I sentieri della ragione. Modulo A. Filosofia antica e medievale. Profilo storico [Vol. 1]

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De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_002_1L......Page 3
De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_002_2R......Page 4
De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_003_1L......Page 5
De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_003_2R......Page 6
De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_004_1L......Page 7
De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_004_2R......Page 8
De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_005_1L......Page 9
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De Bartolomeo, Magni - I sentieri della ragione. 1 Filosofia Antica e Medievale. Profilo storico_Pagina_007_1L......Page 13
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M. DE BARTOLOMEO · V. MAGNI

I SENTIERI DELLA RAGIONE FilDsojia antica emedievale OPERA S~L

DANl?.,LA RICC( ~Ml CELL. 339S172087

ISBN 88-268-1042-7 EDIZIONI

7

8

ATLA:::; - CAPITE LO.LDC - SIMONE ARMANDO - Dfa ONIANE _ EDJSCO HELBLIN< - MEDUSA _ L/GO A. DEL C!\RRETTO 26/31

fEL. 064544871; FAX 0645434801

COLLANA DI SCIENZE UMANE DIRETTA DA FAUSTO PRESUTTI . DIREZIONE EDITORIALE: Roberto Invernici REDAZIONE: Gionata Buttarelli PROGETIO GRAFICO EVIDEOIMPAGINAZIONE: Giovanna Bendotti COPERTINA: Vavassori & Vavassori STAMPA: G. Canale - Arese (MI) Con la collaborazione della Redazione e dei Consulenti dell'l.1.E.A. Si ringraziano: Ornella Sardo e Giuliana Volpe, per la traduzione e revisione dei brani antologici; Silvana Tarsia per la rilettura del testo. Ogni riproduzione del presente volume è vietata. L'Editore potrà concedere, a pagamento, l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a:

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lA ATLAS

PRESENTAZIONE I sentieri della ragione è un corso di filosofia composto di tre Volumi. Ogni Volume è suddiviso in due Tomi caratterizzati da un diverso approccio didattico, ma concepiti per un uso congiunto e coordinato. Il Tomo A presenta il Profilo storico con l'antologia di brani degli autori maggiori e dei movimenti più significativi. Il Tomo B offre invece un'ampia scelta di Percorsi tematici. TOMO A Nel Tomo A la ricostruzione storica muove da un'esigenza fondamentale: recuperare l'originaria problematicità della riflessione filosofica, riproponendola, inoltre, alla luce della più recente storiografia e secondo le questioni che quest'ultima ha posto e continua a porre. L'analisi di correnti e movimenti filosofici e di grandi pensatori ha come centro nevralgico e 'cuore' - in ogni Capitolo o per autori di rilevante importanza - la sezione intitolata Stile di Pensiero, nella quale è tracciato l'identikit di ogni filosofia o filosofo, il problema (o i problemi) fondamentali che ha affrontato, lo stile di ricerca che ha elaborato e seguito, il metodo che ha utilizzato o cùstruito, le principali opzioni interpretative che riguardo a questi aspetti sono state proposte. Nel Tomo A di questo Primo Volume sono trattate e approfondite la Filosofia greca, la Filosofia romana e la Filosofia cristiana sviluppatasi in età medievale. •

Innanzitutto si ricostruisce, nell'ambito della cultura dell'antica Grecia, il complesso processo di formazione del L6gos, inteso sia come Ragione che come Discorso, che trae la sua linfa dal mondo greco, ma si avvale anche di apporti provenienti dal Vicino e dal Lontano Oriente. Il L6gos si configura sia come Scienza che come Filosofia. La natura di quest'ultima si comprende alla luce del rapporto tra Sophfa (Sapienza) e Phi/osophia (Amore/Ricerca della Sapienza). Per alcuni grandi pensatori la filosofia è "ricerca", per altri "possesso" della Verità, per altri ancora essa è insieme ·"possesso e ricerca". Nel corso del suo sviluppo la filosofia greca costituisce e definisce i grandi ambiti del pensiero filosofico: la Metafisica, l'Etica, la Politica, la Logica, la Teoria della Conoscenza, l'Estetica ... Il pensiero greco individua e formula alcuni problemi, alcune domande fondamentali:

"Qual è l'essenza delle cose? C'è un principio divino come origine delle cose? C'è un solo Dio? Qual è la sua natura? Quale rapporto ha con le cose e con gli uomini? Qual è la natura dell'uomo? C'è l'anima nell'uomo? Che natura ha, materiale o spirituale? È mortale o immortale? Che cosa è bene e che cosa è male? Che cosa è giusto e che cosa è ingiusto? Qual è lo Stato migliore? Che cosa conosco e come conosco? Come condurre la ricerca in campo filosofico? Che cos'è la bellezza?... " A queste domande vengono date risposte con le quali il pensiero occidentale si è misurato e confrontato ripetutamente nel corso della sua storia. •

Il Cristianesimo, che nasce dal tronco del monoteismo ebraico, si diffonde e si afferma in tutto il mondo unificato da Roma, producéndo in ogni campo della vita sociale e individuale profondi cambiamenti. Anche la filosofia è coinvolta in questo profondo mutamento: radicata in un mondo cristianizzato diviene parte rilevante della nuo~a c~ltura cristiana. Per la sua costruzione si fa largamente ricorso alla filosofia greca, ~' suor. eone.etti, ai suoi metodi, alle sue articolazioni. In tal modo, al centro della riflessione frlosofrca è posto il problema del rapporto tra Filosofia (greca) e Rivelazione (cristiana), tra Ragione , , , , .,. . . . , e Fede. La filosofia medievale elaborerà risposte che puntano all'eq~ilibrio alJ'armoni~ tra Ragione e Fede, ma saranno presenti anche posizioni che ter:n::itrz~erarnQ laseparazron~ tra Ragione e Fede, tra Filosofia e Teologia: in entrambi i casi rl prrma~o:_della Fede non ~ in discussione. Questi temi e queste preoccupazioni, nello stesso pen9d1o, sono presenti anche nel pensiero islamico ed ebraico. f :

.e



L'"Autunno del Medioevo" segna anche la crisi della filosfia cristia11a',!:9~~Levale! cap~­ ce, però, di elaborare concezioni e tesi che daranno frutti .nella cu 1lt.u_r~·-r nella -frlosofra i . '."~''n

.. ·:

··"

/eprincipàli divin,ità greche.

ANTOLOGIA TESTO

I

GLI

INIZI DELLA F I L O S O F I A - - - - - - - - - - -

TALETE

La prima storia della filosofia è stata scritta da Aristotele, filosofo del IV secolo a.C. 1 a cui dobbiamo la conoscenza dei caratteri costitutivi che la filosofia avrebbe assunto ad opera dei pensatori ionici. La ricostruzione aristotelica condiziona ancora oggi, anche per la carenza di testi di quegli autori, la nostra conoscenza e valutazione dei più antichi pensatori greci. Nei brani qui riportati (tratti dalla Metafisica e dal De Anima) Aristotele interpreta il pensiero dei primi filosofi dal punto di vista della propria concezione filosofica e dei suoi concetti fondamentali.

piste di L~ttura Nella sua interpretazione Aristotele sostiene che: • per i primi filosofi i princìpi delle cose sono elementi materiali; •tali princìpi o elementi sono permanenti: da essi tutti gli esseri derivano e in essi si risolvono; •Talete pone l'acqua come principio; •Talete, come già Omero, riteneva che l'acqua avesse natura "divina".

La maggior parte di coloro che per primi filosofarono ritennero che i soli princìpil di tutte le cose fossero quelli di natura materiale; [1) infatti ciò (la materia) da cui tutte le cose hanno l'essere, da cui originariamente derivano e in cui alla fine si esauriscono (mentre la sostanza 2 rimane pur cambiando nelle sue qualità), questo essi dicono che è l'elemento, questo il principio delle cose e perciò ritengono che niente si distrugge, poiché tale sostanza si conserva sempre [. .. ]. Ci dev'essere una qualche sostanza, o una o più d'una, da cui derivano tutte le altre cose, mentre essa rimane immutata. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l'acqua (e perciò sosteneva che anche la terra galleggia sull'acqua); egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questo e di questo vive (e ciò da cui tutte le cose derivano è il loro principio). Di qui. dunque, egli ha ricavato tale supposizione, (2) dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida e l'acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi, molto anteriori all'attuale generazione e che per primi trattarono degli dèi, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti, posero Oceano e Teti come autori della generazione [3] [delle cose] [.. .].

QJ

Per i primi filosofi i princìpi di tutte le cose sono materiali e si identificano con gli elementi (come l'acqua o l'aria). Secondo Aristotele l'arché era rappresentato da un elemento (stoichéion) materiale da. cui derivavano tutte le cose e in cui tutto si risolveva, ritornava. L'elemento-principio si trasforma, assume diverse forme, ma resta sempre identico a se stesso. Le cose si generano e si corrompono, ma, pur nei cambiamento, il principio resta sempre identico a se. L'acqua può diventare umidità, nuvola, pioggia, nutrimento delle cose, ma la sua natura resta sempre identica. Nulla si genera e nulla si distrugge, perché il principio è sempre e assume forme diverse: al di sotto dei cambiamenti permane identico a sé.

1. L'arché. 2. I termini di sostanza e di qualità sono aristotelici: sostanza è ciò che nelle cose permane, le qualità (o "accidenti") sono gli aspetti mutevoli che la sostanza assume, di volta in volta, nelle varie cose.

I]]

Talete afferma che l'acqua è l'elemento da cui tutte le cose derivano e traggono l'esistenza. Innanzitutto è da mettere in evidenza che vengono fornite ragioni che spiegano perché l'acqua sia stata posta come principio. Si tratta di un carattere specifico e fondamentale della filosofia: essa dà motivazioni, fornisce ragioni delle tesi che sostiene. In secondo luogo si deve notare che le spiegazioni riportate, sia pure in via ipotetica (Aristotele dice "forse"), sono di tipo empirico, frutto di osservazioni del mondo naturale.

0

A proposito del ruolo svolto da Oceano e Teti, Aristotele si richiama a Omero, come uno degli "antichissimi". Questi avevano le stesse idee sulla

lA NASCITA-DEL z.6aos·

40

Alcuni sostengono che [l'anima] è mescolata al tutto e di qui forse Talete suppose che tutte le cose sono piene di dèi. [4) [. .. ] E pare che anche Talete, a quanto ricordano, abbia ritenuto che l'anima sia qualcosa che è in grado di muovere, se ha detto che la pietra [màgnesia e cioè la calamita] è dotata di anima in quanto muove il ferro. da Aristotele, Metafisica, l, 983b (DK 11 A 12); De Anima, 411a (DK 11 A 22)

natura che avevano anche i "filosofi". Ciò che li differenzia è il ricorso a personaggi divini e al racconto, mentre i filosofi indicano come prindpi degli elementi materiali, sulla base di considerazioni fisiche. Così Aristotele tende a differenziare il mito dal l6gos.

0

Collegando l'acqua, principio di tutto e gene-

ratrice di vita, e la presenza di dèi in ogni cosa, si è detto che l'acqua poteva essere considerata un elemento divino. L'anima qui è intesa come realtà capace di muovere, fonte di vita, avente natura divina: insieme principio naturale di vita e realtà divina. Questa "doppia" natura dell'anima si separerà e si intreccerà in vari modi nei filosofi successivi.

Prove di Verifica - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - . _

C!J

In questo passo sono nominate alcune delle parole fondamentali della filosofia (escludendo sostanza e accidenti, che sono di Aristotele). Ricava dal testo il loro significato e la loro definizione: • Arché .............................................................................................................................................. .

•Anima ....................................................................................................-......................................... . •Elemento ......................................................................................................................................... .

..........................................................................................................................................................

(I] Aristotele afferma che:

V

F

a. bisogna far iniziare la filosofia dagl_i antichi teologi b. Talete ha sostenuto che l'acqua è il principio delle cose perché la terra poggia proprio sull'acqua c. I 'osservazione pOtrebbe aver consentito a Talete di affermare l'acqua come principio d. il principio materiale delle cose e l'elemento primordiale coincidono e. ciò da cui le cose hanno origine è anche ciò a cui le cose ritornano corrompendosi f. non vi è corruzione delle cose perché il principio è eterno g. l'ess~re delle cose viene dato dal principio

o

o

@J

o o o o o o o o o o o o

"Nulla si crea e nulla si distrugge".

Come si giustifica questa affermazione in rapporto alle tesi dei primi filosofi?

TESTO

2

, L'APEIRON - - - - - - - - - - - - - -

ANASSIMANDRO

Il brano è una "testimonianza" su Anassimandro resa in un commentario di Simplicio alla Fisica di Aristotele, scritto intorno al 530 d.C. (quindi circa mille anni dopo il periodo in cui si ritiene sia vissuto Anassimandro). Dopo avere indicato la dottrina del/'arché del filosofo (e sottolineato che sarebbe stato proprio Anassimandro a designare per primo col termine di arché ciò da cui derivano le trasformazioni), Simplicio espone le ragioni che - a suo parere - possono avere indotto Anassimandro a ritenere che non un particolare elemento materiale (acqua, aria, ecc.) ma /'infinito o illimitato (apeiron) fosse ciò da cui tutti gli esseri derivano.

lA NASCITA DEL LOGOS

41

piste di Lettura Secondo Simplicio, Anassimandro avrebbe affermato che: • il principio è uno, in movimento, illimitato; • da esso hanno origine, per distacco, tutti gli altri esseri, a cominciare dai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), ciascuno dei quali non costituisce, quindi, I' arché.

Tra quanti affermano che fil principio] è uno, [1] in movimento e infinito, Anassimandro di Mileto, figlio di Prassiade, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri [2] è l'infinito, avendo introdotto per primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l'acqua né altro dei cosiddetti elementi, [3] ma un'altra natura infinita, dalla quale provengono tutti i cieli e i mondi che in essi esistono. [.. .] È chiaro che, avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne giusto non porne nessuno come sostrato, [4] ma qualcos'altro oltre questi. Seeondo lui, quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito all'alterazione dell'elemento, ma per distacco dei contrari [dall'infinito] a causa dell'eterno movimento. [5] da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 in DK 12 A 9

l2!IJ Il principio (arché) è innanzitutto uno: quella di Anassimandro è una concezione monistica (da m6nos, che vuol dire unico, solo), anche se, si è obiettato, la presenza del finito, che ha origine e ritorna nell'uno, potrebbe far pensare a una concezione dualistica basata sulla contrapposizione di infinito e finito. In secondo luogo è in movimento, è eterna potenza generatrice. In terzo luogo è illimitato, cioè non ha limite, poiché nulla sussiste al di fuori di esso. Proprio il termine "illimitato" rende meglio di quello di "infinito" l'idea del tutto che ogni cosa abbraccia e in sé comprende: ciò che nasce dal tutto, in esso ritorna con un processo circolare.

ITJ

Apeiron è ciò che non ha limite (da a privativo e péras, limite, fine). Ogni natura finita (limitata) può derivare solo da ciò che non è finito o limitato (cioè è in-finito, il-limitato). Ogni altra cosa

TESTO

3

viene quindi ricondotta all' apeiron.

W

Ognuno dei quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco) è limitato dagli altri, quindi non può essere l'arché. Dall'apeiron (proseguirà Simplicio) si distaccano anzitutto i contrari (il caldo e il freddo, il secco e l'umido), dal cui movimento hanno luogo tutti gli altri esseri.

~ Sostrato è, per Aristotele (e per Simplicio), "ciò che sta sotto" e fa da "fondamento" alle cose. [}] Se I'arché non si altera (come avviene a ogni altro essere), allora è altro dagli esseri e dagli elementi e questi possono nascere solo per distacco da ciò che non si altera mai. L'essere totalmente altro ha favorito una lettura di tipo religioso, o comunque una reinterpretazione in senso dualistico del modello illimitato/limitato.

INGIUSTIZIA E NECESSITÀ - - - - - - - - - ANASSIMANDRO

li brano è un frammento de/l'opera Della natura di Anassimaridro, andata perduta. Tale frammento costituisce il primo testo della filosofia occidentale. Straordinariamente suggestivo ed oscuro, ha suscitato un vastissimo dibattito, volto non solo a discuterne /'autenticità, ma anche a interpretarne il significato. Le interpretazioni che sono state fornite sono numerose, come dimostrano gli esempi riportati in questo capitolo. piste di Lettura Nel frammento Anassimandro enuncia due princìpi di carattere generale: •là dove gli esseri hanno origine (e cioè nell' apeiron, infinito o illimitato) vengono anche a dissolversi secondo una legge di necessità; •ciò è spiegabile col fatto che essi devono pagare con la pena e l'espiazione l'ingiustizia commessa.

42

LA NASCITA DEL l.OGOS

[Anassimandro... ha affermato ... che] "principio degli esseri1 è l'infinito. [1] Da dove infatti gli esseri traggono la loro origine, [2] ivi hanno anche la loro distruzione secondo necessità: [3] poiché essi ~ no l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia2 [4] secondo l'ordine del tempo"3 e si è espresso, così dicendo, in termini alquanto poetici.

1. Cioè "le cose che.sono". 2. Da: a-dikia, "non-giustizia'', mancanza di giustizia (dfke). 3. Cioè secondo la successione nel tempo.

da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 in DK 12 B 1

QJ

Anassimandro enuncia innanzitutto la sua tesi dell'arché come étpeiron, come infinito o illimitato.

@J Viene specificato che il principio della. generazione è anche quello della distruzione di ogni essere.

[!] Fondamentale è anche l'assunto che il processo del nascere e del morire avvenga secondo la legge della necessità, configurandosi come ciò che non può non essere.

0

L'affermazione secondo cui gli esseri commettono ingiustizia "l'uno sull'altro" apre uno dei problemi-chiave dell'interpretazione del brano. Si è detto, ad esempio, che tale ingiustizia (che determina poi la necessaria pena ed espiazione di ciascun essere, costretto a dissolversi nell'étpeiron da cui ha avuto origine per distacco) nasce dal fatto che i contrari cercano di sopraffarsi l'un l'altro. In realtà le interpretazioni sono svariatissime; ricordiamo le più note. • L'interpretazione metafisica: per essa la "prima parola della filosofia" investe immediatamente il problema del Tutto, cioè di un principio assoluto ed eterno che tutto avvolge e tutto regola e governa (appartenente, quindi, ad un piano superiore a quello della realtà fisica, "meta-fisi-

co''.). Secondo alcuni, l'ingiustizia potrebbe esprimere in primo luogo una specie di principio di individuazione (per il quale i singoli esseri si differenziano rispetto al Tutto) e, in secondo luogo, una specie di "lotta per la vita" sostenuta da ciascun essere contro gli altri per sopravvivere. In tal caso, si è osservato, l'étpeiron è un sostantivo, in quanto è inteso come il Tutto, l'Intero, cioè come il soggetto assoluto, generatore del mondo. • L'interpretazione naturalistica: essa guarda ali'étpeiron come ad un principio generatore materiale; in tal caso, è stato osservato, étpeiron è un aggettivo, che designa il carattere "illimitato" dell'arché. • L'interpretazione etico-politica: secondo questa l'uso di espressioni provenienti dalla sfera giuridico-sociale, come "pagare la pena", "espiare", "ingiustizia", implicherebbe un riferimento ai conflitti sociali e politici che avevano luogo allora nella polis. Tale interpretazione ritiene, quindi, che il brano confermi la tendenza dei primi filosofi a tratteggiare la vicenda cosmica sul modello di quella umana e sociale. • L'interpretazione religiosa: per essa dovrebbero valere soprattutto i concetti di pena e di espiazione, nonché quelli di Chr6nos, il Tempo, e di Ananke, la Necessità, cioè di due divinità orfiche.

~ Confronta il frammento di Anassimandro con la precedente testimonianza di Simplicio ed evidenzia affermazioni comuni e differenze. [3j Rintraccia tutti

i termini dei due testi relativi ali' apeiron e prova a formulare una definizione.

l2J

Sulla base dei due testi riportati, scegli quella, tra le quattro interpretazioni formulate nella nota n. 4, che ti sembra più credibile e motiva la tua scelta.

[Il Individua a quale dei quattro tipi di interpretazione appartiene la seguente affermazione di Emanuele Severino: «L'apeiron esprime l'intero, il Tutto, che, "proprio in quanto non si lascia chiudere da alcuna differenza, tutto può invadere e tutto penetrare".»

