Viaggio nella filosofia. Epoche, autori, opere, temi [Vol. 1]

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Viaggio nella filosofia. Epoche, autori, opere, temi [Vol. 1]

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Il volume è frutto della collaborazione fra i tre Autori, ai quali si devono l'ideazione del progetto generale, la scelta dei contenuti e la revisione dei moduli. In particolare, Mauro Imbimbo ha redatto: E3, A3, 01, 03, 04, T4, T6; Leone Parasporo ha redatto E2 (in collaborazione con Marina Di Bartolomeo), A2, 08, Tl, TS; Marco Salucci ha redatto: El, E4, Al, A5, A6, Carmelo Marcianò ha curato l'AREA INTERDISCIPLINARE; Paola Bernardini i moduli A?, T?; Marina Di Bartolomeo il modulo 09; Alessandro Linguiti i moduli A4, 05; Massimo Pulpito 02, 06; Andrea Sani il modulo T2; Letterio Scopelliti il modulo 07. La selezione delle fotografie che corredano il volume è a cura di Andrea Binazzi e Francesco Saverio Tucci.

T3:

© 2008 by G. B. Palumbo & C. Editore S.p.A. coordinamento tecnico, progetto grafico e copertina

Federica Giovannini redazione

Laura Lombardini Impaginazione

Silvia Pacchiarini cartografia

· Federìgo Garnevafi coordinamento e revisione fasi di prestampa

: Daniela Mariani fotolito

La Nuova Lito - Firenze stampa

Tipolitografia STIAV s.r.l.- Firenze

Proprietà artistica e letteraria della Casa Editrice Stampato in Italia ISBN 978-88-8020-663-7 Finito di stampare dalla Tipolitografia STIAV s.r.l., Firenze, nel mese di gennaio 2008 per conto della G. B. Palumbo & C. Editore S.p.A., Palermo.

Le fotocopie per uso personale de/lettore possono essere effettuate nei limiti del15% di ciascun volume dietro pagamento alla SJAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AJDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

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PREMESSA Un'acquisizione ormai consolidata del più recente dibattito sulla didattica della filosofia è che non basta un solo metodo d'insegnamento per sfruttare appieno le potenzialità formative della disciplina. Le impostazioni storiche o problematiche, la presentazione in forma antologica o 'narrativa', l'approccio disciplinare o interdisciplinare: sono tutte opzioni che da sole non sono risolutive delle esigenze e dei problemi che s'incontrano nell'esperienza concreta del lavoro in classe. Caso per caso, nel vivo dell'interazione quotidiana con gli alunni, si tratterà piuttosto di trovare le misure e i 'dosaggi' giusti. E non è detto che siano gli stessi per tutti i docenti, o anche per uno stesso docente in situazioni diverse.

Viaggio nella filosofia ha nella versatilità metodologica la prima caratteristica distintiva: è un manuale che non impone un canone di presentazione dei contenuti, ma si adatta a una pluralità di opzioni, stili, strategie didattiche. L'opera è suddivisa in quattro sezioni indipendenti: Epoche si sviluppa secondo un prospettiva storica, inquadrando autori e correnti filosofiche nell'atmosfera culturale propria di ogni epoca. Autori è dedicata a filosofi di particolare rilievo, appartenenti a periodi e a tradizioni di pensiero diverse. Opere contiene un'ampia antologia di opere filosofiche o di rilevanza filosofica, accompagnate da un commento che raccorda i brani antologizzati e ne chiarisce i concetti portanti. Temi esamina questioni classiche e tuttora dibattute della filosofia, mettendo a confronto, per ognuna di esse, proposte alternative di soluzione teorica. Non c'è un ordine prestabilito da seguire, nei passaggi da una sezione all'altra, ma un ventaglio di combinazioni possibili tra i moduli che le compongono. Ogni docente potrà fare così le scelte più rispondenti ai suoi obiettivi.

Viaggio nella filosofia è un manuale semplice da usare: scritto per gli studenti, con un linguaggio diretto, il più possibile preciso ma non asettico, che non dà nulla per scontato e non abusa di tecnicismi. Un manuale essenziale nell'esposizione dei contenuti, di cui vengono messi in risalto gli aspetti cruciali; provvisto di un corredo didattico (mappe concettuali, schede interdisciplinari, verifiche) che fornisce suggerimenti utili sia per lo studio individuale sia per l'organizzazione del lavoro in classe. Caratteristiche originali dell'opera sono inoltre il richiamo costante, fin dal primo volume, all'odierno dibattito filosofico e culturale e l'apertura interdisciplinare; quest'ultima, oltre che nell'impianto di numerosi moduli, si ritrova nei brevi saggi critici su opere d'arte (quadri, film, opere teatrali e letterarie), presenti in ogni volume. In questa nuova edizione di Viaggio nella filosofia sono stati aggiunti nuovi moduli, così da ampliare ulteriormente l'offerta di opere, temi e, soprattutto, autori. I moduli della sezione epoche includono ora antologie di testi che completano quelle delle altre sezioni. Dove necessario, sono state apportate correzioni e integrazioni ai moduli già esistenti; dove opportuno se ne è ridotta la lunghezza, rendendo così più 'spendibile', in sede didattica, la varietà dei loro contenuti. All'inizio di ogni volume, subito dopo l'indice generale, è stata inserita, in forma di 'mappe ragionate', una breve guida alla programmazione didattica che, prendendo come punti di riferimento i moduli della sezione epoche, delinea il quadro generale dei collegamenti con i moduli delle altre sezioni e con le schede dell'Area interdisciplinare.

VI

QUADRO GENERALE

PROFILO

Raccoglie in una veduta d'insieme le principali espressioni filosofiche dell'epoca in esame.

Inquadra la personalità filosofica dell'autore, ricostruendo le linee fondamentali e l'evoluzione del suo pensiero.

ANTOLOGIA

ANTOLOGIA

Presenta una selezione di testi filosofici e pagine di letteratura critica relativi alle questioni salienti affrontate nel quadro generale.

Riprende analiticamente, con un'ampia e ragionata selezione testuale, i punti principali trattati nel profilo.

PRESENTAZIONE Introduce l'opera, illustrandone la struttura e le finalità.

PREMESSA Introduce il tema del modulo, chiarendone il significato e la portata.

"'

ANTOLOGIA E COMMENTO Presenta un'ampia scelta di brani dall'opera originaie, li commenta e li raccorda mettendone in evidenza i concetti e i motivi portanti.

IL DIBATTITO Presenta e mette a confronto modelli alternativi di soluzione teorica del tema in esame.

VII

Contengono brevi saggi critici dedicati ad opere non filosofiche nell'intento di ritrovarvi temi e motivi caratteristici della ricerca filosofica. La sezione - che, come quella dedicata alle opere, ha un carattere di assoluta novità nel panorama della manualistica- si compone di una serie di monografie originali appositamente elaborate.

SCHEDE Contengono suggerimenti e spunti per approfondimenti interdisciplinari o pluridisciplinari (scienza, letteratura, pedagogia, storia, letteratura ecc).

Una scheda sulla vita e le opere dell'autore trattato conclude i moduli delle sezioni Autori e Opere.

m 3

MAPPE CONCETTUALI

FOTOGRAFIE

All'inizio diogni modulo, una mappa visualizza i nessi logici in base ai quali sono organizzati i contenuti.

Il manuale è corredato di fotografie d'autore che prendono spunto dai titoli dei paragrafi o dalle parole chiave a cui indirettamente, e spesso in modo paradossale, si riferiscono. Le foto sono state scelte per la loro bellezza e

TABELLE

Riassumono e chiariscono alcuni argomenti affrontati nel modulo.

VERIFICHE

Alla fine di ciascun modulo viene proposta una batteria di test di diverse tipologie (risposta chiusa, risposta aperta, breve componimento, elaborazione di mappe ecc.) da usare sia per le verifiche sia come spunti per il dibattito.

anche con l'intento di aggiungere qualche ulteriore riflessione, forse non altrettanto "seria", a quelle proposte dal testo. La struttura grafica ha reso necessario riprodurre un particolare della fotografia, che comunque compare intera, in miniatura, accanto all'indicazione dell'autore e del titolo. Nel primo volume le fotografie non contengono figure umane; nel secondo, ciascuna foto ne contiene una. Nelle fotografie del terzo volume le figure umane sono in genere più di una; si riducono ad una sola quando i soggetti sono bambini.

IX

Al A2 ··

A3 René Descartes A4 Thomas Hobbes AS John locke A6 David Hurne A7 Gottfried leibniz A8 Jean-Jacques Rousseau A9 lmmanuel Kant

El la filosofia nell'età delle rivoluzioni (1789-1848) E2 Positivismo e antipositivismo E3 la filosofia e la crisi della civiltà

europea E4 Analitici e continentali

(

QUADRO DELL'OPERA

Al Georg Wilhelm Friedrich Hegei A2 Soren Kierkegaard Al Friedrich Nietzsche A4 Sigmund Freud AS Ludwig Wittgenstein A6 Benedetto Croce A7 Jean-Paul Sartre

---------

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~~-·--

tradito; Sulla natura Parmenide, Poéma sullanatura Epìtum, Lettera aMenéceo · Epitteto,-Manuale Marco Aurelio, Scritti a:se stésso Diogene Laerzìo, Vite deifilosofi Severino Boezio, La consolazione della filosofia Anselmo d' Aosta Pros!ogìon HermannHesse, Siddharta 1

Galileo Galilei, Lettere copernicane Baruch Spinoza, Etica Blaise Pasca!, Pensieri 04 George Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana Giambattista Vico, Scienza nuova Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica Voltai re, Trattato sulla ~~~"'''""''

:''tbeorÌa:l'ictea di tìlosofìa • .Lascopertapell'ìnfinito, -Parole e;çosé:HiinguaggilJ tt:a natura e ~onvenzion~ ·-·•----. j -• - · -_- ·''- -· ' ' T4 - Pa~déia: la filosofia dell'educazione T5 La protesta di Giobbe.: peréhé il male? T6 P61emos: la filosofia dinanzi alla guerra _ T7 Potestas: il pensieropolitilo medievale

T1 Mente-corpo T2 Scienza e tecnica T3 Determinismo e libero arbitrio T4 Ragione e passioni L'Occidente e gli altri T6 Stato dì natura e stato civile

01 Arthur Schopenhauer,// mondo come

volant,? erappresentazione Karl Marx-Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista John Mili, Sulla libertà Henri Bergsonllntroduzione alla metafisica Martin Heidegger, tempo Alfred Jules Ayer, Linguaggio, verità, logica Hannah Arendt, Vita activa Pau l Feyerabend, Contro il metodo

T2

n

T4 T6

18

della storia? Filosofia e religione !:autonomia dell'arte logica e matematica La seconda rivoluzione scientifica Tempo dell'uomo, tempo del mondo Il nichilismo La filosofia della scienza Etica, metaetica, bioetica Oltre l'uguaglianza? Il pensiero delle donne

