politici e disattento verso le cose della vita a causa dell' atteggiamento contemplativo risale a Platone. Questi riferisce l'aneddoto della caduta in un fosso del filosofo, assorto nei suoi pensieri (e della derisione di cui viene perciò fatto oggetto da parte di una servetta tracia). Anche di Anassagora si tramanda che fosse dedito esclusivamente alla contemplazione e alla teoria.

Ad Anassagora e a Talete e agli uomini di questo genere si dà l' appellativo di sapienti ma non di saggi, quando li si vede ignorare i loro interessi, e si dice che conoscono verità straordinarie, meravigliose, difficili e divine ma prive di utilità, perché non sono i beni umani che ricercano. [... ] Né la saggezza ha per oggetto soltanto gli universali, ma deve conoscere anche i particolari: essa infatti dirige l'azione, e l'azione ha rapporto con i particolari. Per questo certe persone sprovviste di conoscenze universali sono più capaci d'agire di altre che possiedono tali conoscenze; e, tra gli altri, le persone d'esperienza. Se uno infatti conoscesse che le carni leggere sono facili a digerirsi e salutari, ma ignorasse quali carni sono leggere, non produrrà salute, ma la produrrà piuttosto chi sa che le carni di pollo sono salutari. La saggezza dirige l'agire; di conseguenza deve possedere ambedue le conoscenze, o di preferenza quella concernente i particolari.

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Nella parte conclusiva, Aristotele sviluppa una riflessione sull'utilità pratica di conoscenze teoriche di carattere generale. La saggezza, come capacità di guidare l'azione, può ritrovarsi anche in persone che non dispongono di conoscenze generali, ma che fondano i propri comportamenti sull' esperienza. Per esempio, molte persone sagge agiscono virtuosamente pur ignorando le premesse del sillogismo, che sono conoscenze di carattere generale, quali nell'esempio: a. le carni leggere sono facili a digerirsi e sane; b. le carni di pollo sono leggere. Ma ciò è possibile perché le persone sagge conoscono per esperienza la conclusione del sillogismo: le carni di pollo sono facili a digerirsi e sane. Questo sillogismo "scorciato", adatto alle decisioni pratiche, è chiamato anche "sillogismo pratico".

Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 5, 1140a24-1141 b22, ci t.

laboratorio

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Analisi del testo l Quale sintetica definizione offre Aristotele della saggezza? 2 Perché, secondo Aristotele, in campo pratico l'esperienza è più importante delle conoscenze di carattere generale? 3 Che cos'è il "sillogismo pratico"? l l

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Riflessione l Che cos'è la saggezza per Aristotele? Rispondi in un breve testo scritto, utilizzando opportunamente .i seguenti termini ed espressioni: disposizione, azione, deliberare/deliberazione, dimostrazione, produzione, «cose che non possono essere altrimenti da quelle che sono», arte, scienza, sapienza, "sillogismo pratico", Platone, intellettualismo etico. 2 Ora esprimi un tuo giudizio motivato: che cos'è per te la saggezza? È indispensabile essere dotti per essere saggi?

3 Prova a ricostruire il percorso del brano, aiutandoti con questo schema.

Non scienza (che usa la ragione per studiare cose non dipendenti da noi, senza scopi pratici). Esempi di sapienti: Talete, Anassagora

Non arte (che ragiona in vista del produrre cose differenti da noi)

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SAGGEZZA

disposizione virtuosa a ricercare i mezzi per raggiungere il fine buono (giusto mezzo). Riguarda le azioni. Esempio di saggio: il politico Pericle

si basa più sull'esperienza che su conoscenze generali ("sillogismo pratico")

2. La filosofia nelf età di Platone e Aristotele

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Lezione Testo

apienza e meraviglia Il Aristotele Metafisica

l ••

ca 347-322 a.C.

silloge di testi

Il testo che segue è uno dei più noti di Aristotele. È tratto dalla Metafisica ed è caratterizzato da un linguaggio solenne e da una forma letteraria molto curata. Aristotele vi tesse l'elogio della sapienza: questa si origina dalla meraviglia per le cose nuove e sconosciute e ha di mira il puro c;:onoscere.

Che [la Sapienza] non sia una scienza produttiva risulta con chiarezza anche da qualche considerazione su quelli che diedero inizio alla riflessione filosofica; infatti gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni della luna e del sole e delle stelle e l'origine dell'universo. Chi è nell'incertezza e l. nella meraviglia crede di essere nell'ignoranza (perciò anche chi ha . propensione per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose); e quindi, se è vero che ~ gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all'ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche bisogno pratico. E ne è testimonianza anche il 1 corso degli eventi, giacché solo quando furono a loro disposizione Nella prima pat·te del testo, Aristotetutti i mezzi indispensabili alla vita e che procurano benesle afferma che la sapienza non si prosere e agiatezza, gli uomini incominciarono a darsi ad una tale sorta pone scopi produttivi, ma viene ridi indagine scientifica. O cercata per puro amore della conoÈ chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine senza mirare scenza. Gli argomenti che egli porta a ad alcun bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo sostegno della sua tesi sono schematicamente i seguenti. libero un uomo che vive per sé e non per un altro, così anche consi- l. La sapienza si origina dalla meravideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto glia suscitata negli uomini dalle cose esiste di per sé. Perciò giustamente si può anche ritenere che il pos- sconosciute - dalle più semplici alle sesso di essa è cosa sovrumana giacché per molti aspetti la natura del- più complesse- e si nutre del desiderio che essi mostrano in ogni tempo di l'uomo è schiava, epperò, secondo Simonide, «soltanto un dio può sfuggire all'ignoranza. Per questo si aver tal privilegio», mentre l'uomo è in grado di ricercare soltanto può dire che anche chi ama i miti sia alquella scienza che gli è adeguata. Ma se c'è qualche verità nelle affer- meno in un certo senso filosofo (permazioni dei poeti e se la divinità è, per sua natura, invidiosa, giusta- ché i miti rappresentano il tentativo di mente la sua invidia si dovrebbe esercitare soprattutto in questo caso, spiegare - per quanto in termini leggendari- realtà ignote). e tutti gli uomini eccellenti dovrebbero essere sventurati. Ma è incon- 2. Storicamente, soltanto dopo aver ricepibile che la divinità sia invidiosa, anzi si deve prestar fede al pro- solto i problemi pratici della vita gli verbio secondo cui «molte menzogne dicono i cantori», né bisogna uomini si sono dedicati alla sapienza credere che esista un'altra scienza più rispettabile di essa, giacché essa (questo è riassunto nel proverbio latino molto noto: primum vivere, deinde è la più divina e veneranda; ed essa sola può avere tali prerogative per philosophari: "per dedicarsi alla filoso~ due aspetti: infatti una scienza è divina sia perché un dio la possiede fìa è necessario essersi prima assicurati al massimo grado, sia perché essa stessa si occupa delle cose divine. le condizioni per vivere").

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Ma essa sola possiede entrambe queste prerogative, giacché da una parte tutti credono che dio è una delle cause ed è un principio, dall'altra dio solamente, o almeno in sommo grado, può possedere una siffatta scienza. Tutte le altre, pertanto, sono materialmente più necessarie di essa, ma nessuna è migliore. f) È indispensabile, comunque, che l'acquisizione della Sapienza sollevi, in un certo modo, ad un punto di vista che è contrario a quello in cui noi ci troviamo all'inizio delle nostre ricerche. Tutti, infatti, come dicevamo, cominciano col provar meraviglia che le cose siano in un determinato modo, come sono soliti comportarsi di fronte alle marionette o ai solstizi o all'incommensurabilità della diagonale (difatti a tutti sembra un prodigio il fatto che una certa lunghezza non possa essere misurata neppure dall'unità minima); ma come avviene nei suddetti casi allorché gli uomini li abbiano compresi, così anche noi dobbiamo approdare, alla fine, al punto di vista contrario, che è anche, secondo il proverbio, quello migliore: difatti per un uomo esperto di geometria la maggiore stranezza del mondo sarebbe la commensurabilità della diagonale rispetto al lato.

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Aristotele, Metafisica, Alfa (I), 982bll-983a21, cit.

2 Inizia qui l'elogio della sapienza. Per la sua natura disinteressata e contemplativa, osserva Aristotele, la sapienza appare superiore a ogni altra forma di sapere (anche se altre forme di sapere sono più utili). Il bios theoretikOs, ossia la vita dedicata esclusivamente alla conoscenza e alla contemplazione, appare come la forma di esistenza più elevata e divina (vedi Lezione Testo 47 Il motore immobile). Non solo infatti il suo oggetto è divino (Aristotele pensa qui forse alla dimensione teologica della Metafisica e allo studio della sostanza immobile, principio del movimento), ma inoltre essa è posseduta in massimo grado da dio (il quale- come viene specificato nel libro Lambda- «pensa se stesso»).

3

V ultima parte del passo è dedicata a un'ulteriore riflessione sulla natura della sapienza. Aristotele vi sottolinea in particolare che la condizione di ignoranza e di meraviglia in cui ci si trova all'inizio della ricerca viene alla fine superata con il possesso della conoscenza, il quale- proprio in quanto possesso stabilmente acquisito - non si accompagna a meraviglia. Sarebbe infatti stupefacente - osserva in conclusione Aristotele - che l'esperto di geometria si stupisse di una proprietà a lui notissima del quadrato, quale l'incommensurabilità di lato e diagonale.

laboratorio

a

Analisi del testo 1 Con quali argomenti Aristotele sostiene il carattere esclusivamente teoretico della sapienza? 2 Perché l'origine della sapienza dalla meraviglia ne conferma la natura squisitamente teoretica? 3 Perché Aristotele afferma che chi ama le leggende è in un certo qual modo filosofo?

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Riflessione

l In questo testo Aristotele nega ogni utilità alla

sapienza (e alla scienza che ne fa parte). Ti sembra che questo punto di vista sia ancor oggi accettato? Lo condividi o pensi che tra gli scopi della scienza ci sia anche quello di migliorare le condizioni di vita dell'uomo?

2 Per la verità, anche in Aristotele troviamo ambiti della scienza il cui scopo non è il sapere per il sapere. Quali sono? Rispondi, utilizzando opportunamente quanto hai studiato e il testo seguente, tratto anch'esso dalla Metafisica: «La scienza fisica tratta di un genere particolare di enti: quelli che hanno in se stessi il principio del movimento e della quiete. Ebbene, è evidente che la fisica non è scienza pratica né scienza poietica: infatti il principio delle produzioni è in colui che produce [... ];e il principio delle azioni pratiche è nell'agente[ ... ]. Pertanto, se ogni cognizione razionale è o pratica o poietica o teoretica, la fisica dovrà essere conoscenza teoretica».

2. La filosofia neiTetà di Platone e Aristotele

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Lezione Profilo

l a politica, farte e la tragedia Temi

*delleLa concezione naturalistica della polis * La classificazione differenti costituzioni politiche* Le tecniche o scienze poietiche: la poetica e la retorica

Concettt~cltittve

l'organismo naturale della polis, la polis: ambito di piena espressione della ragione e del linguaggio umani, costituzioni perfettefdevianti, politéia, arte poetica, catarsi

1. Bene comune e felicità individuale Per Aristotele la politica è la scienza "architettonica" e "legislatrice", cui sono affidati il buongoverno della città e - conseguentemente - la sua felicità e il suo benessere. La felicità della città e quella del cittadino sono strettamente intrecciate ed è impensabile che il singolo possa essere davvero felice al di fuori di una polis bene ordinata. La felicità - dice chiaramente Aristotele nell'Etica Nicomachea - «è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bella e più divina se riguarda un popolo e le città». Le indagini di Aristotele sulla polis sono contenute nella Politica: qui il filosofo esamina le diverse forme in cui si è sviluppata la società umana e ragiona sulle istituzioni, le leggi e le consuetudini più idonee a favorire il conseguimento della felicità da parte di tutti i cittadini.

2. La polis e la vita sociale Confronti Protagora e altri sofìsti avevano sostenuto l'origine convenzionalistica della polis: questa sarebbe un prodotto "artificiale", effetto di un accordo tra gli uomini. Aristotele invece si schiera contro il convenzionalismo, a favore delle teorie naturalistiche dello stato.

Se, in campo politico, Platone si preoccupa soprattutto di fornire un modello ideale cui le città storiche dovrebbero tendere ad adeguarsi, in Aristotele prevale l'interesse a descrivere le forme politiche che le città greche erano andate assumendo nel loro sviluppo storico. Proprio l'esame delle costituzioni esistenti permette al filosofo di chiarire quali di esse realizzano meglio il compito di assicurare la felicità dei propri cittadini. La polis è concepita da Aristotele come un organismo naturale: essa si sviluppa cioè come conseguenza della natura stessa dell'uomo. ruomo, infatti, secondo la nota definizione aristotelica, è un «animale naturalmente sociale» (zòon physei politik6n) e tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. La vita al di fuori del consorzio con i propri simili appartiene a esseri inferiori all'uomo (come gli altri animali) o superiori (come gli dèi). Per l'uomo, invece, la polis è non solo condizione di sopravvivenza: essa è anche l'unico ambito in cui è assicurato il pieno impiego di doti tipicamente umane, quali la ragione e il linguaggio. Doti tanto raffinate non avrebbero alcuna utilità, pensa Aristotele, se non esistesse uno spazio come quello cittadino, in cui è possibile lo sviluppo della cultura e sono in discussione problemi sofisticati e complessi, come quello della giustizia e del bene comune di molti uomini (mentre nella vita familiare sono in gioco questioni più semplici, trattabili perfino a gesti o con poche parole).

3. Famiglia, villaggio, polis La città è considerata come il compimento (telos) di un processo che vede l'uomo aggregarsi istintivamente in associazioni via via più ampie, dapprima nella farni-

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glia, quindi nel villaggio, infine, appunto, nella polis, la forma più compiuta di associazione umana. È evidente l'analogia con lo sviluppo di un organismo vivente: ghianda "' famiglia

piaudcella "' villaggio "' aggregato di famiglie

quercia frondosa "'polis

generazione ed economia familiare

divisione primitiva del lavoro, difesa da animali e nemici

cultura, vita politica, discussione su ciò che è giusto e ingiusto

Legato alla mentalità dell'epoca è l'esame che Aristotele svolge della famiglia. In essa egli individua sia la base della riproduzione della specie (conseguente all'impulso naturale di ogni animale a unirsi all'altro sesso per generare), sia il nucleo dell'attività economica (basata sul convergente interesse del padrone e dello schiavo a unirsi per sopravvivere). In relazione al primo aspetto, Aristotele considera naturalmente fondata la subordinazione della donna (e dei figli) al capofamiglia ~. Quanto al secondo, egli giustifica l'istituzione della schiavitù, affermando che padrone e schiavo (uno «strumento animato») sono tali per natura, non essendo gli schiavi dotati di una compiuta razionalità.

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Ricorda che... La dottrina aristotelica della subordinazione della donna riflette acriticamente la condizione della donna nella società ateniese, in cui la cittadinanza era riservata ai maschi adulti.

4. La classificazione qualitativa delle costituzioni Poiché la polis è concepita da Aristotele come un organismo, anche le diverse costituzioni (oligarchia, democrazia ecc.) vengono studiate in analogia alle specie naturali: come le classificazioni zoologiche distinguono le specie animali in rapporto alle parti o organi (sensori, motori ecc.), così le classificazioni politiche devono prendere in considerazione le diverse parti o classi dalle quali le città sono composte. Aristotele giudica per questa ragione insufficienti le classificazioni che, come quella di Platone, si fondano su un semplice criterio quantitativo (governo dei più, o dei pochi, o di uno solo) ed elabora una tipologia qualitativa, utilizzando come criterio il gruppo sociale (ricchi o poveri) che domina la vita politica. Una città in cui i poveri sono esclusi dalle magistrature e i ricchi detengono tutto il potere sarà dunque oligarchica e non democratica, anche se i ricchi costituiscono la maggioranza numerica dei cittadini.

5. Le costituzioni perfette e devianti Aristotele distingue tra costituzioni perfette e devianti. Le costituzioni perfette sono rispettivamente la monarchia o governo illuminato di un solo uomo;

FOèUS La critica di Aristotele alla Repubblica di Platone -::0~

:: caso: questi fagioli sono di questo sacco > risultato: questi fagioli sono bianchi. 349 l

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flementi di filosofia Awertenza I.:ambito di validità di un'induzione non è quello dei principi generali, ma quello dei casi in cui essa è stata effettivamente riscontrata come valida.

Nella induzione, invece, la verità delle premesse (anche se numerose) non garantisce mai la verità della conclusione. Mentre nessun fatto particolare è in grado di inficiare la validità della conclusione di una deduzione, un solo controesempio (per esempio un "corvo bianco") fa cadere la conclusione di una induzione. :cinduzione dunque non comporta alcuna necessità. Basti pensare all'impossibilità pratica di osservare tutti i corvi passati, presenti e futuri. Se per ipotesi ciò fosse possibile, e si potesse constatare che ogni corvo è nero, allora la legge "Tutti i corvi sono neri" avrebbe la stessa necessità della conclusione di una deduzione. 2.6.llimiti dell'induzione. Nella vita quotidiana, le induzioni ci forniscono previsioni più o meno attendibili sugli effetti delle nostre azioni e sulle interazioni con l'ambiente. Senza induzioni, il nostro mondo sarebbe caotico, in quanto non avremmo nessuna ragione per credere che il futuro sia analogo al passato. Tutte le regolarità a cui siamo abituati verrebbero messe in dubbio. I.: induzione tuttavia, come abbiamo visto, non è completamente affidabile. Essa può condurci a una conclusione sbagliata. Bertrand Russell racconta, a questo proposito, la storia del "tacchino induttivista".