TESTO

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L'ARIA COME PRINCIPIO - - - - - - - - - - - .ANASSIMENE

Secondo la testimonianza di' Simplicio (530 d.C.), Anassimene individua l'aria, una realtà materiale e determinata, come arché, e fornisce una spiegazione meccanica dei processi della realtà, descritti come il prodotto di un movimento eterno di rarefazione e condensazione dell'aria.

lA NASCITA DEL LOGOS

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piste di Lettura Secondo Anassimene: • l'arché è l'aria, cioè una realtà infinita;

• l'aria genera le cose mediante un processo di rarefazione e condensazione; • tale movimento generativo è eterno.

Anassiinene di Mileto, figlio di Euristrato, fu amico di Anassimandro. Anch'egli dice, come afferma costui, che una e infinita è la sostanza che fa da sostrato, ma non indeterminata come quella, bensì determinata la chiama aria. [1] L'arial si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. [2] Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, diviene acqua e poi terra e poi pietre e il resto, [3] poi, si genera da queste. Anch'egli ritiene eterno il movimento [4] attraverso il quale avviene la trasformazione.

1. Aér, l'aria in senso meteorologico.

da Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 26 in DK 13 A 5

QJ

L'aria è principio materiale. È determinato, precisa subito Simplicio, non indeterminato. Eppure, per la sua plasticità e per la funzione di principio generatore dell'universo, favorirà interpretazioni di tipo metafisico e non solo scientifico.

~ Rarefazione e condensazione determinano il movimento fondamentale, che è di tipo "meccanico". Questo è, probabilmente, il contributo più rilevante di Anassimene allo sviluppo del pensiero "naturalistico" della Ionia, in quanto egli .attribuisce a due processi naturali, a un gioco meccanico di forze, la ragione dell'infinita produzione delle cose. L'arché, l'aria, più che proporsi come il Tutto, l'illimitato contenente in sé i contrari (come l'apeiron anassimandreo), produce indefinitamente le cose attraverso il gioco di quelle due forze contrarie.

W

Tale descrizione sembra rafforzare l'interpretazione naturalistica della concezione dell' arché. Le trasformazioni sono tutte effetto del principio dell'aria e del meccanismo del movimento. Malgrado la

TESTO

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sua "ingenuità" ed elementarità (aria + condensazione e rarefazione), il modello di spiegazione elaborato da Anassimene mostra tre caratteri essenziali: a. la presenza di un principio materiale; b. l'astrattezza del modello meccanico di interazione fra due forze contrastanti; c. la materialità degli effetti di quella interazione, cioè il fatto che tutte le cose vengano effettivamente "prodotte" da quel gioco materiale e meccanico. Ebbene, l'esistenza di un principio (di una realtà materiale) e di un movimento, di un gioco meccanico di forze, costituirà la base di non poche teorie naturalistiche, nell'antichità classica come nell'era moderna.

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Ad Anassimene viene qui attribuito un movimento ciclico di creazione/morte degli esseri simile a quello di Anassimandro. In Anassimene, però, il principio non contiene in sé i contrari (come l'apeiron anassimandreo), ma li produce mediante un procedimento meccanico.

IL SOFFIO ABBRACCIA IL MONDO

ANASSIMENE

Nel frammento, tratto da Aezio (IV sec. d.C.), Anassimene identifica l'aria sia in senso meteorologico che come il soffio vitale del respiro e dell'anima umana.

Piste di Lettura Secondo Anassimene: •l'aria è l'arché da cui tutto ha origine ed in cui tutto si consuma; •il soffio vitale (o respiro) dell'anima ha la stessa funzione dell'aria.

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lA NASCITA DEL LOCiOS

[Ariassimene di Mileto afferma che] come la nostra anima, [1] che è aria, ci sostiene e· ci governa, così il soffio e l'aria abbracciano il mondo intero. [2] da Aezio, Placita, I, 3, 4 in DK 13 B2

[!] L'anima o psyché, già da Omero è considerata come principio o soffio vitale. (I] Anassimene sembra estendere il significato del termine aér dall'ambito "meteorologico" a quello biologico del "respiro". Ma qui !'"abbracciare il mondo" attribuito all'aria-soffio può essere interpretato (come hanno fatto taluni studiosi) anche in

senso metafisico. Non potremo comunque mai sottolineare abbastanza il fatto che ogni interpretazione (anche quest'ultima) deve essere sempre assunta criticamente, sapendo cioè che è difficile dire che cosa - nel testo - sia · da attribuire ad Anassimene e che cosa ad Aezio, il quale è vissuto molti secoli dopo, in un clima culturale attraversato da forti tensioni religiose.

Prove di Verifica

1±1 Descrivi il significato (o i significati) dei termini: aria - rarefazione - condensazione - anima

[!] Metti a confronto gli aspetti naturalistici e quelli non-naturalistici delle concezioni dell' arché dei tre filosofi di Mileto: Talete; Anassimandro e Anassimene. In quale dei tre autori prevalgono gli aspetti naturalistici e in quale gli altri? Scrivi per ciascun filosofo quali aspetti ti sembrano caratterizzanti.

TESTO

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PRINCIPIO È IL NUMERO - - - - - - - - - - I PITAGORICI

Anche per la dottrina dei Pitagorici la nostra fonte principale è costituita dalla Metafisica di Aristotele. Questi attribuisce la dottrina del numero non a una singola personalità storica, ma ad un gruppo di sapienti ("i cosiddetti Pitagorici") che costituivano, allo stesso tempo, un'équipe di ricerca e una comunità etico-religiosa ed erano ritenuti, per questo, portatori di una visione comune. Piste di Lettura Aristotele afferma che i Pitagorici: . • avevano ritenuto che le proprietà delle cose fossero riducibili a numeri; •consideravano pari e dispari elementi fondamentali del numero e, quindi, del mondo; • hanno successivamente sostenuto che i princìpi sono costituiti da 1O coppie oppositive.

Al tempo di costoro, 1 e prima di costoro i cosiddetti Pitagorici si dedicarono alle matematiche e per primi le fecero progredire. Dediti a tale studio, credettero che i princìpi delle matematiche fossero anche i princìpi di tutte le cose che sono. [1] Ora, poiché i princìpi delle matematiche sono i numeri e nei numeri essi credevano di tro-

[!] Secondo l'aritmo-geometria pitagorica il numero ha innanzitutto la caratteristica di coincidere con una determinata figura geometrica (uno=punto, due= linea, ecc.) e questa, a sua volta, tende a coincidere col} determinati tipi di cose. Relazioni matematiche (ad esempio fra le note di un accordo musicale) e struttura delle cose rimandavano a una realtà immanente, costitutiva: il numero, appunto.

1. Leucippo e Democrito, filosofi greci fondatori del primo atomismo greco, vissuti rispettivamente nella seconda metà del V secolo a.e. e fra il 460 e il 370 a.e.

Ma non solo le cose materiali erano riconducibili a numeri. Un simbolo numerico veniva attribuito anche alle azioni umane e ai valori a cui esse si richiamavano: ad esempio, sembra che alla giustizia si facesse corrispondere il numero 4 o numero quadrato, in virtù dei caratteri di coerenza, regolarità e "reciprocità" che sono propri di quel numero e della giustizia.

LA NASCITA DEL L6GOS

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vare, più che nel fuoco e nella terra e nell'acqua, somiglianza con le cose che sono e divengono, [2] [...] e poiché, inoltre, vedevano espresse dai numeri le proprietà e i rapporti degli accordi armonici, [3] poiché, insomma, ogni cosa nella natura appariva. loro simile ai numeri e i numeri apparivano primi tra tutto ciò che è nella natura, pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che sono, e che l'intero mondo fosse armonia e numero. Anche costoro sembrano ritenere che il numero sia principio [. ..] non solo come materia degli esseri, ma anche come proprietà delle cose che sono e condizione delle loro modificazioni. Ritenevano elementi del numero il pari e il dispari, [4] l'uno pensato come infinito, l'altro come limitato; l'unità la consideravano derivante da entrambi [5] e dall'unità pensavano che nascesse il numero e che nei numeri consistesse, come ho detto, tutto il mondo. Altri Pitagorici dicevano che i princìpi sono dieci, [6] quelli che secondo la serie son detti: limite e illimitato, dispari e pari, uno e molteplice, destro e sinistro, maschio e femmina; fermo e mosso, dritto e curvo, luce e tenebre, buono e cattivo, quadrato e rettangolare. da Aristotele, Metafisica, I, 985b e segg., in DK 58 B 4 e B 5

Cl.I

Qui Aristotele tende a spiegare l'identificazione numero-cose attuata dai Pitagorici con la somiglianza fra proprietà aritmetiche e proprietà delle cose e, soprattutto, con l'osseroazione empirica della regolarità di svolgimento di determinati tipi di eventi.

~ Aristotele si richiama alle relazioni matematiche individuabili fra i suoni (come anche fra suono e lunghezza delle corde di una lira, tali per cui, ad esempio, la nota più grave viene emessa dalla corda più lunga e viceversa). Ai Pitagorici è stata attribuita la scoperta degli accordi di ottava (1:2), quinta (2:3) e quarta (3:4), attraverso esperimenti acustici.

[Il L'illimitato è il pari. Il limitato è il dispari. I Pitagorici furono forse i primi a scoprire la distinzione concettuale fra pari e dispari, grazie anche al-

la rappresentazione dei numeri come punti, che permise loro di collegare l'infinito al numero pari e il finito al dispari. Il dispari, cioè il finito, il limite, è principio positivo: è il bene. Come vedremo, sarà questa l'idea largamente prevalente nella cultura filosofica e scientifica della Grecia, il modello in base al quale l'universo stesso, come totalità in sé compiuta e perfetta, verrà concepito come limitato.

[Il I Pitagorici affermavano, quindi, che l'unità è pari e dispari.

m

Forse questa tavola delle 10 opposizioni, che Aristotele stesso attribuisce ai successori del gruppo originario dei Pitagorici, è opera di Filolao, vissuto nella seconda metà del 400 a.e. Come si può vedere, alcune delle 10 coppie oppositive esprimono un giudizio di valore (positivo contro negativo).

Prove di Verifica

WDefinisci il significato che i seguenti termini assumono nel pensiero dei Pitagorici: • • •. • •

numero .............................................................................•............................................................. proprietà del numero ......................•............................................................................................... accordo armonico ...............................................................,.......................................................... pari .......................................................................................................:..................... :.................. . dispari ............................................................................................................................................

[j] Ricostruisci, nelle 1O coppie costituenti i princìpi, quali siano i versanti positivi e quali i negativi delle coppie stesse. Rifletti su alcune di queste attribuzioni pitagoriche di "positività" e "negatività".

W

Completa il seguente testo. I Pitagorici ritenevano i numeri i veri princìpi di tutte le cose perché ... (max. 3 righe) Per loro gli elementi dei numeri erano anche ... (max 3 righe)

TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE SENOFANE La critica dell'antropomorfismo religioso Del poeta Senofane, nato probabilmente intorno al 570 a.e., originario dell'Asia Minore (Colofone) ma impegnato a lungo in viaggi nell'Occidente greco ed italico, si è a lungo parlato come del precursore della 11scuola eleatica" (dalla città greca di Elea, al confine fra le attuali Basilicata e Campania). Alcuni, invece, sostengono che sarebbe più appropriato collocarlo tra i pensatori ionici. Il poeta ionico è importante, nella storia della filosofia, anzitutto per la critica rivolta all'antropomorfismo della religione olimpica, cioè alla rappresentazione della divinità in forma umana, con tutti i vizi e le passioni degli uomini. Senofane afferma che anche i buoi, i cavalli e i leoni, se sapessero disegnare, rappresenterebbero gli dèi simili a loro stessi, cioè come buoi, cavalli oleoni. E gli Etiopi - aggiunge - raffigurano i loro dèi neri e col naso camuso, mentre i Traci li rappresentano con gli occhi azzurri e i capelli rossi. In realtà c'è un solo dio, afferma Senofane. Egli è un essere unico, mai generato, immortale e immobile, che tutto intero vede, pensa, ode e che riesce a scuotere, a produrre e a governare ogni cosa senza fatica, con la sola forza della sua mente. Tale idea del divino (sia pure appena abbozzata, nei frammenti a noi giunti) sembra avere influito non tanto sulle idee religiose, quanto sulla cultura filosofica dell'epoca. Aristotele ritiene questo poeta, in quanto assertore della tesi dell'unità del reale, l'iniziatore della filosofia eleatica. Questa, però, è solo una congettura. Evidente è invece l'impegno critico di Senofane contro la cultura religiosa tradizionale, ragione per cui egli appare - ad alcuni studiosi - vicino non a Parmenide (fondatore della scuola di Elea) ma ai filosofi di Mileto, per i quali il divino non era costituito da questo o quel dio che si rivelava agli uomini (come si pretendeva facessero gli dèi olimpici), ma si identificava con la natura stessa e il principio da cui si genera.

Statua in stile tardoarcaico di Demetra, dea della fertilità, rinvenuta ne/l'entroterra siculo.

TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

ERACLITO E PARMENIDE RAGIONE E VERITÀ Eraclito e Parmenide vengono tradizionalmente presentati come i fondatori e i più eminenti rappresentanti di due opposte concezioni filosofiche, molto importanti per la storia futura del pensiero occidentale. Secondo questa impostazione, alla concezione eraclitea, che definisce la realtà in termini di divenire, si opporrebbe quella parmenidea, che la definisce in termini di essere. Per quanto questa contrapposizione non possa essere negata, insistere esclusivamente su di essa produrrebbe una visione parziale delle dottrine dei due filosofi. In realtà, il loro di stile di pensiero e di ricerca presenta diverse e significative affinità.· Entrambi, innanzitutto, assegnano al /6gos, alla ragione, la possibilità e il compito di cercare, trovare e dire la verità. In tal modo viene posto un legame fortissimo tra il /6gos e la realtà: solo il pensiero rivela e fa cogliere la realtà più profonda. La realtà è razionale e le regole della ricerca sono le regole della ragione. Non è, infatti, la conoscenza sensibile, o l'opinione (d6xa) fondata su di essa, a farci conoscere la realtà. Se vogliamo riuscirvi dobbiamo abbandonare quella prospettiva e affidarci alla sola ragione: la realtà si trova oltre l'apparenza; bisogna quindi abbandonare l'apparenza, affermandone il carattere ingannevole. In tal modo, venuto meno il riferimento alla dimensione empirica e alla conoscenza sensibile, la verità tende a perdere quel carattere controllabile ed empiricamente verificabile attribuitole dai pensatori milesii. Eraclito e Parmenide condividono, inoltre, una concezione e una pratica elitarie della ricerca della vei-ità, che non ha per loro il carattere "democratico" che aveva per i pensatori ionici. Per entrambi, infatti, solo pochi conoscono e possono seguire la via della verità, che ai più è preclusa perché - come dice Eraclito - essi credono di essere desti ma dormono. Infine, un'ulteriore affinità fra i due filosofi può essere ritrovata nel linguaggio da essi utilizzato, che rimanda ai modi, alle immagini e allo stile propri del linguaggio mitico od oracolare, configurando un modo di esprimersi enigmatico, che solo pochi sono in grado di interpretare: essi dimostrano così, anèhe per questo aspetto, di avere in parte le proprie radici in una cultura sapienziale.

ERACLITO I:"oscuro" Eraclito visse a Efeso (fiorente città dell'Asia Minore) tra la metà del VI e i primi decenni del V secolo. Di lui sappiamo che era di estrazione e orientamenti aristocratici e che, pertanto, rimase ai margini della vita politica della città, governata dai democratici. Dei suoi scritti si conoscono numerosi frammenti, composti in un linguaggio oscuro, enigmatico e suggestivo, che sembra riprendere lo stile oracolare: un tipo di testo da cui traspare la convinzione dell'autore che la verità sia per pochi. Anche il tentativo, condotto dagli interpreti, di tradurre in affermazioni chiare e comprensibili i frammenti eraclitei, non ne ha dissolto quell'ambiguità di fondo e quella difficoltà ad una piena comprensione che ancora valgono ad Eraclito l'appellativo di "oscuro". I "desti" e i "dormienti" La ricerca eraclitea della verità è solitaria e condotta.guardando soprattutto a se stesso ("lo ho guardato in me stesso", afferma), si pone come un modo di vivere e di atteggiarsi radicalmente diverso da quello degli uomini comuni. Questi si fidano solo delle apparenze dei dati sensibili e sono incapaci di ragionare: sembrano dei sordi che, pur ascoltando, non riescono a comprendere e, pur presenti, sono di fatto assenti.

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TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

Credono di esser desti, ma in realtà dormono, poiché rimane loro nascosto ciò che fanno da svegli così come non ricordano ciò che fanno quando dormono. La ricerca di Eraclito è ben diversa da quella condotta dai filosofi di Mileto e dai Pitagorici, che egli critica aspramente. Eraclito considera Pitagora un ingannatore e lo rimprovera per il suo enciclopedismo scientifico (polimathia), in quanto il "saper molto" non insegna a pensare rettamente. Il filosofo di Efeso non cerca il fondamen-: to e la dimensione unitaria della realtà attraverso indagini "scientifiche", siano esse di tipo naturalistico (come per i pensatori di Mileto) o matematico-geometrico (come per i Pitagorici). Tali indagini, per lui, poggiano su un tipo di sapere che è mera erudizione, una "multiscienza" con cui si accumulano nozioni su nozioni senza capire quale sia il loro senso ultimo. Eraclito mira invece a conoscere "l'intima natura delle cose, che ama nascondersi". Solo il saggio va oltre il "senso comune" e la "multiscienza" e riesce a cogliere il 16gos, cioè la legge nascosta che intreccia in un'unica, bellissima e invisibile armonia i mille aspetti contraddittori della realtà, come un "opposto concorde". Egli, perciò, si sforza di trovare, al di là delle contraddizioni, l'armonia e la legge razionale unitaria della realtà.

"Tutto scorre" Per Eraclito la vita è innanzitutto mutamento incessante, un fluire continuo, analogo a quello delle acque che scorrono sempre diverse per coloro che s'immergono in un fiume, tanto che non potranno mai bagnarsi due volte nello stesso fiume. "Tutto scorre" (panta rél), afferma Eraclito. Per questa celebre affermazione, la tradizione antica lo ha identificato come il filosofo del divenire. Tale interpretazione viene considerata tuttora valida da diversi studiosi, mentre altri, ritenendola parziale e limitativa rispetto al reale pensiero del filosofo, la riferiscono piuttosto ai suoi discepoli. Alcuni hanno sottolineato che quel motto ("tutto scorre") non si trova mai nei frammenti autentici di Eraclito. Ad Eraclito è stata inoltre attribuita l'idea che la trasformazione perenne delle cose sia determinata, sul piano cosmico, da una specie di fuoco, cioè da un principio materiale ("fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura'~ da cui tutto deriva e procede, per condensazione e rarefazione, ed in cui tutto si risolve. Non tutti gli interpreti, tuttavia, sono propensi a riconoscere ad Eraclito l'elaborazione di una cosmogonia basata sul principio del fuoco; su questo argomento le fonti antiche non consentono di distinguere con certezza ciò che è eracliteo e ciò che proviene da interpreti e dottrine posteriori, come lo Stoicismo di età ellenistica.

La guerra fra i contrari Per Eraclito il divenire non è l'ultima parola sulla realtà, perché per lui ogni divenire avviene tra opposti e genera permanente tensione e conflitto: "la guerra è comune" e "tutto avviene secondo contesa e necessità", afferma il filosofo. "P6/emos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re", poiché distrugge e trasforma ogni realtà, cancella e crea, nello stesso tempo, ogni cosa. L'opposizione è una necessità, in quanto è condizione del divenire universale, che è, appunto, un continuo passa"' re da un contrario all'altro. Ciascun aspetto della realtà si oppone all'altro, ma si sviluppa anche dall'altro. Ciò che è freddo diviene caldo e ciò che è caldo si raffredda. Lo stesso avviene per l'umido e il secco, per il giorno e la notte, per il giovane e il vecchio e per gli altri infiniti, contraddittori aspetti della realtà. Nel descrivere la natura contraddittoria del reale Eraclito si avvale anche di termini ambigui, aventi cioè significati diversi: ad esempio "vita (bfos) è il nome dell'arco (bi6s), ma opera la morte". Per Eraclito, la contraddizione si pone non solo fra il nome (la vita) e l'oggetto (l'arco portatore di morte), ma anche nella cosa stessa, di cui il nome, in una prospettiva di pensiero arcaica, esprime l'intima natura. Ecco allora che anche il linguaggio rivela la contraddizione fra i diversi aspetti della realtà, la tensione e l'armonia fra i contrari: fra vita e morte, fra giovinezza e vecchiaia, fra giorno e notte, ecc. La teoria dei contrari di Eraclito avrà un'eco profonda nel pensiero contemporaneo, .soprattutto nella-filosofia di Hegel, grande pensatore tedesco del XIX secolo.

