Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca

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Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca

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BIBLIOTECA DI CULTURA MODERNA N. 368

DANTE E

LA CULTURA MEDIEVALE

)

BRUNO ••NARDI

DANTE E

LA CULTURA MEDIEVALE NUOVI SAGGI DI FILOSOFIA DANTESCA

B!ARI GIUS. LATERZA & FIGLI TI POGRAFl·EDI TORI-LIBRA I

1942-xx

PROPRIRTA LRTTKRARIA

630168

A Ila memoria di mio nonno AN­ GIOLO NARDI (m. t'l 30 dicembre I893 ), e/te m' insegnò la santa croce e primo m'additò le stelle dell'Orse care al cuore di Dante.

AL LETTORE

Dicono si sia non poco esagerato nel giudicare dell'importanza del pensiero filosofico di Dante e nel­ l'attribuirgli una qualche originalità. Io oserei affermare piuttosto che si sia caduti nel difetto. opposto, soste­ nend9, come s'è fatto da molti in questi ultimi tempi, che la filosofia dell'Alighieri è in sostanza quella del « buono frate Tommaso d'Aquino». E quella del to­ mismo di Dante è finita per diventare ormai una leggenda divulgata in molti commenti e accolta, come cosa risaputa, nella maggior parte dei manuali di letteratura. La qual· leggenda, se trae origine, a parer mio, da quello che d'inesatto e d'approssimativo era nella conoscenza che i dantisti avevano delle dottrine filosofiche del medio evo, è stata poi accreditata dallo zelo che a divulgarla hanno messo taluni neotomisti, i quali mostrano di perseguire un intento apologetico del tutto fuori posto, quasi che l'esser stato meno fedele alla filosofia deH' Aquinate significasse esser meno salda la fede di Dante o meno puro lo spirito religioso della Commedia. Sarebbe come dire che è meno sin­ cero il sentimento religioso del Manzoni, per avere

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DANTE E LA CULTURA MEDCEVALE

osato scrivere che le famose Disquisizioni Magiclie di Martino Del Rio, « divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d'un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carneficine >>. Coll'animo sgombro da qualsiasi pregiudizio set­ tario tendente a far di Dante un ribelle precursore di Lutero oppure un banditore della controriforma e del tomismo, prima di pronunciare un giudizio intorno alla maggiore o minore importanza e originalità della filosofia del nostro poeta, che d'essere vir p!iilosopliiae domesticus si vantava, mi son proposto un compito più modesto che pur m'è parso di qualche momento per intendere quella poderosa mente: determinare colla maggiore esattezza critica quello che Dante ha pensato intorno ai problemi filosofici sui quali s'è fermato a meditare. Dopo, se ce ne sarà bisogno, tireremo le conclusioni che sarà il caso di tirare. Intanto mi pare che qualche conclusione cominci a farsi evidente: su alcuni problemi il poeta mostra d'essere andato più a fondo de' suoi contemporanei, e le sue soluzioni ci appaiono spesso più complesse ed ardite delle loro. Così, pur ricondscendo che lo schema generale della sua metafisica è quello della scolastica cristiana, è certo che egli vi ha inserito taluni particolari carat­ teristici, come la dottrina esposta a proposito delle macchie lunari, per spiegare Ja derivazione del mol­ teplice dall'uno; come quella della produzione mediata del mondo inferiore; come quella altresì dell'empireo, luogo intellettuale del mondo sensibile, e quella in. torno all'origine dell'anima umana risultante del con­ corso dell'atto creatore coll'opera della natura, dottrina quest'ultima rimessa in onore dal Rosmini. Così nelle sue riflessioni sulla natura del linguaggio,

AL LETTORE

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bante muove dal concetto aristotelico della naturale mutabilità delle lingue, per rivendicare il buon diritto del volgare sulla ((grammatica», ed arriva fino a trionfare del vecchio pregiudizio teologico circa l' incor­ ruttibilità della lingua d'Adamo. Cosi nelle discussioni intorno alla natura dell'amore che s'accesero fra i rimatori italiani del seco\o XIII, sembra essersi rinnovato in tutti in suoi momenti dia­ lettici lo svolgimento del Fedro platonico; si che dalle esercitazioni retoriche che ci ricordano il discorso di Lisia, giungiamo con Dante alla riscoperta dell'origine divina di Eros; e nella poetica rappresentazione del­ l'ascesa dell'anima ali' iperuranio, celebrata nel secondo discorso di Socrate, come nella visione di Er alla fine della Repubblica, assai meglio che nelle povere. visioni medievali, accade di trovare davvero il germe fecondo della filosofia e della poesia della Commedia. A chi osservasse che il poeta fiorentino non ebbe alcuna conoscenza delle due opere del filosofo ateniese, è agevole rispondere che il pensiero platonico, propa­ gatosi per mille rivoli, informava ormai di sè una vasta letteratura che almeno in parte era ben cono­ sciuta da Dante. Ma, anche senza di questo, i grandi ingegni non hanno bisogno, per intendersi, dei mezzi consueti che si richiedono alle anime superficiali. Lo spirito si diffonde per vie occulte, sotterranee. E le menti avvezze a concentrarsi nella meditazione, tanto più facilmente comunican fra loro, pur attraverso di­ stanze di luogo e di tempo, quanto più s' immergono nelle profondità della coscienza, là dove s'accende la luce del vero. Intanto giova notare che anche l'ultima tesi del Fedro, esser la vera eloquenza espressione sincera dei sentimenti dell'animo, trova perfetta riso­ nanza dei versi del poeta:

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l' mi son un, che quando amor mi spira, noto, ed a quel modo ch'e' ditta de!ltro vo significando; poichè la materia dell'amore, come diceva Riccardo da S. Vittore, « aut tota intus est aut nusquam est», di guisa che « solus de ea digne loquitur qui, secundum quod cor dictat, verba componit » (De grad. charit., cap. 1). Ma il problema più grave dell'anima dantesca è quello concernente la « cagion che il mondo ha fatto reo». Dapprima egli avea creduto di trovare questa cagione nell'egoismo delle città e dei principati par­ ticolari, per non essere la cupidigia frenata dal caval­ catore dell'umana volontà; ed aveva scritto la Monar­ chia. In quest'opera è notevole la vigorosa affermazione '. dell'unità del genere umano, dedotta dal principio I averroistico che tutti gli uomini tendono ad un unico fine, cioè a che, per mezzo dello sforzo comune, la potenza dell' intelletto possibile sia in ogni momento tutta quanta spiegata. Dal!'unità del genere umano aveva poi dedotta la necessità della monarchia uni­ versale, e di questa aveva difesa l' indipendenza dall' in­ vadente potere ecclesiastico, assumendo a fondamento di questa indipendenza l'autonomia della ragione di fronte alla fede. Più tardi scopriva che la causa dei mali che affiiggevano la cristianità era più profonda: non solo era venuta meno l'autorità moderatrice del1' Impero, ma la stessa Chiesa, per essersi invischiata nelle faccende di questo mondo, aveva tradita la sua missione evangelica e dava esempio di mala condotta ai cristiani. Sì che al ristabilimento dell'ordine sulla terra era necessaria, insieme alla restaurazione impe­ riale, una riforma religiosa che riconducesse la Chiesa sulla retta via.

AL LETTORE

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Chi giudica questa utopia dantesca dal punto di vista della storia politica o della storia delle dottrine politiche, la trova e non può non trovarla troppo ir­ reale perchè potesse contribuire a modificare il corso degli avvenimenti. , Ma l'errore consiste precisamente nel giudicarla dal punto di vista politico, piuttosto che da quello morale. Politico era invece l' intento perseguito dalla tradizione giuridica bolognese, anche quando questa traeva profitto dall' ideale di riforma religiosa per rafforzare la tesi che nelle cose temporali nessuno comanda ali' imperatore. Dante va oltre la tesi imperialista, e l'ideale monastico di riforma corregge colla visione di una « beatitudo huius vitae», da rea­ lizzarsi sulla terra, mercè la piena attuazione della ra­ gione « que per phylosophos tota nobis innotuit )). Un tempo si guardava alla filosofia medievale, come si guarda il profilo incerto di monti lontani, velati di nebbia, all'e�tremo confine dell'orizzonte. Ma se il viandante s'avvicina ad essi, cominciano a di­ stinguersi gioghi e vertici separati da valli e di versi fra loro d'altezza e d'aspetto, gli uni verdeggianti di boschi, gli altri brulli e rocciosi.. Se poi s'addentra per quelle valli e tenta l'erta di quei gioghi, ne scopre altri ed altri ancora, con sua non piccola meraviglia, e discerne catene variamente disposte staccarsi dall'asse principale del sistema. Cosi appare oggi la filosofia del medio evo a chi non �i contenta di guardarla da lontano: l'agostinianismo, il tòmismo, lo scotismo, l'averroismo sono soltanto le meno ignorate fra le molte e varie tendenze che l'occhio esercitato distingue nella com­ plessità del pensiero del secolo XIII; attorno ad esse, altre ve ne sono e non meno degne d'esser conosciute, come, per esempio, quella che trae impulso da Alber.t o Magno, alla cui dottrina ha largamente attinto l'Ali­ ghieri.

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Per riprendere l'immagine di cui mi son servito, oserei dire che il pensiero dantesco sta, tra molte catene e giogaie, come uno scosceso picco dolomitico che s'erge sovra di quelle, scintillante nel sole, e in­ vita e tenta: a chi dura la fatica dell'erta è concesso di godere di lassù del più vasto panorama e d'udire la celeste armonia che diletta l'udito di quanti hanno saputo elevarsi sul mondo terreno dei sensi. Roma, 1• novembre 1941.

B. NARDI

FILOSOFIA DELL'AMORE NEI RIMATORI ITALIANI DEL DUECENTO E IN DANTE

1. Il problema sulla natura dell'amore, posto da Iacopo Mo· stacci. Risposta di Pier delle Vigne. - 2. Dottrina di Andrea Cappellano. - 3. Tecria psicologica di Jacopo da Lentino. 4. Divulgazione di questa teoria. - 5. Principio di catarsi poetica della passione amorosa nella lirica del Guinizelli. 6. Il pessimismo di G. Cavnlcanti, e il suo fondamento aver­ roistico. - 7. Fase guinizelliana nello sviluppo del pensiero di Dante, e superamento di essa. La morte di Beatrice. 8. L'amore platonico del vero nella lirica allegorico-dottri- nale. La vera nobiltà. - 9. L'errore del Co1lvivio e il ritorno di Beatrice. - 10. Revisione della dottrina stilnovistica del­ l'amore. La fatalità dell'amore e la virtù del consiglio: la libertà del volere. - 11. La pietà per Francesca.

1. - Intorno alla natura dell'amore avevano esposto profondi pensieri Platone,. nel Convivio e nel Fedro, e Ploti.no, il quale, nel V libro della III Enneade, s'era posto il problema che riaffiorerà nella lirica del Due­ cento, � se l'àmore sia un dio o un demone, oppure una passione dell'anima, o l'una e l'altra cosa in­ sieme». Ma nella lirica italiana del secolo XIII, il problema concernente la natura del sentimento amoroso fu sollevato la prima volta da Iacopo Mostacci, falco­ niere di Federico II, e .trattato dipoi da numerosi B.

NARDI.

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rimatori, sia che avessero effettivamente qualcosa di nuovo da dire intorno a questo argomento, sia che ripetessero fino alla noia motivi ormai triti. Poeti francesi, provenzali e siciliani, soffermandosi a riflettere sulla prepotente forza della passione amo­ rosa, come i migliori di essi l'avean provata, si raffi­ guravan l'Amore come un nobile signore cinto della sua corte, oppure, influenzati da quel po' di cultura classica che non s'era mai del tutto spenta anche nei secoli barbarici, se Io rappresent�vano, sull'esempio di Virgilio e sopratutto d'Ovidio, a guisa d'un dio benigno e crudele che impone una dolce e pur tor­ mentosa signoria ai suoi fedeli: Si trattava certo di un'immagine letteraria, del cui valore puramente poe­ tico eran consapevoli in quanto cristiani, anzi talora uomini di chiesa; ma che cosa svegliava nei cuori quella commozione a spiegare l'origine della quale gli antichi poeti avevano foggiato il mito di Eros? Che cosa è mai quest'amore che ora tiranneggia gli uomini colla violenza della passione tormentosa, ora desta in essi ebbrezze di paradiso? Questo amore fatto di so­ spiri, di paure, di tremiti, di speranze, d'estatiche contemplazioni e d'angoscia, delle più nobili aspira­ zioni e dei più cocenti desideri carnali? Il sonetto del Mostacci « Solicitando un poco meo savere », rivela forse nel poeta il bisogno di uscire dal cerchio delle frasi consuete e delle immagini con: venzionali, e di tentar nuove vie allargando l'orizonte poetico per mezzo della riflessione filosofica. Ma per risolvere il problema da lui posto, occorreva sollecitare un sapere che forse al trovatore siciliano mancava. Egli pensava senza dubbio alle personificazioni dell'Amore, rappresentato convenzionalmente come il signore e il tiranno dei cuori, quando osservava che

FILOSOFIA DELL'AMORE

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onn'omo dice ch'Amore ha podere, e gli coraggi destrenge ad amare.

Siffatto modo d'intendere la passione amorosa, porta a credere in una forza posta fuori di noi e soggiogante ·1a nostra volontà a guisa di fato. Per conto - suo, il nostro rimatore dichiara di non poter consentire in questo modo di raffigurarsi l'amore, giacchè questo non ha forma corporea visibile:_ ma eo non lo voglio consentere, però ch'Amore non parse nè pare.