Fin dal primo giorno di permanenza nel suo nuovo allevamento il tacchino aveva osservato che alle nove del mattino gli veniva portato il cibo. Da buon induttivista non trasse precipitose conclusioni dalle prime osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e in quelli freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Finalmente la sua coscienza induttivista fu soddisfotta e il tacchino elaborò allora un'induzione che dalle asserzioni particolari relative alle sue vicende alimentari lo foce passare a un'asserzione generale, una legge, che suonava così: "Tutti i giorni, alle ore nove, mi danno il cibo': Purtroppo per il tacchino eper l'induttivismo, la conclusione fu clamorosamente smentita la mattina della vigilia di Natale! Benché riconosca all'induzione un importante ruolo nel reperimento dei principi delle scienze, Aristotele aveva presente i limiti del procedimento induttivo. Gli epicurei, invece, sostennero che per accettare il valore di verità di una induzione bastava che non si fossero verificati casi contrari. Contro questa tesi, gli scettici osservarono che, o ci si accontenta di una induzione incompleta (cioè fondata su un numero finito di casi particolari), ma allora è facile che la generalizzazione operata possa essere smentita; o si pretende di esaminare tutti i casi particolari (induzione completa), il che tuttavia può essere impossibile. 2. 7. l'abduzione.A fianco dell'induzione e della deduzione, esiste una terza forma di inferenza, già designata da Aristotele con il termine di apagoghé (per il filosofo consisteva in un sillogismo ipotetico): si tratta dell'abduzione, termine coniato dall'americano Charles Peirce. I.: abduzione è uno strumento per costruire ipotesi, quando se ne è sprovvisti. Definizione Mentre la deduzione inferisce da principi generali conclusioni particolari e l'induzione da proposizioni particolari conclusioni universali, l'abduzione deriva dall'effetto la causa probabile.

I.: abduzione muove dalle conseguenze e formula l'ipotesi in grado dispiegarle. Un esempio di abduzione è il seguente: "Se qui vi è della cenere, vi deve essere stato anche del fuoco". In questo ragionamento da una proposizione particolare (''qui vi è della cenere") si deriva, mediante un principio genel'ale implicito ("il fuoco produce sempre della cenere"), un'altra proposizione pal'ticolare (''qui vi è stato del fuoco") che costituisce la spiegazione probabile della prima proposizione. I.: abduzione produce conoscenze nuove, in quanto le sue conclusioni contengono informazioni assenti nelle premesse. È chiaro che l'abduzione è fallibile, in quanto produce solo una spiegazione possibile. Essa si limita a suggerire che qualcosa "può essere". È chiaro anche che le conclusioni delle abduzioni hanno una natura sperimentale, poiché ci spingono alla ricerca di tutte le conseguenze dell'ipotesi formulata. 2.8. Validità, invalidità. Nelle inferenze deduttive, in luogo di "corretto" e "scorretto", vengono usati i termini "valido" e "invalido". Definizione Una deduzione è valida se è impossibile che le sue premesse siano vere senza che anche le sue conclusioni lo siano. È invalida nel caso contrario. 350

Il compito della logica è quello di chiarire la natura delle relazioni fra premesse e conclusioni, cosl da imparare a distinguere tra inferenze valide e invalide. Validità e invalidità sono proprietà solo delle inferenze, mai delle singole proposizioni.

2..g. Verità, falsità. Viceversa verità e falsità possono essere predicati solo di proposizioni, mai di inferenze. Definizione Secondo la definizione aristotelica, la verità può essere intesa come la corrispondenza di una proposizione con la realtà di cui essa parla. In accordo con questa concezione della verità una proposizione è vera in due casi: l. se i fatti sono come essa dice che sono (proposizione affermativa); 2. se i fatti non sono come essa dice che non sono (proposizione negativa). È falsa nei casi rimanenti. Alcune inferenze deduttive contengono solo proposizioni vere, come in questo esempio: l a p t'emessa

Tutte le balene sono mammiferi

2"premessa

Tutti i mammiferi hanno i polmoni

DUNQUE

Tutte le balene hanno i polmoni Ma un'inferenza può contenere solo proposizioni false e nondimeno essere valida, come in questo esempio: P reniesse

!"premessa

Tutti i ragni hanno sei zampe

2"premessa

Tutti gli animali a sei zampe hanno le ali

DUNQUE

Cònchtsione.

Tutti i ragni hanno le ali

Questa deduzione è valida perché se le sue premesse fossero vere, anche la sua conclusione lo dovrebbe essere, anche se, in realtà, premesse e conclusioni sono false. Analizziamo ora il seguente ragionamento: l

Pieme8s'e

l

l

!"premessa

Se io possedessi tutto l'oro della Banca d'Italia, allora sarei ricco

2"premessa

Io non possiedo tutto l'oro della Banca d'Italia

DUNQUE

Conclttsione

Io non sono ricco

In questo esempio premesse e conclusioni sono vere, ma il ragionamento è invalido. Che le premesse possano essere vere e la conclusione falsa, pur non essendo evidente, può diventare chiaro non appena si consideri che, se io ereditassi dieci milioni di euro, le premesse rimarrebbero vere, ma la conclusione diventerebbe falsa. A conferma di ciò vale la seguente inferenza: !"premessa

Se Valentino Rossi possedesse tutto l'oro della Banca d'Italia sarebbe ricco

2" pt·emessa

Valentino Rossi non possiede tutto l'oro della Banca d'Italia

''l !l

DUNQUE

Conclusione

Valentino Rossi non è ricco

351

~

Awertenzd Vi sono dunque inferenze valide con conclusioni false e inferenze invalide con conclusioni vere.

l

Le premesse di questa inferenza sono vere, ma la conclusione è falsa. einferenza quindi non è valida, perché è impossibile che le premesse di un'inferenza valida siano vere, mentre la sua conclusione è falsa. La verità o la falsità della conclusione non determinano la validità o meno di un'inferenza, così come la validità di un'inferenza non assicura la verità della conclusione. Come già aveva compreso Aristotele, reperire le premesse e controllare la loro verità o falsità è compito della scienza. La logica si occupa invece delle relazioni fra proposizioni che determinano la correttezza o la scorrettezza dei nostri ragionamenti. La logica deduttiva tratta dunque dei principi dell'inferenza valida. Siamo in grado ora di definire che cosa si intende per dimostrazione. -

-

-~

Definizione Dimostrare una proposizione significa inferirla in maniera valida, a partire

da premesse vere.

1 2

3

4

1

2 3 4 5 6

Individua, nei seguenti brani, le inferenze, i termini e le rispettive premesse e conclusioni. Con l'aiuto della definizione del concetto di validità, indica poi se le inferenze contenute nei brani ti sembrano valide oppure invalide. l:intolleranza è sempre un male perché riduce la nostra libertà. Dobbiamo ascoltare le opinioni degli altri, perché altrimenti l'affermazione di quelle che per noi sono verità conduce solo al fanatismo. Poiché la luce viaggia a una velocità finita, guardare oggetti che distano milioni di miglia è come guardare di fatto la luce emessa tanti anni fa. Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravo moltissimo partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. (Platone, Lettera settima)

Sulla base delle definizioni di verità e validità sopra riportate, fai un esempio di: proposizione categorica affermativa falsa; proposizione categorica negativa vera; inferenza valida con conclusione vera; inferenza valida con conclusione falsa; inferenza invalida con conclusione vera; inferenza invalida con conclusione falsa.

Un solo controesempio è in grado di far cadere una conclusione induttiva. Compio osservazioni accuratissime su animali dotati di pelliccia, e tutti quelli osservati risultano vivipari. Quand'anche avessi compiuto migliaia di osservazioni, se volessi però indurre che tutti gli animali dotati di pelliccia sono vivipari direi il falso. Infatti, l'esistenza dell'ornitorinco, animale con pelliccia che depone uova, dimostrerebbe che la mia induzione si basa su una falsa generalizzazione. In questi casi, o mi accontento di una induzione incompleta (cioè fondata su un numero

finito di casi particolari), ma allora è possibile che la generalizzazione operata possa essere smentita, oppure pretendo di esaminare tutti i casi particolari (induzione completa), il che è spesso impossibile. l Sulla base dell'esempio sopra riportato, fai un esempio di induzione incompleta con conclusione falsa, un esempio di induzione completa con conclusione falsa, un esempio di induzione completa con conclusione vera. 2 Qual è l'errore commesso dal tacchino induttivista? Quale limite dell'induzione emerge dalla storia? È corretto dire che la morale della vicenda è che non è possibile provare la verità di asserzioni universali mediante la verità di asserzioni particolari? 3 Benché non si possa mai dimostrare la certezza della conclusione di una induzione, si può comunque sostenere che maggiore è il numero delle prove induttive, più è probabile che la conclusione sia vera. Non possiamo essere certi che domani il sole sorgerà; ciò è tuttavia molto probabile. Secondo te, nella vita quotidiana e nella ricerca scientifica, quale grado di affidabilità siamo abituati a dare alle procedure induttive?

1

2 3 4

Di fronte a un fatto sorprendente, l'abduzione tenta di formulare una ipotesi di spiegazione. Lo schema dell'abduzione è il seguente: dato il fatto sorprendente F non spiegabile dagli schemi della teoria T; si ipotizza una nuova teoria r'; se r' fosse vera, F sarebbe spiegato e non sarebbe più sorprendente; dunque si assume come probabile l'ipotesi r' Individua le quattro fasi dello schema nel seguente "caso scientifico": nel1845, l'astronomo francese Le Verrier, indagando le irregolarità dell'orbita di Urano, ipotizza in modo sorprendente l'esistenza di un nuovo pianeta del sistema solare, affermando che questa ipotesi spiegherebbe le irregolarità, altrimenti incomprensibili, dell'orbita di Urano. Sulla base di questa ipotesi, l'anno successivo viene scoperto il pianeta Nettuno.

jl!

l!

,----------------------------------------------------------------------------352

3·. La logica aristotelica

Avvertei!Zd

3.1. La teoria della proposizione. La logica di Aristotele prende le mosse dall'analisi del linguaggio. "C elemento linguistico che presenta il maggiore interesse logico, per Aristotele, è la proposizione. Ogni proposizione è una combinazione di tetmini. Per esempio la proposizione "Socrate ride" è la combinazione dei due termini "Socrate" e "ride". "C unione dei termini dà luogo a un'affermazione (apòphasis) o, come si dice con espressione moderna, a un giudizio. È attraverso un giudizio che noi affermiamo o neghiamo.

Verità e falsità non sono proprietà dei termini singoli, che isolatamente non sono né veri, né falsi, ma del giudizio che li connette.

3.2. Le proposizioni categoriche. La proposizione è l'espressione verbale di un giudizio. La forma proposizionale su cui si sofferma Aristotele è quella riducibile a un rappotto predicativo, vale a dire a un enunciato composto da un Soggetto (S), da una copula e da un Ptedicato (P). Per esempio «Socrate è un filosofo» (S è P). Definizione Veta è una proposizione in cui il giudizio congiunge ciò che nella realtà è congiunto (o disgiunge ciò che è disgiunto); falsa è una proposizione in cui si congiunge ciò che non è congiunto (o si disgiunge ciò che non è disgiunto). Non ogni combinazione di termini si sottopone al criterio di verità e falsità: una preghiera, per esempio, non è né vera, né falsa, e lo stesso accade per i comandi, le invocazioni, le esclamazioni. Tutte queste espressioni, e altre simili, fuoriescono dalla logica ptoposizionale aristotelica e rientrano in altri ambiti, per esempio quello poetico. All'interno delle proposizioni dunque, la logica aristotelica prende in considerazione una classe particolare, cui soltanto appartiene la possibilità di essere vera o falsa: le proposizioni dichiarative o categoriche, che Aristotele chiama apofantiche.

3·3· Qualità e quantità. Le proposizioni categoriche che hanno lo stesso soggetto (per esempio "uomo") e lo stesso predicato (per esempio "onesto") possono essere distinte per qualità e quantità. Secondo la qualità, esse possono essere affetmative o negative. Sono affermative quando il giudizio congiunge il soggetto e il predicato; sono al contrario negative quando li disgiunge. Secondo la quantità, le proposizioni possono essere universali, particolad o singolad, a seconda della maggiore o minore estensione (cioè generalità) del soggetto. In una proposizione universale, il termine che funge da soggetto indica un genere e il giudizio riguarda tutti gli individui dell'insieme a cui si riferisce. Per esempio, "tutti gli uomini sono onesti". In una proposizione singolare, il termine che funge da soggetto è il nome di un individuo. Per esempio, "Soe1·ate è onesto". In una proposizione particolare infine, il termine che funge da soggetto indica un genere, ma il giudizio riguarda solo alcuni degli individui dell'insieme a cui si riferisce. Per esempio, "qualche uomo è onesto".

Avvertei!Zd La logica aristotelica si occupa essenzialmente delle proposizioni universali e particolari. 'i 'l

3·4·11 quadrato aristotelico. Combinando la distinzione tra affermativo e negativo con quella tra univetsale e particolare, Aristotele ottiene quattro tipi fondamentali di proposizioni. Per facilitare l'esposizione ricorriamo ad alcune semplificazioni introdotte dalla logica medievale e moderna. Quantità