111 Eugène Delacroix,

la morte di Sardanapalo 111 Edouard Manet, Il balcone Georges Braque, 111 Natura morta con violino Il Luchino Visconti, Senso

~~~I~N~·~D~I~C~E~G~E~N~·~E~R~A~L~E--~--------~--------1 Guida alla programmazione didattica

XVIII

linea del tempo

XXII

6 Platone e Aristotele: il ritiro dalla politica

D

N6mos e phjisis

fl

La filosofia come modo di vita: l'Accademia e il Liceo

VERIFICHE

1 Dove e quando nasce la filosofia 2 Filosofi e sa pienti 3 Il problema delle fonti 4 Dal mito al/6gos 5 La ricerca del principio

O D D IJ E1 EiJ fJ D

1 l caratteri generali della civiltà ellenistica 2 La liberazione dall'infelicità: Epicuro 3 La conquista della saggezza nello stoicismo 4 Contro il mito della verità: lo scetticismo 5 Le filosofie ellenistiche a Roma 6 Il neoplatonismo di Plotino

52

58 61

67 70 75

79 83

88

19

La Teogonia di Esiodo Talete Anassimandro Anassimene Pitagora e i pitagorici Senofane I: oriente e il nulla Zenone Empedocle mJ Anassagora 00 Democrito m! La nascita della filosofia: continuità e discontinuità nel rapporto con la tradizione mitologica i!] I greci e le altre culture

28 30

VERIFICHE

32

a

49

19

20 20

21 23 24 24 25

26 27

O D Il

Epicuro. La Fisica Lo Stoicismo: Zenone. Fisica e Cosmologia Lo Stoicismo: Crisippo. Teoria della conoscenza D Lo Stoicismo: Crisippo. Etica: la nozione di virtù D Seneca. Il filosofo e la massa EiJ Lo Scetticismo: Pirrone. Fenomeni e conoscenza: i tropi D Lo Scetticismo: Carneade. II criterio della verità e la rappresentazione probabile l] I: ideale di saggezza nelle filosofie ellenistiche l1J !:influenza di Plotino sul pensiero medievale VERIFICHE

92 92 93 94 94 95 95 96 98 101

~

1 Atene nell'età di Pericle 2 Il teatro, coscienza critica di Atene 3 La svolta sofistica 4 Un pungolo al fianco della città: Socrate e il suo insegnamento 5 Il declino di Atene

> di Dio 5 «Un cattolico che fa la parte dell'insipiente>>: le obiezioni di Gaunilone e la replica di Anselmo Vita e opere VERIFICHE

497 499 501 502 503 504 506 507

HERMANN HESSE, SIDDHARTA Presentazione

509

xv

!,4Wç~

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INDICE GENERALE ~~il§l:!li!il~~

1 La vicenda 2 Il viaggio di Siddharta 3 La saggezza di Siddharta 4 Siddharta e il suo tempo: la religione induista 5 Siddharta e Buddha 6 Siddharta e il Tao Vita e opere VERIFICHE

510 512 513 519 520 522 526 527

8 9 10 11

l paradossi di Zenone La soluzione dei paradossi di Zenone L'analisi infinitesimale L'infinito numerico: Georg Cantor e i numeri transfiniti

VERIFICHE

561 563 564 565 568

TlPAROLE ECOSE: . .... ILUNGUAGGIO TRA NATURA ECONVENZIONE Premessa

571

llll'•lllli:mUìl Il

Eduardo De Filippo,// sindaco del rione Sanità

1 Natura o convenzione? 2 l naturalisti 3 l convenzionalisti 4 Una"terza via" tra naturalismo e convenzionalismo: il Crati/o di Platone 5 La teoria del significato nello stoicismo 6 Locke e la convenzionalità delle idee 7 Il triangolo semantico: i capisaldi della linguistica contemporanea nel Corso di linguistica generale di Saussure

529

T11HEORfA: l'IDEA DI FILOSOFIA Premessa

539

VERIFICHE

1 La filosofia come sapere disinteressato 2 La filosofia come sapere totale 3 La filosofia come sapere determinato storicamente 4 La filosofia come sapere argomentativo VERIFICHE

T2 LA SCOPERTA DEll'INFINITO .

.

Premessa

540 543 544 545 548

~

551

~r:m:n&1! 1111.111111111a

1 L' àpeiron di Anassimandro 2 La concezione negativa dell'infinito 3 Il cosmo finito secondo Aristotele 4 La concezione metafisica dell'infinito 5 L'universo infinito nell'età del Rinascimento 6 La fisica contemporanea e l'infinito 7 L'infinito geometrico: i pitagorici e la scoperta degli irrazionali

(VI

552 553 554 556 557 558 560

572

572 576 577 582 583 586 596

T4 PAIDÉIA: LA FILOSOFIA D~ll'EDUCAZION~ . Premessa

599

IIII1J!li=tS ilEi:• i

Ili d 1 La nascita dell'idea di educazione 2 Educazione e democrazia: la svolta sofistica 3 La domanda di Socrate: si può insegnare la virtù? 4 Educazione e giustizia: Platone 5 l'educazione secondo Aristotele: un modello pluralista 6 Educazione e cristianesimo: la proposta di S. Agostino 7 L'educazione universale di Comenio 8 L'educazione fra natura e cultura: Rousseau 9 Il principio democratico dell'educazione in Dewey

VERIFICHE

600 600 602 603 607 612 613 616 624 632

TS LA PROTESTA DI GIOBBE: PERCHÉ IL MALE? Premessa 1 Giustizia retributiva e sofferenza degli innocenti nel Libro di Giobbe 2 Il male come privazione 3 L'evidenza del male 4 Il migliore dei mondi possibili 5 l trucchi degli"avvocati di Dio" 6 Dopo Auschwitz VERIFICHE

635

637 642 646 650 654 657 662

POLEMOS: LA FILOSOFIA DINANZI ALLA GUERRA 665 Premessa ~il€1ìilllllllllll1llll

1 la guerra come necessità naturale 2 La guerra come rimedio estremo 3 La guerra "giusta" 4 Contro la guerra 5 la guerra "etica"

667 667 670 675 684

6 Guerra e lotta di classe 7 La guerra nel mondo d'oggi VERIFICHE

686 687 697

T7 POTESTAS: IL PENSIERO POLITICO MEDIEVALE Premessa 1 La supremazia del pontefice nel Policraticus di Giovanni di Salisbury 2 La ricerca dell'equilibrio:Tommaso d'Aquino 3 La pienezza dei poteri del pontefice: Egidio Romano 4 Contro l'ideale teocratico: l'autonomia del potere civile in Dante 5 L'origine divina del potere civile in Ockham 6 In difesa della pace: Marsilio da Padova

701

703 704 705

VERIFICHE

706 709 710 712

Indice dei nomi

713

Indice delle schede

716

XVII

GUIDA All

OGRAMM Zl ONE Dl DAT Tl CA

li\ SI\PIENZI\ PRESOCRI\TICI\ contiene una rassegna delle filosofie presocratiche, dalla scuola ionica agli atomisti. D ill@JìldM!tl:tiMUM'It!j!li si presta ad essere usato come modulo introduttivo, in quanto vi si delineano le caratteristiche originali con cui la filosofia si presentò al suo sorgere (sapere disinteressato, globale, ecc.). 6 ll][ttì!ijl!j(!~l!M.IWi!N11#/Mji1il documenta come insieme alla filosofia sia nato anche il filosofo, cioè un tipo nuovo di sapiente, caratterizzato non solo dalle sue dottrine, ma anche dal suo stile di vita. 1 U6@@1/JffiRM!iiJMI e 2lllilltl!!l]~IDOOl@M®IJftltM!i/MI guidano lo studente alla scoperta di due opere che con la loro profondità speculativa hanno fortemente influenzato il corso successivo della filosofia (non solo antica). In D 21ti\.i(I}QW;i@Qil@liul si mostra come i presocratici, segnatamente con le riflessioni di Anassimandro, le indagini dei pitagorici e i paradossi di Zenone, abbiano posto le basi concettuali di un dibattito, quello sull'infinito fisico e matematico, continuato poi con Aristotele e tuttora aperto tra gli scienziati. 9 In un'ottica interdisciplinare, la presentazione di quest'epoca si avvale di due opere del Novecento: llt*!~ìtill!ll:i'$111/i7mwme fornisce l'occasione di un confronto con le tradizioni filosofico-religiose dell'Oriente (induismo, buddismo, taoismo). Nell'Area interdisciplinare, Tempi moderni di Chaplin sollecita una riflessione originale sul significato e sulla funzione del mito.

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D 2 li[,JU1U1•~1e!UìJ ricostruisce i rapporti intensi ma spesso conflittuali che legano la filosofia dell'epoca classica (dai sofisti ad Aristotele) alla democrazia ateniese e alle sue travagliate vicende politiche. A Socrate, Platone e Aristotele sono inoltre dedicati tre ampi moduli della sezione Autori (rA!l , ll1i 2., lfjl 3 ), con i rispettivi Profili e le Antologie. Le questioni relative al linguaggio e all'educazione, che in quest'epoca assumono un rilievo primario, vengono esaminate in ID 3 bil#•!li!ll•tilll!il[ijltì@lu&@JitìjiihlìJi[(•IM~IW•II!j e in ID 4 Qt/IJ#UJj!!t~'!•litìJ@ij!Ui[i@u11ij, dove se ne ripercorrono gli sviluppi principali fin nell'età moderna e contemporanea (rispettivamente: da Locke a de Saussure; da Comenio a Dewey). Nell'Area interdisciplinare, Il sindaco del rione Sanità mette in campo una concezione "arcaica" della giustizia, del potere, della responsabilità morale.

XIX

03 IIBW!Hflll1iiUIJ§R illustra le principali tendenze filosofiche dell'età ellenistica, dall'epicureismo al neoplatonismo. In 3 viene proposta una delle opere più rappresentative di quest'età: la Lettera a Meneceo di Epicuro. ll)4 è dedicato alla filosofia di Platino. Le profonde trasformazioni politiche e culturali legate prima all'avvento della potenza imperiale di Roma, quindi al suo declino e alla formazione dei regni romanogermanici, costituiscono lo sfondo storico in cui si collocano rispettivamente

llì&BE&DmJe

xx

04 m~iitdi@IM•U!ii!•~11!M delinea l'evoluzione del pensiero filosofico nel quadro della civiltà cristiana medievale (dalla Patristica a Ockham). Le figure che vengono portate in primo piano, in questo quadro, sono quelle di Agostino d'Ippona, di Tommaso d'Aquino e Guglielmo di Ockham, a cui sono dedicati i moduli rls ~. l'ill6 e Il 7. della sezione Autori. D s IQ@;!oiWJ•1@!e!:!:!jQ*W@IMlliD riprende la soluzione agostiniana del problema del male nel contesto del dibattito sulla teodicea, che si è protratto nella filosofia moderna e contemporanea con gli interventi, fra gli altri, di Bayle, Leibniz, Kant, Jonas; in D 6 fi'iJIM!illjjf;UJletil!#l;ie))II;!I;Jr)liWI!j;@J la dottrina agostiniano-tomista della "guerra giusta" viene messa a confronto con altre posizioni esemplari (Erasmo da Rotterdam, Kant, Hegel), insieme alle quali fornisce i presupposti teorici delle odierne discussioni sulla guerra. D 7@0i'fMJII!II@~ii#;!eiQ•I!ii[(e#M#•lWblll ricostruisce il dibattito politico tra "curialisti" (Giovanni di Salisbury, Egidio Romano, in parte Tommaso d'Aquino) e fautori dell'indipendenza del potere civile da quello religioso (Dante, Guglielmo di Ockham, Marsilio da Padova). In 1[!1 ll• viene presentata analiticamente una delle "prestazioni" più classiche della filosofia scolastica: la prova razionale dell'esistenza di Dio condotta da Anselmo d'Aosta nel Proslogion.

L l N A DE L TEM p o a.C. 700

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l ---c,). La fondazione dell'Accademia (387) trova senso proprio all'interno del progetto di riforma politica a cui Platone, a partire da allora, dedica gran parte della vita e delle sue riflessioni. La scuola vuole essere infatti una comunità volta a formare i governanti-filosofi. Platone, in realtà, ha in mente an-

che un intervento più diretto sui politici del suo tempo. Per questo si reca a più riprese a Siracusa, dove si illude di trovare un ambiente favorevole ad accogliere il suo insegnamento. Questi tentativi falliscono. Resta invece l'Accademia, in cui si concentrano, dopo l'uitimo sfortunato viaggio in Sicilia, tutte le speranze del filosofo di esercitare un influsso nella vita politica futura. In origine, l'Accademia, o parco di Academo, era un bosco sacro circondato da mura, posto nella periferia di Atene, vicino alla fonte del Cefiso. Qui, tornato avventurosamente da Siracusa, Platone acquista un terreno e dà vita alla sua istituzione educativa, che raccoglie insegnanti e studenti (fra i quali, pare, anche una donna) accomunati dal desiderio di dedicarsi a una vita di ricerca e di studio. Nel processo educativo dell'Accademia, è centrale proprio la vita di comunità, perché - come già Socrate aveva mostrato - è nella pratica costante del dialogo che ci si trasforma, avvicinandosi al sapere. Per questo nella scuola sono previsti dei pasti in comune, dove il piacere del cibo si mescola a quello della conversazione; rivive così, al chiuso delle sue mura, l'esperienza conviviale e conoscitiva del simposio, dove l'eros circolante fra i convitati si subiima nell'amore più alto e più puro per la sapienza. I;Accademia ci appare come un'istituzione ((Chiusa, regolata e autosufficiente)). La compone un gruppo ben definito di adepti; i più giovani fra loro sono studenti, i più anziani si dedicano alla ricerca e all'insegnamento. La guida della comunità, dopo Platone, viene designata per elezione, cui partecipano anche gli studenti. Nella scuola non ci sono infatti gerarchie: i principi di libertà e di uguaglianza fra gli adepti informano tutta la vita comunitaria, coinvolgendo l'ambito stesso del pensiero e della ricerca. È noto infatti che non tutti erano d'accordo con le dottrine di Platone e, nell'ambito dell'Accademia, ne professavano liberamente altre; l'essenziale era riconoscersi nel metodo dialogico posto dal filosofo a fondamento della sua scuola. Il fine dell'Accademia è, come si è detto, la formazione di una classe di filosofi pronti a guidare la p6lis. Fra le discipline insegnate eccelle perciò la

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6- PLATONE EARISTOTELE: IL RITIRO DALLA POLITICA

dialettica, intesa come strumento attraverso c~ gli interlocutori arrivano a una verità superiore, ehe esige una profonda modificazione di se stessi. La seconda generazione dei sofisti, di cui sono espressione Callicle, Crizia e Antifonte, nello stesso periodo di tempo addestrava i politici all'eristica, un insieme di tecniche retoriche volte a ottenere il successo nelle contese verbali. Niente di più lontano dagli intendimenti di Platone, il quale, sulla scia di Socrate, respinge inoltre la logica mercantile dei sofisti, non chiedendo alcun compenso per l'insegnamento fornito dall'Accademia. Nata da una presa di distanza dall'Atene politica, la scuola platonica viene ricambiata dalla città con il sospetto di essere un covo di aristocratici che tramano per la riconquista del potere. Non subisce però nessuna persecuzione e, con la sua fama crescente, contribuisce al lustro di Atene, richiamando discepoli da varie regioni della Grecia. Uno di questi è Aristotele, che vi studia e insegna per venti anni. Nato a Stagira, in Macedonia, si era trasferito nell'adolescenza ad Atene (367) proprio al fine di frequentare la scuola platonica. Aristotele sarà sempre uno straniero, in città; di più, un potenziale nemico, a causa del suo legame con la famiglia reale macedone: il padre era infatti medico personale di Filippo e, anni dopo, sarà lui il precettore di Alessandro. Si spiegano così i suoi lunghi periodi di lontananza da Atene. Lascia la città (347) quando Demostene, al potere, sta usando tutta la sua influenza politica per spingere i concittadini a sollevarsi contro la potenza macedone; vi ritorna quando ormai è sottomessa, istituendovi la sua scuola, il Liceo (335); ma di nuovo, alla morte di Alessandro la situazione si fa per lui pericolosa, tanto che ormai sessantaduenne abbandona tutto e ripara a Calcide, nell'Eubea, dove muore mentre le truppe macedoni stanno riprendendo il controllo dell'Attica (322). A rendere urgente quest'ultima fuga era forse il rischio di un processo per empietà; così almeno sembra di capire dalle parole stesse del filosofo, il quale, rievocando implicitamente la vi-

cenda occorsa a Socrate, dichiara di aver voluto evitare agli ateniesi di peccare ((Una seconda vol-

ta contro la filosofim>. Nonostante tutto, Atene rimarrà sempre per Aristotele il luogo propizio alla filosofia. È qui che si è svolto il suo apprendistato teorico; ed è qui che, completata l'educazione di Alessandro, torna per fondare la sua scuola, il Liceo. Evidentemente, la città, benché avviata ormai verso una crisi politica inarrestabile, ha ancora un grande prestigio agli occhi degli intellettuali, offrendosi come vivace punto di incontro e di scambio delle idee. Il Liceo ha molti punti di contatto con l'Accademia platonica, a partire dalla collocazione spaziale. Nasce infatti in un luogo ameno, un ginnasio lontano dal centro, nei pressi delle fonti dell'Eridano e di un tempio consacrato ad Apollo Liceo. Oltre all'edificio principale, si compone di un santuario delle Muse e di un giardino con un viale per il pas• seggio, da cui deriva l'altro nome con cui è conosciuta la scuola aristotelica: Peripato, da peripatéin che significa "passeggiare". Al pari dell'Accademia, inoltre, il Liceo è una struttura stabile e definita. IJnsegnamento mattutino, in forma soprattutto orale, si svolge rigorosamente al suo interno, nelle aule e nel viale per il passeggio, ed è destinato a quanti condividono un'idea di sapere quale esperienza comune di vita e di ricerca; le lezioni della sera, di carattere meno filosofico e più politico, sono aperte invece a un pubblico più vasto. La continuità nel tempo è garantita da chi guida la scuola, ovvero dal fondatore Aristotele e, in seguito, dai suoi successori, la cui scelta avviene per elezione. Accanto alle somiglianze, fra Liceo e Accademia ci sono delle differenze fondamentali. L'istituzione voluta da Aristotele è un grande centro di raccolta del sapere, dove si ac- Il sapere come cumula e si organizza un'immen- insieme dei saperi sa quantità di osservazioni su discipline che spaziano dalla zoologia alla storia, dalla botanica all'astronomia. Per aiutare il suo antico maestro, pare che Alessandro ordinasse a cacciatori, pescatori, esperti vari, di collaborare all'impresa, met-

tendo a disposizione del Liceo le loro conoscenze empiriche. Siamo informati della presenza nella scuola di una biblioteca e di attrezzature scientifiche, indispensabili a questo orientamento delle ricerche. Naturalmente, il fine supremo è sempre la filosofia: il piacere che nasce dalla contemplazione delle realtà naturali, in ognuna delle quali secondo Aristotele ((C'è qualcosa di meravigliosO)), avvicina infatti al principio primo, motore immobile di tutte le cose. È nelle finalità del progetto educativo che affiorano le principali differenze fra Accademia e Liceo. Aristotele non crede più nel governo dei filosofi; il sapiente trova la felicità nella vita contemplativa; solo in via secondaria può preoccuparsi, se non di intervenire attivamente nell'agone politico, quan-

tomeno di formare governanti dediti al bene della città. Da questa convinzione di Aristotele deriva l'impronta peculiare data al suo Liceo. Non che la scuola si estranei dal mondo esterno, poiché intrattiene rapporti con varie personalità politiche; senza contare il vero o presunto vincolo sotterraneo con i regnanti macedoni, che le vale l'ostilità dell'opinione pubblica ateniese e un tentativo, alla morte di Aristotele, di impedirne l'attività. Tuttavia, il sostanziale distacco degli adepti dalla vita pubblica non è pensato come temporaneo - una parentesi formativa in vista di un ritorno nella p6lis, per assumerne la guida - piuttosto ha il carattere irrevocabile di una scelta di vita, che corrisponde all'ideale filosofico della ricerca disinteressata, lontana dalle turbolenze del mondo.

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SCHEDA-FILOSOFIA

L' habitus del filosofo l filosofi antichi tendono a presentarsi come figure eccezionali rispetto ai più: importante è non assomigliare agli altri. [... ]Anche il sapiente aristotelico, che conduce la vita teoretica e contempla l'ordine dell'universo, si eleva al di sopra dei più, è una figura in bilico tra l'umano e il divino: in quanto teoreta è ancorato al divino, conduce una vita di pensiero simile a quella del dio, anche se con minore continuità, più che a quella degli altri uomini. [... ] La rivendicazione di eccezionalità da parte dei filosofi antichi riguarda l'individuo nella sua singolarità o il tipo del filosofo? Non credo sia errato affermare che quest'ultima sia la soluzione corretta. Il bfos filosofico, propugnato dalle varie scuole filosofiche antiche al di là della loro diversità, è sì caratterizzato dall'eccezionalità, ma al tempo stesso anche da una sorta di universalità normativa: è un tipo e modello di vita, a prescindere dal fatto che esso trovi la sua realizzazione negli esemplari più riusciti del genere umano o non si realizzi mai compiutamente nei singoli individui. L'eccezionalità a cui mirano i filosofi antichi non è quella dell'individuo irripetibile e assolutamente originale, irriducibile ad altro, ma quella dell'individuo che riesce a incarnare in sé il modello del "vero uomo", il quale non ha vincoli di spazio e tempo. In tal caso l'individuo diventa esemplare in quanto realizza in sé qualcosa di universalmente valido e riproducibile anche da altri, anche se non da tutti. Questo tratto diventa essenziale soprattutto a partire da Platone e poi per secoli sino alla tarda antichità, quando la scuola diventa luogo primario non solo dell'insegnamento, ma della stessa vita filosofica. [... ] Solo entro il contesto comunitario [della scuola]la stessa figura del filosofo può riprodursi, generando altri individui capaci di incarnare il modello e il tipo del filosofo. [... ]Anche per questo è essenziale, nella vita filosofica degli antichi, accentrata intorno alla scuola, l'uso di argomentazioni, dimostrazioni e in generale di strumenti comunicativi che consentano di raggiungere consenso e persuasione. Ciò vale anche per Aristotele, che attribuisce alla dimostrazione scientifica non tanto una funzione euristica, quanto quella di insegnare, facendo comprendere le cause e i principi delle cose. Non si deve tuttavia scambiare questo aspetto con la semplice trasmissione di un insieme di contenuti dottrinali. La scienza per Aristotele è un habitus, una disposizione che rende costantemente capaci di effettuare dimostrazioni, ed è questo habitus che la scuola tende a trasmettere, unitamente a quello di conoscere i primi principi delle varie scienze. Ma ciò significa rinviare a uno spazio nel quale questo habitus può essere appreso col tempo e consolidato con l'esercizio: anche nella concezione aristotelica il filosofo, in quanto teoreta, è una figura riproducibile, un tipo. Ilo G. Cambiano, l/filosofo\ in: I Greci, I,

Noi e i Greci, Torino, Einaudi 1996, pp. 837-838, 243-245

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DffiM . . .N6mos ephysis testo 1

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Per la Grecia arcaica, una sola legge governa la natura e gli uomini. La giustizia (dfke) è la divinità che mette ordine e equilibrio nel cosmo, ponendo un limite al conflitto delle forze antitetiche da cui è formato (luce e buio, amore e odio, ricchi e poveri ecc.). Quando l'equilibrio si rompe, allora si ha /'hybris, l'eccesso, che porta sciagure ed è punito dagli dei. Il n6mos, o legge, è quindi una norma che prescrive la condotta sia dei fenomeni in natura sia del cittadino nella p61is. Lo sviluppo dell'indagine razionale, nel Vsecolo a.C., porta a ripensare criticamente i caratteri del n6mos, svelandone l'origine puramente umana. Prodotto storico variabile nel tempo e nello spazio, il n6mos si viene così distinguendo dalla physis, la legge di natura universale ed eterna. Nella riflessione dei sofisti, un tema centrale è proprio il rapporto fra i due diversi ordini di norme, che alcuni di loro intendono come contrasto irriducibile, da risolversi aderendo alle superiori leggi della physis. La critica sofistica converge comunque nel sottolineare che, per la loro relatività, tutte le leggi umane sono discutibili e soggette a modificazione. Il sofista Antifonte, vissuto nella seconda metà del Vsecolo, contrappone le leggi di natura alle leggi dello Stato, che sono frutto di convenzioni spesso in contrasto con le esigenze della natura umana, perché la imbrigliano e non le prescrivono ciò che è vantaggioso (in altri termini, non rispettano il criterio di utilità).

W Giustizia consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi dello Stato di cui uno sia cittadino; e perciò l'individuo applicherà nel modo a lui più vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi, di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, seguirà piuttosto le norme di natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura, essenziali; quelle di legge sono concordate, non native; quelle di natura sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da natura, se anche nessuno se ne accorga, non minore è il male, né è maggiore se anche tutti lo sappiano; perché si offende non l'opinione, ma la verità. Questo essenzialmente è l'oggetto della nostra indagine, che cioè la maggior parte di quanto è giusto secondo legge, si trova in contrasto con la natura; così per legge è prescritto agli occhi ciò che debbono guardare e ciò che no; alle orecchie ciò che debbono udire e ciò che no; alla lingua ciò che deve dire e ciò che no; alle mani, ciò che debbono fare e ciò che no; ai piedi, dove debbono andare e dove no; e all'animo, ciò che deve desiderare e ciò che no. Eppure alla natura non sono né più gradite né più affini le cose che le leggi ci vietano, di quelle che essi ci consigliano. Per-

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antologia ché tanto la vita che la morte sono cose di natura; e la vita proviene agli uomini da ciò che è utile, la morte da ciò che è dannoso. E quanto all'utile, ciò che è prescritto dalla legge è un inciampo per la natura, ciò che è prescritto da natura è libero; onde non è logicamente possibile c~eciò che dispiace giovi alla natura più di ciò che piace; né, perciò, può essere più utile il dolore del piacere. Perché ciò che è utile dawero, deve recar giovamento, non danno. ~

Antifonte, Della verità, in: I presocratici, Bari, Laterza 1975, vol. II, pp. 996-997

L'antitesi fra n6mos e physis si origina per Cal/icle dal fatto che la legge umana, voluta dalla maggioranza dei deboli, stabilisce un principio contronatura, l'uguaglianza fra esseri umani, inteso a reprimere le individualità superiori naturalmente destinate a emergere. Diversamente da lui, Trasimaco interpreta il n6mos come legge del più forte, imposta dai governanti ai propri sudditi. Entrambi i sofistt; comunque, concordano nel considerare il diritto come espressione non di valori universali, bensì di interessi particolaristici. Le tesi di Callic!e e di Trasimaco, delle cui vite e opere poco conosciamo, sono giunte fino a noi attraverso la mediazione di Platone, che le espone rispettivamente nel Gorgia e nella Repubblica.

DI CALLICLE: In natura tutto quel che è più brutto è, ad un tempo, più malvagio, ossia il subire ingiustizia; per legge, invece, commetterla. Né da vero uomo, ma da servo, è subire ingiustizia senza esser capaci di ricambiare, e meglio è morire che vivere se, maltrattati e offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e chi ci stia a cuore. Secondo me la questione è tutta qui: quelli che fanno le leggi sono i deboli, i più; essi, evidentemente, istituiscono le leggi a proprio favore e per propria utilità, e lodi e biasimi dispensano entro questi termini. Spaventando i più forti, quelli che avrebbero la capacità di prevalere, per impedire, appunto, che prevalgano, dicono che cosa brutta e ingiusta è voler essere superiori agli altri e che commettere ingiustizia consiste proprio in questo, nel tentativo di prevalere sugli altri. Essi, i più deboli, credo bene che si accontentano dell'uguaglianza! Ecco perché la legge dice ingiusto e brutto il tentativo di voler prevalere sui molti, ecco perché lo chiamano commettere ingiustizia. lo sono invece convinto che la stessa natura chiaramente rivela esser giusto che il migliore valga sul peggiore, il più capace sul meno capace. Che dawero sia così, che tale sia il criterio del giusto, che il più forte comandi e prevalga sul più debole, ovunque la natura lo mostra, tra gli animali e tra gli uomini, nei complessi cittadini e nelle famiglie. Con quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia o suo padre mosse guerra agli Sciti? Infiniti altri esempi si potrebbero portare! Tutta questa gente, io penso, così agisce secondo la natura del giusto, e in nome di Zeus, per legge, ma secondo la legge di natura, non per quest'altra legge, per la legge che noi istituiamo accalappiandoli fin da bambini mediante tale legge, plasmiamo i migliori, i più forti di noi, e, impastoiandoli e incantandoli come leoni, li asserviamo, dicendo loro che bisogna essere uguali agli altri e che in tale uguaglianza consiste il bello e il giusto. Ma, io credo, qualora nascesse un uomo che avesse adeguata natura, scossi via da sé, spezzati tutti questi legami, liberatosi da essi, calpestando i nostri scritti, i nostri incantesimi, i nostri prestigi, le nostre leggi, tutte contro natura, emergendo, da nostro schiavo, lo vedremmo nostro padrone, e qui, allora, di luce limpidissima il diritto di natura splenderebbe. ~

Platone, Gorgia, 483 a-484 b, in: Opere complete, V, Bari, Laterza 1982

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TRASIMAco: lo affermo dunque essere il giusto non altro che l'utile del più forte. ~

Platone, Repubblica, I, 338c, in: Opere complete, cit.

Dopo aver definito i concetti di n6mos e physis, il grecista George Kerferd collega le tesi dei sofisti alle trasformazioni politiche e sociali in atto nell'Atene del Vsecolo, individuando anche una linea di continuità con le posizioni di Socrate e di Platone.

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È nota da tempo la grande importanza che i due termini n6mos e physis ebbero in gran parte del dibattito filosofico della seconda metà del V secolo a.C. La parola physis si traduce di solito "natura". Era il termine che gli scienziati ionici presero ad usare per indicare l'insieme della realtà o i suoi più stabili principi materiali (o elementi costitutivi). Ma entrò presto nell'uso per designare anche la conformazione o l'insieme dei caratteri di una cosa particolare o di un gruppo di cose, specie una creatura vivente od una persona (come nell'espressione "la natura dell'uomo"). In ogni caso il termine comportava -almeno implicitamente- un contrasto tra le caratteristiche proprie di una cosa in quanto tale, da essa posseduta di diritto o spontaneamente, e le caratteristiche acquisite o imposte. [... ] N6mos, solitamente tradotto !'legge", oppure "convenzione", oppure "uso", a seconda del valore che sembri adattarsi meglio al contesto, è un termine forse un po' più sottile di quanto suggeriscano queste traduzioni. Tanto il significato quanto la storia della parola sono stati molto discussi, spesso senza approdare a conclusioni ben chiare. Ma credo che la questione possa spiegarsi senza difficoltà. Il termine n6mos e tutta la serie dei vocaboli greci connessi sono sempre prescrittivi e normativi, mai puramente descrittivi: forniscono una sorta di direttiva o di prescrizione che influisce sul comportamento e sulle azioni di persone e cose. Il termine moderno che corrisponde più da vicino a n6mos è "norma": fissare o promulgare nomous vuole dire fissare norme di comportamento. [... ] In qualunque periodo ed in qualunque modo nascesse, l'antitesi tra n6mos e physis comportava regolarmente il riconoscimento che la physis è fonte di valori, e dunque essa stessa in qualche modo prescrittiva. [... ] · Lasciare il n6mos per ricorrere alla physis voleva dire - in uno dei suoi aspetti - negare il n6mos, inteso come norme di comportamento tradizionalmente accettate. Ma lo scopo probabilmente non era mai (o per lo meno quasi mai) puramente negativo: mirava in realtà ad introdurre un apparato di norme più soddisfacenti e convincenti al posto di quelle che ormai non erano più del tutto accettabili. Senza dubbio la vera ragione per cui si attaccavano molte delle norme tradizionali stava nel processo di mutamento sociale e politico che era in pieno svolgimento in Atene nell'ultimo periodo del V secolo. Ma il vero attacco era in parte intellettuale e nasceva dall'assunto che le norme tradizionali, se accettate senza verifica, contengono alloro interno contraddizioni ed incongruenze. Si ricercava la loro sostituzione- dove necessaria (ma solo dove necessaria) -con qualcosa che fosse intellettualmente soddisfacente: in altre parole qualcosa che fosse razionale ed intimamente coerente, e che insieme tenesse nel dovuto conto la vera natura degli esseri umani. Esposti così i termini della questione, sidovrebbe iniziare a vedere chiaramente l'ampiezza della base che unisce Socrate, Platone ed i principali sofisti. Per tutti il probiema è come dovrebbe vivere un uomo. In secondo luogo, sono tutti d'accordo nel ritenere che la soluzione dovrà essere espressa in termini di aretai, o virtù, quali la virilità (andreia, solitamente reso con "coraggio"), la saggezza, e così via. Ma nessuno di loro è pienamente soddisfatto della con-

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antologia

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cezione consueta o corrente di queste virtù: condividono tutti l'intento di scavare dietro tali concetti per cercarne altri più adeguati. ~

G. Kerferd, I sojisti, Bologna, Il Mulino 1988, pp. 143-164

La struttura de/l'Antigone, la tragedia che Sofoc/e mise in scena ne/442 a. C., si dispone intorno a una serie di opposizioni (uomo-donna, giovani-adulti, vivi-morti, umani-deij, le quali convergono tutte nel conflitto supremo fra le leggi non scritte degli dei e le leggi scritte della p6/is. Antefatto dell'azione è lo scontro fratricida fra i due figli di Edipo, Eteoc!e e Polinice, l'uno a difesa del governo di Tebe, l'altro a capo di un esercito straniero che intende rovesciar/o. Dopo che i due si sono uccisi a vicenda in un duello, il re tebano Creante, loro zio, decreta onoranze funebri per Eteoc!e, proibendo invece di dare sepoltura a Polinice, il cui corpo dovrà restare sul campo di battaglia, esposto alle belve. La tragedia ha inizio con la decisione di Antigone, sorella dei due giovam; di disobbedire al divieto. Scoperta, viene condannata da Creante a essere sepolta viva in una caverna. Qui, piuttosto che attendere una morte lenta, Antigone si impicca. Il suo promesso sposo Emone, figlio di Creante, si uccide a sua volta, seguito dalla madre. Creante, alla fine della vicenda, è un uomo distrutto, che dice di sé: ((tutto fra le mie mani è stravolto. Sul mio capo il destino, impetuoso, è balzatoll. Riportiamo qui di seguito il dialogo fra Antigone e Creante, in cui si scontrano le loro opposte ragioni.

m CREONTE: Costei che conduci qui, come, dove l'hai presa? GUARDIA: Proprio lei stava seppellendo; ecco, sai tutto. CREONTE: Ti rendi conto, sei sicuro di ciò che dici? GuARDIA: Sì, avendola vista mentre seppelliva il morto, quello vietato. Ma non parlo chiaro e preciso? CREONTE: Come è stata vista? Come colta in flagrante? GuARDIA: l fatti son questi. Appena arrivammo, minacciati da te di cose terribili, spazzata via tutta la polvere che ricopriva il morto e messo ben a nudo il corpo putrefatto, ci fermammo sulla cima di un colle, sottovento, per evitare che il fetore ci investisse. E ci scuotevamo l'un l'altro con male parole e urla minacciose per tenerci svegli, in modo che nessuno pensasse di sottrarsi a quella fatica. Questo durò a lungo, finché il lucente astro del sole si fermò in mezzo al cielo; awampava la calura. Ecco all'improwiso una tempesta, sollevato da terra un vortice- sembrava che il cielo soffrisse- riempie la pianura, mutilando una selva pianeggiante di tutto il fogliame; il vasto cielo ne fu invaso. Chiudemmo gli occhi, per reggere a quel flagello mandato dagli dèi. Quando, dopo molto tempo, si fu allontanato, vediamo la ragazza; si lamenta con la voce acuta di un uccello addolorato che ha visto il fondo del nido vuoto, predato dei piccoli. Così anche lei, come vede il morto scoperto, gemette lamentosa e augurava terribili maledizioni a quelli che avevano compiuto il gesto. Subito con le mani porta arida polvere, e con una brocca di bronzo ben martellata, dall'alto cosparge il morto di triplice libagione. Avendo visto, noi accorriamo e subito tutti insieme la catturiamo; lei non è per nulla spaventata. L'accusavamo delle azioni di prima e di quelle di ora; lei rimase ferma, senza negare nulla, e ciò per me era gradito e doloroso insieme. È infatti molto gradito essere sfuggito ai guai, e doloroso mettere nei guai quelli che ci son cari. Ma è nella mia natura stimare tutte queste cose meno della mia salvezza.

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antologia CREONTE: (ad Antigone) Tu, sì tu, che stai col capo chino a terra, affermi oppure neghi di aver commesso i fatti? ANTIGONE: Affermo di averli commessi, non lo nego. CREONTE: (alla guardia) Tu vattene dove ti pare, libero, estraneo alle pesanti colpe. (La guardia esce. Ad Antigone) Tu invece dimmi, senza lungaggini, con brevità: sapevi degli ordini gridati dal banditore che vietavano queste azioni? ANTIGONE: Sapevo; come avrei potuto non saperli? Erano a tutti noti. CREONTE: Eppure osavi trasgredire queste norme? ANTIGONE: Non Zeus mi ha gridato gli ordini; né Dike, che ha la casa insieme agli dèi sotterranei, fissò per gli uomini siffatte leggi. Non presagivo che i tuoi gridati ordini fossero a tal punto potenti da dare, a te che sei mortale, il diritto di trasgredire le leggi non scritte, ma infallibili, degli dèi. Non da oggi, non da ieri, ma da sempre esse sono vive, e nessuno sa da dove attinsero splendore. lo non potevo, a causa dell'arroganza di un uomo, pagare per una colpa nei confronti degli dèi. Sapevo bene di essere mortale - non è forse cosi? - anche se tu non l'hai ordinato. Ma dico che è un guadagno se morirò prima del tempo. Chiunque vive, come me, in mezzo a molti mali, non ottiene forse un guadagno morendo? Perciò per me incontrare il destino è certamente un dolore da poco, ma se avessi tollerato senza sepoltura il morto nato da mia madre, per questo avrei dolore. Per la morte invece non mi dolgo. E se ora ti sembra che mi comporti stoltamente, forse è stolto chi di stoltezza mi accusa. CoRo: .Si rivela il carattere inflessibile, da padre inflessibile, della ragazza: non sa piegarsi alle sciagure. CREONTE: Sappi che le volontà troppo rigide più facilmente crollano; potresti vedere che il più robusto ferro, temprato dal fuoco, si spezza ed è ridotto in frantumi; so che da un piccolo morso sono domati gli ombrosi cavalli. Non può esserci smisurato orgoglio in chi è nelle mani di altri. lnnanzitutto, costei sapeva bene di fare oltraggio quando trasgrediva le leggi stabilite; poi, dopo aver compiuto ciò, questo secondo oltraggio: vantarsene ed esserne raggiante. Non sarei più io l'uomo, l'uomo sarebbe lei, se queste prepotenze restassero senza castigo. ~

Sofocle, Antigone, Milano, Feltrinelli 1987, pp. 89-93

George Steiner, studioso inglese di letteratura, nel suo saggio Le Antigoni, studia la permanenza di questa figura nella storia del pensiero occidentale, ponendo l'accento sul suo antagonismo irriducibile alla ragione politica. Nel passo seguente si sofferma sul dialogo fra Antigone e Creante, riportato sopra, che è uno dei momenti culminanti della tragedia sofoclea.

111 Ciò che voglio sottolineare è semplicemente questo: il famoso dialogo- esiste in tutta la letteratura uno scontro verbale più intrinsecamente affascinante e più importante di questo? -è, infatti, un dialogue des sourds1• Non vi trova posto nessuna comunicazione significativa. Le domande di Creonte e le risposte di Antigone sono così interiori ai due interlocutori, così assolute nei rispettivi codici semantici e nelle rispettive visioni della realtà, da escludere il dialogo. Dove si situa, essenzialmente, l'abisso? La lingua di Creonte è quella della temporalità. Forse come nessun altro prima del Quarto Vangelo, Antigone parla o, piuttosto, si sforza di parlare a partire dall'eternità. E questo suscita la domanda: un discorso intelligibile può essere estrinseco al tempo? -1.-U-n-dia-lo-go_tr_as-or-di._ _ _ _ _ [ ••• ]

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anto ogia

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Il tempo è dawero essenziale. Nella catastrofe che conclude l'azione del dramma, Creonte, come predice Tiresia, correrà invano contro il tempo 2 • Antigone, che si è assunta il ruolo di accusatrice di Creonte, proclama che nessun editto temporale può annullare le leggi che sono infinitamente più antiche degli strumenti voluti dall'uomo (la scrittura, per esempio). Postula un"' eternità naturale" di cui è custode dfke. E non indietreggia di fronte alla conclusione antinomica per cui ciò che garantisce la legittimità atemporale e inalterabile delle "leggi non scritte" è lo statuto santificato dei morti. Antigone, nel suo grande scontro con Creonte, non nomina mai Polinice. Il nome dell'uomo, per quanto sia coinvolto nella sua causa, appartiene alla sfera contingente dello spazio e del tempo. L'anonimato, a questo punto della sua sfida e della sua apologia, è una tattica di universalità. Molti si sono chiesti: "Se quelle "leggi" invocate da Antigone hanno un'universalità e un'eternità manifeste, perché non sono incise in Creonte o nel coro così chiaramente come in lei?". La risposta è che per Antigone la p6/is e la categoria dello storico - di una temporalità organizzata e controllata razionalmente - si sono imposte, dapprima in modo irrilevante poi c.on effetti devastanti, su un ordine dell'essere, lo si chiami "familiare", "tellurico" o "ciclico", in cui l'uomo era letteralmente "di casa" nell'atemporalità. Un tale sentimento di appartenenza anteriore o esterno alla storia fa della fi!fa, dell' "immediatezza d'amore", "dell'affetto incondizionato" la regola delle relazioni umane. In questo specifico senso le leggi non scritte dell'affetto amorevole, invocate e poste da Antigone sotto la duplice egida di Zeus Olimpico e di dfke ctonia 3 , sono "leggi naturali". Esse incarnano un imperativo di umanità che uomini e donne condividono prima di entrare nelle mutazioni, nelle illusioni transitorie, nelle esperienze divisorie di un sistema storico e politico. [... ] Man mano che il dialogo della non-comunicazione procede, il rifiuto opposto da Antigone alla temporalità - Antigone non accetta di "temporeggiare" - assume un tono sempre più esplicito e autodistruttiva. La condanna a morte pronunciata da Creonte non ha importanza per Antigone perché appartiene esclusivamente alla sfera meschina del tempo secolare. La condanna a morte emessa contro Antigone non è valida nell'esatto senso in cui non è valido l'editto, così strettamente collegato, di Creonte contro i resti di Polinice. La morte di Antigone non è quella decisa e proclamata da Creonte. [... ] La morte che Antigone sceglie liberamente e coscientemente ha assi di significato che superano del tutto la volontà e la comprensione di Creonte. L'Antigone della tragedia sofoclea è, in un certo modo, la stessa giovane donna che aveva imparato a Colono che solo la completa accettazione della morte può conferire una durata mortale. Non sospetta l'esistenza - nel qual caso la rifiuterebbe di quell'altra eternità o sospensione temporale che è dinamica nella vita delle istituzioni e connette le generazioni successive all'interno di e grazie a una p6/is in evoluzione. [... ] Si tratta di un mondo al di fuori del tempo politico, in cui chi non ha marito e figli si sente oscuramente a proprio agio. La presentazione della legittimità anarchica di Antigone ai versi 450 e seguenti è incomparabile. Ma l'interrogativo sulla temporalità che il testo ci impone è lontano dall'essere circoscritto dall'eloquenza e dall'eroismo di Antigone. [.,.] 2. Persuaso dall'indovino Ti resia, Creante Non è la speranza hegeliana di una sintesi evolutiva tra i valori della co- aveva deciso di liberare Antigone; ma quanscienza e quelli dello stato in una p6/is purificata, educata dalla catastrofe di do iservi giungono alla grotta èormai troppo tardi. Antigone e di Creonte, a esprimere nel modo migliore il senso sofocleo del- 3. ctonio: sotterraneo, proveniente dalle la tragedia. Il problema fondamentale non è di sapere se Tebe può ospitare profondità della terra.

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anto ogia al tempo stesso Creante e Antigone o se Tebe sarebbe una città giusta e salda se ospitasse solo uno dei due (sebbene questi interrogativi sussidiari vengano realmente posti). La domanda decisiva e inevitabile è se la città può, se deve contenere l'uno o l'altra. Ma se la risposta è "no", allora come potrà l'uomo mettere alla prova i confini (i "confini della città") della sua condizione? Come potrà accogliere gli dèi? In Sofocle non c'è soluzione al dilemma. Ma molti elementi dell'Antigone suggeriscono che, secondo Sofocle, il tentativo dell'uomo di mettere alla prova i propri confini e di offrire agli dèi l'ospitalità e la libertà della sua città avrebbe provocato l'inevitabile distruzione della "zona intermedia". Ed è in questa "zona intermedia", se ho capito bene Sofocle, che l'uomo si sforza di imparare la difficilissima arte di vivere con i propri simili. La pietà di Sofocle [... ] comprende e supera anche le opzioni offerte da Antigone e Creonte e il loro scontro. ~

G. Steiner, Le Antigoni, Milano, Garzanti 1990, pp. 276-281

la filosofia come modo di vita: l'Accademia e il liceo ' testo 2 Per illustrare le finalità delle due grandi scuole ateniesi dell'età classica, la platonica e l'aristotelica, e comprenderne le differenze, proponiamo un brano dello studioso francese Pierre Hadot tratto da Che cos'è la filosofia antica?

DI L'intenzione iniziale di Platone è politica: egli crede di poter cambiare la vita politica grazie all'educazione filosofica degli uomini influenti della città. La testimonianza autobiografica lasciata da Platone nella Lettera VII è degna di attenzione. Egli racconta come, in gioventù, volesse, al pari degli altri giovani, occuparsi degli affari della città, di come scoprisse, in seguito alla morte di Socrate e allo studio delle leggi e dei costumi, quanto fosse difficile amministrare correttamente gli affari della città, giungendo quindi alla conclusione che tutte le città esistenti all'epoca, nessuna esclusa, erano sottomesse a un cattivo regime politico. Ecco perché, dice Platone, ((fui irresistibilmente portato a lodare la vera filosofia e a proclamare che, soltanto con la sua luce, è possibile vedere dov'è la giustizia nella vita pubblica e nella vita privatml. Ma non si tratta solo di discorsi astratti. Per Platone, il suo "compito di filosofo" consiste nell'agire. Quando tenta di svolgere un ruolo politico a Siracusa\ è per non passare ai suoi stessi occhi da "buon parlatore" incapace di agire. Molti allievi dell'Accademia hanno concretamente svolto un ruolo politico in diverse città, sia come consiglieri di sovrani che come legislatori, o come oppositori della tirannia. l sofisti avevano preteso di educare i giovani alla vita politica; Platone, da parte sua, persegue lo stesso obiettivo dotando i suoi allievi di un sapere di gran lunga superiore a quello che i sofisti possono offrire: un sapere che per un verso sarà fondato su un metodo razionale rigoroso, e per l'altro, in accordo con la concezione socratica, sarà inseparabile dall'amore per il bene e dalla trasformazione interiore dell'uomo. Platone non intende formare soltanto abili uomini di stato, ma uomini. Al fine di realizzare il suo intento politico, Platone deve dunque compiere una immensa digressione; fonderà, infatti, una comunità intellettuale e spirituale che avrà il compito di formare, impiegando tutto il tempo che sarà necessario, degli uomini nuovi. Nel corso di questo lunghissimo iter, gli intenti politici rischiano, d'altronde, di essere persi di vista, e non è forse privo di significato che Platone affermi che occorrerebbe forzare i filosofi ad esse1.cfr.A2,§1,p.191. re re. Descrivendo la vita che si svolge nell'Accademia di Platone, Dicearco, di-

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SEZIONE EPOCHE POLIS EFILOSOFIA

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antologia

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scepolo di Aristotele, insiste sul fatto che i suoi membri vivano come in una comunità di uomini liberi ed eguali, nella misura in cui aspirano egualmente alla virtù e alla ricerca in comune. Platone non chiedeva onorari ai suoi allievi, in virtù del principio che bisogna dare ciò che è eguale agli eguali. Secondo i principi politici di Platone si trattava, d'altronde, di una eguaglianza geometrica, che dava cioè ad ognuno secondo i suoi meriti e secondo i suoi bisogni. Emerge a questo punto che, persuaso che l'uomo non possa vivere da uomo se non in una città perfetta, Platone voleva, in attesa che tale città si realizzasse, far vivere i suoi discepoli nelle condizioni proprie di una città ideale, e voleva che, non potendo effettivamente esercitarne il governo, essi esercitassero il governo di sé medesimi secondo le norme di questa città ideale. Lo stesso tenteranno di fare, a loro volta, la maggior parte delle scuole filosofiche che nasceranno in seguito. In attesa di dedicarsi ad una attività politica, i membri della scuola si consacreranno a una vita disinteressata rivolta agli studi e alle pratiche spirituali. [... ] Vi è [... ] una profonda differenza tra il progetto perseguito dalla scuola di Aristotele e il progetto platonico. La scuola di Platone ha essenzialmente una finalità politica, pur essendo centro di una intensa ricerca matematica e di discussione filosofica. Platone considera sufficiente essere filosofi per poter dirigere la città; ai suoi occhi vi è dunque unità tra filosofia e politica. Al contrario, la scuola di Aristotele [... ]forma soltanto alla vita filosofica. L'insegnamento pratico e politico si rivolgerà ad un pubblico più ampio, a uomini politici esterni alla scuola che desiderino istruirsi riguardo al miglior modo di organizzare la città. Aristotele, infatti, distingue tra felicità che l'uomo può trovare nella vita politica, nella vita attiva -si tratta della felicità che può procurare la pratica della virtù Qella città - e la felicità filosofica che corrisponde alla theoria, vale a dire a un genere di vita interamente consacrato alla attività dello spirito. La felicità politica e pratica non è, agli occhi di Aristotele, che felicità a livello secondario. In effetti, la felicità filosofica si trova nella (Nita secondo lo spirito>>, che si colloca nell'ambito dell'eccellenza e della virtù più elevata dell'uomo, che corrisponde alla parte più alta dell'uomo, lo spirito, e affrancata dagli inconvenienti che la vita attiva comporta. Essa non viene sottomessa alle intermittenze dell'azione, non produce fatica. Essa apporta piaceri meravigliosi che non si mescolano al dolore e alle impurità, che sono stabili e solidi. Questi piaceri sono, inoltre, più grandi per coloro che raggiungono la verità e la realtà, piuttosto che per coloro che ancora ne sono alla ricerca. Essa assicura l'indipendenza nei confronti degli altri, nella misura in cui, precisa Aristotele, ci si sia assicurati, per altro, l'indipendenza nei confronti delle cose materiali. Chi si consacra all'attività dello spirito non dipende che da sé soltanto: la sua attività sarà forse migliore se egli dispone di collaboratori, ma più egli è saggio più potrà essere solo. La vita secondo lo spirito non cerca altro risultato che se stessa; essa è dunque amata per se stessa, è fine a se stessa e si potrebbe dire che sia ricompensa di se stessa. ~

P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, Torino, Einaudi 1998, pp. 58-59, 77-78

Dal seguente brano dello storico Luciano Canfora, tratto da La trasmissione del sapere, emerge il complesso rapporto intrattenuto dalla città di Atene con le comunità filosofiche dell'Accademia e del Liceo. ._

fJI La scuola filosofica si presenta come una organizzazione chiusa, regolata e autosufficiente. Era una "comunità nella comunità", in cui si svolgevano non solo lo studio e il dibattito ma

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l'esistenza stessa di scolarchi 2 e adepti. Non mancano testimonianze, in Diogene Laerzio 3 e in Plutarco4, intorno alla consuetudine di Platone, di Senocrate, di Polemone, di vivere, non soltanto di insegnare, nell'Accademia. Pur nella loro chiusura di "corporazioni" quasi religiose (il modello è il tfaso 5 ), queste associazioni erano tutt'altro che ininfluenti per la vita della p6/is: non solo per i rapporti politici che stabilivano con forze interne ed esterne - il nesso di Platone con Siracusa e il rapporto stretto che legò Aristotele alla corte macedone sono i due casi più noti - ma anche, e non meno, perché finivano col costituire di fatto le sedi di formazione, attraverso una frequentazione più o meno assidua, di una parte del personale politico dirigente (ateniese e non). Il che era già accaduto quando Socrate, pur senza formali strutture di scuola, si era trovato ad allevare personalità decisive per i destini di Atene. [... ] L'isolamento da un lato, dall'altro l'indiretta (non importa quanto voluta) influenza sulla politica facevano sì che associazioni siffatte suscitassero inquietudine nei politici di parte democratica: quasi quanto la misteriosa attività "al chiuso" delle eterie 6 aristocratiche. Particolarmente sospetta doveva apparire una scuola non solo legata ufficialmente alla Macedonia ma sistematicamente guidata da meteci (Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone) quale appunto la scuola di Aristotele. Ed è infatti sotto lo scolarcato di Teofrasto (322-288/286 a.C.), e più precisamente dopo la caduta di Demetrio Falereo (306 a.C.), il quale alla scuola da cui proveniva aveva accordato aperta protezione, che i politici ateniesi hanno tentato di porre fine al fenomeno. Fu varato un decreto, presentato da un certo Sofocle, che vietava in Atene l'insegnamento filosofico salvo esplicito permesso dell'assemblea popolare, e che prevedeva, in caso di contrawenzione, la pena di morte. Il decreto fu subito impugnato "per illegalità" da Filone, un politico che era anche un seguace della scuola peripatetica. Il processo che ne scaturì era incentrato sulla questione della legittimità o meno dei "tiasi" filosofici dal punto di vista del diritto di associazione vigente in Attica. Nonostante l'aiuto venutogli da Democare, nipote di Demostene ed eminente esponente democratico, Sofocle perse. E Teofrasto, che si era prudentemente allontanato da Atene, poté rientrare. ~

L. Canfora, La trasmissione del sapere, in: I Greci, l, Noi e i Greci, Torino, Einaudi 1996, pp. 649-650

2. Scolarca: colui che guida la scuola, ruolo che nell'Accademia fu tenuto, dopoPiatone, da Senocrate e Polemone. 3. Diogene Laerzio: uno storico della filosofia greco, attivo nellll secolo d.C. Nella Raccolta delle vite edelle dottrine dei filosofi espone il pensiero di 84 filosofi, dando conto delle scuole da essi fondate edella successione degli scoli archi. 4. Plutarco: letterato efilosofo greco, vissuto nel lsecolo d.C., Plutarco di Cheronea èautore fra l'altro di Le vite parallele, opera che raccoglie le biografie acoppie di personaggi illustri (uno greco euno romano) ecostituisce per noi una preziosa fonte di informazioni. 5. Ha so: una corporazione, oconfraternita, dedita al culto di Dioniso. 6. eteri a: nell'antica Grecia, erano associazioni di natura politica.

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SEZIONE EPOCHE PtiLIS EFILOSOFIA

Collega i filosofi sotto elencati con il periodo storico nel quale sono stati attivi.

a) Socrate

1) Egemonia di Sparta e poi di Tebe

b) Aristotele

2) Età di Pericle

c) Protagora

3) Egemonia macedone

d) Platone

4) Guerra del Peloponneso

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Metti in luce il rapporto complesso e diversificato fra i filosofi e la città di Atene, soffermandoti in particolare sul significato di svolta che ebbe il processo a Socrate. (max. 5 righe)