Insistendo sulla rappresentazione consueta dell' a­ more come un dio, si trascurava di approfondire la passione amorosa nella sua realtà psicologica e ci si precludeva la via a intenderne la verace natura nelle sue varie manifestazioni . Il vero è, osserva il Mostacci, che l'uomo attraversa un'età in cui l'amore è sentito più che nelle altre, nascendo dal piacere che suscita nel giovane la bellezza. In questo sentimento di piacere che prova l'età giovanile al cospetto della bellezza, pare a lui debba consistere l'amore di cui favellano i pqeti: Ben trova l'om un'amorosa etate, la quale par che nassa di piacere, e ciò vuol dire om che sia amore. Eo non li saccio altra qualitate.

Pe.r quanto il concetto, che il rimatore siciliano sostituisce alla raffigurazione tradizionale, fosse in sè povera cosa, non di meno aveva il merito d'invitare i poeti a sfrondare i loro canti dalle immagini reto­ riche, e di richiamarli a considerare il sentimento amoroso nella sua realtà di passione umana. Del resto, della pochezza del suo concetto egli era consapevole, e ponendo la sua quaestio sull'amore, a quel modo

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che soleva farsi nelle scuole di diritto, di medicina, di filosofia e di teologia, invitava gli esperti di cose amorose a volerla «determinare>>, come dicevasi in gergo scolastico, e ad illuminarlo della loro dottrina: Ma ciò che è, da voi lo voglio odere: però ve ne facc'eo sentenzatore. A lui rispose, fra gli altri, Pier delle Vigne, che del cuor dello stesso Federico II teneva ambe le chiavi. Si, è vero che l'amore non ha forma visibile e« non si tratta corporalemente », rispondeva il capuano nel sonetto (( Però eh' Amore non se pò vedere»; ma sa­ rebbe stoltezza negarne per questo la reale consistenza, come fanno taluni. Anzi il suo invisibile potere sui cuori dimostra ch'esso ha una natura più nobile delle cose che si vedono e si toccano: M� po' ch'Amore si face sentere dentro dal cor signoreggiar la gente, molto maggiore pregio de' avere che se 'I vedessen visibelemente. Ma che cosa è allora questa invisibile forza che agisce dentro dal cuore e signoreggia gli uomini? Pier delle Vigne se la cava con un vecchio paragone che risale per lo meno a Talete: come l' invisibile forza della ca.lamita attira il ferro, così anche l'amore, seb­ bene non visibile agli occhi del corpo, esercita la sua signoria sui cuori. * * *'

2. - Ma i paragoni non riescono mai ad appagare per intero chi vuol conoscere quello che una cosa è in se stessa e da che trae origine. Ora della natura del­ l'amore aveva tentato di dare una definizione Andrea,

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cappellano del re di Francia, nell'opera De amore o De deo amoris < 1 >, che, composta al _più tardi nel primo decennio del secolo XIII, e forse anche prima, tanta influenza doveva esercitare sulla lirica amorosa anche in Italia. Andrea Cappellano si poneva, intorno all'amore, una serie di questioni eh�. come vedremo saranno in gran parte quelle stesse che Guido Orlandi porrà a Guido Cavalcanti:

Est igitur primo videre, quid sit amor, et unde dicatur f amor, et quis sit ef ectus amoris, et inter quos possit esse amor, qualiter acquiratur amor, retineatur, augeatur, mi­ nuatur, finiatur, et de notitia amoris mutui, et quid unus amantium agere debeat altero fidem fallente.

E nel primo capitolo egli dà dell'amore questa definizione:

Amor est passio quaedam innata procedens ex v1s10ne et immoderata cogitatione formae alterius seJius ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri (3), Passion_e è. l'amore, yoichè, prima ch'esso sia cor­ risposto, non v'è maggiore angustia di quella che prova un amante, di continuo in preda alla paura di non poter mai conseguire l'oggetto del suo desiderio.

Capellani Regii Francorum, De amore libri tres. Recen­ Havniae, MDCCCXCII. Intorno a quest'opera, v. Pio RAJNA, Tre studi per la storia del libro di Andrea Cappellano, In Studi difilol. romanza di E. Monaci, V, 1891, pp. 193-285; R. BossUAT, Drouart La Vache tradul:te1.,r d'André le Chape!airt, Parigi, 1926; M. GRABMANN, Das Werk De amore des Andreas Capellanus und das Verurteilungsde­ krel des Bischofs Stephan vo,i Paris vom 7 Man: 1277 (in Speculum, VII, 1932, I, pp. 75-79). (2) Lib. I, p: 3, (3) Lib, I, 1, p. 3. (1) ANDRBAB,

suit E.

TROJBL,

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Ed è passione innata cioè istintiva, poicl1è non pro­ viene da un vero sottilmente investigato colla ragione, ma dal solo nostro immaginare, suscitato in noi dalla vista che precede l'accendersi della passione. « Giacchè quando uno vede una donna atta ad essere amata e formata a suo piacimento, subito comincia a deside­ rarla col cuore (statim eam incipit concupiscere corde); poi quanto più pensa ad essa, tanto più arde d'amore, finchè perviene ad uri più intenso pensiero. Dopo di che comincia a riandare colla fantasia le bellezze di lei, a rappresentarsene distintamente le singole membra e gli atti corrispondenti, e desidera d'essere a parte dell'ufficio di ciascun membro. E quando è arrivato a un così intenso pensiero, l'amore non riesce a fre­ narsi, ma tosto procede all'atto; chè subito s'affanna a procacciarsi un aiuto e cerca di un messaggero ... Ma perchè nasca l'amore non basta un qualunque pen­ siero, ma occorre un' immaginazione eccessiva (cogi­ tatio immoderata); giacchè l'immaginazione moderata non suol tornare in mente, e perciò non ne può na­ scere _I'amore » (n. Ho reso l� parola cogitatio di cui fa uso il nostro autore ora colla parola italiana pensiero, ora colla parola immaginazione, dando alla prima lo stesso si­ gnificato della seconda, giacchè il cogitare

  • l. La qual dottrina era comunemente accolta nelle scuole di medicina e di filosofia, come può vedersi dal com­ mento di Alberto Magno al De animalibus . Questa delectàtio o rill·ov11 è quella che nel medio evo si disse piacimento o piacenza in senso soggettivo; poichè in senso oggettivo queste parole significarono pure la bellezza, cioè la qualità per cui una cosa ve­ duta piace, secondo il detto comune fra gli scolastici: >. E Videlone nella sua Perspectiva (2) scriveva:

    Pulchritudo comprehenditur a visu ex comprehensione simplici formarum visibilium placentium animae, vel co­ niunctione plurium vi_sibilium Ìntentionum habentium ad invicem proportionem debitam formae visae. Fit enim placentià animae, quae pulchritudo dicitur, quandoque ex comprehensione simplici visibilium forma­ rum... Sic ergo pulchritudo comprehenditur a visu ex com­ prehensione simplici formarum visibilium· placentium ani­ mae. Quaelibet tamen istarum visibilium intentionum non facit pulchritudinem in qualibet forma, in qua venit illa intentio ad visum... Ex conitinctione quoque plurium intentionum forma­ rum visibilium ad invicem, et non solum ex ipsis inten­ tionibus visibilium, fìt pulchritudo in visu, ut quandoque colores scintillantes et similiter pictura proportionata sunt pulchriora coloribus et picturis carentibus ordinatione con­ simili et similiter est de vultu humano. (1) ARIST., Biil. Nicom., IX, c. 5, u66 b 31 - u67 a 6: « Benevo­ lenti� aut'em amicitiae quidem assimilatur, non tamen est amicitia ... Sed ueque amatio est: non enim habet distensionem, neque appetitum. Ama· tionenz autem haec sequuntur... Videtur utique principium amicitiae esse, quemadmodum. eius quod est amare, ea quae per visu.nz delectatio. Non enim indelectatus spect'e nullus an;at • (secondo la traduzione latina di Roberto Grossatesta, premessa al commento tomistico, lez. V). (2) IV, 148 (estratti in CL. BAEUMKER, Wilelo, nei Beilr. Gescll. Pllilos. ,lfillel., Ili, 2, pp. 172-174).

    FILOSOFIA DELL'AMORE

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    Piacimento in senso soggettivo, e c10e piacere e diletto che prova l'anima· di fronte alla bellezza, è quello che desta nel cuore il desiderio amoroso. L'immagine di donna bella, cioè 1 't'ntenzione entrata in noi per mezzo della vista, provoca il ·sentimento del piacere e quindi, se questo è grande, l'amore. Ma l'impressione visibile non basta a generare l'amore, se il cuore non « li dà nutrigamento "· Questo m,triga­ mento non è altro che quella « immoderata cogitatio,., quella « cogitatio plenaria,. di cui ci ha parlato Andrea Cappellano, e che è essenziale alla vita della passione amorosa. L'immagine oggettiva, entrata in noi per la vista, è rappresentazione della cosa veduta nella sua fiska realtà e nel suo « esser verace,., come dirà Dante, ( 2) senza distinzione di bello o brutto, di lacmtt"a generat amorem et diiectionem ». (2) Pr,rg., XVIII, 22-33'

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    in noi per la vista? Il problema interesserà special­ mente coloro che all'amore daranno un'origine sopra­ sensibile, come vedremo; ma anche alla mente di quelli che non s'elevarono al concetto platonico e teologico dell'amore, la quistione s'affacciò per quel che legge­ vano di Jaufré Rude!, innamoratosi per fama della contessa di Tripoli in Siria. Il Notaro ammette, sì, che Ben è alcuna fiata om amatore senza vedere so 'nnamoramento; ma quell'amor che strenze cum furore, da la vista degli occhi ha nascimento. Un po' più crudamente Aristotele, nel luogo del1' Etica Nicomachea sopra citato, aveva detto che senza di quel piacere che è suscitato in noi dalla specie visi­ bile non si dà amore: nato da tre cose che « in una concordanza tengono lo corpo in lor podere» e « sengnoreggiano

    FILOSOFIA DEL!,.'AMORE

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    lo core�. cioè: . Amore e cuor gentile stanno tra loro come lo splendore sta al sole: Ch'adesso che fu il sole, sì tosto lo splendore fu lucente nè fu davanti il sole; e prende amore in gentilezza loco così propfamente come calore in clarità diJoco (2).

    Come la luce del sole, raggiando sulla materia vile e purificandola, ne trae le pietre preziose colle loro mi­ rabili virtù magiche e medicali (3), così lo cor, eh' è fatto da natura asletto, pur, gentile, donna, a guisa di stella, lo inamura W.

    Amore siffatto non può accendersi in cuor villano; poichè la prava natura ne spegne la fiamma, come l'acqua il fuoco. Per quanto splenda, la bellezza non riesce a riscaldare l'animo vile, come il sole non dà virtù al fango: · Fère lo sole il fango tutt 'l giorno: vile riman, nè 'I sol perde calore (5).

    Nè basta ad accendere il « fino amore» la nobiltà della schiatta, poichè la vera nobiltà non s'eredita col lignaggio, « se da vertude non ha gentil core» (6). Sol­ tanto le belle imprese e i bei costumi, soltanto il valore dà all'uomo gentilezza; che è un concetto che sarà (1) Rime, V. (2) lbid.,. V, 5-10. (3J Sulle virtù medicali e magiche delle pietre preziose, cfr. MAGNO, De niineratibus, li, tr. 1, capp. 1-4. (4) Rime, V, 18-w.

    (5) lbid., V, 31-32.

    ALBERTO

    (6) lbid., V, 33-4_0.

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    svolto con ampiezza da Dante, ed era già chiaramente accennato dal Cappellano. Nato da un bisogno di contemplazione estetica, il desiderio amoroso dell'anima nobile è pienamente ap­ pagato nell'obbedire al gentil talento di donna bella, se da lei si sente corrisposto e il suo servire trova in lei comprensione. Se l' innamorato ottiene questa mercede del suo servire, e sente il suo cuore battere all'uni­ sono con quello di madonna, allora esso è pienamente beato, al pari delle intelligenze celesti la cui beatitu­ dine consiste nell'obbedire a Dio, volgendo ciascuna il proprfo cielo, e nel contemplare la divina essenza « oltra 'l velo>> d'immagini sensibili. Nè in un tal sentimento, sorto dalla catarsi della passione sensuale, il poeta trova alcunchè di pecca­ minoso di cui abbia a pentirsi come cristiano. E se Dio rimprovererà l'anima sua d'aver seguito un vano amore, pqtrà rispondergli: Tenea d'angel sembianza che fosse del tu' regno: non mi fu fallo, s'eo li posi amanza (1).

    Ma non sempre l' inn'amorato ottiene il guiderdone del suo servire, e spesso la donna a_mata sta di fronte a lui, chiusa nel suo orgoglio; come una rocca inac­ cessibile·. E il tapinello che vi si aggira intorno, cer­ cando invano una porta per arrivare al cuore cli lei, dà sfogo ai suoi lamenti in canti appassionati,. ondeggiando fra la speranza e lo sconforto. Intorno a questo motivo son fiorite le rime più belle, perchè più sincere, del « dolce stil novo », ispirate a una fine analisi dei sen­ timenti suscitati nell'animo dal desiderio amoroso che dettava dentro. (1) Rime, V, 51-60.