TRA RAZIONALITÀ E SAPlENZA: ERACLITO E PARMENIDE

Il l6gos Oltre la contesa, però, vi è un livello più profondo di accordo, una armonia nascosta, una superiore unità: l'unità degli opposti. Compito del sapiente è ricercare ta.le armonia, cioè l'unità vivente che lega fra loro i contrari: un 16gos, una ragione profonda, una legge del mondo che unifica i diversi aspetti dell'universo. Ma allora che cos'è il 16gos? Tre sono gli aspetti che lo qualificano. • È la legge che governa la realtà. Come una polis vive e si sviluppa perché è governata dalla legge, lo stesso avviene in ogni altro ambito della realtà. • È la fonte soggettiva della conoscenza vera, lo "strumento" della ricerca di quella legge immanente della realtà. Infatti questo compito non è alla portata della conoscenza sensibile e dell'opinione, che Eraclito chiama "mal caduco" e "gioco da bambini". Solo la ragione, il 16gos, svela la verità a chi la cerca. . • È il discorso della ragione, nel quale si esprime la ricerca della razionalità immanente al la realtà. Quella del filosofo è comunque una ricerca interminabile, perché - dice Eraclito "per quanto tu possa camminare non potresti mai trovare i confini de/l'anima: così profondo è il suo l6gos 11• Il 16gos è per Eraclito l'unità degli opposti; egli parla, in alcuni frammenti, di concordia-discordia, di congiungimento degli opposti: "Intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose"/ e, ancora: ''La stessa cosa è il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti trasformandosi son quelli, e quelli a loro volta, trasformandosi son questi". Anche sulla natura del 16gos le parole del filosofo appaiono oscure, ma dotate di una notevole forza evocativa. Il tono sembra essere quello dell'oracolo, che non enuncia direttamente la verità, ma l'accenna soltanto. A pochi la rivela e fornisce la chiave per comprenderla, ma ai più la maschera e la nasconde. Eraclito ci rammenta che 111/ signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica".

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PARMENIDE

Il· "padre della metafisica occidentale" Poeta e filosofo contemporaneo di Eraclito, Parmenide opera attivamente ad Elea, città della Magna Grecia, tra il VI e il V secolo a.C. Fondatore della "scuola" eleatica, gli si attribuiscono la stesura di una costituzione e una posizione politica vicina ai ceti conservatori. Di lui ci sono pervenuti diciannove frammenti di un lungo poema intitolato Sulla natura. Da molti egli è considerato il "padre della metafisica occidentale", ossia l'iniziatore di una forma di rifle!!sione filosofica volta alla conoscenza dell'"essere in quanto essere", scienza suprema della realtà pensata nella sua assolutezza e generalità.

Il disvelamento della verità La verità viene presentata da Parmenide come ispirazione e rivelazione divina, sulla falsariga del modello oracolare. È una dea, infatti~ a rivelare la verità al filosofo. Nel pro~mio del poema egli descrive il proprio viaggio verso la luce, verso la Verità. Sopra un carro trainato da focose cavalle, viene accompagnato dalle Eliadi (faneiulle figlie del Sole) oltre la porta che divide la Notte dal Giorno, raggiunge e varca le porte di una città, sorvegliata da Dfke (la Giustizia). Il filosofo viene portato alla presenza di una dea, la quale afferma che a condurlo da lei è stato non un destino avverso, mél la legge divina e la giustizia. Essa intende quindi insegnargli ogni cosa: sia la Verità, sia le opinioni dei mortali, delle quali non c'è certezza. Pur nell'oscurità del racconto poetico, nei paradossi che contiene e nella molteplicità delle interpretazioni che ne sono state date, la teoria enunciata da Parmenide è del tutto originale ed esprime una grande forza razionale. La verità - afferma la dea - è raggiungibile solo attraverso la via della ragione (che non si ferma alle molteplici apparenze), distinta da quella dell'opinione. Ancora una volta - come già in Eraclito - la via della ragione è alternativa a quella dei sensi e dell'opinione, ed è l'unica e vera via: quella che conduce all'essere. L'indagine sull'essere va condotta su un piano razionale, basandosi esclusivamente sul pensiero svincolato da ogni riferimento ai dati della conoscenza sensibile~ Il "metodo" seguito da Parmenide in questa ricerca, volta a determinare i caratteri dell'essere, consiste nella esclusione dall'essere di tutto ciò che implica il non-essere: sarebbe infatti contraddittorio affermare, a proposito dell'essere, qualcosa che non è. Parmenide pone per la prima volta la non contraddittorietà, e quindi il principio di non contraddizione, come fondamento del discorso razionale, il solo "vero". Tale discorso, infatti, deve rispondere esclusivamente a un'esigenza di rigore e coerenza che la ragione trova in se stessa, espressa dal criterio logico dell'assenza di contraddizione. Solo la ragione dice che l'essere è e non può non essere. Essa nega, invece, la via che porta al non-essere, poiché il non-essere non è ed è impossibile che sia. Dunque solo la via dell'essere può essere percorsa. In quanto ha posto come oggetto della sua filosofia l'essere, Parmenide è considerato il fondatore dell'ontologia (letteralmente, "scienza di ciò che è"), cioè l'iniziatore del discorso filosofico intorno all'essere. Ma che cos'è l'essere?

TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

L'essere come totalità La ragione vede l'essere come totalità. Dice infatti il filosofo: "le cose tra loro distanti sono per opera della mente saldamente uriite". Ciò significa che le cose attraverso il pensiero vengono concepite solo nella loro totalità, come un tutto che il filosofo chiama Essere. Si tratta di decidere: o si accetta la realtà come appare ai sensi (ad esempio alla vista), disgregata in ùn'infinita varietà di aspetti contraddittori, privi di un legame coerente tra loro; oppure si afferra - col pensiero - l'insieme delle cose come un tutto privo di contraddizioni, cioè come unità compiuta, come totalità. L'essere in se stesso non è dunque scisso e disgregato in un'infinita serie di parti, ma è concepito come assoluta unità.

L'essere come esclusione del non-essere Parmenide procede alla descrizione dell'essere escludendo da esso tutto ciò che implica il non-essere; ·1 1essere, pertanto, è ingenerato, imperituro, immutabile, unico e immobile. L'essere non è generato poiché, in tal caso, dovrebbe nascere dal non-essere, il che è impensabile visto che per la ragione il non-essere nonè e non è possibile che sia. La stessa impensabilità .ha l'idea della morte, cioè del passaggio dall'essere al nonessere, perché l'essere è e non può non essere. Né si può dire che l'essere abbia un passato o un futuro, che cioè sia stato o sarà: esso è in un eterno presente, non soggetto al divenire. Ove dicessimo, infatti, che l'essere "era" o "sarà" cadremmo in contraddizione, perché di ciò che è (l'essere) diremmo che non è più o non è ancora. Non si può affermare neppure che l'essere sia divisibile o che possa avere un di più o un di meno di essere, come sosteneva ad esempio la teoria della condensazione e

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TRA RAZIONAUTÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

.della rarefazione di Anassimene, poiché è tutto "pieno di essere". Né può muoversi, in quanto sarebbe e, nello stesso tempo, non sarebbe più qui o là. Parmenide prova a descrivere l'essere immaginandolo simile a una sfera, in quanto solo tale forma, come luogo dei punti equidistanti dal centro, è espressione della perfezione. Pensiero ed esperienza Parmenide - si è detto - ha legato strettamente e indissolubilmente l'essere e il pensiero/affermando che il pensiero è solo pensiero dell'essere e che l'essere è l'essere del pensiero. Ciò significa, in altre parole, che l'unico oggetto per il pensiero è l'essere e che dell'essere si può dire solo ciò che rivela il pensiero. Alla luce di queste considerazioni, l'esperienza si rivela invece contraddittoria, in quanto descrive il mondo come molteplice e mutevole. Difatti in essa ogni singola cosa appare diversa da tutte le altre: essa è se stessa e, nello stesso tempo, non è tutte le altre. Ogni cosa diviene, cioè nasce, muta e perisce: quindi è e, insieme, non è. In tal modo l'esperienza precipita nella contraddizione poiché porta a riconoscere Una realtà proprio a ciò che non è, ossia al mutamento e alla molteplicità, che la ragione induce invece ad escludere. Di conseguenza, coloro che basano le proprie conoscenze solo sull'esperienza (sulle informa-

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zioni ricavate dalla vista, dall'udito, ecc.) sono incoerenti, sono come "uomini a due teste", che si "agitano qua e là, insensati" e che, parlando di nascita e morte, di movimento e mutamento, pronunciano vuoti nomi, senza cogliere il vero, ma seguendo solo la d6xa (l'opinione).

Logica e ontologia L'esame della concezione parmenidea dell'essere ha messo in luce come alla base di questa vi sia una stretta implicazione tra la dimensione logico-linguistica e la riflessione ontologica. Il concetto parmenideo di essere ha infatti origine dalla trasformazione del verbo essere in sostantivo astratto, ottenuta anteponendogli l'articolo determinativo: in tal modo si ha "l'essere". Il verbo essere ha tuttavia un duplice significato, potendo valere sia come copula in una proposizione ("Socrate è un filosofo, ma non è un musico"), allorché attribuisce o nega ad un soggetto una certa caratteristica, sia come predicato di esistenza ("Socrate è", nel senso di "esiste"). In Parmenide, invece, al verbo essere viene attribuito sempre un valore esistenziale: in tal modo la proposizione "Socrate non è musico" sarebbe logicamente incompatibile con l'affermazione "Socrate è". La mancata distinzione, sul piano logico-linguistico, fra i due usi del verbo essere (come copula e come predicato), si riflette sulla concezione filosofica della realtà, cioè sul piano ontologico. Essa, infatti, conduce Parmenide a conclusioni estreme, paradossali: la molteplicità delle cose (per cui una cosa non è l'altra) e il loro divenire (per cui una cosa non è più quella di prima) vengono a configurarsi come irrealtà e non senso e l'essere unico ed immutabile ad affermarsi come l'unica realtà pensabile dalla ragione, l'unica concepibile e di cui si possa dire davvero che è.

Il mondo del divenire Il tema della molteplicità e del divenire, tuttavia, non è con ciò liquidato dal filosofo di Elea. Alcuni frammenti del poema parmenideo rivelano l'esistenz.a di una seconda parte dell'opera, in cui si parla del mondo del divenire e se ne propone una rappresentazione. Questi frammenti hanno suseitato ampie discussioni tra gli studiosi e gli interpreti. Ci si è chiesti, innanzitutto, per quale ragione Parmenide avrebbe trattato del mondo del divenire, offrendone addirittura una rappresentazione, dal momento che esso è estraneo al moRdo della verità e dell'essere, anzi è il mondo degli "uomini dalla doppia testa", che mescolano essere e non-essere affermando che le cose sono e non sono, in quanto divengon9. · Chi ha sollevato questo interrogativo si è quindi domandato come sia possibile riconoscere positività alla d6xa di fronte all'assoluto divieto parmenideo di accogliere percorsi conoscitivi che - in qualche misura - tonducaiio a reintrodurre il non-es., sere in una sfera - quella d_ella verità - che riguarda esclusivamente l'essere. In tale prospettiva, la seconda parte del poema avrebbe un significato solo negativo, costituendo una rassegna critica delle filosofie della· natura elaborate dai filosofi ionici e dai Pitagorici. Altri hanno invece interpretato questa parte del testo parmenideo in chiave positiva, sostenendo che bisogna distinguere due modi di intendere l'opinione (d6xa). Nella prima parte del poema viene condannata l'opinione dei mortali dalla doppia testa, che allontana dalla ricerca della verità e dell'essere. La seconda parte si riferisce, invece, ad una opinione successiva alla rivelazione della dea e formulata alla luce di tale rivelazione; essa si configurerebbe come una riconsiderazione dei fenomeni nell'ottica della verità e dell'essere, assolvendo il compito di definire le leggi del mondo dell'apparenza, sia pure come leggi del verosimile e non del vero.

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ZENONE DI ELEA

L8 difesa di Parmenide Zenone, discepolo di Parmenide, nato ad Elea intorno al 490 a.C., si assume il compito di difendere le tesi di Parmenide dai suoi critici. La teoria di Parmenide era stata tacciata di assurdità in quanto era in contrasto con alcune evidenze del senso comune, còme il mutamento, la divisibilità e la molteplicità delle cose. A parere di Zenone, sostenere la realtà di questi aspetti dell'esperienza conduce a conclusioni ancora più assurde e contraddittorie. Egli si accinge, quindi, a confutare la realtà della molteplicità e del mutamento ammessa dai filosofi della natura, ricorrendo ad un nuovo apparato logico-argomentativo. Questo consiste nell'assumere come premessa la tesi che si vuole confutare, mostrando come da essa derivino necessariamente conclusioni contraddittorie e pertanto assurde. In particolar modo Zenone porta fino al paradosso la tesi pitagorica per la quale lo spazio sarebbe composto di un numero infinito di punti. Secondo Aristotele le confutazioni di Zenone hanno aperto la via ad una nuova disciplina logica, la dialettica, con la quale si ammette come ipotesi la tesi dell'antagonista e, partendo da essa, si ricavano con il ragionamento delle conclusioni contraddittorie, che confutano quell'ipotesi. Tali conclusioni sollecitano, quindi, la ric~rca di nuove tesi, tali da non condurre ad alcuna contraddizione. · Contro la molteplicità Contro la molteplicità Zenone presenta due argomenti principali.

• Primo argomento. Se si ammette che le cose sono molte, esse dovrebbero essere tante quante sono, non di più né di meno: quindi il loro numero dovrebbe essere finito. Eppure, anche così, il loro numero non può che essere infinito, pèrché fra le une e le altre cose .vi saranno sempre altre cose e, fra queste e le prime, altre cose ancora e così via all'infinito. Quindi, per assurdo, le cose, finite di numero, sarebbero infinite.

• Secondo argomento. Se si ammette che le cose sono composte da più elementi: o questi elementi non hanno grandezza, ma allora le cose composte da elementi senza grandezza non avrebbero a loro volta alcuna grandezza, cioè non esisterebbero; oppure questi elementi hanno una grandezza, ma allora le cose, finite, essendo composte da infiniti elementi (per l'argomento precedente), avrebbero un'infinita grandezza.

Contro il movimento A conclusioni assurde si giunge anche ammettendo il movimento. Contro di esso Zenone ha elaborato quattro argomenti.

• u· ~imo è· il seguente~. se un corpo si sposta da un estremo all'altro di uno spazio dato, prima ·di completare il percorso dovrà certa·mente raggiungere la metà della distanza; e ··prima di questa metà dovrà raggiungere la metà della metà e così via all'infinito. Ma, afferma il filosofo, "tu non puoi toccare un nu-

mero infinito di punti, l'uno dopo l'altro, in un tempo finito". In altri termini, partendo dall'ipotesi della divisibilità infinita dello spazio, un oggetto in movimento non potrà mai superare una distanza, anche se questa è minima e se la sua velocità è altissima, in quanto dovrà prima coprire il numero infinito di punti di cui consta quello spazio, quindi dovrà impiegare un tempo infinito.

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Il secondo argomento costituisce una variante del precedente; si tratta del celebre . paradosso del "piè veloce" Achille che non potrà mai superare la tartaruga. Prima, infatti, egli deve raggiungere il punto da cui questa è partita: ma durante il tempo in cui egli fa questo, la tartaruga si è spostata un po' più avanti. Achille cerca di raggiungerla nel nuovo punto, ma quando è arrivato ad esso trova che l'animale si è spostato ancora più avanti, sia pure di poco. Lo stesso avviene quando egli copre quest'ultima frazione di spazio: l'animale si è spostato di una - sia pur minima - frazione. E così via all'infinito: il velocissimo eroe si avvicinerà sempre più alla lentissima tartaruga senza, però, raggiungerla mai.



Il terzo argomento afferma che una freccia in movimento sarebbe, in realtà, ferma. Il moto può essere rappresentato come una serie di spazi occupati - uno dopo l'altro - dalla freccia. Ma in ciascuno spazio occupato la freccia è ferma. Se questo è vero, allora il movimento della freccia è formato da una successione di spazi/istanti nei quali essa è ferma: quindi il movimento è impossibile, perché non può esser composto unicamente da momenti di immobilità.



L'ultimo argomento, il quarto, è quello dello stadio: se due corpi A e B si muovono in esso con uguale velocità (rispetto a un punto di riferimento fisso C posto a metà strada fra di essi) e in direzioni opposte, nel momento in cui si incrociano essi hanno una velocità relativa (cioè relativa a B per quanto riguarda A e relativa ad A per quanto riguarda B) che risulta doppia di quella relativa a C. Ma come può la velocità di ciascuno dei due corpi (A e B) essere il doppio di se stessa?

Dalle argomentazioni di Zenone viene quindi dimostrata l'assurdità del divenire e del molteplice, evidenze empiriche di cui i critici di Parmenide intendevano affermare la realtà contro l'essere eleatico, che escludeva da sé ogni molteplicità e divenire. Uno dei principali meriti di Zenone è stata la sottolineatura della problematicità di concetti come quelli di spazio continuo, divisibilità, infinito, ecc., l'approfondimento e la chiarificazione dei quali saranno essenziali per lo sviluppo della matematica e della fisica moderne.

MELISSO DI SAMO Melisso vive a Samo nel V secolo a.e. Egli tenta di sviluppare e chiarire la dottrina di Parmenide dandole uria veste più sistematica. Dal maestro riprende l'idea che l'essere sia uha realtà non generata, in base al principio che dal nulla non può nascere nulla. In secondo luogo egli riduce l'essere a uno, in quanto nella sua assolutezza esso non può accettare di avere in qualcos'altro il proprio limite. Questa impossibilità del limite determina, però, l'affermarsi in Melissa di una tesi del tutto nuova, rispetto a Parmenide: l'idea cioè che l'essere sia infinito. Infatti, ove fosse finito, come pensava il maestro, l'essere avrebbe in se stesso un limite costitutivo, che ne farebbe una realtà con un principio e una fine, in aperta contraddizione con la sua ingenerabilità ed eternità. Nella sua assolutezza e infinità (che verrà apertamente criticata da Aristotele), nei secoli successivi questa idea dell'essere di Melissa verrà ripresa dalla speculazione teologica, traducendosi in una nuova idea e concezione di Dio.

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ANTOLOGIA TESTO

I

GLI UOMINI E LA VERITÀ

Nei frammenti che seguono, Eraclito manifesta la propria aristocratica concezione della verità (accessibile ai pochi che sono "desti" e non ai molti che sono invece "dormienti") ed espone il tema centrale del suo pensiero, ovvero il contrasto e l'armonia degli opposti.

Eraclito afferma che: •di fronte alla verità vi sono coloro che "dormono" e coloro (pochi) che sono invece "desti"; •bisogna seguire la legge comune a tutte le cose, il /ogos, verità eterna e assoluta; •l'intima natura della cose è il /ogos, ragione universale che è unità armonica degli opposti.

Gli uomini non intendono questa verità eterna, [1] né prima di udirla né dopo averla udita; [2] e sebbene tutto avvenga secondo tale dottrina, [3] che è la legge del mondo, ne sembrano inesperti pur avendo, in fatto di parole e di opere, esperienze identiche a quelle su cui ragiono io analizzando ciascuna cosa secondo la sua natura e dicendo come è. Ma agli altri uomini sfugge quel che fanno da svegli, [4) così come non ricordano ciò che fanno dormendo. Chi vuole che le sue parole abbiano senso deve basarsi su ciò che è comune e ha senso per tutti, come la città si basa sulla legge e con forza anche maggiore. [5] Poiché tutte le leggi umane traggono nutrimento dall'unica legge divina; questa può tutto ciò che vuole, dà origine alle cose e le domina tutte. Quindi si deve seguire ciò che è comune. Ma benché questa verità sia comune, i più vivono come se avessero un pensiero proprio. I desti hanno un unico mondo comune, ma nel sonno ognuno si apparta in un mondo a lui proprio. [6]

QJ È il l6gos questa verità eterna, che verrà subito dopo descritta come legge assoluta della realtà, come natura intima delle cose. [I] Il l6gos è il principio regolatore della realtà, ma gli uomini, in grande maggioranza, pur potendolo "udire" e "vedere", non riescono a comprenderlo. Vi è qui l'ambivalenza del l6gos, che vuole e non vuole farsi conoscere, ma anche la "sordità" e "cecità" di molti uomini che non comprendono il 16gos, non lo cercano, non sono capaci di ascoltarlo. [TI Il l6gos, oltre ad essere legge assoluta e verità, è anche dottrina. È lo stesso pensiero eracliteo, che di ogni cosa coglie la natura intima dicendo "come è".