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Quali sono gli elementi di continuità e di discontinuità fra i sofisti e Socrate circa il modo di concepire l'attività educativa? (max. 5 righe)

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Riassumi le caratteristiche principali del movimento sofistico. Nel testo dovranno comparire {in un ordine scelto da te) le seguenti parole-chiave: democrazia, retorica, relativismo. (max. 1O righe)

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Al di là dei diversi modi in cui può essere interpretata, qual è il significato generale dell'affermazione di Protagora >, così influenti che gli valsero il titolo di "Commentatore": Dante lo citerà infatti nella Divina Commedia come colui «che il gran commento feo». Di fronte alla molteplicità di sette religiose e di interpretazioni filosofiche egli tentò di determinare con precisione i rapporti tra fede e ragione. Il Corano, in quanto ispirato da Dio, contiene la verità stessa, ma poiché è rivolto a tutta l'umanità la sua forma è tale da poter essere compresa da tutti gli uomini. Vi sono infatti tre possibili livelli di interpretazione del Corano: quello che si avvale di dicommenti

ad Aristotele

mostrazioni necessariamente vere, rivolto ai filosofi; quello fondato su dimostrazioni probabilmente vere, rivolto ai teologi; quello fondato sulle immagini e sull'appello alle passioni, rivolto agli uomini comuni. La sacra scrittura ha così un senso razionale e nascosto per i sapienti e un senso simbolico e manifesto per gli uomini comuni. Averroè ammette che ci siano dei casi in cui una conclusione ottenuta attraverso la ragione possa essere in contrasto con l'insegnamento della fede, ma non dice chiaramente come debbano essere risolti casi del genere. Per questo motivo i suoi avversari gli attribuirono la dottrina della "doppia verità", secondo la quale due affermazioni

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4 - LA SCOLASTICA

contraddittorie potrebbero essere entrambe vere. Averroè non ha però mai sostenuto niente di simile. Certo è, tuttavia, che egli fu uno strenuo sostenitore dei diritti della filosofia e del metodo razionale per lo studio della natura, posizione che fu spesso considerata con sospetto dai teologi. In metafisica Averroè accoglie il pensiero di Aristotele, dalla dottrina della sostanza a quella delle cause, da quella del movimento a quella della conoscenza. Come per Aristotele, il Dio di Averroè non è un soggetto personale ma semplicemente il primo motore della realtà che gli è subordinata. Oltre alla questione della doppia verità ce n'è un'altra che suscitò un particolare dibattito: quella dell'immortalità dell'anima individuale. Per Aristotele, e anche per Averroè, qualcosa può passare dalla potenza all'atto soltanto per l'intervento di una causa. Ora, perché l'intelletto, che è capacità di conoscere, possa effettivamente conoscere è necessaria una causa. Aristotele chiama tale causa intelletto agente. Aristotele sostiene (De Anima, III, 5, 18 e 22) che l'intelletto agente è ((Separato)), ((divino ed eternm). Alessandro di Afrodisia (vissuto fra il II e il III sec. d.C.) aveva identificato l'intelletto agente con la mente divina; Averroè con una sostanza separata: per entrambi si tratta di qualcosa che trascende l'individualità dell'uomo. Siccome tale intelletto è separato, tale principio è immortale; ma siccome viene inteso come sovraindividuale ne consegue che l'anima di ogni singolo individuo è mortale. A questa dottrina si opposero i filosofi cristiani, dal momento che il cristianesimo insegnava l'immortalità dell'anima individuale. Alberto Magno (1205-1280) negò che l'intelletto fosse separato dall'anima e lo stesse fece Tommaso d'Aquino. Ponendo l'intelletto attivo nell'anima individuale, essi fornirono una giustificazione razionale alla dottrina cristiana dell'immortalità dell'anima individuale. Nonostante le differenze sulla questione dell'anima, Alberto Magno fu uno dei primi a subire l'influenza del pensiero arabo. Anch'egli sostenitore dell'autonomia della filosofia dalla teologia, redasse alcuni commentari ad Aristotele e

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elaborò, sull'esempio di Avicenna, un'enciclopedia del sapere ispirata a principi aristotelici. Fra i suoi allievi spicca la figura di Tommaso d'Aquino (1225-1274) B 61t•1MM31tltiMWwl il pensatore più influente e originale del Medioevo. Appartenente all'ordine dei domenicani, professore a Parigi e a Napoli, Tommaso si avvalse della conoscenza delle opere di Aristotele da poco tradotte in latino e dei commentari arabi per effettuare una grandiosa sintesi fra il pensiero di Aristotele e il cristianesimo. Nella sua vasta produzione spiccano le due Summae: la Summa contra gentiles e la Summa theologiae. La maggior parte dei suoi scritti sono di carattere teologico, ma ci sono anche opere strettamente filosofiche come De ente

et essentia, De principia naturae, De aeternitate mundi. Tommaso distingue nettamente fra l'indagine filosofica e quella teologica. Mentre la filosofia si avvale della ragione, la teologia presuppone la fede nella rivelazione divina. Anche se la ragione non è sufficiente per scoprire ciò che può essere conosciuto dagli uomini soltanto attraverso la rivelazione, come per esempio la credenza nella'trinità, Tommaso ritiene che è impossibile che le verità di fede siano in contrasto con quelle scoperte dalla ragione. In tal caso infatti o la fede o la ragione asserirebbero il falso il che è impossibile perché entrambe sono doni divini e Dio non può mentirei. Di conseguenza è possibile utilizzare la ragione anche per lo studio delle questioni teologiche. Tommaso distingue anche l'ordine in cui deve procedere la teologia da quello in cui deve procedere la filosofia. La teologia parte dalla credenza in Dio e dalla rivelazione per conoscere le implicazioni che tali credenze hanno per il mondo creato. La filosofia parte invece dall'indagine del creato per arrivare alla conoscenza di Dio concepito come causa della realtà e fine della ricerca filosofica. Nonostante l'autorevolezza che Tommaso ben presto si guadagnò, anch'egli ebbe degli avversari. Uno dei più acuti fu lo scozzese Giovanni Duns Scoto (1270-1308, soprannominato doctor subtilis) appartenente all'ordine dei francescani. Egli

concepisce Dio come un essere infinito e, fra tutti gli attributi divini, privilegia quelli dell'amore e della volontà sull'intelligenza. È appunto lavolontà creatrice divina che sta all'origine del mondo creato. Un punto di rilevante contrasto fra Tomcritiche,opposizionee maso e Duns Scoto è la teoria delalternative a Tommaso la conoscenza. Mentre infatti Tommaso intendeva l'intelligenza umana come conoscenza per astrazione, Duns Scoto le attribuisce una facoltà intuitiva, cioè una forma di conoscenza che non si avvale di giudizi o di ragionamenti e che è l'immediata esperienza di una certa condizione dell'esistenza. Questa forma di conoscenza, detta intuizione intellettuale è necessaria non solo per spiegare la certezza che abbiamo delle verità primarie, come "io penso", ma anche per render conto della conoscenza che avremo dì Dio nell'altra vita. Altre posizioni alternative al tomismo nacquero tra il XIII e il XIV sec., segni di una più generale crisi della scolastica. Meister Eckhart (12601327) fu l'iniziatore della mistica tedesca. Deciso negatore della via razionale, su cui si fondava l'aristotelismo tomistico, per giungere alla conoscenza di Dio egli riprese la teologia negativa dello Pseudo-Dionigi e di Scoto Eriugena. L'elemento centrale della sua riflessione consiste nel ritenere che Dio si manifesti all'uomo solo quando quest'ultimo riesca a far tacere ogni attività della sua anima: quando l'anima si è ridotta a nulla allora essa può essere riempita dalla presenza di Dio in una esperienza mistica che si avvicina a quella dei santi. L'uomo diventa allora letteralmente tutt'uno con Dio. Oltre a tale tesi la Chiesa Romana trovò altre ventisette proposizioni eretiche nell'opera di Eckhart, che fu condannata nel 1329. Ma l'iniziatore di un nuovo modo di fare teologia, della così detta "via moderna", fu Guglielmo di Ockham liJ7 . Il sapere tradizionale necessita, secondo Ockham, di rigorose verifiche critiche. Fra i metodi di verifica Ockham include anche il ricorso all'esperienza, che consiste, nel caso della teologia, nel richiamo alle sacre scritture. Ad Ockham viene attribuito un prin-

cipio, che in realtà si trova già in Aristotele, adottato tutt'oggi nell'indagine scientifica: il cosiddetto rasoio di Ockham. Tale principio raccomanda la parsimonia e la semplicità nella costruzione delle teorie. Esso stabilisce che non si deve presupporre l'esistenza di entità che non sono richieste dal buon funzionamento di una teoria: (Wntia non sunt multiplicanda sine necessitate)). L'emergere della coscienza della necessità di un modo nuovo di fare filosofia è presente anche nell'inglese Ruggero Bacone (1214-1292) che fu uno dei primi filosofi medievali dell'occidente la~ tino a leggere e a commentare le opere di Aristotele appena riscoperte, soprattutto quelle concernenti la natura. Egli dedicò le sue L'esigenza della energie a investigare e a promuo- sperimentazione vere la conoscenza di quegli argomenti che considerava negletti come, appunto, le scienze della natura. Lo studio della matematica era per lui, insieme alla sperimentazione, la chiave per accedere alla conoscenza della natura. Bacone riteneva che, benché la Bibbia fosse' la base della conoscenza umana, l'uomo potesse con profitto usare la ragione. Una ragione non intesa però come strumento per produrre sillogismi, ma piuttosto come mezzo per formulare ipotesi circa gli eventi naturali che dovevano poi essere confermate dall'esperienza.

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El:!l,OSOFIA

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5 Quaestiones Dopo aver considerato la filosofia medievale nella sua evoluzione storica vediamo adesso, da un Temi di punto di vista sistematico, alcuni filosofia medievale dei temi di cui i filosofi medievali si sono occupati. Si tratta di temi che, in alcuni casi, presentano anche oggi un interesse per la filosofia della religione. Secondo l'uso della scolastica chiameremo gli argomenti discussi nei paragrafi seguenti quaestiones.

5.1 Quaestio prima: gli attributi divini Per attributi divini si intendono le proprietà di Dio. Queste proprietà possono cambiare a seconda delle religioni, ma nella tradizione medievale, tanto latina quanto araba, esse sono sostanzialmente le seguenti: onnipotenza, anniscienza, infinita bontà, eternità, semplicità. Si tratta di proprietà essenziali ed esclusive di Dio. Altrettanto essenziale per la trazione cristiana è il concepire Dio come persona, cioè come un ente capace di dire "io", dotato di volontà e pensieri propri. Dio è inteso inoltre come il creatore dell'universo e come colui che continua a preservarlo nell'esistenza. Onnipotenza: è il potere al massimo grado. Alcuni filosofi, soprattutto Cartesio nel XVII secolo, hanno ritenuto che l'onnipotenza implichi la capacità di fare assolutamente tutto, incluso ciò che è logicamente impossibile. Pur essendo impossibile che la somma degli angoli interni dei triangoli euclidei sia diversa da 180 gradi, se Dio volesse potrebbe far sì che la somma degli angoli interni dei triangoli sia diversa da 180 gradi? L'attributo dell'onnipotenza ha dato luogo a una serie di paradossi che mostrano come questo concetto sia ben lungi dall'essere chiaro. 1) Può Dio svolgere compiti contraddittori? Se può allora dovrebbe esser capace di rendere se stesso contemporaneamente onnipotente e non-on-

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SEZIONE EPOCHE

CIUSTIANESifJ!O E

nipotente, il che è assurdo. Se non può allora c'è comunque qualcosa che Dio non può fare, e quindi non è onnipotente. 2) Dio può cessare di essere onnipotente? Se lo può allora, nel momento in cui cessa di essere onnipotente, non è più onnipotente. Se non può allora c'è qualcosa che non può fare. 3) Potrebbe Dio creare una pietra così pesante che neppure lui fosse in grado di spostare? Se non può crearla allora c'è qualcosa che Dio non può fare, se può crearla e non può spostarla allora c'è ancora qualcosa che non può . fare. Oltre a generare paradossi di per sé, l'attributo dell'onnipotenza entra in conflitto con altre proprietà divine, come nel caso della veridicità. Nella concezione tradizionale Dio è somma verità. Questo significa che Dio non può mentire? Se non può allora c'è qualcosa che non può fare, se può allora l'onnipotenza divina sarebbe incompatibile con l'attributo della veridicità. Onniscienza: è la conoscenza illimitata. Se è illimitata, Dio conoscerà la verità non solo di tutte le proposizioni passate e presenti, ma anche di quelle future. L'onniscienza comprende dunque la prescienza. La conoscenza degli eventi futuri è inoltre richiesta dalla credenza nella profezia (Dio non potrebbe rivelare il futuro ai suoi profeti se non lo conoscesse) e nella provvidenza (Dio non potrebbe avere un progetto per la storia umana se non conoscesse ciò che accadrà). Ma la prescienza degli avvenimenti futuri sembra essere incompatibile con il libero arbitrio, cioè con la libertà del volere umano. Infatti se Dio sa che domani io farò l'azione x, allora io domani farò necessariamente l'azione x (altrimenti, come osserva Boezio, Dio avrebbe una conoscenza falsa) e quindi non sono libero di compiere l'azione x né, tantomeno, l'azione y. Nel caso, poi, che l'azione x sia malvagia allora si verificherebbe l'assurdo che io sarei colpevole di una azione che non ho potuto evitare. Quindi l'onniscienza divina sembrerebbe in-

compatibile tanto con la libertà di scelta quanto con la responsabilità (e dunque con l'attribuzione di colpa) delle azioni. Alcuni filosofi hanno dunque ritenuto che la prescienza sia incompatibile con la libertà umana, libertà che, non meno dell'onniscienza divina, è decisamente affermata nella tradizione cattolica. Boezio ha cercato di risolvere il problema distinguendo il volere compiere un'azione dal dovere compierla: Dio sa che io vorrò compiere una certa azione ma da ciò non segue che io debba compierla. Un'altra soluzione è quella contenuta nella concezione di Agostino dell'eternità di Dio. Siccome Dio è eterno, ai suoi occhi non c'è distinzione tra passato, presente e futuro. Dio è fuori dal tempo e quindi conosce tutti gli eventi simultaneamente. Quindi, a rigore, non c'è prescienza divina, ma solo scienza. Infinita bontà (onnibenevolenza): viene intesa non solo come il perfetto ben agire e ben volere ma anche come l'incapacità di fare il male. La volontà divina, dirà Kant (1724-1804), non è buona ma santa, cioè incapace di fare e di volere il male. Se questo attributo viene posto in relazione con la presenza del male nel mondo allora si ha un insieme di problemi che hanno a lungo travagliato i filosofi (ne troviamo una discussione addirittura precedente il cristianesimo, in Epicuro) e che ha dato vita a un vero e proprio settore di studi, detto teodicea, che cerca di giustificare la bontà di Dio di fronte all'esistenza del male nel mondo. Infatti la bontà divina si scontra con la sua onnipotenza. Se Dio è infinitamente buono, poiché nel mondo c'è il male (sia morale che fisico) allora non è infinitamente potente: in quanto infinitamente buono Dio dovrebbe voler togliere il male dal mondo, ma siccome il male c'è allora significa che non può toglierlo, e quindi non è onnipotente. Se, viceversa, Dio è onnipotente allora potrebbe togliere il male dal mondo, ma siccome il male c'è allora significa che non vuole toglierlo e quindi che non è infinitamente LA PROTESTA DI GIOBBE: PERCHE IL MALE? buono. Semplicità: si tratta di una caratteristica nor-

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malmente attribuita a Dio dalla teologia medievale. Secondo tale caratteristica Dio non ha parti, non solo in senso spaziale o temporale ma anche nel senso che i suoi attributi non sono in lui veramente distinti. L'onnipotenza, l'onniscienza, l'essere, l'esistenza, la bontà ecc. coincidono tutti. La semplicità ha suscitato perplessità perché sembra difficile conciliarla con la dottrina della trinità. Agostino ha elaborato un modo per risolvere la questione fondato sulla distinzione tra sostanza e persona: in Dio vi sono tre persone ma un'unica sostanza. Boezio era ricorso a metafore come quella della sovrapposizione di punti: si possono disegnare più punti uno sull'altro senza ottenere qualcosa di diverso da un punto. Nessuna delle soluzioni è tuttavia parsa interamente soddisfacente e la questione della trinità è, per i cristiani, materia di fede e non di argomentazione razionale. Immutabilità: in Dio non avvengono mutamenti di sorta. Questo attributo sembra entrare in conflitto con quello dell'onniscienza. Se, per esempio, Dio sa che oggi è martedì e non crede che oggi sia mercoledì, domani saprà che è mercoledì e non crederà più che sia martedì. Ma se è così allora Dio cambia le sue credenze e quindi in lui avvengono dei mutamenti.

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5.2

Quaestio secunda: l'esistenza di Dio I problemi di cui sopra hanno indotto i filosofi cristiani o a elaborare una nozione più coerente di Dio, oppure a sostenere apertamente l'im-

possibilità di parlare razionalmente di Dio (come nel caso del misticismo e della teologia negativa). Ma anche quando si riesca a elaborare un concetto coerente di Dio, ciò non significa però anche dimostrare che Dio esista realmente. I teologi hanno infatti cercato di fornire delle prove razionali per dimostrare l'esistenza di Dio. Tale è il compito della cosiddetta teologia naturale, la quale cerca di dimostrare l'e-

SEZIONE EPOCHE CRISTIANESIMO EFILOSOFIA

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5- QUAESTIONES

sistenza di Dio a partire da ciò che è conoscibile dagli esseri umani mediante l'impiego delle sole doti naturali, cioè conoscibile senza l'intervento della rivelazione soprannaturale contenuta nelle sacre scritture. La teologia naturale nutre anche l'ambizione di convincere tutti gli uomini dell'esistenza di Dio in quanto si appella ad una facoltà comune a tutti gli uomini: la ragione. Nel corso dei secoli sono stati prodotti vari argomenti per dimostrare l'esistenza di Dio, i principali dei quali sono esposti nei moduli sul Proslogion sl)ji@M•I•RMitìfi@Xffl@m e su Tommaso lil61!t!MM4itB•W•liliM

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5.3

Quaestio tertia: la creazione Come conseguenza dell'attributo dell'onnipotenza, la tradizione cristiana attribuisce a Dio la capacità di creare dal nulla. L'aver creato il mondo dal nulla è quanto, come è noto, suggeriscono le prime righe della Genesi, anche se occorre osservare che in un altro libro del Vecchio Testamento (Sapienza, 11, 18) si afferma che Dio creò il mondo ROI'ILO

2 Cos'è la filosofia? Il termine 'filosofia' è composto dalle la sapienza parole ph([os e sophfa che significano "amore" e "sapienza" D 1 . Il filosofo, dunque, non è il sapiente ma è colui che ama la sapienza, è colui che la ricerca: e poiché la ricerca non la possiede ancora. La differenza fra il sapiente e colui che non è sapiente, ma ricerca la sapienza, è fondamentale per capire il pensiero di Socrate. Socrate illustra tale differenza ricorrendo a un mito: il mito di Eros, figlio di Pòros (''Acquisto") e Penìa (''Povertà"). Eros è colui che desidera ciò che non ha. Eros ha ereditato dalla madre la povertà e dal padre il desiderio di uscirne. Analogamente il filosofo è colui che desidera la sapienza proprio perché non la possiede.

L'amore per

Egli sta in mezzo fra sapienza e ignoranza. Ed ecco come awiene questo. Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente, dal momento che lo è già. E chiunque altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia, né desiderano diventare sapienti. Infatti, l'ignoranza ha proprio questo di penoso: chi non è né bello né buono né saggio ritiene invece di esserlo. E, in effetti, colui che non ritiene di essere bisognoso non desidera ciò di cui non ritiene di aver bisogno. Chi sono allora coloro che filosofano, se non sono i sapienti e neppure gli ignoranti? È ormai chiaro che sono quelli che stanno in mezzo fra gli uni e gli altri. Perciò Eros è filosofo, intermedio fra il sapiente e l'ignorante. E causa di questo è nella sua nascita: infatti, ha il padre sapiente e pieno di risorse (Pòros), e la madre non sapiente e priva di risorse (Penìa). ~

Platone, Simposio, 204 b, in: Thtti gli scritti, Milano, Rusconi 1992

Il significato etimologico della parola 'filosofia', cioè "amore per la sapienza", compare dunque con Socrate. Il filosofo è colui che ha la coscienza di non sapere: questo è il modo in cui Socrate interpreta il responso dell'oracolo di Apollo. La consapevolezza dell'ignoranza e il desiderio di superarla spingono Socrate a interrogare coloro che sono ritenuti sapienti. Ma nel far questo, scopre che i sapienti sono

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SEZIONE AUTORI SO(l'IATI:

in realtà degli ignoranti. Socrate diviene dunque un personaggio scomodo, e questo è presumibilmente il vero motivo del processo e della condanna. Ecco, dal Fedone platonico, la commossa rievocazione della morte di Socrate: E Critone, udito ciò, fece cenno a un suo servo ch'era in piedi vicino a lu4· e il servo uscì, rimase fuori un po' di tempo, e tornò menando seco l'uomo che doveva dare il · farmaco, che lo portava pestato in una tazza. E Socrate, veduto colui,

Platone, Teeteto 150 A-E, in: Opere complete, Bari, Laterza 1975

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la definizione socratica La tecnica socratica era [... ] induttiva (procedeva per generalizzazioni successive a partire da esempi) e astrattiva (astraeva dalle particolarità dei casi concreti presi di volta in volta in esame). [... ] In termini moderni, Socrate - ((SUpponendo dato il concetto in estensione (cioè una classe o specie di oggetti) - cerca le note o proprietà caratteristiche, che valgono a determinarne la comprensione, che è per lui l'essenza della cosa da definirell ([ ... ] 'Definizione', in Enciclopedia italiana). Tale ricerca presuppone che ((ad ogni classe o specie, naturalmente data, risponda un'idea che ne esprime l'unità>>. Ora, se possiamo dire di aver conoscenza, e non solo opinione, su alcunché, bisogna che sappiamo di cosa stiamo parlando e che cosa esattamente gli stiamo attribuendo: conoscere implica definire. Ma se nessuna lista di esempi concreti di una nozione può costituire una sua definizione, sembra che ci debba essere qualcosa cui le nozioni si riferiscono indipendentemente dagli esempi concreti. Platone fece questo passo, argomentando l'esistenza di un mondo di Idee, o Forme, astratte: le cose materiali ne sono imitazioni, copie più o meno riuscite. 1>

A. Peruzzi, Definizione, Firenze, La Nuova Italia 1997, pp. 19-20

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PROFILO

la morale Immagina di aver condotto una viragionamenti ta esemplare, di aver sempre rimorali spettato le leggi e la morale, di esserti adoperato per il bene del prossimo, di non aver fatto mai niente di male. E immagina, inoltre, di esser stato ingiustamente processato e condannato a morte, e di essere in carcere in attesa dell'esecuzione della sentenza. I tuoi amici ti propongono un piano di fuga, un piano che non presenta nessun rischio e che riuscirà con certezza. Che cosa faresti? Ebbene, Socrate si è trovato esattamente nella situazione immaginata. Ci è descritta nel Critone, l'autore del quale è sempre Platone: gli amici di Socrate gli propongono un piano di fuga, ma Socrate rifiuta di metterlo in atto. Per arrivare a tale decisione usa i seguenti argomenti. 1) Non bisogna mai danneggiare nessuno. Con la fuga Socrate danneggerebbe lo Stato perché violerebbe la legge e ne dimostrerebbe disprezzo. 2) Vivere in uno Stato significa accettarne i patti di convivenza, cioè le leggi. Fuggendo Socrate violerebbe un patto. 3) Lo Stato è di fatto il nostro maestro e genitore, i maestri e i genitori vanno rispettati. Fuggendo Socrate disubbidirebbe ai maestri e ai genitori. Conclusione: Socrate non deve fuggire. Siamo qui di fronte a un modello di ragionamento morale. Tale modello di ragionamento serve per decidere ciò che si dovrebbe fare in una situazione particolare a partire da principi o norme generali. Nel caso di Socrate questi principi o norme sono quelli elencati ai punti 1, 2 e 3. Aristotele ha chiamato questo tipo di ragionamento sillogismo pratico. Ciò che dobbiamo fare in una data situazione deriva come conclusione da premesse generali che costituiscono le norme o i valori morali. Si può dire che Socrate sia stato il fondatore del ragionamento morale. Si tratta però di un modo di considerare l'agire morale che non è privo di problemi. Un primo problema sorge nel caso in cui ad una stessa situazione possono applicarsi Dilemmi e

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due o più norme diverse. I filosofi della morale chiamano questo caso conflitto di doveri. Nell'Apologia Socrate dice che: 4) il suo insegnamento è necessario al bene dello Stato; 5) il dovere di insegnare gli è stato assegnato da Apollo, attraverso l'oracolo di Delfi. Da 4 e da 5 Socrate avrebbe potuto concludere in favore della sua fuga. S

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Socrate nella caricatura di Aristofane SocRATE: Ne devi imparare di roba [... ], per esempio quali sono i quadrupedi maschili. STREPSIADE: Ma li so, non sono mica scemo: il montone, il capro, il toro, il cane e il pollo. SocRATE: Vedi, per esempio: tu chiami pollo anche la gallina. STREPSIADE: Come? SocRATE: Chiami pollo tutt'e due, no? STREPSIADE: Certo. E come dovrei chiamarli? SocRATE: Il maschio "pollo" e la femmina "polla". STREPSIADE: "Polla". Bene, per l'aria! In cambio di questa sola lezione ti riempirò la mano di denaro. SocRATE: Ci risiamo; mi fai maschile la femmina. STREPSIADE: lo la faccio maschile? [... ] Come devo dire, d'ora in avanti? SOCRATE: La mana [... ]. STREPSIADE: La mana? SocRATE: Proprio così; e Cleonima pure. Ma i nomi propri devi ancora impararli, quali sono maschili e quali femminili. STREPSIADE: : l femminili li SO. SOCRATE: Dimmeli. STREPSIADE: Lisilla, Filinna, Clitagora, Demetria. SOCRATE: E i maschili? STREPSIADE: Quanti ne vuoi. Filosseno, Melesia, Aminia ... SocRATE: Sciocco, mica sono maschili, questi. STREPSIADE: Ah no, non sono maschili, per voi? SocRATE: No. Se trovi per strada Aminia, come lo chiami? STREPSIADE: Con un gesto, direi. SocRATE: Ma insomma lo vedi che Aminia è nome da donna? STREPSIADE: Meglio per lui che non fa il servizio militare. -. Aristofane, Le nuvole in: Gli arcanesi. Le nuvole. Le vespe. Gli uccelli, Milano, Garzanti 1983, pp. 92-94

Un modo per risolvere il conflitto è quello di decidere quali valori sono più importanti di altri, evidentemente, per Socrate 1, 2 e 3 hanno avuto la precedenza su 4 e 5. Ma, d'altra parte, dare la precedenza a 2 avrebbe potuto significare anche decidere per la fuga dal momento che non fuggire, e quindi morire, avrebbe significato violare 5 perché sarebbe stato violato un tacito patto stabilito fra Socrate e Apollo. Un secondo problema nasce dal fatto stesso di L'azione segue considerare l'agire come una mesla ragione? sa in pratica della conclusione di un ragionamento. Il ragionamento morale può portare a delle conclusioni che poi non vengono attuate. La ragione può indicarci che cosa dovremmo fare ma noi possiamo non farlo. Molti filosofi hanno sottolineato il fatto che la nostra volontà può rifiutarsi di mettere in pratica quello che la ragione ritiene giusto. O, viceversa, la volontà può compiere atti che la ragione ritiene ingiusti. Le azioni sono determinate dalla volontà, e la volontà non può essere influenzata dalla ragione: quante

volte sappiamo che cosa dobbiamo fare, eppure non lo facciamo! I filosofi della morale parlano in questo caso di debolezza della volontà. Ma Socrate la pensava diversamente: secondo lui, chi sa cosa deve fare immancabilmente lo farà. Se sapete cosa dovete fare e non lo fate in realtà, secondo Sacrate, non sapete veramente che cosa dovete fare. Se sapete che cosa è il male non è possibile che facciate il male: nessuno può volere il male! Se, dun-que, fate il male è perché non sapete veramente che cosa è il male. Di conseguenza chi agisce malvagiamente lo fa per ignoranza. Questa posizione di Socrate nei confronti della morale è stato etichettata con il termine intellettualismo etico per sottolineare la tesi secondo la quale le nostre azioni morali sono dettate dall'intelletto. L'espressione 'intellettualismo etico' ha però una connotazione negativa: essa tende a mettere in luce il limite di tutte le concezioni della morale che sottovalutano i casi, frequentissimi, di debolezza della volontà.

Vita e opere Socrate nacque ad Atene nel 470 o nel 469 a.C. Suo padre, Sofronisco, era scultore e sua madre, Fenarete, levatrice. Sembra che prima di dedicarsi alla filosofia abbia esercitato il mestiere di suo padre. Servì come oplita nell'esercito durante la guerra del Peloponneso (431-404), partecipando a varie battaglie e distinguendosi per il coraggio e per la capacità di sopportare i disagi. Eletto nel Consiglio dei Cinquecento, fu l'unico ad opporsi ad un procedimento illegale con cui si volevano perseguire i generali vincitori della battaglia delle Arginuse, accusati di non aver fatto tutto il possibile per salvare i feriti e i naufraghi. Un paio di anni dopo si rifiutò di obbedire a Crizia, capo dei Trenta Tiranni e suo amico di un tempo, che gli aveva ordinato di eseguire un arresto illegale. La caduta di Crizia e della tirannia lo salvò dalla probabile punizione. Ma dovette apparire alla restaurata democrazia compromesso con il regime precedente, non solo per la sua passata amicizia con Crizia ma anche per quella con Alcibiade, un suo discepolo che aveva sollecitato Sparta a contrastare il potere ateniese in Sicilia. Il suo insegnamento dovette poi sembrare troppo critico nei confronti delle credenze e dei costumi tradizionali della p6/is. Nel 399 fu denunciato per empietà e corruzione dei giovani da Meleto e Anito. Quasi sicuramente i suoi accusatori miravano ad esiliarlo, ma il suo atteggiamento intransigente lo condusse alla condanna a morte, che fu eseguita alla fine della primavera o all'inizio dell'estate di quello stesso anno. Dovendo scegliere fra l'accettare la condanna e continuare a vivere interrompendo le sue ricerche, scelse la prima dichiarando che (Wna vita senza ricerca non è degna d'essere vissuta)).

SEZIONE AUTORI

SOCRATE

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La dialettica

l testo 1 Il brano seguente, tratto dal dialogo platonico La chete, è esemplare per comprendere in che cosa consista il metodo dialettico con cui Sòcrate conduce la ricerca della definizione. Il dialogo prende awio da un problema posto da Lisimaco e Melesia: se sia utile per l'educazione dei loro figli apprendere l'arte della scherma. Vengono interpellati due militari, Nicia e Lachete, i quali hanno opinioni opposte. Per Nicia apprendere l'arte della scherma è utile all'educazione dei giovani, per Lachete no. In particolare si discute se l'esercizio della scherma possa servire a sviluppare il coraggio. Viene chiesto il parere di Socrate il quale osserva che, prima d'interrogarsi sull'utilità del mezzo (la scherma), conviene venire in chiaro circa il fine che in questo caso si persegue: che cos'è il coraggio? La prima risposta di Lachete si limita a proporre un esempio, e non corrisponde perciò alla richiesta di una definizione, che dev'essere generale e non particolare. La seconda risposta, secondo la quale il coraggio consisterebbe nella fermezza d'animo accompagnata dall'intelligenza, possiede i requisiti di una definizione, della quale però Lachete, esaminandola insieme a Socrate, non riesce a dare ragione. Si perviene così, dopo un breve interludio, a una terza definizione, fornita da Nicia, per la quale il coraggio sarebbe il saper distinguere fra ciò che è pericoloso e ciò che non lo è. Ma anche questa definizione, sebbene Nicia affermi di averla appresa dallo stesso Socrate, risulta infine inadeguata, perché non consentè di distinguere il coraggio, in quanto virtù specifica, dalla virtù in generale. La conclusione del dialogo è quindi aporetica, cioè priva di soluzione, ma lo scopo di Socrate è stato raggiunto: i suoi interlocutori ora sanno, di se stessi, qualcosa che prima non sapevano: sanno di non sapere che cos'è il coraggio. SocRATE: Ecco. lnnanzitutto, o Lachete, incominciamo a dire cos'è il coraggio e, dopo, studieremo anche in quale modo se ne procuri la presenza ai giovani, per quanto è possibile che l'acquistino tramite gli esercizi e lo studio. Ma provati a rispondere alla mia domanda, cos'è il coraggio. LACHETE: Per Giove, o Socrate, non è difficile dirlo: quando un soldato resta al suo posto, combatte contro i nemici e non fugge, ecco, quest'uomo è coraggioso. SocRATE: Hai ragione, Lachete, ma forse la colpa è mia se, per non essermi spiegato chiaramente, hai risposto non a ciò che pensavo, ma ad altro. LACHETE: Che vuoi dire, o Socrate? SocRATE: Cercherò di spiegartelo, se ne sono capace. Senz'altro è coraggioso il soldato che descrivi, che resta al suo posto e combatte contro i nemici. LACHETE: lo almeno credo. SocRATE: Anch'io lo credo. Ma che dire di quell'altro che abbandona il posto ma combatte contro i nemici mentre fugge? LACHETE: Mentre fugge?

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SEZIONE AUTORI SOCRATE

SocRATE: Sì, Come gli Sciti, per esempio, di cui si dice che combattono fuggendo non meno bene che mentre avanzano, e come Omero anche, che loda i cavalli di Enea {d quali velocemente qua e làll sapevano {dnseguire e fuggirell. E lodò per questo motivo lo stesso Enea, cioè per la sua maestria nella fuga, quando lo definì {{maestro di fugml. LAcHm: E ben fece, o Socrate, perché parlava di carri, e tu pure ti riferisci agli Sciti che sono cavalieri; la cavalleria è proprio così che combatte, ma la fanteria greca combatte come dico io. SocRATE: Eccetto, forse, quella spartana. Perché si dice che a Platea quando si trovarono di fronte i gerrofori non vollero restare a piè fermo a combatterli, ma fuggirono; però, come i Persiani ruppero le file, gli Spartani, all'ordine di far voltafaccia, si misero a combattere al modo di cavalieri e così vinsero quella battaglia. LACHETE: Èvero. SocRATE: Dunque, ti dicevo poco fa che la colpa è mia se non hai risposto bene perché non ti ho posto bene la domanda. Vedi, io volevo interrogarti non solo sul coraggio dei fanti, ma anche su quello dei cavalieri e di tutti i combattenti in generale e non solo su quelli che sono coraggiosi in guerra, ma anche su quanti sono coraggiosi di fronte ai pericoli del mare o di fronte alle malattie, alla povertà, alle vicende politiche, e ancora non solo su quelli che sono coraggiosi contro i dolori o i timori, ma anche sono tremendi combattenti contro i desideri e i piaceri sia stando alloro posto, sia facendo il voltafaccia in fuga. Perché vi sono pure degli uomini, o Lachete, coraggiosi in queste cose. LACHETE: E come, o Socrate! SocRATE: Allora tutti costoro sono coraggiosi, ma gli uni esercitano il coraggio contro i piaceri e gli altri contro i dolori, gli uni contro i desideri e gli altri contro i timori, mentre ve ne sono altri che mostrano viltà nelle stesse circostanze. LACHETE: Certo. SocRATE: lo ti domandavo che cosa sono mai l'una e l'altra. Ecco, provati ancora: dimmi adesso cos'è il coraggio, per restare lo stesso in tutte queste circostanze, o non capisci ancora cosa voglio dire? LACHETE: Proprio no. SocRATE: Mi spiego. Supponi per esempio che ti chiedessi cos'è la velocità, la velocità che può trovarsi in noi sia nella corsa che nel pizzicare la cetra, sia nel parlare che nell'imparare e in molte altre circostanze e che ordinariamente si trova, per riferirei ai casi più importanti, nell'esercizio delle nostre mani, delle gambe, della bocca, della voce e del pensiero. Non sei d'accordo? LACHETE: Certo. SocRATE: Ebbene, se uno mi domandasse: {{Socrate, cos'è questo che in tutte le circostanze chiami velocità?ll io gli risponderei che chiamo velocità la potenza di fare in poco tempo molte cose con la voce, nella corsa, e così via. LACHETE: Risponderesti esattamente. SocRATE: Allora prova anche tu o Lachete a dire lo stesso per il coraggio; che potenza è che si ritrova identica nel piacere e nel dolore e in tutte le circostanze che menzionavamo poco fa e che vien chiamata coraggio. LACHETE: Mi sembra una certa forza dell'anima se occorre dire quello che è di natura in tutte le circostanze. SocRATE: Sì che occorre, almeno se vogliamo rispondere alla nostra domanda. Tuttavia una cosa mi pare, che cioè non ogni forza dell'anima, a quanto vedo, è coraggio. Ed eccotene il perché: credo di sapere che tu annoveri il coraggio fra le cose bellissime.

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antologia LACHETE: Lo sai bene: fra le più belle. SocRATE: Non è forse quando è congiunta all'intelligenza oculata che la forza è bella e buona? LACHETE: Certo. SocRATE: Eche ne è quando è accompagnata da stoltezza? Non è, tutto al contrario dell'altra, dannosa e nociva? LACHETE: Sì. SoCRATE: Chiamerai, allora, bella una cosa che è dannosa, e nociva? LACHETE: Non sarebbe giusto, o Socrate, se lo facessi. SocRATE: Non sarai dunque d'accordo a chiamare il coraggio questa specie di forza, dal momento che non è bella, mentre il coraggio lo è. LACHETE: Hai ragione. SoCRATE: Ma a seguitare il tuo ragionamento il coraggio sarebbe dunque la forza intelligente. LACHETE: Probabilmente. SocRATE: Vediamo dunque, intelligente in che? Forse intelligente riguardo ogni cosa, le grandi come le piccole cose? Per esempio se un uomo ha la forza d'animo di fare un'oculata e intelligente spesa in previsione d'un guadagno superiore, lo chiameresti coraggioso? LACHETE: Per Giove, non certo io. SocRATE: Ma invece, per esempio, se un medico, a cui il figlio, o qualunque altro, sofferente di polmonite chiede da mangiare o da bere, non piegasse e resistesse con forza d'animo? LACHETE: No, neppure questo è coraggioso. SocRATE: E in guerra uno che con calcolo intelligente sia forte e resoluto a combattere, sapendo che altri verranno in suo aiuto, e combatte contro un gruppo minore e più inetto di quello in cui egli stesso si trova, ed in più sta in una posizione vantaggiosa, quest'uomo la cui forza s'accompagna con tanta intelligente preparazione di vantaggi lo chiameresti più coraggioso di quello che nella schiera avversaria fa fronte e resiste? LACHETE: No, ma quello nella schiera avversaria, direi coraggioso, o Socrate. SocRATE: Però la sua forza è meno intelligente di quella dell'altro. LACHETE: È vero. SoCRATE: E chi con forza sta in uno scontro di cavalleria e sia esperto d'arte ippica, lo dirai meno coraggioso di uno che stia ugualmente ma sia sprovvisto di quell'arte? LACHETE: Mi pare di sì. SocRATE: E lo stesso dirai del fromboliere, dell'arciere, e d'ogni altro esperto dell'arte sua? LACHETE: Senz'altro. SocRATE: Così quanti sono pronti a mostrare forza d'animo nei pozzi o nei tuffi sott'acqua o in altre prove simili, pur senz'essere del mestiere, li chiamerai in ciò più coraggiosi di quelli che lo fanno di mestiere? LACHETE: Come potrei negarlo, o Socrate? SocRATE: Impossibile: se la si pensa così. LACHETE: Ma è COSÌ che la penso. SocRATE: Tuttavia, Lachete, costoro corrono rischi e mostrano una forza dell'anima ben più sprovvista d'intelligenza di coloro che praticano ciò di mestiere. LACHETE: Evidentemente. SocRATE: Ma non c'era parso evidente poco fa che l'audacia e la forza dell'anima sprovvista d'intelligenza è brutta e dannosa? LACHETE: Sì.

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SocRATE: Mentre s'era d'accordo almeno che il coraggio è bello. LACHETE: Sì, s'era d'accordo. SocRATE: Ed ecco che ora, al contrario, diciamo che il coraggio è brutto, cioè forza dell'anima sprovvista d'intelligenza. LACHETE: Parrebbe. SocRATE: Ti pare che abbiamo ragionato bene? LACHETE: No, per Giove, o Socrate a me non pare dawero. SocRATE: Così che tanto io che te, o Lachete, per usare la tua espressione, non ci siamo certo armonizzati alla dorica, perché i fatti non corrispondono alle parole; giacché nei fatti, a quanto pare, si potrebbe dire di noi che siamo dei coraggiosi, ma a parole, invece, se la gente sentisse i nostri ragionamenti, parrebbe proprio di no. LACHETE: Verissimo. SocRATE: Che fare? Ti pare che ci troviamo in belle acque? LACHETE: Neanche per sogno. SocRATE: Vuoi allora che ubbidiamo al nostro discorso almeno in parte? LACHETE: In che parte? Quale discorso? SocRATE: Il discorso che ci esorta a star forti d'animo. Se dunque vuoi, anche noi resteremo al nostro posto e resisteremo con forza nella ricerca: altrimenti il coraggio stesso si farebbe beffe di noi che non lo ricerchiamo con coraggio, dato che spesso la forza dell'anima è coraggio. LACHETE: Eccomi pronto, o Socrate, a non defezionare, sebbene a dire il vero non sia abituato a questi discorsi. Tuttavia mi ha preso una tal voglia di spuntarla di fronte ai discorsi che letteralmente sono in collera di non essere capace di esprimere proprio quanto ho in testa. Mi sembra d'avere l'idea chiara di cos'è il coraggio, e non so come mi sia sfuggita via sì da non poterla afferrare con la parola e dire che cos'è. SocRATE: Ebbene, mio caro, il buon cacciatore corre dietro alla preda e non le dà tregua. LACHETE: Senz'altro. SocRATE: Vuoi allora che invitiamo anche Nicia a entrare nella caccia, nel caso che gli riesca meglio che a noi? LACHETE: Si, certamente. SocRATE: Su, Nicia, aiuta questi amici tuoi che non hanno via di scampo nella bufera dei loro ragionamenti. La nostra situazione, come vedi, è disperata. Tu dicci cosa pensi che sia il coraggio e tiraci fuori da questo imbrago mettendo le tue parole a sostegno del tuo pensiero. NiCIA: Penso già da qualche tempo, o Socrate, che voi non definiate bene il coraggio. Perché voi non utilizzate un'idea giusta che pur t'ho sentito dire altre volte. SOCRATE: Quale, O Nicia? NiCIA: Spesso t'ho sentito dire che ciascuno di noi è buono nelle cose che sa, mentre nelle cose che non sa è cattivo. SocRATE: È vero, per Giove, o Nicia. NiCIA: Ora se chi è coraggioso è buono, evidentemente sarà anche sapiente. SocRATE: Hai sentito, Lachete? LACHETE: Sì, ma non capisco bene cosa vuoi dire. SoCRATE: Ma io credo di capire e mi pare che intenda che il coraggio è una certa forma di sapienza. LACHETE: Quale sapienza, o Socrate? SocRATE: Ma non è lui che interroghi? LACHETE: Sì.

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SocRATE: Sù digli, o Nicia, che razza di sapienza sarebbe il coraggio, nella tua idea. Perché non è certo la sapienza del flautista. NICIA: Ma no! SocRATE: Neppure quella del citarista. NICIA: No, certo. SocRATE: Qual è dunque e di che cosa è scienza? LACHETE: Ecco la domanda esatta, o Socrate. Ci dica qual è. NICIA: Questa, dico io, o LACHETE: la scienza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare, in guerra come in tutte le altre circostanze. LACHETE: Che assurdità, o Socrate. SocRATE: Riguardo a che cosa, o Lachete? LACHETE: Riguardo a che? La sapienza non ha nulla da vedere con il coraggio. Questo è certo. SocRATE: Nicia però non la pensa così. LACHETE: No, lo so, per Giove, che non la pensa così, e son sciocchezze che dice! SocRATE: Allora, cerchiamo di farglielo capire ma non diciamo insulti. NICIA: Non è come pensi, o Socrate! Lo so io! Lachete desidera solo che anch'io faccia la figura di parlare a vanvera come ha fatto lui poco fa. LACHETE: Proprio a vanvera, o Nicia, e la prova cercherò di dartela. Dici cose senza senso: guarda, per esempio, nelle malattie i medici non hanno forse conoscenza di ciò che v'è da temere? Forse credi che i coraggiosi sappiano e chiami tu coraggiosi i medici? NICIA: No, in nessun modo. LACHETE: Immagino neppure i contadini. Eppure essi conoscono certo ciò che si deve temere, nell'agricoltura, e tutti gli altri artigiani conoscono ciò che c'è da temere e da osare nelle loro professioni, ma non per ciò sono dei coraggiosi. SocRATE: Che ne dici o Nicia? Ti pare che Lachete dica qualcosa di sensato? NICIA: Dice sì qualcosa, ma non vera. SocRATE: In che senso? NICIA: Nel senso che crede che i medici riguardo gli ammalati sappiano qualcosa di più di quel che sia salute e malattia. Ma essi invece ne sanno solo fino a qui. E se per qualcuno sia più da temere la salute che la malattia, credi tu o Lachete che i medici lo sappiano? O non credi che per molti sarebbe meglio non levarsi piuttosto che alzarsi dallettuccio di malattia? Vediamo! Rispondi: ritieni tu che per tutti sia meglio la vita e che per molti non sia preferibile la morte? LACHETE: Sì, lo credo anch'io. NICIA: Quelli per cui la morte è un guadagno credi tu che abbiano a temere le stesse cose che quelli per cui la vita è un guadagno? LACHETE: No. NICIA: Attribuisci tu dunque questa conoscenza ai medici o a qualunque altro professionista, all'infuori di chi conosce ciò che c'è da temere e il suo contrario e che io chiamo coraggioso? SocRATE: Hai ben chiaro, o Lachete ciò che ti vuoi dire? LACHETE: Sì, chiarissimo, che lui chiama coraggiosi proprio gli indovini, perché chi altri mai saprà per chi sarà un vantaggio vivere o morire? Per altro tu, Nicia, confessi d'essere un indovino o né indovino né coraggioso? NICIA: Che dici? Riservi all'indovino la conoscenza delle cose da temere e da osare? LACHETE: Certo: e a chi altro mai? NICIA: Molto meglio a quello che dico io, mio caro, perché all'indovino spetta di sapere i segni del

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futuro, se awerrà la morte, la malattia, la bancarotta, o la vittoria, la sconfitta nella guerra o in altra contesa. E quale di queste cose sia preferibile che capiti o non capiti, perché l'indovino dovrebbe giudicarlo meglio di qualunque altro? LACHETE: Ma io proprio non capisco, o Socrate, quello che vuole dire. Perché né l'indovino, né il medico né alcun altro egli ammette che sia coraggioso e chi poi sia un coraggioso non lo dice, a meno che non pensi a un qualche dio. A me fa l'impressione che Nicia non voglia onestamente riconoscere d'aver parlato a vanvera, ma si contorce per tutti i versi per nasconderei il suo imbarazzo. Epperò anche noi saremmo stati capaci, poco fa io e te, di contorcerci in questo modo se avessimo voluto evitare d'apparire in contraddizione con noi stessi Ora se fossimo a parlare in tribunale ci sarebbe qualche ragione a fare come fa, ma in una conversazione così fra amici perché mai farsi bello senza senso con dei discorsi insensati? SocRATE: Non vedo anch'io alcuna ragione, o Lachete. Ma stiamo attenti! Nicia crederà pure di dire qualcosa che ha qualche senso, e non parlerà tanto per parlare. Cerchiamo di sapere da lui con più chiarezza ciò che ha in mente. È se è chiaro che significa qualcosa l'ammetteremo; se no cercheremo di farglielo capire. LACHETE: Interroga lo pur tu, Socrate, se vuoi interroga rio: quanto a me, mi pare, ne so abbastanza. SocRATE: Nulla me lo vieta: ché l'indagine sarà comune, per me e per te. LACHETE: D'accordo. SocRATE: Eccomi o Nicia, rispondimi, anzi rispondici, giacché facciamo il discorso in comune io e Lachete: affermi tu che il coraggio è la scienza di ciò che si deve temere o osare? NICIA: Sì. SocRATE: E sostieni che non è da ogni uomo conoscere questa scienza, dal momento che né il medico né l'indovino potranno conoscerla ed essere coraggiosi, a meno che non aggiungano al loro sapere proprio questa scienza. Non dicevi così? NICIA: Così. SocRATE: Dunque è proprio il caso del proverbio: non ogni scrofa potrebbe saper tanto né essere coraggiosa. NICIA: Non ogni scrofa, mi pare. SocRATE: È chiaro, o Nicia, che per te neppure la scrofa crommionia è stata coraggiosa. Non parlo così per scherzare perché è inevitabile, mi sembra, che chi parla così non riconosca il coraggio alle belve, oppure ammetta nel belluino una sapienza, cosicché ciò che pochi uomini conoscono, tanto è difficile da conoscere, lo conoscono invece un leone, una pantera o un cinghiale qualunque. Ma è ancora inevitabile che chi definisce il coraggio come fai tu dica che un leone e un cervo, un toro e una scimmia sono per natura coraggiosi allo stesso modo. LACHETE: Sì, per gli dèi, o Socrate. Hai ragione, e tu di' la verità e rispondici, o Nicia: le fai più sapienti di noi queste belve che tutti d'accordo definiamo coraggiose, oppure vai dritto contro tutti e osi sostenere che non sono coraggiose? NICIA: Non così, o Socrate, perché io non chiamo coraggiosi né le belve né alcun altro essere che non tema i pericoli per ignoranza, mali chiamo privi di paura e stupidi. Hai forse l'idea che io chiami coraggiosi tutti i bambini i quali, per sconsideratezza, non temono nulla? No, ma credo che l'assenza di timore e il coraggio non siano, la stessa cosa. E sono dell'opinione che coraggio e preveggenza siano di pochissimi uomini, mentre la temerarietà, l'audacia e l'impavidezza sconsiderate siano di moltissimi uomini e donne, bambini e fiere. Gli esseri che tu e la gente chiamate coraggiosi io li chiamo temerari, invece, quelli dei quali io parlo sono riflessivi. SocRATE: Ma dunque il coraggio, ottimo amico, è scienza delle cose da temere e di quelle da non

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antologia temere? Pensi così, o no? NiCIA: Così. SocRATE: Ma le cose da temere, siamo d'accordo, sono i mali futuri e quelle da non temere sono i beni futuri. NiCIA: Sì. SocRATE: E d'altra parte una medesima scienza s'applica alle stesse cose, siano esse future o di qualunque altro tempo. NiCIA: È Così. SocRATE: Allora il coraggio non sarc) solo scienza delle cose da temere e da non temere, perché non è conoscenza specializzata solo dei beni e dei mali futuri, ma anche di quelli presenti, passati e d'altro tempo, come ogni altra scienza. NiCIA: È probabile. SocRATE: Così, tu hai risposto, o Nicia, definendo il coraggio solo per una parte, circa un terzo, ma noi ti domandavamo cos'è il coraggio tutto intiero. Ma ora, infine, se si segue il filo del tuo ragionamento, il coraggio non è solo scienza delle cose da temere e da non temere, ma, secondo il tuo stesso discorso, sarebbe pressappoco una scienza dei beni e dei mali tutti in ogni punto del tempo. Vuoi mutare così la tua definizione o che dici? NiCIA: Voglio mutarla così, o Socrate. SocRATE: Ti pare proprio, o divino, che gli mancherebbe qualche parte della virtù a un uomo che conoscesse tutti i beni in tutte le forme, nel presente, nel futuro e nel passato, e così tutti i mali? Credi tu che costui mancherebbe della temperanza, della giustizia e della pietà, lui che, solo, sia verso gli dèi che verso gli uomini con i quali sa come rettamente comportarsi, è in grado di guardarsi accuratamente da quel che s'ha da temere e da quel che no, e di procurarsi i beni? NiCIA: Credo che tu dica qualcosa di sensato o Socrate. SocRATE: Il coraggio di cui parli, o Nicia non sarebbe, una parte della virtù, ma la virtù tutta intiera. NiCIA: Probabilmente. SocRATE: Mentre dicevamo che il coraggio è solo una parte della virtù. NiCIA: Sì, lo dicevamo. Socrate : Ma il coraggio di cui parli tu non sembra una parte. NiCIA: Non sembra, no. SocRATE: Perciò non abbiamo scoperto cos'è il coraggio. NiCIA: Evidentemente no. ~

E Platone, Lachete, 190c-199e, in: Opere complete, vol. 4, Bari, Laterza 1975

La dottrina dell'anima ela"cura di sé" Socrate può essere considerato il fondatore di una delle grandi prospettive antropologiche presenti nel pensiero occidentale: il dualismo, secondo il quale l'uomo è composto di due sostanze diverse, l'anima e il corpo. Concezioni alternative, in particolare quella monista, secondo la quale l'uomo è composto di una sola sostanza, pur presenti nel pensiero antico (ad esempio con Democrito), diventeranno influenti solo con il declino del dualismo, cioè nel pensiero moderno dopo l'ultima grande sistemazione del dualismo compiuta da Cartesio (1596-1650). Non è certo che Socrate abbia sostenuto l'immortalità dell'anima: ne/l'Apologia egli si limita ad esprimere un auspicio in tal senso. Nel Fedone, invece, Platone lo presenta, non sappiamo quanto

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fedelmente, come autore di una vera e propria dimostrazione razionale. Ècomunque assodato che per Socrate l'anima, intesa come principio unitario dell'esperienza morale e intellettuale, è distinta dal corpo ed ha maggior valore rispetto ad esso: il corpo è qualcosa che abbiamo e di cui ci serviamo, l'anima è ciò che siamo. Eprendersi cura di ciò che siamo, è più importante che preoccuparsi di ciò che abbiamo (il nostro corpo, ma anche i beni materialij. L'Aicibiade maggiore è un dialogo platonico la cui autenticità è controversa, ma che restituisce in ogni caso un'immagine plausibile della personalità di Socrate e dei motivi ispiratori del suo pensiero filosofico. Riportiamo qui la parte conclusiva di questo dialogo, dedicata appunto al tema della "cura di sé". SocRATE: Bene. Ecco: cosa significa 'prendersi cura di sé'? perché c'è da temere che spesso ci illudiamo di prenderei cura mentre, per quanto lo si creda, non ne facciamo proprio niente. E quand'è che un uomo ci si mette? È quando uno si prende cura delle sue cose, che egli ha cura di se stesso? ALCIBIADE: Mi sembra di SÌ. SocRATE: Vediamo! Quand'è che un uomo si dà pensiero dei suoi piedi? Forse quando si dà pensiero di ciò che attiene ai suoi piedi? ALCIBIADE: Non capisco. SocRATE: Non dai nome a qualcosa che appartiene alla mano? Prendi un anello: potresti dire che si adatta ad un'altra parte del corpo umano che non sia il dito? ALCIBIADE: No, dawero. SocRATE: Così anche la calzatura appartiene al piede nello stesso modo? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: E vesti e coperte appartengono analogamente all'intero corpo? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Ora, è quando ci diamo pensiero per le scarpe che ci prendiamo cura dei nostri piedi? ALCIBIADE: Non capisco bene, Socrate. SocRATE: Ma come, Alcibiade? Ha per te un qualche senso 'prendersi cura' in modo giusto di una qualunque cosa? ALCIBIADE: Per me SÌ. SocRATE: Ed è quando sì fa una cosa migliore che tu la chiami una giusta cura? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Quale arte migliora la fattura delle scarpe? ALCIBIADE: Quella del calzolaio. SocRATE: Così è per mezzo di codesta arte che ci prendiamo cura delle scarpe? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: E con essa anche del piede? O per mezzo di quella con la quale curiamo il miglioramento dei piedi? ALCIBIADE: Con quest'ultima. SocRATE: E questo miglioramento dei piedi non lo curiamo con l'arte con cui miglioriamo l'intiero corpo? ALCIBIADE: Mi par di SÌ. SocRATE: E non è la ginnastica? ALCIBIADE: Sicuro. SocRATE: Con la ginnastica dunque ci prendiamo cura dei piedi ma con la calzatureria di ciò che appartiene ai piedi.

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SOCRATE