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    Si è parlato sovente di platonismo a proposito del1 'amore cantato dal Guinizelli e dai seguaci del« dolce stil novo». Ma forse l'espressione è abusiva ed è stata certamente abusata. Se un riflesso di platonismo si vuol vedere in quella catarsi che il bolognese fa com­ piere alla passione erotica di Andrea Cappellano, in questo modo di esprimersi qualcosa di vero c'è, purchè sia inteso con discrezione. Chè, per quanto purificato dal tocco leggero della poesia, l'amore di questi poeti oscilla sempre tra la tendenza platonica verso una pura bellezza morale; e una nuova forma di raffinato ero­ tismo alessandrino. E di quest'ultimo la lirica degli stilnovisti, ha infatti l'aerea musicalità, il sommesso e blando sospirare, interrotto da acuti accenti d'angoscia, da frequenti singhiozzi e da invocazioni alla morte come quella che sola può ridare all'anima sgomenta la pace perduta. C'è troppa passione, insomma, nel canto di questi nostri poeti, e troppa sofferenza, perchè s i possa parlare di amore platonico < 1). (1)

    Ben più oltre si sono spinti coloro che, come E. ANITCHKOF,

    Joacllim de Flure, Roma, 1931, p. 105, han visto nei sentimenti e nel lin­ guaggio dell'c amor cortese• una filiatione della mistica cristiana, o co­ 0 mumque un'influenza di questa su quello, come E. 'h MCHSSLRR, Das Kultur­

    j,roblem des Mmnesangs. Studien z11r Vorgeschichte der Renaissa,ice. Bd I, Mi,m,sang u. Chi&lmlum. Halle a. S. 1909. Contro di essi. il GILSON, La lhéologie myslique de SI. Ber,zard, Parigi, Librairie Pbilosopbique J. Vrin, 1934, pp. 1v, 193-l15, fa giustamente rilevare che l'amor cortese è sostanzialmei1te la passione carnale di cui parla Andrea Cappellano, che non può aver niente che fare colla mistica. L'uno rispecchia la vita nelle corti principesche, l'altro la vita del chiostro. Anzi in certi casi, io penso, è piuttosto il linguaggio dell'amor profano che è stato trasferito a espri­ mere i sentimenti del mistico connubio dell'anima collo sposo divino. Vero è non di meno che, se non proprio la mistica monastica, un qualche influsso ha esercitato sull'amore cortese il sentimeoto cristiano che fer� mentava in tutta la società medievale. Cosi, quando una bella fanciulla è immaginata simile a un angelo di Dio, venuto di cielo in terra, si tralla d'una rappresentazior;ie comune anc'oggi a tutto il popolo cristiano, che alla fede negli dei ha sostituito quella negli angeli. e Gli angeli belli stanno a mille in cielo», - canta Lola nella Cavalleria rustièa11a.

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    E sopratutto perdura in essi il sentimento della loro servitù alla forza tirannica della passione che li domina senza scampo. Il Guinizelli lo dice apertamente: Omo ch'è priso non è in sua balìa, conveneli ubidir, poi n'aggia doglia; ch'a auge! lacciato dibattuta è ria che pur lo stringe e di forza lo spoglia. In pace donqua porti vita e serva(r).

    ***

    6. - Un motivo finemente platonico parrebbe ispi­ rare questi delicati versi di Guido Cavalcanti(•); Angelica sembianza in voi, donna, riposa; Dio, quanto aventurosa fue la mia disianza ! Vostra cera gioiosa, poi che passa ed avanza natura e costumanza, ben è mirabil cosa. Fra lor le donne dèa vi chiaman come siete: tanto adorna parete ch'eo non saccio contare; e chi poria pensare -·oltr'a natura? Oltr'a natura umana vostra fina piagenza fece Dio per essenza che voi foste sovrana.

    Ma anche nell'atto in cui s 'abbandona alla con­ templazione dell'angelica bellezza, il poeta si sente (1) Rime, XIX, �-9. (2) Rime di GUIDO CAVALCANTI, nello stesso volume di Rima/ori del dola sii/ novo a cura di L. DI BIINEDIITTO, VI, 19-35.

    23

    FILOSO.FIA DELL'AMORE

    dominato da una forza a cui non potrebbe ribellarsi: Chè solo Amor mi sforza, contra cui non val forza - nè misura (1). E ben presto la gioia d'amare· torna in pianto: Io non pensava che lo cor giammai avesse di sospir · tormento tanto, che de l'anima mia nascesse pianto, . mostrando per lo viso a li occhi morte M. Ma poichè vano è il dibattersi, per chi è caduto nei lacci della passione amorosa, non resta che abban­ donarsi ad essa, pur sentendo nell'anima la morte: « Omnia vincit amor, et nos cedamus amori iL Pochi poeti hanno espresso come il Cavalcanti lo sbigotti­ mento che accompagna il più completo abbandono alla potenza del desiderio amoroso: Voi che per gli occhi mi passaste al core e destaste la mente che dormia, guardate a l'angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore (3>. E ancora: Per gli otchi venne la battaglia in pria che ruppe ogni valore immantinente, sì che dal colpo fu strutta la mente (4). Amore del resto l'aveva avvertito: Tu sai, quando venisti, ch'io ti dissi: poi che l'avei veduta, per forza convenia che tu morissi .

    (1) Rime, vv. 43-44. (4) J�d., xv, !rll.

    (2) Jh,a., VIII, 1-4. (5) Jb,a., VIII, 40-42.

    (3) Jbid., Xli, 1-4.

    24

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    « Ut vidi, ut perii! ut me malus abstulit error»! sembra esclamare_ anche il rimatore fiorentino col pa­ store virgiliano. Coli'« anima vilmente sbigottita» < 1 >, tratto « di virtù in si vii loco» da sentirsi in balìa della morte, il Cavalcanti impreca perfino all'amore: Quel punto maledetto sia ch'Amore nacque di tal manera, che la mia vita fera li fue di tal piacere a lui gradita (3).

    E la parola morte risuona ad ogni momento nel suo canto: Menarmi tosto senza riposanza in una parte, dov'i' trovai gente che ciascun si doleva d'Amor forte. Quando mi vider, tutti con pietanza dissermi: Fatto se' di tal servente che mai non dèi sperare altro che morte (4).

    Io vo come colui ch'è fuor di vita... che sè conduca sol per maestria, e porti ne lo core una ferita che sia, com'egli è morto, aperto segno (5>.

    Ma che cosa è, per il poeta fiorentino, quest'amore che « di vertù ·10 spoglia» e « fa la sua virtù 'n vizio cadere>> , quest'amore la cui 'violenza l'uccide, si da maledire il punto in che nacque in lui? Guido Orlandi, a cui il continuo lamentar del Cavalcanti dava so­ spetto (1>, gli pose formalmente il problema sulla natura

    Rime, XV, 1. (2) Jbid., IX, 1-8. (3) lbid., XXIX, 31-34. (4) lbid., Il, 9-14. (5) lbid., XVI. 9-14. Cfr. GUINIZELLI, X, 8; XIII, 12-14. (6) lbid., XXIX, 9-IO, 18-20. (7) Vedasi la tenzone tra l'uno e l'altro nelle Rime di G. CAVALCANTI, curata da EMILIO CaccHJ, Lanciano 1 1913, pp. 50-5l. (1)

    FILOSOFIA DELL'AMORE

    dell'amore, sminuzzandolo in tante domande che sono in gran parte quelle a cui avevano risposto Andrea Cappellano e i rimatori di cui abbiamo parlato, tranne una che doveva riguardare direttamente lui, il Caval­ canti: « È vita questo amore o vero è morte?» < 1 >. Al sonetto dell'Orlandi l' innamorato poeta di Monna Vanna e della Mandetta rispose colla dotta canzone « Donna mi. pregà », che, ricordata da Dante (2), e rimbeccata da Cecco d'Ascoli >.

    (2) Un:1 brillante s111011talura del castello di carle allegorico, costruito dal Mandonuet, ha fallo di recente Ér. GILSON, Dante et la pl,ilosophie, Parigi, J, Vrin, !939, cap. 1. Ben scarsa conoscenza dei problemi e delta letteratura dantesca dimostra F. ORHSTANO che ha favorevolmente riesa­ minato La Beatrice svelata del Perez, in Studi su Dante (Conferenze e letture dantesche tenute a cura del Comitato milanese della Soc. Dant. Jtal.), IV, Milano, Hoepli, 1939, pp. 1-35. (3) Rime dubbie (Le opere di DANTR. Testo critico della Soc. Dant. !tal., Firenze, 1921), XXIX.

    FILOSOFIA DELL'AMORE

    Ben fu alcun che disse ch'era ardore di mente imaginato per pensiero; ed alcun disse ch'era desidero di voler nato per piacer di core.

    37

    Abbiamo già trovato queste teorie in Iacopo da Len­ tino e in altri che lo imitarono. L'autore del sonetto, torna ad affermare, come già avevano fatto altri e come fa pure Dante incidentalmente nella Vita nuova, che amore « non è sostanza, nè cosa corpora! ch'abbia figura», ma piuttosto una passione del desiderio che sopravanza ogni altro voler del cuore, e dura finchè dura il piacere: Anzi è passione in disianza; piacer di forma dato per natura, sì ch_e 'l voler del core ogni altro avanza: e questo basta fin che 'l piacer dura.

    Niente dunque di nuovo, che non fosse già stato detto da altri, ,e sopra tutto niente di tipicamente dantesco che ci obblighi ad attribuire il sonetto a Dante, li quale, per soddisfare alla cortese preghiera d'un amico che l'aveva richiesto che è Amore, rispose col sonetto « Amore e '! cor gentil sono una cosa» C•J, ove si rifà alla dottrina esposta nella canzone del saggio Guinizelli ch'egli cita. L'amore è una cosa sola col cuor gentile, e l'uno è inseparabile dall'altro, come l'anima razionale è inseparabile dalla ragione. L'uno e l'altro nascono dalla buona disposizione naturale, frutto alla sua volta della buona complessione del seme, della buona disposizione nel seminante, nell'atto della gene­ razione, e dell'ottima disposizione del cielo; giacchè « de l'um·ano seme e di queste vertudi più pura [e men (1)

    Vila nuova, XX, 3-5.

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    puraJ anima si produce>> . Nell'« anima ben posta», scende da Dio quel « seme di felicità» nel quale con­ siste la gentilezza o nobiltà umana, di cui son frutto i bei costumi da nobiltà inseparabili < 1 >. La « natura amorosa» che produce insieme nobiltà ed amore, è l'accordo delle buone qualità che concorrono alla ge­ nerazione umana, e delle benigne influenze celesti, specialmente del cielo di Venere r 2), le quali cose di­ spongono l'anima a ricevere il dono divino. Amore è il signore della nobiltà (3), e la sua dimora è il cuore nobile. Il cuor gentile è quindi per sua natura sempre apparecchiato ad amare. Ciò non vuol dire che in esso l'amore sia sempre in atto; v'è sempre in potenza, cioè allo stato latente, come se dormisse. Per passare all'atto, ha bisogno d'esser risvegliato dalla vista della beltà femminea: Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi sì, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente. Nè basta a svegliare amore un'impressione fugace, momentanea; occorre che il desiderio acceso nel cuore duri e persista. Non basta insomma la puntura super­ ficiale di una spina, bisogna che lo stecco d'amore (4) trafigga le carni e penetri in profondità, sì da produrre una piaga incurabile. Sebbene ancora digiuno di studi filosofici il pensiero del giovane poeta era destato alla filosofia dall'accet­ tazione della teoria guinizelliana che affermava I' inse­ parabilità del sentimento amoroso e della nobiltà o gentilezza, poichè la filosofia non è solo nei libri de' (I) Conv., IV, :xx, 6-10. (>) Conv., Il, v, 13-14. (3) Vita nuova, XII, 4; cfr. Rime, XC, 46-48. (4) Rime, CXIII, 4; cfr. più oltre, p. 72.

    FILOSOFIA DELL'... MORE

    39

    filosofi, ma dovunque la riflessione s' imbatte in un problema di pensiero. E sulla dottrina del Guinizelli, Dante meditò a lungo, finchè non ritenne d'averne data, nel quarto trattato del Convivio, la dimostrazione in termini rigorosamente filosofici, come s'usava nelle scuole. Intànto, mentre il suo pensiero lavorava ad appro­ fondire la dottrina guinizelliana, il suo sentimento poe­ tico l'accettava come norma morale delle sue creazioni. Se la donna del Guinizelli « tenea d'angel sembianza», sl che al poeta bolognese non pareva di far peccato in amarla, Beatrice appariva cosa miracolosa, « venuta di cielo in terra a miracol mostrare»(•). Solo un breve tocco aereo, evanescente rivela in lei la donna mor­ tale: un tenue « color di perle» nel volto, qual si conviene alla bellezza muliebre, « non for misura » ; indi il nobile incedere senza alterigia (3), e il fulgore degli occhi, dai quali escono spiriti d'amore a ferire chi la mira e a destare amore nei cuori gentili W. · Più tardi Dante ricorderà la prima apparizione di lei, quando la vide « vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua gio­ vanissima etate si convenia» , e quando fanciulla diciottenne gli apparve « vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne» e volgendo gli occhi da quella parte ov'egli era molto pauroso, lo « salutoe molto virtuosamente», sl che al poeta « parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine» . Questa è appunto la bea­ titudine che nessuno può togliergli, perchè la possiede tutta intera entro di sè: vagheggiare la luminosa crea­ tura della sua immaginazione e dare libero sfogo al1 'onda del canto che freme nel suo petto. L'amore suo, qualunque ne sia stato lo stimolo e l'occasione, non è ormai più tempestosa passione e parossismo di sensi, ma estasi contemplativa di una pura forma balzata innanzi all'occhio della fantasia dalle misteriose pro­ fondità dell'anima. Anzi discesa di cielo in terra, sl che il cielo n'è privo e la richiede a gran voce a Dio. Soltanto la Pietà intercede per lui che l'ama sulla terra: - Lasciate che goda della sua beatitudine il misero che teme già di perderla, e che, quando l'avrà perduta, si sentirà dannato. Ma anche nella sua dannazione, egli gioirà del ricordo e potrà dire ai suoi compagni di sventura, privi come lui di beatitudine: Io l'ho pur vista quella che i beati sperano di godere eternamente per sè . Venuta dal cielo e destinata a tornarvi, la bellezza muliebre sveglia amore ne' cuori gentili e coll'amore ogni più nobile virtù: Quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo per che onne lor pensero agghiaccia e père e qual soffrisse di starla a vedere, diverria nobil cosa, o si morria (3).

