Viaggio nella filosofia. Epoche, autori, opere, temi [Vol. 2]

Table of contents :
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Il volume è frutto della collaborazione fra i tre Autori, ai quali si devono l'ideazione del progetto generale, la scelta dei contenuti e la revisione dei moduli. In particolare, Mauro Imbimbo ha curato i moduli A6, 01, 04, 07, T4; Leone Parasporo ha curato E1 (§ 2), A9; Marco Salucci ha curato E1 (§§ 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8), E2, A3, A5, T1, T2. Carmelo MarcianÒ ha curato l'AREA INTERDISCIPLINARE; Dimitri D'Andrea T6; Marina Di Bartolomeo T5; Francesco Gagliardi E3; Enio Lucherini A4, AB; Giorgio Maragliano 06; Sergio Nelli 02, 05, T3; Andrea Sani A2, A7; Letterio Scopelliti A1, 03. La selezione delle fotografie che corredano il volume è a cura di Andrea Binazzi e Francesco Saverio Tucci.

© 2008 by G. B. Palumbo & C. Editore S.p.A. coordinamento tecnico, progetto grafico e copertina

Federica Giovannini redazione

Laura Lombardini Annalisa Sita impaginazione

Silvia Pacchiarini controllo qualità

Daniela Mariani cartografia e disegni

Federigo Carnevali fotolito-

La Nuova Lito - Firenze ,

.stampa

Tipo litografia STIAV s.ù- Firenze

Proprietà artistica e letteraria della Casa Editrice Stampato in Italia ISBN 978-88-8020-664-4

Finito di stampare dalla Tipolitografia STIAV s.r.l., Firenze, nel mese di gennaio 2008 per conto della G. B. Palumbo & C. Editore S.p.A., Palermo.

Le fotocopie per uso personale de/lettore possono essere effettuate nei limiti de/15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org.

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l N D l C E G.ENERAtE

EPOCHE

1 Daii'Umanesimo al Rinascimento 2 La dotta ignoranza di Cusano 3 La pia filosofia di Ficino 4 La dignità dell'uomo: Pico della Mirandola 5 Filologia e filosofia 6 Il pensiero politico tra realismo e utopia 7 La riforma del cristianesimo 8 Naturalismo, astrologia e magia

IDI D D 19 liJl

La coincidenza degli opposti

Sapienza umana e Luce divina Visola di Utopia Libertà umana e Grazia divina Gli elementi della natura [iJ Una questione storiografica: è possibile parlare di una filosofia dell'Umanesimo? D Lamagia VERIFICHE

3

4 6

8

10 12 15

17 20 20 21 22 24

1 L'idea di modernità 2 La politica secolarizzata 3 Una gnoseologia fondata sulla soggettività e l'autocoscienza 4 La crisi della trascendenza 5 La responsabilità e l'impegno sociale della filosofia 6 L'Illuminismo

D El B D

Spinoza e la democrazia Holbach, la visione naturalistica dell'uomo Condillac, il sensismo e la statua animata La secolarizzazione della politica [l La perversione della ragione: dominio e manipolazione VERIFICHE

IDI El D

75 79 81

83 87

88 90 91

94 95

25 27

29 Il

1 Come ciò che è ovvio possa essere falso, e ciò che non è ovvio possa essere vero 2 Dalla qualità alla quantità 3 L'astronomia geocentrica 4 La distruzione dell'astronomia tolemaica 5 Scienza e religione 6 Il concetto di "rivoluzione scientifica"

69 70

31 34 38 42 50 51

Copernico Keplero in difesa di Copernico Galilei: l'annuncio delle nuove scoperte astronomiche

55 57

1111 La nuova scienza secondo Newton

62

VERIFICHE

64

François Truffaut,/1 ragazzo selvaggio

1 Campo dei fiori 2 L'universo infinito 3 Etica e concezione della storia 4 Che cos'è la conoscenza 5 Le arti speciali: memoria e magia

97

107 107 109

111 111

Vita e opere

112

O

113

58 Vuniverso infinito

l NDl CE GE NERA LE m !:archetipo dell'asinità D

L'asino cillenico Asinità e pedanteria

VERIFICHE

115 116 121 124

A4 THOMAS HOBBES 1 Il progetto hobbesiano di uno studio razionale dell'uomo 2 la critica della metafisica cartesiana 3 la conoscenza per cause 4 la genesi dello Stato spiegata more geometrico 5 lo Stato leviatano Vita e opere

1 la Nuova Atlantide 2 l ragni, le formiche e le api 3 la teoria degli idoli 4 la verità è figlia del tempo e non dell'autorità 5 la scoperta della forma 6 la teoria delle tavole Vita e opere

127 128 130 131 132 134

D

Hobbes: ragionare equivale a calcolare Hobbes nell'interpretazione di Bobbio

VERIFICHE

173 173 174 176 178 180 181 182 183 186

135

AS JOHN LOCKE O

D

I pregiudizi della mente umana !:esperimento cruciale L'importanza di Francesco Bacone per la storia della scienza

VERIFICHE

136 137 138 140

1 la teoria della conoscenza 2 la politica Vita e opere

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VERIFICHE

A3 RENÉ DESCARTES 1 Il dubbio 2 Il cogito 3 leidee 4 Aspetti della filosofia naturale: fisica e biologia 5 la morale Vita e opere

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Prima e Seconda Meditazione metafisica Il cogito: deduzione o intuizione? Descartes e la nascita della scienza moderna Morte e post-mortem

VERIFICHE

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VI

La critica all'innatismo Alcune nozioni politiche

143 146 148 152 155 159

160 166 167 169 170

189 197 200 201 203 208

A6 DAVID HUME 1 la sfida dei paradossi 2 Come rendere la filosofia una disciplina scientifica 3 la teoria della conoscenza 4 la teoria delle passioni e l'analisi del mondo morale 5 l'analisi filosofica della religione 6 la politica

211 211 212 217 220

Vita e opere

222 223

Il

224

Hume e la causalità

El Il ruolo della simpatia nella teoria morale VERIFICHE

227 232

A7 GOTTFRIED WllHELM1EIBNil ~l!•

1 Il filosofo dei "mondi possibili" 2 la logica leibniziana 3 Verità di ragione e verità di fatto 4 La teoria della sostanza: le monadi 5 Le proprietà delle monadi 6 L'armonia prestabilita · 7 La teoria della conoscenza e i Nuovi saggi sull'intelletto umano 8 l Saggi di Teodicea e l'ottimismo leibniziano 9 L'esistenza di Dio Vita e opere

IO lfl D

La nozione di sostanza individuale La monade Il migliore dei mondi possibili

VERIFICHE

235 235 237 239 240 242 244 245 247 248

249 251 254 256

2 Il "criticismo" 3 Che cosa posso sapere? 4 Che cosa devo fare? 5 Che cosa posso sperare? 6 La Critica del giudizio Vita e opere

D

Conoscenza scientifica e giudizi sintetici a priori r:etica kantiana Il giudizio estetico

275 275 276 290 293 295 297

VERIFICHE

298 300 306 311

11111 William Shakespeare,Latempesta

313

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A8JEAN~JACQUES ROUSSEAU ~1111!!11

l!llil!

1 La critica della civiltà 2 l Discorsi 3 Il contratto sociale 4 Emilio: l'educazione nuova Vita e opere

259 259 261 264 266

01.GAULEO GAULEI,LfTTfRf COPERNI(ANE Presentazione

323

&lNiN!~l!lli!fl:.J&I~l:m:BIII

O Fragile felicità fJ La realtà fondata sulla sensibilità

D

I.a fede deista I.a natura sublime madre benigna f:) La forza non fonda alcun diritto [iJ Il Contratto sociale spiegato ad Emilio

m

VERIFICHE

267 268 268 269 270 271 272

1 Come nascono le lettere 2 Lettera a Benedetto Castelli (21 dicembre 1613) 3 Lettera a Pietro Dini (23 marzo 1615) 4 Lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana ( 1615) Vita e opere VERIFICHE

324 324 328 330 338 339

INDICE (iEtU:RAI.E

VII

l N Dul CE

GI NERAL···E·

02BARUCH SPINOZAÌETICA Presentazione

erJ~i!l~·Ymllli~1~illiNlll.

341

-~ 1 La teoria della sostanza o del Dio-Natura e la derivazione degli esseri finiti 2 Contro la concezione personalistica della divinità e contro il finalismo 3 Determinismo e libero arbitrio 4 Affetti e passioni 5 Ragione e virtù

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Vita e opere VERIFICHE

343 346 350 352 355 357 359

1 la storia ideale eterna e la legge dei tre stadi 2 Alla «scuola di questa Scienza» 3 la sapienza poetica 4 li linguaggio 5 l selvaggi, i bestioni e le sterminate antichità VERIFICHE

427 430 433 435 436 438 439

06ALEXANDER GOTTLIEB BAUMGARTENi AESTHETICA· Presentazione

441

Vita e opere

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03BLAISE PASCA L, PENSIERI Presentazione

361

!liill!Hir.JN -1 fr~cescQ.,§/c~ne (1561-\626)

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Galileo Galilei (1564-1642)

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Blaise Pasca! (1623-1662)

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Arnold Geulincx (1624-1669)

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Baruch Spinoza (163,2-16ZJ-J'' {~-"~--~}iff

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,-~- : il limite insuperabile della conoscenza è dato pertanto dal suo carattere approssimativo e «congetturale» (De coniecturis, 14401444, s'intitola l'opera in cui Cusano riprende e sviluppa questa dottrina della conoscenza).

-La ragione procede con un metodo comparativo, tenta cioè di afferrare l'ignoto e l'incerto riconducendoli, mediante proporzioni e rapporti di somiglianza, a qualcosa di noto e di certo. Ma questo procedimento non si può applicare a Dio, perché mon c'è proporzione tra finito e infinitm): nella sua infinità, Dio non è commensurabile al mondo delle cose finite e non può essere trovato partendo da esse. Per la ragione, Dio è ((Ciò di cui nulla può essere maggiore)), ma questa definizione significa soltanto che Egli è indefinibile, In quanto"coincidenza inafferrabile da qualunque didegli opposti'; Dio scorso che affermi o neghi qualè incomprensibile cosa di Lui. Come l'Uno della traper l'uomo dizione neoplatonica, anche il Dio di Cusano è quindi un Deus absconditus, che ((Sfugge a ogni concettm); un Dio al quale ci si può accostare solo con l'intuizione intellettuale, cioè con una visione della mente intraducibile nelle forme discorsive proprie della conoscenza razionale. Ed è appunto una (Wisione incomprensibile)) quella in cui Dio si manifesta come coincidentia oppositorum: unità suprema in cui gli opposti non si escludono reciprocamente, come nella realtà finita, ma vengono anzi a coincidere. Dio è, insieme, il tutto e la parte, l'essere e il nulla, la potenza e l'atto, la circonferenza e la linea retta, il massimo e il minimo ... Come ciò sia possibile, la ragione umana, regolata dal principio di non contraddizione, non sarà mai in grado di comprenderlo. Può farsene tuttavia un'idea per mezzo della matematica, platonicamente concepita da Cusano come una scienza rivelatrice di verità metafisiche. La matematica mostra infatti come nell'infinito coincidano gli opposti che nel finito si escludono: un cerchio è un poligono con un numero infinito di lati; aumentando all'infinito il diametro della circonferenza, questa viene a identificarsi con la linea retta ecc. In quanto coincidentia oppositorum, Dio è l'unità in cui è "concentrata" tutta quanta la molteplicità degli enti mondani; e tale molteplicità, a sua volta, rappresenta una "espansione" dell'unità divina. Nella terminologia di Cusano: Dio è

la complicatio del mondo; il mondo è l'explicatio di Dio. In questa configurazione del rapporto tra Dio e il mondo sono riconoscibili due aspetti, la cui convivenza genera peraltro una tensione problematica. Da un lato, Cusano tiene ferma l'idea cristiana dell'assoluta alterità e trascendenza di Dio rispetto al mondo, perciò afferma che l'unità divina è ((immoltiplicabile)), sebbene da essa provenga la molteplicità degli enti mondani. Dall'altro, egli rende il mondo partecipe della natura divina (in cui è ((ComplicatO))), tanto da definirlo un Deus creatus. Per il primo aspetto, Dio è al di là del mondo; per il secondo, lo pervade. Ritornando sulla questione in opere diverse, Cusano farà prevalere ora l'uno ora l'altro aspetto. Ma è dal secondo di essi che discendono, nel suo pensiero, le conseguenze più rilevanti (e anche le acéuse di "panteismo" che gli furono rivolte). In primo luogo, il mondo partecipa di Dio riproducendone l'infinità come infinità "contratta" nel molteplice degli enti finiti. Per Cusano ogni singola cosa è un "microcosmo" che accoglie in sé (e appunto "contrae" nella propria finitezza) l'infinità del mondo: ((/n una creatura qualunque - scrive - l'universo è questa stessa creaturm. Se tutto è in tutto, niente può essere conosciuto perfettamente: per attingere l'essenza di una singola cosa finita, la sua "quiddità", occorrerebbe infatti cogliere il contrarsi in essa dell'universo infinito, il che per noi è impossibile. Così il carattere approssimativo e congetturale della conoscenza si manifesta anche nel rapporto con gli enti mondani. Del resto, la stessa ragione umana è una cosa del mondo; perciò anch'essa, somiglianza nella sua finitezza, è aperta verso tra mente umana l'infinito: la sua innata propensio- e mente divina ne a ((intendere sempre di piÙ)) è il segno di quest'apertura. Procedendo di congettura in congettura, essa si avvicina continuamente alla verità assoluta, senza poterla raggiungere, ma costituendosi in questo progresso infinito come l'immagine "contratta" della mente divina. L'esperienza della fede trae il suo significato più auten-

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tico proprio dalla somiglianza tra mente umana e mente divina: il ) si rispecchia nella vita interiore di ogni individuo (De visione Dei, 1453). È facile riconoscere, in questo apprezzamento della natura umana e della sua tensione verso l'infinito, l'ispirazione umanistica del pensiero di Cusano. La concezione del mondo come explicatio di Dio pone inoltre l'esigenza di una nuova cosmologia. Infatti, se l'infinità divina è riprodotta nell'universo fisico, questo non può essere concepito secondo i canoni della cosmologia aristotelico-tolemaica. Non essendo finito, l'universo non può avere il suo centro immobile nella terra e la circonferenza nel cielo delle stelle fisse. Il suo centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, perché entrambi si trovano idealmente in Dio, > le qualità che sono comunemente considerate virtuose, anche senza averle realmente, è la regola fondamentale del governo. Il principe, ribadisce Machiavelli, deve «parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso», perché questo costituisce l'utile suo e dello Stato. Ma guai se egli si sentisse costretto ad esserlo sempre, perché «ognuno vede quello che tu pari, pochi

sentono quello che tu sei». In genere gli uomini sono talmente infidi ed ingrati da dimenticare prima la morte del pa-

dre che la perdita del patrimonio; quindi il principe ha da «sapere bene usare la bestia e l'uomo», secondo la mitica figurazione "educativa" del centauro Chitone. Quando il principe deve usare la bestia allora deve saper essere volpe e leone, cioè usare l'astuzia e la forza, «perché il lione non si difende da' lacci, la golpe non si di-

D 1

fende da' lupi». Alla fine del trattato, Machia- 11 rapporto velli riprende il tema del rapporto tra virtù e fortuna tra virtù e fortuna, sostenendo che la riuscita delle nostre azioni dipende per metà dalla fortuna e per metà dalla nostra virtù. Per illustrare il concetto di fortuna, si avvale di due immagini: la piena di un fiume, che straripa se la virtù è incapace di fargli da argine; la donna, che l'uomo deve dominare anche con la forza fisica (visione antifemminista, questa, ben radicata nella tradizione letteraria tre-quattrocentesca). La capacità razionale di progettare l'azione politica resta, pur con tutti i limiti dovuti appunto alla casualità, l'unica valida rotta per il nuovo principe. Pessimismo e speranza sembrano dunque mescolarsi profondamente nel tentativo machiavelliano di opporsi alla rovina storica dell'Italia. Nell'oggettività della realtà naturale e politica, risalta l'individualismo rinascimentale del principe, che non può essere certo autosufficiente ma, al contrario, deve essere totalmente funzionale alla sua creatura politica, il nuovo Stato.

6.2

l'utopia di Thomas More Nel 1516 esce l'Utopia o la migliore forma dello stato, dell'inglese Thomas More (1478-1535). Questo testo inaugura il filone politico utopistico, volto a delineare una società ideale (da qui il termine 'utopia', ovvero "non luogo"), che viene contrapposta criticamente alla realtà. Mentre Machiavelli si concentra sui comportamenti politici osservabili nelle società umane, More riflette dun-

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QUADRO

GENERAI.Il

6 - Il PENSIERO POLITICO TRA REALISMO E UTOPIA

que su un modello politico non realizzato, situandolo nell'immaginaria isola di Utopia. La repubblica di Utopia è fondata sull'uguaglianza e sulla comunione dei beni; perciò è immune dalla violenza e dall'ingiustizia che affliggono il nostro mondo. Proibiti il lusso e il vagabondaggio, tutti lavorano per tutti, nell'artigianato e nell'agricoltura, avendo a disposizione tuttavia molto tempo libero. Il livello di vita è modeun modello di vita sto, ma sicuro, poiché i pasti e l'asmodesto ma sicuro sistenza sono garantiti dall'intervento pubblico. Altro carattere distintivo è la convivenza di differenti forme di religione, con la conseguente pratica della tolleranza; fra gli utopiani prevale comunque una religiosità razionale, non rivelata, i cui principi coincidono in larga parte con il cristianesimo. Sul piano politico, l'esperimento di Utopia si caratterizza per una legislazione sobria, con poche e chiare leggi, e per il principio di elettività delle cariche; i rapporti con gli altri popoli si ispirano a un ideale di fratellanza, sebbene non sia escluso il ricorso alla guerra in caso di aggressione. Assai meno innovativa è la struttura sociale, imperniata sulla famiglia e sull'autorità patriarcale. Isola felice, Utopia dà grande spazio alla musica, alle scienze, alle tecniche, alla medicina. L'assetto urbanistico riflette ideali di razionalità e di uniformità, con città costruite tutte allo stesso modo, i mercati al centro e gli ospedali alla periferia.

6.3 La Città del Sole Il modello utopistico avrà grande fortuna nell'età moderna, fino alla Rivoluzione francese ed oltre, venendo sistematicamente alimentato dai viaggi e dalle esplorazioni di società diverse da quelle europee, ma anche dal dibattito politico e dagli sviluppi della Rivoluzione scientifica. Proprio al limite estremo della civiltà rinascimentale, si situa La Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639). L'opera, scritta pro-

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SEZIONE EPOCHE R.IIIIASCIMENTC ~ fiLOSOFIA

-7 babilmente nel 1602, sotto forma di dialogo, descrive appunto la Città del Sole. Questa città ideale, costruita su un'altura e circondata da gironi di mura in numero uguale a quello dei pianeti, segue un preciso ordine urbanistico, allo scopo di ricevere gli influssi benigni che provengono dal cielo. Il modello politico operante nella Città del Sole si fonda su principi metafisici, religiosi ed astrologici. Il supremo potere è attribuito al Sole (o Metafisica), simbolo visibile della divinità, aiutato da Potenza, Sapienza e Amore (un riflesso della trinità divina). Come in Utopia, così nella città campanelliana la religione è naturale e razionale, estranea alla dimensione della rivelazione. Parimenti, sono tenute in alta considerazione la cultura, Ie scienze, le arti meccaniche e liberali, la tecnica. Per incoraggiarne la diffusione, sui gironi delle mura sono raffigurati dipinti che le propongono all'ammirazione e all'imitazione degli abitanti. L'educazione - tema centrale della civiltà umanistico-rinascimentale - trova un grande spazio nell'utopia di Campanella, che l'estende a tutta la vita e la finalizza anche al godimento del tempo libero. Di sapore schiettamente platonico è il comunismo dei beni e delle donne. Comune a tutta la letteratura utopistica è infine la casistica minuziosa di regole che governano la vita quotidiana degli abitanti. Poco o nulla è lasciato alla spontaneità e alla fantasia individuale, proprio perché nel progetto utopico giustizia ed organizzazione della vita intendono venire incontro e anticipare le richieste dell'individuo.

la riforma del cristianesimo Nel 1516 esce la Institutio principis christiani (La formazione del principe cristiano) di Erasmo da Rotterdam, dedicata al futuro Carlo V, che rappresenta un punto di vista opposto a quello di Machiavelli. Un'opposizione che non nasce però da un'intenzione polemica esplicita: infatti Erasmo difficilmente poteva aver letto il trattato machiavelliano, che allora circolava solo manoscritto e che sarebbe stato stampato solo dopo la morte del suo autore. Sta di fatto però che Erasmo, convinto pacifista, delinea un esempio di principe cristiano, che esercita il potere come servizio e delega divina, impegnandosi soprattutto per il mantenimento della pace. L'utopia cristiana di Erasmo ha la sua espressione più celebre nell'Elogio della follia (1511) dedicato all'amico e umanista inglese Thomas More. Dietro l'apparenza dello scherzo e della satira, questa opera mon risparmia le sue critiche a nes-

sun genere di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare tutti i vizi>). Si tratta di un complesso libello, che esprime una religiosità mistica, non razionale, che interpella direttamente il credente senza la mediazione di rigide impalcature intellettuali e scolastiche. L'opera è divisa in due parti. Nella prima, la Follia, personificata, presenta se stessa come un'autentica dispensatrice di beni e come motivo segreto di tante scelte e azioni umane. Pur essendo responsabile della loro irrazionalità e dei loro errori, aiuta gli esseri umani a vivere, perché li spinge alla disponibilità e alla spontaneità, al piacere e alla letizia, e così dà senso a una vita altrimenti insignificante. Nessuno può sottrarsi al suo fascino: uomini e donne comuni, pontefici e principi, soldati e monaci, sono tutti soggetti al suo dominio. Nella seconda parte, la Follia si abbandona alla saggezza La saggia follia divina, fino al punto da perdersi dei folli di Dio in Dio e da esaltare la follia delle follie, la più alta e misteriosa, cioè la follia della croce. Alla scettica fede degli uomini di mondo, Erasmo con-

SEZIONE EPOCHE

RINA!i(!MfNTO EFilOSOFIA

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7- LA RIFORMA DEL CRISTIANESIMO

trappone la saggia follia dei folli di Dio: mentre trio (1525), in risposta al trattato Diatribe de libei primi fanno il male senza misura, i secondi fan- ro arbitrio, pubblicato l'anno prima da Erasmo, dov'era suggerita una soluzione di compromesso: no il bene senza calcolo e senza risparmiarsi. Il messaggio di fondo offerto al lettore è dun- le azioni umane dipendono sì, principalmente, dalque l'equiparazione della vera saggezza con la fol- la grazia divina, senza la quale non potrebbero lia, quella follia che troverà sempre più spazio nel- essere né intraprese né portate a termine, ma anla cultura del Rinascimento (si pensi ad Ariosto). che dal libero arbitrio individuale, che è responIn Erasmo, essa rappresenta un atto di accusa con- sabile del loro svolgimento. È vero quindi che il tro la corruzione della Chiesa e della società, ma libero arbitrio sarebbe inefficace senza ((['aiuto nello stesso tempo offre all'uomo un genuino per- continum) della grazia, ma è altrettanto vero che, in quanto ((Causa secondarim delle azioni, ancorso di purificazione e di liberazione. In Erasmo si trovano già alcuni motivi di fon- ch'esso contribuisce alla salvezza. Disconoscere do della riforma religiosa iniziata nel 1517 dalle questo contributo, significherebbe per Erasmo calpestare la dignità dell'uomo e il senso stesso delLa disputa 95 Tesi di Martin Lutero (1483la sua esperienza terrena: (W che cosa servirebbe tra Erasmo e Lutero 1546 ): lo sdegno per la corruzione della Chiesa romana e l'ideale del ritorno ai valo- l'uomo tutto intero, se Dio agisse con lui come il vari originari del cristianesimo; l'esaltazione della saio con l'argilla o come potrebbe agire su una piefede come esperienza interiore; la richiesta che truiza?)). La disputa tra Erasmo e Lutero rese evidente tutti i credenti siano messi in condizione di leggere direttamente le Sacre Scritture. Ciò nondi- la distanza che separava i loro rispettivi ideali di meno, nel 1524 egli prese posizione contro Lute- rigenerazione religiosa; l'umanesimo cristiano di ro, aprendo una polemica nella quale era in gio- Erasmo esercitò tuttavia un notevole influsso su co uno dei temi centrali dell'ideologia umanisti- esponenti di primo piano del movimento riforca: quello della libertà dell'uomo, della sua dignità, matore, come Huldreich Zwingli (1484-1531), che lo capeggiò a Zurigo, e Filippo Melantone della sua somiglianza con Dio. Lutero sosteneva che la salvezza eterna non (1497-1560), il più stretto collaboratore di Lutero dipende dai meriti dell'uomo, ma dalla grazia di- e suo successore alla guida della Chiesa riformavina, senza la quale a nulla valgono le opere com- . ta tedesca. piute durante la vita terrena. Saranno salvati soltanto coloro ai quali Dio ha donato la fede, ossia coloro che, pur consapevoli d'esserne indegni, confideranno nella misericordia divina e si rimetteranno completamente ad essa. Questa tesi presupponeva il rifiuto della dottrina del libero arbitrio, secondo la quale l'uomo sarebbe dotato del potere di scegliere tra il bene e il male, vale a dire tra l'obbedienza e la ribellione ai comandamenti divini. Nella visione di Lutero, la volontà umana non è in grado di modificare la propria inclinazione verso il bene o verso il male: è come una bestia da soma, cavalcata o da Dio, che la illumina con la fede e la conduce sulla strada della salvezza, o da Satana, che la porta alla dannazione. Lutero ribadì questa visione nel De servo arbi-

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SEZIONE EPOCHE RINitlìUMI:~lnb l!

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ls Naturalismo, astrologia e magia Durante il Rinascimento, nel contesto di un rinnovato interesse per le ricerche naturalistiche, ha una straordinaria diffusione la magia, intesa come l'insieme dei rituali esoterici mediante i quali l'uomo riesce a catturare forze o potenze della natura che normalmente non sono soggette al suo potere. L'opera più rappresentativa della concezione magica dell'universo che si viene affermando nel corso del Cinquecento è probabilmente il trattato De occulta philosophia (1510) del tedesco Cornelio Agrippa di Nettesheim (14861535), nel quale si descrive un mondo gerarchicamente ordinato, al sommo del quale è il divino Artefice, che trasfonde in noi le forze della sua virtù attraverso gli angeli, i cieli, le stelle, gli elementi, gli animali, le piante, i metalli, le pietre. Grazie alla magia, noi possiamo risalire a Lui attraverso questi stessi gradi. All'interno di questa cornice generale, si viene snodando una minuziosa analisi degli elementi naturali, delle virtù occulte, dell'influsso dei corpi celesti, della divinazione, della potenza dei numeri, dell'armonia del corpo umano, delle cerimonie, dei nomi divini e via di seguito. Beninteso, nel Rinascimento circolano accezioni e interpretazioni diverse dei fenomeni magici; ma, in ogni caso, l'opera dei filosofi e degli intellettuali dell'epoca è incomprensibile senza tener conto dei loro profondi interessi per discipline quali l'astrologia, la demonologia, la divinazione, la stregoneria, l'alchimia. Marsilio Ficino non fa eccezione. La volontà di penetrare il segreto delle occulte relazioni che tengono unito il cosmo spiega il suo interesse per l'astrologia. Egli è infatti convinto che gli astri influiscano sulla natura e sul destino umano: chi ne conosce il potere può difendersi dagli influssi malefici e orientare a suo vantaggio quelli benefici. Per questa via, il microcosmo-uomo ha la possibilità di agire sul macrocosmo, governandolo. Tuttavia, nella Disputa contro il giu(i~to degli astrologi, Ficino vuole sottrarre la religione cristiana

alle conseguenze più pesanti dell'astrologia: ((quan-

ti affermano che ogni singolo evento accade necessariamente per effetto delle stelle)) L'astrologia non cadono in grave errore. Non solo la deve negare religione cristiana non è condizio- la libertà dell'uomo nata dalle stelle, dal momento che Cristo ((è nato da un ordine superiore a quello del cielm), ma tutti gli eventi umani vanno letti al di fuori di un quadro di causalità necessitante. Infatti se nel cielo scorgiamo un'immagine, essa è segno e non causa di un certo accadimento terreno. È evidente che la preoccupazione principale di Ficino è quella di evitare che le credenze astrologiche annullino la libertà umana. Degna di rilievo anche la posizione di Giovanni Pico, il quale nelle sue novecento tesi distingue accuratamente la magia diabolica dalla magia naturale. La prima è illecita perché proviene dal demonio, che può influenzare menti inclinate al male; la seconda, lecita, è la parte pratica e la piena realizzazione della scienza della natura. Anzi, Pico ammette che (Wperare magia è, semplicemente, maritare il mondO)), cioè essere capaci di unirne gli elementi separati. Immerso in una dimensione di pensiero magico-cabalistica, il filosofo ingaggia tuttavia una dura polemica contro l'astrologia divinatrice. Egli non contesta la dimensione naturalistica dell'astrologia, ma ne teme ancor più di Ficino il determinismo che annulla la libertà umana. Una posizione diametralmente opposta è espressa da Pietro Pomponazzi (1462-1525), l'esponente di maggior rilievo dell'aristotelismo rinascimentale, noto soprattutto per avere ripreso, in ordine alla questione dell'immortalità dell'anima individuale, la teoria della "doppia verità": quello che è vero per fede, ossia che l'anima non muore insieme al corpo, non è vero anche per la ragione, la quale, considerando come tutte le funzioni dell'anima, compresa quella intellettiva, presuppongano il legame con il corpo, giunge anzi alla conclusione contraria (Tractatus de immortalitate animae, 1516). Secondo Pomponazzi, la struttura del mondo è retta da un po-

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EfilOSOfiA

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8 - NATURALISMO, ASTROLOGIA EMAGIA

r tente determinismo astrale, al quale è impossibile sottrarsi. La stessa magia, quando non è mera superstizione, si risolve tutta sul piano del determinismo naturale, che esclude la possibilità di eventi "miracolosi", implicando piuttosto la presenza del fato e la negazione della libertà dell'individuo. Un deciso rifiuto della magia caratterizza la posizione di Bernardino Telesio (1509-1588), il quale condivide uno dei due presupposti fondamentali del pensiero magico, quello dell'universale animazione della natura (ilozoismo), ma ne respinge l'altro, cioè l'idea che la natura "ami nascondersi" e custodisca gelosamente i propri segreti, che soltanto le arti magiche sarebbero in grado di portare alla luce. Per Telesio, al contrario, la natura non ha segreti e chiede soltanto d'essere osservata e compresa iuxta propria principia, perché le forze che operano in essa sono tutte presenti all'esperienza dei sensi. La filosofia naturale di Telesio prende così le distanze tanto dalle astratte concettualizzazioni della fisica aristotelica, quanto dai procedimenti bizzarri e arbitrari della magia. I nostri sensi, in particolare il tatto, rivelano che la vita della naL'azione del caldo tura consta dell'azione meccanica e del freddo genera esercitata da due forze incorporee tutte le cose contrarie, il caldo e il freddo, su un sostrato corporeo passivo, la materia. Il caldo illumina, dilata, infonde la vita e il movimento; il freddo, condensando e rendendo pesanti le cose, è principio d'immobilità e di morte. Tutto ciò che esiste in natura è generato dall'azione contrapposta dei due principi agenti, i quali sono dotati della sensibilità necessaria per avvertire l'uno la presenza dell'altro, giacché altrimenti non potrebbero conservarsi nel contrasto reciproco. Ne consegue che tutte le cose, anche quelle sprovviste di organi di senso, sono dotate di sensibilità e quindi animate (più o meno, a seconda della quantità di calore che contengono). La differenza tra natura inorganica e natura organica è dunque solo di grado, non qualitativa.

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L'ilozoismo di Tele si o esclude, L'anima del mondo in come s'è detto, il ricorso alla ma- Brunoecampanella gia; nella prospettiva del filosofo cosentino, il dominio sulla natura non potrà venire da nessun incantesimo, ma solo da una conoscenza precisa degli effetti prodotti dall'azione del calore sulla materia. ln Tommaso Campanella, che pure fu entusiasmato dallo studio del De natura iuxta propria principia e ne riprese i concetti principali, la tesi della universale sensibilità della natura porta invece a un recupero della magia. Rifacendosi a una tradizione platonica, Campanella sostiene infatti l'esistenza di un'anima del mondo che collega gli enti naturali in un tutto vivente (una tesi, questa, sostenuta anche da Giordano Bruno, il quale concepiva l'anima mundi come il principio spirituale che informa la materia e la vivifica in ogni sua parte lil;i, lij[tl:ltfdlul:l:!i!WJJ. Nel De sensu rerum et magia Campanella afferma dunque che la sensibilità della natura non è generata dall'azione del calore, ma appunto dall'influsso dell'anima del mondo, che crea impalpabili legami di simpatia e antipatia fra tutte le cose. La magia naturale scopre questi legami e se ne serve per modificare il normale andamento delle cose, producendo >. Così intesa, la magia è per Campanella il fondamento di tutti i saperi e di tutte le pratiche che incidono nella realtà, dalla medicina alle arti meccaniche, dalla poesia alla politica: «la più grande azione magica dell'uomo è dare leggi agli uomini». La magia è dunque una componente essenziale della civiltà occidentale prescientifica, ma all'interno di un quadro variegato e ancora una volta irriducibile ad un unico aspetto. Questa ambivalenza si coglie sin nell'ambito della Riforma protestante: Lutero esprime un giudizio positivo sull'alchimia e un netto rifiuto dell'astrologia, mentre il suo amico e collaboratore Melantone è notoriamente un appassionato e cultore di quest'ultima scienza.

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-Se gli umanisti ne hanno sviluppato un sapere dotto, a livello popolare la magia è soprattutto rappresentata dalla stregoneria. A partire dal tardo Medioevo e dall'età del Rinascimento la credenza nella stregoneria e la caccia alle streghe conoscono una drammatica ere-

scita, alla quale non sono estranei documenti pontifici e manuali per inquisitori. Vi contribuisce però la stessa cultura umanistica, frequentemente intervenuta per giustificare la realtà della stregoneria e di conseguenza la prassi repressiva.

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testo 7

SCHEDA-LETTERATURA

la donna e il diavolo A soli quarant'anni, Manini era stato nominato inquisitore in una sede come Novara, considerata- non a torto- difficile; e da allora le grandi cattedrali erano definitivamente scomparse nei suoi sogni, per far posto alle grandi cattedre, dei Tribunali delle grandi città ... Altre due cose che sappiamo di Manini sono: che non riteneva reale la realtà (((La realtà- diceva il nostro inquisitore muovendo le mani affusolate e spalancando gli occhi grigiazzurri in viso a chi lo stava ascoltando- per se stessa non esiste, se non è rawivata dal soffio della grazia di Dio; è soltanto un'illusione, una falsa percezione che la morte spazzerà vim) e che era ossessionato dall'idea e dalla pratica della castità, cui attribuiva poteri quasi soprannaturali e a cui dedicò la sua unica opera che si conosca, rimasta inedita. Quell'opera manoscritta ha una data sul frontespizio: 1618, ed è ancora oggi reperibile e accessibile in un archivio romano. Per il lettore del ventesimo secolo ha almeno un pregio, quello di essere breve; si compone infatti di due parti, di sei capitoli ciascuna per complessive ottantotto pagine di scrittura: un opuscolo, se lo confrontiamo con la maggior parte dei trattati inediti che il più grafomane dei secoli anteriori al nostro, il Seicento, ha cercato di scaricare sui suoi posteri e che i tarli e le catastrofi ancora non sono riusciti a togliere di mezzo; ma da un maestro di eleganze, come fu Manini, non ci si poteva attendere che un'opera così. Elegante fino dal titolo: De Remedio et Purga haereticorum libri Xl/, con il suo bravo sottotitolo in lingua volgare che suona Antidoto e Purga degli eretici, dodici /ibn; scritta da fra' Gregorio Manini da Gozzano, ((Sanctae Theologiae professar et lnquisitor Novariae», professore della santa teologia ed inquisitore di Novara. L'assunto base del saggio, e la sua specifica novità rispetto a tutta la trattatistica che lo precede, è nell'esordio. ((Haeresisll, scrive Manini già nelle prime righe del primo capitolo, ((potest expurgari, ve! etiam impedirill: (d'eresia può essere repressa, ma può anche essere prevenutml. E si domanda: ((Perché oltre a punire, giustamente, l'eresia, chi è delegato a combatterla non cerca di prevenirla e di impedirla, contrattaccando il Diavolo sul suo stesso terreno?» Ogni eresia- argomenta l'inquisitore- viene direttamente dal Diavolo, che si aggira per il mondo in molte forme ma soprattutto agisce attraverso la femmina dell'uomo, idest (cioè) la donna (mulier): essendo la parte umana femminile quella che più direttamente partecipa della natura del Diavolo, e della sua stessa sostanza; mentre la parte maschile, modellata da Dio nell'elemento universale che è la terra, senza altri passaggi né manipolazioni, è stata fatta da lui a sua propria immagine, secondo quanto dicono le Scritture; ed è quindi, almeno tendenzialmente, divina. Da quanto detto discende che l'arma piu efficace di cui il Diavolo dispone per tentare l'uomo è la seduzione femminile: e che l'uomo, e la stessa donna, possono togliergli quell'arma, e trionfare di lui, attraverso la pratica della castità. La quale castità- scrive Mani ni- (Were est summus Remedius, et maxima Purga haereticorumll, cioè: ((è veramente il gran Rimedio, e la Purga suprema degli eretici»; concludendo poi con un'asserzione memorabile, che dove c'è castità, non c'è eresia; e citando San Paolo nelle Epistole (((Non c'è salvezza al di fuori della castità») e la Somma teologica di Tommaso (((La castità è rimedio d'ogni viziml). lo>

S. Vassalli, La chimera, Torino, Einaudi 1990, pp. 226-227

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Nel seguente passo del De docta ignoranti a Cusano afferma che in Dio gli opposti coincidono, cosa incomprensibile per l'intelletto umano, regolato dal principio di non contraddizione. Il massimo, del quale nulla può essere più grande, essendo in modo semplice ed assoluto più grande di quel che da noi si possa capire, poiché è verità infinita, noi non lo cogliamo altrimenti che in modo incomprensibile. Non essendo infatti esso della natura di quelle cose che ammettono un termine che supera ed uno che sia superato, esso è al di sopra di tutto ciò che da noi può essere concepito [... ]. Le opposizioni convengono a quelle cose che ammettono termini che superano e termini superati, ed a queste cose convengono diverse opposizioni, ma in nessun modo ne convengono al massimo assoluto, poiché esso è al di sopra di ogni opposizione. [... ] Ma ciò trascende ogni possibilità del nostro intelletto che non sa mettere insieme nel proprio principio i contraddittori in modo razionale, poiché noi ci muoviamo attraverso quelle realtà che ci vengono mostrate dalla stessa natura, e questa, cadendo lontano da quella infinita incapacità, non sa congiungere insieme gli stessi contraddittori, come quelli che sono separati da una distanza infinita. Al di sopra di ogni discorso razionale pertanto noi vediamo incomprensibilmente che la massimità assoluta è infinita, e che ad essa non si oppone nulla, e che con essa coincide il minimo. ~

N. Cusano, De docta ignorantia, I, cap. IV, in: Grande Antologia Filosofica, Milano, Marzorati 1964, vol. VI, pp. 1020-1021

Il brano seguente è indicativo del platonismo ficiniano, che tanta influenza avrà sul Rinascimento, in particolare sull'arte (si pensi alla Primavera di Botticelli, che secondo alcune interpretazioni sarebbe un pròdotto dell'Accademia Platonica). //percorso di ascesa spirituale procede attraverso una scala gerarchica fino alla Luce divina. La novità della posizione di Ficino è data dall'inserzione nell'impianto platonico di temi tipici del cristianesimo, come la figura intermedia dell'angelo e l'amore di Dio per le creature. Or che comando io che ami nello animo? Comando che ami la bellezza sua [... ]. La Bellezza dell'Animo è invisibile luce[ ... ]. Platone dichiara [... ]la Bellezza dello animo nella verità e nella sa-

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anto og1a

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pienza consistere: e quella da Dio agli uomini concedersi. Una verità medesima a noi data da Dio per varii suoi effetti, varii nomi di virtù acquista [sapienza, scienza, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza]. E però ti comando che imprima consideri quella Bellezza dell'animo, la quale negli onesti costumi si ritrova [... ]. E sappi che debbi salire sopra i costumi a la lucidissima verità di Sapienzia, Scienzia e Prudenzia [... ].E benché tu vegga varie dottrine, di Sapienzia, Scienzia, e Prudenzia, non di meno stima che in tutte è una luce di verità: per la quale similmente tutte belle si chiamano. Ma questa una Verità, la quale in più dottrine si truova, non può essere la verità somma[ ... ]. Bisogna che sopra l'Anima nostra sia una Sapienzia, la quale non sia sparsa per diverse dottrine, ma sia unita: e da la unica verità sua, nasca la multeplice verità degli uomini. Ricordati, o Socrate, che quella unica luce dell'unica Sapienzia, è la Bellezza dell'Angelo: la quale tu dei sopra la Bellezza dell'Anima onorare[ ... ]. Ma perché quella luce Angelica risplende nell'ordine di più Idee, che sono nell'Angelo, e pure bisogna che fu ora e sopra ogni moltitudine sia essa unità, la quale è origine d'ogni numero, però è necessario che la detta luce Angelica esca da quello uno principio dello Universo, il quale essa Unità si chiama. La luce adunque di essa Unità in tutto semplicissima, è l'infinita Bellezza [... ]. Adunque la Luce è Pulcritudine di Dio [... ]. senza dubbio è Pulcritudine infinita. La Pulcritudine infinita, infinito Amore richiede. Per la qual cosa, io ti prego, Socrate mio, che tu ami le creature con certo modo e termine: ma il Creatore ama con amore infinito. ~

M. Ficino, Sopra lo Amore owero Convito di Platone, cap. XVIII, 9, in: Grande Antologia Filosofica, cit., vol. VI, pp. 600-601

111 Nel progetto utopico di More convivono aspetti contrastanti; a una visione ancora patriarcale della famiglia, si accompagnano infatti l'abolizione della proprietà privata e uno stile di vita comunitario, improntato a un sobrio edonismo. Ma è giunto, mi pare, il momento di spiegare come i cittadini agiscano gli uni con gli altri, quali ne siano i vicendevoli rapporti e in che modo vengano distribuiti i beni fra di essi. Essendo dunque la città composta di famiglie, le famiglie sono per lo più formate secondo vincoli di sangue: le donne, infatti, appena sono in età da marito, sposandosi passano in casa dei mariti, i figli maschi invece e via via i nipoti rimangono in casa, ubbidendo al più anziano, tranne che per vecchiaia non sia debole di senno, nel qual caso lo sostituisce chi segue negli anni [... ].Come ho già detto, il più anziano è a capo della famiglia e servono le mogli ai mariti e i figli ai genitori e in tutto i minori ai più grandi. Ogni città è divisa in quattro parti eguali, e al centro di ogni parte c'è mercato di tutte le cose; quivi, in determinati locali si portano i prodotti di lavoro di ogni famiglia e nei magazzini vengono ripartite separatamente le varie specie di prodotti. Da qui attinge qualsiasi padre di famiglia tutto ciò di cui lui o i suoi abbisognano e, senza denaro, senza prestazione alcuna, ottiene tutto ciò che chiede[ ... ]. Cominciano ogni desinare o colazione con qualche lettura che torni utile ai costumi, però per breve tempo, perché non annoi; da questa gli anziani introducono nobili discorsi, che non siano però uggiosi e senza spirito. Ma non occupano tutto il desinare con lunghi discorsi, anzi stanno volentieri a sentire anche i giovani e li stuzzicano a bella posta per mettere a prova l'indole e le capacità di ognuno, le quali si rivelano nella libertà della tavola. Più breve è un po' la colazione, il desinare più lungo, ché a quella segue il lavoro, a questo il sonno e il ri-

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poso notturno, che essi giudicano più vantaggioso alla buona digestione. Nessun desinare passa senza musica e infine non mancano frutta e dolci; bruciano profumi e spargono odori, insomma nulla trascurano che possa allietare il convito. Sono infatti un po' proclivi da questo lato, talché pensano che nessun genere di piacere è vietato, se non ne viene alcun male. ~

T. Moro, L'Utopia, Roma-Bari, Laterza 2006, pp. 69-74

1!1 More riprende un topos dell'utopia popolare, quello del mondo alla rovescia, in cui si capovolgono i consueti rapporti di valore tra le cose. Nell'isola di Utopia, questo è l'uso che si fa dei metalli preziosi. Mentre mangiano e bevono in vasi di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell'oro e dell'argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case private, fanno comunemente vasi da notte o destinati agli usi più vili, e inoltre si formano con gli stessi metalli anche catene e grossi ceppi per legare schiavi. In ultimo a quelli resi infami da qualche delitto pendono dagli orecchi cerchietti d'oro, oro cinge le dita, collane d'oro circondano il collo e infine anche il capo è stretto in oro. Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in spregio l'oro e l'argento, e in tal modo si ottiene che questi metalli, che gli altri popoli in genere non si lascerebbero strappare con minor dolore delle proprie viscere, se anche, presso gli Utopiani, qualche circostanza richiedesse di portarglieli via tutti in una sola volta, a nessuno parrebbe di aver subìto la perdita di un soldo solo. ~

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Cit., pp. 77-78

librtà umana e Grazia divina

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Riportiamo qui i passi salienti della disputa tra Erasmo da Rotterdam e Lutero sulla questione del libero arbitrio.

BI Alcuni, considerando con interesse particolare la grande difficoltà che gli uomini provavano per mettersi alla ricerca della pietà e, d'altra parte, quale grande male sia la disperazione, hanno cercato di porre rimedio a questi mali; ma sono caduti imprudentemente in un altro errore, accordando troppo al libero arbitrio. Ma altri autori, stimando che la più grande peste della vera pietà è la fiducia dell'uomo nelle proprie forze e nei propri meriti, giudicando intollerabile l'orgoglio di quelli che si vantano delle loro buone opere e che giungono fino al punto di venderle a terzi a misura o a peso, come si vende l'olio e il sapone, nella loro preoccupazione di evitare questi eccessi, non hanno più salvato che la metà del libero arbitrio (contestandogli ogni capacità di produrre un'opera buona) e si sono spinti fino al punto di giugularlo interamente invocando per ogni cosa l'assoluta necessità. Questi uomini hanno creduto che fosse assolutamente necessario, per stabilire l'anima cristiana nella semplice obbedienza, di far dipendere interamente l'uomo dalla volontà divina, di fargli porre tutta la sua speranza e la sua fiducia nelle sue promesse, di fargli riconoscere la sua propria miseria, e per contro di ammirare ed amare l'immensa misericordia di Colui che ci accorda tanti beni gratuitamente. [... ]

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antologia

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Quando sento dire che il merito umano è talmente nullo che tutte le opere, anche quelle della gente per bene, non sono altro che peccato; che la nostra volontà non può nulla di più di quel che può l'argilla nelle mani del vasaio; che tutto ciò che facciamo o vogliamo discende da una necessità assoluta, il mio spirito prova numerose inquietudini. Innanzi tutto che ne è di tutti quei testi dove si legge che dei santi, ripieni di buone opere, hanno osservato la giustizia, hanno camminato diritto davanti a Dio, senza scartare né a destra né a sinistra, se tutte le azioni delle genti pie, anche le più rimarchevoli, sono peccato e solo peccato, senza la misericordia divina? Vuoi forse dire che colui per il quale il Cristo è morto sarebbe immerso nell'inferno? Come si potrebbe parlare così spesso di ricompensa se non c'è più merito? Con quale faccia si oserebbe ancora lodare l'obbedienza di quelli che si sottomettono agli ordini divini e si oserebbe ancora condannare la disubbidienza di quelli che non vi si sottomettono? Come siamo noi obbligati a comparire davanti al giudice supremo se tutto si compie in noi per pura necessità e non seguendo il nostro libero arbitrio? E c'è ancora un'altra considerazione da fare. A che cosa tendono dunque tutti questi awertimenti, questi precetti, queste minacce, queste esortazioni, queste innumerevoli domande se noi non facciamo nulla e se Dio, conformemente alla sua volontà immutevole, opera tutto in noi, il volere ed il fare? Dio ci ordina di pregare continuamente, di vegliare, di combattere, di non perdere di vista la ricompensa della vita eterna. Perché dovrebbe voler essere pregato senza sosta per ciò che ha già decretato di dare o di non dare, poiché, essendo immutabile, non può modificare i suoi decreti? [... ] A mio awiso si poteva benissimo riconoscere l'esistenza del libero arbitrio pur evitando quella fiducia eccessiva nei nostri meriti e quegli altri inconvenienti intravisti da Lutero, senza contare quelli che noi abbiamo più su segnalato conservando i principali vantaggi della dottrina luterana. Ciò è rappresentato, ai miei occhi, da quella dottrina che attribuisce alla grazia il primo impulso che viene ad eccitare l'anima, pur lasciando alla volontà umana una certa responsabilità nello svolgimento dell'azione e sempre con l'aiuto della grazia divina. Ora, siccome nell'azione umana ci sono tre parti: l'inizio, lo sviluppo, ed il compimento, essi concedono alla grazia i due estremi momenti e non fanno intervenire il libero arbitrio che nel momento dello sviluppo. Così due cause concorrono alla stessa azione, cioè la grazia divina e la volontà umana; ma la grazia è la causa principale, la volontà è la causa secondaria che non può nulla senza la principale mentre questa, cioè la grazia, è autosufficiente. [... ] Si vede pertanto come in virtù di questo accordo l'uomo dovrebbe fare omaggio intero della sua salvezza alla grazia divina, dato che la parte che è riservata al libero arbitrio è sì poca cosa e per di più esso trae ancora la sua origine dalla stessa grazia di Dio che ha, tanto per cominciare, creato il libero arbitrio, prima ancora di libera rio e guarirlo. Queste sono le ragioni che hanno condotto quasi tutti gli autori ad ammettere il libero arbitrio; ma il libero arbitrio resterebbe inefficace senza l'aiuto continuo della grazia di Dio, il che è appunto ciò che ci impedisce ogni forma di orgoglio. Ma si potrà ancora dire: a che serve il libero arbitrio se non può far nulla da solo? Mi limiterò a rispondere: e a che cosa servirebbe l'uomo tutto intero se Dio agisse con lui come il vasaio con l'argilla o se Dio agisse su di lui come potrebbe agire su una pietruzza? ~

Erasmo da Rotterdam, l/libero arbitrio, Torino, Claudiana 1984, pp. 137-157

1!1 Se l'uomo non ha lo spirito di Dio, non certo opera il male contro la propria volontà e per forza, come tirato per il collo, a somiglianza di un bandito che venga condotto contro voglia alla pena, bensì lo fa spontaneamente e con deliberata volontà. Peraltro questa libertà o volontà di fare non può egli abbandonarla, costringerla o mutarla con le proprie forze, ma continua a vole-

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anto og1a re e a gradire il male[ ... ]. Questo semplicemente intendiamo per neèessità, cioè il fatto che lavolontà non possa mutarsi e volgersi in altra direzione [... ]. Il che non accadrebbe, se essa fosse libera 0 avesse il libero arbitrio. [... ]In senso inverso, quando Dio agisce in noi, la volontà, mutata e amorevolmente insufflata dallo spirito di Dio, agisce e vuole con puro piacere, con inclinazione e spontaneità, non già costretta, sì che non può essere mutata da alcun avversario in altra direzione e non può essere vinta o trattenuta neppure dalle porte dell'inferno, ma persevera nel volere, nel gradire e nell'amare il bene, così come prima volle, gradì ed amò il male. [... ] Così la volontà umana è posta tra i due [Dio e Satana] come un giumento; il quale, se sul dorso abbia Dio, vuole andare e va dove vuole Dio [... ];se invece sul suo dorso si sia assiso Satana, allora vuole andare e va dove Satana vuole, e non è sua facoltà di correre e cercare l'uno o l'altro cavalcatore, ma i due cavalcatori contendono fra loro per averlo e possederlo. Tu riconosci al libero arbitrio una sia pur modesta forza, ma tale da riuscire del tutto inefficace senza la grazia di Dio. Non è questa la tua affermazione? Ora io ti domando: se mancasse la grazia di Dio o si separasse da tale modesta forza, che cosa questa potrebbe fare? Tu rispondi che è inefficace e che non fa nulla di buono. Ed allora non farà ciò che Dio e la sua grazia vorrà, dal momento che abbiamo supposto da lei separata la grazia di Dio. Ma ciò che la grazia di Dio non fa, non è buono. Ne consegue che il libero arbitrio, senza la grazia di Dio, non è affatto libero, ma è immutabilmente prigioniero e schiavo del male, non potendo da solo rivolgersi al bene. ~

M. Lutero, De servo arbitrio, in: Grande Antologia Filosofica, cit., vol. VIII, pp. 1118-1120

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Nel seguente passo del De rerum natura, Telesio espone la concezione secondo la quale non quattro, come vuole un'antica tradizione, bensì tre sono gli elementi costitutivi della natura: il caldo, il freddo e la massa corporea.

Sia il calore sia il freddo sono incorporei, dal momento che il calore emanante dal Sole o anche dal nostro fuoco e il freddo emanante dalla Terra sembra emanando non siano congiunti ad alcunché di corporeo; e l'uno e l'altro penetrano fin nell'interno delle cose tutte, anche le più dense e le più profonde e si insinuano entrambi in qualunque loro parte e in qualunque punto. Cosicché non rimane punto alcuno delle cose che non venga occupato tutto nell'intimo dal calore 0 dal freddo che subentrino, se questo non è la sola massa o il solo calore o il solo freddo o entrambi; tutto ciò, evidentemente, non potrebbe affatto avvenire se [i due princìpi] fossero corporei. La terra non risulta dal solo freddo, né il Sole e le altre stelle o qualsiasi altra parte del cielo, né ente alcuno che siano costituiti dal calore, risultano dal solo calore; ma tutti appaiono risultare anche dalla mole corporea. [... ] E poiché non si percepisce azione alcuna del freddo o del calore, che possa sembrare emessa dal puro calore o dal puro freddo senza che essi ineriscano ad alcuna massa corporea, occorre di necessità [attribuire alla] costituzione degli enti di natura, di cui noi andiamo indagando i princìpi e la natura costitutiva, anche la massa corporea. Pertanto bisogna porre senz'altro alla base [degli enti] tre princìpi: due nature agenti, il caldo e il freddo, e una massa corporea; e questa è parimenti propria e congrua all'uno e all'altro principio ed è atta ad espandersi, a dilatarsi, a condensarsi e a ridursi e ad assumere quella disposizione che il caldo e il freddo richiedono. [... ]

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Pertanto da Dio Ottimo Massimo fu creata la massa corporea in modo che le nature agenti e operanti la penetrassero e sussistessero in essa e le conferissero ciascuna la propria specie e disposizione, atta all'indole e all'azione operativa loro, cosicché da quella potessero derivare il cielo: e la terra e tutti gli altri enti. ~·

jlifuffiM: testo 6

B. Telesio, De rerum natura iuxta pmpria principia, cap. IV, in: Grande Antologia Filosofica, cit., vol. VI, pp. 1240-1241

LETTURA CRITICA

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Una questione storiografica: è possibile parlare di una filosofia deii'Umanesimo? •Riportiamo qui di seguito due brani, il primo tratto da L'Umanesimo italiano di Eugenio Garin e il secondo tratto da La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento di Pau! Oskar Kriste!!er, esemplari della discussione che ha diviso gli studiosi fra coloro che affermano la rilevanza filosofica de/I'Umanesimo e coloro che la negano.

DI [La lotta tra aristotelismo padovano e platonismo fiorentino che si svolse nel periodo dell'umanesimo] è diventata uno dei luoghi comuni volti a caratterizzare un atteggiamento inteso come rivolta delle lettere contro le scienze, della poesia contro la filosofia, delle leggi contro la medicina, della retorica mistica contro la dialettica eretica, dell'empietà averroistica contro la pietas umanistico-platonica. Ed in questa contrapposizione sono poi venuti a convergere tutti i temi della polemica intorno al Rinascimento, quali si sono venuti precisando da Burckhardt in poi; così quella "scienza" e quella "filosofia" sono divenute volta a volta i titoli della superiorità e modernità medievali, o i segni di un'insufficienza radicale e di un declino senza rimedio; e, viceversa, quella "retorica" e quella "grammatica" sono state presentate ora come una pausa nel progresso dello "spirito", e ora come l'espressione di una coltura veramente "moderna". Finché una gran parte della storiografia contemporanea, più ancora che per obbedire a una giusta esigenza .di continuità per una dichiarata o larvata polemica contro i valori affermati dalla filosofia moderna, si è venuta mirabilmente accordando nel rifiutare ogni significato profondo alle posizioni speculative rinascimentali, dichiarate prive di originalità rispetto al Medioevo nelle loro istanze filosofiche, e per niente nuove o rinnovatrici anche nei loro aspetti letterari. Uno storico della scienza, il Sarton, in una postuma polemica contro quei > (Giosuè, 10, 13). La dottrina della separazione fra fisica terrestre e fisica celeste sembrava poi conciliarsi perfettamente con la superiorità delle cose divine su quelle umane, dichiarata nella Bibbia per esempio in Isaia (5, 8-9): ((Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri>>. I sostenitori dei sistemi eliocentrici dovettero dunque affrontare l'accusa di eresia e il giudizio del tribunale dell'Inquisizione. Nel 1600 Giordano Bruno (1548-1600) fu arso vivo per aver sostenuto la teoria eliocentrica Ili fli1ttm•t!lt•l:!3111te1 e nel 1633 lo stesso Galilei fu condannato. Il punto di contrasto fra Galilei e la Chiesa non fu tanto il sistema eliocentrico, che già Copernico e Keplero avevano sostenuto senza patirne conseguenze, quanto il fatto che Galilei lo presentasse come il sistema che descrive l'effettiva costituzione fisica della natura. La Chiesa avrebbe tollerato il sistema eliocentrico come una pura ipotesi matematica, mentre Galilei riteneva che ((i discorsi nostri hanno da essere intorno al mondo sensibile e non sopra un mondo di carta>>. Durante il processo, Galilei si rifiutò di seguire il consiglio del cardinale Bellarmino di presentare il sistema eliocentrico come una mera ipotesi matematica. Tale era stata la strategia di Co-

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SEZIONE EPOCHE RIVIlUIZIONE SCIENTifiCA EFIUISOFIII

pernico, o piuttosto del teologo Osiander, il quale, nella prefazione al De revolutionibus orbium coelestium, aveva affermato che ((permettiamo a queste nuove ipotesi il diritto di farsi conoscere, ma non come verosimili [... ].Né alcuno si aspetti dall'astronomia nulla di certo riguardo le ipotesi, non potendolo essa affatto mostrare». Galilei, invece, non solo sostenne che il sistema eliocentrico corrisponde al vero, ma anche che, in caso di contrasto tra scienza e religione, deve essere il teologo a rivedere la sua interpretazione delle sacre scritture 1!11: GALILEO GALILEI, lETTERECOPERNICANE In vari scritti Galilei argomenta infatti a favore dell'indipendenza e della superiorità della scienza rispetto alla teologia in materia di questioni naturali. Lo scopo della Bibbia è quello di mostrarci come si (Wadia al cielo» e non come (Wadia il cielo»: essa indica agli uomini la via della salvezza e non si propone di istruirli su come sia fatto il mondo naturale. I suoi intenti sono morali e li linguaggio non scientifici. Anche là dove essa della salvezza sembra parlare di questioni natura- non è il linguaggio li, lo fa in modo da essere compren- della scienza sibile al (Wulgo assai rozzo e indisciplinato»; se l'interpretazione della Bibbia dovesse fermarsi alla lettera, allora ne deriverebbero idee blasfeme, come quella che attribuisce a Dio passioni e affetti umani. Ma poiché non solo la Bibbia ma anche le leggi della natura sono ispirate da Dio, fra loro non può esserci contrasto: se c'è, è perché si è male interpretata la sacra scrittura. Così Galilei non solo negava alla teologia il ruolo tradizionale di regina di tutte le scienze, ma suggeriva ai teologi che le loro interpretazioni dei testi sacri dovevano essere verificate e aggiornate alla luce delle nuove scoperte scientifiche. Di fronte a tali posizioni, neppure sostenere che la religione e la scienza si occupano di ambiti distinti, poteva redimerlo agli occhi dell'Inquisizione. Nel 1633 Galilei fu condannato. Rinnegò la dottrina eliocentrica e la pena capitale gli fu perciò risparmiata, ma fu obbligato a vivere i suoi ultimi anni agli arresti domiciliari. È stato ufficialmente riabilitato dalla Chiesa romana solo nel1992.

6 Il concetto di "rivoluzione scientifica" La nascita e lo sviluppo della scienza vengono spesso presentati codelle teorie scientifiche me fenomeni lineari: un pugno di scienziati pionieri si è sbarazzato del vecchio sapere per fondarne uno nuovo; da quel momento la scienza ha proceduto per accumulazione di scoperte e di verità, fondandosi solo sulle procedure e sui principi che essa stessa esplicitamente riconosce come legittimi, cioè, con le parole di Galilei, le ((Sensate esperienze>> e le ((Certe dimostrazioni». Questa immagine della nascita e dello sviluppo della scienza è però troppo semplice e, di fatto, non corrisponde a come effettivamente sono andate le cose, né a come la scienza di oggi funziona. Il concetto di rivoluzione scientifica è stato oggetto di analisi approfondita in una serie di Contesto storico

eincommensurabilità

'

studi inaugurati dallo storico della scienza americano Thomas Kuhn (1922-1996). Questi, negli anni '60 del secolo scorso, ha chiarito due punti fondamentali: 1) la scienza procede per rivoluzioni, per fratture tanto radicali da non consentire nessun confronto fra il prima e il dopo di una rivoluzione; 2) le idee scientifiche sono indistricabilmente connesse con l'insieme degli atteggiamenti culturali e delle credenze di una data epoca, non solo con quelle strettamente scientifiche.

6.1 Frattura e continuità Con l'opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Kuhn ha dunque contrapposto all'idea secondo la quale il progresso scientifico avviene

SCHEDA-SCIENZA

l'indeterminato nella meccanica quantistica Secondo la contemporanea meccanica quantistica, le particelle elementari manifestano proprietà ben diverse da quelle a cui erano abituati gli scienziati del XVII e XV!/! sec. David Lindley ne espone una servendosi di una storia. Tu e una tua amica siete in attesa di partire per diverse destinazioni, e ognuno di voi porterà con sé una cassetta di legno chiusa contenente un guanto. Una cassetta contiene il guanto destro e l'altra quello sinistro, ma nessuno di voi sa quale guanto gli è stato affidato. [... ] Arrivato a Los Angeles [... ] puoi finalmente aprire la tua cassetta di legno: scopri così che il guanto che hai portato [... ] è quello destro. Nello stesso istante sai, in virtù di un semplicissimo ragionamento, che la cassetta portata dalla tua amica a Hong l, governa le cose. Da essa segue la legge di natura (lex naturalis), che è la "partecipazione" della creatura ragionevole alla legge eterna e che prescrive alla volontà umana ciò che l'uomo deve fare per conseguire i suoi fini natu-

[________.o------rali ed essenziali. La legge umana e leggi divine (!ex humana) o civile, espressione del diritto positivo, deve perciò sempre fondarsi sulla legge naturale, a sua volta fondata sulla legge eterna. È con Marsilio da Padova (1280 ca-1343 ca), autore del Defensor pacis (1324), che avviene l'abbandono della dottrina del diritto naturale di origine divina, con la conseguenza che le nozioni di giusto e ingiusto, di buono e cattivo, lungi dal derivare dalla ragione divina, sono il frutto di un giudizio della ragione umana, il cui arbitrio decide ciò che è giusto o dannoso per la vita terrena della comunità. Da questo punto di vista, la legge si configura come ). runico legislatore diviene il popolo inteso come l'intero corpo dei cittadini o come la sua pars valentior ("prevalente"), in vista del conseguimento del benessere comune e, in ultima istanza, della pace. Alla legge così stabilita, tutti i cittadini, compresi i sacerdoti, sono ugualmente sottoposti. Viene meno in tal modo la pretesa del Papato di esercitare la plenitudo potestatis, tanto dal punto di vista politico, quanto dal punto di vista religioso. Anticipando le tesi di Machiavelli e di Hobbes, Marsilio da Padova limita il compito dello Stato alla neutralizzazione del conflitto interno, e quindi alla difesa della pace, a partire da un concetto di legge che riguarda esclusivamente l'ambito degli La laicizzazione della atti esteriori del cittadino, senza inpolitica da Marsilio da terferire nella SUa sfera interiore. Padova a Machiavelli In altri termini: lo Stato si occupa delle nostre azioni, e se necessario le punisce, ma non delle nostre intenzioni. Per questa via, viene garantito quel principio della libertà di coscienza che costituirà un aspetto fondamentale della moderna "laicizzazione" della politica. Con Niccolò Machiavelli (1469-1527) si fa strada la tesi secondo la quale l'attività politica del legislatore non deve desumere da sfere esterne, quali la morale o la religione, la norma che la giustifichi o che la limiti. Lo scrittore fiorentino, con

i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e soprattutto con il Principe (1513), esamina il dominio del "politico" - che si incarna nella sfera dello Stato e nell'attività del principe - juxta propria principia, vale a dire alla luce della sua propria natura. Per far questo, Machiavelli sviluppa una analisi "realistica" dell'agire politico, con il fine di comprendere che cos'è effettivamente la politica e non che cosa "dovrebbe essere". razione del principe, che per una metà dipende dalla libertà e dalla virtù dell'uomo, e per l'altra metà dalla potenza talvolta sovrastante della fortuna (ossia del caso e della sorte), trova così la sua giustificazione ultima nell'efficacia e nel successo delle sue scelte (Il; RINASCIMENTO EFilOSOFIA . Raccogliendo l'eredità della dottrina politica di Machiavelli, Giovanni Botero (1544-1617), autore dei 10 libri Della ragion di Stato (1589), perviene alla definizione dello Stato come «dominio fermo sopra popoli)), e della ragione di Stato come (to prdgma aut6) (Lettera VII), si può affermare che la filosofia antica è dominata da un pathos, da una meraviglia appunto,

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MODERNITÀ f. filOSOfiA

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l- UNA GNOSEOLOGIA FONDATA SULLA SOGGETTIVITÀ E l'AUTOCOSCIENZA

che nasce nell'uomo di fronte al fatto che gli enti sono. Da qui la ricerca del modo in cui gli enti sono; ricerca che si converte nella domanda fondamentale: "che cosa è l'ente?". A tale domanda, rivolta ad indagare l'essere, la causa e il fondamento degli enti, Platone e Aristotele rispondono individuando rispettivamente nell'idea e nella sostanza La ricerca il senso fondamentale dell'essere. Ne del fondamento consegue che la caratteristica di fonnella filosofia antica do della filosofia antica consiste nella ricerca del fondamento inteso o come causa di ciò che esiste (l'idea platonica, gli atomi di Democrito) o come natura di ciò che esiste (la sostanza di Aristotele). Con l'avvento del cristianesimo, l'esperienza e l'interpretazione della causa, del fondamento di ciò che è, subisce una profonda trasformazione. Infatti, nel corso della filosofia patristico-scolastica (cioè lungo un arco di tempo che va dall'epoca di Agostino d'Ippona a quella di Tommaso d'Aquino), ciò che i Greci chiamavano l'ente diviene ens creatum: il prodotto dell'azione creatrice e personale di Dio inteso come causa prima. Al Dio di Aristotele, inteso come causa finale, subentra il Dio cristiano, inteso come causa efficiente. A partire dalla quale l'ente creato, mondano, viene considerato e interpretato come appartenente ad un determinato grado dell'ordine della creazione voluta da Dio: è il principio tomistico della analogia entis, della corrispondenza del creato alla causa creatrice. Tale corrispondenza assume in Tommaso d'Aquino l'aspetto dell'adeguazione della cosa creata all'idea-norma precedentemente pensata nell'intelletto divino, si configura cioè come verità ontologica, concepita come adeguazione della cosa creata all'intelletto divino. Sulla verità antologica, intesa come adaequatio rei ad intellectum (divinum), si fonda la verità logica (o gnoseologica), intesa a sua volta come adaequatio intellectus ad rem, come adeguazione dell'intelletto umano alla cosa creata. Tommaso d'Aquino, esponente del cosiddetto realismo moderato, ritiene che l'universale, l'essenza delle cose, esista: 1) ante rem nel-

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MODERtUTA f. I'IU»SOfUì

la mente divina come idea-modello dell'ente creato (secondo la prospettiva platonica); 2) in re nelle cose stesse come la loro forma intrinseca (secondo la prospettiva aristotelica); 3) post rem nell'intelletto dell'uomo, come universale assimilato e fatto proprio dall'attività conoscitiva dell'intelletto umano. Con ciò Tommaso d'Aquino cerca di risolvere in maniera conciliatoria quella disputa sugli universali che aveva visto contrapporsi la tesi realistica, secondo la quale gli universali esistono anche prima della loro individuazione nelle cose particolari, e quella nominalistica, secondo la quale gli universali hanno un'esistenza soltanto logicomentale, derivante dal processo di astrazione dei caratteri comuni alle molteplici esistenze individuali. Il definitivo affermarsi, ad Dal realismo tomista opera di Duns Scoto e di Guglielmo al nominalismo d'Ockham, della prospettiva no- di Duns scoto minalistica, segna una svolta epocale che pone, sia pure in una maniera ancora indeterminata, le basi della nascita del pensiero moderno. Secondo Duns Scoto (1265/66-1308) scienza e fede, filosofia e teologia, che per Tommaso erano in un rapporto di armonica collaborazione, vanno distinte sia dal punto di vista dell'oggetto, che per la filosofia è l'essere mentre per la teologiaè Dio, sia dal punto di vista del metodo ("dimostrativo" per la prima, "persuasivo" per la seconda). Ma, soprattutto, vanno distinte quanto allo scopo perché nella filosofia è puramente contemplativo o teoretico mentre nella teologia è pratico, concernente cioè il fine soprannaturale dell'uomo e i mezzi necessari per attenerlo. Alla luce di tale distinzione, Duns Scoto elabora una metafisica che individua nella sostanza, o "natura comune", l'essere che costituisce sia il fondamento dell'ente individuale (haecceitas) concretamente esistente, sia il fondamento del concetto universale che si forma nell'intelletto mediante il processo di astrazione. La valorizzazione scotista dell'individualità si converte in Guglielmo d'Ockham (1280-1349) nella più decisa affermazione del primato ontolo-

gico della realtà individuale nei confronti di ogni presunta realtà universale. Muovendo dal presupposto del volontarismo teologico, secondo il quale Dio crea soltanto enti individuali in maniera del tutto arbitraria (senza cioè sottostare a regole preeNominalismo e critica sistenti nel SUO intelletto prima deldella metafisica la creazione), Ockham approda a in Ockham conseguenze tali da scardinare l'intero edificio della metafisica tradizionale e della dottrina della conoscenza a questa collegata. Se il mondo procede dalla misteriosa e impenetrabile volontà divina, risulta allora impossibile per la ragione umana ricostruire la struttura razionale della realtà, che va invece considerata così come essa appare, senza pretendere di individuarne la causa ultima, il fondamento metafisica. Viene meno in tal modo il principio parmenideo operante per secoli dell'identità di struttura fra pensiero ed essere, e quindi viene meno anche la pretesa di elaborare una metafisica che rispecchi la realtà così come è in se stessa. Il pensiero umano, ormai separato da un presunto ordine antologico dichiarato inconoscibile, si rivolge, da un lato, alla pura e semplice descrizione dei fenomeni fisici, abbandonando la pretesa di comprenderne l'essenza; dall'altro, alla produzione arbitraria dei concetti universali. Infatti questi sono considerati non più come il rispecchiamento nella mente di una realtà presente, ma come segno che svolge una semplice funzione significante: come suppositio che "sta in luogo di" un insieme di cose individuali fra di loro simili. Lungi dall'esprimere una realtà data, il concetto universale è divenuto un prodotto dell'intelletto che svolge la fondamentale funzione "economica" di raccogliere sotto una nota comune una pluralità di individui aventi caratteristiche affini. La filosofia tardo-scolastica avanza in tal modo una serie di problematiche che la filosofia maDalla scolastica alla derna doveva far proprie e portare filosofia moderna alle conseguenze estreme: 1) il problema della distinzione fra ragione e fede; 2) l'idea del primato della realtà individuale e la conseguente trasformazione dell'universale da realtà

in sé a realtà puramente mentale; 3) la polemica antimetafisica, con la connessa critica di ogni pretesa "essenzialistica" e la conseguente valorizzazione della ragione "descrittiva", rivolta ad indagare non più la causa e il fine dei fenomeni, bensì il come del loro accadere.

3.2 La nascita della filosofia moderna Se ora torniamo a riflettere brevemente su quel "manifesto" della filosofia moderna che è il Discorso sul metodo, notiamo come Cartesio (15961650) proceda non soltanto alla delineazione del problema del metodo, ma anche ad una critica serrata della cultura tradizionale tardo-scolastica, che egli aveva appreso frequentando il collegio di La Flèche. Soprattutto la filosofia, considerata come

>, dal suo punto di vista è soltanto un campo di battaglia fra differenti opinioni che, proprio perché verosimili, sono tutte lontane dalla veritàautentica. Alla luce di tale prospettiva il dubbio metodico svolge in Cartesio la funzione fondamentale di liberare la mente umana da quelle idee il cui contenuto non mostri una immediata identità o adeguatezza con la cosa rappresentata. Cartesio decide, in altri termini, di fare uso di un atteggiamento scettico: ciò che sopravviverà al dubbio più radicale, addirittura all'ipotesi che tutte le nostre credenze siano frutto dell'inganno di un "genio maligno", potremo ritenerlo certo, assolutamente vero. Si può dubitare della corrispondenza fra le idee e le cose così come sono in se stesse (il Sole come mi appare in cielo non corrisponde al Sole come è in se stesso), si può dubitare della possibilità di distinguere il Sogno dalla Dualismognoseologico realtà, ma non si potrà mai dubita- e primato re del fatto che, se penso, sono, ov- della soggettività vero esisto in quanto cosa perci- in cartesio piente-pensante. L'io del cogito diviene in tal modo il subjectum per eccellenza, il fondamento in-

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l -UNA GNOSEOLOGIA FONDATA SULLA SOGGETTIVITÀ E L'AUTOCOSCIENZA

discusso della verità, alla luce del quale soltanto è possibile ricostruire il rapporto con la realtà, e quindi riguadagnare la verità intesa come adaequatio intellectus et rei. D'ora in poi qualunque idea si presenti con la stessa evidenza del cogito-sum dovrà essere ritenuta vera, ossia adeguata al proprio "oggetto". In Cartesio l'ordine geometrico del mondo è ancora l'ordine garantito e fondato sulla veridicità Ordine gemetrico del del Dio creatore, il quale non può mondo e rivoluzione essere ingannatore. Una volta svincopernicana colato dal presupposto della creazione, quest'ordine si presenterà nello sviluppo successivo del pensiero moderno, come semplice ordine naturale-razionale del mondo. La ragione moderna non ha più bisogno di legittimare il proprio procedere conoscitivo ricorrendo alla natura esterna o al Dio trascendente; né sarà necessario che venga "istruita", come uno scolaro, dalla natura o da Dio, ma piuttosto, in qualità di giudice, >, non farà altro che portare alle estreme conseguenze l'idea galileiana e cartesiana di una ragione umana che, in quanto capace di identificarsi con l'ordine del mondo prodotto dalla ragione divina, perviene infine alla certezza di essere il primo e l'ultimo criterio di verità. Un'eccezione significativa, in questo quadro, è rappresentata da Giambattista Vico (1668-1744), il quale, in nome dei diritti della memoria e della fantasia respinge l'idea della matematizzazione del sapere, proponendo in alternativa il criterio del verumfactum: gli uomini possono avere una conoscenza vera soltanto delle cose di cui sono essi stessi autori; il fertile campo di applicazione della scienza nuova, fondata su questo criterio, sarà dunque la storia umana m5 GIAMBATTISTA VICO, SCIENZA NUOVA

la responsabilità e l'impegno sociale della filosofia Sul frontespizio del Novum Organum L'instaurazione di Francesco Bacone (1561-1626) della scienza campeggia una illustrazione che raf- secondo Bacone figura un vascello a tre alberi e a vele spiegate, pronto a varcare le colonne d'Ercole. Sotto il vascello si trova una scritta tratta dal Libro del profeta Daniele che suona: (@Ulti pertransibunt et augebitur scientia». Chi sono coloro che, attraversando le colonne d'Ercole, determinano l'accrescimento della scienza umana? E a quale scopo? Come si configura, agli inizi dell'epoca moderna, il progetto baconiano della "grande instaurazione" della scienza umana? Nel primo Libro di quest'opera Bacone considera l'uomo ministro e interprete della natura: ((La scienza e la potenza umana coincidono, poiché l'ignoranza della causa impedisce la produzione dell'effettQ)) .. Si stabilisce una connessione necessaria tra conoscere e operare, mentre nella scienza antica, quella aristotelica, la conoscenza aveva un valore solo 'contemplativo': per il sapiente la conoscenza è un fine e non un mezzo, poiché la natura è immutabile e l'uomo non può fare altro che contemplare il suo ordine. Per Bacone, la natura può essere dominata soltanto attraverso il metodo della interpretazione che, penetrando fin nelle regioni più profonde e remote di essa, giunge a scoprire le sue leggi, che Bacone chiama assiomi. Ora, perché tale metodo abbia successo, è necessario prima di tutto liberare la mente umana dagli idoli, dai pregiudizi che impediscono la visione delle cose così come sono in se stesse e rendono vani gli sforzi di dominare la natura e di utilizzarla a vantaggio dell'uomo D 2 . Una volta che l'uomo, (Wmancipato e reso adulto» dal nuovo metodo induttivo, avrà purificato il proprio intelletto dai pregiudizi che ancora lo accecano, potrà riappropriarsi del suo destino e imporre di nuovo il dominio sulla natura D 2 . L'uomo infatti, fa notare Bacone alla fine del Novum organum, è caduto dal suo stato di innocenza e di dominio sulle creature solo in seguito al peccato originale.

SEZIONE EPOCHE MODEiUUlÀ EfllOSflFIA

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5- lA RESPONSABILITÀ E l'IMPEGNO SOCIALE DEllA FILOSOFIA

Entrambe le condizioni, tuttavia, si possono ancora ricostituire: (([a prima, con la religione e la fede;

la seconda, con le arti e le scienze)). Con la fede l'uomo può riguadagnare il suo stato di innocenza, dal quale è decaduto in seguito al peccato originale; con le scienze e le arti, può riconquistare il suo dominio sulla natura. Nonostante la cacciata dal paradiso terrestre, infatti, ((i[ creato non è diventato del tutto e per sempre ribelle)). Quando Dio disse ad Adamo che avrebbe dovuto guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, lasciò intendere che soltanto con la fatica, con l'arte e con la scienza, e non con le oziose dispute verbali o con gli improduttivi riti magici, il creato potrà di nuovo venire sottomesso dall'attività umana. Con Bacone la moderna Utopia, già vagheggiata da Thomas More (1478-1535), assume conndominio umano torni ancor più definiti. Nell'opera sulla natura incompiuta La nuova Atlantide viein La nuova Atlantide ne descritta un'isola sconosciuta i cui abitanti portano a compimento il progetto di una scienza diretta a realizzare il dominio tecnico dell'uomo sulla natura. In questo vero e proprio paradiso della tecnica, nel quale si realizza compiutamente il regnum hominis sulla natura, i muovi santh sono i grandi scienziati e inventori, ossia i ((benefattori dell'umanità)). Le ((Sacre reliquie)) sono le invenzioni che rendono più felice la vita dell'uomo. Secondo Bacone, dunque, l'attraversamento delle colonne d'Ercole e l'abbattimento dei limiti geografici, storici e spirituali che la civiltà europea andava operando attraverso la scoperta del Nuovo Mondo, dovevano condurre al progetto di una nuova società, in cui la scienza operativa, diretta alla costituzione della tecnica, avrebbe potuto finalmente realizzare il dominio dell'uomo sulla natura. Il filosofo-scienziato non è più il sapiente che persegue l'ideale aristotelico-scolastico del b{os theoretik6s, della "vita contemplativa" rivolta a conoscere il reale. Egli si fa banditore di un progetto che prevede l'uso delle forze della natura per realizzare gli scopi umani. Lo stesso progetto anima anche il pensiero di Cartesio, il quale, nella

sesta parte del Discorso sul metodo, sottolinea la superiorità della sua concezione matematico-meccanica della natura nei confronti di quella teleologico-sostanzialistica della tradizione aristotelico-scolastica. Le leggi matematico-meccaniche sono tali, scrive Cartesio, da ((Tenderei padroni epossessori della natura)), tali cioè da consentire all'uomo, attraverso l'invenzione di una infinità di "artifici", sia di godere senza alcuna pena ((dei frutti della terra e di tutte le comodità)), sia di combattere e sconfiggere un'infinità di malattie, corporee e spirituali, e forse anche (da· allora le leggi che governano il movimento sono tre: 1) la legge d'inerzia: ogni corpo conserva il suo stato finché non è urtato da una altro; 2) la legge della conservazione del moto: la quantità di moto che un corpo trasmette ad un altro nell'urto è uguale a quella che perde; 3) la legg~ perla:quale ogni corpo tende a muoversi in linea retta: · Ma concezione meccanicistica non si applica soltanto alla fisica, essa vale anche per la fisiologia. Infatti il corpo dell'uomo e degli animali funziona per Descartes come una macchina biologica nE:lla quale al posto di molle e ingranaggi troviamo organi e tessuti. A grandi linee il funzionamento di tale macchina è così descritto dallo stesso Descartes:

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Perché si abbia una nozione generale di tutta la macchina 'che descriverò, dirò qui che è proprio il calore che que~ta macchina ha nel cuore ad essere la grande

molla e il principio di tutti i movimenti che sono in essa, e che le vene sono dei canali che conducono il sangue da tutte le parti del corpo verso questo cuore, dove serve di nutrimento al calore che vi è; inoltre che lo stomaco e le budella sono un altro canale più grande, disseminato di molti piccoli fori, attraverso i quali il succo degli alimenti si riversa nelle vene che lo portano direttamente al cuore. Le arterie a loro volta sono altri canali attraverso i quali il sangue, riscaldato e rarefatto nel cuore, passa di là in tutte le altre parti del corpo, alle quali adduce calore e materia per nutrirle. Infine le parti di questo sangue più agitate e più vive, portate al cervello dalle arterie che vi pervengono dal cuore in linea retta più delle altre, compongono un'aria o vento sottilissimo, denominato spiriti animali, che dilatando il cervello lo rendono più idoneo a ricevere le impressioni degli oggetti esterni e anche quelle dell'anima, ossia ad essere l'organo o la sede del senso comune, dell'immaginazione e della memoria. Poi questa stessa aria o questi stessi spiriti colano dal cervello attraverso i nervi in tutti i muscoli, per cui dispongono questi nervi a servire da organi ai sensi esterni e, gonfiando diversamente i muscoli, danno movimento a tutte le membra. ~

R Descartes, La descrizione del corpo umano, in: Opere scientifiche, Torino, Utet 1981, p. 196

Il meccanismo del corpo umano è dunque pensato secondo un modello che riflette la tecnologia disponibile ai tempi di Descartes: sostanzialmente si tratta di una macchina termica e pneumatica. Il calore serve per estrarre dal cibo i succhi che danno origine al sangue e agli spiriti animali. I meccanismi corporei che presiedono alle sensazioni e ai movimenti sono invece di tipo pneumatico: i nervi sono tubicini in cui scorre «Un'aria sottilissima», gli spiriti animali, che vengono pompati dentro o fuori i muscoli facendoli così distendere o contrarre.

Questi sottili filamenti [dei nervi] si distendono dal cervello fino all'estremità di tutte le membra capaci di qualche senso, in maniera tale che, per quanto poco si tocchi e si faccia muovere le parti di queste membra,

SEZIONE AUTORI

RENÉ !liESCARfES

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4 ~ASPETTI DELLA FILOSOFIA NATURALE: FISICA EBIOLOGIA

ave èp:ti~ccato qualcuno di questi filamenti, si fa anche;fnuovere, nello stesso istante, quella parte del cervello donde esso viene, come, tirando un'estremità di " una corda che è tutta tesa, si fa muovere nello stesso istante, anche l'altra. l>

R. Descartes, La Diottrica, in: Opere scientifiche, cit.

Nel mezzo del cervello vi è la ghiandola pineale, in una cavità cerebrale riempita di spiriti animali. Quando gli spiriti intorno alla ghiandola pineale si muovono, per effetto di un movimento avvenuto all'estremità distale di un nervo, anche la ghiandola si muove.