Qualità

Esempio

Forma ~

~

~~~~~~~~

~

affermativa

Tutti gli S sono P

tutti gli uomini sono onesti

universale

negativa

NessunS è P

nessun uomo è onesto

particolare

affermativa

QualcheS è P

qualche uomo è onesto

particolare

negativa

Qualche S non è P

qualche uomo non è onesto

l. universale i~---~----~----~

Ogni proposizione categorica comincia con una delle parole "tutti", "nessuno" o "qualche": queste parole indicano la quantità della proposizione e sono chiamate quantificatori. I primi due indicano che la proposizione è universale, il terzo che è particolare. Il quantificatore "nessuno" serve anche a indicare la qualità negativa della proposizione. Il verbo "essere", la

353

flementi di ftlosofia (

1

copula, serve a connettere i termini~soggetto e i termini~predicato. La struttura genetale di una proposizione categorica consta pertanto di quattro parti.

Una visione d'insieme delle quattro proposizioni aristoteliche viene fornita dai logici me~ dievali, i quali assegnano una lettera dell'alfabeto a ciascuna delle proposizioni, rispettiva~ mente le lettere A e I, per le universali affermative e per le particolari affermative (le prime due vocali del verbo latino Adfirmo) e le lettere E e O, per le universali negative e per le p articola~ ri negative (le prime due vocali del verbo latino nEgO). I logici medievali rappresentano inol~ tre le relazioni che intercorrono tra le quattto proposizioni nella celebre figura chiamata co~ munemente quadrato aristotelico.

s

u

B A L

T E R N E

s

u B

A L T E R N E

3·5· La teoria dell'opposizione. Tra i quattro tipi fondamentali di proposizioni sussisto~ no alcune relazioni, che Aristotele analizza nella teoria dell'opposizione. l. Le proposizioni contraddittorie. Due proposizioni sono contraddittorie, quando non possono essere entrambe vere e non possono essere entrambe false. Ciò accade quando esse differiscono sia per qualità, sia per quantità. La A e la O sono dunque fra loro contradditto~ rie; e così pure lo sono, fra loro, la E e la I: in ambedue i casi la verità di una proposizione im~ plica la falsità dell'altra. La negazione della A implica la O e viceversa; la negazione della E im~ plica la I e viceversa. 2. Le proposizioni contrarie. Due proposizioni sono contrarie, quando non possono es~ sere ambedue vere, ma possOno essere ambedue false. Ciò accade quando esse sono entram~ be universali, e hanno pertanto la stessa quantità, ma differiscono per qualità. La A e la E so~ no dunque fra loro contrarie. 3. Le proposizioni subcontrarie. Sono subcontrarie due proposizioni particolari che dif~ feriscono per qualità e che non possono essere entrambe false. La I e la O sono dunque, fra lo~ ro, subcontrarie. 4. Le proposizioni subalterne. Due proposizioni di medesima qualità, ma di quantità dif~ ferente, sono fra loro subalterne, in quanto la, verità dell'universale implica la verità della parti~ colare, ma non viceversa. Dunque la I è subalterna (o subalternata) della A e la O lo è della E. 3.6. La teoria del sillogismo. !_;affermazione o la negazione di qualcosa non è ancora un ragionamento. Quando noi formuliamo singoli giudizi, oppure elenchiamo una serie di proposizioni slegate tra loro, non compiamo un'inferenza. Lo facciamo, invece, quando colle~ ghiamo tra loro proposizioni, individuando i legami di consequenzialità che le tengono as~ sieme. La teoria delle proposizioni conduce dunque alla teoria del sillogismo che tratta dei collegamenti fra proposizioni.

o~fini~ione ìl si.l1Ògi~m~èrtf1; i~fe~enza m~di~t~ di tip~ ded~ttivÒ, attraverso Ì~qtiJ~ 'I'~ poste due premesse si ricava necessariamente una conclusione. Aristotele definisce il sillogismo come un discorso in cui, poste certe proposizioni, segue necessariamente qualcosa di diverso da ciò che è posto. Si tratta di una definizione ampia, che ammette ogni ragionamento nel quale si pervenga a una conclusione, a partire da più premes~ se (per esempio, "se ci sarà il sole, farà caldo; ma il sole ci sarà, dunque farà caldo"). Aristotele restringe tuttavia la sua analisi ai ragionamenti in cui la conclusione segue necessariamente da 354

La lo due premesse, le quali collegano i termini della conclusione stessa a un terzo termine, chiamato termine medio, che viene così a svolgere la funzione di perno del ragionamento. Con l'espressione "termini" vanno intesi i soggetti e i predicati delle proposizioni che intervengono nel sillogismo. Queste proposizioni sono proposizioni categoriche del tipo A E I O. 3·7·11 sillogismo categorico. Un sillogismo categorico è costituito da tre proposizioni categoriche, unite da un legame inferenziale derivante dall'avere, a due a due, un termine in comune. Un esempio di sillogismo categorico è il seguente: l. Tutti gli uomini sono mortali 2. Tutti i filosofi sono uomini

AwertenztJ Aristotele non considera che un sillogismo abbia come premesse una proposizione singolare.

3. Tutti i filosofi sono mortali

DUNQUE

Il predicato della conclusione è detto termine maggiore; la premessa in cui compare premessa maggiore. Il soggetto della conclusione è chiamato termine minore; la premessa in cui compare premessa minore. Il termine comune alle due premesse è chiamato termine medio. Nel nostro esempio, "mortali" è il termine maggiore; "filosofi" il termine minore; "uomini" il termine medio. 3.8.11 sillogismo valido. Soltanto i sillogismi costruiti in determinati modi sono validi, vale a dire ricavano dalle premesse le conclusioni seguendo correttamente le regole logiche di inferenza. Per costruire sillogismi validi, elaborando le indicazioni di Aristotele, la tradizione successiva ha messo a punto le seguenti regole: • il termine medio deve essere preso universalmente almeno in una premessa; • nessun termine può essere preso universalmente nella conclusione se non lo è stato nelle premesse; • da premesse negative non può derivare alcuna conclusione; • se una delle premesse è negativa, tale deve essere anche la conclusione; • da premesse affermative non può derivare una conclusione negativa. È opportuno insistere sulla distinzione tra validità di un sillogismo e verità delle sue conclusioni. La verità o la falsità delle conclusioni, in un sillogismo valido, dipende dalla verità o falsità delle premesse. Un sillogismo valido porterà a conclusioni vere se le sue premesse sono vere; ma un sillogismo valido porterà a conclusioni false se almeno una delle sue premesse è falsa, come appare evidente dall'esempio seguente: l. Tutti gli uomini sono immortali (premessa falsa) 2. Tutti i greci sono uomini 3. Tutti i greci sono immortali

DUNQUE

3·9· Figure e modi del sillogismo. In base alla posizione del termine medio nelle due premesse, i sillogismi possono essere suddivisi in figure. Nella prima figura, il medio è soggetto della premessa maggiore e 12redicato della premessa minore. Nella seconda figura, il termine medio è predicato in ambcifue--le premesse. Nella terza figura, esso è soggetto in entrambe. Nella quarta figura, infine, il medio è predicato della premessa maggiore e soggetto della minore. Se indichiamo con P il predicato della conclusione, con S il suo soggetto e con M il termine medio, possiamo schematizzare le quattro figure del sillogismo nella maniera seguente:

8MP

8PM

8MP

GPM

SM

SM

MS

MS

s

s

s

s

p

p

p

p

l

I li

AVWftf11ZtJ Aristotele non considera in realtà la quarta figura, ritenendola solo l'inverso della prima figura; essa viene introdotta dai logici medievali.

Per ogni figura, si possono avere 43 = 64 possibili combinazioni differenti, chiamate modi del sillogismo, a seconda della qualità e della quantità delle premesse e della conclusione. I modi possibili sono dunque complessivamente 256, dei quali però solo 19 risultano validi.

355

l

•flementi di filosofia Di essi, 4 sono della prima figura, 4 della seconda, 6 della terza e 5 della quarta. Un esempio di sillogismo valido in terza figura è il seguente: l. Tutti i filosofi sono simpatici 2. Qualche filosofo è francese DUNQUE

3. Qualche francese è simpatico

Ciascuno dei 19 modi validi è sottoposto a regole specifiche, a seconda della figura cui appartiene. Per esempio, per la prima figura la premessa maggiore deve essere universale, quella minore affermativa. Per la seconda figura, la premessa maggiore deve essere universale, una qualsiasi delle due premesse deve essere negativa e la conclusione può essere solo negativa. Nel Medioevo, a ognuno dei modi validi verrà attribuito un nome, parola "magicà' e "oscurà', come apparirà ai lettori dell'epoca moderna. Ecco l'elenco:

8figura

f) figura

f) figura

Q figura

BARBARA CELARENT DARli FERIO

CESARE CAMESTRES FESTINO BARO CO

DARAPTI FEIAPTON DISAMIS DATISI BO CARDO FERISON

BRAMANTIP CAMENES DIMARIS FESAPO FRESISON

Attraverso questi termini di pura convenzione mnemonica, i logici medievali raccolgono le informazioni necessarie per identificare le regole di costruzione dei modi validi di ciascuna figura. Per la loro complessità, ci limitiamo qui a riportare solo alcune tra queste regole. Levocali di ciascuna parola indicano la quantità e la qualità, nell'ordine, della premessa maggiore, di quella minore e della conclusione. Così, per esempio, BARBARA è il modo della prima figura in cui le due premesse e la conclusione sono tutte universali affermative (A); BAROCO è il modo della seconda figura in cui la premessa maggiore è universale affermativa (A), la premessa minore e la conclusione sono particolari negative (O). Un esempio di sillogismo in BARBARA è: "tutti i corpi sono soggetti alla legge di gravità -tutte le stelle sono corpi- dunque tutte le stelle sono soggette alla legge di gravità". Un esempio di sillogismo in BARO CO è invece: "tutte le esagerazioni sono riprovevoli- alcune passioni non sono riprovevoli- dunque alcune passioni non sono esagerazioni".

lttbOfdtOfiO

a

Nel linguaggio quotidiano, il Soggetto e il Predicato di una proposizione possono spesso risultare nascosti. Per esempio, la proposizione "Ognuno che è in quest'aula parla italiano" ha la forma aristotelica A (''Tutti gli S sono P"), dove S rappresenta "persone in quest'aula" e Prappresenta "parlanti italiano". Nel tradurre le proposizioni del linguaggio comune nelle forme A,E,I,O dobbiamo quindi stare attenti alle irregolarità delle espressioni comuni. Individua i termini-soggetto e i termini-predicato della seguente proposizione: l nessun atleta che abbia preso delle sostanze illecite è onesto.

b 356

Classifica le seguenti proposizioni nelle quattro forme aristoteliche, specificando quali termini corrispondono a S e quali a P:

'l Qualche studente non è uno sportivo. 2 Nessun gatto è buono. 3 La legge è uguale per tutti.

C Se assumiamo che la prima proposizione di questa serie sia vera, che cosa si può inferire sulla verità o falsità delle altre? l a. qualche professore non è un insegnante simpatico b. tutti i professori sono insegnanti simpatici c. nessun professore è un insegnante simpatico d. qualche professore è un insegnante simpatico Ripeti ora l'esercizio, assumendo che la prima proposizione sia falsa.

d

Riduci a formule il seguente sillogismo, indicando la figura e il modo: 1 Tutti i gatti sono mammiferi, nessuna sedia è un mammifero, quindi nessun gatto è una sedia.

---------

4·! l problemi della logica antica !4.1. Il problema dell'errore. Definire logicamente l'errore non è difficile. Possiamo intenderlo come il ritenere vera un'affermazione falsa o falsa un'affermazione vera. Più difficile è individuare quando un'argomentazione è errata e riconoscerne la forma. È infatti possibile trovare due argomenti in apparenza simili da un punto di vista formale, dei quali però l'uno è valido e l'altro è erroneo. Consideriamo per esempio questi due ragionamenti:



Questo è tavolo

Quella gatta è madre

Questo è bianco

Quella gatta è mia

DUNQUE

DUNQUE

Questo è un tavolo bianco

Quella gatta è mia madre

I.: esempio o è valido. I.: esempio e invece è errato, perché se applicato a un soggetto particolare (gatta), le sue premesse possono essere vere, ma la conclusione sarà chiaramente falsa. I ragionamenti simili al secondo, errati ma somiglianti a inferenze valide, sono chiamati sofismi, termine con cui Platone e Aristotele indicano gli pseudoargomenti, vale a dire quelle inferenze in apparenza valide, ma in realtà viziate da errori logici o da un uso scorretto delle parole. Definizione Un sofisma (dal greco, artificio, ragionamento scorretto) è una "deduzione apparente", caratterizzata da un errore di forma, da una fallacia, come dicevano i medievali.

4.2. Le fallacie. Secondo un significato semplice, una fallacia è una convinzione errata, una falsa credenza, come per esempio quella di credere che tutti gli uomini siano onesti. Definizione Una fallacia è un errore commesso nel corso di una inferenza. Molti ragionamenti sono chiaramente scorretti, al punto da non ingannare nessuno. Pochi, per esempio, darebbero credito a inferenze come la 0, anche se, nella sua struttura formale, essa è molto simile a un esempio classico di inferenza valida, la 0:

E) Gli indiani d'America stanno scomparendo

0

Tutti gli uomini sono mortali

Quell'uomo è un indiano d'America

Socrate è un uomo

DUNQUE

DUNQUE

Quell'uomo sta scomparendo

Socrate è mortale

Fallaci sono anche, tuttavia, quelle argomentazioni che, pur essendo scorrette, appaiono persuasive. Non esiste una regola aurea per evitare le fallacie. Si possono dare però alcune avvertenze: l. una prima indicazione consiste nel rilevare come numerosi ragionamenti scorretti si basino su un uso ambiguo dei termini che entrano nel ragionamento stesso. Un'accurata definizione delle parole usate può dunque evitare tali ambiguità; 2. una seconda regola, come avvisa Aristotele, consiste nel riferire sempre il discorso a un oggetto preciso, evitando di usare ambiguamente i nomi che si prestano a omonimie e sinonimie; 3. una terza regola è quella di evitare circoli viziosi, cioè quei tipi di ragionamento che consistono nel dimostrare un argomento con l'argomento stesso che deve essere dimostrato, confondendo premesse e conclusioni; 4. una quarta regola consiste nel non considerare mai un'affermazione particolare in senso assoluto. I sofisti ricorrevano deliberatamente a questo trucco logico quando, per confutare Parmenide, argomentavano che, se diciamo che ciò che non è è oggetto di opinione, allora ammettiamo anche che ciò che non è è. I.: errore consiste nel fatto che l'essere (o il non essere) qualcosa di particolare (in questo caso "oggetto di opinione") non è la stessa cosa dell'essere (o del non essere) in senso assoluto. (labfJft:Jt{)fitUI)

Awertellztl Lo studio delle fallacie è utile, perché la familiarità con esse ci abituerà a evitare quegli errori in cui possiamo cadere per negligenza, per disattenzione, o perché condotti in inganno dall'ambiguità del linguaggio.

357

4·3· La fallacia eleatica. Nell'antichità, le analisi più significative delle fallacie linguistiche si devono ai sofisti e ai socratici minori. I primi costruirono prestigio e ricchezza sui giochi linguistici che derivavano dall'ambiguità del verbo essere quale lo aveva inteso la scuola parmenidea. Per quest'ultima, il discorso falso è quel discorso che dice il "non essere". E poiché il "non essere" non è né pensabile né dicibile, o si parla dicendo il vero, oppure non si dice nulla, si tace. Se si accetta questo ragionamento, tuttavia, poiché ogni nostro giudizio che afferma che "qualcosa è qualcos' altro" deve per forza, al contempo, dire che questo "qualcosa" "non è il suo contrario" (per esempio, dicendo che "Socrate è mortale", diciamo contemporaneamente che "Socmte non è immortale"), noi in questo modo finiamo per reintrodurre il "non essere", cadendo così in contraddizione. Se si accetta l' eleatismo, l'unico modo veritativo e non contraddittorio di parlare finisce dunque per essere quello di dire solamente "che è", relegando tuttavia in questo modo ogni possibile predicato del nostro discorso nella sfera dell'errore. Il linguaggio vero si riduce così a una pura tautologia vuota di contenuto. r:ì)éfiJì~i6h'~~palgref~~taùt:;;;"iò~rJs~'·.~1io~~ ''cÙ~~6t;~,~~i ì.t~ìt;f.;gi~ èuna· proposizione in cui vi è identità fra il soggetto e il predicato e che risulta quindi sempre vera.

Il sofista Eutidemo, nell'omonimo dialogo platonico, prenderà in giro la posizione eleatica, sostenendo come allora sia lecito passare dall'affermazione che "Teeteto non è sapiente" a quella secondo cui "Teeteto non è e dunque è morto". Antistene il cinico affermerà, in modo ironico, la liceità solo di quei giudizi in cui il predicato ripete il soggetto, come per esempio "l'uomo è l'uomo", "il cane è il cane".

AwertenztJ Il termine paradosso indica sia affermazioni che sembrano vere, ma che invece contengono una contraddizione, sia affermazioni che sembrano contraddittorie, ma che invece sono vere, sia argomentazioni v.alide che portano tuttavia a conclusioni contraddittorie o almeno sorprendenti.

4·4· Il problema dei paradossi. I socratici minori della scuola di Mègara idearono una serie di paradossi attribuiti a Eubulide, allievo di Euclide, il fondatore della scuola. Sfruttando le ambiguità del linguaggio, i paradossi megarici mettono in dubbio la possibilità di costruire discorsi validi. o~fini~i~'rie'La.p:iibl~ ''pat~dÒssÒ'' ~iell.édiu· grecb}/ilr~, "tot'l~to" ,· ·~ d~xa,.''bpiti.i()b.é, ~si-. gnifica "contrario all'opinione comune". Un paradosso è dunque un'affermazione contraria a quanto ci si aspetta o all'opinione comunemente accettata. I paradossi sono ambigui e inducono a cadere in complicati circoli viziosi. Non tutti sono fallaci: alcuni sono ragionamenti corretti, che implicano però nozioni contrarie all'intuizione. In questi ultimi, le conclusioni sono vere, ma sembrano contrarie al senso comune. I paradossi hanno svolto un ruolo importante nella storia del pensiero. Oggi alcuni tra essi, per esempio quelli di Zenone, sono matematicamente risolti; altri sono tuttora studiati dalla matematica e dalla logica più recenti. Non è inutile sottolineare come, in quanto conducono ai limiti del pensiero e ci abituano a problemi insoliti, i paradossi sono ben più di semplici giochi intellettuali.

4·5· l paradossi antichi. I paradossi megarici di cui siamo a conoscenza sono sette: il paradosso del mentito re; quello dell'uomo incappucciato e le sue due varianti dell'uomo velato e dell'Elettra; quello del mucchio, quelli infine del calvo e del cornuto. Essi sono riducibili a quattro tipi fondamentali (il mentitore, l'incappucciato, il mucchio e il cornuto), di cui i più importanti sono quelli del mentito re e del mucchio. Prima di affrontare questi ultimi, riportiamo in sintesi i paradossi dell'incappucciato e del cornuto. C uomo incappucciato "Tu dici di conoscere tuo fratello. Ma quell'uomo, che è entrato or ora a capo coperto, è tuo fratello, e tu non lo hai riconosciuto" (Luciano, Vitarum auctio).