    È il concetto del Guinizelli nel sonetto « I' vo' del ver la mia donna laudare)) (41: (1) Vita nuova, XIX, 4. (•) Jb., xix; 8, Inferno è qualunque luogo ove siano dannati. E dan­ nati son quelli che hanno perduto, senza speranza, la loro beatitudine. La vita sulla terra senza la beatitudine è inferno. (3) /b., XIX, 9. (4) Rime di G. 'GUINIZRLLI, xv, 9-14.

    42

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    Passa per via adorna e sì gentile ch'abbassa orgoglio a cui dona salute, e fa 'l dì nostra fe', se non la crede, e non si può appressar omo ch'è vile; ancor vi dico eh' ha maggior vertute: null'om pò mal pensar fin che la vede. Se la donna del Guinizelli ha virtù di convertire alla fede cristiana un infedele, Beatrice dà al suo poeta la certezza della saivezza eterna: Ancor l'ha Dio, per maggior grazia, dato che non pò mal finir chi l'ha parlato (1). Ma appunto perchè di tanta nobiltà, appunto perchè « venuta di cielo in terra a miracol mostrare», Bea­ trice non è fatta per rimanere a lungo sulla terra, e il cielo la reclama per sè. Cosi si fa strada nell'animo del poeta il pensiero della morte della donna amata, sconosciuto al Guinizelli, al Cavalcanti , a Lapo e a Cino; e mentre i più delicati e melodiosi versi sgor­ gano dal suo cuore coi sonetti « Ne li occhi porta la mia donna Amore>> , « Vede perfettamente onne salute» (4), questo pensiero è divenuto ormai in lui un doloroso presen­ timento. Nel suo vano immaginare, una voce fioca risuona al suo orecchio: Morta è la donna tua, ch'era si bella! (sl e già ne vede la bell'anima portata dagli angeli in cielo, e il corpo che pietose donne copron d ' un velo-, giacere senza vita. tt) Vita nuova, XIX, (4) !b., XXVI, 10-13.

    10.

    lb., XXI, 2-4. (5) lb., XXIII, 24.

    (2)

    (3) !b., XXVI, 5,7.

    FILOSOFIA DELL'AMORE

    43

    Di li a poco il presentimento si muta in angosciosa certezza: Ita n'è Beatrice in alto cielo, nel reame ove li Angeli hanno pace, e sta con loro, e voi, donne, ha lassate (1>.

    Non la mancanza del calor vitale, non l'ardore della febbre l'ha rapita, ma un benigno volere di Dio l'ha tolta alla terra, perchè vedea ch'esta vita noiosa non era degna di sì gentil cosa (2).

    canti della lode si smorzano sulle labbra del poeta, che preso dal desiderio di morire, dà sfogo all'ango­ scia e nel suo smarrimento chiede alla donna beata la grazia di raggiungerla. La morte è una cosa seria, e dinanzi ad essa ogni sentimento frivolo scompare. Se tutto finisce colla morte, la vita appare al credente una beffa crudele. Soltanto la fede nell' immortalità, la fede che il meglio di noi sopravviva alla dissoluzione della materia, dà ai suoi occhi un pregio alla vita e accende nel suo cuore una dolce speranza che la ragione si rifiuta di credere vana. A questo argomento sarà dedicata una digressione nel secondo trattato del Convivio, ove, ragio­ nando dell'immortalità dell'anima, par bello a Dante di terminare di parlare di « quella vi va Beatrice beata » (3), «che vive in cielo con li angeli e in terra con la» sua «anima» C4l. Il problema dell'immortalità dell'anima si connetté cosi, nella mente di Dante, colla fede che l� splendore degli occhi della donna amata non s'è spento per sempre, ma anzi, liberata dal peso di sua mortalità, essa è divenuta (1) Vita nuova, XXXI, (4) Jb., II, 11, 1.

    10.

    (2)

    Ib.

    (3) Com,., Il, vm, 7.

    44,

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    spiritai belleza grande che per lo cielo spande . luce d'amor, che li angeli saluta (1). Il pensiero che ella non è morta, ma vive di una vita più vera, la speranza di poterla rivedere, l' invocarla colla certezza d'essere udito da lei, dà conforto all'a­ nimo dolente e fa sì che l'amore trionfi della morte. Col salire di Beatrice « di carne a spirito», anche l'amore del suo poeta s'affina, tendendo a spogliarsi da ogni scoria sensuale e librarsi nelle eteree regioni della luce. Una nuova esperienza alimenterà ormai la sua arte, e nuovi e più fulgidi orizonti gli s'apriranno dinanzi. Dalla morte di Beatrice nasceranno il plato­ nismo e il misticismo di Dante.

    *** 8. -« Alquanto tempo» dopo la perdita della donna amata, poichè nè il suo nè l'altrui consolare valea a confortarlo, Dante prese a leggere il De consolatione philosophiae di Boezio, e il De amicitia di qcerone, per cercarvi qualche sollievo {2)_ Poichè Beatrice morì 1'8 giugno 1290, Dante aveva compiuto verosimilmente il suo venticinquesimo anno d'età e varcato il limite ch'egli pone all'adolescenza. A questa età egli trovava duro entrare nella sentenza dei due autori presi a leg­ gere, ma pure si sforzò di capirli quanto. l'arte di grammatica ch'egli avea e il suo naturale ingegno gli consentivano. Lelio, nel dialogo di Cicerone, gl' inse­ gnava che l'anima non perisce col corpo e che la morte non tutto distrugge; chè anzi egli·, confortato dall'autorità degli antichi, dagli ammaestramenti dei (1)

    Vita nuova, XXXIII, 8.

    (2)

    Co1tv,, II,

    x11, 2.

    FILOSOFIA DELL'AMORE

    45

    filosofi e dalla saggezza· degli oracoli, riteneva le anime nostre d'origine divina e destinate, dopo la dissolu­ zione del corpo, a ritornare al cielo. Forte di questa sua fede, egli pensava che la morte non avesse spez­ zato i legami d'affetto che in vita lo avevano unito a Scipione. Del qual parere era stato lo stesso Scipione Africano il minore, che, presso a morire, aveva dispu­ tato co' suoi amici per tre giorni intorno alla repub­ blica, e la disputa avea chiuso trattando dell' immor­ talità dell'anima e confermando il suo dire con quel che in sogno gli era parso avergli rivelato Scipione Africano il maggiore. Sciolta dalla prigione del corpo, - diceva Lelio, - l'anima del mio amico è ascesa al concilio degli dei. Sicchè l'attristarsene è piuttosto segno d' invidia che d'amicizia . Siffatti argomenti meritavano d'essere approfonditi; e per farlo, egli si dedicò allo studio della filosofia, recandosi « là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti; si che in picciol tempo, forse di trenta mesi», egli co!1"1inciò « tanto a sentire de la sua dol(t) (2) (3) (5)

    C1caR., Ladius di amicilia, IV, 13-14. Boaz10, De cons. philos., 111, prosa 2. /b., III, prosa 3. (4) lb., Ili, prosa 6 e metro 6. /b., I Il, prosa 8.

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    cezza, ·che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero» C1 >. Trenta mesi, anche senza contare il tempo trascorso fra il principio di essi e· il giorno della morte di Bea· trice, ci portano alla fine del 1292, quando Dante era nel suo ventottesimo anno e da oltre due anni aveva varcato· la soglia della gioventù. Ma se si deve tener conto anche dell'altra indicazione dello stesso Convivio, e di cui sarà detto fra poco, intorno al tempo in cui la donna gentile « parve primamente » ai suoi occhi, questa data va aècresciuta di circa otto mesi, quanti verosimilmente ne trascorsero fra la morte di Beatrice e il giorno in cui tolse a leggere l'opera di Boezio e il dialogo di Cicerone. A ventott'anni compiuti, dunque, Dante s'accorse che un nuovo e gagliardo amore era ormai nato nel suo animo e che esso l'occupava tal­ mente da sopraffare perfino il pensiero di Beatrice. Che cosa può significare questo, se non che la filosofia gli aveva dischiuso un nuovo mondo che l'attirava a sè, e che· egli, lasciando da parte le rime .della sua adolescenza, volgeva ormai la sua arte a cantare la nuova passione accesa nel suo animo per la bellezza del vero? Allora si comprende perchè, nel tempo stesso che intonava la canzone« Voi che, 'ntendendo, il terzo ciel movete», con cui iniziava il ciclo delle rime allego­ riche e dottrinali, sentisse il bisogno di raccogliere il meglio delle sue liriche precedenti nel libretto della Vita nuova; con la quale espressione Dante volle indicare sicuramente l'adolescenza che ha termine a venticinque anni, ed è fervida e passionata C•) come i canti sgorgati dal suo animo in questa età conclusa dal dolore per la morte di Beatrice. (1)

    Conv.,

    li, Xli, 7.

    (2)

    Conv.,

    I, 1, 16-17.

    47

    FILOSOFIA DELL'AMORE

    Un'autocitazione che Dante fa della Vita nuova nel secondo trattato del Convivio, ci attesta che l'amoroso libello al quale egli si riferisce, aveva una fine un po' diversa da quella che noi vi troviamo. Narra dunque Dante nel Convivio ( 1 >, riferendosi a ben tre anni, due mesi e alcuni giorni dopo la morte di Beatrice (quindi all'agosto del 1293, quando egli aveva ormai ventot­ t'anni suonati, ed era entrato nel suo ventinovesimo!):

    Quella gentile donna, cui feci menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d'Amore, a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente. E sì come è ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne eh' io ad essere suo consentisse; chè passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro [me] poi fero tale, che lo mio beneplacito fu con­ tento a disposarsi a quella imagine. Ora nella Vita nuova, quale è giunta a noi, le cose stanno ben diversamente da quel che Dante narra in questo luogo del Convivio. lvi l'amore per la donna gentile è presentato invece come « avversario della ragione» ; i corpi composti « a lo luogo dove la loro generazione è ordinata, e in quello crescono e acquistano vigore e potenza>; le piante a certi luoghi, secondo che la loro complessione richiede; gli animali al diletto sensibile; gli uomini, in quanto tali, aveva riposto la nobiltà nella virtù e nell'antica ricchezza, come più tardi Dante stesso rico­ noscerà nella Monarchia ; ma l'averla attribuita ad un uomo che alla maestà imperiale univa il credito di « loico e clerico grande» (4l, doveva, nel vanto dei nobili di fronte al popolo, accrescerne il valore quasi di massima indiscutibile. Pur col rispetto dovuto alla dignità imperiale, di cui Dante riconosce il fondamento naturale nella « ne­ cessità de la umana civilitade » (5l, egli afferma l' in­ competenza del!' imperatore a decidere di quistioni filo­ sofiche (6l, e fa della definizione attribuita a Federico un'acuta critica, d?lla quale si sarebbe forse astenuto, se si fosse accorto che, in sostanza, essa apparteneva ad Aristotele, e l'avesse presa pel suo verso. La cri­ tica di questa definizione della nobiltà lo riconduce arl affermare il concetto, già espresso da Boezio, che tutto quanto il genere umano ha una comune origine e che « mortaleis... cunctos edit nobile germen», e a definire alla sua volta la nobiltà come « seme di felicità messo da Dio ne l'anima ben posta·> (7l. Nobiltà è dunque quel « nobile germen» che, secondo Boezio, è messo negli uomini dal padre di tutte le cose, un dono divino che ' è ricevuto in maggiore o minore abbondaza secondo che l'anima è apparecchiata a riceverlo. li che conduce Dante a ricercare che cosa rende così dissimili tra loro le anime umane nel carattere, nell' ingegno e nelle (1) (2)

    (4)

    (6)

    xx, 5. 8, 1294 a 21. (3) 11, 111, 4. /b., IV, x, 6. (5) /b., IV, 1v, 1. (7) /b., IV, /b., IV, VIII, ll·IX, 16. Conv., IV, III, 6. Cfr. ib., IV,

    IV,

    c.

    xx,

    9-IO.

    58

    DANTE E LA CULTURA l,{EDIEVALE

    tendenze, e sì diversamente disposte a ricevere il dono di Dio. È ·questo il problema dell'individualità umana, tanto fortemente sentita da Dante C 1l. A risolvere il qual pro­ blema egli tende colla sua particolare dottrina sull'ori­ gine dell'anima. E verosimile che la quotidiana consuetudine col Cavalcanti abbia fornito- a Dante occasione di discutere coll'amico averroista intorno al problema dell' indivi­ dualità, come intorno a quello, dibattitissimo nelle scuole di filosofia e di teologia, dell'origine dell'anima umana. Certo è che due volte Dante ha trattato del1'origjne dell'anima, e due volte ha esposta una stessa dottrina, intermedia tra la tesi averroistica e quella tomistica. Per Averroè, ·forma e perfezione del corpo umano è solo l'anima sensitiva, la quale discende dalle qualità degli elementi uniti nella compagine del corpo; l'intelletto è separato in sè dall'anima sensitiva, e s'unisce ad essa solo nell'atto dell' intendere, poichè l' idea è astratta dall' immagine sensibile. Per Tom­ maso, l'intelletto è una facoltà dell'anima umana che tutta intera è forma del corpo e tutta intera entra nel­ l'uomo dal di fuori, in quanto è creata da Dio al termine del processo embrionale. Per Dante, invece, l'anima vegetativo-sensitiva discende da qualità, cioè da una virtù attiva proveniente dal cuor del generante, la • quale si sviluppa sotto l' influenza del cielo e, quando « l'articular del cerebro è perfetto», riceve da Dio, motore del cielo, l' intelletto possibile, che « potenzial­ mente i"n sè adduce tutte le forme universali». Di questo principio vegetativo-sensitivo generato col corpo e dell' intelletto creato da Dio « fassi un'alma sola», ( 1) Cfr. B. NARDI, I bambini tiella candida rosa dei beali, in Studi danteschi, XX, 1937, pp. 50-58.