Come un corpo, attaccato solo a qualche sottile filo e sostenuto in aria dal fumo uscente da un fornello, fluttuerebbe continuamente qua e là, secondo le diverse azioni esercitate su di esso dalle particelle di questo fumo, così le particelle di questi spiriti, che sollevano e sostengono questa ghiandola, essendo quasi sempre diverse in qualcosa, l'agitano e la fanno inclinare sia da una parte che dall'altra. l>

Cartesio, L'uomo, in: Il Mondo ovvero trattato della luce e L'uomo, Roma, Theoria 1983, p. 159

I rapporti tra gli spazi animali, la ghiandola pineale, gli occhi e i muscoli del braccio sono illustrati nell'incisione posta in basso a sinistra, tratta da L'uomo. L'anima si trova dentro la ghiandola pineale e può quindi accorgersi di ciò che accade al corpo mediante i movimenti della ghiandola stessa. È questo il meccanismo della sensazione. D'altra parte essa può determinare dei m o- La fisica e la medicina vimenti della ghiandola che, a loro sono più importanti volta, determinano i movimenti de- della filosofia gli spiriti animali che si trovano nel cervello, nei nervi e nei muscoli. È questo il caso del moto volontario. Naturalmente ciò funziona se l'anima può muovere o essere mossa dalla ghiandola pineale; ma l'anima è per Descartes immateriale, e quindi non si capisce come possa interagire con la materia. La fisica e la fisiologia di Descartes rivestono oggi, ovviamente, un interesse solo storico, mentre invece sono ancora degni di discussione la sua teoria della conoscenza, gli aspetti logici della sua metafisica e perfino il dualismo. Descartes, il filosofo Descartes, aveva invece sperato nel contrario quando scriveva a un suo corrispondente che ((Va tenuto presente che non si deve esagerare

nell'applicarsi alle meditazioni e alla metafisica in genere. [... ]Basta averne acquistato una conoscenza generale, e rammentarne poi le conclusioni>). Le scienze veramente importanti per l'uomo sono infatti la fisica e la medicina.

~-testo

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RUJ~ D~S(ARUS

.......

ls la morale Il numero delle pagine che Descartes ha dedicato ai problemi della morale è di gran lunga inferiore a quello in cui si occupa di metafisica e di teoria della conoscenza. Questo fatto potrebbe far ritenere che egli non tenesse le questioni morali nella stessa considerazione che riservava a quelle teoretiche. Tale opinione sarebbe però del tutto ingiustificata: l'importanza che Descartes attribuisce all'etica è testimoniata, per esempio, dalla prefazione alla traduzione francese dei Principi difilosofia (1647). Qui Descartes definisce la filosofia come «studio della saggezza, e per saggez-

za si intende non solo la prudenza negli affari, ma una perfetta conoscenza di tutte le cose che l'uomo può sapere, tanto per la condotta della sua vita, quanto per la conservazione della sua salute e l'invenzione di tutte le arti)). Poiché il raggiungimento della saggezza è un compito eminentemente morale, Descartes sta dicendo che stanno ai vertici la morale è il fine della ricerca fidel sapere losofica. Qualche pagina dopo egli tratteggia un'immagine di tutto il sapere che pone appunto la morale ai vertici.

ta moralè, ma anche nella >

(Le passioni dell'anima). Descartes consiglia a Elisabetta un rimedio composto di due un rimedio contro parti: cercare di allontanare l'im~ i dispiaceri maginazione dalla fonte del dispiacere o, quando ciò non sia possibile, considerarla soltanto con l'intelligenza. La prima parte del rimedio proposto consiste nell'evitare la catena causale che porta al sorgere della passione spiacevole a partire da, per esempio, un evento negativo; la seconda parte sottolinea, in accordo con la morale degli antichi, il ruolo che la ragione deve avere neLregolare le passioni. Colui che prova, per esempio, tristezza, paura, ansietà e simili è in preda alle passioni, condizione che è incompatibile con la tranquillità e la felicità. Queste, al contrario, presuppongono il controllo della ragione sulle passioni. La differenza che passa fra le anime più grandi, e quelle basse e volgari, consiste principalmente nel fatto che le anime volgari si abbandonano alle loro passioni, e sono felici o infelici solo nella misura in cui le cose che capitano loro sono gradevoli o spiacevoli. Le altre invece hanno un modo di ragionare così forte e potente che, pur avendo anch'esse delle passioni, anzi spesso passioni più violente di quelle comuni, tuttavia la loro ragione rimane sempre signora e fa in modo di servirsi anche delle affezioni, facendo sì che contribui-

PIIOFI~O

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LA MORALE

scano a quella perfetta felicità di cui tali anime godono già in questa vita. ..- R. Descartes, Le passioni dell'anima, Bari, Laterza 1966, p. 133

La felicità di cui parla Cartesio è quello stato d'animo interiore che ); 3) l'infinità dell'universo: la consapevolezza di ciò ci permette di superare la nostra tendenza a credere di essere al centro del creato e che tutto ciò che accade accada in funzione nostra, atteggiamento che «è causa di un'infinità di in-

quietudini vane e di turbamr;mtz')); 4) siamo parte di una comunità di esseri, l'interesse della quale è superiore a quello del singolo; 5) le nostre passioni ci presentano i beni alla cui ricerca esse ci spingono «come se fossero molto più grandi di quello che non sono in realtà)); inoltre i piaceri del corpo «non sono mai çosì dure-

voli come quelli dell'anima, né così grandi, quando si raggiurwono, come sembravano quando si speravano)); l /

6) occorre studiare la morale del luogo in cui viviamo in modo da essere in grado di decidere anche quando non si abbia la certezza della correttezza di ciò che dobbiamo fare, in modo, cioè, che «quando venga il momento di agire, non restiamo mai indecisi)); infatti «l'irresolutezza è ca-

gione di rimpianti e di pentimenti)). Le verità che Descartes propone a Elisabetta come base per usare correttamente il libero arbitrio e scegliere ciò che è bene non costituiscono, evidentemente, delle rigide regole di condotta. Piuttosto intendono favorire la capacità di scegliere ciò che è ben'e rimuovendo ostacoli come, per esempio, il timore del futuro e della morte, o impedendo di cadere in errori derivanti dall'ignorare, per esempio, gli interessi collettivi. Proprio perché le indicazioni di com- La leggi e i costumi portamento che possono derivare dello Stato da questo limitato insieme di conoscenze sono limitate, Descartes conclude con il riferimento alle leggi e ai costumi dello Stato in cui ciascuno si trova a vivere. È una conclusione che riecheggia la prima regola della morale provvisoria contenuta nel Discorso sul metodo. Ma con una profonda differenza: nel Discorso sul metodo tale regola era concepita come provvisoria, appunto, in attesa di una rifondazione complessiva di tutto il sapere. All'epoca delle Passioni dell'anima, Descartes ha già provveduto a tale rifondazione, quindi appellarsi alla morale del paese in cui ciascuno si trova a vivere non può non significare altro che la rifondazione del sapere su basi certe ha, in morale, dei limiti. È l'idea, cioè, che la stessa conoscenza della morale ha dei limi- Scienze teoretiche ti. Q~esto stabilisce una asimme- e scienze pratiche tria fra le scienze teoretiche e quelle pratiche: nelle prime possiamo partire da idee chiare e distinte per giungere a verità certe, nelle seconde dobbiamo accontentarci di ciò che è probabile. Nell'agire ciò che conta è che si agisca correttamente, permettendo alla ragione di guidare le nostre scelte, mentre non è possibile possedere wna

scienza infinita in modo da conoscere perfettamente tutti i beni fra cui si deve scegliere fra le varie con,J l

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REt~É DESt:JIRTES

tingenze della vitm). Ma poiché nella vita non possiamo non scegliere, allora dobbiamo accontentarci ((di una modesta nozione delle cose più necessarie, come so n quelle da me enumerate)) (cfr. i sei punti che abbiamo visto sopra). Tutto ciò fornisce un motivo teoretico senza dubbio valido all'accettazione cartesiana della morale corrente. Qualche volta è stato infatti insinuato che tale accettazione fosse dettata da un tratto del carattere di Descartes cioè da quella stessa prudenza per la quale, appena venuto a conoscenza della condanna di Galileo (1633), rinunciò alla pubblicazione del manoscritto de Il Mondo. Descartes stesso non ha mai fatto mistero di questa sua decisione. Or sono tre anni ero giunto alla fine del trattato dove si parla di tutte queste cose, e cominciavo a rivederlo per licenziarlo alla stampa, quando appresi che un'opinione di fisica pubblicata poco innanzi da un altro era stata disapprovata da ragguardevoli persone[ ... ]. Ciò mi fece temere che anche fra le mie si trovasse qualche opinione, in cui mi fossi ingannato. [... ] Questo timore bastò a farmi mutar [idea circa] la loro pubblicazione. ~

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 43

A proposito della prudenza di Descartes, viene

spesso citata anche una frase che il filosofo aveva appuntato su un manoscritto del1619 (precedentemente, dunque, all'episodio di Galileo) con la quale dichiarava di wvanzare mascheratO)) (larvatus prodea), come fanno gli attori quando compaiono sulla scena. Tuttavia, sembra ingeneroso attribuire lavolontà del filosofo di evitare i contrasti, nonché la sua disponibilità ad accettare la morale corrente, a una semplice mancanza di coraggio. Al pur confessato timore per le conseguenze di una eventuale con, danna delle sue idee (timore del resto comprensi-\ bile considerati i precedenti di Galileo e di Bruno), ' Descartes ha sempre espressamente associato il diritto a una costante ricerca della tranquillità, condizione indispensabile per dedicarsi, come era nella sua vocazione, agli studi. J. Maritain (1882-1973) ha colto in modo efficace questi tratti del carattere di Descartes: ((Strana vita segreta e guardinga, ma in pari tempo forte e grande per un solo piano perseguito senza tregua da un capo all'altro [d'Europa], e per una comprensione singolarmente lucida e precoce della condizione prima della vita intellettuale fra gli uomini, che è di schivarlb (Tre riformatori). Come si è visto, la tranquillità costituisce, per Descartes, l'obiettivo della vita morale. Ed è giusto che egli, un tale obbiettivo, non l'abbia solo teoricamente annunciato ma anche perseguito in pratica.

Vita e opere René Descartes (latinizzato in Cartesius e italianizzato in Cartesio) nacque a La Haye nel 1596. Studiò nel celebre collegio dei gesuiti a La Flèche, dove apprese la filosofia scolastica. Viaggiò per tutta l'Europa partecipando anche alla guerra dei Trent'anni come volontario nelle truppe di Maurizio di Nassau prima e dell'elettore di Baviera poi. La notte del 1O novembre 1619, presso Ulm, ebbe una sorta di visione e intuì i fondamenti del suo sistema. In Olanda nel 1630 scrisse il trattato Il mondo o trattato della luce che però decise di non pubblicare quando apprese della condanna di Galileo da parte del Sant'Uffizio. Sette anni dopo pubblicò il Discorso sul metodo concepito come introduzione ad alcuni saggi scientifici. Nel 1641 uscirono a Parigi le Meditazioni metafisiche, poi ristampate insieme alle Obiezioni mossegli dai suoi lettori e alle Risposte alle obiezioni dell'autore. Morì di polmonite a Stoccolma, nel 1650, dove era ospite delle regina Cristina di Svezia. Oltre a quelle citate, fra le sue opere ricordiamo: Regole per la conduzione dell'intelletto ( 1628); L'uomo, parte aggiunta a Il mondo; i saggi scientifici la Diottrica, le Meteore e la Geometria ( 1637); Principi di filosofia ( 1644); Le passioni dell'anima ( 1649).

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RENÉ DESCARTES

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Prima e Seconda Meditazione metafisica

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· testo 1

Riportiamo qui di seguito alcunibrani dalle prime due Meditazioni metafisiche. Prima meditazione. Delle cose che si possono revocare in dubbio. Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra principi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che mi era d'uopo prendere seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di durevole nelle scienze. Ma poiché questa impresa sembrava grandissima, ho atteso di aver raggiunto un'età così matura, che non potessi sperare dopo di essa un'altra più adatta; il che mi ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore, se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire. Ora, dun·que, che il mio spirito è libero da ogni cura e che mi sono procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il mèro motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v'è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la rovina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell'edificio, io attaccherò dapprima i principi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate. Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l'ho appreso dai sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati. Ma, benché i sensi ci ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito d'una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E co rh e potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegl'insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di esse-

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tlENÈ DESCARTES

re vestiti d'oro e di porpora, mentre san nudi affatto; o si immaginano di essere delle brocche, o d'avere un corpo di vetro. Ma costoro san pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio. Tuttavia debbo riconsiderare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l'abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora che quegl'insensati quando vegliano. Quante volte mi è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato nel mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che questa testa che muovo non è punto sopita, che consapevolmente di deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo di essere stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da essere quasi capace di persuadermi che io dormo. Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità, cioè che apriamo gli occhi, muoviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non delle false illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano quale noi li vediamo. Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate nel sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere formate se non a somiglianza di qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie ma vere ed esistenti. [... ] Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia nessuna terra, nessun cielo, nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io giudico qualche volta che gli altri si ingannano anche nelle cose che credono di sapere con la maggior certezza, può essere che egli abbia voluto che io mi inganni tutte le volte che fo l'addizione di due e di tre, o, che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa più facile di questa. Ma forse Dio non ha voluto che io fossi ingannato in tal guisa, perché di lui si dice che è sovranamente buono.[ ... ] lo supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio, non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. lo penserò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, e i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di avere tutte queste cose. lo resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente e astuto che egli sia, non mi potrà mai imporre nulla. [... ]

Seconda meditazione. Della natura dello spirito umano e che questo è più facile a conoscersi che il corpo. La meditazione che feci ieri mi ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, ormai, non è più in mio potere dimenticarli. Etuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt'a un tratto fossi caduto in un'acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né appoggiare i piedi sul fondo, né nuotare per soste nermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò daccapo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il minimo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non mi è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non c'è nulla di certo. Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasporta rio altrove, domandava un sol punto fisso e immobile 1• Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile. lo suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c'è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, si rappresenta; penso di non avere senso alcuno; credo che il mio corpo, la figura, l'estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito. E che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non c'è nulla al mondo di certo. Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che ho appena giudicato incerte, della quale non si possa avere il minimo dubbio? Non v'è forse qualche Dio, o qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso e alcun corpo. Esisto, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi? E non sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell'ingannarmi sempre. Non v'è dubbio dunque che io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni finché vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito. Ma io non conosco abbastanza chiaramente ciò che sono, io che sono certo di essere; di modo che, ormai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io sostengo essere più certa epiù evidente di tutte quelle che io ho avuto per lo innanzi. Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sicché resti solo ciò che è interamente indubitabile. Che cosa, dunque, ho creduto dapprima di essere? Senza dif1. Si attribuisce ad Archimede il deno «datemi un ficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un punto d'appoggio evi solleverò il mondo",perillustrareilprincipiodellaleva. animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che

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RENE DESC.4RTES

cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da una sola questione, cadremmo insensibilmente in un'infinità di altre più difficili ed awiluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che nascevano prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. lo mi consideravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta di ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che io designavo con il nome di corpo. lo consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che camminavo, che sentivo e che pensavo: e riportavo tutte queste azioni all'anima; ma non mi fermavo a pensare che cosa fosse quest'anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo che essa fosse qualcosa di estremamente rado e sottile, come un vento, una fiamma, o una aria delicatissima, insinuata e diffusa nelle parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo, non dubitavo per nulla della sua natura; perché pensavo di conoscerla molto distintamente, e, se avessi voluto spiegarla secondo le nozioni che ne avevo, l'avrei descritta in questa maniera: per corpo intendo tutto ciò che può essere determinato in qualche figura; che può essere compreso in qualche luogo, e riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso, che può essere sentito o col tatto, o con la vista, o con l'udito, o con il gusto, o con l'odorato; che può essere mosso in più maniere, non da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva l'impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura corporea il privilegio di avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario, mi stupivo piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi. Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingannarmi? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? lo mi fermo a pensarci con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v'è bisogno che mi fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell'anima, e vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. l primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; è io trovo qui che il pensiero è attributo che mi appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. lo sono, io esisto: questo è certo; ma per qugmte tempo? lnvero, per tanto tempo per quanto penso, perché forse mi potrebbe accader-e, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d'essere o d'esistere. lo non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato mi era per lo innanzi ignoto. Ora, io sono una cosa vera, e veramente esistente. Ma quale cosa? L'ho detto: una cosa che pensa. E che altro? Ecciterò ancora la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa di più. lo non sono quest'unione di membra che si chiama il corpo umano; io non sono un'aria sottile e penetrante, diffusa in tutte queste membra; io non sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla di tutto ciò che posso fingere e immaginare, poiché ho supposto che tutto ciò non fosse niente; eppure, senza cambiare questa supposizione, io continuo ad esser certo che sono qualcosa. [... ]

Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos'è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuoi~, che immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono all9 mia natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, ci:Je dubito quasi di tutto, che, non di meno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed.àffermo quelle sole esser vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscere di più, che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia volontà; che molte cose sento come se divenissero attraverso gli organi del corpo? V'è qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto, quand'anch'è dormissi sempre, e colui che m'ha dato l'essere si servisse di tutte le sue forze per ingannarmi? V'è anche alcuno di questi attributi, che possa essere distinto dal mio pensiero, o del quale si possa dire che esso è separato da me stesso? Poiché è di per sé così evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non c'è qui bisogno di aggiungere nulla per spi'egarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà di immaginare; poiché sebbene possa accadere(come ho supposto per lo innanzi) che le cose che immagino non siano vere, tuttavia questa fa'"' coltà di immaginare non cessa d'essere realmente in me, e fa parte del mio pensiero. Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le cose come per mezzo degli orgadi- dei sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il calore. Ma mi si dirà che queste ilP'"' parenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è certissimo almeno che mi sem~ra di vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente quel che in me si chiama sentire, e che, preso così precisamente, non è nulla altro che pensare. Da tutto ciò comincio a conosce?e chi sono, con un po' più di luce e di distinzione. [... ] Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si compiace di smarrirsi, e non può contenersi ancora nei giusti limiti di verità. Abbandoniamogli, ancora una volta le briglie, affinché, v~nen­ do dopo a ritrargliele dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente regolarlo e condurlo. Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni e che noi crediamo di comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. lo non intendo parlare deicorpi in generale, perché queste nozioni generali sono d'ordinario più confuse, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall'alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancoraqualcosa dell'odore dei fiori, da i quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la grandezza:.sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, si incontrano in questo. · Ma ecco che, mentre io parlo lo si awicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l'odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, diviene liquido, si riscalda, a malapena si può toccarlo, e benché lo si batta non renderà più alcun suono. Ma la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare che essa resta; e nessuno può: negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo dopo esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l'odorato o la vista o il tatto o l'udito si trovan cambiate, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in cjue,sta maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartehgo-

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no alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. [... ] Ma che cos'è quest'estensione? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché della cera che si fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è interamente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente secondo verità che cosa è la cera; se non pensassi che essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l'estensione; di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l'immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v'è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora qual è questa cera che non può essere concepita se non dall'intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da riotare, la percezione, o l'azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un'immaginazione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente, la quale può essere imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, come adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta. [... ] Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso? Poiché fin qui non ammetto in me altra cosa che uno spirito. Che pronuncerò io, dico, di me, che sembro concepire con tanta distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me stesso, non solamente con maggiore verità e certezza, ma ancora con maggiore distinzione e nettezza? Poiché, se io giudico che la cera è, o esiste, dal fatto che io la vedo, certo dal fatto che io la vedo segue molto più evidentemente che io sono, e che esisto io stesso. Poiché può essere che ciò che io vedo non sia in effetti cera; può anche accadere che io non abbia neppure degli occhi per vedere alcuna cosa; ma non è possibile che, quando io vedo, o (ciò che non distinguo più) quando penso di vedere, io che penso non sia qualche cosa. Egualmente, se io giudico che la cera esiste dal fatto che la tocco, ne seguirà ancora la stessa cosa, e cioè che io sono; e se io traggo quel giudizio dal fatto che la mia immaginazione me ne persuade, o da qualunque altra causa, concluderò sempre la stessa cosa. E ciò che ho notato qui della cera, si può applicare a tutte le altre cose che mi sono esteriori, e che si trovano fuori di me. [... ] Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso conosco che, a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà di intendere che è in noi, e non per l'immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo per il fatto che li vediamo o li tocchiamo; ma sol() mente per il fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero, io conosco evidentemente che non v'è nulla che mi sia più facile a conoscere del mio spirito. Ma, poiché è quasi impossibile disfarsi così prontamente di un'antica opinione, sarà bene che mi fermi un poco su questo punto, affinché, con la lunghezza della mia meditazione, imprima più profondamente nella mia memoria questa nuova conoscenza. Il>

C Cit., III, Il, 5

Tuttavia, per quanto sia desiderabile, tale supposizione è irrimediabilmente falsa: le parole delle varie lingue si sono formate molto prima della scienza, esse dunque si riferiscono a qualità che le cose sembrano avere a gente priva di scienza: Non sono stati ifilosofi o i logici [... ] a formare i nomi generali che sono usati nelle varie lingue [... ] ma gente ignorante e illetterata, la quale smistava e denominava le cose per mezzo delle qualità sensibili che vi trovava. 1>

Cit., III, VI, 25

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LA TEORIA DELLA CONOSCENZA

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Le parole, dunque, significano non la vera nallimiti della percezione tura delle cose ma, per così, dire, e della conoscenza l'idea che ce ne siamo fatti e che risono anche i limiti sente, inevitabilmente, dei limiti del linguaggio della nostra percezione. Ma non si deve credere che tale situazione sia superabile con il progresso delle conoscenze, poiché, come abbiamo visto, la nostra ignoranza della vera essenza delle cose - l'essenza reale - è insuperabile. Ciò che possiamo conoscere è solo l'essenza nominale.

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se soltanto "rosso" non direste che esprime una conoscenza, egli dovrebbe almeno dire "quella cosa è rossa".

La conoscenza, come si è detto, consiste nella percezione dell'accordo o del disaccordo fra nostre idee. Da questo segue che: [... ] non possiamo avere conoscenza al di là della percezione di quell'accordo o disaccordo. E la percezione si ha: 1) per intuizione cioè per immediato confronto tra due idee; o 2) per ragione cioè attraverso l'esame dell'accordo o disaccordo di due idee con l'intervento di altre idee; o 3) per sensazione, percependo l'esistenza di cose particolari. ~

Ci t., IV, III, 1-6

la conoscenza L'esperienza, esterna ed interna, fornisce dunque il materiale per la conoscenza: le idee. Ma le idee non sono ancora conoscenza. Locke definisce infatti la conoscenza come «la percezione della connessione e dell'accordo, o del disaccordo e del contrasto, fra le nostre idee>>. Per chiarire il significato di tale definizione dobbiamo concentrarci su due questioni: 1) la percezione; 2) la relazione fra le idee (connessione o accordo, disaccordo o contrasto). In primo luogo, come già abbiamo notato a proposito della critica all'innatismo, secondo Locke non c'è conoscenza se non c'è percezione, cioè se non c'è consapevolezza di essa. È questo, potremmo dire, che ci permette di affermare che, per esempio, i computer non sanno che 2+2=4 nonostante che siano in grado di svolgere l'operazione, perché non ne sono consapevoli. In secondo luogo possiamo dire che qualcosa è una conoscenza solo se può essere espressa in una proposizione la quale, appunto, ha proprio la funzione di stabilire un accordo o un disaccordo fra il soggetto e il predicato. "Il rosso è un colore" esprime una conoscenza, stabilisce una relazione fra due idee, quella di rosso e quella di colore. Ma il semplice possesso dell'idea di rosso non è una conoscenza. Se qualcuno vi dices-

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La conoscenza può avere vari gradi di certezza a seconda che sia intuitiva o dimostrativa. L'intuizione è la percezione immediata dell'accordo, o del disaccordo, fra le Modalità diverse idee come avviene, per esempio, di conoscenza e gradi nel sapere che "il bianco non è il diversi di certezza nero". Nella dimostrazione, invece, l'accordo, o il disaccordo, fra le idee viene ricavato attraverso una serie di passaggi. La dimostrazione è meno certa dell'intuizione perché, nello svolgere i passaggi, c'è sempre la possibilità di errore. Anche per la sensazione dobbiamo ammettere un grado elevato di certezza, infatti, ritiene Locke, non sarebbe ammissibile che la natura e Dio ci avessero fornito di sensi che ci ingannano sistematicamente. La conoscenza sensibile del mondo esterno, dunque, pur non essendo assolutamente certa è sufficientemente affidabile da bastare per gli scopi della vita. È un tratto caratteristico del pensiero di Locke la consapevolezza che l'uomo esercita le sue facoltà conoscitive non solo quando fa filosofia o scienza ma anche nella sua vita quotidiana. Tutti i giorni gli uomini debbono prendere decisioni e agire in condizioni di incertezza. Il dominio della conoscenza probabile è dunque molto più vasto di quello della conoscenza certa (intuizione, dimostrazione, sensazione); questo tipo di conoscenza si affida a mezzi quali la fi-

2 ducia nella testimonianza degli altri uomini o l'analogia a eventi simili accaduti in precedenza. Ma anche la conoscenza probabile, come quella certa, si avvale della ragione, poiché la valutazione della probabilità di un evento richiede qualche forma di ragionamento. La ragione, dunque, è pervasiva, essa giunge ai limiti della fede. Benché la ragione sia profondamente diversa dalla fede, tuttavia è sempre essa a decidere della validità della rivelazione. Una fede senza ragione darebbe luogo a incontrollate fantasie e a nefasti fanatismi.

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SCH~DA-PSICOLOGIA

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Superare l'opposizione fra lnnatisti ed empiristi Noam Chomsky, Jerry Fodor, Jacques Mehler e Zenon Pylyshyn hanno ora perfezionato l'approccio selettivo alle teorie dell'apprendimento in psicologia e in linguistica, offrendo un'immagine nuova e sofisticata dell'interazione tra innato e appreso. Detto brutalmente e un po' semplicisticamente l'esperienza è un insieme di filtri, una cascata di cascate di interruttori che aprono certe vie, chiudendone altre. Si parte alla nascita, sul picco della curva a U, poi si scende verso il suo minimo, mentre le ricchissime potenzialità iniziali si incanalano entro il dedalo di interruttori, cioè mentre si effettua la selezione. Le valli delle curve, i minimi delle U, non sono, però, tutte tra loro in «fase». A nessuna età siamo in «buca» per tutte le capacità cognitive. Vi sono U larghe e piatte, ve ne sono di più alte e strette, ciascuna correlata a periodi critici e a wnde» successive di maturazione del sistema nervoso. Per questo la nouvelle vague non parla più di «stadi», alla Piaget, ma di «moduli», alla Chomsky-Fodor, di apparati mentali specializzati, tra loro assai indipendenti, ciascuno caratterizzato da una forma e una posizione temporale della sua curva a U. Il termine «stadio» indicherebbe un momento dello sviluppo cognitivo nel quale tutte le U sarebbero sovrapposte. Questo fenomeno sembra non awenire mai, nemmeno per abilità cognitive molto simili. 1>

M. Piattelli Palrnarini, Scienza come cultura, Milano, Mondadori 1992, p. 218

la politica Nello stesso anno in cui Locke pubblicava il Saggio, uscirono, anonimi, anche i Due trattati sul governo. Il primo sviluppa una critica alla teoria politica assolutistica, in particolare alla versione sostenuta da R. Filmer che sostene- una teoria politica va l'origine divina del potere regio liberale e e che gli uomini non nascono li- antiassolutistica beri. Filmer giustificava tale posizione riconducendo il potere regale a quello che Dio avrebbe conferito ad Adamo. Locke mostrò che neppure la Bibbia poteva giustificare una tale teoria. Nel Secondo trattato elabora invece una dottrina positiva dello Stato e del potere che ha avuto enorme importanza: scritta come giustificazione teorica della rivoluzione inglese del1689, ispirò i movimenti antiassolutistici europei e costituì una delle basi teoriche delle Rivoluzioni americana e francese. Nel cercare di rispondere alla questione su cosa sia e come debba essere un governo legittimo, si pone inizialmente un problema di metodo: affrontare il problema mediante l'analisi dei vari tipi di governo realmente esistenti sarebbe un'impresa estremamente difficile, data la varietà e la complessità dei governi esistenti. La strategia adottata da Locke, ma comune ai pensatori politici moderni, da Hobbes a Rousseau, consiste nel chiedersi come sarebbe una società priva di governo. È il modello dello stato di natura in cui viene immaginata una società nella quale l'uomo si trova in una condizione naturale, antecedente alla nascita dello stato politico 0.6. STATO DI NATURA ESTATO CIVILE Il termine 'antecedente' deve essere inteso in senso logico e non cronologico: non ha nessuna importanza se la condizione naturale che si ipotizza sia effettivamente esistita o no. Locke pensa che, di fatto, in alcuni luoghi interni dell'America gli indigeni vivessero in uno stato di natura. Ma ciò che conta non è il fatto che lo stato di natura esista o sia esistito. Ciò che conta è che esso fornisce un modello teorico in cui si immagina che cosa succederebbe se lo stato politico non esi-

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stesse. Si tratta di una procedura teorica utilizzata frequentemente che prende il nome, nella logica contemporanea, di controfattuale. Ad esempio possiamo immaginare, come fece Galilei, che se non ci fosse l'attrito i corpi si muoverebbero all'infinito. Con ogni probabilità lo stato di natura è più semplice di uno stato politico e dunque è più semplice cercare di capire quale ruolo svolge quest'ultimo. Lo stato di natura non è dunque una condizione da utopia ma un modello teorico per comprendere lo stato reale. Nello stato di natura, secondo Locke, gli uomini sono liberi ed uguali. Ma per quanto sia un modello ideale uno stato di libertà, non è uno staperspiegarelostato to dove tutto è permesso. Lo stato politico reale di natura è governato da una legge di natura che impedisce a chiunque di ledere la vita, la salute, la libertà e la proprietà degli altri. L'uomo possiede naturalmente, cioè per il solo fatto di nascere come membro della specie umana, tre diritti inviolabili e inalienabili: il diritto alla vita e alla salute, il diritto alla libertà e quello alla proprietà. La legge di natura deriva dal fatto che tutti gli uomini sono (

J. Locke, Secondo trattato sul governo, in: Trattato sul governo, Roma, Editori Riuniti 1984, I, 3

Come si vede, accanto all'amministrazione della giustizia, Locke attribuisce al potere politico anche il compito di difendere la proprietà. E, in effetti, il tema della proprietà privata è uno dei temi portanti e più influenti sul pensiero politico che si ispira a Locke, cioè quello liberale.

Il diritto alla proprietà è, come abbiamo visto, uno dei diritti naturali dell'uomo. Secondo Locke scaturisce direttamente dal lavoro: il diritto alla proprietà è il diritto che ogni uomo ha di disporre dei frutti del proprio lavoro. Nello stato di natura tutto è a disposizione di tutti. Ma il diUno dei cardini ritto alla proprietà non nasce per delliberalismo: consenso: se gli uomini avessero ladifesadellaproprietà dovuto mettersi d'accordo circa la proprietà di questo o quell'albero da frutto sarebbero morti di fame. Ciascun uomo ha però la proprietà del suo corpo e quindi ciò che produce con il lavoro del suo corpo è suo. Si potrebbe credere che ognuno abbia il diritto di impadronirsi di tutto quanto gli è possibile. Ma Locke non la ~(~- 5

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La ricchezza delle nazioni nell'analisi di un fondatore dell'economia politica: A. Smith Il lavoro compiuto da un individuo isolato non è, evidentemente, sufficiente a procacciargli gli alimenti, gli indumenti, e il genere di alloggio, che si suppone siano richiesti in una società evoluta, non solo dal lusso della persona di condizione elevata, ma anche dalle naturali esigenze del più umile contadino. Osservate in qual modo un qualsiasi lavoratore a giornata in Gran Bretagna o in Olanda sia fornito di tutte queste cose, e comprenderete come gli agi di cui gode siano molto superiori a quelli di numerosi principi indiani. [... ]11 vestito di lana che ricopre il lavoratore a giornata, per quanto grossolano e ruvido possa apparire, non si sarebbe potuto fare senza il lavoro complessivo di una moltitudine di artigiani. [... ] È l'immensa moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti attività, conseguente alla divisione del lavoro, che, nonostante la grande ineguaglianza nella proprietà, dà origine, in tutte le società evolute, a quell'universale benessere che si estende fino a raggiungere i ceti piu bassi della popolazione. Si produce una cosf grande quantità di ogni bene, che ve n'è abbastanza da soddisfare l'infingardo e oppressivo sperpero del grande e, al tempo stesso, da sopperire largamente ai bisogni dell'artigiano e del contadino. Ciascun uomo effettua una cosf grande quantità di quel lavoro che gli compete, che può anche produrre qualcosa per quelli che non lavorano affatto. .,_ A. Smith, La ricchezza delle nazioni. Abbozzo. Roma, Editori Riuniti

1971, pp. 3, 14

pensa così: egli stabilisce limiti al- La proprietà legittima la quantità di proprietà che ognu- deve essere limitata? no può acquisire. Tale limite è stabilito da ) e gli uomini si limitavano alla soddisfazione delle loro necessità. Con l'introduzione del denaro, però, le cose mutano radicalmente. Il denaro è infatti «qualco-

sa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e propri, ma deteriorabili, beni di sussistenzm). Diventa chiaro così che le limitazioni che Locke impone alla proprietà privata non si scontrano, come potrebbero far pensare i passi riportati più sopra, con il desiderio di accumulazione tipico del capitalismo. A questo proposito è chiarissimo dove dice: Non era l'ampiezza del possesso, ma il deteriorarsi di una sua parte rimasta inutilizzata a costituire eccesso rispetto ai limiti della proprietà legittima. 11>

Cit., V,46

In tal modo è sorto un modo con cui si può possedere più proprietà di quanta se ne possa utiliz-

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zare e quindi anche la disuguaglianza economica fra gli uomini. La disuguaglianza, a sua volta, determina un aumento delle ragioni di conflitto fra gli individui e quindi anche delle violazioni della legge naturale. Ciò concorre alla decisione di creare un governo politico. Come era diffusa nei secoli XVII e XVIII la teoria della legge naturale, così lo era quella del patto sociale, cioè dell'accordo che sarebbe stato all'origine dello Stato politico. All'inizio del Trattato Locke aveva dichiarato che uno degli scopi dell'opera era quello di eliminare la pericolosa opinione che tutti i governi siano il prodotto della mera violenza e della forza. E, in effetti, se Locke avesse aderito a tale opinione non avrebbe potuto distinguere governi legittimi da governi ille-

gittimi, dal momento che ogni governo che si fonda sulla mera violenza è un governo illegittimo. Un governo legittimo è fondato in- La teoria di Locke: vece su un accordo fra gli uomini, una giustificazione i quali trasferiscono il loro diritto della ribellione individuale di far eseguire eri- contro l'assolutismo spettare la legge naturale al governo. Lo scopo del governo legittimo è dunque quello di preservare la vita, la salute, la libertà e la proprietà dei cittadini. Esso giudica e punisce le violazioni della legge di natura attraverso un tipo di giudice che non è disponibile nello stato di natura: imparziale e in grado di commisurare la pena alla colpa. Il governo stesso può tuttavia minacciare i diritti naturali e in questo caso i cittadini hanno il diritto di ribellarsi.

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Vita e opere John Locke (1632-1704) fu uno dei massimi esponenti dell'empirismo inglese. Visse nel periodo delle Rivoluzioni inglesi e dette un contributo decisivo alla formazione del pensiero liberale e antiassolutistico. Studiò e poi insegnò a Oxford. Nel 1667 lasciò Oxford al seguito di Lord Ashley, che diverrà più tardi primo conte di Shaftesbury. Condivise con Ashley gli ideali di libertà e di tolleranza e quando questi, che era divenuto il suo protettore, fu esiliato per aver cospirato contro il tentativo di restaurazione assolutistica operato da Carlo Il, dovette rifugiarsi in Olanda. Dopo che la rivoluzione vittoriosa del 1689 ebbe portato Guglielmo d'Orange sul trono d'Inghilterra, Locke poté tornare in patria. Ben presto, insoddisfatto anche dell'operato del nuovo governo, si ritirò in campagna, neii'Essex, ospite nel castello del platonico Cudworth ove morì nel 1704. Attivista politico e ispiratore delle teorie che trionferanno con la "gloriosa rivoluzione" antiassolutistica del 1689, le sue idee politiche sono caratterizzate da una netta opposizione all'autoritarismo. Esse hanno avuto una vasta influenza sul pensiero liberale setteottocentesco e sulle rivoluzioni non solo inglese ma anche americana e francese. Attraverso la mediazione di Voltai re (1694-1778), il pensiero di Locke penetrò in Francia e divenne una delle principali fonti del movimento illuminista del XVIII secolo. Fra le sue opere ricordiamo: Saggio sull'intelletto umano (1688); Due trattati sul governo (1690); Pensieri sull'educazione (1690); Lettera sulla tolleranza (1689).

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Riportiamo qui di seguito il brano del Saggio sull'intelletto umano in cui Locke sviluppa la critica all'innatismo nella versione di Herbert di Cherbury.

Non esistono principi innati · Ritengono taluni, come opinione incontestabile, che nell'intelligenza vi siano certi principi innati, certe nozioni primarie, altrimenti dette nozioni comuni, caratteri, per dir così, impressi nell.a nostra mente, che l'anima riceve fin dal primo momento della sua esistenza, portandoli con sé nel mondo. Se i miei lettori fossero liberi da ogni pregiudizio, per convincerli della falsità' di questa supposizione non avrei che a mostrar loro (come spero di fare nelle seguenti parti di .. · quest'opera) come gli uomini possano acquistare tutte le conoscenze che hanno mediante il semplice uso delle loro facoltà naturali, senza il soccorso di alcuna nozione innata; e come possano raggiungere la certezza, senza. aver bisogno di alcuna di tali nozioni o principi originari. Poiché, a mio awiso, ognuno converrà facilmente che sarebbe incongruo supporre le idee dei colori innate in una creatura, cui Dio'ha dato la vista e il potere di ricevere queste idee mediante gli occhi dagli oggetti esterni. Enòn_sarebbe meno irragionevole attribuire a delle impressioni naturali e a dei caratteri innati la corì.qscenza che noi abbiamo di molte verità, quando possiamo osservare in noi stessi l'esistenza delle facoltà appropriate a farci conoscere quelle verità con altrettanta facilità e certezza come se impresse nella mente fin dall'origine. [... ] Non v'è opinione più comunemente accettata di quella secondo la quale vi sono certi principi, tanto speculativi quanto pratici (poiché ci si riferisce a entrambi), sulla verità dei quali tutti gli uomini universalmente concordano. E da ciò si deduce che questi principi debbono essere impressioni costanti che l'anima degli uomini riceve con l'esistenza stessa, e ch'ella porta con sé nel mondo in modo così necessario e reale come vi porta tutte le facoltà naturali [... ]. Non esistono principi innati di carattere speculativo Ma il peggio è che l'argomento del consenso universale, di cui si fa uso per dimostrare che vi sono principi innati, mi sembra una dimostrazione del fatto che non esiste alcun principio consimile, poiché non vi è effettivamente alcun principio sul quale tutti i gli uomini concordino universalmente. E, per cominciare dalle nozioni speculative, ecco qui due celebri principi di dimostrazioni ai quali, a preferenza di ogni altro, si attribuisce la qualità di principi innati: "tutto ciò che è, è" e: "è impossibile che una cosa sia e non sia al tempo stesso". Queste due

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proposizioni sono passate così costantemente per massime universalmente accettate che, senza dubbio, parrà strano che qualcuno osi contestar loro quel titolo. Tuttavia, prenderò la libertà di dire che, !ungi dal ricevere quelle due proposizioni un consenso universale, vi è una gran parte del genere umano dalla quale esse non sono nemmeno conosciute. Poiché, anzitutto, è chiaro che i bambini e gli idioti non hanno la minima percezione di questi principi e non ci pensano in alcuna maniera: il che basta a distruggere questo universale consenso, che dovrebbe essere il dato concomitante necessario di tutte le verità innate. Poiché dire che vi sono delle verità impresse nell'anima, le quali l'anima non percepisce o non intende affatto, è, mi sembra, quasi una contraddizione, in quanto l'atto dell'imprimere, se significa qualcosa, non è altro che il far sì che certe verità siano percepite. Infatti, imprimere cosa alcuna nella mente, senza che la mente la percepisca, a mio parere è cosa a mala pena intelligibile. Se dunque i bambini e gli idioti hanno un'anima, una mente, la quale ha in sé tali impressioni, bisogna che i bambini e gli idioti inevitabilmente percepiscano queste impressioni, conoscano necessariamente tali verità e vi consentano; ma poiché ciò non accade, è evidente che tali impressioni non esistono affatto. Poiché, se non sono nozioni impresse naturalmente come possono essere innate? E se vi sono nozioni impresse, come possono essere sconosciute? Dire che una nozione è impressa nella mente, e dire al tempo stesso che l'anima non la conosce affatto, e che fino ad ora non se ne è mai accorta, significa fare di questa impressione un semplice nulla. Non si può dire di nessuna proposizione che è nella mente, quando essa non l'ha ancora in alcun modo percepita, e di cui non è stata ancora mai consapevole. [... ] Non esistono principi innati di carattere pratico Se le massime speculative, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, non sono accolte da tutti, con un assenso effettivo, come abbiamo or ora provato, è molto più evidente per quanto riguarda i principi pratici che essi sono ben lontani dal ricevere un consenso universale. E credo che sarebbe assai difficile citare una norma morale di natura tale da èssere accolta con un consenso così generale e così pronto come la massima "ciò che è, è", o che possa passare per una verità altrettanto manifesta quanto questo principio: "è impossibile che la stessa cosa sia e non sia". Dal che appare chiaramente che il privilegio di essere innati conviene assai meno ai principi della pratica che non a quelli della speculazione; e che si ha maggior diritto di dubitare che quelli siano naturalmente impressi nella mente, di quanto non si dubiti di questi. [... ] Per sapere se vi sia qualche principio morale sul quale tutti gli uomini convengano, mi appello a chiunque abbia qualche pur modesta conoscenza della storia del genere umano, e che, per così dire, abbia guardato oltre il fumo del camino di casa sua. Poiché, dov'è mai una verità dell'ordine pratico che sia universalmente accolta senza alcun dubbio o difficoltà, come dovrebbe esserlo se fosse innata? [... ] Non vi sono state forse nazioni intere, e anche delle più civili, le quali hanno ritenuto che fosse del tutto permesso esporre i loro infanti per !asciarli morire di fame, o divorare dalle belve feroci, come era consentito che li mettessero al mondo? [... ] Garcilasso de la Vega riferisce che certi popoli del Perù avevano l'abitudine di tenere in vita le donne che prendevano prigioniere per farne delle concubine, e ingrassavano i figli che ne avevano, dopo di che li mangiavano, e facevano lo stesso trattamento alla madre dopo che ella avesse cessato di dar loro dei bambini. Le virtù con cui i Topinambur ritenevano di meritare il paradiso erano quelle di vendicarsi dei loro nemici, e di mangiarne il maggior numero possibile. Non hanno nemmeno un nome per designare

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Dio, e non hanno religione né culto. Coloro che i Turchi canonizzano e mettono nel novero dei santi conducono una vita di cui non si potrebbe raccontare senza ferire il pudore. [... ] Chi si darà la pena di leggere con cura la storia del genere umano e di considerare con occhi imparziali la condotta dei vari popoli della terra, potrà convincersi che (ad eccezione di quei doveri che sono assolutamente necessari a tenere insieme la società umana i quali sono poi anche troppo spesso violati da società intere nei riguardi di altre società), non dovrebbe citare alcun principio della morale, né immaginare alcuna regola di virtù che, in qualche angolo del mondo, non sia disprezzata o contraddetta dalla pratica generale di intere società umane, governate da opinioni e massime di vita pratica del tutto opposti a quelli di qualche altra società. ~

J. Locke, Saggio sull'intelletto umano, Bari, Laterza 1988, pp. 27-29, 48-51, 54-56

Presentiamo qui di seguito alcuni passi che bene illustrano il pensiero politico di Locke. l primi tre sono tratti dal Secondo trattato sul governo. Il quarto è tratto dalla Lettera sulla tolleranza.

DI La legge di natura Per bene intendere il potere politico e derivarlo dalla sua origine, si deve considerare in quale stato si trovino naturalmente tutti gli uomini, e che questo è uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di natura senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro. È anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e ogni autorità sono reciproci poiché nessuno ne ha più di un altro. Infatti, non vi è nulla di più evidente di questo, che creature della stessa specie e dello stesso grado, nate, senza distinzione, agli stessi vantaggi della natura, e all'uso delle stesse facoltà, debbano essere eguali fra loro, senza subordinazione o soggezione. [... ] Ma, per quanto sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza: benché in questo stato si abbia l'assoluta libertà di disporre della propria persona e dei propri averi, tuttavia non si ha la libertà di distruggere se stessi né qualsiasi altra creatura in proprio possesso, se non quando lo richieda un qualche uso più nobile, che quello della pura e semplice conservazione. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti: e la ragione, che è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà, perché tutti gli uomini, essendo creati da un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui di cui sono creature, e creati per durare fintanto che a lui piace, e non ad altri; e, poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti della stessa comune natura, non è possibile supporre fra di noi una subordinazione tale che possa autorizzarci a distruggerci a vicenda, quasi fossimo tutti gli uni per uso degli altri, come gli ordini inferiori delle creature sono fatte per noi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e a non abbandonare volontariamente il posto che gli è assegnato, così allo stesso modo, quando non è in questione la sua soprawivenza, ciascuno deve quanto più può preservare gli altri uomini e - a meno che non si tratti di fare giustizia di un trasgressore - non può sottrarre o ledere la vita, la libertà, la salute, le membra o i beni di un altro.

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E perché tutti siamo trattenuti dal violare i diritti altrui e dal far torto ad altri, e sia osservata la legge di natura, che vuole la pace e la conservazione di tutti gli uomini, l'esecuzione delle leggi dinatura è, in questo stato, posta nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di questa legge, in misura tale che possa impedirne la violazione, perché la legge di natura, come ogni altra legge che riguardi uomini in questo mondo, sarebbe inutile, se non ci fosse nessuno che nello stato di natura avesse il potere di farla eseguire, e così proteggere gli innocenti e reprimere gli offensori. 11>

J. Locke, Secondo trattato sul governo, in: T!uttato sul govemo, Roma, Editori Riuniti

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II, pp. 4-6

m la proprietà privata Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l'opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché sono da lui tolte allo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore, e nessuno altro che lui può avere diritto a ciò che è stato aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e altrettanto buone. [... ] Ma poiché oggi il principale oggetto della proprietà consiste non nei frutti della terra o negli animali che vivono in essa, ma nella terra stessa, come quella che comprende in sé e porta con sé tutto il resto, mi pare evidente che anche la proprietà della terra sia acquisita allo stesso modo che l'altra. Quanta terra un uomo lavori, semini, bonifichi e coltivi, usandone il prodotto, tanta è proprietà sua. Egli, col suo lavoro, la recinge, per così dire, sostituendosi alla proprietà comune. E non invalida questo suo diritto il dire che qualsiasi altro vi ha pari diritto, e perciò egli non può appropriarsela, non può recingerla senza il consenso di tutti gli altri membri della sua comunità, cioè a dire tutto il genere umano. [... ] Nessuno può ritenersi danneggiato dal fatto che qualcun altro beva, sia pure a grandi sorsi, se ha un fiume intero di quella stessa acqua per saziare la sua sete; e lo stesso vale esattamente per la terra come per l'acqua, quando ce n'è, di entrambe, a sufficienza. [... ] Ora, di tutti i beni che la natura aveva dato in comune agli uomini, ciascuno aveva diritto, come si è detto, a tanto quanto poteva usare, e aveva la proprietà di tutto quel che poteva produrre col proprio lavoro: là dove arrivava la sua attività, mutando le cose dallo stato in cui la natura le aveva poste, ivi arrivava la sua proprietà. Colui che raccoglieva cento staia di bacche o pomi ne era perciò stesso proprietario: erano beni suoi dal momento stesso in cui li raccoglieva. Doveva solo badare a usarli prima che si deteriorassero: in caso contrario significava che aveva preso più della parte che gli spettava, defraudando gli altri. [... ] E, sè barattava prugne che sarebbero marcite nel giro d'una settimana con noci di cui avrebbe potuto nutrirsi un anno intero, neppure avrebbe commesso alcuna colpa: non aveva danneggiato le scorte comuni, né distrutto parte dell'altrui porzione di beni, dato che nulla si deteriorava inutilizzato in sua mano. Se poi cedeva le sue noci in cambio d'un pezzo di metallo di cui gli piaceva il colore, se barattava pecore per conchiglie, se dava lana in cambio d'un sassolino luccicante, o d'un diamante, e si teneva quegli oggetti per tutta la vita, non usurpava i diritti altrui; poteva ammucchiare questi oggetti non deteriorabili a suo piacimento, dato che non era l'ampiezza del possesso ma il deteriorarsi di una

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sua parte rimasta inutilizzata a costituire eccesso rispetto ai limiti della proprietà legittima. [... ] Così nacque l'uso del denaro, qualcosa di durevole che gli uomini potevano conservare senza che si deteriorasse, e che per comune consenso poteva essere preso in cambio dei veri e propri, ma deteriorabili, beni di sussistenza. [... ] Ma poiché, oro e argento, essendo di poca utilità per la vita dell'uomo in confronto a cibo, vestiario e mezzi, acquistano il loro valore soltanto dal consenso degli uomini, e di questo valore il lavoro costituisce in gran parte la misura, è evidente che gli uomini hanno concordemente accettato che la terra fosse posseduta in modo sproporzionato e ineguale, avendo con un tacito e volontario consenso escogitato il modo in cui uno può legittimamente possedere più terra di quella di cui può usare il prodotto, ricevendo in cambio del sovrappiù oro e argento che può accumulare senza far torto a nessuno, dato che quei metalli non si deteriorano né vanno perduti nelle mani del possessore. ~

Cit., V, pp. 27, 32-33, 46, 47, 50

DI Lo Stato Se l'uomo nello stato di natura è così libero come si è detto, se è padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande fra tutti e a nessuno soggetto, perché nìai rinuncia alla sua libertà? Perché cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo d'un altro potere? La risposta owia è che, per quanto nello stato di natura egli possieda il diritto connesso 'con quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e continuamente esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla stessa stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà in questo stato è per lui assai incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di rischi e di continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera e ambisce unirsi a una società che già altri abbiano costituito o abbiano in mente di costituire per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni, cioè con quello che definisco con il termine generale di proprietà. [... ] Il grande e fondamentale intento per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assoggettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà. A tal fine lo stato di natura è per molti aspetti inefficiente. Vi manca in primo luogo una legge stabile, fissa e notoria accettata e riconosciuta per comune consenso come criterio del giusto e dell'ingiusto e come misura per decidere di ogni controversia. [... ]In secondo luogo, manca nello stato di natura un giudice riconosciuto e imparziale, dotato dell'autorità di risolvere ogni contrasto sulla base della legge istituita. [... ]Infine, nello stato di natura manca spesso il potere atto a sostenere e appoggiare la sentenza giusta e renderla debitamente operante. [... ] Il grande fine in vista del quale gli uomini entrano in società è di godere dei loro beni in pace e in sicurezza, e il grande strumento e mezzo di ciò sono le leggi istituite nella società. La prima e fondamentale legge positiva di tutti gli Stati è dunque l'istituzione del potere legislativo, dato che la prima e fondamentale legge di natura, che governa il legislativo stesso, è la salvaguardia della società e (per quanto è compatibile col pubblico bene) di ciascuna persona che ne fa parte. Il legislativo non solo è. il supremo potere dello Stato, ma è sacro e inalterabile nelle mani in cui la comunità l'abbia riposto. Né un editto di chicchessia - qualunque sia la forma in cui è concepito il potere da cui è sostenuto- può avere la forza e l'obbligatorietà di uria legge, se non riceve la sua sanzione da quel legislativo che il pubblico ha scelto e designato. [... ] ~

Cit., IX, pp. 123, 124-126, 134

SEZIONE AUTORI JOHN LOCKE

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Ora, data la debolezza umana, incline a impossessarsi del potere, per coloro che hanno il diritto di fare le leggi può esser troppo grande la tentazione d'impadronirsi anche del diritto d'eseguirle, esonerandosi così dall'obbedienza alle leggi stesse ch'essi fanno, adattando la legge, sia nella formulazione, sia nell'attuazione, alloro privato vantaggio e finendo dunque con l'avere un interesse distinto da quello della comunità e in contrasto col fine della comunità e del governo. Per questo negli Stati ben ordinati, in cui il bene collettivo è tenuto nella debita considerazione, il potere legislativo è posto nelle mani di diverse persone che, riunendosi nei modi prescritti, hanno di per sé o assieme con altri il potere di far leggi; dopo di che si sciolgono e sono essi stessi soggetti alle leggi che hanno fatto, ciò che costituisce un ulteriore e stretto impegno a badare ch'esse siano fatte per il bene comune. [... ] Ma, poiché le leggi, che vengono fatte una volta per tutte e in poco tempo, hanno poi una forza costante e durevole e richiedono un'esecuzione e obbedienza continuate, è necessario che vi sia un potere sempre in atto che presieda all'esecuzione delle leggi che sono state fatte e che continuano a essere in vigore. Per questo il potere legislativo e il potere esecutivo sono spesso separati. [... ] 1»

Ci t., XII, pp. 143, 144

DI La tolleranza Chi sia convinto che gli uomini debbono essere costretti col ferro e col fuoco a professare determinate dottrine e a conformarsi a questo o a quel culto esteriore senza alcun riguardo alla loro condotta; chi si sforzi di convertire a una fede uomini che vivono nel terrore, costringendoli a professare cose in cui non credono[ ... ]: costui, non c'è dubbio, mira a crearsi attorno un gran numero di gente che professi la sua stessa fede; ma che con questi mezzi egli voglia costituire una Chiesa cristiana non è possibile credere. [... ] La tolleranza verso coloro che dissentono dagli altri in fatto di religione è cosa talmente consona al Vangelo e alla ragione, che è mostruoso vi siano uomini ciechi a tanta luce. [... ] Perché non possano alcuni mascherare il loro spirito di persecuzione e la loro crudeltà, per nulla cristiana, con una falsa sollecitudine del pubblico bene e del rispetto delle leggi, ed altri cercare nel nome della religione pretesto alla loro vita licenziosa e impunità per i loro delitti [... ] io ritengo sia soprattutto necessario distinguere la competenza dell'autorità civile da quella religiosa, e fissare il giusto limite fra Stato e Chiesa. Finché ciò non sia fatto, non vi sarà mai termine alle controversie, che sempre insorgeranno tra coloro che hanno - o almeno ostentano di avere - a cuore l'interesse delle anime, da una parte, e quelli cui premono le sorti dello Stato, dall'altra. Lo Stato è, a mio modo di vedere, una associazione di uomini, costituita solo in vista del mantenimento e progresso dei loro interessi civili. Per interesse civile intendo la vita, la libertà, l'integrità e immunità del corpo, e il possesso degli oggetti materiali, come terra, denaro, suppellettili ed altro. Dovere del magistrato civile è di assicurare, con l'imparziale esercizio di leggi giuste, a tutti in generale e ad ognuno dei suoi soggetti in particolare, il giusto possesso di tali beni, pertinenti a questa vita. [... ] Che la giurisdizione del magistrato copra nel suo complesso soltanto gli interessi civili; che ogni potere o autorità civile sia limitato e ristretto alla sola funzione di curare e promuovere quegli interessi, e non possa né debba in alcun modo estendersi alla salvezza delle anime: tutto ciò mi sembra dimostrato dalle considerazioni che seguono. In primo luogo, la cura delle anime non compete al magistrato civile più che ad altri. Non gli

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SEZIONE AUTORI JOHN LOCKE

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antologia

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compete per volere divino, perché è chiaro che Dio non ha mai dato ad un uomo una autorità tale sugli altri, che egli possa costringere qualcuno ad abbracciare la sua fede. [... ] In secondo luogo, la cura delle anime non può spettare al magistrato civile, poiché il potere di questi consiste solo nella forza esterna; mentre una vera religione di salvezza sta nell'intima persuasione dell'animo, senza la quale nulla a Dio può essere accetto. Etale è la natura dell'intelletto, che esso non può mai essere sottoposto ad una coercizione estrinseca. Né confisca dei beni né prigionia, né tortura possono tanto da ridurre gli uomini a mutare l'intimo giudizio che essi hanno formulato sulle cose.[ ... ] Queste considerazioni [... ] mi paiono sufficienti a concludere che il potere dell'autorità civile riguarda esclusivamente gli interessi temporali dell'uomo, si limita alla cura delle cose di questo mondo, e nulla a che vedere con il mondo awenire. Consideriamo ora che cosa sia una Chiesa. Per Chiesa, io intendo una volontaria associazione di uomini che si radunano di volontà propria al fine di onorare pubblicamente Dio nella forma che essi ritengono a lui ben accetta ed efficace per la salvezza delle anime loro. [... ] Nessun privato ha diritto, in nessun senso, di ledere o pregiudicare un altro individuo nel godimento dei suoi benefici temporali per il fatto che aderisce ad altra religione o a un culto diverso. Tutti i diritti e privilegi che gli appartengono in quanto uomo o in quanto cittadino devono essere mantenuti inviolabili. Essi non riguardano la religione, e non c'è violenza o torto che possa essergli inflitto, sia egli cristiano o pagano. Quanto ho detto a proposito della tolleranza reciproca fra individui appartenenti a religioni diverse vale anche nel caso delle singole Chiese, che stanno tra loro in relazione in certo modo identica a quella in cui stanno tra loro gli individui, e a nessuna compete di esercitare diritti sull'altra: neppure quando si dia il caso che il magistrato civile appartiene all'una oppure all'altra confessione. L'autorità civile, infatti, non può dare alla Chiesa nessun nuovo diritto, né questa a quella. Pertanto, sia che il magistrato entri a far parte d'una Chiesa o ne esca, essa resta sempre ciò che era, un'associazione libera e volontaria: né acquista la forza della spada per il fatto che il magistrato vi entri, né perde il diritto di insegnamento e di esercizio della scomunica per il fatto che egli ne esca. È diritto fondamentale e immutabile d'una associazione spontanea allontanare qualsivoglia dei suoi membri; ma chiunque vi entri, non per questo essa acquista diritti su coloro che non vi appartengono. Pertanto pace, equità e benevolenza vanno sempre reciprocamente rispettate dalle singole Chiese, così come dagli individui senza che mai una accampi prerogativa di ogni sorta. [... ] Vediamo che cosa il dovere della tolleranza esiga da coloro che si distinguono dal resto del genere umano, dai laici, come essi si compiacciono di definirli, per un qualche carattere o funzione ecclesiastica, siano essi vescovi, sacerdoti, parroci, ministri del culto, o di qualsiasi altra dignità siano dotati. Non è questa la sede adatta ad indagare sull'origine del potere e dignità del clero. Voglio dire però che, da qualsiasi fonte la loro autorità scaturisca, poiché è una autorità ecclesiastica, entro i confini della Chiesa è tenuta a limitarsi, e non deve in alcun modo estendersi agli affari civili: perché la Chiesa stessa è un ente del tutto separato e distinto dallo Stato, e i confini, da entrambe le parti, sono fissi e immutabili. Confonde cielo e terra, le cose più remote tra loro, chi confonde questi due organismi, che sono per origine, per fini e per ogni rispetto assolutamente distinti l'uno dall'altro. Non v'è uomo, perciò, di qualsiasi dignità ecclesiastica insignito, che possa privare un altro uomo, appartenente a una Chiesa o fede diversa dalla sua, della vita, della libertà e di una qualsivoglia parte dei suoi beni terreni, in forza di ragioni religiose. Poiché ciò che non è legittimo per la Chiesa nel suo complesso, non può, per nessun diritto ecclesiastico, esser legittimo per uno dei suoi membri. .,.. J. Locke, Lettera sulla tolleranza, Firenze, La Nuova italia 1973, pp. 7-26, passim

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LOCKE

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Ricostruisci il seguente dialogo fra j. Locke e H. di Cherbury sull'innatismo, inserendo le frasi nelle caselle giuste. 1. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

2........................... .

3. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

4........................... .

5. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

6........................... .

Loc,ke:

8 ........................... .

a) quindi non c'è consenso universale b) ma non ne sono consapevoli c) su alcune idee c'è consenso universale, d) i bambini e gli idioti non hanno tali idee, e) dunque sono innate

f) anche i bambini e gli idioti hanno tali idee, g) e dunque l'innatismo è falso h) non essere consapevoli di un'idea equivale a non averla

In base a quanto hai letto nel § 1.3 sulla percezione, prova a elaborare una critica scettica all'opinione comune secondo la quale le nostre percezioni sono veridiche. La risposta deve contenere i termini: rappresentazione, qualità secondarie, somiglianza, percezione.































~







o

















o















































































In base a quanto letto nei §§ 1.4 e 1.5 prova a individuare l'errore nel seguente ragionamento: "se Pegaso non esistesse non lo potrei nominare, ma l'ho appena nominato, quindi esiste".

SEZIONE AUTORI lOtKE

JOIU~

Elenca almeno tre difetti dello stato di natura che inducono gli uomini a passare allo stato politico.

Definisci i seguenti termini. a) empirismo ......................................................... . b) qualità primarie ..................................................... . c) qualità secondarie .................................................. . d) sostanza .......................................................... . e) idea semplice ...................................................... . f)

idea composta ..................................................... .

g) essenza reale ...................................................... . h) essenza nominale ................................................... . i)

astrazione ......................................................... .

Dividi in paragrafi numerati e titolati i brani tratti dal Secondo trattato sul governo riportato nell'Antologia testi 2.1,2.2 e 2.3 Riassumi il brano tratto dalla Lettera sulla tolleranza riportato nel IQi!i!.ftl dell'Antologia. Disponi nella successione corretta i passaggi del seguente argomento.

D

a) qualcosa di reale

D b) D c) D d) D e)

l'essenza delle cose è universale quindi i nomi universali non nominano ma ciò che esiste sono soltanto i particolari sono universali solo nel senso che si applicano a tanti particolari.

La proprietà privata nasce per Locke:

D a) D c)

da un furto dalla compravendita

D D

b) dal lavoro d) dall'eredità.

Secondo Locke il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà:

D D D D

a) appartiene a tutti gli uomini per il semplice fatto di nascere uomini b) viene concesso dall'autorità politica c) deriva da un accordo fra gli uomini d) è concesso dall'autorità divina.

SEZIONE AUTORI JOIU! LOCKE

1 La sfida dei paradossi Chi può seriamente dubitare che domani, nuvole permettendo, vedremo il Sole in cielo o che esistono le azioni buone e quelle cattive, come è vero che esistono le mele acerbe e quelle mature? Eppure, tre Contro il senso comune secoli fa, David Hume sostenne molto seriamente questi ed altri dubbi paradossali, contrari al "senso comune" e forse anche pericolosi: almeno tali sono sembrati ad una parte dei suoi contemporanei. Spesso i filosofi sono apparsi lontani dal "senso comune", si pensi, per tutti, a Socrate, al modo in cui, per quanto ne sappiamo, è vissuto e morto. Hume non è stato un filosofo "alla Socrate": è morto nel suo letto, e non in prigione o sul patibolo, e ad essere giudicate "strane", difficilmente accettabili, sono state certe sue tesi, non il suo modo di vivere, assai ragionevole e moderato. Nella vita quotidiana, la maggior parte di noi parla senza badare molto al significato delle parole perché "tanto ci intendiamo ... "; accogliamo come vere affermazioni sulle quali sarebbe meglio riflettere, solo perché: "si sa che le cose stanno così, lo dicono tutti... ". La filosofia ci invita a sospendere questo atteggiamento "ingenuo", questa fiducia spontanea nel modo "normale" di parlare, agire, credere, per domandarci se dawero tutto è così ovvio. Hume ha passato la vita a indagare sulle nostre "normali" convinzioni: per esempio, la III parte della sua opera più nota, il Trattato sulla natura umana, cerca di rispondere ad una domanda difficile, di quelle che di solito non vengono in mente: quali sono le vere cause delle "buone azioni", di quello che chiamiamo agire morale? Hume ha preteso di analizzare i pensieri e le azioni del genere umano con lo stesso distacco con il quale un entomologo studia il comportamento delle formiche: ne è emerso un ritratto dell'uomo che non è piaciuto a tutti. Non è detto che le conclusioni di Hume siano condivisibili, ma hanno una caratteristica riconosciuta anche dai suoi awersari: mettono in discussione la nostra pigrizia intellettuale, la nostra tendenza ad accontentarci di soluzioni facili.

2 Come rendere la filosofia una disciplina scientifica Nel1739, per la prima volta, furono pubblicati a Londra, in forma anonima, i primi due libri del Trattato sulla natura umana, che aveva un sottotitolo significativo: un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento 11 Trattato: indagare nei soggetti morali (il terzo libro è la natura umana stato composto nel1740). Hume era molto giovane e aveva cominciato a lavorare all'opera qualche anno addietro. Si trattava di un testo di grande mole, scritto in modo assai analitico, di non facile lettura. Soprattutto per questi motivi, forse, non ebbe una grande accoglienza: poche recensioni, scarso interesse. Negli anni successivi, l'autore ne criticò lo stile argomentativo e decise di riproporre i temi del Trattato in due testi più brevi e leggibili: la Ricerca sull'intelletto umano (1748) e la Ricerca sui principi della morale (17 51). Non aveva, però, cambiato idea solo riguardo allo stile: mentre le tesi fondamentali rimasero le stesse, gli scopi furono meno ambiziosi: Hume non era più tanto sicuro di essere in grado di redigere un'opera completa su tutti gli aspetti della "natura umana". In ogni caso, come nel1739, Hume voleva indagare l'uomo. Egli riprendeva così un obiettivo comune a molti pensatori del XVII secolo: realizzare una riforma della filosofia in senso scientifico. La fisica sperimentale stava dimostrando di essere una valida alternativa all'antica fisica aristotelica: era basata su un metodo rigoroso, su un linguaggio non ambiguo, quello della matematica, e verificava le sue ipotesi mediante il metodo sperimentale. La filosofia, invece, avevano ripetuto Bacone, Cartesio, Bobbes, non gode di buona salute: è priva di un metodo da tutti condiviso, usa spesso un linguaggio ambiguo, e talvolta i suoi ragionamenti hanno più a che fare con l'eloquenza e la retorica che con il rigore e la precisione. Come si curano queste "malattie"? Prendendo esempio dalla nuova fisica e dalla matematica, acquisendo un

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2- COME RENDERE lA FILOSOFIA UNA DISCIPLINA SCIENTIFICA

3 metodo e un linguaggio che rendano possibile, ad esempio, scoprire, come aveva tentato di fare Cartesio, i principi che stanno a fondamento di ogni conoscenza possibile. In questo contesto, Hume vuole estendere, come afferma nel Come rendere sottotitolo del Trattato, il «metodo

sperimentale di ragionamento nei soggetti mora/i)), laddove per "soggetti morali" si

scientifica la filosofia

devono intendere tutti gli argomenti che riguardano l'uomo: la conoscenza, la morale, la religione, la politica. Che cosa significa precisamente "metodo sperimentale"? Come vedremo presto, 'sperimentale' è sinonimo di "osservativo", "descrittivo". Si tratta, in sostanza, di descrivere ciò che l'uomo fa per giungere a possedere delle credenze: attraverso quale itinerario arrivo a credere che x sia vero, che x sia buono, che x sia divino? Scoprire quali sono le basi delle nostre credenze ci permetterà di comprenderne il valore, la portata: per esempio, cosa sappiamo esattamente quando affermiamo di conoscere la causa di x? Come la fisica sperimentale studia le relazioni tra i fenomeni, allo scopo di individuare le leggi che le regolano, così la scienza della "natura umana" studia certi fenomeni propriamente umani - che Hume chiama impressioni, idee, credenze, simpatia ecc. - allo scopo di individuare se esistano, anche in questo caso, delle leggi che regolano i rapporti tra questi fenomeni. In genere, gli storici della filosofia associano il metodo di Hume a quello di Isaac Newton, fondatore, insieme a Galilei, della fisica moderna. Senza dubbio, il punto di contatto con il metodo L'esperienza alla base newtoniano consiste nel rifiuto di di ogni ipotesi formulare ipotesi di spiegazione che non abbiano la loro base nell'esperienza. Non bisogna, però, dimenticare il grande debito che Hume ha nei confronti di John Locke (1632-1704): come Locke, anche Hume, ritiene che ogni conoscenza abbia origine, direttamente o indirettamente, dai sensi. A differenza di Locke, Hume, come vedremo, si dimostrerà un empirista radicale e coerente. l

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SEZIONE AUTORI I»A'IIID.IIIME

la teoria della conoscenza A fondamento di tutte le tesi di Hume c'è la sua teo- · ria della conoscenza, contenuta nel Trattato e nel- · le Ricerche. Tra i due testi ci sono po- Una teoria empiristica che differenze, che segnaleremo della conoscenza quando è necessario, poiché le Ricerche ripropongono in gran parte le argomentazioni del Trattato, ma in forma ridotta e con uno stile più lineare.

3.1 Impressioni e idee Tutti i contenuti mentali, che Hume definisce percezioni, hanno origine da due fonti: le impressioni e le idee. Le impressioni possono provenire o dalle sensazioni o dalle passioni, ossia ad esempio, quando mi scotto toccando una fonte di calore (sensazione), o quando sono triste a causa della perdita di una persona cara (passione), sto provando delle impressioni. Abbiamo idee:, invece, quando riflettiamo, sulla base del ricordo, a proposito di una impressione, ovvero, riprendendo l'esempio di prima, quando penso alla scottatura (idea di sensazione) o al dolore (idea di riflessione). Hume sottolinea più volte che le impressioni sono forti, vivaci, mentre le idee sono le "immagini illanguidite" delle impressioni. In altri ter" mini: se il pensare coincide, in un certo senso, con il ricordare, un conto è provare una sensazione qui e ora - positiva o negativa che sia - un conto è ricordarsene, ovvero pensare a quella sensazione. È certo comunque che ogni idea deriva da una impressione corrispondente. Nessuna idea, per quanto astratta e lontana dall'esperienza, può essere priva di una impressione originaria. Come giudicare, allora, le idee della- fantasia: gli unicorni, i cavalli alati, i personaggi dei fumetti? Hume ha una risposta, che illustra con due esempi diversi nel Trattato e nelle Ricerche: mentre la memoria riproduce in modo più o meno fedele una certa impressione, l'immaginazione fa un lavoro diverso. Quando penso, ad esempio, ad

una Gerusalemme pavimentata d'oro oppure ad una montagna d'oro, la mia immaginazione mette insieme due idee, ognuna delle quali corrisponde ad una precisa impressione. Quella che noi chiamiamo fantasia, e che Hume chiama imRapportotra maginazione, non ha un potere immaginazione creativo ma solo compositivo: ased esperienza sembla materiali che provengono, in ogni caso, dall'esperienza. Se di una idea non siamo in grado di indicare le impressioni da cui deriva, allora si tratta di un'idea priva di significato. Con questa tesi, Hume anticipa di quasi due secoli la teoria verificazionistica del significato che si affermerà nella filosofia del linguaggio dei primi del XX secolo.

3.2

Origine dei concetti e principio di associazione Per quel che riguarda l'origine dei concetti, Hume assume una posizione nominalistica. Ritiene infatti, come Ockham e Hobbes, che il conChe cosa sono cetto di uomo, ad esempio, non sia gli universali altro che la somma di certe impressioni tra loro analoghe, classificate sotto lo stesso nome. L'esperienza, insomma, ci mostra soltanto realtà particolari; quelli che i filosofi medievali chiamarono universali sono costruzioni umane. Ritornando, invece, al rapporto delle idee con la memoria e l'immaginazione, Hume sostiene che, in entrambi i casi, i rapporti fra le idee sono regolati da quello che lui chiama principio di associazione, una specie di legame naturale che riproduce nelle idee ciò che abbiamo riscontrato nelle impressioni: 1) somiglianza: associamo l'idea di poltrona a quella di sedia; 2) contiguità nel tempo e nello spazio: associamo l'idea di albero a quella di frutto, perché le due impressioni sono associate nell'esperienza; 3) causalità: associamo l'idea di sparo a quella di arma da fuoco, perché nell'esperienza lo sparo si verifica solo :se c'è l'arma da fuoco.

213

PROFILO 3 - LA TEORIA DELLA CONOSCENZA

3.3

Relations ofideas l matters offaet Se unica può dirsi la fonte delle conoscenze - tutti i contenuti di pensiero derivano, in ultima analisi, dalle impressioni - ciò non significa per Hume che Che cosa distingue vi sia un solo tipo di conoscenza. le idee dai fatti?· Nelle Ricerche egli distingue infatti due diversi oggetti di conoscenza: «Tutti gli oggetti

della ragione e della ricerca umana si possono naturalmente dividere in due specie, cioè relazioni fra idee e questioni di fatto». Che cosa intende dire? Per Hume, i rapporti fra le idee si basano o su intuizioni o su dimostrazioni. Per mezzo dell'intuizione, comprendiamo p. es. che cos'è la retta; la dimostrazione è invece quel ragionamento attraverso il quale date certe premesse, si giunge necessariamente a determinate conclusioni. Se allora noi affermiamo che 6+6=12, stiamo considerando un rapporto tra idee, in questo caso numeri, e questo rapporto dipende da come abbiamo definito i concetti di numero naturale e di somma. Dato che sono stati definiti, pensati, in un certo modo, la somma di sei più sei darà sempre lo stesso risultato. Chiunque sostenesse che il risultato potrebbe anche essere un altro, commetterebbe un errore logico, poiché starebbe contraddicendo le definizioni di quelle idee. Quando ci occupiamo di idee, le consideriamo a prescindere dalla loro origine, che è sempre empirica. Così è descritto p. es., nel Trattato, il modo in cui ci formiamo l'idea dello spazio: Quando apro gli occhi e rivolgo lo sguardo agli oggetti circostanti, percepisco molti corpi visibilii quando li richiudo, e considero la distanza fra questi corpi, allora acquisto l'idea di e,stensione. Poiché tutte le idee derivano da impressioni corrispondenti, le impressioni corrispondenti all'idea di estensione devono essere sensazioni visive. ~

D. Hume, 1ìuttato sulla natura umana, Milano, Bompìani 2001, p. 89

Quando invece ragioniamo sui fatti, la procedura è completamente diversa, perché l'esisten-

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SEZIONE AUTORI DAVIDHUME

za o meno di un fatto è affidata interamente all'esperienza, non dipende né da Che cosa sappiamo definizioni, né da dimostrazioni. dei fatti? Sui fatti, quindi, nulla si può dire a priori, ovvero prima dell'esperienza e a prescindere da essa. Perciò, mentre le proposizioni riguardanti le idee sono necessarie, quelle riguardanti i fatti sono solo probabili. Questo significa che l'affermazione "x è y, e non può mai essere z" è corretta solo nel caso che si occupi di idee. Invece tutte le proposizioni riguardanti i fatti, anche le più ovvie, sono vere entro i limiti dell'esperienza (dunque per il passato e il presente, ma non per il futuro, che per definizione è ciò di cui non abbiamo ancora fatto esperienza). Questa conclusione appare sconcertante. Prendiamo la scienza sperimentale per eccellenza, la fisica. I fenomeni naturali sottostanno alle sue leggi senza limiti di tempo, ieri, oggi e domani. Se lasciamo cadere un corpo, questo si comporterà in un dato modo, secondo la legge della gravitazione universale. Come è possibile che Hume abbia fiducia nelle scienze naturali e ne contesti radicalmente uno dei presupposti? È necessario, a questo punto, esaminare la sua analisi del concetto di causa. Vi troveremo la spiegazione del perché le proposizioni fattuali non possono essere necessariamente vere.

3.4

Che cosa sono le cause? Le nozioni di causa ed effetto ci sono molto familiari: le usiamo nelle più diverse occasioni, per parlare di cause di un ritardo, di effetti di un incendio, di cause della caduta dell'Impero romano ecc. L'analisi a cui Hume sottopone queste nozioni, in apparenza così evidenti, ha il fine di scoprire quali conoscenze siano effettivamente implicate nell'uso che ne facciamo. Gli esempi che propone, sia nel Trattato che nelle Ricerche, sono molto semplici, tratti dall'esperienza quotidiana. Come quello delle palle da bi-

liardo: la palla A, colpita dalla mia stecca, si dirige verso la palla B e la colpisce, B si mette in movimento. Questo è quel che vedo; per spiegarlo staDescrizione del bilisco un nesso causale: la palla B fenomeno"causa" si è mossa perché colpita dalla palla A. È facile accorgersi che questa spiegazione non si sarebbe potuta formare, nella mia mente, se non si fossero verificate tre condizioni: 1) contiguità spazio-temporale di causa ed effetto: c'è stato un istante in cui A ha urtato B, inoltre B si è mossa nell'istante immediatamente successivo a quello in cui è avvenuto il contatto. Se A non avesse toccato B (e questa si fosse mossa ugualmente), o se B non si fosse mossa subito dopo essere stata urtata da A, ma per ipotesi molto tempo dopo, in entrambi i casi non avrei detto che B si è mossa perché colpita da A. 2} Precedenza della causa sull'effetto: è ovvio che se il movimento di A e il suo contatto fisico con B non avessero preceduto, nel tempo, il movimento di B, anche in questo caso non li avrei considerati cause di tale movimento. 3} Connessione costante di causa ed effetto: io devo avere osservato che B si mette in movimento tutte le volte che viene colpita da A; perché se alcune volte si muovesse e altre no, non potrei essere certo, quando la vedo muoversi, che si muove perché colpita da A. Questi sono dunque i "fatti" da cui nasce e a cui si applica l'idea di causa. Chiediamoci ora se quest'idea potrebbe generarsi, nella nostra mente, su una base esclusivamente logica, cioè a prescindere da esperienze del tipo di quella appena descritta. La risposta è no: le sole certezze che la logica possa darci sono quelle relative alla validità di proLe relazioni causali posizioni che non possono essere non sono relazioni negate senza cadere in contraddi"logiche" zione. P. es., negare che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a 180°, equivale a negare che un triangolo è un triangolo: è infatti implicito nella definizione stessa di "triangolo", che la somma dei suoi angoli interni sia quella e non possa essere un'altra. Ma con i rapporti di causa ed effetto le cose non stanno così. Che A ab-

bia il potere di produrre un effetto su B, io non posso ricavarlo dalla definizione di A, vengo a saperlo soltanto se lo verifico attraverso un'esperienza come quella riportata sopra. Dunque, l'esperienza è l'unica fonte possibile dell'idea di causa. Veniamo finalmente al punto decisivo: l'idea di causa contiene un'assunzione rispetto al futuro. In altri termini, dicendo che B si è mossa perché colpita da A, io non mi limito a descrivere (o a interpretare) quello che ho visto; dichiaro altresì la mia certezza che anche in futuro, date le stesse condizioni, B si metterà in moto, tutte le volte che verrà colpita da A. È proprio quest'assunzione, secondo Hume, a essere infondata. Che cosa ci garantisce che il futuro sarà uguale al passato? Non la logica, perché non c'è nessuna contraddizione nel pensare che le cose potranno andare diversamente da come sono sempre andate. Ma nemmeno l'esperienza, perché del futuro, per definizione, non abbiamo esperienza. E allora? Allora, poiché l'esperienza e la logica sono le uniche risorse della ragione umana, dobbiamo concludere che l'idea di causa e la Abitudine e credenza predizione del futuro che essa sot- contro logica tende hanno un'origine extrara- edesperienza zionale. Hume la individua nell'abitudine (custom): siamo abituati a vedere che le co·se vanno in una certa maniera, e tale abitudine agisce su· di noi come una forza che ci spinge a credere all'esistenza di cause ed effetti, ovvero che le cose andranno sempre nella stessa maniera. Ma se sottoponiamo questa credenza al vaglio della ragione, non troviamo elementi per giustificarla. Questo, beninteso, non significa che dobbiamo smettere di ricercare nessi di causa ed effetto tra gli eventi e dobbiamo quindi rassegnarci all'imprevedibilità del futuro; significa piuttosto, per Hume, che la ragione non ha, nell'organizzazione pratica della nostra vita, il ruolo preponderante attribuitole da gran parte della tradizione filosofica. Insomma, noi siamo, e tutto sommato ci conviene essere, degli animali irrazionali: se ci affidassimo soltanto alla ragione, non avremmo elementi per decidere se al trentesimo piano di un grattacielo sia

SEZIONE AUTORI DAVIDHIJME

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LA TEORIA DELLA CONOSCENZA

preferibile salire a piedi o in ascensore, volendo fare prima e affaticarci di meno; non avrebbe senso prenotare in primavera le vacanze estive ecc. Infine, tutto questo significa che una componente d'irrazionalità è alla base anche della moderna scienza della natura, galileiana e newtoniaLa ragione non domina n a; la quale, come Si sa, è qualifila nostra vita cata giustappunto dalle spiegazioni causali e dal ragionamento induttivo, che predice il futuro generalizzando esperienze particolari del passato. Dal punto di vista di Hume, i ragionamenti induttivi hanno una grande efficacia psicologica ma sono privi di necessità logica, perciò possono avere tutt'al più un valore probabilistico. Questo è uno dei motivi, non l'unico, che ha fatto definire scettica la sua posizione. Va tuttavia segnalato che nel paragrafo conclusivo della Ricerca sull'intelletto umano, Hume ha tenuto a distinguere il suo scetticismo, da lui definito moderato, da quello accademico, o pirroniano, che nega la validità di qualunque asserzione. Hume non vuole abbattere l'edificio della conoscenza

Flaiano l'indeciso: una forma di scetticismo

L'atteggiamento scettico, dubitativo, non è solo un'attitudine da filosofi. Tutti possiamo essere scettici su un aspetto del mondo o della nostra esistenza. Lo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano (191 0-19 72) è stato, a suo modo, uno spirito scettico, ed ha esercitato l'arte del dubbio prima di tutto su se stesso. Osserviamo come si rappresenta in questo breve autoritratto. Le contraddizioni, in un indeciso della mia specie (assai comune) sono un po' di moto e un po' di equilibrio. Cambio d'umore e di idee seguendo il corso del Sole. La mattina odio la società, la sera l'amo. Al mattino, leggendo i giornali, tutto mi è di peso: la commozione delle classi medie, l'insolenza degli estremisti, la beatitudine dei governanti. Col trascorrere delle ore mi sento piLJ portato a comprendere gli altri punti di vista, persino a tollerare e a sorridere. [... ) L'indomani sono daccapo: solitudine totale, rinuncia, o tuffo nella realtà? 11>

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E. Flaiano, Frasario essenziale per passare inosservati in società, Milano, Bompiani 1986, p. 61

umana, ma semmai mettere in evidenza come le nostre asserzioni abbiano una diversa validità conoscitiva a seconda che riguardino l'ambito delle idee o quello dei fatti. Per uno scettico radicale non esistono certezze nell'ambito del pensiero umano, per I-Iume, invece, esistono, ma riguardano esclusivamente l'ambito della logica, le relations ojideas.