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anta agi a ALCIBIADE: Certo. SocRATE: Insomma con la ginnastica ci prendiamo cura delle mani, ma con l'oreficeria dei ninnoli che appartengono alle mani? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Sempre con la ginnastica ci prendiamo cura del corpo, ma con la, tessitura e le altre arti ci prendiamo cura delle cose che attengono al corpo? ALCIBIADE: Assolutamente! SocRATE: Ma allora l'arte con la quale ci prendiamo cura di un oggetto qualunque è diversa da quella con cui ci prendiamo cura delle cose che appartengono a quell'oggetto. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Non è dunque quando ci si prende cura delle proprie cose, che si è solleciti di se stessi. ALCIBIADE: Proprio no. SocRATE: Perché, a quanto risulta, non è la stessa arte con cui ci si prende cura di sé e delle proprie Cose. ALCIBIADE: No, certo! SocRATE: Di' sù, allora: con quale arte potremo prenderei cura di noi stessi? ALCIBIADE: Non lo SO. SocRATE: Ora, fino qui, almeno, siamo d'accordo, che non è quella con la quale potremo rendere migliore qualsiasi oggetto che ci appartenga, ma quella che renda tali noi stessi. ALCIBIADE: Verissimo. SocRATE: Ora, avremmo mai conosciuto qual è l'arte che migliora la qualità delle calzature, se non conoscessimo la scarpa? ALCIBIADE: Impossibile. SocRATE: E neppure, perciò, quale è l'arte che migliora la fattura degli anelli se non conoscessimo l'anello. ALCIBIADE: Vero. SocRATE: facciamo un altro passo. Potremmo forse conoscere qual è l'arte che migliora l'uomo stesso se non sapessimo chi siamo noi stessi? ALCIBIADE: Impossibile. SocRATE: E può mai darsi che sia una bazzecola conoscere se stessi e che fosse uno sciocco chi iscrisse quelle parole nel tempio di Pito o è invece una cosa difficile e e non da tutti? ALCIBIADE: Talvolta, Socrate, mi è sembrato cosa da tutti, talvolta invece compito estremamente difficile. SocRATE: Beh! Alcibiade, può essere facile o no, ma per noi il problema si pone così: se conosceremo noi stessi, conosceremo forse la cura che dobbiamo prenderei di noi, se no, non la cono-sceremo mai. ALCIBIADE: È Così. SocRATE: Di' dunque: in qual modo si potrebbe scoprire in che consiste il "se stesso"? Perché di conseguenza potremmo forse scoprire cosa siamo noi, ma rimanendo all'oscuro della prima cosa sicuramente sarà impossibile scoprire la seconda. ALCIBIADE: Hai ragione. SocRATE: Alt! Per Giove. Con chi parli adesso? Con me? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Così anch'io con te? ALCIBIADE: Sì.

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SocRATE: Allora è Socrate quello che parla? ALCIBIADE: Esatto. SocRATE: E Alcibiade è quello che ascolta? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: E Socrate non si serve di parole per parlare? ALCIBIADE: Certo! SocRATE: Il parlare e il servirsi della parole è per te la stessa cosa? ALCIBIADE: Si capisce. SocRATE: Ma chi si serve d'una cosa e la cosa di cui ci si serve sono differenti? ALCIBIADE: Come dici? SocRATE: Per esempio, il calzolaio taglia certo con il trincetto, con la lesina ed altri arnesi. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Dunque altro è colui che taglia ed usa quegli strumenti ed altro è ciò di cui egli si serve per tagliare. ALCIBIADE: Senza dubbio. SocRATE: Nello stesso modo lo strumento che usa il suonatore di cetra per suonare sarà altra cosa dal suonatore stesso. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Ecco: questo è ciò che ti chiedevo prima: se chi usa uno strumento e lo strumento ti sembrano sempre diversi. ALCIBIADE: Mi sembra di SÌ. SocRATE: E che diremo del calzolaio? Che taglia solo con arnesi o anche con le mani? ALCIBIADE: Anche con le mani. SocRATE: Perché si serve anche di queste? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: E non si serve anche degli occhi quando taglia il cuoio? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Siamo d'accordo che chi usa uno strumento e altra cosa dallo strumento? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Allora il calzolaio e il suonatore sono altra cosa dalle mani e dagli occhi con cui essi lavorano? ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: E finalmente l'uomo non si serve di tutto il corpo? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: S'era detto che chi si serve d'uno strumento e lo strumento sono diversi? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Allora l'uomo è altra cosa del suo corpo? ALCIBIADE: Credo. SocRATE: Cos'è dunque l'uomo? ALCIBIADE: Non lo SO. SocRATE: Però tu sai almeno che è qualcosa che si serve del corpo. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Che altro mai si serve di questo se non l'anima? ALCIBIADE: Niente altro. SocRATE: E non è comandando che se ne serve?

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ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Qui c'è una cosa da cui nessuno può dissentire. ALCIBIADE: Quale? SocRATE: Che l'uomo sia una almeno delle tre cose. ALCIBIADE: Quali? SocRATE: O anima, o corpo o ambedue insieme, come un tutto unico. ALCIBIADE: Senza dubbio. SocRATE: Ma non ci siamo già trovati d'accordo che l'uomo è proprio [b] ciò che comanda il corpo? ALCIBIADE: D'accordo. SocRATE: Forse può il corpo stesso comandare se stesso? ALCIBIADE: In nessun modo. SocRATE: Perché già abbiamo detto che lui stesso è governato. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Non potrebbe proprio essere ciò che cerchiamo. ALCIBIADE: No, non sembra. SocRATE: O è quel tutto unito che governa il corpo, ed è proprio questo l'uomo? ALCIBIADE: Forse è COSÌ. SocRATE: Ma è la cosa più impossibile del mondo! Se una delle due parti, infatti, non partecipa al governo non c'è alcun modo che comandino le due parti insieme. ALCIBIADE: Giusto. SocRATE: E poiché né il corpo, né il corpo e l'anima insieme sono l'uomo, rimane da concludere, penso, che l'uomo o non sia nulla o, se è qualcosa, non sia altro che anima. ALCIBIADE: Appunto! SocRATE: C'è bisogno di dimostrartelo ancor più chiaramente che l'anima è l'uomo? ALCIBIADE: No, per Giove! Mi sembra dimostrato abbastanza. SocRATE: Anche se questa prova non è proprio rigorosa, ma solo sufficiente, ci basta. Perché verremo a una conoscenza rigorosa quando avremo scoperto ciò che adesso abbiamo lasciato da parte data la lunga ricerca che comportava. ALCIBIADE: Che cos'è? SocRATE: È ciò che si diceva poco fa, che per prima cosa si deve cercare cos'è il se stesso, mentre in luogo del se stesso abbiamo esaminato che cosa è in sé ogni singolo individuo. Eforse sarà sufficiente, perché forse non c'è niente più importante di noi stessi, potremmo dire, che l'anima. ALCIBIADE: No certo. SocRATE: Quindi, va benissimo ritenere che quando io e te ci intratteniamo, servendoci di parole, è l'anima, che comunica con l'anima? ALCIBIADE: Perfettamente. SocRATE: Bene, ciò è proprio quello che dicevamo poco fa, che Socrate conversa con Alcibiade servendosi di parole, ma non indirizzate, come appare, al suo volto, bensì ad Alcibiade stesso. E questo è l'anima. ALCIBIADE: lo credo anch'io. SocRATE: Quindi colui che ammonisce di conoscere se stesso, ci ordina. di conoscere la nostra anima. ALCIBIADE: Così pare. SocRATE: E quindi colui che conosce un po' di ciò che appartiene al corpo ha conoscenza di ciò che appartiene a se stesso, ma non conoscenza di se stesso.

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ALCIBIADE: È COSÌ. SocRATE: Quindi nessun medico e nessun maestro di ginnastica in quanto tali conoscono se stessi. ALCIBIADE: Par di no. SocRATE: E ci passa un bel po' che i contadini e tutti quelli che praticano un mestiere conoscano se stessi. Perché essi, a quanto pare, non conoscono neppure ciò che attiene a loro stessi, ma soltanto ciò che è ancora più remoto da ciò che attiene a loro stessi, secondo le arti che rispettiva mente professano; perché conoscono le arti attinenti al corpo, dalle quali il corpo è servito. ALCIBIADE: È vero. SocRATE: Se dunque la saggezza consiste nel conoscere se stessi nessuno di costoro è saggio per quanto sta all'arte sua. ALCIBIADE: No, non mi sembra. SocRATE: Per questo, ecco, tali arti passano per assai vili, come cognizioni indegne di un uomo nobile. ALCIBIADE: Sicuro. SocRATE: Così, ancora una volta, chi si prende cura del proprio corpo cura ciò che appartiene a se stesso, ma non cura se stesso. ALCIBIADE: Quasi inevitabilmente. SocRATE: Chi poi si prende cura dei denari non s'adopera intorno a se stesso, né a ciò che attiene a se stesso, ma a cose ancor più remote da quelle che attengono a se stesso. ALCIBIADE: Lo credo anch'io. SOCRATE: L'affarista quindi non fa dunque più i suoi interessi! ALCIBIADE: Giusto! SocRATE: E se qualcuno è innamorato del corpo di Alcibiade vuoi dire che non è innamorato di Alcibiade, ma di qualcosa che appartiene ad Alcibiade. ALCIBIADE: È vero. SocRATE: Ma chi è innamorato della tua anima, t'ama. ALCIBIADE: È così per forza da quello che s'è detto. SocRATE: Colui poi che ama il tuo corpo, quando questo cessa il suo fiorire, si ritirerà e se ne andrà? ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Ma chi invece ama la tua anima non se ne andrà fintanto ch'essa si muova per la via del meglio? [... ] ALCIBIADE: È un buon consiglio, Socrate, ma prova a spiegarmi in qual modo, secondo te, possiamo prenderei cura di noi due. SocRATE: Bene! Abbiamo fatto un passo in avanti perché ormai ci troviamo perfettamente d'accordo su ciò che siamo - e noi temevamo solo di sbagliarci in questo e di prenderei cura, senza accorgercene, di qualcosa d'altro che noi stessi. ALCIBIADE: È Così. SocRATE: Di seguito ci siamo trovati d'accordo che dobbiamo prenderei cura dell'anima, e rivolgere ad essa la nostra attenzione . . ALCIBIADE: È chiaro. SocRATE: E che va lasciata agli altri la sollecitudine per il corpo ed il denaro. ALCIBIADE: Certo. SocRATE: In qual modo potremmo conoscere il più chiaramente possibile la nostra anima? Giacché, con questa conoscenza, potremo evidentemente conoscere noi stessi. Per gli dèi! Comprendiamo bene quel giusto consiglio dell'iscrizione delfica ricordata ora?

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ALCIBIADE: Con quale intenzione lo dici, o Socrate? SocRATE: Ti dirò cosa sospetto che questa iscrizione ci voglia realmente consigliare. Perché si dà il caso che ad intenderla non vi siano molti esempi di confronto, tranne quello solo della vista. ALCIBIADE: Cosa vuoi dire con questo? SocRATE: Rifletti anche tu. Se l'iscrizione consigliasse l'occhio, come consiglia l'uomo, dicendo: ((guarda te stesso>>, in che modo e cosa penseremmo che voglia consigliare? Non forse a guardare verso qualcosa guardando la quale l'occhio fosse in grado di vedere se stesso? ALCIBIADE: Certo. SocRATE: Ecco: indaghiamo quale oggetto v'è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi. ALCIBIADE: È chiaro, Socrate, gli specchi e oggetti simili. SocRATE: Esatto. Non c'è forse anche nell'occhio con il quale vediamo qualcosa dello stesso genere? ALCIBIADE: Certo. SocRATE: Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell'occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un'immagine di colui che la guarda? ALCIBIADE: È vero. SoCRATE: Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell'occhio, con la quale anche vede, vedrà se stesso. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Ma se l'occhio guarda un'altra parte del corpo umano o degli oggetti; ad eccezione di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso. ALCIBIADE: È vero. SocRATE: Se allora un occhio vuoi vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Ora, caro Alci biade, anche l'anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un'anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell'anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile? ALCIBIADE: Credo di sì, Socrate. SoCRATE: Possiamo noi indicare nell'anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza e il pensiero? ALCIBIADE: Non possiamo. SocRATE: Questa parte dell'anima è simile al divino, e, se la si fissa, si impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Ma come lo specchio è più chiaro di quello che è nel nostro occhio, e più puro e luminoso, così sì dà il caso che anche il dio sia più puro e luminoso della parte migliore che è nell'anima? ALCIBIADE: Mi pare, Socrate. SocRATE: Quindi, mirando in dio, useremmo del più bello specchio anche delle cose umane che tendono alla eccellenza dell'anima, e così potremo vedere e conoscere meglio noi stessi. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Ma non ci siamo trovati d'accordo che il conoscere se stessi sia saggezza? ALCIBIADE: Certo. SocRATE: Quindi senza conoscere noi stessi e senza essere saggi non saremmo in grado di sapere ciò che è male e ciò che è bene per noi.

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SEZIONE AUTORI SOCilAIE

ALCIBIADE: Come sarebbe mai possibile, Socrate? SocRATE: Perché anche a te forse pare impossibile che senza conoscere Alcibiade si conosca se ci6 che appartiene ad Alcibiade ia in effetti di Alcibiade. ALCIBIADE: Impossibile, per Giove. SocRATE: E come potremmo sapere che le cose nostre sono nostre se non conosciamo noi Stessi? ALCIBIADE: Già, come? SocRATE: E se non conosciamo le nostre cose, neppure quelle che appartengono ad esse? ALCIBIADE: Pare di no. SocRATE: Noi eravamo dunque del tutto scorretti poco fa, quando ci siamo trovati d'accordo che vi sono persone che, senza conoscere se stesse, conoscono tuttavia le cose che loro appartengono e che altri conoscono ciò che appartiene alle loro cose. Perché pare che sia com[e] pito di un'arte unica e sola discernere queste tre cose: se stessi, le proprie cose e ciò che a queste cose appartiene. ALCIBIADE: Probabilmente. SocRATE: E uno che non conosca le cose proprie analogamente non conoscerà quelle degli altri. ALCIBIADE: Non può essere diversamente. SocRATE: Ma se non conosce le cose proprie od altrui non conoscerà neppure quelle attinenti allo stato. ALCIBIADE: Per forza! SocRATE: Costui quindi non potrebbe essere un uomo di stato. ALCIBIADE: Certamente no. SocRATE: E neppure un amministrato~e d'una casa. ALCIBIADE: Certamente no. SocRATE: E neppure saprà quel che fa. ALCIBIADE: D'accordo. SocRATE: E chi non sa, non sbaglierà? ALCIBIADE: Certo. SocRATE: Sbagliando non si troverà male tanto in pubblico che in privato? ALCIBIADE: Senza dubbio. SocRATE: E chi vive male non è infelice? ALCIBIADE: Sì, Molto. SocRATE: E quelli per i quali agisce? ALCIBIADE: Infelici anch'essi. SocRATE: Dunque non è possibile essere felici se non si è saggi e buoni. ALCIBIADE: No, non è possibile. SoCRATE: Gli uomini cattivi sono quindi infelici? ALCIBIADE: Sì, molto. SocRATE: Dunque, neppure chi diviene ricco sfugge all'infelicità, ma solo chi diventa saggio. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Non hanno infine bisogno di mura, di triremi e d'arsenali gli stati, caro Alcibiade, se avranno a prosperare in felicità, né hanno bisogno di masse e di grandezza prive di virtù. ALCIBIADE: Veramente no. SocRATE: Così se t'appresti a metter mano agli affari dello stato, correttamente e nobilmente, tu devi far parte ai cittadini della tua virtù. ALCIBIADE: Sicuro.

SEZIONE AUTORI SOCRATE

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antologia SocRATE: Ma potrebbe qualcuno dare ciò che non ha? ALCIBIADE: E come farebbe? SocRATE: Per te stesso devi prima conquistarti la virtù, tu o chiunque altro che voglia governare e prendersi cura non solo privatamente di sé e delle sue cose, ma anche dello stato e dei suoi affari. ALCIBIADE: È vero. SocRATE: Non devi dunque procurare potere e neppure libertà a te stesso e allo stato per far ciò che ti piaccia, ma giustizia e saggezza. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Perché se tu e la città agite con giustizia e saggezza, agirete come piace al dio. ALCIBIADE: È naturale. SocRATE: E, come dicevamo all'inizio, nelle vostre azioni terrete lo sguardo fisso al divino e al luminoso. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Ma con lo sguardo fisso in quella direzione rimirerete e conoscerete voi stessi e ciò che è bene per Voi. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Allora vivrete rettamente e bene? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Così facendo io voglio garantire che voi sarete anche felici. ALCIBIADE: Una promessa sicura. SocRATE: Ma se agirete contro giustizia con lo sguardo fisso all'empietà ed al buio, allora, com'è naturale, i vostri atti saranno corrispondenti a questi, dal momento che rimanete nell'ignoranza di voi stessi. [... ] Se in una nave uno avesse la libertà di fare ciò che gli pare, privo della minima idea di scienza nautica, te lo immagini cosa awerrebbe di lui e degli altri imbarcati? ALCIBIADE: Lo vedo: perirebbero tutti. SocRATE: Se dunque, in questo stesso modo, nello stato e in ogni altro tipo di governo e di dominio viene a mancare la virtù, ne consegue il vivere male? ALCIBIADE: Per forza. SocRATE: Quindi non è il potere tirannico, mio ottimo Alcibiade, che ti devi procurare, né a te stesso né allo stato, ma la virtù, se volete prosperare in felicità. ALCIBIADE: È vero. SocRATE: Ma fino a quando non si possiede questa virtù e meglio obbedire, piuttosto che comandare, a chi è migliore di noi, anche se siamo uomini fatti e non solo bambini. ALCIBIADE: Evidente. SocRATE: E ciò che è migliore non è anche più bello? ALCIBIADE: Sì. SocRATE: E ciò che è più nobile non è più conveniente? ALCIBIADE: Certo. SocRATE: All'uomo senza virtù quindi spetta di essere schiavo, perché per lui è meglio. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: La mancanza di virtù è condizione da schiavi. ALCIBIADE: Evidentemente. SocRATE: Mentre la virtù, da liberi. ALCIBIADE: Sì. SocRATE: Amico mio, devi allora fuggire ciò che è condizione da schiavi. ~

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SEZIONE AUTORI SOCRAU:

E Platone, Alcibiade Maggiore, 127d-135e, in: Opere complete, vol. 4, cit.

La questione etica per Socrate è una questione:

D

D

a) di scelta fra valori

D b)

c) di bontà/malvagità d'animo

D d)

di conoscenza

di coscienza

Chi fa il male secondo Socrate deve essere:

D D

a) punito

D

b) compatito

D d)

c) rieducato emarginato

Il termine universale indica:

D D D D

a) valido per tutti gli uomini b) cosmico c) tratto comune agli elementi di uno stesso insieme d) totale

Qual è lo scopo della ricerca socratica? •••••••

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Che rapporto c'è fra conoscenza e morale per Socrate? ••••••••••

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Cosa si intende con "il problema delle fonti" a proposito del pensiero di Socrate? ••••••••••••••••••••••••••

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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... . . . . ... . . . .. . . . . .. . . . ... . . . .. . . . . . .. . . ... . . Secondo il modello socratico il concetto, la definizione di x, è trovata quando:

D D D D

a) si applica ad ogni x

x e non si applica a nessun non-x ogni x e ad ogni non-x ogni x e a qualche non-x.

b) si applica ad ogni c) si applica ad d) si applica ad

SEZIONE AUTORI SOCRATE

Componi un breve testo secondo la seguente traccia. Se una vita giusta deve essere ricompensata allora o il giusto Socrate muore senza ricompensa o la troverà nell'al di là. Ma il fatto che una vita giusta debba essere ricompensata di per sé non dimostra che esista una vita dopo la morte. E poi, perché una vita giusta deve essere ricompensata? Bisogna agire giustamente per ottenere un premio (o evitare una pena) oppure perché è giusto agire giustamente? Ma quest'ultima ipotesi non configura un argomento circolare: "è giusto perché è giusto"?

Definisci: a) l'effetto comico con cui Socrate finge di dar ragione ai suoi avversari

b) il metodo di Socrate per giungere alla verità

c) la tecnica con cui Socrate conduce alla verità i suoi interlocutori

d) lo scopo della ricerca socratica

Quali sono le ragioni degli accusatori di Socrate?

SEZIONE AUTORI

SOCRAU

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Perché Socrate si ritiene più sapiente dei cosiddetti sapienti?

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~-;

Perché, nonostante si ritenga innocente, Socrate non si sottrae alla condanna?

':-,-o--:--=,~-----~-o--e;"C~'

«Se l'uomo volesse fare il male volontariamente dovremmo pensare che vuole il proprio male volontariamente, ma siccome nessuno può volere il proprio male volontariamente allora chi fa il male lo fa involontariamente». Commenta questo argomento socratico togliendo, prima, la parola 'proprio' e cercando, poi, di giustificarne l'inserimento.

SEZIONE AUTORI SOCil!nE

r,--·;·······Filosofia e politica La filosofia di Platone può essere considerata come una risposta allo shock rappresentato per lui dal processo e dalla condanna a morte di Sacrate, suo maestro e amico per un decennio circa. Com'è potuto accadere, si chiede Platone, che un uomo come Socrate, "il più giusto del suo tempo", venisse accusato di offendere la coscienza religiosa degli ateniesi e di corrompere i giovani? Come si è potuto vedere nella sua ricerca filosofica una minaccia per l'unità e la stabilità della p6lis? E ora, come si potrà prevenire il ripetersi di ingiustizie simili e impedire che la corruzione, la malafede, la violenza prendano il sopravvento nei costumi e nelle istituzioni della vita pubblica? Queste domande formarono per Platone la materia prima non solo della sua riflessione filosofica, Platone e ma anche della sua esperienza di vil'impegno civile ta. Egli non volle essere infatti un "facitore di parole": non si limitò dunque a disegnare a tavolino il profilo ideale della società giusta, ma s'impegnò personalmente, anche a rischio della propria incolumità, per tradurre quell'ideale in realtà. Dei tentativi compiuti a tal fine è Platone stesso a darci testimonianza nella Lettera VII, una sorta di autobiografia intellettuale composta negli anni della vecchiaia, nella quale egli rievoca i momenti cruciali del suo tormentato rapporto con la politica. Un rapporto, come vedremo subito, che gli procurò quasi soltanto delusioni e amarezze. La prima delusione arriva già nel 404 a.C., allorché in Atene s'insedia il governo dei Trenta Tiranni, espresso dalla fazione aristocratica. La città è appena uscita, sconfitta, dalla guerra del Peloponneso, e versa in uno stato di grave crisi. Platone spera che i Trenta, fra i quali hanno un ruolo di spicco due suoi parenti, sapranno riportarla all'ordine e alla prosperità di un tempo; in un primo momento pensa anche di collaborare attivamente con loro, ma presto deve ricredersi: il governo dei Trenta riesce persino a far rimpiangere i precedenti, desideroso com'è di vendetta e non di giustizia. Platone, disgustato, decide di mettersi in disparte.

Nel399, nel frattempo tornati al Le delusioni potere i democratici, l'esperienza della politica sconvolgente del processo a Socrate e della sua morte. Per Platone è un vero e proprio trauma. Medita di rinunziare per sempre alla politica, che ormai dappertutto vede in mano a gente disonesta e senza scrupoli; probabilmente teme anche per la propria vita e per qualche tempo si allontana da Atene, rifugiandosi a Megara. Passano circa dieci anni. Nel388 Platone si reca in viaggio in Italia meridionale e viene invitato dal tiranno Dionigi a Siracusa, una delle p6leis greche più floride e potenti del tempo. Nella Lettera VII Platone non racconta come andarono le cose con Dionigi, limitandosi a rievocare, di quel soggiorno a Siracusa, la cattiva impressione suscitata in lui dalla "dolce vita" cui gli sembrarono dediti gli abitanti della città e l'amicizia contratta con Dione, il giovane cognato di Dionigi. Da altre fonti sappiamo tuttavia che egli tentò d'impartire al tiranno un insegnamento filosofico che facesse di lui un governante equilibrato e giusto. Purtroppo Dionigi non gradì quella che giudicò un'ingerenza del filosofo, e dopo aver minacciato di metterlo a morte, lo costrinse a ripartire, affidandolo ad un ambasciatore spartano con l'incarico di venderlo come schiavo. Se, come sembra, l'incarico fu effettivamente eseguito, il coinvolgimento nella politica siracusana costò dunque a Platone l'esperienza più umiliante che un greco potesse fare: quella della schiavitù. Riscattato da un amico, Platone fece ritorno ad Atene, dove nel387 fondò l'Accademia, una sorta di collegio universitario, che divenne rapidamente un prestigioso centro di studi frequentato da giovani provenienti da tutta la Grecia. La fondazione dell'Accademia fu la realizzazione pratica più fortunata e durevole di Platone. La scuola, alla quale si deve fra l'altro la conservazione integrale dell'opera del filosofo, restò infatti in vita fino al 529 d.C., quando l'imperatore Giustiniano ne decretò la chiusura. Vi si tenevano corsi di filosofia, naturalmente, ma anche di scienze naturali e soprattutto di matematica, che Platone con-

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FILOSOFIA E POLITICA

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siderava indispensabile per un'adeguata formazione filosofica. Ma il fine dell'insegnamento era, almeno indirettamente, politico: dall'Accademia sarebbero dovute uscire le future classi dirigenti delle p6leis greche, e vi si dedicava perciò grande cura alla formazione umana e civile dei giovani che la frequentavano, educandoli alla vita in comune e alla libertà di discussione e di ricerca. Per vent'anni Platone si dedica esclusivamente alla ricerca filosofica e all'insegnamento. Ma il demone della politica è sempre in agguato dentro di lui. Nel 367 riceve un nuovo invito da Siracusa. A chiamarlo, stavolta, è Dione, col quale era rimasto in contatto. Dionigi è morto e gli è succeduto al trono il figlio, Dionigi II. Dione è fiducioso che il figlio, per età e indole, si rivelerà più disponibile del padre a ricevere l'insegnamento di Platone e a regolare su di esso l'attività di governo. Platone esita, ma infine accetta: teme la volubilità del giovane tiranno, ma prevale in lui il desiderio di mettere alla prova l'efficacia politica della propria filosofia. Anche questa volta le cose andranno male. Tra Dionigi II e Dione scoppia un aspro conflitto, nel quale Platone resta preso in mezzo. Dione è costretto all'esilio e Platone è trattenuto per due anni alla corte di Dionigi, il quale da una parte gli dimostra stima e cerca d'ingraziarselo, ma dall'altra, di fatto, lo tiene prigioniero. Nel 365 Platone riesce a ritornare ad Atene, ma quattro anni dopo è di nuovo a Siracusa, richiamato da Dionigi II, che ora sembra sinceraL'ultima mente desideroso di farsi consigliare avventura politica da lui. Che il giovane tiranno sia finalmente pronto a vivere e a governare da filosofo? Platone ne dubita, ma spera di metter pace fra lui e Dione. Un altro fallimento. I rapporti con Dionigi si guastano quasi subito, Platone rischia grosso, e solo grazie all'intervento di un'ambasceria tarantina può rientrare ad Atene, da dove non si allontanerà più fino alla morte, sopravvenuta nel 347. Gli ultimi anni, ormai disilluso circa la possibilità d'incidere nella realtà politica del suo tempo, li dedicherà all'insegnamento e all'elaborazione filosofica. Ma è rivelatore dell'orien-

tamento fondamentale del suo pensiero, il fatto che la sua ultima opera, le Leggi, alla quale stava ancora lavorando al momento della morte, sia un trattato di filosofia politica. Traspare dalla sua biografia la Filosofia, politica persuasione profonda che animò Pla- e giustizia tone: la politica ha bisogno della filosofia, per non perdere di vista il traguardo della giustizia, e la filosofia non può sottrarsi al compito di orientare la vita pubblica. Intervenendo direttamente sui detentori del potere politico, come a Siracusa, o anche educando i giovani destinati a formare le future classi dirigenti, come nell'Accademia, il filosofo adempie il suo dovere verso la collettività. Ebbene, questa persuasione, così coerentemente e rischiosamente vissuta, Platone l'elaborò in dottrina filosofica, concentrandola nella tesi secondo la quale potrà esserci giustizia, nella società e nello stato, solo quando il governo della cosa pubblica sarà affidato a dei "veri filosofi". Il significato di questa tesi è assai meno "corporativo" di quanto potrebbe sembrare a prima vista: sarebbe un equivoco credere che Platone distribuirebbe oggi le cariche di governo fra tutti coloro che, per titolo di studio o status professionale, abbiano reputazione di filosofi. A fondamento della tesi platonica c'è una complessa elaborazione teorica, che ricostruiremo gradualmente. In primo luogo, dovremo comprendere che cosa Platone intenda precisamente per "giustizia", e quali siano per lui i requisiti ideali di una società giusta(§ 2). Occorrerà poi accertare chi siano i "veri filosofi"; sarà questo il passo decisivo, perché ci condurrà all'aspetto più caratteristico e sostanziale della filosofia platonica: la dottrina delle idee (§ 3). Infine, bisognerà chiarire in che cosa consiste .il nesso fra giustizia e filosofia: perché soltanto i "veri filosofi" hanno le carte in regola per governare lo stato (§ 4 )? I tre paragrafi seguenti articolano dunque una spiegazione unitaria, al termine della quale soltanto si potrà comprendere perché Platone proponesse di affidare ai filosofi la direzione della vita pubblica.

2 Kallfpolis: il modello ideale della società giusta L'indagine sulla giustizia è svolta analiticamente nella Repubblica, una delle opere più importanti di Platone, perché contiene una sorta di compendio di tutto il suo pensiero. Nella Repubblica Platone inscena un dialogo immaginario in cui il ruolo di protagonista, e insieme di alter ego di Platone stesso, è attribuito al personaggio di Socrate. Nella finzione del dialogo, due giovani aristocratici ateniesi, Glaucone e Adimanto (nella realtà fratelli di Platone), sfidano Socrate a dimostrare che chi agisce rettamente lo fa per una sincera disposizione d'animo, non per calcolo o convenienza esteriore: se ci asteniamo dal commettere azioni ingiuste, chiedono, non è solo per il timore delle punizioni in cui altrimenti incorreremmo? Socrate pensa che non sia così, ma per dimostrarlo sposta il discorso dall'individuo allo Stato: cerchiamo prima la giustizia nella vita collettiva, propone ai suoi interlocutori, questo ci aiuterà a comprendere anche quale ruolo essa possa svolgere nella vita individuale.

2.1

la giustizia nello Stato Viene così avviata l'indagine sulla giustizia intesa come valore fondativo della vita sociale e politica. Socrate individua innanzi tutto le tre funzioni o attività indispensabili per la nascita e la conservazione di una società: il lavoro, la difesa, il governo. La vita associata si fonda sul lavoro dei suoi membri, ovvero sulla produzione dei beni necessari per la sussistenza della collettività. Socrate ritiene anzi che proprio il lavoro, e più precisamente la divisione del lavoro, costituisce il fattore primario di aggregazione della società: se gli uomini preferiscono unirsi piuttosto che condurre una vita isolata, è perché si rendono conto che, da soli, incontrerebbero grandi difficoltà a produrre

tutto ciò di cui hanno bisogno (cibo, vestiario, abitazioni ecc.). È molto più semplice e redditizio dividersi il lavoro e scambiarsene i frutti, specializzandosi ognuno nell'attività che gli è più congeniale. I legami sociali nascono dunque dalla divisione del lavoro e si perpetuano grazie ad essa. Una comunità ha bisogno di essere difesa da eventuali attacchi esterni; ac- Lavoro,difesa,governo canto agli agricoltori, agli artigiani, ai commercianti ecc., sarà dunque necessario avere dei custodi, che siano abili, al tempo stesso, nel difendere lo Stato da eventuali attacchi esterni e nel mantenere l'ordine al suo interno. Una classe di guerrieri di professione, insomma, addestrati a proteggere la sicurezza collettiva. Una comunità dev'essere governata; ha bisogno cioè di governanti che sappiano prendere le decisioni migliori nell'interesse comune, regolando con apposite leggi sia i rapporti che s'intrecciano all'interno della comunità sia quelli esterni. Come i guerrieri, così anche i governanti sono chiamati a svolgere una funzione di custodia, nel senso che non devono operare per i loro propri interessi particolari, ma esclusivamente per l'interesse generale della collettività. Insieme ai guerrieri, essi rappresentano, in altri termini, lo Stato. Ceti produttivi, guerrieri, governanti: sono questi, dunque, i tre pilastri dell'ordinamento sociale e politico. Ebbene, vi sarà giustizia, nella società e nello Stato, se le tre classi sapranno rapportarsi vicendevolmente con equilibrio e rispetto reciproco. Vale a dire, se ognuna di esse s'impegnerà a svolgere nel miglior modo possibile il suo compito specifico, senza invadere le sfere delle altre due: se i governanti sapranno rinunciare a perseguire interessi particolari, se i guerrieri useranno la forza conformemente alle direttive dei governanti, se i produttori si sottometteranno di buon grado all'autorità della legge. Kall(polis, la "città bella", è dunque un modello di cooperazione armoniosa fra classi sociali preposte a funzioni diverse ma dirette a un fine co. mune: la conservazione e lo sviluppo della compagine statale.

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2- KALLIPOL/5: Il MODEllO IDEAlE DEllA SOCIETÀ GIUSTA

2.2 la giustizia nell'individuo Anche nell'animo individuale, spiega Socrate, possono essere distinte tre parti, le cui funzioni corrispondono a quelle svolte nello Stato dalle tre classi sopra indicate. C'è una parte di noi, della nostra personalità interiore, che è più strettamente collegata al nostro corpo, del quale recepisce ed esprime gli impulsi, i bisogni, i desideri. È l'anima concupiscibile, ovvero la capacità di tradurre in desideri coscienti (per esempio il desiderio di bere) certi stati del nostro corpo (per esempio una carenza di liquidi). Proprio per lo stretto legame che ha con il corpo, l'anima concupiscibile ha come suo fine specifico la ricerca del piacere. La sua funzione nell'ambito della vita psichica è analoga a quella svolta dai ceti produttivi nell'ambito dello Stato: essa persegue infatti la soddisfazione dei desideri particolari che di volta in volta si presentano in noi. C'è poi la parte razionale dell'anima, quella cioè che ha il compito di stabilire che cosa sia bene e che cosa no per l'individuo, e che dunque può indurci, a volte, a reprimere i nostri desideri (per esempio, sconsigliandoci di bere una bevanda ghiacciata, pur se abbiamo sete, o di mangiare un cibo di cui siamo golosi, se sappiamo che ci farà male). Molti conflitti interiori possono essere rappresentati appunto come conflitti tra la parte concupiscibile dell'anima, che mira alla soddisfazione immediata e indiscriminata dei desideri, e quella razionale, che censura i desideri incompatibili con il fine di un benessere generale e duraturo dell'individuo. La funzione dell'anima razionale è paragonabile a queUa della classe di governo nello Stato: ad essa spetta la guida della vita individuale, ossia la cura del suo interesse generale. C'è infine una terza componente della nostra vita psichica, quella mediante la quale prendiamo delle decisioni, cioè traduciamo in azioni i nostri desideri (espressi dall'anima concupiscibile) o le nostre valutazioni (formulate dall'anima ra-

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zionale). Platone la chiama anima irascibile, perché riconduce ad essa gli stati d'indignazione o di collera, e le assegna la duplice funzione di reagire alle offese esterne e d'in- Le funzioni dell'anima tervenire in caso di conflitto tra l'a- e la giustizia nima razionale e l'anima concupiscibile (se quindi rinuncio a bere, pur avendo sete, questo significherà che l'anima razionale ha prevalso sulla concupiscibile grazie all'aiuto dell'anima irascibile; se invece bevo, pur sapendo che non dovrei, vuol dire che l'anima irascibile è rimasta passiva dinanzi ai moti dell'anima concupiscibile, provocando la sconfitta dell'anima razionale). L'anima irascibile è la componente aggressiva della nostra personalità: il suo compito, analogo a quello dei guerrieri nello stato, è di attenersi alle deliberazioni dell'anima razionale, placando così i disordini interni e al tempo stesso, quando si subiscano dei torti, salvaguardando la dignità personale. Ebbene, vi sarà giustizia, nell'individuo, se vi sarà armonia fra le tre parti dell'anima: se cioè l'anima razionale sarà lungimirante nella sua funzione di governo, se l'anima irascibile l'asseconderà in caso di offesa esterna o di conflitto con l'anima concupiscibile, se questa a sua volta non pretenderà di imporre il proprio dominio sull'insieme della vita psichica. Nella Kallfpolis platonica vale dunque per l'individuo quel che vale per lo Stato: la sua inclinazione alla giustizia dipende dall'interazione armoniosa fra le sue tre parti costitutive. E, beninteso, la giustizia politica e quella individuale si presuppongono reciprocamente, in una sorta di circolo virtuoso: non può esserci l'una senza l'altra. Questo, nelle linee essenziali, il modello ideale di giustizia che scaturisce dalla discussione tra Socrate e i suoi interlocutori. Ma si tratta appunto di un modello ideale. Che cosa si può fare per tradurlo in realtà? Conosciamo già la risposta: occorre che il governo dello stato sia affidato a dei "veri" filosofi. Dobbiamo ora scoprire chi sono, per Platone, i "veri" filosofi.

3 La dottrina delle idee Platone costruisce l'idea della "vera" filosofia in rapporto alle pratiche filosofiche che gli erano più familiari: quella dei sofisti, per un certo periodo di gran moda ad Atene, e quella del suo maestro Socrate.

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3.1

Contro i sofisti I sofisti erano maestri itineranti di retorica, cioè dell'arte di persuadere mediante il discorso. In una p6lis come l'ateniese, in cui le decisioni più importanti venivano prese in assemblea, l'insegnamento impartito dai sofisti apriva allettanti prospettive di successo nella vita pubblica, e infatti essi se lo facevano pagare lautamente. Il presupposto teorico dell'insegnamento dei sofisti era il relativismo, cioè la tesi che non esistono, specie nei campi dell'etica e della politica, verità oggettive, valide sempre e per tutti. La verità, sostenevano, è solo un'opinione fra le altre, che in una certa situazione riesce a prevalere sulle altre, magari perché appare più utile o vantaggiosa, e viene quindi accreditata come l'opinione "vera". Ma non è detto che l'opinione vera oggi risulti tale anche domani; non è detto che l'opinione vera qui lo sia anche altrove ecc. Il valore di verità di un'opinione è insomma mutevole, determinandosi in relazione a circostanze, situazioni e convenzioni esse stesse mutevoli. Per Platone il relativismo è il nemico da battere. Nel relativismo egli vede infatti un incoraggiamento alla tirannia e alla corruzione: se non ci sono valori e norme stabili a cui ancorare la vita pubblica, il confronto tra punti di vìsta diversi non si svilupperà come una ricerca disinteressata di ciò che è vero e meglio per tutti, ma piuttosto come una competizione nella quale prevarrà chi è più abile nel manipolare a proprio vantaggio le tecniche della comunicazione. Il relativismo, per Platone, apre la strada all'inganno e alla sopraffazione.

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3- LA DOTTRINA DELLE IDEE

In opposizione alla sofistica, la "vera" filosofia dovrà dunque consistere, secondo Platone, nella ricerca di valori universali da porre a fondamento della vita individuale e collettiva. La polemica contro i sofisti è ricorrente nei diaLa condanna loghi platonici. Nel Protagora viene della retorica sofista attaccata la loro pretesa d'insegnare la virtù, cioè l'arte di condurre accortamente la vita privata e di avere successo, nel contempo, in quella pubblica. Nel Gorgia viene preso di mira il punto di forza del loro insegnamento, cioè la retorica, condannata da Platone in quanto tecnica di persuasione che si disinteressa della verità e si procura il consenso mediante la lusinga o l'inganno. Il Teeteto va alla radice del relativismo sofista, confutandone il presupposto gnoseologico, cioè l'assunto che la conoscenza risiede interamente nelle sensazioni, il cui fluire vario e incostante impedirebbe l'acquisizione di verità stabili e oggettive.

3.2 L'eredità di Socrate Da Socrate, Platone eredita in primo luogo l'idea della filosofia come dialogo. Vissuto in un'età di transizione da una cultura orale a una cultura scritta, Socrate restò tenacemente attaccato all'idea che il senso e il valore della ricerca filosofica possono esprimersi soltanto nel dialogo orale, che consente a coloro che vi partecipano di scambiarsi e mettere in comune i pensieri, e così di arricchirsi a vicenda, imparando gli uni dagli altri. A differenza della parola orale, la parola scritta non può modificarsi attraverso il rapporto con il suo destinatario, non può imparare da lui, non può rispondere alle sue domande. In una parola: non può dialogare; ed è questo il motivo per cui Socrate non lasciò niente di scritto. Platone tradisce Socrate e insieme gli rimane fedele. Scrive, ma scrive quasi soltanto dialoghi, presentati come rievocazioni o resoconti di discussioni svoltesi oralmente. Ricorre alla parola scritta, dunque, ma la rende il più possibile simile

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alla parola orale, riproducendo con maestria nello scritto l'atmosfera e l'andamento di una discussione viva. Resta comunque 11 rapporto diretto vero, anche per Platone, che un' au- fra maestro e discepolo tentica personalità filosofica non può formarsi senza la comunicazione orale e il rapporto costante con un educatore. A questo proposito, alcuni studiosi sono giunti anzi alla conclusione che i dialoghi scritti di Platone non espongono organicamente il suo pensiero, ma contengono soltanto delle allusioni al suo nucleo più profondo, che egli avrebbe invece comunicato oralmente agli allievi dell'Accademia. I dialoghi condotti da Socrate si concludevano spesso in maniera aporetica, cioè almeno apparentemente senza un risultato positivo (ma per lui, in realtà, la cosa più importante era la "conoscenza di sé" prodotta dalla confutazione delle false certezze iniziali). Socrate si chiedeva e chiedeva agli altri: siamo davvero sicuri di sapere quello che diciamo, quando parliamo di cose come la bellezza, il coraggio, la giustizia eccetera? In altri termini: siamo in grado di eserCitare un controllo razionale sulle nostre credenze, sulle nostre opinioni, sui nostri valori di riferimento? (}-------

3.3 Le idee Platone riflette sulla distinzione, contenuta nella domanda di Socrate, tra ciò che diciamo (p. es. che una certa cosa è bella) e le ragioni o i criteri in base ai quali lo diciamo (i criteri in base ai quali diciamo belle certe cose e altre no). E fa un passo ulteriore, rispetto a Socrate: per Platone, infatti, la razionalità dei nostri criteri di giudizio può avere una portata universale, e affermarsi perciò come razionalità condivisa da più soggetti dialoganti, solo a condizione di definirsi in rapporto alle forme ideali delle cose, non alloro aspetto sensibile. Questo per Platone significa che la bellezza, ad esempio, non è solo una proprietà sensibile di certi oggetti, ma in più alta istanza una forma ideale, di

cui la bellezza sensibile non è che il riflesso. Una forma "incolore e intangibile", che non può essere percepita con i sensi, ma che si può contemplare con il pensiero, al quale si presenta con le caratteristiche dell'unicità, dell'immutabilità e dell'eternità. La conoscenza delle forme ideali fornisce al Le idee: modelli pensiero dei criteri stabili e unidegli oggetti reali versali per orientarsi nella mutevolezza del mondo sensibile, fissandovi dei punti fermi, ovvero delle solide basi di giudizio (p. es. dalla conoscenza dell'idea di bellezza dovrà discendere un criterio universalmente valido, in base al quale giudicare quali cose debbano esser dette belle e quali no). Ogni idea è infatti un paradigma concettuale, in se stesso unico, immutabile ed eterno, al quale è riconducibile una molteplicità di cose sensibili. Perciò la verità del mondo sensibile non sta in esso ma oltre di esso, si costituisce cioè ad un livello meta-fisico. È inoltre necessario precisare che per Platone le idee hanno un'esistenza oggettiva, cioè indipendente dal pensiero, e trascendente. Esse cioè trascendono i confini del mondo che percepiamo con i sensi. Abitano, per dir così, al di là del cielo (in quello che Platone chiama l'iperuranio). Di conseguenza, le. idee trascendono anche i limiti di un sapere che si affidi esclusivamente alla testimonianza dei sensi; noi esseri umani siamo in grado di elevarci fino ad esse perché dotati di una facoltà conoscitiva che non dipende dalla nostra costituzione corporea, come i sensi, ma è piuttosto di natura affine a quella delle idee, cioè immateriale ed eterna: l'anima, o più precisamente la sua parte razionale, che per un certo tempo è unita al nostro corpo e al mondo terreno, nel quale subisce svariate reincarnazioni, ma la cui origine è divina o semidivina (demonica). Dunque, è con la parte razionale dell'anima che possiamo conoscere le idee, ma non è l'anima a produrre le idee. Queste infatti esistono oggettivamente, cioè indipendentemente dal fatto di essere o no conosciute dall'anima (nella stessa maniera in cui, p. es., il soprammobile sulla mia scrivania esisterebbe anche se io non me ne ac-

corgessi). Contemplando le idee nella loro oggettività, l'anima perviene a una conoscenza stabile, come quella della filosofia o anche della matematica, non soggetta cioè alla mutevolezza e all'incertezza delle impressioni sensibili. Innalzarsi con il pensiero alle idee: questo significa dunque, per Platone, diventare veri filosofi. Coloro che restano fermi alla realtà sensibile, credendo che sia l'unica esistente e che abbia in se stessa il fondamento della sua verità, sono invece da definirsifilodossi, cioè "amanti dell'opinione". L'opinione (d6xa) è una forma di conoscenza mutevole e instabile, quindi priva di valore scientifico, perché riproduce in sé la mutevolezza e l'instabilità proprie della realtà sensibile. Tra la filosofia e l'opinione, potremmo dire tra la filosofia e il "senso comune", v'è un'opposizione irriducibile, data dal fatto che la filosofia è conoscenza di una realtà, formata da essenze ideali, di cui l'opinione tende invece ad ignorare o negare l'esistenza. Proprio in quest'opposizione, a giudizio di Platone, è da ravvisarsi il motivo profondo dell'ingiustizia commessa contro Socrate dai suoi concittadini. La teoria delle idee è il centro intorno al quale gravita tutto il pensiero platonico. È opportuno quindi fermarsi ancora un po' su di essa, mettendone in evidenza anche gli aspetti problematici. Abbiamo detto che le idee possono essere conosciute mediante la parte razionale dell'anima, perché questa, come le idee, è soprannaturale ed eterna. Ma quali prove abbiamo dell'immortalità dell'anima? E ancora: come può l'anima giungere alla visione delle idee fintanto che è imprigionata dentro un corpo che la mette in rapporto solo con il mondo delle apparenze sensibili? Inoltre, se è vero che il mondo delle idee contiene in sé la verità del mondo sensibile e fornisce i criteri per formulare giudizi corretti su di esso, allora, implicito nella loro distinzione, dovrà pur sussistere un qualche tipo di collegamento tra questi due mondi o piani di realtà. Che tipo di collegamento?

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LA DOTTRINA DELLE IDEE

Infine, com'è strutturato il mondo intelligibile? Quali relazioni reciproche intercorrono fra le diverse idee che lo compongono? Sono questioni complesse, su cui Platone ritorna spesso nei suoi dialoghi, proponendone soluzioni a volte contrastanti. Cerchiamo di chiarirne i punti principali.

3.4 l'anima e le idee Con il termine psyché i greci indicavano il principio che infonde la vita e il movimento nella materia. Nella religione orfica e nel pitagorismo era inoltre presente la credenza che l'anima fosse una specie di demone o divinità inferiore, comunque immortale, condannata a trasmigrare da un corpo terreno all'altro (metempsicosi) a causa di una colpa originaria, purificandosi dalla quale sarebbe ritornata libera di vivere per l'eternità insieme agli dei. Platone riprende queste credenze. Anche per lui l'anima è la parte divina dell'uomo e appunto per questo essa è individuata come l'organo della La dottrina della conoscenza delle idee. A dimostrazioreincarnazione ne dell'immortalità dell'anima, Platone elabora le seguenti argomentazioni: 1) per la sua provenienza dal mondo soprasensibile, l'anima è affine alle idee, indivisibile e incorporea come loro, quindi immune dalle vicende terrene della generazione e della corruzione. Inoltre 2) l'anima è principio di vita; e come il fuoco, principio di calore, non può essere freddo, così l'anima non può essere mortale, cioè non può accogliere in sé il contrario di ciò che apporta. Piuttosto, sarà ragionevole ammettere che 3) la sopravvivenza dell'anima al corpo è assicurata dal principio generale secondo cui i contrari si generano l'uno dall'altro: come il grande si genera dal piccolo e la velocità dalla lentezza, allo stesso modo dalla morte del corpo dovrà generarsi la vita immortale dell'anima. La dimostrazione dell'immortalità dell'anima è condotta in particolare nel Pedone, dove viene

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attribuita a Socrate, che la espone ai suoi discepoli e amici poco prima della morte. Essa ha perciò un valore non solo metafisica ma anche d'insegnamento morale: un vero filosofo non deve temere la morte fisica, ma anzi prepararvisi come all'inizio di una nuova vita, in cui la sua anima, non più zavorrata dal corpo, potrà finalmente raggiungere quella conoscenza perfetta delle idee a cui ha aspirato già durante l'esistenza terrena. Ammesso che l'anima sia im- L'animaprigioniera mortale, resta tuttavia da chiarire del corpo un punto decisivo: in quale modo, finché è rinchiusa nella prigione corporea, essa può raccogliersi in se stessa e compiere almeno un tratto di quel percorso di elevazione al mondo intelligibile in cui secondo Platone consiste la vera filosofia?

3.5

La dottrina della reminiscenza La risposta platonica è affidata alla celebre dottrina della reminiscenza: l'anima ha avuto accesso all'iperuranio, e quindi alla conoscenza delle idee, prima di cadere sulla terra e di entrare nel ciclo delle reincarnazioni. Il trauma della caduta le ha fatto dimenticare quella conoscenza, che tuttavia può essere risvegliata dal contatto con la realtà sensibile: conoscere, pertanto, è ricordare. Nel Menone la dottrina della reminiscenza è esemplificata da un'insolita performance maieutica di Socrate, le cui domande guidano un giovane schiavo, completamente privo d'istruzione, a risolvere da solo un problema di geometria. Il successo dell'esperimento si può spiegare soltanto ammettendo che lo schiavo abbia ritrovato dentro di sé una verità che non sapeva di possedere e che nessuno finora gli aveva insegnato. Dunque, una verità che la sua anima può avere appreso solo prima d'incarnarsi nel suo corpo (il che costituisce un'ulteriore prova dell'immortalità dell'anima o almeno della sua preesistenza al corpo). Al di là delle sue componenti mitico-religiose, la dottrina platonica della reminiscenza segna un

momento importante nella storia della gnoseologia filosofica, perché inaugura il filone dell'innatismo, ossia di quelle teorie secondo le quali la conoscenza scaturisce da contenuti della mente umana che sono innati, giustappunto, o comunque indipendenti dall'esperienza sensibile. Il "risveglio" dell'anima non è però automatico. La "conversione" dal mondo sensibile al mondo intelligibile ha piuttosto il carattere di un processo lento e faticoso, non privo di momenti traumatici, che può compiersi solo sotto la guida di un esperto educatore (come del resto mostra già l'esempio del Menone, dove il ruolo di Socrate è comunque decisivo affinché lo schiavo possa prendere coscienza della verità latente dentro di lui).

rebbe fra i suoi compagni e riprenderebbe il proprio posto accanto a loro, incatenato a un sedile di pietra, con il viso rivolto verso la parete di fondo della caverna. La caverna simboleggia il mondo sensibile e la forma di conoscenza ad esso correlata, cioè l'opinione, di cui Platone distingue due modalità: la congettura o immaginazione (per gli schiavi la realtà si riduce alle ombre che sfilano di fronte a loro) e la credenza (risalendo verso l'uscita della caverna lo schiavo liberato vede direttamente gli oggetti di cui prima aveva visto le ombre). Rispetto alla congettura, la credenza è dotata ovviamente di maggiore precisione e certezza, perché nasce da un rapporto diretto con gli oggetti sensibili. La realtà esterna alla caverna sim- 1quattrò gradi boleggia il mondo intelligibile e la for- della conoscenza ma di conoscenza ad esso correlata, cioè la scienza, che Platone suddivide in matematica o conoscenza dianoetica (uscito dalla caverna, lo schiavo, abbagliato dalla luce del sole, non è ancora in grado di sostenere la vista degli oggetti che vede riflessi in uno specchio d'acqua) e dialettica o conoscenza noetica (lo schiavo si abitua ad osservare la realtà che lo circonda e rivolge infine lo sguardo verso la luce del sole). Il rapporto tra la matematica e la dialettica riproduce, nell'ambito della scienza, quello che nell'ambito dell'opinione intercorre tra la credenza e la congettura: la dialettica è superiore alla matematica, perché è la conoscenza diretta delle idee, che nelle dimostrazioni matematiche sono invece coinvolte solo indirettamente.

3.6

Il mito della caverna Il mito della caverna, nel libro VII della Repubblica, descrive in modo suggestivo le fasi di questo processo. Un gruppo di schiavi vive fin dalla nascita dentro una caverna (simbolo del mondo sensibile). Uno di essi (il filosofo) viene liberato e può così uscire dalla caverna ed esplorare la realtà esterna (simbolo del mondo intelligibile), illuminata dalla luce del sole. L'ascesa dalla caverna al mondo solare comporta per lo schiavo una serie di traumi visivi: egli deve abituare i propri occhi ad una luce sempre più forte, che dapprima lo abbaglia e lo spaventa, tanto che, se una "mano invisibile" non lo costringesse a proseguire, volentieri se ne torne-

MONDO SENSIBILE

MONDO INTELLIGIBILE

(la caverna, gli oggetti trasportati al suo interno, le loro ombre, il fuoco che rischiara l'ambiente)

(la realtà esterna, gli oggetti che la popolano e i loro riflessi nell'acqua, la luce del sole)

congettura

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credenza

~opinione/

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/ matematica

7

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dialettica

~scienza/ SEZIONE AUTORI PlA1llNE

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Il o l' l l o 3- lA DOTTRINA DEllE IDEE