    FILOSOFIA DELL'AMORE

    59

    che vive, sente e pensa. Così l'umano e il divino si uniscono in un connubio indissolubile e intimo, per formare quella che si dice l'anima umana, "sensitiva e intellettiva insieme, la quale è tutt'intera forma del corpo ( 1 >. E poichè alla produzione dell'anima concorrono, insieme all'azione divina, varie cause naturali, come la complessione del seme e la disposizione del seminante, le quali possono essere migliori e men buone, e altresl la disposizione del cielo, che per il variare delle costel­ lazioni può essere buona, migliore e ottima, ne segue che

    de l'umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura] anima si produce; e, secondo la sua puritade, discende in essa la vertude inte1lettuale possibile che detta è, e come detto è. E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e asso­ luta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei mul­ tiplica, si come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi si multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere puote. E questo è quel • seme di felicitarle•, del quale al presente si parla. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio in quello De Senectute, che parlando in persona di Catone, dice: • Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo abitaculo venuta in loco Io quale a la divina natura e a la etternitade è contrario•. E in questa cotale anima è la vertude sua propria, e la intellettuale, e la divina, cioè quella influenza che detta è: però è scritto nel libro de le Cagioni: e Ogni anima nobile ha tre ope­ razioni, cioè animale intellettuale e divina•. E sono al(I) Cfr. B. NAR01, L'origine dell'anima umana secondo Dante, i11

    Giom. Cril. della Filos. //al., XII, 1931, fase. 6; XIII, 1932, fase. 1-2;

    lo., La dottrina d'Alberto Magno sui/'t( illchoatioformae », in Rendiconti

    d. classe di scùn1u morali s/on'clu e filosoficlu della R. Accademia dei

    Lincei, Serie VI, voi. Xli, fase. 1-2, p. 31 sgg. Vedasi più a\'anti il saggio VI, p. 187 sgg.

    60

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALI!:

    cuni di tale oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero sovra la produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio . incarnato • (1). Da questa divina semenza gettata da Dio nell'a­ nima nasce e germoglia la virtù, per mezzo della quale l'uomo raggiunge il fine della vita, nel cui consegui­ mento consiste- la sua perfezione e la sua ultima bea­ titudine. In tal modo, la nobiltà di cui parlavano il Cappellano e il Guinizelli, veniva approfondita da Dante, che ne faceva una dottrina filosofica d'ispira­ zione·schiettamente platonica, come platonica era altresi la sua nuova dottrina dell'amore. E cosi amore e gen­ tilezza restavano indissolubilmente legati tra loro come nella teoria del Guinizelli, ma in un senso più alto.

    *** 9. - Nel sonetto « Parole mie che per. lo mondo siete », che vorrebbe essere il congedo che Dante pren­ deva dalle rime allegorico-dottrinali alle quali avea posto mano colla canzone « Voi che 'ntenderido il terzo ciel movete i,, il poeta esorta le sue parole a non stare più in compagnia di quella donna gentiie in cui errò, poichè con lei « non v' è Amore»(•>. Mettiamo pure che l'espressione (( quella donna in cui errai» abbia il significato generico di un vaneggiamento amoroso; mettiamo anche che l'altra espressione (( con lei. .. non v'è Amore>> voglia alludere all'essersi dimostrata la filosofia « disdegnosa e fera», come nella ballata (( Voi (1) Co11v., IV, XXI, 4-10. Cfr. B. (•) Rimi, LXXXIV, 7-9.

    NARDI,

    Saggi di jilos. da11t., p. 7.,.

    1

    FILOSOFIA DELL AMORE

    61

    che savete ragionar d'Amore�; c'è però il fatto del1' interruzione del Convivio al quarto trattato, mentre dell'opera era stato steso il piano e la divisione in quindici trattati, fino a permettere ·all'autore citazioni anticipate. Ora se mettiamo in relazione questo congedo col­ i' interruzione del Convivio, al quale attendeva nel , 306, quand'era ancora in vita Gerardo da Camino, morto nel marzo di quell'anno, parrebbe che Dante non fosse del tutto soddisfatto nè del genere di poesia nel quale s'era cacciato colle rime allegoriche, nè dell'opera intrapresa col commento filosofico di esse. E a ripen­ sarci bene, il nuovo genere di poesia e la stessa opera prosaica contengono un duplice errore. Anzi tutto un errore artistico. La filosofia non di­ venta poesia, se il concetto pensato razionalmente non riesce a scaldare la fantasia e a trarne immagini sen­ sibili, viventi di vita autonoma, tali cioè che espri­ mano in sè la commozione dell'animo dell'artista e la stessa commozione riescano a suscitare negli altri. Ora la donna gentile delle canzoni allegoriche è un puro simbolo astratto, cerebrale, costruito colla ragione sillogizzante, non colla fantasia fremente di passione. Sebbene essa rida, il suo riso, lungi dall'essere quella « corruscazione della dilettazione dell'anima » < 1 > che Dante vorrebbe, è freddo e non vale il divino sorriso degli occhi di Beatrice. In fondo in fondo, c'è più poesia in certi mirabili squarci della prosa del Convivio, ove tu avverti un ragionare concitato e il prorompere della passione, che non nelle canzoni tolte a commen­ tare. Se di questo errore artistico Dante non si rese conto criticamente, come può f are un moderno che abbia meditato sulla vera natura della poesia, certo (1) Conv., III, vm, n.

    DANTt t;: LA CULTURA MEDIEVAlt;:

    dovette avvertirlo col fine intuito che è proprio dei poeti della sua specie. Non meno evidente è l'errore filosofico. La filosofia di cui è simbolo la donna gentile, è massimamente in Dio, e quindi per modo minore e secondariamente nelle altre intelligenze: nelle intelligenze separate da materia, « per continuo sguardare»; nell'intelligenza umana, unita al corpo, · « per riguardare disconti­ nuato >> < 1l. Siffatta filosofia è fa Sapienza, « quam maxime Deus habet», come dice Aristotele nella Meta­ fisicaELL AMORE

    lascia vedere una sua faccia, ce ne nasconde un'altra, che sono le cose celate alla mente umana, oggetto di fede e non di ragione (I); e VerSO la fine del trattato, torna a ripeterci che essa era nel divino pensiero « quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse»; si che egli può applicare alla donna gentile quello che nel libro de' Proverbi si legge in persona della Sapienza: « Quando lddio apparecchiava li cieli, io era presente» ecc. Anzi torna a· identificararla col Logo giovanneo, affermando che, poi fatti fummo, per noi dirizzare, in nostra similitudine venne a noi, cioè si fece carne nella persona di Cristo. La Sapienza, insomma, ossia la Verità, trascende la mente umana; nell'uomo c'è soltanto il riverbero della luce divina che accende in noi il ·debole lume della ragione. Ma la ragione umana non ha in sè la misura del vero. Senza un mistico contatto della mente creata colla luce eterna, senza quell'unimento spirituale dell'anima con Dio che è il primo e fondamentale amore dello spirito umano, questo resterebbe cerchiato dalle sue tenebre. Ora questa non è affatto una posi­ zione razionalistica, ma anzi misticismo della più au­ tentica marca platonica e agostiniana, al quale non riusci a sottrarsi neppure Aristotele, tanto meno poteva osarlo san Tommaso (3). Trascendente la mente umana, la Sapienza è parteci· pata da questa per una« più che umana operazione» W. La capacità di pensare e di elevarsi alla conoscenza del vero è, nell'uomo, un continuo miracolo, cioè un a vvenimento che sorpassa le forze della natura e ab­ bisogna, per essere spiegat9, del diretto intervento (2) lb., III, xv, 16-17. (1) lb., III, XIV, 13-14. (3) Cfr. B. NARDI, Dante e la filosofia, negli Sit_ Verament�, Francesca non s'era in alcun modo diffusa a parlare dei suoi « dolci pensieri» nè di quelli del compagno; ma Dante ha capito tutto il doloroso dramma, perchè era il dramma dell'amore a lui ben noto, e il semplice accenno ai çanti della sua adolescenza era bastato a ridestare in lui il ri­ cordo non lontano di un mondo caro al suo cuore di poeta. La storia di Francesca è una storia di passione e di peccato, troncata nell'attimo stesso del primo ed ultimo bacio, certezza e consenso ai ; (1) Cfr. Purg., XXX, 32-33, 40-42, 48, 64, 115-138. ·Nel canto della carità, Par., XXVI, uno spirito esorta il poeta, la cui vita è « smarrita non defunta�. a confidare nella donna che lo guida e il cui sguardo ha 1< la virtù ch'ebbe la man d'Anania )) 1 cioè il potere di curare la cecità. E il poeta, ricordando la virtù di quello sguardo che in terra aveva tro-

    88

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    ma anzi, purificato da ogni nube di mortalità, è diven­ tato luce della sua vita, nell'ascesa dall'infima lacuna dell'universo alla gloria di Dio, « amor che muove il sole e le altre stelle>. vato la prima vqlta gli occhi di lui, e per gli occhi aveva acceso nel suo cuore la fiamma d'amore, riconosce in quel primo amore, com.e in tutti gli altri amori del cuore umano, pur diversi tra loro d'ardore, lo svegliarsi di quel naturale desiderio del bene che fa contenti i beati in Paradiso ed è principio e fine di tutti i desideri delle creature (vv. 7-18): lo dissi: � Al suo piacere tosto e tardo vegna rimedio alli occhi, che fuor porte quand'elia entrò col foca ond' io sempr'ardo. Lo ben che fa contento questa corte Alfa ed O è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemtnte o forte,.,

    II

    LA TRAGEDIA D'ULISSE*

    Nel 129r, Tedisio d'Oria e i fratelli Ugolino e Vadino de' Vivaldi, armatori genovesi, allestirono con tutto il necessario due galee, coli' intento di accin­ gersi ad un « viagium, quod aliquis usque nunc facere minime attemptavit ». Nel maggio di quell'anno, i due Vivaldi in persona (persona/iter), in compagnia di alcuni altri concittadini e di due frati Minori, spinsero in alto mare i due navigli, diretti verso lo stretto di Gibilterra, « versus strictum Septae, ut per mare Oceanum irent ad partes Indiae, mercimonia utilia inde referentes ». L'ardimentosa intrapresa, dice Iacopo d'Oria, ultimo continuatore della cronaca di Caffaro, suscitò la meraviglia di chi li vide partire e di quanti ne appresero novella, « quod quidem mirabile fuit non solum videntibus, sed etiam audientibus >. La città natale attendeva con ansia notizie degli arditi naviga­ tori; e qualche nuova di sè essi riuscirono a far per­ venire in patria. Ma « postquam locum qui dicitur Gozora transierunt », osserva il cronista, « aliqua certa nova non habuerunt [var. habuimus] de eis ». Ed esprime per loro il trepido augurio: « Dominus autem • Pubblicato negli

    Studi danlescM

    del Barbi, XX, 1937.

    90

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    eos custodiat et sanos et incolumes reducat ad pro­ pria» < 1 >. Purtroppo, l'augurio andò a vuoto, e invano Sor­ leone Vivaldi, figlio di Ugolino, si mise alcuni anni più tardi sulla traccia ignota del padre e dello zio. Nè di questi nè dei loro compagni si seppe più nulla. Non è inverosimile che Dante, aggirandosi per la Lunigiana e la riviera ligure, tra Lerici e Turbìa, abbia udito narrare il glorioso episodio, e che l'avventura dei Vivaldi abbia esaltato la sua fantasia, suscitandovi i sentimenti dei quali s'anima l'eroica figura del suo Ulisse. Se ai medievali fu precluso l'accesso al poema omerico celebrante le peregrinazioni del figlio di Laerte fino al ritorno nella sua petrosa Itaca, par sicuro che a Dante restassero ignoti anche il Roman de Troie di Benoit de Sainte Maure e il De bello troiano ·del giu­ dice Guido della Colonna, i quali al ritorno d'Ulisse in patria e alla morte di lui per mano del figlio Tele­ gono dedicano ampi tratti < 2); e ignoti gli furon pure 1 'Eccidio di 7roia di Darete e le Efemeridi della guerra troiana di Ditti (3), cui aveva attinto l'autore del ro­ manzo francese. Benvenuto da Imola s'affanna a per\I) IACOBJ AURIAE Anna/es, in PBRTZ, Mon. Germ. Hisl., Script., t. XVIII. p. 335. Cfr. L. T. BELGRANO, Nota sulla spedizione dei fra­ telli Vivaldi nel MCCLXXXXJ, io Atti d. Soc. Lig. di Sloria Patria, 1881, voi. XV, p. 319 e sgg. (2) Le roman de Troie par BENOIT DE SAINTR MAURE, publie d'après tous /es ma,1.uscrits connus par L. CoNSTANS, Paris, 1904-1912, t. IV, pp. 292-322 (vv. 28549-29078), e pp. 361-385 (vv. 2981,5-30300). GUIDO DE COLUMNA, De bello troiano, capp. CCCII e CCCV. (3) Fra gli autori latini, parlano esplicita�ente o accennano al ritorno

    d'Ulisse in patria

    PROPHRZIO,

    III,

    12,

    v.