3.5

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la critica della metafisica Altrettanto radicale è la critica che Hume rivolge ad alcune delle idee più prestigiose della tradizione metafisica. Partiamo dall'idea di sostanza, che sta alla base dell'antologia di Aristotele: per lo Stagirita, l'essere, in senso stretto, è la sostanza, ovvero "ciò che non dipende da altro per esistere". Tutte le proprietà che attribuiamo a qualcosa - il possedere quattro zampe, l'essere bianco, ruvido, dolce, razionale ecc. - si dicono - e sono - di una sostanza."Hume attacca la tesi aristotelica sostenendo che noi non possiamo avere alcuna conoscenza della sostanza se non come collezione di idee semplici. In altri termini, quando parliamo di corpi, oggetti ecc., questi sono i nomi che diamo ad un certo se t di percezioni: critica dell'idea "mela" equivale a un certo colore di sostanza più una certa forma spaziale più un certo gusto, e così via. Non si può quindi sostenere che esiste un mondo di corpi indipendente dalle nostre percezioni, in quanto i sensi non percepiscono corpi ma provano soltanto impressioni. Perché, allora, siamo assolutamente convinti che esista una realtà fuori di noi, stabile, sicura? Ancora una volta, per Hume, entra in gioco l'abitudine: in questo caso è l'abitudine alla costante congiunzione di determinate impressioni a farci concludere che c'è un mondo fatto così e così, che esiste anche mentre non lo percepisco. Questo è il motivo per cui siamo certi che domani sorgerà il Sole e che, se mi volto, quell'albero che mi sta davanti continua ad esistere. Tutte queste credenze, però, non hanno

4 la solidità indistruttibile delle certezze logiche, come p. es. quella secondo cui "il tutto è superiore alle parti". Un altro punto d'attacco è l'io, la res cogitans di Cartesio, che il filosofo francese tratta come una che cos'è l'io? sostanza. Ciò che chiamiamo io, anima, spirito, non è altro, a parere di Hume, che un fascio di percezioni del senso interno, che, peraltro, sono sempre in movimento. La nostra capacità associativa unifica tali impressioni e le tratta come se fossero manifestazioni di una realtà unitaria, della quale, in realtà, non abbiamo alcuna conoscenza. Scrive Hume: La mente non è una sostanza, alla quale le percezioni ineriscano. Questa nozione è altrettanto inintellegibile di quella cartesiana secondo la quale il pensiero o la percezione in generale è l'essenza della mente. Noi non abbiamo alcuna idea di una sostanza di qualsiasi genere, perché non abbiamo alcuna idea che non sia derivata da qualche impressione e non abbiamo impressione alcuna di qualsiasi sostanza, materiale o spirituale che sia. Noi conosciamo soltanto qualità particolari. Come la nostra idea di un corpo, per esempio di una pesca, non è che l'idea di un particolare sapore, colore, figura, grandezza, solidità ecc., cosi/a nostra idea di una mente non è che quella di particolari percezioni, senza la nozione di quello che chiamiamo sostanza, semplice o composta che sia. 11>

D. Hurne, Estratto del Trattato sulla Natura umana, in: Opere, Bari, Laterza 1971, p. 684

Questa posizione è coerente con il già accennato nominalismo humeano: se l'esperienza sensibile è l'unica via d'accesso al mondo, e possiamo avere esperienza solo di realtà particolari, questo vale anche per ciò che chiamiamo, di volta in volta, io, mente, coscienza. È evidente da queste tesi che per Hume la metafisica, intesa come conoscenza razionale a priori di certi oggetti o realtà - tutte le cosiddette sostanze, compreso Dio - non ha fondamento (a questo riguardo, vedremo più avanti che nei Dialoghi sulla religione naturale egli prende di mira tutte le prove dell'esistenza di Dio).

la teoria delle passioni e l'analisi del mondo morale C. Hughes, Filosofia della religione, in: Storia della filosofia analitica,

Torino, Einaudi 2002, p. 401

:

In due saggi contenuti nella Ricerca sull'intelletto

umano - Dei Miracoli e Di una particolare provvidenza e di uno stato futuro - egli si chiede se sia possibile credere ai miracoli e quali fondamenti abbia la prova teleologica dell'esistenza di Dio. A Critica dei miracoli proposito dei miracoli, Hume riti ee della "prova ne irragionevole crederci poiché le teleologica" rare testimonianze che abbiamo a proposito - anche ammesso che siano tutte autentiche - non potrebbero mai superare l'enorme numero di esperienze individuali e collettive che testimoniano, al contrario, l'invariabile ripetersi delle leggi di natura. Quanto alla prova teleologica, essa non è accettabile per tre principali ragioni. In primo luogo nessuno di noi dispone di una conoscenza diretta di Dio come causa ma solo di quelli che dovrebbero essere gli effetti - ossia l'universo. Dato che non si può dire che gli effetti siano perfetti, non si vede come potrebbe esserlo la causa. In secondo luogo, non si può neppure sostenere che le leggi dell'universo siano ispirate a criteri di giustizia - le catastrofi naturali colpiscono tutti, buoni e cattivi, onesti e disonesti ecc. In terzo luogo, dato che l'universo è qualcosa di unico, che non si può paragonare ad altro, non è possibile stabilire una analogia con Dio. Nel1757 Hume pubblica la Storia naturale della religione, uno dei primi tentativi di spiegare il fenomeno religioso in termini psicologici e sociologici. Il testo è diviso in tre parti: nella prima Hume sostiene che le popolazioni primitive erano politeiste e il monoteismo sarebbe emerso più tardi. Nella seconda afferma che la causa della La paura della morte credenza religiosa non deve essec alla base re attribuita ad argomentazioni radella religione zionali o alla diretta rivelazione di Dio ma principalmente alla paura - dei mali presenti e futuri, della morte - paura che ci porta ad adulare degli ipotetici esseri superiori che dovrebbero migliorare, con il loro intervento, l'andamento della nostra vita. Da questo punto di vista, il monoteismo, per Hume, non fa che portare alle estreme conseguenze il rapporto stru-

mentale che gli esseri umani naturalmente hanno con la divinità: mentre il politeismo distribuiva i poteri soprannaturali tra diversi dei - si pensi alla religione olimpica - con il monoteismo ebraico, cristiano e musulmano, un unico Essere diventa depositario di poteri illimitati. Nella terza parte, Hume sviluppa il confronto tra politeismo e monoteismo, sostenendo che nessuno dei due è superiore all'altro; anzi, per certi versi, il monoteismo è più pericoloso del politeismo perché contiene una forte carica di intolleranza, come dimostra soprattutto la storia del cattolicesimo. Il saggio più importate scritto da Hume su argomenti di filosofia della religione apparve dopo la sua morte, nel1779, con il titolo Dialoghi sulla religione naturale. Come di- Lecritichealla ce il titolo stesso, si tratta di una religione"naturale" discussione fra tre personaggi: Demea e Cleante sostengono la possibilità di dimostrare l'esistenza di Dio con prove a priori o a posteriori; mentre Filone è uno scettico che critica tutte le prove dell'esistenza di Dio, in particolare quella cosmologico-causale e quella teleologica. È fin troppo evidente che dietro la maschera di Filone si cela l'autore. Per quel che riguarda la prova causale, Filone sostiene che se siamo in grado di fornire una spiegazione di ogni singolo evento a condizione, ovviamente, che si collochi nell'ambito dell'esperienza - non ha senso indagare l'origine dell'intera serie, poiché conoscere la causa di ogni fatto costituisce già una spiegazione sufficiente. Per quel che riguarda la prova teleologica, Filone afferma anzitutto che non possiamo sapere se il mondo risponde ad un progetto perché, diversamente dal caso delle macchine e degli oggetti in generale, che noi stessi abbiamo pensato e costruito, noi non abbiamo assistito alla formazione del mondo. Non possiamo affatto escludere che la materia sia in se stessa dotata di ordine o che il mondo sia ordinato qui ma caotico altrove. Anche ammettendo, peraltro, che il mondo derivi da una divinità, non è detto che questa sia, al tempo stesso, onnipotente e benevola.

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6 la politica Non si può dire che Hume abbia elaborato un'organica dottrina politica, come è avvenuto nel caso di Hobbes, Spinoza e Locke. Ha sviluppato alcune tesi sull'argomento nel Trattato, nella Ricerca sui principi della morale e nei Saggi. Dal Hume politico punto di vista del metodo, anche empirista in questo caso Hume si attiene al più rigoroso empirismo: se la politica e la vita sociale sono fatti, questi fatti non possono essere analizzati sulla base di principi a priori, ma, invece, a partire dall'esperienza. A proposito della natura umana, il filosofo scozzese non è un pessimista radicale come Hobbes, per il quale l'essere umano è naturalmente egoista e in lotta con i propri simili, ma piuttosto è vicino a Locke, nel ritenere gli uomini né solo egoisti né del tutto altruisti. Questo non significa che Hume sia, come Locke, un giusnaturalista. Nel saggio Sul contratto originale (1748) egli sostiene che esistono per noi dei doveri morali naturali, ovvero dei comportamenti che adottiamo in modo istintivo, senza ragionamento alCuno, come l'amore per i bambini o la pietà per chi soffre. Esistono anche dei doveri sociali, che derivano da obblighi che sentiamo di avere nei confronti della società, come la giustizia, che per Hume coincide con il rispetto della proprietà, o la fedeltà, che consiste nel rispettare le promesse. Questi e altri doveri hanno origine dalla riflessione su cosa conviene fare per vivere in società, e sono resi stabili tramite l'educazione e le leggi. Hume non condivide il radicale pessimismo antropologico di Hobbes, ma anche per lui la società è una l:' origine della società costruzione artificiale, e le leggi e tutte le regole sociali nascono per convenzione. Come inizia la vita sociale? Essa trae origine dal fatto che l'animale-uomo ha molti più bisogni di quanti sia capace di soddisfare da solo, di qui la necessità di associarsi e cooperare. Questo, però, non significa che ognuno di noi sia capace in ogni circostanza di autolimitarsi, di considerare sempre anche gli interessi altrui: nel saggio citato,

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Hume afferma in modo esplicito che l'uomo ama se stesso più dei suoi simili, e quando deve considerare ciò che può essergli utile tende a privilegiare l'utilità immediata rispetto al più lungo periodo, anche se ciò, in ultima analisi, gli procurerà degli svantaggi. Qual è il mezzo migliore per evitare i conflitti che sarebbe- 1rimedi ro provocati dell'egoismo e dall'u- all'egoismo naturale tilitarismo individualistico? Gli esseri umani hanno convenuto, privilegiando l'utilità collettiva, che la vita sociale venisse rafforzata e difesa da questi pericoli mediante l'educazione e le leggi, che vanno fatte rispettare anche con la forza. Per questo è bene, sostiene Hume nel Trattato, che il potere di promulgare le leggi e di farle applicare sia affidato ad un ristretto numero di persone, il re e i suoi ministri, i parlamentari, i magistrati, che occupando posizioni privilegiate economicamente e socialmente non avrebbero nessun interesse a violare la legge e sarebbero invece le persone più adatte ad assumere un atteggiamento imparziale. Hume presenta questa soluzione come uno stratagemma, l'unico per risolvere un problema altrimenti irrisolvibile: dato che la gran parte degli esseri umani ha vedute ristrette, la soluzione è investire dei ruoli di governo quelle persone che si trovano nella condizione migliore per agire con giustizia ed equità. A ben vedere si tratta di un'apologia del governo oligarchico e non è in contraddizione con le posizioni politiche che Hume ha assunto nel suo tempo. Egli era nato diversi anni dopo la fine della "gloriosa rivoluzione" (1689) e la nascita della monarchia parlamentare in Gran Bretagna, un sistema di governo che Hume approvava in quanto incarnazione di una delle più importanti virtù politiche: la moderazione. Le guerre civili nascono, secondo lui, dal fanatismo politico, da convinzioni troppo radicali, e la moderazione è il migliore antidoto contro la degenerazione dei conflitti (è assai probabile che questi giudizi risentissero molto della valutazione negativa che Hume dava della guerra civile inglese del XVII secolo). Più in generale, la monarchia parlamenta-

re è il sistema migliore perché risponde a due esigenze entrambe irrinunciabili: la pace interna, il rispetto delle leggi e dell'autorità, che la

monarchia assicura, e l'ampliamento graduale delle libertà civili, che viene reso possibile dal Parlamento che legifera.

Vita e opere David Hume nacque il 26 aprile del 1711 a Edimburgo, da una famiglia della piccola nobiltà terriera. Come terzogenito, avrà diritto solo ad una parte limitata del non ingente patrimonio familiare. A partire dal 1721, frequentò il College di Edimburgo, dove ricevette un'educazione classica. La famiglia avrebbe voluto che facesse studi di legge, ma il giovane Hume aveva già la vocazione filosofica e non intraprese quella strada. Provò anche a dedicarsi al commercio ( 1734), lavorando presso un mercante di zucchero a Bristol, ma neppure questo genere di vita si rivelò adatto a lui. In seguito visse per un breve periodo in Francia, a La Flèche - dove aveva studiato Cartesio - e qui scrisse il Trattato sulla Natura Umana, che venne pubblicato a Londra nel 1739. Il testo avrà poche recensioni e si rivelerà un fallimento editoriale. Rientrato in Scozia, entrò in contatto con il filosofo morale F. Hutcheson ( 1694-17 46), ma non farà mai carriera accademica- nel '45 gli sarà negato l'accesso alla cattedra di filosofia morale dell'Università di Edimburgo per l'opposizione degli ambienti ecclesiastici e dello stesso Hutcheson. Fra il '41 e il '42 aveva pubblicato Ventisette saggi morali e politici, che ebbero un'accoglienza migliore di quella del Trattato. Per migliorare le sue finanze, diventò segretario del generale Saint Clair durante la guerra di successione austriaca e successivamente nelle ambasciate di Torino e Vienna. Nel 17 48 pubblicò la Ricerca sull'intelletto umano, nel '51 la Ricerca sui principi della morale e nel '52 i Discorsi politl'cl; che ebbero un buon successo di pubblico. In quello stesso periodo, fra il '49 e il '51, scrisse i Dialoghi sulla religione naturale, che però vennero pubblicati dopo la sua morte, nel 1779, perché le tesi che vi erano contenute avrebbero suscitato gravi contrasti con le Chiese cristiane di Scozia e Inghilterra. Nel '57 pubblicò la Storia naturale della religione. Sempre negli anni Cinquanta, cominciò la stesura della Storia dell'Inghilterra (pubblicata nel 17 61 ). Nel 17 63, quando pensava di essere ormai avviato a condurre una tranquilla vita di studi in campagna, accolse l'invito di Lord Hertford, che si recava a Parigi per diventare ambasciatore d'Inghilterra, di seguirlo nella capitale francese assumendo il ruolo di segretario d'ambasciata. Trascorse in Francia tre anni, durante i quali conobbe e frequentò i maggiori filosofi dell'Illuminismo: Montesquieu ( 1689-1755), Maupertuis ( 1698-1759), Diderot (1713-1784), D'Aiembert ( 1717-1783), Holbach ( 1723-1789). L'unico episodio spiacevole fu una lite con J.-J. Rousseau ( 1712-1778), frutto di un equivoco e, sembra, del brutto carattere del filosofo ginevrino. Dal '67 al '69 svolse l'incarico di sottosegretario per gli affari del Nord e per gli affari interni per conto di Lord Conway, che faceva parte del ministero Pitt. Tornò ad Edimburgo nel '69, ormai benestante, per occuparsi esclusivamente della revisione delle sue opere. Nella primavera del '76 scoprì di avere una malattia allo stomaco, che si rivelò incurabile. Morì il 26 agosto 177 6. Nella sua Autobiografia si descrive come persona tranquilla, equilibrata, moderata nelle passioni, sia positive che negative. Se il carattere fu questo, e i suoi contemporanei non l'hanno smentito, la sua opera fu, soprattutto in alcuni momenti, assai controversa e le sue tesi non proprio "moderate".

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Prendiamo la seguente asserzione, alla quale assegneremo il numero 1: "Ogni evento deve avere una causa". Si tratta indubbiamente di una delle più ovvie e scontate fra quelle che riteniamo ver;e. Chi oserebbe sollevare il minimo dubbio sull'argomento? Chiunque lo facesse seriamente, verrebbe preso per matto. Siamo talmente convinti dell'assoluta verità di questa asserzione che, forse senza esserne consapevoli, tendiamo a considerarla alla stessa maniera di asserzioni come la seguente, la n o 2: "//tutto è superiore alle parti" e la n o 3: "5+5= 10". Se, però, le cose stanno. così, vuoi dire che noi trattiamo le parole 'evento' e 'causa' così come trattiamo 'tutto' e 'parti' e '5+5= 1O'; riteniamo cioè che la validità dell'asserzione 1, come quella delle asserzioni 2 e 3, dipende dal significato dei termini in esse contenuti e dai rapporti che esistono fra loro. Insomma, implicitamente, giudichiamo l'asserzione 1 una verità logica, o logico-linguistica, alla stessa mam'era della 2 e della 3. Ma è lecito trattare la relazione causa-effetto come se fosse il risultato di un ragionamento? La risposta di Hume, come sappiamo, è negativa, e le ragioni che egli fornì per tale risposta sono ancora oggi alla base delle discussioni sulla natura della causalità. Seguiremo l'analisi humeana attraverso le sezioni IV e Vdella Ricerca sull'intelletto umano. All'inizio della IV sezione, Hume traccia la ben nota distinzione tra relations of ideas e matters of fa et: alla prima appartengono tutte le proposizioni della matematica e delle geometria e, più in generale, ogni proposizione il cui contenuto è costituito da idee, delle quali abbiamo stabilito il significato, idee che stanno in certi rapporti fra loro. Per comprendere tali proposizioni e accertarsi se sono vere o false non c'è bisogno di alcuna esperienza; Le proposizioni 2 e 3 sono un buon esempio di relations of ideas. All'altra categoria appartengono i fatti e non le idee: se affermo "l'acqua bolle a 100 gradi" questa asserzione riguarda un fatto. lri questo caso valgono regole . diverse da quelle stabilite per l'altro tipo di proposizioni.

ID Le questioni di fatto, che sono la seconda specie di oggetti dell'umana ragione, non si possono accertare alla stessa maniera, né l'evidenza della loro verità, per quanto grande, è della stessa natura della precedente. Il contrario di ogni questione di fatto è sempre possibile, perché non può mai implicare contraddizione e viene concepito dalla mente con la stessa facilità e distinzione che se fosse al pari conforme a realtà. Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intelligibile e che non implica più contraddizione dell'affermazione che esso sorgerà. 1>

D. Hurne, Ricerca sull'intelletto umano, Bari, Laterza 1974, p. 39

·Mentre le idee e i loro rapporti sono regolati da leggi logiche, questo non vale per il mondo dei fatti. È come se Hume ci stesse dicendo che quando definiamo assurdo il contrario di

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quello che sinora è sempre accaduto, stiamo fornendo una valutazione logica di quel che logico non è. Inoltre Hume nota una contraddizione: mentre tutti siamo sicuri di non poter affermare nulla a priori circa un evento nuovo, quando si tratta di eventi assai consueti abbiamo un atteggiamento molto differente.

11J La stessa verità però può non apparire, a prima vista, fornita della medesima evidenza in relazione ad eventi che ci siano divenuti familiari sin dal nostro primo apparire al mondo, che abbiano una stretta analogia con l'intero corso della natura e che si ritenga dipendano dalle semplici qualità degli oggetti, senza alcuna segreta struttura di parti. Noi siamo inclini a pensare che potremmo scoprire questi effetti per mezzo delle semplici operazioni della ragione, senza esperienza. Immaginiamo che se fossimo portati all'improwiso in questo mondo, potremmo fin dall'inizio inferire che una palla di bigliardo sarebbe in grado di comunicare movimento ad un'altra in seguito ad un impulso; e che non avremmo bisogno di attendere l'evento per pronunciarci con certezza intorno ad esso. È tale l'influsso della consuetudine che questa, dove è più forte, non soltanto nasconde la nostra ignoranza della natura, ma anche cancella se stessa, e sembra che non esista, soltanto perché è presente nel più alto grado. ~

Cit., p. 42

Il punto è questo: siamo convinti che se in passato x ha prodotto l'effetto y, anche in futuro continuerà a produrre lo stesso effetto. Da dove proviene questa convinzione?

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Il pane che ho mangiato in passato mi ha nutrito; cioè, un corpo fornito di quelle determinate qualità sensibili era, in quel tempo, fornito di quei determinati poteri segreti; ma ne segue forse che altro pane deve egualmente nutrirmi in altro tempo e che qualità sensibili simili debbono sempre essere accompagnate da poteri segreti simili? La conseguenza non sembra in alcun modo necessaria. Ma almeno, si deve riconoscere che qui c'è una conseguenza tratta dalla mente, che si è fatto un certo passo, un processo di pensiero ed un'inferenza che ha bisogno di essere spiegata. Queste due proposizioni sono ben lontane dall'essere identiche: ho trovato che quel determinato oggetto è stato sempre seguito da quel determinato effetto; e: prevedo che altri ogget-

ti che sono, in apparenza, simili, saranno seguiti da effetti simili. ~

Cit.,p. 48

Hume sostiene che questo passaggio "dal passato al futuro", non solo non è una dimostrazione logica, perché non v'è nulla di assurdo e inconcepibile nell'immaginare che certi fenomeni mutino, ma neppure un argomento basato sull'esperienza.

DJ Tutte le inferenze dell'esperienza suppongono, come loro fondamento, che il futuro assomiglierà al passato e che poteri simili saranno congiunti con qualità sensibili simili. Se vi fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare, e che il passato potesse non servire di regola per il futuro, l'intera esperienza diventerebbe inutile e non potrebbe dare origine a inferenze o conclusioni. È, dunque, impossibile che argomenti ricavati dall'esperienza possano provare questa somiglianza del passato col futuro; poiché tutti questi argomenti sono fondati appunto sulla supposizione di tale somiglianza. Ammettiamo pure che il corso delle cose sia stato finora

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sempre così regolare; questo solo, senza qualche argomento o inferenza nuovi, non prova che, per il futuro, continuerà così. 11>

Cit., pp. 52-53

Qual è allora il criterio in base al quale estendiamo al futuro le conclusioni sui fenomeni raggiunte nel passato? Troviamo la risposta nella sezione V. Qui Hume ricorda, anzitutto, che la più grande minaccia al senso comune è costituita dalla "filosofia accademica", altrimenti detta scetticismo. Lo scetticismo solleva dubbi su ogni operazione dell'intelletto e dei sensi, mette in discussione le convinzioni più ovvie, e lui stesso, in effetti, non ha fatto altro sinora che indagare con le armi dello scetticismo il tema della causalità. Eppure, sorprendentemente, Hume a questo punto fa un'apologia del senso comune, dicendosi sicuro che la natura umana non si farà distruggere dagli attacchi del pirronismo. Per dimostrarlo, suppone che un essere del tutto simile a noi venga inserito nel nostro mondo e cominci a fare esperienze, ragionamenti ecc. Sulle prime non riesce a stabilire alcun nesso fra il succedersi delle diverse esperienze, non dispone di motivi sufficienti per credere che ne esista uno. Man mano che il tempo passa, però, acquisisce familiarità con il complesso dei fenomeni che lo circondano e, all'apparire dell'evento x, è pronto ad attendersi anche l'evento y, che in passato è stato sempre congiunto con il primo. Questo avviene per una precisa ragione.

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Questo principio è la consuetudine o abitudine. Infatti, ovunque la ripetizione di qualche atto od operazione particolare produce una inclinazione a ripetere lo stesso atto o la stessa operazione, senza la spinta di qualche ragionamento o processo dell'intelletto, noi diciamo sempre che questa inclinazione è l'effetto della consuetudine. Adoperando questa parola, non pretendo di aver dato la ragione ultima di tale inclinazione. Noi non facciamo che indicare la presenza di un principio della natura umana, che è universalmente riconosciuto e che è molto noto nei suoi effetti. Forse non possiamo spingere più oltre le nostre ricerche, o pretendere di dare la causa di questa causa; ma dobbiamo contentarci di essa come del principio ultimo che noi possiamo indicare di tutte le conclusioni derivate dall'esperienza. [... ] Quest'ipotesi sembra anche la sola che spieghi la difficoltà, perché noi traiamo da un centinaio di casi un'inferenza che non riusciamo a trarre da un solo caso, il quale non è, sotto alcun riguardo, differente da quelli. La ragione è incapace di un passaggio del genere. Le conclusioni che essa trae dalla considerazione di un cerchio sono le stesse che formerebbe osservando tutti i cerchi dell'universo. Ma nessuno, avendo visto soltanto un corpo muoversi dopo essere stato spinto da un altro, inferirebbe che ogni altro corpo si muoverà dopo un simile impulso. Tutte le inferenze dall'esperienza dunque sono effetti di consuetudine, non di ragionamento. 11>

Cit., pp. 59-60

Quello di Hume sembra, per certi versi, un invito a prendere atto che l'indagine non può spingersi più a fondo e che la spiegazione più plausibile sembra quella che va sotto il nome di abitudine. Tale conclusione peraltro conferma la sua tesi circa il ruolo della ragione: essa svolge una funzione esclusivamente logico-formale: con la ragione non scopriamo nulla che riguardi il mondo, non veniamo a conoscenza di fatti. Viceversa, ad orientarsi in questo campo serve quello che lui definisce un principio della natura umana, qualcosa di simile ad un istinto naturale, che per

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entrare in funzione, però, ha bisogno di un certo numero di esperienze. Non per caso, nella VI sezione della Ricerca, subito dopo aver analizzato il concetto di abitudine, Hume tratta la questione della probabilità, e lo fa proponendo il classico esempio de/lancio dei dadi.

111 Sembra evidente che, quando la mente attende di scoprire l'awenimento che può risultare dal lancio di un tale dado, considera l'uscita di ciascuna faccia come egualmente probabile; e questa è la vera natura del caso, di mettere tutti gli awenimenti particolari ai quali si riferisce completamente sullo stesso piano. Ma poiché trova che un maggior numero di facce concorda nella direzione di un risultato anziché in quella d'un altro, la mente è portata più frequentemente verso quell'awenimento, e lo incontra più spesso nel passare in rassegna le varie possibilità o casi, da cui dipende il risultato ultimo. Questo concorrere di parecchie prospettive in un determinato awenimento produce immediatamente, per un inspiegabile disegno della natura, il sentimento di credenza e fa prevalere quell'awenimento nei confronti dell'awenimento antagonista, che può contare su un numero minore di prospettive e che si presenta alla mente con minore frequenza. Se ammettiamo che la credenza non sia che il concepire un oggetto in modo più stabile e più forte di quello cui possano giungere le semplici finzioni dell'immaginazione, si potrà forse render conto, in qualche misura, di questa operazione. 1>-

Cit., pp. 76-77

Il costante ripetersi delle esperienze produce la credenza. Vedremo subito che Hume giunge a conclusioni analoghe anche nell'ambito dei ragionamenti morali.

111M; ~~~~dll~r~~~~~~~a~ simpatia nella teoria morale ' testo 2

All'inizio del modulo abbiamo messo in evidenza come Hume si proponesse, scrivendo il Trattato, di elaborare una sorta di "fisica della natura umana". Si trattava di trasformare la filosofia in una disciplina che, in modo analogo alla fisica, avesse come scopo quello di spiegare le cause di certi fenomeni umani -la conoscenza, la morale, la religione. La spiegazione poteva avvenire solo sulla base di una descrizione accurata di quei fenomeni. Il tema della simpatia è un buon esempio per capire a quali risultati può giungere questo tipo di indagine. La simpatia occupa un ruolo importante nella teoria morale di Hume; si potrebbe dire che svolge la stessa funzione esercitata dalla gravità nella meccanica newtoniana. Hume affronta l'argomento nel Trattato. Al principio del Libro 111, egli cerca di rispondere alla domanda se la morale derivi dalla ragione o sia invece una disciplina empirica, basata sull'osservazione di determinati eventi. La sua risposta, come sappiamo, è negativa in entrambi i casi: la morale non deriva da ragionamenti, né si può dire che esistano dei fatti morali, poiché un fatto, in sé, non possiede alcuna "proprietà morale". Supponiamo che una persona tiri un pugno ad un'altra: il pugno è un certo fenomeno fisico che può essere spiegato facendo riferimento alle nostra conoscenza del corpo umano. L'eventuale disapprovazione che esprimeremo nei confronti dell'evento-pugno, però, non è, secondo Hume, né vera né falsa, poiché non si tratta di un giudizio circa una sua proprietà naturale, né tantomeno ci stiamo occupando dei rapporti fra due o più idee. La disapprovazione, invece, è l'espressione di un sentimento, ovvero di un nostro stato d'animo di fronte a quel fat-

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to. Tutte le virtù, anche quelle più raffinate e complesse, trovano un fondamento nei sentimenti, che ci fanno approvare o disapprovare qualcosa, in particolar modo nei sentimenti di piacere e dolore.

Proponiamo qui di seguito un brano tratto dal /Il Libro de/Trattato, dedicato alla morale, in cui Hume chiama in causa la simpatia per rispondere al seguente interrogativo: che cosa rende così solida e diffusa l'adesione sociale alle virtù, al rispetto delle leggi?

DI Per scoprire la vera origine della morale, e dell'amore e dell'odio che sorgono dalle qualità mentali, dobbiamo affrontare l'argomento in profondità, e compararlo a quei princìpi che abbiamo già esaminato e spiegato. Possiamo iniziare considerando daccapo la natura e la forza della simpatia. Le menti di tutti gli uomini sono simili nei loro sentimenti e nelle loro operazioni, e non è possibile che qualcuno sia mosso da un'affezione a cui tutti gli altri sono insensibili. Come nelle corde ugualmente tese il movimento di una si comunica alle altre; così tutte le affezioni passano subito da una persona all'altra, e producono movimenti corrispondenti in ogni creatura umana. Quando vedo gli effetti della passione nella voce e nei gesti di una persona, la mia mente passa immediatamente da questi effetti alle loro cause, e si forma un'idea della passione, talmente vivace che ci cambia subito nella passione stessa. Analogamente, quando percepisco le cause di un'emozione, la mia mente è portata agli effetti, e viene mossa da un'emozione analoga. Se assistessi a una delle più terribili operazioni chirurgiche, certamente, anche prima che inizi, già la preparazione degli strumenti, le bende ben ordinate, i ferri arroventati, e tutti i segni di ansietà e la preoccupazione del paziente e degli assistenti, eserciterebbero un grande effetto sulla mia mente, suscitando i più forti sentimenti di pietà e di terrore. Nessuna passione altrui si manifesta subito alla mente. Noi siamo soltanto coscienti delle sue cause e dei suoi effetti. Da tutti questi noi inferiamo la passione e quindi sono questi che generano la nostra simpatia. ~

D. Hume, lìuttato sulla natum umana, Milano, Bompiani 2001, pp. 1133, 1135

La base della cooperazione sociale e, più precisamente, della vita morale starebbe proprio nel fatto che gli esseri umani sono molti simili fra loro. L'esempio dell'operazione chirurgica è chiaro e semplice: di fronte a quegli strumenti immagino come mi sentirei durante l'operazione e immagino, allo stesso modo, come si sentirebbe chiunque altro. Non è la prima volta che, nel Trattato, Hume fa riferimento alla simpatia. Aveva affrontato l'argomento in precedenza, in diversi capitoli del Il libro, dedicato alle passioni, sostenendo che la simpatia è una qualità decisiva per la comunicazione.

lfJI A un uomo di buon carattere è sufficiente un istante per trovarsi in sintonia con l'umore dei compagni; e anche il più orgoglioso e scontroso assume qualche tratto dai suoi concittadini e conoscenti. Un comportamento allegro infonde alla mia mente un notevole senso di compiacenza e serenità; così come un contegno furioso o angoscioso mi getta subito nello sconforto. Odio, risentimento, stima, amore, coraggio, allegria e malinconia: tutte queste passioni le sento più per comunicazione che mio naturale temperamento e disposizione. Un fenomeno così notevole merita la nostra attenzione, e deve essere ricondotto ai suoi princìpi primi. Quando un'affezione viene infusa dalla simpatia, viene prima conosciuta soltanto dai suoi

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effetti, e da quei segni esterni nel comportamento e nella conversazione che ne trasmettono un'idea. Quest'idea viene subito convertita in un'impressione, e acquisisce un grado tale di forza e vivacità, da diventare la passione stessa, e produce un'emozione uguale a ogni affezione originaria. Per quanto questo cambiamento dell'idea in un'impressione possa essere istantaneo, esso deriva da certe considerazioni e riflessioni che, sebbene possano sfuggire a chi le adopera, non sfuggiranno mai all'esame di un filosofo. È evidente che l'idea, o piuttosto l'impressione di noi stessi ci è sempre intimamente presente, e che la nostra coscienza ci dà una concezione talmente vivace della nostra persona, che non è possibile immaginare che qualcosa possa oltrepassarla a questo riguardo. Qualunque oggetto sia posto in relazione a noi, dunque, deve essere concepito con una simile vivacità di concetto, secondo i precedenti princìpi; e sebbene questa relazione non debba essere così forte come quella di causalità, deve ugualmente esercitare una notevole influenza . ..,. Cit., pp. 632-633

Dal testo si comprende che con la parola 'simpatia' Hume designa un proèesso, non una singola emozione. L'iter è ben descritto: osservando i miei simili mi faccio un'idea del loro stato d'animo, che da idea si trasforma in una impressione corrispondente, fino quasi a diventare simile a quella della persona che osservavo: vedo una persona che sorride e ne concludo che è allegra, felice; l'idea della sua felicità mi provoca un'impressione analoga, non si può dire che diventi proprio felice, ma vengo contagiato, fino quasi a provare il suo stesso sentimento. È appena il caso di precisare che non dobbiamo confondere il significato che Hume attribuisce al termine 'simpatia' con quello che gli attribuiamo noi, nel linguaggio ordinario: per noi "avere simpatia verso qualcuno" significa approvarlo, sentir/o vicino, avere piacere a stare con lui, la simpatia è un sentimento che riguarda gli amici; in Hume, invece, particolarmente nel Trattato, il termine ha un significato esclusivamente descrittivo, che riguarda l'individuazione di un meccanismo naturale tramite il quale gli esseri umani comunicano le proprie emozioni e passioni. Neppure è il caso di confondere la simpatia con una "benevolenza universale", una qualche forma di altruismo, come il "senso della comunità" di Shaftesbury, o come il "senso morale" di Hutcheson. Hume dedica un discorso a parte alla benevolenza, sia ne/Trattato che nella Ricerca, distinguendola nettamente dalla simpatia e negando che si tratti di un sentimento "universale".

DI In generale possiamo affermare che nelle menti degli uomini non esiste una passione come l'amore per l'umanità semplicemente in quanto tale, indipendente dalle qualità personali, dai servizi, o dalla relazione con il nostro io. È vero che non esiste un essere umano, e infatti nessuna creatura sensibile, di cui non ci interessi granché se sia felice oppure triste, quando ci è vicina e ce la rappresentiamo in colori vivaci: ma questo procede dalla semplice simpatia, e non prova alcun affetto universale per il genere umano, poiché questo interesse si estende oltre la nostra stessa specie. L'affetto tra i sessi è una passione evidentemente impiantata nella natura umana; e questa passione non appare soltanto nei suoi sintomi caratteristici, ma anche nel fatto che infiamma ogni altro principio di affezione, e suscita dalla bellezza, dall'assennatezza, e dalla gentilezza, un amore più forte di quello che altrimenti sorgerebbe da queste. Se esistesse un amore universale fra tutti gli esseri umani, si manifesterebbe allo stesso modo. Una buona qualità provocherebbe, in qualunque grado, un'affezione

SEZIONE AUTORI DAI!ID HIJMI:

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antologia più forte dell'odio provocato dalla stesso grado di una qualità cattiva; contrariamente a quanto troviamo per esperienza. [... ] Noi in generale amiamo la compagnia; ma tanto quanto amiamo ogni altro genere di divertimenti. Un Inglese, in Italia, è un amico: un Europeo io è in Cina; e forse ameremmo un uomo, proprio in quanto tale, anche se lo incontrassimo sulla Luna. Ma tutto questo deriva soltanto dalla relazione con il nostro io; che in questi casi si rafforza proprio dall'essere confinata a poche persone. ,. Cit., pp. 951-953

Abbiamo qui la conferma che la simpatia ha solo una funzione comunicativa ed è universale, perché si esercita verso tutti i nostri simili, mentre la benevolenza non è mai universale ma dipende sempre da qualche specifico motivo. Questa è una delle ragioni che ha fatto parlare, a proposito di Hume, di una visione "uti!itaristica" della morale. Peraltro, se ci spostiamo da/Trattato alla Ricerca, troviamo una serie di argomentazioni che combinano esplicitamente l'azione della simpatia con quella dell'utilità. Hume prende le mosse dalle caratteristiche de/linguaggio morale.

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linguaggio generale, perciò, essendo formato per l'uso generale, dev'essere plasmato su alcune vedute più generali e deve applicare gli epiteti di lode o di biasimo in conformità con i sentimenti che sorgono dagli interessi generali della comunità. E se questi sentimenti, nella maggior parte degli uomini, non sono così forti come quelli che si riferiscono al benessere privato, tuttavia possono dar luogo ad alcune distinzioni, anche nelle persone più depravate e egoiste; e debbono connettere la nozione di bene ad una condotta benefica e la nozione di male al contrario. Ammetteremo che la simpatia è molto più debole dell'interesse che portiamo a noi stessi e che la simpatia nei riguardi di persone distanti è molto più debole della simpatia nei riguardi di persone vicine e contigue; ma, proprio per questa ragione, è necessario che nei giudizi e nei discorsi ponderati intorno alle qualità degli uomini noi trascuriamo tutte queste differenze e diamo ai nostri sentimenti un'impronta più pubblica e sociale. [... ] Il fatto che la caratteristica dell'utilità, in ogni caso, sia fonte di lode e di approvazione, sembra che sia una questione di fatto; del pari sembra che sia questione di fatto che costantemente ci si appella all'utilità in tutte le decisioni morali che riguardano il merito e il demerito delle azioni, che l'utilità è la sola fonte dell'alta considerazione che si ha per la giustizia, la fedeltà, l'onore, l'obbedienza e la castità; che l'utilità è inseparabile da tutte le altre virtù sociali, dal senso di umanità, dalla generosità, dalla carità, dall'affabilità, dall'indulgenza, dalla misericordia e dalla moderazione; in una parola, che l'utilità è il fondamento della parte principale della morale che ha riferimento all'umanità dei nostri simili. · ,. D. Hume, Ricerca sull'intelletto umano, ci t., pp. 289-292

Hume parte dal presupposto, qui solo accennato, che il rrbenessere privato;; sia, in genere, un motivo per agire più forte dell'interesse altrui, del benessere collettivo. Nondimeno, quasi nessuno appare del tutto insensibile al "bene comune", ai bisogni dei propri simili, ed è la simpatia a metterei in contatto con gli altri. Quando, però, il pensiero si indirizza a persone lontane, l'azione della simpatia non può esercitarsi sino in fondo, e in quel momento siamo portati a dar maggior peso ai nostri interessi o a quelli di chi ci sta più vicino. Tuttavia, a controbilanciare il natu-

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SEZIONE AUTORI DAVIDHIIME

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rate "egoismo", la ristrettezza dei nostri orizzonti- il prossimo si identifica, tutt'al più, con la famiglia, gli amici ecc. -interviene il principio di utilità, ed è questo principio che ci consente di acquisire un "punto di vista imparziale". L'utilità, sembra sostenere Hume, è un criterio che tutti riconosciamo come valido, anche perché ognuno di noi ne sperimenta la validità anzitutto su se stesso. Dunque, a differenza di Adam Smith, egli non sostiene che la simpatia da sola è in grado di fondare la valutazione e l'agire morale, né che grazie ad essa riusciamo ad assumere un punto di vista che supera la contrapposizione fra egoismo e altruismo. Per Hume, la complessità della vita morale non si riduce all'azione della simpatia. Altre nozioni, come quelle di piacere/dolore e di utilità, giocano un ruolo decisivo per comprendere in che modo si costituisce un "punto di vista imparziale". Questa posizione humeana è confermata anche dal breve testo che segue.

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l filosofi hanno avanzato molti sistemi di morale in tutte le epoche; ma se li esaminiamo dettagliatamente, gli unici che meritano la nostra attenzione possono ridursi a due. Il bene e il male morale vengono certamente distinti dai nostri sentimenti, non dalla ragione: ma questi sentimenti possono sorgere sia dalla semplice specie o dall'aspetto del carattere e delle passioni, sia riflettendo sulla loro tendenza verso la felicità del genere umano, e di particolari persone. La mia opinione è che entrambe queste cause sono mescolate nei nostri giudizi morali; nello stesso modo in cui lo sono nelle nostre decisioni sulla maggior parte dei generi di bellezza esteriore: per quanto sia anche dell'opinione che le riflessioni sulle tendenze delle azioni esercitano l'influenza di gran lunga maggiore, e determinano a grandi linee tutti i nostri doveri. .,.. D. Hume, Jìuttato sulla natum umana, ci t., p. 1161

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2 - LA LOGICA LEIBNIZIANA

combinatorie per la formazione dei concetti complessi a partire da quelli semplici, il problema della scelta dei segni con cui denotare i concetti primitivi: si tratta della costruzione di un linguaggio artificiale, chiamato da Leibniz caratteristica universale. Dopo alcune incertezze, Leibniz, negli Elementi di calcolo (1679), decise di indicare le idee semplici con numeri primi, e le idee complesse un progetto con il prodotto aritmetico dei nuper ridurre tutto meri primi che corrispondono ai loil pensiero a calcolo ro elementi. Così, per esempio, se rappresentiamo il concetto di animale col numero 2 e quello di ragionevole col numero 3, uomo sarà rappresentato dal numero 6, ottenuto moltiplicando 2 per 3. Ora, bisogna tener presente che per Leibniz una proposizione è vera se, e solo se, il concetto del soggetto include il concetto del predicato. Per esempio, il giudizio "l'uomo è ragionevole" è vero perché il concetto di uomo contien.e nella sua definizione il concetto di ragionevole. Ogni proposizione, in definitiva, è riducibile a un rap-

porto fra un soggetto e un predicato: e il motivo per cui questi due elementi si connettono fra loro sta nel fatto che il secondo è compreso nel primo. Quindi, poiché ogni concetto complesso sarà indicato simbolicamente dal prodotto dei numeri che indicano i concetti semplici di cui è costituito, ne consegue che per assicurarci della verità di una proposizione, sarà sufficiente constatare se il numero del soggetto .contiene come divisore il numero del predicato. Per esempio, "l'uomo (6) è ragionevole (3)" risulterà vera perché 6 è esattamente divisibile per 3. Analogamente: Se vogliamo sapere se ogni oro è metallo (si può dubitare infatti che, ad esempio, l'oro fulminante sia ancora un metallo, poiché si trova nella jorma di polvere, ed esplode, anziché fondere, quando si somministra calore in una certa misura), dovremo soltanto indagare se a esso inerisce la definizione di metallo, cioè, una volta che si siano introdotti i numeri caratteristici, si tratterà di vedere, con un pro-

SCHEDA-FILOSOFIA

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La rappresentazione degli enunciati secondo Leibniz Una delle motivazioni che stanno alla base del progetto di [Leibniz] è il desiderio di fornire un ((filo di Arianna» ai nostri ragionamenti, vale a dire un controllo meccanico della validità delle argomentazioni logiche. È da ricondursi a queste motivazioni la ricerca di un'adeguata rappresentazione grafica delle inferenze. In un saggio composto dopo il 1690, Leibniz fa ricorso a linee, cerchi ed ellissi per provare la forma logica degli argomenti mediante grafici. Leibniz cerca in primo luogo una rappresentazione adeguata dei singoli enunciati, impiegando sia cerchi sia segmenti. (A) Ogni A è B: (E) NessunA èB:L__ _

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3 cedimento semplicissimo, se il numero caratteristico dell'oro si può dividere per il numero caratteristico del metalli. ~

G. W. Leibniz, Elementi di calcolo, in: Scritti di logica, Bologna, Zanichelli 1968, p. 304

Fra i numerosi usi del suo progetto di caratteristica universale, Leibniz vanta, quindi, quello di "giudice delle controversie". Una volta ridotti tutti i concetti fondamentali a numeri, la soluzione di ogni disaccordo tra filosofi si ridurrà a una questione sostanzialmente uguale a quella di un semplice conteggio aritmetico. Quando sorgeranno delle controversie, non ci sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a un tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro piace, un amico): calcoliamo! ~

G.W. Leibniz, Sulla sciellZa universale o calcolo filosofico, in: Scritti di logica, cit., p. 237

Senonché, questo progetto di Leibniz andò incontro a degli ostacoli formidabili. Infatti, per tradurre in caratteri simbolici tutti i concetti primiti11 progetto è frutto vi, era necessaria preliminarmente di un sogno utopistico l'elaborazione di un'enciclopedia, cioè la raccolta di tutte le singole nozioni primitive delle varie scienze, sia storiche che fisico-matematiche: ((Da quando mi sono convinto che la geometria e la meccanica sono diventate completamente analitiche, ho pensato di estendere il calcolo a materie alle quali, finora, si era ritenuto che non potesse essere esteso in alcun modo. Io chiamo qui "calcolo" qualunque notazione che rappresenti il ragionamento, quand'anche non avesse alcun rapporto con i numeri>). Ma Leibniz non riuscì mai in questa grande impresa sia per mancanza di tempo, sia per mancanza di collaboratori. Resosi conto dell'immensità del suo progetto, si rivolse, per ottenere aiuto, prima alla Royal Society di Londra, poi all'Accademia delle Scienze di Parigi e infine allo stesso re di Francia Luigi XIV, senza però ottenere alcun appoggio.

Verità di ragione everità di fatto Si è detto che per Leibniz una proposizione è vera se, e solo se, il concetto del soggetto include quello del predicato. Nel Discorso di metafisica (Discours de métaphysique), Leibniz asserisce che questo criterio vale sia per le verità di ragione, cioè per le verità circa i concetti astratti della logica, dell'aritmetica e della geometria (come, per esempio, "l'uomo è ragionevole", "il quadrato è un quadrilatero", o "2+2=4"), sia per le verità di fatto, cioè per le verità storiche relative agli individui che esistono realmente, come, per esempio, "Adamo è peccatore", "Alessandro Magno è il vincitore di Dario", "Cesare attraversò il Rubicone" ecc. Consideriamo quest'ultima verità di fatto. Essendo vero che "Cesare attraversò il Rubicone", allora il concetto di Cesare contie- Giulio Cesare avrebbe ne la proprietà di attraversare il Ru- potuto non passare bicone. Secondo Leibniz, infatti, in il Rubicone? corrispondenza di ogni persona, sin dall'eternità esiste nella mente di Dio il concetto completo di quell'individuo. Tale concetto comprende tutte quelle proprietà semplici da cui è possibile dedurre tutti gli attributi dell'individuo stesso, cioè tutto quanto egli farà nel corso della sua vità, anche nei più minuti e trascurabili particolari. Se potessimo analizzare a fondo la nozione completa di Cesare, vi troveremmo il fondamento di. tutti i predicati che gli si possono attribuire con verità, e pertanto anche le ragioni del suo. passaggio del Rubicone. Certo nessun uomo potrebbe scoprire a priori il perché di questo avvenimento, dato che per farlo bisognerebbe conoscere tutti gli infiniti fattori che lo hanno prodotto, ecioè l'insieme degli stati d'animo, degli impulsi e di tutte le condizioni che definiscono la natura individuale di Cesare, nonché le determinate condìzioni del mondo al quale egli appartiene. Noi sappiamo, comunque, che se Cesare ha compiuto davvero questo gesto, dev'esserci pur sempre una ragione, contenuta nel suo concetto completo. Le :verità di fatto, afferma Leibniz, sono basate sul principio di ragion sufficiente,

SEZIONE AUTORI lif.PTTFRIED \'VIli:IELM UUUu:!:

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PROFILO

3- VERITÀ DI RAGIONE EVERITÀ DI FATTO

in virtù del quale giudichiamo che non si troverà alcun fatto vero o esistente, alcuna enunciazione vera, senza che ci sia una ragione sufficiente del perché sia cosi e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non possano esserci conosciute. ~

G.W. Leibniz, I principi della filosofia o Monadologia, in: Scritti filosofici, Torino, Utet 1967, l, p. 288

Dunque, come nelle verità di ragione, anche nelle verità storiche, posto un determinato soggetto, ne consegue inevitabilmente un determinato attributo. Sembra, così, che non ci sia un'effettiva differenza fra i due tipi di verità. Eppure Leibniz afferma che le verità di ragione sono necessarie, mentre le verità di fatto sono contingenti. Sostiene, cioè, che l'opposto di una verità di ragione è impossibile, contraddittorio, mentre l'opposto di una verità di fatto è possibile e non contiene contraddizioni. In altre parole, è impossibile che 2+2 non faccia 4, che il quadrato non sia un quadrilatero, mentre è possibile che Adamo non mangi la mela, che Alessandro Magno non vinca Dario, o che Cesare non attraversi il Rubicone. Questa tesi, che serve a Leibniz per non cadere nel necessitari.smo universale di Spinoza (16321677), diventa un po' più chiara se ci riferiamo alla dottrina leibniziana dei mondi possibili (alla quale abbiamo accennato all'inizio di questo modulo), implicita nel Discorso di Metafisica, e svolta in modo più sistematico nella Corrispondenza con Arnauld (1686-87), e soprattutto nei Saggi di Solo in un altro mondo Teodicea. Secondo Leibniz, Dio, per (possibile! cesare creare il mondo, ha costruito nella avrebbe potuto non sua mente un'infinità di mondi pospassare il Rubicone Sibili, Cioè di Universi intrinsecamente non contraddittori, ma in contraddizione fra loro (cioè alternativi gli uni agli altri), e poi ha scelto di crearne uno solo: il nostro (che, come vedremo, è il migliore dei mondi possibili). Un mondo possibile è un mondo che non esiste, ma che "abita" (cioè che sussiste) nella mente di Dio, ed è da Lui pensato in tutti i suoi particolari. Ora, l'enunciato "Cesare attraversò il Rubico-

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SEZIONE AUTORI GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ

ne" è una verità contingente perché Dio avrebbe potuto creare un altro mondo in cui Cesare non attraversa il Rubicone. L'universo che esiste attualmente è una concatenazione di eventi inevitabili, per cui, all'interno del nostro mondo, la scelta di Cesare è praticamente obbligata. Tuttavia, la decisione opposta è possibile perché in un altro mondo (che Dio avrebbe potuto benissimo creare al posto di questo, in virtù della Sua onnipotenza), le cose potevano andare in modo diverso. Si tenga presente che la possibilità di essere falsificate in un altro mondo possibile vale solo per le verità di fatto, perché le verità di ragione (che sono fondate sul principio di identità, secondo cui "A è A") risultano vere in tutti i mondi possibili. Infatti, tali proposizioni non soltanto saranno vere finché ci sarà il mondo, ma sarebbero state tali anche se Dio avesse creato il mondo in un modo totalmente diverso. Il>

G.W. Leibniz, Sulla natura della verità, della contingenza e dell'indi} ferenza e sulla libertà e predeterminazione, in: Scritti sulla libertà e sulla contingenza, Firenze, Cinamen 2003, p. 72

Grazie a questa soluzione, la contingenza è salva, ma non sembra che altrettanto si possa dire della libertà dell'uomo (malgrado l'opinione contraria di Leibniz), se per libertà intendiamo la possibilità che un individuo Ma in questo mondo ha di fare O di non fare determi- (reale), Cesare è libero? nate scelte. Infatti, in questo universo, Cesare non poteva non attraversare il Rubicone, anche se avrebbe potuto non attraversarlo in un altro mondo possibile. Supporre che nel nostro mondo Cesare si comporti in modo diverso, è altrettanto impossibile quanto pensare che un proiettile sparato da un cannone devii dalla sua traiettoria. Invece, per essere davvero liberi nel compiere una certa azione A, noi dovremmo avere la possibilità di non compiere A qui e ora. Che al posto di questo mondo possa essercene un altro nel quale potremmo agire diversamente, non serve per renderei liberi in questo universo: in questo non possiamo non fare quello che facciamo.

4 La teoria della sostanza: le monadi Uno dei temi più significativi, discussi da Leibniz nei suoi scritti, è la definizione della sostanza individuale. Nelle opere di logica, la sostanza è presentata come il soggetto di una proposizione singolare; invece, nei saggi di fisica e di metafisica, è presentata come centro di forza o come monade. Leibniz arriva a determinare il carattere costitutivo della sostanza individuale grazie ai suoi studi di dinamica, e inserendosi nel dibattito scientifico del suo tempo circa la costituzione della materia. "Nella natura Su questo argomento, la fisica del c'è qualcosa che non è XVII sec. vede contrapposte la dotdi ordine puramente trina di Cartesio, che identifica la geometrico" materia con l'estensione (lo spazio geometrico), e l'atomismo di Gassendi (1592-1655), per cui la realtà è composta da particelle materiali, discrete, indivisibili e che si muovono nel vuoto. Leibniz passa attraverso l'una e l'altra teoria, ma matura ben presto (intorno al 1669) una critica molto precisa alle insufficienze di entrambe le dottrine. Le obiezioni a Cartesio sono di natura sperimentale e concettuale. Se l'essenza dei corpi consistesse nell'estensione, questa dovrebbe bastare da sola per rendere ragione di tutte le proprietà corporee; ma cosi non è. Noi notiamo nella materia una qualità, che qualcuno ha chiamato inerzia naturale, in virtù della quale un corpo resiste in qualche modo al movimento, per cui è necessario impiegare una certa forza per avviarlo e ci vuole uno sforzo maggiore per spostare un corpo più grande rispetto a quello necessario per muoveme uno più piccolo. [... ] Ora, se non vijosse nel corpo che l'estensione, [... ] questa sarebbe interamente indifferente al mutamento. [... ] Ciò mostra che nella natura c'è qualche altra cosa che non è di ordine puramente geometrico. [... ] A ben considerare, ci si accorge che bisogna aggiungere qualche nozione superiore o metafisica: una sostanza, un 'azione, una forza. t;

G. W. Leibniz, Lettera sul problema se l'essenza del corpo consista nell'estensione [traduzione nostra]

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4- LA TEORIA DEllA SOSTANZA: LE MONADI

5 Inoltre, Leibniz osserva che nell'universo non si conserva la stessa quantità di moto (data dal prodotto della massa per la velocità), come pensava Cartesio, ma si conserva la stessa quantità di "forza viva", o "energia cinetica" (data dal prodotto della massa per velocità al quadrato). L'unica costante assoluta dell'universo è perciò la forza. Ma Leibniz risale alla forza anche per vie teoriche, non sperimentali: l'estensione è divisibile all'infinito e quindi non può essere l'elemento ultimo, sostanziale, della materia. D'altra parte, nemmeno gli atomi di Gassendi possiedono la semplicità della sostanza, perché, essendo dotati di spazialità, seppur minima, risultano anch'essi divisibili. L'elemento base dei corpi dev'essere dunque inesteso, senza parti e perciò sarà un atomo immateriale, un puro centro di forza. A questo centro di forza Leibniz, negli anni intorno al 1690, dà il nome di monade (dal greco Oltre il dualismo: monas che significa "unità", O "eleuna pluralità infinita mento unitario"). Secondo Leibniz, di sostanze l'universo risulta così costituito non da una sola sostanza (come sosteneva Spinoza), ma da una molteplicità infinita di monadi. Anzi, ogni corpo è composto da un'infinità di sostanze immateriali. Leibniz non si limita ad affermare che la sostanza corporea ha una componente dinamica, ma riduce addirittura il corpo alla forza. Il fatto che la materia ci sembri una realtà compatta, dipende dalla scarsa chiarezza delle nostre percezioni. La compattezza della materia è mera apparenza.

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Il concetto di forza, sottolinea Leibniz, non può essere spiegato nei termini delle categorie che costituiscono la base teorica del meccanicismo cartesiano: quello di forza è un concetto primitivo che rinvia a una realtà non riconducibile ad altre realtà "più fondamentali". Queste[ ... ] carenze dell'approccio fisico cartesiano conducono perciò Leibniz a individuare due concetti che, di per sé, si presentano come distinti: da un lato il concetto di sostanza o forma sostanziale, dall'altro quello di forza. ~

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M. Mugnai, Leibniz, «Le Scienze11, 29, 2002, p. 65

Le proprietà delle monadi Dall'immaterialità delle monadi Leibniz deduce l'impossibilità per esse di nascere o di finire naturalmente, cioè per aggregazione o separazione di parti. Solo ciò che è materiale, cioè composto, comincia o finisce in questo modo. La monade può cominciare solo per folgorazione (cioè per creazione divina dal nulla) e finire per annientamento. Quelle che noi chiamiamo nascite e morti sono semplici associazioni e dissociazioni fra monadi, che risultano così immortali, a meno che Dio non voglia annientarle. Ma non c'è ragione di supporre che Dio, essendo perfetto, voglia annullare quello che ha già creato. Dunque, secondo Leibniz, le monadi dei corpi sono immateriali come la monade della nostra anima, l'unica monade di cui conosciamo l'attività interiore. Ora, caratteristiche della nostra anima sono la percezione, cioè la capacità di conoscere, di avere delle rappresentazioni, e l'appetizione, cioè la tendenza a passare incessantemente da una percezione all'altra. Per analogia, Leibniz ritiene che tutte le monadi Ogni monade riflette possiedano un'attività rappresen- l'universo; l'universo tativa e un'attività appetitiva. No- riflessoinfinitevolte nostante la sua semplicità, ogni monade si rappresenta l'intero mondo (e quindi tutte le altre monadi). È, pertanto, uno specchio vivente dell'universo come spiega lo stesso Leibniz nel capitolo IX del Discorso di Metafisica. Ogni sostanza è come un mondo intero, o come uno specchio di Dio, o meglio di tutto l'universo, che ciascuna esprime nella su.a maniera, più o meno come una stessa città è diversamente rappresentata, a seconda delle differenti siluazioni in cui si trova colui che la guarda. Così l'universo è in qualche modo moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria di Dio è accresciuta in proporzione al numero delle rappresentazioni, tutte diverse fra loro, della Sua opera. Si può anche dire che ogni sostanza porta impresso, in un certo senso, il carattere della saggezza infinita e dell'onnipotenza di Dio, e Lo imita per

quanto ne è capace. Infatti essa esprime, anche se confusamente, tutto ciò che accade nell'universo, sia nel presente, sia nel passato e sia nel futuro, il che ha una certa somiglianza con una percezione o una conoscenza infinita; e siccome tutte le altre sostanze esprimono, a loro volta, questa, si può dire che essa estenda il suo potere su tutte le altre, a imitazione dell'onnipotenza del Creatore. ~

G. W. Leibniz, Discorso di metafisica, Firenze, La Nuova Italia 1995 2, p. 19

Questa concezione leibniziana ricorda il pampsichismo del Rinascimento, perché attribuisce un'attività rappresentativa a tutte le cose, compresi i minerali. La differenza fra le varie monadi che costituiscono l'universo consiste solo nel grado di percezione, che può essere conscia o inconscia. C'è tutta una gerarchia nelle monadi dell'universo: ci sono le monadi pure (o entelechie) dei minerali e delle piante, con solo percezioni inconsce; le anime, o monadi degli animali, dotate di sensibilità, con percezioni quasi coscienti, dotate di memoria; e gli spiriti de-

gli uomini, capaci di appercezione, cioè di coscienza. Gli uomini, oltre a percepire, "appercepiscono", cioè percepiscono in modo cosciente, si accorgono di percepire. Ma anche nelle monadi che hanno appercezioni esiste una massa di percezioni inconsce o di "piccole percezioni": infatti, la coscienza non costituisce che una minima parte della nostra attività percettiva. Solo Dio - la monade suprema - è assolutamente privo di rappresentazioni inconsce. Molto spesso, invece, gli uomini conoscono, ma Niente nell'universo senza accorgersi di conoscere. ètotalmenteinerte, Persino da svegli riceviamo spes- morto, meccanico so delle impressioni troppo piccole e troppo numerose perché possano essere avvertite coscientemente. Così precisa Leibniz nella Prefazione ai Nuo-

vi saggi sull'intelletto umano: Per meglio giudicare delle piccole percezioni che non sapremmo distinguere in una folla di percezioni sono solito servirmi dell'esempio del muggito o rumore del mare dal quale si è colpiti quando si è sulla riva. Per intendere questo rumore bisogna che se ne percepiscano le parti che lo costituiscono, cioè il rumore di ogni singola onda, benché ciascuno di questi brusii non si faccia conoscere che nell'insieme confuso di tutte le altre onde, cioè dentro questo fragore stesso, e non potrebbe essere notato, se questa onda che lo produce fosse sola. Perciò bisogna che si sia turbati, almeno un poco, dal movimento di ogni singola onda e che si abbia una qualche percezione di ciascuno di questi rumori, per quanto lievi essi siano, o altrimenti non vi sarebbe neppure quello di centomila onde, perché centomila niente non possono fare qualche cosa.

Filippo Il nel giudizio di l..eibniz

Prudenzio, antico poeta cristiano, paragonava il purgatorio, che i cristiani dell'Occidente cominciavano a quel tempo a figurarsi, a quello che i chimici chiamano un «bagnomaria>): cioè il mescolare in maniera gradevole acqua e fuoco. Filippo Il, potente monarca della Spagna, mentre era sul punto di morire, fu preso da un terribile terrore per il fuoco del purgatorio. [Il] confessore recò conforto al suo spirito citandogli importanti autori che sostenevano che le anime erano rapite dal desiderio di purificazione e non volevano esserne dispensate. Se costui avesse saputo che il purgatorio poteva essere un piacere, sarebbe stato ancora più in condizione di consolare il suo principe bigotto. A dire il vero, però, ritengo che la sua sarebbe stata, in questo caso, una menzogna d'ufficio e una piètosa bugia, in rapporto a quel principe, che era ciò che i bigotti sono sovente, vale a dire un malfattore privo di pietà. 1>-

Leibniz alla Principessa Carolina del Galles

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G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull'inlellello umano, Prefazione, in: Suriltijilosojici, cit., Il, pp. 173-174

Al nostro orecchio, le onde del mare risultano piccole percezioni, così come, al nostro occhio, risultano piccole percezioni i fili d'erba di un monte che ci appare da lontano. Durante il sonno, invece, tutte le percezioni diventano inconsce.

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L'armonia prestabilita Nella Monadologia, Leibniz afferma che il corpo organico dell'animale e dell'uomo non è un aggregato di monadi puro e semplice, (come lo è, per esempio, un mucchio di sassi), ma è una sostanza composta, formata da monadi unificate da una monade superiore, detta monade dominante. Monadi dominanti sono l'anima degli animali e lo spirito degli uomini. La monade dominante organizza le altre monadi che costituiscono il corpo e che risultano ad essa subordinate D 1 l@lii!l«tl:l~•J. La teoria leibniziana del rapporto fra le monadi è però paradossale, perché Leibniz nega che 11 problema le sostanze individuali possano dell'interazione agire le une sulle altre, che, per mente-corpo risolto esempio, le monadi del corpo posnegando l'interazione sano agire sulla monade spirito o viceversa. Questo perché, secondo Leibniz, ogni monade è un ente immateriale, semplice, inesteso e quindi senza "finestre", cioè senza aperture attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire. Cosicché le percezioni della monadespirito scaturiscono non dall'esterno, ma dal suo interno, spontaneamente, secondo le leggi della sua natura. La vita della monade-spirito è come un sogno, coerente e ben regolato. Sorge allora il grave problema dell'apparente interazione che sembra sussistere fra la monadespirito e le monadi del corpo (negli atti volontari e nelle sensazioni), e fra le monadi di un individuo e quelle di un altro individuo. Per spiegare l'accordo fra le monadi, Leibniz ricorre così a una fantasiosa teoria, da lui definita la dottrina dell'armonia prestabilita. Secondo Leibniz, l'accordo fra le varie monadl è garantito da Dio grazie a un'armonia prestabilita sin dall'eternità tra le attività di tutte le sostanze, in virtù della quale, nell'istante preciso in cui l'una intende agire sull'altra, si verificano in questa le modificazioni corrispondenti. Questo accordo è operato da Dio una volta per tutte, al momento della creazione, e non avviene caso per ca-

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SEZIONE AUTORI Gul'rFRif.lllNIUmM unnm:

so (come, invece, pensano gli occasionalisti, che ammettono un intervento continuo di Dio). Infatti, la concomitanza tra le monadi è iscritta da Dio nel concetto completo di ciascuna di esse. In virtù di questo "programma iniziale", tutti gli stati successivi di ogni monade si sus- 1mestieri di Dio: seguono l'uno all'altro svilup- da supremo architetto pandosi dalla natura stessa a supremo orologiaio della sostanza individuale, senza che si verifichi alcun influsso esterno. Ma, contemporaneamente, tutti i suoi mutamenti corrispondono a quelli che avvengono in tutte le altre monadi che sussistono nel suo universo. L'interrelazione morradica è dunque "fenomenica", cioè apparente: quando una sostanza sembra "patire" un contatto da parte di una monade esterna, essa, al contrario, non subisce alcun influsso fisico dal di fuori, ma trae dal suo interno anche questa impressione di passività. Per illustrare l'ipotesi dell'armonia prestabilita, Leibniz si serve di un esempio particolarmente efficace:

Immaginate due orologi che si accordino perfettamente. Ciò può avvenire in tre maniere: la prima consiste nella reciproca influenza di un orologio sull'altro; la seconda nella cura di un uomo che vi proweda; la terza nella loro propria esattezza. La prima maniera è quella dell'influenza. [... ]La seconda maniera di far sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre prowedere da un abile orologiaio che li accordi ad ogni istante: e questa è quella che io chiamo la maniera dell'assistenza. Infine la terza maniera sarà di fare da principio queste due pendole con tanta arte e giustezza, da potersi assicurare il loro accordo per il futuro. E questa è la via dell'accordo prestabilito. 1>

G.W. Leibniz, Lettera (1696), in: La Monadologia, preceduta da un'esposizione antologica del sistema leibniziano, Firenze, Sansoni 1963, p. 120

Applicata al rapporto mente-corpo, la prima soluzione è quella cartesiana dell'influenza reciproca fra la res cogitans e la res extensa. La seconda

è la soluzione occasionalista, secondo la quale Dio interviene incessantemente per accordare il mondo spirituale a quello fisico. I.:ultima, invece, è l'ipotesi leibniziana dell'armonia prestabilita, per cui fin dalla creazione esiste una perfetta corrispondenza fra tutte le monadi, che non si influenzano fra di loro, ma si "svolgono" in modo parallelo. Questa teoria presta, però, il fianco a delle obiezioni. Se quello che accade nell'anima non dipende da alcun inflUSSO ester- Le monadi non si no, e tutto si svolge come se esi- influenzano tra di loro stessero solo la monade e Dio, perché Dio ha creato gli altri corpi? La risposta di Leibniz fa riferimento al principio del meglio a cui si ispira la creazione divina (§ 7): poiché l'universo più perfetto di tutti è quello che concilia la massima varietà e ricchezza nell'unità, Dio ha voluto creare il maggior numero di sostanze possibili, e così ha fatto in modo che alle percezioni dell'anima corrispondesse qualcosa di reale fuori di noi. Con una sincerità degna di lode, voi riconoscete che la mia ipotesi dell'armonia, o della concomitanza, è possibile. Ma vi suscita ancora qualche riluttanza [... ]. Perciò voi mi domandate a che cosa possa servire quell'artificio da me attribuito all'Autore della natura, quasi gli se ne attribuisse troppo e come se questa esatta corrispondenza tra le leggi proprie ad ogni sostanza, che ciascuna ha ricevuto fin dalle origini, non fosse cosa bella in sé stessa e degna del suo Autore. Voi, inoltre, mi domandate che vantaggio vi si trovi. Mi si domanda, inoltre perché Dio non si contenti di produrre tutti i pensieri e tutte le modificazioni dell'anima, senza quei corpi "inutili" che l'anima (si dice) non può né muovere né conoscere? Ta risposta è facile: Dio ha voluto che vi fosse un numero maggiore, piuttosto che minore, di sostanze, e ha giudicato che fosse bene che queste modificazioni corrispondessero a qualcosa di esterno. Non c'è sostanza inutile, tutte concorrono ai disegni di Dio .- G. W. Leibniz, Chiarimento de/nuovo sistema della comunicazione delle sostanze, in: Scritti filosofici, cit., l, p. 205

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7 la teoria della conoscenza e i Nuovi saggi sull'intelletto umano La teoria leibniziana della conoscenza è contenuta nell'opera Nuovi saggi sull'intelletto umano (1704), scritti in contrapposizione al Saggio sull'intelletto umano (1690) dell'empirista John Locke. Quest'ultimo, circa il problema dell'origine delle idee, si era pronunciato contro l'innatismo, soRipresa,difesa stenuto in Francia da Cartesio e in e sviluppo Inghilterra da Herbert di Cherbury della teoria innatistica ( 1583-1648) e dai platonici di Cambridge. Locke negava l'esistenza delle idee e delle verità innate, affermando che l'intelletto dell'uomo è simile a una tavoletta di cera levigata, o a un foglio di carta bianca su cui solo l'esperienza imprime i suoi caratteri. Infatti, se ci fossero idee e verità indipendenti dall'esperienza, tutti dovrebbero conoscerle sino dall'infanzia, mentre invece i bambini, gli idioti e i selvaggi non le possiedono sl!tJI!!Utiil$11. Leibniz, al contrario, è decisamente orientato verso l'innatismo. Secondo lui la nostra anima contiene alcune idee, come quella di Dio, alle quali non corrisponde nulla nell'esperienza dei sensi. L'uomo possiede, inoltre, leggi logiche innate come i principi di identità ("A è A"), di non contraddizione ("A non è non A") e del terzo escluso ("A o non A"). Verità come queste non possono essere indotte dall'esperienza, perché presentano un carattere di necessità universale, sono cioè tali da escludere a priori la possibilità del loro contrario e pertanto risultano vere in eterno. Invece, le verità generali che si ricavano dai sensi non presentano la medesima certezza, per quanto possano essere largamente confermate dall'osservazione.

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I sensi benché necessari per tutte le nostre conoscenze attuali, non sono sufficienti per fornircele tutte, perché non possono fornire altro che esempi, cioè verità particolari o individuali. Ora tutti gli esempi che confermano una verità generale, per quanto numerosi possano essere, non valgono a stabilire la necessità

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universale di quella verità, perché ciò che è accaduto non è detto che debba accadere ugualmente. Per esempio, i Greci ed i Romani e tutti gli altri popoli della terra conosciuta dagli antichi, hanno sempre osservato che, prima del decorso di 24 ore, il giorno si cambia in notte e la notte in giorno. Ma ci s'ingannerebbe se si credesse che la medesima regola si osservi ovunque, dopo che si è esperimentato che nella Nuova Zemlia [arcipelago dell'Oceano Glaciale Artico] accade il contrario. Ugualmente s'ingannerebbe chi credesse che, almeno nei nostri climi, quella sia una verità necessaria che durerà eterna, perché bisogna ritenere che la Terra e lo stesso Sole non esi. stono necessariamente e che vi potrà essere un tempo nel quale questo bell'astro non sarà più, almeno nella sua forma attuale, e lo stesso può dirsi del! 'intero suo sistema. ~

G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Prefazione, in: Scritti filosofici, cit., Il, pp. 168-169

I principi logici, dunque, essendo eternamente veri, non ci provengono dai sensi, ma li troviamo in noi senza formarli, sebbene i sensi ci forniscano l'occasione per prenderne La nozione di verità coscienza. Leibniz, infatti, pensa innate inconsce che tali verità siano già presenti sin è del tutto sensata dalla nascita nella nostra anima, ma ritiene che non si trovino nello spirito in forma cosciente, bensì in modo ancora inconscio e che occorra l'esperienza perché emergano dalla loro condizione di virtualità. Il fatto che i bambini non siano consapevoli delle leggi logiche, non significa dunque, come pensa Locke, che non le possiedano: in realtà questi principi giacciono sul fondo della loro mente sotto forma di piccole percezioni. Mentre Locke paragona la nostra anima a una tabula rasa, Leibniz la ritiene analoga a un blocco di marmo, le cui venature delineano già la figura della statua che lo scultore intende scolpire. Mi sono servito anche del paragone di un blocco di

marmo che abbia venature, piuttosto che di un blocco uniforme, oppure delle tavolette vuote, che è poi ciò che ifilosofi chiamano tabula rasa. Infatti, se l'anima ras-

8 somigliasse a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la figura di Ercole si trova in un marmo, quando il marmo è del tutto indifferente a ricevere questa figura o qualunque altra. Ma se nel marmo vi fossero venature che delineassero la figura di Ercole a preferenza di altre, questo marmo vi sarebbe in qualche modo predisposto e la figura dell'Ercole vi sarebbe in qualche modo innata, benché sarebbe necessario pur sempre un certo lavoro per scoprire queste venature, per ripulir/e togliendo ciò che impedisce loro di apparire. Ora è in questo senso che le idee e le verità sono in noi innate: come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali non già come azioni, benché queste virtualltà siano sempre accompagnate da alcune azioni che vi corrispondono anche se spesso insensibili. ~

Cit., p. 171

L'innatismo virtuale di Leibniz è sintetizzato nella formula scolastica nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, a cui deve essere aggiunto però nisi intellectus ipse, ossia "non c'è nulla nell'intelletto che non sia stato nei sensi, !.'intero contenuto tranne l'intelletto stesso"' in quandella vita psichica to capacità di conoscenza a prioprecede l'esperienza ri. Infatti Leibniz ammette con sensibile Locke che in un certo modo tutte le nostre conoscenze razionali sono precedute dalle sensazioni (che stimolano l'attività conoscitiva), ma aggiunge che l'intelletto possiede virtualmente, prima ancora dell'esperienza, un complesso di idee e di principi innati sotto forma di possibilità o tendenze impercettibili: solo con l'attività della mente si giunge ad acquisirne coscienza. D'altronde, nel sistema di Leibniz, se ci poniamo da un punto di vista metafisica, persino le verità empiriche e le idee della realtà sensibile risultano innate, giacchA ogni percezione della monade non è ricevuta dal di fuori, ma è un'attività che la sostanza trae dal suo fondo in base al suo concetto completo fissato a priori da Dio. Ciò significa, dunque, che tutta l'anima è innata a se stessa e che l'intero contenuto della vita psichica (l'intellectus ipse) precede logicamente l'esperienza dei sensi.

l Saggi di Teodicea

e l'ottimismo leibniziano La problematica teologica di Leibniz è contenuta nei Saggi di Teodicea (1710), dove Leibniz espone anche la sua concezione ottimista della vita e sviluppa in modo completo la teoria dei mondi possibili. L'insieme di tutte le monadi create da Dio costituisce, secondo Leibniz, il mondo che esiste attualmente. Esso però, come sappiamo, è solo uno degli infiniti mondi possibili presenti nella mente divina ancor prima della creazione: ((La saggezza di Dio [... ] va oltre le combinazionijinite e ne produce un'infinità di infinite, vale a dire un'infinità di serie possibili dell'universo, ciascuna delle quali contiene un 'infinità di creature; e così facendo, la saggezza divina distribuisce tutti i possibili, che aveva già esaminato a parte, tanti sistemi universali che, di nuovo, raffronta tra lorm> (Saggi di Teodicea). Ora, Dio poteva creare uno solo di questi mondi, perché gli universi possibili si escludono l'un l'altro: l'universo in cui Alessandro Ma- Come e «tuale scegliere gno sconfigge Dario esclude il mon- fra tutti i mondi do in cui Alessandro non lo sconfig- possibili? ge. Dio, perciò, ha dovuto scegliere, ed essendo perfetto e dotato di volontà buona, tra tutte le combinazioni possibili ha scelto il mondo migliore, quello che è contemporaneamente il più ricco di fenomeni e il più semplice nelle sue leggi. È questo il celebre ottimismo leibniziano, derivato dall'idea dell'assoluta bontà divina. Questo otti~ mismo, però, apparentemente sembra smentito dalla presenza del male nel mondo. Infatti, se il nostro mondo è il migliore possibile, perché in esso esistono ancora la sofferenza e il peccato? L'antichissimo problema del male, in rapporto alla bontà di Dio, era stato sollevato di nuovo alla fine del XVII sec. da Pierre Bayle (1647-1706) nel suo Dizionario storico e critico (1695-97) in cui egli sosteneva che la ragione umana non può assolutamente con- Dobbiamo considerare ciliare la presenza del male nell'uni- il rapporto tra verso con la provvidenza divina. Leib- quantità di male niz scrive i Saggi di Teodicea proprio e quantità di bene per controbattere questa tesi e per giustificare la scel-

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8 ·l SAGGI DI TEODICEA E L'OTTIMISMO LEIBNIZIANO

ta divina di questo mondo. La stessa parola che dà il sari alla perfezione del tutto. Le imperfezioni motitolo allibro ('teodicea', dal greco the6s che significa rali del nostro mondo sono come le ombre di una "Dio" e dOce che significa "giustizia") significa "giu- pittura, le quali servono per dare risalto alle luci. stificazione dell'opera di Dio", ossia processo in diMusicisti egregi spessissimo mescolano dissonanze fesa di Dio per aver permesso il male. Leibniz, in soagli accordi, per eccitare e quasi pungere l'ascoltatore, stanza, cerca di dimostrare che per quanti mali esie, dopo averlo reso ansioso di ciò che sta per succedestano sulla terra agli occhi degli uomini, la combinare, rallegrar/o riporlando tutto all'armonia; analogazione totale di tutti gli eventi del nostro universo remente ci rallegriamo di piccoli pericoli o di lievi soffesta sempre la più perfetta possibile. renze, a prova delle nostre sensibilità e felicità; oppuSviluppando la dottrina di S. Agostino (354re negli spettacoli degli acrobati e dei saltimbanchi 430), Leibniz distingue tre forme di male: il male (salti pericolosi), ci dilettiamo degli stessi pericoli, ed metafisica, il male fisico e il male morale, arrianche noi, per !scherzo, facciamo il gesto di proiettare vando alla conclusione che Dio non è responsalontano i bambini e quasi li abbandoniamo. [... ] Per bile di nessuno di questi mali. questo stesso principio, diventa insipido nutrirsi semIl male metafisico consiste nella limitatezza pre di cibi dolci: occorre mescolare gusti agri, acidi ed delle creature, ed è ineliminabile in tutti i mondi amari per eccitare il palato. Chi non abbia gustato cipossibili perché qualunque creatura, in quanto fibi amari, non gusterà né apprezzerà cibi dolci. nita, per definizione non può esserne priva. Pre~ G.W. Leibniz, Sull'origine radicale delle cose, in: Scritti filosofici, cit., tendere che il mondo sia senza queste imperfeI, p. 223 zioni, significa pretendere che non esista affatto. Ed'altra parte, secondo Leibniz, è meglio che esiDunque, secondo Leibniz, molte volte grandi sta una mescolanza di bene e di male metafisica beni sono legati a grandi mali. Dio, per esempio, piuttosto che non esista nulla. Il male morale, inha permesso l'esistenza del Giuda storico che ha vece, si identifica col peccato. Questa forma di male non deriva da Dio, ma dalla cattiva volontà del- tradito Gesù, perché sapeva che il suo peccato l'uomo. Se l'uomo volesse, potrebbe usare a fin di avrebbe prodotto un maggior bene, e cioè il sabene la libertà che Dio gli ha donato (anche se, co- crificio di Cristo che ha redento l'umanità. Infatme si è visto, non è facile giustificare la libertà del- ti, già nel capitolo XXX del Discorso di Metafisica l'uomo all'interno del sistema leibniziano). Infine, Leibniz aveva precisato che: il male fisico - cioè il dolore, le malattie, i torDio vede dall'eternità che ci sarà un certo Giuda, la cui menti dell'animo e la morte - è una conseguenza nozione o idea che Dio ne ha contiene quest'azione lidel male morale, e più in particolare del peccato bera futura. Non rimane, dunque, che questo problema: · di Adamo. Infatti, è la punizione per la colpa comperché un tal Giuda, il traditore, che nel/'idea di Dio è somessa dal nostro progenitore, e non esisterebbe lo possibile, esista attualmente. Ma a questa domanda se non fosse esistito il peccato originale. non c'è, quaggiù, possibilità di risposta. Possiamo solo diIl vero problema è dunque rappresentato dal mare genericamente che, poiché Dio ha ritenuto giusto che le morale: ammesso che la responsabilità del pecGiuda esistesse, nonostante il peccato che Egli prevedeva, cato ricada unicamente sull'umanità (e su Adamo bisogna che questo male sia ricompensato a usura nelin particolare), perché Dio non ha scelto un mondo l'universo: sicuramente Dio ne ricaverà un bene magpossibile del tutto esente dal peccato? A questa dogiore, e in conclusione si troverà che questa serie di cose, manda, Leibniz risponde che un mondo senza il main cui è compresa l'esistenza di questo peccatore, è la le morale non sarebbe stato il migliore. Infatti, poipiù perfetta fra tutte le altre serie possibili. ché nell'universo tutto è strettamente connesso, quei particolari errori che vi si incontrano sono neces- ~ G. W. Leibniz, Discorso di metafisica, cit., XXX, pp. 64-65

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Per illustrare la sua concezione ottimista dei mondi possibili, Leibniz conclude i Saggi di Teodicea con un racconto di notevole potenza visionaria, di cui è protagonista Teodoro, gran sacerdote dei romani all'epoca dei re etruschi (VI secolo a.C.). Nel racconto di Leibniz, Teodoro si chiede perché Giove abbia permesso a Sesto Tarquinia, figlio del settimo re di Roma, Tarquinia il Superbo (534510 a.C.), di violentare Lucrezia, matrona romana e moglie di Collatino. Il crimine di Sesto provocò la cacciata dei re etruschi da Roma (509 a.C.) e la fine della monarchia. Teodoro, per avere una risposta alla sua domanda, si reca ad Atene e dorme nel tempio della dea Pallade Atena. In sogno, la dea guida Teodoro nel palazzo dei mondi possibili, che è strutturato a forma di piramide. Ogni piano contiene un appartamento, e ogni appartamento rappresenta un mondo possibile. In ciascun appartamento c'è un libro, con la storia del mondo che Atena e Teodoro stanno visitando. Teodoro, che non si trova al vertice della piramide ma in un appartamento intermedio, cerca in questo libro la storia di Sesto Tarquinia. Mette il dito sulla riga che gli interessa, e vede apparire magicamente ciò che la linea descrive in forma sommaria. In questo mondo, Sesto non violenta Lucrezia, perché un oracolo lo avverte del delitto che egli potrebbe commettere. Teodoro passa poi in un altro mondo, cioè in un altro appartamento più alto, e vede un'altra vita possibile di Sesto, in cui egli evita, in un modo diverso, il suo destino criminale. Via via che si procede verso la cima, gli appartamenti sono sempre più belli e rappresentano mondi sempre più perfetti. Giunto in vetta, Teodoro cade in estasi di fronte alla perfezione del migliore dei mondi possibili, quello reale. La dea lo soccorre, e lo fa ritornare in sé mettendogli una goccia di liquore divino sulla lingua. Atena gli fa capire quindi che il delitto di Sesto Tarquinia giova a grandi cose: rende libera Roma dalla monarchia etrusca, fa nascere la repubblica, dalla quale, poi, deriverà un grande impero. Quel delitto era nulla di fronte alla totalità degli avvenimenti del nostro mondo. Dopo questa visione, Teodoro si risveglia, rende grazie alla dea, e rende giustizia a Giove.

L'esistenza di Dio La soluzione che Leibniz prospetta, nei Saggi di Teodicea, al problema del male presuppone, naturalmente, che Dio esista. Nei suoi scritti, Leibniz avanza vari tipi di argomenti per dimostrare l'esistenza di Dio. Uno di questi argomenti è quello cosmologico, e risulta basato sul principio di ragion sufficiente, secondo il quale per ogni cosa esi- Gli argomenti ste sempre una ragione del perché per dimostrare essa Sia, piuttosto Che non sia, e del l'esistenza di Dio perché sia così e non altrimenti. La prova fondata su tale principio può essere così riassunta: ciascuna cosa del nostro mondo è contingente, cioè non ha in se stessa la ragione del proprio essere; di conseguenza, non è necessaria nemmeno l'intera serie delle cose. Così, se consideriamo la realtà in se stessa, non si può capire perché ci sia qualcosa piuttosto che il nulla. Bisogna dunque cercare la ragione dell'esistenza del mondo al di là di esso, in un Ente necessario, e cioè in Dio, che possiede in sé la ragione della propria esistenza. Un'altra dimostrazione leibniziana dell'esistenza di Dio riprende, invece, l'argomento antologico di S. Anselmo (1033-1109). Thttavia, Leibniz pensa che l'argomento antologico non sia sufficiente, perché la prova lascia aperto il problema preliminare se l'idea di Dio sia possibile, cioè non contraddittoria. La questione della possibilità (o non contraddittorietà) di un'idea è molto importante. Infatti, talvolta accade che noi crediamo di avere nella nostra mente un'idea che, invece, non è possibile, perché implica una contraddizione. Per esempio, si potrebbe pensare che non ci sia alcuna difficoltà a concepire l'idea del movimento più veloce d'ogni altro. Ma, riflettendo bene, ci si accorge che una tale idea è impossibile. Supponiamo, infatti, che il movimento più veloce d'ogni altro sia quello di un punto situato sulla circonferenza di una ruota che giri intorno al suo asse. In realtà, quel punto non può esser dotato della velocità massima, perché, prolungando un raggio della ruota oltre la sua circonferenza, il punto estremo del raggio girerà con un mo-

~-----·-~~-·~~- (Sulla dimostrazione cartesiana dell'esistenza di Dio del R. P. Lamy). Come si può vedere, anche qui Leibniz si serve della prova cosmologica esposta sopra, fondata sul principio di ragion sufficiente; ma non ne

conclude subito l'esistenza di Dio, bensì la sola possibilità, lasciando che la conclusione sia tratta poi con l'argomento antologico vero e proprio. L'altra dimostrazione della possibilità dell'idea di Dio è questa: ogni qualità semplice e indefinibile è una perfezione; l'idea di Dio, che contien~ tutte le perfezioni, è possibile se le perfezioni sono compatibili fra loro, cioè se possono essere predicate senza contraddizione di un medesimo soggetto. Supponiamo ora che due perfezioni qualsiasi, denotate dai termini A e B, siano incompatibili. L'incompatibilità delle due perfezioni può essere provata soltanto risolvendo i termini che le denotano, per vedere se alloro interno tali termini contengano delle caratteristiche fra loro contraddittorie. Ma i due termini sono irresolubili per definizione; pertanto le perfezioni denotate da A e B non sono incompatibili. Un essere che comprenda infinite perfezioni è quindi possibile. Dunque, essendo possibile, esiste.