3.7 La dialettica e l'Idea del Bene Il processo di formazione del "vesignificato di dialettica ro" filosofo è così descritto come un'ascesa dallo stadio inferiore dell'opinione (la congettura, ossia la conoscenza indiretta delle cose sensibili) a quello superiore della scienza: la dialettica, ovvero la conoscenza diretta delle idee. E proprio nella funzione attribuita alla dialettica si rivela uno degli aspetti più originali della filosofia di Platone. Prima di lui, infatti, la dialettica era concepita esclusivamente come l'arte della confutazione, ossia come una tecnica di discussione mirante a svelare l'incoerenza o la contraddittorietà di luoghi comuni e opinioni accreditate come vere (in questo senso sono esempi di procedimento dialettico i paradossi di Zenone, le antilogie sofistiche e la confutazione socratica). Anche in Platone la dialettica conserva una funzione critica: elevarsi alla conoscenza noetica delle idee significa infatti sottoporre a critica non soltanto l'opinione e la sua "fede" nella realtà sensibile, ma anche l'insufficienza metodologica della matematica, che non è in grado di giustificare la verità degli assiomi posti come basi delle sue dimostrazioni. Ma oltre alla funzione critica, la dialettica assume ora una funzione costruttiva: essa è il metodo che consente una conoscenza positiva delle idee e delle relazioni tra di esse, e Platone arriva perciò a identificarla con la filosofia stessa. Nel Fedro vengono specificati i due momenti caratteristici del metodo dialettico: l'unificazione e la divisione. L'unificazione o sinossi è un'attività di sintesi, che riconduce una molteplicità di Idee particolari all'unità di un'idea generale. La divisione o dia(resis è il procedimento analitico che scende dal generale al particolare, ripercorrendo ordinatamente le articolazioni interne di un'idea. Il culmine della conoscenza dialettica è la contemplazione dell'Idea del Bene, simboleggiata nel racconto della caverna dal Sole che splende al Mutamenti di

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di fuori di essa. Platone non fornisce una definizione di quest'idea, lasciando intendere che la si può raggiungere solo con una "visione" intellettuale non completamente traducibile in forme discorsive. Chiarisce tuttavia che la sua funzione nel mondo intelligibile è analoga a quella del Sole nel mondo sensibile (simboleggiato nel racconto dal fuoco che brilla dentro la caverna). Come il Sole rende possibile non solo la vista delle cose sensibili ma la loro stessa vita, così è dall'Idea del Bene che dipendono la conoscibilità del mondo intelligibile e la sua stessa esistenza.

3.8

Mondo sensibile e mondo intelligibile Come abbiamo detto, le idee trascendono il mondo sensibile ma al tempo stesso ne determinano la conoscibilità. Questo significa che tra mondo delle idee e mondo sensibile intercorre un rapporto che è sì d'alterità, ma anche, in qualche modo, di collegamento reciproco. In quale modo? Platone ne ha indicati due. Il primo è quello della partecipazione: ogni idea è presente in una molteplicità di cose sensibili, così come il giorno, ad esempio, è contemporaneamente in più luoghi. un rapporto Il secondo è quello dell'imitazioproblematico ne: le cose sono fatte a somiglianfra idee e realtà za delle idee, alle quali si rapportano come delle copie ai loro modelli. Sia nell'una che nell'altra modalità, il mondo intelligibile è posto come causa del mondo sensibile. Ma né l'una né l'altra sono prive d'inconvenienti. La partecipazione contiene un'insidia per l'unità dell'idea: com'è possibile, infatti, che un'idea sia presente in una molteplicità di cose sensibili, senza farsi essa stessa molteplice e perdere così il requisito della semplicità e indivisibilità? Questo è d'altronde un requisito essenziale, perché solo se l'idea è una e singola potrà fungere da referente comune e da unità di misura per una molteplicità di dati sensibili.

L'imitazione provoca invece un La critica di Aristotele regresso all'infinito nella ricerca e l'argomento del modello ideale a cui fanno ca- del terzo uomo po le cose sensibili (secondo quello che Aristotele renderà poi celebre come l'argomento del terzo uomo). Si consideri infatti la somiglianza tra un ente sensibile, p. es. un uomo in carne ed ossa (u), e l'idea corrispondente (l'idea di uomo = Ul). Tale somiglianza implica che u e U1 abbiano delle proprietà comuni, il cui modello esemplare andrà ricercato in una nuova e più comprensiva idea di uomo (U2); questa, a sua volta, risultando simile a u e a Ul, rinvierà a un'idea ulteriore (U3), e così via, all'infinito. Di queste difficoltà Platone fu pienamente consapevole; è infatti lui stesso ad ammetterle in uno dei suoi dialoghi più complessi e importanti, il Parmenide, dove le presenta come obiezioni rivolte dal fondatore della scuola eleatica a un Socrate ancora giovane, appassionato ma ingenuo fautore della teoria delle idee. Nella finzione del dialogo Socrate non riesce a replicare in modo convincente a Parmenide. Quella del rapporto tra mondo intelligibile e mondo sensibile resta così una questione aperta. Platone comunque non dubitò mai della dipendenza del mondo sensibile dal mondo intelligibile e ancora in uno degli ultimi dialoghi, il Timeo, ripropose su scala cosmologica, come vedremo, la dottrina dell'imitazione.

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3.9

La struttura del mondo intelligibile Quali e quante sono le idee? Platone non ne ha mai redatto un catalogo completo e definitivo, ma è costante nelle sue opere il riferimento a due classi d'idee: quelle che rappresentano dei valori (p. es. la bellezza, la giustizia, la virtù ecc.) e quelle che corrispondono agli enti matematici (come p. es. l'uguale o il triangolo). L'estensione del mondo intelligibile è tuttavia più ampia, anche se non ne sono chiaramente delimitati i confini. Nella Repubblica, ad esempio, si fa menzione delle idee di

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LA DOTTRINA DELLE IDEE

oggetti artificiali come il letto o il con la lenza tavolo. Nel Sofista viene condotta un'accurata indagine per trovare la definizione dell'idea di pesca con la lenza; il Parmenide suggerisce addirittura la possibilità che esistano idee di cose come il fango o un capello. Ma in generale Platone sembra orientato ad escludere una corrispondenza puntuale tra mondo intelligibile e mondo sensibile. Le idee sono infatti universali, cioè identificano i caratteri comuni ad una molteplicità di oggetti del mondo sensibile, non i singoli oggetti stessi. Poiché ad ogni modo le idee formano una molteplicità, occorre stabilire anche quali rapporti intercorrano fra di esse. Platone chiarisce che sono rapporti d'implicazione o di esclusione reciproca e nel Sofista assegna alla dialettica, segnatamente alla tecnica della dia{resis, il compito di accertare per ogni idea con quali altre si accordi e con quali sia invece incompatibile. In questo dialogo vengono individuate inoltre cinque "super-idee", che Platone chiama generi sommi: l'essere, il movimento, la quiete, l'identico, il diverso. Si può intenderli come dei contenitori logici, all'interno dei quali tutte le altre idee si dispongono e intrecciano le loro relazioni reciproche. È da notare l'inclusione tra i generi sommi della diversità. Ogni idea, in quanto è una e uguale a se stessa, è diversa dalle altre, il che equivale a dire che il suo essere è il non essere delle altre. Il coraggio, poniamo, è una cosa diversa dalla bellezza; si può dire perciò che il coraggio non è la bellezza. Ma allora, il non essere della bellezza non è il nulla ma l'essere, in questo esempio l'essere del coraggio, in quanto altro dalla bellezza. Bisogna dunque ammettere che anche il non essere è, appunto come diverso: è questo il celebre "parricidio" che si trova nel Sofista, cioè la confutazione di Parmenide, il ((padre venerando e terribile)) della filosofia greca, e del suo divieto di pensare che ((il non essere in qualche modo è, e l'essere, a sua volta, in qualche

L'idea della pesca

modo non è)).

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SEZIONE AUTORI PIJ\'fONE

4 Il "comunismo" platonico Abbiamo visto nel§ 2 che per Platon e una società giusta è quella in cui s'instaura una cooperazione armoniosa tra le diverse componenti del corpo sociale, ognuna delle quali si dedicherà al suo compito specifico senza sconfinare nel campo d'azione delle altre. Nel § 3 il ritratto del vero filosofo è venuto delineandosi in rapporto alla teoria delle idee: la qualifica di "filosofo" è da riservarsi a coloro che, distaccandosi dal corpo e dal mondo dei sensi, riescono ad elevarsi con l'anima alla contemplazione del mondo intelligibile. Resta ora da chiarire quale nesso stringa insieme giustizia e filosofia: perché solo dei veri filosofi potranno portare la giustizia nella società e nello Stato? Quale garanzia offrono essi di saper governare con equità e lungimiranza? È vero che formano un'aristocrazia spirituale: possiedono infatti un sapere di cui tutti gli altri (i filodossi) sono privi; ed è vero anche che il culmine di tale sapere è la visione noetica dell'Idea del Bene, che costituisce il criterio supremo di una giusta azione di governo. Ma questo ancora non basta: ci vuole anche la garanzia che essi sapranno fare un buon uso della loro sapienza; ovvero che la useranno a vantaggio della collettività e non di se stessi. Abbiamo questa garanzia? Secondo Platone, sì. Torniamo al mito della caverna. Quando infine lo schiavo-filosofo rientra, a malincuore, nella caverna, i suoi occhi, abituati ormai alla luce del sole, restano offuscati e perciò incapaci di discernere le ombre che sfilano sulla parete. I compagni lo deridono e lo compatiscono, credendolo rovinato per sempre. Essi si cimentano di solito in una gara, che consiste nell'indovinare l'ordine con cui le ombre si succederanno; ai vincitori vengono tributati premi e onori. Ovviamente lo schiavo-filosofo non potrà gareggiare fino a quando non si sarà riadattato alla penombra della caverna. Ma poi risulterà lui il più bravo, perché sarà l'unico in grado di collegare quelle ombre agli oggetti che vengono trasportati alle loro spalle e l'intero amIl paradosso

del buon governo

biente della caverna al mondo esterno, illuminato dalla luce del sole. A lui spetteranno dunque gli onori e i premi, ma si può star certi che non proverà per questo nessuna soddisfazione: sentirà piuttosto un'acuta nostalgia del mondo solare, dove anche da servo vorrebbe tornare a vivere. Di primeggiare dentro la caverna, non gl'importerà nulla. La gara che si svolge tra gli schiavi rappresenta la politica, o più precisamente il processo mediante il quale una comunità seleziona la sua classe dirigente. Platone vuol farci comprendere che il filosofo è legittimato a governare non soltanto dalla sua sapienza, ma anche e soprattutto dal suo disinteresse personale. Se è un vero filosofo, gli sembrerà degna d'esser vissuta solo una vita dedicata interamente allo studio e alla conoscenza speculativa. Quindi assumere il po- Detenga il potere t ere politico sarà per lui come ri- chi lo avversa tornare nella caverna dopo aver vissuto alla luce del sole: un sacrificio che egli compie per senso del dovere verso la collettività, senza aspettarsi ricompense o vantaggi. Una classe dirigente formata da veri filosofi non sarà dunque avida e attaccata al potere, ma al contrario desiderosa di sbarazzarsene al più presto per tornare indisturbata alla vita contemplativa. È questa la migliore garanzia che essa non piegherà l'azione di governo a interessi particolari, ma perseguirà esclusivamente l'interesse generale della collettività: ((/o Stato che è amministrato meglio di ogni altro e più pacificamente di ogni altro, è senz'altro quello in cui detiene il potere chi meno lo desidera)) (Repubblica 520 D). {)----------

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testo 1.2 ·

4.1 l'abolizione della proprietà privata e della famiglia A rendere ancor meno appetibile per i filosofi l'assunzione di una responsabilità di governo, contribuisce peraltro il regime di vita prospettato per loro nella Repubblica. Non potranno possedere

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4- IL "COMUNISMO" PLATONICO

nulla, né case né altri beni materiali, perché la disuguaglianza di ricchezze sarebbe una causa potenziale di rivalità e di conflitti tra di essi. Vitto e alloggi saranno dunque in comune, a spese dello Stato, che provvederà a tutte le loro necessità. Non potranno nemmeno formarsi una famiglia e allevare i figli. Questo è uno degli aspetti più provocatori della teoria politica di Platone; ma è anche un'applicazione coerente del suo principio di fondo, secondo il quale, come abbiamo visto, il disinteresse dei governanti è il requisito fondamentale di una società giusta. AnInteresse pubblico che il possedere una famiglia e dei e interesse privato figli verrebbe infatti a configurare un interesse privato (non materiale ma affettivo), che i governanti potrebbero essere tentati di anteporre all'interesse pubblico, di cui soltanto devono prendersi cura. Perciò i loro figli, appena nati, verranno portati via e inseriti in asili pubblici, dove cresceranno senza che i genitori abbiano la possibilità di distinguerli gli uni dagli altri. Sarà la comunità tutta a farsi carico della loro educazione e a valutare in modo imparziale le loro qualità intellettuali e morali. Si eviteranno così i favoritismi, le gelosie e le invidie che derivano dalla privatezza degli affetti famigliari. Potranno essere ammessi nella classe dei custodi tutti coloro che saranno dotati delle attitudini richieste, indipendentemente dal ceto sociale di provenienza e dal sesso. Non soltanto gli uomini, dunque, ma anche le donne, che svolgeranno le stesse mansioni degli uomini, riceveranno la stessa educazione, condurranno lo stesso tipo di vita. Secondo Platone, infatti, la differenza biologica tra i sessi non è motivo d'inferiorità dell'uno rispetto all'altro e non giustifica dunque in nessun modo l'esclusione delle donne dalla vita pubblica. Non essendo consentita la formazione di famiglie stabili, le unioni fra gli uomini e le donne appartenenti alla classe dei custodi saranno pilotate dallo Stato secondo un criterio d'eccellenza: gli uomini migliori dovranno accoppiarsi con le donne

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migliori, in modo da ottenere una La selezione prole selezionata e preservare così dei migliori la qualità del gruppo dirigente nel passaggio da una generazione all'altra. Come si vede, il modello ideale dello Stato platonico contiene aspetti "illuminati", come il riconoscimento della parità fra i sessi, che oggi possiamo considerare parte integrante del nostro patrimonio culturale e civile; ma anche aspetti artificiosi, come la proposta di abolizione della famiglia, o che addirittura evocano pratiche efferate e urtano la nostra sensibilità, come l'idea di una selezione eugenetica della prole. Ma resta vero che, pur suscettibili di valutazioni così diverse, questi aspetti si armonizzano, nel ragionamento di Platone, in un progetto coerente di riforma della politica, diretto ad assicurare, costi quel che costi, la supremazia degli interessi collettivi sugli interessi privati.

4.2

L'educazione dei custodi Nella Repubblica Platone ritorna più volte sul tema dell'educazione, al quale attribuisce un'importanza cruciale D 4 PAIOÉIA: LA FILOSOFIA DELl'EDUCAZIONE L'educazione è infatti lo strumento con cui si forma la coscienza dei cittadini e si prepara l'avvento di una classe dirigente che sappia prendersi cura del bene comune. È indispensabile perciò che sia lo Stato a farsene carico, predisponendo un piano d'intervento sistematico (si noti che viene così enunciato un principio che troverà attuazione solo negli stati moderni, dalla fine del XVIII sec. in poi). Platone prevede un itinerario educativo che, per i futuri governanti, si protrae dalla fanciullezza fi:no all'età adulta. L'insegnamento della ginnastica e della musica, nella prima fase, sarà mirato alla formazione armoniosa del corpo e dell'anima del discente. Si procederà quindi con la matematica, che per Platone è un'indispensabile propedeutica alla conoscenza del mondo intelligibile, e infine con

la dialettica, che rappresenta lo sbocco filosofico dell'intero processo d'apprendimento. Un aspetto caratteristico della paidéia platonica è la condanna dell'arte, ovvero la negazione del suo valore educativo. È da tenere presente, a questo proposito, che nella società greca del tempo di Platone l'arte godeva di un indiscusso prestigio pedagogico: gli ideali e i valori che venivano proposti ai giovani, per formare la loro personalità, erano attinti infatti dalla tradizione poetica, in particolare dai poemi omerici. Contro questa tradizione Platone sferra un duro attacco, argomentandolo con due ordini di ragioni. In primo luogo, la sua è una con- L'arte è due volte danna di tipo morale: la poesia non lontana dalla verità si fa scrupolo di attribuire agli dei i vizi peggiori della natura umana, che vengono così legittimati e suggeriti ai giovani come modelli da seguire. In secondo luogo, sia l'arte figurativa sia quella letteraria si costituiscono ad imitazione del mondo sensibile, il quale, come sappiamo, è a sua volta per Platone un'imitazione del mondo intelligibile. Dunque l'arte non è che l'imitazione di un'imitazione, e in quanto tale priva di verità. Per le suddette ragioni, l'arte potrà rientrare nei programmi dell'educazione statale solo a condizione di porsi al servizio della filosofia e di sottostare al suo controllo. Proprio questa, del resto, è la finalità implicita nell'attacco di Platone: togliere all'arte il suo tradizionale primato in campo educativo, per consegnarlo alla filosofia. Lo studio della dialettica, con il quale giunge a compimento la formazione dei filosofi, non dovrà essere intrapreso prima del trentesimo anno d'età e avrà una durata di cinque anni. Ci vorranno poi quindici anni di adattamento alla vita pratica (nel racconto della caverna, il tempo che occorre allo schiavo per riabituarsi alla penombra). Giunti all'età di cinquant'anni, i filosofi prenderanno finalmente le redini dello Stato, non per ambizione ma per obbligo di gratitudine: lo Stato si è preso cura di loro, guidandoli con l'educazione fino alla conoscenza del Bene, ora tocca a loro prendersi cura dello Stato, governandolo con saggezza e giustizia.

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5 Sotto il segno di Eros Platone non è solo il creatore della metafisica occidentale. Non è solo un teorico della politica, della conoscenza e dell'educazione. Il corpus dei suoi dialoghi si caratterizza per la grande varietà dei temi che vi sono affrontati, tanto da potersi dire che nessuno dei possibili campi d'indagine della filosofia sia stato da lui trascurato (inll3 sono documentate la sue riflessioni sul linguaggio, cioè su una delle questioni che, ovviamente in una prospettiva mutata, sono divenute centrali nella filosofia moderna e contemporanea). A Platone siamo debitori anche di una magnifica teoria su un aspetto dell'esperienza umana solitamente poco esplorato dai filosofi: l'amore. Che si tratti di un aspetto importante, lo sappiamo tutti, ma non è facile spiegare perché sia così importante: non solo l'amore per un'altra persona (e per noi stessi), ma l'amore come forma di apertura al rapporto con il mondo, quale in effetti lo consideriamo, allorché parliamo ad esempio di amore per il nostro prossimo, per la natura o gli animali, per la patria o la giustizia, per la musica o per il gioco del calcio. In due dei suoi dialoghi più belli e famosi, il Simposio e il Fedro, Platone ci aiuta a comprendere il significato e l'importanza dell'amore. Il Simposio è un dialogo atipico, perché non procede per botta e risposta, secondo il consueto stile socratico fedelmente riprodotto da Platone nella maggior parte dei suoi dialoghi. Consta invece di una serie di discorsi in onore del divino Eros, tenuti a turno dai commensali di un banchetto, ospiti nella finzione del dialogo del poeta Agatone, che festeggia con loro la vittoria ottenuta in un concorso letterario. La teoria platonica dell'eros è rispecchiata dal discorso conclusivo, affidato come al solito a Socrate, la cui sapienza in merito alle cose d'amore è presentata come il frutto della rivelazione fattagli da Diotima, una sacerdotessa di Mantinea. Seppure indirettamente, una figura femminile vie-

un sapere completo

e variegato

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SEZIONE AUTORI PUil'ON~

ne così inserita da Platone, quale un indiretto depositaria delle più alte verità sul- intervento femminile l'amore, in un consesso di norma riservato agli uomini.

5.1 Il mito dell'androgino Fra gli ospiti di Agatone che prendono la parola prima di Socrate v'è anche Aristofane, il celebre commediografo autore fra l'altro, nella realtà storica, di una feroce satira di Socrate (Le Nuvole, 423 a.C.). A lui Platone fa pronunciare il buffo mito dell'androgino, nel quale, con intento semiserio, l'importanza dell'amore viene collegata al senso d'incompletezza che accompagna ogni singolo individuo: nessuno di noi può realizzarsi pienamente, come persona, senza unirsi ad un'altra persona. Presi da soli, è come se fossimo una banconota dimezzata: non serviamo a nulla. Per essere noi stessi abbiamo bisogno di congiungerci con l'altra metà, ricomponendo quella che il mito descrive come l'unità originaria infranta da una punizione divina. Il desiderio amoroso si configura come aspirazione a ricomporre quell'unità, quindi come desiderio di fusione con la persona amata. Un aspetto interessante del mito dell'androgino sta nel fatto che esso propone una visione della sessualità profondamente diversa da quella che, specialmente con l'avvento e la diffusione del cristianesimo, diventerà predominante nella civiltà occidentale. Nel mito, l'eros omosessuale viene considerato infatti altrettanto "naturale" di quello eterosessuale. In origine i sessi erano tre, tutti doppi: i màschijmaschi, le femmine/femmine e appunto gli androgini, metà maschi e metà femmine. I discendenti di questi ultimi saranno eterosessuali, cercheranno cioè di ricostituire l'unità originaria accoppiandosi con il sesso opposto. Gli altri, invece, saranno naturalmente inclini all'omosessualità, che nella sua versione maschile viene esaltata come la forma

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più elevata di attrazione erotica, per la possibilità che essa offre agli amanti di generare insieme "discorsi belli", in cui la loro capacità "procreativa" si esalta quanto e forse più che nella riproduzione fisica della specie legata all'amore eterosessuale. Inoltre, il mito dell'androgino costituisce probabilmente una parodia dei "miti della caduta", ovvero di quelle rappresentazioni della condizione umana che ne spiegano gli aspetti negativi (la mortalità, le sofferenze fisiche e morali ecc.) come conseguenze di un peccato di ribellione, in seguito al quale l'umanità sarebbe decaduta dallo stato originario di felicità predisposto per essa dalla divinità.

una bellezza superiore, priva di forme sensibili, assoluta ed eterna. Il primo gradino della scala rappresenta il modo in cui è più facile entrare in contatto con la bellezza: l'attrazione fisica. L'amore per un corpo, la prima volta, ma poi gradualmente per tutti i corpi è il primo passo che dev'essere compiuto, sotto la guida di un educatore, per iniziarsi ai misteri d'amore. Chi procede per la giusta via verso questo termine, bisogna che incominci fin da giovane ad awicinarsi ai corpi belli e, in primo luogo, se chi gli fa da guida lo guida bene, bisogna che ami un corpo solo e in quello generi discorsi belli; ma poi bisogna che capisca che la bellezza presente in un corpo qualsiasi è sorella della bellezza che è in un altro corpo. [... ] E dopo che ha capito questo, deve farsi amatore di tutti i corpi belli e moderare l'eccessivo ardore per un solo corpo, facendone poco conto e giudicandolo una piccola cosa.

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5.2 La scala dell'eros Nel grande discorso di Socrate, la teoria platonica dell'eros si dispiega finalmente in tutta la sua portata, saldandosi con la teoria delle idee. Il punto centrale del discorso socratico è la correlazione tra amore, bellezza e procreazione. L'amore è sempre amore di ciò che è bello per noi. L'amore: Ed è bello, per noi, tutto ciò che sucreatore del bello scita un desiderio di procreazione, non solo fisica ma anche spirituale: l'amore, qualunque sia il suo oggetto, è sempre e soltanto desiderio di "partorire nel bello". La procreazione, fisica o spirituale, ci consente di trascendere i limiti della nostra esistenza finita, proiettandoci nella dimensione dell'immortalità. Per questo l'amore è così importante per noi. Ma allora si deve coltivare dentro di sé il desiderio della bellezza, farsi cacciatori di bellezza, provarsi a snidarla anche dove apparentemente non c'è. È questo il senso della celebre scala dell'eros che Socrate afferma essergli stata rivelata dalla sacerdotessa Diotima: una sorta di percorso guidato attraverso le varie forme della bellezza Le molte forme mondana, al culmine del quale Si della bellezza dispiega la visione intellettuale di l

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Platone, Simposio, 210 A-B, in: Tutti gli scritti, cit

Potrebbe sembrare un invito allibertinaggio, ma la cosa importante, per Platone, è aprirsi alla bellezza (qui dei corpi, ma più in generale del mondo), e cioè sforzarsi di riconoscerne la presenza per ogni dove, presumere che, se non la scorgiamo, è per un difetto nostro, non perché essa non ci sia. Quanto più a lungo sapremo mantenerci in questa disposizione, tanto più capiente di bellezza diventerà il nostro animo, e perciò anche più padrone di se stesso. Infatti, imparando a riconoscere e ad amare la bellezza in tutte le sue forme, dalle più basse alle più alte, non dipenderemo più da nessuna di esse (mon più amando come uno schiavo la bellezza che è in una sola cosw). Il secondo gradino è quello in cui si apprezza la bellezza che è nelle anime ((Come di maggior valore rispetlv a quella che è nei corpi>); il terzo riconosce il bello che è nelle varie attività umane e nelle leggi; nel quarto ci si spinge a vedere la bellezza delle conoscenze e dunque La filosofia come a vivere nell'amore della sapienza. forma d'amore

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5- SOTTO Il SEGNO DI EROS

SCHEDA-STORIA

l banchetti in Grecia La parola symposion che traduciamo con 'banchetto' significa letteralmente "riunione di bevitori". Infatti ogni pranzo di gala e ogni banchetto di confraternita religiosa o di associazione (thiasos) comportavano due tempi successivi: prima il soddisfacimento della fame, il pasto propriamente detto, poi (ma questa seconda parte non era affatto secondaria per importanza perché dava il nome al simposio e durava di solito più a lungo) l'assunzione della bevanda, soprattutto vino, accompagnata da ogni sorta di divertimenti in comune, diversi a seconda delle occasioni e dell'epoca: conversazioni, giochi, ascolto di musica, danze ecc. [... ] · Si trattava sempre, ad Atene come nei sissiti [simposi] spartiati, di pasti fra uomini; [... ]le donne libere erano rigorosamente escluse dalle riunioni della vita sociale come da tutte quelle della vita politica. In compenso avevano, in certe feste religiose, banchetti ad esse strettamente riservati, come ad esempio, ad Atene, le Tesmoforie. [... ] Arrivati alla casa dell'ospite, si toglievano le scarpe, i servi lavavano i piedi agli invitati che passavano poi nella sala dei banchetti. [... ]In generale, essi mangiavano coricati o con le gambe tese su un letto con il busto leggermente inclinato sostenuto da cuscini come si vede in tante pitture vascolari o bassorilievi che rappresentano scene di banchetto. [... ] Certi commensali invitati solo per il simposio propriamente detto arrivavano alla fine della prima parte della cena. Le libagioni cominciavano con una bevanda dedicata agli dei e soprattutto a Dioniso, la buona divinità che aveva donato il vino agli uomini. La libagione consisteva nel bere una piccola quantità di vino puro spargendone qualche goccia e invocando il nome del dio. Poi si designava, spesso a sorte, il "re del banchetto" (simposiarca) la cui funzione principale consisteva nel fissare le proporzioni di vino e d'acqua e nel decidere quante coppe ogni invitato doveva bere. Era d'uso brindare alla salute di ogni invitato, a turno. Chi disobbediva al re del banchetto doveva subire una specie di punizione, come danzare nudo o fare tre volte il giro della sala portando fra le braccia la suonatrice di oboe la cui presenza ora di rigore. Spesso i banchetti si chiudevano nell'ubriachezza generale e varie pitture vascolari ci mostrano donne che sostengono e trascinano a fatica a casa i bevitori completamente fuori di sé. Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, Milano, Rizzoli 1984, pp. 220-223

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Man mano che si procede lungo la scala, le cose amate in precedenza (i gradini inferiori) perdono il valore esclusivo che avevano avuto dapprima e vengono inquadrate dall'alto in una prospettiva più ampia, che permette di stabilirne la corretta posizione nella gerarchia della bellezza mondana. A quelli che riescono a raggiungere la cima della scala (cioè l'amore per la bellezza del sapere), è riservato il privilegio della visione di una bellezza superiore, di cui la bellezza delle cose sensibili non è che il pallido riflesso.

Costui, pervenendo ormai al termine delle cose d'amore, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso, proprio quello, o Socrate [è Diotima che parla], a motivo del quale sono state sostenute tutte le fatiche di prima: in primo luogo, qualcosa che sempre è, e che non nasce né perisce, non cresce né diminuisce, e inoltre non è da un lato bello e dall'altro brutto, né talora bello e talora no, né bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un'altra, né bello in una parte e brutto in altra parte, né in quanto bello per alcuni e brutto per altri. E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani [... ],· né come un discorso e come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos'altm [... ], ma si manifesterà in se stesso, per se stesso, con se stesso, come forma unica che sempre è. Invece, tutte le altre cose belle partecipano di quello in un modo tale che, anche se esse nascono e periscono, quello in nulla diventa maggiore o minore, né patisce nulla. ~

Cit., 211 B-C

Muovendo dalla bellezza sensibile, ma procedendo oltre di essa, rivolgendosi infine verso la conoscenza, l'amore è dunque uno strumento di elevazione spirituale. Grazie ad esso possiamo avvertire la nostra appartenenza al mondo soprasensibile. È l'energia, per dir così, che può ravvivare la nostra anima e proiettarla al di là delle apparenze sensibili, su fino al "sopracielo" delle idee, dove una volta, al seguito di qualche dio, essa vide splendere nel suo eterno fulgore la forma metafisica che rende belle tutte le cose belle.

5.3

la mania d'amore Nel Fedro, la man{a d'amore viene esaltata come un dono divino che rende accessibili verità precluse alle menti "assennate". Platone sfoggia qui una delle sue più suggestive e potenti raffigurazioni mitologiche: alle anime che ora sono imprigionate nei nostri corpi (

Cit., 248 E-249 A

SEZIONE AUTORI PUil'IJt~E

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-PROFILO

6 Il mondo è un'opera d'arte In uno dei suoi ultimi dialoghi, il Timeo, Platone racconta un mito sull'origine dell'universo: un divino artefice, il demiurgo, lo avrebbe "fabbricato" plasmando una materia primordiale (ch6ra), informe e caotica. Si tratta appunto di un racconto, che non pretende di dimostrarsi vero, ma solo verosimile. Per Platone, infatti, le questioni fisiche e cosmologiche non ammettono conclusioni certe, di provata validità scientifica, ma solo ipotesi di soluzione, più o meno plausibili. La cosmologia del Timeo è presentata in forma di narrazione mitica proprio per sottolinearne il carattere ipotetico, seppur altamente probabile. Stavolta non è Socrate a condurre il dialogo, ma Timeo di Locri, un esponente della scuola pitagorica. Platone riconosce così il proprio debito verso la tradizione filosofica dalla quale ha imparato che . Con ciò aveva scagliato al di sopra di tutti i convenuti le sorrispondere all'asse di rotazione delle sfere celesti. ti e ciascuno raccoglieva quella che gli era caduta vicino, salvo Er, cui non 6. Nella mitologia greca, Lachesi, Cloto e Atroera permesso di farlo. Chi l'aveva raccolta vedeva chiaramente il numero po erano le tre Parche oMoire che filavano il da lui sorteggiato. Sùbito dopo ~»>"""'~" ~ '"""'"~'"~'"'~"~-"~'"~~ -~~-"" -,~,' M~~'""~~-~-~

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Nella prima parte della Su mma contra gentiles Tommaso affronta il problema dei rapporti tra fede e ragione, e quindi tra religione e filosofia. Il termine 'gentile' veniva usato nei primi secoli del cristianesimo per indicare i pagam; per estensione in Tommaso indica i non cristiani. Capitolo Il. L'intenzione dell'autore nella compilazione dell'opera. Tra tutti i compiti cui si applicano gli uomini, lo studio della sapienza la vince in perfezione, sublimità, utilità e godimento. In perfezione, perché nella misura in cui l'uomo si applica alla sapienza, partecipa in qualche maniera alla vera beatitudine; [... ] in sublimità, perché tale studio specialmente awicina l'uomo alla somiglianza di Dio, il quale ((ha fatto con sapienza tutte le cosell (Sa/m., 111, 24); in utilità, perché mediante la sapienza si giunge al regno dell'immortalità [... ]; in godimento, finalmente, perché (da familiarità con la sapienza non ha amarezze, ne dà fastidio la sua convivenza, ma letizia e gioim (Sap., VIli, 16).

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Prendendo perciò fiducia dalla bontà divina, nell'affrontare il compito del sapiente, pur trattandosi di un'impresa superiore alle nostre forze, ci proponiamo di esporre, secondo le nostre capacità, la verità professata dalla fede cattolica, respingendo gli errori contrari [... ]. È però difficile confutare tutti e singoli gli errori, per due motivi. Primo, perché non abbiamo tale conoscenza delle asserzioni sacrileghe dei singoli oppositori, da poter desumere validi argomenti dalle ragioni da essi addotte per distruggere, partendo da esse, i loro errori. Così infatti fecero gli antichi dottori nel distruggere gli errori dei gentili, avendo avuto la possibilità di conoscere le loro posizioni, essendo stati gentili loro stessi, o perlomeno avendo vissuto con essi ed essendo stati istruiti nelle loro dottrine. Secondo, perché alcuni di essi, quali i Maomettani e i pagani, non accettano come noi l'autorità della Scrittura, mediante la quale è possibile invece disputare con gli Ebrei, ricorrendo all'Antico Testamento, oppure con gli eretici ricorrendo al Nuovo Testamento. Quelli invece non accettano né l'uno né l'altro. Perciò è necessario ricorrere alla ragione naturale, a cui tutti sono costretti a piegarsi. Questa però nelle cose di Dio non è sufficiente. Nell'investigare quindi certe verità, mostreremo quali errori esse escludano, e in che modo la verità raggiunta con la dimostrazione concordi con la fede della religione cristiana. Capitolo 111. Modi possibili per manifestare la verità divina. Ma poiché non è identico il modo di manifestare ogni tipo di verità, poiché secondo l'ottima osservazione di Aristotele riferita da Boezio, ((è proprio dell'uomo saggio contentarsi in ciascuna cosa di capire quanto la natura di essa comporta)) [... ], prima di tutto è necessario vedere quale sia il modo possibile di manifestare la verità proposta. Ora, tra le cos~ che affermiamo di Dio ci sono due tipi di verità. Ce ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana: come, per esempio, l'unità e trinità di Dio. Altre invece possono essere raggiunte dalla ragione naturale: che Dio esiste, per esempio, che è uno, ed altre cose consimili. E queste furono dimostrate anche dai filosofi, guidati dalla luce della ragione naturale. Che tra le nozioni riguardanti Dio ce ne siano di quelle le quali superano del tutto l'ingegno dell'uomo è evidentissimo. Principio infatti di qualsiasi conoscenza di ordine razionale è l'intellezione della natura di una cosa; poiché, come Aristotele spiega, principio della dimostrazione è la quiddità [la natura, le proprietà di una cosa]. Cosicché le proprietà che noi conosciamo di una cosa dipendono dal modo di comprenderne la natura. Se quindi l'intelletto umano comprende la natura di determinate cose, per esempio, della pietra o del triangolo, nessuna nozione relativa ad esse supera la capacità della ragione umana. Ma questo non awiene nella nostra conoscenza di Dio. Poiché l'intelletto umano non può arrivare a conoscerne l'essenza mediante le sue capacità naturali, essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sotto il dominio dei sensi non possono essere capite dall'intelletto umano, se non in quanto la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili. Ora, le cose sensibili non possono condurre il nostro intelletto a scorgere in esse la quiddità della natura divina: poiché si tratta di effetti che non adeguano la virtù della causa. Tuttavia dalle cose sensibili il nostro intelletto viene condotto a conoscere di Dio che esiste, ed altre perfezioni che si devono attribuire al primo principio. Ci sono quindi delle cose divine che la ragione umana può raggiungere, e altre che ne trascendono del tutto la capacità. [... ]

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Capitolo IV. È conveniente che all'uomo vengano proposte da ritenere per fede le verità divine che possono essere investigate dalla ragione naturale. Essendoci dunque due serie di verità riguardo alle cose di Dio, la prima raggiungibile dalla ragione, mentre la seconda trascende qualsiasi capacità dell'ingegno umano, è conveniente che entrambe vengano proposte all'uomo da Dio come materie di fede. In proposito bisogna prima di tutto notare in che condizioni si trovino quelle verità che sono raggiungibili dall'indagine razionale, perché a nessuno sembri inutile la loro presentazione come oggetto di fede dall'ispirazione soprannaturale, dal momento che sono raggiungibili dalla ragione. Seguirebbero infatti tre inconvenienti, se codeste verità fossero lasciate alla sola indagine razionale. Primo, che pochi uomini avrebbero la conoscenza di Dio. Poiché i più si troverebbero impediti dal raggiungere i risultati di una ricerca scientifica, sarebbero cioè negati alla scoperta della verità, per tre motivi. Alcuni lo sarebbero per la loro complessione, che rende moltissimi inadatti allo studio. Cosicché costoro con tutto il loro impegno non sarebbero capaci di raggiungere il grado supremo della conoscenza umana, che consiste nella cognizione di Dio. Altri sono impediti dai bisogni familiari. Tra gli uomini infatti molti sono costretti a curare gli interessi temporali, così da non poter impiegare tanto tempo nella ricerca e nella contemplazione, per poter giungere al fastigio dell'indagine umana, cioè alla conoscenza di Dio. Finalmente altri sono impediti dalla pigrizia; poiché per conoscere quanto la ragione può sapere di Dio, è necessaria la previa conoscenza di molte cose, dal momento che quasi tutta la filosofia è ordinata alla conoscenza di Dio. Infatti la metafisica, che ha per oggetto le cose divine, viene insegnata per ultima tra le discipline filosofiche. Perciò non si può arrivare all'indagine delle suddette verità, se non con grande fatica di studio; fatica che pochi si rassegnano ad affrontare per amore del sapere, pur avendone Dio posto in tutte le anime il desiderio naturale. Secondo inconveniente: quegli stessi che raggiungessero la conoscenza o la scoperta di codeste verità, ci arriverebbero difficilmente e dopo lungo tempo: sia per la profondità di esse, che richiede da parte della ragione umana un lungo esercizio, sia per le molte conoscenze prerequisite di cui abbiamo parlato, sia perché in gioventù l'anima, agitata tra i moti contrastanti delle passioni, non è adatta all'esercizio di una conoscenza così alta, ma {{diviene prudente e savia nell'acquietarsi)), come si esprime Aristotele nel settimo libro della [Fisica]. Perciò il genere umano resterebbe nelle più fitte tenebre dell'ignoranza, se per conoscere Dio non avesse altra via che la ragione; qualora la conoscenza di Dio, che è il massimo coefficiente della perfezione e della bontà, fosse riservata a pochi, che poi non ci arriverebbero se non dopo lungo tempo. Il terzo inconveniente sta nel fatto che nelle investigazioni della ragione umana il più delle volte si mescola il falso, a cagione della debolezza nostra nel giudicare sotto le impressioni della fantasia. Perciò presso molti resterebbero dubbie anche le cose rigorosamente dimostrate, non afferrando essi il valore delle dimostrazioni; e soprattutto vedendo i pareri contrastanti di coloro che sono considerati sapienti. E anche nelle verità dimostrate talora si mescola qualche falsità, che non deriva dalla dimostrazione, bensì da ragioni probabili o sofistiche, considerate come vere dimostrazioni. Ecco perché era necessario che le verità divine fossero presentate agli uomini con certezza assoluta come materia di fede. Perciò la divina bontà prowide salutarmente a comandarci di tenere per fede anche le verità conoscibili con la ragione: affinché tutti possano con facilità essere partecipi della conoscenza di Dio, senza dubbi e senza errori[ ... ].

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Capitolo V. È opportuno che all'uomo vengano proposte come materia di fede cose che non possono essere investigate dalla ragione. A qualcuno forse potrà sembrare che all'uomo non si debbano proporre a credere cose che la ragione non è in grado di investigare; poiché la sapienza divina prowede a ciascun essere secondo la sua natura. Perciò bisogna qui dimostrare che era necessario venissero proposte all'uomo come materia di fede anche cose che sorpassano la ragione. Ebbene, nessuno tende con desiderio e con impegno verso cose che non conosce. Ora, avendo la divina prowidenza [... ] preordinato l'uomo a un bene più alto di quello sperimentabile nella vita presente, era necessario che la mente umana venisse iniziata a cose più alte di quelle raggiungibili al presente dalla nostra ragione; imparando così a desiderare e a perseguire beni che trascendono la nostra condizione attuale. E questo compete soprattutto alla religione cristiana, che promette in modo singolare beni spirituali ed eterni. Ecco perché in esse si riscontrano molti insegnamenti che superano le capacità umane. [... ] Anzi è necessario che agli uomini vengano proposte come cose di fede verità di codesto genere, per avere di Dio una conoscenza più vera. Allora soltanto, infatti, noi conosciamo Dio veramente, quando lo crediamo superiore a quanto l'uomo è capace di pensarne: poiché la verità divina trascende la conoscenza naturale dell'uomo, come sopra abbiamo notato, perciò dall'esser proposte all'uomo verità divine superiori alla ragione, si conferma nell'uomo l'opinione che Dio è qualcosa di superiore a quanto è possibile pensare. C'è poi in questo un altro vantaggio, cioè il freno della presunzione che è madre dell'errore. Ci sono invero alcuni così presuntuosi del proprio ingegno, che immaginano di poter misurare con la propria intelligenza la natura divina, ritenendo per vero quello che loro sembra tale, e falso quello che non li persuade. Affinché, dunque, l'animo umano liberato da siffatta presunzione potesse giungere a ricercare con modestia la verità, era necessario che Dio proponesse all'uomo delle nozioni che superano del tutto l'intelligenza umana. Un altro vantaggio poi è quello cui accenna Aristotele nel decimo libro dell'[ftica]. Volendo infatti un certo Simonide convincere un uomo a disinteressarsi delle cose di Dio, per applicare il proprio impegno alle cose umane, col pretesto che (d'uomo deve intendersi delle cose umane e il mortale di quelle mortalill, il Filosofo replica dicendo che (d'uomo deve innalzarsi per quanto è possibile alle cose immortali e divinell. [... ] E da tutti questi argomenti appare evidente che la conoscenza delle cose più sublimi, per quanto imperfetta, conferisce all'anima la più grande perfezione. Perciò, sebbene la ragione umana non possa capire pienamente ciò che la trascende, tuttavia acquista così una grande eccellenza, ritenendo almeno per fede codeste verità. Ecco perché nell'Ecc/esiastico, 111, 25, si legge: ((ti sono state mostrate molte cose che sorpassano la comprensione umanm; e nella l Cor., Il, 1O, S. Paolo afferma: messuno conosce i segreti di Dio all'infuori dello Spirito di Dio: ma Dio ce li ha rivelati mediante suo SpiritOll. Capitolo VI. Non è atto di leggerezza l'assenso alle cose di fede, per quanto esse siano superiori alla ragione. Prestando fede a queste verità, che la ragione umana non è in grado di controllare, non si fa un atto di leggerezza, quasi ((prestando fede a dotte favolell, secondo l'espressione di S. Pietro [... ]. Poiché la stessa sapienza divina, che tutto conosce in modo completo, si degnò di rivelare



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i suoi segreti agli uomini; mostrando il suo intervento e la verità del suo insegnamento e della sua ispirazione con argomenti adatti: confermando cioè cose che sorpassano la conoscenza naturale con opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura. Vale a dire con la guarigione prodigiosa di malattie, con la resurrezione dei morti, con le mutazione miracolose dei corpi celesti, e, cosa ancora più mirabile, con l'ispirazione interiore delle menti umane, così da riempire col dono dello Spirito Santo uomini ignoranti e semplici, facendo loro conseguire all'istante somma sapienza ed eloquenza. In considerazione di ciò, per l'efficacia delle prove suddette e non già per violenza di armi, né per attrattiva di piaceri e, cosa mirabilissima, in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapienti abbracciò la fede cristiana; nella quale vengono predicate cose che trascendono qualsiasi intelletto umano, mentre insegna a tenere a freno i piaceri della carne, e a disprezzare tutte le cose del mondo. Ora, l'adesione degli animi dei mortali a queste cose è insieme il più grande dei miracoli, ed esige l'intervento manifesto dell'ispirazione divina, per disprezzare le cose visibili nel solo desiderio di quelle invisibili. [... ] Questa mirabile conversione del mondo alla fede cristiana è segno certissimo degli antichi miracoli, così da non esser necessaria la loro ripetizione, apparendo essi evidenti nei loro effetti. Sarebbe infatti il più strepitoso dei miracoli, se il mondo fosse stato indotto a credere cose tanto ardue, a compiere azioni tanto difficili e a sperare cose tanto alte da uomini semplici e poveri, senza prodigi mirabili. Sebbene Dio non cessi, anche ai nostri giorni per confermare la fede, di compiere miracoli per mezzo dei suoi santi [... ]. Capitolo VII. Le verità di fede non sono incompatibili con la ragione. Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i principi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti: 1. l principi così innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi. E neppure è lecito ritenere che possa essere falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio e in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, come è evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità di fede possa essere contraria a quei principi che la ragione conosce per natura. 2. Inoltre, le idee che l'insegnante suscita nell'anima del discepolo contengono la dottrina del maestro, se costui non ricorre alla finzione; il che sarebbe delittuoso attribuire a Dio. Ora, la conoscenza dei principi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l'autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi principi. Perciò quanto è contrario a tali principi è contrario alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina, non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale. 3. In più, ragioni contrarie legano l'intelletto nostro al punto da non poter procedere alla conoscenza della verità. Perciò se Dio ci infondesse conoscenze contrastanti, impedirebbe al nostro intelletto di conoscere le verità. Il che non si può pensare di Dio. 4. Inoltre, ciò che è naturale non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell'uomo un'opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale. [... ] Ma poiché le verità di fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come ad essa con-

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antologia · trarie; il che è impossibile. Ciò è confermato da quelle parole di S. Agostino: «Guanto viene manifestato dalla verità in nessun modo può essere in contrasto sia col Vecchio, che col Nuovo TestamentO)) [... ]. Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai principi primi naturali noti per se stessi. Equindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere. Capitolo Vili. Rapporto tra la ragione umana e le verità di fede. Si deve notare che le cose sensibili dalle quali la ragione umana desume la conoscenza, conserva in sé un certo vestigio della causalità divina però così imperfetto da essere del tutto insufficiente a manifestare la natura stessa di Dio. Poiché gli effetti conservano in una certa misura la somiglianza con la loro causa, perché ogni agente produce una cosa a sé somigliante; ma l'effetto non sempre raggiunge una perfetta somiglianza. Perciò la ragione umana nel conoscere le verità -di fede, che possono essere evidenti solo a coloro che contemplano l'essenza di Dio, è in grado di raccoglierne certe analogie, che però non sono sufficienti a dimostrare codeste verità o comprenderle per l'intuizione intellettiva. Tuttavia è proficuo per la mente umana esercitarsi in tali ragionamenti per quanto inadeguati, purché non si abbia la presunzione di comprendere o di dimostrare: poiché poter intendere anche poco e debolmente le cose e le realtà più sublimi procura la più grande gioia, come abbiamo già notato sopra. [... ] Capitolo IX. Piano e metodo espositivo dell'opera. Da quanto abbiamo detto risulta evidente che il sapiente deve mirare alle due serie, delle verità divine, e alla confutazione degli errori contrari: circa la prima serie l'investigazione razionale è sufficiente; la seconda invece supera ogni risorsa della regione. Ho parlato di due serie di verità divine non in riferimento a Dio, che è la verità unica e semplice, ma in riferimento alla nostra conoscenza, che nel conoscere le cose di Dio ha varie maniere. Perciò nell'esporre le verità della prima serie bisogna procedere con ragioni dimostrative, ca. paci di convincere gli avversari. Ma poiché tali ragioni non possono applicarsi alla seconda serie, non si deve mirare a convincere l'avversario col ragionamento; bensì a risolvere gli argomenti da lui addotti contro la verità; poiché la ragione naturale non può essere contraria alle verità della fede, come sopra abbiamo dimostrato. Il modo singolare di convincere l'avversario che combatte verità di questo genere, consiste nell'addurre l'autorità della Scrittura confermata divinamente dai miracoli: poiché quanto supera la ragione umana, non lo crediamo se non per rivelazione divina. Tuttavia nell'esporre queste verità è bene addurre degli argomenti probabili, perché la fede dei credenti trovi il modo di esercitarsi e di confortarsi, senza la pretesa però di convincere gli avversari: poiché la debolezza stessa di tali argomenti potrebbe confermarli maggiormente nei loro errori, pensando essi che noi accettiamo le verità di fede per degli argomenti così fragili. Volendo perciò procedere secondo il metodo indicato, cercheremo prima di esporre quella serie di verità che è insieme professata dalla fede e investigata dalla ragione, portando argomenti, sia dimostrativi che probabili, desunti in parte dai libri dei filosofi e dei santi, capaci di confermare la verità e di convincere gli avversari. Quindi, passando dalle cose più note a quelle meno note,

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esporremo quella serie di verità che sorpassa la ragione, illustreremo le verità di fede, per quanto Dio ce lo concederà, sciogliendo gli argomenti degli awersari, sia con ragioni probabili che con argomenti d'autorità. Volendo perciò procedere razionalmente nell'esporre quanto la ragiohe umana può investigare su Dio, in primo luogo si presenta lo studio di ciò che va attribuito a Dio in se stesso; secondo, la derivazione delle creature da lui; terzo, il tendere ordinato delle creature verso di lui come loro fine. Alle cose da considerare circa Dio in se stesso, si deve premettere, come fondamento necessario di tutta l'opera, la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Poiché in mancanza di questa, a ogni ricerca intorno alle cose di Dio sarebbe necessariamente distrutta. Capitolo X. L'opinione di chi afferma non potersi dimostrare l'esistenza di Dio, essendo una verità per sé nota. Questa indagine, con la quale alcuni cercano di dimostrare l'esistenza di Dio, può forse sembrare superflua a chi afferma essere una verità per sé nota che Dio esiste, così da non potersi pensare il contrario; e che quindi è impossibile dimostrare l'esistenza di Dio. Ecco gli argomenti che sembrano a ciò favorevoli: 1. Sono per sé note quelle affermazioni che sono conosciute non appena se ne afferrano itermini [... ]. Ma ciò awiene quando si fa l'affermazione ((Dio esiste)). Poiché col termine Dio intendiamo la cosa di cui non si può pensare niente di più grande. Tale è il concetto che si forma in chi ascolta e comprende il termine suddetto; quindi almeno concettualmente Dio deve già esistere. Ma non può esistere solo concettualmente: perché quanto esiste e nell'intelletto e nella realtà è superiore a ciò che esiste solo nell'intelletto. Ora, nel nome stesso di Dio è incluso che non possa esserci nulla di superiore. Dunque è evidente che l'esistenza di Dio è cosa per sé nota, derivando chiaramente dallo stesso significato del termine. [... ] Capitolo Xl. Confutazione dell'opinione suddetta e soluzione degli argomenti addotti. Codesta opinione deriva in parte dall'abitudine che hanno gli uomini di udire ed invocare fin da principio il nome di Dio. Ora, le abitudini, e specialmente quelle della prima infanzia, acquistano forza di natura; dal che deriva che le convenzioni acquisite fin dalla fanciullezza si ritengono con tale fermezza come se fossero per natura e per sé note. [... ] Ma proprio perché noi non possiamo concepire intellettualmente l'essenza di Dio, ciò rimane ignoto rispetto a noi. [... ] Dato, inoltre, che tutti col termine Dio intendessero la cosa di cui non è possibile pensare ad una più grande, non segue necessariamente che una tal cosa esista nella realtà. [L']essere di cui non se ne può pensare uno maggiore non può non avere l'esistenza: però nell'intelletto. Ma da ciò non segue che codesto essere esista nella realtà. Capitolo Xli. L'opinione di coloro che affermano doversi ritenere solo per fede l'esistenza di Dio senza che ci sia la possibilità di dimostrarla. È la posizione diametralmente opposta a quella precedente: per i suoi fautori risulta inutile lo sforzo di chi vuoi dimostrare l'esistenza di Dio. Essi infatti dicono che non è possibile scoprire con la ragione che Dio esiste, ma che questa è una verità accettata per via di fede e di rivelazione [... ].