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I "dormienti" non sono in grado di vedere ciò che è "comune" .. Solo i "desti" sanno afferrarlo.

Anche quando sembrano fisicamente.·svegli, gli uomini ordinari in realtà dormono, chiusi come sono nella particolarità del loro mondo privato, del loro piccolo mondo.

I}] Come una città si fonda sulla legge, così anche il mondo è governato da una legge. Eraclito conferma il legame - tipico del pensiero arcaico - fra legge umana e legge divina. Ma la realtà cosinica, la realtà divina, ha un carattere assoluto che le leggi della polis non hanno.

.0

Scrive A. Pasquinelli: "il sonno non è per Eraclito un mondo assolutamente irreale; ha la stessa realtà delle cose viste da quelli che 'non seguono il comune'' una realtà puramente apparente, di rappresentazione, scissa dalla connessione col resto". Così il sonno è simbolo della condizione di colui "che si imbatte nelle cose e non le riconosce".

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TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE.

Bisogna sapere che la guerra è comune, e che la giustizia è conflitto, [7] e che tutto avviene secondo conflitto e necessità. Gli opposti coincidono e dagli elementi discordanti [nasce] una bellissima armonia. [8] Non capiscono come, pur discordando, concordi con se stesso: armonia di tensioni contrastanti come nell'arco e nella lira. Il dio è giorno-notte, [9] inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. E muta come il fuoco: quando si mescola ai fumi odorosi, prende nome dall'essenza di ognuno di essi.

La via in su e la via in giù sono un'unica identica via. [10) La malattia rende dolce e gradita la salute, (11] la fame la sazietà, la fatica il riposo. DK 22 B 1, 114, 2, 89, 80, 8, 51, 67, 60, 111

0

La guerra descrive in modo emblematico l'aspetto antitetico della realtà che il l6gos unifica. Ogni cosa è espressione di un equilibrio dinamico, di una tensione, quindi di un conflitto fra i suoi elementi costitutivi.

[Il L'accordo è dis~ordia, il contrasto è armonia. L'armonia di cui parla Eraclito non è solo quella musicale, che semmai costituisce un efficace esempio della più generale armonia prodotta dal l6gos, legge unificante della realtà, attraverso la tensione degli opposti.

C!J

Ognuno degli opposti è condizione dell'altro, ed entrambi costituiscono i poli di un'unica tensione interna alle cose. In questo frammento c'è, inoltre, l'idea della trasfor-

TESTO

2

IL FILOSOFO E LA DEA

mazione e della successione degli opposti (es. giorno-notte), e c'è un'immagine, quella del fuoco, che rimanda alla. cosmologia di Eraclito, in cui quell'elemento svolge un ruolo centrale. Qui, comunque, il fuoco, più che costituire una forza esterna, si esprime come legge._ interna alle cose.

~ Si tratta di una delle immagini più celebri di Eraclito. Essa conferma l'idea che una salita sia anche una discesa, a seconda del punto di vista, e che una strada in pendenza sia appunto questa unità di opposti, una salita-discesa.

I· I

11 Eraclito offre qui un altro esempio del suo concetto di l6gos, di verità come tensione-unità fra opposti.

PARMENIDE

Nel Proemio del suo poema, Parmenide esprime la propria concezione della verità come ispirazione e rivelazione divina.

Piste di Lettura Nel Proemio del canto: •Parmenide compie un viaggio verso la luce, verso la verità; •una.dea annuncia la Verità al filosofo, chiamato a percorrere una via che non è battuta dagli uomini; •la dea anticipa i sentieri della ricerca filosofica e della conoscenza: quelli della verità "ben rotonda", dell'opinione erronea e dell'opinione "plausibile".

TRA RAZJONALlTÀ E SAPJENZA: ERACUTO E PARMENJDE

Le cavallel che mi portano fin dove vuole il mio desiderio [1] mi fecero giungere, dopo avermi condotto e posto sulla via molto famosa della dea, che per tutte le città 'conduce l'uomo sapiente. · Là fui portato e là mi portarono le accorte cavalle trascinando il mio carro, mentre fanciulle 2 indicavano la via. [2] L'asse nei mozzi sibilava infuocato (perché, da ambo i lati era mosso da due rotanti cerchi). Le fanciulle figlie del Sole,3 lasciate le case della Notte, affrettarono il carro nel guidarmi verso la luce, liberando il capo dai veli. Là è la porta che separa le vie della Notte e del Giorno, [3] limitata ai due estremi dall'architrave e dalla soglia di pietra, chiusa in alto da grandi battenti, di cui la Giustizia,4 che molto punisce, serba le chiavi [4] che aprono e chiudono. [.. .] E la dea benigna mi accolse, [5] e mi prese la mano destra e così mi parlò: "O giovane, condotto da guide immortali, che giungi alla nostra dimora portato dalle cavalle, sii il benvenuto! Non è stato un destino avverso [6] a condurti per questa via (assai lontana dal cammino degli uomini), ma la Legge divina e la Giustizia. [7] Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa, sia il forte animo della ben rotonda Verità [8]

[lJ Il desiderio della conoscenza è il connotato fondamentale del fare filosofia. Si collega a un tema molto importante del poema: quello del viaggio. Il filosofo non può intraprendere da solo il viaggio verso la verità. Sono le dee che lo vengono a chiamare, sono le cavalle a portarlo. La strada da percorrere è solo per pochi uomini, poichè la Verità è per pochi. I destrieri che portano Parmenide sono "saggi" ("accorte cavalle"). La ricerca filosofica si esprime come un impegno totale dell'uomo, fatto di ragione, ma anche di passione, sia pure passione del conoscere.

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Pur non essendo le dee identificabili, è chiara l'indicazione che a "guidare" la ricerca siano delle forze superiori a quelle umane, cooperanti con il filosofo. Il tono religioso del Proemio esprime per taluni un legame di Parmenide con la tradizione sapienziale e con un orizzonte culturale arcaico. Per altri, invece, dà il senso della radicalità della svolta teoretica che il filosofo sente di dover compiere. Tale compito richiede il contributo di tutte le forze. In tal senso, la ricerca .sull'essere viene avvertita come un compito umano e sovrumano allo stesso tempo: Werner Jaeger ha parlato, a questo proposito, di contemplazione dei "misteri del vero". La metafisica si veste ancora delle forme del mito; è, si potrebbe dire, indagine sul mistero dell'essere, nella quale è difficile districare il sacro e il profano della ricerca.

IIJ

La divisione fra i sentieri della Notte e del

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1. Le cavalle sono le forze del desiderio. 2. Le dee non sono identificate. 3. Le figlie del Sole, secondo Sesto Empirico (II-III secolo d.C.), vanno identificate con le "sensazioni". 4~ Sempre Sesto Empirico identifica Dlke, dea della giustizia, con la ragione.

Giorno è quella fra sensazioni e ragione, fra apparenza e verità. La "porta" è quella della Verità, è la soglia attraverso cui si passa lasciando le "case della Notte", cioè del mondo delle apparenze, del mondo comune.

W

La Giustizia "punisce": a chi non la rispetta, cioè a chi non rispetta la ragione, essa tiene chiusa la porta della verità, privando l'uomo della possibilità più alta che gli è propria.

~ Se la Giustizia, Dfke, è la ragione che ha le chiavi della verità, la dea che parla a Parmenide potrebbe essere la stessa Filosofia, come suggerisce Sesto Empirico.

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Le Moire sono personificazioni del destino di ciascuno, anche del destino di Zeus; esse custodiscono l'ordine del mondo. Sono rappresentate come dee filatrici.

l1J

Va sottolineata l'enfasi con cui - più oltre - la dea parla del "divino comando" che ha imposto a Parmenide di muoversi. E va sottolineato che la .dea parla e il poeta ascolta: l'atteggiamento del filosofo è di ascolto. La dea rivela, la Verità è alétheia, rivelazione. L'itinerario dalla Notte .al Giorno è anche quello dall'ignoranza alla Verità.

W

La Verità è rotonda: la sfera, vedremo più oltre, esprime la perfezione dell!essere. Contro la verità c'è il mondo delle apparenze, delle opinioni

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TRA RAZIONALITÀ E"SAPJENZA: ERACLITO E PARMENIDE

sia le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza. E tuttavia anche questo imparerai, come conviene ·che valuti le apparenze [9] colui che indaga ogni cosa in tutti i sensi. da Parmenide, Poema sulla Natura, in DK 28 ·B 1

sempre fallaci (d6xai). Due poli, quelli della verità e dell'opinione, dell'essere e dell'apparire; che sono irriducibili.

[Il Anche chi cerca la Verità si misura, in qualche modo, con le apparenze, quindi cerca cosa vi è in ciò che appare. Alcuni hanno individuato, in tali af-

TESTO

3

fermazioni di Parmenide, come una terza: via, quella di un discorso con cui chi sa cerca di "dar conto dei fenomeni e delle apparenze". Parmenide affermerebbe questa tesi senza, con questo, smentire se stesso, cioè senza ammettere la tesi ("fallace") della "mescolanza" di essere e non-essere (G. Reale).

LE VIE DELLA RICERCA

Nella seconda parte del canto la dea parla e Parmenide ascolta. La dea descrive a Parmenide i due sentieri fondamentali che si aprono alla ricerca. Piste di Lettura Secondo la dea: • il filosofo deve seguire la via maestra del pensiero, quella delVessere; • non è percorribile la via del non-essere, che, in quanto tale, non può venire pensato né detto; •bisogna quindi lasciare la via dell'esperienza, che mesc~la essere e non-essere.

Orbene io ti dii:ò (e tu ascolta attentamente le mie parole) quali uniche viel di ricerca si possano pensare: l'una - che è e che non è possibile che non sia - [1] è la via della Persuasione (giacché questa tende alla Verità);2 l'altra, che non è e che è necessario che non sia: e io ti dico che questa è una via preclusa ad ogni ricerca: poiché il non essere non puoi né conoscerlo (non è infatti possibile), né esprimerlo. Infatti lo stesso è pensare ed essere. [2] Considera come anche cose lontane sono saldamente presenti alla mente; infatti non potrai scindere l'essere dalla sua connessione con se stesso, né scomponendolo interamente in ogni sua parte secondo un certo ordine, né ricomponendolo in se stesso. [. ..]

1. Vie, o metodi, o procedimenti del pensiero. 2. Persuasione autentica c'è solo con la verità.

.QJ L'essere è e non può non· essere: è l'afferma-

"che dke che è" ciò che viene pensato.

zione logica del principio di non contraddizione. Altri ritengono che il soggetto della frase non sia l'essere: il soggetto sarebbe, allora, una delle due vie di ricerca indicate dal verso precedente; in tal caso è quella stessa via, la via che conduce al vero, "che è", cioè la prima vfa è. vera. Altri ancora, sempre assumendo come soggetto "la prima via'', affermano che essa è quella che dice "è", poiché il pensiero non può pensare altro che l'essere ed è logicamente impossibile che esso pensi "non è". In altri termini, la prima sarebbe la via

Pensare significa pensare l'essere. Il pensiero coincide con la realtà. Le leggi del pensare sono quelle della realtà. Si può pensare solo ciò che è. La potenza della ragione coincide con quella della realtà. Collocarsi dal punto di vista della ragione vuol dire entrare - per ciò stesso - nel "segreto dell'essere". È un'affermazione con cui il filosofare avanza la sua massima pretesa: quella di conquistare il reale rivendicandone l'intrinseca razionalità.

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TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

È necessario che il dire e il pensare siano essere: infatti l'essere è;

il nulla non è; su questo ti esorto a riflettere. Perciò da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, gente a due teste; [3] infatti è l'incertezza che nei loro petti dirige la mente oscillante. Costoro son trascinati sordi e ciechi a un tempo, [4] confusi, gente indecisa, secondo la quale l'essere e il non essere è lo stesso e non è lo stesso, e di ogni cosa v'è un cammino che si può volgere in senso inverso. Infatti questo non potrà mai imporsi, che il non essere sia. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, né l'abitudine nata dalle numerose e varie esperienze ti spinga seguendo questa direzione a usare l'occhio che non vede e una lingua e un udito che rimbombano di suoni illusori, ma giudica con il pensiero la questione controversa che io ti ho esposto. da Parmenide, Poema sulla Natura, in DK 28 B 2, 3, 4, 6, 7, 8

W

La "gente dalla doppia testa" è costituita da tutti coloro che non sanno vedere nella realtà altro che la molteplicità, il divenire - che insieme è e non è -, il mondo della contraddizione, che invece va negato quando ci si colloca dal punto di vista della ragione.

TESTO

4

LA

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Nella critica parmenidea della conoscenza sensibile si conferma il carattere caotico e contraddittorio delle apparenze, quindi quel tratto dell"'indecisione" che caratterizza coloro che - con la mente - sono del tutto calati in questo mondo illusorio.

DOTTRINA DELL'ESSERE

PARMENIDE

In questa parte del canto, la dea illustra la via della verità, ossia quella de/l'essere; nei versi si sviluppa una ontologia. · piste di Lettura_ --------"'-----------------------~ La dea: • ribadisce anzitutto che la via della verità è quella della non contraddizione; • sostiene che connotato essenziale della verità è l'identità di pensiero ed essere; • descrive le caratteristiche dell'Essere, che è ingenerato, imperituro, indivisibile, immobile, tutto uguale.

Non ci resta ormai che parlare della via che dice che è. Su questa via molti sono gli indizi [1] del fatto che, essendo, è ingenerato e imperituro, tutto intero, immobile e senza fine. Non mai era, né sarà, perché è ora tutt'insieme, uno, continuo. Quale origine. infatti, vorrai cercare di esso? [2]

[!] Qui abbiamo il passaggio alla descrizione parmenidea dell'essere o - come egli dice felicemente - degli indizi (sémata, segni) dell'essere.

0

L'essere è ingenerato, non ha origine: il suo nascere non può certo venire dal non-essere. Non è infatti possibile che tra le caratteristiche dell'essere

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TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

Come e. da dove sarebbe nato? Dal non essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è. Quale necessità, se derivasse dal nulla, potrebbe averlo spinto a nascere dopo piuttosto che prima? Per cui è necessario o che sia completamente o che non sia affatto. Né mai la forza della convinzione potrà concedere che ·dall'essere nasca qualcosa che sia altro da esso. Per questa ragione la Giustizia non gli concesse né di nascere né di perire, [3] allentandogli i ceppi,_ ma lo tiene ben fermo. Su tale [punto] il giudizio è questo: è o non è. Si è giudicato, dunque, com'era necessario, di abbandonare una delle vie perché impensabile e inesprimibile (non è infatti la via del vero), e di conservare l'altra in quanto è ed è vera. E come potrebbe l'essere esistere in futuro? E come potrebbe essere stato in passato? Infatti se fu, non è; e neppure è se dovrà essere in futuro. Così si estingue la nascita e la morte scompare. E non è div~sibile, giacché è tutto eguale; né c'è, da qualche parte, un più d'essere [4] che possa impedirgli di essere vicino a se stesso, né c'è un meno, ma è tutto pieno di essere. Perciò è tutto continuo: l'essere, infatti, è a contatto con l'essere. Ma immobile, [5] limitato dai suoi potenti legami, sta l'essere senza principio e senza fine, poiché la nascita e la morte sono state respinte e allontanate dalla vera certezza. E restando identico nell'identico luogo, giace in se stesso e così là fisso rimane, giacché la Necessità che tutto domina [6] lo tiene nelle catene del limite, che lo rinserra all'intorno, poiché l'essere non può non essere compiuto: [7] infatti di nulla è manchevole, e se lo fosse mancherebbe di tutto. La stessa· cosa è il pensare e ciò per cui è il pensiero, perché, senza l'essere, nel quale è espresso, non troverai il pensare: nient'altro, infatti, è o sarà all'infuori dell'essere, poiché, la Moira (il Fato) lo ha vincolato ad essere. un tutto immobile. Perciò sono puri nomi quelli che hanno posto i mortali, convinti che ~ossero veri; nascere e

vi sia quella di non essere prima e di essere generato poi. Questo, infatti, implicherebbe un passaggio dal non-essere all'essere: qualcosa, quindi, di assolutamente inconcepibile dati i presupposti logici e ontologici del filosofo.

[I] Se è ingenerato è anche imperituro: come può non esser più l'essere, proprio ciò che è per definizione? Così, col non-essere, viene negato da Parmenide anche il tempo, come dimensione costitutiva del divenire, quindi dell'incessante.non esser più/ancora delle cose. ~ L'essere è intero e unico, un tutto compatto, privo di qualsiasi articolazione interna (perché se avesse elementi, ciascuno di questi non sarebbe gli altri), né può avere accanto altri esseri.

[Il L'essere è immobile: anche qui, come conseguenza logica della negazione sia del divenire che del nascere e perire.

[1) Ananke (Necessità) è la dominatrice. L'ordine dell'essere è quello della necessità logica del pensiero, che nella sua assolutezza coincide con l'ordine cosmico dominato dalla Necessità.

[I] L'essere ha un limite estremo. Non è illimitato (come l'apeiron di Anassimandro) né, come affermerà il discepolo Melissa, è infinito. L'infinito - per Parmenide e per buona parte dei pensatori greci è sinonimo di incompiutezza, quindi di imperfezione. Solo il limite, il finito, esprime la perfezione dell'essere, che non è né più grande né più piccolo del necessario: è ciò che è.

TRA RAZIONALITÀ E SAPIENZA: ERACLITO E PARMENIDE

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perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutar luminoso colore. [8] Ma poiché v'è un limite estremo, esso è compiuto da ogni lato simile alla massa di ben rotonda sfera [9] di ugual forza dal centro in ogni parte: occorre, infatti, che esso non sia in questo punto più grande o in quello più piccolo. Poiché nori è un non essere che gli possa impedire di raggiungere l'unità con l'uguale; né un essere che dell'essere abbia qui una misura maggiore, là una misura minore perché è tutto inviolabile; da ogni parte eguale a se stesso perché in egual maniera nei suoi confini. Qui termino il discorso della certezza e il pensiero intorno alla verità; d'ora in poi i apprendi le opinioni dei mortali [10] ascoltaqdo l'ingannevole ordine delle mie parole. da Parmenide, Poema sulla Natura, in DK 28 B 8

crJ

Con il nascere e morire delle cose, il loro spostarsi di luogo in luogo, le loro trasformazioni qualitative, è l'intero mondo studiato dalla fisica ad es·sere rifiutato come "apparenza".

L!J

Espressione compiuta della perfezione è la sfera "ben rotonda" (proprio come la verità!). Ci si è chiesti se l'essere sia - per Parmenide - realmente una sfera, oppure se questa non sia altro che una similitudine, necessaria al discorso filoso-

fico-poetico (a quella persuasione, cioè, che "segue" la verità).

lì!J

Afferrata la verità, il filosofo deve guardare al mondo delle apparenze e imparare a discernerlo. Il poema si svilupperà con la descrizione - attraverso le parole della dea che a questo punto si faranno dichiaratamente "ingannevoli" - di quella che verrà definita una "fisica delle apparenze", costruita su affermazioni non vere, ma solo verosimili.

prove di Verifica

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Seleziona i versi che si riferiscono ai seguenti argomenti ed esprimi brevemente le tesi fondamentali e la loro argomentazione: a. il compito del filosofo; b. i caratteri dell'esser~; c. la potenza del pensiero; d. la considerazione dell'esperienza sensibile.

[Il Riporta le argomentazioni di Parmenide relative all'impensabilità del non-essere.

[!] Analizzando in parallelo le filosofie di Eraclito e Parmenide è possibile evidenziare aspetti comuni relativi: a. al concetto di verità; b. alle modalità di ricerca della verità e all'accesso ad essa; c. allo strumento per raggiungere la verità.