Vita eopere Gottfried Wilhelm Leibniz ( 1646-1716) studiò filosofia e diritto all'università di Lipsia, sua città natale. Nel 1664, ottenne il titolo di "magister philosophiae" e successivamente conseguì ad Altdorf anche il dottorato in diritto ( 1666). Poco attratto dall'insegnamento universitario, decise di dedicarsi alla carriera diplomatica e divenne così consigliere presso la cancelleria di corte dell'Elettore di Magonza. Nel 1672, fu inviato in missione diplomatica a Parigi, e la permanenza in quella città gli servì per completare la sua preparazione matematica. Nel 167576, Leibniz inventò il calcolo infinitesimale, che rese noto solo nel 1684, con la memoria Nuovo metodo per i massimi e i minimi, nonché per le tangenti. Sempre nel 1676, passò al servizio del duca di Hannover, come bibliotecario e storiografo di corte. In questi anni produsse alcune opere importanti come le Meditationes de cognitione, veritate et ideis (Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, 1684), nonché il Discorso di metafisica, del 1686. Nello stesso periodo, intrattenne un'attiva corrispondenza con i teologi cattolici allo scopo di realizzare un ambizioso progetto, destinato, però, al fallimento: la riconciliazione tra la chiesa riformata tedesca e la chiesa romana. Nel 1704, scrisse i Nuovi saggi sull'intelletto umano, rimasti inediti fino al 17 65, nel 171 O i Saggi di Teodicea, e poi i Principi di Filosofia o Monadologia, nel 1714. Ma gli ultimi anni della sua vita furono amareggiati dalla disputa con lsa ac Newton ( 1642-1727) per la priorità dell'invenzione del calcolo infinitesimale. La disputa si concluse nel 1713, quando la Royal Society di Londra si pronunciò a favore di Newton, senza tener conto dell'indipendenza e della diversità dei metodo leibniziano. Leibniz morì nel 1716 in solitudine a Hannover, ingiustamente screditato da una falsa accusa di plagio.

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La nozione di sostanza individuale . Nel capitolo VII/ del Discorso di metafisica (1686), Leibniz asserisce che la nozione di una sostanza individuale implica tutti i suoi predicati, passati, presenti e futun; così come la definizione del cerchio ne implica tutte le proprietà. Dalla nozione completa di Cesare, secondo Leibniz, è possibile ricavare, deduttivamente, tutte le azioni di tale individuo, compreso, per esempio, il suo passaggio del Rubicone, allo stesso modo in cui da un insieme di assiomi si possono dedurre i teoremi. Una simile tesi sembra, però, annullare ogni differenza fra le verità necessarie della logica e della matematica, o verità di ragione (come, per esempio, "la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180 °"), e le verità contingenti della storia, o verità di fatto (come, per esempio, "Alessandro Magno sconfisse Dario"). Per salvare la contingenza delle verità di fatto, Leibniz, ne/capitolo Xlii del Discorso di metafisica, distingue, allora, fra necessità assoluta e necessità ipotetica (ex hypothesU. Una proposizione è "assolutamente necessaria" se l'asserzione a essa opposta implica una contraddizione (per esempio, è assolutamente necessario l'enunciato "2+2=4", perché il suo opposto è contraddittorio). Una proposizione, invece, è '1poteticamente necessaria" quando è necessaria solo sotto determinate condizioni. È questo il caso delle verità di fatto come "Giulio Cesare attraversò il Rubicone": dato quel determinato mondo a cui Cesare appartiene, cioè quella serie di eventi in cui egli è inserito, la sua azione ne consegue necessariamente. Ma se prescindiamo da tali presupposti, in un altro mondo possibile (che Dio avrebbe potuto creare in luogo di questo) e con altre condizioni, cioè variando in alcuni particolari il concetto completo di Cesare, non è contraddittorio pensare che Cesare non passi il Rubicone. Pertanto, le verità di fatto, pur essendo "ipoteticamente necessarie" nel nostro mondo, risultano in sé "contingenti", cioè non sono "assolutamente necessarie", perché il/oro opposto è possibile, ammesso un diverso ordine delle cose. La differenza fra le verità necessarie e le verità contingenti circa gli individui della nostra storia consiste dunque in questo: mentre le prime risultano "vere in tutti i mondi possibili", indipendentemente dalla volontà di Dio (infatti, qualunque fosse stata la scelta divina, le verità della matematica e della logica sarebbero state le stesse), le seconde non avrebbero trovato conferma se Dio avesse creato il mondo in un altro modo. Le verità di fatto dipendono, dunque, dalla libera decisione divina di creare questo universo, e cioè il migliore dei mondi possibili. Abbiamo detto che la nozione di una sostanza individuale racchiude, una volta per tutte, tutto ciò che le può accadere, e che, considerando questa nozione, si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di essa, così come possiamo scorgere nella natura di un cerchio tutte le proprietà che se ne possono dedurre. Ma sembra, in questo modo, che venga distrutta la

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differenza fra le verità contingenti e le verità necessarie, che non abbia più luogo la libertà umana, e che una fatalità assoluta debba regnare su tutte le nostre azioni e su tutti gli altri awenimenti del mondo. A queste obiezioni rispondo che bisogna distinguere fra ciò che è certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i futuri contingenti sono sicuri, poiché Dio li prevede, ma nonostante questo, non si ammette che siano anche necessari. Ma - si dirà -se una conclusione si può dedurre infallibilmente da una definizione o nozione, essa sarà necessaria. Ora noi sosteniamo che tutto quello che deve accadere a una persona è già compreso virtualmente nella sua natura o nozione, come le proprietà nella definizione del cerchio. Così la difficoltà sembra ancora sussistere; per risolverla in modo esauriente, io dico che la connessione o derivazione è di due tipi: una è assolutamente necessaria, cioè tale che l'opposto implica contraddizione. E questa deduzione ha luogo nelle verità eterne, come sono quelle della geometria; l'altra non è necessaria che ex hypothesi, e per così dire, per accidente, mentre risulta contingente in se stessa, dato che il suo opposto non implica contraddizione. E questa connessione è fondata non sulle pure idee e sul semplice intelletto divino, ma anche sui suoi liberi decreti e sulla concatenazione dell'universo. Facciamo un esempio: poiché Giulio Cesare diventerà dittatore perpetuo e padrone della Repubblica, e rovescerà la libertà dei romani, questa azione dev'essere compresa nella sua nozione; infatti noi abbiamo supposto che la caratteristica essenziale della nozione completa di un soggetto è quella di comprendere tutto, affinché ogni predicato vi sia racchiuso, ut possit inesse subjecto. [... ] A questo punto bisogna applicare la distinzione fra i due tipi di connessione e dire che tutto ciò che accade conformemente a questi presupposti è sicuro, ma non è necessario, e che, se qualcuno facesse il contrario, non farebbe nulla di impossibile in sé, sebbene ciò sia impossibile (ex hypothest) che awenga. Infatti, se qualcuno fosse capace di svolgere tutta la dimostrazione che consente di provare questo legame fra il soggetto Cesare e il predicato riguardante la sua fortunata impresa futura, farebbe vedere che la dittatura futura di Cesare ha dawero il suo fondamento nella sua nozione o natura; che vi si trova una ragione per cui egli ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che fermarsi, e per cui egli ha vinto anziché perso la battaglia di Farsalo; e che era ragionevole, e quindi certo, che tutto ciò sarebbe accaduto, ma non che fosse in sé necessario, né che l'opposto implicasse una contraddizione. Pressappoco com'è ragionevole e certo che Dio farà sempre il meglio, sebbene ciò che è meno perfetto non implichi contraddizioni. Infatti, si troverebbe che la dimostrazione di questo predicato di Cesare non è poi così assoluta come quella dei numeri o della geometria, ma presuppone la concatenazione delle cose che Dio ha scelto liberamente, e che è fondata sul primo decreto libero di Dio, che lo porta a fare sempre ciò che è più perfetto, e sul decreto che Dio ha imposto (in seguito al primo) circa la natura umana, per cui l'uomo farà sempre (sebbene liberamente) ciò che gli sembrerà migliore. Ora, ogni verità che risulti fondata su questo tipo di decreti, è contingente, malgrado sia certa; infatti questi decreti non mutano in nulla la possibilità delle cose, e, come ho già detto, sebbene Dio scelga sempre sicuramente il meglio, ciò non impedisce che quello che è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé, benché non accada, in quanto non è la sua impossibilità che lo fa rigettare, ma la sua imperfezione. Ora niente è necessario, se il suo opposto è possibile. ~

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G.W. Leibniz, Discorso di Metafisica, Firenze, La Nuova Italia 1995 2, XIII, pp. 24-26

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La monade Nei Principi della Filosofia o Monadologia (1714), composti due anni prima della sua morte, Leib-niz riassume i concetti fondamentali del suo sistema. In questo scritto, la sostanza individuale è chiamata monade. Leibniz sostiene che dalla semplicità della monade - ente spirituale privo di estensione -derivano la sua ingenerabilità e incorruttibilità. Ne consegue anche l'impossibilità dell'azione reciproca fra le sostanze individuali, poiché per agire su una cosa bisogna essere in contatto con essa, e due cose inestese non possono toccarsi. Di qui la famosa affermazione leibniziana secondo cui r!le monadi non hanno finestre;;. Leibniz precisa, poi, le altre caratteristiche qualitative delle monadi, in virtù delle quali esse si differenziano l'una dall'altra: le percezioni inconsce (o piccole percezionU, l'autocoscienza (o appercezione, presente nella monade dell'uomo) e la tendenza a passare incessantemente da una percezione all'altra (o appetizione).

011. La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè, senza parti. 2. E debbono esserci sostanze semplici, perché ve ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di semplici. 3. Ora, laddove non ci sono parti, non c'è né estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. 4. Non è da temere alcuna dissoluzione e non è concepibile alcun modo per il quale una sostanza semplice possa naturalmente estinguersi. 5. Per la stessa ragione non c'è alcun modo per il quale una sostanza semplice possa avere un'origine naturale, perché essa non può formarsi per composizione. 6. Così si può affermare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè, che possono cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto, comincia o finisce per parti. 7. Di conseguenza, non c'è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o diminuito, come accade nei composti, nei quali c'è mutamento tra le parti. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare od uscire. Gli accidenti non possono staccarsi dalle sostanze, né passeggiare fuori di esse, come in altri tempi facevano le specie sensibili degli Scolastici. Così, né le sostanze, né gli accidenti possono entrare dal di fuori in una monade. 8. Nondimeno, è necessario che le monadi abbiano alcune qualità, altrimenti non sarebbero neppure esseri. E se le sostanze semplici non differissero per le loro qualità, non vi sarebbe mezzo per scorgere alcun mutamento nei corpi, perché ciò che è nel composto non può derivare che dagli elementi semplici e le monadi, supposte senza qualità, sarebbero indistinguibili l'una dall'altra, visto che non differirebbero neppure per la quantità; di conseguenza, nell'ipotesi del pieno, ogni luogo non riceverebbe nel movimento che l'equivalente di ciò che già aveva ricevuto e uno stato di cose sarebbe indiscernibile dall'altro. 9. Bisogna ammettere che ogni monade sia differente da ogni altra. In natura, infatti, non vi sono mai due esseri che siano perfettamente l'uno come l'altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca.

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1O. Ritengo come ammesso che ogni essere creato, e perciò anche la monade creata, è soggetto a mutamento, e che questo mutamento è continuo in ciascuna. 11. Da quanto abbiamo detto, consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da un principio interno, perché una causa esterna non potrebbe influire nel suo interno. 12. Occorre però che oltre il principio del mutamento, si trovi in essa un dettaglio di ciò che muta, che costituisca, per cosi dire, la specificazione e la varietà delle sostanze semplici. 13. Questo dettaglio deve implicare una molteplicità nell'unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni mutamento naturale awiene per gradi, qualcosa muta o qualcosa permane; di conseguenza bisogna che nella sostanza semplice vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché non vi siano parti. 14. Lo stato passeggero, che implica e rappresenta una molteplicità nell'unità o sostanza semplice, non è altro che ciò che è chiamato "percezione", e che deve essere distinta dall'"appercezione" o coscienza, come si vedrà in seguito. Ed è su questo punto che i cartesiani hanno sbagliato gravemente, avendo considerato come un nulla le percezioni delle quali non si abbia appercezione. Questo sbaglio li ha portati a credere che soltanto gli spiriti siano monadi, e che non vi siano né anime delle bestie, né altre entelechie; e così hanno confuso, come fa il popolo, un lungo stordimento con la morte propriamente detta, cosa che li ha fatti cadere nel pregiudizio degli Scolastici, delle anime interamente separate, e che ha perfino confermato gli spiriti mal disposti nell'opinione della mortalità dell'anima. 15. L'azione del principio interno che opera il mutamento o il passaggio da una percezione all'altra può essere chiamata "appetizione": questa, è vero, non può raggiungere interamente la percezione cui tende, pur ne raggiunge sempre una parte e giunge a percezioni nuove. 1>

G.W. Leibniz, I principi della filosofia o Monado/ogia, 1-15, in: Scritti filosofici, Torino, Utet 1967, I, pp. 283-285

LETTURA CRITICA

Proponiamo qui a seguire un brano di Massimo Mugnai, per comprendere il significato di monade nella metafisica leibniziana.

fB Per caratterizzare la propria concezione della sostanza

Leibniz ricorre all'espressione "monade", che designa ciascuna unità individuale costitutiva del mondo. "Monade" è il calco di "una parola greca che significa unità, owero ciò che è uno". Nonostante si tratti di una parola chiave della metafisica leibniziana, il suo impiego sistematico è relativamente tardo, e risale all'incirca al 1690. Con ogni probabilità deriva da Giordano Bruno, ma non è da escludere che Leibniz l'avesse incontrata anche in opere di altri autori. Chiamando "monade" la sostanza, Leibniz intende metterne in rilievoil duplice carattere di unità e di individualità. Un altro sinonimo che impiega per caratterizzare la monade è quello di "atomo spirituale". Tra la fine degli anni Settanta e gli anni in cui compone il Discorso di metafisica Leibniz fissa la propria idea di sostanza, intesa come un ente puramente spirituale, in perenne attività. In quanto "oggetti spirituali", concentrati di "energia" o "forza vitale", individualmente distinti l'uno dagli altri, le monadi sono prive di contatto e comunicazione reciproca. L'affermazione secondo la quale le monadi "non hanno finestre dalle quali una cosa possa entrare o uscire" (pre-

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sente in un breve scritto d'occasione che Leibniz comporrà nel1714, e che diverrà celebre col titolo di Monadologia) tende a sottolineare l'isolamento e la irriducibile individualità delle monadi. Ciascuna "cosa" del mondo, animata o inanimata, risulta composta da un tessuto di monadi. Leibniz non crede nell'esistenza del vuoto fisico, e pensa che in tutto l'universo sia diffusa una specie di soluzione, una sorta di "liquido" fatto di particelle che si addensano qua e là, dando luogo ad aggregati più o meno compatti. Nei punti nei quali avviene l'aggregazione, si hanno i corpi di cui abbiamo esperienza nella vita quotidiana. Ma dove non rileviamo la presenza di nessun corpo, c'è sempre un tessuto o una trama sottile di "particelle" che riempie tutto lo spazio circostante. Se con mezzi d'indagine potentissimi potessimo analizzare un settore anche minimo di ciò che ci appare come "vuoto", lo scopriremmo popolato di atomi spirituali; individueremmo cioè una sorta di "piega" o struttura complessa (come un nodo o un ulteriore addensamento che non ci era possibile cogliere a occhio nudo), a sua volta composta da miriadi di altri atomi spirituali. Il processo che così si apre è infinito. Le monadi sono atomi in senso proprio, in quanto non possono esser divise: il fatto che siano di natura spirituale (non estese) rende manifesta la loro non divisibilità. Esse sono unità semplici (un'altra conseguenza del loro essere "spirituali") e sono dotate di "percezione" e "appetito". La percezione è "l'espressione di una molteplicità nell'unità", dove l'unità è lo spirito individuale della singola monade; mentre col termine di "appetito" Leibniz intende designare lo stimolo a passare di percezione in percezione. Possiamo quindi pensare la monade come un essere spirituale attraversato da un flusso continuo di percezioni. Rifacendosi al lessico scolastico, Leibniz ritiene che in ciascuna monade si possano distinguere due aspetti: l'uno materiale e l'altro formale. Naturalmente, dal momento che la monade è semplice, si tratta di una distinzione meramente concettuale, alla quale non corrisponde un'effettiva differenziazione di parti. La materia di una singola monade è ciò che di oscuro è racchiuso nelle sue percezioni (si pensi al senso di "resistenza" e di impenetrabilità che si accompagna normalmente alla percezione, quando tocchiamo la superficie di un oggetto rigido). Per caratterizzare questo aspetto della monade Leibniz impiega l'espressione "potenza passiva primitiva", mentre chiama "potenza attiva primitiva" o "entelechia" la fonte primigenia di energia che caratterizza ogni monade, in quanto essere spirituale. Le monadi non possono dar luogo agli oggetti reali, a meno che non si aggreghino e uniscano tra loro. Leibniz distingue due tipi di aggregazione: un tipo che potremmo chiamare semplice, come l'ammasso di particelle che formano una nuvola o un mucchio di pietre, e un tipo che comprende una monade dominante, la quale subordina le altre a sé, come nel caso di aggregati di corpi organici (uomini, animali, piante). Gli aggregati di entrambi i tipi danno luogo alla "materia seconda", che si configura come "il risultato di innumerevoli sostanze complesse, ciascuna delle quali ha la propria entelechia e la propria materia prima". Nel caso degli esseri umani la monade dominante è l'anima che presiede alle funzioni del corpo; ma il corpo stesso non è altro che un aggregato di monadi. Al momento della morte dell'essere organico, la monade dominante cessa di tenere unito il corpo, e l'ammasso di monadi "subordinate" si scioglie, disgregandosi, senza però che le parti sconnesse si annullino. Le monadi, infatti, non possono avere inizio né fine, e sono chiamate in vita o annichilate direttamente da Dio. li legame essenziale che connette una monade dominante alla colonia di monadi ad essa subordinate è dato dal flusso di percezioni che attraversano la monade dominante stessa e che "corrispondono" alle percezioni e a quel che si verifica nell'aggregato subordinato.



""M. Mugnai, Leibniz, in: P. Rossi, C. A. Viano, Storia della filosofia. 4. Il Settecento, Roma-Bari, Laterzà 1996, pp. 77-79

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Il migliore dei mondi possibili

····· Nei Saggi di Teodicea (editi nel171 0), Leibniz afferma che il nostro universo è il migliore dei mondi possibili. A suo giudizio, per quanti mali esistano sulla Terra agli occhi degli uomini, la combinazione totale di tutti gli eventi del nostro mondo resta sempre la più perfetta. Com'è noto, l'ottimismo di Leibniz, relativo all'idea che il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili, ha prestato il fianco all'ironia del filosofo illuminista Voltaire (1694-1778), nel suo racconto intitolato Candido o l'ottimismo (Candide ou l'optimisme, 1759). Ma le critiche che Voltaire rivolge ai Saggi di teodicea, basate sulla constatazione delle imperfezioni di questo mondo, non sono pertinenti. Infatti Leibniz non nega la presenza del male nella realtà e nella storia: egli sostiene soltanto che il nostro universo è il meno cattivo fra tutti i mondi possibili. L'ottimismo che ispira le tesi leibniziane va quindi inteso come un superlativo relativo e non come un superlativo assoluto: il nostro mondo è il più perfetto, ma non è perfettissimo.

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Stremati, e più di là che di qua per via di quell'indescrivibile affanno che il ballar d'una nave induce nei nervi e in tutti gli umori del corpo diversamente agitati, la metà dei passeggeri non avevano neanche la forza di inquietarsi per il pericolo; gli altri gridavano e pregavano. Le vele erano in brandelli, gli alberi schiantati, rotto lo scafo. Chi era in grado, dava mano, ma nessuno udiva l'altro, e ogni comando era cessato. L'anabattista stava sulla tolda, aiutando un poco la manovra; un marinaio infuriato lo percuote con violenza tale da mandarlo a battere sul tavolato, e tanta fu la forza del colpo che menò, che egli stesso ne perdette l'equilibrio, e cadde fuor dalla nave a capofitto. Lo trattenne un pezzo d'albero rotto in cui s'impigliò nel cadere. [... ] Sopraggiunge Candido, e scorge il suo benefattore che ricompare per un attimo, ed è inghiottito per sempre; fa per buttarsi, ma il filosofo Pangloss lo trattiene, e gli prova che la rada di Lisbona era stata creata apposta perché quell'anabattista vi restasse affogato. Prima che egli avesse finito la sua dimostrazione a priori, la nave s'apre nel mezzo, e ogni cosa va al fondo, tranne Pangloss, Candido e il bestiale marinaio per colpa del quale era annegato il virtuoso anabattista. Il briccone toccò felicemente la riva a forza di braccia; Pangloss e Candido la raggiunsero sopra una tavola. Appena si furono un poco riavuti, presero la via di Lisbona. Avevan salvato qualche soldo, grazie a cui speravano di scampar la fame dopo essere sfuggiti alla tempesta. Sono appena entrati in città, piangendo ancora la morte del loro benefattore, quando la terra trema loro sotto ai piedi, il mare s'innalza ribollendo nel porto, e schianta le navi che vi stanno ancorate; turbini di fuoco e di cenere empiono le pubbliche piazze e le vie; le case rovinano, i tetti precipitano sulle fondamenta, le fondamenta son disperse. Trentamila abitanti d'ogni sesso ed età restano schiacciati sotto le rovine. Il marinaio fischiettava, bestemmiava e diceva: ((Qua c'è da rimediare qualcosall. ((Quale sarà mai la ragion sufficiente d'un tale fenomeno?ll chiedeva Pangloss. ((È la fine del mondolll esclamava Candido. Il marinaio corre subito tra le macerie, rischia la vita per cercar danari, ne trova, li intasca, s'ubriaca; [... ] Pangloss intanto lo tirava per la falda, e diceva: ((Amico, non è bene ciò che fate, voi mancate alla ragione universale, non è questo il momentml. ((Sangue del diavolm, rispondeva l'altro, ((Son uomo di mare, nato a Batavia, sono stato in Giappone quattro volte, e quattro volte mi son messo il crocifisso sotto i piedi; hai trovato l'uomo giusto cui predicare la tua ragione universale!ll

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Candido era rimasto ferito da alcune schegge di pietra, e giaceva in mezzo alla via coperto di macerie. Egli diceva a Pangloss: ((Ahimè, trovami un goccio di vino, un poco d'olio; mi sento morirell. ((Questo terremoto non è una novitàll, rispose Pangloss; (da città di Lima, in America, patì le medesime scosse l'anno passato; cause uguali, uguali effetti; un filone di zolfo corre senza dubbio sotterra da Lima fino a Lisbon3)). ((Sarà; ma dammi un goccio di vino, un goccio d'olio per amor di Dioll. ((Come, sarà? lo dico che è provatoll. Candido perdette i sensi, e Pangloss gli portò un pochino d'acqua da una fontana che era lì accosto. La mattina dopo, rovistando tra le macerie trovarono qualche cibo, e poterono ristorarsi alla peggio. Lavorarono poi insieme con l'altra gente per recare aiuto agli abitanti scampati alla morte. Alcuni cittadini che essi avevano soccorso offrirono loro da pranzo il meno male che si poteva in quei frangenti. Fu un pranzo per verità malinconico; i commensali condivano il pane con le lacrime. Ma Pangloss li consolò, assicurando che le cose non sarebbero potute stare altrimenti. (dnfattill, diss'egli, mon poteva accadere di meglio: poiché, se c'è un vulcano a Lisbona, non può essere altrove; poiché è impossibile che le cose non siano dove sono; poiché tutto è perfettO)). Egli aveva per vicino un ometti no nero, che era ministro dell'Inquisizione. Questi prese la parola a sua volta, e disse con fare cerimonioso: (di signore parche non creda al peccato originale: ché se tutto è perfetto, non può esserci stato né fallo, né castigO)). ((Chiedo umilmente scusa all'Eccellenza Vostrall, replicò Pangloss più cerimonioso ancora; mel migliore dei mondi possibili il peccato d'Adamo e la maledizione dovevano aver luogo per necessitàll. (Nossignoria non crede dunque al libero arbitrio?ll (Nostra Eccellenza perdoni, ma la libertà e la necessità assoluta possono conciliarsi benissi.:. mo; era necessario infatti che fossimo liberi; poiché insomma la volontà determinata ... )) Egli era a mezzo della frase, allorché il ministro dell'Inquisizione accennò col capo al proprio staffiere, che gli stava mescendo del vino di Porto, o d'Oporto che sia. [... ] · Dopo che il terremoto ebbe distrutto Lisbona per tre quarti, nessun prowedimento parve ai savi uomini del paese più efficace a impedire la rovina assoluta, d'un bell'autoda-fé dato al popolo. L'Università di Coimbra sentenziò che la cerimonia di ardere alcune persone a fuoco lento e con gran solennità, era un rimedio infallibile contro gli scotimenti della terra. Erano stati messi in prigione con questo fine un biscaglino, reo d'aver sposato la propria comare, e due portoghesi i quali avevano tolto il lardo da un pollo che stavano mangiando. Dopo il pranzo furono legati il dottor Pangloss e il suo discepolo Candido, il primo per aver parlato, il secondo per averlo ascoltato con aria di consentire. [... ] Candido fu frustato nel sedere a tempo di battuta mentre cantavano; il biscaglino e i due uomini che non aveva n mangiato il lardo del pollo furono bruciati, e Pangloss impiccato per la gola, benché non sia questa l'usanza. Lo stesso giorno la terra tremò nuovamente con un rombo spaventoso. Spaventato, smarrito, impaurito, tutto imbrattato di sangue e tremante da capo a piedi, Candido diceva tra sé medesimo: ((Se questo è il migliore dei mondi possibili, figuriamoci gli altri. Pazienza le frustate; questa m'era già capitata coi Bulgari. Ma caro Pangloss mio! Che voi, cima dei filosofi, siate dovuto morire impiccato dinanzi ai miei occhi senza ch'io sappia nemmen perchélll ~

Voltaire, Candido, in: Candido, Zadig, Micromega, L'ingenuo, Milano, Garzanti 1979, pp. 12-16

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Spiega per qualemotivo Leibniz intende la logica come uno strumento in grado non solo di confermare le conoscenze già note, ma anche di scoprire nuove verità. (max. 5 righe)

Che cosa intende Leibniz per criterio della verità?

In che senso la logica teorizzata da Leibniz può definirsi di tipo matematico?

Distingui le verità di ragione dalle verità di fatto.

Secondo Leibniz, le verità di fatto sono contingenti perché:

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a) nelle verità di fatto il predicato non è contenuto nel soggetto b) l'opposto di una verità di fatto è possibile (cioè non implica una contraddizione) c) l'opposto di una verità di fatto non è possibile (cioè implica una contraddizione) d) le verità di fatto sono vere in tutti i mondi possibili.

Leibniz ritiene che ogni corpo sia composto da un numero infinito di sostanze spiÌ'ituali dette "monadi". Illustra le ragioni addotte da Leibniz per giustificare questa conclusione metafisica. (max. 5 righe)

A giudizio di Leibniz, anche i corpi del mondo minerale, come quelli del mondo vegetale ed animale, sono costituiti da monadi spirituali. Tuttavia, Leibniz istituisce una gerarchia fra le monadi. Su quali basi egli può differenziare i vari tipi di sostanze individuali? (max. 5 righe)

Nel l!ij.ilifJII riportato nell'Antologia, tratto dalla Monadologia, Leibniz distingue fril percezione, appercezione e appetizione. Spiega in che cosa consistono queste tre attività delle monadi. (max. 5 righe)

Massimo Mugnai, nel lijljliJ'!I dell'Antologia, parla della materia di una singola monade ma anche della cosiddetta materia seconda. Che cosa sono questi due diversi tipi di materia? (max. 5 righe)

Quali somiglianze e quali differenze sussistono fra gli atomi di cui parla Gassendi e le monadi te,orizzate da Leibniz? (max. 5 righe)

SEZIONE AUTORI WILHUM LEIBNIZ

La tesi dell'armonia prestabilita proposta da Leibniz per risolvere il problema del rapporto fra la mente e il corpo si distingue da quella cartesiana e da quella degli occasionalisti perché:

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a) Leibniz presuppone che la monade dell'anima e le monadi del corpo possano interagire fra loro

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b) Leibniz presuppone che l'accordo fra la monade dell'anima e le monadi del corpo sia predisposto volta per volta da Dio, che regola di continuo i loro rapporti

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c) Leibniz presuppone che l'accordo fra la monade dell'anima'€ le monadi del corpo sia predisposto da Dio fin dall'eternità

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d) Leibniz presuppone che anima e corpo siano la stessa sostanza considerata da due diversi punti di vista.

Nella Lettera del 1696, riportata nel § 6, Leibniz, per illustrare il rapporto me,ntecorpo, si serve dell'esempio di due orologi sincronici, e dice che la loro concordanza può dipendere da tre motivi diversi. Spiega il significato di questa metafora, e chiarisci perché essa allude alle tre soluzioni del problema: quella di Leibniz, quella di Cartesio e quella degli occasiohalisti, (max. 1Orighe) Perché l'innatismo di Leibniz esposto nei Nuovi saggi sull'intelletto umano può definirsi potenziale o virtuale? (max. 3 righe) Per spiegare il carattere peculiare del suo innatismo e il modo in cui le idee passano dalla virtualità all'attualità, Leibniz, nel brano tratto dai Nuovi saggi sull'intelletto umano riportato nel § 7, si serve dell'esempio del blocco di marmo. In che senso la nostra anima è paragonabile a un blocco di marmo nel quale sono impresse delle venature che delineano la figura di Ercole? (max. 5 righe) Secondo Leibniz, il nostro è il migliore dei mondi possibili perché in esso:

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a) il male metafisica non esiste b) il male morale non è imputabile all'uomo ma è imputabile a Dio c) il nostro mondo è esente da ogni male d) il male esiste, ma nella quantità minore possibile.

Qual è il concetto filosofico che Leibniz intende esemplificare nel brano riporta. to nel § 8, dove egli afferma che ffdiventa insipido nutrirsi sempre di cibi dolci: occorre mescolare gusti agri, acidi ed amari per eccitare il palato. Chi non abbia gustato cibi amari, nongusterà né apprezzerà cibi dolciJJ? (max. 5 righe) Leibniz conclude i Saggi di Teodicea con un racconto fantastico di cui è protagonista Teodoro, gran sacerdote dei romani all'epoca dei re etruschi di Roma. Qual è il significato filosofico di questo racconto? (max. 5 righe)

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la critica della civiltà

l Discorsi

A volte capita che certi filosofi entrino in contrasto con le idee prevalenti nel loro tempo. In questi casi, sino a quando sono in vita, il loro pensiero viene osteggiato, del tutto o in parte·, dagli altri filosofi, dalle istituzioni, dalla società. In seguito, però, può accadere che vengano rivalutati per la profondità e lungimiranza del loro pensieun filosofo ro e assurgano a un ruolo di prima controcorrente grandezza. È questo il caso di Rousseau. Vissuto in Francia nell'età dell'Illuminismo, elaborò teorie in controtendenza rispetto a quelle tipiche degli illuministi; in particolare, negò che il progressivo incivilimento della specie umana comporti anche il suo benessere spirituale: i progressi materiali, le buone maniere, la cultura e l'arte non creano necessariamente un uomo migliore, perché al contrario generano emozioni e passioni insane, come l'egoismo, l'invidia, il proposito di usare gli altri per i propri scopi. Rousseau, si potrebbe dire, ha messo in luce il "lato oscuro" della civilizzazione, ponendo una domanda che ancor oggi ci riguarda: se proviamo a immaginarci la condizione in cui gli uomini vivevano nello stato di natura e la prendiamo come termine di confronto, possiamo dirci più felici di loro?

Quando Rousseau nel1750 partecipò al concorso indetto dall'Accademia di Digione, il tema proposto chiedeva "Se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i 11 progresso delle costumi". Chiedeva, insomma, se il conoscenze è causa progresso scientifico e materiale, fi- di decadenza morale glio di quella ragione tanto esaltata dai filosofi francesi, fosse stato anche un fattore di sviluppo morale, cioè avesse migliorato la natura umana. Rousseau risultò vincitore con il Discorso sulle scienze e le arti, nel quale forniva una risposta negativa al quesito dell'Accademia: lo sviluppo della conoscenza tecnico-scientifica ha portato decadenza morale e non progresso: scienza e tecnica ((Stendono ghirlande di fiori>) sui lacci da schiavo dell'uomo moderno, affinché, con falsa coscienza, si senta uno schiavo felice. La dissimulazione, la doppiezza e l'ipocrisia dominano le relazioni sociali. Per questa condizione di alienazione ed inautenticità l'uomo moderno è infelice, a differenza dei popoli antichi, che avevano il cuore in pace e il corpo in salute. Infatti non è il progresso del sapere che fa apprendere le virtù: queste sgorgano dal cuore, non dall'intelletto. Il progresso culturale e scientifico si è accompagnato dunque alla regres-

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lntus et in cute Sebbene non ne manchino precedenti fin dall'antichità, l'autobiografia è considerata un genere letterario moderno, inventato appunto da Rousseau. Infatti le sue Confessioni danno vita a un modello inedito di narrazione, in cui l'autore ripercorre la propria vicenda interiore senza attribuirle un carattere esemplare o rivelatore di verità superiori. Mi accingo ad un'impresa che non ebbe mai esempio e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quest'uomo sarò io. lo solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quanti ho conosciuto; oso credere che non sono fatto come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di più, almeno sono diverso. [... ] La tromba del giudizio ultimo suoni pure quando vuole; andrò a presentarmi davanti al giudice sovrano con questo libro fra le mani. Dirò a voce alta: "Questo è quanto ho fatto, quanto ho pensato, ciò che io fui. Ho detto il bene e il male con la stessa franchezza. Non ho nulla taciuto di cattivo, nulla ho aggiunto di buono [... ]. Essere eterno, raduna intorno a me l'innumerevole schiera dei miei simili: ascoltino essi le mie confessioni, gemano delle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie. Ciascuno d'essi scopra a sua volta il proprio cuore ai piedi del Tuo trono con la stessa sincerità; e poi uno solo osi dirti: "/o fui migliore di quest'uomo". J~au-Ja~>. Con questa svolta epocale si ampliò la divisione del lavoro. La proprietà privata condusse ad uno scontro di interessi al "diritto" del primo occupante basato sulla fo za si oppose il brigantaggio degli esclusi; nac ue in questa fase storica l'orribile stato di gue ra generale ipotizzato da Hobbes. La risposta ei ricchi a questa situazione di guerra generai fu l'invenzione dello Stato. Lo Stato nasce dunque per la difesa dei privilegi, come espressione del potere dei ricchi a danno dei poveri, nasce ~er trasformare la proprietà di fatto, contestabile con

3 la forza, in proprietà di diritto, difesa dalla legalità e dalla coercizione. Dalla proprietà si generò la disuguaglianza tra ricco e povero, dall'esercizio del potere nelle istituzioni statali la disuguaglianza tra potente e debole, e infine dall'usurpazione e dila disuguaglianza struzione di uno stato ad opera di attuale tra gli uomini un altro, mediante guerre, la diè il prodotto stinzione tra padrone e schiavo. dell'evoluzione La società politica e le leggi ((det-

tero nuove pastoie al debole e nuova forza al riccO>), distrussero la libertà naturastorica

le e assoggettarono per sempre il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. Da queste differenze nacque una società gerarchica. La gerarchia, sottolinea amaramente Rousseau, è un sistema dove ognuno guarda sotto di sé: gli uomini (Wcconsentono a portare delle catene per poter a loro volta incatenare)). Il diritto positivo (le leggi dello Stato) sancisce perciò la disuguaglianza morale tra gli individui, disuguaglianza che risulta infondata rispetto alla ragione, perché ((è manifestamente contrario alla

legge di natura [... ] che un bambino comandi ad un vecchio, che un imbecille guidi un saggio e che un pugno di uomini sia pieno di cose superflue mentre la moltitudine affamata manca del necessariO)). Bisogna dunque riconoscere che la disuguaglianza attuale tra gli uomini non è originaria, ma è invece un prodotto storico posteriore, come nel caso lampante delle differenze per nascita, educazione e cultura, che creano enormi divari tra gli uomini. Il percorso storico che ha condotto l'uomo alla modernità è stato, in conclusione, una decadenza e non un progresso; la prova sta nella corruzione della natura umana e nell'arbitrarietà e parzialità (usurpazione) del potere degli stati assoluti. Si tratta, come è evidente, di conclusioni che stanno agli antipodi della concezione della storia e della cultura prevalente fra gli illuministi.

Il contratto sociale Il capolavoro politico di Rousseau è il frutto di una lenta convergenza di concezioni maturate nel corso del suo tirocinio intellettuale. Seguendo una prima linea di riflessione il filosofo medita con profonda ammirazione sui tratti di virtuosismo eroico dei popoli repubblicani dell'antichità, Greci e Romani, e si chiede: ((Cosa ci impedisce di es-

sere uomini come loro? I nostri pregiudizi, la nostra bassa filosofia, e le passioni di un interesse meschino, concentrate con l'egoismo in ogni cuore, per colpa di istituzioni inette)). Ripensando la breve esperienza politica fatta al servizio Tutto dipende dell'ambasciatore francese a Ve- dalla politica nezia, Rousseau si convince d'altra parte, attraverso un secondo ordine di riflessioni, che gli stati possiedono un eccessivo potere di modellare l'individuo: ((QVevo visto che tutto era radicalmente

legato alla politica, e che [... ] un popolo sarà sempre e soltanto ciò che la natura del suo Governo lo farà essere)), Alla stessa conclusione è portato, altresì, dai ragionamenti sviluppati nei due Discorsi. Occorre attribuire alla società la colpa del fatto che, pur essendo buona e integra la natura originaria umana, col tempo ((gli uomini divengono malvagb) e ((più si radunano e più si corromponO>). I vizi e le deformazioni mon appartengono tanto all'uomo, quanto all'uomo mal governatO)). Occorre dunque correggere le istituzioni politiche per ritrovare un uomo conforme alla propria essenza. Rousseau ribadisce queste conclusioni nella riflessione sull'educazione. Un individuo educato ad assecondare la propria spontanea natura, retto nel giudizio, onesto e incline alla virtù, come sarà l'Emilio dell'opera pedagogica, ha bisogno di una società radicalmente rigenerata, fatta su misura per uomini come lui. Per ripristinare un percorso virtuoso, che garantisca una razionale felicità, individuale e collettiva, serve stabilire, guardando con attenzione alle es p e- La necessità rienze politiche delle antiche de- di un nuovo mocrazie, un nuovo patto fondati- contratto sociale vo del corpo sociale. Un patto d'unione che non

SEZIONEAUTORI Jl:iUi·JACQliES f!OI.I55Eiìll

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PROFILO

3 Il CONTRATTO SOCIAlE N

implichi però una soggezione degli individui a un potere lesivo della loro libertà. In altri termini, si tratta di

I.-l Rousseau, Contratto sociale, a cura di G. Verratana, Torino, Einaudi, 1994

Rinunciando alla libertà naturale, alienandosi alla società, il soggetto umano deve acquistare una libertà per convenzione. 'Alienare' significa cedere qualcosa in cambio di un controvalore. Questo nuovo valore è la conquista di una libertà sociale, una libertà consapevole e responLa libertà come sabile, quindi morale, superiore alpartecipazione della la libertà naturale di cui ci si spovolontà generale glia. Tale libertà si esercita adesso in interrelazione con un nuovo soggetto collettivo, dotato di una volontà generale: «Al posto del-

la persona privata d'ogni singolo contraente questo atto di associazione produce subito un corpo

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morale e collettivo composto di tanti membri, quanti voti ha l'assemblea, il quale corpo riceve da questo atto stesso la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà». Ora, la volontà di questo "lo comune" non può essere che guidata dalla ragione, una ragione universale, che esige di essere potenziata dal contributo dei singoli lumi individuali. Tra soggetto individuale e soggetto collettivo non si mantiene l'estraneità, tipica della visione liberale classica, in cui il soggetto è libero negativamente, cioè mantiene l'arbitrio naturale in tutto ciò che le leggi non proibiscono, e la libertà si riduce a poter fare quello che la legge non proibisce. Il legame tra soggetto e comunità politica, invece, diventa organico, poiché ogni membro è cellula, entra nella vita del nuovo soggetto collettivo. Questo esige da ogni membro che esso sia nella migliore condizione di dignità, moralità e razionalità per partecipare alla pubblica determinazione della volontà generale. Rousseau infatti distingue nettamente tra volontà generale e volontà di tutti. Se, nelle decisioni, ogni soggetto giunge a votare secondo calcolo personale o convenienza, allora si esprime una frazionata somma di egoismi, cioè una volontà di tutti. Invece, se per ogni decisione avviene un pubblico dibattito e una piena presa di coscienza dei problemi e delle possibili soluzioni razionali, se si delibera in vista del bene collettivo, anche a discapito dei propri individuali interessi, allora il corpo politico è nella pienezza delle proprie prerogative e si esprime la vo-

lontà generale. Per comprendere meglio il tema della "volontà generale" è opportuno riferirsi al diritto di proprietà. È innegabile che Rousseau, nel secondo Discorso, abbia valutato in modo assai critico la nascita della proprietà privata. Questo non significa, però, che egli ritenga necessario abolirla nella società futura basata sul "contratto sociale". La proprietà privata è pienamente legittima quando diventa un diritto regolato e limitato dal perseguimento del bene comune, dun-

SEZIONE AUTORI JEAN·JIICQUES ROUSSEAU

7"1

que attraverso l'affermazione della volontà generale. Rousseau afferma esplicitamente che la disuguaglianza economica è ammissibile solo fino a quando la ricchezza di un individuo non arriva a consentirgli di "comprare" i suoi concittadini. Deve esserci, insomma, un equilibrio tra libertà e uguaglianza. Nessuno può, senza sen-tirsi moralmente e logicamente in contraddizione, contrapporsi alla volontà generale, in quanto ogni membro deve essere guidato dalla ferma convinzione che essa si è determinata attraverso una pubblica ricerca razionale alla quale si è doverosamente contribuito. Essendo decisione pubblica, è allo stesso tempo decisione nostra; obbedendole, ubbidiamo a noi stessi e quindi confermiamo la nostra libertà. Nel prescrivere a noi stessi quanto stabilito dalla volontà generale subiamo l'unica forma di coercizione degna di essere subita da un soggetto libero, quella della ragione e della morale. Da questi assunti Rousseau deduce che dentro il corpo politico non è desiderabile che esistano associazioni parziali, ovvero i moderni partiti, in quanto, per definizione, sono portatori di interessi di parte e produrrebbero la meccanica e infondata volontà di tutti. Né ci può essere delega delle decisioni ad una assemblea legislativa; Rousseau pretende un rapporto diretto tra inLa teorizzazione divi duo e corpo politico, al punto della democrazia da dichiarare che un deputato, in diretta una vera democrazia, sarebbe solo un delegato senza potere decisionale. La volontà generale, i cui atti sono le leggi, infatti non si può delegare, sotto nessuna condizione. Il potere legislativo, inalienabile, risiede nell'intero corpo politico: H. Rousseau, Emilio, libro IV, cit.,

liUilil. 1 testo4

pp. 374-375

la natura sublime madre benigna Nella terza lettera al signor di Malesherbes Rousseau rievoca i momenti più felici passati nella residenza deii'Ermitage, presso Montmorency in Francia, un soggiorno breve ma fondamentale per la genesi delle sue maggiori opere. Come racconterà con dovizia di particolari nelle Confessioni, i momenti più belli furono quelli trascorsi in solitudine a diretto contatto con la natura. Passeggiando in campagna il filosofo ginevrino riusciva a pensare con grande intensità, mentre le sue idee si interrompevano appena si metteva fermo a tavolino. Nella descrizione che proponiamo, con perizia di grande scrittore, Rousseau caratterizza un aspetto tipico dell'estetica settecentesca: il Sublime e il senso panico della natura:. Quali periodi signore, credete che io ricordi più spesso e più volentieri nei miei sogni? Non i piaceri della giovinezza, che furono troppo rari, troppo mescolati ad amarezze, e che sono ormai troppo lontani da me. Ricordo invece i giorni della mia solitudine, le mie passeggiate solitarie, quelle giornate rapide ma deliziose, che ho passate tutte intere solo, con me stesso, con la mia buona e semplice governante, con il mio cane prediletto, la vecchia gatta, gli uccelli della campagna e le cerve della foresta, con la natura intera e il suo impercettibile Autore. Alzandomi prima del sole per poter contemplare la sua levata in giardino, quando vedevo cominciare una bella giornata la mia prima speranza era che né lettere né visite venissero a turbarne l'incanto. [... ] Prima dell'una, anche nei giorni di maggior caldo, partivo col sole alto assieme al fedele Acate [il cane] affrettando il passo nel timore che qualcuno venisse ad impadronirsi di me prima che potessi svignarmela; ma, una volta superato un certo angolo della strada, con che batticuore, con che brillio di gioia cominciavo a respirare sentendomi salvo e pensando: eccomi padrone di me stesso per il resto di questa giornata! Mi awiavo allora con passo più tranquillo a cercare qualche luo-

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go selvaggio nella foresta, qualche posto deserto, in cui niente, mostrandomi la mano dell'uomo, potesse ricordarmi l'essere schiavi e l'essere padroni. Un rifugio in cui illudermi di essere penetrato per primo, e dove nessun altro importuno venisse ad interporsi tra la natura e me: era là che la natura sembrava dispiegare una magnificenza sempre nuova. L'oro delle ginestre e il porpora delle eriche colpivano i miei occhi con una ricchezza che toccava il mio cuore, la maestà degli alberi che mi coprivano con la loro ombra, la delicatezza degli arbusti che mi circondavano, la singolare varietà di erbe e di fiori che calpestavo sotto i piedi tenevano il mio spirito sospeso in una continua alternanza di osservazione e ammirazione. 1>

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J.-J. Rousseau, Lettere morali, a cura di R. Vitiello, Roma, Editori Riuniti 1994

la forza non fonda alcun diritto "'··----~-------~---

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In questa celebre pagina di apertura del Contratto sociale Rousseau mette in mostra le sue straordinarie capacità di polemista, aggredendo con forza tagliente le tesi degli assolutisti, secondo i quali un popolo può darsi in soggezione volontariamente o può essere assoggettato con la forza. La prosa confutatoria, asciutta e insieme brillante, e le idee del filosofo saranno ammirate e prese a modello da Kant, Hegel (che chiamava Rousseau "Saint Jacques"), Marx e perfino Nietzsche. L'uomo è nato libero e dovunque si trova in catene. Anche chi si crede il padrone degli altri uomini non è meno schiavo di loro. Come si è prodotto questo cambiamento? Lo ignoro. Cosa può renderlo legittimo? A questo problema credo di poter dare una risposta. Se non prendessi in considerazione che la forza e gli effetti che ne conseguono, direi: finché un popolo è costretto ad obbedire e obbedisce fa bene, appena può scuotere il giogo e lo scuote fa ancora meglio, perché, recuperando la libertà in virtù di quel medesimo diritto che gliel'ha tolta, o è nel pieno diritto di riprendersela o nessuno era autorizzato a togliergliela. [... ] Il più forte non è mai abbastanza forte per rimanere definitivamente padrone, se egli non trasforma la propria forza in diritto e l'obbedienza in dovere. Da cui il diritto del più forte, diritto preso ironicamente in apparenza, e in realtà fissato come principio: ma ci verrà mai spiegato questo termine? La forza è una potenza fisica; non vedo assolutamente quale moralità possa risultare dai suoi effetti. Cedere alla forza è un atto di necessità, non di volontà; tutt'al più è un atto di prudenza. In che senso lo si potrà chiamare un dovere? Ammettiamo, per un momento, questo preteso diritto: penso ne venga fuori un guazzabuglio inestricabile, giacché appena è la forza a costituire diritto, allora l'effetto cambia al mutare della causa: ogni altra forza che superi la precedente le subentra con maggior diritto. Allorché si può disubbidire impunemente lo si può fare anche legittimamente e, dal momento che il più forte ha sempre ragione, si tratta solo di fare in modo di essere il più forte. Ora che razza di diritto è quello che svanisce quando la forza cessa? Se bisogna obbedire per forza, non bisogna obbedire per dovere e quando non si è più forzati ad obbedire non vi si è più obbligati. Si vede dunque che questo termine, diritto, non ha connessione con la forza, in questo caso non ha relazione alcuna. "Obbedite al potere!". Se questa prescrizione significa "cedete alla forza", il precetto è buono, ma superfluo, e posso anche assicurare che non sarà mai violato. "Ogni potere viene da Dio", lo riconosco; ma anche ogni malattia viene da lui. E per questo ne consegue che è proibito chiamare il medico? Supponiamo che un

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brigante mi sorprenda mentre attraverso un bosco: non solo bisogna per forza che gli consegni la borsa, ma, nell'eventualità che io possa metterla in salvo, sono ancora obbligato in coscienza a dargliela ugualmente? Perché, in ultima analisi, la pistola che ha in pugno è anch'essa un potere. Riconosciamo dunque che la forza non fa diritto e che si è obbligati ad obbedire solo ai poteri legittimi. [... ] Dato che nessun uomo ha un'autorità naturale sul suo simile e dato che la forza non crea alcun diritto, restano, come base di ogni autorità legittima tra gli uomini, le convenzioni. ~

J.-J. Rousseau, Contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1994

Il Contratto sociale spiegato ad Emilio Ne/libro V dell'Emilio Rousseau riassume a beneficio del suo allievo le tesi principali del Contratto sociale. In effetti l'opera rappresenta la sintesi di tutte le tesi roussoiane dei precedenti scritti e la si può indicare, come ha fatto il filosofo italiano Giulio Preti, come il capolavoro assoluto del Ginevrino.

Poiché prima di eleggersi un re il popolo è un popolo, che cos'è che l'ha reso tale se non il contratto sociale? Il contratto sociale è dunque la base di ogni società civile ed è dalla natura di questo atto che bisogna dedurre quella della società da esso costituita. Ricercheremo quale sia il contenuto di questo contratto e se non si possa enunciarlo pressappoco con questa formula: "Ciascuno di noi mette in comune i suoi beni, la sua vita e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale, e nel corpo comune accogliamo ogni membro come parte indivisibile del tutto". Presupposto ciò, per definire i termini di cui abbiamo bisogno, osserveremo che in luogo delle singole persone, di ciascun contraente emerge da questo atto di associazione un corpo morale e collettivo, composto da tanti membri quanti sono i voti dell'assemblea. Questa persona pubblica, considerata in generale, assume il nome di "corpo politico", il quale è chiamato dai suoi membri "Stato" quando è passivo, "Sovrano" quando è attivo, "Potenza" se messo a confronto con altri corpi politici simili ad esso. Per quanto concerne i membri, essi prendono collettivamente il nome di "Popolo", chiamandosi in particolare "Cittadini", in quanto membri della civitas o partecipi della sovranità, e "sudditi" in quanto sottoposti a questa medesima sovranità. [... ] Poiché i privati si sono sottomessi soltanto alla sovranità e l'autorità sovrana non è altro che la volontà generale, vedremo come ogni uomo, obbedendo alla pubblica autorità, non faccia che ubbidire a se stesso e come trovi nel patto sociale più libertà che non nello stato di natura. ~

J.-J. Rousseau, Emilio, libro V, cit, pp. 650-652

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Rousseau è giusnaturalista, ma è contro i giusnaturalisti (Hobbes, Grozio). Rousseau è illuminista ma è contro l'ottimismo storico degli altri illuministi. Argomenta queste tesi, per le quali ti offriamo i seguentispunti.

a) Lo spirito competitivo e violento e la sopraffazione sono una condizione naturale o storica per Rousseau? E per Hobbes? b) Il patto sociale può trasformarsi in soggezione per Rousseau? E per Grozio? c) Rousseau ritiene che la ragione sia una dote atemporale ed universale dell'umanità o che sia un prodotto storico? Nell'Emilio Rousseau scrive: «Tutto è bene quando esce dalle mani del Creatore, tutto degenera tra le mani dell'uomo».. Che tipo di religiosità segue Rousseau? Dio e la natura (cfr. il mmD dell'Antologia) in quali rapporti sono? Come si passa da questa tesi a quelle concatenate del Discorso sulle scienze e le arti?

Perché la libertà di ubbidire alle deliberazioni (leggi) della volontà generale è un tipo di libertà qualitativamente superiore a quella goduta dal singolo allo stato di natura?

Quali qualità devono essere realizzate nella formazione educativa - espressa nell'Emilio- del nuovo tipo di uomo?

Rousseau è stato definito dal poeta romantico Heinrich Heine «la testa rivoluzionaria di cui Robespierre altro non fu che la mano esecutrice».. Quali legami sai indicare tra le tesi del grande ginevrino e quelle della Rivoluzione francese?

SEZIONE AUTORI llOLISSEAU

.JEAN~._IACQUES

La teoria della democrazia diretta si regge sul potere di assemblea periodica. Quali sono i limiti di questa idea nella pratica politica degli stati moderni? Pensi che manchino i mezzi, oggi, per praticare la democrazia diretta?

Rousseau è contrario ai partiti organizzati e alla imposizione della Chiesa sullo Stato. Con quali argomenti?

La distinzione tra volontà generale e volontà di tutti è il fondamento della teoria del "contratto sociale" e ha fatto dire a Kant che Rousseau è il «Newton della morale». In cosa consiste questa distinzione e come vi rientra la morale?

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SEZIONE AUTORI

JEAtHACQIJES ROUSSEAU

r;-·;·······Tre domande fondamentali Ogni interesse della mia ragione [... ] si concentra nelle tre domande seguenti: 1) Che cosa posso sapere? 2) Che cosa devo fare? 3) Che cosa posso sperare? ---------- Sono senza dubbio tre domande "fondamentali", queste che Kant dichiara essere al centro dei suoi interessi filosofici. Stanno infatti alla base della nostra esperienza del mondo. Un mondo che ci è dato in primo luogo come oggetto di conoscenze (si pensi solo a quante ne occorrono per orientarsi nella vita di tutti i giorni). Ma che è anche il luogo nel quale agiamo, e valutiamo i motivi, gli scopi, le conseguenze delle nostre azioni e di quelle degli altri. Un mondo che non è "neutro": perché ognuno di noi ci mette dentro la propria personale aspirazione alla felicità. Si potrebbe definirle, queste di Kant, tre domande universali e necessarie, nel senso che non è umanamente possibile fare esperienza del mondo senza portarsele dietro. Le risposte di Kant hanno rivoluzionato la storia della filosofia. Non si esagera a dire che dopo Kant nulla è rimasto com'era prima di lui: né la teoria della conoscenza, né l'etica, né l'estetica, né tantomeno la metafisica, consacrata da una tradizione bimillenaria "regina delle scienze", ma la cui stessa possibilità d'esistenza è divenuta dubbia, sotto i colpi della critica kantiana.

Il "criticismo" Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. La formazione del pensiero di Kant si compie nell'età dell'Illuminismo, che in Germania trova un'espressione autorevole nel razionalismo di Christian Wolff (1679-1754). Kant assimila l'idea secondo la quale il libero eserci- critica e autocritica zio della ragione rappresenta il della ragione principale fattore di progresso della specie umana e non dev'essere pertanto sottomesso a nessuna autorità superiore. La ragione illuministica e kantiana è una ragione "moderna", che ha fatto tesoro della Rivoluzione scientifica, acquisendo un carattere sperimentale: prende le mosse dall'esperienza naturale e storica, sgombra il campo dalle ipotesi superflue, verifica nell'esperienza la validità delle proprie conoscenze e delle proprie leggi. È una ragione critica, perché i suoi nemici naturali sono l'ignoranza, la superstizione e l'inganno, da cui derivano il fanatismo, l'intolleranza, i soprusi che ostacolano il progresso dell'umanità. È dovere della ragione combattere contro di essi, in ogni campo. Questi sono punti fermi del pensiero di Kant. Ma in lui c'è anche un'idea in più: l'idea che la ragione debba sottoporre a critica se stessa. È in conseguenza di quest'idea che la parola 'critica' compare nel titolo delle sue opere principali Critica della ragton pura, Critica della ragion pratica, Critica del giudizio - pubblicate tutte e tre nel corso di quel decennio cruciale della storia europea e mondiale che fu il penultimo del XVIII secolo. , L'esigenza di un'autocritica della ragione coinvolge l'insieme delle facoltà mediante le quali facciamo esperienza del mondo: la facoltà di conoscere (ragion pura), la facoltà di desiderare (cioè di tendere a dei fini, ragion pratica), la facoltà di provare piacere o dispiacere (giudizio). Egli ritiene necessario sottoporre a un esame critico tali facoltà, per accertare le condizioni che ne rendo-

SEZIONE AUTORI IMMIUUIEI. KAtU

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PROfilO

2-

Il "CRITICISMO"

3 no possibile l'uso e i limiti oltre cui esse non possono spingersi. Si eviteranno così due opposte posizioni del pensiero, entrambe improduttive: il dogmatismo, che ha una fede cieca nell'illimitata L'alternativa critica potenza conoscitiva della ragione al dogmatismo umana, e lo scetticismo, che invee allo scetticismo ce la denigra, negando le ogni possibilità di accesso a verità universali. Criticismo significherà per contro istituire un "tribunale" in cui la ragione sia garantita nelle sue "pretese legittime", ma condannata per "quelle che non hanno fondamento". Ed è la ragione stessa a istituire questo tribunale, riaffermando così, nel modo più solenne, la propria suprema autorità.

SCHEDA-FILOSOFIA

La giornata-tipo di Kant La sua giornata era strettamente divisa nelle varie occupazioni; si alzava alle cinque e il fedele domestico aveva ordine di non !asciarlo finché non si fosse alzato. Nel mattino attendeva ai lavori ed alle lezioni; faceva lezioni nella sua stessa casa ordinariamente dalle 7 alle 9 di mattina. Dopo pranzo faceva regolarmente la sua passeggiata; generalmente solo; è in queste passeggiate che sorsero i pensieri fondamentali della Critica. Alla sera meditava nel suo studio guardando dalla finestra l'orizzonte. Di questa regolarità di vita si è voluto fare una specie di mania pedantesca [... ]. Ma non è vero. Kant stesso ci conferma che il suo carattere era impulsivo [... ]. La sua disciplina nella vita fu una voluta economia dello sforzo; un istinto prowidenziale della sua natura geniale che lo spingeva ad eliminare tutte le perdite di tempo e di energia; questo ci spiega il suo sistema di vita regolare e sedentaria, la sua precisione, la cura rigorosa e sistematica della propria salute. [... ] Negli ultimi anni (dopo il1 787) prese l'abitudine di invitare ogni giorno qualcuno dei suoi amici. Questo senso di cordialità e di umanità verso i suoi amici non escludeva però, specialmente negli ultimi anni, un certo amore della solitudine ed un senso di awersione verso gli uomini procedente dall'amara esperienza della loro miserabile natura. Kant visse solo; pensò qualche volta al matrimonio, ma non seppe mai decidersi. ~P.

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Carabellese,Kant, Milano, Bocca 1943, pp. 18-19

Che cosa posso sapere? L'indagine sulla facoltà della conoscenza è condotta nella Critica della ragion pura. Di quest'opera Kant pubblicò due edizioni, nel 1781 e nel 1787. Nel 1783 ne diede anche una versione divulgativa con i Pro lego meni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza. Il fatto è che alla sua prima apparizione, nel 1781, l'opera non aveva suscitato un particolare interesse, era stata fraintesa in aspetti essenziali e considerata astrusa. Per questo Kant vi ritornò sopra, ampliando e in parte rifacendo la prima stesura, e ne precisò gli intenti in una nuova prefazione. Quella prima stesura, del resto, l'aveva scritta di getto, nel giro di pochi mesi, ma dopo una lunga gestazione e non pochi ripensamenti: già nove anni prima, egli aveva annunciato che l'opera era quasi pronta per la stampa!

3.1 Due linee d'indagine L'indagine consiste, in primo luogo, nell'esame delle facoltà che rendono possibile la conoscenza: sensibilità, intelletto e ragione (in- Le facoltà conoscitive: tesa qui, in un'accezione ristretta sensibilità,intelletto, del termine, come facoltà distinta). ragione La sensibilità è la capacità di ricevere sensazioni dagli oggetti; l'intelletto raccoglie il molteplice delle sensazioni sensibili nell'unità di un concetto (nel concetto di mela, per esempio, confluiscono sensazioni tattili, di gusto ecc.). La ragione si distingue dall'intelletto perché non è in rapporto con la sensibilità: infatti non produce concetti che hanno un contenuto sensibile, ma idee relative a oggetti di cui non è possibile fare esperienza con i sensi (p. es. l'idea di Dio). L'esito dell'esame critico a cui vengono sottoposte le facoltà della conoscenza individuerà una linea di frattura tra la sensibilità e l'intelletto da una parte, e la ragione dall'altra: le conoscenze valide sono quelle che scaturiscono dalla "sinergia" fra sensibilità

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l'l e intelletto; invece la ragione porta solo un'illusione di conoscenza. Per 'conoscenze valide' bisogna intendere le conoscenze che possiedono i requisiti dell'universalità e della necessità, cioè quelle che valgono in tutti i casi di loro pertinenza e che non possono essere negate senza contraddizione. Sono le conoscenze scientifiche, quali si trovano nella matematica e, dopo la rivoluzione newtoniana, nella fisica. Come già s'è detto, non è la ragione a fornirle ma il lavoro congiunto di sensibilità e intelletto. Kant non si limita però a tracciare un confine netto tra scienza e illusione; egli si propone anche di legittimare la scienza, risalendo alle condizioni originarie della sua possibilità. Che tali condizioni sussistano, che cioè siano effettivamente possibili conoscenze universali e necessarie, non è scontato. Hume, ad esempio, lo aveva messo in dubbio, tranne che per le verità logiche, sostenendo che la nostra unica fonte di conoscenza è l'esperienza sensibile, la quale però non ci mette in condizione di escludere che le cose possano andare diversamente da come sono andate finora. Il concetto stesso di legge fisica veniva così minato alle fondamenta. Uno degli obiettivi di Kant, nella CRP, è appunto quello di sottrarre la fisica alla presa dello scetticismo humeano. Due linee d'indagine s'intrecciano quindi nella CRP: l'indagine sulle facoltà della conoscenza e l'indagine sulla scienza, di cui devono essere accertate le specifiche condizioni di possibilità.

3.2

l giudizi sintetici a priori Il problema proprio della ragion pura è dunque contenuto nella domanda: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Chiedersi com'è possibile la scienza equivale per Kant a chiedersi come sono possibili i giudizi sintetici a priori. Vediamo perché. Per giudizio

Kant intende una qualsiasi proposizione del tipo "S è P", cioè qualunque connessione fra un soggetto e un predicato mediante una copula. Il giudizio in senso kantiano è quindi l'unità minima della conoscenza: se dico "l'Arno", questa non è ancora una conoscenza, se invece dico "l'Arno è un fiume", questa sì è una conoscenza, per quanto banale. Se paragonassimo l'insieme delle cognizioni umane a un edificio, i giudizi sarebbero i mattoni con cui viene costruito. Per questo Kant riformula la domanda sulla scienza, cioè sulla possibilità di conoscenze universali e necessarie, come una domanda sulla possibilità di giudizi universali e necessari. Vi sono due tipi di giudizi: analitici e sintetici. Quelli analitici sono in effetti universali e necessari, ma non estendono il conte- Giudizi analitici nuto della conoscenza, perché in es- esintetici,apriori si il predicato esplicita un contenuto e a posteriori implicito nel soggetto, senza aggiungere nulla. L'esempio di Kant è "tutti i corpi sono estesi": l'idea di corpo contiene in sé quella di estensione, infatti è impossibile concepire un corpo che non sia esteso. I giudizi analitici sono tutti a priori, cioè si formano indipendentemente dall'esperienza: per sapere che i corpi sono estesi, non serve un accertamento empirico, basta analizzare l'idea di corpo e constatare che non può essere concepita senza il predicato dell'estensione. La validità universale e necessaria dei giudizi analitici è garantita dal fatto che è impossibile negarli senza cadere in contraddizione (dire "nessun corpo è esteso" è come dire "nessun corpo è un corpo"). Nei giudizi sintetici il predicato non viene ricavato dal soggetto ma gli si aggiunge dall'esterno. Nella maggior parte dei casi sono giudizi a posteriori, che si formano sulla base di un'esperienza. Che "alcuni gerani sono rossi", lo so per averli visti, per sentito dire ecc., mentre non potrei saperlo se mi limitassi ad analizzare il concetto di geranio, di cui il colore rosso non è una nota costitutiva (ci sono infatti gerani di altri colori). In confronto ai giudizi analitici, che

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COSA POSSO SAPERE?

hanno una funzione esclusivamente chiarificatrice, i giudizi sintetici a posteriori hanno il merito di portare qualcosa di nuovo nella conoscenza, ma presentano lo svantaggio di non essere universali e necessari, appunto perché sono giudizi a posteriori, cioè fondati sull'esperienza. E come già Hume ha fatto notare, sulla base dell'esperienza non si possono comporre verità universali e necessarie: l'esperienza mostra come una cosa è fatta, ma non dimostra l'impossibilità che sia fatta diversamente. Né i giudizi analitici né i giudizi sintetici a posteriori contengono dunque le condizioni di possibilità della scienza, se per "scienza" s'intende un sapere universale, necessario e ricco di contenuti. Tali condizioni possono trovarsi solo in giudizi sintetici a priori. Vale a dire in giudizi che, in quanto sintetici, incrementano la conoscenza, e in quanto a priori, cioè non fondati sull'esperienza, hanno validità universale e necessaria. Senza questo tipo di giudizi, la scienza sarebbe impossibile. Qui sorge però un problema. L'universalità e necessità dei giudizi analitici è assicurata, come abbiamo visto, dal principio di non contraddizione. Ma in un giudizio sintetico la connessione tra soggetto e predicato non è già implicita nel soggetto e può quindi essere negata senza contraddizione. Poiché dunque l'universalità e necessità dei giudizi sintetici a priori non è garantita dalla logica formale, da quale altra fonte può scaturire? Secondo Kant, la fonte dei giudizi sintetici a priori è da ricercare nelle nostre facoltà conoscitive, e più precisamente nelle loro forme a priori, di cui dovranno essere mostrate l'esistenza e la funzione che svolgono. Mettendo al centro dell'indagine le componenti a priori della conoscenza sensibile, intellettiva e razionale, si risalirà dunque alla fonte dei giudizi sintetici a priori, indispensabili per la costituzione della scienza. L'aggettivo che qualifica questa impostazione della ricerca è una parola chiave della filosofia kantiana: trascendentale.

La funzione dei giudizi

sintetici a priori

278

3.3 Il punto di vista trascendentale Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori. L'indagine non verterà quindi sui contenuti della conoscenza, ma sulle sue condizioni a priori, cioè sulla forma che le conferi- La suddivisione sco no le rappresentazioni a priori della dottrina insite nella sensibilità, nell'intel- degli elementi letto e nella ragione. Avremo così una Dottrina degli elementi bipartita in una Estetica trascendentale (da a(sthesis, "sensazione"), che ha per oggetto le forme a priori della sensibilità, e in una Logica trascendentale suddivisa in due parti, Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale, dedicate rispettivamente alle forme a priori dell'intelletto e a quelle della ragione. Nell'Estetica trascendentale, si mostrerà che forme a priori della sensibilità sono le intuizioni pure dello Spazio e del tempo, SUlle Le forme pure quali si fonda l'universalità e ne- della conoscenza cessità dei giudizi sintetici a p rio- e la sentenza ri della matematica; nell'Analitica della ragione critica trascendentale forme a priori dell'intelletto saranno le categorie o concetti puri, dai quali dipende l'universalità e necessità dei giudizi sintetici a priori della fisica. La Dialettica trascendentale pre-

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t Estetica trascendentale (sensibilità)

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Logica trascendentale

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Dialettica trascendentale (ragione)

SEZIONE AUTORI

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senterà infine le forme a priori della ragione: l'i-

dea di anima, l'idea di mondo, l'idea di Dio. Sono le tre idee su cui si fonda la pretesa della

metafisica di costituirsi come scienza della realtà sovrasensibile. Ma è una pretesa inconsistente, come vedremo: a differenza della matematica e della fisica, che traggono alimento da sensibilità e intelletto, la metafisica tradizionale non è e non potrà mai essere una scienza. Il "tribunale della ragione" emetterà dunque un duplice verdetto. Da un lato apprezzerà la funzione conoscitiva della sensibilità e dell'intelletto, scagionando così la fisica moderna dal sospetto lanciato dallo scetticismo contro l'universalità e necessità delle sue leggi; dall'altro condannerà senza possibilità d'appello la ragione (come facoltà distinta) e la sua illusione che la metafisica sia una scienza, riconoscendo tuttavia che si tratta di un'illusione "necessaria", cioè connaturata nella mente umana.

3.4

l'Estetica trascendentale Leibniz aveva descritto la sensibilità e l'intelletto Le caratteristiche come i due gradi, rispettivamente della sensibilità inferiore e superiore, di un unico e il suo rapporto processo conoscitivo, consistente nel con l'intelletto chiarificare e distinguere rappresentazioni dapprima oscure e confuse. Per Kant sensibilità e intelletto sono invece due facoltà di-

verse e di pari valore, entrambe indispensabili per la conoscenza. Già nella dissertazione del1770 con cui aveva ottenuto la cattedra di logica e metafisica all'università di Konigsberg, Della forma e dei principi del mondo sensibile e intelligibile, Kant era giunto alla conclusione che tra sensibilità e intelletto c'è una differenza di natura e non di grado, e che lo spazio e il tempo sono le forme a priori con cui la sensibilità opera. Si era trattato di un passo importante nella direzione di un punto di vista criticotrascendentale: Kant ne parlò come di una grande luce che gli si era accesa (ma gli ci volle ancora un decennio abbondante per collocare nella nuova prospettiva anche l'intelletto e la ragione). La sensibilità è una facoltà ricettiva. L'inizio della conoscenza presuppone infatti una condizione di passività: noi riceviamo sensazioni da oggetti che sono dati indipendentemente da noi. Se non vi fossero oggetti che colpiscono i nostri sensi, o se noi non potessimo ricevere Lo spazio come forma sensazioni da essi, non vi sarebbe pura dell'intuizione conoscenza. Le sensazioni formano sensibile la materia della conoscenza sensibile, che è una conoscenza di tipo intuitivo: allorché i nostri sensi vengono colpiti da un oggetto, noi abbiamo la certezza immediata, preriflessiva, della presenza di quest'oggetto. È utile precisare che secondo Kant l'intuizione può essere solo sensibile; almeno per gli esseri umani, infatti, è preclusa la possibilità di un'intuizione intellettuale, cioè la possibilità che l'intelletto entri in rapporto con gli ogget-

Estetica trascendentale

Sensibilità

Le intuizioni pure di spazio e tempo

Scientificità della matematica

Analitica trascendentale

Intelletto

l concetti puri o categorie

Scientificità della fisica

Dialettica trascendentale

Ragione

Le idee di anima, mondo, Dio

Impossibilità della metafisica come scienza del sovrasensibile

SEZIONE AUTORI KANT

11\.~MIUUIEl

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3-

CHE COSA POSSO SAPERE?

ti, e abbia certezza immediata di essi, senza passare attraverso la sensibilità. Questo sarebbe possibile solo per un intelletto che crea gli oggetti nell'atto di conoscerli: un intelletto divino, non umano. L'intelletto umano è finito, appunto perché, per poter costruire un oggetto di conoscenza, ha bisogno dei dati acquisiti dalla sensibilità. La materia dell'intuizione sensibile è data all'interno di una forma: è collocata infatti nello spazio e nel tempo. Lo spazio è definito da Kant organo del senso esterno. Tutte le volte che ci rappresentiamo una sensazione come dovuta all'azione di un oggetto esterno a noi, ci rappresentiamo anche lo spazio nel quale quest'oggetto è collocato e in cui si determina la sua posizione rispetto a noi e rispetto ad altri oggetti. La rappresentazione dello spazio accompagna necessariamente tutte le affezioni del senso esterno: non è infatti possibile rappresentarsi un oggetto che colpisca i nostri sensi (p. es. un insetto che ci abbia punto) e che non sia contenuto nello spazio; è invece possibile rappresentarsi lo spazio senza quell'oggetto. Ciò dimostra che mentre la rappresentazione dell'oggetto è tratta dall'esperienza, quella dello spazio è presente in noi prima e indipendentemente da qualunque esperienza: è una rappresentazione pura. Lo spazio non ha dunque una realtà oggettiva, indipendente da noi, secondo la tesi della fisica newtoniana, ma non è nemmeno una proprietà dei rapporti fra gli oggetti, come ha sostenuto Leibniz. La rappresentazione che ne abbiamo non deriva dai contenuti dell'esperienza sensibile, ma è il presupposto e la condizione affinché tali contenuti vengano acquisiti come oggetti dell'intuizione. Lo stesso discorso vale per il tempo, in riferimento però al senso interno. Tutte le rappresentazioni dei nostri stati psicofisici sono accompa11 tempo organo del gnate dalla rappresentazione della senso interno, ma successione temporale in cui ognuanche di quello esterno no di essi s'inserisce. E, di nuovo, mentre è possibile rappresentarsi un tempo in cui non si verifica un certo stato (p. es. il mio attuale malumore), non è possibile rappresentarsi uno

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SEZIONE AUTORI IMMAI\IIIEL l-

L Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 41-42

lfD La volontà buona [In conclusione] nulla è possibile pensare nel mondo, anzi in generale nulla anche fuori di esso, che possa esser considerato come buono senza restrizione, eccetto solo una buona volontà. Rappresentarsi la legge in se stessa - ciò che può aver luogo soltanto in un essere ragionevole e fare di questa rappresentazione- non dell'effetto atteso- il motivo determinante della volontà, ecco ciò che costitqisce quel bene così elevato che noi chiamiamo morale, e che è già presente nella

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SEZIONE AUTORI IMMANIJEL KANT

persona stessa che opera secondo quella rappresentazione, senza che debba essere aspettato dall'effetto dell'azione. La buona volontà è tale non in grazia dei suoi effetti o dei suoi successi, né della sua attitudine a conseguire questo o quello scopo proposto, ma soltanto per il volere, ossia per se stessa; e, considerata per sé sola, dev'essere stimata senza paragone superiore a tutto ciò che si può fare per mezzo di essa in favore di qualche inclinazione o anche, se si vuole, in favore della somma di tutte le inclinazioni. Quando pure per una speciale awersità della sorte o per l'avarizia d'una natura matrigna venisse a mancare a questa volontà ogni mezzo per attuare i suoi disegni; quand'anche essa non ricavasse nulla dai suoi più intensi sforzi; quand'anche non dovesse rimanere che la sola buona volontà (e s'intende che questa non è semplice velleità, ma implica l'uso di tutti i mezzi che sono a nostra disposizione), essa brillerebbe tuttavia per se stessa, come una pietra preziosa, poiché trae da sé medesima tutto il suo valore. L'utilità o inutilità sua non può nulla aggiungere e nulla togliere al suo valore. L'utilità sarebbe soltanto come unà incastonatura del gioiello, che può renderlo più maneggevole negli scambi o attirare su di esso l'attenzione di coloro che non sono ancora esperti conoscitori, non già raccomandarlo agli intenditori e determinarne il valore La dignità del dovere non ha nulla a che fare con le gioie della vita; essa ha la sua propria legge, essa ha anche il suo proprio tribunale[ ... ]. 1> Cit., pp. 37-38

DJ Morale ereligione: i postulati della ragion pratica La virtù (come merito di essere felice) è la condizione suprema di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile, quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità; e quindi è il bene supremo. Ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiede anche la felicità e invero non semplicemente agli occhi interessati della persona che fa di se stessa lo scopo, ma anche al giudizio di una ragione disinteressata che considera la virtù in genere nel mondo come fine in sé. Poiché aver bisogno di felicità ed esserne anche degno ma tuttavia non esserne partecipe, non è affatto compatibile col volere perfetto di un essere razionale, il quale nello stesso tempo avesse l'onnipotenza, solo che tentiamo di rappresentarci un tal essere. Ora, in quanto virtù e felicità costituiscono insieme in una persona il possesso del sommo bene, per questo anche la felicità, distribuita esattamente in proporzione della moralità (come valore della persona e suo merito di esser felice), costituisce il sommo bene di un mondo possibile; questo bene significa il tutto, il bene perfetto, in cui però la virtù è sempre, come condizione, il bene supremo, perché essa non ha nessuna condizione al di sopra di sé, e la felicità è sempre qualcosa che per colui che la possiede è bensì piacevole, ma non è buona per sé sola assolutamente e sotto ogni rispetto, e suppone sempre come condizione la condotta morale conforme alla legge. Ma la conformità completa della volontà con la legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza. Poiché essa, mentre nondimeno viene richiesta come praticamente necessaria, può esser trovata soltanto in un progresso che va all'infinito verso quella conformità completa, e, secondo i principi della ragion pura pratica, è necessario ammettere un tale progresso pratico come l'oggetto reale della nostra volontà. Ma questo progresso infinito è possibile solo supponendo un'esistenza che continui all'infinito, e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama l'immortalità dell'anima).

SEZIONE AUTORI IMMANUEL KANT

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Dunque, il sommo bene, praticamente, è soltanto possibile con la supposizione dell'immortalità dell'anima; quindi, questa, come legata inseparabilmente con la legge morale, è un postulato della ragion pura pratica (col che io intendo una proposizione teoretica, ma come tale indimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una legge pratica che ha un valore incondizionato a priori), [... ] Questa stessa legge deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, cioè alla felicità proporzionata a quella moralità, con tanto disinteresse come prima, per semplice e imparziale ragione, [.. ,] cioè deve postulare l'esistenza di Dio. [... ] La felicità è la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, in tutto il corso della sua vita, tutto awiene secondo il suo desiderio e la sua volontà, e si fonda quindi sull'accordo della natura col fine totale di esso[ ... ]; ma l'essere razionale agente nel mondo non è tuttavia nello stesso tempo causa del mondo e della natura stessa. Dunque, nella legge morale non vi è il minimo principio di una connessione necessaria fra la moralità e la felicità, ad essa proporzionata, di un essere che appartenga al mondo come parte, e perciò dipenda da esso[ ... ]. Perciò la morale non è propriamente la dottrina che ci insegna come dobbiamo farci felici, ma come dobbiamo diventar degni della felicità. Solo quando la religione sopraggiunge, viene anche la speranza di partecipare un giorno alla felicità nella misura che avremo procurato di non esserne indegni. 1>

Il giudizio estetico

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testo 3 ·

l. Kant, Critica della ragione pratica, cit., pp. 135-157

Proponiamo qui a seguire un itinerario antologico di brani, tratti dalla Critica del giudizio, nei quali Kant espone la sua concezione estetica.

ID Il carattere soggettivo del giudizio di gusto Per discernere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all'oggetto mediante l'intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l'immaginazione (forse congiunta con l'intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo fondamento può essere soltanto soggettivo. 1>

l. Kant, Critica del giudizio, Bari, Laterza 1974, p. 43

m Il bello come oggetto di piacere disinteressato È detto interesse il piacere, che noi congiungiamo con la rappresentazione dell'esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto necessariamente connesso col movente stesso. Ma, quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuoi sapere se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza; ma come la giudichiamo contemplandola semplicemente (nell'intuizione o nella riflessione). Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che mi è davanti, io posso ben dire che non approvo queste cose fatte soltanto per destar stupore, o rispondere come quel Sachem irocchese, cui niente

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SEZIONE AUTORI IMMANIJiil KANT

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a Parigi piaceva più delle bettole; posso anche biasimare, da buon seguace di Rousseau, la vanità dei grandi, che spendono i sudori del popolo in cose tanto superflue; infine, posso anche facilmente convincermi che, se mi trovassi su di una isola deserta senza speranza di tornar tra gli uomini, e potessi magicamente col solo mio desiderio elevare un sì splendido edificio, io non mi darei nemmeno questa pena, sol che avessi già una capanna che fosse abbastanza comoda per me. Mi si può concedere ed approvare tutto ciò; ma gli è che non si tratta di questo: si vuoi sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell'oggetto è accompagnata in me da piacere, per quanto, d'altra parte, io possa essere indifferente che dal mio rapporto con l'esistenza dell'oggetto dipende che si possa dire se esso è bello, e che io provi di aver gusto. Ognuno deve riconoscere che quel giudizio sulla bellezza, nel quale si mescola il minimo interesse, è molto parziale e non è un puro giudizio di gusto. Non bisogna essere minimamente preoccupato dell'esistenza della cosa, ma del tutto indifferente sotto questo riguardo, per essere giudice in fatto di gusto. [... ] Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione. [... ]Il giudizio col quale si dichiara piacevole un oggetto, esprime un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili, e per conseguenza il piacere non presuppone il semplice giudizio sull'oggetto, ma il rapporto della sua esistenza col mio stato, in quanto sono affetto da un tal oggetto. [... ] Non è una semplice approvazione che io gli concedo, ma in me si produce un'inclinazione. [... ]Il giudizio di gusto, invece, è puramente contemplativo, è un giudizio, cioè, che, indifferente riguardo all'esistenza dell'oggetto, ne mette solo a riscontro i caratteri con il sentimento di piacere e di dispiacere. Ma questa contemplazione a sua volta non è diretta a concetti; perché il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza (né teoretico né pratico), e per conseguenza non è fondato su concetti. ~

Cit., pp. 44-46

m L'universalità senza concetto del bello Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l'oggetto di un piacere universale. Questa definizione del bello può esser dedotta dalla precedente, per la quale esso è l'oggetto di un piacere senza alcun interesse. Infatti colui che sa di essere disinteressato nel piacere che prova di qualche cosa, non può giudicare la cosa medesima se non come contenente un motivo di piacere che sia valevole per tutti. Non essendo il piacere fondato su qualche inclinazione del soggetto, o su qualche altro interesse consapevole, e sentendosi colui che giudica completamente libero rispetto al piacere che dedica all'oggetto, egli non potrà trovare alcuna condizione particolare, esclusiva del suo soggetto, come fondamento del piacere, e dovrà quindi considerarlo fondato su qualcosa, che si possa presupporre anche in ogni altro; per conseguenza, dovrà credere di avere ragione di pretendere dagli altri lo stesso piacere. [... ] Al giudizio di gusto, poiché in esso v'è coscienza del disinteresse, deve unirsi quindi l'esigenza della validità per ognuno, sebbene tale validità non sia connessa agli oggetti; il giudizio di gusto deve pretendere all'universalità soggettiva. Per ciò che riguarda il piacevole, ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli piace, ha valore solo per la sua persona. Perciò quando qualcuno dice: {di vino delle Canarie è piacevole)) accetta che gli si corregga l'espressione e gli si ricordi che deve dire: {{è piacevole per me))- e così per gli altri gusti: per uno il colore della violetta è dolce ed amabile, per l'altro è cupo e smorto. [... ] Sicché in fatto di piacevole vale il principio: ognuno ha il proprio gusto.