Il paradosso si fonda sull'uso ambiguo di un termine, il verbo "conoscere" e mette in evidenza la possibilità che una stessa parola assuma significati diversi in un medesimo contesto. 358

La lo !!uomo cornuto "Tu hai ciò che non hai perduto; ma tu non hai perduto le corna; dunque tu hai le cornà (Diogene Laerzio, Vite di filosofi)

Il paradosso mette in evidenza l'ambiguità che può acquistare un'argomentazione (quella che si conclude con la frase "dunque tu hai le cornà'), quando non ne siano esplicitate una o più premesse, in questo caso, l'affermazione "tu non hai mai avuto le cornà'. 4.6. Il paradosso del mentitore. Ecco il paradosso nella versione di Cicerone:

Il mentito re "Se dici che menti e in ciò dici il vero, menti o dici la verità?"

a. In che cosa consiste Il paradosso del mentitore concerne le difficoltà connesse a proposizioni che esprimono qualcosa sulla loro verità o falsità. La persona che dice "io mento", infatti, dà luogo a una contraddizione, in quanto essa dice il falso se e solo se dice il vero. b. La struttura Il paradosso consiste nel chiedere al mentito re di rispondere alla domanda: "Menti, quando affermi di mentire?" Se egli sta mentendo, allora ciò che dice è vero, e perciò egli non sta mentendo. Se egli non sta mentendo, allora ciò che dice è vero e perciò egli sta mentendo. In tutti i casi, il mentito re sta contemporaneamente mentendo e non mentendo. Una variante del paradosso è nota come paradosso del cretese, che afferma: «Il cretese Epimenide dice "Tutti i cretesi mentono"». Molto nota è la versione data nel1913 dal matematico francese Jourdain, secondo la quale, su un lato di un foglio è scritto "La proposizione scritta sull'altro lato di questo foglio è veri', e sull'altro lato è scritto "La proposizione scritta sull'altro lato di questo foglio è falsà'. Tutti questi paradossi non contengono errori logici, ma costringono a trarre conclusioni contraddittorie circa il valore di verità di quanto affermato. c. Le soluzioni medievali Come si risolve il paradosso del mentitore? Esso fu affrontato da Aristotele, e poi da Crisippo, Seneca, Cicerone, Tommaso. Si tramanda che un logico antico, Fileta di Cos, sia morto prematuramente, per la frustrazione dovuta alla sua incapacità di risolvere il problema. Tra il XIII e il XV secolo, il paradosso fu inserito in un elenco di insolubilia, cioè di problemi considerati impossibili da risolvere. Il suo studio ha condotto a diverse proposte volte a evitarlo. Si tratta di proposte "restrittive", che intendono limitare o eliminare l'ambiguità dei termini che intervengono nel paradosso stesso. Nel XIV secolo, Giovanni Buridano diede una versione del paradosso, secondo la quale Socrate pronuncia un'unica frase: "Quanto dice Platone è falso", e Platone similmente dice solo: "Quanto dice Socrate è vero". Per Buridano, se Platone dice il falso, allora l' affermazione di Socrate deve essere vera. Tuttavia, Socrate dice che Platone dice il falso; perciò l'affermazione di Socrate deve essere falsa. Ne consegue che l'asserzione di Socrate è contemporaneamente vera e falsa. Buridano risolve il paradosso sostenendo che l'espressione "contemporaneamente" è ambigua. Ogni affermazione è infatti associata a un tempo. La contraddizione nasce quando non si specifica a quale tempo ci si riferisce; non c'è invece quando le affermazioni sono collegate a tempi appropriati. "Quanto dice Platone è falso" e "Quanto dice Soct·ate è vero" possono essere infatti, in tempi diversi, entrambe vere. Una seconda soluzione si sofferma sulla natura "autoreferenziale" delle espressioni insolubili. Logici come Alberto di Sassonia e Guglielmo di Ockham sostennero che una parte di una proposizione non può essere utilizzata per sostituire l'intera proposizione. Una proposizione che contiene i termini vero e falso, quindi, non può essere inclusa nelle cose cui questi termini si riferiscono. d. Le soluzioni moderne Il primo importante tentativo moderno di risolvere il paradosso del mentito re fu compiuto dal ftlosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970), il quale sostenne che esso si fondava su un circolo vizioso, derivante dal fatto che si chiede di supporre che un insieme possa conte-

--,

flementi di fìlosofia ~

l

nere elementi definibili solo per mezzo dell'insieme stesso. Le espressioni che contengono "autoriferimenti" di questo tipo sono "mal costruite" e vanno evitate, in quanto prive di significato, cioè né vere, né false. In anni più recenti, illogico e matematico polacco Alfred Tarski (1902-1983) intuì che i concetti di verità e falsità sono organizzati gerarchicamente. Egli distinse tra il linguaggio che è oggetto della nostra discussione e del quale vogliamo definire la verità (il "linguaggio-oggetto") e il linguaggio nel quale tale definizione è formulata (''il metalinguaggio"). È impossibile, per Tarski, costruire una definizione di verità o falsità, se l'ordine del metalinguaggio è allo stesso livello dell'ordine del linguaggio-oggetto. I concetti di verità e falsità non possono essere definiti in modo rigoroso rimanendo nello stesso ordine di linguaggio che si è utilizzato per esprimerli, ma solo in un metalinguaggio. Il mentitore può dire quindi il falso nel linguaggio L, ma in L non può dire qualcosa sul valore di verità della proposizione "io sto mentendo". Per parlare del valore di verità di "io sto mentendo", il mentito re deve utilizzare il linguaggio L. La mancata distinzione dei livelli di linguaggio comporta che l'asserzione del mentito re risulta contemporaneamente quella "con cui" si parla e quella "di cui" si parla. Tale ambiguità dà origine al paradosso. (ltJbOfdtfJnO b) 4·7· Il paradosso del mucchio. Ecco il paradosso nella versione di Cicerone:

Il mucchio "Quanti grani di frumento occorrono per formare un mucchio? Basta forse un solo grano Ne bastano due? ecc." a. In che cosa consiste

Il paradosso mette in evidenza le insufficienze del linguaggio comune, il quale distingue arbitrariamente concetti come il poco e il molto. Il significato di questi concetti si mostra invece non chiaro non appena essi vengono collocati nel continuo delle grandezze. b. La struttura :C argomentazione si fonda sull'assunzione che un qualsiasi numero, sia esso costituito da poche o molte unità, tale resta nel caso si aggiunga o si sottragga un'unità, intendendo per unità qualcosa di piccolo, rispetto al numero cui venga aggiunta o sottratta. Il paradosso attesta l'impossibilità di stabilire il punto esatto in cui si passa dall'insieme di pochi elementi al mucchio vero e proprio e intende dimostrare come la nozione stessa di mucchio sia logicamente indeterminabile. Un grano di frumento infatti non è un mucchio; neanche aggiungendo un secondo grano, o un terzo, o un quarto io ottengo un mucchio. Quando, tuttavia, posso dire di avere un mucchio? È accettabile il fatto che, qualunque sia il numero di grani scelto, il mucchio abbia inizio con l'aggiunta di un solo chicco? In sostanza, il paradosso mette in discussione l'esistenza del caso limite, che determina se qualcosa è mucchio o non mucchio. c. La soluzione possibile Esiste un punto debole del ragionamento? Analizziamo la struttura del paradosso. Esso si compone di due premesse: l. un solo grano non è un mucchio; 2. se non c'è ancora un mucchio, anche aggiungendo un altro grano non lo si otterrà; e di una conclusione: 3. indipendentemente dal numero di grani, non si avrà mai un mucchio. Da un punto di vista logico, l'argomentazione è valida. Il paradosso, tuttavia, sfrutta le ambiguità del linguaggio usato per formularlo. Il termine "mucchio" è infatti ambiguo e vago; ambiguo, perché può essere interpretato in molti modi; vago, perché non fornisce una chiara linea di demarcazione: non spiega cioè quando si passa dal "non mucchio" al "mucchio". Se consideriamo questi due concetti come gli opposti di un continuo, allora ci aspettiamo anche di trovare un punto in cui si passi da uno all'altro. Benché tale soglia possa concretamente esistere, un termine vago come "mucchio" non permette di identificarla. Una seconda considerazione, circa la fallacia del paradosso del mucchio, è quella che sottolinea come una serie di cambiamenti insignificanti può, se considerata nel suo insieme, diventare effettivamente significativa. Se è vero infatti che ogni grano aggiunto non definisce la linea di separazione tra il non mucchio e il mucchio, è vero anche che, nel complesso, i grani via via accumulati producono una differenza reale tra il "non mucchio" e il "mucchio". (ltJbOftJtono c) 360

laboratorio C/ Con l'aiuto delle quattro regole antifallacia, scopri l

2 3 4

5

le fallacie contenute nelle seguenti frasi. L.:esercito è notoriamente inefficiente, perciò non possiamo attenderci che il sergente Rossi faccia un lavoro efficiente. Le buone bistecche oggi sono rare; perciò avete fatto bene a non ordinarie al ristorante. Poiché tutti gli uomini sono mortali, la razza umana dovrà un giorno estinguersi. Tutti hanno detto che la minestra aveva un sapore molto particolare; perciò devono averla trovata molto buona. Non è forse vero che gli studenti che ottengono i voti più alti studiano molto? Perciò, professore, se vuole che io studi molto, la cosa migliore è che mi dia i voti più alti.

b

Lavoriamo sul "paradosso del barbiere", esposto da Bertrand Russell, che ha una struttura simile a quella del paradosso del mentitore.

"Un certo villaggio ha tra i suoi abitanti un solo barbiere. Egli è un uomo ben sbarbato, che rade tutti e solamente gli uomini del villaggio che non si radono da soli. Ora: chi rade il barbiere? È plausibile sostenere che egli si faccia la barba da solo. Se così fosse, tuttavia, sarebbe violata la premessa secondo cui il barbiere rade tutti coloro che non si radono da soli."

1 A quale conseguenza si giunge qualora si consideri il caso che il barbiere non si rada da solo?

2 Dividendo tutti gli uomini del villaggio in due insiemi (coloro che si radono da sé e coloro che non lo fanno), costruisci un'argomentazione che ha come conclusione il fatto che "il barbiere non può esistere". 3 Confronta la struttura di questo paradosso con quella del paradosso del mentitore. Individua in che cosa consiste la sua ambiguità.

C Immaginiamo che una pozzanghera contenente un girino sia filmata per tre settimane di seguito. Alla fine della terza settimana, la pozza conterrà una rana. Poniamo che la cinepresa funzioni esattamente a 24 fotogrammi al secondo: si avranno circa 43·5oo.ooo fotogrammi. Supponiamo ora che essi siano stati numerati da 1 a 43·500.000 nell'ordine in cui sono stati filmati. È ovvio che nel fotogramma 1 si vede un girino, e in quello 43·500.ooo una rana. Chiediamoci: esiste un fotogramma in cui si vede un girino, seguito immediatamente da uno in cui si vede una rana? La struttura di questo paradosso è simile a quella del paradosso del mucchio. 1 Indica in che cosa consiste l'elemento paradossale nell'argomentazione sopra riportata. 2 Ricostruisci la struttura del paradosso, individuandone le premesse e la conclusione, così come è stato fatto per il paradosso del mucchio.

S·l La teoria dei connettivi e dell'argomentazione 15.1.1 connettivi. Le proposizioni possono essere combinate in vari modi così da formarne altre più complesse. La forma più elementare di combinazione si ha quando la connessione di due proposizioni semplici dà luogo a una proposizione composta, la cui verità o falsità è determinata dalla verità o falsità delle proposizioni che concorrono a formarla. Ciò accade quando uniamo due proposizioni con i connettivi "e" e "o". Per esempio, "Laura ama Mario" e Fabio è un insegnante" (schematicamente A • B); "Paolo odia lsa o Giorgio è anziano" (schematicamenteA v B). La verità o la falsità delle due proposizioni composte è resa dalle seguenti tavole di verità:

A B

A

B

v v

v

v v

F V

F F F

F V

V F

F F

i l

!

Awertenzd In italiano la disgiunzione "o" viene usata con una certa ambiguità. Ciò non accade in latino, lingua in cui la parola vel esprime la disgiunzione inclusiva, mentre la parola aut esprime quella esclusiva.

A vB

V F

v v v

F F

F

'l l

l

l' j'

Nelle tavole vi sono quattro righe, corrispondenti al numero delle possibili assegnazioni dei valori di verità ad A e B. Nel primo caso, A • B è vera se e solo se tanto A quanto B sono vere. Nel secondo, A vB è falsa se e solo se A e B sono false. Per quanto riguarda quest'ultimo caso, va notato che nel linguaggio naturale esistono almeno due usi diversi del connettivo "o", quello inclusivo (secondo cui ''A o B" significa ''A o Bo entrambi") e quello esclusivo (secon. 'fìrca ''A o B ma non entramb'") 1 . do cur. "A o B" srgm

ll

l

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li 361

i:

il il: ' .'[ l

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Awertenztl Per gli stoici la proposizione è l'unità logica minima. Il punto di vista aristotelico è "terministico", è cioè interessato a studiare i rapporti fra i termini dentro la proposizione. Il punto di vista stoico è invece "proposizionale", ossia non intende la proposizione in quanto consta di soggetto e predicato, ma come una unità esprimente un fatto.

5.2. Il calcolo proposizionale. Gli stoici furono i primi ad analizzare il ruolo dei connettivi nelle deduzioni, in ciò anticipando i risultati del moderno calcolo proposizionale. Dopo i connettivi "e" e "o", un terzo connettivo studiato dagli stoici è il connettivo "se... allora" ("Se p allora q'', schematicamente p ~ q). Esso connette due proposizioni semplici dando luogo a proposizioni ipotetiche o condizionali. Defini~ione Cci~ terminemoderno, en~~~i~tidi questo tipo sono d~ttl anch~ implicazioni: p si chiama antecedente dell'implicazione, q conseguente.

5-3· Le proposizioni ipotetiche. Sia nel linguaggio comune, sia in logica ci sono più tipi di implicazione. Per esempio, in una proposizione ipotetica del tipo "Se la cartina di tornasole blu viene immersa nell'acido, allora diventa rossa'' ciò che si stabilisce fra antecedente e conseguente è un legame di tipo causale, che deve essere scoperto empiricamente. Mentre in un asserto del tipo "Se l'Inter perde il campionato, allora mi mangio il cappello", la proposizione riporta semplicemente una decisione di chi parla di agire in un certo modo, date certe circostanze. Ora, in quali circostanze una proposizione ipotetica è vera? La logica megarica e stoica, a questa domanda, dà risposte diverse. La più significativa è quella fornita dal megarico Filone, per il quale una proposizione condizionale è sempre vera, tranne nel caso in cui l' antecedente è vero e il conseguente falso: p ~ q dunque è vera se e solo se o l'antecedente è falso, oppure il conseguente è vero. In termini moderni, questa implicazione, chiamata materiale, viene presentata dalla seguente tavola di verità: p

q

p~

v v

v

F

V

V

V F

F F

F V

q

Cerchiamo di comprendere questa tavola di verità. Nel caso in cui l'antecedente è vero, il senso comune suggerisce di eguagliare il valore di verità della proposizione condizionale a quello del conseguente. Pertanto se p è vero e q è vero, il condizionale p ~ q risulterà vero; se p è vero, ma q è falso, il condizionale risulterà falso. Meno chiari risultano i casi rimanenti. Se l'antecedente è falso, l'adozione di un valore di verità per il condizionale diventa infatti arbitrario. Espressioni come "Se l+ l =3, allora Madrid è la capitale della Spagna'' sarebbero considerate da molti né vere né false, in quanto il senso comune è abituato all'affermazione di qualche legame (di solito di tipo causale) fra p e q. Da un punto di vista logico tuttavia, si conviene che tutti i condizionali provvisti di antecedenti falsi siano considerati come veri, in quanto un' affermazione falsa implica come sua conseguenza ogni asserzione, sia essa vera o falsa. I logici hanno chiarito come un'implicazione materiale non indichi alcuna "connessione reale" fra p e q. Essa asserisce solo che non si può dare il caso in cui p sia vero, se q è falso: p ~ q è dunque vera o falsa indipendentemente dalle connessioni di significato che sussistono fra antecedente e conseguente. Per questo i seguenti condizionali sono entrambi veri: l. Se l+ l = 3, allora Madrid è la capitale della Spagna 2. Se l+ l = 3, allora Madrid è la capitale della Francia

5·4· L'argomentazione. Quando combiniamo fra loro più proposizioni otteniamo una argomentazione. Gli stoici le classificano in base alla loro condusività, verità, dimostratività. Vediamo le definizioni che gli stoici danno di questi tre termini.

l!

l blilfl~iziohe '-Unaatg~ril~ritazione è c~ncludente se ha una conclusione logicamente . corretta dspetto alle premesse: può però essere falsa, se lo sono le premesse. -Una argomentazione è vera se è corretta nella forma e vera nel contenuto, in quanto sono vere le premesse. -Una argomentazione è dimostrativa, quando si serve di un "indizio" per risalire alle cause che lo hanno prodotto.

t

•!

-------------------------------------------------------------------------------------------362

È dimostrativo, per esempio, il sillogismo "Se questa donna ha latte nelle mammelle, ha partorito. Ma questa donna ha latte nelle mammelle, dunque ha partorito". Nella dimostrazione è presente il richiamo all'esperienza diretta: la presenza del latte (l'indizio) permette di inferire la circostanza del parto. Da un fatto concretamente attestabile si risale a un altro fatto non evidente. Una particolare classe di argomentazioni concludenti è rappresentata per gli stoici da cinque ragionamenti "indimostrabili", i quali hanno la funzione di assiomi: non hanno bisogno di essere dimostrati e servono per dimostrare tutte le altre argomentazioni. Sono dunque gli schemi di inferenza fondamentali. Essi sono: l. Se il primo, allora il secondo ma il primo quindi il secondo 2. Se il primo, allora il secondo ma non il secondo quindi non il primo 3. Non (il primo e il secondo) ma il primo quindi non il secondo ma il primo quindi non il secondo 4. Il primo o il secondo 5. Il primo o il secondo ma non il secondo quindi il primo Vediamo qui la differenza fra la logica stoica e quella aristotelica. Quest'ultima si basa sul sillogismo categorico; l'altra sul sillogismo ipotetico.

AwertenztJ Al posto dei numeri ordinali, potremmo usare variabili del tipo p, q ecc.

Definizione Nelsillogismo ipotetico al1lleno una delle premesse un'implièaiidri~(c[èlla. ;'~