BJ

Dall'analisi del Proemio possono essere ricavati alcuni elementi relativi alle caratteristiche del viaggio verso la verità. Fai attenzione ai verbi che vengono usati e ai soggetti di questi verbi. E, ancora, nota quello che si dice delle fasi del viaggio, dei luoghi e dei percorsi e come si configura la condizione del filosofo. Ma, poi, qual è il senso del viaggio? Dove si conclude?

[Il La dea parla e il filosofo ascolta: quale concezione della ricerca filosofica e della verità emerge dalla situazione e dalle prime parole della dea?

I NATURAL;ISTI DEL V SECOLO a~C~ l:apogeo di Atene Dopo le vittoriose guerre persiane e per tutto il V secolo, Atene si afferma come centro d'attrazione e di irradiazione culturale per l'intera società ellenica. Ciò è dovuto alla sua prosperità economica, alla ricchezza e vivacità della sua vita politica e sociale, al diffondersi di nuovi orientamenti culturali e di un nuovo spirito laico. Il periodo è segnato dalla crescita della potenza della città e dal suo aperto conflitto con Sparta. La politica di espansione e di conquiste si pone obiettivi ambiziosi, frutto di sogni di grandezza dei settori più dinamici e aggressivi della società. Ma la forza politico-militare di Sparta (e, in Sicilia, di .Siracusa) e la rivolta delle città soggette ad Atene condurranno la città ad una rovinosa sconfitta al termine della guerra del Peloponneso. Nel corso del secolo, la tumultuosa e rapida crescita economica apre in Atene spazi e possibilità nuovi per i gruppi sociali in grado di sfruttare la situazione. Essa favorisce l'affermazione di comportame.nti e valori di tipo individualistico, legati alla competizione per la riechezza e il potere.

Il conflitto tra innovazione e tradizione Sotto l'influsso di Pericle ha luogo un grande sviluppo letterario e artistico. Si affermano nuovi orientamenti di pensiero e irr9mpe sulla scena culturale il movimento sofistico, che modifica profondamente il modo di pensare dei giovani e degli intellettuali del tempo. Nel clima culturale dell'età di Pericle si ·afferma una nuova immagine del mondo naturale ed umano. La spiegazione dei processi naturali tende, sempre più, ad affrancarsi da ogni ipotesi di intervento divino e a fondarsi su princìpi e regole razionali interni alla naturà stessa.

Guerriero morente, dal frontone orientale del tempio di Atena Aphaia a Egina.

1 NA1URAUSTI DEL V SECOLO A.C. Anche la condotta di individui e gruppi sociali viene spiegata e .giustificata in base a princìpi, valori e motivazioni razionali, dipendenti interamente da rapporti e interessi umani. In questo mutamento culturale è l'autonomia del soggetto umano ad imporsi. Autonomia rispetto ad un ambiente sociale nel quale l'individuo intende affermare le sue esigenze e i suoi interessi materiali; autonomia nei confronti di una natura che l'uomo indaga e cerca di controllare grazie al progresso dei saperi specializzati, delle téchnai. Si fa strada, nei pensatori che ne colgono la yalenza positiva, la convinzione che le téchnai costituiscano una delle di·· mensioni fondamentali della società. Nei confronti delle téchnai permangono tuttavia atteggiamenti critici, in quanto il lavoro produttivo - e il sapere tecnico ad esso connesso viene considerato attività "servile" e indegna di un uomo libero; si teme, inoltre, che le nuove capacità offerte dalle téchnai"possano essere volte al male, e non solo al bene. Più in generale, i processi di innovazione e cambiamento producono una forte resistenza nei ceti aristocratici, che guardano con favore a Sparta o auspicano il ritorno agli antichi costumi e all'unità etico-religiosa della polis. Nel Prometeo di Eschilo, ad esempio, il conflitto fra Zeus e Prometeo, che osò donare il fuoco al genere umano, sembra riflettere il forte contrasto di orientamenti ideali fra i nuovi ceti, protagonisti del grande sviluppo civile della città, e gli antichi ceti conservatori, che vedono nello straordinario fervore produttivo, mercantile e sociale alimentato dallo sviluppo delle tecniche il rischio .di una rottura irreparabile dei modi di vita e degli ordinamenti tradizionali.

"SALVARE I FENOMENI" .L'eredità teorica del pensiero eleatico condiziona la successiva riflessione.filosofica. Il problema centrale davanti al quale si trovano ora i filosofi è questo: se è vero ciò che ha detto Parmenide, cioè che l'essere è assoluta unità, è davvero impossibile una conoscenza razionale del divenire; di ciò che sembra manife-

starsi come passaggio dal non..essere .a/l'essere e viceversa? Si deve negare ogni autentico valore ontologico e conoscitivo al mondo del divenire e alla conoscenza sensibile? Poteva sembrare, infatti, che la concezione parmenidea impedisse una considerazione positiva del mondo dei fenomeni e cancellasse l'ipotesi stessa di un sapere intorno alla natura. La quest.ione che i pensatori post-eleatici si pongono è la seguente: è possibile conciliare il punto di vista parmenideo (che esprime l'esigenza di pensare senza contraddizione la realtà, cogliendone l'unità fondamentale e un principio immutabile) con il bisogno di spiegare il mutamento e la pluralità che costituiscono la realtà dell'esperienza? . Pur facendo propri e tenendo fermi alcuni dei tratti più caratteristici dell'essere parmenideo, quei pensatori mirano a "salvare i fenomeni", a recuperare la possibilità di pensare il mondo del divenire. Empedocle, Anassagora e Democrito evitano, innanzitutto, di attribuire ad un unico principio le caratteristiche dell'essere per non cadere nella contraddizione - denunciata da

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1 NATURALISTI DEL V SECOLO A.C. Parmenide - di concepire la realtà, nello stesso tempo, una (I' arché, il principio· di tutte le cose) e molteplice (il mondo dell'esperienza in cui quel principio si determina), quindi come essere e non-essere. Essi tentano di superare l'obiezione parmenidea affermando che l'essere è costituito da una pluralità originaria di elementi e che il mondo dell'esperienza e del divenire è il prodotto della mescolanza e della separazione di tali elementi, ciascuno dei quali conserva le caratteristiche dell'essere parmenideo: l'immutabilità, l'indistruttibilità e l'eternità. Per questi fisici pluralisti, il "nascere" e il "perire" non sono, dunque, reali proprio come sosteneva Parmenide - perché altro non sono che il temporaneo aggregarsi e disgregarsi degli elementi. Ma, a differenza di Parmenide, il mondo del divenire non è per essi il frutto dell'illusione, perché risultante dall'aggregarsi e dal disgregarsi degli elementi. ·

EMPEDOCLE Empedocle, nativo di Agrigento, vive tra il primo decennio del V secolo e il 430 circa a.e. e svolge un ruolo non secondario nella vita politica della città, assumendo una posizione vicina ai democratici. Nell'ultimo periodo della sua vita egli compie numerosi viaggi in Sicilia, nella Magna Grecia e nel Peloponneso, acquistando una larga fama con la sua oratoria e con un'attività di mago, profeta e taumaturgo, oltre che di filosofo. La sua morte è trasfigurata dalla leggenda, che tende a farne una figura religiosa simile a Pitagora: si narra, infatti, che chiamato dalla voce misteriosa di un dio il filosofo venisse ingoiato dall'Etna, che restituì solo i suoi calzari. Ci sono pervenuti numerosi frammenti di due opere (recentemente è stata avanzata l'ipotesi che essi appartengano ad un'unica opera), una delle quali ha il consueto titolo Sulla natura, mentre l'altra reca il titolo di Purificazioni, che rinvia alla dimensione etico-religiosa del pensiero e dell'attività del filosofo. Le quattro radici e le due forze dell'universo Empedocle cerca di affermare un punto di vista nel quale siano riconosciuti - nello stesso tempo - l'immutabilità e la perennità dei princìpi del cosmo e il mutamento incessante dei suoi processi interni. Immutabili ed eterne sono le quattro radici di tutte le cose: l'acqua, l'aria, il fuoco e la terra. Altrettanto eterne sono le forze universali dell'Amore e dell'Odio, attraverso cui quei quattro elementi fondamentali vengono ad essere fra loro mescolati o separati. In sé non esiste, infatti, nascita o morte, ma solo mescolanza o separazione di ciò che è mescolato. Quindi non si pone alcuna contraddizione fra l'essere (le quattro radici e le due forze) e il non-essere (inteso come l'uscire e il rientrare nel nulla delle cose con la nascita e la morte), ma si perviene alla sintesi di due esigenze diverse: riconoscere la molteplicità delle cose e il divenire attestati dall'esperienza e ricondurre tale molteplicità all'unità e immutabilità dei princìpi della natura.

1 NA1URAUSTI DEL V SECOLO A.C. La novità della posizione di Empedocle, rispetto a quella dei naturalisti che l'hanno preceduto, sta anche nell'aver attribuito la funzione attiva e dinamica a due forze, l'Amore e l'Odio, separate dagli elementi sui quali operano. Con ciò viene superato l'ilozoismo attribuito ai filosofi di Mileto, cioè l'idea che la materia stessa, essendo dotata di vita, desse luogo alla generazione delle cose.

Processi ciclici e pratiche di purificazione Empedocle delinea una visione ciclica del divenire cosmico. A lui si attribuisce, infatti, la formulazione più "classica" del divenire ciclico che, secondo molte interpretazioni, sarebbe alla base della concezione della storia tipica della cultura greca (o, almeno, di quella più ricorrente). L'Amore domina nella prima fase e determina l'unione delle quattro radici. Questa situazione originaria è descritta (alla maniera di Parmenide) come una massa sferica, .nella quale tutto è unito e compatto e non esistono realtà particolari. L'azione dell'Odio introduce la separazione e genera quindi, dalla precedente unità, il mondo delle cose molteplici. Quando l'Odio giunge ad affermare il proprio dominio, si perviene ad una totale disgregazione, cui segue di nuovo una ripresa dell'Amore co.n la sua azione aggregante. La vita del cosmo è così scandita dal ciclico alternarsi del dominio dell'Amore e dell'Odio, tra i quali si pone una fase intermedia di equilibrio fra le forze. Le due forze cosmiche dell'Amore e dell'Odio non s'identificano con il "bene" e con il "male", perché ciascuna di esse ha in sé un aspetto positivo e un aspetto negativo. È vero, infatti, che l'Amore come forza di unione è positiva, ma, se prevalesse definitivamente, non nascerebbe alcuna molteplicità. Analogamente l'Odio, forza di divisione, consente la formazione delle cose, ma il suo dominio incontrastato polverizzerebbe ogni cosa. · Sulla base della concezione ciclica, che prevede l'alternanza e la ripetizione delle stesse fasi del divenire cosmico, Empedocle ripropone la dottrina della rinascita e della reincarnazione, già comune all'Orfismo e al Pitagorismo. Come questi, egli suggerisce pratiche di purificazione, legate alla prospettiva di una rinascita, dopo la morte, in altri esseri viventi. "Anch'io", egli canta, sono stato un tempo fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare" ed ora mi trovo qui, sulla terra, errando fra i mortali. Nei versi di Empedocle, la descrizione dei processi cosmici e l'ispirazione etico-religiosa si fondono in i.mmagini poetiche vivide e nello stesso tempo allusive ed oscure, che spiegano il fascino che l'opera del filosofo agrigentino ha conservato nei secoli.

Il simile conosce il simile Empedocle ha delineato una teoria della conoscenza di stampo empiristico, Secondo il filosofo, la realtà viene avvertita attraverso gli organi di senso, e la conoscenza si realizza quando il si'" mi/e conosce il simile. Essa si verifica, cioè, quando avviene l'incontro fra una qualità presente nelle cose e un'altra - identica a quella - presente in noi: "con la terra vediamo la terra, con

l'acqua l'acqua, con l'aria l'aria divina, e poi col fuoco il fuoco distruttore". Dai corpi si distaccano degH effluvr èlie colpiscono gli organi sensoriali. e da lì, penetrando attraverso i pori del corpo, determinano in noi le immagini delle cose. L'organo del pensiero è il cuore e il pensiero stesso non è altro che sangue circolante in prossimità del cuore. Si è sostenuto, non senza ragione, che Empedocle sarebbe stato il pri!llo a formulare una dottrina della conoscenza.

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1 NATURAUSTI

DEL V SECOLO A.C.

ANASSAGORA Anassagora nasce nel 496 a.C. a Clazomene, nell'Asia Minore ionica, ma trascorre più di trent'anni della sua vita ad Atene (dal 462 al 432), chiamatovi da Pericle. Con lui ·1a filosofia, che fino ad allora aveva trovato nel mondo delle colonie greche il terreno più adatto per crescere e affermarsi, approda ·ad Atene. Per le sue posizioni teoriche e per la stretta amicizia con Pericle, egli diventa il bersaglio di una campagna condotta dai circoli conservatori della città, fino a subire un processo per empietà. Gli viene imputata la tesi che i corpi celesti non abbiano nulla di divino, ma siano corpi naturali composti di pietra e terra. Condannato, è costretto a fuggire in Asia Minore, dove muore nel 428 a.e.

Le omeomerie Anassagora, come Empedocle, cerca di conciliare la realtà del divenire attestataci dall'esperienza con la concezione eleatica di un essere eterno e immutabile: "nulla

infatti nasce o viene distrutto, ma le cose, nel loro insieme, sono sempre uguali". A differenza di Empedocle, per lui gli elementi originari, che mescolandosi e dividendosi determinano il sorgere e il mutare delle realtà particolari, non sono quattro bensì infiniti. Tali elementi sono particelle piccolissime di particolari qualità (di carne, ossa, pietra, legno, oro, ecc.), che il filosofo indica col termine di "semi" perché, come questi generano le piante, esse generano, col loro mescolarsi, tutte le cose. Ogni qualità esistente nella natura non può che derivare da qualità analoghe: come può, infatti, il legno scaturire da qualcosa che non sia legno? e come può, nella digestione, il cibo trasformarsi in carne e sangue se esso non contiene già in sé tali sostanze? Con la teoria dei semi infiniti Anassagora cerca di spiegare la straordinaria varietà delle cose (che le quattro radici di Empedocle non riuscirebbero a giustificare) riconducendola alla presenza di qualità originarie ed eterne, che come tali assumono i caratteri parmenidei dell'immutabilità e della permanenza. Tutte le infinite particelle qualitative dell'universo sono presenti, in proporzioni variabili, in ogni cosa; per cui, afferma Anassagora, "tutto è in tutto". Aristotele, riferendosi agli infiniti semi di Anassagora, utilizza il termine "omeomerie" (parti simili), in quanto essi conservano la propria qualità anche se suddivisi all'infinito.

Il naturalismo e il Nous Nella spiegazione dei fenomeni naturali, Anassagora esclude ogni interferenza da parte della divinità e ricorre esclusivamente a cause di ordine naturale (naturalismo). Si dice che, di fronte a una meteora caduta a Egospotami e da tutti considerata di origine misteriosa e "divina", Anassagora affermasse che la sua natura era materiale, trattandosi dipietra distaccatasi da un corpo celeste di natura analoga a quella del nostro pianeta. Per il filosofo, infatti, "il Sole è pietra e la Luna terra". Tali affermazioni, basate su un ragionamento per analogia (la materia degli astri è simile a quella della Terra), mettevano in discussione immagini tradizionali del mondo e gli procurarono la denuncia per "empietà". _Anche Anassagora, come Empedocle, cerca di spiegare i processi di cambiamento (di mescolanza e di divisione delle omeomerie) con un principio attivo separato da quegli elementi. Esso è il Nous ("Intelletto"), una intelligenza ordinatrice che-mette in movimento l'originario miscuglio dei semi e produce la molteplicità delle cose, determinando l'ordine e il divenire dell'universo. Il Nous può svolgere la propria funzione in quanto costituito da una materia particolarmente leggera e sottile.

Il dissimile conosce il dissimile Anassagora descrive la conoscenza come un processo basato sull'esperienza, interpretandolo però in termini diversi da quelli di Empedocle. Secondo Anassagora, infatti, gli organi sensoriali ci permettono di conoscere le cose attraverso la percezione non del simile ma del dissimile, cioè di qualità diverse. Ad esempio, è col caldo che si percepisce il freddo, col liscio il ruvido, col dolce l'amaro. L'organo centrale dell'attività conoscitiva è poi il cervello e non il cuore. L'osservazione dei fatti - anche quando è sistematica - non permette comunque da sola di cogliere la verità, se non è sostenuta da altre due attività: la memoria e la téchne. Con la prima i fatti osservati vengono collocati in una sequenza temporale, mentre la seconda predispone una adeguata sperimentazione e verifica.

1 NA1URAL1Sll DEL V SECOLO A.C. Proprio la memoria e la téchne, cioè la conservazione e organizzazione dell'esperienza e l'attività tecnico-produttiva, strettamente unite, permettono all'uomo di avere un rapporto attivo col mondo, usando le cose per soddisfare i propri bisogni e le proprie esigenze: è questa "virtù del possesso delle mani" ad aver dato all'uomo la superiorità sugli animali.

DEMOCRITO Democrito nasce ad Abdera; in Tracia, verso il 460 a.C. Nella città nativa incontra Leucippo di Mileto, nella cui "scuola" apprende la teoria atomistica che in seguito svilupperà autonomamente. Spinto da un continuo desiderio di conoscenza, egli compie lunghi viaggi che lo portano in Egitto, Asia Minore e Persia. Muore in età assai avanzata, intorno al 360 a.e.

I.: atomismo Pur essendo contemporaneo di Socrate e Platone, e quindi posteriore ad Empedocle e Anassagora, Democrito può venire accostato a questi ultimi per una comune concezione natura1istica della realtà. Per il filosofo di Abdera, tutto nella realtà è composto di parti materiali (materialismo); inoltre, ogni fenomeno, e quindi l'intero divenire delle cose, trova per lui spiegazione nel movimento di corpi, quindi in cause puramente fisiche, senza il ricorso a cause intelligenti e finali, cioè agli scopi di qualche "mente" cosmica o divinità (meccanicismo). Democrito ritiene che ogni cosa risulti dall'aggregazione di una pluralità di elementi costitutivi. Egli respinge, però, la tesi (sostenuta da Anassagora) della divisibilità all'infinito delle cose. Se così fosse, se, cioè, la realtà che l'esperienza ci mostra fosse infinitamente divisibile, verrebbe come a dissolversi, divenendo quakosa di inconsistente: non si capisce, quindi, come da tale fondamento inconsistente potrebbe derivare la realtà delle cose. Occorre perciò giungere alla conclusione razionale che i corpi possono esser divisi solo finché non si giunga ai loro componenti ultimi, cioè a elementi materiali non ulteriormente divisibili. Questi elementi materiali, non suscettibili di ulteriore scomposizione e divisione, sono da lui chiamati con un termine che ha av(Jto un grandissimo successo nel lessico scientifico dell'Occidente: atomoi (indivisibili). Gli atomi sono infiniti di numero e hanno tutti la stessa natura qualitativa: oltre ad essere materiali, sono eterni e immutabili - caratteristiche, queste ultime, che condividono con l'essere parmenideo. Essi differiscono tra loro solo per alcuni aspetti quantitativi, cioè per la forma (rotonda; spigolosa, ecc.), la grandezza (piccola, media, ecc.), l'ordine (a destra, a sinistra, ecc.) e la posizione (orizzontale, verticale, ecc.). La condizione del movimento degli atomi è il vuoto. Gli atomi si muovono nel vuo- · to e si muovono perché c'è il vuoto. Democrito afferma l'eternità del moto, poiché eterni sono gli atomi e il vuoto che ne costituiscono la causa. Dalla combinazione di atomi e vuoto deriva la possibilità che, muovendosi, gli atomi si incontrino e producano - essendo infiniti - infiniti aggregati, infiniti mondi. Anche per l'atomismo il divenire (cioè il nascere e il morire delle cose, il loro aggregarsi e disgregarsi) riguarda i composti e non gli atomi, che, come si è detto, sono immutabili ed eterni. Atomi e vuoto, traducono in termini fisici il dualismo logico e ontologico di essere e non-essere tipico della filosofia di Parmenide, dando luogo all'intreccio di due princìpi che, invece di escludersi, come nella filosofia eleatica, si integrano e interagiscono.

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1 NA1URAUST1 DEL V SECOLO A.C.