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Per il bello la cosa è del tutto diversa: sarebbe ridicolo se uno dicesse: questo oggetto è bello per me. Perché non deve chiamarlo bello se gli piace semplicemente. Molte cose possono avere per lui attrattiva, questo non importa a nessuno; ma quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per tutti, e parla quindi della bellezza come se fosse ùna qualità della cosa. Non chiede il consenso degli altri, lo esige. È bello ciò che piace universalmente senza concetto. ,. Cit., pp. 53-54

DIII genio Il genio è il talento (dono naturale), che dà la regola all'arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell'artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere così: il genio è la disposizione innata dell'animo (ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola dell'arte. Checché ne sia di questa definizione, sia essa semplicemente arbitraria, o adeguata al concetto che comunemente si associa alla parola genio (ciò che dev'esser chiarito nel paragrafo seguente), si può sempre dimostrare in precedenza che, secondo il significato della parola che abbiamo accolto, le arti belle debbono essere necessariamente considerate arti del genio. Difatti, ogni arte presuppone delle regole, sul fondamento delle quali ogni produzione, che debba essere chiamata artistica, è rappresentata come possibile. Ma il concetto dell'arte bella non permette che il giudizio sulla bellezza del suo prodotto sia derivato da qualche regola che abbia a fondamento un concetto, il quale determini come il prodotto sia possibile. Sicché l'arte bella non può trovare da se stessa la regola secondo cui deve realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto non può mai chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all'arte nel soggetto (mediante la disposizione delle sue facoltà), vale a dire l'arte bella è possibile soltanto come prodotto del genio. Da ciò si vede quanto segue: 1) il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata, non un'attitudine particolare a ciò che può essere appreso mediante una regola; per conseguenza, l'originalità è la sua prima proprietà. 2) Poiché vi possono essere anche stravaganze originali, i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari; quindi, benché essi stessi non siano nati da imitazione, devono tuttavia servire per gli altri a ciò, vale a dire come misura e regola del giudizio. 3) Il genio stesso non può mostrare scientificamente come compie la sua produzione, ma dare la regola in quanto natura; perciò l'autore di un prodotto, che egli deve al proprio genio, non sa esso stesso come le idee se ne trovino in lui, né ha la facoltà di trovarne a suo piacere o metodicamente delle altre, e di fornire agli altri precetti che li mettano in condizione di eseguire gli stessi prodotti. (È perciò, probabilmente, che la parola genio è stata derivata da genius, che significa lo spirito proprio di un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo protegge, lo dirige, e dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali). 4) La natura mediante il genio non dà la regola alla scienza, ma all'arte, e a questa soltanto in quanto dev'essere arte bella. ,. Cit., pp. 166-167

m Il bello eil sublime Il bello si accorda col sublime in questo, che entrambi piacciono per se stessi. [... ] Ma saltano agli occhi anche delle differenze considerevoli. Il bello della natura riguarda la forma dell'og-

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getto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell'illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità; sicché pare che il bello debba esser considerato come l'esibizione d'un concetto indeterminato dell'intelletto, e il sublime come l'esibizione d'un concetto indeterminato della ragione. Nel primo caso il piacere è quindi legato con la rappresentazione della qualità, nel secondo invece con quella della quantità. Tra i due tipi di piacere c'è inoltre una notevole differenza quanto alla specie; mentre il bello implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita, e perciò si può conciliare con le attrattive e con il gioco dell'immaginazione, il sentimento del sublime invece è un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione, delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non si presenta affatto come un gioco, ma come qualcosa di serio nell'impiego dell'immaginazione. Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e, poiché l'animo non è semplicemente attratto dall'oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo. Ma ecco la più importante ed intima differenza tra il sublime e il bello: se, com'è giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il sublime degli oggetti naturali (quello dell'arte è limitato sempre dalla condizione dell'accordo con la natura), troveremo che la bellezza naturale (per sé stante) include una finalità nella sua forma, per cui l'oggetto sembra come predisposto per il nostro Giudizio, e perciò costituisce essa stessa un oggetto di piacere; mentre ciò che, senza ragionamento, nella semplice apprensione, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, riguardo alla forma, contrario alla finalità per il nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà d'esibizione e quasi come violento contro l'immaginazione stessa, nondimeno però soltanto per esser giudicato tanto più sublime, quanto maggiore è tale violenza. 1>

Cit., pp. 91-92

LETTURA CRITICA

Presentiamo un'analisi critica di Remo Bodei sul concetto kantiano di sublime.

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Il termine ((SUblime)) - reso in tedesco con das Erbabene, owero ciò che è elevato, sublimato, sollevato rispetto allivello della volgarità- allude in Kant più che alla paura, a quello che è degno di ammirazione e di rispetto, in quanto mostra, simultaneamente, la nostra sproporzione e la nostra superiorità di esseri razionali nei suoi confronti, come è il caso, sin troppo famoso, del ((Cielo stellato sopra di me)) e della (degge morale in me)). L'elemento di rispettoso e religioso timore, il numinosum attribuito al sublime, era stato nel mondo antico prerogativa del bello. Ora viene derubricato a ciò che è attraente e femminile, alla leggiadria di ((prati in fiore, valli percorse da rivi serpeggianti, disseminate da greggi al pascolO)) oppure alla grazia di una tabacchiera, di un mobile o di un giardino, al gioco armonico, cioè, di intelletto e fantasia. Il sublime, assumendo invece su di sé i nobili, virili e massicci tratti del dissidio tra immaginazione e ragione, diventa capace di ridare al sentimento quello choc che il bello non riesce più a trasmettergli, perché ha dimenticato la dimensione ((Verticale)), !'((altezza)) dell'animo umano, la passione e la profondità, il pathos e il batbos. L'immaginazione cerca cosi di ((esibire)) sensibilmente l'idea razionale di totalità, senza riuscirei, ma anche

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senza abbandonare i suoi sforzi: la ragione vuole l'assoluto, sebbene l'idea in quanto tale rifiuti di venir rappresentata in forma sensibile. Kant reintroduce in tal modo il problema dell'incommensurabilità, che sembrava essere stato risolto dalla seconda scuola pitagorica. L'immaginazione che insegue l'idea, oggetto del suo desiderio, non conosce limiti. Per questo il conflitto tra immaginazione e ragione non trova adeguata traduzione né in termini sensibili, né in termini concettuali. La forma ha vita effimera: viene incessantemente disintegrata da ogni successivo scontro tra le due facoltà in lotta. Non può dunque venir articolata in maniera armonica, in quanto la sua disarmonia è costitutiva (al ((piacere negativm di mirare all'infinito e di maufragare)) in esso, si somma il dolce dispiacere di non riuscire a coglierlo). Infatti, dato che l'impressione del sublime viene prodotta ((dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione delle forze vitali)), ossia da una paura e da uno smarrimento dominati e vinti, il suo piacere f10n può contenere ((Una gioia positiva)), bensì un ininterrotto alternarsi di attrazione e repulsione per l'oggetto che la suscita, il che produce anche una contraddittoria elaborazione/cancellazione della forma. In realtà l'impressione del sublime non è causata da fattori esterni. Ha in noi la sua origine e il suo campo di battaglia ed è soltanto grazie a una illusione ottica che il suo effetto ci sembra scaturire dalla natura, mentre esso non è altro che:

un sentimento di stima per la nostra propria destinazione, che con una specie di sostituzione (scambiando in stima per l'oggetto quella per l'idea di umanità nel nostro soggetto), attribuiamo ad un oggetto della natura, il quale ci rende quasi intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive, anche sul massimo potere della sensibilità. Sia il ((Sublime matematicO)) (esperito dinanzi all'estensione infinita che sgomenta l'uomo a causa della vastità dell'universo), sia il ((Sublime dinamiCO)), provocato dal manifestarsi virtualmente distruttivo delle grandi forze della natura- mel suo maggiore e più selvaggio disordine e nella devastazione))- spingono verso la percezione a distanza dell'incomponibile contesa tra la violenza cieca della natura e la fragile libertà dell'uomo, umiliata ma non vinta dall'immensità e dallo strapotere del mondo. La gioia che si prova esprime la gratitudine per uno scampato pericolo, così che il sublime si potrebbe paragonare a un ex-voto offerto per l'acquisita consapevolezza della nostra capacità di innalzarci, ((ai di sopra della mediocrità ordinarim e della ((apparente onnipotenza della natura)). In questa prospettiva, si mostrano sublimi (da visione di un monte le cui cime innevate si levano sopra le nubil), le (mite querce e ombre solitarie in un bosco sacro)) o le ((rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice)). 1>

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SEZIONE AUTORI IMMIUUIEL KANT

R. Bodei, Le forme del bello, Bologna, Il Mulino 1995, pp. 87-89

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Spiegaqualè il significato del termine trascendentale in Kant. •

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Spiega perché secondo Kant la scienza non può fare a meno dei giudizi sintetici a priori e .in che. cosa consiste la difficoltà di provare la validità di tali giudizi.

(max. 5 righe) Riassumi le argomentazioni addotte da Kant a sostegno della tesi che spazio e tempo. sono intuizioni pure e non empiriche. (max. 5 righe)

Commenta il seguente passo della CRP, concernente il rapporto tra sensibilità e intelletto. ··,



da nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali dell'animo, di cui la prima consiste nel riceverete rappresentazioni (la recettività delle impressionij, e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto per mezzo di queste rappresentazioni (spontaneità deiconcettij. [... ] Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all'altra. Senza sensibilità, nessun aggettaci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. l pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche;;. Spiega in che cosa consiste la "rivoluzione copernicana" che Kant ritiene di avere introdotto nella teoria della conoscenza . •





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Spiega qual è la funzione dei concetti puri dell'intelletto e in particolare di quello di causa. (max. 5 righe)

Spiega perché secondo Kant la metafisica tradizionale non è e non potrà mai essere una scienza. (max. 5 righe)

Chiarisci il significato della distinzione tra uso costitutivo e uso regolativo delle idee della ragione che si ricava dal seguente passo della Dialettica trascen-

dentale.

rrLa ragione non si riferisce mai direttamente a un oggetto, ma sempre soltanto all'intelletto, attraversai/ quale accede al proprio uso empirico. [... ]/o asserisco, dunque, che le idee tra-

SEZIONE AUTORI IMMA!\IUEI. KANT

scendentali sono inadatte a qualsiasi uso costitutivo, per cui debbono fornire concetti di oggetti,· e che se sono intese in questo modo, si risolvono in semplici concetti raziocinanti (dialetticij. Esse hanno però un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, consistente nel dirigere l'intelletto verso un certo scopo, in vista del quale le linee direttive delle sue regole convergono in un punto, che- pur essendo null'altro che un'idea (focus imaginarius), cioè un punto da cui non possono realmente provenire i concetti dell'intelletto, perché è fuori dell'esperienza possibt'le - serve tuttavia a conferire a tali concetti la massima unità ed estensione possibile [... ].JJ Verifica se le seguenti proposizioni, dal punto di vista dell'etica kantiana, sono vere o false. Motiva le tue risposte.

a) Il passaggio dall'ambito teoretico all'ambito pratico comporta una rivalutazione della ragione intesa come facoltà dell'incondizionato. b) La capacità di agire moralmente si acquista con l'esperienza. c) Tutte le azioni legali sono anche azioni morali. d) Valgono come leggi morali tutte le massime che superano il test dell'universalizzazione. e) La libertà è il-fondamento dell'agire morale. f) La felicità terrena è una conseguenza automatica della virtù. g) La santità è un ideale irraggiungibile per gli esseri umani. h) Il desiderio di vivere virtuosamente nasce dalla speranza di essere ricompensati da Dio in proporzione ai nostri meriti. i)

L'immortalità dell'anima è condizione necessaria ma non sufficiente del Bene sommo.

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Spiega qual è il significato della distinzione tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti.

Precisa la caratteristica che il bello e il sublime hanno in comune, e quali sono le caratteristiche per cui si distinguono. (max. 5 righe)

SEZIONE AUTORI IMMAtmEL KIU~T

hakespeare ha scritto La tempesta alla fine della sua carriera, che si svolge quasi tutta nei due decenni a cavaliere del 1600. L'opera di Shakespeare accompagna ed esprime un periodo di transizione: dal Cinquecento, l'età dell'apogeo e della crisi della cultura umanistico-rinasci~ mentale in Europa, al Seicento, l'età del Barocco. Storicamente, almeno tre grandi processi o fatti storici caratterizzano questa transizione: la rottura dell'unità religiosa, che cambia tutto l'orizzonte non solo politico, ideologico, morale, ma anche della sensibilità e dell'arte (nascono nuovi modi di rappresentazione, nuovi bisogni sentimentali, nuove idee e prospettive circa il rapporto dell'uomo con la bellezza, con la verità, con la storia, con Dio che confluiranno nella cultura del Barocco); il cambiamento dello spazio del mondo (la scoperta di un altro mondo, di un'altra umanità, di un'altra natura); la nascita dello stato moderno, con il passaggio da una struttura feudale a una amministrazione accentrata e l'awio di una nuova collocazione delle classi sociali in rapporto al potere centrale. Per comprendere l'opera di Shakespeare, e La tempesta in particolare, bisogna tener presente lo sfondo di incertezza, di indecisione, di trapasso che caratterizza il passaggio dal Cinquecento al Seicento. ((il mondo è fuori dai cardini>l dice Amleto. Sui palcoscenici elisabettiani sta nascendo l'uomo moderno - che è solo, esposto al rischio, responsabile delle sue decisioni ma ignaro e im-

potente rispetto alle loro conseguenze e alla realtà complessiva in cui si inseriscono. Non è soltanto un uomo per cui il bene e il male stanno diventando dubbi, relativi, prowisori; ciò che si awerte tremare sulle sue fondamenta, travestirsi e nascondersi in diverse apparenze è la realtà stessa, la realtà in quanto tale. Che cosa è veramente reale? Sarà la grande domanda dell'età barocca - quella della vertigine, dell'eccesso, del punto di vista relativo fino al delirio, del teatro e del sogno. Questa domanda nasce con il teatro di Shakespeare - e con almeno altre due grandi opere, artistico-filosofiche, che gli sono strettamente contemporanee. l Saggi di Montaigne, prima di tutto, dove si fa la scoperta che quello che chiamiamo un uomo, un individuo, eventualmente noi stessi, non sappiamo esattamente che cosa sia. Dobbiamo andarlo a cercare, in tanti casi e risvolti e incidenti in cui possiamo sorprenderlo, ma incontriamo ogni volta qualcosa di un po' diverso, perché non c'è, all'inizio, alla base, una realtà sempre uguale e stabile della coscienza. C'è un processo infinito di possibilità che si realizzano, ma solo parzialmente, di condizioni che possono essere diversamente interpretate, di verità prowisorie. La situazione dell'io è fluida come quella di un personaggio di romanzo. Come quella, mettiamo, di Don Chisciatte, e di Sancho. li loro mondo è incantato. Il romanzo "dice la verità" del mondo, ma la può vedere solo dall'interno di altre verità, verità soggettive, molteplici, in contrasto tra loro.

Caroline Watson da Robert Edge Pine, Miranda: «Che cosa è? Uno spirito?», 1782

Ciascuna è un mondo in sé. Una verità comune, che sarebbe la verità "totale" del mondo, non nasce dalla somma di queste verità parziali: se c'è, rimane in sospeso, si trova da qualche parte al di là delle ragioni e dei torti. Un simile mondo incantato è il mondo della Tempesta. Incantato, prima di tutto, perché circola in esso un potere misterioso, perché i sensi, la percezione delle cose non obbediscono a leggi ordinarie. Tutto è nuovo, insolito, "miracoloso". l personaggi che si trovano nell'ambiente dell'isola sono in balia di scoperte continue, avanzano nell'ignoto, i loro sensi, la loro ragione, la loro volontà sono come in sospeso. Prendiamo un esempio che può sembrare estraneo ad ogni influsso magico, la storia di Miranda e Ferdinando, il loro amore a prima vista. Nulla di strano, apparentemente, un "colpo di fulmine" adolescenziale. Senonché non molte adolescenti condividono la situazione di Miranda: quella di essere arrivata all'età dell'amore senza aver mai visto un uomo che non fosse un vecchio, o un mostro. Quando Prospero dice alla figlia di "aprire gli occhi" sul giovane principe, e Miranda si mostra subito rapita nella contemplazione di questa brave form (come tradurre? "aspetto meraviglioso"?), il commento tra sé e sé del mago è: «Spirito, spirito leggiadro, ti libererò tra due giorni per questo)); si tratta evidentemente di Ariele. Come se l'innamoramento dei due giovani fosse l'effetto di un sortilegio- ma noi non sappiamo che lo spirito abbia avuto

disposizioni in questo senso. Ma rileggiamo le parole di Miranda alla vista del principe: «Che cos'è? Uno spirito? Ha un aspetto meraviglioso. Ma è uno spirito. Potrei chiamarlo una cosa divina: niente di naturale ho visto mai così nobile)). Miranda dà subito a Ferdinando la qualità di Ariele, lo crede a spirit. Il suo amore a prima vista non è affatto "'naturale": perché Ferdinando le appare come una scoperta, una novità insospettata, è l'apparizione di un evento soprannaturale (a thing divine). Niente nell'isola può essere come altrove: Ferdinando non è semplicemente un bel giovane, e Miranda per lui non è una "bella ragazza". Anzi, sarà poi una ragazza? Ma no, ((Certamente la dea che queste arie accompagnano. [... ] La mia prima domanda, che pronuncio per ultima, è: siete voi una fanciulla, o essere meraviglioso?)). L'amore tra Miranda e Ferdinando nasce di qui. Ciascuno vede nell'altro la materializzazione inattesa, e insperata, di un ente, una forma, che ha tutte le ragioni di attribuire dapprima a un mondo soprannaturale, sovraumano. La scoperta reciproca di essere creature in carne ed ossa non annulla questa impressione, ma anzi la rafforza: l'entusiasmo che li prende è quello di chi ha scoperto che il mondo di quaggiù, quello dei sensi, può conservare l'impronta, può riprodurre un'essenza, un principio di perfezione superiore. L'isola è dunque un luogo in cui la realtà sensibile si trova mescolata con tutti gli influssi del soprannaturàle è dell'ignoto - chiunque vi si trovi diventa partecipe di

realtà diverse e contraddittorie, che oscillano tra la coscienza comune e la verità dell'ideale e del sogno. "L'isola che non c'è", nella retorica del Cinquecento, ha avuto un'importantissima funzione. Nel 1516 un grande umanista inglese amico di Erasmo, Thomas More, aveva dato alle stampe la sua Utopia: questo nome, calco del greco "nessun luogo", sa'" rebbe diventato quello di un genere letterario e insieme di una forma del pensiero politico - la descrizione di sistemi di governo perfetti, come se· fossero messi in pratica in un luogo reale, che naturalmente non è i tificato tra quelli conosciuti. In un clima di scoperte geografiche, l'isola perduta da qualche parte nei vasti oceani era naturalmente la finzione più plausibile, per chi volesse immaginare la sede di una comunità uma~ na perfettamente giusta e razionale. Nella Tempesta, l'isola è il luogo di esperimento che consiste in questo: situare temi e problemi della condizione umana (ne abbiamo visto l'amore dei due giovani) in un mondo completamente diverso da quello proprio dell'uomo, un mondo che allar-· ga e trasforma i limiti di ciò che è pos~ si bile, annulla la divisione tra il reale e l'immaginario, e così può diventaré persino un mondo capovolto, in cui le forme ordinarie della vita prendono un significato inatteso, originale; Per questo Shakespeare dà alla sua isola una storia, un carattere molto precisi, la rappresenta come un luogo eccezionale che ha una sua propria legge, una sua particolare ra. Non è la magia di Prospero che

riflettiamo insiern su: ragione, sogno, illu

~

William Hogarth, Scena da "La tempesta", 1753

l'ha incantata. A prescindere da lui~ il luogo in cuici troviamo esercita l~ sua azione, manifesta il suo InflussO: come un ambiente nuovo e stravol~ gente perl'esperienza umana. Rileg1 giamo questi versi famosi: >. Per quale motivo? Perché così facendo, afferma Galilei, finiremmo per attribuire a Dio, ad esempio, delle caratteristiche umane, dato che nella Bibbia il Creatore viene spesso descritto con caratteri simili ai nostri. Non può essere questa la verità, ma, se le descrizioni sono di quel tipo, esiste una ragione: le sacre scritture sono state formulate in linguaggio tale da adattarsi a tutti, ossia anche, e soprattutto, alle persone più ignoranti, che non avrebbero mai compreso discorsi da teologi o da filosofi. Nella seconda parte del testo, a partire dalle parole e le ~~necessarie dimostrazioni», ovvero le basi fondamentali del metodo scientifico galileiano. Più avanti, Galilei afferma che la tesi eliocentrica avanzata da Copernico non è poi una novità, dato che, già nel mondo antico, diversi autorevoli pensatori l'avevano sostenuta. In seguito, prende in considerazione la tesi secondo la quale la teologia è la regina della scienze: è una tesi da condividere, ma con alcune, significa tive, precisazioni.

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SEZIONE OPERE GALILEO GI\UUI, m'Tl/IIJ COPI!RNJt:JINl -~----

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Ora, se la teologia, occupandosi nell'altissime contemplazioni divine e risiedendo per dignità nel trono regio, per lo che ella è fatta di somma autorità, non discende alle più basse e umili speculazioni delle inferiori scienze, anzi, come di sopra si è dichiarato, quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbero i ministri e professori di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non esercitate né studiate da loro; perché questo sarebbe come se un principe assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse, non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de' miseri infermi, e manifesta rovina degli edifizi. Il comandar poi a gli stessi professori d'astronomia, che procurino per lor medesimi di cautelarsi contro alle proprie osservazioni e dimostrazioni, come quelle che non passino esser altro che fallacie e sofismi, è un comandargli cosa più che impossibile a farsi; perché non solamente se gli comanda che non vegghino quel che e' veggono e che non intendino quel che gl'intendono, ma che, cercando, trovino il contrario di quel che gli vien per le mani. Però, prima che far questo, bisognerebbe che fusse lor mostrato il modo di far che le potenze dell'anima si comandassero l'una all'altra, e le inferiori alle superiori, sì che l'immaginativa e la volontà potessero e volessero credere il contrario di quel che l'intelletto intende. (parlo sempre delle proposizioni pure naturali e che non sono de Fide, e non delle sopranaturali e de Fide). Io vorrei pregar questi prudentissimi padri, che volessero con ogni diligenza considerate la differenza che è tra le dottrine opinabili e le dimostrative; acciò, rappresentandosi bene avanti la mente con qual forza stringhino le necessarie illazioni, si accertassero maggiormente come non è in potenza de' professori delle scienze dimostrative il mutar l'opinioni a voglia loro, applicandosi ora a questa ed ora a quella, e che gran differenza è tra il comandare a un matematico o a un filosofo e 'l disporre un mercante o un legista, e che non l'istessa facilità si possono mutare le conclusioni dimostrate circa le cose della natura e del cielo, che le opinioni circa a quello che sia lecito o no in un contratto, in un censo, o in un cambio. ~

Cit., pp. 569-570

In questo passo, Galilei esprime delle considerazioni di notevole importanza. Nella sua ottica, la teologia è "regina" delle scienze per un unico motivo: è la scienza che si occupa dei misteri divini, delle verità di Fede, che sono le più alte che l'uo- Teologia e scienza mo possa immaginare. Questo, però, non dà alcun diritto al teologo di poter intervenire in tutti gli altri campi del sapere, dove non abbiamo più a che fare con verità soprannaturali. Di qui, l'immagine ironica del re - che sta per il teologo - il quale combinerebbe dei disastri pretendendo di curare i malati o costruire edifici. Peggio ancora, quando il teologo ha la presunzione di imporre agli astronomi di "vedere o non vedere" qualcosa. Agli occhi di Galilei, questa è una pretesa assurda, perché quando abbiamo a che fare

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! SEZIONE OPERE GAUl.EO GALILEI, Ui111iRE tJJPEft!JilllfJE

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ANTOLOGIA

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COMMENTO

4 -LETTERA A MADAMA CRISTINA DILORENA, GRANDUCHESSA DI TOSCANA (1615)

con le indagini sulla natura, il vero e il falso dipendono, come sappiamo, da sensate esperienze e necessarie dimostrazioni, non si decidono a comando o in modo arbitrario. A questo proposito, egli ricorda ai suoi critici la distinzione, di origine aristotelica, tra le discipline dimostrative, che riguardano la conoscenza della natura, e quelle non dimostrative, nelle quali Aristotele inseriva l'etica, la politica, la retorica. Se è plausibile cambiare, quando si vuole, le norme che regolano il mercato o gli Stati - di qui il ri- 1caratteri ferimento a mn mercante o un legistm> - lo stesso non si può fare con le del metodo scientifico leggi della natura, che sono immutabili. Ragion per cui, Galilei mette i critici di Copernico di fronte ad una secca alternativa: o sono in grado di dimostrare che l'eliocentrismo è falso, ovvero che i fenomeni celesti non sono spiegabili alla luce di quella dottrina, oppure devono tacere e non chiedere impossibili abiure da parte dei copernicani. Se per rimuover dal mondo questa opinione 10, e dottrina bastasse il serrar la bocca a uno solo, come forse si persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co'llor proprio, gli par impossibile che tale opinione abbia a poter sussistere e trovar seguaci, questo sarebbe facilissimo a farsi: ma il negozio cammina altramente; perché per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l'istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d'astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardar verso il cielo, acciò non vedessero Marte e Venere or vicinissimi alla Terra or remotissimi con tanta differenza che questa si scorge 40 volte, e quella 60, maggior una volta che l'altra, ed acciò che la medesima Venere non si scorgesse or rotonda or falcata con sottilissime corna e molte altre sensate osservazioni, che in modo alcuno non si possono adattare al sistema Tolemaico, ma son saldissimi argumenti del Copernicano. Ma il proibire Copernico, ora che per molte nuove osservazioni e per l'applicazione di molti literati alla sua lettura si va di giorno in giorno scoprendo più vera la sua posizione e ferma la sua dottrina, avendol'ammesso per tanti anni mentre egli era men seguito e confermato, parrebbe, a mio giudizio, un contravvenire alla verità, e cercar tanto più di occultarla e sopprimerla, quanto più ella si dimostra palese e chiara. ~

Ci t., pp. 572-573

Peraltro, i difensori di una interpretazione "letterale" delle sacre scritture, che nulla sanno di scienza, finiranno, secondo Galilei, per produrre dei danni alla religione e alle fede.

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Nel numero di questi parmi che sieno costoro, che non volendo e non potendo intendere le dimostrazione e le esperienze con le quali l'autore11 e i seguaci di questa posizione le confermano, attendono pure

1O. La teoria copernicana. 11. ~autore è Copernico.

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SEZIONE OPERE

GALILEO GALILEI, LETTERE ('(J,DERNJCilNE

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a portare innanzi le Scritture, non si accorgendo che quante più ne producono e quanto più persiston in affermar quelle esser chiarissime e non ammetter altri sensi che quelli che essi gli danno, di tanto maggior pregiudizio sarebbono alla dignità di quelle (quando illor giudizio fosse di molta autorità), se poi la verità conosciuta manifestamente in contrario arrecasse qualche confusione, al meno in quelli che sono separati da Santa Chiesa, de' quali pur ella è zelantissima e madre desiderosa di ridurgli nel suo grembo. Vegga dunque l'Altezza Vostra quanto disordinatamente procedono quelli che, nelle dispute naturali, nella prima fronte costituiscono per loro argomenti luoghi della Scrittura, e ben spesso malamente da loro intesi. Ma se questi tali veramente stimano e interamente credono d'avere il vero sentimento di un tal luogo particolare della Scrittura, bisogna, per necessaria conseguenza, che si tenghino anco sicuri d'aver in mano l'asso~ Iuta verità di quella conclusione naturale che intendono di disputare, e che insieme conoschino d'aver grandissimo vantaggio sopra l'avversario, a cui tocca a difender la parte falsa; essendo che quello che sostiene il vero, può aver molte esperienze sensate e molte dimostrazioni necessarie per la parte sua, mentre l'avversario non può valersi d'altro che d'ingannevoli apparenze, di paralogismP 2 e di fallacie. Or se loro, contenendosi dentro ai termini naturali e non producendo altre armi che le filosofiche, sanno ad ogni modo d'esser tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi a congresso, por subito mano ad un'arma inevitabile e tremenda, per atterrire con la sola vista il loro avversario? 1> Cit.,

pp. 586-587

In tutta quella parte del testo che comincia da ((Ma se questi tali [... ])) e arriva alla fine, Galilei si pone un interrogativo retorico: perché questi illustrissimi teologi, se sono così sicuri del fatto loro, non si difendono con argomenti "naturali" e ri- La Bibbia come scudo corrono, invece, all'autorità delle sacre scritture? Galilei conosce bene la per gli ignoranti ragione di tale atteggiamento: si tratta di ignoranti i quali- a differenza di Socrate - non sanno di non sapere, e nascondono la loro ignoranza usando la Bibbia come una specie di "arma proibita". Infine, nelle ultime pagine della lettera alla Granduchessa, Galilei ritorna sul tema dal quale ha avuto inizio tutta la disputa: come può aver ragione Copernico, che afferma essere la Terra a muoversi, se nel Libro di Giosuè si legge che Dio disse al Sole di fermarsi? Già nella parte conclusiva della lettera a Castelli, Galilei aveva sostenuto che, se sposiamo il punto di vista tolemaico, non può essere stato il Sole a fermarsi ma il cosiddetto primo mobile. Invece, se eliminiamo il primo mobile e leggiamo quel passo biblico dal punto di vista copernicano, tutto risulta più chiaro.

12. paralogismi: falsi sillogismi.

SEZIONE OPERE lli1TfiRE t:OPERNiCJINE

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4- LETTERA A MADAMA CRISTINA DI LORENA, GRANDUCHESSA DI TOSCANA (1615)

Posto dunque, prima, che nel miracolo di losuè si fermasse tutto 'l sistema delle conversioni celesti, conforme al parere de' sopra denominati autorF 3 , e questo acciò che, fermatone una sola, non si confondesser tutte le costituzioni e s'introducesse senza necessità gran perturbamento in tutto 'l corso della natura, vengo nel secondo luogo a considerare come il corpo solare, ben che stabile nello stesso luogo, si rivolge però in se stesso 14, facendo un'intera conversione in un mese circa, sì come concludentemente, mi par d'aver dimostrato nelle mie Lettere delle Macchie Solari [... ].Terzo, riguardando noi alla mobilità del Sole, ed essendo egli fonte di luce, dal qual pur, com'io necessariamente dimostro, non solamente la Luna e la Terra, ma tutti gli altri pianeti, nell'istesso modo per se stessi tenebrosi, vengono illuminati, non credo che sarà lontano dal ben filosofare il dir che egli, come ministro massimo della natura e in certo modo anima e cuore del mondo, infonde a gli altri corpi che lo circondano non solo la luce, ma il moto ancora, co'l rigirarsi in se medesimo; sì che, nell'istesso modo che, cessando 'l moto del cuore dell'animale, cesserebbono tutti gli altri movimenti delle sue membra, così cessando la conversion del Sole, si fermerebbono le conversioni di tutti i pianeti. [... ] Essendo, dunque, il Sole e fonte di luce e principio de' movimenti, volendo Iddio che al comandamento di losuè restasse per molte ore nel medesimo stato immobilmente tutto 'l sistema mondano, bastò fermare il Sole, alla cui quiete fermatesi tutte le altre conversioni, restarono e la Terra e la Luna e 'l Sole nella medesima costituzione, e tutti gli altri pianeti insieme; né per tutto quel tempo declinò 'l giorno verso la notte, ma miracolosamente si prolungò: ed in questa maniera col fermare il Sole, senza alterar punto o confondere gli altri aspetti e scambievoli costituzioni delle stelle, si potette allungare il giorno in Terra, conforme esquisitamente al senso literale del sacro testo. ,.. Cit., pp. 590-591

Il senso delle affermazioni contenute in questa citazione è chiaro: la mi- La Bibbia è compatibile gliore interpretazione del famoso passo del Libro di Giosuè può essere solo con Copernico quella copernicana, fondata sulla centralità del Sole. Lo confermano le parole dell'ultima pagina della lettera.

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Quanto poi ad altri luog.hi della Scrittura, che paiono contrariare a questa posizione, io non ho dubbio che quando ella fusse conosciuta per vera e dimostrata, quei medesimi teologi che, mentre la reputan falsa, stimano tali luoghi incapaci di esposizioni concordanti con quella, netro-

13. Nelle righe precedenti, aveva citato S. Agostino e Dionigi l'Areopagita. 14. Ovvero ruota attorno al suo asse.

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SEZIONE OPERE . Menti e corpi - gli uni modifi- mente-corpo cazioni dell'estensione e le altre modificazioni del pensiero - non interagiscono; non c'è causalità tra eterogenei, bensì una concatenazione secondo un medesimo ordine che l'intelletto umano è in grado di percepire in quanto partecipa dell'intelletto divino. A differenza di Cartesio, il quale ammetteva un'unica sostanza materiale, la res extensa, e una molteplicità di sostanze pensanti (gli individui dotati di ragione e linguaggio), per Spinoza gli attributi della sostanza divina sono identici: vi è un'unica materia e un unico pensiero. La distinzione scolastica tra natura naturans e natura naturata sottolinea l'alterità tra la sostanza coi suoi attributi da una parte e ciò che abbisogna d'altro per essere concepito, cioè i modi. Tale distinzione non rimette tuttavia in campo alcun dualismo: sono pur sempre due prospettive che guardano all'uno-tutto. Per evidenziare una gradualità tra infinitezza e molteplicità del finito, Spinoza elabora la teoria dei modi infiniti, il movimento e l'intelletto infinito, che richiamano rispettivamente la forma che governa l'universo materiale e l'insieme di tutte le menti finite. Uno schema riassuntivo potrebbe essere così delineato: Sostanza Attributi (infiniti): pensiero ed estensione (conosciuti)

_____:; natura naturante .-------

Modi (infiniti): movimento/quiete (che governano l'universo materiale) intelletto infinito (insieme di tutte le -----------..._ natura naturata menti finite) Modi (finiti): molteplicità dei corpi e delle menti

2

Contro la concezione personalistica della divinità e contro il finalismo La distanza di Spinoza dal Dio personale dell'ebraismo e del cristianesimo non potrebbe essere più grande. Il mondo, l'unico possibile, discende necessariamente dalla natura divina. La creazione è impensabile. E assolutamente lontano dalla prospettiva di Spinoza risulta anche l'emanatismo di tipo neoplatonico, con la sua idea di un Dio ineffabile e superiore da cui le cose procedono per una sorta di oscura degradazione.

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SEZIONE OPERE

BIIRUC~l $PU~OlA, lfirf("ll

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Con impareggiabile efficacia argomentativa, il panteismo spinoziano (che si concentra soprattutto nell'Appendice alla prima parte dell'Etica) nega radicalmente il Dio personale e i suoi tradizionali attributi di bontà, saggezza ecc., nonché qualunque forma di provvidenzialismo e di finalismo: Dio è potenza che si estrinseca in una causalità necessaria e immanente. Immaginare un Dio che prima conosce il possibile e poi decreta i fini è una rozza forma di antropomorfismo che ha la stessa faccia della fallace credenza antropocentrica secondo la quale la natura agisce, al pari dell'uomo, in vista di fini. Poiché tutti i pregiudizi che qui intraprendo a denunciare dipendono soltanto da questo unico pregiudizio, che cioè comunemente gli uomini suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano in vista di un fine; anzi, danno per certo che lo stesso Dio diriga tutte le cose verso un certo qual fine (dicono, infatti, che Dio ha fatto tutte le cose in vista dell'uomo e l'uomo stesso alla scopo di adorarlo}; prenderò dunque in considerazione anzitutto questo unico pregiudizio [... ]. Poiché [gli uomini] sia in se stessi sia al di fuori di sé trovano non pochi mezzi che li conducono non poco al perseguimento del proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, le erbe e gli animali per nutrirsi, il Sole per illuminare, il mare per nutrire i pesci [...], è accaduto che considerano tutte le cose naturali come mezzi per raggiungere il proprio utile; e poiché sanno di aver trovato quei mezzi, ma di non averli essi stessi predisposti, hanno avuto motivo di credere che sia stato un altro a predisporre quei mezzi per il loro uso. Infatti, poiché avevano considerato le cose come mezzi, non hanno potuto credere di averle fatte essi stessi; ma, in analogia ai mezzi che essi stessi sono soliti procurare a se stessi, hanno dovuto concludere che esistono uno o alcuni rettori della natura, forniti di libertà umana, che hanno curato ogni cosa per loro e che hanno fatto ogni cosa per il loro uso. E poiché non avevano mai avuto alcuna notizia circa l'indole di questi rettori, sono stati portati a giudicarne in analogia alla propria, e così hanno stabilito che gli Dei dirigono tutto in vista dell'uso che gli uomini possono farne, per legare a sé gli uomini ed essere tenuti da essi in sommo onore; per cui avvenne che ciascuno, a seconda della propria indole, ha escogitato diversi modi di onorare Dio, affinché Dio lo prediligesse al di sopra degli altri e dirigesse tutta la natura a vantaggio della sua cieca cupidità e della sua insaziabile avidità. E così questo pregiudizio si è mutato in superstizione radicandosi profondamente nelle menti; il che fece sì che ciascuno si sforzasse con il massimo impegno di intendere e spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma, mentre cercavano di mostrare che la natura non fa nulla invano (cioè, che non sia ad uso degli uomini), sembra che non abbiano dimostrato altro che la natura e gli Dei delirano come gli uomini. Vedi dunque a che punto sono arrivate le cose! Tra tanti vantaggi offerti dalla natura

SEZIONE OPERE

BAP.UCH !iif11tUblA, ffiCil

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AN1'0L(lGIA

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COMMENTO

2- CONTRO LA CONCEZIONE PERSONALISTICA DELLA DIVINITÀ ECONTRO IL FINALISMO

hanno dovuto imbattersi in non pochi inconvenienti, quali tempeste, terremoti, malattie e hanno stabilito che questi inconvenienti si verificano perché gli Dei [... ] sarebbero irati a causa delle ingiurie loro fatte dagli uomini o dai peccati commessi contro il loro culto; e, sebbene l'esperienza di giorno in giorno smentisse ciò e mostrasse con infiniti esempi che le situazioni favorevoli e gli inconvenienti si verificano senza distinzione sia per i pii che per gli empi, non abbandonarono per questo l'antico pregiudizio; fu, infatti, per loro più facile collocare questo fatto tra le altre cose sconosciute, di cui ignoravano l'uso, e conservare così il loro presente e innato stato di ignoranza piuttosto che distruggere tutto quell'edificio e escogitarne uno nuovo. Per cui, hanno stabilito per certo che i giudizi degli Dei superano di gran lunga l'umana capacità di comprensione: e questa unica ragione sarebbe stata senza dubbio sufficiente a far rimanere in eterno nascosta la verità al genere umano; se la matematica, che non si occupa dei fini, ma soltanto delle essenze e delle proprietà delle figure, non avesse mostrato agli uomini un'altra norma di verità, e oltre alla matematica possono essere individuate anche altre cause (che considero superfluo enumerare qui) per le quali ha potuto accadere che gli uomini abbiano riconosciuto questi comuni pregiudizi e siano stati guidati verso la vera conoscenza delle cose. [... ] Né qui va trascurato il fatto che i seguaci di questa dottrina\ che hanno voluto far mostra del loro ingegno assegnando dei fini alle cose, per provare questa loro dottrina, hanno adottato un nuovo modo di argomentare, riducendo cioè non all'impossibile ma all'ignoranza; il che mostra che non c'era nessun altro modo di argomentare a favore di questa dottrina. Per fare degli esempi: se da una qualche sommità una pietra sia caduta sulla testa di qualcuno uccidendolo, dimostreranno che la pietra è caduta per uccidere quell'uomo, nel modo che segue. Infatti, se non fosse caduta a quello scopo, per volontà di Dio, in quale modo tante circostanze (poiché spesso molte circostanze concorrono simultaneamente) avrebbero potuto concorrere nel determinare la caduta? Forse risponderai che ciò è accaduto perché il vento soffiava e quell'uomo passava di là. Ma insisteranno: perché il vento soffiava in quel momento? E perché quell'uomo passava di là in quello stesso momento? Se di nuovo rispondi che il vento si era levato allora perché nel giorno precedente il mare, essendo il tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi; e che quell'uomo era stato invitato da un amico; insisteranno ancora, dato che non vi è alcun termine al domandare: ma perché il mare si era agitato? E perché quell'uomo era stato invitato per quell'ora? E così di seguito non cesseranno di cercare le cau-

1.11 finalismo.

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SEZIONE OPERE

BJIIUJCH SPINOlA, ETICA

ETICA

se delle cause fino a che non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, e cioè nell'asilo dell'ignoranza. [... ] Dopo che gli uomini si sono persuasi che tutte le cose che avvengono avvengono in loro vantaggio, hanno dovuto giudicare in ogni cosa più importante quel che per loro era sommamente utile e stimare come più eccellenti tutte quelle cose dalle quali venivano affetti nel modo migliore. Per cui hanno dovuto formare queste nozioni con le quali spiegare le essenze delle cose, e cioè Bene, Male, Ordine, Confusione, Caldo, Freddo, Bellezza e Deformità: e poiché ritengono di essere liberi sono nate anche queste nozioni, e cioè Lode, e Vituperio, Peccato, e Merito; ma di queste parlerò più avanti, dopo che avrò trattato della natura umana, mentre invece spiegherò qui brevemente le prime. E cioè hanno chiamato Bene tutto ciò che conduce alla salute e al culto di Dio, e Male ciò che ad essi è contrario. E poiché coloro i quali non intendono la natura delle cose, ma le immaginano soltanto, non affermano nulla intorno ad esse e prendono l'immaginazione per l'intelletto, credono perciò fermamente che l'ordine sia nelle cose, ignari come sono delle cose e della propria natura. Infatti, quando le cose sono disposte in modo tale che, mentre ce le rappresentiamo per mezzo dei sensi, possiamo immaginarle facilmente e conseguentemente anche ricordarle con facilità, diciamo che sono bene ordinate, nel caso contrario, invece, diciamo che sono male ordinate o confuse. E poiché ci sono gradevoli a preferenza di altre quelle cose che possiamo immaginare facilmente, gli uomini preferiscono l'ordine alla confusione; quasi che l'ordine fosse qualcosa in natura, oltre che rispetto alla nostra immaginazione; e dicono che Dio ha creato tutto con ordine e in questo modo essi senza saperlo attribuiscono a Dio l'immaginazione; se non pretendono per avventura che Dio, avendo cura dell'umana immaginazione, abbia disposto tutte le cose in modo che gli uomini potessero immaginarle con grande facilità; né costituisce per loro motivo di perplessità il fatto che si trovano infinite cose che superano di gran lunga la nostra immaginazione e moltissime che la confondono a causa della sua debolezza. Ma su questo punto basta. Le rimanenti nozioni, inoltre, non sono altro che modi di immaginare, con i quali l'immaginazione è affetta in vario modo, e tuttavia dagli ignoranti sono considerate come importanti attributi delle cose; poiché, come abbiamo detto, credono che tutte le cose siano state fatte per loro e dicono che la natura di una certa cosa è buona o cattiva, sana o putrida e corrotta, secondo il modo in cui sono da essa affetti. [... ] Vediamo dunque che tutte quelle nozioni con le quali il volgo suole spiegare la natura, sono soltanto modi di immaginare che non indicano la natura di alcuna cosa, ma soltanto la costituzione dell'immaginazione; e poiché hanno nomi, quasi che si trattasse di enti esistenti

SEZIONE OPERE

BARIJCH SPUUlZA, ETICA

349

ANTOl.OGIA

li

COI\IIMilNTO

2- CONTRO LA CONCEZIONE PERSONALISTICA DELLA OIVINITA ECONTRO

IL FINALISMO

al di fuori dell'immaginazione, li chiamo enti non di ragione, bensì di immaginazione, e perciò tutti gli argomenti che vengono attinti da simili nozioni contro di noi, possono facilmente essere respinti. Infatti, molti sono soliti argomentare nel modo seguente. Se tutte le cose sono conseguite dalla necessità della perfettissima natura di Dio, donde sono sorte in natura tante imperfezioni? E cioè, la corruzione delle cose fino al fetore, la deformità che suscita nausea, la confusione, il male, il peccato ecc. Ma, come ho appena detto, tali argomenti vengono confutati facilmente. Infatti, la perfezione delle cose deve essere valutata soltanto in base alla loro natura e potenza. Né le cose sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, o perèhé giovano alla natura umana o la avversano. A coloro i quali, poi, chiedono perché Dio non ha creato tutti gli uomini in modo tale che siano governati soltanto dalla guida della ragione, rispondo solo questo: perché non gli è mancata la materia per creare tutte le cose, e cioè dal più alto al più basso grado di perfezione; o, per parlare più propriamente, perché le leggi della sua natura sono così ampie da bastare e produrre tutto ciò che può essere concepito da un intelletto infinito [... ]. Questi sono i pregiudizi che mi sono proposto di segnalare. Se ne restano altri dello stesso tipo, potranno essere emendati da ciascuno con una modesta riflessione. '" Cit., l, Appendice, pp. 116-122

Se confrontiamo queste pagine con quelle teologiche e di filologia testuale della Bibbia contenute nel Trattato teologico-politico, ci rendiamo meglio conto dell'impatto enorme che dovette suscitare la posizione spinoziana. Secondo Spinoza, il L'interpretazione Dio delle religioni monoteistiche non è molto diverso dagli dei del poli- dei testi sacri . teismo ed è in larga misura il prodotto dell'immaginazione degli uomini, così come gli stessi testi sacri, se letti correttamente, cioè filologicamente e letteralmente (e non "metaforicamente" o "allegoricamente"), ci dicono molte cose non su Dio ma sugli uomini che ne hanno scritto e pensato. Con quest'ultima posizione Spinoza distruggeva la possibilità di una continuità nella tradizione, affermando l'ingannevolezza e la scorrettezza dei tentativi di adattare i testi sacri al progresso delle scienze e allo spirito dei tempi.

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3

Determinismo e libero arbitrio La falsità e l'errore radicati tanto nel senso comune quanto nelle filosofie sono una forma di privazione, una mancanza implicita nelle idee inadeguate e confuse prodotte dall'immaginazione, che isola i modi, ignora le cause, o ne configura di chimeriche, uscendo così fuori dal circuito virtuoso delle verità che riproducono il vero ordine della natura.

350

...

EriCA

L'idea di libero arbitrio D 3 1•14UMd111~11~t•llll:@•r:ld:!ii:luJ è, insieme a quella del Dio-persona, un altro emblematico esempio di errore generato da un'illusione antropocentrica che vuol sottrarre l'uomo alla causalità naturale; mentre è evidente, per Spinoza, che l'ente finito è sempre determinato da altro, cioè dalle interazioni con gli altri esseri finiti, ovvero dall'insieme di tutti gli eventi che si verificano in natura. Proposizione XLVIII Nella Mente non vi è alcuna volontà assoluta ossia libera; ma la Mente è determinata a volere questo o quello da una causa che è anch'essa determinata da un'altra, e questa a sua volta da un'altra, e così all'infinito. Dimostrazione La Mente è un modo certo e determinato del pensare [... ],e perciò [... ] non può essere causa libera delle sue azioni, ossia non può avere una assoluta facoltà di volere e di non volere; ma [... ] deve essere determinata da una causa che è anch'essa determinata da un'altra causa, e questa a sua volta da un'altra ecc. C.V.D. Scolio In questo stesso modo si dimostra che nella Mente non si dà alcuna facoltà assoluta di intendere, di desiderare, di amare ecc. ~

Cit., Il, pp. 162-163

L'affermazione del determinismo e la negazione di una libera volontà incondizionata sono - in un percorso argomentativo assai vicino a quello di Hobbes - tematiche che, pur trattate in tutta l'opera, si condensano in un'esposizione completa e esaustiva

AN'I'O!.OGi

Il

COMMI:II!TO

3- DETERMINISMO E LIBERO ARBITRIO

nello scoZia alla Proposizione XLIX della parte seconda, scoZia nel quale Spinoza esamina e confuta le principali argomentazioni in favore del libero arbitrio, a partire da quella cartesiana, fornendo le basi a un determinismo tanto forte da non avere eguali nel pensiero filosofico occidentale. Persino Dio non è libero, nel senso del libero arbitrio: è libero perché non determinato da altro se non dalla sua natura. Questo equivale a dire che in Dio necessità e libertà coincidono. Per quanto riguarda il mondo, il modello matematico applica- La coincidenza to alla fisica (così come, in precedenza, alla metafisica), es punge dalla na- di necessità e libertà tura sia il finalismo sia la contingenza e il caso, configurando un determi- nella sostanza nismo causale assoluto che intende eliminare peraltro ogni idea di bene o di male legata alle concezioni del Dio personale. Quando l'uomo afferra la necessità che domina l'universo - una necessità tanto inderogabile per ogni evento che si verifica, che il suo non verificarsi sarebbe contraddittorio - approda a una conoscenza sub specie aeternitatis e la beatitudine che gliene deriva si amplifica in un amor dei intellectualis, come Spinoza spiegherà nella quinta e ultima parte dell'Etica.

i.

4

Affetti e passioni L'istanza a considerare scientificamente l'uomo, mente e corpo, come parte della natura, viene ribadita da Spinoza in pagine diventate anch'esse famosissime, nella Prefazione alla parte terza, nel momento in cui si appresta ad affrontare, secondo il Pensiero 409, ed. Mondadori

Non v'aspettate, dice [la Sapienza di Dio], né verità né consolazione dagli uomini. Io sono quella che vi ha formati e che solo può insegnarvi chi siete. Ma voi adesso non siete più nello stato in cui vi ho formati. Io ho creato l'uomo santo, innocente, perfetto, l'ho colmato di luce e di intelligenza; gli ho comunicato la mia gloria e le mie meraviglie. L'occhio dell'uomo allora vedeva la maestà dì Dio. Allora egli non era nelle tenebre che oggi l'accecano, né nella mortalità e nelle miserie che l'affliggono.

SEZIONE OPERE

lii.AISE PASCAL, IPENSUIRI

373

ANTOLOGIA

f.

C)), ed ha per oggetto il mondo umano, la morale, la religione. Dunque, la ragione scientifica è limitata, poiché attraverso di essa non si attinge la comprensione di ciò che davvero conta, ovvero l'angoscioso mistero dell'esistenza; per questo, è necessario pensare con il cuore, dando spazio al sentimento e all'intuito, che sanno cogliere, "sentire", la contraddittorietà della nostra condizione, in bilico fra grandezza e miseria. D'altra parte, le due modalità del conoscere, benché distinte, non sono rigidamente separate fra loro. Infatti, lo stesso spirito di geometria parte da una intuizione per poi procedere attraverso il ragionamento: Pascal afferma che i principi primi Oltre la ragione: sono conosciuti con il cuore, nel senso che essi sono accettati senza di- il cammino verso mostrazione razionale, la quale interviene solo in seguito; tuttavia, sono la fede pochi i principi che si afferrano intuitivamente, mentre per il resto la nostra conoscenza scientifica è affidata alla ragione dimostrativa. Analogamente, alle verità ultime si giun~ ge con il cuore, poiché Dio non è oggetto di conoscenza intellettuale; ma è pur vero che la ragione può svolgere un ruolo attivo nell'avvicinamento alla fede, se abbandona il suo sogno di onnipotenza e, accettati i suoi limiti, persuade l'uomo che solo la religione offre una spiegazione convincente della condizione umana. Questo è il compito della filosofia, cui spetta di mostrare la necessità di questo oltrepassamento, mettendo così in discussione se stessa in quanto sapere confinato nella razionalità. Resta però che la fede è dono di Dio, e nessun ragionamento può sostituire l'autentico sentimento religioso cui, con le nostre sole forze, è impossibile arrivare.

4

la ricerca di Dio Il Dio di Pascal non è il Dio della teo'logia razionale. Più che la ragione metafisica dell'universo (come voleva la filosofia aristotelico-tomistica) o il creatore e garante delle verità scientifiche (secondo la visione cartesiana), egli è innanzi tutto il Dio nDio dell'anl.ore dell'amore, inteso anche dagli umili e dagli incolti. Di fronte a Dio, già l'ab- e la fede nel~~ sua biamo visto, la ragione deve dichiarare 'la sua insufficienza; sebbene i suoi esistenza l principi non contrastino con le verità divine, non è per il loro tranvte che si ottiene la jfede. Per questo motivo, Pascal è contrario a_ ricercare prove razionali dell'esistenza di Dio, l

380

SEZIONE OPERE BlAIS~

I»A!ii\:Al,

'

giudicandqle per di più poco efficaci, ovvero astruse e convincenti solo per chi già ha fede. Altra sarà la strada da lui seguita al fine di persuadere i liberi pensa tori della necessità di credere.

3

Due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione. ~Pensiero

253, ed. Mondadori

L'ultimo passo della ragione è riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano; essa è debole se non arriva a conoscere questo. Se le cose naturali la sorpassano, che dire delle cose soprannaturali? ~

Pensiero 267, ed. Mondadori

Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal modo di ragionare degli uomini e così complicate che colpiscono poco; e se anche servissero ad alcuni, servirebbero soltanto nell'istante in cui essi vedono questa dimostrazione, perché un'ora dopo temono di essersi ingannati. ~

Pensiero 54'!, ed. Mondadori

Si esamini l'ordine del mondo [... ] e si noti se tutte le cose non tendono all'affermazione dei due punti capitali di questa religione: Gesù Cristo è l'oggetto di tutto, e il centro a cui tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose Quelli che si sbagliano, si sbagliano proprio perché non vedono una di questè due cose. Dunque è possibile conoscere Dio senza la propria miseria, e la propria miseria senza conoscere Dio; ma non è possibile conoscere Gesù Cristo senza conoscere insieme Dio e la propria miseria .. · Per questo, non mi assumerò il compito di provare, con ragioni naturali, o l'esistenza di Dio o la Trinità o l'immortalità dell'anima o cose del genere; non solo perché non mi sentirei abbastanza forte da trovare nella natura argomenti per convincere gli atei ostinati, ma anche perché questa conoscenza è inutile e sterile senza Gesù Cristo. Se un uomo fosse convinto che le proporzioni dei numeri sono verità immateriali, eterne e dipendenti dalla prima verità nella quale esse sussistono e che si chiama Dio, per me non lo direi troppo progredito per la sua salvezza. Il Dio dei cristiani non è un Dio semplicemente autore delle verità geometriche e dell'ordine degli elementi, come la pensavano i pagani e gli epicurei. Non è soltanto un Dio che esercita la sua provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini per concedere lunghi anni felici a quelli che l'adorano; come la pensavano gli ebrei. Ma il Dio d'Abramo, il Dio d'Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio d'amore e di consolazione, è un Dio che riempie l'anima e il cuore di coloro di cui egli s'è impossessato, è un Dio che fa internamente sen-

SEZIONE OPERE PIISCII.l., ffi[;NSifil{l

381

4-

LA RICERCA DI DIO

tire a ognuno la propria miseria e la sua misericordia infinita, che si unisce con l'intimo della loro anima, che la inonda di umiltà, e di gioia, ~ics~:~~~~nza, di amore, che li rende incapaci d'avere altro fine che ~

4.1

l .I:J

Pensiero 556, ed. Mondadori

La scommessa La nostra anima è immessa nel corpo, dove trova numero, tempo e dimensioni. Essa ragiona su queste cose e chiama tutte queste cose natura, necessità, e non può credere altro. L'unità aggiunta all'infinito non l'accresce di niente, non più di un centimetro aggiunto a una misura infinita. Il finito s'annienta di fronte all'infinito e diventa un puro niente. Così il nostro spirito davanti a Dio, così la nostra giustizia davanti alla giustizia divina. Non c'è tra la nostra giustizia e quella di Dio una sproporzione così grande come tra l'unità e l'infinito. La giustizia di Dio dev'essere enorme come la sua misericordia. Orbene, la giustizia verso i dannati è meno enorme e deve ·impressionare meno della misericordia verso gli eletti. Noi sappiamo che c'è un infinito e ne ignoriamo la natura. Poiché sappiamo che è falso che i numeri sono finiti, è vero dunque che c'è un infinito nel numero. Ma non sappiamo che cosa è; è falso che sia pari; è falso che sia dispari; infatti, aggiungendo l'unità non cambia natura; tuttavia è un numero e ogni numero è pari o dispari (e questo veramente s'intende detto di ogni numero finito), così si può conoscere che c'è un Dio senza sapere che cos'è. [... ] Noi dunque conosciamo l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed estesi come lui. Conosciamo l'esistenza dell'infinito e ignoriamo la sua natura, perché ha estensione come noi ma non ha confini come noi. Ma non conosciamo né l'esistenza né la natura di Dio, perché non ha né estensione né confini. Però mediante la fede conosciamo la sua esistenza; mediante la gloria conosceremo la sua natura. ~

Pensiero 233, ed. Mondadori

Dio è incomprensibile alla mente umana, a causa della sua infinità. Basti pensare che i suoi moventi ci sono imperscrutabili: in base alla nozione umana di giustizia, dovremmo essere tutti condannati alla pena eterna, e invece la sua miseri- L'infinità divina cordia interviene a salvare gli eletti. L'impossibilità di comprendere la na- e il salto nella fede tura di Dio non equivale tuttavia a negarne l'esistenza: gli stessi enti matematici sono infiniti, e di tale infinità ci sfugge la natura, eppure esistono. È vero che con i numeri noi abbiamo in comune almeno l'estensione, per cui alla loro conoscenza si può pervenire per analogia, portando all'estremo limite questa caratteristica condivisa; Dio, invece, è sia infinito sia inesteso, per cui ci è inafferrabile sia la sua natura sia la sua esistenza:

382

SEZIONE OPERE

!U.JU!ì§: PA!ì(:JU.,

mai dunque siamo incapaci di conoscere non solo ciò che egli è ma anche se è>>. Ecco perché, per accedere a Dio è necessario fare il salto nella fede, che nasce dal cuore. Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: «Dio esiste o no?». Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla. ((No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutti e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere punto». Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l'errore e l'infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste. ((Ammirevole! Sì, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo». Vediamo. Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è uguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di beatitudine. Stando così le cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pur sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è effettivamente un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l'infinito, e non ci sia un'infinità di probabilità di perdere contro

SEZIONE OPERE

PAS(AI., l'f:NSIEJU

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4- LA RICERCA DI DIO

quella di vincere, non c'è da esitare: bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla. Invero, a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si arrischia; e che l'infinita distanza tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza di quanto si potrà guadagnare eguaglia il bene finito, che si rischia sicuramente, all'infinito, che è incerto. Non è così: ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno incerto; e nondimeno rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito, senza con ciò peccare contro la ragione. Non c'è una distanza infinita tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza della vincita: ciò è falso. C'è, per vero, una distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma l'incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di quanto si rischia, conforme alla proporzione delle proabilità di vincita e di perdita. Di qui consegue che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e dall'altra, la partita si gioca alla pari, e la certezza di quanto si rischia è uguale all'incertezza del guadagno: tutt'altro, quindi, che esserne infinitamente distante! E, quando c'è da arrischiare il finito in un giuoco in cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da guadagnare l'infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita. Ciò è dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una. ((Lo riconosco, ·lo ammetto. Ma non c'è mezzo di vedere il di sotto del giuocoh Sì, certamente, la Scrittura e il resto. ((Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?». È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il meto.do con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi impecorirà. ((Ma è proprio quel che temo». E perché? Che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla fede, sappiate che ciò diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi ostacoli.

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SEZIONE OPERE ll!JUSE PIISCAl, I•ENSJERI ~~~~·····-- ·~--------------------------

L ~·-, PENSIERI

Fine di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito? Sareste fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero. A dir vero, non vivrete più nei piaceri pestiferì, nella vanagloria, nelle delizie; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e che, a ogni nuovo passo che farete in questa via, scorgerete tanta certezza dì guadagno e tanto nulla in quanto rischiate, che alla fine vi renderete conto dì avere scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato nulla. ((Oh! Codesto discorso mi conquista, mi esalta, ecceterm). Se esso vi piace, e vi sembra valido, sappiate che è fatto da uno che sì è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza parti, al quale sottomette tutto il proprio essere, affinché sottometta a sé anche il vostro, per il vostro bene e per la sua gloria; e che, quindi, la sua forza si accorda con questa umiliazione. J.

Pensiero 149, ed. Einaudi

Ma se la fede non scaturisce dal cuore, che fare? Proprio rivolgendosi agli scettici, Pascal elabora l'argomento della scommessa, nella convinzione che, se l'esistenza di Dio non può essere dimostrata razionalmente, tuttavia la fede non è puramente scommettere irrazionale, essendo anzi contrassegnata da una sua ragionevolezza. L' ar- sull'esistenza di Dio gomento pascaliano punta infatti tutto sulla convenienza, per l'uomo, di scommettere ~·

5

C H E D A -

L E T T E R A T U R A

La $Commessa di Emily Dickinson

'Tis so much joy! 'Tis so much joy! lf l should fail, what poverty! An d yet, as poor as l, Have ventured ali upon a throw! Have gained! Yes! Hesitated soThis side the Victory!

O gioia, immensa gioia! ma se poi Perdessi, quanto povera sarei! Eppure altri poveri su un dado Hanno tutto rischiato! Ed hanno vinto! Sì! e tanto esitarono essi pure Al di qua della Vittoria!

Life is but Life! And Death, but Death! Bliss is but Bliss, and Breath but Breath! And if indeed l fail, At least, to know the worst, is sweet! Defeat means nothing but Defeat, No drearier, can befall!

La vita è solo vita, e morte morte! L'ebbrezza è solo ebbrezza, ed il respiro Non altro che respiro! Dovessi perdere, sarebbe almeno Dolce l'aver conosciuto il peggio! La sconfitta non è che la sconfitta, Nulla di più pauroso può accadere!

And if l gain! Oh Gun at Sea! Oh Bells, that in the Steeples be! At first, repeat it slow! For Heaven is a different thing, Conjectured, and waked sudden in And might extinguish me! J.

Ma se vincessi - oh salve dal mare, Campane dalle guglie, Ripetetelo adagio, da principio Perché sognare il cielo non è come Svegliarsi dentro all'improwiso E mi potrebbe uccidere!

E. Dickinson, Poesie, Milano, Bompiani 1978, pp. 34-35

385

1\NTOL(IGIA

4- LA RICERCA DI

f.

COMM!li\ITO

DIO

sull'esistenza di Dio. Infatti, scommettere è necessario, nel senso che nella nostra vita dobbiamo necessariamente prendere posizione, ovvero siamo costretti a scegliere se credere o non credere. Se questo è vero, sarà opportuno puntare sulla posta più conveniente, visto che qui è in discussione la nostra beatitudine celeste. Secondo Pascal, le possibilità di riuscita si equivalgono, ma la posta in gioco è ben diversa: se, avendo scommesso che Dio esiste, si vince, si riceve in guadagno la vita eterna; perdendo, non si perde in fondo nulla: solo i piaceri effimeri del mondo. Nell'altro caso, la vincita consiste nel guadagnare ben poco, ovvero una vita finita con i suoi piaceri finiti, mentre la perdita implica la rinuncia alla prospettiva della salvezza. Esiste dunque una sproporzione assoluta tra le due vincite; perciò sarebbe assurdo non scommettere per l'esistenza di Dio, rischiando di perdere l'infinita beatitudine per guadagnare solo una vita finita. Naturalmente, non basta scommettere per essere buoni cristiani, perché la fede è altra cosa, ma la scommessa costituisce il primo atto che porterà con sé l'obbedienza alle regole e alle pratiche religiose. In tal modo, comportandosi "come se" si avesse veramente fede, ci si apre all'azione della grazia divina, liberamente concessa da Dio ai prescelti. Questo singolare consiglio è dettato a Pascal dalla profonda conoscenza come prepararsi dell'animo umano e dal ruolo determinante che, secondo lui, ha l'abitudi- a ricevere ne nei comportamenti e nelle credenze dell'uomo. Non si tratta certo di ri- la grazia divina durre la religione a semplice pratica; seguendo questa sorta di vademecum, infatti, l'uomo si umilia, dominando la violenza delle sue passioni e l'orgoglio della sua ragione, in modo che l'influsso vivificante della grazia possa scendere su di lui.

5

la grazia e il Dio nascosto Dio ha voluto riscattare gli uomini e offrire la salvezza a coloro che lo cercano. Ma gli uomini se ne rendono così indegni che è giusto che Dio rifiuti ad alcuni, a causa della loro durezza di cuore, ciò che concede ad altri per una misericordia indebita. Se egli avesse voluto vincere l'ostinazione dei più induriti, l'avrebbe potuto, rivelandosi loro così apertamente che non avrebbero potuto dubitare della verità della sua essenza, così come si manifesterà nell'ultimo giorno, con tale lampeggiar di folgori e con un tale sconvolgimento della natura che i morti risorgeranno e i più ciechi lo vedranno. Ma non è così che egli ha voluto apparire nel suo avvento di dolcezza. Poiché tanti uomini si rendono indegni della sua clemenza, ha voluto lasciarli nella privazione del bene che essi non vogliono. Non era dunque giusto che apparisse in una maniera visibilmente divina e assolutamente capace di convincere tutti gli uomini; ma neppure era giusto che venisse in una manlera così nascosta da non poter essere riconosciuto da quelli che lo avrebbero cercato sinceramente. Egli ha voluto rendersi perfettamente conoscibile a costoro; e così, volendo apparire scopertamente a coloro che lo cercano con tutto il cuore, e rimaner na-

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SEZIONE OPERE IUAI!ì~

PASCIU,

scosto a coloro che lo fuggono con tutto il cuore, egli regola la sua conoscenza in modo da dare dei segni di se stesso, visibili a coloro che lo cercano, ma non a quelli che non lo cercano. C'è dunque abbastanza luce per coloro che desiderano vedere e c'è abbastanza oscurità per coloro che hanno una disposizione contraria. ,.. Pensiero 430, ed. Mondadori

Se il mondo sussistesse per far conoscere Dio all'uomo, la sua divinità risplenderebbe dovunque in maniera incontestabile; ma poiché il mondo sussiste soltanto per mezzo di Gesù Cristo e per Gesù Cristo e per far conoscere agli uomini sia la loro corruzione che la loro redenzione, dovunque vi risplendono prove di queste due verità. Ciò che appare in esso non indica né un'esclusione totale né un chiara presenza della divinità, ma soltanto la presenza di un Dio che si nasconde. ,.. Pensiero 556, ed. Mondadori

Non si capisce nulla delle opere di Dio, se non si ammette come principio che egli ha voluto accecare gli uni e illuminare gli altri. ,.. Pensiero 566, ed. Mondadori

Tutto si risolve in bene per gli eletti, finanche le oscurità della Scrittura; perché essi le onorano a causa delle illuminazioni divine. E tutto si risolve in danno per gli altri, finanche le illuminazioni divine, perché le bestemmiano a causa delle oscurità che non capiscono. ,.. Pensiero 574, ed. Mondadori

La dottrina della scommessa sottolinea il valore della scelta umana di aderire alla fede; tutti i Pensieri sono del resto intesi dall'autore come un'apologia del cristianesimo, rivolta a convincere gli increduli facendo appello alle ragioni del cuore. D'altra parte, verso un'apologia in più di un frammento Pascal insiste sul fatto che la grazia è un dono di Dio, del cristianesimo una sua prerogativa esclusiva, indipendente perciò dalle scelte compiute dall'uomo. Come sciogliere questa contraddizione? La questione è complessa, e rimanda all'acceso dibattito sulla grazia, che all'epoca di Pascal aveva visto schierarsi su fronti contrapposti i gesuiti e i giansenisti, che derivavano il loro nome dal vescovo Cornelio Giansenio (1585-1638). I primi sostenevano la possibilità per l'uomo di guadagnarsi la salvezza in virtù della libera scelta del bene, sostenuta dalla grazia divina. Per i secondi, invece, il peccato originale aveva corrotto irreparabilmente la natura umana, inclinandola verso il male; solo da Dio proveniva dunque la salvezza, concessa a una minoranza di prescelti, indipendentemente dai loro meriti. Le tesi gianseniste erano state condannate dalla Chiesa cattolica nel 1653, per la loro affinità con la concezione calvinista della predestinazione; tuttavia circolarono ancora a lungo in certi ambienti religiosi. Pascal era in stretto contatto con l'abbazia di Port-Royal, la comunità in cui era vivo il sostegno alle tesi di Giansenio; tanto che nel 1655 aveva deciso di vivere lì, come

SEZIONE OPERE BUI.ISE PASCA L, PENSfliRU

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1\ N 'f il\ E COMI\IlilN'fO ~--------------------------------------~-------------------------------------------------------5 - LA GRAZIA E IL DIO NASCOSTO

"solitario", ovvero laico dedito alla meditazione. Il rigore morale dei giansenisti lo attraeva, così come netto era il suo rifiuto della morale gesuitica, giudicata troppo permissiva. Sulla questione della grazia, invece, Pascal mantiene una posi- Pascal e il giansenismo zione più sfumata. Sostiene infatti l'importanza della ricerca di Dio da parte dell'uomo, perché a chi cerca con tutto il cuore la salvezza viene concessa. Tuttavia, è Dio a scegliere di illuminare gli uni e di accecare gli altri; quindi la salvezza dipende pur sempre dal suo arbitrio, perché senza grazia non sorge neppure il desiderio di incamminarsi verso la luce divina. Non che Dio decida chi deve essere dannato; semplicemente, lascia alle loro malvagie inclinazioni i duri di cuore, riversando invece in modo gratuito la sua misericordia sugli altri. Se avesse voluto salvare tutti, sarebbe certo stato in suo potere: bastava che si manifestasse nel fulgore della sua gloria. Invece, ha voluto mostrarsi in modo ambiguo e problematico, come Deus absconditus che dissemina nel mondo segni, tracce della sua presenza, decifrabili tuttavia solo a chi lo cerca, ovvero a chi è toccato dalla grazia. In conclusione, Pascal sembra aderire alla dottrina giansenista, sostenendo che solo Dio può giustificare l'uomo, intervenendo con la sua grazia santificante.

Vita e opere Blaise Pasca! nacque nel 1623 a Clermont Ferrand da famiglia agiata, appartenente alla nobiltà di toga. Il padre Etienne, magistrato, coltivava numerosi interessi culturali. Il figlio Blaise sembra che abbia dimostrato, sin da piccolo, una notevole vivacità intellettuale, una sorta di "bambino prodigio", e il padre, per favorirne il talento, trasferì la famiglia a Parigi. Fino al 1654, anno della conversione definitiva al cristianesimo, la sua vita, a quanto dicono i biografi, rimase in bilico tra religiosità e mondanità. Si parla di conversione definitiva perché, già nel 1646, avrebbe aderito assieme a tutta la famiglia al giansenismo. Negli anni '40 sviluppa i suoi interessi matematici, fisici e geometrici: nel 1640 pubblica il Trattato sulle coniche e successivamente inizia a redigere il Trattato sulla pesantezza della massa d'aria e quello Sull'equilibrio dei liquidi, che però verranno conclusi nel 1654 e pubblicati postumi. Le sue ricerche matematiche ebbero anche delle applicazioni: Pasca! è stato l'inventore, tra il 1642 e il 1645, del primo modello di macchina calcolatrice, la cosiddetta pascaline, un esemplare della quale inviò alla regina Cristina di Svezia, nota per essere la protettrice di scienziati e artisti. In questo periodo frequenta, a Parigi, il salotto di Madame de Sablé e diventa amico di svariati esponenti dell'alta società. Questa vita, nella quale convivono scienza, religione e mondanità, si interrompe nel 1654: durante una notte di novembre, come ha raccontato poi lo stesso Pasca!, egli avrebbe avuto un'esperienza mistica molto intensa, sentendosi chiamato a Dio. Da quel momento in poi, concentrerà tutte le sue energie intellettuali e morali sul cristianesimo. Nel 1657 prende posizione nella polemica teologicomorale fra giansenisti e gesuiti, pubblicando le Lettere provinciali, dove si schiera decisamente a favore dei giansenisti. In quegli stessi anni progetta un'opera di vaste dimensioni, una Apologia del cristianesimo, che non riuscì a portare a termine. Di questo progetto, rimane la testimonianza dei Pensieri, scritti a cominciare dal 1657 e pubblicati dopo la morte. Il testo, benché incompiuto, è considerato il capolavoro di Pasca!. Dal 1659, le sue condizioni di salute, già incerte, iniziano a peggiorare e nel 1662 muore a soli trentanove anni.

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SEZIONE OPERE l:llAI$1: PASCAL, P!EPISJIJIU

Nei Pensieri Pascal presenta una concezione della ragione:

D a)

Del tutto negativa in quanto la ragione non è affidabile e ci inganna e fallisce in modo tale da non poter essere neanche presa a misura di se stessa.

D

b) Una concezione positiva della ragione che è in grado di attingere le verità umane e divine e rende simile l'uomo a Dio.

D

c) Positiva perché infallibile nell'ambito del finito e affidabile, anche se limitatamente al campo scientifico.

D

d) Positiva non in quanto essa non sbaglia mai, ma per la capacità che offre all'uomo di rendersi conto della sua pochezza e anelare a qualcosa di superiore e trascendente.

D e)

Negativa perché illude l'uomo e lo inganna e perché con la ragione l'uomo non può attingere alla salvezza divina che concerne l'ambito del sentimento e della morale.

Partendo dal suggerimento contenuto nella Presentazione, considera l'opera di Pascal come "libro delle risposte" e, selezionando cinque pensieri, cerca di formulare le domande a cui rispondono.

Prova a comporre tu un "pensiero" sul tema del divertissement, prendendo spunto dalla tua esperienza .























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SEZIONE OPERE BLAISE PASCAL, PEiiSJERI

Quali sono le differenze tra spirito di geometria e spirito di finezza?

Pasca l analizza la posizione dell'uomo, essere finito e determinato, rispetto al-. l'infinito. A quali risultati arriva?

D a)

L'uomo ha una posizione mediana, perché, pur finito, è capace di cogliere l'infinito.

D

b) L'uomo può cogliere l'infinito e i primi principi del mondo e, in questo senso, le sue capacità si eguagliano a quelle divine.

D

c) L'uomo è nulla rispetto all'infinito, non può concepirlo e ogni tentativo di avvicinarsi ad esso è vano e produce solo presunzione.

D d) D

L'uomo non ha significato particolare rispetto al tutto, è solo un atomo e obbedisce alle leggi del tutto: non ha senso dunque parlare di finitezza e di infinitezza.

e) L'uomo è parte di un universo finito e come tale va considerato: il concetto di infinito è impensabile.

Perché è necessario scommettere sull'esistenza di Dio, secondo Pascal?

D a) D b) D

Perché possiamo vincere un bene grandissimo anche se per farlo è necessario puntare molto, cioè sacrificare la nostra stessa vita che vale come l'infinito che dobbiamo guadagnare.

c) Non possiamo sottrarci alla scommessa perché se vinciamo, vinciamo un bene infinito, mentre se perdiamo, non perdiamo nulla.

D d) D

Perché se non si scommette Dio ci punirà per la nostra presunzione.

Perché vi è eguale probabilità di guadagno e, se vinciamo, guadagnamo due vite invece che una.

e) Perché è da vigliacchi non scommettere e, se non lo facciamo, perdiamo una occasione che poi non si ripresenterà più.

Spiega in che cosa consiste la diversità dell'argomento pascaliano della scommessa rispetto alle tradizionali prove dell'esistenza di Dio.

SEZIONE OPERE BUliSE PJISCAl, PENSIERI

Riassumi brevemente la posizione di Pasca l sulla questione del rapporto tra grazia e salvezza . •











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Prova a dare una spiegazione del paradosso pascaliano secondo il quale «infischiarsi della filosofia è fare veramente filosofia» . •









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Uno dei motivi ricorrenti nei Pensieri è la polemica contro il "dio dei filosofi". Spiega qual è il significato di questa polemica, prendendo spunto dalla seguente presa di posizione nei confronti di Cartesio. ((Non posso perdonar/a a Cartesio, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto al mondoper metter/o in moto; dopo di che non sa più che farne di Dio. ll

.................................................................... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . ... ... . ... . . . . . .. . ... . . . . . . . . . . . ... . .. . . . . . . . . . . . . . . . .... . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . ...... . . . . . ... . . .. . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . . . .. . . . . . .. . . . . . .. . . .. . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . .. . . . . . ... . . . . . . . . . . . . . . . . .

SEZIONE OPERE

BLAISE PASCA L, PENSIERI

' ' c h e cos'è un oggetto?" Se qualcuno ci ponesse una domanda simile, la troveremmo molto strana, paradossale. Il fatto è che crediamo di sapere esattamente che cos'è un oggetto: ho davanti a me un tavolo, dei libri, più in là un televisore, qualche sedia; fuori della finestra, in giardino, c'è un albero, vicino al muro c'è una bicicletta. Tutti questi sono "oggetti", anche se, osservandoli bene, sembrano abbastanza diversi fra loro: un libro non è un televisore, il quale è diverso da un albero ecc. Sì, ma cosa sono esattamente, e perché usiamo lo stesso nome per tutti? Di fronte a questa ulteriore domanda saremmo costretti a cercare di definire cosa intendiamo per oggetto/cosa. Potremmo azzardare una definizione, tra le varie possibili: per cosajoggetto intendiamo una certa quantità di materia - naturale o artificiale - che possiede determinate caratteristiche. Il nostro interlocutore, non contento, formulerebbe un'altra, "strana" domanda: "Tu parli di materia, ma cos'è la materia?". A questo punto, spazientiti, risponderemmo: "La materia? Certo che lo so! È ovvio. La materia è... è qualcosa che si tocca, si vede ... ". Siete proprio sicuri che basterebbe? Un bacio, un'ombra, un buco, sono fatti di materia? Nel1710, il filosofo anglo-irlandese George Berkeley pubblicò il Trattato sui principi della conoscenza umana. I:opera aveva tra i suoi scopi principali quello di dimostrare una tesi che, a prima vista, sembra assurda: non è affatto vera la credenza del "senso comune" secondo la quale fuori di noi vi è un mondo di cosejoggetti, che esiste indipendentemente dal nostro pensiero e dalla nostra percezione. Al contrario, le "cose" non esistono, ciò che esiste sono soltanto le nostre percezioni. La teoria di Berkeley, definita spesso immaterialismo, viene sintetizzata di solito nella formula latina esse est percipi, ossia "essere è essere percepito". Con le tesi di Berkeley si confronteranno, fra gli altri, nel XVIII secolo, Hume e Kant, e anche in seguito le posizioni del filosofo anglo-irlandese susciteranno un acceso dibattito. Nelle intenzione dell'autore, il Trattato sui principi della conoscenza umana doveva essere la prima parte di un'opera più ampia, che però non ha mai visto la luce. È diviso in paragrafi, in tutto 156, dei quali i primi venticinque costituiscono l'Introduzione, alla quale segue un capitolo intitolato Parte prima, Dei principi della conoscenza umana. Pur non avendo effettivamente le vaste dimensioni di un trattato,. il testo non può dirsi un saggio breve, come il Discorso sul metodo di Cartesio; per questo motivo ci limiteremo a presentare un'antologia dei paragrafi nei quali sono contenute le tesi più significative. I brani citati sono tratti da: G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari, Laterza 1973.