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[S]e è vero che la dimostrazione desume i suoi principi dalla realtà sensitiva [... ], le cose che eccedono tutti i sensi e tutta la realtà sensibile, rimangono evidentemente indimostrabili. Ma tale è appunto l'esistenza di Dio. Dunque essa è indimostrabile. Ma la falsità di codesta opinione risulta evidente sia dall'arte della dimostrazione che insegna a raggiungere le cause dai loro effetti; sia dall'ordine stesso delle scienze. Infatti se non ci fosse altra natura conoscibile al di sopra della realtà sensibile, non ci sarebbe nessuna scienza superiore alle scienze naturali, come nota Aristotele nel IV libro della Metafisica. Tale falsità risulta anche dallo studio dei filosofi, i quali si sono sforzati di dimostrare che Dio esiste. E così pure dall'affermazione dell'Apostolo: (de perfezione invisibili di Dio appariscono chiare all'intelligenza mediante le cose da lui create)) (Rom., l, 20). Capitolo Xlii. Argomenti per dimostrare l'esistenza di Dio. Una volta chiarito che non è cosa vana cercare di dimostrare che Dio esiste, passiamo a riferire gli argomenti con i quali filosofi e dottori della chiesa cattolica hanno dimostrato l'esistenza di Dio [... ]. Capitolo XIV. La via della negazione indispensabile per la conoscenza di Dio. Dimostrata l'esistenza di un primo ente che denominiamo Dio, è necessario investigarne le proprietà. Ora, nel considerare la realtà divina si deve ricorrere soprattutto alla via della negazione. La realtà divina infatti sorpassa con la sua intensità qualsiasi idea che l'intelletto nostro sia capace di raggiungere: e quindi non siamo in grado di apprenderla così da conoscerne la natura. Ma ne abbiamo una certa nozione, conoscendo "quello che non è". E tanto più noi ci awiciniamo alla sua nozione, quanto più numerose sono le cose che possiamo escludere da Dio col nostro intelletto. Infatti tanto più perfettamente noi conosciamo una qualsiasi cosa, quanto più ne scorgiamo la differenza dalle altre: poiché ogni entità ha in se stessa il proprio essere distinto da tutte le altre. ~

T. d'Aquino, Somma contro i gentili, ci t., pp. 61-92

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Chiarisci se Tommaso, nel tentativo di conciliare le tesi aristoteliche citate nella tabella sottostante con i dogmi cristiani, le respinge, le accetta o le riformula. In quest'ultimo caso, spiega come. lr)t~llettqagente 'Motoreifnmobile ... Causa prima Essenza ~Cl esistenza

Potenz~ e atti)

· M~tèrra· étcirlna Struttura del ,)nondofisico Secondo Tommaso d'Aquino la dimostrazione dell'esistenza di Dio:

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a) è inutile perché oggetto di fede b) deve prescindere dall'esperienza c) deve muovere dall'esperienza d) è ad uso esclusivo dei non credenti.

Spiega come gli averroisti da una parte e Tommaso dall'altra interpretano l'aggettivo 'separato' che Aristotele usa a proposito dell'intelletto agente. (max. 4 righe)

Quali sono le ragioni per le quali è opportuno che vengano proposte agli uomini, mediante la fede, verità che tuttavia sono anche suscettibili di trattazione razionale? Completa lo schema rileggendo il Cap. IV del l!i13li!• dell'Antologia:

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Prendendo spunto dalle tesi sostenute da Tommaso sul rapporto tra filosofia e teologia, prova a dire quali rapporti ci sono o dovrebbero esserci, oggi, tra scienza e religione.

SEZIONE AUTORI

'f0fli1MASO rrA{lliJt~Q

Dividi in paragrafi numerati e titolati il IOO!it• di Tommaso presente nell'Antologia. Perché Tommaso respinge l'argomento antologico di Anselmo d'Aosta circa l'esistenza di Dio? (max. 3 righe)

Con riferimento alla questione dell'analogia, spiega perché Tommaso non ritiene contraddittori i due passi seguenti: «la Scrittura afferma (Genesi, 1, 26) "facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" [... ] mentre altrove "O Dio, chi è simile a te?" (Salmi LXXXI, l) n (Somma contro i gentili, cit., ca p XXIX). (max. 5 righe)

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Commenta il giudizio del filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970) su Tommaso, contenuto nella scheda di p. 329.

--'--··---~----------, l .-.~'-_. Con riferimento al cap. VI del IOO!it• dell'Antologia, colloca nel giusto ordine i

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vari passaggi dell'argomentazione:

D a) D b) D c) D d) D e) D f) D g)

nel mondo con i miracoli la fede in Dio non è una "dotta favola" noi dobbiamo credere ma perché crediamo a tali turbe e turbe di uomini si sono convertite non perché abbiamo assistito ai miracoli infatti Dio si è rivelato

SEZIONE AUTORI TOfViMl\SO D'AQUINO

r;--·;·······la figura di Guglielmo di Ockham Nato intorno al1288 nel Surrey, in Inghilterra, ed avviato agli studi teologici nella prestigiosa sede di Oxford, Guglielmo di Ockham sembrava destinato a diventare un brillante maestro: la sua carriera universitaria fu invece tutt'altro che regolare, perché non riuscì mai a conseguire il titolo per la docenza, cosa del resto abbastanza insolita per un giovane baccelliere (grado intermedio tra studente e docente, una specie di assistente universitario) di provate capacità e sicura originalità di pensiero. L'interruzione di questo percorso fu provocata dalla denuncia da parte di Giovanni Lutterell, cancelliere dell'Università incaricato di controllare l'ortodossia e la qualità delle produzioni filosofiche e teologiche dei maestri che vi insegnavano, il quale lo accusò di proporre nelle sue opere falsità filosofiche, eresie religiose e aberrazioni morali. Come è noto, infatti, fin dalla sua nascita, avvenuta proprio in età medievale, l'istituzione universitaria era posta più o meno direttamente sotto il controllo dell'autorità pontificia e l'accesso ad essa era precluso a quanti non possedessero gli ordini minori (bisognava dunque essere almeno chierici); la fedeltà dei maestri all'insegnamento cristiano era quindi attentamente sorvegliata. Il procedimento messo in atto dal cancelliere bloccò per sempre l'avanzamento professionale di Guglielmo, ma non gli impedì di diventare una delle figure più interessanti e carismatiche della sua epoca: da qui l'origine di uno dei due appellativi con cui è noto, Venerabilis Inceptor (l'altro è Doctor invincibilis), che ancor oggi sottolinea il paradosso tra il suo stato di 'principiante' e il riconoscimento che gli fu tributato da maestri di filosofia e teologia a lui coevi e successivi. Non era che l'inizio di una vita avventurosa: convocato presso la curia papale ad Avignone per rispondere ad un'accusa di eresia, sfuggì alla celebrazione del processo dopo quattro anni di semireclusione presso il convento dei francescani, ordine che aveva abbracciato in gioventù, per riparare a Pisa insieme a Michele da Cesena, generale del suo

ordine, anche lui in contrasto con il papa Giovanni XXII per motivi differenti da quelli di Guglielmo: egli era infatti accusato di sostenere l'ala 'spirituale' del suo ordine, ovvero quella che sosteneva l'ideale evangelico di povertà del Cristo e della Chiesa. Guglielmo e Michele trovarono un sicuro protettore nell'imperatore Ludovico il Bavaro, che in aperto conflitto con il pontefice e rivendicando la supremazia del suo potere su quello della Chiesa giunse a deporre il papa, che Michele considerava eretico. Trasferitosi in Germania, Guglielmo proseguì la sua speculazione filosofico-teologica fino alla morte, avvenuta nel 1347 a Monaco di Baviera. In quest'ultimo periodo, egli scrisse opere a carattere politico in cui rivendicò la separazione tra potere spirituale e potere civile. A differenza delle sue opere logiche e metafisiche, legate ad un piano sistematico complessivo, la riflessione politica di Ockham prende quindi l'avvio da fatti concreti vissuti nella fase più tarda della sua maturità, che lo portano a condurre una critica durissima delle tesi teocratiche, elaborate già all'inizio del XIV secolo, che attribuivano al pontefice un potere senza riserve. Contro le rivendicazioni di Giovanni XXII, il filosofo inglese ritiene che al papa spetti una giurisdizione sul popolo cristiano di natura puramente spirituale, l'unica tramandata da Pietro, fondatore della Chiesa per volere di Cristo. Il potere temporale di condurre e amministrare la giustizia umana spetta invece a pieno titolo all'imperatore, che è eletto dai principi elettori, e che non necessita per l'assunzione di tale primato di alcuna legittimazione da parte del pontefice D 7 JWlim'JIIIMI~1!*1tiRnm[(IJMij.U:Mllili. Queste posizioni, in netto contrasto con l'autorità ecclesiastica, furono messe a punto quando Guglielmo di Ockham era già in età avanzata. Resta da chiedersi che cosa ci fosse di tanto pericoloso nelle opere prodotte quando egli era ancora un giovane baccelliere. Tutto ciò che sappiamo, dalla lettura del1le sue opere, è che riversò con maggiore efficacia il suo rigore teoretico e la sua indiscussa creatività nella ridefinizione della metafisica, della logica e dell'epistemologia, aprendo ad una prospettiva che rinnova profondamente i rapporti tra scienza e fede.

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Il concettualismo: una nuova risposta al problema degli universali Il nome di Ockham è a tutt'oggi indissolubilmente legato alla posizione nota con il nome di "concettualismo", la cui elaborazione più esplicita e adeguata è da lui esposta nella Somma di logtca, che propone una nuova e feconda soluzione al problema del rapporto universale/particolare, già ampiamente dibattuto all'epoca di Abelardo (XII secolo) e trasmesso come uno dei luoghi cruciali tanto in ambito logico che metafisica agli autori dei secoli successivi. Per spiegare in quale modo si costituisce la conoscenza umana, Ockham sostiene che il nostro intelletto è naturalmente capace di produrre dei segni che rappresentano le cose singolari es periLa convenzionalità te: Si tratta di un processo Spantadei segni neo, assolutamente comune a tutti gli esseri umani, che sono in grado di formarsi il concetto di "uomo" a partire dall'esperienza che quotidianamente fanno dei singoli uomini concreti. Da sottolineare è il carattere di non convenzionalità del segno così prodotto, che è il concetto di "uomo"; convenzionali, cioè stabiliti dagli uomini in accordo tra loro, sono invece i segni grafici e i suoni materiali con cui si traducono i concetti al momento della comunicazione. Per tornare all'esempio precedente, il segno grafico (la parola scritta) e quello orale (la parola pronunciata) che stanno per il concetto di "uomo" non sono un prodotto naturale, ma il risultato di precise convenzioni umane, tanto che variano a seconda dell'area geografica e linguistica. Ora, la vera innovazione della riflessione di Ockham risiede proprio nell'affermazione che non esiste altra natura universale "uomo" che non sia il concetto così prodotto; affermando che gli universali hanno unicamente un'esistenza concettuale, egli respinge ogni platonismo residuo dal suo discorso logico e metafisica. Sul piano extramentale non esiste perciò alcun universale "uomo", ma solo singoli uomini concreti, che esauriscono l'umanità nella loro indivi-

SEZIONE AUTORI (ilJtiUUMO lb! OCKHI\M

duale esistenza. Questa convinzio- La critica della ne è alla base di una nuova conce- metafisica scolastica zione della metafisica, che critica da dentro, trasformandola, la concezione scolastica del reale, a partire dal rapporto tra esistenze individuali e universali: non esiste alcuna "natura comune" agli enti, molteplici e concreti, in cui il reale è frammentato: nulla, sul piano metafisica, che funga da "collettore", che indichi la sostanziale unitarietà di una classe di oggetti; la riunificazione dei singoli oggetti avviene solo nella mia mente attraverso la costituzione del concetto, quindi esclusivamente sul piano della conoscenza. In che cosa consiste allora l'universalità del concetto? Il concetto di "uomo" ha una natura universale nel senso che ha la capacità di rimandare a singoli individui concreti, ma non ha alcuna esistenza separata dal mio sistema conoscitivo, è un puro contenuto mentale.

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gra\/ori concetti universali

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significano ciò che è comune a una molteplicità di oggetti singoli

esistono solo nella mente

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3 Gli sviluppi logici e la fondazione del discorso scientifico L'adesione a questa posizione in ambito metafisica porta Ockham ad inevitabili ripercussioni sugli aspetti più propriamente logici della sua produzione filosofica: l'impulso che dette a questa disciplina è così significativo che a lungo rimase al centro di serrati dibattiti accademici. I risultati più significativi offerti da Ockham confluiscono nell'ambito della logica semantica, ossia in quel settore che si occupa delle relazioni che intercorrono tra i segni e le cose che questi designano. In questo ambito i suoi assunti metafisici, quindi il concettualismo, risultano particolarmente importanti per comprendere il criterio con cui egli ha studiato tali relazioni. Esaminando infatti il modo con cui i termini che costituiscono le proposizioni rimandano ai loLa dottrina ro significati, siamo indotti a ridella supposizione flettere su quale tipo di esistenza spetti alle cose che tali termini designano. Se per esempio voglio decidere se la proposizione: "un uomo corre" è vera o falsa, dovrò individuare quale sia il significato di 'uomo' in quel preciso contesto proposizionale. Uno stesso nome, utilizzato all'interno di proposizioni differenti, può designare infatti cose diverse rispetto al suo significato primario, può cioè, come afferma Ockham, ((SUpporre impropriamente>>. Tecnicamente, questa parte della logica medievale è nota come dottrina della supposizione (suppositio) e studia quella capacità che solo alcuni termini possiedono di "stare per", di "supporre" per qualche cosa. Tali termini, che hanno un significato proprio (per es. 'uomo', 'cavallo' ecc.), sono detti categorematici; termini sincategorematici, invece, sono quelli che servono per "disporre" gli altri termini nelle proposizioni complesse, ma non hanno di per sé alcun significato specifico (come 'e', 'ogni', 'se', ecc.). Torniamo ora all'esempio sopra accennato. Quando formulo la proposizione (1) "un uomo corre", il termine 'uomo' sta per (cioè può essere riferito sul piano della realtà) a Paolo, Giovanni, Pie-

tro, e quanti altri individui concreti io possa riconoscere come uomini. L'esempio appena portato, secondo Ockham, è un caso di supposizione "personale", che è propria, nel senso che il termine 'uomo' assume nella proposizione il suo significato primario, che corrisponde, nel- supposizione la realtà concreta, a qualunque in- "personale" dividuo umano di sesso maschile. Questo è il tipo di proposizioni mediante le quali si costruisce il discorso scientifico intorno alla realtà naturale, le cosiddette scienze reali: queste richiedono enunciati in cui i termini "stiano per" cose individuali realmente esistenti, così da poter efficacemente descrivere la realtà. Modificando il contesto proposizionale, afferma Ockham, il termine 'uomo' può essere anche riferito a cose diverse dal singolo uomo concreto: proviamo ad analizzare ad esempio la proposizione (2) "uomo è una specie". In questo caso la supposizione, detta "semplice", è impropria perché non mi sto riferendo, in questo particolare contesto, al significato primario, cioè al singolo essere umano concreto, ma al concetto di uomo in generale. Ecco che logica e metafisica si incontrano. Il fatto di concepire l'universale come mero concetto, ovvero come qualcosa che non possiede un'esistenza indipendente dalla mia mente, conduce Ockham a ritenere che la proposizione (2) sia un caso di supposizione non "personale", perché il concetto di "uomo" non può essere inteso come un significato primario (si tratta di un puro contenuto mentale, non di qualcosa Supposizione che esiste sul piano del reale). Que- "semplice" sto tipo di proposizioni, i cui termini "suppongono per" universali, ossia concetti, sono alla base delle cosiddette scienze razionali, cioè di quelle scienze che non descrivono la realtà fisica, ma le relazioni tra concetti e oggetti: di questo tipo è appunto la logica. Ockham individua anche un terzo tipo di supposizione, in cui il termine è utilizzato per indicare se stesso, cioè il "veicolo" materiale che permette al concetto di essere espresso, ed è per que-

SEZIONE AUTORI GIJfiU!itrwo Il! m:mmrvl

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--~PR_O_FI_I.------~-------------] 3" GLI SVIlUPPI lOGICI

E lA FONDAZIONE DEl DISCORSO SCIENTIFICO

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sto detta supposizione "materiale". Anch'essa è impropria, perché il termine 'uomo' non è preso nel suo significato primario di individuo concreto, come invece, abbiamo osservato sopra, avviene nella (1). Esempi di questo tipo di supposizione sono (3) "uomo è una parola" o (4) "uomo ha cinque lettere". La supposizione "semplice" rappresenta il caso senz'altro più interessante, perché la sua istiL'empirismo tuzione deriva dal convincimento di ockham che non si può supporre in senso proprio, al modo della supposizione personale, se dal contesto proposizionale si ricava che il nome è usato per indicare un universale, anziché un individuo concreto: non esiste nessun ente reale che possa essere l'universale 'uomo', poiché questo è un mero concetto, una rappresentazione che la mia mente forma spontaneamente a partire dall'esperienza concreta della visione e dell'incontro con singoli uomini concreti. Sulla base di queste considerazioni, e da quanto detto sopra riguardo alla diversa natura delle scienze, è opportuno notare che nessuna proposizione che rechi in sé termini che stiano per universali (al modo dei casi di supposizione "semplice") può raccontare qualcosa della realtà. La scienza del mondo fenomenico si costituisce dunque di enunciati che colgano fatti e proprietà concernenti individui particolari, come questi risultano da osservazioni empiriche. L'analisi logica di Ockham, strutturata su forti premesse metafisiche, ci informa che non è possibile conoscere il mondo attraverso l'apprensione di mere essenze universali. Si apre così la via all'empirismo.

Supposizione personale

cose individuali ("un uomo corre'')

Supposizione semplice

concetti universali ("l'uomo è una specie")

Supposizione materiale

se stessi (''uomo ha cinque lettere")

Verso la semplicità in epistemologia Dal punto di vista metafisica, Guglielmo di Ockham introduce dunque una novità significativa, che consiste in una semplificazione del rapporto tra oggetto e concetto: il rapporto tra i due è diretto, perché il secondo è il prodotto mentale dell'incontro del singolo soggetto conoscente con il primo: non c'è pertanto alcun bisogno di postulare l'esistenza di realtà universali fuori dalla mia mente. Questo è un importante risultato dovuto ad un approccio assolutamente nuovo proposto dalla riflessione di Ockham: in qualsivoglia spiegazione, la via è quella della semplicità. Sul piano epistemologico, cioè per quanto attiene alla fondazione del sapere scientifico, il principio denominato come "rasoio di Ockham" rappresenta una feconda innovazione. L'argomentazione più efficace sottesa alla spiegazione di un qualsiasi fenomeno segue infatti il percorso più diretto e immediato, "tagliando" i ll"rasoio passaggi superflui. Proviamo ad di Ockham" esplicitare l'esempio sopra accennato: dato che esistono singoli uomini concreti, e nella mia mente si forma naturalmente un concetto, un segno che spontaneamente designa la natura comune tra quelli, non c'è alcun bisogno di introdurre un'ulteriore idea di "uomo" sul piano metafisica, poiché i primi due (uomini concreti e concetto di uomo) sono sufficienti per spiegare interamente il fenomeno della conoscenza. Gli enti non vanno moltiplicati senza che sia necessario. Questo principio di 'economia dei concetti', applicato a molti degli aspetti controversi delle dottrine naturalistiche e metafisiche elaborate in precedenza, ricche di termini intermedi e passaggi inessenziali, quando non addirittura sofistici, finisce per mettere in crisi molti aspetti del pensiero tradizionale scolastico, conferendo una nuova fisionomia al discorso scientifico. Un altro importante passo verso un nuovo assetto epistemologico è rappresentato dal ripensamento della teoria della conoscenza in rapporto all'esperienza.

5 Muovendo da una distinzione già introdotta da Duns Scoto, Ockham discrimina tra due tipi di conoscenza, l'intuitiva e l'astrattiva. La conoscenza intuitiva è quella che si forma a partire dall'esperienza diretta con l'oggetto conosciuto, esperienza che attesta anche la sua esistenza. La conoscenza astrattiva, invece, deriva dalla precedente e prescinde dal giudizio di esistenza della cosa medesima: pertanto avrò conoscenza astrattiva di una cosa quando non sono in grado di formulare alcuna proposizione contingente ad essa relativa. Posso quindi affermare di essere a conoscenza di un tavolo, della bianchezza o di qualsivoglia altra cosa, sia in presenza di questi, sia in loro assenza: in quest'ultimo caso non posso avere una conoscenza intuitiva, ma solo astrattiva, a meno che Dio non intervenga miracolosamente sulla mia capacità conoscitiva. Attraverso questa distinzione Ockham può legittimamente fondare la possibilità di una scienza che muove dall'esperienza, che non è una mera apprensione delle essenze immutabili delle cose, ma un insieme di proposizioni contingenti che dicono davvero qualcosa sul reale, in continuo mutamento.

SCHEDA-STORIA

l francescani e la povertà Dalla "regola non bollata" (1 221) di san Francesco:

Nessun frate, ovunque sia, e dovunque vada, in nessun modo prenda con sé o riceva da altri o permetta che sia ricevuto denaro, né col pretesto di acquistare vesti, libri, né per compenso di alcun lavoro, insomma per nessuna ragione, se non per una manifesta necessità dei frati malati; poiché non dobbiamo ritenere che l'utilità e il valore del denaro, o della moneta, siano maggiori di quello delle pietre. Il diavolo vuole accecare quelli che lo desiderano o lo stimano più delle pietre. Badiamo, dunque, noi che abbiamo lasciato tutto, di non perdere, per sì poca cosa, il regno dei cieli. Ese troveremo in qualche luogo del denaro, trattiamolo come polvere che si calpesta, poiché è vanità delle vanità e tutto è vanità. 11>San Francesco, Scritti, Milano, O. R. 1976

la separazione di scienza e fede Se ogni conoscenza si fonda primariamente sull'esperienza diretta, cioè sulla conoscenza intuitiva, l'essere umano durante la sua esistenza terrena (homo in via, viator) è destinato a non conoscere Dio. In questo senso è impossibile fondare una scienza teologica, perché non c'è modo alcuno di rintracciare le proprietà dell'essenza divina. Dal punto di vista metafisica Ockham sostiene che, a partire dal rapporto creature/Creatore, è possibile giungere solo a dimostrare che esiste un Essere che L'inconoscibilità conserva gli enti all'esistenza: degli attributi questa prova, che differisce ri- divini spetto a quelle formulate in età scolastica (si pensi alle "cinque vie" di Tommaso d'Aquino), si fonda sui limiti antologici delle creature, ma non è in alcun modo in grado di dirci positivamente gli attributi di Dio. La separazione tra scienza e fede risulta così pienamente realizzata: si comprende dunque l'intrinseca forza del pensiero di Ockham, che ha portato a compimento un processo i cui primi segnali erano già presenti alla fine del secolo XIII con le condanne del1270 e del1277, che sancivano i limiti della scienza aristotelica di fronte alla verità cristiana. La separazione tra scienza e fede non comporta però un depotenziamento delle due, ma solo il riconoscimento della loro distinzione radicale: il Venerabilis Inceptor non vuole sminuire, né tanto meno esautorare il discorso di fede, ma esaltarlo nella sua peculiare natura che è in toto dissimile da quella del discorso scientifico.

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5.1

L'onnipotenza divina el'empirismo scientifico Distinguere tra ragione e fede, scienza e verità rivelata, significa riconoscere inoltre che non è possibile sottomettere l'operare di Dio alle leggi della logica umana. Il tema, noto come dibattito sul-

SEZIONE AUTORI GUGUEI.MO 111 OCKHAM

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la potentia absoluta o potentia ordinata di Dio, era già noto ai medievali: si pensi alle dispute tra dialettici e antidialettici dell'XI secolo, e in particolare alla figura di Pier Damiani, monaco, autore del De divina omnipotentia (1067) Dio è vincolato e strenuo difensore dell'idea che dal principio l'azione divina sia sottratta al prin- di non contraddizione? cipio di non contraddizione, per quanto ciò risulti del tutto inconcepibile all'intelletto umano. L'uomo non può infatti pensare cose contraddittorie: per esempio che una cosa sia bianca e al tempo stesso non bianca. Tale incapacità è dovuta alla struttura stessa del suo pensiero, che funziona secondo determinate regole. Altrettanto si può dire del mondo fenomenico, che è regolato da un ordine che può essere conosciuto dall'essere umano mediante l'esperienza. Il problema si configura nell'opera di Ockham in tutta la sua drammaticità: egli non intende rinunciare alla validità della scienza, che si regge sulla scoperta di leggi che regolano i processi naturali, né al potere assoluto del Creatore, che non può essere in alcun modo vincolato a quelle regole, e, volendolo, può cambiarle. Quale soluzione prospettare allora? Ockham esce dall'impasse pro- La soluzione ponendo l'immagine di un Dio so- di ockham vrano, che all'atto della Creazione promulga leggi che egli stesso si impegna a rispettare: il mondo creato risponde ad un ordine, benché contingente, perché da lui stesso stabilito, in assoluta libertà. In questo modo Ockham identifica la potentia ordinata con la realizzazione di fatto della potentia absoluta (l'ordine del mondo corrisponde a quello che effettivamente Dio nella sua onnipotenza ha voluto che fosse), e si impegna così a salvare la fiducia nella conoscibilità del mondo senza dover ricorrere ad un ordine razionale che condizioni l'azione creatrice di Dio. Ma c'è un'altra conseguenza, di ordine epistemologico, che conferma e sottolinea il carattere intimamente unitario del pensiero di Guglielmo di Ockham: se il mondo non è la Teologia realizzazione di un ordine ideale, ed empirismo

la conoscenza del mondo non può essere conoscenza di idee universali astratte: la conoscenza astratta o deduttiva non può dirci infatti nulla su un mondo assolutamente contingente, quale è il mondo reale. In questo modo non viene negata la validità logica della conoscenza deduttiva, bensì la sua capacità di dirci qualcosa sul reale.

Si può così comprendere la radice teologica dell'empirismo di Ockham: è proprio l'onnipotenza di Dio, libero artefice di un mondo retto da un ordine rigoroso, ma contingente, ad essere alla base della conoscenza empirica, che riesce a cogliere le singole cose nella loro natura individuale.

Vita eopere Le notizie sulla vita di Guglielmo di Ockham sono alquanto incerte. Sappiamo che n~'cque intorno al 1288 a Ockham, nel Surrey, a sud di Londra. Entrò molto giovane nell'ordine francescano e studiò all'Università di Oxford, ma non conseguì il titolo di magister theo!ogiae per i sospetti di eresia che aleggiavano su di lui e che gli costarono nel 1324 una convocazione dinanzi alla corte papale di Avignone. Due anni dopo, una commissione di teologi condannò 51 articoli tratti dalle sue opere. Nel 1328 fuggì da Avignone e fu scomunicato. Si mise allora sotto la protezione dell'imperatore tedesco Ludovico il Bavaro, seguendolo a Monaco, dove rimase fino alla morte, avvenuta probabilmente nel 1347. In quest'ultimo periodo si dedicò alla polemica ecclesiastica e politica, schierandosi con l'ala 'spirituale' dei francescani sulla questione della povertà evangelica (Opus nonaginta dierum), e dalla parte dell'imperatore contro le pretese di supremazia politica del papato (Octo quaestiones, De imperatorum et pontificum potestate). Risalgono invece agli anni di Oxford gli scritti "accademici", di carattere filosofico e teologico: i Ouod!ibeta (completati ad Avignone), i trattati De futuris contingentibus e Summa totius !ogicae, i Commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo, aii'Organon e alla Fisica di Aristotele.

SEZIONE AUTORI IG!IGUE!.MO DI OCKHAM

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l'universale è il concetto Che cosa significa pensare? Come elabora la nostra mente i dati offerti dalla realtà sensibile? E come avviene la comunicazione? Ockham dà risposta a tali quesiti, ancora di grande attualità, con un argomentare rigoroso da cui traspare un'intuizione di fondo: l'intelletto umano è per sua naturé! capace di ricavare un concetto a partire dal molteplice che cade sotto i sensi, senza postulare sul piano metafisica l'esistenza di essenze universali.

Si deve perciò assolutamente affermare che nessun universale, in qualsiasi modo venga inteso, è una sostanza; ogni universale è un concetto della mente che, secondo un'opinione probabile, non differisce dall'atto di intendere. Si dice perciò che l'intellezione con cui conosco un uomo è il segno naturale degli uomini, naturale allo stesso modo in cui il lamento è segno della malattia o della tristezza o del dolore; ed è un segno tale che può stare al posto degli uomini nelle proposizioni mentali, così come il termine orale può stare al posto delle cose nelle proposizioni orali. [... ] Questa tesi può essere confermata anche mediante considerazioni razionali: a parere di tutti, ogni universale è predicabile di più cose; ma solo un concetto della mente oppure un segno convenzionalmente istituito è per sua natura predicabile, e non una sostanza; dunque solo un concetto della mente o un segno convenzionale è universale. Ma qui per universale non intendo i segni convenzionali, bensì solo quel segno che per sua natura è universale. Che una sostanza non sia per natura atta ad essere predicata è evidente: se si predicasse, avremmo una proposizione composta di sostanze particolari, e di conseguenza il soggetto sarebbe a Roma e il predicato in Inghilterra, il che è assurdo. Inoltre, la proposizione è solo mentale, orale o scritta; dunque le sue parti possono essere solo mentali, orali o scritte; ma le sostanze particolari non sono di questo tipo. Consta pertanto che nessuna proposizione può essere composta di sostanze; la proposizione si compone invece di universali; dunque gli universali non sono in alcun modo delle sostanze. ~ G. di Ockham, Somma della logica, I, 15, p. 53, trad. a cura di A. Ghisalberti, in: G. di Ockham, Scritti filosofici, Nardini Editore, Firenze 1991, pp. 118-120 con qualche modifica

Potenza assoluta e potenza ordinata Il fatto che Dio non sia in alcun modo vincolato a quelle leggi, che a noi appaiono inesorabili, che governano il mondo e l'agire umano, non implica che siamo costretti a vivere in un mondo instabile

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SEZIONE AUTORI GIJGLIEU\Iit'l DI llCK!iAM

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-- ·. -- -------------- -aFiologia-- --o caotico. L'assoluta libertà e perfezione divina si manifesta nella creazione e nella conservazione di un cosmo ordinato, retto da leggi che possiamo conoscere, una per una, solo mediante l'esperienza, perché totalmente contingenti. Riguardo alla distinzione relativa alla potenza di Dio, affermo che Dio può fare alcune cose in base alla potenza ordinata ed altre cose in base alla potenza assoluta. Questa distinzione non va intesa come se si ponessero in Dio due potenze realmente distinte, di cui l'una è ordinata e l'altra assoluta, dato che in Dio c'è un'unica potenza che riguarda l'agire esterno (ad extra) di Dio, e tale potenza da ogni punto di vista coincide con Dio stesso. La distinzione non va intesa nemmeno come se si dicesse che Dio può fare alcune cose ordinatamente, mentre può fare altre cose assolutamente in modo non ordinato, poiché Dio non può fare nulla in modo non ordinato. La distinzione va intesa così: "potere qualcosa" talvolta viene preso facendo riferimento alle leggi ordinate e istituite da Dio; si dice allora che Dio può fare quelle cose in base alla potenza ordinata. Altre volte "potere" viene preso facendo riferimento a tutto ciò che non include contraddizione essere prodotto, sia che Dio abbia stabilito di produrre in seguito queste cose, sia che non l'abbia stabilito, dal momento che Dio può fare molte cose che pure non vuole fare, secondo il parere di Pietro Lombardo: in riferimento a queste cose si dice che Dio le può produrre in base alla potenza assoluta. ~

G. di Ockham, Quodlibet VI, q.l art.!, trad. a cura di A. Ghisalberti, in G. di Ockham, Scritti filosofici, cit., p. 196

SEZIONE AUTORI GUGLIELMO DI OCKHAM

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Il primo dei due testi riportati nell'Antologia si conclude con l'affermazione che gli universali non sono in alcun modo delle sostanze. Qual è il significato di quest'affermazione? (max. 4 righe)

Forma con il termine 'cavallo' tre diverse proposizioni, corrispondenti ai tre tipi di supposizione individuati da Guglielmo di Ockham.

Spiega qual è il significato metodologico del cosiddetto rasoio di Ockham. (max. 4 righe)

In che cosa consiste, secondo Guglielmo di Ockham, la differenza tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva? (max. 4 righe)

Spiega perché, secondo Guglielmo di Ockham, scienza e fede si configurano come ambiti separati, indipendenti l'uno dall'altro. (max. 4 righe)

Secondo Guglielmo di Ockham, la potenza divina è: D assoluta D ordinata D assoluta e ordinata al tempo stesso. Motiva la tua risposta. (max. 5 righe)

SEZIONE AUTORI

essuna delle opere dei fondatori del pensiero filosofico - i cosiddetti presocratici - ci è pervenuta interamente: purtroppo disponiamo solo di frammenti, pochi o molti a seconda dei casi. Questa sorte è toccata anche all'opera di Eraclito, ma solo in parte. Infatti, secondo la tradizione, egli avrebbe scritto un'opera tutta costituita di frasi brevi, anche brevissime, simili a sentenze, che racchiudono in poche righe un ragionamento talvolta assai difficile, addirittura oscuro. In greco tali frasi si dicono aforismi. Quindi, mentre in altri filosofi, p. es. Epicuro, i frammenti arrivati sino a noi sono parti di ragionamenti più ampi, in Eraclito è probabile che i discorsi di cui disponiamo siano in sé compiuti. Non per caso l'estrema concisione del suo pensiero ha fatto meritare ad Eraclito l'appellativo di "oscuro". Molti filosofi sono noti, anche al di fuori della cerchia degli studiosi, per una o più "frasi celebri", nelle quali sarebbe racchiuso il contenuto principale del loro pensiero. Quella di Eraclito è ((panta reh, che in greco significa, all'incirca, "tutto scorre". Questa frase, in realtà, Eraclito non l'ha mai scritta, non figura nei suoi frammenti, ma è stata coniata, forse, da Platone, ripresa da Aristotele e arrivata in questa formulazione sino all'età moderna. Nonostante gli sia stata erroneamente attribuita, la frase coglie davvero un aspetto del suo pensiero. ({[utto scorre>> ovvero: tutto cambia, si muove, si trasforma, nulla resta uguale, immutabile. Così, per secoli, Eraclito è stato il "filosofo del divenire", in contrapposizione all'altro gigante del pensiero presocratico, Parmenide, il filosofo dell'eternità e immutabilità dell'Essere, anche lui cristallizzato in una formula celebre: ((['es-

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sere è e non può non essere».

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Vedremo presto che c'è dell'altro in Eraclito: il motto ((tutto scorre» non basta a riassumere la sua filosofia. Forse, riassume meglio il senso dell'indagine eraclitea un'altra frase, questa davvero del nostro autore: ((La natura ama nascondersi». Cosa vuoi dire? Molto probabilmente essa mette in evidenza che la natura, in greco phjsis, da cui il termine "fisica", non mostra in modo evidente, a chi la osserva, le sue leggi, i principi che la governano, ma li nasconde: e dunque è necessario scoprirli. Come? Mettendo al lavoro la ragione, che Eraclito chiama l6gos, e superando l'esperienza sensibile, ovvero ciò che viene testimoniato dalla vista, dall'udito, dal tatto, dal gusto. La natura, insomma, si nasconde ai sensi. In greco verità si dice alètheia, che letteralmente significa "ciò che non resta nascosto, dimenticato". Dunque, cogliere la verità, individuare la legge che dà ordine alla natura, implica scoprire quel che in essa è nascosto. Dei frammenti di Eraclito esistono diverse edizioni. Noi abbiamo scelto quella curata da C. Diano e G. Serra e pubblicata per la prima volta nel1980 nelle edizioni dei classici greci e latini della Fondazione Lorenzo Valla. Tutte le edizioni concordano nel ritenere circa 126 i frammenti autentici, mentre ve ne sono altri di dubbia attribuzione. Di questi frammenti, presenteremo un'ampia selezione, escludendo soltanto quelli che ripetono, in modo poco chiaro, tesi espresse in altri frammenti più lineari e comprensibili, e quelli che contengono osservazioni non essenziali ai fini della comprensione dei discorso eracliteo. I brani citati sono tratti da Eraclito, Sulla natura, Milano, Mondadori 2000.

SEZIONE OPERE

I:RACUTO, :SULlA NAriJRA

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ANTOLOGIA

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E

COMMENTO

l significati del concetto di /6gos 1) Non intendono gli uomini questo Discorso che è sempre, né prima di udirlo né quando una volta lo hanno udito, e per quanto le cose si producano tutte seguendo questo Discorso, è come se non avessero alcuna esperienza, essi che di parole e di opere fanno pure esperienza, identiche a quelle che io espongo distinguendo secondo la sua natura ogni cosa e mostrando come è: ma agli uomini sfugge quello che fanno da svegli, e di quanto fanno dormendo non hanno ricordo. 2) Dal Discorso col quale essi hanno di continuo e più che con altro consuetudine, da esso discordano, e le cose nelle quali ogni giorno si imbattono a essi appaiono estranee. 3) Non le pensano queste cose quelli che se le trovano davanti, e sono molti, né quando hanno udito parlare le conoscono, anche se essi questo lo credono. 4) Odono e non intendono simili a sordi: per loro vale quel detto sono qui e sono altrove. 5) (Increduli ... ) non sanno né ascoltare né parlare. 6) Non a me ma dando ascolto al Discorso, è saggio dire con esso che tutte le cose sono una. 7) Perciò bisogna seguire ciò che è comune: il Discorso è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno una loro mente. ~

Cit. pp. 7-9

La parola-chiave di questi primi frammenti è discorso, che traduce il vocabolo greco l6gos. Questo termine in greco non ha un solo significato e infatti Eraclito lo usa qui, e in seguito, secondo tre accezioni: a) l6gos come legge universale che ordina la natura, physis, e il mondo umano; b) l6gos come ragione comune a tutti gli uomini, in grado di comprendere ill6gos in quanto legge universale; c) l6gos come discorso razionale che enuncia ill6gos-legge universale. Già nel primo frammento, uno dei più importanti fra quelli rimasti, si rivela l'orientamento aristocratico del pensiero di Eraclito: egli afferma infatti che la maggior parte degli uomini mon intendono)). Che cosa non intendono? Secondo Eraclito, es- una legge che si non intendono che il mondo nel quale vivono e fanno esperienze, è re t- unifica i fenomeni to da una legge, per la quale ) laddove, però, la potenza, la rispettabilità e la celebrità non sono quelle che si raggiungono mediante l'ambizione, il danaro e quant'altro. La Filosofia argomenta questa tesi fondandosi soprattutto sul principio dell'unità e su quello dell'autosufficienza. Chi cerca la felicità nei beni effimeri è destinato a intraprendere un cammino che non avrà mai fine: quando si possiede un bene non se ne può possedere un altro, e se si desidera quello che non si ha si dovrà, prima o poi, abbandonare quello che si possiede e così via all'infinito.

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Dio come bene assoluto e somma felicità LIBRO III 10. Dal momento, dunque, che tu hai visto quale sia la forma del bene imperfetto e quale la forma del bene perfetto, ora io credo che si debba mostrare in che cosa consista questa perfezione della felicità. A tal proposito io penso che la prima ricerca da fare sia se nella natura possa esistere un bene di quel genere che tu hai definito poco fa, perché non ci inganni una vana immagine del nostro pensiero, contraria alla realtà dei fatti. Ma non si può negare che questo bene esista e sia come la fonte (se così si può dire) di tutti i beni: infatti tutto quello che è detto imperfetto è definito tale per la diminuzione del perfetto. Per cui avviene che se in qualche genere di cose si trova quello che risulta essere imperfetto, è necessario che in quello stesso genere vi sia anche un perfetto: infatti, se togliamo la perfezione, non ci si potrebbe nemmeno immaginare donde deriverebbe quella cosa che si dice essere imperfetta. Ché la natura non parte dalle cose più piccole e imperfette, ma procede dalle realtà integre e perfette, e discende fino a queste realtà estreme ed esigue. Se, infatti, come abbiamo mostrato poco fa, esiste una felicità imperfetta in un bene destinato a perire, non si può dubitare che esista una felicità salda e perfetta)). ((Questa conclusione è assolutamente certa e vera)), risposi. ((Ma dove abiti questa felicità, consideralo nel modo seguente. Che Dio, l'origine di tutte le cose, sia buono, lo dimostra il convincimento comune di tutti gli animi umani: infatti, dal momento che non si può pensare niente che sia meglio di Dio, come si potrebbe dubitare che sia buono quello di cui niente è meglio? E la ragione dimostra che Dio è buono in modo da poterei convin-

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SEZIONE OPERE

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LA CONSOLAZIONE

LA FILOSOFIA

cere che in lui vi è anche il bene perfetto. Infatti, se Dio non fosse così, non potrebbe essere l'origine di tutte le cose; vi sarebbe qualcosa migliore di lui, qualcosa che possedesse il bene perfetto, che risulterebbe precedente e più prezioso di questo: è risultato chiaro, infatti, che tutte le cose perfette sono antecedenti a quelle meno complete. Pertanto, affinché il ragionamento non proceda all'infinito, bisogna ammettere che Dio, che è sommo, è assolutamente pieno del bene sommo e perfetto. Ma noi abbiamo stabilito che il bene perfetto costituisce la vera felicità; pertanto è necessario concludere che la vera felicità sì trova riposta nel sommo Dio». [... ] ((È necessario ammettere che Dio è la felicità stessa)). [... ] ((Ma oltre a tutto ciÒ)), disse, ((Come gli studiosi di geometria hanno l'abitudine di inferire certe conclusioni dopo aver dimostrato alcuni presupposti, conclusioni che chiamano porismata, così anche io ti darò, per così dire, un corollario. Infatti, siccome è con l'ottenimento della felicità che gli uomini diventano felici, e siccome la felicità consiste nella stessa natura di Dio, è evidente che gli uomini diventano felici con l'ottenimento di Dio. Ma come diventano, con l'ottenimento della giustizia, giusti, e della sapienza, sapienti, così con analogo ragionamento è necessario che coloro che hanno ottenuto Dio diventino Dio. Pertanto ogni persona felice è Dio. Per natura, certo, Dio è uno solo, ma per partecipazione niente impedisce che dèi siano numerosissimh). ((è bello e preziosm), risposi, ((questo porisma, o corollario come preferisci chiamarlm). ((Eppure non vi è niente di più bello di questo, che la ragione ci convince ad annettere al precedente)). ((E quale?)), risposi. ((Dal momento che la felicità, a quanto sembra, contiene molte cose, forse che tutte queste cose formano, costituendo una varietà di parti, qualcosa che è come un corpo unico (corpo della felicità, intendo dire), oppure vi è tra di esse una cosa che forma la sostanza della felicità, e tutte le altre, poi, si riferiscono alla sostanza?)) Risposi: (Norrei che tu lo spiegassi meglio, passando in rassegna, appunto, queste cosm). ((Non pensiamo noi che la felicità sia un bene?)) ((Anzi, il sommo bene)), dissi. ((Tu puoi aggiungere questo a tutte le cose. Infatti la felicità è anche somma autosufficienza e così è somma potenza, e così pure il rispetto, la fama e il piacere sono considerati equivalenti alla felicità. Ebbene? Tutte queste cose, intendo dire il bene, l'autosufficienza, la potenza e le altre, costituiscono le membra, per così dire, della felicità, oppure si riferiscono tutte al bene, come alloro verticeh ((CapiscO)), risposi, ((quello che tu mi proponi da esamina- · re, ma desidero ascoltare che cosa tu affermi al riguardm). ((Eccoti la partizione di questo problema. Se tutte queste cose costituissero le membra della felicità, esse sarebbero anche diverse tra dì lo-

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7- DIO COME BENE ASSOlUTO ESOMMA FEliCITÀ

ro, perché la natura delle parti consiste nel formare, nella loro diversità, un corpo unico. Eppure è stato mostrato che tutte queste prerogative costituiscono una cosa sola. Pertanto non sono affatto delle membra: altrimenti si vedrebbe che la felicità è composta da un solo membro, il che è impossibile)). ((Questo, certo, è indubbiO)), risposi, ((ffia aspetto di conoscere il restO}). ((Ma è chiaro che tutte le altre cose si riferiscono al bene. Infatti si ricerca la autosufficienza perché la si considera un bene; si desidera la potenza, perché anch'essa è ritenuta tale; altrettanto si può congetturare per il rispetto, la fama, la letizia. Pertanto, la somma e la causa del desiderare le varie cose è sempre la medesima, cioè il bene, ché quello che né nei fatti né nell'aspetto esteriore possiede entro di sé il bene, non può in alcun modo essere desiderato. E, al contrario, quelle cose che per natura non sono buone, se però sembrano tali, sono desiderate come se fossero effettivamente buone. Ne consegue perciò che con ragione si crede che la somma, il cardine e la causa del desiderare le varie cose sia la bontà. [... ] ((Ma noi abbiamo dimostrato che Dio e la felicità sono un'unica e identica cosa)). ((È coSÌ)), risposi. ((Si può dunque concludere con sicurezza che anche la sostanza di Dio è riposta nel bene stesso e in niente altrO)). ~

Cit., III, pp. 215-225

LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

Il capitolo ha una struttura di tipo matematico-geometrico. Poste diverse questioni, Boezio le risolve attraverso una serie di deduzioni che partono da alcune premesse e, una volta giunto alle conclusioni, mostra i corollari che ne derivano. La prima questione è se possa esistere in natura il bene perfetto. Che La ragione mostra esista è certo. Infatti, se parliamo di imperfezione di questo o di quello, de- la via della felicità ve esistere necessariamente la perfezione. Qui viene introdotto il tema dei gradi di perfezione che nel Medioevo sarà uno degli argomenti usati per dimostrare l'esistenza di Dio. La seconda verità è facilmente affermata: dal momento che Dio è buono, come può dedursi dal modo in cui è pensato dalla mente umana, in lui deve risiedere anche il bene sommo. Ma questo coincide con la felicità. Dio dunque, essendo bene sommo, non può che essere la felicità stessa. La terza verità è dedotta dalla tesi che non possono esservi due beni sommi diversi. Tale impossibilità era stata già sostenuta da Platone, Aristotele e Plotino: ammettendo due beni sommi dovremmo ammettere che uno mancherebbe dell'altro e dunque non potrebbe essere veramente sommo. Dato che questo non può essere, c'è un unico bene sommo, ovvero Dio. Da queste verità scaturiscono una serie di corollari: a) per l'uomo raggiungere la felicità significa rendersi partecipe della natura divina, perché questa si identifica appunto con la felicità; b) poiché la felicità è il bene sommo a cui tutti noi aspiriamo, identificandosi essa con Dio, ne consegue che Dio è per noi il bene sommo.

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Il male è solo apparente LIBRO IV 1. (([ ... ] Ma proprio in questo consiste il motivo maggiore del mio cruccio, e cioè che, nonostante che sia buono il reggitore delle cose, i mali possano comunque esistere di per sé o sfuggire impuniti: certamente tu vedi quanta meraviglia susciti, già da solo, questo fattO)). [... ] E allora lei: ((E sarebbe senza dubbio un fatto degno di infinita me-

raviglia e ancora più orrendo di tutti i mostri se, come tu pensi, nella casa ordinatissima, di così grande padre di famiglia (se così lo si può chiamare), gli oggetti di poco pregio fossero tenuti in grande onore e quelli preziosi fossero disprezzati. Ma non è così, ché se le conclusioni a cui siamo arrivati poco fa rimangono salde, tu capirai che, per la volontà di quello stesso Dio del cui regno ora noi stiamo parlando, i buoni sono sempre potenti, mentre i malvagi sono sempre abietti e deboli e i vizi mai sfuggono alle pene né le virtù sono prive del loro premio; ai buoni tocca una sorte felice, ai malvagi sempre una sorte infelice, e molte altre cose del genere che, sopiti oramai i tuoi lamenti, ti daranno forza e fermezza insieme e saldezzm). ~

Cit., IV, pp. 247-249

SEZIONE OPERE

SEVERINO BOEZIO, !A ('(JtJ."iO!AZfOfJE l»EWI f'WJSOflA

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COMMillllTO

8- IL MALE t SOLO APPARENTE

Come al solito, di fronte agli interrogativi di Boezio che nascono dalle esperienze vissute, la Filosofia risponde sostenendo che dimostrerà il contrario di quello che sembra. I malvagi trionfano e restano impuniti? Ti sbagli, è l'opposto! Come riuscirà la Filosofia a dimostrare una tesi così impegnativa? Lo vedremo presto, ma già ora possiamo affermare che se la realtà appare contraddirla non c'è da preoccuparsi, è solo apparenza: l'ordine che regge il mondo si trova al di là di ciò che appare.

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l'infelicità dei malvagi 2. Due 3 sono i presupposti su cui si fondano gli effetti delle azioni umane, e cioè la volontà e la capacità: se l'una o l'altra manca, non c'è nulla che si possa mandare ad effetto. Se infatti manca lavolontà, uno neppure dà un inizio ad un'azione, che appunto non vuole, d'altra parte, qualora manchi la capacità, la volontà sarebbe vana. Di conseguenza, se vedi che uno vuol ottenere qualcosa e non vi riesce assolutamente, non ci può esser dubbio che a costui è mancata la capacità di raggiungere quanto voleva. [... ] Ebbene, ti ricordi come i precedenti ragionamenti ci hanno portato a concludere che ogni tendenza della volontà umana, che pure è sollecitata da interessi diversi, converge verso la felicità? Ricordo - risposi - che anche questo è stato dimostrato. E rammenti che la felicità è il bene stesso e che in tal modo, quando si aspira alla felicità, si tende tutti al bene? [... ] Pertanto, tutti gli uomini, i buoni come i cattivi, istintivamente e indistintamente si sforzano di giungere al bene? È la logica conseguenza, risposi io. [... ] Orbene, poiché sia gli uni che gli altri aspirano al bene, ma i buoni lo raggiungono e i cattivi no, può esserci qualche dubbio sul fatto che i primi sono potenti e i secondi, invece, deboli? ~

S. Boezio, La consolazione della filosofia, Milano, Rizzoli 2001, pp. 273-275

Si tratta di un buon esempio del tipo di ragionamenti che farà la Filosofia. l: esperienza sembra dire a Boezio che, molto spesso, i malvagi raggiungono ciò che vogliono, facendo soffrire gli altri. La Filosofia afferma che le cose non stanno così. Perché? Tutto parte dal presupposto che esiste un unico sommo bene e ognuno di noi, che ne sia consapevole o meno, a quello aspira. Il punto è che i malvagi falliscono perché non conoscono il sommo bene. Un tiranno il quale, ad esempio, perseguiti crudelmente i cittadini, non sta realizzando ciò che vuole. Dunque, in fondo, il problema è semplice: basta conoscere il sommo bene.

3. Parla la Filosofia.

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SEZIONE OPERE !iEV~RINO

IOf.liO, !Il l.IIII'II~UI.Il"lu,rn

FIUJSOFIIJ

LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

Già molti secoli prima, nel Gorgia, Socrate aveva sostenuto la stessa tesi, discutendo con il sofista Polo. I malvagi falliscono, dirà la Filosofia più avanti, perché cercano il bene attraverso le passioni, una via non naturale, mentre i buoni lo cercano tramite le virtù, ed è questa la via naturale. È appena il caso di notare che l'uso del termine 'naturale' è piuttosto diverso da quello consueto. Per Boezio, naturale è tutto ciò che rispetta la finalità propria di ogni essere, come sosteneva Aristotele; perciò dato che l'uomo ha il fine di condurre una vita razionale, quando segue le passioni si comporta in modo innaturale.

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4. In realtà i malvagi4 - cosa che potrebbe apparire incredibile a qualcuno - quando realizzano i loro desideri sono inevitabilmente più infelici di quanto lo sarebbero se non potessero mettere in atto i loro progetti. Infatti, se è infelice la scelta del male, ancor più infelice è la sua realizzazione, senza la quale risulterebbe miserevolmente inoperante l'efficacia della volontà. [... ] Ne convengo- dissi- ma io mi auguro vivamente che costoro siano quanto prima immuni da questa sciagura, una volta privati della possibilità di commettere delitti. Ne resteranno privi - soggiunse lei- più in fretta di quanto tu, forse, vorresti o loro stessi ritengono; infatti in questi limiti così brevi della vita non c'è una scadenza tanto tardiva, la cui attesa possa essere ritenuta lunga, soprattutto da un'anima che è immortale. I loro grandi progetti e l'orgogliosa messinscena dei loro misfatti crollano spesso con una fine improvvisa e inaspettata, e questo, sì, segna davvero il limite finale della loro infelicità; se, infatti, è l'iniquità a rendere infelici, è fatale che sia più infelice chi è più a lungo iniquo. E giudicherei costoro infelici al massimo grado, se non ci fosse almeno la morte che, in fine, pone termine alla loro malvagità. [...] Che i malvagi sono più felici quando subiscono un castigo che se non sono colpiti da pena alcuna ad opera della giustizia. E non intendo ora dire, come si potrebbe pensare, che il castigo serve per correggere la cattiva condotta e che la paura della punizione riporta su retta via e ha un valore esemplare per spingere anche gli altri ad evitare azioni colpevoli; ma anche sotto un certo altro aspetto io ritengo che i malvagi siano più infelici se impuniti, pur prescindendo da ogni motivo di correzione e da ogni considerazione sull'esemplarità della punizione.[...] ~