forma "Se c'è la luce, allora è giorno, ma c'è la luce, dunque è giorno") o una disgiunzione ("o è giorno, o è notte; ma è giorno dunque non è notte"). A differenza del sillogismo categorico aristotelico, il sillogismo ipotetico ha solo due termini (giorno, luce) implicati fra loro in forma ipotetica; manca dunque il termine medio. È concludente e vero se lo sono le sue premesse. La sua struttura è data da un'implicazione "se ... allora", da un'assunzione "ma... " e da una conclusione "dunque... ". Per Aristotele il sillogismo ipotetico non era molto importante; solo quello categorico veniva considerato come scientifico. Per gli stoici, al contrario, il sillogismo ipotetico è lo strumento più idoneo all'indagine scientifica, proprio per il carattere ipotetico delle sue premesse. Esso consente infatti di ricavare, date certe premesse di fatto (per esempio, "c'è luce"), certe conclusioni non immediatamente evidenti ("è giorno"). La verità del sillogismo dipende in questo modo dall'accertamento di condizioni di fatto concrete. La logica stoica viene in questo modo a essere costituita da assiomi e dimostrazioni, ossia schemi di ragionamento e ragionamenti concreti.

ltJbOfdtOfiO

a

Chiarisci se nella tavola di verità sopra riportata il connettivo "o" viene usato in senso inclusivo o esclusivo. Ricava poi la tavola di verità dell'uso rimanente. Fai infine un esempio per ognuno dei due usi in lingua italiana.

bUna delle operazioni più semplici sulle proposizioni è quella di applicare l'operatore "non": se p è una proposizione ".., p" denota la sua negazione (per esempio: Paolo non ama Elena"). Secondo le convenzioni, scrivi la tavola di verità per".., p".

C Schematizza attraverso lettere le seguenti proposizioni: 1 Giorgio verrà alla festa ed Emilio invece lavora.

2 O Giorgio verrà alla festa e Franco non verrà, o Giorgio non verrà e Franco verrà. Scrivi poi le tavole di verità relative.

t/

Costruisci le tavole di verità relative ai seguenti schemi:

1 ((..,p) v q) 2 ((p v(.., p)) •r) 3 ((p. q) v (-,q)) ! '

e

f

l;: Sulla base delle definizioni date, fai un esempio di argomentazione concludente, vera e dimostrativa.

Costruisci cinque esempi per ognuno degli assiomi sopra indicati.

l[ Il l l :.IJ 1·:"

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Il.

Sezione 4 la filosofia cristiana e Medioevo

Chiave di lettura Gli oltre dieci secoli che vanno dalla crisi dell'impero romano, le cui prime avvisaglie risalgono al Ili secolo d.C., all"'autunno del Medioevo" (XIV secolo) costituiscono un'epoca di enorme complessità storica, segnata da svolte di importanza primaria: basti pensare alla disgregazione e caduta dell'impero romano (convenzionalmente datata al 476 d.C.), all'affermarsi dell'lslam, alla nascita dell'Europa feudale, alla prima formazione delle monarchie nazionali. Ma il "fìlo rosso" che attraversa questa lunga età della storia dell'Occidente è la diffusione del cristianesimo, che informa di sé non solo la dimensione religiosa, sociale e politica del mondo medievale, ma anche i suoi codici culturali e fìlosofìci. Il quadro storico dell'epoca presenta tre scansioni cronologiche fondamentali: 1.

!.;età tardo-antica, che comprende la separazione fra parte occidentale e parte orientale dell'impero romano, la dissoluzione dell'impero d'Occidente, la formazione dei regni romano-germanici, l'evangelizzazione dell'Europa.

2.

Il cosiddetto "Alto medioevo" è l'età della nascita e diffusione dell'lslam (VII-IX secolo), della formazione del feudalesimo, della ricostituzione dell'impero in Europa ad opera di Carlo Magno.

3· Il cosiddetto "Basso medioevo" vede la rinascita dell'economia e della civiltà urbana, la nascita dei comuni e delle monarchie feudali, le croci.ate in Terrasanta, il dispiegarsi di una spinta espansiva dell'Europa, che incontrerà una battuta d'arresto con la crisi economica e demografica della metà del Trecento, ma porrà in realtà le basi per l'affermazione dell'Europa moderna. • Nell'arco di un decennio, tra il45 e il 55 d. C. Paolo di Tarso percorse per terra e per mare gran parte dell'Asia e della Grecia, in una febbrile opera missionaria che portò con sé non solo la dijfùsione ma anche l'ellenizzazione del cristianesimo.

364

-

Il roriente, baricentro delfimpero Nel processo di crisi che condusse, fra il III e il V secolo d.C., alla disgregazione dell'impero romano, il fenomeno di maggior rilievo è il definitivo spostamento del baricentro della vita imperiale da Roma alle province e dall'Occidente all'Oriente. Dopo la scelta delle quattro capitali effettuata da Diocleziano - Nicomedia in Bitinia, Sirmio sul Danubio, Milano e infine Treviri, sulla Mosella -, la fondazione di Costantinopoli, la nuova capitale, da parte di Costantino tra il 326 e il 330 accelerò l'irreversibile separazione fra Oriente e Occidente, formalizzata alla fine del IV secolo. In questa divisione, fu l'Oriente a rappresentare il polo progressivo: qui, anche grazie a un'economia tuttora florida, l'autorità imperiale riuscì a garantire coesione politica e a integrare nell'apparato statale due grandi forze, la Chiesa e l'aristocrazia urbana. Ciò non mancò di avere riflessi anche in campo culturale e filosofico: è dall'Oriente greco che provennero, come vedremo, le maggiori elaborazioni di questo periodo. Qui il cristianesimo si affermò in modo più rapido e compiuto; qui si diffuse l'ultima grande filosofia pagana, il neoplatonismo; qui maturarono, infine, le grandi controversie teologiche e dottrinali e si compl la fusione tra il pensiero greco e quello cristiano.

L'epoca in immagini • !!Gruppo dei tetrarchi

(IV secolo) esprime l'aspirazione o forse la nostalgia per l'unità di . un impero che si sta ormai lacerando, nel quale Oriente e Occidente avranno destini storici profondamente diversi.

IJ Il cristianesimo, un messaggio di salvezza Il quadro, anche culturale, del mondo romano, a Occidente come a Oriente, mutò profondamente per l'emergere di un nuovo grande protagonista storico: il cristianesimo. La nuova religione nata dalla predicazione di Gesù Cristo, il Messia, aveva incominciato a diffondersi nell'età di Tiberio (14-37 d. C.): a partire dalla Palestina, si era irradiata prima in Asia Minore e nelle regioni orientali dell'impero, poi in Occidente, prima all'interno delle comunità giudaiche disperse nella diaspora, poi anche all'esterno, in un movimento di crescente differenziazione dall'ebraismo, dal cui seno era nata. Decisiva, in questo senso, fu l'opera di Paolo di Tarso, sia per l'instancabile predicazione da un capo all'altro del Mediterraneo, sia per aver fissato il primo nucleo della teologia cristiana, definendone la specificità rispetto a quella ebraica: Paolo intese il proselitismo della nuova religione in modo pienamente universalistico, rivolto cioè a tutti i "gentili" e non solo ai giudei. Religione soteriologica (dal greco soterfa, "salvezza''), cioè fondata sull'annuncio e sulla speranza della salvezza individuale, il cristianesimo si sviluppò all'interno di un clima culturale e di una sensibilità reli-

giosa caratterizzati da profonde inquietudini e da erescente stanchezza nei confronti dei culti tradizionali romani, sempre più formalistici e incentrati sulla divinizzazione dell'imperatore. Del resto, in questo periodo ebbero grande successo dottrine religiose di matrice orientale, come il culto frigio di Attis e Cibele, quello iranico di Mitra, quello egizio di Iside e Osiride: religioni soteriologiche, iniziatiche e misteriche, fondate sull'iniziazione ai misteri come condizione essenziale per il raggiungimento della salvezza. Il cristianesimo differiva da tali culti per il rigido monoteismo, per il carattere storico, non mitologico, della figura del fondatore, Gesù Cristo, ma soprattutto perché concepiva la salvezza ultraterrena come una prospettiva che informa di sé anche la vita terrena: proprio la passione e il sacrificio del Figlio di Dio fatto uomo esigono dal credente una conversione che comporta l'accettazione piena dell'insegnamento di Cristo e l'impegno a realizzare il messaggio dell'amore e della fratellanza, i due capisaldi morali e sociali della vita cristiana. Sono questi i temi con i quali il cristianesimo si propose alla sua epoca, interpretandone a fondo i bisogni spirituali e insieme le insicurezze, i turbamenti. 4. La filosofia cristiana e il Medioevo

365

1 Tolleranza e repressioni I.;atteggiamento del potere politico nei confronti delle comunità cristiane alternò tolleranza e repressione, in relazione a opportunità politiche; il potere tenne un comportamento flessibile, servendosi talora dei cristiani come "capro espiatorio" contro il quale incanalare tensioni sociali particolarmente acute. Questa alternanza di periodi di tolleranza e di fasi persecutorie caratterizza i rapporti fra cristianesimo e potere politico fino a tutto il II secolo: né va dimenticato che, nello stesso arco di tempo, si ebbero due distruttive spedizioni contro gli ebrei di Palestina (nel 70 e nel 135 d.C. ), per sedarne la rivolta. I cristiani, d'altronde, non seguirono una linea di aperta contrapposizione al potere politico, né misero in discussione l'organizzazione dei rapporti sociali e l'autorità dello stato, ove non fossero coinvolte questioni di fede. Diverso il tono delle ultime grandi persecuzioni, quella di Decio (250 d.C.), di Valeriano (257-58 d.C.) e di Diocleziano (303 d.C.), organizzate e gestite dallo stato con il preciso intento di ottenere

l'obbedienza religiosa da parte di tutti i sudditi, nel tentativo di arginare la crescente crisi dell'autorità imperiale. Da questa vera e propria guerra di religione il cristianesimo uscì vincitore, in virtù del suo ormai amplissimo radicamento nella società e dei progressi compiuti dalla sua forza organizzativa e culturale. Religione essenzialmente urbana (i villaggi delle campagne - i pagi, da cui paganus restarono a lungo estranei alla sua influenza), il cristianesimo si era inizialmente diffuso presso il popolo "minuto" delle città, particolarmente di quelle poste sulla linea dei traffici fra Oriente e Occidente e già sede di comunità ebraiche. Ben presto, tuttavia, aveva incominciato ad attecchire presso i ceti medio-alti, l'aristocrazia romana, i quadri dell'esercito e della burocrazia, la stessa domus imperiale; e, dal punto di vista geografico, la cristianizzazione era avanzata dal bacino orientale del Mediterraneo alla Gallia e successivamente, ma rapidamente e intensamente, all'Africa.

Il Cevoluzione organizzativa della Chiesa · Sotto l'urto delle persecuzioni e di fronte ai problemi dottrinali, politici e amministrativi che la stessa diffusione del cristianesimo poneva, si venne creando una struttura organizzativa capace di riunire in un'unica Chiesa le comunità cristiane originariamente autonome. La Chiesa si organizzò, sul modello statale, in una gerarchia imperniata sul vescovo, subentrato come organo di direzione spirituale, disciplinare e amministrativa al collegio degli anziani (presbitert). Orizzontalmente, la base territoriale di questa organizzazione era la città, il cui territorio costituiva la diocesi episcopale; a un livello superiore, la diocesi del metropolita ricalcava grosso modo la ripartizione in province dello stato. Al centro, il vescovo di Roma, la città dei martiri Pietro e Paolo, assunse gradatamente, anche se non pacificamente, sempre maggiore dignità. Questa evoluzione organizzativa consentl alla Chiesa

di affiancarsi o addirittura di sostituirsi, come autorità de focto, alle vacillanti strutture dello stato. In questo quadro va collocata la "conversione" dello stato stesso al cristianesimo, simboleggiata dalla personale conversione di Costantino e avviata dall'editto di Milano (313 d. C.), che dava ai cristiani lipertà di culto, restituiva loro i beni confiscati e li indennizzava di quanto perduto. Il secolo IV fu dunque un periodo di intensa cristianizzazione, e quando Teodosio, nel380 d.C., dichiarò nella sostanza il cristianesimo religione ufficiale dello stato non fece che sanzionare una realtà già stabilita nei fatti. I.;autorità spirituale della Chiesa (il cristianesimo era ormai la religione maggioritaria) si era cementata con una crescente forza economica e con l'esercizio di funzioni politiche e amministrative che surrogavano quelle statali (ai vescovi, per esempio, era riconosciuto potere di giudizio in controversie fra laici).

iJ La Chiesa contestata: lo scisma donatista : Questo tumultuoso processo di crescita e di istituzionalizzazione non fu privo di problemi. Esso infatti venne contestato da correnti che rivendicavano un ritorno al rigore e alla "purezza'' del cristianesimo delle origini e implicò una sofferta ridefinizione e contrattazione del rapporto con lo stato. Esemplare, da entrambi questi punti di vista, è la vicenda dello scisma donatista, che divise profonda-

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mente la Chiesa africana per tutto il N secolo e che vide impegnato sant'Agostino in una dura battaglia repressiva. Lo scisma era nato a ridosso dell'ultima persecuzione anticristiana di Diocleziano (303 d.C.) intorno al problema dei lapsi, di coloro, cioè, che per paura avevano abbandonato la Chiesa e consegnato all'autorità imperiale le Sacre scritture. Per gli intransigenti, che non avevano abiurato, costoro dovevano

essere considerati traditores, "consegnatari": in particolare, si negava che i sacramenti amministrati da un vescovo traditor fossero validi; chi rientrasse nella Chiesa doveva ricevere un nuovo battesimo. Per opera dell'energico Donato delle Case nere (morto nel 353 d.C.), che diede il nome al movimento, lo scisma si diffuse in tutta l'Africa settentrionale, in particolare nella Numidia, legandosi alle rivendicazioni antiromane mai sopite nelle popolazioni africane e alla protesta sociale dei ceti più duramente colpiti dalla crisi economica e dal carico fiscale, i piccoli proprietari e fittavoli, gli operai agricoli. Il cattolicesimo, per i donatisti più estremi, si configurava come la falsa religione di uno stato usurpatore, indissolubilmente connesso con l'ingiustizia sociale (erano in prevalenza cattolici i ceti possidenti dell'Africa romana). I circumcelliones, piccoli proprie-

tari e proletari agricoli che assalivano le grandi proprietà e bastonavano il clero cattolico, potevano cosl concepire se stessi come gli autentici martiri della Chiesa dei santi. Reciprocamente, la politica repressiva seguita dall'impero nei confronti dello scisma si ispirava a una linea d'azione che identificava il ristabilimento della pace religiosa e dell'ordine sociale con l'affermazione del potere di Roma sulle province africane. La repressione si fece più dura dopo l'editto di Teodosio, in coincidenza con la crescente intolleranza religiosa seguita dalla politica imperiale (è del 391 d.C. la "missione" incaricata di distruggere i templi pagani in Africa). Nel 405 d.C. un editto di Onorio qualificava i donatisti come "eretici" e li sottoponeva alla dura legislazione riservata a questi ultimi: perdita dei diritti civili, pesanti multe, punizioni corporali, confisca dei beni, esilio.

(l Questioni teologiche e potere politico ';La cristianizzazione dell'impero portò con sé, specie ad Oriente, una forte ingerenza dell'imperatore nella vita della Chiesa e una compenetrazione fra questioni politiche e questioni religiose. Basta ricordare il concilio di Nicea del325 d.C., che fu convocato dall'imperatore Costantino per condannare l'eresia ariana (Ario, un prete di Alessandria, al fine di preservare un rigoroso monoteismo sosteneva che la natura del Figlio non è uguale a quella del Padre). Nato come disputa teologica, il problema ariano era infatti divenuto un'esplosiva frattura politica, dato che l' arianesimo ottenne largo seguito soprattutto in Oriente. I.:intervento di Costantino non fu che il primo di una serie di atti che videro, nei decenni successivi, l'autorità politica determinare pesantemente gli orientamenti dottrinali della Chiesa e sviluppare una continua azione repressiva delle cosiddette "eresie": ciò che condurrà infine, nel sopravvissuto impero d'Oriente, al cesaropapismo, cioè alla subordinazione della Chiesa al potere politico e alle sue finalità.

:E epoca in immagini • Sconfitti nel concilio di Nicea, gli ariani fuggono, per sottrarsi a una repressione che mescola già religione e politica. '

1 Dalrantichità al Medioevo: il Mediterraneo diviso :: ; Lo .scenario entro il quale si svolge la storia medievale segna una profonda discontinuità rispetto al mondo antico. Esso, infatti, è caratterizzato dalla rottura dell'unità mediterranea e dalla frantumazione del vasto spazio economico e politico che il dominio romano aveva costruito. Al centro di gravità unificante prima rappresentato da Roma si sostituirono, nell'arco di tempo compreso fra il VI e il X secolo, tre centri: l'impero bizantino, che allora continuava a chiamarsi "romano", a oriente; l'area islamica, nel

vasto arco meridionale del bacino mediterraneo, dalla Spagna all'Asia; l'impero carolingio, che attraverso una complessa dinamica storica costitul il nucleo fondante dell'Europa. Le strutture economiche del tardo impero romano erano legate a quelle dello stato, e quando questo venne meno anche il sistema economico ne uscl sconvolto. La prima età medievale fu dunque più povera in Occidente di quella che l'aveva preceduta, sotto ogni punto di vista. I.:Occidente si ritraeva in se 4. La filosofia cristiana e il Medioevo

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stesso, mentre l'Oriente bizantino conservava forza e capacità di reazione e un nuovo protagonista, l'Islam, si espandeva in quelle che fino a due secoli prima erano state regioni romane. In questi secoli di arretramento maturarono tuttavia fenomeni di grande portata evolutiva: l'affermazione della Chiesa e del papato come uniche forze politiche e culturali in grado di conservare all'Occidente una sostanziale unità nel "naufragio" del mondo romano; la formazione di nuovi aggregati politici, i regni cosiddetti "romano-germanici", in cui si fonde-

vano l'elemento romano, quello germanico e quello cristiano, a seguito dell'evangelizzazione delle aristocrazie e delle popolazioni germaniche; la ricostituzione, ad opera della monarchia franca, di un impero che si volle "sacro e romano" proprio perché intendeva legittimarsi quale erede dell'impero romano attraverso l'investitura divina; la formazione, presso le aristocrazie guerriere, di quel vincolo di dipendenza personale che sarebbe divenuto l'ossatura dell'organizzazione economica e politica conosciuta come società feudale.

Il Con il nuovo millennio la ripresa della società europea 1