G~Oiteil: B~RKIEI.EV, TRATTATO SIJI PRINCIPI fJEWi

SEZIONE OPERE CONOSCENZA fJMIINil

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1

le idee astratte Una buona parte delle tesi che Berkeley sviluppa nel Trattato hanno lo scopo di confutare alcune posizioni sostenute da John Locke nel Saggio sull'intelletto umano (1690), in particolare la concezione della sostanza e la spiegazione della genesi delle Berkeley si confronta idee astratte EJs:lt•miiM31. r!ntroduzione è quasi tutta dedicata all'esame con Locke della questione delle idee astratte. Nei primi paragrafi, l'autore ricorda come, spesso, l'inconcludenza di molte indagini filosofiche finisca per indurre i lettori allo scetticismo, mentre, invece, chi resta ancorato al sano "buon senso" comune, non ha nessuna possibilità di finire nella trappola dei dubbi scettici. C'è chi pensa, dice l'autore, che queste difficoltà nascano perché il nostro intelletto è limitato - e qui tutti i commentatori hanno colto un riferimento, implicito, a quanto Locke sostiene a proposito dei limiti del nostro intelletto nella Introduzione al Saggio sull'intelletto umano - ma il problema non è questo. Si tratta piuttosto, ritiene Berkeley, di un cattivo uso delle nostre facoltà, che ha condotto all'adozione di principi errati. § 4 Il mio scopo consiste quindi nel cercar di scoprire quali siano quei princìpi che hanno portato, nelle diverse scuole filosofiche, tutti quei dubbi e quelle incertezze, tutte quelle assurdità e quelle contraddizioni, facendo sì che anche i più saggi tra gli uomini ritenessero che non ci fosse rimedio alla nostra ignoranza e pensassero che essa derivasse da incapacità e limitatezza congenite delle nostre facoltà. E senza dubbio è un lavoro che merita gli si dedichi ogni fatica, quello di indagare rigorosamente sui princìpi della conoscenza umana, vagliandoli ed esaminandoli da tutti i lati: soprattutto perché v è ragione di sospettare che gli impedimenti e le difficoltà che fermano e imbarazzano la mente quando essa cerchi la verità, non sorgano da oscurità o complicazioni negli oggetti ai quali si applica ovvero da difetti naturali dell'intelletto, ma piuttosto da falsi princìpi sui quali ci si è fondati mentre si sarebbe potuto evitarli. ~

G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari, Laterza 1973, p. 9

Il primo, importante esempio di falso principio che l'autore presenta è quello delle idee astratte. Molti sembrano convinti che gli esseri umani sono capaci di concepire questo tipo di idee, e Berkeley descrive sommariamente il modo in cui questo avverrebbe. § 7 Tutti riconoscono che le qualità o modi delle cose non hanno mai esistenza reale, ciascuna per conto suo e separata dalle altre. Sono invece, in certo modo, mescolate e fuse insieme, molte nello stesso oggetto. Ma v'è chi dice che la mente è capace di contemplare ogni singola qualità per conto suo, ossia astraendola dalle altre qualità con le quali è unita, e in tal modo giunge a formarsi

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SEZIONE OPERE

(i~OIU:i!: Dl:llli\oll.~:w, nur~''"'''"

SU/ PRINCIPI DELLA CONOSCENZA U!V1ANA

idee astratte. Per esempio, con la vista si percepisce un oggetto esteso e colorato in movimento: la mente, risolvendo quest'idea mista o composta nelle sue parti costitutive, e considerando ciascuna di queste isolatamente, giungerebbe a formar le idee astratte di estensione, di colore, di movimento. Non già che sia possibile che il colore od il movimento esistano senza l'estensione: però, la mente potrebbe formare per «astrazione)) l'idea del colore indipendentemente dall'estensione e l'idea del movimento indipendentemente tanto dal colore che dall'estensione. ~

Cit., pp. 10-11

Il primo a formulare la teoria dell'astrazione è stato Aristotele, ma Berke- La teoria ley pensa alla versione contemporanea di questa teoria, esposta nel Se- delle idee astratte condo libro del Saggio sull'intelletto umano di Locke. Per Berkeley, il nocciolo di tale posizione consisterebbe nella tesi che gli esseri umani sono capaci di rappresentarsi qualcosa, ovvero di concepire un'immagine, senza alcuna particolarità: un cane che non sia né grande, né piccolo, né maculato, né di colore uniforme; un fiore senza un colore determinato, una forma determinata ecc. È esattamente questo che Berkeley intende contestare. § 10 Se ci siano altri che abbiano questa meravigliosa potenza di astrar-

re le loro idee, potranno dirlo loro meglio di chiunque. Per conto mio, oso asserire positivamente che io non l'ho: mi accorgo in realtà d'essere capace di immaginare, ossia di rappresentarmi, le idee di quelle cose particolari che ho percepite, unendole fra loro e dividendole in vario modo. Posso immaginare un uomo con due teste, ovvero il busto d'l,.m uomo congiunto al corpo d'un cavallo. Posso considerare la mano, l'occhio, il naso ciascuno per conto suo, astratto ossia separato dal resto del corpo: però, qualunque sia la mano o l'occhio che immagino, deve avere una forma e un colore determinato. Del pari, l'idea di un uomo che compongo, deve essere idea di un uomo bianco o nero ovvero brunastro, diritto ovvero storto, alto o basso ovvero di statura mezzana. Non posso, per quanti sforzi di pensiero faccia, concepir l'idea astratta come l'ho descritta più sopra. Mi è altrettanto impossibile formar l'idea astratta di movimento distinto dal corpo che si muove, e che non sia né rapido né lento, né curvilineo né rettilineo. E si può dir lo stesso di qualsivoglia altra idea generale astratta. Per spiegarmi meglio: riconosco di esser capace di astrarre ma in un solo senso, cioè quando prendo a considerare certe parti specifiche ovvero certe qualità peculiari separate da altre quando è possibile che le prime esistano realmente senza queste ultime benché si ritrovino unite in qualche oggetto. Ma nego di poter astrarre l'una dall'altra, ossia di poter concepire separatamente quelle qualità che non possono realmente esistere isolate in que-

SEZIONE OPERE CONt1SCINlA UMANA

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1 ~LE

IDEE ASTRATTE

sto modo; nego d'esser capace di formare una nozione generale astraendo nel modo sopra descritto dai particolari: e sono questi due i significati esatti del termine wstrazione>>. C'è buona ragione di credere che moltissimi tra gli uomini riconosceranno di trovarsi nelle mie condizioni. La grande maggioranza, gente semplice e incolta, non pretende mai d'aver nozioni astratte. Si dice che esse sono difficili e che non possono venir conseguite senza studio e fatica: potremo quindi concludere con ragione che, se pure esistono nozioni astratte, sono un privilegio riservato ai dotti. ~

Cit., pp. 13-14

Si potrebbe affermare che la critica di Berkeley alla teoria della rappresentazione astratta sia di tipo naturalistico, ovvero è come se egli dicesse: provate, se ci riuscite, ad immaginare qualcosa senza che questo qualcosa abbia un minimo di Perché non esistono caratteristiche determinate. Se non ci riuscite, è perché è impossibile. Se le idee astratte le cose stanno così, Berkeley avrebbe scoperto una sorta di "legge" che governa qualsiasi rappresentazione, una legge così formulabile: ogni rappresentazione umana contiene un certo numero di caratteri che la distinguono da qualsiasi altra. Questo non significa, però, che Berkeley escluda la possibilità di pensare. Il suo scopo è quello di dimostrare che gli universali non dipendono da rappresentazioni astratte. Dialogando con Locke, egli afferma di comprendere l'esigenza, posta dal fondatore dell'empirismo, di capire come si formano le cosiddette idee astratte, ma, quanto alla genesi, lui propone una teoria alternativa. § 12 Potremo comprendere meglio come vengono fatte generali le parole esaminando in qual modo diventino generali le idee. Ma qui sarà bene rilevare che io non nego senz'altro che esistano idee generali: nego soltanto che ci siano idee generali astratte; infatti nei passi che abbiamo citati, quando si parla di idee generali, si suppone sempre tacitamente che esse vengano formate con un processo di astrazione, come è stato descritto nei§§ 8 e 9. Ora, se vogliamo che le nostre parole significhino qualcosa, se non vogliamo parlar d'altro che di ciò che possiamo concepire, dobbiamo ammettere che un'idea, particolare se considerata in se stessa, diventa generale quando si usa per rappresentare ovvero sostituire tutte le altre idee particolari della medesima specie. Per chiarire con un esempio, supponiamo che un geometra debba spiegare il metodo per dividere una linea in due parti uguali. Egli segna, ad esempio, una linea nera lunga un pollice: questa linea è, in se stessa, una linea particolare, e tuttavia, per il suo significato, è generale perché usata in tal modo da rappresentare qualsivoglia linea particolare, così che ciò che si dimostra di essa, resta dimostrato per tutte le linee ovvero (per dirlo con altre parole) per la linea in generale. E nello stesso modo in cui quella linea

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SEZIONE OPERE

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BERKElEY, 11lA1TJU'() SUl Pfllfii(!PI OEWI CON1CISCl:f~lA U!'w111Nil

lRf1Tl~~lO SU/ PRINCIPI DELLA

CONOSCENZA UMANA

particolare diventa generale per il fatto di essere usata come segno, così la parola

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Platone,Fedone, in: Opere complete, Bari, Laterza 1977, pp. 172-173

Nonostante le dottrine che distinguono l'anima dal corpo possano essere fatte risalire almeno a Platone, il padre del moderno dualismo è René Descartes. È quindi Descartes

SEZIONE TEMI MENTE,.CORPO

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2- Il DUALISMO

che ha posto il problema mente-corpo nei termini in cui viene discusso ancora oggi. Il pensiero di Descartes li13 1Jjmijt1$Mll;M1 costituisce uno spartiacque nella storia del problema mente-corpo proprio perché sostituisce la nozione antica, medioevale e rihascimentale di anima con quella moderna di mente. Questa sostituzione avviene sullo sfondo di una più ampia trasformazione della filosofia e della scienza Gli animali: avvenute all'inizio dell'età moderna. La Rivoluzione scientifica diffuse automi organici infatti una visione meccanicistica dell'universo, secondo la quale l'universo è una grande macchina costituita di parti materiali in movimento. Anche il corpo dell'uomo e degli animali è una macchina e come non c'è bisogno dell'intervento di una sostanza immateriale - l'anima - per far funzionare una macchina, così non c'è neppure bisogno dell'anima per far vivere il corpo. Con Descartes, dunque, l'immagine meccanicistica del mondo elaborata nel corso della Rivoluzione scientifica del XVII secolo D 2 P.lllMJ!IWt11iiiìilijlii!ijtitìu@~'I•JUi1, si estende anche ai fenomeni biologici: la vita è spiegabile utilizzando soltanto le nozioni di materia e di movimento. , ··

Quale differenza vi sia fra un corpo vivente e un corpo morto Consideriamo che la morte non sopravviene mai per colpa dell'anima, ma solo perché si corrompe qualcuna delle parti fondamentali del corpo. E il corpo di un uomo vivo differisce da quello di un morto, come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina che si muove da sé), quand'è montato e ha in sé il principio fisico dei movimenti per cui è fatto, e per quanto è richiesto alla sua azione, è diverso dal medesimo orologio, o altra macchina, quando è rotto, e il principio del suo movimento smette di funzionare. ~

R. Descartes, Le passioni dell'anima, Bari, Laterza 1966, art. 6

Mi sforzerò di [... ] spiegare in modo tale tutta la macchina del nostro corpo, che non avremo motivo di pensare che è la nostra anima che suscita in esso i movimenti che noi sperimentiamo essere condotti dalla nostra volontà, più di quanto ne abbiamo di giudicare che c'è un'anima di un orologio che fa sì che esso indichi le ore. ~

R. Descartes, Descrizione del corpo umano, in: Opere scientifiche, Torino, Utet 1981, p. 193

Eliminato qualunque principio immateriale per spiegare il funzionamento degli esseri viventi, Descartes ritiene però che occorra mantenerlo per spiegare l'origine del pensiero dell'uomo. Il pensiero umano infatti esibisce una caratteristica che non può essere ricondotta a una meccanica "disposizione d'organi": questa caratteristica è l'originalità, o creatività, che si manifesta soprattutto nel linguaggio. Poiché gli uomini sono in grado di dire e capire frasi che non hanno mai detto o udito in precedenza, e poiché, invece, un meccanismo che parlasse (Descartes si riferisce agli automi meccanici e ai pappagalli, oggi potremmo riferirei ai registratori o anche ai computer) lo potrebbe fare solo ripetendo espressioni che ha già udito (registrato), allora bisogna ritenere che nell'uomo è presente un principio immateriale con caratteristiche di originalità e creatività. Questo principio è per Descartes l'anima. ,,l

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SEZIONE TEMI

M~~n'IZ·COR!l'O

Mi ero qui fermato a far vedere in modo particolare che, se ci fossero macchine aventi organi e figura di scimmia o di altro animale privo di ragione, noi non avremmo nessun mezzo per riconoscere la differenza, mentre, se ve ne fossero che somigliassero al nostro corpo e imitassero le nostre azioni quanto meglio fosse possibile, noi avremmo pur sempre dei mezzi certissimi per riconoscere che esse non sono affatto per ciò dei veri uomini. Il primo è che non potrebbero mai valersi di parole o di altri segni, componendoli come noi facciamo per esprimere agli altri i nostri pensieri: poiché si può ben immaginare una macchina che profferisca delle parole, e anzi ne profferisca alcune riguardanti azioni corporali che producano qualche alterazione nei suoi organi, come domandare qualcosa se toccata in una parte, o gridare che le si fa male se toccata in altra parte, e simili cose; ma non già che essa disponga le parole diversamente per rispondere a tono a tutto quello che uno può dirle, come, invece, saprebbe fare anche l'uomo più idiota. Il secondo mezzo è che, anche se facessero alcune cose ugualmente bene e anzi meglio di noi, esse inevitabilmente sbaglierebbero in alcune altre, e si scoprirebbe così che non agiscono per conoscenza, ma solo per una disposizione dei loro organi. Soltanto la ragione, infatti, è uno strumento universale, che può servire in ogni specie di circostanze e tali organi, invece, hanno bisogno di una particolare disposizione per ogni azione particolare: sì che è come impossibile che ce ne siano tanti e così diversi in una macchina da farla agire in ogni occasione nel modo che agiamo noi con la nostra ragione. ~

Cartesio, Discorso sul metodo, in: Discorso sul metodo e Meditazioni filosofiche, Bari, Laterza 1978, pp. 40-41

Ponendo un principio immateriale per spiegare l'origine del pensiero, Descartes ha stabilito un'eccezione alla sua generale visione meccanicistica del mondo. Anche per questo è stato considerato dalla critica ora come l'estremo difensore della cultura medioevale che ha posto l'anima immateriale dietro l'ultima trincea del pensiero creativo, ora come il primo fra i moderni che ha avuto il coraggio di estendere il meccanicismo anche ai fenomeni biologici. Comunque sia, con Descartes il vecchio e il nuovo concetto di anima sono divenuti così diversi da non poter essere più confrontabili: principio della vita prima, principio del pensiero poi. Tuttavia c'è un elemento che, nonostante le profonde differenze, accomuna l'idea dell'anima che aveva Platone a quella che aveva Descartes. Entrambi considerano l'anima come una sostanza immateriale.

2.2

Quali ragioni per il dualismo? Molti degli argomenti con i quali Descartes ritiene di dimostrare la distinzione della mente dal corpo sono riconducibili a un modello di ragionamento che, nella logica contemporanea, è chiamato legge di Leibniz (in omaggio a G.W. Leibniz il quale non ha formulato la legge come tale ma ne ha posto i principi da cui può esser ricavata). Secondo la legge di

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er comprendere i termini in cui si pone il problema mente-corpo prendiamo in considerazione due tipi di eventi, quelli fisici e quelli mentali. Cominciamo, a titolo di esempio, da un evento fisico che avviene nel nostro corpo: la digestione. Nel cercare di rispondere alla domanda "che cos'è la digestione?", potremmo compilare una tabella che elencasse, per esempio, le varie reazioni chimiche, gli enzimi che le producono e gli organi in cui si svolgono. Enzima

Reazione

Organo

ptialina

amido -+ maltosio

ghiandole salivari

pepsina

proteine -+ polipeptidi

stomaco

lipasi

lipidi -

pancreas

latta si

lattosio -glucosio

monogliceridi

intestino

Naturalmente l'intero processo è molto più complesso di quello schematizzato, ma il punto è che, per quanto possa essere complessa la descrizione del fenomeno, essa farà sempre riferimento a processi fisici. Terminata la descrizione dei processi fisiologici coinvolti nella digestione, avremo spiegato che cos'è la digestione e, ovviamente, nessuno a meno che non abbia capito -potrà ancora porre la domanda "che cos'è la digestione?". Dunque la descrizione dei processi fisici coinvolti nella digestione non lascia fuori nessun aspetto del fenomeno. Consideriamo adesso un fenomeno mentale, per esempio la sensazione del colore rosso che si ha guardando un pomodoro maturo. Tentiamo, come abbiamo fatto per la digestione, una descrizione interamente fisica del fenomeno. Tale descrizione sarà più o meno come la seguente: "gli atomi della superficie di un pomodoro vengono bombardati dai fotoni; il che causa un cambiamento del livello energetico degli elettroni degli atomi che, a sua volta, determina l'emissione di una radiazione elettromagnetica di lunghezza d'onda compresa fra 500 e 600 nanometri; tale radiazione colpisce delle speciali proteine presenti sulla retina (iodopsine) che, conseguentemente, mutano struttura chimica e avviano una sequenza di reazioni elettrochimiche che si propagano lungo le vie nervose; tali vie, che vanno dal nervo ottico e attraversano strutture macroscopiche come il chiasma e i nuclei genicolati, conducono l'impulso nervoso in aree specializzate della corteccia cerebrale occipitale". Terminata la descrizione di tali processi fisici coinvolti nella visone dei colori, chiediamoci, come abbiamo fatto per la digestione, "che cos'è la visone del colore rosso?". A differenza della digestione, in questo caso la domanda può essere ancora riproposta perché in nessun punto della descrizione fisiologica della visione abbiamo mai incontrato qualcosa come il colore rosso. Né nell'oggetto visto, né nel soggetto che vede troviamo qualcosa anche di lontanamente somigliante al colore rosso. Abbiamo, sì, citato, una radiazione con À =500-600 nm, ma il punto è che noi non vediamo una radiazione À =500-

SEZIONE TEMI

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2- IL DUALISMO

Leibniz, se due entità sono identiche allora devono avere le stesse proprietà e, viceversa, se due entità hanno le stesse proprietà allora sono identiche. In modo formale: V (x, y) ((x=y) +-+ (Px= Py)) da leggersi "per ogni x e per ogni y, x è uguale a y se e solo se x possiede tutte le proprietà che possiede y". Argomentare a favore del dualismo utilizzando la legge di Leibniz significa dunque individuare almeno una proprietà della mente non posseduta dal corpo o viceversa. Abbiamo già citato la proprietà della creatività che per Descartes non può essere posseduta dalla materia. Ma le proprietà pertinenti sono, soprattutto, l'estensione e il pensiero: i corpi occupano spazio e le menti no, le menti pensano e i corpi no. Ma io, che sono io [... ]? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarci con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e rion ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v'è bisogno che mi fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell'anima, e vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che mi appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d'essere o d'esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa che pensa, 'e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione. ,. Cartesio, Seconda Meditazione, in: Discorso sul metodo e Meditazioni filosofiche, ci t., p. 79

E pertanto, dal fatto stesso che io conosco con certezza di esistere, e, tuttavia, osservo che nessun'altra cosa appartiene necessariamente alla mia natura o alla mia essenza, tranne l'essere una cosa pensante, concludo benissimo che la mia essenza consiste in ciò solo, ch'io sono una cosa pensante, o una sostanza, di cui tutta l'essenza o la natura è soltanto di pensare. E sebbene, forse (o piuttosto certamente, come dirò subito), io abbia un corpo, al quale sono assai strettamente congiunto, tuttavia poiché da un lato ho una chiara e distinta idea di me stesso, in quanto sono solamente una cosa pensante e inestesa, e da un altro lato ho un'idea distinta del corpo, in quanto esso è solamente una cosa estesa e non pensante, è certo che quest'io, cioè la mia anima, per la quale sono ciò che sono, è interamente e veramente distinta dal mio corpo, e può essere o esistere senza di lui. ,. Cartesio, Sesta Meditazione, in: Discorso sul metodo e Meditazioni filosofiche, cit., p. 126

Esaminando con attenzione ciò che ero, e vedendo che potevo fingere, sì, di non avere nessun corpo, e che non esistesse il mondo o altro luogo dove io fossi, ma non perciò potevo fingere di non esserci io, perché, anzi, e dal fatto stesso di dubitare delle altre cose seguiva nel modo più evidente e certo che io esistevo, [... ] ne conclusi esser io una sostanza, di cui tutta l'essenza o natura consiste solo nel pensare, e che per esistere non ha bisogno di luogo alcuno, né dipende da cosa alcuna materiale. ~

Cartesio, Discorso sul metodo, cit., parte IV, p. 23

A un certo punto della Seconda Meditazione metafisica, Descartes fa una caratteristica un'osservazione interessante che, nonostante nel suo contesto serva ad al- esclusiva della mente: tri scopi, può servirei per introdurre un'altra proprietà che alcuni riten- la privatezza gono caratteristica delle menti. Si tratta della privatezza: i corpi sono osservabili da tutti, mentre le menti soltanto dai loro possessori. E, tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprire degli spettri o degli uomini finti, o mossi solo per mezzo di molle? ~

Cartesio, Seconda Meditazione, cit., p. 84

È evidente che l'ipotesi che ((Cappelli e mantelli» coprano automi invece che uomini si fonda sul fatto che non possiamo "percepire" la mente degli altri. Poiché, invece, possiamo percepire la nostra, allora siamo di fronte a una caratteristica peculiare della mente: essa è accessibile solo al suo possessore. Gli oggetti fisici, invece, sono, per così dire, pubblici, cioè osservabili da tutti. Su tale caratteristica del mentale può essere costruito un argomento che non è ancora presente in Descartes ma che, come vedremo, sarà centrale nel dibattito contemporaneo.

2.3

Il problema dell'interazione Distinta la mente dal corpo, Descartes (ma con lui tutti i dualisti anche non cartesiani) deve rendere conto di come le due sostanze interagiscono, poiché è chiaro che fra eventi mentali e eventi fisici esiste una connessione sistematica e costante: ogni volta che voglio (evento mentale) camminare, le mie gambe si muovono (evento fisico), e, d'altra parte, ogni volta che la mia pelle viene lesionata (evento fisico), provo dolore (evento mentale). Descartes spiega tale interazione utilizzando il concetto di causa: gli eventi mentali causano quelli fisici e quelli fisici causano quelli mentali. Possiamo affermare che è solo la congiunzione del dualismo con l'interazionismo che identifica la dottrina di Descartes e che, perciò, è nota come interazionismo, o dualismo, cartesiano. Non tutte le forme di dualismo devono essere infatti interazioniste (come vedremo fra breve). D'altra parte vi sono forme di interazionismo non cartesiano (note come epifenomenismo) in quanto ritengono che la reazione di causa-effetto si stabilisca in una sola direzione: gli

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2 - Il DUALISMO

eventi corporei possono causare quelli mentali ma non viceversa. Secondo queste ultime, che hanno avuto un certo successo nel XIX sec. ma che non sono del tutto assenti anche oggi, la mente ha solo il compito di metterei al corrente di ciò che accade nel nostro corpo. Ma la mente non può agire sul corpo, essa fornisce soltanto un "monitoraggio", come fa un elettrocardiogramma che ci rivela come funziona il cuore ma che non può intervenire sul suo battito. Proprio il concetto di interazione causale fra mente e corpo si è rivelato, già ai suoi contemporanei, il punto più critico della teoria di Descartes. Elisabetta, principessil. di Boemia, scriveva a Descartes pregandolo di spiegarle · Come l'anima dell'uomo può determinare gli spiriti del corpo per le · azioni volontarie (non essendo l'anima che una sostanza pensante); sembrerebbe infatti che ogni determinazione di movimento si abbia per la spinta della cosa mossa, e secondo la spinta ricevuta dal motore, o secondo la qualificazione e figura della superficie del medesimo. Il contatto è necessario per le prime due condizioni, e l'estensione per la terza. Voi escludete completamente l'estensione dall'anima, e il contatto mi sembra incompatibile con una sostanza immateriale. 1>

Lettera di Elisabetta a Descartes del16 maggio 1643, in: R. Descartes, Le passioni dell'anima, cit., p. 119, nota

Anche Pierre Gassendi (1592-1655), un filosofo contemporaneo e seguace di Descartes osservava: Ogni unione non deve farsi col contatto delle due cose unite? Ma, come testé dicevo, in che modo un contatto può prodursi senza un corpo? Come una cosa corporea potrà abbracciarne una che è incorporea, per tenerla unita e congiunta a se stessa? Ovvero in che modo ciò che è incorporeo potrà attaccarsi a ciò che è corporeo, per unirvisi e congiungersi reciprocamente, se in esso non v'è assolutamente nulla per mezzo del quale se lo possa unire o possa essergli unito? 1>

P. Gassendi, Quinte Obiezioni contro la Sesta Meditazione, in: Cartesio, Discorso sul metodo e Meditazioni metajisiche, cit., p. 383.

Il problema dell'interazione è stato fatale alla dottrina di Descartes tanto che si può affermare che la storia del cartesianesimo è la storia del fallimento del dualismo cartesiano. Di fronte all'impossibilità di spiegare l'interazione fra mente e cor- 11 problema po si aprirono ai contemporanei e successori di Descartes due strade: o af- dell'interazione fermare il dualismo negando l'interazione (Geulincx, Malebranche), o ne- fatalealdualismo gare il dualismo stesso. La prima possibilità, che ha oggi ormai un interesse menimente storico, è costituita da dottrine quali l' occasionalismo e il parallelismo: per l'ocbasionalismo mente e corpo non interagiscono direttamente, è Dio che funge da mediatore (Malebranche); per il parallelismo mente e corpo sembra che interagiscano perché gli eventi mentali e quelli fisici sono stati sincronizzati all'attodella creazione (Leibniz). Scrive ad esempio Nicolas Malebranche (1638-1715):

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SEZIONE TEMI

MENn·C(UtPO

Il vostro corpo dunque non può agire immediatamente sul vostro spirito. Perciò, anche f)e il vostro dito fosse punto da una spina, ed il vostro cervello ne subisse una sollecitazione, niente dì tutto questo potrebbe agire nella vostra anima e farle sentire il dolore. Infatti né il dito né il cervello possono agire immediatamente sullo spirito, poiché non sono che materia. [... ]Voi non potete da voi stesso muovere il braccio, cambiare posto o posizione, fare agli altri uomini né del bene né del male, operare nel mondo il minimo mutamento. Vi trovate in mezzo agli altri senza alcuna forza, immobile come un macigno, inerte, per così dire, come un idiota. Ammettiamo pure che la vostra anima sia unita al vostro corpo strettamente fin che volete, e che per suo mezzo abbia rapporto con tutti coloro che vi circondano: quale vantaggio trarrete da questa unione immaginaria? Come farete per muovere solamente la punta d'un dito, per pronunciare solamente un monosillabo? Ahimè! Se Dio non viene in aiuto, voi non compirete che sforzi vani e non formulerete che desideri impotenti. [... ] Dio ha voluto che il braccio fosse mosso nell'istante che avrei voluto io stesso. [... ] Egli ha voluto che avessi certe sensazioni e certe emozioni, nel momento che avrei avuto nel cervello determinate tracce o sollecitazioni degli spiriti animali. [... ] In ciò sta l'unione, e la mutua dipendenza, delle due parti di cui siamo composti. 1>

3

N. Malebranche, Colloqui sulla metafisica, Settimo colloquio, Bologna, Zanichelli 1963, p. 219

Le teorie moniste La difficoltà di spiegare come interagiscono due sostanze diverse è un problema che si presenta ad ogni forma di dualismo. È questo il motivo per cui, in filosofia se non nell'opinione comune e nella religione, il dualismo è divenuto una posizione largamente minoritaria. Considerate le difficoltà del dualismo, e scartate le soluzioni paralleliste - che, ovviamente, rappresentano soluzioni ad hoc - restano quelle teorie che ammettono una sola sostanza e che, perciò, si chiamano moniste.

3.1

Materialismo Fra gli avversari del dualismo troviamo il filosofo inglese, contempora- Alle origini neo di Descartes, Thomas Hobbes che subito intervenne a discutere del materialismo le posizioni di Descartes contestandone uno degli assunti fondamen- moderno tali fi14'1Dt!lMS11[•1:l:!'1. Descartes afferma che, siccome la materia non può pensare, allora il pensiero è una proprietà di una sostanza immateriale. Ma Descartes, continua Hobbes, non ha provato che la materia non possa pensare: se la materia potesse pensare, il dualismo sarebbe falso.

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3 · LE TEORIE MONISTE

Tutti i filosofi distinguono il soggetto dalle sue facoltà e dai suoi atti, cioè dalle sue proprietà e dalle sue essenze; poiché altro è la cosa stessa che è, ed altro la sua essenza. Può, dunque, darsi, che una cosa che pensa sia il soggetto dello spirito, della ragione o dell'intelletto, e, pertanto che sia qualche cosa di corporeo; ed il contrario di questa ipotesi è assunto, o postulato, ma non provato. E, tuttavia, in ciò consiste il fondamento della conclusione che il signor Des Cartes sembra voglia stabilire. ~Terze

Obiezioni alla Seconda Meditazione, in: Cartesio, Discorso sul Metodo e Meditazioni, cìt., p. 217

L'accusa che Hobbes rivolge a Descartes è quella di commettere un errore logico, cioè una fallacia argomentativa che si chiama petizione di principio. Essa consiste nell'assumere fra le premesse di un ragionamento ciò che invece dovrebbe essere una fallacia dimostrato. Descartes dunque non può sostenere che l'anima è immate- nell'argomento riale perché la materia non può pensare, infatti la frase "la materia non di Descartes? può pensare" è proprio ciò che deve essere dimostrato. Questa fallacia può essere, e di fatto è stata, utilizzata come risposta da parte dei materialisti contro le argomentazioni dei dualisti fondate sulla legge di Leibniz. In generale, non si può sostenere che siccome una certa proprietà non può essere posseduta dalla materia allora quella proprietà appartiene a una sostanza non materiale senza aver prima dimostrato che tale proprietà non può essere posseduta dalla materia. Le obiezioni fondate sulla legge di Leibniz, dunque, non sono state più considerate una minaccia per il materialismo, il che non significa però, come vedremo, che il materialismo sia del tutto privo di problemi. Hobbes è uno dei primi rappresentanti in età moderna della posizione materialista, secondo la quale la materia è l'unica sostanza esistente e ad essa possono essere ricondotte tutte le attività mentali. Tutti i fenomeni della realtà, inclusi quelli psichici, possono essere spiegati utilizzando solo i due concetti di corpo e di movimento. La posizione materialista di Hobbes nasce dall'idea che tutto ciò che accade nel mondo fisico deve avere una causa fisica e che, pertanto, anche i movimenti corporei causati da atti, per esempio, di volontà, devono avere una causa fisica. Dunque l'anima che vuole deve essere materiale. Un moto non può essere generato che da un corpo mosso e contiguo. Da ciò si intende che la causa immediata della sensazione è nel fatto che il primo organo della sensazione è toccato e premuto. [... ] Una sen· sazione, dunque, è un moto interno del senziente, un moto generato da un moto interno delle parti dell'oggetto e propagato attraverso tutti i mezzi alla parte più interna dell'organo. [... ] Dunque proporremo la definizione della sensazione facendola consistere nella spiegazione delle sue cause e nell'ordine della sua generazione, così: la sensazione è un'immagine prodotta dal movimento di reazione che l'organo di senso ha avuto quando l'oggetto con cui è entrato in contatto l'ha mosso. ~T.

Hobbes, De Corpore XXV, 2, in: Elementi di filosofia, Torino, Utet 1986, pp. 370-380 [traduzione parzialmente modificata]

Il materialismo è divenuto una prospettiva molto influente in età contemporanea. La sua versione più recente può esser fatta risalire alla fine degli anni Cinquanta del XX sec. quando un gruppo di filosofi australiani, Ullin Piace, John Jameison Carswell Smart e David Armstrong, propose una teoria della mente secondo la quale gli 11 materialismo stati mentali sono identici a stati cerebrali. Secondo questa teoria, nota co- australiano me teoria dell'identità, il dualista è vittima, (per usare un'espressione che contemporaneo fu di Francis Bacone) di un idolum fori, più precisamente di un inganno linguistico. Egli è indotto a credere nell'esistenza di una mente distinta dal corpo perché nel linguaggio esistono le parole 'mente' e 'cervello'. Ma, così come si è scoperto che Espero e Fosforo non sono due corpi celesti ma solo due nomi per il pianeta Venere, 'mente' e 'cervello' sono due parole che si riferiscono a uno solo oggetto: il cervello. Secondo i materialisti contemporanei l'identità mente-corpo deve essere considerata un'ipotesi empirica, cioè un'ipotesi di lavoro, la conferma o falsità della quale è dimostrabile solo a partire dai risultati delle indagini scientifiche, in particolare da quelli delle neuroscienze. Se oggi consideriamo il problema mente-corpo, sembra che dovremmo renderne conto a partire dalle seguenti considerazioni. Lo stato attuale della ricerca scientifica rende probabile che si possa fornire una descrizione interamente fisico-chimica del corpo umano. Sembra sempre più verosimile che il corpo e il cervello dell'uomo siano costituiti e funzionino secondo gli stessi principi fisici che governano la materia inorganica. La differenza fra una pietra e un corpo umano sembra risiedere soltanto nella estrema complessità con cui la materia è organizzata nel corpo vivente che invece è assente nella pietra. Inoltre ci sono forti indizi che lo stato del nostro cervello determini lo stato della nostra coscienza e dei nostri stati mentali in generale. Tutto ciò mi sembra indiscutibile, ed è facile immaginare quali tipi di prove sarebbero necessarie per sostenere il mio punto di vista. In particolare, ritengo che sia possibile che l'indagine empirica futura possa dimostrare che una spiegazione fisico-chimica del funzionamento del cervello non sia praticabile. Ma supponiamo che invece lo sia, come credo. Allora sarebbe naturale concludere che gli stati mentali non siano semplicemente determinati dai corrispondenti stati cerebrali, ma siano realmente identici agli stati cerebrali [... ]. ~D.M.

Armstrong, The Nature of Mind and Other Essays, Ithaca, Cornei! University Press 1980, p. 39

La teoria dell'identità è una teoria materialistica che si distingue però in modo significativo dal materialismo delle epoche precedenti, come p. es. quello di Hob- Materialismo bes. Il materialismo del passato proponeva una tesi metafisica: da Demo- metafisica e crito a Hobbes i materialisti si sono impegnati a dire quali fossero i costi- materialismo tuenti ultimi della realtà. Per i sostenitori della teoria dell'identità, invece, epistemologico la tesi secondo cui gli stati mentali sono stati cerebrali è un'ipotesi empirica. Quindi la sola autorità che possa legittimamente dire che cosa sono gli stati cerebrali e come da essi

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lE TEORIE MONISTE

sorgano quelli mentali è la scienza, verosimilmente la neurologia. Questa forma di materialismo, pertanto, si astiene dal pronunciarsi sulla natura della realtà e si caratterizza per la tesi secondo la quale è compito della scienza spiegare ciò di cui è fatta la realtà. Se si sostiene, come fanno i dualisti, che gli stati mentali hanno proprietà non riconducibili in qualche modo a quelle fisiche, si deve allora ammettere l'esistenza di entità che non trovano posto in una spiegazione scientifica del mondo. J.J.C. Smart si è opposto a tale posizione perché: Sembra che la scienza ci stia progressivamente fornendo un punto di vista per il quale possiamo considerare gli organismi come meccanismi fisico-chimici: sembra, anzi, che lo stesso comportamento umano possa essere un giorno spiegabile in termini meccanicistici. Per quanto riguarda la scienza, non sembrano esserci nel mondo nient'altro che aggregati di elementi fisici di crescente complessità. Dappertutto tranne che in un posto: la coscienza [... ]; che tutto sia spiegabile in termini fisici, tranne che il verificarsi delle sensazioni, mi sembra francamente incredibile . .,. J.J.C. Smart, Sensations and brain processes, in: 11Philosophical Review11, 68, 1959, pp. 53-54

L'argomento di Smart sopra riportato chiama in causa la semplicità della spiegazione: se la scienza è in grado di spiegare un fenomeno, allora non dobbiamo ricorrere a spiegazioni ulteriori o diverse da quelle fornite dalla scienza. Ma, naturalmente, che la scienza sia in grado di spiegare o no l'origine degli stati mentali da quel- Perché preferire li cerebrali è una questione che non è possibile decidere oggi. Quindi l'ar- una teoria ad un'altra gomento della semplicità della spiegazione può essere ritenuto non decisivo dai dualisti. I materialisti hanno tuttavia nel loro arsenale un'ulteriore risorsa che sembra ben più efficace. Si tratta del cosiddetto principio della chiusura causale del mondo fisico, un principio che abbiamo già incontrato in Hobbes. '

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SCHEDA-FILOSOFIA

Alcune teorie del rapporto mente-corpo INTERACT/ON/SM (INTERAZIONISMO)

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Prendiamo un qualunque evento fisico, diciamo, il decadimento dell'atomo di uranio o la collisione fra due stelle in una lontana regione dello spazio, e tracciamo la loro storia causale all'indietro, tanto a lungo quanto volete; il principio della chiusura causale del mondo fisico dice che quella ricostruzione non vi porterà mai fuori del mondo fisico. Così, nessuna catena causale che implica un evento fisico oltrepasserà mai i confini del mondo fisico per entrare nel nonfisico: se x è un evento fisico e y è una causa o un effetto di x, allora anche y deve essere un evento fisico. [... ] Così, se il principio della chiusura causale del mondo fisico vale, allora, per spiegare il verificarsi di un evento fisico non c'è mai bisogno di uscire fuori dal mondo fisico. Si confronti quanto detto con il cartesianesimo: secondo il dualismo interazionista cartesiano, una catena causale che comincia con un evento fisico può benissimo lasciare il mondo fisico e entrare in quello mentale (causazione da fisico a mentale), rimanervi per un po' (causazione da mentale a mentale) e tornare nel mondo fisico (causazione da mentale a fisico). Questo significa che gli eventi mentali e gli eventi fisici sono correlati nella stessa catena causale e che, data una completa spiegazione causale del perché è avvenuto un evento fisico, qualche volta dobbiamo uscire fuori del mondo fisico e cercare una causa mentale di quell'evento. Ne segue, perciò, che secondo il dualismo cartesiano non può esserci nessuna teoria fisica completa del mondo fisico. Per spiegare alcuni eventi fisici, dovete uscire dal regno del fisico e appellarvi a qualche agente causale non fisico e a leggi che ne governino il comportamento! Una fisica completa non potrebbe essere in linea di principio possibile, anche solo come fine ideale. Secondo il modello cartesiano, neppure il dominio del mentale sarebbe chiuso; e né la fisica né la psicologia potrebbero essere elaborate indipendentemente l'una dall'altra . .- J. Kim, Philosophy of Mind, Westview Press, Boulder 1998, p. 147

3.2

l problemi del materialismo Scriveva nel XVII secolo Leibniz: Immaginiamo una macchina in grado di pensare, sentire, percepire; ed immaginiamo che sia così grande da poterei entrare a visitarla, come in un mulino. Visitandone l'interno non si troveranno altro che pezzi di materia che si spingono a vicenda, ma non si troverà nulla che possa spiegare la percezione . .- G.W. Leibniz, Monadologia, Bari, Laterza 1971, art. 17

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LE TEORIE MONISTE

Il tipo di obiezione più diffusa al progetto di identificare gli stati mentali con stati cerebrali risiede in un argomento che riprende quello di Leibniz e che è noto come argomento della conoscenza. La prima volta fu proposto da Thomas Nagel nell'articolo divenuto celebre Che effetto fa essere un pipistrello? (1974). L'ecogoniometro di un pipistrello, anche se è chiaramente una forma di percezione, non è simile, nel suo modo di funzionare, a uno qualsiasi dei nostri sensi, e non c'è ragione di supporre che sia soggettivamente simile a qualsiasi cosa di cui noi possiamo fare esperienza, o a qualsiasi cosa possiamo immaginare. Questo sembra creare difficoltà per la nozione dell'effetto che fa essere un pipistrello. [... ] La nostra esperienza particolare fornisce il materiale fondamentale per la nostra immaginazione, e il campo di essa è quindi limitato. Non serve a niente cercare di immaginare che abbiamo membrane palmate sui nostri arti che ci permettono di volare qua e là al crepuscolo e all'alba acchiappando insetti con la bocca; che abbiamo una vista molto debole e percepiamo il mondo circostante con un sistema di segnali sonori riflessi a alta frequenza; e che passiamo la giornata appesi a testa in giù in una soffitta. Per quanto io posso immaginarmi tutto questo (che non è molto), ciò mi dice soltanto che effetto farebbe a me comportarmi come si comporta un pipistrello. Ma la questione non è questa. Io desidero sapere che effetto fa essere un pipistrello a un pipistrello. [... ]· Questo ha direttamente a che fare con il problema mente-corpo. Se i fatti dell'esperienza -fatti che riguardano che effetto fa l'esperienza per il soggetto che la prova - sono accessibili solo da un punto di vista, allora è un mistero come il vero carattere delle esperienze potrebbe essere rivelato nel funzionamento fisico di quell'organismo. ~T

Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello?, in: Questioni morta/t, Milano, Il Saggiatore 1986

La sua variante più nota è quella proposta nel1982 dall'americano Frank Jackson che immagina una neuroscienziata del futuro di nome Mary. Mary è prigioniera in una stanza in bianco e nero, viene educata con libri in bianco e nero e tramite lezioni trasmesse su uno schermo televisivo in bianco e nero. In tal modo ella impara tutto ciò che c'è da sapere sulla natura fisica del mondo. Ella conosce tutti i fatti fisici che riguardano noi e il nostro ambiente, in un senso ampio di fisico tale che include la fisica, la chimica, la neurofisiologia, e quant'altro c'è da sapere. [... ] Se il fisicalismo è vero, ella sa tutto ciò che c'è da sapere. Poiché supporre altrimenti significherebbe supporre che c'è qualcosa di più da sapere dei puri fatti fisici, e questo è ciò che il fisicalismo nega.

Il fisicalismo non è la tesi controversa secondo la quale il mondo reale è in gran parte fisico, ma la tesi che è interamente fisico. Questo perché il fisicalismo sostiene che una conoscenza fisica completa è una conoscenza completa simpliciter. Tuttavia, sembra che Mary non sappia tutto ciò che c'è da sapere. Infatti quando viene liberata dalla stanza in bianco e nero, o quando le viene data una televisione a colori, essa impara che effetto fa vedere qualcosa di rosso, diciamo. [... ] Quindi, il fisicalismo è falso. ~F.

Jackson, What Mary Didn't Know, in: 11The Journal of Philosophy» 83, 1986, pp. 291-295

Tutti gli argomenti che abbiamo visto, quello del mulino di Leibniz, quello dei pipistrelli di Nagel e quello di Mary di Jackson, cercano di mostrare la falsità del materialismo ragionando secondo il seguente schema: 1) se qualcosa è fisico deve poter essere descritto dalla scienza fisica; 2) gli stati mentali non possono essere descritti dalla scienza fisica; 3) quindi gli stati mentali non possono essere fisici. Come ci si può aspettare, i materialisti non sono stati per nulla toccati da questo tipo di critiche poiché essi sostengono che tanto la prima quanto la seconda premessa non sono state dimostrate. Per questo motivo, il materialismo continua ad essere una delle maggiori opzioni disponibili. Una rappresentazione schematica delle teorie sul rapporto mente-corpo si trova alla pagina seguente.

3.3

Idealismo In quanto il materialismo sostiene l'esistenza di una sola sostanza esso è una forma di monismo, ma il monismo non è solo materialista: quando invece della materia si scelga come unica sostanza la mente, abbiamo l'idealismo, rappresentato nella Rovesciare il monismo filosofia moderna da Berkeley 1!1 4 I:@(O@fimfM!ùi1!WIIl/l[ì/MWUtill@lkmìtUUMIMI materialista e in quella contemporanea soprattutto dall'idealismo classico tedesco di Fichte, Schelling e Hegel. Si tratta, come nel caso del parallelismo, di dottrine che hanno oggi solo un interesse storico. Tuttavia può essere interessante riportare un tipo di argomentazione con la quale l'idealismo può essere sostenuto perché ha resistito, fino ad oggi, ad ogni tentativo di confutazione. La posizione idealista è facilmente comprensibile se si parte dal presupposto, già presente in Descartes, che dell'esistenza delle nostre sensazioni c'è maggiore certezza di quella relativa all'esistenza del mondo esterno. Le nostre sensazioni sono immediate, mentre l'esistenza di un mondo esterno deve invece essere dedotta da quella delle nostre sensazioni. Non dubitiamo di avere sensazioni; e, inoltre, pensiamo che esse siano causate dagli oggetti esterni. Ora, per definizione, le nostre sensazioni sono mentali. Ma se è vero che mentale e fisico non possono interagire, allora, se le nostre sensazioni sono causate, devono avere una causa mentale. Quindi gli oggetti esterni che causano le nostre sensazioni hanno natura mentale.

SEZIONE TEMI MEtUI:·COIIPO

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3- LE TEORIE MONISTE

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Teorie del rapporto mente-corpo

teorie moniste

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interagiscono

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(Descartes)

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teorie dualiste

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(Leibniz)

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identità

funzionalismo

mente

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idealisti

Il funzionalismo Una soluzione al problema dell'interazione mente-corpo più radicale del parallelismo e del monismo è fornita da quella linea di pensiero che ha operato una graduale dissoluzione dell'anima intesa come sostanza. Questa prospettiva, che annovera fra i suoi esponenti Aristotele, Locke la sll•JIIIIk•IIl3i!ll, Hurne fjl6 tlìJl\fliiJ:IIIm§l e Kant 19 9 II~Mfil!lil#NW, ritiene che l'anima, la mente o l'io non siano un'entità, una cosa, ma una funzione. Con ciò viene dissolto anche il problema dell'interazione fra due sostanze.

4.1

la dissoluzione del problema La differenza fra la prospettiva in questione e quelle sostanzialistiche (dua- 11 rifiuto listi che o monistiche) può essere apprezzata considerando la diversità del- delle prospettive le domande alle quali tentano di rispondere: mentre per Descartes la do- sostanzialistiche manda fondamentale è "che cos'è" la mente, per Aristotele, Locke, Hume e Kant la domanda da porre è "che cosa fa" la mente. Scrive Hume in una celebre pagina del Trattato sulla na-

tura umana: Per parte mia, quando più profondamente mi addentro in ciò che chiamo me stesso, sempre m'imbatto in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso, e si può dire che realmente, durante quel tempo, non esisto. E se le mie percezioni fossero soppresse dalla morte, sì che non potessi più né pensare né sentire, né vedere né amare, né odiare, e il mio corpo fosse dissolto, io sarei interamente annientato, e non so che cosa si richieda di più per fare di me una perfetta non-entità. [... ] Noi non

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siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in perpetuo flusso e movimento. [... ] La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un'infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c'è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l'inclinazione naturale che abbiamo a immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c'è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta. D>

D. Hurne, Trattato sulla natura umana, in: Opere, Bari, Laterza 1971, pp. 264-265

E Aristotele aveva scritto nel De anima: ((Se l'occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe il vedere)) (De anima II, 412b 18). Ciò che definisce l'anima è la funzione che svolge, questa funzione è svolta da certi organi, ma non è identica a quegli organi. Muoversi è una funzione svolta dalle gambe, ma non è identificabile con le gambe, infatti la stessa funzione può essere svolta da organi o meccanismi diversi (pinne, ali ecc.). Per Aristotele, dunque, l'anima non è qualcosa di materiale; ma, nello stesso tempo non ha senso neppure parlare di separazione dell'anima dal corpo, come non ha senso parlare di visione senza occhio. Diciamo, semplicemente, che il sostantivo 'anima' dovrebbe essere sostituito dall'aggettivo 'animato': non dovremmo dire che un corpo ha un'anima, ma che un corpo è animato intendendo con ciò, semplicemente, che è un corpo che vive e funziona come dovrebbe. Un modo molto simile di affrontare il problema mente-corpo ha avuto una grande diffusione in epoca contemporanea con una teoria nota come funzionalismo. Ad essa dedicheremo il paragrafo seguente.

4.2

La teoria computazionale Il materialismo ha conosciuto in età contemporanea una rinascita in 11 contributo quanto è sembrato la prospettiva più conciliabile con l'immagine scien- del xx secolo tifica del mondo che, soprattutto tra XVIII e XIX sec., si è prepotentemente affermata grazie allo sviluppo delle scienze fisiche e biologiche. Ma l'obiezione cartesiana secondo la quale la materia non può pensare perché mancante di creatività e originalità è rimasta un ostacolo per il materialismo fino a quando non è stata disponibile una teoria che rendesse conto di come potessero essere realizzate nella materia proprietà come la creatività. Lo sviluppo di una teoria del genere ha tolto, sì, al dualismo una delle sue armi ma invece che favorire il materialismo ha fatto nascere una nuova teoria: il funzionalismo. Teorie in grado di spiegare quella che Descartes chiamava creatività hanno cominciato ad essere disponibili ad opera, fra gli altri, di studiosi come il matematico inglese Alan Turing (1912-1954) e il linguista americano Noam Chomsky (1928-). Tali teorie si fondano sull'idea che la creatività è comunque un'attività governata da regole, più precisamente

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4 Il FUNZIONALISMO N

dall'applicazione ripetuta di una regola ai risultati ottenuti da una precedente applicazione della stessa regola: concetto che viene identificato dal termine ricorsività. Benché si fosse compreso che i processi linguistici sono in un certo senso "creativi", gli strumenti tecnici per esprimere un sistema di processi ricorsivi semplicemente non erano disponibili fino a tempi molto recenti. Infatti una comprensione piena di come una lingua può [... ] "fare un uso infinito di mezzi finiti" si è sviluppata soltanto negli ultimi trent'anni, nel corso di studi sui fondamenti della matematica. Ora che queste conoscenze sono disponibili, si può tornare ai problemi che erano stati sollevati, ma non risolti, nella teoria linguistica tradizionale, e tentare una formulazione esplicita degli aspetti "creativi" del linguaggio. ~N.

Chomsky, Aspetti della teoria della sintassi, in: Saggi linguistici, Torino, Boringhieri 1970, pp. 48-49

La peculiarità inconfondibile della.voro in Intelligenza Artificiale di- ~--.· . .· ·. _· . pende dal fatto che si cerca di stabilire [... ] insiemi di regole che dica,, . no a macchine non flessibili come essere flessibili. i) ~

D.R. Hofstadter, Goedel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, Milano, Adelphi 198.6, p. 28

Poiché i meccanismi fisici sono governati da regole o possono implementare regole (come Descartes sapeva bene quando parlava degli automi come esempi di comportamento ripetitivo, cioè regolare), e la creatività può essere ricondotta a regolarità, allora è possibile che opportuni meccanismi fisici possano essere creativi. Macchine fisiche che im- La creatività plementano regole e che tuttavia sono creative esistono già in natura: il cer- governata da regole vello umano e altri sistemi fisici complessi, come per esempio quello immunitario. Ma, dalla seconda metà del XX secolo, hanno cominciato ad essere disponibili anche macchine artificiali in grado di implementare e eseguire regole in modo ricorsivo: i computer. È quindi · ovvio che, ad un certo punto della storia del problema mente-corpo, dovesse sorgere la questione se la mente umana funzioni come un computer e se i computer possano pensare. Nel 1950 A. Turing propose un test, che da lui ha preso il nome, per stabilire se una macchina può pensare (si noti che il test di Turing soddisfa le condizioni imposte da Descartes per decidere se un essere può pensare). Mi propongo di considerare la domanda: "possono pensare le macchine?". [... ] La nuova forma del problema può essere descritta nei termini di un gioco, che chiameremo il "gioco dell'imitazione". Questo viene giocato da tre persone, un uomo (A), una donna (B) e l'interrogante (C), che può essere dell'uno o dell'altro sesso. L'interrogante viene chiuso in una stanza, separato dagli altri due. Scopo del gioco per l'interrogante è quello di determinare quale delle altre due persone sia l'uomo e quale la donna. Egli le conosce con le etichette X e Y, e alla fine del gioco darà la soluzione "X è A e Y è B" o la soluzione "X è B e Y è A". L'interrogante può far domande di questo tipo ad A e B: "vuol dirmi X, per favore, la lunghezza dei propri capelli?" Ora supponiamo che X sia

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in effetti A, quindi A deve rispondere. Scopo di A nel gioco è quello di ingannare C e far sì che fornisca una identificazione errata. [... ] Le risposte, in modo che il tono della voce non possa aiutare l'interrogante, dovrebbero essere scritte, o, meglio ancora, battute a macchina. [... ] Poniamo ora la domanda: "che cosa accadrà se una macchina prenderà il posto di A nel gioco?". L'interrogante darà una risposta errata altrettanto spesso di quando il gioco viene giocato tra un uomo e una donna? Queste domande sostituiscono quella originale: "possono pensare le macchine?". Il metodo delle domande e risposte sembra essere adatto per introdurre nell'esame quasi ogni campo della conoscenza umana che desideriamo. Non desideriamo penalizzare la macchina per la sua incapacità di brillare in un concorso di bellezza, né penalizzare un uomo perché perde una corsa contro un aeroplano. Le condizioni del nostro gioco rendono irrilevanti queste incapacità. 11-

A. Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, in: AA.VV., La filosofia degli automi, Torino, Bollati Boringhieri 1965, pp. 116-117

Fra i primi programmi progettati in modo da superare con un certo sue- un campionato per cesso il test di Turing sono da menzionare ELIZA, compilato da Weizen- le macchine pensanti baum nel 1965 e PERRY, compilato da Colby nel 1973, entrambi progettati per simulare una seduta psichiatrica. Dal 1991 è stato bandito il Premio Loebner, una sorta di campionato mondiale che si svolge annualmente e che mette in palio $ 100.000 per il miglior programma in grado di superare il test di Turing. È evidente che occuparsi del problema se le macchine possano pensare significa occuparsi del problema se la mente umana sia "meccanizzabile". La diffusione, lo sviluppo della scienza e della tecnologia dell'intelligenza artificiale hanno, dunque, implicato a partire dagli anni Sessanta l'elaborazione di una teoria computazionale della mente, più brevemente nota con il termine funzionalismo. Fra i suoi fondatori e più autorevoli sostenitori ricordiamo gli americani Hilary Putnam e Jerry Fodor. In sintesi questa teoria sostiene che la mente sta al cervello come il software sta all'hardware di un computer. Tesi caratteristica del funzionalismo è che il cervello è soltanto il mezzo in cui è fisicamente realizzata la mente, ma, come un programma per computer è definito senza nessun riferimento alle componenti fisiche del computer (i computer hanno componenti elettroniche solo perché è il modo più comodo di costruirli, in teoria potrebbero funzionare ad acqua, ad ingranaggi ecc.) anche la mente potrebbe essere realizzata in supporti fisici diversi. Così è possibile che esseri con un cervello diverso dal nostro, come gli alieni o gli animali, o senza un cervello affatto, come i computer, possano pensare. Negli ultimi quindici anni, dalla riflessione filosofica sugli sviluppi dell'intelligenza artificiale, dalla teoria della computazione, della linguistica, della cibernetica e della psicologia, è emersa una filosofia della mente, che non è né dualistica né materialistica, e che prende il nome di funzionalismo. Tutti questi campi, classificati collettivamente come scienze

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4- IL FUNZIONALISMO

cognitive, hanno in comune un certo livello di astrazione e un interesse per sistemi di elaborazione dell'informazione. Il funzionalismo, che cerca di fornire un resoconto filosofico di questo livello di astrazione, riconosce la possibilità che sistemi così diversi fra loro come esseri umani, macchine calcolatrici [... animali e alieni] possano tutti avere stati mentali. Nella concezione funzionalistica la psicologia di un sistema non dipende da ciò di cui è fatto (cellule viventi, metallo o energia spirituale), ma dal modo in cui è assemblato ciò che lo compone. ~

J. Fodor, Il problema mente-corpo, in: «Le Scienze» n. 91, 1996, p. 21

Vorrei concludere dicendo che [... ]la nostra sostanza, ciò di cui siamo fatti, non stabilisce pressoché nessuna restrizione [... ] alla nostra forma, e che ciò che veramente ci interessa, come dice Aristotele, è la forma, non la materia. La domanda da porsi non è: che cos'è la materia?, bensì che cos'è la nostra forma intellettuale?. E qualunque cosa sia la nostra sostanza, spirito, materia, o emmenthal svizzero, essa non porrà alcuna interessante restrizione [... ] alla risposta a tale domanda. 1>

H. Putnam, Mente, linguaggio e realtà, Milano, Adelphi 1987, p. 330

Secondo il funzionalismo gli stati mentali sono stati logici, per i quali è indifferente essere realizzati in un materiale piuttosto che in un altro. Fisicamente potrebbe trattarsi di un sistema di leve e ingranaggi come un vecchio calcolatore meccanico; di un sistema idraulico attraverso cui scorre acqua; di una rete di transistor stampati in un chip di silicio attraverso cui passa corrente elettrica; o addirittura di un cervello. Ognuna di queste macchine utilizza un proprio mezzo peculiare per rappresentare i simboli [su cui opera]: le posizioni degli ingranaggi, la presenza o assenza di acqua, il livello di tensione elettrica, e, forse, gli impulsi nervosi. ~

Johnson-Laird P. N., La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva, Bologna, Il Mulino 1990, p. 39

La tesi, caratteristica del funzionalismo, secondo la quale gli stati men- cervelli di carne, tali possono essere realizzati fisicamente in materiali diversi è nota come di silicio e di tesi della realizzazione molteplice. Essa ha costituito anche la principale emmenthal svizzero obiezione al materialismo. Infatti se gli stati mentali possono essere identici a strutture materiali diverse, allora è falso che siano identici (solo) a stati cerebrali, come vogliono i materialisti. Il funzionalismo ha proposto un modo di analizzare gli stati mentali che è detto, appunto, analisi funzionale. Secondo questo tipo di analisi un enunciato in cui compare un riferimento a uno stato mentale può essere tradotto in un altro enunciato in cui lo stato mentale è definito in funzione di altri stati mentali e comportamenti. Per esempio lo stato mentale del signor Rossi "credere che stia per piovere" può essere tradotto in: "il signor Rossi ha uno stato mentale x tale che è causato dalla lettura delle previsioni del tempo, dall'osservazione del cielo, e che a sua volta causa il prendere l'ombrello, il timore di bagnarsi ecc.".

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4.3

l problemi del funzionalismo All'idea che i computer possano pensare si è decisamente opposto John Searle il quale nel1980 propose un argomento divenuto poi celebre come argomento della stanza cinese. Un modo per esaminare qualunque teoria della mente è quello di chiedersi che cosa avverrebbe se la mia mente funzionasse in base a quei principi che la teoria stabilisce come comuni a tutte le menti. [... ] Supponiamo che io sia chiuso dentro una stanza e che mi si dia una serie di fogli scritti in cinese. Supponiamo inoltre (come infatti è il caso mio) che non conosca il cinese, né scritto né parlato e che, anzi, non sia nemmeno in grado di poter riconoscere uno scritto cinese in quanto tale, distinguendolo magari dal giapponese o da scarabocchi senza senso. Per me la scrittura cinese è proprio come tanti scarabocchi senza senso. Ora supponiamo ancora che mi si dia un secondo pacco di fogli, sempre scritto in cinese, unitamente ad una serie di regole per mettere in relazione il secondo plico con il primo. Le regole sono nella mia lingua e io capisco queste regole come qualunque altro parlante la mia stessa lingua. Esse mi rendono possibile mettere in relazione una serie di simboli con una serie di altri simboli esclusivamente in virtù della loro forma. Ora supponiamo che mi si dia una terza serie di simboli cinesi con le relative istruzioni, sempre nella mia lingua, che mi rendano possibile correlare elementi di questo terzo pacco con i primi due, e che queste regole mi istruiscano su come riprodurre certi simboli cinesi con certi tipi di forme datemi nel terzo plico. A mia insaputa, le persone che mi danno tutti questi simboli chiamano il primo pacco di fogli "uno scritto", chiamano il secondo "una storia" e il terzo "quesiti". Inoltre chiamano i simboli che rendo loro in risposta al terzo plico "risposte ai quesiti", e la serie di regole nella mia lingua che mi hanno dato la chiamano "il programma". [...] Supponiamo anche che io diventi così bravo nel seguire le istruzioni per manipolare simboli cinesi e che i programmatori diventino così bravi nello scrivere i programmi che dal punto di vista esterno - cioè dal punto di vista di qualcuno al di fuori della stanza nella quale sono chiuso - le mie risposte alle domande assolutamente non si distinguano da quelle di cinesi madrelingua. Nessuno che guardi bene alle mie risposte può dire che io non parli una parola di cinese [...] ma produco le risposte con il manipolare simboli formali non interpretati. Per quanto riguarda il cinese, mi comporto semplicemente come un computer: eseguo operazioni calcolabili su elementi formalmente specificati. Per il caso del cinese, io sono semplicemente una istanziazione di un programma per computer. ~

J. Searle, Menti, cervelli, programmi, Milano, Clup-Clued 1984, pp. 48-49

Si noti che Searle opera una sorta di rovesciamento del test di Turing: laddove Turing assume che a parità di comportamenti uomo e macchina non possano essere distinti, per

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4-

Il FUNZIONALISMO

Searle a comportamenti identici non possono essere attribuiti gli stessi sta- 11 test di Turing ti interiori. Per Searle la differenza fra comprendere i simboli cinesi e sem- rovesciato plicemente manipolarli senza comprenderli non è diagnosticabile attraverso un esame dei comportamenti: a parità di comportamento l'uomo capisce, il computer no. La proprietà del comprendere, come tutte le altre proprietà mentali, non potendo essere proprietà del software lo sarà dell'hardware: per Searle la mente è una proprietà del cervello. I fenomeni mentali, tutti i fenomeni mentali, tanto coscienti quanto inconsci, visivi o auditivi, dolori, solletichi, pruriti, pensieri, proprio tutto ciò che fa parte della nostra vita mentale è causato da processi che avvengono nel cervello. [...] Credo che il risultato di questa discussione sia di ricordarci di qualcosa che abbiamo sempre saputo: e cioè che gli stati mentali sono fenomeni biologici. La coscienza, l'intenzionalità, la soggettività e la causazione mentale sono tutte parte della nostra vita biologica, così come la crescita, la riproduzione, la secrezione di bile e la digestione. 11>

J. Searle, Mente, cervello e intelligenza, Milano, Bompiani 1987, pp. 11, 33

Abbiamo visto che il funzionalismo sostiene che il materiale di cui siamo fatti è ininfluente sull'avere stati mentali. Infatti se anche computer, animali e alieni possono avere stati mentali, allora, poiché hanno cervelli fisicamente diversi dal nostro, il materiale di cui è fatto il cervello non ha influenza sugli stati mentali. Questa prospettiva prescinde dagli aspetti fisici dell'organismo che ha stati mentali, il che significa che prescinde dalla sua struttura biologica. Siccome ciò che conta è il programma e il programma può girare su strutture fisiche diverse, si hanno conseguenze paradossali. Immaginiamo un corpo artificiale esternamente simile a un corpo umano, diciamo al vostro, ma internamente molto differente. I neuroni che provengono dagli organi di senso sono connessi a un pannello, su cui si trovano delle spie luminose, posto nella cavità del cranio. Un insieme di bottoni [su un altro pannello permette di attivare] i neuroni motori. Nella cavità cranica del corpo artificiale vive una popolazione di omuncoli. Ogni omuncolo deve svolgere un compito molto semplice [...]. Su una parete si trova un pannello sul quale viene affisso l'ordine del giorno. Ecco ciò che gli omuncoli devono fare: supponiamo che sia affisso un ordine del giorno con su scritto "G". Questo mette in allarme un determinato gruppo di omuncoli detti appunto "omuncoli G". Supponiamo che le luci sul pannello luminoso rappresentino l'input numero 117 • Uno degli omuncoli-G ha unicamente questo compito: quando compare l'ordine del giorno G e si accende la luce 117, egli deve premere il bottone 0 17 [che determina un output] e cambiare l'ordine di servizio in M. Questo omuncolo-G è chiamato a esercitare il suo compito molto raramente. Nonostante lo scarso livello di intelligenza richiesto a ciascun omuncolo, il sistema nel suo insieme riesce a simulare [i vostri comportamenti].

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Quanti omuncoli sarebbero necessari? Forse un miliardo. Supponiamo di convertire il governo della Cina al funzionalismo e di convincere i suoi funzionari [... ] a imitare una mente umana per un'ora. Forniamo a ciascuno degli abitanti della Cina (ho scelto la Cina a causa del suo alto numero di abitanti) una speciale radio ricetrasmittente che li connetta in modo appropriato tra di loro e al corpo artificiale menzionato nell'esempio precedente. [Abbiamo quindi] rimpiazzato ciascuno omuncolo con un abitante della Cina munito di radio. Invece dell'ordine di servizio scritto su carta, sistemiamo le cose in modo che le lettere appaiano su una serie di satelliti posti in modo tale che essi possano essere visti da qualunque parte della Cina. Il sistema composto dal miliardo di cinesi che comunicano reciprocamente e con i satelliti svolge il ruolo di un "cervello" esterno al corpo artificiale e connesso ad esso via radio. [... ]Non è per niente ovvio che il sistema "Cina-corpo artificiale" sia fisicamente impossibile. Potrebbe essere funzionalmente equivalente a voi per breve tempo, diciamo per un'ora. [... ] Ciò che fa [degli esempi sopra descritti] dei contro-esempi al funzionalismo è che ci sono seri dubbi circa il fatto che tali sistemi possano avere stati mentali; specialmente se possano avere ciò che i filosofi hanno variamente chiamato "stati qualitativi" [come sensazioni, dolori ecc.]. ~

N. Block, Troubles With Functinalism, in: Minnesota Studies in the Philosophy of Science, vol. 8, Minneapolis, Minnesota University Press 1978

Ciò che viene messo in luce da Block è che gli stati funzionali, cioè un programma per computer, non sono sufficienti perché si abbiano stati mentali. Se gli stati mentali sono un programma allora possono essere riprodotti in sistemi diversi, come il sistema Cina-corpo artificiale o quello del robot abitato da una popolazione di omuncoli, per i quali non siamo disposti a dire che essi abbiano stati mentali. Quindi è dubbio anche che gli esseri umani abbiano stati mentali nel caso in cui questi siano programmi. Questi casi sono noti come casi degli stati mentali assenti. Ma c'è anche il caso degli stati mentali invertiti. [Si immagini] la seguente coppia di organismi: l'organismo A ha una visione cromatica "normale ", ovvero, ad esempio, non soltanto vede i colori delle foglie simili sotto qualche aspetto al colore dell'erba, ma percepisce anche la somiglianza dei colori delle foglie e dell'erba in modo analogo a noi: le cose verdi appaiono ad A nel modo col quale si manifestano a noi. Si faccia però un confronto con l'organismo B. B rileva uno schema di somiglianze e differenze di colori uguale ad A Ad esempio, sia B che A vedono che foglie ed erba si avvicinano nel colore più di quanto ognuna delle due sia simile alle carote o alle arance. Ma fra Be A si ha la differenza seguente: le cose verdognole (come l'erba e le foglie) appaiono a B proprio come gli oggetti rossicci (quali i pomodo-

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4-IL FUNZIONALISMO

ri e le carote) sembrano ad A (e a noi). In altre parole, il carattere qualitativo della sensazione avvertita da B quando egli vede pomodori e carote è identico al carattere qualitativo della sensazione di A quando questi osserva erba e foglie, a parità di ogni altra cosa sull'economia mentale di A e B. ~

J. Fodor, Mente, in: Enciclopedia Einaudi, vol. IX, Torino, Einaudi 1980

Ciò che risulta dai casi discussi da Block e da Fodor è che il funzionalismo non riesce ad afferrare la qualità degli stati mentali. Ciò che per noi conta nell'avere stati mentali non è infatti solo che siano determinati e che determinino altri stati mentali e comportamenti, ma la loro qualità. Ciò che conta nella visione del colore rosso è proprio la visione della "rossezza", e non solo il fatto che quando vediamo i camion dei pompieri sappiamo usare la parola 'rosso'. Si pensi al caso del dolore: biologicamente il dolore Perché il dolore ha la funzione di un allarme, ma tale allarme non sarebbe efficace se il do- "fa male"? lore non facesse male e si limitasse a far sorgere la semplice credenza di aver subito un danno. I punto critico del funzionalismo è che l'analisi funzionale di due esseri con stati .qualitativi diversi, o addirittura quando in uno dei due siano assenti, è la stessa. Dunque deve esserci qualcosa che non va. Per questa ragione, il funzionalismo ha perso negli anni Ottanta gran parte della sua attrattiva e ciò, unitamente ai progressi che si sono avuti nella ricerca neurologica, ha riportato la prospettiva materialista in primo piano.

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Ci sono speranze di risolvere il problema? Nei paragrafi precedenti abbiamo affrontato principalmente una questione: come possono gli stati mentali sorgere dalla materia? Le posizioni che si fronteggiano sembrano oggi essere sostanzialmente due: quella degli ottimisti, che ritiene che il problema derivi dall'attuale stato delle conoscenze ma che un giorno potrà ricevere una risposta soddisfacente, e quella dei pessimisti o meglio dei misteriani come essi amano definirsi, per la quale il rapporto mente-corpo non è un problema ma un mistero, destinato perciò a rimanere per sempre irrisolvibile. La posizione ottimista può essere esemplificata da Francis Crick, vincitore, insieme a Watson, del premio Nobel1962 per aver scoperto la struttura del DNA. Egli propone di avviare un programma scientifico di ricerca per lo studio della coscienza.

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'!'

Il messaggio del [mio] libro è questo: è giunto il momento di pensare in modo scientifico alla coscienza [... ], è tempo di cominciare seriamente e deliberatamente uno studio sperimentale della coscienza. ~

F. Crick, La scienza e l'anima, Milano, Rizzoli 1994, p. 10

Crick sembra dunque aver fiducia in ciò che i fondatori della teoria dell'identità fra stati mentali e stati cerebrali scrivevano quarant'anni fa: l'affermazione dell'identità è un'ipotesi empirica e come tale deve essere confermata o smentita solo per via sperimentale.

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La posizione dei misteriani può essere rappresentata dalle parole di 1criceti possono Colin McGinn. Secondo questo autore il problema mente-corpo rappre- imparare l'algebra? senta un vero e proprio limite cognitivo della specie umana, un problema la cui soluzione va al di là delle capacità intellettive umane, più o meno come l'algebra va al di là delle capacità cognitive dei criceti. ,, '

Abbiamo cercato per molto tempo di risolvere il problema mente-corpo, ma esso ha ostinatamente resistito ai nostri sforzi migliori. Credo che sia giunto il momento di ammettere candidamente che non potremo mai risolvere il mistero [... ].La proprietà della coscienza stessa (o di uno specifico stato conscio) non è una proprietà del cervello percepibile o osservabile. Potete stare in un cervello conscio e vivente, il vostro o quello di qualcun altro, e vedere che c'è un gran numero di proprietà: la sua forma, il suo colore ecc. ma non vedrete con questo che il soggetto sta avendo esperienza di uno stato conscio. Semplicemente, gli stati consci non sono, in quanto stati consci, oggetti potenziali di percezione. Essi dipendono dal cervello ma non possono essere osservati mediante l'osservazione diretta del cervello. Non potete vedere uno stato cerebrale in quanto stato conscio. ~

C. McGinn, Can We Salve the Mind Body Problem?, in: «Mind», XCVIII 1989, pp. 349-366

Riempi le caselle della seguente tabella relativa agli argomenti pro e contro il dualismo.

Collega con una freccia gli elementi delle due liste seguenti. a) Materialismo

1) Il materiale di cui è fatto un organismo non influisce sui suoi stati mentali.

b) Idealismo

2) Ogni teoria sul problema mente-co,rpo deve essere soggetta a verifica empirica.

c) Dualismo

3) Gli oggetti che causano le nostre sensazioni hanno la stessa natura delle sensazioni.

d) Monismo

4) La natura mentale delle sensazioni e il problema dell'interazione ci permette di determinare in modo univoco la natura degli oggetti delle sensazioni.

e) Funzionalismo

5) Il meccanicismo non è una spiegazione completa del mondo.

Disponi nella successione corretta i seguenti passaggi.

D D D D D D D D

a) b) c) d) e) f) g) h)

Ma i computer capissero ciò che fanno secondo Searle: quindi se sappiamo che un uomo che si comporta come un computer non capisce ciò che fa i computer non capiscono ciò che fanno. un uomo che si comportasse come un computer capirebbe ciò che fa .

.In che cosa differiscono la teoria dell'identità e quella computazionale? D a) La prima è monista la seconda dualista. D b) La prima è una teoria la seconda una tecnologia. D c) La prima si basa su stati fisici la seconda su stati funzionali. D d) La prima si basa su stati funzionali la seconda su stati fisici.

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Qual è il principale problema del funzionalismo?

D D

a) Inverte gli stati qualitativi. b) Elimina gli stati qualitativi.

D c) D

Non riesce a spiegare gli stati qualitativi.

d) Attribuisce stati qualitativi a oggetti che non ce l'hanno.

Il principio della chiusura causale sostiene che:

D D D D

a) ogni effetto deve avere una causa b) ogni causa fisica deve avere un effetto c) ogni effetto fisico deve avere una causa d) ogni effetto fisico deve avere una causa fisica.

Il principio della semplicità della spiegazione sostiene che:

D D D D

a) fra spiegazioni equivalenti dobbiamo adottare quella più semplice b) una spiegazione deve semplificare il fenomeno da spiegare c) dobbiamo scegliere la spiegazione che ha per oggetto il fenomeno più semplice d) c'è una spiegazione semplice per ogni fenomeno per quanto sia complesso.

Completa le seguenti frasi con: "anche il computer capisce" e "neppure l'uomo capisce". Secondo (alcuni) funzionalisti se un computer superasse il test di Turing significherebbe che .................................................................. . Secondo Searle invece significherebbe che .................................. .

L'argomento della conoscenza intende dimostrare che:

D D D

a) la descrizione in termini fisici del mondo non è completa b) la descrizione in termini fisici del mondo è sbagliata c) non possiamo conoscere come funziona il sistema percettivo di creature diverse da noi

D d)

non possiamo percepire il mondo in modo diverso da come i nostri sensi ci consèntono.

L'argomento della Cina elaborato da Block intende dimostrare che:

D

a) l'analisi funzionale non può essere applicata al di fuori degli studi di intelligenza artificiale

D b) D D

oggetti a cui non attribuiamo comunemente stati mentali invece li hanno

c) l'analisi funzionale non dà una spiegazione adeguata di alcuni stati mentali d) i computer possono simulare il verificarsi di stati mentali qualitativi.

SEZIONE TEMI MENTE·CORPO

u un totale di circa cinquanta secoli di storia dell'uomo solo gli ultimi quattro hanno visto lo sviluppo della scienza e di questi appena un paio sono stati caratterizzati da una crescita significativa della tecnica. Dall'inizio della prima Rivoluzione industriale, verso la fine nel XVIII sec., le condizioni materiali delle società umane (occidentali) sono mutate più di quanto non sia accaduto nei cinque millenni precedenti. Se si fanno le stesse considerazioni avendo però come riferimento l'intera storia della Terra, invece che solo quella dell'uomo, il significato e la portata della nascita e dello sviluppo della scienza e della tecnica risaltano con ancora maggiore evidenza. Un espediente didattico spesso utilizzato per far apprezzare la durata temporale relativa degli eventi che sono accaduti sulla Terra è quello di paragonare l'intera storia del pianeta a una giornata: se la Terra si fosse formata alla mezzanotte, l'intera storia dell'uomo sarebbe concentrata nei due secondi precedenti la mezzanotte successiva. Considerando questi due secondi equivalenti a cinquemila anni di storia, gli ultimi due secoli di storia della società industriale e tecnologica, corrispondono a circa 8 centesimi di secondo. È noto che lo sviluppo tecnologico ed economico ha determinato delle condizioni di pericolo per il sistema ecologico del nostro pianeta e che, secondo alcune stime, fra circa un secolo il clima potrebbe essere mutato in misura tale da non consentire più la vita umana almeno in certe zone del pianeta. Aggiungiamo quindi altri 4 centesimi di secondo, equivalenti a un secolo, al conto che abbiamo appena fatto e ne ricaviamo che mentre la Terra ha impiegato quasi un'intera giornata di 24 ore (per la precisione 24 ore meno 12 centesimi di secondo) per raggiungere condizioni tali da consentire lo sviluppo della civiltà umana, l'uomo ha impiegato solo 12 centesimi di secondo per distruggerle. Queste considerazioni devono farci comprendere quanto sia potente la tecnologia che abbiamo a disposizione: i suoi effetti sono paragonabili a quelli delle forze naturali, geologiche e biologiche, che hanno plasmato il pianeta nel corso di quattro miliardi e mezzo di anni. È ovvio però che tale potere può avere conseguenze sia positive che negative. I mutamenti prodotti sull'ambiente dalle attività umane sono rapidi, violenti e globali, mentre i cambiamenti che avvengono naturalmente sono lenti, graduali e locali. In altre parole, i mutamenti prodotti dalla società industriale e tecnologica sull'ambiente non rispettano i tempi (lenti) e gli spazi (limitati) con i quali gli ecosistemi del pianeta potrebbero "metabolizzarli". Il dominio sulla natura che la scienza e la tecnica hanno consentito all'umanità negli ultimi due secoli è una novità assoluta, poiché l'uomo è stato per millenni vittima delle forze naturali. Grazie alla scienza e alla tecnica l'umanità si è emancipata dalla carestia (la quantità di cibo non dipende più dalle condizioni meteorologiche), da molte malattie (la vita media durante, p. es., l'impero romano era di circa trent'anni), dalla fatica (l'energia disponibile prima della Rivoluzione industriale era quella muscolare): in una parola la vita dell'uomo si è allungata ed è migliorata. D'altra parte, tali miglioramenti hanno anche determinato un deterioramento dell'ambiente e una riduzione delle sue risorse tali da mettere in pericolo il futuro stesso dell'umanità. Non deve essere trascurato, poi, il fatto che solo una minoranza dell'umanità gode dei benefici della società tecnologica. Soltanto gli Stati Uniti, con una popolazione pari al

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SEZIONETEMI

SCIENZA ETECt:!CA

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5,7% di quella mondiale, consumano il40% delle risorse naturali mondiali e producono il 50% dell'inquinamento industriale mondiale. Tutto ciò comporta una alternativa drammatica: da una parte non è possibile che la maggioranza della popolazione mondiale resti esclusa dallo sviluppo, ma, d'altra parte, partecipandone accrescerebbe in modo proporzionale il problema dell'inquinamento e dell'esaurimento delle risorse.

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SEZIONE TEMI !iCif.l~lA ETECNICA

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DIBATTITO

"Vile ingegnere!" Il confronto fra la durata della storia della scienza e della tecnica e quella della storia in senso ampio ci porta a una domanda che spesso è stata posta anche dagli studiosi: perché gli antichi non avevano una tecnica? La risposta è complessa. In primo luogo bisogna osservare che l'istituto della schiavitù, mettendo a disposizione grandi quantità di lavoro gratuito, non favorì la ricerca di nuove tecnologie. In secondo luogo occorre tenere presente il disprezzo che gli antichi nutrivano verso il lavoro manuale in genere. Detto ciò bisogna però anche considerare che la tecnica di un'epoca è in stretto rapporto con la scienza di quell'epoca. E allora si può affermare che gli antichi non avevano una tecnica semplicemente perché non avevano una scienza. Infatti la tecnica, in quanto è la capacità di intervenire con efficacia sulla natura, presuppone una conoscenza il più possibile esatta di come la natura funziona: come già comprese il filosofo inglese Francesco Bacone (

D. Diderot, Arte, in: La filosofia dell'Encyclopédie/D'Alembert-Diderot, Bari, Laterza 1966, pp. 162-164

L'idea che il benessere dell'umanità dipenda dallo sviluppo della scienza e della tecnica e che il progresso umano debba quindi essere affidato alla scienza, domina il positivismo ottocentesco, e viene ripresa per esempio dal suo fondatore Auguste Comte (17981846) che vede presentarsi, con l'avvento della società industriale e tecnologica, delle occasioni inedite di emancipazione e realizzazione umana. Il rapporto fra scienza e tecnica è anche in Comte come quello fra mezzo e fine: La scienza è la vera base razionale dell'azione dell'uomo sulla natura; [...] solo la conoscenza delle leggi dei fenomeni, il cui risultato costante è di farceli prevedere, può evidentemente condurci nella vita attiva a modificarli a nostro vantaggio [... ].Insomma, scienza donde previsione; previsione, donde azione: tale è la formula semplicissima che esprime in modo esatto la relazione generale tra la scienza e l'arte [la tecnica], prendendo questi due termini nella loro accezione totale. ~A.

Comte, Corso difilosofia positiva, (antologia), Torino, Paravia 1957, p. 34

Le parole di Comte riecheggiano quelle di Bacone e di Condorcet, dell'opera dei quali, del resto, egli stesso si riteneva un continuatore. Ma Comte fu profondamente influenzato anche dal pensiero del suo maestro, il socialista utopista Saint-Simon (17601825), che stabili in modo tanto convinto un legame tra tecnica e organizzazione della società da immaginare una forma di società tecnocratica. Supponiamo che la Francia perda all'improvviso i suoi cinquanta primi fisici, i suoi cinquanta primi chimici, i suoi cinquanta primi fisiologi, i suoi cinquanta primi matematici, [...] i suoi cinquanta primi meccanici, i suoi cinquanta primi ingegneri civili e militari, i suoi cinquanta primi architetti, [... ] i suoi cinquanta primi medici, i suoi cinquanta primi farmacisti, [... ] facendo in tutto i primi tremila sapienti artisti e artigiani della Francia. Questi uomini sono i produttori più necessari alla Francia, forniscono i beni più importanti, dirigono i lavori più utili per la nazione e la rendono feconda nelle scienze, nelle arti e nei mestieri: sono realmente il fiore della società francese; sono i francesi più utili alloro paese, [... ] che accelerano di più la sua civilizzazione e la sua prosperità: la nazione, perduti costoro, diverrebbe un corpo senza anima; cadrebbe immediatamente in uno stato di inferiorità nei confronti delle nazioni di cui è oggi rivale, e sarebbe sempre subalterna alloro sguardo, finché non avesse posto ri-

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SEZIONE TEMI SCIENZA Tf.CNICA

paro a questa perdita, finché non le fosse rigermogliata una testa. Passiamo ad un altro caso. Supponiamo che la Francia conservi tutti gli uomini di genio che essa possiede nelle scienze, nelle arti e nei mestieri e che invece abbia la disgrazia di perdere, nello stesso giorno, sua altezza il fratello del re, monsignore il duca di [... ], la duchessa di [... ], il duca di [... ], che essa perda contemporaneamente tutti i grandi ufficiali della corona, tutti i ministri di stato, tutti i consiglieri, tutti i suoi marescialli, tutti i suoi cardinali, arcivescovi, vescovi e [... ] tutti i prefetti; tutti gli impiegati dei ministeri, tutti i giudici [... ].Questo avvenimento rattristerebbe indubbiamente i francesi, perché essi sono buoni e non . potrebbero restare indifferenti di fronte alla sparizione improvvisa di un gran numero di compatrioti. Ma questa perdita di trentamila individui, i più importanti dello Stato, non sarebbe causa per loro di dolore se non in un senso puramente sentimentale poiché non ne risulterebbe alcun danno politico per lo Stato. La prosperità della Francia non può essere determinata se non per effetto e come risultato del progresso delle scienze, delle belle arti e delle arti e mestieri: ora, i principi, i grandi ufficiali della corona, i vescovi, i marescialli di Francia, i prefetti e i proprietari oziosi non lavorano affatto per il progresso delle scienze; non vi contribuiscono, anzi, non possono non nuocervi, perché si sforzano di protrarre il predominio esercitato fino ad oggi dalle teorie [metafisiche] sulle conoscenze positive [... ], nuocciono perché impiegano i loro mezzi pecuniari in modo non direttamente utile per le scienze. ~

C.-M. Saint-Simon, Parabola di Saint-Simon, XV, in: Il socialismo prima di Marx, Roma, Editori Riuniti 1973, pp. 82-83

3

Tecnica e regresso La situazione di incondizionata fiducia nella tecnologia documentata nel La tecnica conduce paragrafo precedente è radicalmente mutata nel xx sec., in particolare necessariamente con le guerre mondiali: con esse la scienza fu posta al servizio della di- al progresso struzione. Emerge allora la consapevolezza che la scienza e la tecnica non hanno di per sé un valore positivo o negativo ma che esso dipende dall'uso che ne viene fatto. I tre brani che seguono sono del filosofo Bertrand Russell (1872-1970) e del biochimico e genetista John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964). Da quando gli uomini cominciarono a pensare, le forze della natura li hanno oppressi; terremoti, inondazioni, pestilenze, e carestie li hanno riempiti di terrore. Finalmente grazie alla scienza l'umanità sta scoprendo come evitare molto della sofferenza che tali eventi hanno finora causato. Lo stato d'animo con cui l'uomo moderno dovrebbe far

SEZIONETEMI li!.! ENZA EUr.tm:A

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3- TECNICA

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E REGRESSO

fronte all'universo mi sembra debba essere di tranquilla fiducia in se stesso. L'universo come è conosciuto dalla scienza non è in se stesso né amico né nemico dell'uomo, ma si può far sì che agisca come un amico se lo si avvicina con attitudine di paziente investigatore. Quando si tratta dell'universo l'unica cosa necessaria è la conoscenza. L'uomo, solo fra le cose viventi, si è mostrato capace della conoscenza necessaria a dargli una certa padronanza del proprio ambiente. I pericoli per l'uomo nel futuro, o almeno in qualunque futuro prevedibile, verranno non dalla natura ma dall'uomo stesso. Userà egli saggiamente del suo potere? O volgerà l'energia dalla lotta contro la natura in lotte contro il suo prossimo? ~

B. Russell, Sintesifilosofica, Firenze, La Nuova Italia 1973, p. 348

I cambiamenti cui è stato soggetto negli ultimi due secoli il mondo in cui viviamo in seguito all'applicazione delle scoperte scientifiche sono stati in parte buoni, in parte cattivi; ma se, alla fine, la ·scienza proverà di essere stata una benedizione o una maledizione è ancora, a mio avviso, una questione dubbia [... ].La scienza ha accresciuto il controllo umano sulla natura e si potrebbe perciò ugualmente supporre che aumenterà la sua felicità e il suo benessere. Le cose starebbero così se gli uomini fossero razionali, ma di fatto essi sono solo grovigli di passioni e istinti. ~B.

Russe]], Icaro o il futuro della scienza, in: M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi, cit., p. 189

È naturalmente un'impresa disperata tentare una qualsiasi profezia esat-

ta su quanto la conoscenza scientifica rivoluzionerà nei dettagli la vita umana, ma io credo che essa continuerà a essere rivoluzionaria, e assai più profondamente di quanto ho fin qui suggerito. [... ] Possiamo guardare alla scienza da tre punti di vista. In primo luogo essa è la libera attività delle divine facoltà umane della ragione e dell'immaginazione. In secondo luogo essa è la risposta a talune delle richieste diffuse di ricchezza e benessere, doni che la scienza garantirà solo in cambio della pace, della sicurezza, della quiete. Infine, essa è la graduale conquista da parte dell'uomo dello spazio e del tempo, poi della materia, quindi del suo corpo e di quello degli altri esseri viventi, e in ultimo la sottomissione degli elementi oscuri e malvagi della sua stessa anima. Nessuna di queste conquiste sarà mai completa, ma tutte, come io credo, saranno progressive. La questione di ciò che l'uomo farà di questi suoi poteri è nella sua essenza una questione che riguarda [l'etica]. Possiamo !imitarci a insistere che essi sono adatti solo alle mani di un essere che abbia appreso il controllo di se stesso e che l'uomo armato della scienza è come un bambino con una scatola di fiammiferi. ~

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SEZIONE TEMI SCII:I\llA EJI:CNII:A

J.B.S. Haldane, Dedalo o la scienza e il futuro, in: M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi, Torino, Loescher, 1982, pp. 185-186

Ma il colpo decisivo dato all'idea secolare che lo sviluppo tecnico-scientifico sia necessariamente positivo e che, sotto le sue insegne, il cammino dell'umanità fosse improntato al progresso doveva venire dalla scoperta dell'energia nucleare: con essa si aprì la possibilità di ottenere un'energia praticamente illimitata, ma anche quella della distruzione totale. Appena un mese prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Albert Einstein (1879-1955), fuggito dalla Germania nazista negli USA, scriveva al presidente Roosevelt di temere che Hitler fosse prossimo a disporre di ordigni nucleari. Signor Presidente, la lettura di alcuni recenti lavori di Enrico Fermi e Leo Szilard, comunicatimi sotto forma di manoscritto, mi induce a ritenere che, tra breve, l'uranio possa dare origine a una nuova e importante forma di energia. Alcuni aspetti del problema, prospettati in tali lavori, dovrebbero consigliare all'Amministrazione la massima vigilanza e, se necessario, un tempestivo intervento. Ritengo quindi mio dovere richiamare la Sua attenzione su alcuni dati di fatto e suggerimenti. Negli ultimi quattro mesi, grazie agli studi di Joliot in Francia e di Fermi e Szilard in America, ha preso sempre più consistenza l'ipotesi che, utilizzando una adeguata massa di uranio, vi si possa provocare una reazione nucleare a catena, conenorme sviluppo di energia e formazione di un gran numero di nuovi elementi simili al radio: non vi è dubbio che ciò si potrà realizzare tra breve. In tal modo si potrebbe giungere alla costruzione

3 -TECNICA E REGRESSO

di bombe che - è da supporre - saranno di tipo nuovo ed estremamente potenti. Uno solo di tali ordigni, trasportato via mare e fatto esplodere in un porto, potrebbe distruggere l'intero porto e parte del territorio circostante. D'altra parte, l'impiego di queste armi potrebbe risultare ostacolato dal loro eccessivo peso, che ne renderebbe impossibile il trasporto con aerei. Negli Stati Uniti esistono soltanto modeste quantità di minerali a bassa percentuale di uranio; minerali più ricchisi trovano in Canada e nella ex Cecoslovacchia, benché i più cospicui giacimenti uraniferi siano nel Congo belga. Alla luce delle precedenti considerazioni, Ella converrà con me, signor Presidente, sulla opportunità di stabilire un collegamento permanente tra il governo e il gruppo di fisici che, in America, lavorano alla reazione a catena, collegamento che potrebbe essere facilitato dalla nomina di un responsabile di Sua fiducia, autorizzato ad agire anche in veste non ufficiale. A tale persona dovrebbero essere affidati, tra l'altro, i seguenti compiti: a) mantenersi in contatto con i Dipartimenti interessati per tenerli al corrente di eventuali sviluppi e suggerire al governo misure atte ad assicurare la fornitura di uranio; b) accelerare il lavoro di ricerca nel settore, attualmente svolto nei limiti di bilancio dei laboratori universitari, sollecitando, all'occorrenza, forme di finanziamento volontario da parte di privati disposti a contribuire alla causa e assicurandosi altresì la cooperazione di laboratori industriali dotati delle attrezzature necessarie. Mi si dice che la Germania, subito dopo l'occupazione della Cecoslovacchia, ha posto l'embargo sull'uranio proveniente da questo paese. Il che non stupisce, quando si pensi che il figlio del sottosegretario di Stato tedesco, von Weizsaecker, è fisico di alta fama e membro del Kaiser-Wilhelm-Institut di Berlino, dove sono attualmente in corso esperimenti con uranio analoghi a quelli svolti in America. 2 agosto 1939 Distintamente, Albert Einstein ~A.