I mondi infiniti L'universo si è formato a partire da una mescolanza originaria degli atomi, da un loro turbinare in tutti i sensi nel quale la traiettoria di ciascuno è venuta a incrociarsi con quelle di tutti gli altri. Ciò ha determinato un reciproco scontro e sfregamento laterale, quindi il modificarsi delle traiettorie di ciascuno e il costituirsi di un vortice; il movimento vorticoso ha prodotto combinazioni di atomi simili per grandezza e figura, dalle quali gli atomi che non erano simili sono stati espulsi, così come in un setaccio i granelli di frumento, di orzo o le lenticchie vengono a separarsi fra loro per unirsi ai loro simili. Da quel vortice sono poi venuti a staccarsi grandi aggregati di atomi, tra cui la nostra Terra. L'universo è composto da infiniti mondi che si avvicendano gli uni agli altri secondo un processo continuo che ha luogo in uno spazio infinito, in cui, dice Democrito anticipando idee che si affermeranno solo nell'età moderna, "non esiste basso né alto, né centro né ultimo, né estremo". Per l'assenza di ogni disegno consapevole nel movimento degli atomi, l'universo democriteo sembra dominato dalla casualità. Ma, per altro verso, guardando cioè al modo con cui gli eventi dell'universo si determinano, tutto avviene in base a cause determinate, secondo un'assoluta necessità meccanica. Ogni evento della natura accade in quanto viene prodotto da una causa materiale e questa, a sua volta, da un'altra causa e così all'infinito. Il caso e la necessità costituiscono i concetti portanti di questo grandioso modello teorico, col quale si tenta di dare una spiegazione unitaria della formazione dell'universo e dell'uomo, senza alcun intervento divino o di altre entità. Anzi, anche gli dèi sono costituiti da atomi, particolarmente leggeri, di natura ignea. Lo stesso deve dirsi dell'anima: essa è materiale, è composta da atomi di forma sferica, dotati di particolare mobilità, e muore (cioè si disgrega) col corpo. Un dossografo (Sesto Empirico) attribuirà a Democrito la tesi che gli dèi siano stati concepiti dagli uomini "in seguito ai fenomeni sorprendenti che si producono nell'universo", come effetto, cioè, della paura suscitata da alcuni fenomeni celesti (ad esempio le eclissi) o meteorologici (come i fulmini).

Conoscenza razionale e conoscenza sensibile · Il sistema democriteo è un modello di spiegazione della realtà i cui princìpi non sono dati immediatamente dall'esperienza, ma sono colti attraverso la ragione. Solo la ragione ci permette di conseguire una conoscenza autentica: essa sola ci consente di "vedere" gli atomi, che, pur essendo materiali, non possono essere colti dai sensi, capaci di vedere solo gli aggregati di atomi. La conoscenza razionale è la sola vera e oggettiva, in quanto conduce alla comprensione della struttura atomica della realtà. La conoscenza sensibile è, invece, soggettiva, in quanto è prodotta dall'incontro tra gli effluvi (o simulacri), flussi vaganti di atomi che emanano dalle cose, e gli organi sensoriali: così percepiamo suoni, odori, sapori, colori, ecc. Quello offertoci dalla sensazione è così un mondo di apparenze, e in ciò Democrito concorda con Parmenide. Tuttavia, egli si discosta dal filosofo di Elea riconoscendo alle apparenze sensibili una propria consistenza: esse non possono venire considerate come puro non-essere, perché sono l'effetto di un processo reale, ovvero del movimento e dell'incontro degli atomi.

Le técfmai e il progresso umano Diversi interpreti hanno attribuito a Democrito l'abbozzo di una teoria de/l'evoluzione e l'anticipazione di una teoria del progresso fondata sul riconoscimento del valore delle téchnai. Sulla Terra il calore del Sole ha prodotto fermentazioni da cui si sono formati gli embrioni, poi gli animali e infine gli uomini. Questi sono vissuti per lungo tempo come fiere solitarie e senza leggi. Ma erano continuamente aggrediti e cadevano vittime delle fiere. Così, spinti dal timore e dalla necessità di aiutarsi reciprocamente per sopravvivere, hanno cominciato l'un l'altro a riconoscersi, a comunicare verbalmente, radunandosi prima in branchi poi in vere e proprie comunità. Ma il salto di qualità è avvenuto con le téchnai. Privi di abitazioni, indumenti e altri mezzi essenziali, gli uomini continuavano a morire. "Ammaestrati da/l'esperienza" essi hanno allora cominciato a rifugiarsi nelle spelonche e hanno adottato strumenti (come il fuoco) indispensabili alla sopravvivenza. Così, conosciute "le altre co-

1 NATURALISTI DEL V SECOLO A.C.

se utili alla vita, poco dopo si trovarono anche le arti e tutti gli altri mezzi che possono recar giovamento alla vita in società". Quindi per gli uomini "maestro di ogni cosa fu l'uso": e l'uso "ha, come cooperatrici per ogni occorrenza, le mani, la ragione e la versatilità della mente". Il linguaggio come convenzione Democrito ha assunto come oggetto specifico di riflessione anche la comunicazione umana. Alle origini della società umana si è passati dall'emissione di suoni confusi e inarticolati ad una progressiva articolazione dei suoni e quindi alla formazione delle parole, in modo diverso nei diversi insediamenti umani, ma sempre con una "reciproca intesa" sul significato dei vocaboli. Da qui l'idea-base che il linguaggio sia frutto di convenzione (cioè di accordo all'interno di ciascuna comunità umana) e non sia quindi dato per natura, come sembrava nell'età arcaica, quando la corrispondenza strettissima fra la parola e la realtà enunciata assumeva una chiara valenza magico-religiosa. Per il filosofo, invece, (così come per i Sofisti) fra il nome e la cosa designata non" vi è alcun rapporto necessario. Il termine è un simbolo convenzionale di quella cosa. Esso è frutto casuale di un'evoluzione e di un accordo, quindi è diverso da luogo a luogo e si modifica nel tempo.

L'etica della saggezza Anche sul piano della concezione morale Democrito assume una posizione originale, con la quale comincia ad esprimersi una profonda crisi del modello della polis come orizzonte etico .dell'individuo. Per Democrito, infatti, se si vuol vivere in piena tranquillità d'animo e raggiungere uno stato di felicità bisogna rifuggire da un impegno politico pieno, anche quando sembra che la sorte sia favorevole. Obiettivo prioritario della condotta è la saggezza, cioè una forma stabile di equilibrio, di moderazione e di controllo dei propri atti. La felicità non si consegue con la conquista del poter~ o con l'accumulazione di ricchezze, perché "è l'anima la dimora della nostra sorte". E quindi a noi, alle scelte da noi compiute (non agli dèi o alla cattiva sorte), che dobbiamo far risalire la responsabilità dei nostri atti e delle loro conseguenze. Attraverso una direzione intelligente della condotta e con un livello adeguato di consapevolezza e di .convinzione individuali è possibile costruire un nuovo codice etico. A questo l'individuo deve guardare.come quadro ideale di riferimento per le proprie scelte. E deve farlo in una nuova condizione di solitudine, in quanto il sistema della p6/is non sembra più fornire le certezze di un tempo. Esso, infatti, comincia a entrare in crisi dopo aver toccato - nell'età di Pericle e in Atene - il suo apogeo.

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l. NATIJRAUSTI

DEL V SECOLO A.C.

Nel V secolo Atene è centro. di irradia- \ zione culturale per 1%tera società ellenica.

.I

Mirane,

Discobolo,

480-460 a. C. Copia romana in marmo. Roma, Museo Nazionale.

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.~

ANTOLOGIA TESTO

I

NON VI È NASCITA, NÉ MORTE

EMPEDOCLE

Empedocle ha consegnato le proprie concezioni filosofiche ad un poema intitolato Sulla natura, di cui qui sono riportati due brani del libro primo. Ancora una volta ci imbattiamo in un poema, a riprova della pluralità delle forme testuali che è propria della filosofia greca antica e del perdurare del testo poetico come forma ritenuta adeguata al filosofare. Il linguaggio di Empedocle è a volte enigmatico ed ermetico, ma i suoi versi sanno comunicare anche la passione per la ricerca e per la comprensione dei problemi della condizione umana. piste di Lettura Secondo Empedocle: • non vi è vera nascita e morte, ma solo mescolanza e separazione degli elementi, che costuiscono gli esseri; • nell'universo l'Amore ha la funzione di unire, l'Odio di dividere.

Non temere la morte Un'altra cosa ti dirò, che per nessun mortale esiste una generazione o una morte che lo distrugga, [1] ma solo un mescolarsi e separarsi di elementi; che gli uomini chiamano nascere. Quando alla luce del cielo furono mescolati elementi in forma umana, o in specie campestri, in virgulti o uccelli, questo chiamavano nascere. E quando si discioglievano da quella mescolanza, questo chiamavano destino crudele [di morte]. Essi così danno· i nomi come sancito1 ed anch'io acconsento a questa norma. Ma gli uomini temono la morte vendicatrice, [2] stolti, che non mostrano certo acutezza .di ingegno con quei loro affanni, con quell'attendersi che nasca ciò che prima non esiste, o che possa perire del tutto, distruggersi [ciò che esiste].

1. Come un fatto ormai consolidato, nel linguaggio e nell'uso.

L'amore cosmico Ecco infine, in aggiunta a ciò che ho finora detto, se resta qualche dubbio per l'oscurità delle mie precedenti parole, guarda questa testimonianza: il sole che è così smagliante alla vista, caldo ovunque, e i corpi che s'immergono eterei nel suo tepore e nella sua bianca luce; [3] poi la pioggia oscura e tesa, che ovunque si distende, ma che genera ·anch'essa dalla terra virgulti e alberi. Durante il dominio dell'Odio,

IJJ

Gli elementi sono ingenerati e immutabili. Nella natura non c'è né nascita né morte, ma solo mescolanza e separazione degli elementi. In tal · modo, Empedocle cerca di salvaguardare l'istanza parmenidea che il principio (l'essere) sia immutabile, eterno, ingenerato.

12.J La concezione della realtà si coniuga con le angosce umane e in qualche modo risponde ad esse, soprattutto all'angoscia fondamentale, quella della morte. Niente si distrugge e niente veramente vie-

ne ad esistere. È il linguaggio degli uomini, è la loro falsa prospettiva che parla di generazione e morte. Gli uomini devono assumere, invece, il punto di vista della filosofia, quello del ciclo universale delle cose.

[TI Non è solo l'ispirazione poetica ad animare questi versi, ma è anche l'.amore per la natura, la passione per l'indagine sulla natura che conduce il filosofo-poeta a osservare e a cogliere l'incanto delle cose.

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1 NAnJRALISTI

DEL V SECOLO A.C.

tutto è contorto e in contrasto, mentre quandp [sopravviene] l'Amore gli elementi che costituiscono tutti gli esseri che furono, sono e saranno si accostano l'uno all'altro desiderandosi, (4) e così si generano alberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e i pesci che vivono nell'acqua, · i numi eterni i:!d eccelsi. Solo quegli elementi esistono, infatti, diventando corpi di ogni genere, passando gli uni con gli altri; questo esiste e questo il mescolarsi trasforma, come avviene con i pittori che dipingono pareti variopinte, con competenza e intelligenza, prendendo tinture diverse, mescolandole armoniosamente in misura maggiore o minore, foggiando con esse figure che somigliano a tutto, (5) costruendo alberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e con essi i pesci che vivono in acqua ed i numi eterni ed eccelsi. Non ingannarti, quindi, non pensare che altra sia l'origine dei mortali che sono a te manifesti e che si riproducono all'infinito. da Empedocle, Sulia natura, in DK 31 B 8, 9, 10, 11 - DK 31 B 21, 23

~ L'Odio e l'Amore sono le due forze cosmiche che muovono i quattro elementi e con la loro opera producono il ciclo cosmico. L'Odio divide e oppone, l'Amore accosta gli elementi tra di loro e genera un reciproco desiderio.

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cosl l'Amore fa con i quattro elementi originari, dando vita ai diversi esseri. Ma non si può dire che la funzione dell'Odio sia del tutto negativa, come quella dell'Amore non è solo positiva: infatti, c'è bisogno di entrambi per dar luogo alla "eterna vita" dell'universo.

Come i pittori "mischiano in armonia" i colori,

Prove di Verifica

III Spiega il significato delle parole: "per nessun mortale esiste una generazione".

m

Riporta le frasi che descrivono la funzione dell'Odio e dell'Amore. Spiega perché non si può dire di ciascuna delle due forze cosmiche né che sono del tutto positive, né del tutto negative.

TESTO

2

LE OMEOMERIE E IL NOUS - - - - - - - - - -

ANASSAGORA

Su Anassagora presentiamo alcune testimonianze provenienti da opere di Aristotele, dalle quali è possibile ricostruire la dottrina del filosofo di Clazomene. Si può notare come Aristotele nel riferire tale dottrina prenda posizione, a favore o a sfavore, su alcuni aspetti particolari. Piste di Lettura Aristotele afferma che per Anassagora: • i princìpi materiali, o particelle qualitative (omeomerie),- sono invisibili, infiniti di numero ed eterni; • mentre le particelle qualitative non periscono, le cose nascono o muoiono per composizione o scomposizione degli aggregati formati con tali particelle; • principio del movimento e dell'ordine delle cose è una causa intelligente (il Nous).

1 NA1URAL1Sll DEL V SECOLO A.C.

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Anassagora di Clazomene, che per età gli [a Empedocle] è anteriore ma posteriore per attività, dice che i princìpi sono infiniti; [1] e infatti quasi tutte le omeomerie, come l'acqua o il fuoco, egli dice che nascono e periscono solo per composizione e separazione e che in altro modo non nascono né periscono, ma durano eterne. da Aristotele, Metafisica, A 3 984a 11 (OK 59 A 43)

A proposito degli elementi Anassagora la pensa in modo opposto a Empedocle. Questo, infatti, dice che il fuoco .e gli altri elementi dello stesso ordine sono gli elementi dei corpi e che tutti i corpi si formano da questi; Anassagora il contrario: elementi sono le omeomerie, voglio dire ad esempio la carne, l'osso e ciascuno di questi, mentre l'aria e il fuoco sono mescolanza di questi e di tutti gli altri semi; entrambi sono un aggregato di tutte le invisibili omeomerie. da Aristotele, Il cielo, 3 302a 28 (OK 59 A 43)

Anassagora sostiene che ogni parte sia una mescolanza allo stesso modo del tutto, perché vede che ogni cosa viene. da ogni cosa: (2) per questo motivo pare ch'egli affermi che un tempo tutte le cose erano insieme, ad esempio questa carne e quest'osso e così quest'altro, sia quel che sia, e insomma tutto - e lo erano, proprio contemporaneamente, perché l'inizio della separazione non si verificò soltanto per ciascuna cosa, ma per tutte. E poiché ciò che è prodotto è prodotto da un corpo di determinata natura e di tutte le cose c'è generazione, solo che ciò non avviene contemporaneamente, anche per tale generazione ci dev'essere un principio, ed unico, ch'egli chiama Intelletto e l'Intelletto lavora da un certo inizio pensando: sicché di necessità in un certo momento tutte le cose erano insieme (3) e in un certo momento cominciarono ad essere mosse. da Aristotele, Fisica, 4 203a 19 (OK 59 A 45)

Anassagora si serve dell'intelletto come di un deus ex machina (4) per rendere conto della costruzione del mondo e quando non sa spiegare per quale motivo una cosa è di necessità [quel che è], allora lo fa intervenire, mentre per gli altri casi indica come causa tutto fuorché l'Intelletto. [5] da Aristotele, Metafisica, A 4 985a 18 (OK 59 A 47)

12.J Le particelle qualitative (omeomerie le chiama Aristotele) sono infinite, ingenerate e incorruttibili, mentre tutti gli esseri, in quanto aggregati di tali particelle, nascono per composizione e si dissolvono per separazione delle particelle. L'infinità degli elementi è una delle grandi novità del pensiero di Anassagora rispetto a quello di Empedocle. [Il Per la fisica qualitativa di Anassagora tutte le particelle si trovano in ogni cosa e ciascun~ di tali cose è caratterizzata da una particella "dominante". Ad esempio, la particella "oro" domina nell'oro, anche se in questo vi sono infinite altre particelle, persino carne, legno, argento, ecc. Una natura qualitativa (l'oro, nell'esempio) non può derivare da altra natura (carne, argento, ecc.), poiché ciò costituirebbe una contraddizione insolubile, dal punto di vista parmenideo (sarebbe come la nascita di un essere dal non-essere, cioè da una qualità del tutto diversa). .

[!] Alle origini tutto era mescolato a tutto. Perché vi fosse generazione occorreva un altro principio, l'Intelletto (NoW;), il quale, pensando, ha attivato il processo di separazione e aggregazione dei "semi". [!] Aristotele critica Anassagora che usa il NoUs come il deus ex machina della tragedia, il dio salvatore, colui al quale il drammaturgo assegna il compito di dirimere un contrasto drammatico, che sarebbe altrimenti insolubile. In questo caso, il NoUs interviene a risolvere il "dramma" dell'impossibilità di trovare una causa di qualche evento.

ITJ

Aristotele saluta come un fatto positivo la scelta di Anassagora di attribuire al NoUs (a una intelligenza ordinatrice) la formazione dell'universo. Ma respinge la tendenza di Anassagora a ricorrere, per la spiegazione di molti fenomeni, a cause di tipo meccanico e non finalistico.

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J NATURALISTI DEL V SECOLO A.C.

Perciò dice giustamente Anassagora quando afferma che l'Intelletto non subisce niente ed è privo di mistione, dal momento che lo fa principio del movimento. Soltanto così potrebbe muovere, essendo immobile, e dominare. essendo privo di mescolanza. [6] da Aristotele, Fisica, 5 256b 24 (DK 59 A 56)

In effetti chi disse che come negli esseri viventi così nella natura c'è l'Intelletto, causa del cosmo e dell'ordine universale, apparve un uomo saggio [7] al contrario di coloro che l'avevano preceduto e parlavano a caso. da Aristotele, Metafisica, A 3 984b 15 (DK 59 A 58)

[!] In quanto principio per il movimento, il NoUs è "privo di mescolanza", cioè semplice. Al Not1s anassagoreo, che muove senza muoversi, Aristotele attribuisce· alcuni caratteri della propria concezione di Dio (che per Aristotele era, appunto, "motore immobile".

TESTO

3

LA FISICA

0

Malgrado tutte le critiche, Aristotele sembra esprimere una valutazione positiva dell'Intelletto anassagoreo, principio del movimento e dell'ordine cosmico.

DEGLI ATOMI

DEMOCRITO

Ancora Aristotele ci informa sui princìpi della fisica atomistica di Leucippo e Democrito. Anche in questo caso è possibile notare fa presa di posizione aristotelica nei confronti della dottrina esposta. piste di Lettura Aristotele afferma che gli atomisti: • hanno sostenuto l'impossibilità di una divisione all'infinito dei corpi; •'hanno posto il pieno e il vuoto come elementi, chiamandoli essere e non-essere, atomi e spazio vuoto, assegnando così anche al vuoto il carattere di ~ealtà; •considerano tutti i corpi come aggregati degli a.tomi.

Perché c'è una grave difficoltà, se si ammette che esista un corpo e una grandezza divisibile [all'infinito] e che questa divisione sia possibile. Che cosa infatti ci sarà, che sfugga alla divisione? [.. .] In generale se una cosa è per natura assolutamente divisibile ed essa venga [di fatto] divisa, non ci sarà [in ciò] nulla d'impossibile, poiché neppure se si trattasse di dividerla in diecimila volte diecimila ci sarebbe nulla d'impossibile, benché forse nessuno possa fare una tale divisione. Poiché dunque il corpo è assolutamente tale [divisibile], lo si divida. Che cosa resterà allora? [1] Una grandezza? Non è possibile, perché allora vi sarebbe qualcosa di non diviso, mentre era interamente divisibile. Ma ammesso che non resti né corpo né grandezza e tuttavia si proceda alla divisione, o il corpo consterà di punti e le parti di eui è composto saranno prive di grandezza, oppure queste parti saranno null'af-

ITJ

Viene qui riportata l'argomentazione di Democrito circa l'impossibilità di una divisione all'infinito dei corpi e delle grandezze. Se il corpo fos-

se divisibile all'infinito, sarebbe privo di grandezza o coinciderebbe con il nulla. Da qui l'esigenza che esistano atomi, enti non-divisibili (a-tomo().