    23

    sgg.; l'autore del Paneg.

    Messa!Lae, tra i carmi di TIBULLO, IV. 1 1 78; !GJNo, Fab., 125; MACRO­

    Sat., V, 2; S100NtO APOLL., Carm. I, 141 sgg. V'erano poi le P�­ riochae ùi Homeri' lliada et Odysseam di DECIO AUSONIO. Ma è poco

    BIO,

    verisimile che Dante avesse familiarità cogli scritti di costoro.

    LA TRAGEDIA D' ULISSE

    91

    suaderci che Dante non può avere ignorato quel che sapevano a menadito gli scolaretti. Ma l' ignoranza di Dante, su questo come su altri punti, rion sorprende chi conosca le non poche lacune della cultura del poeta fiorentino, il quale mostra d'avere assai più meditato e osservato di quel che non abbia letto. E l'avere ignorato il ritorno dell'eroe greco in patria e la fine di lui non è stato poi un gran male, se gli ha permesso di aggiungere ·alle romanzesche avventure narrate da Omero e da Benoit de Sainte Maure, un'im­ presa più grande di tutte, nella quale la lotta fra l'ardire umano e il destino è rappresentata con sovrana potenza tragica degna di Eschilo. Una più precisa conoscenza dei casi d'Ulisse da parte di Dante avrebbe probabilmente inceppato il libero slancio della sua fantasia creatrice. L'eroe omerico, spinto dalla sua insaziata brama di conoscere i costumi degli uomini e di frugare in ogni angolo della terra, affronta i più rischiosi cimenti, quasi giocando colla morte; ina, tra un'avventura e l'altra, torna ad assalirlo un'acuta insistente nostalgia della patria lontana. Gli dèi gli concedono di trion­ fare di tutti gli ostacoli ; e il riposo tra le pareti do­ mestiche, verso le quali è proteso il suo desideri�, corona infine i lunghi affanni sostenuti. La storia delle sue sventure ha un lieto scioglimento: egli potrà met­ tere a profitto, per la prosperità del regno riconqui­ stato, la sua esperienza del mondo e le forze della vigorosa vecchiezza, ed ascoltare sorridendo il canto degli. aedi. Ben altro è l'Ulisse dantesco, figura essenzialmP.nte tragica. Questo ci s'offre dapprima come il virgiliano scele'f"um inventor , trista potenza della ragione rivolta (t) Aen., Il, 164.

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    a ordire inganni. Ma la ragione umana ha un limite, a superare il quale niente valgono la forza dell' ingegno e l'audacia del volere; ogni tentativo di varcare questo limite, sia coll'astuzia sia col ribelle ardimento, è folle e vano. E tosto che Ulisse prendé a parlare, ci si rivela in questo secondo aspetto di titanico e disperato lottatore contro il fato più forte di lui. La sconfinata bramosia di sapere, quel!' innatus cognitionis amor et scientiae, più potente in lui dei dolci affetti familiari e dell'attaccamento al suolo natio ( 1), lo trasfigurano alla fantasia del poeta, sì che questi, tutto assorto nella contemplazione dell'eroico avventuriero, par quasi di­ menticare il tessitor di frodi che geme entro la fiamma. Cicerone ed Orazio avevano rivelato a Dante questo tratto fondamentale del carattere d'Ulisse, sul quale non han potere la voce delle Sirene e la bevanda di Circe M. Ma se Tullio e il venosino avevano eccitato la fervida immaginazione dell'Alighieri, l'eroe dantesco balza tutto intero dalla coscienza del poeta, della quale rispecchia i forti sentimenti e le preoccupazioni dottrinali. Come Ulisse, anche Dante era stato costretto a peregrinare di popolo in popolo, mostrando contro voglia la piaga della fortuna, e si sentiva veramente « legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolo­ rosa povertade» (3), si che poteva dire di sè: nos cui mundus est patria velut piscibus aequor/(4), E d'Ulisse condivide l'ardore « a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore», e la persuasione . Quando i primi parenti ne furon cacciati, a guardia di quel Paradiso furon posti, per volontà di Dio, dei cherubini, roteanti spade di fiamma, per impedir l'accesso al legno della vita. Vero è che, dopo la venuta di Cristo, sui fianchi di questo mo�te fu collocato il Purgatorio. Invece, (1)

    Purg., XXVIII,

    91-102.

    Gm., III, 22-24: « Et ait (Dominus Deus): Ecce Adam quasi unus ex nobis factus est, sciens bonum et maluìn: nunc ergo ne mittat manum suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum. Et emisit eam Dominus Deus de paradiso voluptatis, ut operaretur terram de qua sumptus est. Eiecitciue Adam: et collocavit ante paradisum vo­ luptatis Cherubim, et flammeum gladium atque versatilem, ad custodien­ dam viam ligni vitae >. (2)

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    prima della redenzione, anche le anime dei giusti che pur avevan creduto in Cristo venturo, e lo stesso Adamo, avevan dovuto traghettar l'Acheronte per rag­ giungere il luogo d'attesa nel limbo. Ma dischiusa la porta della salvezza, il ritorno nell'Eden era consentito solo a_ quelli che _. purificati d'ogni macchia, fossero insi­ gniti nel segno ddla fede. E ciò soltanto dopo la morte. La ricer.ca del Paradiso terrestre aveva formato la costante preoccupazjone dei cosmografi e geografi me­ dievali, pur nella _varietà delle loro opinioni. La cre­ denza seguita da Dante collocava l'Eden in mezzo all'Oceano, lontanissimo dalla terra abitata, su un alto monte che si protendeva fino a toccare il cielo della luna < 1 >. Ma tutte le opinioni concordavano in un punto, nel ritenere ch'esso, per giusto decreto divino, fosse inaccessibile all'uomo. Appunto contro questo decreto divino cozza e s' in­ frange l'eroica volontà dell'uomo che ha osato quel che gli era vietato d'osare. In questo consiste la follia d'Ulisse. Non è consentito alla ragione umana di vio­ lare i segreti divini. Ed è tragica follia, che nasce dall'esasperazione di un bisogno insito alla stessa natura umana, nell'appa­ gamento del quale Dante fa pur consistere la suprema perfezione dell'uomo e la superiorità di esso sul bruto: « Nati non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» < 2>. Come Virgilio, il savio gentil che tutto seppe, anche Ulisse personifica la ragione umana tendente alla sua totale esplicazione. Ma in Virgilio la ragione umana riconosce il suo limite: (1) Cfr. i miei Saggi di filos. da,il., pp. 356-366; e Gion,. Slor. Letl.

    lial., 1933, voi. 101, pp. 325-326,

    (2) lnf., XXVI, 118-120. Però si legge nel Convivio, IV,

    VII,

    11-15,

    che �< vivere ne l'uomo è ragione usare», e che chi si parte « da l'uso del ragionare» « è morto [uomo] e rimaso bestia».

    LA TRAGEDIA

    o' ULISSE

    97

    State contenti, umana gente, al quia; chè se possuto aveste saper tutto, mestier non era parturir Maria; e desiar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch'etternalmente è dato lor per lutto(,). E ancora: Quanto ragion qui vede_ dir ti poss' io; da indi in là t'aspetta pur a Beatrice, eh' è opra di fede(•>. Virgilio insomma è messo e araldo di Beatrice, e al1 ' apparir di questa scompare. Ulisse invece personifica in sè la ragione umana insofferente di limiti e ribelle al decreto divino che interdiceva all'uomo di mettersi sulla via che conduce al legno della vita. Nella follia d'Ulisse e dei suoi compagni v'è tutto l'orgoglio umano che spinse Adamo ed Eva al trapassar del segno (3) gustando il frutto dellà scienza del bene e del male, per esser simili a Dio (4): v'è anzi lo stesso orgoglio di Lucifero, che disse: « Salirò al cielo, innalzerò il mio trono sopra gli astri di Dio, sederò sul monte ad aquilone, ascenderò sopl'a le nubi e sarò simile ali' Al­ tissimo)) , non ci autoaquilonis. Ascendam super altitudinem nubium, similis ero Altissimo'· Verumtamen ad infernum detraheris, in profundum laci ». (1) Cfr. lo studio precedente, i 11. (2) /nf., XXVI, 117; XXXIV, 121-124; Conv., lii, v, 8; Quaestio de aqua et lena, XIX, 53-55·.

    LA TRAGEDIA D' ULISSE

    99

    rizza in alcun modo ad azzardare supposizioni in questo senso. Ma se il poeta non ha· pensato all'esistenza di terre sconosciute, egli ha visto e cantato il tipo idea!e dell'esploratore e del navigatore d'ogni tempo, pronto ad affrontare tutti i pericoli, a scagliar la sua vita nel1' ignoto. Egli ha scoperto lo scopritore. ·

    III

    LA CONOSCENZA UMANA* 1. Come si ponga il problema del conoscere nella filosofia me­ dievale. - 2. Il desiderio innato di sapere. Sviluppo della conoscenza umana. Il senso. La cogitativa. La fantasia. 3. L'intelligenza. Intelletto possibile ed agente secondo Aristotele e i suoi commentatori. L'intelletto agente nella Scolastica. Platonismo agostiniano e aristotelismo tomistico. -4. La luce divina risplende, secondo Dante, nell'intelletto umano.-5. L 'i n t e l l e t t o d e l l e p r i m e n o t i z i e . Spie­ gamento del naturale desiderio di sapere. Congiungimento dell'intelletto umano colla Sapienza. Trascendenza della Verità. Il dubbio. - 6. Ragione e fede. I tre momenti dello svolgimento filosofico di Dante: la Filosofia secondo il Convivio; l'autonomia della ragione dalla fede proclamata nella Mona,·chia; la phi l o s o phi a a n c i l l a the o l o g i a e nella Commedia. - 7. I l problema scolastico dei rapporti tra fede e ragione. Il concetto della fede. L'esperienza religiosa. La vera Filosofia del medio evo.

    r. - L'universo, nella v1s10ne che Dante ne ha, risulta formato da un'armonica gerarchia di esseri, in cima alla quale su in alto sta, pura luce intellettuale, Dio, atto infinito, senz'ombra d'imperfezione e di pas­ sività, mentre giù in basso giace la materia tenebrosa

    * Uscito nella Miscellanea dantesca del Giom. Star. d. Lei!. !tal. Suppi. 19-21. Qua e là ho fatto vari ritocchi e aggiunte.

    LA CONOSCENZA UMANA

    101

    e indeterminata, su cui si riflette, come su di uno schermo, la luce dell'idea divina. La misura della perfezione di ciascuna cosa creata è data dalla mag­ giore o minore capacità che essa possiede, di elevarsi sopra la materia e di avvicinarsi ali'infinità della Causa Prima che tutto comprende. Vicinissime alla materia e i m p r o p o r z i o n a l i s s i m e alla prima Virtù, che è solo intellettuale, sono le forme degli e l e m e n t i < 1 l. Su queste s'innalzano le forme delle m i n i e r e , le quali posseggono un raggio d'azione più esteso che non sia quello delle qualità elementari, perchè sono il termine di una trasformazione dei quattro elementi combinati fra loro in una certa proporzione. Un'ancor più ampia sfera d'azione possiede l'anima delle piante, che alla sua volta è minore di quella degli animali. L'anima sensitiva, benchè tutta compresa nella materia, è tut­ tavia capace di accogliere in sè, intenzionalmente, le immagini delle cose sensibili, senza la materia che le coarta, come dice Aristotele < 2>, e di partecipare quindi, in qualche modo, della perfezione di quelle. L'anima umana, immersa pur essa nella materia colle facoltà sensitive, n' è libera per via dell'intelletto, che pos� siede, come aveva detto. Aristotele (J), la capacità di diventare, idealmente, tutte le cose. Fra l'uomo e Dio, vi sono le sostanze separate, c_ioè gli Angeli, « che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità· de la loro forma>> (4). Anello di congiunzione fra il mondo superiore e quello inferiore, posto sul Conv .. III, v11 1 2-5; Cfr. III, u1, 2-11. (2) De a11ima, Il, c. 12, 424a 17-18 (t. c. 121): KaiM)..ov bè neQl ,uiaTJ,· ataih']aecoç be, Àa�e,v 6n fJ µèv ataihjalç fon ,ò bexnxòv ,:ò,v alaihji:wv ellìwv /ivev i:f}ç ()ÀTJ s· (3) De an'lma, IIl�c. 4, 429a J1-,9 (t. c. 5-61; 429b 30 sgg. (t. c. 14); c. 5, 43oa 14 sgg. (t. c. 18). (4) Conv., 111, VII, 5. (1)

    102

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    confine dell'eternità e del tempo, come si legge nel fibretto Delle cagioni ( 1 l, l'uomo possiede, nell' intel­ letto possibile, la capacità di accogliere in sè le forme �niversali e particolari di tutte le cose(,) e di rispec­ chiare l'universo, rompendo in qualche modo i limiti della propria individualità per accostar.si alla perfe­ zione divina. Poichè anche per Dante, come per ogni pensatore dell'antichità, la coscienza umana non è il centro onde scaturisce la luce della verità, ma solo un breve specchio che quella luce raccoglie e riflette. Di fronte all'uomo e fuori di lui, sta il mondo sensibile e quello intelli­ gibile, l'universo nel quale l'uomo è inserito, come monade tra altre monadi. Ora, come potrà la monade umana uscir fuori di sè e accogliere l' immagine del­ !'universo? Per quali finestre penetra in noi la luce del vero?. In questo modo appunto si poneva allo spi­ rito greco e medievale il problema della conoscenza. Tutta la filosofia antica è, anzi tutto, una metafisica dell'essere, costruita mediante il sapere ingenuamente dommatico, fondato sulla fede nella percezione esterna, il cui valore non era mai stato seriamente intaccato dal vecchio scetticismo sofistico e accademico. Solo dopo aver costruito il mondo della realtà oggettiva, senza accorgersi che quel mondo è pur costruzione del suo spirito, il filosofo antico sente il bisogno di rien­ trare in sè e di rendersi conto dei mezzi di conoscenza dei quali si è servito per l'affermazione del reale. Il suo modo di procedere è questo: prima l'oggetto, la r e s , ossia il contenuto della coscienza, considerato (1)

    gine

    De causis,

    JOO-JOJ.

    pr. li; cfr.