Einstein, Opere scelte, Torino, Bollati Botinghieri 1988

Roosevelt diede avvio al cosiddetto progetto Manhattan e riunì a Los Alamos, nel deserto del New Mexico, un gruppo di scienziati guidati dal fisico J. Robert Oppenheimer che riuscirono a costruire la prima bomba atomica. Sperimentata nel luglio del 1945, fu impiegata contro il Giappone nell'agosto successivo, ove diede prova delle sue enormi potenzialità distruttive. Finita la guerra cominciò un confronto fra le due maggiori potenze del pianeta, USA e URSS, fondato sulla corsa agli armamenti nucleari. Tale confronto dette luogo a una sorta di equilibrio del terrore, poiché era divenuto chiaro che una guerra nucleare non avrebbe avuto né vinti né vincitori ma avrebbe provocato la distruzione dell'intero pianeta. Nel 1955, in piena guerra fredda, un gruppo di scienziati e di intellettuali, fra i quali lo stesso Einstein e il filosofo Russell, sottoscrissero un manifesto in cui si denunciavano i rischi di una eventuale nuova guerra.

526

SEZIONE TEMI SCIENZA ETECNICA

Nella tragica situazione che si pone all'umanità, pensiamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi per valutare i pericoli che sono sorti come risultato dello sviluppo delle armi di distruzione di massa, e discutere una deliberazione nello spirito del documento allegato. In quest'occasione noi non parliamo come membri di questa o quella nazione, continente o fede, ma come esseri umani, membri della specie Uomo, della quale è in dubbio la continuità dell'esistenza [... ]. Dobbiamo imparare a pensare in un modo nuovo. Dobbiamo imparare a chiederci non quali passi possono essere fatti per dare la vittoria militare al gruppo che preferiamo, perché tali passi non esistono più; la domanda che dobbiamo porci è: quali passi debbono essere fatti per evitare una contesa militare la cui conclusione sarebbe disastrosa per tutte le parti? [... ] Non c'è dubbio che in una guerra con bombe-H diverse grandi città verrebbero rase al suolo. Ma questo sarebbe uno dei disastri minori da fronteggiare. [...] Oggi noi sappiamo, specialmente dopo il test di Bikini, che le bombe nucleari possono distribuire gradualmente distruzione sopra un'area molto più grande di quanto si fosse supposto. [... ] Oggi si può costruire una bomba che sarà 2500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima. Questa bomba, se esplodesse vicino al suolo o sott'acqua, invierebbe particelle radioattive nell'atmosfera. [...] Nessuno sa per quale grande estensione queste particelle radioattive mortali potrebbero diffondersi, ma le autorità più qualificate sono unanimi nell'affermare che una guerra con le bombe-H potrebbe molto probabilmente segnare la fine della razza umana [... ]. Il termine "genere umano" suona vago e astratto. La gente si rende poco conto, nell'immaginazione, che il pericolo è loro, dei loro figli, dei loro nipoti, e non solo per l'umanità vagamente concepita [... ]. Qualsiasi accordo di non usare la bomba-H sia stato raggiunto in tempo di pace non sarebbe più considerato vincolante in tempo di guerra, e ambedue le parti si metterebbero al lavoro per costruire bombe-H non appena la guerra scoppiasse [... ].Sebbene un accordo per rinunciare alle armi nucleari, come parte di una riduzione degli armamenti, non permetterebbe una soluzione finale, esso risulterebbe utile per alcuni scopi importanti. Primo: ogni accordo fra l'Est e l'Ovest è rivolto verso il bene, in quanto tende a diminuire la tensione. Secondo: [... ] diminuirebbe il timore di un attacco improvviso alla Pearl Harbour, che attualmente mantiene ambedue i blocchi in uno stato di angoscia nervosa [... ].Abbiamo di fronte a noi, se lo scegliamo, un progresso continuo in felicità, conoscenza e saggezza. Sceglieremo invece la morte, perché non possiamo dimenticare i nostri litigi? Ci appelliamo da esseri umani agli esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto [... ].Invitiamo questo Congresso, e attraverso di esso gli scienziati di tutto il mondo e il grande pubblico, a sottoscrivere la seguente deliberazione: "In previsione del fatto che in qualsiasi futura guerra mondiale verranno sicuramen-

SEZIONETEMI EUct~I(A

SCIEt~lA

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3- TECNICA E REGRESSO

te impiegate le armi nucleari, [... ] esortiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a riconoscere pubblicamente, che i loro scopi non possono essere favoriti da una guerra mondiale, e, di conseguenza, li esortiamo a trovare mezzi pacifici per la sistemazione di tutti gli argomenti di contesa tra loro". Firmato: Max Born, Percy W. Bridgman, Albert Einstein, Leon Infeld, J. F. Joliot-Curie, H. J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, J. Rotblat, Bertrand Russell, Hideki Yukawa. Il brano precedente introduce il tema della responsabilità dello scienziato, se, cioè, egli possa disinteressarsi o no dell'uso che può essere fatto delle sue scoperte. Lo stesso tema è presente anche nel seguente brano del fisico Werner Heisenberg (1901-1976). La connessione fra scienza naturale e scienza tecnica è stata fin dal principio quella della mutua assistenza. Il progresso della scienza tecnica, il perfezionarsi degli strumenti, e l'invenzione di nuovi dispositivi tecnici hanno fornito la base per una sempre più accurata conoscenza sperimentale della natura; il progresso nell'intelligenza della natura ed infine la formulazione matematica delle leggi naturali hanno aperto la strada a nuove applicazioni di questa conoscenza nella scienza tecnica. Ad esempio, l'invenzione del telescopio rese possibile agli astronomi una misura più precisa del movimento delle stelle; di qui si rese possibile un considerevole progresso nella astronomia e nella meccanica. D'altra parte, la precisa conoscenza delle leggi meccaniche fu del massimo valore per il perfezionamento degli strumenti meccanici, per la costruzione di macchinari eccetera. La grande espansione di questa combinazione di scienza e di tecnica ebbe inizio quando si riuscì a porre a disposizione dell'uomo alcune forze naturali. L'energia accumulata nel carbone, ad esempio, poté compiere infatti parte del lavoro fino allora compiuto dall'uomo stesso. [... ] La penetrazione della scienza nelle parti più remote della natura rese possibile ai tecnici lo sfruttamento di forze naturali di cui, in precedenza, si aveva a mala pena avuto semplice cognizione; la conoscenza precisa di tali forze nei termini d'una formulazione matematica delle leggi che le governano formò una solida base per la costruzione d'ogni tipo di macchinario. L'enorme successo di questa combinazione di scienza e di tecnica portò alla netta preponderanza di quelle nazioni e di quegli Stati in cui particolarmente fioriva questo genere di attività umana, e per natl!Jale conseguenza dovettero interessarsene anche quelle nazioni che per tradizione non sarebbero state portate verso la scienza e la tecnica. Infine, i moderni mezzi di comunicazione e di scambio completarono questo processo di espansione della civiltà tecnica. È indubitabile che esso ha cambiato in modo fondamentale le condizioni di vita sulla nostra

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SEZIONE TEMI ET~Ct~ICA

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terra; e, sia che lo si appropri o no, sia che lo si consideri un progresso o un pericolo, ci si deve rendere conto che esso è andato molto al di là delle possibilità di controllo ad opera di forze umane. [... ] La fisica moderna appartiene alle parti'pil).recenti di questo sviluppo ed il suo risultato disgraziatamente più visibile, l'invenzione degli ordigni nucleari, ha mostrato l'essenza di questo sviluppo pella più chiara luce possibile. Da una parte, essa ha dimostrato chiarissimamente che i cambiamenti causati dalla combinazione di scienza e di tecnica non possono essere considerati solo dal punto di vista ottimistico; e almeno in parte essa ha giustificato le opinioni di coloro che avevano sempre ammonito contro i pericoli d'un mutamento così radicale delle nostre condizioni naturali di vita [... ]. È ovvio che l'invenzione dei nuovi ordigni, specie di quelli termonucleari, ha modificato fondamentalmente la struttura del mondo. Non solo ha trasformato completamente il concetto di stato indipendente, giacché ogni nazione che non possiede tali ordigni deve in qualche modo dipendere da quelle poche nazioni che producono quelle armi in gran quantità; ma ha anche reso il tentativo di guerra su larga scala per mezzo di tali ordigni praticamente un assurdo tipo di suicidio. [... ] L'invenzione degli ordigni nucleari ha anche sollevato problemi completamente nuovi per la scienza e gli scienziati. L'influenza politica della scienza è divenuta molto più forte di quel che fosse prima della Seconda guerra mondiale, il che ha gravato lo scienziato, specialmente il fisico atomico, di una responsabilità raddoppiata. Egli può o prendere parte attiva all'amministrazione del paese tenendo presente quale sia l'importanza della scienza per la comunità di cui fa parte, ed egli dovrà allora probabilmente affrontare la responsabilità di decisioni di enorme importanza che vanno ben oltre il piccolo cerchio di ricerche e di lavoro universitario cui era abituato. Oppure egli può volontariamente tirarsi indietro da qualsiasi partecipazione alle decisioni politiche, e allora sarà ancora responsabile delle cattive decisioni che egli avrebbe forse potuto impedire se non avesse preferito la vita tranquilla dello scienziato. ~

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W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Milano, Il Saggiatore 1961, pp. 219-224

lrrazionalismo In quanto abbiamo fin qui considerato, si è trattato di valutare la scienza e la tecnica nelle loro capacità di migliorare le condizioni dell'umanità, senza tuttavia nascondere le potenzialità distruttive che esse hanno avuto o potrebbero avere. Ciò che è stato oggetto di discussione è stato l'uso che può essere fatto della tecnica: gli aspetti negativi nascono da un uso perverso della scienza e della tecnica. Nessuno degli autori che abbiamo con-

SEZIONE TEMI SCIENZA ~ 'fE(NICA

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4- IRRAZIONALISMO

siderato, neppure coloro che hanno rilevato i limiti della società tecnologica e industriale, hanno contestato l'idea che la scienza e la tecnica siano state e siano, di per sé, delle forze positive che hanno liberato e fatto progredire l'umanità. Scienza e tecnica sono considerate come dotate di un valore positivo di per sé o, nel caso peggiore, neutro. Non può, tuttavia, essere taciuto il fatto che c'è e c'è stata una corrente di pensiero che considera la scienza e la tecnica come un valore negativo in sé. Abbiamo qui a che fare con autori anche molto diversi tra loro, ma che potrebbero essere tutti accomunati da un punto di vista irrazionalista, cioè da un atteggiamento di sfiducia e di rifiuto delle facoltà razionali dell'uomo. Il tedesco Oswald Spengler (1880-1936) è stato uno dei maggiori e decisi oppositori della scienza e della tecnica, nelle quali vede un sintomo della decadenza della civiltà occidentale. La tecnica è diventata esoterica come la matematica superiore di cui si serve, come la teoria fisica che col suo frantumarsi in astrazioni del fenomeno è penetrata sino alle pure forme fondamentali della conoscenza umana, senza bene avvedersene. La meccanizzazione del mondo è entrata in una fase di pericolosa tensione. L'immagine della Terra con le sue piante, i suoi animali, i suoi uomini, è mutata. In pochi decenni la maggior parte delle grandi foreste è scomparsa, fu trasformata in carta da giornali; così sopravvennero mutazioni del clima che minacciarono l'agricoltura di intere popolazioni. Numerose razze di animali furono, come il bufalo, quasi interamente distrutte; intere razze umane, come gli indiani d'America del nord e gli australiani, sono pressoché scomparse. Tutto ciò che è organico soggiace all'organizzazione che sempre più si propaga. Un mondo artificiale pervade e insidia il mondo naturale. La stessa civiltà è diventata una macchina che fa o vuole ogni cosa per mezzo di macchine. Ormai si pensa solo in cavalli-vapore. Non si vede più una cascata d'acqua senza trasformarla col pensiero in energia elettrica. Non si vede un paesaggio gremito di armenti pascolanti senza pensare al valore della carne di questi; non si osserva una bella antica opera manuale d'una popolazione primitiva senza provare il desiderio di produrla con un moderno processo tecnico. ~

O. Spengler, L'uomo e la macchina, in: M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi, cit., p. 274

La scienza e la tecnica sono state però criticate anche per motivi politici: in quanto strumento di dominio del capitale sulle masse, come nel brano seguente scienza e tecnica come di Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor W. Adorno (1903-1969), o, al strumenti di dominio contrario, come portatrici dei valori di democrazia e di uguaglianza, come nel brano di Julius Evola (1898-1974). M. Horkhe~mer e T.W. Adorno sono stati fra i massimi esponenti della Scuola di Francoforte, un indirizzo di pensiero che, ispirandosi a Marx e a Freud, sviluppò un'analisi critica della società capitalistica. Evola, filosofo italiano, elaborò una sorta di spiritualismo fortemente reazionario e razzista.

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SEZIONE TEMI S(I~NlA ETf.(NIC41

Benché alieno dalla matematica, Bacone ha saputo cogliere esattamente l'animus della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l'intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l'intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell'asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell'economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. [... ] La tecnica è l'essenza di questo sapere. Esso non tende, sia nell'occidente sia nell'oriente, a concetti e a immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro, al capitale privato o statale. Tutte le scoperte che riserva ancora secondo Bacone, sono a loro volta strumenti: la radio come stampa sublimata, il caccia come artiglieria più efficiente, la teleguida come bussola più sicura. Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. [... ] La sterile felicità di conoscere è lasciva per Bacone come per Lutero. Ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l'operation, il procedimento efficace; non in ((discorsi plausibili, edificanti, dignitosi o pieni di effetto, o in pretesi argomenti evidenti, ma nell'operosità e nella-

indicatori demografici a confronto

Afghanistan

41,4

17,7

47

46

257

6,2

Burundi

40,5

16,4

45

47

190

5

Ciad

42,2

16,4

47

51

200

5

Cina

13,4

6,7

70

74

39

3,4

Etiopia

40,9

19,8

43

45

172

5

Francia

13

9

76

83

5

2,4

Germania

8,9

10,1

74

81

5

2,1

Giappone

9,3

7,7

78

85

4

2,7

Iran

17,8

5,6

68

71

42

4,8

Italia

9,3

9,8

77

83

6

2,6

Malawi

45,3

22

40

44

183

4,3

Norvegia

12,6

9,8

76

81

4

2,2

USA

14,2

8,7

74

80

8

2,7

Indicatori demografici di alcuni paesi, tratti da: Calendario Atlante De Agostini 2004.

531

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4- IRRAZIONALISMO

voro, nella scoperta di particolari prima sconosciuti per un migliore equipaggiamento e aiuto nella vitm, è (mRMII\ll!'iMO ~liBERO AIUin'RIO

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551

2- L'AFFERMAZIONE DEL DETERMINISMO

Nel caso [... ] in cui si tratta di scegliere un uovo fra due simili, nella persona che sceglie c'è in primo luogo la volontà di mangiare o di far uso di un uovo; in secondo luogo, c'è la volontà di prenderne soltanto uno o di prenderne prima uno; in terzo luogo, in conseguenza di queste due volontà, accade nel medesimo istante di scegliere e di prenderne uno, il quale viene così scelto e preso seguendo di solito l'abitudine che le parti del nostro corpo hanno acquisito con il tempo [... ], oppure viene scelto per il fatto che quelle parti si trovano in quel momento determinate da qualche particolare circostanza. [... ] In quarto luogo, poi, in ogni serie di cause che precedono i loro effetti, particolarmente quando tra questi effetti si riscontra una somiglianza molto grande, ve ne sono alcune impercettibili tanto per via della loro piccolezza quanto perché non siamo abituati a porvi attenzione, le quali però, in concorso con le altre, producono altrettanto necessariamente i loro effetti.

3

~A.

Collins, A Philosophica/ Inquiry concerning Human Liberty, London, R. Robinson 1717, pp. 46-47

Proprio in un difensore della libertà, in Leibniz D 7 m:l!lm), si può trovare una inedita prospettiva deterministica: l'attenzione a un condizionamento dell'impercettibile (e siamo in qualche modo sulla linea dell'uovo di Collins), del non "appercepito", di ciò che non è affiorato alla coscienza. Nella vita psichica una miriade di "piccole percezioni insensibili" opera continuamente indirizzando le azioni non deliberate, influenzando le deliberazioni, costituendo i caratteri e i gusti, marcando l'individualità stessa. Altro che indifferenza di equilibrio! Tutto un mondo di percezioni ci inclina nonostante la nostra vita cosciente. Vi sono mille segni che fanno giudicare che vi sono a ogni momento una infinità di percezioni in noi, ma senza appercezione e senza riflessione, cioè cambiamenti nell'anima di cui noi non ci accorgiamo perché le impressioni sono o troppo piccole o troppo numerose o troppo congiunte, sicché non si riesce a distinguerle se non in parte; ciò nonostante esse non cessano di far sentire i loro effetti e di farsi sentire almeno confusamente nel loro insieme. [... ] Queste piccole percezioni, per le loro conseguenze, sono dunque di una efficacia maggiore di ciò che si pensi. Sono esse che formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità dei sensi, chiare nel loro insieme, ma confuse nelle loro parti, quelle impressioni che i corpi esterni fanno su di noi e che racchiudono l'infinito, quei legami che ciascun essere ha ~on tutto il resto dell'universo. In conseguenza di queste piccole percezioni si può anche dire che il presente è carico del passato e gravido dell'avvenire. [... ] Queste percezioni insensibili distinguono e costituiscono l'individuo stesso. 11>

552

SEZIONE TEMI

i»f.'r~RMU'I!!ìMO

G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Prefazione, in: Scritti filosofici, vol. II, Torino, Utet 1968, pp. 173-175

Davi d Hurne li161•7Nli(IWIIMM si distacca dai termini consueti della dispu- 11 nesso tra azioni ta, pur mantenendo l'uso della parola 'necessity'. Egli, come Locke, compie e moventi in Hume un'analisi dell'idea di potere. Così come l'idea di causa, anche quella di potere non ci dice niente di più rispetto alla connessione necessaria se non che c'è una connessione costante tra eventi. Nel caso delle azioni volontarie e delle operazioni della mente noi rileviamo una congiunzione con determinati comportamenti e conseguentemente inferiamo dalle condotte ai moventi e viceversa. All'infuori della costante congiunzione di oggetti simili, e della conseguente inferenza dall'uno all'altro, noi non abbiamo nozione alcuna di qualche necessità o connessione. Se, dunque, risulta che tutti gli uomini hanno sempre ammesso, senza alcun dubbio o esitazione, che queste due circostanze si verificano nelle azioni volontarie dell'uomo, e nelle operazioni della mente, ne deve seguire che tutti gli uomini si son sempre trovati d'accordo nella dottrina della necessità e che finora essi hanno discusso soltanto perché non si sono capiti. ~

D. Hurne, Ricerca sull'intelletto umano, Bari, Laterza 1974, p. 107

La discussione limitata a questi termini è conclusa. Sta ai filosofi che cercano qualcos'altro, che esaminano le facoltà dello spirito, l'influsso dell'intelletto e le operazioni della volontà, rendere le loro asserzioni valide e convincenti. In realtà, Determinismo l'idea di potere e di libero arbitrio, che l'immaginazione attribuisce er- e comportamenti roneamente alla coscienza, ci proviene solamente dall'esperienza e dal- sociali la riflessione; e l'una e l'altra ci dicono che senza una dottrina della necessità non sarebbe possibile alcuna conoscenza dei nostri simili, il comportamento sociale e la vita quotidiana risulterebbero caotici e imprevedibili, nessuna scienza del mondo umano sarebbe pensabile. Che cosa sarebbe della storia se non avessimo fiducia nella veracità dello storico, in relazione all'esperienza che abbiamo fatto dell'umanità? Come la politica potrebbe essere una scienza se leggi e forme di · governo non avessero un influsso uniforme sulla società? Dove andrebbe la fondazione della morale se i caratteri particolari non avessero un certo e determinato potere di produrre particolari sentimenti e se questi sentimenti non operassero in modo costante sulle azioni? E con quale diritto esprimeremmo il nostro giudizio critico su qualche poeta o su qualche letterato se non potessimo pronunciarci sull'essere la condotta e i sentimenti dei suoi personaggi corrispondenti o non corrispondenti a determinati caratteri e in determinate circostanze? Sembra quasi impossibile, perciò, impegnarsi in una qualsiasi scienza od azione, senza riconoscere la dottrina della necessità e senza quest'inferenza dal movente alle azioni volontarie, dai caratteri alla condotta. ~

l

Cit., pp. 115-116

SEZIONETEMI DEl'ERMitJISMO ELIBEllO ARBITRIO

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l~

DillAl'Ti'rO

2- l'AFFERMAZIONE DEL DETERMINISMO

Ben diversamente da Hume, gli illuministi francesi D 3'iM•mij3!1it11iiM'ItlUl11 dilagano nel campo deterministico come in una zona d'elezione, punto strategico cruciale nella battaglia contro le filosofie spiritualistiche e religiose. Holbach è colui che, con il ponderoso Sistema della Natura (1770) e con Ateismo il più agile e sistematico Il buon senso (1772), riassume, riformula e in- e materialismo treccia tutti gli argomenti deterministici con altri nodi decisivi del dibat- nel secolo dei Lumi tito filosofico: la materialità dell'anima, l'insostenibilità di qualunque teodicea, le incoerenze del deismo ecc. Se, per esempio, il deista Voltaire e Holbach sono uniti nel riconoscimento della determinatezza del volere, dissentono tuttavia nell'impostazione e nella sostanza complessiva. Il primo sostiene il carattere illusorio della libertà, svincolando però tale giudizio dalla tesi della materialità dell'anima e rivendicando inoltre quella libertà come un'apparenza socialmente necessaria. Una sola riflessione ci consola: che, qualsiasisistema si accetti, e a qualsiasi fatalità si stimino soggette tutte le nostre azioni, si agirà sempre come se si fosse liberi. ~

Voltaire, Metafisica di Newton, in: Scritti filosofici, vol. I, Bari, Laterza 1972, p. 221

Il secondo invece rimprovera ai deisti che aderiscono al determinismo la grave incoerenza della loro posizione, che riconosce la necessità degli atti umani ma che al tempo stesso pretende che Dio punisca e premi nell'al di là giustamente. Scrive Holbach sul libero arbitrio:

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Per poco che si rifletta, si sarà costretti a riconoscere che l'uomo è necessitato in tutte le sue azioni e che il suo libero arbitrio è uria chimera, anche nei sistemi dei teologi. Dipende dall'uomo di nascere o di non

Il "determinismo" del nipote di Rameau lo: Come può accadere che con tanta finezza di giudizio e una così singolare sensibilità per le bellezze dell'arte musicale, voi siate così cieco alle bellezze morali, così insensibile al fascino della virtù? Lu1: È che, a quanto pare, c'è un senso che io non ho, [... ] e poi c'è qualcosa disceso certamente per li rami.[ ... ] Il mio sangue è lo stesso che quello di mio padre. La molecola paterna era dura e ottusa, e questa maledetta molecola primiera si è assimilata tutto il rimanente. lo: Vostro figlio lo amate? Lu1: Se lo amo, il piccolo selvaggio! Ne vado matto. lo: Enon pensate di adoperarvi seriamente per arrestare in lui l'effetto della maledetta molecola paterna? Lu1: Credo che sarebbe fatica sprecata. Se è destinato a diventare un galantuomo, io non gli recherò alcun danno. Ma se la molecola volesse farne un furfante come suo padre, tutte le pene che io mi fossi dato per farne un uomo onesto non gli procureranno altro che guai. L'educazione contrastando di continuo l'inclinazione della molecola, egli andrebbe sempre a sghimbescio per le strade della vita [... ]. Per ora non intervengo, lo lascio crescere, lo osservo: è già goloso, adulatore, ladruncolo, pigro, mentitore. Temo proprio che terrà fede alla razza. ~

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D. Diderot, Il nipote di l(ameau, Torino, Einaudi 1984, pp. 120-121

nascere dai tali o dai tali altri genitori? Dipende dall'uomo di assorbire o no le opinioni dei suoi genitori e dei suoi precettori? [... ] La nascita dell'uomo non dipende in alcun modo da una sua scelta; nessuno gli ha chiesto se voleva venire al mondo o no. La natura non lo ha consultato quanto al luogo di nascita e ai genitori che gli ha dato. Le sue idee acquisite, le sue opinioni, le sue nozioni vere o false sono frutti necessari dell'educazione che ha ricevuto e che non ha deciso in alcun modo. Le sue passioni e i suoi desideri sono conseguenze necessarie del temperamento che la natura gli ha dato e delle idee che gli sono state inculcate. Durante tutto il corso della sua vita, le sue volizioni e le sue azioni sono determinate dai suoi rapporti con gli altri, dalle sue abitudini, dalle sue occupazioni, dai suoi piaceri, dall'ambiente in cui si trova, dai pensieri che gli si presentano senza che egli lo voglia: in una parola, da una moltitudine di eventi e di accidenti che sono estranei al suo potere. [...] Direte: ((L'uomo vuole, delibera, sceglie, si autodeterminm), e ne trarrete la conclusione che le sue azioni sono libere. È vero che l'uomo vuole, ma non è padrone della propria volontà o dei suoi desideri: non può desiderare e volere se non quello che egli giudica per lui vantaggioso. [... ] ((Ma l'uomo - direte - può resistere ai propri desideri: dunque è liberO)). L'uomo resiste ai propri desideri quando i motivi che lo distolgono da un oggetto sono più forti di quelli che lo spingono verso quell'oggetto; ma allora la resistenza è necessitata. Un uomo che teme il disonore o la condanna più di quanto ami il denaro, resiste necessariamente al desiderio di impadronirsi del denaro di un altro. Non siamo dunque liberi nella deliberazione? Ma siamo padroni di sapere o di non sapere, di essere incerti o sicuri? La deliberazione è un effetto necessario dell'incertezza in cui ci troviamo quanto alla conseguenza delle nostre azioni. Una volta che siamo o crediamo di essere sicuri di tali conseguenze, noi ci decidiamo necessariamente, e quindi agiamo necessariamente, seguendo il nostro giudizio giusto o errato. I nostri giudizi, veri o falsi, non sono liberi: sono determinati necessariamente dalle idee, quali che esse siano, che abbiamo ricevuto o che il nostro intelletto si è formato. ~

P. H. T. d'Holbach, Il buon senso, Milano, Garzanti 1985, pp. 67-69

Cause e ragioni dipendono dunque sia dalle circostanze, dall'ambiente, Fatalismo e dall'educazione, sia dall'organizzazione fisica degli individui come ribadirà, determinismo nella Réfutation d'Helvétius, Denis Diderot, il quale in tutta la sua opera si nell'opera di Diderot impegna a difendere una concezione deterministica che tenga conto dello sviluppo delle scienze e della complessità dell'uomo. Proprio in questa prospettiva, merita considerazione non solo letteraria il romanzo Jacques il fatalista e il suo padrone (scritto nel1773 e pubblicato postumo nel1796). Qui come nel Nipote di Rameau, la forma letteraria permette a Diderot di toccare zone di confine delle teorie. Mescolando e volgarizzando i determinismi in modo comico, Diderot porta in evidenza lati superstiziosi e consolatori di l

l ll!tfEilMI~JISMiJ

SEZIONE TEMI EUGERO ARBI1'RIO

555

il,

2-

DiiiA1'1'1TO

l'AfFERMAZIONE DEl DETERMINISMO

un certo fatalismo prefilosofico (quello, anche se divertente, dello "sta scritto lassù" difeso da Jacques contro il suo padrone che invece crede nella libertà dell'uomo), ma finisce per toccare un punto nevralgico filosofico: l'indistinzione tra una necessità naturale o fattuale e una necessità assoluta o logica. In un "grande tutto" ordinato secondo leggi esatte e in cui il "caso" indica soltanto la nostra ignoranza, la necessità causale propria dei fenomeni umani si inquadra in una necessità universale.

3

la difesa della libertà È contro questo necessitarismo che muove il tentativo "compatibilistico" di La necessità morale Leibniz, il quale appare tra le posizioni teoreticamente più interessanti in Leibniz nella difesa della libertà, compatibilmente appunto con un determinismo non necessitante. Sia con la teoria teologica dei mondi possibili, sia con la difesa della contingenza, egli pensa di aver presidiato efficacemente ciò che è più importante nell'idea di libero arbitrio. Esistono, a giudizio di Leibniz, due specie di necessità: quella metafisica o assoluta, che implica la contraddittorietà del contrario, e quella morale o ipotetica secondo la quale siamo semplicemente indotti a seguire il meglio. È questo tipo di necessità che condiziona il volere e l'agire umani. L'uomo è inclinato dalle ragioni del bene e del male che trova in sé; il che non può essere giudicato come soggezione a una necessità assoluta.

La libertà dello spirito, opposta alla necessità, concerne la volontà nuda e in quanto distinta dall'intelletto. Ed è ciò che ·si chiama libero arbitrio, per il quale le ragioni e le impressioni più forti che l'intelletto presenta alla volontà non impediscono che l'atto della volontà sia contingente, e non gli danno affatto una necessità assoluta e, per così dire, metafisica. In questo senso sono solito dire che l'intelletto può determinare la volontà, secondo la prevalenza delle percezioni e delle ragioni, in una maniera che, anche quando è certa e infallibile, inclina senza necessitare . ., G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Il, cit., p. 148

Determinarsi spontaneamente e contingentemente, senza costrizioni e deliberatamente, è la condizione della libertà; e tanto più si ha libertà quanto più la determinazione procede dalla ragione.

L'intelligenza è come l'anima della libertà il resto ne è come il corpo e la base. La sostanza libera si determina per se stessa, seguendo in ciò il motivo del bene percepito dall'intelletto che l'inclina senza necessitarla; e tutte le condizioni della libertà sono comprese in queste poche parole. È bene tuttavia mostrare che l'imperfezione che si trova nelle nostre conoscenze e nella nostra spontaneità e la determinazione infallibile racchiusa nella nostra contingenza non distruggono né la nostra libertà né la contingenza. ~>

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SEZIONE TEMI Dm!tMINISMO EUIUIUIJìiU~I'l'IIIO

G.W. Leibniz, Teodicea, Bologna, Zanichelli 1973, p. 361

L'uomo ha sempre una libertà che gli deriva dal potere di influire in modo mediato sul volere. Ma ciò è da intendersi per Leibniz in un senso anti-volontaristico: noi non possiamo voler volere; il nostro potere può incidere soltanto sulle percezioni future e quindi, indirettamente, sulle volizioni future. Quell'opera di auto-educazione, sulla quale avevano insistito anche Cartesio e Malebranche, passa dunque per l'intelletto e per la sua capacità di orientare le percezioni. Possiamo sempre sforzarci di determinare i nostri atti secondo ragione, possiamo scegliere per la nostra attenzione certi oggetti invece che al:- La libertà di"volere ciò tri, distrarci allorché ci sentiamo tentati a cattive scelte; possiamo insom- che dobbiamo" ma far in modo di porci alla fine - come Leibniz scrive in una lettera del1707 sulla necessità e la contingenza - nella condizione di . Critico dello stesso Leibniz, avversario di Hobbes e Spinoza nonché di Locke, merita una menzione il razionalista Samuel Clarke (1675-1729) giacché egli riassume e ordina un po' tutti gli argomenti indeterministici: 1) l'anima spirituale ha un potere attivo di contro al materialismo e al meccanicismo che fanno dell'uomo una specie di oggetto dotato di pensiero, una «macchina idraulicm>: «Action and Liberty are identica[ ideas>>;

2) i motivi non possono essere considerati alla stregua di cause; 3) il libero arbitrio è una certezza immediata della coscienza; nessun uomo che non sia sotto costrizione pensa di essere necessitato in ciò che fa; 4) non esiste alcuna necessità metafisica o assoluta; 5) l'uomo è libero perché può determinarsi razionalmente e anche tramite la propria volontà.

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OlllA'rTITO

4

Determinismo e libero arbitrio di fronte alle questioni etiche I problemi dell'imputabilità e della responsabilità morale, del senso e della funzione della giustizia, della giustificazione della pena, della stima e del disprezzo sociali costituiscono momenti cruciali sui quali si concentra il dibattere intorno all'alternativa libertà/determinismo. Nella discussione con il vescovo Bramhall, Hobbes rintuzza pazientemente tutte le argomentazioni "antifatalistiche" avanzate dall'avversario. Gli "inconvenienti" della dottrina della necessità, che lo stesso Hobbes qui riassume, sarebbero secondo il vescovo i seguenti: 1) Che le leggi le quali proiNscono certe azioni sarebbero in questo caso ingiuste; 2) che ogni rjflessione sarebbe inuWe; 3) che le ammonizioni a uomini in pieno possesso delle loro facoltà mentali non sarebbero di utilità maggiore di quelle fatte ai fanciulli, agli idioti, ai pazzi; 4) che lode e biasimo, ricompensa e punizione sarebbero vani; 5) che consigh atti, armi, libri, strumenti, studi, tutori, medicine sarebbero inutilL

i

[... ] Rispondo, in primo luogo, che la necessità di un'azione non rende ingiuste le leggi che la proibiscono. In secondo luogo, che non la necessità, bensì la volontà di infrangere la legge rende ingiusta l'azione, poiché la legge riguarda la volontà e non altre precedenti cause dell'azione. [... ] Io affermo che, qualunque causa necessaria preceda un'azione, se l'azione è proibita, colui che la compie volontariamente può essere tuttavia punito giustamente. [... ] In secondo luogo, nego che èiò renda vana la riflessione sul da farsi; è tale riflessione che causa un uomo e lo necessita a scegliere di fare una cosa piuttosto che un'altra, cosicché, a meno che non si dica che è vana la causa che necessita l'effetto, non si può inferire la superfluità della riflessione dalla necessità della scelta che ne deriva. [... ] La stessa risposta si deve dare al terzo presunto inconveniente, cioè che le ammonizioni sarebbero vane; le ammonizioni fanno infatti parte della deliberazione. [... ] Il quarto presunto inconveniente consiste nel fatto che lode, biasimo, ricompense e punizioni sarebbero vani. A ciò rispondo che, per quanto riguarda lode e biasimo, essi non dipendono per nulla dalla necessità dell'azione lodata e biasimata. [... ] Le cose possono senz'altro essere necessarie, eppure degne di lode, così come necessarie, eppure biasimevoli; e in nessuno dei due casi invano, poiché lode e biasimo, ricompensa e punizione, conformano e inducono con l'esempio la volontà al bene e al male. [... ] Al quinto inconveniente, secondo cui consigli, arti, armi, strumenti, libri, studio, medicine e simili verrebbero ad essere superflui, si deve da-

~

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SEZIONE TEMI Dfl'EilMINISMfj ~LIBERO JUUlli'IUO

re la medesima risposta che al precedente, cioè che quell'inferenza, se

l'effetto dovrà necessariamente accadere, allora accadrà a prescindere dalle sue cause, è falsa, e quelle cose nominate - consigli, arti, armi ecc. - sono le cause di quegli effetti. 11>

T. Hobbes, Of Liberty and Necessity, ci t., vol. IV, pp. 251-256

Le leggi che regolano la vita civile non ci dicono ciò che si deve volere, ma ciò che si deve fare. La funzione correttiva della giustizia, la funzione deterrente della pena, l'esistenza di leggi esprimono l'esigenza dell'organismo sociale di difendersi dalle aggressioni interne e di far convivere interessi diversi. Nemmeno nella prospettiva di Spinoza la determinazione degli atti umani entra in collusione con la moralità ed è invece utile agli uomini e alla società. Resta, infine, da indicare quanto la conoscenza di questa dottrina giovi alla pratica della vita, cosa che facilmente comprenderemo da quanto segue. E cioè: I. In quanto insegna che noi agiamo per il solo potere di Dio, e che siamo partecipi della natura divina, e tanto più quanto più perfette sono le azioni che noi compiamo, e quanto più comprendiamo Dio. Questa dottrina, dunque, oltre a rendere l'animo del tutto tranquillo, ha anche il merito di insegnarci in che cosa consiste la somma felicità o beatitudine, e cioè nella sola conoscenza di Dio, dalla quale siamo indotti a fare soltanto quelle cose che l'amore e la pietà suggeriscono. Donde intendiamo chiaramente quanto siano lontani dalla vera valutazione della virtù coloro i quali, in cambio della virtù e delle buone azioni, come se si trattasse di una somma schiavitù, si aspettano di essere ricompensati da Dio con sommi premi, quasi che la stessa virtù e il servire Dio non fossero la stessa felicità e la somma libertà. II. In quanto insegna in qual modo dobbiamo comportarci rispetto alle cose della fortuna, ossia alle cose che non sono in nostro potere; e cioè attendendo e sopportando con equo animo entrambe le facce della fortuna, poiché ogni cosa segue dall'eterno decreto di Dio, con la stessa necessità con cui dall'essenza del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti. III. Questa dottrina è utile anche alla vita sociale, in quanto insegna a non avere in odio nessuno, a non disprezzare, irridere, a non adirarsi con nessuno e a non invidiare nessuno. Inoltre, in quanto insegna che ognuno sia contento del proprio stato esia di aiuto al prossimo non sotto la spinta di una femminea misericordia, parzialità o superstizione, ma soltanto sotto la guida della ragione. [... ] IV. Infine, questa dottrina è non poco utile alla comune società in quanto insegna in qual modo i cittadini debbano essere governati e guidati, non per servire, ma per compiere quelle azioni che sono le migliori. 11>

B. Spinoza, Etica, cit., pp. 168-169

SEZIONE TEMI DEniiMitUSMO ELIBERO ARBITRIO

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4-

DETERMINISMO E LIBERO ARBITRIO DI FRONTE ALLE QUESTIONI ETICHE

Anche Locke, nonostante il richiamo a una legge e a una giustizia divina, disegna nel

Saggio sull'intelletto umano una morale che sembra compatibile con l'as-

11 pragmatismo

senza di libero arbitrio. La forza obbligante della legge e quella causalità etico di Locke specifica che si sprigiona dalle sanzioni sociali - la stima e il disprezzo dei simili -, insomma la legge civile e quella definita del costume o dell'opinione garantiscono l'affidabilità di una morale sostanzialmente pragmatica. Hume, per parte sua, sostiene decisamente il carattere utilitario e la natura sociale della morale. Un utilitarismo che non è solo "egoismo" ma anche "simpatia", amor di sé e benevolenza verso gli altri. Quanto alla giustizia: Essendo tutte le leggi fondate su ricompense e punizioni, si suppone come principio fondamentale che questi moventi abbiano un influsso regolare e uniforme sulla mente e che spingano alle azioni buone e prevengano le azioni cattive. Possiamo dare a quest'influsso il nome che più ci piace; ma, poiché esso è di solito congiunto con l'azione, dobbiamo considerarlo una causa e lo dobbiamo prendere per un caso di quella necessità che qui vorremmo stabilire. ~D.

Hurne, Ricerca sull'intelletto umano, cit., p. 125

In risposta alle lamentazioni che da più parti si levano sulla pericolosità di tale dottrina, da Hume viene anche un appello che è un principio di eccezionale importanza: non si possono giudicare le teorie dalla loro presunta pericolosità: Non c'è maniera di ragionare più comune, né tuttavia più biasimevole, del cercare, nelle dispute filosofiche, di confutare qualche ipotesi, con la pretesa delle sue conseguenze pericolose per la religione e per la morale. Quando qualche opinione conduce ad assurdità, è certamente falsa; ma non è certo che un'opinione sia falsa, perché genera conseguenze pericolose. Ci si dovrebbe, perciò, astenere completamente da simili argomenti, in quanto non servono alla scoperta della verità, ma soltanto a rendere odiosa la persona dell'avversario. ~

Cit., p. 123

Nelle repliche di Hobbes abbiamo visto gli argomenti di Bramhall che sono grossomodo gli stessi di Samuel Clarke e della schiera più anonima degli indeterministi. Una posizione diversamente argomentata esprime invece, anche sul versante etico, Leibniz. Gli indeterministi hanno torto - egli sostiene - a inferire che la necessità del volere distruggerebbe ogni morale e porterebbe al completo fatalismo. Sono vittime di quello che alcuni filosofi antichi chiamavano il sofisma pigro, secondo il quale in quanto una cosa deve accadere, tanto vale non far nulla e aspettare. Qui Leibniz indica l'esito assurdo di un'estensione della necessità logica al campo delle azioni e deliberazioni umane; una necessità causale non è necessità logica. Seppur determinato, l'uomo è in realtà libero e responsabile moralmente, perché l'unica determinazione che distrugga la responsabilità è quella che implica costrizione o assenza di deliberazione: lo testimonia

560

SEZIONE TEMI

Df.'I'~RM!NISMO ~

la pratica dei tribunali e l'opinione comune della gente. Il criterio utilitaristico risulta insufficiente a render conto del senso della giustizia umana. Essa vi appare soltanto come correttiva e medica, mentre è invece qualcosa di più e di diverso: essa è punitiva e

vendicativa. I SocinianP, Hobbes e qualcun altro non ammettono affatto questa giustizia punitiva, che è propriamente vendicativa, e che Dio si è riservata in molte circostanze, ma che comunica tuttavia a coloro che hanno il diritto di governare gli altri, esercitandola per mezzo loro, purché essi agiscano per ragione e non per passione. I Sociniani la ritengono priva di fondamento: ma essa è sempre fondata su un rapporto di convenienza, che soddisfa non solo l'offeso, ma anche i saggi che vi assistono: come una bella musica o una buona architettura soddisfano gli spiriti ben conformati. ~

G.W. Leibniz, Teodicea, cit., p. 199

La punizione è dunque anche un risarcimento dello spirito offeso, è "un male di passione" che fa sentire la sua colpa alla mente, è ciò che ristabilisce l'ordine razionale violato. Questa "armonia delle cose" è in sostanza rimandata da Leibniz a Dio e alla crea-

1.1 seguaci di Fausto Socini (1539-1604),sostenitori di una teologia antitrinitaria.

OII~A'fTI"I'O

il

4- DETERMINISMO E LIBERO ARBITRIO DI FRONTE ALLE QUESTIONI ETICHE

zione del mondo secondo il principio di convenienza. Per il parallelismo tra cause efficienti e cause finali, il male deve richiamare il male e il bene il bene. Tutt'altro spirito troviamo naturalmente negli illuministi francesi. Soprattutto in Holbach, il quale tesse continuamente (attingendo a piene mani da Bayle) la 11 determinismo sua antiteodicea, il determinismo appare quasi come una sorta di antro- come antropodicea podicea, oltre che un'attribuzione di colpa di tutto il male a Dio (se esistesse) e alla società di fronte a molte delle azioni criminose o genericamente "cattive". Che cosa dire dell'ingiusta crudeltà di alcune nazioni, in cui le leggi che dovrebbero essere fatte per il vantaggio di tutti sembrano non aver altro fine che la particolare sicurezza dei più forti, e in cui i castighi poco proporzionati ai delitti tolgono spietatamente la vita a uomini che la più urgente necessità ha costretto ad essere colpevoli? È così che, nella maggior parte delle nazioni civili, la vita di un cittadino è pesata sulla stessa bilancia del denaro; l'infelice che muore di fame e di miseria è condannato a morte per aver sottratto una sparuta porzione del superfluo di un altro che vede nuotare nell'abbondanza! Sta in ciò quel che nelle società illuminate si chiama giustizia o proporzionare il castigo al delitto. ~

P.H.T. d'Holbach, Système de la Nature, Genève, Slatkine Reprints 1973, p. 231

Qui è anche il punto di maggiore distanza da quel determinismo fisiologico alla Fontenelle, che guarda essenzialmente all'organizzazione fisica dell'individuo. Non lavolontà corrotta e malvagia di cui parla la teologia, ma l'incontro della natu- 11 determinismo ra umana (l'animale-uomo prodotto dalle combinazioni della materia) con come rimedio la società produce il crimine, fa sorgere la colpa, delinea il giusto e l'in- ai mali della società giusto. Per questa ragione, argomenta Holbach, soltanto il determinismo (nel senso ampio di scienza delle cause che operano nel mondo umano) può combattere efficacemente contro le storture della società, contro le sofferenze dell'umanità e può fornire alla morale e alla politica motivi efficaci per far agire la volontà.

5

La teoria kantiana della libertà Con Kant lfli911WiMI!II~I(fl11ii si apre una netta divaricazione tra il problema del determinismo e quello di una teoria causale dell'azione. Egli parte infatti dall'assunto L'idea trascendentale che non servA alla risoluzione del dilemma deteminismo-libero arbitrio di libertà puntare su un determinismo psicologico invece che meccanico. La libertà viene trattata nella Critica della ragion pura come un'idea trascendentale, tale cioè che nessuna esperienza può dimostrare: un puro concetto razionale. In quanto essere sensibile, l'uomo è soggetto a una causalità naturale; ma in quanto dotato di intelletto e di ragione, è e si percepisce, secondo Kant, oggetto intelligibile, tale cioè che la sua attività non può essere ridotta alla ricettività del senso. Poiché l'uomo è dotato di un carattere empirico (il temperamento che gli deriva dalla natura), ma anche di un caratte-

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SEZIONE TEMI

Df.'rERMit~ISMlliE

re intelligibile che ha per fondamento quella ragione che lo colloca fuori dalla catena dei fe-

nomeni, noi possiamo concepire la libertà come una causalità incondizionata della ragione, cioè possiamo guardare alla ragione come alla condizione di una serie empirica di effetti. Qualsiasi azione umana potrà essere riferita, dal punto di vista della conoscenza, alla serie di cause empiriche che l'hanno determinata, ma nondimeno essa potrà esser considerata libera per quel fondamento incondizionato delle condizioni sensibili che è la ragione. Ecco dunque come si configura il concetto trascendentale e problematico di libertà postulato dalla ragione speculativa: indipendenza dalle condizioni empiriche e capacità di dare inizio spontaneamente a une serie di eventi.

È necessario tener presente che non abbiamo voluto mostrare la realtà

della libertà, come uno dei poteri che costituiscono la causa dei fenomeni del nostro mondo sensibile. Un'impresa del genere non solo non avrebbe dato luogo a una trattazione trascendentale - che concerne solo concetti-, ma non avrebbe potuto avere buon esito, data la nostra impossibilità di desumere dall'esperienza alcunché di non pensabile in base alle leggi dell'esperienza. E neppure si può dire che ci fossimo proposti di provare la possibilità della libertà; neppure questo infatti era fattibile, poiché, attraverso semplici concetti a priori, non ci è permesso accedere alla conoscenza di qualsiasi fondamento reale o di qualsiasi causalità. La libertà viene qui in questione semplicemente come un'idea trascendentale, attraverso la quale la ragione pensa di dare un inizio assoluto tramite il sensibilmente condizionato, alla serie delle condizioni nel fenomeno; e qui la ragione entra in un'antinomia con le leggi che essa stessa prescrive all'uso empirico dell'intelletto. Che una siffatta antinomia poggi su una semplice parvenza e che la natura non risulti in contraddizione con una causalità fondata sulla libertà, era l'unica cosa che fossimo in grado di dimostrare, e l'unica, d'altra parte, che ci stesse a cuore di dimostrare. ~

I. Kant, Critica della ragion pura, Torino, Utet 1967, pp. 455-456

Nella Critica della ragion pratica Kant ritiene di poter individuare una concreta presenza della libertà, riscontrandola nella possibilità dell'uomo di sottomettersi alla legge morale. La legge morale è data in certo modo come un fatto della ragion pura, di cui abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente certi, anche nell'ipotesi che l'esperienza non possa fornirci alcun esempio dell'osservanza rigorosa di questa legge. Di conseguenza, nessuna deduzione può dimostrare la realtà oggettiva della legge morale, a dispetto di ogni sforzo della ragione teoretica, sia essa speculativa o aiutata dall'esperienza; pertanto, anche se si volesse rinunciare alla certezza apodittica, tale realtà non potrebbe trovar conferma nell'esperienza ed esser così dimostrata a posteriori; tuttavia essa è salda per se stessa. Ma al posto di questa deduzione, inutilmente cercata, del principio mo-

D~URMINISMO ~

SEZIONE TEMI UBEftO AIUIITRIO

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Il.

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5 - LA TEORIA KANTIANA DELLA LIBERTÀ

rale subentra qualcosa di diverso e di affatto paradossale: cioè che proprio questo principio serve di fondamento alla deduzione di una facoltà imperscrutabile, che nessuna esperienza è in grado di provare, ma che la ragione speculativa (per trovare tra le sue idee cosmologiche l'incondizionato secondo la propria causalità, al fine di non contraddire se stessa) doveva ammettere almeno come possibile, cioè la facoltà della libertà, di cui la legge morale, che non ha, da parte sua, alcun bisogno di un motivo che la giustifichi, dimostra non la semplice possibilità ma la realtà negli esseri che riconoscono questa legge come obbligatoria per essi. 1> I.

Kant, Critica della ragion pratica, in: Scritti morali, Torino, Utet 1980, pp. 185-188

Libertà trascendentale e legge morale si richiamano dunque in un gioco di rimandi: la libertà è la ratio essendi della legge morale e questa la ratio cognoscendi della libertà.

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La ragione speculativa non ottiene in verità alcun incremento in fatto di conoscenza, guadagnando soltanto per ciò che concerne la sicurezza del suo concetto problematico della libertà a cui conferisce qui una realtà oggettiva indubitabile, benché soltanto pratica. 1>

Cit., p. 188

In quanto l'uomo è nello stesso tempo fenomeno e noumeno sarà inevitabile un conflitto che il dovere può e deve risolvere in proprio favore. Solo così tale dovere ha significato, in quanto necessario e assoluto: come imperativo categorico. In ogni azione che abbia un valore morale si possono indagare i moventi empirici che l'hanno determinata; si esaminerà il temperamento dell'uomo che l'ha com- causalità della ragione piuta, si andrà alla ricerca delle origini empiriche di tale temperamento; e legge morale ma alla fine quell'uomo sarà sempre oggetto della nostra lode e del nostro biasimo. E questo non perché semplicemente premiamo o biasimiamo e reprimiamo ciò che è utile e ciò che è socialmente dannoso; ma perché la ragione guarda sempre a se stessa come a una causa che può e deve determinare la condotta umana indipendentemente da tutte le cause empiriche. Nella legge morale non si ha a che fare con massime edonistiche o eudemonistiche, con precetti di abilità, o con l'utilità o con qualcosa di eteronomo rispetto all'uomo; si è invece di fronte a una norma universale che si impone in modo assolutamente certo, come un fatto razionale a cui ognuno deve conformare la condotta.

6

l'alternativa libertà/determinismo dopo Kant Dell'alternativa libertà/determinismo, che attraversa tutto il pensiero filosofico occidentale, si continua a discutere dunque anche dopo Kant, ma in forme che non hanno più la compattezza della disputa sei-settecentesca. Basti pensare, per fare alcuni esempi, a Fichte e a Schopenhauer che muovono entrambi (per distanziarsene) dalle soluzioni kantiane, all'opera di Laplace (1749-1827), alle diverse correnti positivistiche, soprattutto

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SEZIONE TEMI Df.'I'EJIMINISM(l

quella materialista tedesca con la sua affermazione del carattere materiale e meccanico dei fenomeni spirituali, al materialismo storico di Marx ed Engels, alle riflessioni e reazioni suscitate dall'evoluzionismo darwiniano e dai suoi sviluppi, alla difesa antideterministica del "caso" quale troviamo in James, al probabilismo di Peirce e ai cambiamenti di prospettiva generati dalle novità della fisica (teoria dei quanti e principio di indeterminazione di Heisenberg). La libertà di scelta della filosofia esistenzialistica ha invece un'altra natura, un altro carattere. Di fronte al mondo, l'uomo è costitutivamente capace di trascendere il reale in vista del possibile. I motivi, le ragioni e le circostanze del suo scegliere non sono in discussione nel senso di una libertà o determinatezza del volere. La questione specifica è stata nuovamente affrontata da alcuni espo- La libertà del volere nenti dell'empirismo logico e, più sistematicamente, nella filosofia di lin- nellafilosofiaanalitica gua inglese, soprattutto nella filosofia analitica. Con le sigle libertarianism, compatibilismo e dissoluzionismo possono essere richiamate le posizioni prevalenti che hanno schierato filosofi come Russell, Reichenbach, Schlick, Austin, Moore, Ryle, Ayer e numerosi altri "anali tic i". I libertarians ritengono totalmente fondata la nozione di libero arbitrio. Alle loro file si può aggregare Karl Popper il quale fa risalire il determinismo a un ((Sogno d'onniscienza» generato dal determinismo fisico newtoniano e sostiene che le azioni umane, con il loro carattere plastico, critico e autocorrettivo, sono sostanzialmente libere. Scrive Popper, nella conferenza Nuvole ed orologi (1965), dedicata in memoriam alfisico Arthur Compton:

3

Credo che Peirce fosse nel giusto quando sosteneva che, sino ad un certo notevole grado, tutti gli orologi sono nuvole, anche gli orologi più precisi. Questa, a mio avviso, è l'inversione più importante dell'errata concezione deterministica per cui tutte le nuvole sono orologi. Credo, inoltre, che Peirce avesse ragione nell'affermare che questa concezione era compatibile con la fisica classica di Newton. Penso che essa sia più chiaramente compatibile con la teoria della relatività (speciale) di Einstein, e che sia ancor più chiaramente compatibile con la nuova teoria quantistica. In altri termini, io sono un indeterminista, come Peirce, Compton e la maggior parte degli altri fisici contemporanei, e credo, con i più tra di loro, che Einstein fosse in errore nel cercare di tenersi attaccato al determinismo. [... ] Il determinismo fisico, possiamo dire retrospettivamente, fu il sogno dell'onniscienza, sogno che parve diventare sempre più reale ad ogni progresso effettuato in fisica, finché non si tramutò in un inevitabile incubo angoscioso. [... ]Se il determinismo è vero, allora l'intero mondo è un orologio ineccepibile che funziona alla perfezione, e in questo mondo sono incluse tutte le nuvole, tutti gli organismi, tutti gli animali e tutti gli uomini. Se, d'altro canto, l'indeterminismo di Peirce o di Heisenberg o qualche altra forma di indeterminismo è vero, allora il puro caso gioca un ruolo maggiore nel nostro mondo fisico. Ma il caso è realmente più soddisfacente del determinismo? [... ] Come può essere che cose quali gli stati della mente- volizioni, sentimenti, aspet-

SEZIONE TEMI

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il.

Dii!ATT!TO

6- l'AlTERNATIVA liBERTÀ/DETERMINISMO DOPO KANT

tazioni - influenzano o controllano i movimenti fisici delle nostre membra? E (sebbene questo sia meno importante nel nostro contesto) come può essere che gli stati fisici di un organismo possano influenzare i suoi stati mentali? Compton sostiene che qualsiasi soluzione soddisfacente o accettabile di questi due problemi dovrebbe attenersi al seguente postulato che io chiamerò postulato di Compton della libertà: la soluzione deve spiegare la libertà, e deve pure spiegare come la libertà non sia puro caso, ma, piuttosto, il risultato di una sottile interrelazione tra qualcosa di pressoché casuale o fortuito e qualcosa come un controllo restrittivo e selettivo. [...] Possiamo dire che il postulato di Compton della libertà restringe la soluzione accettabile dei nostri due problemi con l'esigere che esse debbano conformarsi all'idea della combinazione di libertà e di controllo, e quindi all'idea di un "controllo plastico", come io lo chiamerò contrapponendolo a un "controllo ferreo". ~

K. Popper, Nuvole e orologi, in: Conoscenza oggettiva, Roma, Armando 1980

Il compatibilismo, sostenuto fra gli altri da Russell, ritiene compossibili il determinismo, con la prevedibilità delle azioni umane, e la libertà, perché eventi e motivi non hanno un carattere estraneo costrittivo e necessitante.

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La libertà, in ogni senso preziosa, esige soltanto che le nostre volizioni siano nella realtà il risultato dei nostri desideri, non di una forza estranea che ci spinge a volere ciò che non vorremmo. Ogni altra cosa differente è confusione di pensiero. ~B.

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Russell, La conoscenza del mondo esterno, Milano, Longanesi 1980

Il dissoluzionismo intende invece dissolvere i termini del problema quali sono stati accettati in eredità. Questo a causa dell'uso, oscuro, intrinsecamente contraddittorio e lontano dal linguaggio comunemente usato, di parole come 'causa', 'libertà', 'volontarietà' e derivati; per non parlare dei significati del verbo 'potere' in frasi come "avrebbe potuto agire diversamente" (già oggetto di discussione tra Austin e Moore, i quali sono assimilabili a una posizione compatibilista). Va infine notato che, in ognuno dei momenti nei quali si è sviluppata, la ricerca su libertà e determinismo ha implicato un approfondimento e una chiarificazione sulle facoltà della mente, nonché su nozioni quali causa, caso, responsabilità ecc.: tutte cose che vanno al di là del problema considerato di per se stesso. Per concludere vorremmo ricordare che dagli anni Sessanta in poi del secolo scorso Benjamin Libet e collaboratori hanno condotto una serie di esperimenti con i quali hanno dimostrato che la consapevolezza di un'azione volontaria avviene un quarto di secondo dopo che sono avvenuti i corrispondenti eventi neurologici. L'interpretazione esatta di tali risultati è oggetto di dibattito ma è chiaro che, in linea di massima, essi dovrebbero indicare che è il "nostro cervello che decide per noi" e che tutto ciò che noi facciamo è prendere consapevolezza delle decisioni del cervello ben un quarto di secondo dopo. Se effettivamente gli esperimenti di Libet mostrano ciò che sembra, allora diventa

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SEZIONE TEMI I)['!'EIIMINISM

Cit., p. 30

Dopo aver descritto la genesi delle passioni, e il rapporto che hanno con la volontà, ossia con l'anima, il filosofo francese procede a classificare le passioni, ovvero ad individuarle e descriverle. Anzitutto, indica il genere di effetto che tutte le passioni provocano negli esseri umani. Osservo inoltre che gli oggetti che muovono i sensi non eccitano in noi passioni diverse in ragione di tutte le differenze, ma solo in ragione dei vari modi in cui possono nuocerei o giovarci, o, in genere, assumere per noi importanza; e la funzione di tutte le passioni consiste solo nel disporre l'anima a voler ciò che la natura ci indica come utile, e a per-

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SEZIONE TEMI

severare in questa volontà, così come l'agitazione stessa degli spiriti che è solita causarle dispone il corpo ai movimenti che servono a eseguir tali cose: perciò, per individuare le passioni, basta solo esaminare ordinatamente in quante diverse maniere, per noi interessanti, i nostri sensi possono essere mossi dai loro oggetti. ~

Cit., pp. 36-37

Per Descartes, esistono sei passioni fondamentali, originarie, unendo Classificare le quali scaturiscono tutte le altre: ammirazione, amore, odio, deside- le passioni rio, gioia e tristezza. Per ragioni di sintesi, non riporteremo tutte le definizioni che Descartes fornisce di tali passioni ma solo la definizione della prima, che poi nel testo egli ribattezza come meraviglia, e successivamente vedremo come da questa ne scaturiscono altre. La meraviglia è una sorpresa improvvisa dell'anima, per cui essa si volge a considerare con attenzione gli oggetti che le sembrano rari ed eccezionali. Perché essa è prodotta in primo luogo dall'impressione nel nostro cervello che rappresenta l'oggetto come raro, e quindi degno d'essere molto considerato; successivamente, dal movimento degli spiriti disposti da questa impressione a tendere con gran forza verso la zona del cervello dove essa si trova, per rafforzarla e mantenerla; essa li spinge anche a passare nei muscoli che servono a trattenere anche gli organi di senso nella situazione in cui si trovano, in modo che, se da essi è stata determinata, da essi sia anche mantenuta ~

Cit., p. 42

Più avanti, Descartes sostiene che stima e disprezzo sono due opposte forme di meraviglia e ci spiega perché. Così queste due passioni non sono che forme di meraviglia; infatti quando non ci meravigliamo né della grandezza né della piccolezza dell' oggetto, ne facciamo, né più né meno, il conto che la ragione ci suggerisce di farne, e apprezziamo allora o disprezziamo senza passione; e benché in genere la stima sia suscitata in noi dall'amore, e il disprezzo dall'odio, non si tratta di alcunché di universale, ma della tendenza più o meno spiccata a considerare la grandezza o la piccolezza d'un oggetto in rapporto all'affezione più o meno viva che abbiamo per esso. ~

Cit., pp. 85-86

Spesso Descartes viene dipinto, esclusivamente, come il filosofo del ra- un approccio zionalismo, del cogito ergo sum, del primato dell'anima sul corpo. La realtà naturalistico del suo pensiero è piuttosto diversa. Non c'è dubbio che per il filosofo francese le passioni siano una manifestazione della fisiologia umana, della res extensa per usare le sue parole, manifestazione che va ad interferire, secondo certe modalità, con la res cogitans.

SEZIONE TEMI IUICIIOI\IE EPt\S!iiONI

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1- ALLE ORIGINI DELL'ETÀ MODERNA: LE PASSIONI DA DESCARTES A HUME

Possiamo fare a meno delle passioni, ovvero è possibile annullarle? Come abbiamo già visto, la ragione non è in grado di far questo. Per Descartes, invece, è realistico proporsi un altro obiettivo: massimizzare i vantaggi delle passioni, riducendone al minimo gli inconvenienti, tramite l'uso della ragione. Esattamente su questo tema, egli conclude Le

passioni dell'anima.

4

Del resto l'anima può avere i propri piaceri a parte; ma quelli che ha in comune col corpo dipendono completamente dalle passioni. Perciò gli uomini che la passione può far vibrare di più, sono capaci di gustare in questa vita le maggiori dolcezze. È vero che possono anche trovarvi le maggiori amarezze, se della passione non sanno fare buon uso, e se hanno contraria la fortuna. Ma la saggezza proprio in questo torna utile: nell'insegnare a rendersi talmente padroni delle passioni, a dirigerle con tale abilità, da far sì che esse cagionino soltanto mali molto sopportabili, e persino tali che sia sempre possibile volgerli in gioia. ;.. Cit., p. 115

1.2

Hobbes: una visione materialistica Thomas Hobbes affronta il tema delle passioni in modo coerente all'impostazione generale del suo pensiero filosofico, che in genere viene definito materialistico e meccanicistico li141i:to~tllil:um:!~1. Le sue tesi sull'argomento, le ritroviamo in tre opere: negli Elementi di Legge naturale e politica (1640), nel Leviatano (1651) e nel De Homine (1658). Per le nostre citazioni ci serviremo del Leviatano - nel quale è contenuta la sua celebre teoria politica - e del De Homine.

Amare e discorrere

L'uomo, giustamente chiamato l'animale parlante, è l'unico che, anche per la riproduzione, abbia bisogno di parlare. E non parla, mentre vi provvede, solo perché sa parlare; pare invece che in lui l'ebbrezza dell'amore sia consostanziale all'ebbrezza del discorrere, e ciò in modo così profondo e misterioso da far quasi pensare agli antichi, secondo la cui filosofia Dio, gli uomini e le cose sono sorti dal ((/ogoS)), intendendo alternativamente lo Spirito Santo, la ragione e la favella. Ora, nemmeno la psicoanalisi e la sociologia hanno insegnato qualcosa di essenziale a tale proposito, benché queste due giovanissime scienze facciano già a gara col cattolicesimo nell'immischiarsi di tutto ciò che è umano. Bisogna dunque cercare da sé di veder chiaro nel fatto che nell'amore il dialogo è quasi ancora più importante di tutto il resto. L'amore è il più loquace di tutti i sentimenti ed è fatto in massima parte di loquacità. ;.. R. Musi!, L'uomo senza qualità, Torino, Einaudi 1972, vol. Il, pp. 1071-1072

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Esistono due tipi di moti propri degli animali. Uno, quello vitale cominciato con la generazione dell'essere, continua ininterrottamente durante tutta la vita, e tale è costituito dalla circolazione del sangue, dal battito del polso, dal respiro, dalla digestione, dall'assimilazione, dall'escrezione ecc., per le cui attività non occorre immaginazione. L'altro è il moto animale chiamato anche moto volontario, come il camminare, il parlare, il muovere qualcuna delle nostre membra nel modo in precedenza stabilito dall'attività spirituale. Quel senso è determinato dal moto degli organi interni del corpo umano, prodotto dalla reazione esercitata dalle cose che noi vediamo, udiamo ecc.; e quella attività spirituale è generata da quel che rimane di quel movimento dopo la sensazione, come si è detto nei capp. I e II. E dato che il camminare, il parlare e simili moti volontari dipendono sempre da una precedente considerazione sulla provenienza, direzione e qualità, è evidente che l'immaginazione costituisce la prima intima causa di ogni moto volontario. Sebbene gli uomini privi di cultura non concepiscano alcun moto quando il corpo in movimento è invisibile, o quando lo spazio in cui quel moto si svolge è, per sua limitata estensione, impercepibile, ciò non vuol dire che tali moti non esistano. Infatti uno spazio non è mai così piccolo da impedire che ciò che si muove su di uno spazio più grande di cui il piccolo è parte, si muova prima su quello. Questi piccoli principi di moto, nel corpo umano, prima che si manifestino nel camminare, nel parlare, nel colpire ed in altre azioni visibili, sono comunemente chiamati tendenza. Questa tendenza, quando è indirizzata verso la sua stessa causa, è definita appetito o desiderio. [... ] Quando la tendenza si esplica in contrasto a qualche cosa, è generalmente chiamata av-

versione. ~T.

Hobbes, Il Leviatano, Torino, Utet 1955, pp. 84-85

Il senso del brano dovrebbe essere piuttosto chiaro: per il filosofo inglese, una delle manifestazioni elementari della natura umana consiste nel provare il desiderio di qualcosa o l'avversione per qualcosa. Siamo degli "animali desideranti", per co- Vivere è desiderare sì dire, e non possiamo farci niente, ovvero non possiamo impedire a noi stessi di desiderare o detestare questo o quello. Naturalmente, tutto ciò che desideriamo viene chiamato bene, e male il suo contrario. In tal modo, la sua posizione è, almeno in parte, diversa da quella di Descartes: mentre quest'ultimo descrive l'origine delle passioni sostenendo soltanto che esse derivano dalla percezione sensibile, Hobbes non si limita a questo, ma afferma che la percezione è la causa di ciò che lui chiama moto volontario, una reazione alle percezioni, che si manifesta o sotto forma di desiderio o di avversione. Le passioni, a loro volta, derivano da quella reazione. Si dice ch_e gli uomini ama~o ciò eh~ desi~er~no e odiano quelle cose per cm provano avverswne. Cos1 des1deno e amore vengono a coincidere; salvo il fatto che per "desiderio" noi sempre intendiamo

SEZIONE TEMI PASSI(_il'U

I~AGI(lflf

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1 -ALLE ORIGINI DELL'ETÀ MODERNA: LE PASSIONI DA DESCARTES A HUME

l'assenza di un oggetto, mentre per "amore" generalmente la presenza di esso. Similmente, per "avversione" intendiamo l'assenza dell'oggetto e per "odio" la presenza di esso. [... ] Diciamo di disprezzare quelle cose che né desideriamo né odiamo. Il disprezzo non è altro che uno stato di immobilità o contumacia del cuore nel resistere all'azione che certe cose esercitano su di esso, il che è causato dall'essere stato influenzato in altro senso da altri più potenti oggetti, o dalla mancanza di esperienza riguardo a quelli. [... ] Dei piaceri, o delizie, alcuni derivano dalla percezione di un oggetto presente e possono essere chiamati piaceri del senso (la parola "sensuali" è soltanto usata da chi li condanna, non essendo riconosciuti dalla legge). Di questa specie sono tutti quei piaceri che riguardano il riempire e il vuotare il corpo, come anche tutto ciò che appare alla vista, all'udito, odorato, gusto o tatto. Gli altri derivano dall'attesa che proviene dal prevedere il fine o le conseguenze delle cose, se queste piacciono o no alla nostra percezione. Questi sono i piaceri della mente, per chi sa trarre quelle conseguenze, e sono chiamati gioia. Allo stesso modo i dispiaceri che riguardano la percezione sono chiamatipene, gli altri che derivano dall'aspettazione delle conseguenze, dolori. Queste semplici passioni chiamate appetito, desiderio, amore, avversione, odio, gioia o dolore hanno nomi diversi, secondo da quale punto di vista sono considerate. ~

Cit., pp. 86-89

Che rapporto c'è, o può esserci, fra le passioni e la ragione? Su questo La ragione al servb:io tema Hobbes formula una tesi diversa da quella di Descartes e che an ti- delle passioni cipa quella che, in seguito, verrà proposta da Hume: la ragione è al servizio delle passioni. Vediamo come arriva a questa conclusione. Nel De Homine, al capitolo XI, dedicato alla coppia desideri/avversione, Hobbes definisce prima qual è il maggiore dei beni e poi elenca tutto ciò che può essere utile ad acquistarlo e conservarlo. Il primo dei beni, poi, è l'autoconservazione. La natura, infatti, ha fatto in modo che tutti desiderino avere il bene. E, per poter essere capaci di questo, è necessario che desiderino la vita, la salute e, dell'una e dell'altra, per quanto è possibile che avvenga, la sicurezza futura. [... ] La sapienza è utile. Comporta, infatti, in sé, una qualche difesa. È anche desiderabile per sé, cioè piacevole. L'ignoranza è un male: infatti, essa non comporta alcuna difesa né la previsione di un male imminente. Il desiderio delle ricchezze è più grande di quello della sapienza. Ed invero, per lo più, questa non si cerca se non per quelle; se si hanno quelle, si vuol dare ad intendere che si possiede anche questa. Infatti, come dissero gli stoici: non chi è sapiente è ricco, ma deve dirsi sapiente chi è ricco. ~

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T. Hobbes, De Homine, Torino, Utet1972, pp. 596-597

Dal brano si evince che la conoscenza, che deriva dall'uso della ragione, è buona soprattutto perché è utile, è più un mezzo che un fine. In forma analoga, si era espresso il filosofo inglese qualche anno prima, nel Leviatano. Quanto all'acquistare la sagacità, intendo quella derivata dal metodo e dalla cultura, non c'è altro mezzo che la ragione, fondata sull'appropriato uso del linguaggio e che produce le scienze. Della ragione e della scienza ho comunque già trattato nei capitoli V e VI. Le cause di questa differenza di sagacità sono da ricercarsi nelle passioni e la differenza di queste deriva in parte dalla diversa costituzione fisica, ed in parte dalla diversa educazione. Infatti, se la differenza scaturisce dalla struttura del cervello e dagli organi sensoriali esterni ed interni, non esisterebbe minor differenza tra gli uomini riguardo alla vista, all'udito e agli altri sensi, di quella riferentesi alla loro fantasia e discrezione. Perciò essa deriva dalle passioni che sono diverse non soltanto a causa della differenza delle costituzioni fisiche, ma anche della diversità di costumi e di educazione. Le passioni che principalmente determinano la differenza nella sagacità dei vari individui, sono il maggiore o minore desiderio di potere, di ricchezza, di conoscenza e di onori, che poi possono essere ridotte alla prima, cioè al desiderio di potere. Infatti, le ricchezze, la conoscenza e gli onori non sono altro che varie forme di potere. E di conseguenza un uomo che non concepisce alcuna grande passione per una di quelle cose, ma è verso di esse indifferente, sebbene sia uomo buono ed alieno dal far male agli altri, tuttavia non sembra possibile che possegga una grande fantasia od un'estesa capacità di giudicare. I pensieri infatti rappresentano le avanguardie e gli osservatori dei desideri e li spingono ad impegnarsi ed a raggiungere le cose desiderate, ed ogni indugiare, come ogni pronto agire dello spirito, derivano da quella sorgente. Non avere desideri significa essere morti, allo stesso modo che l'idiozia è il concepire deboli passioni, l'avere passioni indifferentemente per ogni cosa è incostanza e distrazione, ed il nutrire per qualche cosa passioni più ardenti ed impetuose di quelle che si vedono ordinariamente negli altri, costituisce ciò che gli uomini definiscono pazzia. 1>

T. Hobbes, Il Levtatano, cit., pp. 106-107

Le passioni sono lo stimolo che spinge gli esseri umani a conoscere, ad esercitare l'uso della ragione. Certo, bisogna fare attenzione: troppe passioni o troppo poche finiscono per essere egualmente dannose per la ragione. Ciò non toglie, usare le passioni per Hobbes, che è il pensiero ad essere, di norma, al servizio del binomio desiderio/avversione e, di conseguenza, di tutte le passioni. Posizione, questa, piuttosto diversa da quella di Descartes, che vede la ragione come la forza che può dominare le passioni.

SEZIONE TEMI rUtG!ONE 1: PASSIONI

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1- ALLE ORIGINI DELL'ETÀ MODERNA: LE PASSIONI DA DESCARTES A HUME

1.3

Spinoza: dal dominio degli affetti alla potenza dell'intelletto Baruch Spinoza viene, in genere, ricordato per una sola opera, che ha avuto una notevole importanza nella storia della filosofia, Etica, dimostrata secondo l'ordine geometrico, pubblicata qualche mese dopo la sua morte, come accadde anche ad altri suoi testi. I;Etica, a dispetto del titolo, è nelle prime due parti, o capitoli, un trattato di metafisica e di teoria della conoscenza maw.J31@:,1QIMOOilU La Terza, la Quarta e la Quinta parte, però, sono dedicate all'origine delle passioni, alla loro grande influenza sul pensierò e sulle azioni umane, e, da ultimo, alla capacità dellhntelletto di li- Passioni e ragione berarsi dal dominio delle passioni. Cominciamo dalla prefazione alla Terza parte, che presenta l'impostazione del filosofo olandese. Qui, egli comincia sostenendo che ci sono filosofi che trattano l'uomo come se fosse un essere del tutto distinto dal mondo della natura e delle sue leggi. Attribuiscono quindi la causa dell'impotenza e dell'incostanza umane, non alla comune potenza della natura, che perciò compiangono, deridono, disprezzano, o, quel che avviene più di frequente, detestano; e chi sa pungere l'impotenza della mente umana più eloquentemente o più sottilmente è ritenuto divino. Non sono tuttavia mancati uomini valorosissimi (alla cui fatica ed operosità confessiamo di dovere molto), che hanno scritto molte cose eccellenti sul retto modo di vivere, e che hanno dato ai mortali consigli pieni di prudenza; ma nessuno, che io sappia, ha determinato la natura e le forze degli affetti, e che cosa possa la mente allo scopo di dominarli. So bene che il celeberrimo Cartesio, sebbene abbia anch'egli creduto che la mente possieda un potere assoluto sulle sue azioni, ha tuttavia cercato di spiegare gli affetti umani mediante le loro prime cause, e nello stesso tempo, di mostrare la via per la quale la mente possa avere un dominio assoluto sugli affetti; ma, a mio parere, non ha dimostrato se non l'acume del suo grande ingegno, come farò vedere a suo luogo. Voglio infatti ritornare a coloro che preferiscono detestare o irridere le azioni e gli affetti umani all'intenderli. A questi senza dubbio sembrerà strano che io imprenda a trattare con procedimento geometrico le stoltezze e i vizi umani, e che io voglia dimostrare secondo una ragione certe cose che secondo i loro strepiti ripugnerebbero alla ragione, sarebbero vane, assurde, orrende. Ma il mio argomento è questo: nella natura non c'è niente che si possa attribuire a suo vizio; la natura infatti è sempre la stessa, e la sua virtù o potenza di agire è la medesima dappertutto; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e da certe forme si trasmutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve essere il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura. [... ] Perciò, tratterò della natura e delle forze degli affetti, e del potere della mente di dominarli, con lo stesso metodo con

580

SEZIONE TEMI IAGIIINE PASSIONI

cui ho trattato, nelle parti precedenti, di Dio e della mente, e considererò le azioni umane e gli appetiti, come se fosse questione di linee, superfici o corpi. ~B.

Spinoza, Etica, Torino, Bollati Borlnghieri 1959, pp. 129-131

Questa dichiarazione di intenti ci avverte che l'autore vuole trattare Le passioni l'argomento in modo scientifico, si potrebbe anche dire naturalistico, mo- sono naturali strando che gli affetti e le passioni sono parte integrante della natura umana, e non un corpo estraneo. Quando passa alle definizioni, comincia a presentare la sua tesi. 1. Chiamo causa adeguata quella, il cui effetto può essere percepito chiaramente e distintamente mediante essa, e dico invece inadeguata, o parziale, quella, il cui effetto non può essere inteso mediante essa sola. 2. Dico che ncii agiamo, quando avviene, in noi o fuori di noi, qualcosa di cui siamo causà adeguata, cioè (per la definizione precedente) quando segue dalla nostra natura qualcosa in noi o fuori di noi, che può essere inteso chiaramente e distintamente soltanto per mezzo di essa. Dico' viceversa che noi patiamo, quando in noi avviene qualcosa, o qualcosa segue dalla nostra natura, di cui noi non siamo se non causa parziale. 3. Per affetto intendo le affezioni del corpo, da cui la potenza di agire del corpo stesso viene aumentata o diminuita, aiutata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni. Se perciò possiamo essere la causa adeguata di qualcuna di queste affezioni, allora per affetto intendo una azione, altrimenti una passione. ~

Cit., p. 131

Il cuore del ragionamento di Spinoza si trova nella distinzione tra azioni e passioni. Un esempio delle prime potrebbe essere la ginnastica: essa, supponiamo, è la causa di una certa struttura muscolare sviluppata armonicamente, che non avremmo senza aver fatto certi esercizi; un esempio delle seconde potrebbe essere, sempre restando in ambito corporale, quella che si chiama, in genere, abbronzatura: esporsi al sole è condizione necessaria, ma non sufficiente, e dunque parziale, di quel fenomeno, che dipende in ultima analisi dai raggi solari. Che rapporto c'è tra questa distinzione e il tema delle passioni? Per il filosofo olandese, alla base dell'esistenza di ogni essere vivente, compreso quello umano, c'è il conatus, ovvero l'istinto a conservarsi in vita. Così come esistono cause adeguate e inadeguate, allo stesso modo esistono idee del primo genere e del secondo. Sono adeguate, per Spinoza, le idee conformi all'ordine divino della natura, come, ad esempio, ritenere che tutti i fenomeni naturali si svolgono secondo ordine indifferente ai nostri desideri. Se al conatus si accompagna un'idea adeguata, allora abbiamo un'azione. Sarebbe un'idea inadeguata, invece, quella di chi concepisse l'ordine naturale come favorevole o contrario ai nostri desideri. Quando un'idea del genere si accompagna al conatus, abbiamo la passione. Proprio a questo riguardo, Spinoza svolge delle considerazioni nella prefazione alla Quarta parte.

SEZIONETEMI

RAGIONE EPASSIONI

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i 11.

I!IATTITO

1- ALLE ORIGINI DELL'ETÀ MODERNA: LE PASSIONI DA DESCARTES A HUME

Gli uomini sogliano infatti, tanto nelle cose naturali quanto in quelle artificiali, formare delle idee universali, che tengono come modelli delle cose, e ritengono che la natura - che secondo loro non fa niente se non per qualche fine - miri a quelle e se le proponga come modelli. E così, quando vedono che nella natura avviene qualcosa che si conforma al modello da loro concepito di quella cosa, credono che la stessa natura abbia mancato o abbia peccato e abbia lasciato quella cosa imperfetta. Vediamo dunque che gli uomini sono abituati a chiamare le cose naturali perfette o imperfette più a causa del pregiudizio che secondo una vera conoscenza di esse. Abbiamo infatti dimostrato, nell'appendice alla prima parte, che la natura non agisce per un fine, perché l'ente eterno e infinito, che chiamiamo Dio o la natura, agisce con la medesima necessità con cui esiste. [... ] Dunque la ragione o causa per cui Dio o la natura agisce, e quella per cui esiste, è una e identica. [... ] Ciò che si dice causa finale non è nient'altro che lo stesso appetito umano, in quanto è considerato come principio o causa primaria di qualche cosa. [... ] Quindi la perfezione e l'imperfezione, in realtà, sono soltanto modi del pensare, vale a dire nozioni, che sogliamo costruire in quanto paragoniamo tra loro individui della stessa specie o genere. ~

Cit., pp. 212-213

In precedenza, nella Terza parte, Spinoza aveva delineato un sorta di teoria delle passioni. Quelle fondamentali sono gioia e dolore, che vengono dall'incontro Le passioni di base con qualcosa che favorisce il nostro essere e lo accresce oppure lo attacca e lo limita, tesi analoga ad Hobbes. Da esse nascono amore e odio, ovvero una gioia e un dolore collegati all'idea di una causa esterna. Da queste fondamenta deriverebbero, poi, tutte le altre passioni. Avere passioni è naturale ma vivere tutta la vita subordinati ad esse non è affatto necessario. C'è un modo per dominare le passioni e non farsi dominare? I:unica via efficace è quella della conoscenza. A questo tema è dedicata la Quinta parte dell'Etica. Chi opera nel mondo sulla base delle passioni si trova, per Spinoza, in uno stato d'ignoranza, ossia vive con delle idee inadeguate. Colui il quale, invece, fosse consapevole, ad esempio, che non esistono cause finali nella natura, si libererebbe da molte passioni. Per esempio, abbiamo dimostrato che è proprio della natura umana che ciascuno desideri che tutti vivano esclusivamente a modo suo (vedi lo scolio della proposizione 31, parte terza); il quale appetito, nell'uomo che non è guidato dalla ragione, è una passione che si chiama ambizione, né è molto diverso dalla superbia; e, al contrario, nell'uomo che vive secondo il dettame della ragione, è un'azione o virtù che si chiama pietà (vedi lo scoli o 1 della proposizione 37, parte quarta, e la seconda dimostrazione della stessa proposizione). E, in questo modo, tutti gli appetiti o cupidità, in tanto solamente sono passioni, in quanto sorgono da idee inadeguate; mentre sono ascritti alla virtù medesima se sono eccitati o generati da idee adeguate. Infatti tutte le cupidità, da cui sono determinati a fare alcunché, possono sorgere tanto da idee adeguate quanto da idee inadeguate (vedi la proposizione 59, parte quarta). E (per tornare là donde ero partito) non si può pensare null'altro di più valido, che sia in nostro potere, del rimedio degli affetti consistente nella loro conoscenza vera, poiché non si dà nessun'altra potenza della mente, se non quella di pensare e formare idee adeguate. ~

Cit., p. 300

Ci si potrebbe chiedere: in cosa consiste questa affermazione delle idee adeguate, con la conseguente messa fuori causa delle passioni? Il filosofo olandese fornisce un esempio qualche riga più avanti.