1 NATURAUSTI

DEL V SECOLO A.C.

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fatto: sicché, se risulterà o sarà composto di nulla, anche il tutto sarà null'altro che apparenza. da Aristotele, Generazione e corruzione, A 2 316a 14 (DK 68 A 37)

Leucippo, invece, e il suo seguace Democrito pongono come elementi il pieno e il vuoto, e chiamano l'uno essere e l'altro non-essere; e precisamente chiamano il pieno e il solido essere e il vuoto non-essere; e per questo sostengono che l'essere non ha affatto più realtà del non-essere, [2] in quanto il pieno non ha più realtà del vuoto. E pongono questi elementi come cause materiali degli esseri. E, come coloro che concepiscono come unica la sostanza che serve da· fondamento e fanno risalire le altre cose alle modificazioni di questa· introducendo il raro e il denso come princìpi di queste modificazioni, così nello stesso modo, Democrito e Leucippo dicono che le differenze (degli elementi) sono le cause di tutte le altre. Essi inoltre dicono che tre sono queste differenze: la figura. l'ordine e la posizione. [3] L'essere infatti - essi precisano - differisce solamente per proporzione, per contatto e per direzione. La proporzione è la forma, il contatto è l'ordine e la direzione è la posizione. In effetti, A differisce da N per la forma, AN da NA per l'ordine, mentre Z differisce da H per la posizione. Per quanto concerne il movimento, donde esso derivi e come esista negli esseri, anche costoro hanno trascurato di indagare [4] come gli altri in maniera sconsiderata. da Aristotele, Metafisica, A 4 985b (DK 67 A 6)

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Dopo la grande svolta parmenidea, fondata sul pensiero dell'essere e sulla inconcepibilità del nonessere, vi è una nuova e grande svolta, quella atomistica, che accoglie il non-essere come vuoto e l'essere come pieno (l'atomo). Come sottolinea Aristotele, l'essere, in questa concezione, non ha più realtà del non-essere. All'incompatibilità parmenidea del non-essere con l'essere, si sostituisce l'interazione di essere e non-essere, atomi e vuoto.

[E] Gli atomi differiscono tra loro solo per le pro-

prietà geometriche. In questo risiede la maggiore differenza tra l'atomismo e la concezione di Anassagora: nel carattere non qualitativo, ma quantitativo della realtà ultima delle cose, gli atomi, i quali sono sontraddistinti da figura, ordine e posizione e, a differenza delle omeomerie, non hanno qualità determinate.

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Aristotele imputa agli atomisti l'incapacità di indagare l'origine e la causa prima del movimento.

Prove di Verifica [}] Perché l'Intelletto anassagoreo, secondo Aristotele, non svolge la funzione di formazione del cosmo che, pure, gli viene assegnata? Che cosa intende quando afferma che esso è stato usato come deus ex machina? Trova la risposta nel testo aristotelico.

WCostruisci una mappa concettuale sull'impossibilità della divisione all'infinito. @J Riporta e spiega i termini utilizzati a proposito degli atomi. ~ Essere e non-essere: confronta la concezione atomista con quella parmenidea.

I SOFISTI _ _ _ _ __

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NA RIVOLUZIONE EDUCATIVA E CULTURALE

L'immagine del "sofista"

Policleto, Diadumenos, 430a.C. ca.

Copia romana in marmo. Atene, Museo Archeologico Nazionare.

A partire dalla metà del V secolo, nel panorama culturale di Atene si afferma ·una nuova figura intellettuale: quella del "sofista". I Sofisti, veri e propri maestri itineranti, offrono il proprio insegnamento a quanti, soprattutto giovani ateniesi dei ceti più elevati (aristocratici e nuovi ricchi), desiderano dotarsi delle competenze e delle capacità necessarie ad esercitare un ruolo di primo piano nella vita politica della città democratica. Provenienti da altre città dell'Ellade; i Sofisti recano ad Atene nuove esperienze culturali, essendo inoltre portatori di una visione cosmopolita, non localistica, della realtà. La tradizione filosofica, ampiamente condizionata dalle posizioni critiche assunte da Platone, ha consegnato un'imma:gine negativa del "sofista", tanto che nel linguaggio comune il termine è utilizzato per indicare. colui che, pur di far prevalere la propria tesi, ricorre a ragionamenti capziosi e ingan:.. nevoli, apparentemente corretti ma logicamente viziati; ragionamenti che, significativamente, sono detti "sofismi". In realtà, i Sofisti si trovano al centro dello scontro politico e culturale verificatosi ad Atene nel corso del V e del IV secolo. La fama negativa che li accompagna affonda le sue radici proprio in tale contesto, riecheggiando gli argomenti polemici avanzati dagli avversari: non solo i Sofisti impartivano i propri insegnamenti a pagamento, trasformando una primaria funzione sociale come la formazione dei giovani in un'attività retribuita da cui ricavare un utile personale; ma alcuni tra i loro allievi si sono resi responsabili della sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso e, con essa, della profonda crisi che ne è seguita. Solo gradualmente, e non senza fatica, la storiografia filosofica è giunta a rivalutare il ruolo culturale sostenuto dalla Sofistica, liberando questo movimento dal pregiudizio negativo che per secoli lo ha oscurato. Oggi, ai Sofisti, si riconosce il merito di avere fornito un contributo determinante alla rivoluzione educativa e culturale che ha trasformato la società ateniese nel V secolo a.e.

Due generazioni di Sofisti È convinzione largamente diffusa tra gli storici che una lettura unitaria del movimento sofistico non sia possibile, tante sono le differenze di posizione presenti al suo interno. Inoltre, nello sviluppo della Sofistica possono essere individuate due fasi diverse, legate, rispettivamente, al massimo sviluppo della democrazia ateniese e al periodo successivo alla sconfitta di Atene nella guerra con Sparta.

.1 SOASTI •La Sofistica "antica", i cui maggiori rappresentanti sono Protagora e Gorgia, ha come progetto fondamentale la formazione degli uomini in quanto cittadini, operanti "nel quadro dello Stato": essa è strettamente collegata alla democrazia della polis e alla possibilità, per ciascuno, di partecipare direttamente alla vita politica. • La "nuova" Sofistica, al contrario, si pone "contro la tradizione civica" (F. Chatelet). I suoi esponenti, personaggi di spicco minore e orientamento diverso, tendono a radicalizzare alcuni aspetti e impostazioni delle dottrine espresse dalla prima Sofistica. Se questa affermava il valore dell'individualità, collocandolo tuttavia nell'ambito della comunità politica, la nuov;;i Sofistica si fa portatrice di un individualismo esasperato, senza o contro lo Stato, tanto che si è potuto parlare di una sua caratterizzazione "anarchica". Fra l'una e l'altra fase c'è lo sconvolgimento prodotto dalla sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso.

PAIDÉIA E SOPHfA Una nuova paidéia Nella storia dell'educazione occidentale e della pedagogia, i Sofisti meritano un posto di grande rilievo per avere elaborato una concezione della paidéia che presenta i seguenti caratteri: •

si rivolge non solo al fanciullo (pais), ma anche all'uomo in via di formazione e all'adulto;



persegue la formazione completa dell'uomo (riguardante sia il corpo che la mente);



si ispira a un'idea democratica di formazione del cittadino.

Nelle poleis elleniche a governo democratico lo sviluppo economico e il consolidamento della democrazia richiedono - nel V secolo - la formazione di una nuova classe dirigente, che sia all'altezza dei problemi di governo propri di una società complessa. La nuova educazione ha dunque come punto di riferimento lo Stato democratico, come fine l'uomo della polis e come contenuto una cultura ricca ed estesa: un tale modello educativo, infatti, scrive Werner Jaeger, "riconosce nel sapere la nuova grande potenza spirituale di quell'età, una forza plasmatrice dell'uomo e la pone al servizio di quel compito"; da esso ha origine - a suo awiso - l'idea occidentale di cultura. I Sofisti si propongono di insegnare ai giovani la sophfa, intendendo con questo termine non solo un saper fare politico, ma anche un'ampia gamma di conoscenze, che va dalla poesia alla scienza della natura, dalla mitologia alla politica. D'altra parte, il termine greco sophistoi significa letteralmente "i sapientissimi". In tal modo gli esponenti della Sofistica hanno elaborato una nuova enciclopedia del sapere e hanno concorso alla costruzione di .un'immagine unitaria della tradizione culturale greca, insegnando, allo stesso tempo, materie scientifiche, letterarie e artistico-musicali. Si tratta di una cultura generale che vuole essere immune dai limiti della specializzazione, perché non mira a formare degli specialisti, bensì uomini "completi".

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1 SOASTI

Insegnare la "virtù" Come già la paidéia aristocratica, anche il progetto educativo dei Sofisti è diretto all' aretè, cioè alla formazione morale dell'individuo e non solo a quella intellettuale. Il concetto di virtù (areté), però, è ora strettamente collegato alla polis e riferito al modello ideale del cittadino capace di contribuire attivamente alla vita politica democratica. L'opera dei Sofisti, infatti, è inscindibile dalla polis, da una città che "educa gli uomini" (come aveva scritto il poeta Simonide) in un contesto caratterizzato in primo luogo dall' isonomfa, cioè da una legge di fronte alla quale tutti i cittadini liberi sono uguali. In tal senso, la città si presenta nel V secolo a.C. come una vera e propria "agenzia educativa", che esercita questo compito fondamentale in molti modi: dalle assemblee, alle feste religiose, al teatro. La legge e la giustizia costituiscono i cardini della polis democratica, che vuole sostituire al potere della forza quello della legge, perché senza leggi che regolano i loro rapporti gli uomini non possono vivere insieme. Il sofista Protagora sarà tra i più convinti assertori e difensori di questo vincolo, che rende possibile la convivenza degli uomini (e, dunque, la polis) e che però richiede a tutti i cittadini l'esercizio della virtù politica. La critica sofista si dirige in primo luogo contro l'idea tradizionale che considerava I' areté (e con essa l'educazione) un privilegio esclusivo della nobiltà. La virtù, sostengono i Sofisti, può essere appresa e di conseguenza tutti possono conseguirla. Coerentemente con tale posizione, essi si propongono di "insegnare la virtù". Questa non è più identificabile con i valori affermati dall'aristocrazia, ma consiste nel possesso di determinate capacità, in particolare la capacità di parlare, di persuadere i concittadini, di affermare le proprie ragioni in una pluralità di situazioni, connesse all'esercizio della libertà politica nelle assemblee popolari, alla partecipazione alla vita. dei tribunali o alla sempre più fitta rete di relazioni diplomatiche fra le p6/eis della Grecia. Si tratta, in altri termini, della virtù politica, indispensabile per la . formazione della nuova classe dirigente democratica. Per insegnare e apprend~re la politiché téchne, le sole abilità elementari del leggere e dello scrivere o del ricordare e citare i versi di Omero o di Esiodo non sono sufficienti. Occorrono una preparazione ed un livello di competenze di tipo superiore, di cui i Sofisti si presentano come depositari e dispensatori. Avendo razionalmente elaborato e perseguito il progetto di una nuova educazione, essi sono oggi considerati i fondatori della scienza dell'educazione (o pedagogia).

IL RELATMSMO Portatoti di un sapere enciclopedico e maestri di virtù politica, i Sofisti possono essere considerati dei "filosofi"? Platone lo ha escluso, con la motivazione che essi erano incapaci di giungere ad una conoscenza "vera" e sulle questioni fondamentali (ad esempio, ·su quelle della virtù e del bene) si fermavano al mero livello dell'opinione. Aristotele li ha esclusi, per questo, dalla sua "storia" della filosofia. Ancora oggi, diversi interpreti negano che i Sofisti siano stati dei filosofi (ritenendo che l'intento della loro attività fosse pratico e non teoretico): se nelle loro posizioni si possono cogliere alcurii "spunti" filosofici, mancherebbe però in essi una "filosofia" vera e propria, cioè un sistema teorico ben definito, organico e coerente. In effetti, anche coloro che considerano i Sofisti dei "filosofi" a pieno titolo ritengono impossibile individuare - fra le diverse posizioni - una comune matrice filosofica, se non quella di una concezione relativistica della conoscenza. Un aspetto estremamente significativo dell'esperienza intellettuale dei Sofisti è co-

1 SOASTI stituito dalla scoperta (condivisa con la nascente storiografia) della straordinaria varietà delle tradizioni culturali esistenti nel mondo allora conosciuto e della profonda diversità dei codici morali esistenti fra i vari popoli. Come è scritto nei Discorsi duplici (un celebre scritto anonimo di ispirazione sofistica, risalente alle fine del V sec. a.C.), per i Greci è brutto e riprovevole dò che appare bello a Macedoni, Sciti, o Traci. Ciò che è male per gli uni è bene per gli altri; e viceversa. Alla pluralità delle culture umane si accompagna così l'affermazione del relativismo etico, che comporta l'impossibilità di definire, in modo assoluto, ciò che è bene e ciò che è male. I Sofisti propongono l'utile come criterio fondamentale della condotta individuale e collettiva: in tal modo, il valore degli àtti compiuti è sancito dalle loro conseguenze pratiche.

POTENZA E SCIENZA DELLA PAROLA Nel quadro dell'insegnamento sofistico, caratterizzato da un'estrema varietà di contenuti, un ruolo centrale spetta all'arte della retorica, ossia alla tecnica del di. scorso persuasivo. La situazione politica e culturale, infatti, richiede all'individuo una vincente capacità persuasiva, che è possibile raggiungere attraverso· una completa padronanza del linguaggio, con le sue regole grammaticali e sintattiche, e la conoscenza dei princìpi logici dell'argomentazione. In questa prospettiva si collocano i Discorsi duplici. In essi si mostra come, dal punto di vista strettamente logico, ad ogni tesi affermata dalla ragione come "vera" si possa opporre una tesi contraria, ma "vera" quanto la prima. È il terreno delle antilogie, cioè dei discorsi contrapposti, in cui si consolidano le competenze linguistiche e le tecniche argomentative necessarie a prevalere nel confronto verbale e a imporre così le proprie idee. I Sofisti avvertono appieno la potenza della parola e la possibilità che il discorso possa essere strumento di dominio sulle masse. Essi sono ben consapevoli del fatto che, usando e modulando la parola in forma diversa a seconda delle situazioni e degli interlocutori, gli individui possano riuscire a soddisfare le proprie ambizioni. L'attività di questo gruppo di' intellettuali è contestuale all'affermarsi, nella polis, di un altissimo livello di competitività; di un sempre più marcato individualismo negli atteggiamenti e nei comportamenti dei cittadini. L'uso sociale delle nuove tecniche sofistiche del discorso è spesso volto alla pura e semplice affermazione di sé, ad un impiego spregiudicato della parola ai fini della conquista del potere. Anche questo sconvolge dalle fondamenta la morale tradizionale. La scienza del linguaggio

Consapevoli del pluralismo culturale e linguistico che caratterizza la società umana, i Sofisti respingono la tesi di un'origine naturale del linguaggio; questo sarebbe il frutto di una convenzione umana, un prodotto artificiale. Tale posizione, unitamente alla funzione primaria attribuita alla téchne della parola, spiega l'impegno dei Sofisti nell'ambito dell'analisi e della riflessione teorica sul linguaggio; con essi ha origine una nuova disciplina: la linguistica. Se la parola è mezzo essenziale di comunicazione sociale e strumento di governo, bisogna in-

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1 SOASTI segnarne l'uso corretto precisando la struttura grammaticale della lingua greca. Protagora, ad esempio, impartisce un insegnamento grammaticale attraverso la lettura e l'interpretazione dei poeti, riflettendo. sulle loro espressioni, cogliendo la frequente ambiguità dei termini adottati, costruendo ragionamenti pro e contro determinate interpretazioni del significato delle parole. È in questo contesto che viene elaborata la classificazione dei tempi dei verbi e dei generi dei nomi.

PROTAGORA Protagora nasce nel 486 a.e. ad Abdera (come Democrito) e soggiorna più volte ad Atene: prima chiamatovi da Pericle per elaborare, nel 444, una Costituzione per la colonia di Turi; poi, ancora, nel 432, nel 421 e nel 411. Successivamente all'avvento del regime oligarchico, costretto alla fuga dopo essere stato processato e condannato per "empietà", egli muore in seguito a un naufragio. A Protagora sono state attribuite diverse opere, fra cui la Verità e le Antilogie (discorsi contrapposti, di difesa e confutazione di una stessa tesi); per lui si potrebbe azzardare la definizione di "filosofo" della Sofistica, in quanto ha formulato le tesi che fanno da sfondo all'intero movimento. Tra i Sofisti, Protagora è colui che più decisamente inscrive l'impegno educativo nel quadro della polis, coniugando il valore dell'individuo con quello della collettività.

Il relativismo della conoscenza Per Protagora una verità oggettiva, valida per tutti, non c'è, poiché "l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono". In altre parole, il mondo è per ciascuno di noi come egli lo percepisce. La conoscenz~ ha il suo fondamento nell'esperienza, cioè nel fluire incessante delle sensazioni. Queste mutano da individuo a individuo, da situazione a situazione, da un momento all'altro. Le cose, da un punto di vista conoscitivo, dipendono dai modi con cui vengono percepite dal soggetto, il quale afferma o nega che esse siano o non siano, a seconda di ciò che a lui sembra o non sembra. Venuta meno la possibilità di dire come sono le cose in se stesse, non si può affermare, però, che tutte le opinioni individuali si equivalgano, perché alcune sono utili e altre meno. In tal senso, il criterio di verità si trasforma nel criterio di utilità sociale: è vero solo quello che, nella dialettica delle opinioni, nella società cittadina, è affermato come tale. In questo contesto si spiega l'affermazione, attribuita a Protagora, secondo la quale egli era in grado di rendere forte /'opinione debole e debole /'opinione forte. Egli intendeva dire, infatti, che, quando si confrontano opinioni tra le quali si deve valutare e scegliere la più utile per la polis, chi ha appreso la téchne politica è in grado di dar forza e rendere più persuasiva - ad esempio in un'assemblea o in un tribunale - una opinione che inizialmente si presenta debole, cioè poco convincente e poco diffusa. È per questo che bisogna diventare esperti nell'eristica e saper fare i conti con le antilogie.

L'insegnabilità della virtù La cultura aristocratica - si è già ricordato - aveva sostenuto per lungo tempo che virtuosi fossero soltanto gli aristoi ("i migliori"). Uno degli aspetti più rivoluzionari dei Sofisti, e di Protagora in primo luogo, è quello di rivendicare la virtù come una possibilità per tutti i cittadini, togliendone il monopolio alla sola aristocrazia, che su di esso fondava la propria preminenza sociale. L'esperienza mostra che gli uomini possono cambiare abitudini e modelli di comportamento con la riflessione, lo studio e l'esercizio. Il compito dell'educazione (un compito "civico", di cui Protagora e la Sofistica intendono farsi carico) è quindi quello di favorire il passaggio da un tipo di condotta ad un'altra considerata migliore, così come il medico favorisce - attraverso le prescrizioni e le cure - il passaggio da uno stato di malattia ad uno di salute. · "Insegnabile", per Protagora e per i Sofisti, è soprattutto I' areté politica. La virtù non è più identificabile con il valore guerriero e le abilità militari, ma con quel sapere, con il possesso di quelle tecniche che sono indispensabili per partecipare alla vita della polis. In un famoso mito riportato nel dialogo platonico Protagora, il Sofista racconta che, nella distribuzione divina di capacità e doti a tutti gli esseri viventi, agli uomini è spettata soprattutto I' areté politica. Infatti, essendo lacerati dalle discordie, gli uomi-

1 SoASTI ni non potevano beneficiare dell'uso del fuoco, avuto in dono da Prometeo, e delle tecniche che avevano sviluppato. Zeus, allora, donò loro la sophfa politiché, la saggezza politica, che consiste nel rispetto tra eguali e nella gi~stizia: queste sono le basi su cui poggia la polis. Senza la virtù politica, "dono di Zeus", per il genere umano sarebbero impossibili la stessa sopravvivenza e ogni progresso. Si è detto che il mito di Protagora si configura come "il mito di fondazione della città greca" (M. Vegetti), perché esalta quella virtù che sola rende possibile la polis, ancorandola alla socializzazione collaborativa. La legge, che della p6/is è il fulcro, per Protagora è frutto di convenzione, cioè è espressione della volontà umana e non - come si riteneva nel passato - del volere divino. Ne è dimostrazione l'esperienza dei cittadini ateniesi, chiamati nelle assemblee a partecipare alla discussione e alla formazione delle leggi, oppure ad approvare le norme costituzionali per le colonie di nuova fondazione: un'esperienza, quest'ultima, di cui lo stesso Protagora è stato testimone e protagonista.