· Tra il X e il XIV secolo, il paesaggio e la vita materiale dell'Europa medievale furono profondamente modificati da una crescita demografica ed economica senza precedenti. Le attività artigianali crebbero di volume, si registrò una ripresa dei commerci anche a media-lunga distanza, le città recuperarono un ruolo economicamente e politicamente dominante. Se nelle campagne veniva affermandosi compiutamente la signoria feudale, basata sull'intreccio fra poteri economici e poteri giurisdizionali in capo al signore, era nelle città rinate che maturavano le grandi novità: i primi germi di una classe sociale, poi detta "borghesia", estranea ai "tre ordini" in cui la società medievale rappresentava ideologicamente se stessa (gli oratores, "quelli che pregano"; i bellatores,

"quelli che combattono"; i laboratores, "quelli che lavorano"); le nuove forme di organizzazione politica, i comuni, basate sul principio dell'autonomia dal potere imperiale e papale; le forme di una nuova cuitura, che aveva nelle scholae cittadine e nelle universitates, come vedremo, i suoi luoghi di elaborazione. Tutti fenomeni destinati a sconvolgere anche il quadro politico medievale - fino ad allora basato sulla dialettica interna alla "cristianità bicefalà', quella fra papato e impero - con nuovi protagonisti: i comuni, appunto, ma anche le monarchie feudali, che inziarono in questa fase il lungo cammino di affermazione della sovranità regale sui poteri feudali che avrebbe condotto nel XVI secolo, in alcune aree d'Europa, alla formazione dei moderni stati nazionali.

1 La reazione della Chiesa alle novità del Duecento La Chiesa del Duecento dimostrò grandi capacità di reazione e di adattamento alle novità dell'epoca, muovendosi su due principali binari: la rigida definizione dell'ortodossia, accompagnata dalla più assoluta riaffermazione del primato di Roma; l' elaborazione di nuovi strumenti culturali, in grado di confrontarsi con i fermenti che attraversavano il corpo della cristianità, in primo luogo i movimenti ereticali. Per combattere le eresie, la Chiesa organizzò un sistema repressivo, che trovò il suo strumento principale nel Tribunale dell'inquisizione, fondato nel 1231. Non furono queste, però, le uniche forme di reazione ai nuovi fermenti della società urbana: dal corpo stesso della Chiesa scaturirono nuove forze, in primo luogo gli ordini mendicanti. Nel 1216 nacque l'ordine domenicano, fondato da Domenico di Guzman (1170-1228); l'ordine francescano, fondato da Francesco d'Assisi (1182-1228), fu ufficialmente riconosciuto nel 1223. Francescani e domenicani si proponevano il comune obiettivo di combattere l'eresia con le sue stesse armi, la predicazione e l'esempio della povertà. 368

V epoca in immagini • Nelle città rinate il denaro circola, ma il francescano e il domenicano rifiutano l'elemosina, se viene dagli usurai.

~Il. tra~~nto. del M.edioevo : Gh stonct constderano tl Trecento un momento di crisi profonda e di rottura degli equilibri raggiunti dall'Occidente medievale nel corso del secolo precedente. Il XIV secolo fu dunque un periodo di decadenza, ma anche un'epoca di transizione. Due furono i piani sui quali il fenomeno si manifestò con più forza: quello economico, con il brusco arresto del ciclo di espansione economica e demografica iniziato nell'XI secolo e con la grande epidemia di peste di metà Trecento; quello ideologico-politico, con la crisi delle ambizioni universalistiche dei due grandi poteri medievali, l'impero e il papato. Per quanto riguarda l'impero, esso si trovava, già dalla metà del XIII secolo, in una fase di grande debolezza: ormai quasi del tutto nominale, l'auto-

Il C~ierici ~ laici

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·. ·.·• N eli Alto medtoevo nessuno era m grado dt leggere il greco, e perfino il latino e la stessa conoscenza della scrittura diventarono patrimonio esclusivo di una ristretta cerchia di uomini di Chiesa. Clericus divenne sinonimo di "alfabetizzato", mentre laicus significava "analfabeta". Ma "laicà' era in tal senso l'intera società altomedievale: neppure i ceti dominanti, i nobili e i signori, erano interessati all'apprendimento del latino e della scrittura. La parola scritta perse sempre più d'importanza: la comunicazione era quasi esclusivamente orale o realizzata attraverso l'iconografia, che la traduceva in immagini. La coincidenza fra chierico e intellettuale sopravvisse anche nel Basso medioevo, ma, con lo sviluppo della società urbana e la comparsa di nuovi ceti sociali, si allargò l'ambito dell'alfabetizzazione e la Chiesa perse il monopolio della cultura scritta. Questa, a sua volta, cessò di identificarsi esclusivamente con il latino, grazie all'affermazione delle lingue volgari. Il volgare, anche quando cominciò a essere una lingua scritta e perfino una lingua letteraria, non veniva insegnato nelle scuole, ma i figli dei mercan-

fl

rità imperiale non poteva imporsi né sui principi e sui grandi feudatari, né sulle fiorenti città commerciali della Germania del Nord. Limpero rinunciò dunque di fatto alle sue pretese di dominio universale, allentando il suo legame con l'Italia e con il papato e avviandosi a costituire un organismo politico essenzialmente tedesco. Il papato, dal canto suo, che pur celebrò, nel1300, con il grande giubileo voluto da Bonifacio VIII (1294-1303), un momento di apparente potenza temporale e spirituale, rivelò la sua crisi profonda quando il re di Francia Filippo il Bello pretese di sottomettere anche i vescovi francesi al fisco della corona. Ne seguì il duro periodo avignonese (1309-77), che vide la Chiesa subordinata alla politica dei sovrani francesi e preda di corruzione e perdita di spiritualità.

ti, che apprendevano nella pratica di bottega a far di conto e a tenere la corrispondenza commerciale, cominciarono ad avere familiarità con la scrittura, e anche la grande tradizione della cultura scritta, che continuava a essere prodotta in latino, divenne meno inaccessibile per loro. l? epoca in immagini • Nei rilievi della Genesi del Battistero di Parma (XII secolo), Benedetto Ante/ami racconta ai fedeli, con grande forza espressiva, Dio, l'uomo, il peccato.

nuova cultura delle città

; La cultura altomedievale aveva avuto il suo centro nel monastero, luogo di conservazione, duplicazione e commento del testo. Ma a partire dal XII secolo non sono più i monasteri i principa-

li centri intellettuali: si moltiplicano le scuole nelle città e, per quanto l'insegnamento rimanga affidato ai chierici, la componente laica fra gli studenti aumenta. Il concilio Laterano del 1179 stabilisce 4. La filosofia cristiana e il Medioevo

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che ogni cattedrale debba tenere una scuola, a dimostrazione sia della crescente domanda di istruzione, sia della volontà della Chiesa di conservare il proprio controllo sull'insegnamento. I.;aumento delle scuole comporta quello degli insegnanti e una più precisa definizione del loro ruolo. Fra le nuove professioni che proliferano nelle città vi è appunto quella dei magistri, autentici intellettuali dell'età medievale. Come ogni altra professione anche quella dei maestri ha le sue corporazioni: le univer-

sità che godono di privilegi, di autonomia giuridica, di uno statuto interno. Ne sorgono ovunque: in Italia (Bologna, Salerno), in Francia (Parigi, Montpellier, Tolosa), in Inghilterra (Oxford, Cambridge), nella penisola iberica (Valencia, Salamanca, Siviglia, Coimbra). Ciascuna ha una propria articolazione interna e si specializza in un ramo degli studi (l'università di Salerno è famosa per la medicina, quella di Bologna per il diritto, a Parigi è rinomata la facoltà di teologia).

L'epoca in immagini • Le università costituiscono il segno più evidente della rinata Europa delle città e insieme il tessuto connettivo della cultura medievale.

oceano Atlantico

1 Auc~ores ~ ~uaestiones: la scolasti~a L~,; Il termme scolastica e usato generalmente come

sinonimo di filosofia medievale. Per gli uomini dell'Umanesimo, che coniarono il termine, esso aveva un significato spregiativo: "scolastici" erano detti quei filosofi che si perdevano in sottigliezze dialettiche, in vuoti sofismi estranei al mondo reale. In realtà, doctores scholastici erano nel Medioevo coloro che, nelle scuole dei conventi e delle cattedrali, insegnavano non solo la filosofia e la teologia, ma anche le arti cosiddette liberali del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Fondato sullo studio scrupoloso dei testi, sul confronto tra le testimonianze autore~oli (auctoritates) degli scrittori cristiani e di quelli, tra i filosofi pagani, che si ritenevano indirettamente ispirati dalla Rivelazione, sulla discussione e sulla dimostrazione rigorosa delle tesi sostenute, il metodo scolastico seguiva una metodologia precisa. Vi era anzitutto la lectio, in cui il maestro leggeva al suo uditorio il 370

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testo di un autore classico, mvltandolo alla meditazione personale. Seguiva la quaestio, ossia la ricerca di una comprensione razionale e confrontabile del testo studiato a partire dal porre questiones, ossia dalle obiezioni che si potevano muovere al testo. Veniva infine il momento per gli studenti di esercitarsi nell'uso dell'arte dialettica, la disputa (disputatio), in cui gli "apprendisti maestri" si confrontavano fra loro sotto lo sguardo benevolo e imparziale del maestro. Se nelle disputationes ordinariae era il maestro a proporre e a risolvere questioni tecniche, nelle disputationes genera/es, de quodlibet erano gli assistenti a proporre questioni al maestro, che presiedeva la seduta. Le dispute quodlibetali affrontavano gli argomenti più diversi: dall:;t teologia alla filosofia, dalla morale al diritto canonico, fino ai temi scottanti del giorno, ~ non erÌ raro che vi partecipassero - mescolati ai maestri e agli studenti - i personaggi illustri della città.

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1 La filosofia antica e la mediazione araba > : Grande

fu l'influenza esercitata sulla cultura cristiana medievale da quella islamica e da quella ebraica. Fra il mondo cristiano e l'Islam non vi furono mai barriere impenetrabili. La frontiera che li separava, pur sorvegliata da eserciti reciprocamente sospettosi, veniva varcata, prima sporadicamente e poi sempre più spesso, da pellegrini e da mercanti. Ma sul piano culturale il flusso di quegli scambi fu sostanzialmente a senso unico: la raffinata ed evoluta civiltà islamica aveva ben poco da imparare dall'Europa "barbara e infedele", come veniva indicata nei resoconti dei viaggiatori arabi. La cultura arabo-islamica garantì la conservazione della tradizione filosofica e scientifica del mondo antico, che era andata in gran parte persa nel eroilo dell'impero d'Occidente. Questa tradizione era stata conosciuta dagli arabi all'epoca della loro conquista dei territori bizantini nel Mediterraneo orientale e di lì era approdata in Europa attraverso intricati itinerari di traduzioni, dal greco al siriaco e all'arabo e quindi al latino, passando spesso per la

Il

mediazione dell'ebraico. Così, a partire dall'XI secolo, a Oxford, a Parigi, a Firenze e a Salerno si poterono leggere le opere di Aristotele e di Platone e anche quelle di Galeno, di Tolomeo, di Euclide e tante altre che arrivarono, finalmente, nel loro testo integrale, spesso accompagnate dal commento dei traduttori arabi e arricchite dalla loro straordina~cipacità di connettere tradizioni di pensiero-diverse. In Sicilia e in Spagna, dove i cristiani riuscirono a strappare qualche città ai musulmani, vennero tradotte in latino le opere di al-Kindi, Avicenna, alGhazzali, e con esse gli Analitici posteriori, la Fisica e il De coelo di Aristotele e l'Almagesto di Tolomeo. Sullo studio di questi testi crescevano le università e, alloro interno, il dibattito filosofico: si discuteva, come sempre, del rapporto tra scienza e fede e tra filosofia e teologia, ma lo si faceva riallacciandosi a una tradizione di pensiero in cui Aristotele era presente come Agostino e il musulmano Averroè assumeva per molti il ruolo di autorità filosofica.

1 La cultura ebraica nel mondo-islamico e in quello cristiano Anche gli ebrei ebbero un importante ruolo di mediatori linguistici e culturali. Abbiamo ricordato come nella traduzione dall'arabo in latino spesso fosse necessaria la mediazione della lingua ebraica, ovvero, più comunemente, fossero appunto gli ebrei, conoscitori di entrambe le lingue, a consentirne la reciproca traduzione. Provenienti dalla Palestina, da cui erano stati allontanati dalla dura repressione romana, culminata con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., gli ebrei erano riuniti in comunità che, con il passare del tempo, si trovarono diffuse tanto nell'area islamica quanto in quella cristiana. Ma mentre nel mondo islamico, per quanto emarginati e discriminati, gli ebrei, nel Medioevo, non furono oggetto di particolare ostilità, nell'Europa cristiana - indicati ci

come responsabili della morte di Cristo, quindi deicidi, e guardati con sospetto - essi vissero in una condizione di precarietà, che poteva facilmente degenerare in aperta persecuzione, come avvenne all'epoca delle Crociate o durante la peste del Trecento. In questa situazione una filosofia ebraica ebbe ben poche possibilità di svilupparsi nell'Europa cristiana, mentre fiorì nei paesi islamici, dei quali adottò generalmente la lingua. Sono scritte in arabo alcune delle principali opere filosofiche ebraiche del Medioevo, dal Re dei Khazari di Giuda Levita (1075-1141) alla Guida dei perplessi di Mosè Maimonide (1153-1204), ai testi di Ibn Gabirol (1020-1057), chiamato Avicebron dai filosofi scolastici che lo credevano un arabo cristiano.

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4. La filosofia cristiana e il Medioevo

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Lezione Profilo

La Chiesa delle origini e San Paolo

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DI

l cristianesi o

Temi

Concettt~cltidve

gentili, ebrei, cristiani, salvezza, conversione, Logos, farisei, zeloti, esseni, Gesù, Cristo, resurrezione del corpo, regno di Dio

*Il problema delle origini cristiane* La religiosità tardo-antica *La dottrina fìloniana del Logos *La predicazione messianica di Gesù opera di san Paolo

*l:

1. Gentili, ebrei, cristiani

• Lessico GENTILI Termine dispre-

giativo, con cui gli ebrei designavano gli altri popoli, e in particolare i greci, considerati impuri e idolatri.

Ai giorni nostri (almeno per i credenti) appare scontato definirsi "cristiani", ma nei primi tre secoli della nuova era, prima del trionfo definitivo della Chiesa costantiniana, che cosa significava dirsi tali? Per capirlo, confrontiamo la nascente identità religiosa cristiana con quella delle due maggiori tradizioni entro cui essa si formò: quella pagana (i cosiddetti • "gentili") e quella ebraica. La religione, presso i greci e i romani, si era sviluppata in un ambito cittadino e aveva incarnato soprattutto significati civili o valori estetici. Per questo la religione antica poté sopravvivere a lungo senza una vera e propria teologia, e, quando la ebbe, essa fu opera più di poeti che di filosofi (la filosofia manifestò anzi al suo sorgere un atteggiamento di critica razionale del mito). Ciò che caratterizza invece il clima spirituale della nuova epoca è: l. il forte contenuto salvifico dei culti, di provenienza orientale, che si diffondono nell'impero; 2. l'inedito contenuto teologico della nuova religiosità, che sollecita le risposte razionali della filosofia.

2. n problema della salvezza e la tendenza ascetica ~ Ricorda che... Nella religione greco-romana, scarso era l'interesse per il problema della salvezza personale, per lo più relegato tra le credenze mitiche e popolari o affidato ai culti misterici, come quello di Dioniso.

• Lessico METANOIA Profondo cam-

biamento interiore, mediante cui il credente si unisce alla divinità, attenendone il pegno della salvezza e della beatitudine definitiva dopo la morte.

Quanto al contenuto salvifico, gli elementi che meglio caratterizzano il nuovo bisogno religioso di salvezza (soteria) sono l'inquietudine per la sorte dell'individuo dopo la morte~ e la fede nell'immortalità dell'anima. Accanto alla sopravvivenza di antiche credenze, come quelle legate all' orfismo, si assiste all'importazione dall'Oriente di nuovi culti (quello di Iside dall'Egitto, quello di Cibele dall'Asia Minore, quello di Mitra dalla Persia), accomunati da un sentimento più intenso di identificazione personale con la divinità e da un'ansia di purificazione, di conversione etica (• metdnoia): un cambiamento di mentalità tale da meritare al credente una forma di immortalità. Un aspetto, che talvolta si lega al precedente, è quello dell'ascetismo. Spesso nei nuovi culti (come avveniva negli antichi misteri dionisiaci) l'unione mistica con il dio assume forme orgiastiche. Ma in altri casi (ed è questo l'aspetto che prevarrà nettamente nel cristianesimo) essa è concepita piuttosto come autodominio (enkrdteia) sui sensi e le passioni, considerati un ostacolo al perfezionamento interiore e alla salvezza dell'anima.

3. Filone d'Alessandria

la dottrina del Logos

All'interno dell'ebraismo si assiste a un inedito incontro di tradizione biblica e teologia greca. Filone, vissuto ad Alessandria d'Egitto tra la seconda metà del 372

I secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C., è il principale esponente della filosofia giudaico-ellenistica. Ciò che si propone nella sua opera è una sintesi tra filosofia greca (Platone e gli stoici) e rivelazione biblica. Strumento di tale opera di raccordo e di concordanza tra dottrine originariamente estranee è il metodo allegorico, da lui ampiamente usato. Già in precedenza alcuni scrittori ebrei alessandrini avevano confrontato la Bibbia (che proprio ad Alessandria, secondo la tradizione, venne tradotta in lingua greca da settantadue dotti ebrei, invitati allo scopo da Tolomeo Filadelfo: la cosiddetta "Bibbia dei Settanta") con i miti greci. Filone fa un uso sistematico dell'allegoria, paragonando (con linguaggio platonico) il senso letterale al corpo e quello allegorico all'anima. Intriso di platonismo, Filone osserva un netto dualismo tra anima e corpo, sensibilità e ragione, e concepisce la vita morale e religiosa come conversione dal molteplice all'uno, dalla natura alle idee, dall'immanenza alla trascendenza. Dio è un essere semplice, assolutamente trascendente, superiore alle realtà intelligibili. A colmare la distanza tra Dio e mondo, Filone introduce una serie di intermediari, il principale dei quali è il Logos ~. Esso è il primo e il più antico tra gli esseri spirituali concepiti da Dio, ed è identificato con la Sapienza (di cui parla l' omonimo libro della Bibbia), che prese parte con Dio alla creazione del mondo. Filone distingue due aspetti o funzioni del Logos: l. il pensiero interno alla mente di Dio (logos endidthetos); 2. il pensiero espl'esso e vel'bale (logos prophorikos), da cui ha origine il mondo creato. Fondendo il racconto biblico della nascita di Adamo con i concetti della filosofia, Filone distingue nell'uomo tre componenti: anima (uomo celeste), cot'po (uomo terrestre), spil'ito (che proviene direttamente da Dio). Lascesi consiste nel distacco graduale sia dal corpo, sia dall'io naturale e psichico, per rivestire l'io spirituale o divino, cui ci unisce la contemplazione del Logos.