Cit., pp. 293-295

Nel Gorgia Socrate disse, sconcertando il sofista Polo, che è meglio subire il male che farlo. La Filosofia, nella versione di Boezio, ci presenta una variante della tesi socratica, per la quale è meglio essere puniti che sfuggire al castigo. Nello stesso passo, la Filosofia rassicura Boezio: presto o tardi i malvagi finiscono male, come a dire "il

4. Parla la Filosofia.

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9- l'INFELICITÀ DEl MAlVAGI

delitto non paga". Chi fa del male non si rende conto dell'esistenza di una giustizia divina; il fatto è, però, che non se rendono conto neppure i buoni, come Boezio. Come mai tutti trovano estremamente difficile vedere questa verità cosllampante? La Filosofia ha una spiegazione. 4. È così, diss'ella. Gli uomini, infatti, non riescono ad innalzare gli occhi, avvezzi alle tenebre, fino alla luce della verità abbagliante e sono simili a quegli uccelli che hanno la vista schiarita dalla notte e accecata dal giorno; in realtà, nella misura in cui essi badano non all'ordine della natura, ma alloro modo di sentire, ritengono che la facoltà di fare il male o l'impunità del male stesso siano condizioni felici. Tu, invece, osserva cosa stabilisce la legge eterna. Se il tuo spirito si ispira al meglio, non c'è bisogno di un giudice che ti assegni la ricompensa, perché sei stato tu stesso ad entrare nella cerchia degli esseri privilegiati. Se rivolgi invece i tuoi interessi al peggio, è poi inutile che tu cerchi al di fuori di te la punizione; da te ti sei sprofondato nelle peggiori bassezze, come se, guardando alternativamente la sudicia terra e il cielo, ti sembrasse, al di fuori di ogni influenza esterna e per il solo gioco della vista, ti sembrasse, appunto, ora di far parte del fango, ora delle stelle. Eppure la gente non si preoccupa di questi problemi. E allora? Dovremmo

"··' LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

avvicinarci a coloro che, l'abbiamo dimostrato, hanno tutte le caratteristiche delle bestie? Ecco: se uno, persa completamente la vista, dimenticasse anche di aver posseduto la facoltà stessa di vedere e credesse di non mancare di nulla in ordine alla umana perfezione, dovremmo noi forse ritenere ciechi coloro che ci vedono come prima? ~

Cit., pp. 299-301

Gli esseri umani non riescono a comprendere la verità universale perché, ci suggerisce il brano, si ostinano a giudicare da un punto di vista limitato. In altri termini: la Filosofia invita Boezio e tutti noi a considerare le cose "dal cielo" e non dalla terra, ovvero dal punto di osservazione più alto possibile, usando la ragione e non i sensi. In questo modo, ci avvicineremmo al punto di vista di Dio, assumendo il quale tutto appare in un'altra luce. Per esempio, i dolori e le ingiustizie subite smetteranno di apparire tali per divenire, supponiamo, prove alle quali ci ha sottoposto la sapienza divina per farci progredire sulla strada della virtù.

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la provvidenza e il fato 5/6 A questo punto, io: Mi rendo perfettamente conto - dissi - di qual sia la felicità o l'infelicità presente nelle azioni stesse, buone o cattive, degli onesti e dei disonesti. D'altronde so ben valutare come nella fortuna intesa nella maniera popolare ci siano elementi buoni e cattivi; tra i sapienti, ad esempio, nessuno preferirebbe essere esule, bisognoso, screditato, piuttosto che trascorrere una prospera esistenza, restandosene in patria, ben provvisto di mezzi, rispettato e onorato, capace di imporsi per la sua potenza. È così, infatti, che la funzione della sapienza si realizza in maniera luminosa e significativa, cioè quando la felice condizione dei governanti si trasfonde, in qualche modo, nella popolazione che sta loro attorno e quando, soprattutto, il carcere, la , e tutti gli altri tormenti previsti dalla legge penale sono riservati piuttosto ai cittadini pericolosi, per i quali, appunto, sono stati istituiti. Ed è di questo, appunto, che io provo vivo stupore, come mai, cioè, le cose vadano alla rovescia, e i buoni subiscano le pene dovute ai delitti, mentre i cattivi si appropriano delle ricompense spettanti alla virtù; da te vorrei sapere qual sia la ragione di una così ingiusta confusione di valori. [... ] Allora, quasi prendendo le mosse da un principio diverso, così prese a discorrere [parla la Hlosofja]: L'origine dell'intero creato, ogni evoluzione delle nature mutevoli e tutto ciò che in qualsia-

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10- lA PROVVIDENZA EIl FATO

si modo, si muove, derivano le loro cause, il loro ordine, le loro forme distintive dall'immutabilità della mente divina. Essa, raccolta nella rocca della sua semplicità, ha determinato la complessa regola che presiede allo svolgimento degli eventi. Questa regola, quando la si considera entro la purezza dell'intelligenza divina, si chiama provvidenza; quando, invece, viene riferita agli esseri che essa muove e dispone, dagli antichi è stata chiamata fato. Che si tratti di due cose diverse risulterà facilmente chiaro se si pone mente agli elementi caratterizzanti di ciascuna delle due: la provvidenza è infatti la stessa ragione divina che stabilmente riposta nel supremo essere, signore di tutte le cose, tutte quante le governa; il fato, invece, è la disposizione inerente alle cose mutevoli, mediante la quale la provvidenza mantiene ciascuna cosa collegata al suo ordine. La provvidenza, appunto, abbraccia in ugual misura tutte le cose, per quanto diverse, per quanto innumerevoli; il fato, invece, regola il moto delle singole cose in modo che siano distribuite in luoghi, forme e tempi appropriati, di modo che questo svolgimento dell'ordine temporale in quanto è concentrato nella visione della mente divina è provvidenza; mentre questo stesso complesso in quanto distribuito e sviluppato in successione temporale si chiama fato. [... ] Ed è sempre esso 5 che annoda tra di loro le azioni e le sorti degli uomini in un'inscindibile connessione causale e poiché il corso del fato proviene, risalendo alle origini, dalla immutabile provvidenza, anche le cause stesse risultano necessariamente immutabili. In realtà è proprio così che si realizza il miglior governo del creato, quando cioè la semplicità insita nella mente divina produce un ordine rigorosamente concatenato di cause e poi questo ordine stabilizza, con la propria immutabilità, le cose mutevoli e destinate altrimenti a sbandarsi caoticamente. Ne deriva che, per quanto a voi, assolutamente incapaci di rendervi conto di questo ordine, tutto sembri confuso e sconvolto, ciononostante tutte le cose sono ordinatamente disposte secondo una norma a loro appropriata, che le orienta al bene. Nulla c'è, infatti, che venga fatto a fin di male, neanche da parte degli stessi malvagi; questi, come si è già abbondantemente dimostrato, cercano in realtà il bene, ma sono fuorviati da un malaccorto errore di valutazione; tanto è impensabile che l'ordine promanante dal vertice del sommo bene possa mai volgersi in direzione diversa da quella segnata dalla sua origine.

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Cit., pp. 305-317

S. Lordine della provvidenza che si manifesta attraverso il fato.

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SEZIONE OPERE

SEV~n!tUI BO~lli),

LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

Il testo presenta, in modo abbastanza chiaro, la struttura dell'ordine cosmico secondo Boezio, e non è difficile immaginare per quali motivi la sua opera abbia avuto un'accoglienza così favorevole nel Medioevo cristiano. È un cristianesimo per filosofi: Boezio, che parla tramite la Filosofia, non predica, non fa profezie, non usa l'autorità dei testi sacri; semplicemente ragiona, usando tutto l'armamentario della tradizione platonico-aristotelica, allo scopo di dimostrare come quella di Dio sia l'unica ipotesi plausibile per dare un senso al mondo. Qui, peraltro, mette assieme un concetto cristiano, quello di provvidenza, e uno pagano, quello di fato, facendo diventare il secondo la manifestazione della prima, che si trova nella mente di Dio. È un cristianesimo, però, senza il peccato originale, e non è differenza da poco; la vicenda di Adamo ed Eva può sempre venire in soccorso al teologo cristiano quando deve rispondere alle obiezioni del non credente, il quale gli chiede da dove venga il male se Dio è infinitamente buono. Per Boezio, come pure per S. Agostino, il male non esiste: tutto ciò che esiste è bene perché viene dalla provvidenza Ds . Supponiamo di essere stati morsi da una vipera; questo evento ci appare senza dubbio negativo, eppure ... riflettiamo bene: la vipera ha un posto nell'ordine naturale, serve a certi scopi, dunque non possiamo affermare che essa faccia del male. Si può, tutt'al più, notare come la vipera occupi un posto secondario nella gerarchia degli esseri, e invece noi, esseri umani, ne siamo al vertice. È vero che abbiamo provato dolore a causa del morso, ma nella visione di Boezio, tutto questo è comunque secondario e il nostro dolore non muta il ruolo che la vipera svolge nell'ordine naturale. L'esempio può sembrare sproporzionato rispetto al tema, e forse lo è, ma serve a rendere l'idea: tutte le forme di vita, compresa quella di una vipera, hanno un senso positivo all'interno dell'ottimismo cosmico sostenuto da Boezio. Nel XVIII secolo, il filosofo tedesco G.W. Leibniz (1646-1716), riproporrà queste tesi, affermando che Dio ha scelto il nostro mondo fra infiniti mondi possibili da creare, e che la scelta è caduta su questo perché esso è ((il migliore dei mondi possibili)).

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libertà umana e prescienza divina 3. Mi sembra - dissi - che ci sia un'insanabile contraddizione nell'affermazione che, da una parte, Dio conosce in anticipo tutte le cose e che, dall'altra, per la nostra libertà sussiste una qualche possibilità di scelta. Infatti, se Dio vede in anticipo tutte le cose e in nessun modo può sbagliare, è inevitabile che si verifichi quello che la divina provvidenza ha previsto che debba verificarsi. Di conseguenza, se preconosce dall'eternità non soltanto le azioni umane, ma anche i disegni e i voleri, non vi sarà libertà di decisione; perché non può esistere alcun fatto o volere, quale che sia, se non quello di cui la provvidenza divina, immune da errori, abbia già avuto in anticipo conoscenza. Se, infatti, le cose possono orientarsi di-

SEVEfut~O

SEZIONE OPERE BOEZIO, !A CONSOLAZIONE DELLA fiLOSOfiA

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N'fOLOGIA

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E

COMM!lNTO

-LIBERTÀ UMANA EPRESCIENZA DIVINA

versamente da come sono state previste, non ci sarà una sicura prescienza del futuro, ma piuttosto un'opinione incerta, cosa, questa, che ritengo empio credere nei confronti di Dio. ~

Cit., pp. 349-351

Boezio non si accontenta delle spiegazioni ricevute sinora. C'è ancora un problema da risolvere, e non è secondario. Se Dio sa tutto in anticipo, che senso ha parlare di libertà umana? La Filosofia fornirà una risposta molto complessa, che cercherà di "salvare" libertà umana e onniscienza divina. 6. Che Dio sia eterno è riconosciuto dal comune giudizio di tutti gli esseri umani che vivono provvisti dell'uso di ragione. Consideriamo allora che cosa sia l'eternità; questa, infatti, ci rivelerà la natura divina e, contemporaneamente, la sua conoscenza. L'eternità, dunque, consiste nel possesso intero e insieme perfetto di una vita senza fine, definizione che si chiarisce meglio dal confronto con gli esseri che esistono nel tempo. Infatti, tutto ciò che vive nel tempo si trova nel presente, procedendo dal passato al futuro, e nessun essere c'è che, collocato nel tempo possa abbracciare simultaneamente tutto lo spazio della sua vita; al contrario, non è ancora in grado, evidentemente, di afferrare il domani, mentre quel che è stato ieri lo ha già perduto; e anche nella vita dell'oggi voi non riuscite a fermar la vostra esistenza più che per un attimo labile e fuggente. [... ] L'infinito succedersi delle cose temporali imita, appunto, questo stato di vita immobile nel presente, e non potendolo riprodurre e uguagliare, dall'immobilità decade nel moto, dalla semplicità della potenza degrada nell'infinita quantità del futuro e del passato e, non potendo possedere tutta simultaneamente la pienezza della sua vita, ciò nondimeno, per il fatto che in qualche modo non cessa mai di essere, sembra voler in certa misura emulare quella condizione che non è in grado di raggiungere e realizzare. [... ] Poiché, dunque, ogni essere che giudica conosce secondo la propria natura gli oggetti che giudica, e Dio si trova in uno stato sempre eterno e presente, anche la sua conoscenza, travalicando ogni mutevolezza di tempo, permane nella semplicità della sua presenza e abbracciando tutti gli infiniti spazi del passato e del futuro, li osserva, nel suo semplice atto di conoscere, come se si svolgessero proprio allora. Pertanto, se tu volessi valutare esattamente la pre-visione con cui egli riconosce tutte le cose, dovresti giustamente ritenere che non si tratti di prescienza di cose proiettate nel futuro, ma di conoscenza di un presente che non viene mai meno. Onde si chiama non previdenza, ma provvidenza, appunto perché, collocata lontano dalle cose inferiori, vede tutto quan-

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SEZIONE OPERE SEVf.lutJO IUll:i!IO,

LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

to in prospettiva, per così dire, dall'eccelso vertice dell'universo. Perché, dunque, pretendi che diventino necessarie le cose che sono investite dal lume divino, quando neppure gli uomini rendono necessarie le cose che vedono? Forse che, in realtà, aggiunge qualche necessità alle cose che tu vedi presenti? No, assolutamente. [... ] Ora, Dio vede come presenti quelle cose future che provengono dalla libertà di decisione; queste cose, dunque, in rapporto alla visione divina, diventano necessarie per la condizione della conoscenza divina, considerate per se stesse, invece, non decadono dall'assoluta libertà della loro natura. Avverranno, dunque, tutte quelle cose che Dio prevede che avverranno, ma alcune di loro hanno origine da libera decisione, ed esse, quantunque si verifichino, non perdono con l'esistere la loro natura, per la quale, prima che avvenissero, sarebbero potute anche non avvenire. ~

Cit., pp. 377-385

Qual è il senso di questo complesso ragionamento? Tutto ruota intorno all'argomento tempo li)s: . Per Dio il tempo non esiste, ovvero non esistono il "prima", il "dopo" e il "durante". Egli vive in un eterno presente. Per noi, invece, le cose stanno molto diversamente. Quali conseguenze comporta tutto ciò sul tema della libertà dell'agire umano? Boezio si era domandato: ma se Dio sa tutto e può tutto, le mie scelte

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ANTOLOGIA

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E

COMMENTO

-liBERTÀ UMANA EPRESCIENZA DIVINA

non sono più libere! La Filosofia gli risponde: il fatto che Dio sappia tutto non ti obbliga a fare questo o quello. Che si vada al Liceo oppure in un'altra scuola, queste rimangono scelte, ossia atti liberi. La sua onnipotenza consiste nel rendere possibili innumerevoli scelte per ogni essere umano. Dio sa quello che fai ma tu resti libero di andare in qualsiasi direzione. La Filosofia afferma: lui non prevede, perché non c'è futuro per Dio, ma soltanto per noi. Per tali ragioni, gli esseri umani sono liberi. La Filosofia, nelle ultime parole del testo, invita Boezio a riflettere sul fatto che Dio ci osserva e ci giudica, e ad avere speranza. Cosa significa questo per la nostra vita morale? Lasciamo la conclusione alla Filosofia: Resta anche ben ferma la realtà di Dio, spettatore dall'alto che tutto prevede, e la sempre presente eternità della sua visione concorda con la futura qualità delle nostre azioni, dispensando premi ai buoni e castighi ai cattivi. E non invano sono riposte in Dio speranze e preghiere, che, quando sono giuste, non possono essere inefficaci. Contrastate, dunque, i vizi, coltivate le virtù, innalzate a giuste speranze gli animi, indirizzate al cielo umili preghiere. Se non potete sottrarvi alle vostre responsabilità, non potete ignorare la profonda esigenza di onestà che è riposta in voi, poiché le vostre azioni si compiono sotto gli occhi di un giudice che vede ogni cosa. ~

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SEZIONE OPERE SI:VI:IUNO llO~liO,

Cit., pp. 387-389

LA CONSOLAZIONE

LA FILOSOFIA

SCHEDA-STORIA

La politica interna di Teodorico Il processo di Boezio non fu (... ] un caso di vendetta personale o un episodio isolato, bensì il momento culminante di un sordo ed esteso contrasto politico, e il segno di un radicale mutamento d'indirizzo nei metodi di governo di Teodorico. Questi fin dall'inizio della sua spedizione contro Odoacre s'era trovato a dover fare i conti con il grave problema dei rapporti tra i Goti e i Latini. Ovviamente due erano le vie possibili: o far sentire ai Latini il peso e le conseguenze della sconfitta, o conservare loro, con una politica di benevolenza (resa necessaria tra l'altro dal loro numero, oltre che dalla sorveglianza esercitata dall'Impero), diritti e attribuzioni che rendessero meno evidente la rottura della continuità con l'antica potestas imperii. Adeguandosi ai dati obiettivi, e seguendo il proprio buon intuito politico, Teodorico scelse la seconda alternativa, agevolato anche dai dissensi religiosi esistenti tra la Sede Apostolica e l'Impero, e dalla pronta adeguazione dei circoli dirigenti dell'elemento latino. Ma era naturale che buona parte dei vincitori goti non considerasse con favore una condotta di governo che li privava dei vantaggi della vittoria: di qui le ostilità coperte, i soprusi mascherati di legalità, le vessazioni sotterranee di cui Boezio è buon testimone; di qui il formarsi di consorterie di potenti decisi a far valere il proprio interesse, e l'unirsi ad essi anche di Latini desiderosi di partecipare alla divisione del bottino finale. Tutto ciò è nella logica delle cose; come lo è il fatto che, dapprima debole e perciò facilmente rintuzzato da uomini responsabili come Boezio, il partito goto si andasse via via rafforzando fino ad avere dalla propria lo stesso Teodorico. Se dapprima le circostanze avevano suggerito al re goto una politica di conciliazione, ora parevano esigere una politica opposta. Composte le divergenze religiose tra il Papato e l'Impero, i Latini guardavano a quest'ultimo con accresciuto favore, tanto più pieno quanto maggiore prestigio gli conferivano i nomi di Giustino e Giustiniano. Il sospetto facilmente si tramuta in certezza, quando vi si allei la sfiducia; e sfiduciato era l'animo del re per avvenimenti che lo rendevano inquieto sul futuro del suo regno. [... ] Le circostanze erano dunque favorevoli a una rapida ascesa della parte gota; la parte romana era prossima alla sua rovina, nella prova di forza che si profilava imminente. Boezio era tra i suoi membri più illustri e influenti nella vita pubblica; perciò doveva cadere per primo. La domanda se egli sia stato o no colpevole di segrete trame con l'Impero non ha forse, di conseguenza, un vero significato. Egli doveva comunque essere trovato colpevole: e non rivestiva molta importanza che la motivazione della condanna venisse offerta in questa piuttosto che in quella forma. Per rispondere tuttavia più precisamente alla domanda, si deve riconoscere che, stando alle espressioni della Consolatio, la cui veridicità non è ragionevole mettere in dubbio, Boezio non era colpevole, in quanto non era stato in alcun modo implicato nell'accusa portata originariamente contro Albino.[ ... ] Boezio intervenne per difendere sia Albino sia l'intero Senato, che Teodorico voleva coinvolgere nell'accusa. Evidentemente questi agiva non soltanto di sua spontanea iniziativa, bensì anche e soprattutto per le pressioni della parte gota, decisa ad approfittare dell'incidente- forse sollevato ad arte- per eliminare d'un colpo il nucleo di resistenza più autorevole e pericoloso. Boezio, che per la sua carica e la sua personalità godeva del maggiore prestigio anche presso il re, si addossò allora il peso della difesa del Senato. Era un dovere accettato con piena convinzione. Egli rappresentava l'intera romanità in un confronto decisivo per la sua sopravvivenza. Vinse la parte barbarica, e per opera di elementi romani guadagnati alla sua causa dalla cupidigia di onori e di denaro. Forse contribuirono alla condanna di Boezio le recenti notizie dei provvedimenti antiariani di Giustino: ma il motivo fondamentale fu certamente il proposito di colpire in Boezio il rappresentante e quasi il simbolo degli interessi latini.

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Il> L. Orbetello, Severino Boezio, Genova 1974, vol. 1, pp. 116-118

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l ANTOLOGIA

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Vita e opere Anicio Manlio Severino Boezio, discendente della gens Anicia, nasce a Roma tra il 475 e il 480 d.C., negli anni successivi alla caduta dell'Impero romano; da adulto entrerà a far parte di una famiglia ancora più prestigiosa, quella di Aurelio Memmio Simmaco, senatore, di cui sposerà la figlia, Rusticiana. Educato a Roma e ad Alessandria, secondo il modello classico, si sarebbe recato ad Atene per completare gli studi. Nel 493, intanto, Teodorico re degli Ostrogoti, sconfitto e ucciso il re degli Eruli, Odoacre,cconquista l'Italia. Riconosciuto dall'imperatore d'Oriente, governa i Romani in qualità di patrizio. Boezio diventa uno dei collaboratori di Teodorico, che si serve delle figure prestigiose della cultura romana per l'esercizio del suo potere. Nel 51 O è proclamato console, nel 523 è maestro di palazzo (magister officiorum). Il declino di Boezio, la successiva reclusione a Pavia e la condanna a morte nel 524, si verificano nel momento in cui a Bisanzio sale al trono ùn imperatore cattolico, Giustino l, che avvia una politica di alleanza con il papato. A Verona, Boezio difende il senatore Albino, accusato di cospirare contro Teodorico a vantaggio dell'impero d'Oriente, ma rimane vittima della stessa accusa e condannato alla pena capitale. Il suo sacrificio è stato considerato dai cattolici come un simbolo della lotta contro l'arianesimo degli ostrogoti. La sua salma è conservata nella basilica di S. Pietro in Ciel D'oro di Pavia. Definito dall'umanista Lorenzo Valla (C. Vasoli, La filosofia medievale, Milano, Feltrinelli 1967).

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SEZIONE OPERE S~l!~llllllll

Per quali ragioni Boezio è stato condannato a morte?

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a) Perché era un pagano. b) Perché praticava la stregoneria. c) Per motivi politici.

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Perché era un cristiano.

Come risponde la Filosofia al lamento di Boezio che sostiene di essere stato sfortunato? (max. 2 righe)

Quali aspetti differenziano la metafisica stoica da quella delineata dalla Filosofia?

(max. 3 righe)

Perché è meglio che la fortuna non ci assista? Quali vantaggi possiamo ricavare da esperienze negative? (max. 3 righe)

Costruisci una mappa concettuale che presenti la concezione della felicità secondo la Filosofia. Cos'è il fato, per Boezio?

D D D D

a) La punizione voluta da Dio per i nostri peccati. b) È sinonimo di Provvidenza. c) Il destino secondo i pagani. d) La fortuna.

Perché i malvagi sono più felici quando vengono puniti? (max. 3 righe)

Come si conciliano per Boezio la libertà umana e l'onniscienza divina? (max. 8 righe)

SEZIONE OPERE SEVERUUI BOEZIO, LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA

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esistenza di Dio è uno dei problemi più discussi nella storia della filosofia, che ne offre un ricco repertorio di soluzioni possibili: dal teismo, che concepisce Dio come l'essere trascendente, dotato d'intelligenza e volontà, che ha creato dal nulla tutto ciò che esiste, all'ateismo, secondo il quale l'idea di Dio è un'invenzione umana, espressione di bisogni psicologici e affettivi. Ma hanno trovato sostenitori anche l'agnosticismo, ossia la tesi dell'indecidibilità, in sede razionale, della questione dell'esistenza di Dio, il panteismo, che identifica Dio con l'ordinamento necessario del mondo naturale, il deismo, che rivendica, in contrapposizione agli apparati dottrinari delle religioni positive (come p. es. il cristianesimo o l'islamismo ), il primato della religiosità universale insita nella ragione umana. Un grande pensatore cristiano del XVII sec., Blaise Pascal (1623-1662), espresse la propria insofferenza verso il "dio dei filosofi", osservando che le dispute razionali finiscono per rendere arida e astratta una verità che può essere attinta soltanto col cuore, e vissuta, prima ancora che compresa,come un'esperienza interiore in cui si mette in gioco se stessi. Resta tuttavia il fatto che la questione dell'esistenza di Dio rappresenta per la nostra intelligenza una sfida alla quale difficilmente possiamo sottrarci. Forse il "dio dei filosofi" non ci aiuterà a vincere questa sfida, ma può darci almeno una più chiara consapevolezza dei problemi e delle difficoltà che essa comporta. L'interesse dell'opera che presentiamo nelle pagine seguenti - il Proslogion di Anselmo d'Aosta - sta nel suo audace tentativo di giustificare razionalmente il teismo. Si tratta di un testo molto importante nella storia della filosofia. L'argomentazione che vi è svolta ha dato infatti origine a un dibattito plurisecolare, nel quale sono intervenuti con posizioni contrastanti quasi tutti i maggiori filosofi: da Tommaso d'Aquino a R. Descartes, da I. Kant a G.W.F. Hegel. IlProslogion (Colloquio) fu composto nel1077; all'anno precedente risale ilMonologion (Soliloquio), avente anch'esso per tema l'esistenza di Dio, ma affrontata in una prospettiva diversa. Nel Monologion, Anselmo forniva infatti una dimostrazione a posteriori: partiva cioè dall'esperienza comune del mondo per risalire a Dio come causa prima di tutte le cose esistenti. Nel Proslogion, come vedremo, segue invece una strada diversa: parte dal concetto di Dio per arrivare alla sua esistenza. Entrambe le opere prescindono dall'autorità della fede, in quanto presentano la verità dell'esistenza di Dio come il risultato di un'indagine razionale. Entrambe però, e specialmente il Proslogion, impostato come un colloquio con Dio, presuppongono la fede. Per Anselmo, infatti, la ragione umana può imboccare e percorrere fino in fondo il cammino della verità, soltanto se è illuminata e guidata dalla fede. Il primo capitolo del Proslogion contiene un'appassionata preghiera, a conclusione della quale Anselmo chiarisce in quali termini sia da lui concepito il rapporto tra ragione e fede: Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non oso commisurarla al mio intelletto, ma

SEZIONE OPERE

ANSELMO D'MSTA, PRJJSUJGJl)f,f

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desidero comprendere in qualche modo la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di comprendere per poter credere, ma credo per poter comprendere. Infatti credo anche questo: che se non avrò creduto, non potrò comprendere. ~A.

d'Aosta, Proslogion, Milano, Rizzoli 1992, p. 81

Questo vuol dire che l'esistenza di Dio non è per Anselmo una questione dubbia, da risolversi mediante un esame razionale, ma una verità incontrovertibile, perché stabilita dalla fede. Il punto da accertare è se la ragione, con i suoi strumenti e le sue tecniche d'indagine, sia in grado di elevarsi a tale verità e di farla propria. A rigore non è quindi la ragione che mette alla prova l'esistenza di Dio, ma piuttosto l'esistenza di Dio che mette alla prova la ragione. Il Proslogion è suddiviso in ventisei brevi capitoli, preceduti da un proemio nel quale si rievocano la genesi dell'opera e la sua tormentata gestazione. Anselmo racconta come, dopo aver proposto nel Monologion quattro argomenti a posteriori, egli avvertisse l'esigenza di

Ibidem

Dunque, per Anassimandro, origine (o archè) di tutte le cose è l' àpei-

ron, termine che può voler dire "infinito" o "illimitato" (cioè qualcosa a cui

una parola con più significati

non si possono assegnare limiti di tempo e di spazio), ma anche "indefinito" o "indeterminato": infatti nell'àpeiron gli elementi permangono ancora indistinti. Dall'àpeiron derivano tutte le cose attraverso un movimento vorticoso che separa i contrari (caldo e freddo, secco e umido, ecc.), che poi si alternano nell'esistenza, usurpando l'uno il posto dell'altro. Anassimandro interpreta la nascita delle cose e la prevalenza di un contrario sull'altro come una colpa che il mondo espierà con la morte, cioè con la fine della separazione che ha originato la molteplicità degli esseri finiti. L' àpeiron costituisce, pertanto, il principio da cui tutto deriva e il termine a cui tutto ritorna. Come ci attesta Aristotele nel Libro III della Fisica (203 b, 4-15 ), l'infinito per Anassimandro «abbraccia e circonda, governa e regge)) tutte le cose. Emerge qui, in modo implicito, il duplice concetto dell'infinito di cui si diceva sopra, inteso non solo come principio (in quanto "governa e regge"), ma anche come grandezza (in quanto "abbraccia e circonda"). Aristotele rileva che l'àpeiron di Anassimandro è ingenerato e incorruttibile: ciò che nasce e muore è limitato, e pertanto l' àpeiron, che è al di fuori di ogni limite, non può nascere né morire. Proprio per questo, Aristotele chiama l'àpeiron il ((divinm). Effettivamente, il potere di "reggere" e di "governare", nonché il carattere dell'eternità e la privazione di ogni limite costituiscono gli attributi essenziali della natura divina, cioè del

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SEZIONE TEMI lA SCOPEI'!Tiì Dm'iNFI~II'iO

"principio" del mondo. Ma Anassimandro considera l' àpeiron anche nel suo aspetto quantitativo, identificandolo con una grandezza fisica, e cioè con lo spazio infinito che contiene il mondo, e all'interno del quale si specificano di volta in volta le cose finite.

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La concezione negativa dell'infinito Nel pensiero di Anassimandro il termine àpeiron assume una valenza nettamente positiva, in quanto divino, mentre il limite e la determinazione sembrano rappresentare il male e la colpa: il distacco dall'infinito, e soprattutto il conflitto fra i contrari, per cui ciascuno di essi limita l'altro, costituiscono un'ingiustizia e una sopraffazione. Anche per noi moderni l'idea dell'infinito conserva un valore altamente positivo, tant'è vero che identifichiamo l'infinito con Dio. Dio è infinitamente buono, infinitamente potente, ecc. Noi assumiamo dunque il concetto dell'infinito nel senso di "negazione del limite", e quindi come sinonimo di "totalmente compiuto" e "perfetto". Con i pitagorici invece (cioè con i seguaci del filosofo e matematico greco Pitagora del V secolo a.C.), compare quel significato negativo dell'infinito che caratterizzerà, anche se in modo non esclusivo, la successiva speculazione greca (e che si riferisce soprattutto all'infinito come grandezza). Infatti, per i Greci l'infinito quantitativo appare come ciò che "non è finito", cioè che è incompiuto e quindi non ha forma, non solo nel senso spaziale, ma anche nel senso che manca di ogni struttura. L'infinito risulta per la mentalità ellenica inafferrabile dalla ragione, lontano dall'ideale greco di razionalità intesa come ordine e armonia. Il limite è invece qualcosa di determinato e di compiuto, e quindi perfetto. In particolare, come attesta Aristotele nel primo libro della Metafisica (986 a 15), i pitagorici elaborarono una lista dei contrari che caratterizzano l'universo, e ricondussero i valori positivi al finito, mentre quelli negativi all'infinito. Altri pitagorici dicevano che i principi sono dieci, quelli che secondo la serie sono detti: limite e illimitato, dispari e pari, uno e molteplice, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebre, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Similmente pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che questo pensiero l'accogliesse lui da essi, sia l'accogliessero essi da lui: ché Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e parlò in modo simile a essi. ~Aristotele,

Metafisica A 5. 986 a 15, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit., p. 514

Più esplicitamente, Aristotele afferma nell'Etica Nicomachea (B 5. 1106 b 29): ((fl male, come pensavano i pitagorici, partecipa dell'infinito, il bene del limitatO>) (in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit., p. 515). Le tesi dei pitagorici sono dunque alla base della concezione negativa dell' àpeiron attribuita alla cultura ellenica, che sarà poi confermata anche da Zenone di Elea e dallo stesso Aristotele. Questi arriverà addirittura a negare l'esistenza dell'infinito in atto, cioè dell'infinito come sostanza o attributo di una sostanza. Il che non significa, naturalmente, che nella filosofia greca non siano presen-

SEZIONE TEMI LA SCOPERTA [1El1'1NFINITO

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ti, accanto al cosiddetto horror infiniti, elementi significativi di infinitismo. Altri filosofi dopo Anassimandro, come Anassimene (568 ca-528 ca a.C.), Melisso (fine VI secolo-inizio V secolo a.C.), Anassagora (496 ca-428 ca a.C.), Democrito (460 ca-370 ca a.C.), ed Epicuro (341-271/70 a.C.) in età ellenistica, sosterranno una concezione infinitista dello spazio. Tuttavia, nel mondo antico prevale la tesi opposta di Aristotele, per il quale l'universo è finito e chiuso.

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Il cosmo finito secondo Aristotele Aristotele affronta il problema dell'infinito nel De caelo e nella Fisica (soprattutto nel libro III), dove svolge una critica alle tesi dei filosofi che ammettono l'infinità del cosmo. Per articolare il suo discorso, Aristotele introduce una fondamentale distinzione tra due tipi di infinito: l'infinito in potenza e quello in atto. Linfinito in potenza va Infinito in potenza inteso come un'infinità in divenire, cioè distribuita nel tempo, simile a un e infinito in atto processo che non ha mai fine. L'infinito in atto, invece, è un'infinità data, cioè compiuta, che si presenta nella sua totalità in un momento ben definito. Ora, Aristotele respinge l'infinito attuale, sia livello fisico, sia a livello matematico. Per dimostrare la non esistenza di un corpo di dimensioni infinite (in atto), Aristotele ricorre a varie argomentazioni. Una di queste sfrutta la definizione stessa di "corpo":

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Orbene: se, partendo da tali premesse, conduciamo l'indagine con logica coerenza, dovrebbe risultare che un corpo infinito non c'è. Se, difatti, si chiama corpo ciò che è limitato da una superficie, non potrebl be esserci un corpo infinito né come intelligibile né come sensibile. 1>

Fisica, III, 204 b 5, in Aristotele, Opere, 3, Fisica, Del cielo, Bari, Laterza 1983, p. 62

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Anche l'universo non è infinito: è chiuso dal cielo delle stelle fisse. Secondo Aristotele, in un universo infinito non avrebbero senso le distinzioni altojbasso, centro/periferia, che sono invece innegabili nel nostro mondo, dove esistono un alto e un basso assoluti (verso cui tendono, rispettivamente, i corpi leggeri e quelli pesanti), e un centro, che è il luogo occupato dalla Terra immobile. Ammettere l'infinità dell'universo equivarrebbe a negare l'ordine del mondo. Fra l'altro, se l'etere di cui è fatto il cielo fosse infinito, dovrebbe possedere un movimento altrettanto infinito; invece l'esperienza ci attesta che il cielo compie la sua rivoluzione in un tempo limitato (De caelo, 271 b- 272 a). Secondo Aristotele, l'infinito in atto, che non esiste sul piano fisico, non può neppur.e essere presente nel nostro pensiero sotto forma di infinito mentale, perché noi possiamo pensare solo qualcosa di definito, dotato di forma, ossia qualcosa di determinato. Esclusa con questi argomenti l'esistenza dell'infinito in atto, Aristotele non intende comunque negare l'àpeiron in modo assoluto. L'infinito esiste, ma solo in potenza, cioè come possibilità di addizionare o di suddividere in modo illimitato realtà limitate. Per esempio, la serie dei numeri è infinita in potenza per addizione, perché può essere indefinitamente aumentata. Lo spazio, al contrario, pur essendo attualmente finito, è in-

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finito in potenza per divisione, dato che tutto ciò che è esteso, per esempio un segmento, è infinitamente divisibile. Quanto al tempo, esso è infinito in potenza nei due sensi, giacché qualunque intervallo temporale è divisibile senza fine, ma può anche essere accresciuto aggiungendo a esso infiniti nuovi intervalli. Aristotele arriva così alla seguente definizione dell'infinito potenziale: L'infinito non è ciò al di fuori di cui non c'è nulla, ma ciò al di fuori di cui c'è sempre qualcosa. [...] Infinito è, dunque, ciò al di fuori di cui, se si assume come quantità, è sempre possibile assumere qualche altra cosa. Ciò, invece, al di fuori di cui non c'è nulla, è perfetto ed intero. Ché noi così definiamo l'intero: ciò di cui non manca nulla, ad esempio l'uomo intero [... ] E come è nel particolare, così è anche nel più autentico significato logico, che, cioè, l'intero è ciò al di fuori del quale non c'è nulla; ma ciò al di fuori di cui c'è qualcosa che ad esso manca, non è il tutto, qualunque cosa gli manchi. Invece l'intero e il perfetto sono o la medesima cosa in tutto e per tutto o qualcosa di simile per natura. Ma nessuna cosa che non abbia un fine è perfetta, e il fine è limite. li> Fisica, 207

a, 7-14, in Aristotele, Opere, 3, Fisica, Del cielo, cit., pp. 68-69

L'infinito potenziale, essendo inesauribile, si identifica con l'incompiuto, e quindi con l'imperfetto, come avevano già intuito i pitagorici, sebbene per altre vie.

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La concezione metafisica dell'infinito Se i Greci hanno elaborato una concezione prevalentemente negativa dell'àpeiron, l'affermazione della positività antologica dell'infinito è invece un apporto del pensiero, a carattere essenzialmente mistico-religioso, dei filosofi neoplatonici e specialmente di Piotino (205-270). Con Plotino viene riproposta la tesi, propria di Anassimandro, di un principio infinito a fondamento della realtà. Tuttavia, Anassimandro aveva concepito il prin- · cipio dal punto di vista fisico, mentre Platino elabora un concetto meiafisico dell'infinito, superando le riserve mentali nei confronti dell' àpeiron, che hanno caratterizzato buona parte della cultura greca. L'intera filosofia di Plotino consiste nello spiegare i rapporti che intercorrono fra Dio e il mondo e fra Dio e l'uomo. Per Plotino, Dio è l'Uno senza parti e senza componenti: infatti è il principio e la base della molteplicità delle cose, che derivano dall'Uno per emanazione. Dio, essendo la sorgente di tutta la realtà, è dunque potenza infinita. Plotino avverte, però, che non bisogna concepire l'Uno come esteso, e, in generale, come suscettibile di determinazioni quantitative. La sua, appunto, è un'infinità di potenza (cioè di forza causatrice) e non di estensione: L'Uno [... ] è il massimo di tutto, non per grandezza, ma per potenza, tanto che anche il suo essere senza grandezza è per potenza. [... ] Bisogna dunque assumere che l'Uno è infinito, non perché sia impossibile percorrerne la grandezza e il numero, ma perché è impossibile concepirne la potenza. Perché se tu lo pensi come Intelletto o come Dio, l'Uno è di più. E ancora, se tu con la ragione lo rendi uno, anche in questo caso la sua unità eccede quella che tu ti sei raffigurato superiore al tuo pensiero. Infatti l'Uno è in se stesso e nulla lo tocca come attributo. ~Platino,

Enneadi, VI, 9, 6, in Platino, Enneadi, a cura di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti, Torino, UTET 1997, 2 voli., vol. 2°, pp. 1126-27

Il tema plotiniano dell'infinità di Dio come illimitata potenza verrà ri- Dall'antichità preso e sviluppato dal pensiero teologico del Medioevo. La filosofia cri- al Medioevo stiana assumerà così il termine infinito in un senso totalmente positivo, per indicare la pienezza della natura divina. Nella filosofia cristiana del Medioevo, Dio è il principio creatore di tutti gli esseri, dalla materia prima agli angeli. Egli è dunque infinito, in quanto onnipotente. L'infinità di Dio viene anche qualificata come grado massimo di perfezione, il che conferma il carattere di assoluta positività che la nozione di infinito ottiene ~~l cristianesimo. In generale, la tradizione teologica scolastica attribuisce al Dio cristiano tutte le perfezioni di cui si trova traccia nelle creature, portandole all'infinito. Così possiamo dire che Dio è supremamente buono, giusto, intelligente, onnisciente, ecc. Anselmo d'Aosta (1033-1109) definisce Dio ((['essere di cui non si può pensare nulla di maggiore)) (Proslogion, II), cioè l'essere le cui perfezioni sono al di là di ogni grado raggiungibile dalle perfezioni finite.

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Anche Tommaso d'Aquino (1221-1274), pur negando, sulla scia di Aristotele, l'esistenza dell'infinito quantitativo in atto, ritiene che il divieto aristotelico non riguardi la natura di Dio. Dio è l'assolutamente infinito in senso qualitativo, cioè come infinità di perfezioni. Il tema dell'infinità divina introdurrà, dal Medioevo, la concezione di un infinito qualitativo come modo di essere (in atto) di un Dio perfetto e onnipotente. Senza dubbio la perfezione dell'Essere supremo contrastava con l'idea aristotelica di un infinito indeterminato e potenziale. Ma il fatto che fosse qualitativa instaurerà oltre all'opposizione tradizionale qualità/quantità, una separazione tra l'infinito onta-teologico e l'infinito matematico. Cosi il filosofo Spinoza (1632-1677) opporrà ancora il "vero infinito", quello della sostanza indivisibile, al "falso infinito", l'infinito del numero, oggetto d'immaginazione. ~

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Hourya Sinaceur, L'infinito, in: "Nuova secondaria", Brescia, La Scuola, 2, 15 ottobre 1995, anno XIII, p. 46

l'universo infinito nell'età del Rinascimento Anche se in epoca medioevale si ammette l'infinità di Dio, in questo periodo l'universo continua a essere considerato finito e chiuso. In effetti, la cosmologia finitista di Aristotele, rielaborata dall'astronomo alessandrino Claudio Tolomeo (138-180 d.C), resta per molti secoli la concezione astronomica accettata da tutti gli uomini di cultura e di scienza. Il sistema astronomico aristotelico-tolemaico trova anche espressione poetica nella Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321). È Nicola Cusano (1401-1464), nel Quattrocento, a respingere per primo l'immagine medioevale di un cosmo finito, e a sostenere il carattere "interminato" (interminatum) dell'universo. Cusano, rifacendosi a Platino e alla teologia cristiana del medioevo, parte dal presupposto che Dio è l'infinito qualitativo in atto. Ora, dato che l'universo è !"'esplicazione" (explicatio) o manifestazione del divino, proprio per questo il cosmo non può essere finito. Cusano lo concepisce illimitato nello spazio, ossia non chiuso o finito in nessuna direzione. Il centro del mondo coincide con la circonferenza. Ma il mondo non ha circonferenza. Se avesse un centro, il mondo avrebbe anche una circonferenza, e avrebbe in se stesso, al suo interno, l'inizio e la fine, e avrebbe dei limiti in rapporto a qualcosa d'altro e, al di fuori del mondo, vi sarebbe dell'altro e vi sarebbero altri luoghi ancora. Affermazioni tutte senza verità. Essendo impossibile che il mondo si racchiuda fra un centro corporeo e una circonferenza, il mondo risulta inintelligibile, e Dio stesso ne è centro e circonferenza. E sebbene il mondo non sia infinito, tuttavia non lo si può concepire nemmeno finito, mancante com'è di termini che lo racchiudano. ~

N. Cusano, La dotta ignoranza. Le congetture, a cura di G. Santinello, Milano, Rusconi 1988, libro Il, cap. 11

SEZIONE TEMI lA S(Oi"ERl'JI DI:U.'Ii~Fif~ITO

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5 - L'UNIVERSO INFINITO NELL'ETÀ DEL RINASCIMENTO

Il rifiuto di un universo finito non induce Cusano all'affermazione dell'infinità numerica dei corpi celesti, ma soltanto all'idea di uno spazio cosmico "aperto". Sarà invece Giordano Bruno (1548-1600) ad ammettere esplicitamente anche l'infinità dei mondi. Bruno accetta la teoria formulata da Niccolò Copernico (1473-1543), che ha eliminato l'antico pregiudizio del geocentrismo. Tuttavia, egli ha il merito di perfezionare tale teoria, perché l'astronomo polacco continua a concepire il Sole come centro del cosmo, mentre Bruno asserisce che l'universo non ha né centro né periferia. Infatti, secondo Bruno, dal tema dell'infinita potenza divina si può argomentare come conseguenza l'infinità dello spazio e dei mondi: Perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? Perché vogliamo dire che la divina bontà la quale si può comunicare alle cose infinite e si può infinitamente diffondere, voglia essere scarsa ad astrengersi in mente [... ]? Perché volete quel centro della divinità che può infinitamente in una sfera (se cossì si potesse dire) infinita amplificarse, come indivisso, rimaner più tosto sterile che farsi comunicabile, padre fecondo, ornato e bello? [... ] Perché deve esser frustrata la capacità infinita, defraudata la possibilità de infiniti mondi che possono essere, pregiudicata la eccellenza della divina imagine che deverebe più risplendere in uno specchio incontratto e secondo il suo modo di essere infinito, immenso? ~De

l'infinito universo e mondi, libro I, in G. Bruno, Dialoghi italiani, a cura di G. Aquilecchia, Firenze, Sansoni 1958, pp. 380-81

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La tesi di Bruno di un universo infinito non è però accolta dai tre più grandi astronomi del suo tempo: Tycho Br ah e (1546-1601) e i copernicani Giovanni Keplero (15711630) e Galileo Galilei (1564-1642). Effettivamente, si tratta di una dottrina metafisica, ingiustificabile dal punto di vista empirico. Nonostante queste riserve, nel corso del Seicento la teoria dell'infinità dei mondi subisce una rapida diffusione, e viene infine sostenuta dal grande scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727), che consacra il passaggio "dal cosmo chiuso all'universo infinito", caratteristico dell'astronomia moderna. Secondo Newton, lo spazio reale dell'universo è infinito come l'ordinario spazio euclideo a tre dimensioni.

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La fisica contemporanea e l'infinito -

Ricordiamo, però, che le tesi di Newton sono state messe in discussione dalla fisica del Novecento, che è tornata a proporre un modello di universo più vicino al sistema di Aristotele che al quadro cosmologico delineatosi al termine della rivoluzione astronomica. Infatti, la teoria della relatività generale di Albert Einstein (1879-1955) ha offerto un nuovo schema di comprensione dell'universo, secondo cui la materia incurva lo spaziotempo.

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Einstein immaginò che l'effetto di una massa materiale sia quello di

curvare lo spazio-tempo attorno a sé, cioè di renderlo non euclideo. Non siamo in grado di visualizzare questo concetto nello spazio ordinario a tre dimensioni e tanto meno nello spazio-tempo! Ma possiamo suggerire un'analogia molto efficace con uno spazio a due dimensioni. Uno spazio a due dimensioni è una superficie e una superficie può essere curva. Si pensi per esempio a una superficie sferica. Su di essa le linee geodetiche, ovvero i cammini più brevi fra due punti, sono cerchi massimi e non linee rette, come sono in uno spazio euclideo a due dimensioni, cioè in un piano. (... ] Un corpo materiale abbandonato a se stesso segue una geodetica dello spazio-tempo e questa geodetica non è altro che l'orbita che, secondo l'interpretazione newtoniana, esso sarebbe costretto a seguire perché soggetto alle forze gravitazionali. JP-

G. Toraldo di Francia, La cosmologia, In Dove va la scienza, a cura di M. Carnevale, Firenze, Sansoni 1978,p. 198

Secondo Einstein, lo spazio-tempo è dunque finito (perché, percorrendolo in una direzione, si finirebbe col ritornare dalla direzione opposta), ma nello stesso tempo illimitato, proprio perché curvo, cioè paragonabile a una superficie sferica: infatti una sfera può essere percorsa innumerevoli volte, sia pure ripetendo il medesimo tragitto, senza uscire fuori di essa, senza, cioè, raggiungere una frontiera e oltrepassarla 1• Quanto alla durata del cosmo (che Aristotele riteneva eterno, ipotizzando l'infinità potenziale del tempo), gli scienziati contemporanei hanno ormai appurato che l'universo ha avuto un inizio temporale con il Big Bang, e si sta espandendo. Le galassie fuggono l'una dall'altra con una velocità tanto più grande quanto maggiore è la distanza fra loro. A tale riguardo, Eli Maor si chiede: L'universo continuerà ad espandersi in eterno? Questo dipende dalla quantità di materia in esso contenuta. Se tale importo supera un certo valore critico, tutta questa materia eserciterà su se stessa una forza di attrazione gravitazionale sufficiente a rallentare l'espansione ed alla fine arrestarla, con una conseguente e successiva concentrazione dì ritorno alla «singolarità)) primordiale. Poi un altro big bang segnerà la nascita di un altro Universo e così via, in continuazione, per l'eternità: una specie di realizzazione cosmica della reincarnazione dell'anima, credenza conservata nell'Induismo. Se, al contrario, la quantità di materia è inferiore al valore critico, allora l'Universo continuerà per sem-

1. Einstein distingue tra"infinito" e"illimitato';che non sono la stessa cosa.ln realtà, tale distinzione risale ad Aristotele, e in particolare allibro Ili della Fisica (6, 207 a2). Secondo Aristotele, nell'infinito si può prendere sempre una parte ulteriore; ma questa parte èsempre diversa dalle parti precedenti. Invece, nell'illimitato si può prendere sempre una parte ulteriore, ma questa parte non è sempre nuova. Un esempio di illimitato è un anello senza castone: infatti, lungo la sua circonferenza, si può procedere sempre oltre, ma passando sempre sui medesimi punti.

SEZIONE TEMI LA SCOPERTA DEI.L'It~FINITO

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6- LA FISICA CONTEMPORANEA EL'INFINITO

pre nella sua espansione, anche se ad una velocità man mano più ridotta. La determinazione della quantità di materia nell'Universo è senza dubbio uno dei problemi che assillano maggiormente gli specialisti di cosmologia contemporanei ed una risposta definitiva in merito potrebbe anche non tardare troppo. Ma, fino a quel momento, il problema del futuro dell'Universo resta aperto. ~Eli

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Maor, cit., pp. 234-35

l'infinito geometrico: i pitagorici e la scoperta degli irrazionali Il tema dell'infinito come grandezza geometrica fu affrontato per la prima volta dai pitagorici, che, partiti da un'originaria concezione finitista degli enti geometrici, furono poi costretti ad ammettere l'esistenza dell'infinito sul piano matematico. Com'è noto, infatti, una delle tesi dei primi pitagorici era la concezione secondo la quale le figure geometriche, come i segmenti, sarebbero composte da una quantitàjinita di punti (che i pitagorici identificavano con i numeri), piccoli ma non nulli, tutti uguali fra loro e dotati di massa, simili, cioè, ad atomi fisici o mònadi (cfr. Aristotele, Metafisica, M 6. 1080 b 16). Tale ingenua concezione "granulare" venne smentita dalla fondamentale scoperta dell'incommensurabilità fra la diagonale e il lato del quadrato, avvenuta in una data imprecisata, anteriore al410 a.C. La scoperta dell'esistenza di linee incommensurabili porta a una importantissima conseguenza nei riguardi delle ipotesi che si possono · fare sulla struttura delle linee. Se tale struttura fosse granulare, se cioè le linee si componessero di tanti granellini tutti uguali, l'uno attaccato all'altro, dovrebbe essere sempre possibile misurare una linea con un'altra qualsiasi scelta come "metro". Se, per esempio, lato e diagonale di un quadrato avessero struttura granulare, il lato sarebbe composto da un certo numero di granellini e da un altro numero di granellini identici sarebbe composta la diagonale. Ma allora sarebbe possibile misurare la diagonale scegliendo il lato come unità di misura: basti pensare che un granellino (cioè un sottomultiplo del lato) sarebbe contenuto esattamente nella diagonale senza lasciare avanzo. Fu dimostrato, invece, che ciò non è. Se ne ricava che le linee non sono composte di tanti granellini; cioè che il punto non è un granellino, per quanto piccolo. E allora? Quanto sarà piccolo il punto? Sarà necessariamente privo di dimensioni, cioè senza lunghezza, senza larghezza, senza altezza. Si tratta del punto geometrico, che tutti conoscono fin dalle scuole elementari. Entra così nella geometria di tutti i tempi la concezione del punto senza dimensioni, la quale porta con sé le altre della linea priva di larghezza e della superficie priva di spessore.

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A noi qui interessa in modo particolare una conseguenza. Un tratto di linea, per quanto breve esso sia, contiene sempre infiniti punti, una volta ammesso che la lunghezza del punto sia zero. Quindi tra due punti A, B di una linea (retta per esempio) sarà sempre possibile infiltrare un punto intermedio C, per quanto vicini si siano fissati i punti di partenza A, B. Naturalmente, quando si dice che è possibile inserire un punto tra altri due, si viene con ciò ad ammettere che sia possibile inserire infiniti punti. Sarà infatti possibile inserire un punto D tra A e C, poi un punto, E tra A e D e così via, senza che si giunga mai alla fine. ~A.

Frajese, Che cos'è il calcolo lnfiniteslmale, Roma, Editrice Studium 1954, pp. 41-42

I greci chiamarono il rapporto fra la lunghezza della diagonale e quella del lato del quadrato àlogos, cioè "irrazionale", e ancora oggi denominiamo in questo modo numeri come \[2, che esprimono la relazione fra due grandezze incommensurabili.