Proposizione 6 In quanto la mente intende tutte le cose come necessarie, in tanto ha maggior potenza sugli affetti, ossia ne patisce meno. Dimostrazione La mente intende che tutte le cose sono necessarie (per la proposizione 29, parte prima) e che sono determinate da un infinito nesso di cause ad esistere ed operare (pér la proposizione 28, parte prima); e perciò (per la proposizione precedente) in questa misura fa sì di patire meno dagli affetti che ne sorgono, e (per la proposizione 48, parte terza) di essere meno affetta verso di esse. ~

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Cit., p. 301

SEZIONE TEMI RAGIIltJE EPASSIONI

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1 AllE ORIGINI DEll'ETÀ MODERNA: lE PASSIONI DA DESCARTES AHUME N

Occorre tuttavia osservare conclusivamente che se la saggezza, per Spinoza, si conquista, alla stessa maniera degli stoici, comprendendo che il mondo è retto da leggi necessarie che nessuno di noi può cambiare solo perché desideriamo questo o quello, noi non possiamo comunque impedirci di desiderare: la passione è parte, come la ragione, della natura umana, e quella stessa saggezza comporta il potenziamento della felicità umana e quindi anche dei suoi affetti. Ne deriva che, ben oltre gli stoici, le passioni quando diventano affetti positivi rappresentano un incremento d'essere, di felicità e di libertà.

1.4

Hume: la ragione al servizio delle passioni Allo studio delle passioni David Hume ha dedicato il Secondo Libro del suo capolavoro giovanile, il Trattato sulla natura umana (173 9), proponendo delle tesi che non Le passioni verranno modificate negli anni a venire li.ih:41!t&llì1HIIMI. L'indagine del filo- sono un'impressione sofà scozzese comincia dall'origine delle passioni, sostenendo che queste sono un tipo di impressione (Hume distingue tutte le percezioni della nostra mente in impressioni e idee). Le impressioni originarie o impressioni di sensazione non sono precedute da alcuna percezione, e sorgono nell'anima dalla costituzione del corpo, dagli spiriti animali, o dalla sollecitazione che gli oggetti imprimono sugli organi esterni. Le impressioni secondarie o di riflessione, derivano da alcune di quelle originarie, o immediatamente o per mediazione delle loro idee. Appartengono al primo genere tutte le impressioni dei sensi, e tutti i dolori e i piaceri corporei; al secondo genere, invece, appartengono le passioni, e tutte le altre emozioni simili. [... ] I dolori e i piaceri corporei sono all'origine di molte passioni, sia quando vengono provati sia quando sono considerati dalla mente; eppure sorgono originariamente nell'anima, o nel corpo, comunque lo si voglia chiamare, senza alcun pensiero o percezione che li preceda. Un attacco di gotta produce una lunga serie di passioni, come l'angoscia, la speranza, la paura; che tuttavia non deriva immediatamente da alcuna affezione o idea. Le impressioni di riflessione si possono suddividere in due generi: quelle calme e quelle violente. Appartengono al primo genere il senso del bello e del deforme nelle azioni, nelle composizioni, e negli oggetti esterni. Al secondo genere, invece, appartengono le passioni di amore e d'odio, di angoscia e di gioia, di orgoglio e d'umiltà. [... ] Se gettiamo uno sguardo alle passioni, non possiamo che dividerle in dirette e indirette. Per passioni dirette io intendo quelle che sorgono immediatamente dal bene o dal male, dal dolore o dal piacere. Per indirette, invece, quelle che derivano dai medesimi princìpi, ma unite ad altre qualità. Non mi è possibile, per ora, giustificare o spiegare ulteriormente questa distinzione. Posso soltanto osservare che, generalmente, lepassioni indirette comprendono l'orgoglio, l'umiltà, l'ambizione, la vanità, l'amore, l'odio,

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l'invidia, la pietà, la malizia, la generosità, con tutto ciò che ne deriva. Le passioni dirette, d'altronde, comprendono il desiderio, l'avversione, l'angoscia, la gioia, la speranza, il terrore, la disperazione e la fiducia. ~D.

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Hume, Trattato sulla natura umana, Milano, Bompiani 2001, pp. 551-555

Circa le origini delle passioni, come si vede, Hume non si discosta dall'opinione prevalente, secondo la quale, in sostanza, le passioni primordiali nascono dall'esperienza sensibile, ovvero da due unici effetti che essa produce in noi: piacere o dolore. Anche la classificazione delle passioni non costituisce novità, poiché era molto dif- li legame tra ragione fuso, nella filosofia morale del periodo, un atteggiamento descrittivo e clas- e passioni sificatorio. È invece sul rapporto fra le passioni e la ragione che Hume elabora una posizione originale, che porta alle estreme conseguenze le tesi di Hobbes. In filosofia, e anche nella vita quotidiana, niente è più comune che parlare del conflitto tra passioni e ragione, e preferire la ragione, affermando che la virtù degli uomini consiste soltanto nel conformarsi ai suoi dettami. Si è detto che ogni creatura razionale è obbligata a regolare le sue azioni attraverso la ragione, e se qualche altro motivo o principio si insinuasse nella determinazione del suo comportamento, bisogna combatterlo, finché non sarà del tutto sottomesso, o perlomeno conformato a quel principio superiore. Su questo metodo di pensiero sembra essersi fondata la maggior parte della filosofia morale, antica e moderna; né esiste, tanto per le speculazioni metafisiche quanto per le dichiarazioni popolari, un ambiente più ampio di questa presupposta supremazia della ragione sulle passioni. L'eternità, l'invariabilità, e l'origine divina della prima sono state espresse al massimo livello; mentre si è insistito strenuamente sulla cecità, l'incostanza e l'elusività delle seconde. Per mostrare la fallacia di tutta questa filosofia, cercherò di provare, in primo luogo, che la ragione di per sé non può mai costituire un motivo di azione per la volontà; e, in secondo luogo, che non può mai opporsi alle passioni nel dirigere la volontà. L'intelletto ha due modi diversi di esprimersi, secondo che giudichi per dimostrazione o per probabilità; ossia in base al fatto che consideri le relazioni astratte delle nostre idee, oppure le relazioni degli oggetti di cui soltanto l'esperienza ci informa. Io credo che raramente si potrà affermare che il primo genere di ragionamento sia di per sé causa di un'azione. Poiché il suo ambito proprio è il mondo delle idee, e siccome la volontà ci colloca sempre in quello delle cose reali, la dimostrazione e la volizione sembrano dunque essere totalmente estranee fra loro. La matematica è certamente utile in tutte le operazioni meccaniche, e l'aritmetica in quasi ogni arte e professione: ma non hanno di per sé alcuna influenza. [... ] Un mercante desidera conoscere la somma totale dei suoi conti con una persona: perché mai, se non per capire quale somma avrà gli stessi effeW nel pagare i suoi debiti

Il.

DIIIA'I"Til'()

1- ALLE ORIGINI DELL'ETÀ MODERNA: LE PASSIONI DA DESCARTES A HUME

e nel recarsi al mercato, inteso come l'acquisto di tutti i singoli articoli considerati insieme? I ragionamenti astratti o dimostrativi, dunque, influenzano le nostre azioni soltanto perché guidano i nostri giudizi su causa ed effetto; il che ci porta alla seconda operazione dell'intelletto. È ovvio che quando ci si prospetta che un certo oggetto ci procurerà dolore o piacere, noi sentiamo un'emozione conseguente di avversione o di propensione, cosicché siamo portati ad evitare oppure ad abbracciare ciò che ci dà questo dolore o questa soddisfazione. È altrettanto ovvio che questa emozione non si limita a questo, e anzi estende il nostro sguardo in tutte le direzioni, includendo tutti gli oggetti connessi con quello originario mediante la relazione di causa ed effetto. Proprio per scoprire questa relazione interviene qui il ragionamento; e secondo il suo variare, variano anche le nostre azioni. In questo caso, tuttavia, è evidente che l'impulso non sorge dalla ragione, che si limita a dirigerlo. è soltanto per la previsione di un dolore o di un piacere, che sorgono avversione o propensione verso un oggetto: queste emozioni, poi, si estendono alle cause e agli effetti di quell'oggetto, in quanto ci vengono indicati dalla ragione e dall'esperienza. [... ] Siccome la ragione non produce mai di per sé un'azione, né genera una volizione, io ne inferisco che la stessa facoltà non può nemmeno impedire una volizione, né disputarsi la preferenza con una passione o un'emozione. [... ] Niente può impedire o ritardare l'impulso di una passione, se non un impulso contrario. [... ] Appare così che il principio opposto alle nostre passioni non può coincidere con la ragione, e dunque gli si attribuisce tale nome impropriamente. Quando parliamo del conflitto tra passioni e ragione il nostro parlare non è rigoroso né filosofico. La ragione è, e dovrebbe soltanto essere schiava delle passioni, né potrebbe mai ambire a qualcosa che non sia servirle e obbedire loro. ~

1

Cit., pp. 817-821

Sono le passioni a guidare le nostre azioni, nel senso di spingerei a fare 11 ruolo strumentale questo o quello, e rispetto ad esse la ragione svolge un ruolo strumentale, os- della ragione sia individua i mezzi per raggiungere un fine, che però è quello perseguito dalla passione. In altri termini: se in questo momento sono dominato dalla gelosia, la ragione mi servirà, supponiamo, per individuare dei mezzi efficaci per tenere sotto controllo la persona oggetto di questo mio sentimento. Smetterò di essere geloso, dal punto di vista di Hume, se, e soltanto se, un'altra passione, uguale e contraria, arriverà a contrastare la gelosia o anche se la gelosia stessa diventerà qualcosa di insopportabile per me. Non smetterò di essere geloso in base ad un ragionamento: potrei anche essere capace di pensare che la ge- Le passioni losia, come idea, sia errata, dannosa, ma ciò non costituirebbe, secondo Hu- si combattono fra loro me, un motivo sufficiente per spingere la mia volontà in un'altra direzione. Appare evidente, perciò, come Hume riprenda e sviluppi, in modo coerente, la posizione già espressa da Hobbes: i motivi che spingono l'uomo ad agire sono sempre riconducibili a qualche passione, positiva o negativa, e la ragione non può fare altro che mettersi al servizio, volta a volta, della passione che prevale.

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2

Il XIX secolo: la rivincita delle passioni? Nel XIX secolo la tematica delle passioni ha avuto un peso minore nel dibattito filosofico, a confronto con i due secoli precedenti. Ciò nondimeno, sono emerse alcune posizioni di grande interesse, in particolare quella di Nietzsche, che hanno esercitato una certa influenza anche sulla discussione novecentesca.

2.1

leopardi: le passioni alla base della vita Da molti anni ormai, gran parte della critica riconosce in Giacomo Leopardi (1798-1837) non solo il poeta eccellente, il finissimo letterato, ma anche il moralista e il filosofo; il recanatese è stato pensatore di notevole livello, il migliore fra quelli italiani del XIX secolo. Non c'è dubbio che nello Zibaldone e nelle Operette morali Leopardi abbia delineato un suo punto di vista filosofico, soprattutto nei campi della metafisica e dell'etica. Qui presenteremo il Leopardi "filosofo delle passioni", per come emerge dallo Zibaldone. Diciamo subito che egli non si colloca certo nella scia degli stoici, non ritiene, cioè, che il compito della ragione umana sia quello di dominare le passioni fino ad an- Le passioni nullarle. Piuttosto, egli appare assai più vicino a Hume e Hobbes, nella ci spingono ad agire convinzione che la razionalità, da sola, non fornisca motivi all'azione, mentre sono le passioni, nel bene e nel male, a spingerei ad agire. La ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l'uomo si muova per la ragione come, anzi più assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole. La natura degli uomini e delle cose può bene essere corrotta, ma non corretta. E se lasciassimo fare alla natura, le cose andrebbero benissimo, nonostante la detta superiorità della passione sulla ragione. Non bisogna estinguere la passione con la ragione, ma convertir la ragione in passione, fare che il dovere la virtù l'eroismo ecc. diventino passioni. Tali sono per natura. Tali erano presso gli antichi, e le cose andavano molto meglio. Ma quando la sola passione al mondo è l'egoismo, allora si ha ben ragione di gridare contro la passione. Ma come spegner l'egoismo con la ragione che ne è la nutrice, dissipando le illusioni? E senza ciò, l'uomo privo di passioni, non si muoverebbe per loro, ma neanche per la ragione, e non si possono cambiare, chè la ragione non è forza viva né motrice. 1>

G. Leopardi, Zibaldone, Milano, Mondadori 1961, pp. 273-274

In questo breve passo Leopardi è perentorio e sferzante. Quando definisce

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F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi 1968, p. 95

La morale tradizionale è dunque, per Nietzsche, una "ricetta" contro le passioni individuali e la loro presunta "pericolosità". Una ricetta in cui si mescolano, nelle stesse dosi, accortezza e stupidità, che si porta addosso un rwdore slanlim> e «una saggezza da vecchie donnicciole>>. Aristotele, gli stoici, Spinoza, sono tutti episodi di una storia che parla di neutralizzazione delle passioni (al massimo ci si può permettere il giusto mezzo aristotelico, che a Nietzsche pare soltanto (>). Una storia di decadenza, perché segnata da una profonda ostilità verso la vita. Non era così La Grecia classica nella Grecia antica, prima di Socrate e Platone, quando le grandi passio- terra di passioni ni erano il metro con il quale valutare la differenza tra gli uomini "grandi", nel senso di forti, creativi, vitali, e gli uomini "piccoli", cioè deboli, mediocri, insignificanti. Morale come decadenza (Sensi>, (passioni> La paura dei sensi, dei desideri, delle passioni, quando giunge al punto da sconsjgljarli, è già un sintomo di debolezza: i mezzi estremi denotano sempre stati anormali. Ciò che qui manca o è intaccato, è la forza di argjnare un impulso; quando si ha l'istinto di dover cedere, ossia di dover reagire, allora si farà bene a scansare le occasioni ((seduzioni>). Uno (Stimolo dei sensi> è una seduzjone solo in quanto si tratti di esseri il cui sistema è troppo instabile e influenzabile; nel caso opposto, quando il sistema cioè è molto pesante e duro, ci vogliono stimoli forti per mettere in moto le funzioni ... L'eccesso è un'obiezione solo per chi non ne ha il diritto; e quasi tutte le passioni hanno cattiva reputazione a causa di coloro che non sono abbastanza forti per volgerle a loro vantaggjo. Bisogna intendersi sul fatto che alla passione si può obiettare ciò che si può obiettare alla malattia; e tuttavia non potremmo fare a meno della malattia e ancor meno delle passioni ... Abbiamo bisogno dell'anormale, con queste grandi malattie diamo alla vita un immenso choc ... [... ] Bisogna in particolare distinguere: 1) la passjone domjnante, che comporta addirittura la suprema forma di salute; qui il coordinamento dei sistemi interni e il loro concorrere ad una funzione unitaria è raggiunto nel modo migliore - ma questa è quasi la definizione della salute! 2) Il contrasto delle passioni, la duplicità, la triplicità, la molteplicità delle mnime in un sol pettm: molto malanno, rovina interiore, disgregante, tradisce e accresce un intimo dissidio e anarchia, a meno che una passione diventi alla fine sovrana. Ritorno alla salute. 1>

F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, Milano, Adelphi 1974, pp. 130-131

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Il XIX SECOlO: lA RIVINCITA DEllE PASSIONI?

Qui Nietzsche fa notare al lettore come le passioni, che sono sempre indizio di vita, non abbiano e non possano avere gli stessi effetti per tutti. Ci sono persone deboli che temono le passioni in quanto ne sarebbero travolte, e allora le sconsigliano. Qualcosa del genere accade per un buon numero di individui, ai quali basta poco per "perdere la testa", e per questo sono molto guardinghi, misurati. Ci sono altri tipi di individui, "migliori", più vitali, che possono reggere passioni intense e spesso ne hanno una dominante, al servizio della quale pongono tutte le loro energie. Queste sono manifestazioni di salute. Non è un caso che nei testi di Nietzsche sia ricorrente una terminologia "medica": 'salute', 'sano', 'malattia', 'malato' e simili. La filosofia e la religione Passioni e"salute" dominanti in Occidente hanno proclamato l'uguaglianza di tutti gli esseri umani, o perché dotati di ragione, come sostiene la cultura laica, o perché figli di Dio, come sostiene il cristianesimo, o per entrambi i motivi. Le cose non stanno così, secondo Nietzsche: gli uomini sono diversi fra loro, diversi nell'intelligenza, diversi delle passioni. Esistono i migliori e i peggiori, anche se nessuno sembra volerlo riconoscere. Quello che abbiamo oggi, invece, è la supremazia dei mediocri, ed è per questo che la civiltà del suo tempo sembra a Nietzsche decadente. Eppure, sarebbe possibile un'altra strada.

Tesi: ogni bene è un male precedente reso utilizzabile. Criterio: quanto più sono grandi e terribili le passioni che un'epoca, un popolo, un individuo, si può permettere, in quanto sa usarle come mezzi, tanto più alta è la sua civiltà. (Il regno del male diventa sempre più piccolo [... ]). Quanto più un uomo è mediocre, debole, sottomesso e vile, tanto maggiore sarà quello che egli stabilirà come malvagio: per lui il regno del male è il più vasto, l'uomo infimo vedrà dappertutto il regno del male (cioè di quello che gli è vietato e ostile). Summa: il dominio sulle passioni, non il loro indebolimento o sradicamento! Quanto maggiore è la forza dominatrice della volontà, tanto maggiore è la libertà che si può concedere alle passioni. Il ; guardiamoci dalle prensili braccia di tali concetti contraddittori come (pura ragione>, mssoluta spiritualità>, (Conoscenza di sé>; qui si pretende sempre di pensare un occhio che non può affatto venir pensato, un occhio che non deve avere assolutamente direzione, in cui devono essere troncate, devono mancare le forze attive e interpretative, mediante le quali soltanto vedere diventa un vedere qualcosa; qui dunque viene sempre preteso un controsenso e un non concetto di occhio. Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un (Conoscere> prospettico, e quanti più affetti facciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro (ConcettO> di essa, la nostra (Obiettività>. Ma eliminare in genere la volontà, sospendere tutte quante le passioni, ammesso che di questo fossimo capaci: come? Non significherebbe castrare l'intelletto. ~F.

Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, Adelphi 1986, p. 323

Quello del prospettivismo è, in Nietzsche, un tema importante e vasto, del quale ci limiteremo a mettere in evidenza il rapporto con il tema delle passioni. conoscenza e passioni Per il filosofo tedesco la conoscenza è sempre, che ne siamo consapevoli o meno, mossa da un interesse, da un bisogno, da una passione. Dunque, lo "sguardo conoscitivo" metterà in rilievo qualcosa e lascerà sullo sfondo qualcos'altro, in base ad un implicito criterio: cerco ciò di cui ho necessità, ciò che mi appassiona. Per esempio, Nietzsche ha sostenuto che la svolta matematico-sperimentale della fisica moderna nasce dal bisogno di ((Calcolare, di ridurre a quantità tutti i fenomenh>, per dominarli più efficacemente. Ma nel testo non c'è solo il legame tra conoscenza e passioni, si evoca anche la volontà. La parola non è così "innocente" come sembrerebbe, poiché un'altra grande tematica del pensiero nietzscheano è quella che lui definisce volontà di potenza.

SEZIONE TEMI EPllSS!tlNI

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DI!IATTI"rO

2- IL XIX SECOLO: LA RIVINCITA DELLE PASSIONI?

La volontà di potenza non è un essere, non un divenire, ma un pathos, è il fatto elementarissimo da cui soltanto risulta un divenire, un agire ... [... ] Se l'intima essenza dell'essere è volontà di potenza, se il piacere è ogni crescita di potenza e dispiacere ogni sentimento di non poter resistere, di non poter affermare su qualcosa la propria signoria; non possiamo allora porre come fatti cardinali piacere e dispiacere? È possibile la volontà senza queste due oscillazioni del sì e del no? Ma chi sente piacere? ... Ma chi vuole potenza? ... Domanda assurda, se l'essenza stessa è volontà di potenza e quindi sentimento del piacere! E tuttavia: essa ha bisogno di contrasti, di ostacoli, cioè, relativamente, di unità che si espandono ... 11>

F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., p. 50

Qui Nietzsche sembra riproporre un'impostazione che è stata di Hobbes: la vita per l'uomo è, anzitutto, ricerca del piacere e fuga dal dolore. C'è, però, qualcosa di diverso: il punto di partenza non è la coppia piacere-dispiacere ma la volontà stessa. "Vivere è volere", potrebbe essere questa la tesi di Nietzsche. Volere cosa? Affermare se Passioni e stessi ci provoca piacere; di qui vengono le passioni positive. Quando non "volontà di potenza" ne siamo capaci subentrano le passioni negative. Più avanti, sempre nello stesso testo, ritorna sull'argomento.

Romeo e Giulietta Pietro Roi, Morte di Giulietta e Romeo, 1882, Vicenza, Musero Civico. La celebre tragedia di Shakespeare, Romeo e Giulietta, mette in scena la passione più celebrata, l'amore, e lo fa nel modo più estremo, congiungendo amore e morte.

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La volontà di potenza del punto di vista psicologico. Concezione unUada della psicologia.

Siamo abituati a ritenere la configurazione di un'immensa moltitudine di forme compatibile con una loro derivazione dall'unità. Che la volontà di potenza è la forma affettiva primitiva, che tutti gli altri affetti sono soltanto sue configurazioni. Che si chiariscono molte cose se, al posto della , alla quale ogni vivente aspirerebbe, si mette la potenza: - il piacere è solo un sintomo del sentimepto, della potenza conseguita, la coscienza di una differenza. Esso non aspira al piacere, ma il piacere subentra quando esso consegue ciò a cui aspira: il piacere accompagna, il piacere non muove ... Che ogni forza motrice è volontà di potenza, che al di fuori di essa non c'è altra forza fisica, dinamica o psichi ca ... [... ] La proposizione di Spinoza dell'autoconservazione dovrebbe propriamente arrestare la modificazione; ma la proposizione è falsa, è vero il contrario. Proprio in ogni essere vivente si può mostrare nel modo più chiaro che esso fa di tutto per non conservarsi, per divenire di più ... 1> Cit., pp. 90-91

Molto significativo, in questo brano, è il riferimento a Spinoza. Il filo- Nietzsche contro sofo olandese sosteneva che il primo movente dell'azione umana è l'au- Spinoza toconservazione. Se fosse vero questo, ritiene Nietzsche, la vita, come incessante modificazione, si fermerebbe, ma la vita non si ferma, perché la volontà ha come fine suo proprio l'espansione senza limiti. Beninteso questo vale soprattutto per chi è in grado di dire sì alla vita. I deboli, come abbiamo già visto, dalla vita devono difendersi, il che vuol dire difendersi dalle passioni. Quello che, in Così parlò Zarathustra, Nietzsche definirà oltreuomo, sarà quell'uomo capace di dire sì alla vita come flusso inarrestabile di passioni, come affermazione completa della volontà di potenza.

3

Fromm: la passione della "solidarietà" Molti intellettuali del Novecento - scrittori, artisti, filosofi - hanno descritto la civiltà industriale un mondo "senza cuore", nel quale trova posto una sola passione, l'amore di sé, dove tutto si misura sulla base di un solo parametro, il successo eco- L'egoismo nomico. Un mondo inautentico, dominato dalla necessità di apparire in nel mondo moderno un certo modo, indotta dalle mode, dalla pubblicità ecc. Fra coloro i quali hanno formulato questa triste diagnosi, troviamo lo psicanalista, sociologo e filosofo tedesco Erich Fromm (1900-1980), autore di molti saggi, alcuni dei quali hanno avuto successo anche al di fuori del mondo accademico. Forse il più noto è Avere o Essere? (1976); da esso prenderemo spunto per evidenziare alcune tesi del saggista tedesco, che costituiscono un contributo indiretto al dibattito sul ruolo delle passioni nell'esistenza umana. Parliamo

3- FROMM: LA PASSIONE DELLA "SOLIDARIETÀ"

di contributo indiretto poiché l'autore non tratta esplicitamente il tema delle passioni, ma le posizioni che sostiene fanno capire quali passioni rifiuta e quali, invece, approva. Il titolo del saggio delinea chiaramente l'argomento trattato: la grande alternativa culturale e morale del nostro tempo è riassunta in due opposti modelli di vita. Da un lato l'avere, ossia una vita basata sul possesso, sull'agire in vista dell'acquisizione di oggetti - auto, case, gioielli ecc. -, dall'altro l'essere, ossia una vita basata non su ciò che si ha ma su ciò che si è, una vita il cui significato non consista nella quantità di beni materiali di cui si dispone. Può essere utile, por comprendere la posizione di Fromm, partire dal modello di womo nuovm), come lui esplicitamente lo definisce, che darebbe origine ad una

J.G. de Sepulveda, Democrates secundus de iustis belli causis, in: G. Gliozzi, La scoperta dei selvaggi. Antropologia e colonialismo da Colombo a Diderot, Milano, Principato 1971, pp. 30-34

Nonostante le loro istituzioni politiche, lo sviluppo urbano, gli estesi scambi commerciali, i nativi del Messico sono considerati da Sepulveda non pienamente umani, in base a una duplice argomentazione: perché per natura sono paragonabili alle bestie, in quanto dotati di istinto animale più che di ragione; e perché la loro morale è bestiale, nel senso di perversamente distante dalla legge divina, com'è dimostrato dai culti satanici e dalla crudele usanza di sacrificare vittime umane. L'argomento dell'istintualità animale serve a Sepulveda per liquidare la grande civiltà azteca, respingendo come ingannevole l'apparente somiglianza con la nostra; a ispirare gli indiani sono infatti non l'ingegno e l'arte, bensì la necessità naturale di so- una giustificazione pravvivere congiunta a un'abilità costruttiva paragonabile a quella degli della conquista insetti. Il riferimento alla bestialità morale ha invece lo scopo di giustifi- spagnola care la conquista spagnola: poiché viziosi e «servi per natura)), gli indiani devono sottomettersi a chi è migliore di loro; l'uso della forza è necessario per piegare la resistenza di questi popoli senza Dio, convertirli e ammaestrarli. Con il linguaggio e i concetti del suo tempo, l'erudito spagnolo esprime con compiutezza l'approccio etnocentrico, che traduce automaticamente in diseguaglianza la diversità dell'altro. Molti scienziati positivisti hanno compiuto un'operazione analoga. Affidandosi non più all'autorità di Aristotele e delle sacre scritture, ma all'oggettività delle misurazioni anatomiche, questi scienziati hanno classificato le razze secondo una scala gerarchica al cui vertice sta l'uomo bianco, superiore per tratti somatici, intelletto, moralità, e nei gradini discendenti i gruppi umani che via via se ne discostano; ultimo è il "negro". Questo razzismo "scientifico" ha svolto un ruolo cruciale nel periodo compreso fra la fine dell'Ottocento e la Seconda guerra mondiale, offrendo un potente supporto ideologico all'imperialismo europeo e almoderno pregiudizio antisemita, sfociato nel genocidio nazista. Attualmente è quasi scomparso, a causa della comprovata infondatezza delle sue basi teoriche, sebbene ne circoli ancora una versione più attuale, che ricorre alla genetica per affermare che i diversi gruppi etnici ereditano biologicamente differenti capacità cognitive. Ma l'atteggiamento "alla Sepulveda" non è scomparso: rivive tutte le volte che si reagisce alla diversità culturale con rifiuto e disprezzo, nella convinzione che il proprio sistema di vita sia in assoluto il migliore.

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SEZIONE TEMI L'OCCIDENTE Efili AL'I'RI

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L'altro identico: popoli "naturalmente" cristiani La vicenda della penetrazione europea nel Nuovo Mondo consente di mettere a fuoco un secondo fondamentale approccio alla figura dell'altro, l'assimilazionismo. Il criterio di giudizio è sempre la propria cultura; si tratta perciò di una variante interna alla prospettiva etnocentrica, che consiste nel pensare l'altro come identico a noi, o capace di diventarlo, e nel trascurare, in quanto irrilevante e superabile, la sua differenza. Oppure nel non percepirla affatto: nella sua forma più ingenua, infatti, questo approccio dispone a vedere nella cultura altrui le stesse regole e istituzioni della propria, riportando l'eterogeneità dei costumi a una dimensione nota. Così nei primi resoconti dalle terre americane non è insolito trovare descritte le società tribali come una sorta di Europa in miniatura, con re e dignitari e forme di culto simili alle cristiane: un'illusione ottica, opposta e speculare a quella che, in altri casi, impediva il riconoscimento di pur reali somiglianze (cfr. Sepulveda). Con maggiore consapevolezza, alcuni viaggiatori e missionari non trascurarono di annotare la diversità dei costumi, attribuendo però agli indiani una pari dignità, in quanto creature fatte, come noi, "a immagine e somiglianza di Dio". È una Gli indiani posizione nobilmente incarnata dal frate domenicano Bartolomè de Las sono creature Casas (1474-1566), vescovo del Chiapas. Testimone oculare del genocidio di Dio come noi compiuto dai conquistadores, denunciò apertamente le stragi e la politica di rapina dei suoi correligionari e rivendicò con passione la natura umana degli indiani, di cui si fece attivo difensore. Proprio per questonel 1550 affrontò il suo contemporaneo Sepulveda in un dibattito pubblico, svoltosi a Valladolid di fronte a una giuria di teologi e esperti di legge, la quale avrebbe dovuto decidere nel merito della controversia sull'uguaglianza o ineguaglianza fra europei e nativi americani. La tesi sostenuta da Las Casas in questo incontro e in tutti i suoi numerosi scritti si può riassumere in un sillogismo: tutti gli esseri umani sono creati da Dio liberi e uguali; gli indiani sono umani; ne consegue che sono creati da Dio liberi e uguali. Nessuna giustificazione morale e religiosa hanno dunque la guerra di conquista, le conversioni forzate, la schiavitù. Sin dall'origine tutte le creature nascono libere. In un'identica natura, infatti, Dio non ha costituito uno schiavo dell'altro, ma ha concesso a tutti un identico libero arbitrio. Il motivo di ciò è che non si può subordinare una creatura razionale ad un'altra, come ad esempio un uomo ad un altro uomo. 1>

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B. de Las Casas, Principia Quaedam ex quibus precedendum est, in: F. Cantù, Bartolomè de Las Casas. La coscienza critica della conquista, «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2, 1992

Ma il discorso di Las Casas non si limita all'affermazione di uguaglianza, assumendo i toni di una vera e propri apologia delle virtù indiane.

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Tutta questa gente di ogni genere fu creata da Dio senza malvagità e senza doppiezze, obbedientissima ai suoi signori naturali e ai cristiani, ai quali prestano servizio; la gente più umile, più paziente, più pacifica e quieta che ci sia al mondo, senza alterchi né tumulti, senza risse, la-

SEZIONE TEMI

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1- Il NUOVO MONDO ElE IMMAGINI DEll'AlTRO

mentazioni, rancori, odi, progetti di vendetta. [... ] Sono anche gente poverissima, e che non possiede, né vuole possedere beni temporali; e per questo non è superba, né ambiziosa, né cupida. Il loro cibo è tale che quello dei santi padri nel deserto non pare essere stato più ridotto, né più spiacevole e povero. [... ] La loro intelligenza è limpida, sgombera e viva: sono molto capaci, e docili ad ogni buona dottrina, adattissimi a ricevere la nostra santa fede cattolica, e ad assumere costumi virtuosi; anzi sono la gente più adatta a ciò che Dio creò nel mondo. E una volta che cominciano ad avere notizie delle cose della fede, diventano tanto impazienti di conoscerle, e praticare i sacramenti della Chiesa e il culto divino, che - dico la verità - per sopportarli i religiosi debbono essere dotati molto abbondantemente da Dio del dono della pazienza. Infine, da molti anni a questa parte, e molte volte, ho sentito dire da molti laici spagnoli, che non potevano negare la bontà che scorgevano in costoro: ((Certamente questa gente sarebbe la più fortunata del mondo, se soltanto avesse conoscenza di DiO)). Tra queste pecore mansuete, dotate dal loro pastore e creatore delle qualità suddette, entrarono improvvisamente gli spagnoli, e le affrontarono come lupi, tigri o leoni crudelissimi da molti giorniaffamati. E altro non han fatto, da quarant'anni fino ad oggi, ed oggi ancora fanno, se non disprezzarle, ucciderle, angustiarle, affliggerle, tormentarle e distruggerle con forme di crudeltà strane, nuove, varie, mai viste prima d'ora, né lette, né udite. 1>

B. de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, in: La scoperta dei selvaggi, cit., pp. 73 e sgg.

Alle genti d'America vengono attribuite virtù tipicamente cristiane: la mitezza, l'umiltà, il disinteresse per i beni materiali, la buona disposizione ad accogliere la parola di Dio. Così Las Casas ritorce l'argomento della barbarie sui suoi stessi sostenitori: non gli indiani, di indole pacifica e quieta, bensì i loro oppressori spagnoli si comportano bestialmente, da autentici seguaci di Satana. Assumendo come metro di misura del valore umano l'adesione al messaggio evangelico, si deve riconoscere la superiorità rispetto ai conquistadores di popoli che, senza aver ricevuto la Rivelazione, si comportano spontaneamente come membri della società cristiana e, un volta convertiti, non hanno eguali nell'ardore della fede. Certo, accanto a tanta mitezza, è innegabile l'esistenza di (Wsanze non civili e sregolate)), come il cannibalismo e i sacrifici umani; ma secondo Las Casas si tratta di una diversità temporanea, destinata a dileguarsi con il progredire della civilizzazione: del resto, mai stessi fummo molto peggiori al tempo dei nostri antenati)). Simili a noi; a volte più vicini di noi all'ideale evangelico; diversi sì, ma solo per poco: nel giudicare positivamente gli indiani, Las Casas li riporta di continuo ai validità universale valori dell'Europa cristiana, di cui non mette mai in discussione la validità dei valori europei universale. In questo senso, si fa interprete di quella visione etnocentrica che, animata dalle migliori intenzioni, sa accogliere l'altro solo dopo averlo spogliato della sua alterità, senza arrivare mai a conoscerlo davvero. Questo modello assimilazionistico ha una lunga storia, che arriva fino i giorni nostri; la richiesta rivolta ai migranti di abbandonare la loro cultura d'origine per accettare la nostra ne è la versione più attuale.

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1.3

L'altro idealizzato: il buon selvaggio All'altro si può dare valore non perché identico, ma proprio perché differen- una critica culturale te da noi, scorgendo nel suo differire le qualità di cui siamo privi o che abbia- alla società europea mo smarrito per colpa del progresso. È la strada della idealizzazione, che porta l'Europa moderna a scoprire, nello stesso arco di tempo, il saggio cinese in Oriente e il buon selvaggio nel continente americano. Miti entrambi, poiché non poggiano su una reale conoscenza dell'altro, che si riduce a essere una sorta di schermo bianco su cui proiettare le proprie inquietudini e aspirazioni. La fascinazione esercitata da popoli remoti, confinati nel favoloso Oriente o nelle isole lussureggianti dei Caraibi, si trasforma tuttavia, nella riflessione di alcuni pensatori, in un importante strumento di critica culturale nei confronti della società europea, suggerendo l'esistenza di altri e migliori modelli di convivenza umana. Per quanto riguarda l'America, gli elementi del mito si ritrovano fin dalle prime cronache di viaggio, spesso contraddittoriamente compresenti con il mito inverso del cattivo selvaggio o con il disconoscimento della diversità. In certi suoi scritti, Cristoforo Colombo si dice convinto di aver raggiunto il Paradiso terrestre, popolato di esseri belli e gentili, che vivono in nudità e innocenza; altri riformulano questa immagine cristiana in termini classici, rievocando l'età dell'oro. Nel XVII e XVIII secolo, i riferimenti alla tradizione biblica e greco-romana vengono man mano abbandonati; e la parola passa a quei filosofi che utilizzano la figura del selvaggio nel dibattito sullo stato di natura, sulla religione, sul progresso civile, in funzione polemica nei confronti delle istituzioni e dei valori dominanti in Europa. Gli stessi materiali di base ricorrono comunque in tutte le descrizioni idealizzanti

l Saggi di Montaigne Nato e vissuto in Francia nell'epoca turbolenta delle guerre di religione, Miche/ de Montaigne alterna l'attiva partecipazione alla vita politica a lunghi periodi di ritiro nel suo castello, dove studia, raccoglie libri per la sua biblioteca e soprattutto compone i Saggi, l'opera della sua vita più volte ampliata e rivista. Attraverso lo stile frammentario e non sistematico, il costante riferimento alla soggettività dell'autore, l'ampio assortimento di temi, i Saggi si propongono di riflettere sulla natura umana nella varietà delle sue manifestazioni. Con il titolo di "saggi" ("tentativi") l'autore esprime il fatto che qui l'essenziale e il secondario, ciò che ha un significato universale e la semplice curiosità, sono intrecciati in forma associativa e aforistica. [... ] Questi "saggi" sono esperimenti nel campo dei costumi e della morale, da un lato, e tentativi di autoanalisi, dall'altro. La franchezza e l'apertura senza riserve di questi esperimenti conferiscono all'opera un'attrattiva che dura ancor oggi e che la rende simile alle Confessioni di Agostino o di Rousseau. La liberazione della forma dalla costrizione di un sistema corrisponde allo scetticismo di Montaigne, culminante nel celebre interrogativo: Oue sçay-je? Nonostante alcuni accessi di malinconia, questo scetticismo non oscilla tra il dubbio e la disperazione. Montaigne, che trovò ispirazione negli stoici e negli epicurei, si muove invece nell'elemento della sospensione e dell'ironia, in un sereno distacco. [... ]Il contenuto principale dell'opera è un moralismo che abbraccia tutta la realtà e che dalle questioni di come ci si debba comportare con le donne, con gli amici e con i libri, attraverso il tema della vita conforme a natura, giunge al "filosofare" inteso come "imparare a morire". Il moralismo di Montaigne non ritiene di avere missioni da assolvere ed è privo di ogni pretesa pedagogica imperativa. Esso, alla stregua di una morale empirica, prende gli uomini come sono, non come dovrebbero essere, e proprio per ciò ha sortito un effetto morale. 1>

H. Ottmann, Montaign(3, in: F. Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori 2000, p. 751

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1- Il NUOVO MONOO E LE IMMAGINI

DEL~ ALTRO

degli indiani: la semplicità originaria, il pacifismo, la comunanza dei beni, l'innocenza sessuale, in una parola la naturalità. La contrapposizione fra natura e cultura, utilizzata altrove per svalutare il selvaggio, viene quindi radicalmente risignificata, perché il polo positivo diventa la natura, mentre il negativo coincide con la cultura, intesa come allontanamento da uno stato di perfezione originaria. Ne consegue che il selvaggio è superiore proprio perché non è civile; ma il prezzo di questo suo primato è l'impossibilità di definirlo se non attraverso una serie di negazioni: non ha attività economiche, non ha proprietà privata, non ha istituzioni politiche, non ha bisogni artificiali, e così via. In tale sua forma, il mito dell'innocenza primitiva trova una sintesi magistrale nelle parole di Michel de Montaigne (1533-1592). Benché sul tema dei costumi umani il filosofo francese abbia una posizione nell'insieme più complessa e originale, come si vedrà nel paragrafo seguente, anche lui subisce il richiamo di questa immagine; lo dimostrano alcune pagine dei suoi Saggi, pubblicati nel 1588. Essi sono selvaggi, allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotti da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dal comune ordine, che dovremmo chiamare piuttosto selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, le quali invece noi abbiamo imbastardite in questi, e le abbiamo soltanto adattate al piacere del nostro gusto corrotto. [... ] Quei popoli dunque mi sembrano così barbari per essere stati molto poco formati dallo spirito umano, ed essere ancora vicinissimi alla loro semplicità originaria. Sono ancora comandati dalle leggi naturali, assai poco imbastardite dalle nostre; ma a proposito di tale purezza mi dispiace qualche volta che non sia stata conosciuta nel tempo in cui c'erano uomini che ne avrebbero saputo giudicare meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo4 e Platone non ne abbiano avuta conoscenza; perché mi sembra che ciò che noi vediamo per esperienza in quei popoli sorpassi non solo tutte le descrizioni di cui la poesia ha abbellito l'età dell'oro, [...] ma anche la concezione e la mira stessa della filosofia. Essi non hanno potuto immaginare una naturalezza così pura e semplice, come noi la vediamo per esperienza; né hanno potuto credere che la nostra società si potesse mantenere con tanto poco artificio e tanta poca saldatura umana. C'è un popolo, direi a Platone, in cui non esiste alcuna specie di traffico; nessuna conoscenza di lettere, nessuna scienza di numeri, nessun nome di magistratura, né di gerarchia politica; nessun uso di servitù, di ricchezza, di povertà; nessun contratto; niente successioni; niente divisioni; niente occupazioni se non dilettevoli; nessun rispetto della parentela oltre a quella comune; niente vestiti, niente agricoltura; nessun metallo; nessun uso di vino o di frumento. Le stesse parole che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, perdono, non si sono mai udite. ~M.

de Montaigne, Dei cannibali, in: Saggi, Milano, Mondadori 1986, pp. 231-232

4. Mitico legislatore, che avrebbe dato aSparta la sua severa costituzione.

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Una radicale revisione del mito è operata invece da Jean-Jacques Rous- Distinzione tra uomo seau che, nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza di natura e selvaggio tra gli uomini del1755, distingue con nettezza fra uomo naturale e uomo selvaggio, attribuendo a quest'ultimo un'organizzazione sociale in embrione e quindi una cultura

el s ftlld!ll;tolli~11;m1M#i111. Per Rousseau, del resto, lo stato di natura è, più che una realtà effettiva, un modello teorico, cui si arriva non tanto per osservazione diretta quanto per ragionamento, sottraendo dall'idea di natura umana tutto ciò che dipende dallo sviluppo storico. In q uesto senso, si tratta «Uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, ma di cui pure è necessario avere nozioni esatte per ben capire il nostro stato presente>> (Prefazione al Discorso). È la condizione moderna di decadenza e di infelicità ad essere illuminata, nella sua genesi e nella sua struttura, dall'ipotesi teorica di uno stato di vita in armonia con la natura, e per ciò stesso ((i[ più adatto alla pace

e il più conveniente al genere umano». Questo interessa a Rousseau: spingere fino alle più rigorose conseguenze la criticità antieuropea implicita nel mito dell'uomo di natura, per scandagliare le radici malate della nostra società, denunciandone l'illusorio progresso e la reale decadenza, che si origina dalla disuguaglianza economica e politica O 6f&'itJi(•J•]IIt1lDlitillitl'iieiì@IUI. Il rapporto natura/civiltà viene costruito attraverso una serie di irriducibili opposizioni. istinto

ragione

asocialità, isolamento, autosufficienza e indipendenza

sociabilità, vita in comune, dipendenza dagli altri e conformismo

uguaglianza

disuguaglianza

ozio

lavoro

bisogni necessari

bisogni superflui

bontà

malvagità

felicità

infelicità

Importante è però sottolineare che da questo stato-limite di dispersione naturale - in cui si vagava nelle selve ((Senza occupazione, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerra e senza legami» - non solo l'europeo, ma lo stesso selvaggio americano è ormai distante. Vive in società, ha delle consuetudini, un linguaggio, una famiglia, degli strumenti con cui modificare il mondo circostante; insomma, il selvaggio ha una cultura. La sua è una condizione di invidiabile equilibrio fra i due estremi dell'isolamento naturale e della socialità artificiale e oppressiva, la quale ha inizio solo con la divisione del lavoro e la nascita della proprietà privata. I popoli delle Americhe ricordano così ai civili quel che erano un tempo e li mettono di fronte alla miseria attuale.

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Questo periodo dello sviluppo delle facoltà umane, giusto mezzo tra l'indolenza dello stato primitivo e la frenetica attività del nostro amor proprio, dovette essere l'epoca più felice e duratura. Più ci si pensa e più ci si convince che questo stato era il meno espo-

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1 -IL NUOVO MONDO ELE IMMAGINI DELL'ALTRO

sto alle rivoluzioni, il migliore per l'uomo, e che egli dovette uscirne solo per qualche caso funesto, che, per l'utilità comune, non sarebbe mai dovuto accadere. L'esempio dei selvaggi, trovati quasi tutti a questo punto, sembra confermare che il genere umano era fatto per restarci sempre, che questo stato era la vera giovinezza del mondo, e che tutti gli ulteriori progressi sono stati in apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell'individuo, e in effetti verso la decrepitezza della specie. Finché gli uomini si accontentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucire i loro abiti di pelli con spine e lische, ad adornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo di diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre affilate qualche canotto da pescatore o qualche grossolano strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono solo a lavori che potevano essere fatti da una sola persona e ad arti che non avevano bisogno della collaborazione di parecchie mani, vissero liberi, sani, buoni e felici quanto glielo permetteva la loro natura e continuarono a godere tra loro la dolcezza di un rapporto indipendentemente: ma dal momento in cui un uomo ebbe bisogno di un altro uomo, da quando ci si rese conto che era utile ad uno solo avere provviste per due, l'eguaglianza scomparve, s'introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e le vaste foreste si trasformarono in ridenti campagne che si dovettero bagnare col sudore degli uomini e nelle quali ben presto si videro la schiavitù e la miseria germogliare e crescere insieme alle messi. 1>

J.-J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, Roma, Editori Riuniti 1968, p. 140

La diversità del selvaggio resiste a ogni tentativo di assimilazione, poiché si fonda su una visione del mondo irriducibile ai nostri parametri. L'indifferenza da autentici filosofi per il lusso, il potere, il giudizio altrui; l'adagiarsi nei tempi distesi del- Felicità dello stato l'ozio, nell'incanto di piaceri semplici, appagati di ciò che si è: tutto con- selvaggio trasta con la tensione continua cui è sottoposto l'individuo civile, stretto nelle catene dei bisogni artificiali e del frenetico attivismo, e fatto servo dei suoi simili. Non che il selvaggio sia buono, dato che conosce la rivalità e la guerra, ignote alla solitaria creatura dei primordi: con il sorgere delle società, (([e vendette divennero terribili e gli uomini sanguinari e crudeli)). Tutt'altro che pacifico, il selvaggio è però felice: ed è sulla sua felicità che Rousseau ricostruisce il mito, dopo averne eliminato gli ingredienti tradizionali della naturalità e della mansuetudine.

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L'uomo selvaggio e l'uomo civilizzato differiscono a tal punto nel profondo del cucire e delle inclinazioni che ciò che fa la felicità suprema dell'uno ridurrebbe l'altro alla disperazione. Il primo aspira solo alla tranquillità e alla libertà; desidera solo vivere e rimanere ozioso e la stes5. Distacco dalle passioni.

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sa atarassia 5 dello stoico non è paragonabile alla sua profonda indifferenza per ogni altro oggetto. Al contrario il cittadino, sempre attivo, suda, si agita, si tormenta continuamente per cercare occupazioni ancora più faticose; lavora fino alla morte, corre anzi verso di essa per mettersi in condizione di vivere o rinuncia alla vita per raggiungere l'immortalità. Fa la corte ai potenti che odia e ai ricchi che disprezza; non risparmia niente per ottenere l'onore di servirli; si vanta orgogliosamente della sua pochezza e della loro protezione e, fiero della sua schiavitù, parla con disprezzo di coloro che non hanno l'onore di condividerla. Che spettacolo per un uomo dei Caraibi il lavoro penoso e invidiato di un ministro europeo! Quante morti crudeli non preferirebbe questo indolente selvaggio all'orrore di una simile vita, che spesso nemmeno è addolcita dal piacere di fare del bene? Ma per vedere lo scopo di tante preoccupazioni bisognerebbe che queste parole, potenza e reputazione, avessero un senso per il suo spirito; che egli apprendesse che esiste una specie di uomini che danno importanza agli sguardi del resto del mondo, che sanno essere felici e soddisfatti di sé in base alla testimonianza altrui piuttosto che alla propria. È questa, in effetti, la vera causa di tutte queste differenze: il selvaggio vive in se stesso; l'uomo socievole, sempre fuori di se stesso. ~

Cit., pp. 162, 210-211

Strappando i selvaggi alla natura e immettendoli nella storia sociale dell'umanità, Rousseau si avvicina alla comprensione dei loro modi di vita. Non fuoriesce però dal mito, idealizzando le società selvagge allo scopo di ripensare criticamente la sua propria società. L'Europa rimane l'esclusivo termine di riferimento, mentre i selvaggi sono relegati nello sfondo, come esempi di uno stato che non avremmo dovuto abbandonare. Al felice selvaggio di Rousseau si richiama gran parte dell'esotismo dei due secoli successivi: un desiderio di altrove, di mondi vergini e lontani, che percorre la cultura europea in crisi d'identità, trovando alimento nella nuova fase di Desiderio di evasione esplorazione e conquista coloniale dei continenti extraeuropei - l'Africa, dalla civiltà occidentale in particolare - e nella crescente mole di documentazione sui popoli selvaggi e orientali. Spesso, questo desiderio di altrove non è molto più di una moda, che si rivela nel gusto letterario per gli intrecci esotici, nel collezionismo di arte "primitiva" e orientale, nel sogno decadente di rifugiarsi in oasi incontaminate: l'altro diventa in questo caso oggetto di godimento estetico, secondo una modalità di appropriazione che ricalca quella coloniale. Ma c'è pure chi esprime attraverso l'esotismo il rifiuto radicale della propria civiltà, scegliendo di evadere dai suoi confini, per farsi selvaggio in mezzo ai selvaggi; all'origine, c'è la sensazione che sia impossibile ormai modificare il processo storico che, dopo il 1848, ha portato al trionfo della borghesia e dei suoi valori. Il poeta Rimbaud che abbandona tutto e si fa avventuriero in Africa, il pittore Gauguin che passa la sua vita fra i polinesiani in cerca di uno stato d'innocenza perduto, sperimentano fino agli esiti estremi questo distacco dall'Occidente. Dopo di loro, una lunga

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1 Il NUOVO MONDO ELE IMMAGINI DELL'ALTRO N

serie di intellettuali e artisti viaggia in terre lontane, per rigenerarsi a contatto con altre forme di esistenza. Nelle avanguardie del Novecento si afferma addirittura l'idea di "andare a scuola" dagli africani o dai popoli dell'Oceania, di studiare i loro manufatti (sculture, maschere, decorazioni), per mettere in discussione i canoni dell'arte europea e inventare un nuovo linguaggio, fondato sulla contaminazione con i moduli espressivi dell'arte selvaggia. Questo esotismo, che si intreccia con le più vive correnti culturali del suo tempo, riconosce dunque all'altro una superiorità rispetto a noi. Ma arriva per questo a conoscerlo meglio? No, secondo Tzvetan Todorov: c'è infatti nell'esperienza esotica un paradosso costitutivo, per cui l'altro è idealizzato proprio in quanto sconosciuto. I migliori candidati al ruolo di ideale esotico sono i popoli e le culture più lontani e sconosciuti. Ora, l'ignoranza degli altri, il rifiuto di vederli così come sono, possono difficilmente essere equiparati ad una valorizzazione. È un complimento ambiguo quello di lodare l'altro solo perché è differente da me. La conoscenza è incompatibile con l'esotismo, ma l'ignoranza a sua volta è inconciliabile con l'elogio degli altri; ebbene questo è precisamente ciò che l'esotismo vorrebbe essere, un elogio dell'ignoranza. Questo è il suo paradosso costitutivo. ~T.

1.4

Todorov, Noi e gli altri, Torino, Einaudi 1991, p. 45

l'altro differente: tanti popoli, tante diverse usanze L'intuizione che l'altro sia un soggetto uguale e diverso rispetto a noi si af- Montaigne e il principio faccia lentamente e a fatica alla coscienza dell'Europa. Nel Cinquecento, della relatività ad averne piena consapevolezza è Montaigne, il cui contributo va ben ol- culturale tre l'idealizzazione dello stato di natura di cui si è dato conto nel § precedente. L'estremo variare delle usanze presso i diversi popoli del mondo spinge il filosofo a formulare il principio della relatività culturale, svelando così il pregiudizio etnocentrico che fa da ostacolo alla comprensione dell'altro. In altre parole, Montaigne sostiene che la differenza altrui non è segno d'inferiorità, ma espressione di un'altra cultura, che non può essere giudicata in base ai criteri e i valori della nostra. L'etnocentrismo è riconosciuto da Montaigne come un fenomeno universale, che dipende dalla precocità con cui si apprendono gli usi del proprio paese; avendoli R.F.

Benedict, Modelli di cultura, Milano, Feltrinelli 1960, pp. 52-56

E, per quanto riguarda il rapporto fra "noi" e "loro", sottolinea: Per l'antropologo i nostri costumi e quelli della Nuova Guinea sono due possibili schemi sociali per risolvere un comune problema, e finché rimane antropologo egli deve evitare di dar maggior peso all'uno che all'altro. Gli interessa il comportamento umano: non così come è stato plasmato da una tradizione (la nostra) ma come è stato plasmato da ogni e qualsiasi tradizione. Gli interessa l'immensa varietà dei costumi nelle diverse culture e lo scopo che si propone è di comprendere il modo in cui queste culture cambiano e si differenziano, le forme diverse in cui si esprimono [...]. L'antropologia fu per definizione impossibile finché le menti furono dominate dalle distinzioni fra noi e i primitivi, noi e i barbari, noi e i pagani. 1> Cit.,

p. 56

Nel pensare la relazione fra culture, l'antropologia si svincola così dalla polarità superiore/inferiore per pervenire alla nozione di differenza (di cui Montaigne, secoli prima, era stato anticipatore). Ma si apre una grande questione: che valore attribuire a questa differenza? Si tratta di uno scarto radicale o c'è, al fondo, una qualche somiglianza? Nel primo caso, quale vera conoscenza si può avere dell'altro? In sintesi, i diversi orientamenti maturati in proposito si possono ricondurre a due modelli epistemologici fondamentali: 1) il relativismo, per cui ogni cultura deve essere compresa dall'interno e valutata secondo i suoi propri criteri, non alla luce di una norma superiore; 2) l'universalismo, cioè la ricerca di costanti universali, quali la natura o la mente umana, che sottostanno alla varietà delle culture. Nessuno dei due è esente da critiche: del primo si sottolinea il rischio di sfociare in una sorta di indifferentismo morale, che giustifica qualunque usanza in nome del rispetto e della pari dignità fra culture; al secondo, si obietta di addomesticare la diversità, riportandola a una misura comune, e di scambiare in certi casi per universali quelli che sono concetti e categorie dell'Occidente. Nei prossimi due paragrafi, vedremo come si configura il rapporto con l'altro e con la sua diversità nella riflessione di due fra i più significativi esponenti dell'antropologia

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contemporanea: Lévi-Strauss, per il quale esistono delle strutture invarianti della mente umana soggiacenti al variare dei costumi; e Clifford Geertz che, più di recente, ha proposto una riformulazione del relativismo nell'ottica del dialogo fra culture.

2.2

Una categoria universale: il pensiero selvaggio Fra le molte opere di Claude Lévi-Strauss (1908-), fondatore dell'antropologia strutturalista, scegliamo di soffermarci su Il pensiero selvaggio, del1962, che ha per tema la mentalità magica dei cosiddetti primitivi, descritta negli studi del tempo come prelogica ed emotiva. Lévi-Strauss contesta questa definizione. Per lui, al contrario, il pen- Logica del pensiero siero dei selvaggi è un pensiero complesso e logico, il quale, sia pure selvaggio con procedimenti diversi, risponde alla stessa esigenza umana, di carattere universale, che è alla base della scienza: mettere ordine nell'universo, facendone oggetto di pensiero. [Nella magia lo] scopo fondamentale non è di ordine pratico: prima, o in luogo di servire a soddisfare bisogni, essa risponde a esigenze intellettuali. Il vero problema non consiste nel sapere se il contatto di un becco di picchio guarisca o no il mal di denti, ma se è possibile, da un certo punto di vista, far "andare d'accordo" il becco di picchio e il dente dell'uomo [... ], per introdurre, attraverso questo accostamento di cose e di esseri, un principio d'ordine nell'universo. [... ] Il pensiero magico non è un principio, uno spunto o un abbozzo, la parte di un tutto ancora in via di realizzazione, ma un sistema ben articolato, indipendente [... ] da quell'altro sistema che la scienza sta costruendo, salvo un rapporto di analogia formale che fa del primo una sorta di espressione metaforica del secondo. Invece di contrapporre magia e scienza, meglio sarebbe metterle a raffronto come due modi di conoscenza, diseguali nei risultati teorici e pratici (perché, quanto a questo, è vero che la scienza ottiene risultati migliori della magia, benché la magia anticipi la scienza nel senso che anch'essa qualche volta coglie nel segno) ma non rispetto al genere d'operazioni mentali che entrambe presuppongono e che differiscono meno in natura che non in funzione dei tipi di fenomeni a cui esse si applicano. 11>

C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio. Alla scoperta della saggezza perduta, Milano, Il Saggiatore 2003, pp.22,26

Lo stesso desiderio di conoscenza anima dunque sia la magia che la unità di fondo scienza. È a causa di un pregiudizio etnocentrico che questa somiglianza della natura profonda è sfuggita allo sguardo occidentale. Infatti, la razionalità del pensiero magico si esprime in forme differenti dalle nostre; per vederla:, è necessario spogliarsi della convinzione che ci sia un solo modo di ragionare intorno alla realtà del mondo.

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Decentrandosi dalla propria cultura si arriva a comprendere come il pensiero selvaggio abbia imboccato un cammino alternativo al nostro, ma di analogo spessore concettuale. E, anzi, per certi versi più complesso e articolato. La scienza occidentale è astratta, quantitativa, disattenta ai dati sensibili; divide il mondo in compartimenti stagno, facendo di ogni segmento l'oggetto di studio di una particolare disciplina: i corpi alla biologia, la materia inerte alla fisica, e così via. Il pensiero selvaggio è invece una scienza del concreto, rispettoso della ricchezza e varietà del reale, e insieme convinto dell'unità di fondo fra tutti gli esseri, animati e inanimati. Il senso della parentela, della continuità fra umani e natura, è evocato dalle parole di un sapiente indiano, che Lévi-Strauss riporta nel suo libro. Noi sappiamo ciò che fanno gli animali, quali siano i bisogni del castoro, dell'orso, del salmone e delle altre creature, perché, una volta, gli uomini si sposavano con loro e quindi hanno ricevuto questo sapere dalle loro spose animali [... ] i bianchi hanno vissuto poco in questo paese e non sanno un gran che degli animali; noi invece siamo qui da migliaia di anni e da molto tempo gli stessi animali ci hanno istruito. I bianchi segnano tutto in un libro per non dimenticare, ma i nostri avi hanno sposato gli animali, hanno imparato tutte le loro usanze e hanno tramandato queste conoscenze di generazione in generazione. 11>

Cit., p. 50

Questo sapere - commenta Lévi-Strauss - ha un solido impianto teorico, ma allo stesso tempo è ((disinteressato e sollecito, affettuoso e tenero>>. Si mostra quindi capace di tenere insieme la razionalità e le emozioni, laddove il nostro si vuole rigorosamente oggettivo, nella convinzione che la soggettività sia di ostacolo alla conoscenza. E così, con sentimento e con wttenzione prolungata, esercizio assiduo di tutti i sensi, ingegnosità», i selvaggi vengono ad accumulare una gran massa di dati conoscitivi, che inseriscono in sofisticati sistemi di classificazione, basati sulle qualità sensibili delle cose: odori, colore, struttura. Il senso della classificazione sta nel connettere e separare i diversi aspetti dell'esperienza sensibile (animali, vegetali, fenomeni naturali) in base a certi nessi e certe relazioni. Mediante questo ((Vasto sistema di corrispondenze», si fa uscire il mondo dall'indifferenziato, dal caotico, inserendolo in un ordine umano. Per fare un esempio: Gli indiani Navaho, che si autodichiarano "grandi classificatori", dividono gli esseri viventi in due categorie, a seconda che siano o no dotati di parola. Gli esseri senza parola comprendono gli animali e le piante. Gli animali sono ripartiti in tre gruppi: "correnti", "volanti" o "rampanti"; ciascun gruppo, a sua volta, viene nuovamente ripartito in "viaggianti su terra" e "viaggianti su acqua" da una parte, e in "viaggianti di giorno" e "viaggianti di notte" dall'altra. [... ] Le piante sono designate in funzione di tre caratteri: il sesso presupposto, le virtù medicinali, e l'aspetto visivo o tattile (spinoso, viscoso ecc.).

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lA "SCIENZA" DEll'AlTRO: l'ANTROPOlOGIA CUlTURAlE NEl PENSIERO CONTEMPORANEO

Una seconda tripartizione in rapporto all'altezza (grande, media, piccola) suddivide ulteriormente ciascuna delle caratteristiche precedenti. [...] Ogni animale o pianta è in correlazione con un elemento naturale, an~ ch'esso variabile secondo i riti, che, come si sa, sono tra i Navaho estremamente complessi. Così nel "rituale della selce tagliata" (Flint-Chant), si notano le seguenti correlazioni: gru-cielo; "uccello rosso"-sole; aquila-montagna; sparviero-roccia; "uccello azzurro"-albero; "uccello mosca"pianta; un coleottero (corn-beetle)-terra; airone-acqua. ~

Cit., pp. 52-53

Mediante l'organizzazione di tutti gli esseri, fenomeni, eventi dentro sistemi classificatori, i Navaho e gli altri selvaggi compiono un lavoro culturale: non si immergono nella natura accettandola nella sua immediatezza, bensì la manipolano, vi imprimono il segno della loro presenza, le attribuiscono dei significati. Il mito dello sposali- 11 pensiero magico zio fra umani e animali, ricordato dal sapiente indiano, simboleggia pro- media tra natura prio questa alleanza fra natura e cultura, con la quale si viene a creare e cultura wna seconda natura su cui l'uomo ha capacità di presm), perché non la subisce passivamente ma la rielabora, In sintesi, gli aspetti salienti del lavoro di mediazione fra natura e cultura compiuto dal pensiero magico sono: 1) l'inserimento in una medesima classe di certe specie animali e vegetali, fenomeni atmosferici, miti e rituali, che stanno fra loro in un rapporto di analogia; ciò è il frutto di un'intensa attività di simbolizzazione, consistente nell'attribuire a ogni elemento una funzione simbolica, cioè l'attitudine ad agire non solo nel suo ordine di realtà ma anche in un altro ordine. Così, per alcune popolazioni del Borneo il grido dell'uccello trogone, simile ai rantoli di un animale sgozzato, ha un positivo influsso sulla caccia, dunque su un'attività umana. La tartaruga compare invece in molti riti degli indiani Osage, poiché la sua coda ha 13 denti, lo stesso numero attribuito ai raggi del sollevante, mentre il suo petto ricorda la volta celeste; perciò questo animale è simbolo e immagine di fenomeni astrali. 2) I:arbitrarietà delle associazioni: nella molteplicità dei caratteri distintivi di ciascuna specie vengono selezionati solo alcuni tratti, variabili da cultura a cultura. Ad esempio, nel Gabon lo scoiattolo è proibito alle donne incinte, per la sua abitudine di rifugiarsi nelle cavità degli alberi: si teme la sua influenza sul feto che, per imitazione, potrebbe rifiutarsi di uscire dalla cavità uterina; gli Hopi, invece, sottolineano l'abilità dell'animale nello sfuggire ai cacciatori scavandosi una buca in terra, e quindi ritengono la sua carne favorevole al parto. 3) La creazione di un sistema di classi, che sono fra loro in un rapporto di distinzione/opposizione. Proprio attraverso questi scarti differenziali si introduce nella natura un principio di diversificazione, dando così un significato, un valore semantico, al mondo. La linguistica insegna infatti che un messaggio è significativo solo se ci sono delle interruzioni e dei contrasti in un flusso che risulterebbe altrimenti indistinto. Così presso certi popoli il colore del lutto, per i parenti del defunto, è il nero, in altri il rosso, in altri ancora il bianco e il nero; ma, quale che sia, la scelta prende

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senso all'interno di una struttura d'opposizione, dove è previsto un altro polo cromatico, ossia il colore usato nelle cerimonie da chi non è consanguineo del morto. Quindi, nessun elemento è significativo in sé ma per il valore di posizione che assume all'interno del sistema generale. Ricapitolando: fra il pensiero selvaggio e il nostro ci sono delle analogie e delle differenze. Comuni sono l'esigenza ordinatrice dell'universo e le operazioni logiche con cui si procede a far ordine; diversi sono il campo d'indagine e l'epistemologia, poiché i selvaggi hanno per oggetto il mondo sensibile, non l'intelligibile, e fondano i loro procedimenti conoscitivi sul principio dell'unitarietà del reale. Eppure, anche dove la distanza sembra massima, Lévi-Strauss scopre dei punti di contatto. Il pensiero selvaggio non è il pensiero dell'altro: è il nostro stesso pensiero, quello che, ai margini della scienza, resiste nell'arte e nella vita quotidiana delle metropoli d'Occidente. Questo "pensiero selvaggio" [... ] non è, per noi, il pensiero dei selvaggi, né quello di un'umanità primitiva e arcaica, bensì il pensiero allo stato selvaggio, distinto dal pensiero educato o coltivato proprio in vista di un rendimento. [...] Esistono ancora zone in cui il pensiero selvaggio si trova, come le specie selvatiche, relativamente protetto: è il caso dell'arte, cui la nostra civiltà accorda lo statuto di parco nazionale con tutti i vantaggi e gli inconvenienti che comporta una formula tanto artificiale; e soprattutto è il caso di tanti settori della vita sociale ancora incolti ove, per indifferenza o per impotenza, e senza che il più delle volte sappiamo il perché, il pensiero selvaggio continua a prosperare. [... ] L'indiano americano che decifra una pista mediante impercettibili indizi, l'australiano che senza esitazione identifica le impronte dei passi lasciate da uno qualsiasi dei componenti del suo gruppo, non si comportano diversamente da come facciamo noi stessi quando guidiamo un'automobile e a colpo d'occhio, da un leggero orientamento delle ruote, da una variazione del regime del motore, o persino dall'intenzione supposta in uno sguardo, decidiamo se è il momento di superare o di scansare una macchina. Per quanto possa sembrare incongruente, questo paragone è ricco di insegnamenti; ciò che infatti acuisce le nostre facoltà, che stimola la nostra percezione, e dà sicurezza ai nostri giudizi, è in parte il fatto che gli strumenti di cui disponiamo e i rischi che corriamo sono incomparabilmente aumentati dalla potenza meccanica del motore, e in parte dal fatto che la tensione derivante dal sentimento di questa forza incorporata, si traduce in una serie di dialoghi con gli altri guidatori le cui intenzioni, simili alla nostra, si trasformano in segni che ci studiamo di decifrare perché appunto sono segni che sollecitano l'intellezione. Ritroviamo dunque, trasposta sul piano della civiltà meccanica, quella reciprocità di prospettive in cui l'uomo e il mondo si fanno vicendevolmente da specchio, la sola, a nostro parere, che possa spiegare le proprietà e le capacità del pensiero selvaggio. ~

Cit. pp. 240-243

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LA "SCIENZA" DELL'ALTRO: L'ANTROPOLOGIA CULTURALE NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

Dunque, non c'è sostanziale differenza fra il pensiero selvaggio e il nostro. Anzi, in certe pagine Lévi-Strauss arriva a sostenere l'attualità del pensiero selvaggio, al quale la scienza nella sua fase più matura tornerebbe ad avvicinarsi. Invece che un relitto del passato il pensiero magico, per la sua attenzione alle qualità sensibili, appare così un'anticipazione del nostro futuro. Non soltanto, per loro natura, queste anticipazioni possono essere talvolta coronate dal successo, ma possono anche essere tali per due versi e cioè in rapporto alla scienza stessa e ai metodi o risultati che la scienza assimilerà solo in una fase progredita del suo sviluppo, se è vero che l'uomo ha cominciato dal più difficile: l'ordinamento allivello dei dati sensibili, che la scienza ha disprezzato a lungo e solo ora comincia a reintegrare nella sua prospettiva. [... ] La fisica e la chimica aspirano già a ridiventare qualitative, cioè a render ragione anche delle qualità secondarie che, una volta spiegate, torneranno ad essere mezzi di spiegazione; e la biologia sta forse segnando il passo in attesa che questo si realizzi, per potere poi essa stessa spiegare la vita. ~

Cit., pp. 24-25, 35

Il valore del pensiero selvaggio non potrebbe venire sostenuto con maggiore nettezza; non nella sua alterità, tuttavia, ma nel suo essere peculiare manifestazione dell'universale architettura logica dello spirito umano. Non a caso, Lévi-Strauss assegna all'antropologia il compito di rintracciare, nell'estrema varietà di situazioni culturali, la presenza di strutture profonde, necessarie e atemporali. Il valore eminente dell'etnologia sta nel suo corrispondere alla prima tappa di un itinerario che ne comporta altre: al di là della diversità empirica delle società umane, l'analisi etnografica vuole raggiungere delle invarianti. [... ] Ciascuna delle decine o delle centinaia di migliaia di società che sono coesistite sulla terra, o che si sono succedute da quando l'uomo vi ha fatto la sua prima apparizione, si è valsa di una certezza morale - simile a quella che potevamo invocare noi stessi - per proclamare che in essa - fosse pure ridotta a una piccola banda nomade o a una capanna sperduta nel cuore della foresta - si condensava tutto il senso e la dignità di cui è suscettibile la vita umana. Ma che sia in tali società o nella nostra, ci vuole una buona dose di egocentrismo e d'ingenuità per credere che l'uomo sia interamente rifugiato in uno solo dei modi storici o geografici del suo essere, quando invece la verità dell'uomo sta nel sistema delle loro differenze e delle loro comuni proprietà. ~

Cit., pp. 270-271

Il richiamo all'unità della specie umana, oltre

P. Ariès, I figli di McDonald's. La globalizzazione dell'hamburger, Bari, Dedalo 2000, pp. 9-10

Ma, per la maggior parte degli antropologi, il mondo attuale non è il regno dell'identico che inghiotte ogni divergenza; al contrario, tende a diventare uno e molteplice, omogeneo e eterogeneo, globale e locale. Il mondo di oggi è contraddistinto da un paradosso sul quale, malgrado occasionali accenni, si riflette ben poco: la globalizzazione crescente comporta un aumento delle nuove differenziazioni, e a interconnessioni sempre più globali fanno da contraltare divisioni sempre più intricate. 1>

C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, Il Mulino 1999, p. 57

Mondializzazione e frammentazione sono due facce della stessa me- 11 mondo è uno daglia, per molti motivi. Innanzitutto, il penetrare delle forze globali nel- e molteplice le diverse società provoca atteggiamenti di rifiuto e di resistenza, a salvaguardia delle culture e delle identità minacciate dall'omologazione. Il mosaico di queste possibili risposte si compone di pezzi disparati, dal mito della purezza etnica, all'arroccamento nostalgico in un passato che non c'è più, fino alla valorizzazione, in chiave di attualità, dei saperi e dei modi di vita locali. Questi fenomeni non stanno tutti sotto lo stesso segno. La riscoperta delle tradizioni può coesistere con l'apertura all'esterno: è il caso, per esempio, dei ragazzi nordafricani che ascoltano musica araba senza rinunciare al rock, degli indios guatemaltechi che nel richiamo alle origini maya trovano la fierezza per proporre alloro paese un futuro di convivenza interetnica, dei giovani che nel sud d'Italia recuperano vecchi borghi disabitati per farne luoghi di memoria e d'incontro. Ma quando il localismo si manifesta nella chiusura etnocentrica, nella paura della diversità, allora àlimenta le guerre, i fondamentalismi e i razzismi.

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L'unificazione mondializzante è sempre più accompagnata dal suo proprio negativo, suscitato per controreazione: la balcanizzazione 8 . Fuori dell'Europa, le nuove nazioni create per ripiego etnico e le nazioni antiche si chiudono (culturalmente, religiosamente, territorialmente) pur aprendosi (economicamente, tecnicamente). Anche qui c'è ambivalenza: le chiusure sono aggressive, portano in sé persecuzioni delle minoranze e nuove guerre; ma salvaguardano anche diversità culturali minacciate dalla diffusione omogeneizzante della civiltà occidentale. [... ] I processi non si limitano a distruggere il mondo antico, risvegliano barbarie più o meno anestetizzate o assopite. Il mondo che è venuto dopo la guerra fredda è diventato un mondo in cui le guerre scaldano. I mammut del passato escono dall'ibernazione, i fanatismi, nazionalismi e etnocentrismi ritrovano la loro temperatura d'accensione. 1>

E. Morin, La mondializzazlone: ultima possibilità o sventura estrema per l'umanità?, «Testimonianze)), 2, 1997, p. 81

Accanto a risposte difensive, il contatto con le forze globali suscita l'in- L'indigenizzazione venzione di forme nuove. Immagini, consuetudini, valori occidentali vengo- della cultura no sottoposti a rielaborazioni locali, filtrati e rivisti nell'ottica della cultura occidentale d'appartenenza, subendo quello che è stato definito dall'antropologo indiano Arijun Appadurai (1949-) un processo di indigenizzazione. Di questo processo attivo e trasformativo si hanno tracce già nel passato: così un gioco tipicamente inglese, il cricket, trapiantato in India durante il colonialismo, ha assunto caratteristiche locali, inserendosi nell'universo simbolico e culturale degli indiani, che ne hanno fatto il loro sport nazionale. Appena le forze innovative provenienti da diverse metropoli sono portate all'interno di nuove società, esse tendono, in un modo o nell'altro, a subire un processo di indigenizzazione. Questo è vero della musica, come degli stili abitativi, dei procedimenti scientifici, come del terrorismo, degli spettacoli, come delle norme costituzionali. In poche parole le singole culture possono riprodursi, o ricostruire la loro specificità. 1> A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi 2001, p. 83

Un ulteriore contributo alla frammentazione lo danno i movimenti migratori, che esportano la molteplicità delle culture locali su uno scenario globale. I migranti tendono a mantenere relazioni a distanza con il paese d'origine e con le comunità di conterranei disseminate nel mondo. Questi contatti, facilitati dalle moderne tecnologie comunicative (telefono, fax, televisione, internet), danno vita a delle comunità virtuali deterritorializzate, ovvero non più legate a un luogo specifico, ma disperse "su spazi vasti e irregolari".

8. Ispirato alla storia recente dei Balcani, il termine indica una situazione di disordine permanente, una sorta di "guerra di tutti contro tutti'; causata da conflitti etnici e/o religiosi, che sfocia nella guerra civile e nella frammentazione statale.

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lA "SCIENZA" DEll'AlTRO: l'ANTROPOlOGIA CUlTURAlE NEl PENSIERO CONTEMPORANEO

Le migrazioni di massa (volontarie o forzose) non sono certo un fatto nuovo nella storia dell'umanità, ma quando si affiancano al rapido fluire delle immagini mass-mediatiche, alle sceneggiature e alle sensazioni, siamo di fronte ad un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività moderne. Quando lavoratori turchi emigrati in Germania guardano film turchi nei loro appartamenti tedeschi, quando coreani a Philadelphia guardano le Olimpiadi di Seoul grazie a collegamenti via satellite dalla Corea, e quando i tassisti pakistani a Chicago ascoltano le cassette di prediche registrate in Pakistan o in Iran, siamo di fronte a immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati. Tutto ciò crea sfere pubbliche diasporiche, fenomeni che mettono in crisi quelle teorie che continuano a basarsi sulla rilevanza dello stato nazionale come fattore chiave dei più rilevanti mutamenti sociali. ~

Cit., p. 17

La realtà odierna appare così un grande collage, un bazar, un assemblaggio Le culture di diversità giustapposte e interne ai nostri stessi confini. Secondo la sugge- non sono isole stiva immagine di Geertz, ((['alterità non si profila sulla riva del mare, ma sull'orlo della pelle>>: è la donna velata che ci cammina accanto, il ristorante cinese dietro l'angolo, il bambino musulmano che nella mensa scolastica rifiuta i cibi proibiti dalla sua religione; ma è anche un'esperienza da cui noi stessi siamo attraversati e trasformatì. Il nostro immaginario è forgiato dal cinema di Hollywood, il buddismo ha un seguito crescente, tatuaggi e piercing riattualizzano, in modo più o meno consapevole, l'arte "primitiva" della decorazione corporea, nei carrelli della spesa si mescolano hamburger e couscous, in caso di malattia, non è raro il ricorso all'agopuntura cinese o a rimedi della medicina orientale ... Le differenze, dunque, si espandono su scala globale, si disseminano, si ramificano, si intrecciano fra loro. Questo è il punto chiave dell'odierna riflessione antropologica: le culture non sono delle isole, separate l'una dall'altra, ma sono frutto di intersezioni e di mescolanza. Non sembra più possibile descrivere oggi i rapporti tra culture in termini di autonomia, pluralità e relatività: la situazione dominante è piuttosto quella della giustapposizione e del sincretismo. È difficile pensare ancora all'umanità come suddivisa in molteplici isole culturali, distinte come le specie naturali, tendenzialmente autosufficienti. [... ] La globalità dei processi economici e politici crea reti di interconnessioni che penetrano fin dentro i contesti locali più periferici. Ciò contribuisce a rendere i confini culturali sempre più confusi e mutevoli; la sistematica ibridazione, l'aggregazione di tratti eterogenei in nuove e instabili configurazioni, è adesso la regola, non più soltanto la patologica distorsione di una presunta originaria purezza delle matrici culturali. ~ F. Dei,

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Il Modemismo e le condizioni della rappresentazione etnografica, i!IA1'TITO

LOCKE: IL POTERE STATALE NON DEVE ESSERE ASSOLUTO

ca conseguenze tragiche e va mantenuta, sia pure entro un sistema di regole, nello stato civile. L'uguaglianza assume, per lui, un valore morale. Locke si impegna esplicitamente nella difesa della storicità della condizione di natura, ritiene che effettivamente gli uomini abbiano vissuto un'età di quel genere, ma ciò che gli sta più a cuore è l'individuazione di un nucleo normativa: la nozione di stato di natura serve a stabilire un dover essere, è una immagine regolativa che serve a dimostrare non come le cose sono effettivamente andate, ma come le cose devono andare. Ovvero: la società desiderabile è quella che garantisce l'uguaglianza in un quadro di legalità. Tutto il ragionamento, però, si fonda su una indispensabile premessa: l'uguaglianza, fin dallo stato di natura, non produce conseguenze negative, indesiderabili. Il vero discrimine fra Locke ed Hobbes si può racchiudere in questi punti: gli esseri umani, uguali e liberi per natura, sono in grado di rispettare le leggi di natura, ossia di comprendere che la mia libertà finisce dove comincia la tua. In Hobbes la natura non detta positivamente ciò che dobbiamo fare, ma definisce una condizione da cui ci dobbiamo allontanare nei modi e nelle forme di cui siamo capaci: non individua un fondamento morale, ma una necessità pratica e prudenziale. Le leggi di natura sono in Hobbes non soltanto regole di prudenza, ma anche regole inefficaci alloro scopo visto che gli individui si rivelano incapaci di rispettar! e. In Locke, viceversa, le leggi di natura non soltanto hanno Antropologie diverse: una valenza normativa, ossia è bene essere uguali e salvaguardare l'ugua- concezioni politiche glianza, ma sono anche osservate dalla generalità degli individui. Il diverso diverse scenario politico matura, in Hobbes e Locke, a partire da una diversa antropologia. Usando delle definizioni un po' rozze ma non lontane dal vero, Hobbes è profondamente pessimista sulla natura umana, l'uomo è un "animale pericoloso" che però ha i mezzi per difendersi dalla sua "cattiva" natura, non per cambiarla. Locke, invece, si potrebbe definire un ottimista moderato: gli esseri umani sono in grado di convivere, a patto che risolvano certi problemi. Gli individui lockeani sono intenzionati al rispetto delle leggi di natura, conoscono in linea generale i diritti e i doveri connessi alla convivenza con i propri simili e sono consapevoli dei limiti che la condizione sociale impone alla libertà e ai diritti di ciascuno. Nonostante questa generale disposizione, nella condizione di natura sorgono conflitti che conducono a lesioni del diritto e della proprietà e che sovente sfociano nel ricorso alla violenza, rendendo così necessario il passaggio allo stato civile:

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Se l'uomo nello stato di natura è così libero come s'è detto, se egli è signore assoluto della propria persona e dei propri possessi, eguale al maggiore e soggetto a nessuno, perché vuol disfarsi della propria libertà? Perché vuoi rinunciare a questo impero e assoggettarsi al dominio e al controllo di un altro potere? Al che è ovvio rispondere che sebbene allo stato di natura egli abbia tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e continuamente esposto alla violazione da parte di altri, perché, essendo tutti re al pari di lui, ed ognuno eguale a lui, e non essendo, i più, stretti osservanti dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà ch'egli ha è in questa condizione molto incerto e malsicuro. Il che lo rende desideroso di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di timori e di continui peri-

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coli, e non è senza ragione ch'egli cerca e desidera unirsi in società con altri che già sono riuniti, o hanno intenzione di riunirsi, per la mutua cons~rvazione delle lor~ vi,te, libertà e averi, cose ch'io denomino, con termme genera1e, propneta. 11>

L ·. .J.·.l .

Cit., IV, 18

Ciò che spinge gli individui a dare vita a società politiche (ad istituire lo Stato) è dunque il carattere incerto e malsicuro del godimento dei diritti nella condizione naturale. La causa di ciò viene esplicitamente individuata da Locke in tre insufficienze/lacune della legge naturale. In primo luogo manca una legge stabilita, fissa, conosciuta, la quale per comune consenso sia stata ammessa e riconosciuta come regola del diritto e del torto e misura comune per decidere tutte le controversie; [... ].In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice conosciuto e imparziale, con autorità a decidere tutte le divergenze in base alla legge stabilita. [... ] In terzo luogo, nello stato di natura spesso manca un potere che appoggi e sostenga la sentenza allorché sia giusta, e le dia la dovuta esecuzione. 11>

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Cit., IX, 124-126

Nonostante la descrizione dello stato di natura in termini più pacifici e collaborativi, anche per Locke si tratta di una situazione da cui è necessario allontanarsi. In estrema sintesi la necessità di uscire dalla condizione di natura deriva dal fatto che le leggi di natura sono destinate a restare lettera morta per l'assenza di un potere giudiziario o potere legale. In altri termini: il limite della legge di natura è che essa non prevede un terzo super partes la cui funzione principale sia quella di decidere ragioni e torti nei conflitti, cosa che gli individui direttamente coinvolti non sono in grado di fare. La sfera politica, in Locke, svolge una funzione essenzialmente giuridico-giudiziaria, è un terzo che ha come compito principale la formazione della legge positiva e l'amministrazione della giustizia. Il carattere specifico della conflittualità nello stato di natura - legata all'assenza di un diritto positivo e di un giudice terzo in grado di amministrarlo - stabilisce la fisionomia generale del rapporto stato di natura-stato civile e il carattere liberale dell'au- 11 compito dello Stato torità politica lockeana. La specificità del problema che si pone nella condizione naturale fa sì che innanzitutto lo Stato sorga con un compito specifico e definito: assicurare quelle prestazioni che consentano di evitare gli inconvenienti dello stato di natura. Visto che il problema non è l'esistenza dei diritti o la natura dell'uomo, ma l'assenza di leggi nell'ambito dell'esistenza naturale, lo Stato dovrà risolvere questo problema nel rispetto dei diritti di cui l'individuo gode per natura. Perciò, l'istituzione dello Stato non è chiamata a ribaltare quella condizione, ma semplicemente a dare attuazione al diritto naturale. Se dall'essere discende il dover essere, ovvero se la natura delle cose (in questo caso degli individui) è fondamento dei loro diritti e doveri, se, insomma, la condizio. ne naturale non si configura come il grado zero dell'umanità e della civiltà, allora il potere politico ha solo il compito di rispondere ai limiti della condizione di natura.

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LOCKE: IL POTERE STATALE NON DEVE ESSERE ASSOLUTO

Le obbligazioni della legge di natura non cessano nella società, ma in molti casi diventano più coattive, e per mezzo delle leggi umane hanno connesse con sé penalità note a costringerle ad osservarle. Così la legge di natura sussiste come una norma eterna per tutti gli uomini, sia per i legislatori che per gli altri. ~

Cit., XI, 135

Passaggio fondamentale per la definizione del ruolo dello Stato è indicare lo scopo della sua nascita: il fine maggiore e principale del fatto che gli uomini si unisco" ll Perciò no in società politiche e si sottopongono ad un governo è la conserval

zione della loro proprietà. ~

Cit., IX, 124

Il fine dell'istituzione dello Stato è quel godimento dei diritti che nel- Lo stato garantisce la condizione di natura è precario, e da tale fine discende che lo stato ci- il godimento dei diritti vile non può essere la negazione di quei diritti. I limiti del potere politi- naturali co, il suo essere un potere legale, la divisione dei poteri, il diritto di resistenza, descrivono una concezione del potere politico che è finalizzato a dare attuazione ai diritti e non a costruire una condizione civile che sia la negazione di quella naturale. Essendo la finalità dello Stato il perfezionamento della condizione naturale e non la sua abrogazione, qualsiasi assetto politico che ne smentisca o ne peggiori la fisionomia verrà giudicato illegittimo, così come verrà giudicato illegittimo qualsiasi potere politico che pretenda una cessione di diritti da parte degli individui superiore a quella strettamente ne-

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