    Mon., III,

    XVI, �' e

    i miei Saggi, pa­

    (2) Mon., I, 111, 9: t< Potentia ... intellectiva ... non solum est ad formas universales, sive species, sed etiam per quandam extensionem ad parti­ culares ».

    LA CONOSCENZA UMANA

    103

    astrattamente e avulso ·dall'atto vivei di questa, e poi il soggetto, come passivo spettatorè della cosa posta fuori di esso; prima la metafisica come scienza del­ l'oggetto in sè, opposto al pensiero, e poi la psicologia come parte di quella metafisica. La conoscenza appariva come u n f a t t o particolare da spiegarsi, anzi che come il punto di partenza di ogni ricerca, i I f a t t o fonda­ mentale che doveva spiegare tutti gli altri fatti, l'a t t o i n cui si riso I ve tutta quanta l'esperienza umana e qualsiasi affermazione del reale oggettivo. Opposti cosi, fra loro, l'essere e il pensiero umano (tale opposizione non esisteva fra la realtà e il pen­ siero divino), vediamo come il filosofo medievale riesce, se riesce, a metterli in comunicazione e a risolvere il problema del conoscere; problema, come abbiamo no­ tato, in senso assai relativo, perchè egli non ha mai dubitato, in fondo, della corrispondenza fra l'essere e il pensiero. Nell'uomo, dice Dante fin dalle prime righe del Convivio, è· innato il desiderio di sapere: La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da provvidenza di prima natura Ci) impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ul­ tima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la no­ stra ultima felicitade,. tutti naturalmente al suo desiderio semo subiettitQW1'TJ cpua,ç xo.l > stesso Aristotele, per render conto sia delta conoscenza intellettiva, come di quella sensitiva (cfr.

    De anima,

    11, 5; I 11, • e 5). In forza di

    questo principio, niente è capace di passare dal1a potenza alJ'atto, se non

    per qualche cosa cbe sia già in atto e che, agendo sul paziente, lo renda

    simile a sè. Ora il senso, prima di essere in atto, è in potenza, nè po·

    trebbe passare all'atto del sentire, se un agente esterno non venisse a

    dettrminarlo. Ne11'atto del sentire, il senso in atto e il sensibile coinci·

    dono e formano una cosa sola, perchè il sensibile trae a sua similitudine il senso (cfr.

    De anima,

    II, 5, e 11). Fuori dell'atto di sentire, il sensibile

    è detto talora i n p o t e n z a , perchè manca. di alcune condizioni fisiche

    indispensabili per agire sul senso. Cosl i colori sono in potenza, quando

    si trovino nelle tenebre; e la luce, non l'atto del sentire, è quelta che li rende colori visibili in atto

    (De anima,

    lii, 5). Dal non aver capito il

    pensiero di Aristotele, su questo punto. già akuni filosofi medievali del

    tempo di Dante e posteriori a lui furon condotti a immaginare un s e n s o a g e nte , parallelo al vovc; 't 'Ì' ncivi:a no,e,v.

    (2) Co,iv., 111, IX, 6. Alcuni fra gli antichi commentatori di Aristotele,

    seguiti da qualche moderno interprete, ritengono che i sensibili comuni

    siano l'oggetto specifico del cosiddetto se n s o c o m u n e . Ora Aristotele

    dice espressamente che essi sono sentiti p e r s è da ciascun senso De

    a11i111a,

    II, c, 6 (t. c. 63-64); Ili, c. 1, 425a 27 sgg. (t. c. 134-135). « Com-

    106

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    i sensi esterni, quando non siano intrinsècamente vi­ ziati, e si trovino nelle condizioni richieste, non vanno soggetti ad errore nella conoscenza dei sensibili pro­ pri, sono invece spesso ingannati dai sensibili comuni ). Per 1' intelligenza del qual passo è utile ;icordare questo luogo di ALBERTO MAGNO (De natura et origine anùnae, tr. IJ, c. 8): « Confirmatur autem baec ratio per illa quae sumuntur a òictis Socratis et Hermetis Trismegisti cuius avus fuit Prometheus, praecipuus phiiosophus, a quo primam scientiam philosOpbandi acceperunt Stoici ; huius enim philpso­ phiae Prometheus dicitur pater fuisse. Et fuit ratio eorum, ')Uod, sicut in Somno et Vt'gt'!ia probatum est, quaedam sunt in somnis verae intel­ ligentiae, quae non somnii habent rationem, sed potius oracula sunt, ab intellectibus supernis et intellectui animae influxae: constat autem quod horum receptio non est t�isi secundum conformitatem animae humanae ad intellectus supernos caelestes, et non secundum aliquam dependentiam ad corpusi et ideo nec perire potest huiusmodi substantia talia recipiens ora­ cula, corpore pereunte n. Vedasi più oltre 1 il saggio VII.

    LA CONOSCENZA UMANA

    *** 3. -Tratta da e s s e r v e r a c e e suggellata nel­ )' immaginativa ( 1) l' i n t e n z i o n e sensibile aiuta a na­ scere e a svilupparsi la funzione intellettiva. Intorno al destarsi nell'uomo della conoscenza intellettuale e al rapporto· di essa colla sensazione, si ebbero nel medio evo dottrine fra loro sensibilmente diverse, per quanto tutte affini per molti concetti fondamentali co­ muni. Dante espone il suo pensiero in modo piuttosto frammentario. Per intenderlo è quindi necessario pro­ cedere con cautela e senza prevenzioni. Secondo Dante, l' i n t e l l e t t o p o s s i b i l e , « spirito novo, di vertù repleto», chè si aggiunge all'anima vegetativo-sensitiva e la « tira in sua sustanzia>>, per fare insiem con essa « un'alma sola che vive e sente e sè in sè rigira>>, « potenzialmente in sè adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la, prima Intelligenza è» . Il voiiç divino genera e governa le cose contenute dall'orbe lunare, e segnatamente l'i n ­ t e l l e t t o i n p o t e n z a , detto da lui anche i n t e l l e t t o m a t e r i a le ( b uì.ixòç voùç). L a tesi d'Alessandro sul1' intelligenza attiva, eterna, unica e divin.a, sembra aver largamente influito sul pensiero neoplatonico >; ma qu�sto .non può intendersi se non quanto allo svolgimento e all'attuazione delle forme universali irraggiate nell' intelletto possibile dalla luce della Prima Intelligenza. E questo dicevano, più o meno concordemente, tutti gli agostinisti. Cosi, per esempio, san Bonaventura: Quia non ex se tota est anima imago, ideo cum his (cioè insieme colle r e g u l a e o r a t i o nes aeternae) at­ tingit rerum similitudines abstractas a phantasmate tam­ quam proprias et distinctas cognoscendi rationes, sine quibus non sufficit sibi ad cognoscendum lumen rationis aeternae, quandiu est in statu viae (2). (1) Cfr. B. NARDI, Saggi di jilos. danl., pp. 17-31, 104, 111-u6; e Giorn. Cril. d. Filos. Ila/., XIII, 1932, pp. 54-56. (2) S. B0NAV., De scienlia Christi (in Opera, Quaracchi, 1882-1902, t. V) q. 4. Anche per la conoscenza attuale dei primi principii occorre l 'esperien.za: e Species... et similitudines rerum acquiruntur in nobis me·

    LA CONOSCENZA UMANA

    123

    Lo stesso Marston che, come abbiamo visto, è uno dei più energici assertori dell'identità dell'intelletto agente colla luce divina, dichiara che la mente umana « intelligit incommutabilia a d m i n i cul a n t i bus s p e­ c i e b u s a p ha n t a s m a t i b u s ab s t r a c t i s » 1 1>. E il Marston, io credo, ci offre, meglio di tutti gli altri autori finora ricordati, il modo d'intendere che cosa siano le f or me u n i v e r s a l i di Dante: Necesse est, ultra phantasmata ve! species abstractas, ponere in mente nostra, quo attingamus aliqualiter incom­ mutabiles veritates ... Nam lux aeterna, irradians meritem humanam, quandam impressionem activam facit in ea, ex qua derelinquitur in ipsa passiva quaedam impressio, quae formale principium est cognoscendi veritates incommuta­ biles; sicut sigillum quando imprimitur in cera, derelinquit quoddam vestigium in cera (2). Questa impressione stampata e sigillata nella mente umana dalla luce eterna sono appunto le fo r m e u n i ­ v e rs a l i che l' intelletto possibile, a l dire di Dante, potenzialmente in sè adduce secondo che sono nel suo produttore, Dio. Se questo, come pare, è il pensiero di Dante, si capisce subito perchè egli non senta mai il bisogno di tirare in ballo la dottrina aristotelica dell'intelletto agente e dell'astrazione: la funzione essenziale del­ !' intelletto agente è già attribuita da lui, in confor­ mità della sua metafisica neoplatonica, alla virtù didiante sensu, sicut expresse dicit Philosophus in multis locis; et hoc etiam experientia docet. Nemo enim unquam cognosceret to t u m, aut pa r t e m, aut pa� re m , aut ma t r e m, nisi sensu aliquo exteriori speciem eius acciperet > (b, Il Seni., d. 39, a. 1, .

    *** 5. - Ed ora vediamo di seguire lo spiegarsi della potenza dell'intelletto umano. Due sono i termini di questo spiegamento: il punto di partenza, o termine a q u o , è dato dal naturale desiderio di sapere; il punto d'arrivo, o termine ad q u e m , sta nel possesso del sapere in atto, ossia nel congiungimento dell'anima colla sapienza; nel qual possesso e congiungimento consiste la suprema perfezione dell'uomo ·e la sua felicità. La nostra apprensiva trae, per mezzo dei sensi, le forme o s p e c i e c o n o s c i b i l i (intenzioni) dalle forme che sono nella realtà fuori dell'anima. Ma queste forme ricevute passivamente hanno bisogno di essere s p i e­ g a t e, (2) lb., XVIII, 40·60. Le prime notizie sono il « ver primo che l'uom crede» come • per sè nolo» (Par., Il, 44-45), cioè quei primi principi immediaii che sono il punto di partenza d'ogni dimostrazione secondo Aristotele, Anal. poster., I, c. 2, 72 a 25-72 b 4 (t. c. 15-17), c. 3, 72b 18-24 (t. c. 21); ib., Il, c. 19, 99b ,o-1oob 17 (t. c. 101·107), quegli « intel­ ligibilia prima per se nota>) e quelle prime « propositiones quas contingit credere non aliunde nec quia auditor percipit ullo modo esse possibile eas atiquando non credere>) (AVICENNA, J)e anùna, I, 5) i e t< quas per se necesse est intetlectui credere» (ALGAZEL, Lo)?ica, Venezia, 1506, cap. V). (3) PHrg., XVIII, 61-75.

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    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    Si potrebbe osservare, ed i! stato osservalo, che la mente per altro non è autonoma e libera di fronte alle p r i m e n o t i z i e ed ai p r i m i app e t i b i l i. Ma l'obiezione, se ha valore sopratutto per quegli scola­ stici che, come Tommaso, ritengono, con Aristotele, I' i n t e l l e c t u s p ri n c ip i o r u m e la naturale inclina­ zione al bene due disposizioni passivamente ricevute, simili ali' istinto negli ·animali; ha il torto di non comprendere che in modo ben altrimenti profondo intendevano quella dottrina, come abbiamo visto, i pensatori che più da vicino seguivano l'indirizzo neo­ platonico ed agostiniano. On d e v e n g a l' i n t e l l e t t o d e l l e p r i m e n o t i z i e u o m o n o n s ap e , per la filo­ sofia d'Aristotele Cl), in nome del quale parla Virgilio, e che ne ha fatto un istinto, s i c c o m e s t u d i o i n ap e d i fa r l o m e l e(2J; m a lo sa la teologia cristiana di sant'Agostino. Da questa Dante ha imparato che la luce divina raggia nella mente umana, e che l'anima,· (1) AVERROÈ, D� anima, lii, comm. 36: • lntellecta autem duobus modis fiuot in nobis: aut naturaliter 1 et sunt primae proportiones, q u a s n e s c i m u s q u a n d o e xt i t e r u n t e t u n d e e t q u o m odoj aut volun­ tarie, et sunt intellecta acquisita ex primis propositionìbus. Et fuit decla­ ratum quod necesse est ut intel1ecta habita a nobis naturaliter sint ab aliquo, quod est in se intellectus liberatus a materia, et est intellectus agens >�. (2) li paragone sembra suggerito da Aristotele, Anal. posl�r., 11, c. 19, 99b 34-35 (t. c. 103), il quale attribuisce· a tutti gli animali un potere giudicativa innato (liuvaµ,v auµq,,11,ov XQLuxi)v). L'intelletto delle prime

    notizie, cioè l'« intellectus principiorum >) {ARIST., ib., 1oob 12, t. c. 107),

    e l'affetto de' primi appetibili sono in noi abiti innati al pari della virtù del consiglio (P,.rg., XVIII, 62; ARIST., ib., 99b 31-34, t. c. 102; 1000

    6 sgg.), simili all'istinto naturale dell'ape. Perciò ritengo errata la lezione, a.ccolta dal Vandelli, « ch'è solo in voi » 1 invece della lezione volgata « che sono in voi» (Purg., XVIII, 58), anche perchè non è affatto vero per Dante- che (< I 'affetto de' primi appetibili n sia solo in noi. Egli anzi insegna con Aristotele che > (Conv., I, I, 1; cfr. Par., 11 ro3·120), e che « nè creator nè creatura mai fu sanza amore>> (Purg., XVII, 91-92).