Un caso di agnosticismo religioso? Il termine "agnostico" (coniato nell'età contemporanea) indica chi non prende posizione né a favore né contro l'esistenza degli dèi. In un frammento pervenutoci Protagora afferma: "Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono,

né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: /'oscurità de/l'argomento e la brevità della vita umana". Già da parte di alcuni suoi contemporanei questa affermazione viene interpretata come una posizione di ateismo mascherato. Pur senza avere elementi validi per comprovare questa interpretazione, è certo che la tesi protagorea colpiva al cuore uno dei pilastri della polis, rappresentato dalla religiosità tradizionale . . Per questo, dunque, egli venne giudicato, condannato e costretto alla fuga. L'affermazione di Protagora era un segno della radicalità dell'attacco e della critica alla cultura tradizionale? Era una riprova delle posizioni spregiudicate che circolavano - come già testimoniato dalle affermazioni di Anassagora - nel gruppo di intellettuali del "circolo" di Pericle? Oppure rivelava la consapevolezza dei limiti invalicabili della conoscenza umana? Ecerto, comunque, che nel quadro del razionalismo sofistico una considerazione positiva del fatto religioso non trova spazio.

GORGIA

Gorgia nasce a Lentini, in Sicilia, nel 485 a.e. e forse diviene discepolo di Empedocle. Visita i maggiori centri ellenici, insegnando la retorica e riscuotendo un grande successo. Nel 427 giunge ad Atene (per svolgervi un inç:arico diplomatico a favore della sua Città, minacciàta dalla potente Siracusa) e in segi.Jitoyi tornerà più volte, accrescendo ulteriormente la propria fama. Delle numerose opere attribuitegli (in gran parte perdute) la più importante è quella dal titolo Sulla natura o ·sul non essere, che si presenta come il capovolgimento delle tesi di Melisso (la cui opera principale, ricordiamo, aveva appunto il titolo Sul/a natura o su/l'essere) e, più in generale, dell'Eleatismo. Suoi sono anche l'Encomio di

Elena e l'Apologia di Palamede.

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Rispetto a Protagora, Gorgia sviluppa maggiormente i temi della retorica, dell'analisi del linguaggio e della critica alla cultura tradizionale.

Retorica, poesia e potenza della parola Per Gorgia la parola ha un enorme potere: essa "è una grande dominatrice, che con piccolissimo e invisibile corpo sa compiere grandi cose; riesce, infatti, a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà". Riesce cioè ad orientare i sentimenti altrui, condizionando il comportamento degli individui e influendo, in tal modo, sulla vita della comunità. G9rgia descrive questo potere della parola nell'Encomio di Elena, nel quale rovescia un luogo comune consolidato, quello della responsabilità di Elena in ordine alla guerra di Troia. Suggestionata da Paride con "bei discorsi", privata della coscienza di sé e della capacità di autocontrollo, Elena non poteva, infatti, essere responsabile dell'adulterio commesso. Gorgia sostiene che sono le emozioni a spingere gli uomini ad agire anche contro le leggi e le convenzioni sociali; quelle emozioni che anche il discorso è in grado di

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suscitare, grazie al potere incantatore della parola. È questo il motivo per .cui la retorica è superiore ad ogni altra "arte". La stessa carica di persuasione è attribuita alla poesia: essa è costruita su un discorso incantatore, che avvince a sé chi l'ascolta e "infonde un tremore di paura, una commozione carica di lacrime e un rimpianto incline alla tristezza". Gorgia, in tal modo, modifica profondamente l'idea tradizionale della poesia, negando che ad essa competa una funzione profetica. Proprio come il retore, il poeta incanta, trascinando con sé l'ascoltatore, togliendogli il controllo dei propri atti e portandolo a compiere azioni non volute. Non più "maestro di verità", il poeta sembra svolgere il ruolo del "persuasore occulto", di colui che entra segretamente nella mente altrui riuscendo così ad agire per interposta persona; questa funzione del poeta sarebbe stata denunciata con forza, negli anni seguenti, da Socrate e da Platone. La retorica ha una evidente valenza politica. Il retore, sapendo condurre i discorsi, cattura il consenso della massa. A lui devono rivolgersi coloro che intendono affermarsi nella vita politica e coloro che gestiscono il potere nella polis democratica, in cui il popolo resta pur sempre - per ignoranza - privo del potere della parola, quindi oggetto dei discorsi e della "manipolazione" altrui. La critica del concetto parmenideo di "essere"

Le parti del trattato Sulla natura o sul non essere che sono giunte fino a noi contengono una celebre dimostrazione filosofica in cui Gorgia rovescia le tesi eleatiche, sostenendo che il piano dell'essere è inattingibile. Nella dimostrazione si afferma infatti che: 1. nulla è; 2. se anche l'essere fosse, non sarebbe conoscibile; 3. se pure fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Secondo il filosofo, tutto ciò che affermiamo dell'essere, qualunque sia il predicato che vogliamo attribuirgli, conduce a conclusioni assurde. •Consideriamo la tesi di Parmenide secondo la quale l'essere è ingenerato ed eterno. Egli aveva certamente ragione a negare che l'essere potesse generarsi dall'essere, perché già sarebbe, e dal non-essere, che, in quanto tale, non può generare l'essere. Ma, sottolinea Gorgia usando il metodo dialettico di Zenone, se si muove dall'affermazione che l'essere è ingenerato ed eterno, se ne può sostenere l'inesistenza. Ciò che è eterno, infatti, non ha principio; ma quel che non ha principio è illimitato e; in quanto illimitato, non è in alcun luogo; e ciò che non è in alcun luogo non esiste. Dunque, nulla è, o almeno nulla esiste con i caratteri di assolutezza che il filosofo di Elea attribuiva all'essere. •Ma se anche esistesse, l'essere.non sarebbe conoscibile, in quanto non vi è alcuna corrispondenza fra il pensiero e la realtà, come invece pretenderebbero gli Eleati. Non solo la reaftà del mondo sensibile non può essere colta dal pensiero, non è intellegibile per la ragione, ma vi sono contenuti del pensiero a cui non corrisponde alcunché di reale (ad esempio il centauro o la chimera). •Infine, se anche fosse conoscibile, l'essere non sarebbe comunicabile perché conclude Gorgia - il segno della comunicazione linguistica è diverso dal pensiero e dalla cosa pensata. In altri termini, la parola è un suono, quindi è altro dalle cose: il discorso non è la realtà. Per questo è del tutto convenzionale il collegamento che viene stabilito fra una parola e una cosa. Quando comunichiamo con qualcuno, esprimiamo non la realtà "ma solo una parola, che è altro da/l'oggetto". La crisi del concetto assoluto di "verità"

Quest'ultimo argomento riflette una rilevante svolta teorica, in quanto segna il superamento della identità e della non differenziazione - tipica del pensiero arcaico fra la parola, il pensiero e la realtà. La realtà, il pensiero e la comunicazione linguistica sono per Gorgia su tre piani diversi: l'essere, la realtà concepita come assoluto, se anche esistesse e fosse pensabile, sarebbe indicibile. Il pensiero e il linguaggio hanno in sé le proprie regole, senza doverle ricavare in base a una presunta corrispondenza con la realtà. L'argomentazione razionale, come si è visto, può condurre a conclusioni diametralmente opposte, ma equivalenti tra loro, così come la parola

1 SOFISTI può persuadere l'interlocutore a questa o quella tesi, sulla base del semplice potere di persuasione dell'oratore. Queste tesi di Gorgia conducono ad un'unica conclusione: che la verità, in sé, cioè almeno comeverità assoluta, come piena corrispondenza fra parola; pensiero e realtà, non esiste. Esiste invece la parola, il suo potere di persuasione e di "incantamento", una tecnica del comunicare che si avvicina pericolosamente a quella del "sedurre". Si tratta di una conclusione che i contemporanei di Gorgia vivono in modo diverso, accettandola con entusiasmo o combattendola fieramente, ma che pure - dopo millenni - tende a riproporsi con inquietante, drammatica attualità.

PRODICO Prodico nasce a Ceo e vive nella seconda metà del V secolo a.C.; si reca più volte ad Atene come ambasciatore. Anch'egli, come gli altri Sofisti, svolge un'attività di insegnamento e, forse, ha come discepoli Euripide, Socrate e Isocrate. La sua concezione della religione, che tende a spiegarne razionalmente la genesi, va ben oltre l'agnosticismo di Protagora e sembra rifarsi - per taluni aspetti - a quella di Senofane. Per Prodico, infatti, gli dèi sono il risultato di una divinizzazione - da parte degli uomini - di quegli aspetti della realtà (ad esempio il Sole) che sono particolarmente utili per l'esistenza; oppure sono uomini divinizzati per i loro meriti. Così vi è un Dioniso dio del vino, perché l'uomo ha inventato questa bevanda. Gli dèi scompaiono e restano solo gli uomini: il divino è un'invenzione umana. . A Prodico viene attribuito il merito di avere sviluppato la riflessione linguistica e, in particolare, la sinonimica, o scienza dei sinonimi. Egli, infatti, analizza il lessico evidenziando soprattutto le sfumature, cioè le differenze minime di significato esistenti fra una serie di termini. Sottolinea perciò l'equivocità delle parole e sottopone a critica il linguaggio arcaico. La sottigliezza delle distinzioni da lui operate avrà una notevole influenza sulla cultura filosofica degli anni successivi, in particolare per quel che riguarda i termini usati nel linguaggio dell'etica, che soprattutto da Socrate e da Platone verranno analizzati e sottoposti ad un severo vaglio critico utilizzando la tecnica di Prodico.

LA NUOVA GENERAZIONE SOFISTICA

IL CONFLITTO

FRA "LEGGE" E ••NATURA"

Le drammatiche vicende della guerra con Sparta mettono in evidenza fino a qual punto la polis ateniese sia internamente disunita e lacerata. La debolezza dello Stato incoraggia forme di esasperato individualismo, prive di ogni riferimento all'interesse collettivo. L'insegnamento sofistico esprime questa tendenza, ponendo al centro di ogni considerazione l'uomo e il suo interesse individuale. Si estende la critica alla religione, che assume forme sempre più forti e radicali giungendo a negare ogni trascendenza divina. L'opposizione alla polis si manifesta nella contrapposizione netta tra nomos e physis, tra legge e natura. Mentre la legge della polis è considerata un prodotto artificiale che riflette contingenti interessi di parte, la natura è vista come il fondamento delle immutabili e universali tendenze dell'uomo. La natura, quindi, si configura come "legge" primaria, di fronte alla quale le convenzioni umane debbono cedere: essa esprime un universo violento, segnato dalla competizione e dalla conflittualità. Nella "legge" di natura si esprime la dura logica del potere, egualmente lontana sia dalla giustizia che dagli dèi, un tempo fondamento e garanzia del nomos. La durezza della guerra del Peloponneso non è estranea a questa pessimistica considerazione sui limiti strutturali della legge, sulla sua debolezza nel regolare la natura e la società umane. In tale contesto emergono posizioni che esaltano la forza, la violenza e il dominio sugli altri. Il buon senso democratico e il moderatismo di Protagora sono, ormai, ben lontani: la crisi della polis ateniese ha ridato' forza alle

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1 SOFISTI posizioni aristocratiche, più legate alla forza che alla legge. Dopo la guerra, ad Atene il clima politico e culturale cambia radicalmente. Si produce una reazione contro coloro che sono ritenuti responsabili della sconfitta e del disordine interno. In particolare, la critica radicale che i nuovi Sofisti hanno rivolto alle credenze religiose appare all'opinione pubblica come un attacco allo Stato, fonte di disordine e segno di depravazione individuale. Talvolta, invece, gli stessi Sofisti esprimono tesi di parte aristocratica, rivolgendo le critiche più forti alla polis democratica, alla sua isonomia.

lppia

lppia nasce in Elide verso il 443 a.e. e svolge una brillante carriera come intellettuale politicamente impegnato (dalla parte dei democratici), ambasciatore e insegnante. Platone gli attribuisce la pretesa di possedere un sapere enciclopedico, acquisito grazie ad una particolare tecnica della memoria (o mnemotecnica), che gli permette di ripetere lunghe liste di nomi pur avendole udite una sola volta. Un sapere, il suo, non solo teorico ma anche tecnico-pratico, se egli esibisce tutto ciò che indossa (calzature e indumenti) come frutto della propria abilità artigianale. La fama di lppia è però legata alla tesi del contrasto fra la natura e le leggi create dagli uomini.Va osservato, a questo proposito, che per i Sofisti la legge è sempre il risultato di una decisione politica. La novità della tesi di lppia sta nel fatto che egli contrappone apertamente la legge e la natura: la prima è frutto di una convenzione, cioè di un accordo e di una decisione degli uomini; la seconda vale indipendentemente da questa. La legge è inoltre "tiranna degli uomini", in quanto fa violenza alla natura di questi: la legge umana vuole soddisfare interessi di particolari gruppi o Stati, mentre quella naturale guarda agli uomini come "genere umano". La posizione di lppia per un verso è apertamente cosmopolitica, perché dal punto di vista della natura tutti gli uomini sono uguali, a qualunque Stato o gruppo sociale appartengano ("per natura il simile è parente del simile'). Per un altro verso egli sembra lanciare una denuncia contro l'ordine giuridico, considerandolo estraneo alle istanze e alle esigenze degli individui, le quali riposano in una "natura" che è anche un ordine morale. Come si possono, inoltre, prendere sul serio le leggi, come si può obbedire ad esse, se gli stessi uomini che le hanno stabilite le ignorano o alla prova dei fatti le cambiano? La debolezza delle leggi è un ulteriore segno del loro limitato valore. Antifonte Un altro sofista, Antifonte, sviluppa questo orientamento. Per lui, che pure muove dall'identificazione di legge e giustizia, la legge è superata continuamente dall'evolversi della vita sociale. Né essa è in grado di riconoscere e soddisfare i bisogni degli individui. Di qui il diritto degli individui a seguire la propria natura, i bisogni primari che essa esprime. C'è un aspetto che Antifonte sottolinea particolarmente e che dimostra la superiorità della legge di natura su quella positiva (nel senso di "posta", "stabilita" da un legislatore): mentre la violazione di una legge naturale determina sicuramente un danno, in quanto le sanzioni della natura sono inevitabili, la violazione di una legge positiva comporta un male e un danno, per chi l'ha compiuta, solo nel caso che egli venga scoperto. Non vi è più, ormai, la convinzione che le leggi valgano di per sé e, perciò, debbano essere obbedite. Il loro rispetto è legato solo al timore di essere puniti. Se non vi è nulla da temere, allora sono sovrane le leggi di natura, che incarnano i bisogni primari di ogni individuo e costituiscono l'ambito della sua vera libertà, mentre le leggi positive impongono vincoli e richiedono sacrifici.

Il diritto del più forte Una prova della diversità di posizioni politiche presenti in ambiente sofistico e dei cambiamenti prodotti dalla situazione politica è data da Crizia. Questi è capo della fazione aristocratica e filospartana in Atene e "leader" del governo dei Trenta Tiranni, lontano, dunque, da quella fede democratica a cui si rifanno molti altri Sofisti. La sua concezione della politica (leggiamo nel Sisifo satiresco, da lui ispirato o scritto) prende le mosse dall'idea di uno stato originario di natura dominato dalla violenza e dall'istinto ed afferma che gli uomini inventarono la legge proprio per instaurare un ordine.

1 SOFISTI La legge ha quindi solo un significato convenzionale. Crizia riprende l'argomento di Antifonte sull'incapacità della legge umana di punire coloro che la violano di nascosto, per elaborare una interpretazione del fenomeno religioso ancora più "eversiva" di quella di Prodico. La religione, secondo Crizia, è stata escogitata da un ingegnoso governante il quale, per evitare che gli uomini trasgredissero di nascosto le leggi da lui emanate, ha alimentato nei sudditi il terrore degli dèi, cioè di entità soprannaturali capaci di vedere anche quelle violazioni della legalità e di punirne gli autori. Una volta stabiliti il carattere convenzionale e il valore relativo delle leggi, è possibile sostenere che esse debbono esprimere l'interesse dell'individuo, il suo utile; in particolare quello di coloro che, essendo più forti, si impongono sugli altri. Per Callide, gli uomini sono diversi, non uguali fra loro. Essi si dividono in deboli e forti e le leggi sono emanate proprio dai più deboli per impedire ai più forti di prevalere, mentre la natura riconoscerebbe loro quel diritto (come dimostrano i conflitti di interesse che esplodono fra gli individui e fra gli Stati). Nella nuova Sofistica si fa strada la tesi che ognuno è padrone di sé e, se è forte, tende ad imporsi sugli altri e a dominarli. l'oratore Trasimaco sviluppa questa tesi e afferma che per natura "giusto è ciò che è utile al più forte". Proprio tale giustificazione della forza capovolge i luoghi comuni della morale: giusto e felice è colui che i più considerano ingiusto e tiranno, cioè chi sa imporre il suo interesse attraverso un uso spregiudicato della forza; ingiusto e infelice diventa invece colui che la morale corrente considera buono e virtuoso. Anche queste tesi saranno - in avvenire - oggetto di un'aspra critica da parte dei filosofi, soprattutto da parte di Socrate e Platone. La critica dell'ordine tradizionale, avanzata dalla prima generazione sofistica in chiave democratica, si è ormai rovesciata nel suo contrario: il Sofista non è più colui che sostiene tesi innovative e rivoluzionarie e propone nuovi valori. Emerge, dalle tesi dei Sofisti della seconda generazione, la convinzione che il potere sia, in quanto tale, di parte e, dunque, inevitabilmente oppressivo: non sono proprio loro a riconoscere che è fallita l'ideologia della neutralità della legge come principio regolatore della vita della polis? In realtà, insieme alla Sofistica è il sistema della polis che, con Atene, comincia a entrare in crisi; o, quantomeno, entra in crisi l'idea del diritto di tutti i cittadini a governare. Proprio la storia di quegli anni, con le guerre sanguinose, le durissime lotte sociali, i processi e gli assassini politici, sembra costituire il quadro di riferimento per l"'immoralismo" di Trasimaco e Callicle.

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1 SOFlsTI Nell'Atene del V secolo, si verifica con i \ Sofisti. una· vera e propria rivoluzione culturale. Loro compito è la formazione dei nuovi quadri dirigenti della polis. Essi sono "maestri della parola" . Preminenteè·.·l'arte della rétorica, c1oe quell'insieme di conoscenze e tecniche del discorso adottabili-.di voltam volta,.• a seconda.deilesituaziùnì; degli intèdocu.: tori edegli obiettivi pre~celti; cheèrich.iesta dalle esigenze di. partecipazione .alla vita civile della polis.. · ••· ....... ·... · . · . ·• I Sofisti.riconoscono i.L pluralismo cùltura~ le e linguistico che caratterizza la società umana e la profonda diversità dei codici morali fra i vari popoli: . . Contribuiscono·. inoltre a. trasfol'.rnare'·la concezionè.·dell'aretériconoscendone •la insegnabilità, contro la cultura aristocratica·che la·consideravaun proprio patrimo-' nio ereditarìo. ·

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Oi prot~gora è la' sentenza secondo cui "l'uomo è. la .misura: di tutte lecose1', di· quelle che sono in quanto sono e di quelle che non scino in quanto nòn sono. · Le cose· vengono conosciute in relazione ai modi cOncui i I soggetto le percepisce. Una verità oggettiva, valida per tutti, non c'è, ma non ogni opinione equivalea!I'al-tra: è vero quellocheognicittàconsidera essere tale, cioè utile a .sé. .· L'areté politica:' è pertùtti i cittadinìliberi>

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Per Gorgia.la parola ha il potere grandissi-' mo di rovesci.are:anche letesi più radicate e influire sui sentimenti e sul·comportamento. Anche per Gorgia, comeper Protagora/ al-. la base dellaconoscenza c'è l'esperienza sensibile. ..·.· .. ··. · ·.. Egli afferma eh~ iLpiano dell'essere è iriaF tingibile: · · · 1.J1Ùlla è; 2. se anche l1èss~ré tg!)!)e,11oij ~~réfaqe'iq-. ·· noscibllè· ; ·• · · ·· · · ·

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