~

Ricorda che ...

Per il neoplatonismo, il Logos corrisponde alla funzione demiurgica della divinità. Nell'Intelletto si trovano infatti le idee di tutte le cose, che si tratta semplicemente di tradurre dalla potenza all'atto.

4. La predicazione di Gesù Gesù di Nazareth è un seguace di Giovanni Battista. Dopo il battesimo nel Giordano, inizia a sua volta a predicare: dapprima nella nativa Galilea, e successivamente in Giudea e a Gerusalemme. I Vangeli lo presentano come un rabbi, profondo conoscitore della Legge, sebbene non appartenente al ceto sacerdotale. Al centro della sua predicazione sono l'imminente avvento del regno di Dio e l'invi-

F§jtus Le correnti delrebraismo palestinese La religione ebraica tradizionale si basava sul rispetto scrupoloso della legge mosaica e sul culto del Tempio di Gerusalemme. Da religione di stato, legata alla monarchia sacerdotale di Davide e dei suoi successori, dopo la perdita dell'indipendenza politica, l'ebraismo si trasformò, principalmente a opera dei profeti, in escatologia; nell'attesa della fine dei tempi, in cui Dio instaurerà sulla Terra un regno di pace e giustizia, in cui accogliere i suoi fedeli, separandoli dal resto dei popoli idolatri. Questa attesa si fece più intensa dopo la perdita definitiva dell'indipendenza politica, in epoca ellenistica. Furono i tentativi dei sovrani ellenistici di grecizzare la cultura ebraica a suscitare una profonda reazione religiosa, che assunse forme diverse. Alcuni cercarono di conciliare la fede tradizionale con l'assimilazione della nuova cultura: sorse così un giudeo-ellenismo, di cui Filone è il principale esponente. Altri (i farisei) si fecero promoto-

ri di un ritorno alla rigida osservanza delle regole cultuali ebraiche, che implicavano una netta separazione dal contesto sociale circostante (pur nell'ossequio politico ai governanti) e la condanna morale dei non ebrei. Altri ancora (gli zeloti) incitarono apei:tamente la popolazione palestinese alla rivolta contro i sovrani ellenistici, in occasione delle ricorrenti crisi politico-dinastiche, con l'idea di affrettare l'avvento del regno di Jahcuèh. Altri (gli esseni), infine, scelsero la strada dell'isolamento ascetico e della costruzione di comunità di "perfetti", in cui mantenere viva l'attesa degli ultimi tempi, caratterizzati da terribili prove e tribolazioni, prima del trionfo definitivo del bene sul male. Una ricca letteratura apocalittica, che mescolava oscure predizioni e profezie, sul modello della letteratura oracolare pagana (Libri sibillini), all'interpretazione dei fatti della storia contemporanea, contribuì ad alimentare tali aspettative. 4. La filosofia cristiana e il Medioevo

373

• Lessico

MESSIA Per gli ebrei è l'unto del Signore, il fondatore del regno di Dio sulla Terra. San Paolo traduce in greco Messia con Cristo (che contiene l'identico riferimento all'unzione regale).

to alla conversione e alla penitenza. La sua predicazione è accompagnata da segni, o fatti prodigiosi (come alcune guarigioni), che ne alimentano, tra i seguaci, la fama di inviato da Dio. Gesù manifesta un rapporto di particolare intimità con Dio, cui si rivolge, nella preghiera, con il termine aramaico di abba (padre). Egli identifica la propria persona con la figura del servo di Jahwèh del Deuteroisaia: un • Messia sofferente, che affretta l'avvento del regno assumendo su di sé le sofferenze che Dio ha promesso di infliggere agli uomini per i loro peccati. Le crescenti opposizioni che la sua predicazione incontra negli ambienti sacerdotali di Gerusalemme e tra i farisei inducono l'autorità romana ad arrestarlo e a giustiziarlo come agitatore e ribelle, mediante crocifissione. Questi fatti avvennero quando era governatore della Palestina Pilato, sotto l'impero di Tiberio.

5. La Chiesa delle origini

• Lessico

FIGLIO DELL'UOMO Epiteto messianico, equivalente a quello di "figlio di Dio", "inviato di Dio". Attribuendolo a Gesù, la Chiesa testimonia la propria fede nella sua divinità. ~ Ricorda che... Mentre i filosofi greci parlano di immortalità dell'anima, gli ebrei credono nella resurrezione dei corpi, nel giorno del Giudizio finale. Tale credenza è fatta propria dai cristiani.

Come si è passati dal Gesù della storia al Cristo della fede? Il processo è documentato nei Vangeli, che testimoniano la fede della Chiesa primitiva, formatasi a Gerusalemme intorno agli apostoli di Gesù e irradiatasi (dopo la diaspora, ossia la dispersione, del 70 d.C.) nelle regioni confinanti con la Palestina: Siria ed Egitto. Al centro della fede di queste prime comunità è l'annuncio: «quel Gesù che è stato crocifisso è stato resuscitato da Dio dai morti». Esteriormente questi primi cristiani non si distinguono dagli ebrei. Rispettano le prescrizioni rituali della Legge: la circoncisione e la rigida osservanza del sabato. Rifiutano di consumare pasti comuni con i non ebrei, considerati impuri. Si distinguono dagli ebrei ortodossi solo in quanto riconoscono in Gesù il Messia annunciato nelle Scritture. Essi ne attendono l'imminente ritorno nelle vesti del• Figlio dell'uomo, di cui parla il profeta Daniele. Egli verrà dal cielo a giudicare i vivi e i morti (che risorgeranno nei loro corpi)~ e instaurerà sulla Terra il regno messianico. Lo stile di vita di queste prime comunità è ascetico, ispirato alla regola della comunione dei beni. Il battesimo e il pasto in comune sono i principali rituali. Anche la struttura della comunità, governata dagli anziani (presbiteri), si modella sul tradizionale sinedrio giudaico. Confronti La Chiesa delle origini • ha una struttura gerarchica non ben definita; • è governata dagli anziani (laici), che collaborano con i vescovi (sacerdoti).

La Chiesa costantiniana (N sec.) solo con essa si fissa definitivamente il modello gerarchico sacerdotale (vescovi e papa) divenuto poi tradizionale .

• Il pesce è il più antico simbolo di Cristo, che viene spesso utilizzato nelle iscrizioni sepolcrali (come in questa del III secolo, da Salonicco) per esprimere la fede nella resurrezione dei morti. L origine del simbolo è spiegata dall'acronimo IXTHUS, composto dalle iniziali dell'espressione greca "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore" che, lette di seguito, formano appunto la parola "pesce".

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ClTAZION l San Paolo La salvezza estesa a tutti i credenti in Cristo Ora, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata

verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, dalla legge della fede. Noi riteniamo infotti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! Poiché non c'è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi. Lettera ai

6. San Paolo e la diffusione del cristianesimo Paolo di Tarso (vissuto tra i primi anni dell'era cristiana e il64 d.C., data in cui la tradizione colloca il suo martirio a Roma) occupa un posto di primo piano nella storia del cristianesimo. È Paolo infatti a diffondere la nuova fede al di là dei confini ristretti dell'appartenenza ebraica, indirizzandosi non solo ai giudei ellenisti (gli ebrei di lingua greca che vivono nella diaspora) ma a tutte le genti. Con lui il cristianesimo si trasforma in una fede universalistica, aperta a tutti i credenti, senza differenze di nazione, di condizione sociale, di sesso. Pur non avendo conosciuto Gesù, egli ne ha avuto la visione mistica: questi era il Cristo, il figlio di Dio. In lui la divinità si è "svuotata'' (• kénosis), ha rinunciato alla propria condizione superiore, abbassandosi fino ad assumere la figura di uomo, per riscattarne i peccati con il sacrificio della croce. I.:immagine di Dio che si manifesta in Cristo è quella del padre misericordioso, disposto a perdonare le colpe degli uomini, sulla base di un nuovo patto, più universale di quello stipulato con Mosè e il popolo ebraico. Non sono le opere della Legge, imposte agli ebrei per renderli consapevoli della loro umanità peccatrice, a salvarci, ma la fede in Cristo, estesa a tutti gli uomini di buona volontà. Il messaggio cristiano si riassume da ultimo nella carità: amore e fede in Dio, e fratellanza universale.

• Lessico K~NOSIS

Concetto centrale della teologia di Paolo. Mentre gli dèi del paganesimo sono "superiori" in quanto estranei al destino dei mortali, il Dio dei cristiani è misericordioso, fino al punto di abbassarsi allivello dell'uomo, di redimerne il dolore e il peccato, per il tramite di Cristo.

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Conoscenza dei termini Definisci: soterfa, metanoia, kénosis, Messia, Cristo, Figlio dell'uomo, regno di Dio.

bcomprensione di concetti e relazioni l Quali concetti filosofici sono al centro della teologia di Filone? 2 Si può parlare di ascetismo nella religione greca?

E se ne può parlare nella filosofia greca? 3 Quali erano le principali correnti dell'ebraismo palestinese, all'epoca della predicazione di Gesù? 4 Che cosa si intende per letteratura apocalittica? 5 Quali sono le conseguenze teologiche che Paolo ricava dalla fede nella resurrezione di Gesù? 6 Qual è la differenza di fondo tra l'escatologia greca e quella ebraico-cristiana? ,, .

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4. La filosofia cristiana e il Medioevo

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Apologisti e Padri della Chiesa

Temi

Concettt~cltitJve

*~ellenizzazione del cristianesimo* Apologisti e Padri

Logos, credo quia absurdum, gnosi e gnosticismo, Demiurgo, pleroma, docetismo, eresia,

della Chiesa* Patristica latina e greca *Il processo di fissazione del dogma

dogma, Trinità

1. Cellenizzazione del cristianesimo In origine il cristianesimo

è una delle numerose correnti del messianismo ebraico. Il processo di ellenizzazione ne assicura la sopravvivenza storica e la diffusione in Occidente, differenziandone il destino da quello delle altre chiese ebreo-cristiane, dopo la diaspora del 70

d.C.

San Paolo parlava della «follia della croce», contrapponendola alla «sapienza» dei filosofi, per sottolineare l'assoluta novità della predicazione di Gesù rispetto alla mentalità del paganesimo e al suo concetto di Dio. Vi era forse in ciò un riflesso autobiografico: il ricordo dell'incomprensione da lui incontrata nel viaggio missionario ad Atene e della predicazione all'Areopago (di cui parlano gli Atti degli apostoli). In realtà, proprio la sua scelta di diffondere il Vangelo nell'Occidente greco-latino, staccandolo dalle originarie matrici palestinesi orientali, fu l'evento determinante per la sopravvivenza e l'ulteriore maturazione storica di questa religione ~. Al lento processo di assimilazione del cristianesimo da parte dell'Occidente si dà il nome di ellenizzazione del cristianesimo. Gli apologisti e i Padri della Chiesa ne furono i protagonisti.

2. Gli apologisti Gli apologisti sono gli scrittori che, tra la fine del I e nel corso del II secolo d.C., difendono il cristianesimo dagli attacchi degli scrittori pagani, che lo accusano di immoralità e di falsità. Il più tipico rappresentante di tale tendenza è Giustino (palestinese, egli fonda una scuola filosofica a Roma, dove subisce il martirio nel165 d.C.). Nelle due Apologie, indirizzate agli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio, e nel Dialogo con Trifone, egli difende la nuova religione dall'identificazione con quella ebraica e giunge ad accusare i filosofi pagani di avere copiato dalla Bibbia ebraica alcune dottrine. La risposta dei filosofi pagani non si fa attendere a lungo: il neoplatonico Celso, autore del Discorso vero (180 d.C.), accusa di falso gli autori dei Vangeli, negando addirittura la natura divina del fondatore della nuova religione e affermando che Gesù sarebbe stato figlio illegittimo di Maria e di un mercenario romano di stanza in Palestina (tale Pantera).

3. La patristica latina L'organizzazione ecclesiastica, fortemente gerarchica e subordinata al potere imperiale, che si impone sia in Occidente sia in Oriente, dopo gli editti di Costantino e di Teodosio, viene definita Chiesa costantiniana.

376

Solo a partire dal III-IV secolo d.C. si può dire che l'identità cristiana si sia definitivamente consolidata in opposizione alle altre rivali. I Padri della Chiesa sono appunto quei teologi cui si rifà, in veste di autorità dogmatica, la tradizione ecclesiastica successiva, dopo la svolta di Costantino ~ e la progressiva trasformazione del cristianesimo in religione ufficiale dell'impero. Si distinguono due filoni principali nella patristica: l. una patristica latina, tendenzialmente ostile alla filosofia e tesa a rivendicare l'autonomia e l'assoluta novità del cristianesimo rispetto al paganesimo;

ri 2. una greca, favorevole invece all'uso della tagione e dei metodi controversistici propri della filosofia pagana, per meglio attestare le verità cristiane. Il rappresentante più tipico della prima tendenza è Tertulliano (II-III sec. d.C.), di cui è divenuto proverbiale il detto (che non è certo abbia effettivamente pronunciato) «credo quia absurdum», "credo perché è assurdo". La verità rivelata non è cioè misurabile con il metro della saggezza e della ragionevolezza filosofica. Come scrive Paolo, la croce è «follia» per i gentili, non può cioè essere accettata dalla mentalità pagana senza una totale conversione, e ogni tentativo di rendere "ragionevole" il cristianesimo rischia di svilirne il messaggio.

4. La patristica greca Quello che prevarrà nella patristica successiva è l'opposto atteggiamento degli scrittori greci della cosiddetta "scuola alessandrini': Clemente d'Alessandria e Origene, favorevoli viceversa al connubio tra fede e filosofia. I cardini della nuova impostazione, che risente della koiné culturale dell'ellenismo, sono: l. l'identificazione della parola divina (il Verbo, di cui parlano sia Paolo sia l'autore del quarto Vangelo, identificandolo con la personalità storica di Gesù ~) con il Logos della tradizione platonico-stoica; 2. l'uso dell'allegoria nell'interpretazione delle Scritture. Clemente ritiene che la filosofia greca sia stata propedeutica alla rivelazione cristiana. Analogamente all'Antico Testamento per gli ebrei, la filosofia ha costituito per i greci una preparazione provvidenziale all'accettazione del Vangelo. Neppure dopo l'incarnazione di Cristo la filosofia ha perduto la sua funzione di preparazione razionale alla verità rivelata. Si può anzi parlare di una gnosi cristiana, di una conoscenza che rivaleggia con quella del paganesimo e che, senza cadere nell'eresia dello gnosticismo, è in grado di consolidare la verità, rivelata nelle Scritture, nei • dogmi condivisi dalla Chiesa.

L:espressione greca Logas, contenuta nel prologo del Vangelo di san Giovanni, è stata tradotta Verbum dai latini e allude al fatto che Dio si è manifestato nell'umanità di Gesù.

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• Lessico DOGMA Verità religiosa creduta per fede e non dimostrabile razionalmente. Essa viene fìssata dalla Chiesa, in quanto custode della tradizione apostolica.

S. Origene Origene '(185-253 ca) è stato il più grande pensatore cnstlano prima di Agostino. Nato ad Alessandria, fu allievo di Ammonio Sacca (il filosofo platonico maestm di Platino). Oltre che di opere apologetiche e di esegesi biblica, è autore di un compiuto sistema teologico, formulato nel trattato Sui principi. Il problema da cui parte Origene è la disuguale condizione delle creature spirituali (gli astri, gli uomini e i demoni), rispetto al piano della trascendenza divina. Perché, se Dio

~§~SrUS Gnosi e gnosticismo Il termine gnosi (che significa "conoscenzà') è usato dai primi scrittori cristiani per riferirsi al valore salvifico della rivelazione biblica. Il credente (come scrive Paolo nella Lettera ai romani) è salvato non in grazia dei suoi meriti, ma della giustificazione ottenuta mediante la fede nella divinità di Cristo e nel valore di redenzione della sua morte e resurrezione. Ma in alcune correnti del cristianesimo delle origini, contro cui già l'apostolo polemizzava, ci si spinge troppo oltre, nell'assimilazione della fede a una conoscenza filosofica di tipo profano. Lo gnosticismo (di cui esistono molte versioni, nei secoli II e III d.C.) è appunto quella corrente, in seguito definita eretica dai Padri della Chiesa (come lreneo), che tende ad

assimilare il cristianesimo a una delle tante versioni della sapienza religiosa tardo-antica (culto isiaco, neopitagorismo, manicheismo ecc.). Anziché insistere sul valore storico della testimonianza dei Vangeli, si tende a darne un'interpretazione simbolica e fùosofica. Cristo è assimilato più a una Entità divina (una Essenza spirituale, staccatasi dal pleroma delle origini) che a un uomo in carne e ossa. La redenzione è concepita come un necessario processo cosmico, di finale "reintegrazione" in Dio delle particelle spirituali e "luminose", imprigionate nella materia da un Demiurgo malvagio (identificato sovente con il Dio dell'Antico Testamento). È invece assente l'idea del valore salvifico della morte di Gesù sulla croce. 4. La filosofia cristiana e il Medioevo

377

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Confronti Nel neoplatonismo l'allontanamento e il ritorno a dio degli enti è un processo cosmico eterno. In Origene esso diventa un fatto storico, al cui centro è la morte e resurrezione di Cristo.

e lessico DocETISMO Tesi eretica,

sostenuta soprattutto da alcune correnti dello gnosticismo, secondo eu i Cristo sarebbe stato "considerato" (dokéin) un uomo, mentre in realtà era un essere spirituale, apparso in figura umana.

e lessico Interpretazione autentica e vincolante del dogma religioso, fissata dall'autorità (i vescovi e l'imperatore).

ORTODOSSIA