    LA CONOSCENZA UMANA

    127

    •, sotto l' influenza della luce divina, cfr. GUGLJKLMO ALVERNJATE, De anima (in Opera omnia, Parigi, 1674, t. Il), cap. VII, pars VI-VIII, pp. 211-214. Anche per l'Alverniate l'habitus che inclina la mente umana a leggere nel libro della verità eterna e la volontà a rivolgersi al bene, è rassomigliato al 1110.s del ragno che, dal moto della tela, crede sia caduta in essa una mosca Allo stesso modo ALBtcRTO MAGNO, De i,itel/. et ·intellig., 1, tr. 3 1 capp. 3-4; De unit. "lntell., c. 6 1 ritiene che i primi principt son percepiti in quella luce in cui son percepiti i principi di tutte le cose. Cfr. A. SCHNEIDER, Die Psychol. Alberts d. Grossen in Beitr. Gesch. Philos. Mittel.; IV, 5-6, pp. 339-340. Giovanni della Rochelle, S1,. Cfr. S. BoNAV., ltin. mentis in Deum, cap. III, n. 1; MATTRO o'ACQUASPARTA, Qu.aeslt"ones disput. se­ lectae, t. I, Quatacchi, 19031 p. 53. (2) Conv., Ili, 111, 2 sgg.

    t28

    DANTÉ

    E tA CUtTtrRA MEDIÈVAU

    ha in alcuno modo circulare essere . La virtù divina, discendendo nell'anima, a s u a s i m i l i t u d i n e r i d u c e l'amore e il desiderio, che è in noi, della verità . Divino è il punto di partenza e divino è il punto d'arrivo nello svolgimento della nostra conoscenza. D e u s e s t e n i m q u i o p e r a t u r i n v ob i s v e lie e t p e r f i c e r e , si po­ trebbe dire, torcendo al caso nostro il motto di san Paolo (3), esprimente del resto un pensiero non molto dissimile. Ond'è che

    I

    ... dove la filosofia è in atto, si dichina un celestial pensiero, nel quale si ragiona questa essere più che umana operazione (4). Ma all'unione colla Sapienza e colla verità assoluta l'anima giunge a poco a poco, collo sforzo diuturno della ricerca e solo nella misura in cui ogni uomo n'è capace. In questo modo il filosofo medievale tenta di nuovo di vincere la trascendenza e di colmare orbatis et imperfectis»; ib., 12: «si nihil frustra facit natura�. AvKRRO�, Metaph., II, comm. 1: « Si comprehensio esset impossibilis, tunc deside .... rium esset ociosum. Et concessum est ab omnibus, quod nulla res est ociosa in fondamento naturae ac creaturae». (1) Cfr. B. NARDI, li tomismo di D. e la qi,istio,ie di Sigieri (estr. dal Giorn. dant., XX, 5), pp. 11-12; L'origine deli'anima umana secondo Dante, in Giorn. Ci-il. d. Filos. I/al,, XIII, 1932, pp. 49 sgg. e 86 sgg.; La dottrina d'Alberto Magno s-uli't< inchoatio formae », in Rendiconti della Classe di Scienu morali storiche e filosofiche della R. Accad, dei Lincei, Serie VI, voi. XII, 1-•, 1936, p. 29 sgg. (2) Conv., III, xiv, 2, 6-8. (3) Philipp., II, 13. (4) Conv., lll,•XtV, 11,

    ,_

    LA CONOSCENZA UMANA

    131

    l'abisso tra l'anima e il vero, tra la nostra ignoranza e I.a perfetta sapienza. Se la luce divina coopera colla mente creata all'atto dell' intendere, questa non rimane puramente passiva o inerte. Dal naturale desiderio, che è in lei, nasce il conato a ricercare il vero e a far germogliare la semenza divina deposta nelle sue viscere. I sensi le forniscono le impressioni sulle quali comincia ad eser­ citarsi la sua attività giudicatrice. Ma non appena i primi sprazzi di verità hanno rischiarato l'intelletto, il desiderio, acquetato per un momento, risorge più gagliardo e si dilata < 1 >; a piè del vero rampolla il dubbio, che sprona la mente umana a nuove ricerche, verso sempre più ardu'e conquiste: lo veggio ben che giamai non si sazia nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso come fera in lustra, tosto che giunto l'ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura, ch'al sommo pinge noi di collo in collo (2). Nell'atto del dubitare e del ricercare, l'attività della ragione, ripiegandosi su se stessa, si afferma e si svi­ luppa, e la verità conquistata con faticoso sforzo si fa veramente nostra. Pusillanimi sono quei ... molti tanto vilmente ostinati, che non possono cre­ dere che nè per loro nè per altrui si possano le cose sa­ pere; e questi cotali mai per loro non cercano nè ragio­ nano, mai quello che altri dice, non curano. E contra (1) Conv., IV, xm, 1-4.

    (2) Par., IV, 124-132.

    r32

    DA-NTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    costoro Aristotile parla nel primo de l'Etica (r), dicendo quelli essere in s u ffi ci en t-i u d i t o r i d e l a m or aie fi­ l o s o fi a. Costoro sempre come bestie in grossezza vi­ vono, d'ogni dottrina disperati (2). Del dilatarsi' del desiderio umano di sapere v'è, per altro, un termine che può esser raggiunto dall'uomo e che queta le sue brame; poichè tutti i desideri na­ turali « sono a certo termine discendenti, e quello della scienza è naturale, si che certo termine quello com­ pie» (3). Ma al raggiungimento di questa perfezione, i più, dopo il peccato d'Adamo, non pervengono, perchè il loro intelletto n' è impedito da m a l i z i a d'a n i m o o d i c o r p o(4), e solo a pochi è dato di compiere la loro giornata (s>. (1) Cap. 2, 1095b 4-13. Conv., IV, xv, 14. loANNIS DE IANDUNO, Super libros Arisl. de anima·suhtilissimae quaestr.'01tes (Venezia, 1587), III, q. 36 1 col. 43:z: « Hoc tamen verum est, quod iste status animae intellectivae multum difficilis est ad acquirendum perfecte scientias, et impedimenta cootingunt, quibus multi homines deficiunt a complemento huius felicitatis. Et unum illorum est, quia aliqui et multi reputant illam operationem esse sibi impossibilem . et ideo non laborant ad eius acq�isitionem, sed inclinant ad prosecutionem aliorum bonorum inferiorum et quidam ad delectationes bestia]es. Et forte boe est causa, quare multi bomines, qui dediti sunt philosophiae, inve­ niuntur corfupti, ut innuit Commeutator ». Cfr. AVRRROt, proemio del commento alla Fisica. (3) Conv,, IV, xm, 7. (4) Conv., IV, xv, 11-17. Grov. DI jANDUN, Metapk., I, q. 4 e 23. (5) Conv., IV, XII, 7. E l'autore soggiunge: « E chi intende lo Commentatore, nel terzo de l'Anima, questo intende da -lui>>. 11 luogo di Averroè al quale Dante intende riferirsi, è quello stesso a cui si appella nel De Mon.t I, 111, 9 1 e cioè il comm. s del terzo libro De anima. Ivi il Commentatore sostiene: « quod impossibile est ut tota habitatio fugiat a philosophia >�, e che �, e son net:'atto della speculazione , non la filosofia. Anche l'averroista Giovanni Jandun, che dichiara di avere avuto fra mano gli scritti di que.ll'altro averroista che fu il Re v e r e n ­ d u s Do c t o r Ph i l o s o p h i a e , Ma gi s t e r Se ge r u s d e Br a b a n t i a (cfr. Super libros Arist. De anima, lii, q..5 . L e stampe leggouo Re­ m i gi u s , ma il manoscritto laurenziano, Fesul. 160 1 ha chiaro Se ge r u s , cosi pure i l VaL Reg. lat. 1908, mentre il Vat. lat. 2156 ha Si r g e s); esponendo il pensiero di Averroè, osserva: ) (.Super tibros A,·ist. de anima, lii, q. 10, Cfr. dello stesso Jaodun, le Q"aest. super Metap!t., I, q. 4; B. NARDI, Saggi difilos. dant., p. 262 sgg.). (IJ Conv., I, 1. 7. (2) Conv., Ili, x111, 5-7.

    134

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    ricevono della luce della Sapienza infinita se non quel tanto che si commisura alla loro limitata capacità: ... però l'umano desiderio è misurato, in questa vita, a quella scienza che qui avere si può... E così è misurat_o ne la natura angelica, e terminato i n q u a n t o , -in quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere(,). Di là del limite che chiude il breve orizzonte della conoscenza umana, vi sono cose che s o v e r c h i a n l o n o s t r o i n t e l l e tto e lo abbarbagliano, ma che, pur non viste, c o n t u t t a f e d e s i c r e d o n o e s s e r e < 2). Il desiderio umano, insomma, è inadeguato a com­ prendere per intero la Verità; e però quell'amoroso uso di sapienza, in cui consiste la filosofia, ... massimamente è in Dio, però che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non può essere altrove, se 11011 in quanto da esso procede... Ne le altre intelligenze è per modo minore, quasi come druda, de la quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la sua vaghezza(3). Ma benchè la mente dell'uomo sia inadeguata a comprendere la verità assoluta, pure in qualche modo l'intravede; e da questo confuso intravedere, che è consapevolezza dei propri limiti naturali, nasce la persuasione che ... ogni miracolo in più alto intelletto. puote avere ra­ gione, e per conseguente puote essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza [che è) lo provedutò desiderare; e per quella nasce l'ope­ razione de la caritade. Per le q.uali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove li Stoici e Peri(2) Conv., II I, xv, 6. (1) Conv., lii, xv, 10. (3) Conv., III, Xli, 12-13; cfr. ih., xm, 1-8.

    13 5

    LA CONOSCENZA UMANA

    patetici e Epicurii, per la 1(uc ]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolmente concorrono(•). Dai passi del

    Convivio,

    qui riferiti, si raccoglie,

    se non erro, che la Filosofia di cui è simbolo poetico

    la donna gentile, non è propriamente la p h i lo s o­

    p h i a , in quanto si distingue scolasticamente dalla t h e o l o g i a , la scienza umana, cioè, in contrapposi· zione colla dottrina rivelata. La Sapienza, come Dante

    la concepisce in questo primo periodo del suo svol­ gimento filosofico, rappresentato dal una

    parte,

    Convivio,

    è, da

    la 0Eì:a. 'tùlv lim, l'autore si trovò di fronte ali' in­ veterata consuetudine, la quale non tollerava altr� lingua, per le trattazioni dotte, fuori del latino e del francese, e senti il bisogno di purgare la sua opera da questa macchia, dell'essere il suo commento vol­ gare e non latino. Nel fare la sua difesa, egli argo­ menta scolasticamente, servendosi dei ben noti proce­ dimenti logici, irti di sottili distinzioni e suddistinzioni, che usavano allora. Ma chi non si adonta di questo formalismo della superficie e cerca anzi di penetrar nell'intimo del ragionamento, scopre, sotto l'arida scorza dei sillogismi, un sentimento mal represso e concitato, che spinge il poeta fiorentino a sciogliere un inno alla vivace bellezza del nascente volgare, di cui egli insieme alla sua gente si sente creatore ed artefice. (1)

    Conv.,

    I, IX, 2 sgg.

    158

    DANTE E LA CULTURA MEDIEVALE

    Pure il dissidio tra le caute forme raziocinative e il prorompente sentimento della bellezza del nascente linguaggio, come libera ed immediata espressione del1 'anima di una gente nuova, rivela un più profondo dissidio fra un concetto che comincia appena ad affer­ marsi nelt'animo dell'autore, e un pregiudizio scola­ stico dal quale la sua mente tenta invano di liberarsi. li loico non ha ancora trovato, in I ui, la 'formula razionale per giustificare filosoficamente quello che già intuiva il poeta. Il poeta possedeva già chiaro il senso del!' immediata e perfetta corrispondenza tra l'espres­ sione volgare e i sentimenti dell'anima del popolo, e avvertiva come fosse impossibile di sostituire all'espres­ sione volgare, creata· insieme ali' immagine fantastica e palpitante di passione, la fredda espressione latina. Il latino è, per Dante poeta, una lingua mòrta e in­ capace, per ciò stesso, di esprimere adeguatamente i sentimenti sempre nuovi ed · originali che fremevano nell'anima di un popolo nuovo. Questo egli vuol dire, senza dubbio, quando si accinge a: provare che il latino non potrebbe essere nè c o n o s c e n t e , nè o b e d i e n t e al volgare nel com­ mento delle canzoni concepite e scritte nella nuova lingua < 1 >. Non conoscente e non obbediente, perchè i sentimenti e le immagini, che via via s'incarnano nelle espressioni linguistiche di ciascun popolo, e fanno ·con queste un tutto inscindibile, son qualche cosa di determinato, di vivo, di sempre nuovo, possie�ono un' individualità originale, alla quale non potrà mai adattarsi perfettamente nessun'altra espressione nata per significare modi di sentire e di concepire del tutto diversi. I sentimenti della nuova anima del popolo italiano, dai quali è stata foggiata l'espressione voi(1) Com,., I, v1-vn

    159

    It LINGUAGGIO

    gare, non potrebbero, dunque, esser noti se non va­ gamente e i n g e n e r e , ad un linguaggio che le regole grammaticali hanno fissato in un'astratta, immobile e superba rigidità