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l paradossi di Zenone L'idea che ogni ente geometrico sia costituito da un'infinità di elementi ultimi, fu però contraddetta da Zenone di Elea (V secolo a.C.), discepolo di Parmenide e autore di celeberrimi paradossi contro la molteplicità e contro il movimento. Supponiamo, infatti, che un segmento sia composto da un numero in- un concetto finito di punti. Allora, secondo Zenone, sono possibili due ipotesi: o que- geometrico bisognoso sti punti hanno una grandezza diversa da zero, oppure hanno una gran- -di chiarificazione "" tali eledezza uguale a zero. Nella prima ipotesi, l'ente che è costituito dalla sommaèli menti risulterà infinitamente grande: infatti, se si sommano infinite grandezze, per quanto piccole, si ottiene un risultato infinito. Nel secondo caso, invece, l'entEtJisulterà nullo, perché, mettendo insieme delle parti senza estensione, non si può ottenere una grandezza estesa. Tutt'e due le ipotesi si rivelano assurde, e quindi il numero dei punti di un segmento non può essere infinito. Ma i pitagorici avevano già dimostrato, scoprendo l'incommensurabilità fra il lato e la diagonale del quadrato, che tale numero non può essere nemmeno finito, per cui entrambi i risultati misero in luce una proforrda difficoltà inerente alla natura dell'estensione lineare, cioè del continuo geometrico. Altri argomenti zenoniani che coinvolgono il concetto di infinito geometrico sono la cosiddetta "dicotomia" e il paradosso di Achille e la tartarug)), mentre fra significante e significato c'è un rapporto convenzionale (((i[ nome è così suono della voce, significativo per convenzione))). Il secondo tipo di rapporto spiega perché ci sono lingue diverse, il primo tipo perché anche lingue diverse possono riferirsi agli stessi oggetti. Queste due caratteristiche del linguaggio non sono disponibili nella secca alternativa fra convenzionalismo e naturalismo così come è presentata nella filosofia antica fino agli stoici: infatti se le parole hanno un rapporto naturale con le cose non si spiega perché esistono lingue diverse; se, d'altra parte, il rapporto fra le parole e le cose è convenzionale, non è possibile cogliere la verità delle cose attraverso le parole. E questa era infatti, come abbiamo visto, l'alternativa discussa nel Cratilo.

6

Locke e la convenzionalità delle idee Nell'età medievale e nell'età moderna la riflessione filosofica sul linguaggio si è arricchita di numerosi e importanti contributi, sviluppandosi in direzioni diverse. Non è possibile in questa sede dar conto di questi sviluppi. Ci limitiamo perciò a riportare in sintesi la posizione sostenuta nel sec. XVII dal filosofo inglese John Locke (1632-1704), perché essa mette in discussione la tesi di origine aristotelica e stoica, illustrata nei paragrafi precedenti, secondo la quale tra significato e oggetto c'è un rapporto naturale, in quanto le idee suscitate dagli oggetti sono identiche per tutti.

li linguaggio degli animali Esiste un mondo intero dietro gli occhi di una persona. l suoi pensieri, le speranze, i suoi ricordi e i sogni, le gioie e le tristezze della sua vita. Dietro gli occhi degli animali cosa c'è? Possiamo parimenti affermare che lo sguardo di un cane o, ancor piu, quello di uno scimpanzé, celano un mondo interiore ricco e variegato, complesso e sofisticato se non come il nostro quanto meno tale da giustificare la domanda stessa? Se affidiamo le risposte alla sola intuizione difficilmente potranno sorgere dubbi: sf, gli animali hanno una vita interiore interessante, che vale la pena studiare e cercare di comprendere. D'altro canto, [occorre considerare che il] tema del pensiero animale è stato per molti anni affrontato, e secondo alcuni risolto, prendendo come riferimento una posizione teoricamente molto precisa: non può esserci pensiero in assenza di linguaggio. Data questa tesi segue immediatamente che qualunque attribuzione di pensiero a esseri privi di linguaggio, inclusi i nostri simili nei primi due anni di vita, è del tutto inappropriata. Versioni piu deboli di questo punto di vista [... ] asseriscono che il linguaggio è lo strumento privilegiato per l'analisi del pensiero. Questa posizione conduce a escludere gli animali dal regno degli esseri pensanti, ma lascia aperta la possibilità che essi abbiano forme semplici di pensiero, dei ((proto-pensieri)). Tuttavia, questa tesi ha oppositori da entrambi i lati. C'è chi la giudica troppo debole e chi la ritiene troppo forte. [... ]Infatti, molte delle ricerche volte a mostrare la possibilità del pensiero in assenza dì linguaggio sì fondano proprio sul tentativo di insegnare delle forme rudimentali di linguaggio agli animali. Questi studi però[ ... ] sono risultati tutt'altro che convincenti. ~

S. Gozzano, Mente senza linguaggio, Roma, Editori Riuniti 2001, pp. 8-9

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3

All'arbitrarietà del rapporto tra parola e idea si aggiunge in Locke quel- Le idee la del rapporto fra idea e oggetto: le idee rappresentano la realtà in modo corrispondono non meno arbitrario e convenzionale di quanto le parole rappresentino le alla realtà? idee. Nella prospettiva di Locke, bisogna quindi ammettere che quando parliamo non possiamo mai essere sicuri di parlare del mondo reale. Cade così l'idea aristotelica di un sistema di concetti in grado di cogliere l'essenza delle cose. Secondo Locke è vero, sì, che le parole servono per indicare le Cose, ma le indicano soltanto in base a quello che noi ''crediamo" siano le cose. Possiamo conoscere una cosa soltanto aLLraverso l'idea che ce ne facciamo, ma nulla ci garantisce che questa idea corrisponda effettivamente alla realtà. Si discute, scrive Locke, se un certo animale appena scoperto appartenga a una specie o a un'altra, se il feto debba essere battezzato o no (cioè se sia già un uomo o no): tali discussioni non avrebbero luogo se le idee {dell'animale o dell'uomo, per esempio) cogliessero la vera essenza dell'oggetto a cui siriferiscono. I motivi per cui non si dà un rapporto affidabile fra idee e cose sono diversi. Di fatto le proprietà di un corpo sono così numerose e varie, e gli uomini hanno capacità, sensibilità e atteggiamenti così diversi che essi non sono in grado di formarsi idee adeguate all'essenza dell'oggetto e universalmente condivise. Inoltre il linguaggio si è formato ben prima che nascessero le varie scienze, dunque è sorto dall'opera di persone incolte che nulla potevano sapere della natura delle cose. Ma, soprattutto, c'è il fatto che le cose esistenti sono particolari mentre le idee sono generali, sono cioè delle astrazioni prodotte dall'intelletto per l'impossibilità materiale di assegnare un nome distinto a ogni singolo oggetto dell'esperienza. Vediamo qualche passo in cui Locke espone le sue posizioni.

È chiaro che il generale e l'universale non appartengono all'esistenza reale delle cose, ma sono invenzioni e creature dell'intelletto, fatte da esso per il suo uso, e riguardano solamente i segni, siano essi parole o idee. Come abbiamo detto, le parole sono generali quando sono adoperate come segni di idee generali e così possono essere applicate indifferentemente a molte cose particolari; le idee sono generali quando sono poste a rappresentare molte cose particolari. Ma l'universalità non appartiene alle cose stesse, le quali sono tutte particolari nella loro esistenza, comprese le parole e le idee che sono generali nel loro significato. Perciò, quan4o ci allontaniamo dai particolari, ciò che rimane di generale è solo una creatura di nostra fabbricazione; infatti la sua natura generale non è che la capacità, conferita dall'intelletto, di significare o rappresentare molti particolari. Il significato che ha è soltanto una relazione che lo spirito dell'uomo aggiunge a questi particolari. ~ J.

Locke, Saggio sull'intelletto umano, Torino, Utet 1971, III, 3, 11

Che le specie delle cose non siano altro per noi che il raggruppamento che ne facciamo sotto nomi distinti, secondo le idee complesse che

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SEZIONE TEMI !'ilnOU ~ (OSE: Il. l.lf~GII!IIiGII) 'l'IlA

sono in noi e non secondo essenze precise, distinte e reali che sono in esse, è chiaro da questo: che troviamo molti individui classificati in un genere, chiamati con un solo nome, e così accettati come appartenenti a una specie, i quali hanno tuttavia qualità, che dipendono dalla loro costituzione reale, altrettanto diverse l'una dall'altra quanto altri individui dai quali si ritiene che i primi differiscano specificamente. Questo è stato facilmente osservato da tutti coloro che hanno a che fare con i corpi naturali; così ne sono spesso convinti, da una triste esperienza, i chimici, quando talvolta hanno cercato invano in una particella di zolfo, di antimonio o di vetriolo le stesse qualità che avevano trovato in altre. ~

Cit., III, 6, 8

Da tutto ciò risulta chiaro che il nostro distinguere le sostanze in specie non è affatto fondato sulle loro essenze reali; né possiamo pretendere di classificare e determinare esattamente le sostanze diverse secondo differenze interne essenziali. ~

Cit., III, 6, 20

Dal momento che è evidente che smistiamo e denominiamo le sostanze in base alle loro essenze nominali e non a quelle reali, la prossima cosa da considerare è come, e da chi, queste essenze sono formate. E per ciò che riguarda il "chi", è evidente che sono opera dello spirito e non della natura: e se fossero opera della natura, non potrebbero esser così varie e diverse in uomini diversi, come l'esperienza ci dice che sono. ~

Cit., III, 6, 26

Non sono stati i filosofi o i logici o coloro che si preoccupavano delle forme e delle essenze a formare i nomi generali che sono in uso fra le varie nazioni degli uomini; ma quei termini più o meno comprensivi hanno per la maggior parte ricevuto in tutte le lingue la loro nascita e il loro significato da gente ignorante e illetterata, la quale smistava e denominava le cose per mezzo delle qualità sensibili che vi trovava. ~

Cit., III, 6, 25

[Le proprietà di un corpo] sono almeno tante che nessun uomo può conoscerne il numero definito e preciso, vengono scoperte in modo diverso da persone diverse, a seconda della loro abilità, della loro attenzione e dei modi di trattare i corpi; non si può quindi fare a meno di avere idee. differenti della stessa sostanza, perciò il significato del suo nome comune è molto incerto e vario. ~

Ci t., III, 9, 13

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7

Il triangolo semantico: i capisaldi della linguistica contemporanea nel Corso di linguistica generale di Saussure Nel pensiero contemporaneo è divenuta comune la concezione secondo la Nuove prospettive sul quale affrontare il tema del linguaggio significa avere a che fare con il du- linguaggio nel xx sec. plice e problematico rapporto fra i nomi e le idee e fra le idee e gli oggetti. Questa· concezione è stata elaborata nell'ambito di studi logici e linguistici. Essa deve essere fatta risalire, da una lato, al logico tedesco G. Prege (1848-1925) e, dall'altro, al linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913). Qui ci limiteremo a vedere come l'antica alternativa tra convenzionalismo e naturalismo risulti superata, o comunque inquadrata in una prospettiva nuova, nel Corso di linguistica generale di Saussure, pubblicato postumo nel 1916. L'opera di Saussure pone i capisaldi della linguistica contemporanea. Essa è inoltre all'origine di un movimento di pensiero (trasversale a discipline diverse, dalla linguistica alla filosofia, dalla critica letteraria all'antropologia), che ha avuto un ruolo di primo piano nella cultura occidentale fino agli anni Sessanta del XX sec.: lo strutturalismo. L'idea di lingua come struttura caratterizzabile in modo indipendente dalla sua evoluzione storica, presente in Saussure, ha costituito infatti un'alternativa al dominio dell'approccio storico - caratteristico del XIX sec. e dei primi del XX - ai problemi sociali. Una delle idee fondamentali della linguistica, della semiotica (la scienza che studia i segni in generale e dunque anche quelli del linguaggio naturale) e della filosofia del linguaggio contemporanee, è quella che scompone il processo di significazione in tre componenti, grosso modo: oggetti, pensieri e parole. Questi tre elementi e i loro rapporti possono essere schematizzati graficamente in una figura che è stata definita triangolo semantico, i vertici del quale costituiscono gli elementi essenziali del processo di significazione. Poiché autori diversi chiamano in modo diverso i tre elementi posti ai vertici si hanno diversi triangoli semantici. Quello di Saussure è così concepito: significante

significato

riferimento

Saussure chiama i tre componenti: significante, significato e riferimento. Il significante non è la parola intesa come successione di suoni, ma piuttosto la traccia che il suono della parola ha lasciato nella nostra memoria (e ciò per rendere conto del fatto che possiamo usare le parole anche senza pronunciarle o ascoltarle effettivamente, come nel monologo silenzioso). In questo senso il significante è definito da Saussure come un'im-

magine acustica.

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Il carattere psichico delle nostre immagini acustiche appare bene quando noi osserviamo il nostro linguaggio. Senza muovere le labbra né la lingua possiamo parlare tra noi o recitarci mentalmente un pezzo di poesia. ~

F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza 1978, p. 84

Il significato è l'idea associata a quella parola, il riferimento è l'oggetto a cui siriferisce l'idea. Il segno è l'unità di significato e significante. I termini implicati nel segno linguistico sono entrambi psìchici e uniti nel nostro cervello dal legame dell'associazione. Insistiamo su questo punto. Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un'immagine acustica. Quest'ultima non è il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono, la rappresentazione che ci viene data dalla testimonianza dei nostri sensi. ~

Cit., pp. 83-84

Il segno linguistico è dunque un'entità psichica a due facce che può essere rappresentata dalla figura: Concetto Immagine acustica

Questi due elementi sono intimamente uniti e si richiamano l'un l'altro. Sia che cerchiamo il senso della parola latina arbor sia che cerchiamo la parola con cui il latino designa il concetto di "albero", è chiaro che solo gli accostamenti consacrati dalla lingua ci appaiono conformi alla realtà, e scartiamo tutti gli altri che potrebbero immaginarsi. "albero" arbor

Questa definizione pone un importante problema di terminologia. Noi chiamiamo segno la combinazione del concetto e dell'immagine acustica: ma nell'uso corrente questo termine designa generalmente soltanto l'immagine acustica, per esempio una parola (arbor eccetera). Si dimentica che se arbor è chiamato segno, ciò è solo in quanto esso porta il concetto "albero", in modo che l'idea della parte sensoriale implica quella del totale.

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7- IL TRIANGOLO SEMANTICO: l CAPISALDI DELLA LINGUISTICA CONTEMPORANEA NEL CORSO DI LINGUISTICA GENERALE DI

SAUSSURE

L'ambiguità sparirebbe se si designassero le tre nozioni qui in questione con dei nomi che si richiamano l'un l'altro pur opponendosi. Noi proponiamo di conservare le parole segno per designare il totale, e di rimpiazzare concetto e immagine acustica rispettivamente con significato e significante: questi due ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evidente l'opposizione che li separa sia tra di loro sia dal totale di cui fanno parte. Quanto a segno, ce ne contentiamo per il fatto che non sappiamo come rimpiazzarlo, poiché la lingua usuale non ce ne suggerisce nessun altro. ~

7.1

Cit., pp. 84-85

l'arbitrarietà del segno I rapporti tra significato e significante sono decisivi e conducono Saussu- una concezione re a una concezione radicalmente nuova, anche per i suoi tempi, in cui la radicalmente nuova vecchia alternativa fra naturalismo e convenzionalismo appare, almeno nei termini in cui è stata posta nell'antichità, superata. Innanzi tutto Saussure rifiuta la concezione naturalistica, come quella di Cratilo, perché ritiene che il legame fra significato e significante sia arbitrario. Saussure usa il termine 'arbitrario' al posto di convenzionale per motivi che vedremo meglio nel paragrafo successivo, ma che già si trovano accennati alla fine del brano seguente. Il segno linguistico possiede due caratteri primordiali. Enunciandoli porremo i principi stessi di ogni studio di questo ordine.

Primo principio: l'arbitrarietà del segno. Il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall'associazione di un significante a un significato possiamo dire più semplicemente: il segno linguistico è arbitrario. Così l'idea di "sorella" non è legata da alcun rapporto interno alla sequenza di suoni s-6-r che le serve in francese da significante; potrebbe anche essere rappresentata da una qualunque altra sequenza: lo provano le differenze tra le lingue e l'esistenza stessa di lingue differenti: il significato "bue" ha per significante b-6-f da un lato e o-k-s (Ochs) dall'altro lato della frontiera. Nessuno contesta il principio dell'arbitrarietà del segno; ma, spesso, è più facile scoprire una verità che assegnarle il posto che le spetta. Il principio enunciato più su domina tutta la linguistica della lingua e le sue conseguenze sono innumerevoli. In effetti, ogni modo di espressione ereditato in una società poggia in linea di principio su un'abitudine collettiva o, ciò che è lo stesso, sulla convenzione. I segni di cortesia, ad esempio, dotati spesso d'una certa espressività naturale, sono nondimeno fissati da una rego-

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SEZIONE TEMI I"AROli!: f. COS~:

la: è questa regola che costringe a impiegarli, non il loro valore intrinseco. Ci si è serviti spesso della parola simbolo per designare il segno linguistico o più esattamente ciò che chiamiamo significante. Vi sono degli inconvenienti ad accoglierlo, appunto a causa del nostro primo principio. Il simbolo ha per carattere di non essere mai completamente arbitrario: non è vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante e il significato. Il simbolo della giustizia, la bilancia, non potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra cosa, per esempio da un carro. La parola arbitrarietà richiede anche un'osservazione. Essa non deve dare l'idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante (non è ìn potere dell'individuo cambiare in qualcosa un segno una volta stabilito in un gruppo linguistico); noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale. ~

Ci t., pp. 85-87

Saussure affronta, a questo punto, il problema delle onomatopee e delle interiezioni, due classi di parole che i naturalisti adducevano come prove a favore della loro teoria.

3

7- IL TRIANGOLO SEMANTICO: l CAPISALDI DELLA LINGUISTICA CONTEMPORANEA NEL CORSO DI LINGUISTICA GENERALE DI SAUSSURE

Segnaliamo, concludendo, due obiezioni che potrebbero essere fatte a questo primo principio. 1. Ci si potrebbe basare sulle onomatopee per dire che la scelta del significante non è sempre arbitraria. Ma esse non sono mai elementi organici di un sistema linguistico. Il loro numero è d'altra parte assai meno grande di quanto si creda. Delle parole come, in francese, fouet "frusta" o glas "rintocco" possono colpire l'orecchio di qualcuno con una sonorità suggestiva: ma basta risalire alle loro origini latine (fouet deriva da fagus "faggio" e glas da classicum "squillo dì tromba") per vedere che non hanno carattere onomatopeìco all'origine; la qualità dei loro attuali suoni, o piuttosto la qualità che a tali suoni si attribuisce, è un risultato fortuito dell'evoluzione fonetica. Quanto alle onomatopee autentiche (quelle del tipo glu-glu, tictac eccetera) non soltanto sono poco numerose, ma la loro scelta è già in qualche misura arbitraria, poiché non sono altro che l'imitazione approssimativa e già a metà convenzionale di certi rumori (confrontate il francese oua-oua e il tedesco wau-wau 1 ). Inoltre, una volta introdotte nella lingua, esse sono più o meno trascinate nell'evoluzionè fonetica, morfologica eccetera subita dalle altre parole (il francese pigeon "piccione" dal latino volgare pipio, che deriva da parte sua da un'onomatopea): prova evidente del fatto che esse hanno perduto qualche cosa del loro carattere primo per assumere quello del segno linguistico in generale, che è immotivato. 2. Le esclamazioni, molto vicine alle onomatopee, danno luogo a osservazioni analoghe e sono altresì poco preoccupanti per la nostra tesi. Si è tentati di vedervi delle espressioni spontanee della realtà, dettate per dire così, dalla natura. Ma per la maggior parte di esse si può negare che vi sia un legame necessario tra significante e significato. Basta confrontare a questo riguardo due lingue per vedere quanto tali espressioni varino da una lingua all'altra (per esempio, al francese aie! corrisponde il tedesco au.0. Si sa d'altro canto che molte esclamazioni hanno cominciato con l'essere parole di senso determinato. Riassumendo, le onomatopee e le esclamazioni sono di importanza secondaria e la loro origine simbolica è in parte contestabile.

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Cit., pp. 87-88

Saussure enuncia dunque il secondo principio della linguistica.

1. Suoni con cui, in francese ein tedesco, si riproduce il verso del cane; l'equivalente italiano è bau-bau.

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SEZIONE TEMI

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Secondo principio: carattere lineare del significante.

Il significante, essendo di natura uditiva, si svolge soltanto nel tempo e ha caratteri che trae dal tempo: a) rappresenta una estensione, e b) tale estensione è misurabile in una sola dimensione: è una linea. Questo principio è evidente, ma sembra che ci si sia sempre dimenticati di enunciarlo, senza dubbio perché lo si è trovato troppo semplice: tuttavia esso è fondamentale e le sue conseguenze sono incalcolabili. La sua importanza è pari a quella della prima legge. Tutto il meccanismo della lingua ne dipende. In opposizione ai significati visivi (segnali marittimi eccetera) che possono offrire complicazioni simultanee su più dimensioni, i significanti acustici non dispongono che della linea del tempo: i loro elementi si presentano l'uno dopo l'altro; formano una catena. Tale carattere appare immediatamente non appena li si rappresenti con la scrittura e si sostituisca la linea spaziale dei segni grafici alla successione nel tempo. ~

7.2

Cit., p. 88

Il sistema lingua Si è detto che Saussure, a proposito del rapporto fra significato e significante, L'arbitrarietà preferisce il termine 'arbitrario' invece che 'convenzionale' perché vuole sot- non è convenzionalità tolineare il carattere immotivato del rapporto tra significante e significato. Abbiamo visto come, nel Crati/o, anche Socrate ponga a Ermo gene tale problema. La posizione di Saussure è molto netta e chiara: 1) i significanti sono arbitrari perché la forma che hanno (cioè la sequenza fonetica) non deriva in nessun modo da ciò che significano; 2) la forma dei significanti non può essere modificata arbitrariamente perché dipende dalla lingua, sulla quale i singoli parlanti non hanno nessun potere, essendo frutto di un'imposizione (è questo il motivo per cui Saussure preferisce non usare il termine 'convenzionale', che suggerisce l'idea di un accordo o patto tra i parlanti che potrebbe essere anche revocabile). Se, in rapporto all'idea che rappresenta, il significante appare scelto liberamente, per contro, in rapporto alla comunità linguistica che l'impiega, non è libero, ma imposto. La massa sociale non viene affatto consultata, e il significante scelto dalla lingua non potrebbe essere sostituito da un altro. Non soltanto un individuo sarebbe incapace, se lo volesse, di modificare in qualche cosa la scelta che è stata fatta, ma la massa stessa non può esercitare la sua sovranità neppure su una sola parola: essa è legata alla lingua quale è. La lingua non può dunque essere assimilata a un contratto puro e semplice, ed è proprio da questo lato che il segno linguistico è particolarmente interessante da studiare; perché se si vuole dimostrare che la legge ammessa in una collettività è una cosa che si subisce e non una regola cui liberamente si consenta, proprio la lingua offre di ciò la prova più schiacciante.

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7" Il TRIANGOLO SEMANJICO: l CAPISALDI DELLA LINGUISTICA CONTEMPORANEA NEL CORSO DI LINGUISTICA GENERALE DI SAUSSURE

Vediamo dunque come il segno linguistico sfugge alla nostra volontà, e trattiamo poi le importanti conseguenze derivanti da questo fenomeno. In qualsiasi epoca, e per quanto possiamo risalire indietro, la lingua pare sempre come una eredità dell'epoca precedente. L'atto con cui a un dato momento i nomi sarebbero dati alle cose, con cui un contratto si sarebbe stretto tra i concetti e le immagini acustiche, questo atto si può concepire, ma non è mai stato constatato. Di fatto, nessuna società conosce e mai ha conosciuto la lingua altro che come un prodotto ereditato dalle generazioni precedenti e da accettare tale e quale. Perciò la questione dell'origine del linguaggio non ha l'importanza che generalmente le si attribuisce. Non è neppure una questione da porre: il solo oggetto reale della linguistica è la vita normale e regolare di un idioma già costituito. Uno stato di lingua determinato è sempre il prodotto di fattori storici, e sono questi fattori che spiegano perché il segno linguistico è immutabile, vale a dire resiste ad ogni sostituzione arbitraria. 1>-

Cit., pp. 89-90

Se i significanti non sono determinati da ciò a cui si riferiscono, allora Significato, da cosa lo saranno? È nel rispondere a questa domanda che Saussure ela- funzione e struttura bora una delle sue idee più importanti e più influenti non solo nella linguistica ma in molte altre discipline che si occupano dell'uomo e delle sue attività. Per Saussure, infatti, una lingua è un sistema che determina il valore dei suoi stessi singoli componenti. Un sistema è un insieme di elementi omogenei (nel caso delle lingue, i segni) ognuno dei quali si determina negativamente, cioè attraverso i rapporti e le differenze con tutti gli altri. In un sistema sono le relazioni tra gli elementi che determinano gli elementi stessi. Secondo tale idea, che ha dato origine a un vero e proprio punto di vista generale sulla realtà umana, il cosiddetto strutturalismo o funzionalismo, un certo elemento x è definito, in funzione di un altro elemento y: come in matematica x= f (y) La lingua è un sistema in cui tutti i termini sono solidali ed in cui il valore dell'uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri [... ]; anche fuori della lingua tutti i valori sembrano retti da questo principio. [... ] Essi sono sempre costituiti: 1. da una cosa dissimile suscettibile di essere scambiata con quella di cui si deve determinare il valore; 2. da cose simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore. Questi due fattori sono necessari per l'esistenza d'un valore. Così per . determinare che cosa vale un pezzo da cinque franchi, bisogna sapere: 1. che lo si può scambiare con una determinata quantità di una cosa diversa, per esempio con del pane; 2. che lo si può confrontare con un valore simile del medesimo sistema, per esempio un pezzo da un franco, o con una moneta di un altro sistema (un dollaro ed eccetera). Simil-

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mente, una parola può essere scambiata con qualche cosa di diverso: un'idea; inoltre, può venire confronta:ta con qualcosa di eguale misura: un'altra parola. Il suo valore non è dunque fissato fintanto che ci si limita a constatare che può essere "scambiata" con questo o quel concetto, vale a dire con questa o quella significazione; occorre ancora confrontarla con i valori simili, con le altre parole che le sono apponibili. Il suo contenuto non è veramente determinato che dal concorso di ciò che esiste al di fuori. Facendo parte di un sistema, una parola è rivestita non soltanto di una significazione, ma anche e soprattutto d'un valore. Qualche esempio mostrerà che è proprio così. Il francese mouton può avere la stessa significazione dell'inglese, ma non lo stesso valore, e ciò per più ragioni, in particolare perché parlando di un pezzo di carne cucinato e servito in tavola, l'inglese dice mutton e non sheep. La differenza di valore tra sheep e mutton dipende dal fatto che il primo ha accanto a sé un secondo termine, ciò che non è il caso della parola francese. All'interno di una stessa lingua, tutte le parole che esprimono delle idee vicine si limitano reciprocamente [... ];inversamente, vi sono termini che si arricchiscono per contatto con degli altri. ~

Cit., pp. 139-140

[Gli psicologi o i filosofi] considerano la lingua come una nomenclatura (o almeno in pratica è così) e sopprimono in tal modo la determinazione reciproca dei valori della lingua data dalla loro coesistenza stessa. (Un segno evoca l'idea [in quanto] dipende da un sistema di segni -ecco cosa si dimentica- tutti i segni sono solidali). Tutte le grandezze dipendono le une dalle altre. Si vuol determinare che cos'è in francese jugement? Non lo si può definire se non per quello che lo circonda, sia per dire ciò che è sia per dire quello che non è. Lo stesso, se si vuole tradurre in un'altra lingua. Da questo traspare la necessità di considerare il segno, la parola, nell'insieme del sistema. Ugualmente, i sinonimi craindre e redouter non esistono che l'uno accanto all'altro (che l'uno per l'altro); craindre si arricchirebbe di tutto il contenuto di redouter se redouter venisse a meno. Anzi, andiamo più oltre: chien designerà il lupo, nella misura in cui la parola loup non esisterà. La parola dunque dipende dal sistema; non ci sono segni isolati. ~F.

7.3

de Saussure, Corso di linguistica 1908-1909, in: «Cahiers F. de Saussure» 1957, 15, p. 20

Pensiero, realtà e linguaggio Quella di Saussure è una teoria linguistica, ma le sue implicazioni filoso- La lingua non è fiche sono notevoli: presupposto e implicazione di tutto ciò che abbiamo una lista di nomi sopra considerato della dottrina saussuriana è una particolare concezione dei rapporti fra il linguaggio e il pensiero, da un lato, e fra il linguaggio e la realtà dall'altro. Una con-

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7- Il TRIANGOLO SEMANTICO: l CAPISALDI DELLA LINGUISTICA CONTEMPORANEA NEL CORSO DI LINGUiSTICA GENERALE DI SAUSSURE

cezione ben diversa da quelle presenti nel Cratilo. Si ricorderà, infatti, che tanto Cratilo quanto Ermogene avevano una concezione secondo la quale le parole sono segni per le cose: le divergenze fra loro riguardavano solo il fatto che avessero un'origine naturale o convenzionale. Una tale concezione riduce la lingua a una nomenclatura, cioè a una lista di etichette che si riferiscono alle cose. Si tratta, per Saussure, di una concezione profondamente sbagliata. Per certe persone la lingua, ricondotta al suo principio essenziale, è una nomenclatura, vale a dire una lista di termini corrispondenti ad altrettante cose. Per esempio: ARBOR

Questa concezione è criticabile per molti aspetti. Essa suppone delle idee già fatte preesistenti alle parole; non ci dice se il nome è di natura vocale o psichica, perché arbor può essere considerato sotto l'uno o l'altro aspetto; infine lascia supporre che il legame che unisce un nome a una cosa sia un'operazione del tutto semplice, ciò che è assai lontano dall'essere vero. ~

F. de Saussure, Corso di linguistica generale, cit., p. 83

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L'essenziale della critica di Saussure deriva dal fatto che non possono L'interazione fra esserci dei pensieri dati prima e indipendentemente dal linguaggio: se n- pensiero e linguaggio za il linguaggio, semplicemente, non potremmo neppure pensare. La lingua non è semplicemente un'attribuzione di etichette a pensieri o a oggetti, ma contribuisce in modo fondamentale alla formazione dei pensieri e alla percezione degli oggetti. Poiché il pensiero e la lingua si precisano reciprocamente, e dato che nel pensiero si articola la nostra concezione della realtà, viene naturale chiedersi se i parlanti lingue diverse abbiano concezioni diverse della realtà. Non è un'ipotesi esplicita in Saussure ma alcuni studiosi l'hanno, con più o meno forza, sostenuta. Quella più radicale è la cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf. Fondandosi su alcune affermazioni di E. Sapir (1884-1936), B. Lee Whorf (1897-1941) ha cercato di mostrare che le categorie fondamentali del pensiero (come quelle di tempo, di spazio, di soggetto, di oggetto) non sono le stesse in tutte le lingue. Le differenti lingue non analizzano la realtà nello stesso modo, esse non sono un calco di una realtà invariabile. In breve, per riprendere l'idea di Saussure, le lingue non sono nomenclature. È un fatto comune che in una data lingua si trovino parole traducibili in un'altra lingua soltanto con locuzioni più complesse. Gli esempi so-

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no innumerevoli: alla parola italiana 'neve' non corrisponde nulla per un eschimese, il quale ha una parola diversa per indicare tipi diversi di neve (neve secca, neve fradicia, neve appena caduta, neve ghiacciata ecc.). In arabo ci sono parecchi termini per effettuare sottili distinzioni di ciò che noi, semplicemente, chiamiamo cammello. In una delle lingue del Congo non vi sono che tre parole per indicare i colori fondamentali: vulu, che indica il bianco; vuku che indica il violetto, l'indaco, il blu, il nero, il grigio e il marrone scuro; bengmbwa che indica il giallo, il marrone chiaro, l'arancione, il rosso, il fulvo, il biondo. Per lunghissimo tempo il pensiero filosofico è stato dominato dall'idea che vi fosse una corrispondenza fra il piano della realtà, quello del linguaggio e quello della logica. Aristotele è stato il primo a manifestare consapevolmente tale punto di vista: il linguaggio riflette il pensiero e il pensiero riflette la realtà. Qualche studioso ha fatto notare che le categorie che Aristotele usa nella sua logica, altro non sono che un calco delle categorie grammaticali della lingua greca, e che se Aristotele non fosse stato greco ma avesse parlato una lingua diversa, avremmo avuto una logica diversa. Si tratta di osservazioni giustificate; ma non bisogna esagerarne la portata. Infatti nella linguistica contemporanea, precisamente dalla scuola fondata dall'americano Noam Chomsky (1928-vivente), sono stati praticati con successo dei programmi di ricerca tesi a rintracciare delle categorie grammaticali universali, cioè comuni a tutte le lingue .

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Platone, Teeteto, Firenze, Sansoni 1974, pp. 190-191

Per i sofisti la validità di un argomento non coincide con il suo valore di verità ma con la possibilità o meno di convincere qualcuno ad agire in un determinato modo. I contenuti delle nostre argomentazioni sono, perciò, del tutto strumentali rispetto al fine che ci si propone, che è quello di convincere gli altri. Del resto, la democrazia, per i sofisti, consiste in un confronto tra opinioni, fra le quali prevarrà non quella vera - nessuna è, come tale, vera o falsa - ma quella che riesce a raggiungere il consenso della maggioranza.

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la domanda di Socrate: si può insegnare la virtù? È anzitutto questa idea della conoscenza a risultare insostenibile, prima per Socrate e poi per Platone. In numerosi dialoghi platonici, Socrate ingaggia dei "duelli" dialettici, ora con questo ora con quel sofista, intorno a un tema ricorrente. Come facciamo a parlare di santità, di virtù, di coraggio o di altro ancora, se non siamo in grado di definire che cosa sono la santità, la virtù ecc.? I sofisti sono incapaci di definire la virtù ma pretendono d'insegnarla. I sofisti difendono una visione "ottimistica" dell'educazione e della democrazia, cercano di convincere gli ateniesi che le virtù sono a portata di mano, che in democrazia tutti - beninteso escluse le donne e gli schiavi - hanno il diritto di esprimersi, ma è molto meglio farlo avendo imparato le arti della retorica. Socrate, al contrario, solleva più di un dubbio sia a proposito della sapienza tradizionale, sia di quella nuova, rappresentata dai sofisti, lasciando intendere che conoscere ed educare sono compiti molto più difficili di quanto si crederebbe. Nel dialogo Protagora, il noto sofista sostiene, nella prima parte della discussione, l'insegnabilità della virtù, lasciando sullo sfondo il significato del termine, che viene dato per scontato. Socrate lo attacca proprio su questo punto.

SocRATE: Orbene, Protagora, per essere pienamente soddisfatto ho bisogno di ben poco: che tu mi risponda a questa domanda: tu affermi che la virtù si può insegnare, e se c'è persona a cui sono disposto a credere sei tu senza dubbio. Però una cosa nel tuo discorso mi ha sorpreso; e a questo proposito devi riempirmi un vuoto che m'è rimasto nell'anima. Tu hai detto che Zeus mandò agli uomini

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za dei bambini? Giobbe è appunto il simbolo della sofferenza innocente, e invano i suoi amici si ostineranno a cercare nella sua vita una colpa che possa giustificare la pena così dura che gli è stata inflitta. È opportuno soffermarsi su questo punto, per chiarirne le principali implicazioni. È un fatto, ci rammenta il Libro di Giobbe, che al mondo tanti malvagi prosperano e tanti innocenti soffrono. A questo fatto si può reagire in maniere diverse: 1) si può chiudere gli occhi dinanzi ad esso, fingere d'ignorarlo, attenendosi dogmaticamente al principio della giustizia retributiva: è quello che fanno gli amici di Giobbe. Il loro è un atteggiamento insincero - che infatti alla fine del libro sarà condannato da Dio - perché rivela che non sono disposti a vivere fino in fondo la loro fede, non osano metterla alla prova e farle sopportare, per dir così, il contrasto dell'esperienza. 2) Al contrario si può assumere quel fatto in tutta la sua crudezza, come prova che Dio non esiste, e che quindi la distribuzione nel mondo della felicità e della sofferenza non è operata da una giustizia divina, ma è casuale, insensata, oppure corrisponde a logiche che si costituiscono all'interno della natura e della società umana. È questo un punto di vista ateo (non prospettato, s'intende, nel Libro di Giobbe). 3) Ancora, si può concepire una divinità indifferente alle vicende umane. Una divinità che si rin- Divinità indifferenti chiude nella propria perfezione e non "si sporca le mani" rapportando- alle sorti umane si al mondo degli uomini. Anche questa, naturalmente, è una posizione inammissibile per il monoteismo ebraico (ma anche cristiano e islamico), fondato sulla rappresentazione di un Dio che ha creato il mondo e se ne prende cura amorevolmente. Nel mon-

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Un Giobbe moderno

Lo scrittore austriaco )oseph Roth (1894-1939) ha rielaborato la storia di Giobbe in un romanzo, pubblicato nel 1930, in cui il protagonista, Mendel Singer, è un moderno Giobbe. Andò in cucina, raccolse alla rinfusa carta di giornale e trucioli e accese un fuoco sulla lastra del focolare. Quando il fuoco raggiunse una considerevole altezza e ampiezza, Mendel andò con passo deciso all'armadio e tirò fuori il sacchetto di velluto rosso in cui si trovavano i suoi [... ]libri di preghiera. [... ] S'immaginava come questi oggetti sarebbero bruciati. [... ]Gli angoli delle copertine si arricciano, si drizzano, come strani orecchi coi quali i libri ascoltano quello che Mendel grida loro nella morte ardente. Una spaventosa canzone grida loro.

Cit., pp. 134-135

La seconda e la terza risposta spiegano il male morale come conse- La teodicea: una guenza del male metafisica, cioè della -~ ---L~.;.""'-~t:,>-;;-_,_-,_;o~~~---"-~---f:>'~, Kant presenta una serie di riforme politiche che, se realizzate, potranno avvicinare l'umanità alla pace. Il testo è costruito proprio nella forma di un trattato di pace, con "articoli preliminari", "articoli segreti" e "articoli definitivi". Noi ci occuperemo di questi ultimi, dove sono contenute le ipotesi di riforma.

Primo articolo definitivo per la pace perpetua: da costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana». La costituzione fondata: 1) sul principio della libertà dei membri di una società (come uomini); 2) sul principio della dipendenza di tutti da un'unica comune legislazione (come sudditi); 3) sulla legge dell'uguaglianza di tutti (come cittadini) -e, cioè l'unica costituzione che derivi dall'idea del contratto originario, sul quale la legislazione di ogni popolo deve fondarsi- è la costituzione repubblicana.[ ... ] Ora, la costituzione repubblicana, oltre alla purezza della sua origine, all'essere cioè scaturita dalla pura fonte dell'idea del diritto, presenta anche la prospettiva del fine desiderato, cioè della pace perpetua, e per il seguente motivo: se (come in questa costituzione non può non accadere) è richiesto l'assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, nulla di più naturale pensare che, dovendo far ricadere sopra di sé tutte le calamità della guerra [...] essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco. In una costituzione invece, in cui il suddito non è cittadino e che pertanto non è repubblicana, la guerra diventa la cosa più facile del mondo, perché il sovrano non è membro dello stato, ma ne è il proprietario, e nulla ha da rimettere a causa della guerra, dei suoi banchetti, delle sue cacce, delle sue case di diporto, delle sue feste di Corte, ecc [... ] Secondo articolo definitivo per la pace perpetua: ((il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi stati». I popoli, in quanto Stati, potrebbero essere considerati come singoli individui che, vivendo nello stato di natura (cioè nell'indipendenza da leggi esterne), si recano ingiustizia già solo per il fatto della loro vicinanza; perciò ognuno di essi per la propria sicurezza può e deve esigere dall'altro di entrare con lui in una costituzione analoga a quella civile, nella quale si può garantire ad ognuno il suo diritto. Questa sarebbe una federazione di popoli, ma non dovrebbe essere uno Stato di popoli. In quest'ultima idea vi sarebbe una contraddizione, perché ogni Stato implica il rapporto di un superiore {legislatore) con un inferiore (colui che obbedisce, cioè il popolo), mentre molti popoli in un solo Stato costituirebbero un solo popolo, ciò che è contrario al presupposto. [... ]

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Terzo articolo definitivo per la pace perpetua: ((il diritto cosmopolitico dev'essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità)). Qui, come negli articoli precedenti, non si tratta di filantropia, ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio a non essere trattato ostilmente. Deve essere allontanato se ciò può farsi senza danno, ma, fino a che dal canto suo si comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente contro di lui. (Si tratta) di un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune del possesso della superficie della terra [... ] Nessuno in origine ha maggior diritto di un altro ad una porzione determinata della terra. ~I.

Kant, Per la pace perpetua, in Antologia degli scritti politici, Bologna, Il Mulino 1961, pp. 110, 115, 120

In questi tre articoli, Kant ci propone degli "antidoti alla guerra", ov- come si giunge vero una specie di cura preventiva a cui le società si dovrebbero sotto- alla pace perpetua porre, per evitare di contrarre la "malattia-guerra". In un regime repubblicano, dove tutti sono liberi e la responsabilità è comune, la tentazione di fare la guerra dovrebbe essere minore. Se aggiungiamo, poi, la federazione internazionale degli Stati liberi, nella quale verranno fissate regole condivise da ogni membro e, infine, il "diritto di visita" il moderno "diritto d'asilo" - si delinea un quadro di relazione civili, tendenzialmente pacifiche. Molto attuale è la tematica del "diritto di visita", in un mondo nel quale si verificano grandi flussi migratori: milioni di persone fuggono dalla povertà, dalle guerre, dalle persecuzioni etnico-religiose, cercando nei paesi industrializzati lavoro, sicurezza, libertà. Non è strano che questo tema compaia in uno scritto con il titolo Per la pace perpetua: Kant, sempre nella stessa opera, ricorda le innumerevoli occasioni in cui le nazioni europee hanno invaso terre delle Americhe, dell'Africa o dell'Asia e condotto brutali guerre di conquista, senza ovviamente chiedere il permesso ai popoli che abitavano in quei luoghi. Se tutti gli uomini sono uguali - questa è la premessa kantiana - nessuno ha il diritto di conquistare un territorio con le armi e nessuno ha il diritto di negare l'ospitalità nel proprio territorio ad altri esseri umani. Queste sono le basi minime di quello che Kant definisce diritto cosmopolitico - quest'ultima, parola di origine greca che significa "essere cittadini del mondo".

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La guerra "etica" Per Hegel (1770-1831), la guerra è uno dei compiti necessari che uno Stato sovrano è chiamato a svolgere. Si legge infatti nei Lineamenti difilosofia del diritto (1821 ):

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Ma poiché il rapporto tra essi [tra gli stati] ha per principio la loro sovranità, essi sono pertanto nello stato di natura gli uni di fronte agli altri, e i loro diritti hanno la loro realtà, non in una volontà universale costituita a potere, al disopra di essi, bensì in una loro volontà parti-

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colare. [... ] Quindi, il conflitto tra gli Stati, in quanto le volontà particolari non trovano un accomodamento, può essere deciso soltanto dalla guerra. ~

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza 1973, pp. 324-325

Hegel riprende qui una tesi già sostenuta dal filosofo inglese Thomas Hobbes (15881679): la guerra tra Stati è del tutto normale poiché le loro relazioni non sono regolate dalla legge ma dalla forza e dall'interesse. È come se gli Stati avessero fra loro gli stessi rapporti che hanno gli uomini nello "stato di natura". Non esistendo uno Stato unico mondiale, per così dire - non c[ sono leggi, autorità, tribunali a cui appellarsi e dunque la guerra resta una forma inevitabile di soluzione delle controversie internazionali. Regel, però, introduce una novità nella concezione della guerra, sostenendo che essa contribuisce, a suo modo, al progresso della storia. Così, le guerre di conquista di Alessandro Magno, per esempio, hanno permesso che la grande civiltà della Grecia classica si diffondesse in tutto il Mediterraneo e nel vicino Oriente, come le armate del giovane Bonaparte hanno contribuito, indirettamente, a far conoscere, in tutta Europa, le idee della Rivoluzione francese. Limitarsi ad affermare che le guerre sono una realtà sanguinosa e crudele significa, nell'ottica di Hegel, restare alla superficie, come chi osserva, in un dipinto, soltanto un particolare, perdendo di vista l'insieme. Ciò che davvero conta, in una considerazione filosofica della storia, è la sua direzione. Così Hegel si esprime, ancora nei Lineamenti di filosofia del diritto: Nelle cose addotte, si trova il momento etico della guerra, la quale non deve considerarsi come male assoluto e come accidentalità semplicemente esteriore, che abbia la sua ragion d'essere, per ciò stesso acci- / dentale, in quel che si voglia, nelle passioni dei detentori del potere o' dei popoli, nelle iniquità ecc. ~

Cit., p. 318

Nel 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, il valore etico della guerra come supremo "cimento" dei popoli e degli stati sarà esaltato da Giovanni Gentile (1875-1944) con queste parole: La guerra [... ] non è il conflitto di sei o sette Stati: questo è solo un carattere necessario, ma uno solo dei caratteri di essa; e non è neanche l'urto di due tendenze o forze della politica mondiale [... ], ma è qualche cosa di più: è un dramma che dovrei dire divino [... ], è il cimento, per dirla con parole più ordinarie, di tutte le forze che si sono organizzate e potenziate sulla faccia della terra[ ... ]. La guerra che si combatte e si risolve nei campi di battaglia, è oggi il vero atto assoluto di ognuno di noi: è la sola cosa che si possa fare, perché la sola che realmente si faccia nel mondo. ~

G. Gentile, La filosofia della guerra, Palermo, 1914, pp. 17-19

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Guerra e lotta di classe Un filosofo che ha visto la guerra come una necessità storica è stato senza dubbio Karl Marx (1818-1883), che insieme a Friedrich Engels (1820-1895) ha elaborato una concezione della società e della storia, nota come materialismo storico, nella quale trova una spiegazione anche il fenomeno della guerra. Una delle tesi fondamentali del materialismo storico è che in ogni società esiste una classe dominante, quella che detiene la proprietà dei mezzi di produzione, e una classe dominata, che non ha proprietà, e lavora al servizio della classe dominante. Tra i dominati e i dominanti si combatte da secoli quella che Marx ed Engels hanno definito lotta di classe, ovvero il conflitto tra la classe dirigente, che non ha alcuna intenzione di lasciare il suo posto, e la classe subalterna, che intende cambiare questo stato di cose. Il passaggio da un tipo di società ad un altro, da un'economia ad un'altra, avviene anche attraverso scontri, lotte, vere e proprie guerre. La storia delle società, dal mondo antico sino ad oggi, è storia di lotte fra classi, e dunque il conflitto è parte organica di ogni società. Non solo: per Marx ed Engels le innumerevoli guerre di Stati contro altri Stati, o semplicemente contro popolazioni, sono la dimostrazione che la guerra è un carattere necessario di ogni società divisa in classi e fondata sulla proprietà. Quello che, però, sembrerebbe il destino di ogni società, ossia quello di avere la guerra tra i propri connotati genetici, può essere rovesciato. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme a questi rapporti di produzione, anche le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe. [... ] Con lo sparire dell'antagonismo fra le classi all'interno delle nazioni scompare l'ostilità fra lenazioni stesse. ~

K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Roma, Editori Riuniti 1971, pp. 85-89-90

La tesi sembra chiara: se il proletariato, ossia gli operai delle moderna industria, con la rivoluzione aboliscono lo sfruttamento di classe, aboliscono, per ciò stesso, le ragioni dell'ostilità fra le classi. Scomparso questo fattore di conflitto, finiranno anche le guerre fra nazioni. Dunque, le guerre spariranno solo quando saranno scomparse le condizioni economiche e politiche che le rendono possibili, anzi necessarie. Prima di allora, continueranno ad esistere e nessuna condanna morale o religiosa potrà farle cessare. Marx ritiene inoltre che la violenza ha avuto talvolta una funzione positiva, nel senso di favorire il progresso economico e politico. La Rivoluzione francese del1789, per esempio, ha messo fine al vecchio mondo feudale-nobiliare e questo esito, del tutto positivo per Marx, giustifica ampiamente il sangue sparso dal 1789 in poi. Si percepisce qui l'influenza che la filosofia della storia di Hegel ha esercitato sul pensiero di Marx.

7

la guerra nel mondo d'oggi Il secolo appena trascorso è stato il teatro delle guerre più sanguinose della storia dell'umanità. Riferendoci soltanto alle due guerre mondiali, che non sono state le uniche guerre del secolo, siamo di fronte allo spaventoso bilancio di oltre 60 milioni di morti, senza contare gli incalcolabili danni materiali - città, fabbriche, vie di comunicazione distrutte parzialmente o totalmente. Già dopo la prima guerra mondiale molti paesi avevano sentito l'esigenza morale e politica di individuare i mezzi più adeguati per evitare per il futuro un simile bagno di sangue. Di qui, all'indomani della fine della guerra, nel 1919, l'istituzione della Società delle Nazioni, voluta soprattutto dall'allora Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Tale organismo internazionale avrebbe dovuto svolgere una funzione di arbitrato tra quelle nazioni che si fossero trovate in conflitto fra loro. Lo scopo era di evitare in tutti i modi le guerre, anche se, nello Statuto, era previsto oltre all'uso di "sanzioni", anche il ricorso alla forza armata, per chi non avesse riconosciuto le risoluzioni della Società. Il progetto di Wilson, però, si rivelò un fallimento: anzitutto, proprio gli USA non aderirono, poiché il Senato bocciò clamorosamente la proposta del Presidente, facendo un scelta politica che venne definita isolazionista (lasciavano l'Europa e il resto del mondo al proprio destino, optando per una politica di non ingerenza). Dalla Società vennero tenute fuori, di proposito, la Germania - che aveva perso la guerra - e la Russia - nella quale era scoppiata la rivoluzione guidata dal partito comunista bolscevico - mentre il Giappone non vi aderì. La Società delle Nazioni sarà impotente di fronte al riarmo della Germania di Hitler, negli anni '30, e nulla potrà fare per evitare lo scoppio della seconda guerra mondiale, il 3 settembre 1939. Dopo la seconda guerra mondiale, un tragedia superiore alla prima - si pensi solo allo sterminio degli Ebrei d'Europa o agli effetti delle prime bombe atomiche sganciate sul Giappone - le nazioni vincitrici decideranno di riproporre, su basi nuove, la fondazione di un organismo internazionale, il cui scopo principale fosse quello di evitare nuove guerre.

7.1

Il ripudio della guerra nella Carta deii'ONU Il 26 giugno 1945 nasce a S. Francisco (USA) l'ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) sulla base di uno Statuto, o Carta, il cui preambolo è un vero e proprio inno alla pace, al rispetto e alla tolleranza fra tutti i popoli della Terra. Nel secondo dopoguerra, nonostante molte contraddizioni, in tutti i paesi democratici si è diffusa una cultura favorevole alla pace, una mentalità che vede la guerra solo come extrema ratio e questo è anche un merito da attribuire all'ONU. Tornando alla sua Carta, si tratta di un testo molto lungo e preciso, che ha subito dei cambiamenti nel corso degli anni, sui quali non ci soffermeremo. Ci limiteremo a citare solo qualche articolo, fra i più significativi, in tema di guerra/pace. Prendiamo il primo comma dell'art. 1, articolo nel quale sono elencati i principali fini dell'organizzazione:

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Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine, prendere efficaci misure collettive per prevenire o rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace. A giudicare da questo articolo, le azioni di guerra da parte dell'ONU, sia pure allo scopo di ristabilire la pace, sembrano del tutto escluse, poiché si fa esplicito riferimento soltanto a , l'Unità ha recentemente pubblicato 7 un'intervista di Umberto De Giovannangeli ad Antonio Cassese, ex presidente del Tribunale penale dell'Aia per la ex Jugoslavia ed attuale giudice di tale corte. L'intervista, che ha avuto come tema l'intervento della Nato nel Kosovo, è stata largamente ripresa dalla stampa italiana e straniera. Antonio Cassese riconosce che in Kosovo