è il creatore del mondo, vi sono così evidenti disparità di perfezione? Perché esiste il male? Non è Dio responsabile di una creazione così imperfetta? Origene risolve il problema (cui verrà dato il nome di teodicea) distinguendo tra una condizione iniziale, caratterizzata da una fondamentale uguaglianza e perfezione degli spiriti che compongono il mondo superiore divino (pleroma) condizione destinata a essere restaurata solo alla fine dei tempi (apokatdstasis) -, e l'attuale condizione di imperfezione del mondo inferiore e terrestre. Il male è risultato di una libera scelta compiuta da alcune di queste creature spirituali, allontanatesi da Dio. Esso non costituisce un'obiezione alla bontà del creato, perché tutto ciò che proviene da Dio è buono, ivi compresa la libertà concessa alle creature razionali. Solo l'uso di tale libertà di scelta è sottoposto a giudizio morale. Tra le creature decadute per effetto del peccato vi sono i demoni, gli angeli ribelli, e l'uomo, discendente di Adamo. Lanima dell'uomo è stata unita al corpo per espiare una colpa spirituale. Anche dopo la caduta, l'uomo conserva la sua libertà di scelta razionale e può iniziare un cammino morale di purificazione, completato dalla fede in Cristo. Alla fine dei tempi il mondo tornerà a Dio, reintegrato nella sua perfezione iniziale. Anche Lucifero verrà perdonato e l'Inferno sarà vuoto.

6. n problema cristologico I problemi che impegnano maggiormente i Padri della Chiesa fra III e IV secolo sono quello cristologico e quello trinitario. La discussione si concentra in un primo tempo sul rapporto del Dio trascendente con il Logos incarnato in Cristo. Si manifestano diverse interpretazioni, che successivamente vengono ripudiate come eresie (da airéo, che in greco significa "scelgo"). Tra queste l'adozionismo, che considera Cristo un uomo, elevato da Dio alla condizione divina solo dopo la resurrezione dai morti (secondo altri, dopo il battesimo). All'estremo opposto il • ·docetismo, che nega la natura umana di Cristo, identificato con il Logos preesistente alla creazione (un'entità spirituale, di natura divina). Solo simbolicamente esso si sarebbe manifestato nella figura umana di Gesù, abbandonata al momento della sua passione e morte (al suo posto, sarebbe stato infatti crocifisso un altro). L • ortodossia afferma invece la compresenza in Cristo delle due nature, umana e divina, unificate e sostenute dalla sua persona.

7. Il problema trinitario e rarianesimo

• lessico OMousiA La perfetta con-

sustanzialità tra le persone della Trinità, sostenuta in polemica contro quanti ne affermano la semplice somiglianza (omosu-

sfa).

378

Risolto il problema cristologico, viene affrontato quello propriamente trinitario. Alcuni teologi (monarchiani o modalisti) tendono ad attenuare la distinzione, in Dio, di più principi personali. Concepiscono le tre persone come semplici modi di essere di un'unica persona. A questa concezione si oppone il subordinazionismo, caratteristico dei Padri latini, come Tertulliano: Padre, Figlio e Spirito santo sono tre distinte persone, in un rapporto di reciproca subordinazione o gerarchia. La soluzione di Origene, che è infine adottata dalla patristica posteriore, utilizza con maggiore finezza le categorie filosofiche di natura (ousia) e persona (ipostasi). Nella Trinità vanno distinte tre persone, legate da rapporti di reciproca generazione, anziché di creazione, e dunque fra loro consustanziali. La loro distinzione e gerarchia è di funzione, non di natura. Aria riprende da Origene la distinzione di persone, estremizzandola. Egli la concepisce come differenza di natura: considera il Figlio come la prima "creatura'' di Dio, a lui inferiore. Solo il concilio di Nicea (325 d.C.) risolve la controversia, condannando l'arianesimo e stabilendo la perfetta uguaglianza di natura (• omousia) delle persone che compongono la Trinità.

8. I Padri cappadoci Nonostante l'accordo raggiunto a Nicea, le discussioni tra le diverse Chiese cristiane proseguono, mescolandosi spesso a divisioni territoriali, sociali o politiche, nel lungo processo di "inculturazione" della Chiesa cristiana nella realtà profana del tempo. Tra le personalità che emergono in questo cruciale periodo vi sono i Padri cappadoci: Basilio, Gregorio di Nazianzo (Nazianzieno) e Gregorio di Nissa (Nisseno). Sono loro a formulare la dottrina trinitaria più matura ~' che mette a frutto la posizione di Origene, ma la precisa avvalendosi di un più raffinato apparato terminologico e concettuale. Basilio, per dimostrare che le tre persone non indeboliscono l'unità della natura divina, fa ricorso alla distinzione aristotelica di genere e specie. Come la specie ("volatile", "pedestre" ecc.) diversifica il genere (''animale"), senza intaccame l'unità, così l'ipostasi personale (Padre, Figlio, Spirito santo) va intesa come la forma particolare di manifestazione di una sostanza o natura (ousia) unica. Gregorio di Nissa mostra come la posizione teologica ortodossa - affermante la coesistenza in un'unica natura di tre persone uguali e distinte - concilia e supera la concezione ebraica di Dio, rigidamente monoteistica, e quella pagana, prevalentemente politeistica. Alla Trinità divina corrisponde, nell'uomo, una struttura ugualmente tripartita. Gregorio Nazianzieno sottolinea come Cristo (modello dell'uomo rigenerato dalla fede) possedesse un corpo (soma), un'anima (psyché) e un intelletto superiore (noùs). San Basilio e san Gregorio Nazianzieno (detto anche il Teologo) sono considerati i padri fondatori della Chiesa ortodossa. Sovente sono raffigurati insieme nelle icone russe, come in questa della famosa scuola di Pskov (XV sec.), in cui sono il secondo e il quarto personaggio, da sinistra a destra.

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~ Ricorda che ... La concezione trinitaria di Dio è l'aspetto che differenzia maggiormente il cristianesimo dall'ebraismo e dall'islam, che rimangono invece legati a un rigido monoteismo.

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Conoscenza dei termini

Definisci: Logos[Verbo, credo quia ahsurdum, gnosi, gnosticismo, Demiurgo, pleroma, apokatastasis, docetismo, Trinità.

3

bcomprensione di concetti e relazioni l Qual è la differenza principale tra il cristianesimo delle origini, che hai studiato nella precedente lezione, e il processo di ellenizzazione del cristianesimo, che si verifica nel l l-IV sec. d.C.? 2 Quali concetti della tradizione filosofica greca,

4 5 6

in particolare di stoicismo e neoplatonismo, Origene utilizza nella propria sistemazione teologica? Nel processo di organizzazione delle strutture ecclesiastiche e di fissazione dogmatica della fede cristiana, è l'ortodossia a precedere l'eresia, che ne sarebbe un'interpretazione erronea, oppure è quest'ultima a precedere e a preparare il terreno all'ortodossia? Che cosa si intende per problema cristologico? Che cosa si intende per problema trinitario? Qual è il contributo teologico dei Padri cappadoci? 4. La filosofia cristiana e il Medioevo

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Lezione Profilo

Agostino



a conversione

di

neoplatonico

Temi

Concett,~cltitJve

* Le Confessioni di Agostino* La vita come ricerca della verità *Come un burocrate diviene filosofo e santo* La formazione di Agostino * Perché manicheo? perché scettico?* Che cosa trova Agostino nel neoplatonismo *Il significato della conversione

male, verità, manicheismo, scetticismo, neoplatonismo, conversione

1. Il senso di un cammino Per te ci hai fotti, e il nostro cuore è inquieto finché in te non trovi pace. (Conf., L l)

380

Accade con Agostino quello che non succede con nessun altro filosofo: ne possiamo incontrare il volto sulle pareti o sulle volte di centinaia di chiese, conventi, cappelle, in tutta Europa ma anche in America latina. Allineando questa sterminata iconografia, si vedrebbero gli Agostino che ogni epoca ha immaginato. Certo, si tratta di un'iconografia in massima parte celebrativa, che ritorna sugli episodi della vita del santo e ne ripete ogni volta il repertorio simbolico: la mitra del vescovo, il libro del dottore della Chiesa, il cuore fiammeggiante dell' amante di Dio. Ma talora, Agostino stesso costringe i suoi interpreti ad andare oltre la rappresentazione di maniera, per cogliere il nucleo profondo della sua personalità filosofica e della sua spiritualità. Allora diventa il filosofo dell'interiorità, il narratore dell'anima che cerca la verità dentro se stessa, guidata dalla luce divina. Così è per il neoplatonico Sandro Botticelli, che nello stupendo Agostino (1480) della chiesa di Ognissanti a Firenze coglie lo sguardo intenso dell'anima rivolta alla verità; e così è anche, cinquecento anni dopo, per la sensibilità moderna di Roberto De Santis (Conversione di Agostino, 1986), che racconta di un'anima nuda, priva di ogni peso esteriore e immersa nell'oscurità, protesa nello sforzo di raggiungere la luce. Ma questo Agostino "illuminato"' ne presuppone un altro: un Agostino inquieto, dubbioso, diviso, come ce lo restituiscono lo sguardo meditativo e il volto emaciato dell'interpretazione di Remo Brindisi (1918-96). Impossibile comprendere il primo senza partire dal secondo. Del resto, è lo stesso Agostino a comunicarcelo, all'inizio delle Confessioni, la sua opera più nota: Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, così si rivolge a Dio. :Cesperienza dell'uomo si attua nella tensione fra inquietudo, che è mancanza, desiderio, e beatitudo, che è pienezza, appagamento. La conoscenza e la vita sono ricerca, movimento che impegna tutto l'essere in direzione di un oggetto d'amore.

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VITA E OPERE DI AGOSTINO

• Un provinciale in carriera Agostino nacque a Tagaste (l'odierna Souk-Ahras, in Algeria) nel 354, da Patrizio, piccolo proprietario terriero, e da Monica, fervente cristiana. Come molti giovani provinciali della sua condizione, Agostino intraprese la sola via che gli prospettasse un'ascesa sociale: quella dell' avvocatura o dell' insegnamento presso le cattedre imperiali. Occorreva, a questo fine, compiere il prescritto ciclo di studi: prima a Tagaste, quindi nella città universitaria di Madaura, patria di Apuleio, infine a Cartagine, dove Agostino giunse nel371 per compiere gli studi superiori di retorica. La morte del padre e l' obbligo di provvedere al figlio Adeodato, nato da una relazione di concubinaggio (pratica ammessa dai costumi morali dell'epoca), lo costrinsero però a ritornare a Tagaste per aprirvi una scuola (373). Nei dieci anni successivi Agostino. si dedicò - con successo ma con scarsa soddisfazione- all' insegnamento: a Tagaste, a Cartagine, a Roma, dove giunse nel382, e infine a Milano, chiamato, grazie all'appoggio dei suoi amici manichei, a tenervi la prestigiosa cattedra di retorica.

• La conversione A Milano, dove risiedeva la corte imperiale, la carriera di Agostino conobbe un balzo in avanti e il giovane retore si inserì con successo

nella brillante e colta società della capitale: per favorire tale inserimento, anche dietro consiglio della madre Monica, ripudiò la concubina, madre di Adeodato, e progettò un matrimonio con una ricca ereditiera cattolica. Ma l'inquietudine spirituale e intellettuale, la crescente insofferenza per l'esteriorità della vita pubblica, il contatto con la predicazione del vescovo Ambrogio condussero Agostino alla celebre e fulminea conversione nell' estate del386. Agostino decise di entrare nella Chiesa e di ricevere il battesimo; rinunciò alla carriera per dedicarsi allo studio e alla meditazione; abbandonò infine il progetto di matrimonio per abbracciare uno stile di vita ascetico. • Gli anni dello studio Nel settembre 386 Agostino, stanco e in cattiva salute, si ritirò con la madre Monica, il figlio Adeodato e alcuni giovani amici in una villa a Cassiciacum (probabilmente l'odierna Cassago), in Brianza. Qui la sua riflessione, condotta nelle categorie del neoplatonismo, produsse i primi ricchi frutti ftlosofici: il Contra academicos, confutazione dello scetticismo; il dialogo interiore dei Soliloquia; il De beata vita, sulla natura della felicità; il De ordine, che traccia un programma di lavoro basato sullo studio delle arti liberali come preparazione a una autentica vita di contemplazione fùosofica e religiosa.

Nel387, sulla via del ritorno a Tagaste, dovette fermarsi a Ostia, a causa della guerra scoppiata fra l'imperatore Teodosio e l'usurpatore Massimo: qui subì la perdita della madre Monica (li legava un intensissimo rapporto), seguita a pochi anni di distanza da quella del figlio Adeodato. Solo nel 389 poté rientrare a Tagaste. Fra Ostia e Tagaste Agostino scrisse il De quantitate

animae (L'estensione dell'anima), indagine sulla natura dell'anima; iniziò il De libero arbitrio (concluso nel395), opera di grande importanza sul tema della libertà, della grazia e del peccato; il De magistro, indirizzato al figlio Adeodato, che contiene importanti riflessioni linguistiche e gnoseologiche; il De vera religione, opera antimanichea, e il De utilitate credendi, sul rapporto tra fede e ragione. • Gli anni della lotta Nel391, recatosi in viaggio a Ippona, Agostino si ritrovò ordinato sacerdote "a furor di popolo" (cosa non rara all'epoca) e nel395 divenne vescovo di Ippona, carica che conserverà sino alla morte. Essere a capo di una diocesi nordafricana tra IV e V secolo significava confrontarsi con problemi che andavano dalle grandi controversie dottrinali - un'aspra battaglia dottrinale e politica fu condotta da Agostino contro manichei, donatisti e pelagiani - alle incombenze quotidiane più minute: dirimere liti (poiché il

vescovo aveva anche funzioni giudiziarie), gestire le sempre più numerose donazioni, combattere l'immoralità del clero locale, gestire difficili e faticosi rapporti con un potere politico sempre più vacillante e imprevedibile. A queste attività si affiancavano la predicazione (raccolta negli oltre cinquecento Sermoni) e l'opera di esegesi scritturale e di sintesi dottrinale: ricordiamo almeno i commenti al

Genesi (De Genesi ad fitteram), ai Salmi (Enarrationes in Psalmos), alle lettere paoline ai romani e ai galati (di importanza decisiva nell' elaborazione della dottrina agostiniana della grazia). E ancora, il De doctrina christiana, delineazione della nuova cultura e paidéia cristiana, e il De catechizandis rudibus, sorta di manuale per l'istruzione dei principianti della vita della Chiesa. Ma in questa fase, soprattutto, videro la luce, dopo lunghe gestazioni, i tre grandi capolavori di Agostino: le Confessioni (concluse nel 400), autobiografia che ripercorre con straordinario vigore filosofico e letterario l'itinerario di Agostino; il De Trinitate (399-419), in quindici libri, sul dibattuto problema trinitario; la grande sintesi filosofica, storica e religiosa del De civitate Dei, in ventidue libri (412-426). Agostino morì nel430, al tramonto dell'impero d'Occidente, mentre i vandali as~· sediavano Ippona.

4. La filosofia cristiana e il Medioevo

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2. Incontri preliminari: un accidentata formazione Ero divenuto un enigma angoscioso per me stesso. (Conf., IV, 4)

Le Confessioni, scritte da Agostino intorno al400, dunque in tarda età, non sono un' autobiografìa nel senso moderno del termine, cioè la narrazione di una soggettività e dei suoi percorsi: l'opera, infatti, ha una finalità essenzialmente apologetica, poiché vuole rappresentare in modo esemplare il cammino dell'anima verso se stessa e verso la verità. In essa, dunque, il valore dell'esperienza terrena è sempre subordinato a finalità di ordine trascendente. E tuttavia, le Confessioni mostrano anche il valore universale di un'esperienza di vita condotta nella ricerca; indicano quanto di filosofico vi è nell'itinerario verso una comprensione che fornisca il senso dell'esperienza. Trovate nella scheda Vita e opere di Agostino le informazioni essenziali per seguire questo percorso. Ma esso può anche venire introdotto attraverso gli "incontri" spirituali e filosofici che Agostino fece negli anni della sua formazione, nel tentativo di risolvere l"'enigmà' che era divenuto per se stesso e di soddisfare la «sete di verità» che lo muoveva:

di Cicerone

·dialogo filosofico (per noi perduto) modellato sul Protrettico di Aristotele, fa scoprire ad , Agostino (373 d.C.) la filosofia, intesa come ricerca della verità.

la Bibbia

testo fondamentale della sapientia cristiana, delude Agostino per lo stile rozzo e oscuro, i miti ingenui adatti solo alla fede dei semplici.

il manicheismo

la dottrina del persiano Mani (III sec. d.C.), una metafisica dualistica basata sul conflitto fra due opposti principi, il Bene e il Male, conquista per lungo tempo (dal 373 al 382 d.C.) Agostino perché fornisce una spiegazior;e razionale del problema dell'origine del male.

lo scetticismo

appare ad Agostino (dal383 d.C.) un salutare antidoto contro il dogmatismo manicheo ed è da lui interpretato più come esercizio d_el dubbio che come scepsi radicale.

l'Hortensius

3. Cillusione manichea Ero dell'opinione che non fossimo noi a peccare, ma fosse una qualche altra natura a farlo in noi. E piaceva al mio orgoglio sentirmi estraneo alla colpa. (Conf., V, 18)

~ Ricorda che ... La dottrina del persiano Mani pretendeva di essere l'autentica e perfetta espressione del cristianesimo, fondata su elementi puramente razionali.

In questo percorso intellettuale; fatto di infatuazioni e disillusioni, è possibile già cogliere in controluce alcuni dei grandi temi della filosofia agostiniana. primo è quello del male: perché esiste il male nel mondo? perché l'uomo compie il male? La metafìsica manichea, contrapponendo il Bene e il Male come principi opposti, permette di pensare il negativo, il male, come altro da sé, come forza esterna. Inoltre, identificando la corporeità, e in primo luogo la sessualità, con il male, dà ad Agostino la possibilità di inquadrare razionalmente un conflitto che egli ha sempre avvertito con sofferenza e colpa: la difficoltà di dominare la sensualità, l'ingovernabilità delle pulsioni e dei desideri. Ma il manicheismo sembra offrire ad Agostino anche la soluzione di un altro problema: quello della verità. Fornisce infatti una spiegazione metafisico-cosmologica della realtà naturale, una conoscenza del mondo e dell'uomo basata su una critica severa dell'antropomorfismo e delle incongruenze dell'Antico Testamento~.

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4. Uno scetticismo prudente Mi si era insinuata in mente anche l'idea che più saggi degli altri fossero quei filosofi detti accademici, i quali avevano sostenuto che si dovesse dubitare di tutto. (Conf., V, 19)

382

Tuttavia, è proprio su questo terreno che matura, sia pure con molta lentezza, il distacco di Agostino dal manicheismo. Approfondendo i suoi studi filosofici e scientifici, Agostino incomincia ad accorgersi che la conoscenza della natura elaborata dai fisici, dai medici, dagli astronomi è ben più coerente e precisa delle profezie contenute nei libri di Mani; mentre sul piano della vita morale il manicheismo, concependo l'uomo come il teatro passivo di uno scontro fra opposte forze, impedisce in realtà ogni tensione.

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